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LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

DIRITTO COMMERCIALE 1
COMPENDIO
A CURA DI GIANMARCO RUBINO

Testo di riferimento:
Diritto Commerciale 1; Diritto dell’impresa - 8° edizione (G.F. Campobasso);
Diritto Commerciale 2; Diritto delle società – 10° edizione (G.F. Campobasso);
Diritto commerciale 3; Contratti, Titoli di credito, Procedure concorsuali – 6° edizione (G.F. Campobasso);
Integrato con le lezioni del prof.re Gustavo Olivieri

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Gianmarco Rubino
Studente di Giurisprudenza Uso personale
LUISS
LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

INDICE

Libro I
Introduzione – pag. 3
Capitolo I – L’imprenditore – pag. 6
Capitolo II – Le categorie di imprenditori – pag. 11
Capitolo III – L’acquisto della qualità di imprenditore – pag. 22
Capitolo IV – lo Statuto dell’Imprenditore commerciale – pag. 30
Capitolo V – L’azienda – pag. 39
Capitolo VI – I segni distintivi – pag. 45
Capitolo VII - Le opere dell’ingegno. Le invenzioni industriali – pag. 53
Capitolo VIII – La disciplina della concorrenza – pag. 59
Capitolo IX – I concorsi tra imprenditori – pag. 72
Capitolo X – Il gruppo europeo di interesse economico – pag. 78
Capitolo XI – Le associazioni temporanee di imprese – pag. 81
Capitolo XII – Le reti di imprese – pag. 83

Libro II
Capitolo I – Le società – pag. 87
Capitolo II – La società semplice e la società in nome collettivo – pag. 101
Capitolo III – Società in accomandita semplice – pag. 118
Capitolo XVIII – Società a responsabilità limitata – pag. 122

Libro III
Capitolo II – Il contratto estimatorio – pag. 135
Capitolo III – La somministrazione – pag. 136
Capitolo IV – I contratti di distribuzione – pag. 137
Capitolo XII – Il conto corrente ordinario – pag. 138
Capitolo XIII – I contratti bancari – pag. 139
Capitolo XIV – Intermediazione finanziaria e servizi di pagamento – pag. 146
Capitolo XVIII – L’associazione in partecipazione
Capitolo XIX – I titoli di credito in generale – pag. 157
Capitolo XX – La cambiale – pag. 165
Capitolo XXI – L’assegno bancario – pag. 176
Capitolo XXII – L’assegno cricolare. Gli assegni speciali – pag. 180
Capitolo XXIII – La crisi dell’impresa. La composizone negoziata della crisi – pag. 182
Capitolo XXIV – la liquidazione giudiziale – pag. 188
Capitolo XXV – il concordato preventivo. Gli accordi di ristrutturazione dei debiti. La convenzione di
moratoria – pag. 214
Capitolo XXVI – La liquidazione coatta amministrativa – pag. 227
Capitolo XXVII – L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi – pag. 230
Capitolo XXVIII – Le procedure concorsuali delle crisi da sovraindebitamento – pag. 137

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INTRODUZIONE

1. Il diritto commerciale

Nel nostro sistema di diritto privato è possibile individuare ed isolare un articolato ed organico complesso di
norme riferito agli imprenditori. Nella nostra Costituzione è riconosciuta la proprietà privata ed il diritto di
libertà di iniziativa economica (artt. 41 e 42 cost). Queste opzioni inseriscono il nostro paese tra quelli che
scelgono un modello economico basato sulla economia di mercato che presuppone a) la libertà di dedicarsi
alla produzione ed alla distribuzione ispirate dalla logica del tornaconto personale b) la libertà di coesistenza
di una pluralità di operatori economici (privati e pubblici).

L’obiettivo di creare una ambiente giuridico propizio allo sviluppo delle imprese ed ad assicurare un ordinato
funzionamento delle stesse è perseguito per un verso attraverso una normativa che riguarda i singoli rapporti
economici e per altro attraverso l’attività di impresa unitariamente considerata.

Sotto il primo profilo, è predisposta una disciplina dei singoli atti di autonomia privata a contenuto
patrimoniale fondata su scelte normative che conferiscono celerità e sicurezza alla circolazione dei beni e
garantiscono una adeguata tutela del credito. Gli imprenditori sono infatti assoggettati a un particolare statuto
professionale. Il diritto commerciale moderno è quella parte del diritto privato che ha per oggetto e regola
l’attività e gli atti di impresa. È il diritto privato delle imprese.

Non lo è perché imprese giuridicamente commerciali non sono solo quelle dedite al commercio. Tali sono
tutte le imprese ad eccezione di quelle agricole, come si deduce dall’art. 2195 c.c.

La prospettiva storica consente di cogliere con chiarezza i caratteri fondamentali del diritto commerciale
a) È un diritto speciale
b) È un diritto t’intende all’uniformità internazionale per la sostanziale identità delle esigenze
giuridiche della vita economica di tutti i paesi ad economia di mercato.

2. L’evoluzione storica del diritto commerciale. Il diritto statuario dei mercanti

La formazione di un sistema organico di diritto commerciale si fa risalire al Basso Medioevo. In questo


contesto politico e sociale nasce il diritto commerciale, dall’esigenza del ceto mercantile di una giustizia
amministrativa secondo procedure agili e di una giustizia resa secondo gli usi mercantili e non in base al
diritto comune. La soluzione delle controversie tra mercanti era affidata ai consoli, organi formali in seno
alle rispettive corporazioni. Tali regole furono trasfuse negli statuti delle corporazioni è progressivamente
estesa a tutti coloro che esercitano la mercatura. Si forma il ius mercatorum. Si afferma il principio della
libertà delle forme contrattuali, caratterizzata da una più energica tutela del creditore. Nascono nel frattempo
nuovo contratti, come quello di assicurazione o di cambio, e nuovi istituti volti a razionalizzare e potenziare
l’esercizio dell’attività mercantile (scritture contabili, disciplina degli ausiliari, disciplina della concorrenza).
Nascono nuove forme associative (la società in nome collettivo e la società in accomandita semplice) e nasce
il fallimento. Si tratta di un diritto altresì definibile come diritto di classe in quanto espressione dello stesso
ceto mercantile. Ma ciò rispondeva allora all’interesse generale della società civile, anche se questo non è il
suo solo interesse. Rispondeva anche alle esigenze universalmente avvertite dal ceto mercantile. Il diritto
commerciale delle origini inoltre è tendenzialmente diritto internazionale uniforme.

3. Il diritto degli atti di commercio e dei commercianti

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La successiva evoluzione del diritto commerciale is caratterizza per una duplice costante di fondo: la
progressiva perdita del carattere originario di diritto di classe e la progressiva espansione del suo ambito di
applicazione. Con la formazione degli Stati monarchici a base nazionale (XVI secolo) il diritto commerciale
diventa diritto statale e nazionale; la giurisdizione mercantile passa al tribunale dello Stato pur restando
distinta da quella civile. E, proprio come strumento di espansione economica e territoriale, compaiono in
questo periodo i prototipi della moderna società per azioni: le grandi compagnie coloniali olandesi ed
inflessi, costituite per concessione regia. Il diritto commerciale conserva il carattere di diritto formalmente
distinto dal diritto civile anche nelle grandi codificazioni dell’800: nasce lo Stato Liberale. In periodo
napoleonico vengono emanati due distinti codici di diritto privato: il codice civile del 1865 ed il codice di
commercio del 1865. Il diritto privato si presenta frazionato in due distinti sistemi normativi formalmente e
sostanzialmente autonomi: il sistema del codice civile che regola i rapporti civili ed il sistema del codice di
commercio che regola gli atti di commercio.

Il codice di commercio abbandona l’originaria impostazione soggettiva e delinea un disruttore speciale


formalmente riferito non più ad una determinata categoria di soggetti bensì ad una determinata categoria di
atti: gli atti di commercio. Al di là del mutamento di facciata, dovuto a ragioni ideologiche (è la natura delle
operazioni e non la posizione sociale a determinare la distinzione), il codice di commercio realizza un
decisivo ampliamento della sfera di applicazione dei principi di diritto commerciale. Ampliamento che è
espressione della profonda trasformazione intervenuta nel sistema economico. La rivoluzione industriale
relega la produzione artigianale ad un ruolo secondario ed il posto di primi attori dello sviluppo economico è
preso dagli industriali. La categoria giuridica dei commercianti è costituita ora da tutti coloro che esercitano
atti di commercio per professione abituale e le società commerciali (art. 8 cod. comm): sono commercianti
gli industriali, i banchieri, le imprese di fabbriche e di manifatture, di spettacoli, di trasporto, librarie, di
commissioni, di agenzie e di uffici di affari.

La materia è regolata sia dal codice civile sia dal codice di commercio. Esiste una disciplina delle
obbligazioni civili ed una disciplina delle obbligazioni commerciali. Il sistema del codice civile riprende i
principi del diritto comune. Infatti, al diritto commerciale sono sottoposti tutti gli atti indicati dall’art. 3 del
codice di commercio (gli atti oggettivi di commercio), ed ancora sono sottoposti gli atti soggettivi di
commercio, cioè tutti gli atti compiuti da un commerciante nell’esercizio della propria attività. Alla legge
commerciale infine sono sottoposti gli atti di commercio unilaterali, ossia qualsiasi atto che sia commerciale
anche per una sola delle parti.

4. Il diritto privato delle imprese

Il sistema dualistico è finito con la riforma legislativa del 1942. Si arriva all’ultima tappa del diritto
commerciale:
a) Scompare la categoria degli atti di commercio e la disciplina delle attività commerciali è
riorganizzata intorno alla figura dell’imprenditore commerciale
b) È superata la contrapposizione tra industria e commercio ed agricoltura ed artigianato. Si sostituisce
sì la nozione di commerciante con quella di imprenditore commerciale ma al tempo stesso si
persegue e realizza altro e più ampio disegno. Quello di assoggettare ad un minimo di disciplina
uniforme ogni attività di impresa. L’imprenditore commerciale è perciò degradato a species della
figura generale, pur restando contraddistinto da un proprio specifico statuto professionale.
c) La terza novità è caratterizzata dalla unificazione del diritto delle obbligazioni e dei contratti.
Scompare la contrapposizione di principio tra atti civili ed atti commerciali.

La fine del codice di commercio e l’unificazione formale delle fonti di diritto privato non segna la fine del
diritto commerciale come autonoma categoria di diritto rimasto. Nell’ambito del diritto privato resta infatti
identificabile un complesso organico di norme applicabili solo ad una determinata categoria di soggetti (gli
imprenditori).

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5. Il diritto commerciale attuale. Prospettive

La Costituzione repubblicana ha delineato nuovi valori da tutelare. Mutamenti significativi e profondi sono
altresì intervenuti nella struttura del sistema economico. L’attività economica pubblica si è dapprima
ulteriormente sviluppata ed applicata in forme molteplici a partire dagli inizi degli anni 90 si è avuta una
inversione di tendenza con la privatizzazione di molte imprese pubbliche. Il cambiamento istituzionale ha
ovviamente toccato anche il diritto commerciale con la soppressione dell’ordinamento corporativo fascista. È
sufficiente per il momento ricordare le novità legislative che hanno più direttamente interessato il fenomeno
della grande impresa, pressoché ignorato dal codice civile del 1942.

1) L’istituto della spa era presentato come unitario nel vecchio sistema. A partire dal 1974 invece è
stata introdotta una sempre più consistente normativa speciale per le società per azioni quotate in
borsa.
2) Le prospettive di finanziamento della grande impresa mediante appello al pubblico risparmio sono
state potenziate con l’introduzione degli organismi di investimento collettivo del risparmio
3) Nell’ambito della crisi di impresa si è ceduto il passo ad una prospettiva più moderna volta a
privilegiare il risanamento ed il mantenimento in vita del complesso imprenditoriale o di suoi rami.
Tali finalità si sono affermate con riferimento alla crisi delle grandi imprese insolventi, le quali sono
state sottratte al fallimento ed assoggettate ad una apposita procedura di amministrazione
straordinaria. A partire dai primi anni del nuovo secolo. Le riforme hanno iniziato ad interessare con
ritmo crescente anche la vecchia legge fallimentare. Infine, la stessa legge fallimentare è stata
sostituita da un più moderno codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: con essa è perfino
scomparso il nome della procedura di fallimento che è stato sostituito con il nome di liquidazione
giudiziale.
4) È stata introdotta nel 1990 una normativa a tutela della struttura concorrenziale del mercato (L.
287/1990).
5) Il diritto degli atti di impresa si è arricchito di due istituto, ed invero l’unificazione della disciplina
codicistica delle obbligazioni e dei contratti non ha né impedito né ostacolato alla formazione di n
nuove regole in materia scaturite dalla prassi commerciale. Basti pensare ai contratti di leasing, di
factoring e di franchising.
6) L’ampliamento dei mercato ha accentuato la vocazione della uniformità sovranazionale del diritto
commerciale, con la Comunità Europea (oggi Unione Europea). I trattati comunitari introducono una
disciplina antimonopolistica tesa a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato comune.
L’esito più avanzato di questo processo è costituto dalla introduzione di due tipi societari disciplinati
direttamente da regolamenti dell’UE: la società europea (reg CE 2157/2001) e la società cooperativa
europea (reg CE 1435/2003). L’Unione europea formula direttive di armonizzazione delle
legislazioni nazionali, cui i singoli stati sono tenuti ad adeguarsi con propria legge interna. Il diritto
commerciale rinverdisce così nella nuove veste di diritto privato delle imprese, gli originari caratteri
di diritto privato speciale a vocazione sovranazionale.

6. Diritto commerciale e diritto delle imprese

L’impresa è realtà sociale e poliedrica. Le imprese sono perciò al centro di una vasta legislazione economica
pubblicistica che concorre a disegnare il non sempre lucido e razionale quadro di governo pubblico
dell’economia.

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CAPITOLO PRIMO
L’IMPRENDITORE

1. Il sistema legislativo. Imprenditore e imprenditore commerciale

Definizione della figura di imprenditore lo da l’art. 2082 del codice civile. Il codice distingue diverse i tipi di
impresa e di imprenditori in base a 3 criteri: a) l’oggetto dell’impresa; b) la dimensione dell’impresa c) la
natura del soggetto che esercita l’impresa. Il codice detta innanzitutto un corpo di norme applicabile a tutti
gli imprenditori. È questo lo Statuto Generale dell’Imprenditore. È poi identificabile uno specifico statuto
dell’imprenditore commerciale. Poche è scarsamente significative sono invece le disposizioni del codice
riferite all’imprenditore agricolo ed al piccolo imprenditore: essi, anche commerciali, sono esonerati dalla
tenuta delle scritture contabili mentre l’iscrizione nel registro delle Imprese, originariamente esclusa, è stata
oggi estesa. Diverso è poi anche il sistema di procedure concorsuali che regola la crisi l’insolvenza. Anche la
distinzione soggettiva tra impresa individuale, società e impresa pubblica rileva al fine di definire l’ambito di
applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale. Appare fin d’ora chiaro che lo statuto
dell’imprenditore commerciale è, almeno nella sua completezza, statuto proprio dell’imprenditore privato
commerciale non piccolo.

2. La nozione generale di imprenditore

Recita l’art. 2082 c.c.: “È imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al
fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.

La derivazione economica della nozione di imprenditore, che in effetti ha ripreso il legislatore, non significa
che vi debba essere piena coincidenza tra la nozione economica e quella giuridica. L’economista, invero,
analizza la funzione svolta dai diversi attori della vita economica ed in termini economici descrive la figura
dell’imprenditore (il modello teorico prescelto è quello prospettato dagli economisti di impostazione
liberista), identificandola nel soggetto che nel processo economico svolge funzione intermediaria tra chi
dispone dei necessari fattori produttivi e chi domanda prodotti e servizi. Nello svolgimento di tale funzione,
l’imprenditore coordina ed organizza e dirige, assumendo su di sé il rischio d’impresa. L’esposizione al
rischio di impresa giustifica quindi il potere dell’imprenditore di dirigere il processo produttivo e legittima
l’acquisizione da parte dello stesso dell’eventuale eccedenza dei ricavi rispetto ai costi (c.d. Profitto).

Altro è però individuare funzioni e moventi tipici dell’imprenditore; altro ancora è fissare i requisiti minimi
necessari e sufficienti che devono ricorrere perché un dato soggetto sia esposto ad una data disciplina: la
disciplina dell’imprenditore. Questo è il compito proprio del legislatore.

Dall’art. 2082 si ricava che l’impresa è attività (serie coordinata di atti unificati da una funzione unitaria) ed
attività caratterizza sia da uno specifico scopo (produzione o scambio di beni e servizi) sia da specifiche
modalità di svolgimento (organizzazione, economicità, professionalità). In particolare è controverso se siano
altresì indispensabili: a) l’intento dell’imprenditore di ricavare profitto (scopo di lucro); b) la destinazione al
mercato dei beni e dei servizi prodotti; c) la liceità dell’attività svolta.

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Non deve sorprendere se le nozioni giuridiche di impresa e di imprenditore elaborate in altri settori del diritto
non coincidono puntualmente con quella fissata dall’art. 2082: non esiste la nozione di impresa ma esistono
le nozioni di impresa (civilistica, tributaria, comunitaria ecc).

3. L’attività produttiva

L’impresa è attività (serie di atti coordinati) finalizzata alla produzione o allo scambio di beni (art. 810 c.c.).
Per qualificare una data impresa commerciale e produttiva è irrilevante la natura dei beni o dei servizi
prodotti: è impresa anche la produzione di servizi di natura assistenziale, culturale o ricreativa.
È altresì irrilevante che l’attività produttiva possa nel contempo qualificarsi come attività di godimento o di
amministrazione di determinati beni. Certo, non è impresa l’attività di mero godimento: classico è l’esempio
del proprietario di immobili che ne gode i frutti concedendoli in locazione. Così, è attività di godimento e
produttiva di nuovi beni quella del proprietario di un fondo agricolo che destini lo stesso a coltivazione. E
godimento e produzione l’attività del proprietario di un immobile che adibisca lo stesso ad albergo, pensione
o residence. In tal caso le prestazioni locative sono accompagnate dalla erogazione di servizi collaterali che
eccedono il mero godimento del bene.

Ancora è godimento l’impiego di proprie disponibilità finanziarie nella compravendita di strumenti finanziari
(azioni, obbligazioni, titoli di stato) con intenti di investimento o di speculazione. Essi possono dar vita ad
impresa se ricorrono gli ulteriori requisiti dell’organizzazione e della professionalità.

Imprese commerciali devono essere qualificati infine le c.d. Holding pure: società cioè che hanno per oggetto
esclusivo l’acquisto e la fresiate di partecipazioni di controllo in altre società. Né sussistono decisive ragioni
per giungere a diversa conclusione quando le attività siano svolte da una persona fisica anziché da una
società.

4. L’organizzazione

Normale e tipico è che la funzione organizzativa dell’imprenditore si concretizzi nella creazione di un


apparato produttivo stabile e complesso, formato da persone e da beni struemntali. Visto che ciò è normale,
resta da precisare ciò che è essenziale affinché una data attività produttiva possa dirsi organizzata in forma di
impresa. Al riguardo è ormai pacifico che non è necessario che la funzione organizzativa dell’imprenditore
abbia per oggetto anche altrui prestazioni lavorative autonome o subordinate. È imprenditore anche chi opera
utilizzando solo il fattore capitale ed il proprio lavoro.

L’organizzazione imprenditoriale può anche essere organizzazione di soli capitali e del proprio lavoro
intellettuale e/o manuale. Non è inoltre necessario che l’attività si concretizzi nella creazione di un apparato
strumentale fisicamente percepibile. I mezzi materiali possono anche ridursi al solo impiego di mezzi propri
o altrui, come ad esempio si può verificare per le attività di finanziamento o di investimento.

In definitiva, la qualità di imprenditore non può essere negata sia quando l’attività è esercitata senza l’ausilio
di collaboratori sia quando il coordinamento degli altri fattori produttivi non si concretizzi nella creazione di
un complesso aziendale materialmente percepibile.

5. Impresa e lavoro autonomo

Si pose il problema se si possa parlare di impresa anche quando il processo produttivo si fonda
esclusivamente sul laboro personale del soggetto agente. Il problema assume particolare rilievo nel settore
della produzione di servizi e con riferimento specifico ai prestatori autonomi d’opera manuale o di servizi
fortemente personalizzati.

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La semplice organizzazione a fini produttivi del proprio lavoro non può essere considerata organizzazione di
tipo imprenditoriale. Il punto non è tuttavia pacifico e parte della dottrina perviene ad opposta conclusione
facendo leva sulla nozione codicistica di piccolo imprenditore. La tesi non è tuttavia condivisibile in quanto
contrasta innanzitutto con la comune valutazione sociale che rifiuta di fare un unico fascio tra lustrascarpe e
imprenditori in quanto avverte che una cosa è organizzare il proprio lavoro mentre altro è organizzare una
attività di impresa.

D’altro canto, la nozione di piccolo imprenditore non depone nel senso della superfluità di ogni forma di
etero organizzazione. Piccola impresa è quella organizzata prevalentemente con il valoro proprio e dei
familiari e convincente sembra il rilievo che è manifesto che il concetto di prevalenza postula un rapporto tra
gli elementi organizzati e quindi una molteplicità di essi. Del resto, l’organizzazione del lavoro dei familiari
è pur sempre organizzazione del laboro altrui.
Questi dati complessivamente considerati confermano che un minimo di organizzazione di lavoro altrui e di
capitale è sempre necessaria per aversi impresa sia pure piccola. In mancanza si avrà semplice lavoro
autonomo non imprenditoriale. E semplici lavoratori autonomi restano i prestatori d’opera manuale, i
mediatori e gli agenti di commercio.

6. Economicità dell’attività

L’impresa è attività economica. Invero, ciò che qualifica una attività come economica non è solo il fine
(produttivo) cui essa è indirizzata. È anche il modo, il metodo, con cui essa è svolta. E l’attività produttiva
può dirsi condotta con metodo economico quando è tesa al procacciamento di entrate remunerative dei fattori
produttivi utilizzati; quando è svolta con modalità che consentono nel lungo periodo la copertura dei costi
con i ricavi. Non è perciò imprenditore cui produca beni o servizi che vengono erogati gratuitamente o a
prezzo politico, tale cioè da far oggettivamente escludere la possibilità di coprire i costi con i ricavi.

7. La professionalità

L’ultimo dei requisiti espressamente richiesti dall’art. 2082 è il carattere professionale della attività.
Professionale significa perciò esercizio abituale e non occasionale di una data attività produttiva.

La professionalità non implica però che all’attività imprenditoriale debba essere necessariamente svolta in
modo continuato e senza interruzioni. È sufficiente il costante ripetersi di atti di impresa secondo le cadenze
proprie di quel dato tipo di attività. La professionalità non implica neppure che quella di impresa sia l’attività
unica o principale.

Impresa può infine essere anche quella che opera per il compiacimento di un singolo affare.

La professionalità va accertata in base ad indici esteriori ed oggettivi. Indice espressivo di professionalità


può essere anche la creazione di un complesso aziendale idoneo allo svolgimento di una attività
potenzialmente stabile e duratura.

8. Attività di impresa e scopo di lucro

Un primo controverso punto è quello se costituisca requisito essenziale della attività di impresa l’intento di
conseguire un guadagno o profitto personale: lo scopo di lucro. Ad avviso di autorevole dottrina
(Campobasso), la risposta deve essere decisamente negativa se lo scopo lucrativo si intende come movente
psicologico dell’imprenditore (c.d. Lucro soggettivo). Ed invero lo scopo di lucro così intenso non può
ritenersi essenziale per l’assorbente motivo che l’applicazione della disciplina dell’impresa deve fondarsi su
dati esteriori ed oggettivi. E, a ben vedere, questa affermazione è condivisa anche da chi proclama la
necessità dello scopo di lucro. Si riconosce infatti che essenziale è solo che l’attività venga svolta secondo
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modalità oggettive astrattamente lucrative. Irrilevante è invece sia la circostanza che un profitto venga
realmente conseguito sia il fatto che l’imprenditore devolva integralmente a fini altruistici il profitto
conseguito.

Si è però già visto che attività di impresa è solo quella condotta con metodo economico. Ma ci si chiede se
sia sufficiente che l’attività sia svolta secondo modalità oggettive tendenti al pareggio tra costi e ricavi
(metodo economico) o altresì è necessario che le modalità di gestione tendano alla realizzazione di ricavi
eccedenti i costi (metodo lucrativo)? Orbene non solo è facile comprendere che la distinzione diventa in
pratica sfuggente ma molteplici indici legislativi inducono ad optare per la sufficienza del solo metodo
economico.

La nozione di imprenditore è nozione unitaria, comprensiva sia dell’impresa privata sia dell’impresa
pubblica. E l’impresa pubblica è tenuta sì ad operare secondo i criteri di economicità ma non è
necessariamente preordinata alla realizzazione di un profitto.

Società sono però anche le società cooperative, la cui attività di impresa è caratterizzata dallo scopo
mutualistico. Non si può perciò ritenere istituzionalmente finalizzata al conseguimento di ricavi eccedenti i
costi.

Particolarmente significativa poi è la nozione di impresa sociale, un’impresa che esercita un’attività di
interesse generale, senza scopo di lucro.

È perciò evidente che nulla più si oppone al definitivo abbandono di una formula ormai del tutto svuotato del
suo significato semantico e fonte solo di equivoci terminologici. La qualità di imprenditore deve essere
riconosciuta sia alla persona fisica sia agli enti di diritto privato con scopo ideale o altruistico per i quali il
problema ha concreta ragione di porsi.

9. Il problema dell’impresa per conto proprio

Può essere considerato imprenditore anche chi produce beni o servizi destinati ad uso o consumo personale?
L’art. 2082 afferma testualmente che è imprenditore chi esercita attività organizzata al fine della produzione
o dello scambio ed offre perciò un argomento letterale per sostenere che è imprenditore anche l’imprenditore
per conto proprio.

L’impresa per conto proprio non è però impresa, pur se si concede che per l’acquisto della qualità di
definizione basta una destinazione parziale o potenziale della produzione al mercato.

La tesi più corretta è quella minoritaria che non considera la destinazione al mercato requisito essenziale
della attività di impresa. In ogni caso e comunque, il rilievo pratico del problema va significativamente
ridimensionato quando non possono essere considerate imprese per conto proprio sotto il profilo giuridico
alcune delle ipotesi prospettate. Tale non è la cooperativa che produce esclusivamente per i propri soci; non
sono inoltre imprese per conto proprio le aziende costituite dallo Stato o da altri enti pubblici. Possono
invece sondierarsi vere e proprie imprese per conto proprio
a) La coltivazione del fondo finalizzata al soddisfacimento dei bisogni dell’agricoltore e della sua
famiglia
b) La costruzione di appartamenti non destinati alla rivendita (c.d. Costruzione in economia)

10. Il problema dell’impresa illecita

Ulteriore ed ultimo punto controverso è se la qualità di imprenditore possa essere riconosciuta quando
l’attività svolta è illecita, cioè contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume.

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Costituiscono casi classici di impresa illecita il contrabbando di sigarette, la fabbricazione e lo smercio di


droga, la gestione organizzata della prostituzione. Illecita è altresì l’attività bancaria esercitata senza òa
prescritta autorizzazione della Banca centrale europea, commercio all’ingrosso o al minuto senza licenza
amministrativa ecc.

Indubbiamente l’illecito va represso e sanzionato, e questa prima ovvia constatazione spinge ad escludere
qualsiasi forma di protezione giuridica. Può invero apparire paradossale ammettere che il titolare di
un’impresa illecita possa invocare tutela contro gli altrui atti di concorrenza sleale. Non si può infatti
trascurare che anche un’attività di impresa illecita possa dar luogo al compimento di una serie di atti leciti e
validi.

Terzi creditori meritevoli di tutela possono esistere anche quando l’attività di impresa è illecita è perciò
l’esposizione alla liquidazione giudiziale di chi eserciti attività commerciale illecita non appare più del tutto
ingiustificata. Proprio questo secondo ordine di considerazioni ha avuto il sopravvento di fronte ai casi
(reputati meno gravi) in cui l’illiceità dell’impresa è determinata dalla violazione di norme imperative: banca
di fatto, commercio senza licenza ecc (c.d. Impresa illegale). È ormai pacifico che tale tipo di illecito non
impedisce l’acquisto della qualità di imprenditore.
Si esita invece a pervenire alla stessa conclusione quando illecito sia l’oggetto stesso dell’attività:
contrabbando, fabbricazione di droga ecc (c.d. Impresa immorale). La preoccupazione è tuttavia
ingiustificata in quanto può e deve trovare applicazione in materia un principio generale dell’ordinamento: il
principio che da un comportamento illecito non possono mai derivare effetti favorevoli per l’autore
dell’illecito o per chi ne è stato parte. Perciò, anche chi esercita attività commerciale illecita è imprenditore.
Non potrà perciò avanzare le pretese del titolare di un’azienda o agire in concorrenza sleale contro altri
imprenditori, in applicazione al principio della non invocabilità della qualificazione per la non invocabilità
del proprio illecito.

Identici principi possono e debbono essere applicati quando, nonostante la liceità dell’oggetto dell’attività,
l’impresa costituisca lo strumento per il perseguimento di un disegno criminoso (impresa mafiosa)

11. Impresa e professioni intellettuali

Esistono attività produttive per le quali la qualifica di imprenditore è esplicitamente esclusa dal legislatore.
Questo è il caso delle Professioni Intellettuali: i liberi professionisti (avvocati, ingegneri, dentisti ecc...) non
sono imprenditori in quanto tali.

Dice a riguardo l’art..2238: Le disposizioni sull’impresa si applicano alle professioni intellettuali solo se
“l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa”.

I liberi professionisti (anche artisti/inventori) diventano imprenditori solo se ed in quanto la professione


intellettuale è esplicata nell’ambito di altra attività di per sé qualificabile come impresa (es: medico che
gestisce una clinica privata nella quale opera; professore titolare di una scuola privata nella quale insegna).

Nei suddetti es. si è in presenza di 2 diverse attività: Intellettuale + d’impresa: trovano quindi applicazione
nei confronti dello stesso soggetto sia la disciplina specifica dettata per la professione intellettuale (es:
necessità di iscrizione negli albi professionali) sia la disciplina dell’impresa.

Il professionista intellettuale non diventa imprenditore, né nel caso in cui abbia molti collaboratori o un
complesso apparato di mezzi materiali, dando così vita ad un’organizzazione di capitale e/o lavoro.

Dallo stesso art.2238 c.c. si desume che nei 2 casi precedenti il professionista intellettuale non diventa
imprenditore. “L’esercizio di una professione non è di per sé esercizio di impresa, nemmeno quando
l’espletamento dell’attività professionale richieda l’impiego di mezzi materiali e dell’opera di qualche
ausiliario”.
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LUISS
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Non è semplice trovare una spiegazione soddisfacente del perché i professionisti intellettuali non diventino
in alcun caso imprenditori. I professionisti non sono imprenditori “per libera opzione” del legislatore, ispirata
dalla particolare considerazione sociale che tradizionalmente circonda le professioni intellettuali e che si
traduce sul piano legislativo in una disciplina affatto peculiare della stessa disciplina che si concretizza prima
di tutto in una regolamentazione dell’accesso alla professione e del suo esercizio: iscrizione all’albo
professionale (ex.art.2229, 1° co.) si parla di “professioni protette/riservate”.

Il c.c. detta una particolare normativa per il contratto d’opera intellettuale: esecuzione personale della
prestazione (Art.2232), particolare criterio di determinazione del compenso, che dev’essere adeguato
all’importanza dell’opera ed al decoro della professione” (art.2233, 2° co.). Inoltre il professionista
intellettuale è escluso dallo Statuto dell’imprenditore, con i suoi vantaggi (sottrazione alla liquidazione
giudiziale) ma anche con i suoi svantaggi (inapplicabilità della disciplina dell’azienda, dei segni distintivi e
della concorrenza sleale).

Non è semplice individuare un criterio di classificazione delle professioni intellettuali (il farmacista, che oggi
è pacifico che sia imprenditore commerciale, è qualificato per legge “professionista intellettuale” tuttavia tra
farmacista e clienti intercorrono rapporti di compravendita e non si prestazione d’opera intellettuale)

CAPITOLO SECONDO
LE CATEGORIE DI IMPRENDITORI

A. IMPRENDITORE AGRICOLO E IMPRENDITORE COMMERCIALE

1. Il ruolo della distinzione

Imprenditore agricolo (art. 2135) ed imprenditore commerciale (art. 2195) sono le due categorie di
imprenditori che il codice distingue in base all’oggetto dell’attività. L’imprenditore commerciale è
destinatario di un’ampia ed articolata disciplina fondata sull’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese,
sull’obbligo di tenuta delle scritture contabili, sul l’assoggettamento alla liquidazione giudiziale ed alle altre
procedure concorsuali.

La nozione di imprenditore agricolo invece ha carattere essenzialmente negativo, con la funzione di


restringere l’ambito di applicazione della disciplina dell’imprenditore commerciale. Chi è imprenditore
agricolo è sottoposto alla disciplina prevista per l’imprenditore in generale. In ordine, invece, 1) era
esonerato dalla tenuta delle scritture contabili 2) non era tenuto all’iscrizione nel registro delle imprese; 3)
non poteva fallire.

Oggi, immutato l’esonero dall’obbligo di tenuta delle scritture contabili, la situazione per quanto riguarda la
pubblicità è cambiata. È anche cambiata la posizione dell’imprenditore agricolo nel sistema delle procedure
concorsiali. È confermato che l’imprenditore agricolo non è assoggettabile a liquidazione giudiziale o
all’amministrazione straordinaria. Però, a partire dal 2012, allo stesso possono applicarsi le procedure
concorsuali volte a regolare la crisi da sovraindebitamento del debitore e segnatamente quelle che il codice
della Iris ha denominato la liquidazione controllata del sovraindebitato ed il concordato minore.

Resta tuttavia fermo che l’imprenditore agricolo gode ancora di un trattamento di favore rispetto
all’imprenditore commerciale.

È tuttavia controverso le la bipartizione impresa agricola-impresa commerciale esaurisca le possibili


distinzioni in base all’oggetto. Imprese non menzionate espressamente dal legislatore ed individuabili in base
al criterio meramente negativo di non poter essere qualificate né agricole né commerciali. Queste imprese

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sarebbero perciò sottoposte solo alla disciplina generale dell’imprenditore ma non a quella dell’imprenditore
commerciale.

Se il sistema lasci spazio per la categoria delle imprese civili è tuttavia problema che potrà essere risolto solo
dopo aver visto le nozioni di imprenditore agricolo ed imprenditore commerciale.

2. L’imprenditore agricolo. Le attività agricole essenziali

Il testo originario dell’art. 2135 c.c. stabiliva che “è imprenditore agricolo chi esercita una attività diretta alla
coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame ed attività connesse.

Le attività agricole possono perciò essere distinte in due grandi categorie a) attività agricole essenziali b)
attività agricole per connessione. E questa distinzione è stata mantenuta anche dalla nuova nozione di
imprenditore agricolo introdotta dal D. Lgs.228/2001.

Coltivazione del fondo, silvicoltura ed allevamento del bestiame sono attività tipicamente è tradizionalmente
agricole. Esse hanno però subito una evoluzione dal 1942 ad oggi (con una forte industrializzazione). Il
progresso tecnologico consente oggi di ottenere prodotti merceologicamente agricoli con metodi che
prescindono dallo sfruttamento della terra. Si pensi alle coltivazioni artificiali o fuori terra, o ancora agli
allevamenti in batteria condotti in capannoni industriali e con mangimi chimici che permettono il rapido
accrescimento del peso corporeo.
Al riguardo si era delineato un netto contrasto di opinioni. Vi era infatti chi riteneva che impresa agricola
fosse ogni impresa che produce specie vegetali o animali. Vi era all’opposto chi riteneva che doveva essere
dato rilievo anche al modo di produzione tipico dell’imprenditore e quindi che doveva essere qualificato
imprenditore commerciale chi produce specie vegetali o animali in modo del tutto svicolato dal fondo
agricolo e dallo sfruttamento della terra, così sottraendosi al maggior rischio tipico delle attività agricole.

Con la recente riforma, il legislatore ha invece decisamente optato per la prima impostazione.

L’attuale formulazione dell’art. 2135 ribadisce che è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti
attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali ed attività connesse. Subito specifica
però che per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività
dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere
vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine.

Ne consegue che si possono far rientrare nella nozione di coltivazione del fondo: l’orticoltura, le coltivazioni
in serra o in vivai e la floricoltura.

Il criterio del ciclo biologico porta a riconoscere che costituisce attività agricola essenziale anche la
zootecnica svolta fuori dal fondo o utilizzando questo come mero designerò dell’attività di allenamento, né è
necessario che gli animali siano alimentati con mangimi naturali ottenuti dal fondo. Rimane invece attività
commerciale l’acquisto di animali all’ingrosso al solo scopo di rivenderli.

Ancora, la sostituzione del termine bestiame con quello più ampio di animali tronca ogni incertezza sulla
possibilità di qualificare come impresa agricola essenziale non solo l’allevamento di animali
tradizionalmente allevati sul fondo all’epoca della codificazione ma anche l’allenamento di animali da
cortile.

Nel contempo, nessun dubbio può sussistere in merito alla natura agricola dell’attività di acqua coltura.

Infine, all’imprenditore agricolo (essenziale) è stato equiparato l’imprenditore ittico. Vale a dire
l’imprenditore che esercita l’attività di pesca professionale nonché attività a queste connesse. Attività tutte

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che in passato erano considerate estranee all’agricoltura e che in verità appaiono svincolate dalla cura e dallo
sviluppo del ciclo biologico degli organismi acquatici.

3. Le attività agricole per connessione

L’attuale nozione imprenditore agricolo realizza un significativo ampliamento rispetto a quella previgente
che la individuava
a) In quelle dirette alla trasformazione o all’alienazione di prodotti agricoli
b) In tutte le altre attività esercitate in connessione con la coltivazione del fondo

Questo duplice criterio di individuazione oggi è scomparso in quanto in base al terzo comma dell’attuale art.
2135 si intendono comunque connesse:
a) Le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e
valorizzazione di prodotti ottenuti prevalentemente da una attività agricola essenziale;
b) Le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o
risorse normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata.

Le une e le altre sono attività oggettivamente commerciali. Ed invero è industriale e non agricoltore chi
produce olio e formaggi; è commerciante e non agricoltore chi ha un negozio di frutta e verdura.

Due erano e sono ancora oggi le condizioni necessarie per la qualificazione di attività agricola per
connessione: è necessario che il soggetto che la esercita sia già qualificabile imprenditore agricolo in quanto
svolge in forma di impresa una delle 3 attività agricole tipiche e inoltre attività coerente con quella connessa.

La qualifica di imprenditori agricoli è però estesa alle cooperative di imprenditori agricoli ed a loro consorzi
quando utilizzano prevalentemente prodotti dei soci. La stessa regola è stata di recente estesa anche alle
società di persone ed alle società a responsabilità limitata.

La connessione soggettiva non è però sufficiente. È necessario che ricorra anche una connessione oggettiva.
Infatti, non si richiede più che le attività di trasformazione e alienazione dei prodotti agricoli rientrino
nell’esercizio normale dell’agricoltura né che le attività connesse diverse da queste ultime abbiano carattere
accessorio. Entrambi questi criteri sono infatti sostituiti da quello della prevalenza. Necessario e sufficiente è
soltanto che si tratto di attività aventi ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dall’esercizio di attività
agricola.

È invece diventato del tutto irrilevante che una determinata attività di trasformazione o di
commercializzazione sia normale per gli agricoltori in relazione alle dimensioni dell’impresa.

4. L’imprenditore commerciale

È imprenditore commerciale l’imprenditore che esercita una o più delle categorie indicate dall’art. 2195 1°
comma:

1) Attività industriale diretta alla proiezione di beni e servizi. Darà vita ad impresa commerciale ogni
attività di impresa nel settore della produzione che sia qualificabile come attività industriale.
2) Attività intermediaria nella circolazione dei beni. È questo l’altrettanto vasto settore del commercio.
È perciò impresa commerciale ogni attività di scambio che realizzi intermediazione nella
circolazione di beni o servizi
3) Attività di trasporto per terra, per acqua o per aria. L’attività di trasporto può essere considerata
specificazione dell’attività produttiva di servizi, già menzionata dall’art. 2195.

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4) Attività bancaria o assicurativa. L’attività bancaria è in sostanza attività di intermediazione nella


circolazione di quel particolare bene che è il denaro e in quanto tale può essere ricompreso nella più
ampia categoria di cui al n.2.
5) Altre attività ausiliare delle precedenti. È questa la categoria di imprese commerciali dai contorni più
elastici. Vi rientrano le imprese di agenzia, di mediazione, di deposito, di commissione, di
spedizione, di pubblicità commerciale, di marketing.

Peraltro il dato legislativo parla di attività ausiliarie rispetto alle precedenti: rispetto cioè alle altre attività
commerciali.

Gli interrogativi che solleva l’art. 2195 non sono pochi. Le attività indicate nei nn. 3, 4 e 5 costituiscono
specificazione delle prime due categorie ed in queste possono essere ricomprese in quanto hanno per oggetto
o la produzione di servizi o l’intermediazione nella circolazione. Perciò gli elementi sono tutti ravvìi usi nelle
prime due categorie dell’art. 2195 e risiedono nel carattere industriale dell’attività di produzione di beni o
servizi e nel carattere intermediario dell’attività di scambio.

5. Il problema dell’impresa civile

Il requisito dell’industrialità deve essere inteso nel suo significato tecnico-economico. Sarebbero quindi
imprese commerciali:
a) Le imprese che producono beni senza trasformare materie prime, quali le imprese minerarie e le
imprese di caccia e pesca
b) Le imprese che producono servizi senza trasformare materie prime e che non rientrano ovviamente
tra le imprese produttrici di servizi espressamente previste dai numeri 3 (imprese di trasporto), 4
(imprese di assicurazione) e 5 (imprese ausiliarie delle precedenti).

La tesi in esame ritiene inoltre che attività intermediaria nella circolazione può essere qualificata solo quella
nella quale ricorre sia l’acquisto sia la vendita dei beni.

La teoria dell’impresa civile non è però condivisa dalla dottrina prevalente. Si ritiene infatti che l’espressione
“attività industriale” altro non significhi che “attività non agricola”. Si arriva perciò alla conclusione che
l’art. 2195 va letto come se dicesse: è attività commerciale quella diretta alla produzione di beni o servizi non
agricoli e quella rivolta alla circolazione di beni non qualificabile come agricola per connessione. Più
sinteticamente, è imprenditore commerciale ogni imprenditore non agricolo dato che le altre categorie
previste dall’art. 2195 sono tutte specificazioni delle prime due. Per le imprese civili non resta più alcuno
spazio.

Alcune delle pretese imprese civili erano sicuramente commerciali sotto l’abrogato codice di commercio e
nulla induce a pensare che il legislatore del 1942 abbia voluto restringere l’area della commercialità. Ancora,
non vi è alcuna disposizione che possa far pensare all’esistenza di imprese diverse da quelle agricole e
commerciali. Esistono, per contro, norme che sia pure indirettamente confermano che per il legislatore il
binomio agricolo-commerciale esaurisce la tipologia delle imprese in base all’oggetto dell’attività.

Infine, ammettendo la categoria delle imprese civili si amplierebbe l’area delle attività produttive senza che
tale trattamento di favore sia sorretto da alcuna giustificazione sostanziale.

È perciò preferibile interpretare il requisito della industrialità come sinonimo di attività non agricola e quindi
qualificare come imprese commerciali anche quelle che producono beni o servizi senza dare luogo a
trasformazioni di materie prime. È altresì preferibile interpretare il requisito della intermediazione nella
circolazione dei beni come sinonimo di attività di scambio. Ogni ulteriore esemplificazione è comunque
superflua dato che eseguendosi questa impostazione sarà commerciale ogni impresa che non è agricola.

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B. PICCOLO IMPRENDITORE. IMPRESA FAMILIARE

6. Il criterio dimensionale. La piccola impresa.

La dimensione dell’impresa è il secondo criterio di differenziazione della disciplina degli imprenditori. Al


riguardo il codice civile individua la figura del piccolo imprenditore, che è sottoposto allo Statuto generale
dell’Imprenditore (fatta eccezione per l’art. 1330). È invece esonerato dalla tenuta delle scritture contabili,
anche se esercita attività commerciale, mentre l’iscrizione nel registro delle imprese, originariamente esclusa,
ha di regola solo funzione di pubblicità notizia.

Inoltre, l’imprenditore che esercita una attività di modeste dimensioni è altresì esonerato dalla liquidazione
giudiziale nonché da quasi tutte le procedure concorsuali riservate all’imprenditore commerciale: può però
usufruire delle procedure concorsuali da sovraindebitamento e può stipulare con i creditori una convenzione
di moratoria.

Anche la nozione di piccolo imprenditore ha perciò nel sistema del codice civile rilievo essenzialmente
negativo. Serve per restringere ulteriormente l’ambito di applicazione dello Statuto dell’imprenditore
commerciale.

Discorso diverso vale per la legislazione speciale. In questa, la piccola impresa o determinate figure di
quest’ultima sono destinatarie di una ricca ed articolata disciplina.

Individuare chi sia piccolo imprenditore ai fini civilistici non è stato però fino a qualche anno fa problema di
agevole soluzione. E ciò perché il piccolo imprenditore era definito sia dal codice civile (art. 2083) sia dalla
legge fallimentare (art. 1 2° comma). L’individuazione della figura del piccolo imprenditore ha perciò
sollevato in passato delicati e complessi problemi di coordinamento tra diversi e non coincidenti definizioni
legislative. Oggi però la situazione si è notevolmente semplificata.

7. Il piccolo imprenditore nel Codice civile

“Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che
esercitano una attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti
della famiglia”. È questa la nozione di piccolo imprenditore che fornisce l’art. 2083 del codice. Enuncia però
allo stesso tempo il criterio generale di individuazione della categoria, destinato a valere anche per le tre
figure tipiche: coltivatori diretti del fondo, artigiani e piccoli commercianti. In altri termini, l’art. 2083 va
letto come se dicesse che la prevalenza del lavoro proprio e familiare costituisce il carattere distintivo di tutti
i piccoli imprenditori.

Per aversi piccola impresa è perciò necessario che: a) l’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa; b)
il suo lavoro e quello degli altri eventuali familiari prevalgano sia rispetto al lavoro altrui che al capitale.

La prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi deve correttamente intendersi in senso
qualitativo funzionale. È necessario cioè accertare se l’apposto personale dell’imprenditore e dei suoi
familiari abbia rilievo preminente nell’organizzazione dell’impresa e caratterizzi i beni o servizi prodotti.

8. Il piccolo imprenditore e la disciplina concorsuale. L’impresa minore

L’art. 2083 non era la sola norma a definire il piccolo imprenditore. Anche la legge fallimentare fissava una
definizione di piccolo imprenditore nasata esclusivamente sul mancato superamento di determinate soglie
quantitative (avere un reddito inferiore al minimo imponibile ai fini dell’imposta sulla ricchezza mobile, aver
investito nell’azienda un capitale superiore a 900.000 lire ecc); inoltre non erano mai piccoli imprenditori le
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società commerciali. Da qui la necessitò di trovare un non facile coordinamento tra le die norme per evitare
di cadere nel paradosso di dovere contemporaneamente riconoscere e negare allo sesso soggetto la qualità di
piccolo imprenditore e agli stessi effetti.

Nel corso del tempo tuttavia la definizione originaria della legge fallimentare è caduta pezzo dopo pezzo: il
criterio quantitativo basato sull’imponibile fiscale e quello sussidiario fondato sul capitale investito si era
svalutato a causa dell’inflazione. Restava in piedi solo la previsione secondo cui in nessun caso erano
considerati piccoli imprenditori le società commerciali. Perciò a partire dagli anni ’90 l’esonero dal
fallimento dell’imprenditore individuale si determinava esclusivamente sulla base della definizione di
piccolo imprenditore del codice civile.

Si è così arrivati alla terza fase di evoluzione normativa del problema: con le riforme del diritto fallimentare
del 2006 e 2007 è stato reintrodotto un sistema basato su criteri esclusivamente quantitativi e monetari. In
altri termini la legge fallimentare fissava i criteri dimensionali per assoggettare l’imprenditore commerciale
al fallimento mentre la definizione di piccolo imprenditore che dà il codice civile restava rilevante solo ai fini
della applicazione della restante parte dello statuto dell’imprenditore commerciale.

Il Codice della crisi e dell’insolvenza ha accolto questa impostazione ed ha introdotto una diversa
nomenclatura: l’impresa non soggetta alle procedure concorsuali. In base alla attuale disciplina, non è
soggetto alla liquidazione giudiziale l’imprenditore che presenta congiuntamente i seguenti requisiti:
a) Aver avuto nei 3 esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di apertura della liquidazione
giudiziale un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro
trecentomila
b) Aver realizzato nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di apertura della
liquidazione giudiziale ricavi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro
duecentomila
c) Avere un ammontare di debiti non superiore ad euro cinquecentomila

Anche le società commerciali possono essere esonerate dalla liquidazione giudiziale se rispettano i limiti
dimensionali sopra indicati.

9. L’impresa artigiana

La L. 860/1956 affermava espressamente che l’impresa rispondente ai requisiti fondamentali nella stessa
fissati era da considerarsi artigiana a tutti gli effetti di legge. La nozione speciale sostituiva per il quella del
codice e delineava un modello di impresa artigiana difficilmente conciliabile con quello del codice. Infatti, il
dato caratterizzante l’impresa artigiana risiedeva nella natura artistica o usuale dei beni e servizi prodotti.

L’impresa doveva ritenersi artigiana e sottratta al fallimento anche quando non era più rispettato il criterio
della prevalenza. Inoltre anche le società potevano acquisire la qualifica di artigiana se rispettavano
determinati requisiti fissati dalla legge (la qualifica di società artigiana era riconosciuta alle società
cooperative o in nome collettivo a condizione che la maggioranza dei soci partecipi personalmente al lavoro
e, nell’impresa, il lavoro abbia funzione preminente sul capitale).

Anche la nuova legge contiene una propria definizione dell’impresa artigiana basata:
a) Sull’oggetto dell’impresa
b) Sul ruolo dell’ artigianato dell’impresa, richiedendosi che esso svolta in misura prevalente il proprio
lavoro, anche manuale, nel processo produttivo

Continuano ad essere imposti limiti per quanto riguarda i dipendenti ma il numero massimo è generalmente
più elevato di quello fissato dalla legge del 1954. È però riaffermato il principio che il personale dipendente
deve essere personalmente diretto dall’artigiano ed è stabilito che l’imprenditore artigiano può essere titolare
di una sola impresa artigiana.
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Inoltre la qualifica di impresa artigiana è stata successivamente estesa dapprima alle società a responsabilità
limitata unipersonale ed alla società in accomandita semplice.

La categoria delle imprese artigiane risulta notevolmente ampliata. È scomparso ogni riferimento alla natura
artistica o usuale dei beni o servizi prodotti e sintomaticamente si qualificano artigiane anche le imprese di
costruzioni edili.

L’impresa artigiana certamente si caratterizza ancora per il rilievo del lavoro personale dell’imprenditore nel
processo produttivo e, forse, per la funzione preminente del lavoro sul capitale investito.

Si deve perciò convenire che la legge quadro ha realizzato una vistosa frattura rispetto alla legge del 1956.
Tuttavia, la legge del 1985 non afferma più che l’impresa artigiana è definita a tutti gli effetti di legge. Anzi,
scopo dichiarato ed esclusivo della legge quadro è quello di fissare i principi direttivi che dovranno essere
osservati dalle regioni ne l’emanazione di una serie di provvedimenti a favore dell’artigianato.

Oggi, perciò, il riconoscimento della qualifica artigiana in base alla legge quadro non basta per sottrarre
l’artigiano allo statuto dell’imprenditore commerciale. È necessario altresì che sia rispettato il criterio di
prevalenza fissato dall’art. 2083 c.c. Né costituisce ostacolo all’apertura della liquidazione giudiziale il
riconosciuto carattere costitutivo dell’iscrizione nell’albo delle imprese artigiane.

Perciò, in conclusione, al pari do ogni imprenditore commerciale, l’imprenditore artigiano individuale e le


società artigiane saranno esonerati dalla liquidazione giudiziale solo se in concreto ricorrono i presupposti
previsti in generale per tutti gli imprenditori commerciali dal codice della crisi e dell’insolvenza.

10. L’impresa familiare

È familiare l’impresa nella quale collaborano coniuge, parenti entro il 3° grado e affini entro il 2° (cognati)
dell’imprenditore. Riguardo ai conviventi “more uxorio” non vi sono disposizioni, ma la prassi degli ultimi
periodi spinge in senso affermativo.

Questo istituto ha avuto largo successo, in parte per ragioni tributarie, consentendo il frazionamento del
reddito di impresa fra i parenti dell’imprenditore.

Non va confusa con la piccola impresa: anche se è frequente che la piccola impresa sia anche familiare ma i
problemi risolti dal legislatore con l’art.230-bis c.c sono diversi da quelli ricollegati alla qualifica di piccolo
imprenditore.

Prima della riforma del ’75 il lavoro familiare veniva prestato a titolo gratuito, senza il riconoscimento di
alcun diritto e questo poteva portare a gravi abusi ed ingiustizie. Nel ’75 il legislatore ha voluto predisporre
una tutela minima inderogabile del lavoro familiare nell’impresa, riconoscendo ai membri della famiglia
nucleare, che lavorino in modo continuato nella famiglia o nell’impresa, determinati diritti patrimoniali ed
amministrativi. Questi sono:
a) Diritto al mantenimento (secondo le condizioni patrimoniali della famiglia, anche se non dovuto ad
altro titolo.
b) Diritto di partecipazione agli utili dell’impresa (in proporzione alla quantità del lavoro prestato
nell’impresa o nella famiglia
c) Diritto sui beni acquistati con gli utili e sugli incrementi di valore dell’azienda (anche dovuti
all’avviamento) sempre in proporzione alla quantità e qualità del lavoro svolto.
d) Diritto di prelazione sull’azienda (in caso di divisione ereditaria/trasferimento dell’azienda stessa)

Le decisioni sulla gestione straordinaria dell’impresa ed altre decisioni di particolare rilievo vengono adottate
a maggioranza dei familiari che partecipano all’impresa stessa. L’art.230 non dice nulla, ma si ritiene ciascun
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familiare ha diritto ad 1 solo voto e che alle decisioni non prende pt. l’imprenditore, perché è destinatario
delle decisioni adottate dagli altri membri della famiglia.

Il trasferimento della partecipazione è possibile solo nei confronti di altri familiari nucleari e con consenso
unanime dei membri.È però liquidabile in denaro, quando cessi la prestazione di lavoro ed in caso di
alienazione dell’azienda.

Ha dato molti problemi interpretativi, condizionati anche da quello pregiudiziale, se l’impresa resti “Impresa
Individuale” o si parla di “Impresa Collettiva”?
L’opinione maggioritaria è nel senso della impresa di famiglia come una disciplina a carattere
esclusivamente obbligatorio che non altera la struttura individuale dell’impresa e non incide sulla titolarità
dei beni aziendali (sempre di proprietà esclusiva dell’imprenditore-datore)! accogliendo questa tesi, i diritti
patrimoniali dei familiari altro non sono che Diritti di Credito nei confronti del familiare imprenditore.

Sul piano gestionale gli atti di gestione ordinaria di competenza esclusiva dell’imprenditore e nessun potere
compete agli altri familiari. Infatti, la violazione da parte dell’imprenditore dei poteri gestori “ex-lege”
riconosciuti ai familiari, lo esporrà al risarcimento dei danni eventuali nei loro confronti ma non inciderà
sulla validità ed efficacia degli atti compiuti che produrranno ugualmente effetti nei cfr. dei terzi.

Poi, dato che l’imprenditore agisce nei confronti dei terzi in proprio, solo a lui saranno imputabili gli effetti
degli atti posti in essere nell’esercizio dell’impresa e solo lui sarà responsabile nei confronti dei terzi delle
relative obbligazioni contratte.

Infine, se l’impresa è commerciale (e non piccola) solo il capo famiglia- datore sarà esposto a liquidazione
giudiziale. In breve: l’idea che resti un’impresa individuale si adatta meglio all’esclusiva finalità di tutela del
lavoro familiare nell’impresa che ha ispirato l’introduzione del nuovo istituto.

C. IMPRESA COLLETTIVA. IMPRESA PUBBLICA

11. L’impresa societaria

Tre sono le fuggire espressamente contemplate dal legislatore: impresa individuale, impresa societaria ed
impresa pubblica.

Le società sono le forme associative tipiche, anche se non esclusive, previste dall’ordinamento. Per il
momento ricordiamo che ci sono diversi tipi di società, e che la società semplice è utilizzabile solo per
l’esercizio di attività non commerciale. Le società diverse dalla società semplice si definiscono
tradizionalmente società commerciali e potranno essere imprenditori agricoli o imprenditori commerciali a
seconda dell’attività esercitata. Si distingue perciò tra società di tipo commerciale con oggetto agricolo e
società di tipo commerciale con oggetto commerciale. L’applicazione alle società commerciali degli istituiti
tipici dell’imprenditore commerciale segue regole parzialmente diverse da quelle previste per l’imprenditore
individuale:
a) Parte della disciplina propria dell’imprenditore commerciale si applica alle società commerciali
qualunque sia l’attività svolta. Resta fermo l’esonero delle società commerciali che gestiscono
un’impresa agricola dalla liquidazione giudiziale e dal concordato preventivo.

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b) Nelle società in nome collettivo ed in accomandita semplice parte della disciplina dell’imprenditore
commerciale trova poi applicazione solo o anche nei confronti dei soci a responsabilità illimitata:
tutti i soci nella società in nome collettivo.

Trovano applicazione solo nei confronti dei soci le norme che regolano l’esercizio di impresa commerciale a
parte di un incapace. Trova invece applicazione anche nei confronti dei soci la sanzione della liquidazione
giudiziale.

12. Le imprese pubbliche

Attività di impresa può essere svolta anche dallo Stato e dagli altri enti pubblici (art. 41 e 43 Cost) ed il
fenomeno ha assunto dimensioni cospicue e manifestazioni poliedriche.

a) Lo Stato o altro ente pubblico territoriale possono svolgere direttamente attività di impresa
avvalendosi di proprie strutture organizzative
b) La Pubblica amministrazione può altresì dare vita ad enti di diritto pubblico il cui compito
istituzionale esclusivo o principale è l’esercizio di attività di impresa. Sono questi i c.d. Enti pubblici
economici. A partire dagli anni 90 è stato però dato avvio ad un radicale processo di ristrutturazione
del settore degli enti pubblici. Con una serie di interventi legislativi, quasi tutti gli enti pubblici
economici sono stati trasformati in società per azioni a partecipazione statale (c.d. Privatizzazione
formale).
c) Lo Stato e gli altri enti pubblici possono infine svolgere attività di impresa servendosi di strutture di
diritto privato: attraverso la costituzione di società, generalmente per azioni. È questo il vasto settore
delle società a partecipazione pubblica.

Orbene, l’applicazione dello Statuto di diritto privato dell’imprenditore commerciale segue le regole esposte
per le società quando un soggetto pubblico eserciti attività di impresa in forma societaria. In tal caso
l’impresa si presenta formalmente come un’impresa societaria privata.

Gli enti pubblici non economici sono sottoposti allo Statuto generale dell’imprenditore ed allo Statuto
proprio dell’imprenditore commerciale con l’eccezione dell’esonero da liquidazione giudiziale e dalle altre
procedure disciplinate dal Codice della Crisi.

L’art. 2093 dispone che nei confronti di tali enti si applicano le disposizioni del libro V limitatamente alle
imprese da essi esercitate e nel libro V del cc è compresa anche la disciplina di impresa commerciale. Il terzo
comma dell’art. 2093 dichiara tuttavia che sono salve le disposizioni di legge. E gli enti titolari di imprese-
organo sono implicitamente esonerati dall’iscrizione nel registro delle imprese.
Gli enti pubblici che svolgono attività commerciale sono sottoposti – limitatamente alle imprese esercitate –
allo Statuto generale dell’Imprenditore (opinione di Campobasso). È tuttavia ancora diffusa una diversa
ricostruzione dei dati normativi. Si ritiene infatti che l’art. 2201 debba essere interpretato come espressione
di un più generale principio volto a sottrarre integralmente tali enti dalla disciplina di diritto privato
dell’imprenditore commerciale.

Non ritengo però che questa impostazione possa essere condivisa. E ciò sia per il generale richiamo di tutta
la disciplina di diritto privato dell’attività di impresa operato dal secondo comma dell’art. 2093 sia per il
carattere eccezionale che si deve riconoscere all’art. 2201.

13. Attività commerciale delle associazioni e delle fondazioni. Le imprese del Terzo Settore

Le associazioni, le fondazioni, tutti gli enti privati possono svolgere attività commerciale. Essenziale per
aversi impresa è che l’attività produttiva venga condotta con metodo economico. L’esercizio di attività
commerciale può costituire anche l’oggetto esclusivo o principale. È più frequente però che l’attività
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commerciale presento carattere accessorio. Che l’attività commerciale abbia carattere accessorio però non
impedisce di certo l’acquisto della qualità di imprenditore non potendosi eccepire che faccia difetto il
requisito della professionalità: la professionalità non implica che l’attività di impresa sia esclusiva o
principale.

Da tempo era però avvertita l’esigenza di un quadro di regole più compiuto. A questa esigenza è stata data
risposta dapprima con la disciplina dell’impresa sociale ed oggi anche con la nuova disciplina del codice del
Terzo settore. Il Codice del Terzo Settore ha introdotto regole speciali che incidono sulla applicazione dello
Statuto dell’Imprenditore commerciale agli anti di terzo settore.

a) Sono soggetti ad obbligo di iscrizione nel registro delle imprese solo gli enti del Terzo Settore che
esercitano la loro attività esclusivamente o principalmente in forma di impresa commerciale.
b) Tutti gli enti del Terzo Settore sono tenuti a redigere annualmente il bilancio di esercizio

Queste disposizioni del Codice di terzo settore traggono origine dall’orientamento secondo cui la disciplina
delle imprese commerciali non sarebbe applicabile agli enti di diritto privato diversi dalle società. Si afferma
che l’art. 2201 c.c. costituisca espressione di un principio generale valido per tutte le imprese collettive non
societarie: di qui l’esonero dall’iscrizione nel registro delle imprese delle associazioni e le fondazioni che
esercitano attività commerciale in via accessoria.

Ma la tesi, gli enti non societari che svolgono attività imprenditoriale in forma accessoria sarebbero si
imprenditori, ma non commerciali. Questa ricostruzione non può tuttavia essere condivisa per vari motivi:
1) L’art. 2201 e l’art. 11 2° comma cts sono norme eccezionali che trovano fondamento nella struttura
pubblicistica dell’ente e nell’esistenza di una forma alternativa di pubblicità legale
2) L’art. 2201 si limita a prevedere l’esonero dalla registrazione e non può essere inteso come esonero
degli enti pubblici titolari di imprese-organo dall’intero statuto degli imprenditori commerciali.
Tanto è vero che per le procedure concorsuali è dettata una apposita norma. Mentre, il codice del
Terzo settore non prevede alcuna deroga in tema di soggezione alle procedure concorsuali.

Si deve perciò correttamente concludere che le associazioni o le fondazioni esercenti attività commerciale in
forma di impresa, siano o no qualificate come enti del Terzo Settore, diventano sempre e comunque
imprenditori commerciali e restano esposte alla liquidazione giudiziale senza possibilità di operare arbitrarie
distinzioni in base al carattere principale o accessorio dell’attività di impresa.

Risolvendo un punto controverso, l’art. 259 CCI stabilisce oggi che l’apertura della liquidazione giudiziale
nei confronti di un imprenditore collettivo comporta anche l’apertura della liquidazione giudiziale nei
confronti degli associati illimitatamente responsabili ed art. 28 c.c.

14. L’impresa sociale

Le imprese sociali costituiscono un sotto-insieme delle Imprese del Terzo Settore. Tutte le imprese sociali
sono automaticamente qualificate come enti del Terzo settore. Non è vero invece il contrario: nel senso che
vi possono essere enti del Terzo settore i quali esercitano attività di impresa.

Infatti, l’impresa sociale non è un nuovo tipo di ente bensì una qualifica che gli enti di diritto privato possono
assumere a certe condizioni. Perciò ciascuna impresa sociale sarà regolata 1) dalla disciplina specifica
d.lgs.112/2017; 2) dalla normativa del codice del Terzo settore in quanto compatibile; 3) dalla disciplina
propria dell’ente che esercita l’impresa sociale, ove non derogata dalla legislazione speciale del terzo settore.

Possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutti gli enti privati che esercitano in via stabile e principale
una attività di impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di
utilità sociale. È inoltre richiesto che le imprese sociali operino adottando modalità di gestione responsabili e
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trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori. In definitiva, perciò, l’impresa sociale si
caratterizza per:
1) L’esercizio dell’impresa come attività prevalente dell’ente
2) Il particolare oggetto dell’attività
3) L’assenza dello scopo di lucro
4) La gestione trasparente, responsabile e partecipativa

Sono attività di impresa di interesse generale quelle che ricadono nei settori indicati dall’art. 2 del decreto
(assistenza sociale e sanitaria, educazione e istruzione, tutela dell’ambiente, valorizzazione del patrimonio
culturale, microcredito, accoglienza di migranti). L’elenco è tassativo ma può essere adeguato ed aggiornato.

Quanto all’assenza dello scopo di lucro, occorre fare alcune precisazioni. L’impresa sociale è impresa ai
sensi dell’art. 2082. Nulla vieta che l’esercizio dell’attività imprenditoriale produca un avanzo dei ricavi sui
costi. Sul patrimonio dell’impresa grava poi un vincolo di indisponibilità in quanto né durante l’esercizio
dell’impresa, né al momento dello scioglimento è possibile distribuire utili, fondi o riserve a vantaggio di
fondatori, soci, associati. Allo scioglimento dell’impresa sociale, il patrimonio residuo è devoluto ad altri
enti del Terzo settore o fondi per la promozione delle imprese sociali.

Inoltre, apposite regole fanno sì che i soggetti risultanti dagli atti posti in essere continuino a rispettare
l’assenza dello scopo di lucro, i vincoli di destinazione del patrimonio ed il perseguimento delle finalità di
interesse generale.

È da dire tuttavia che il rigido divieto di scopo di lucro originariamente previsto dalla disciplina dell’art.
2006 è stato attenuato dalla riforma del 2017. In questi casi l’impresa sociale può destinare una parte degli
utili netti annuali per rivalutare le partecipazioni dei soci al costo della vota mediante operazioni di aumento
gratuito del capitale oppure effettuare distribuzioni di dividendi ai soci.

Le finalità vengono favorite dal legislatore con consistenti benefici fiscali.

Non possono essere imprese sociali invece le amministrazioni pubbliche; le organizzazioni che erogano beni
e servizi esclusivamente a favore dei propri soci o associati, e le società costituite da un solo socio persona
fisica.

Le imprese sociali sono soggette a regole speciali per quanto riguarda l’applicazione degli istituti tipici
dell’imprenditore.
a) Devono iscriversi in una apposita sezione del registro delle imprese
b) Devono tenere le scritture contabili
c) Sono assoggettate alla liquidazione coatta amministrativa invece che alla giudiziale, in caso di
insolvenza

Gli enti che intendono assumere la qualifica di impresa sociale devono costituirsi per atto pubblico e l’atto
deve:
1) Determinare l’oggetto sociale
2) Enunciare l’assenza dello scopo di lucro
3) Indicare la denominazione dell’ente che va integrata con la locuzione di “impresa sociale”
4) Fissare requisiti e regole per la nomina dei componenti delle cariche sociali
5) Disciplinare le modalità di ammissione ed esclusione
6) Prevedere adeguate forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell’attività di impresa
nell’assunzione delle decisioni che possono incidere direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla
qualità delle prestazioni erogate

L’atto costitutivo deve prevedere la nomina di uno o più sindaci che esercitano il controllo di legittimità.

Per le imprese sociali di maggiori dimensioni è prevista la revisione legale dei conti.
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Per raccogliere capitali o finanziamenti, le imprese sociali possono offrire al pubblico la sottoscrizione di
quote, titoli di debito o altri strumenti finanziari tramite appositi portali internet (c.d. Crowfonding).

Le imprese sociali sono soggette alla vigilanza del Ministro dell’economia.

Il ministero può disporre la perdita della qualifica di impresa sociale se rileva irregolarità non sanabili o se,
diffidati gli organi direttivi a porre fine ai comportamenti illegittimi, l’impresa non vi ottempera entro un
congruo termine.

Ne consegue la cancellazione Dell’impresa dalla sezione speciale del registro delle Imprese e l’obbligo di
devolvere il patrimonio ad un fondo per la promozione e lo sviluppo delle imprese sociali.

CAPITOLO TERZO
L’ACQUISTO DELLA QUALITÀ DI IMPRENDITORE

1. Premessa

Quando si diventa imprenditori? L’art. 2082 dice che si diventa imprenditori con l’esercizio della attività di
impresa. Infatti, per poter affermare che un dato soggetto è diventato imprenditore è necessario che
l’esercizio dell’attività di impresa sia a lui giuridicamente riferibile, sia a lui imputabile.

E l’art. 2086 nulla dice in merito al momento in cui deve ritenersi iniziato l’esercizio dell’Impresa. Nulla
dice, altresì, circa il momento finale dell’attività di impresa. È dunque necessario esaminare i criteri che
regolano l’esercizio della attività di impresa.
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A. L’IMPUTAZIONE DELL’ATTIVITÀ DI IMPRESA

2. Esercizio diretto dell’attività di impresa

È principio generale del nostro ordinamento che centro di imputazione degli effetti dei singoli atti giuridici
posti in essere è il soggetto e solo il soggetto il cui nome è stato valida,ente speso nel traffico giuridico.
Questo criterio di imputazione degli effetti attivi e passivi degli atti negoziali risponde ad esigenze di
certezza giuridica ed è chiaramente enunciato in tema di mandato senza rappresentanza.

Quando il mandatario agisce in nome del mandante tutti gli effetti negoziali sui producono direttamente nella
sfera giuridica di quest’ultimo. Per contro, il mandatario che agisce in nome proprio acquista i diritti ed
assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi anche se questi hanno avuto conoscenza del
mandato. I terzi non hanno alcun rapporto con il mandante.

Il legislatore non fissa un diverso criterio di imputazione dell’attività di impresa. Diventa imprenditore colui
che esercita personalmente l’attività di impresa compiendo in proprio nome gli atti relativi. Non diventa
invece imprenditore il soggetto che gestisce l’altrui impresa.

Perciò quando gli atti di impresa sono compiuti tramite rappresentante, imprenditore diventa il rappresentato
e non il rappresentante. È questo il caso ad esempio del genitore che gestisce l’impresa quale rappresentante
legale del figlio minore. Gli atti di impresa sono decisi e compiuti dal genitore ma imprenditore è il minore e
solo il minore è esposto alla liquidazione giudiziale. Ed il medesimo principio regge ogni altra ipotesi di
sostituzione volontaria o legale nell’esercizio dell’altrui impresa.

3. Esercizio indiretto dell’attività di impresa. La teoria dell’imprenditore occulto

L’esercizio di attività di impresa può dar luogo a dissociazione tra il soggetto cui è formalmente imputabile
la qualità di imprenditore ed il reale interessato. È questo il fenomeno, largamente diffuso, dell’esercizio
dell’impresa tramite interposta persona. Altro è il soggetto che compie in nome proprio i singoli atti di
impresa (c.d. Imprenditore palese o prestanome) altro è il soggetto che somministra al primo i necessari
mezzi finanziari e dirige di fatto l’impresa. Altri è in breve il dominus dell’impresa, il c.d. Imprenditore
indiretto o occulto.

È fuori dubbio che i creditori potranno provocare l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del
prestanome: questi ha agito in nome proprio ed ha perciò acquistato la qualità di imprenditore commerciale.
È altrettanto indubbio però che i creditori ben poco potranno ricavare dalla liquidazione giudiziale ddi questi.
E, se si ammette che obbligato nei loro confronti è solo l’imprenditore palese, il risultato ultimo sarà che il
rischio di impresa non sarà sopportato dal reale dominus ma è da questi trasferito sui creditori o quantomeno
sui creditori più deboli.
E questo modo fraudolento di operare può essere causa di una serie di dissesti a catena.

Parte della dottrina ha ritenuto di poter neutralizzare i pericoli escludendo che la stessa sia requisito
necessario ai fini della imputazione della responsabilità per debiti di impresa. Per l’attività di impresa
opererebbero principi parzialmente diversi che consentirebbero di imputare manche al reale dominus
responsabilità per debiti di impresa. Per l’attività di impresa opterebbero principi parzialmente diversi che
consentirebbero di imputare anche al reale dominus i debiti contratti dall’imprenditore palese e, secondo una
tesi più spinta, consentirebbero altresì di sottoporre il primo a liquidazione giudiziale.

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La responsabilità cumulativa dell’imprenditore palese e del dominus è stata affermata muovendo dall’idea
che nel nostro ordinamento giuridico è espressamente sanzionata la inscindibilità del rapporto potere-
responsabilità.

Un ulteriore e definitivo passo in avanti è stato compiuto dalla c.d. Teoria dell’imprenditore occulto.
Secondo tale teoria, il dominus di una Impresa formalmente altrui non solo risponderà insieme a questi ma
sarà sottoposto sempre e comunque a liquidazione giudiziale.

Nella formulazione originaria, la teoria proseguiva affermando che tale regola fosse applicabile per analogia
alla diversa ipotesi in cui i soci abbiano occultato l’esistenza stessa della società di persone. E l’applicazione
analogica sarebbe stata giustificata dal fatto che tra le due ipotesi la differenza potrebbe essere solo
quantitativa: società con due soci palesi ed uno occulto nel primo caso; società con un socio palese ed uno
occulto e perciò essa stessa occulta nel secondo caso. Oggi, peraltro, l’apertura della liquidazione giudiziale
nei confronti dei soci occulti di una società è disposta espressamente dall’art. 256 5° comma.

Ma se è sottoposta a liquidazione giudiziale la società occulta è inevitabile che lo sia anche l’imprenditore
occulto dato che sul terreno giuridico la situazione è infatti la stessa, nulla importando il fatto che chi rimane
tra le quinte sia soltanto un socio di chi appare in pubblico o sia l’esecutivo titolare dell’impresa gestita dal
prestanome.

È così affermata la responsabilità del socio tiranno di una società per azioni. Dell’azionista cioè che in fatto
usa della società come cosa propria é ne dispone a suo piacimento con l’assoluto disprezzo delle regole
fondamentali del diritto societario. È altresì affermata anche la responsabilità dell’ azionista o degli azionisti
sovrani. Dell’azionista cioè che, pur rispettando le regole di funzionamento della società, in fatto domini
l’impresa societaria in forza del possesso di un pacchetto azionario di controllo.

4. Critica. L’imputazione dei debiti di impresa

Entrambe le tesi esposte nel precedente paragrafo si fondano sulla presunta esistenza nel nostro ordinamento
di due criteri generali di imputazione: a) il criterio formale della spendita del nome; 2) il criterio sostanziale
del potere di direzione in base al quale risponderebbe e sarebbe sottoposto a liquidazione giudiziale anche il
reale interessato.

Ma proprio quest’ultima affermazione non può essere condivisa. Invero, né le norme societarie né il codice
della crisi consentono di dimostrare che un soggetto può essere chiamato a rispondere per ciò che solo egli è
il dominus di un’impresa formalmente imputabile ad altro soggetto o di una società di capitali. Non lo
dimostra la disciplina societaria in quanto è vero che nella società di persone il socio amministratore non può
limitare la propria responsabilità. Non è invece vero che la responsabilità illimitata è indissolubilmente legata
al potere di gestione.

Infatti, nella società in nome collettivo tutti i soci rispondono illimitatamente, quand’anche
l’amministrazione è delegata solo ad uno o taluni di essi. L’assunto che nelle società di capitali la
responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali è indissolubilmente legata al dato sostanziale del potere di
gestione trova una sicura smentita nella disciplina introdotta nel 1933. D’altro canto l’inscindibile
collegamento tra potere di gestione e responsabilità illimitata non è dimostrabile neppure in base all’art. 256
CCI.
Nella liquidazione giudiziale del socio occulto di società palese è fuori contestazione che esiste una società
con soci a responsabilità illimitata; è fuori contestazione inoltre che il soggetto successivamente scoperto sia
socio di tale società; è fuori contestazione infine che gli atti di impresa siano stati post in essere in nome
della società. Ciò che è stato occultato è solo il reale numero dei soci ed il socio occulto risponde e viene
sottoposto a liquidazione giudiziale esattamente per lo stesso motivo per cui rispondono e sono soggetti a
liquidazione giudiziale i soci palesi.

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Nel caso di apertura della liquidazione nei confronti del socio occulto di società occulta è del pari fuori
contestazione che esiste una società a responsabilità illimitata. I soci occulti sono tuttavia chiamati a
rispondere di atti che non sono stati posti in essere in nome della lroo società bensì di un solo socio che opera
all’esterno come mandatario senza rappresentanza. I soci che intendono limitare la propria responsabilità
devono farlo costituendosi in uno dei tipi societari per i quali è previsto tale beneficio. E rispettarne la
relativa disciplina.

È invece estraneo alla disciplina dell’art. 256 CCI il fine di affermare in via generale la responsabilità del
dominus. Lo si desume con certezza dal primo comma il quale circoscrive l’apertura della liquidazione
giudiziale nei confronti dei soci illimitatamente responsabili a tre soli tipi societari: società in nome
collettivo, società in accomandita semplice e società per azioni.

In breve dall’art. 356 4° e 5° comma si può desumere il principio che chi è socio di una società a
responsabilità limitata risponde verso i terzi anche se la sua partecipazione alla società non è stata
esteriorizzata o anche se non è stata esteriorizzata l’esistenza stessa di una società.

Nella fattispecie, imprenditore occulto-imprenditore palese nessuna società esiste tra dominus e prestanome.
La situazione giuridica è quindi quantitativamente diversa da quella prevista dall’art. 256 4° e 5° comma CCI
e non può essere trattata allo stesso modo.

Ma l’azionista o gli azionisti di comando non sono in quanto tali chiamati dal legislatore a rispondere
personalmente dei debiti della società, e non posso essere chiamati a rispondere dall’interprete senza
sovvertire quello che è uno dei cardini dell’attuale sistema.

Non meno significativa è la disciplina dell’attività di direzione e coordinamento della società introdotta con
riforma organica del diritto societario del 2003. La responsabilità in questione non comporta mai la diretta
impugnazioni in capo alla capogruppo dei debiti delle controllate ma solo il sorgere di un’obbligazione
transitoria a carico di chi ha abusato del potere di direzione e coordinamento per il danno cagionato ai
creditori ed ai soci della società controllata.

Tutte queste regole vengono cancellate dalla teoria in esame quando afferma la responsabilità illimitata e
l’esposizione a liquidazione giudiziale. Di chi abusa ma anche di chi usa lo schermo societario.

In conclusione è vero che la spendita del nome non è il solo criterio di imputazione dei debiti di impresa ma
non è meno vero che tale imputazione è pur sempre retta da indici esclusivamente formali ed oggettivi.
Perciò il dominio di fatto non è condizione sufficiente per esporre a responsabilità e a liquidazione
giudiziale.

E a ben vedere questo regime è meno iniquo e pericoloso di quanto potrebbe sembrare a prima vista. È
altrettanto vero che con l’opposta soluzione tali creditori sarebbero avvantaggiati oltre i limiti della tutela
dell’affidamento poiché finirebbero col giovarsi di un patrimonio su cui non potevano fare affidamento
quando concessero credito al prestanome.

5. Una tecnica per reprimere gli abusi

Non meno significativa è la disciplina dell'attività di direzione e coordinamento dell’attività di società


introdotta con la riforma organica del diritto societario del 2003. Le nuove norme riconoscono infatti che le
società o gli enti che esercitano il potere di direzione e coordinamento su altre società possono incorrere in
responsabilità nei confronti dei soci e dei creditori di queste ultime. Tale responsabilità tuttavia sussiste solo
in caso di abuso del potere di controllo, vale a dire quando la controllante ha agito «nell'interesse
imprenditoriale proprio» e ciò determina il sorgere di un'obbligazione risarcitoria a carico di chi ha abusato
del potere di direzione e coordinamento per il danno cagionato ai creditori ed ai soci della società controllate.

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Perciò, la responsabilità non implica alcun superamento del criterio di imputazione formale degli atti
d'impresa, né dell'autonomia patrimoniale fra controllante e controllata.Tutte queste regole vengono
cancellate dalla teoria in esame quando afferma la responsabilità illimitata e l'esposizione al fallimento sia
del socio tiranno, che del socio sovrano. In conclusione, è vero che la spendita del nome non è il solo criterio
di imputazione dei debiti di impresa, ma non è meno vero che tale imputazione è pur sempre retta da indici
esclusivamente formali ed oggettivi. Perciò, il dominio di fatto non è condizione sufficiente per esporre a
responsabilità e fallimento; né, tanto meno, determina di per sé l'acquisto della qualità di imprenditore.È
vero, non chiamando a rispondere chi comanda dietro le quinte si danneggiano i creditori dell'imprenditore
palese ma è altrettanto vero che con l'opposta soluzione tali creditori sarebbero avvantaggiati oltre i limiti
della tutela dell'affidamento poiché finirebbero col giovarsi di un patrimonio (quello dell'imprenditore
indiretto) su cui non potevano fare affidamento quando concessero credito al prestanome. Tutto ciò, si badi, a
scapito dei creditori personali del dominus, che vedrebbero concorrere sul patrimonio del loro debitore anche
i creditori del prestanome (di cui ignoravano e non potevano conoscere l'esistenza), con evidente e altrettanto
ingiusta lesione del loro affida mento. E con conseguenze particolarmente gravi anche sul piano generale
dell'ordinato svolgimento della vita degli affari qualora, chi è «imprenditore indiretto» rispetto ad una data
impresa, è al tempo stesso «imprenditore palese» rispetto ad altra impresa. E creditori deboli da tutelare ve
ne possono essere da una parte e dall’altra.

Il dominio di fatto su un'impresa individuale o societaria, formalmente imputabile ad altro soggetto, non
implica di per sé responsabilità illimitata per i debiti di impresa. Se questo principio deve essere ribadito con
chiarezza di fronte alle suggestioni che tuttora esercita la teoria dell'imprenditore occulto, ciò non significa
che si debba rinunciare a reprimere i possibili abusi dello schermo societario. Altro è l'uso degli istituti Altro
è l’abuso. Vari rimedi legislativi sono stati introdotti con la riforma del diritto societario del 2003 e con la
riforma del diritto fallimentare del 2006 e diverse tecniche sono state inoltre proposte per affermare, in
applicazione e non in deroga ai criteri di imputazione previsti dall'ordinamento la responsabilità personale e
l'esposizione al fallimento di chi abusi della posizione di dominio su una società di capitali. É sufficiente
ricordare la tecnica prevalentemente seguita dalla giurisprudenza la quale ritiene che i comportamenti tipici
del socio tiranno possono integrare gli estremi di una autonoma attività di impresa: pertanto il socio o i soci
che hanno abusato dello schermo societario risponderanno come titolari di un'autonoma impresa
commerciale individuale o societaria (società di fatto), per le obbligazioni da loro contratte nello svolgimento
dell'attività fiancheggiatrice della società di capitali ed in quanto tali potranno fallire sempreché si accerti
l'insolvenza della loro impresa. Questa è una tecnica che tutela in modo pieno e diretto solo i creditori della
società di capitali che hanno titolo per agire anche contro il socio.

B. INIZIO E FINE DELL’IMPRESA

6. L’inizio dell’impresa

La qualità di imprenditore si acquista con l'effettivo inizio dell'esercizio dell'attività di impresa e questo è il
principio di effettività. Non è sufficiente l'intenzione di dare inizio all'attività, anche se esternata con la
richiesta delle eventuali autorizzazioni amministrative o con l'iscrizione in albi o registri. L'effettivo inizio fa
acquistare la qualità di imprenditore indipendentemente dalle intenzioni del soggetto agente ed anche se
l'attività è esercitata in violazione di norme amministrative abilitanti. L'iscrizione nel registro delle imprese
non è condizione né necessaria né sufficiente per l'attribuzione della qualità di imprenditore commerciale.
Che si diventi imprenditori con l'effettivo esercizio e solo con l'effettivo esercizio è principio pacifico per le
persone fisiche un diverso principio valga per le società.

Le società acquisterebbero la qualità di imprenditori fin dal momento della loro costituzione e, quindi, prima
ed indipendentemente dall'effettivo inizio dell'attività produttiva. È vero che lo scopo tipico di una società è
l'esercizio di attività di impresa. Può essere anche vero che per le società non sia necessario uno specifico
accertamento dei requisiti dell'organizzazione e della professionalità richiesti dall'art. 2082. É altrettanto vero
però che, la costituzione di una società non è che una dichiarazione programmatica e tale resta fin quando
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non si dia inizio alla fase attuativa perciò siccome l'art. 2082 ricollega l'acquisto della qualità di imprenditore
all'esercizio e non alla mera intenzione di esercitare attività di impresa allora è possibile dire che Il principio
dell'effettività deve trovare applicazione anche per le società.

Resta da definire quando si ha l'effettivo inizio dell'attività di impresa. È necessario distinguere a seconda
che il compimento di atti tipici di impresa sia o meno preceduto da una fase organizzativa oggettivamente
percepibile.

In mancanza di fase preparatoria, solo la ripetizione nel tempo di atti di impresa renderà certo che non si
tratta di atti occasionali, bensì di attività professionalmente esercitata.
Quando invece venga preventivamente creata una stabile organizzazione aziendale, sarà sufficiente per
affermare che l'attività è iniziata. Non è necessario che sia portato a compimento il primo ciclo operativo
affinché si possa dire che la stabile organizzazione stia esercitando attività
professionale. È invece controverso se l'inizio dell'impresa possa essere ulteriormente anticipato; se cioè si
possa diventare prenditori già durante la fase preliminare di organizzazione e prima del compimento del
primo atto di gestione. La risposta affermativa è preferibile. Non convince infatti la rigida contrapposizione
fra «atti di organizzazione», che avrebbero sempre carattere imprenditoriale, e «atti dell’organizzazione , che
segnerebbero l'inizio dell’impresa, e questo perché è difficile stabilire quando finisca la fase organizzativa e
quando inizi quella di esercizio. In definitiva, anche gli atti di organizzazione sono atti di impresa possono
essere equiparati agli atti di gestione non preceduti da una fase organizzativa, perciò gli
atti di organizzazione determineranno l'acquisto della qualità di imprenditore e l'esposizione al fallimento
quando, per il loro numero o per la loro significatività, manifestano in modo non equivoco lo stabile
orientamento dell'attività verso un certo fine produttivo. Nella concreta valutazione degli atti di
organizzazione come indici di professionalità acquista rilievo la distinzione fra persone fisiche e società:

Un singolo atto di organizzazione non sarà di regola sufficiente perché una persona fisica diventi
imprenditore.

Ed anche più atti potrebbero non bastare, se inespressivi.

Tuttavia la valutazione in fatto potrebbe essere diversa quando gli stessi atti vengono compiuti da una
società, poiché anche un solo atto di organizzazione imprenditoriale potrà essere sufficiente per affermare
che l'attività di impresa è iniziata. Si pensi, ad esempio, ad una società alberghiera che acquista un'area
fabbricabile.

7. La fine dell’impresa

Mentre per l’imprenditore individuale era pacifico che la qualità di imprenditore si perdesse solo con
l’effettiva cessazione dell’attività per le società il punto era invece assai controverso. In sostanza il dibattito
verteva ed era incessantemente alimentato dalla fitta casistica originata dall’applicazione della norma sul
fallimento dell’imprenditore che ha cessato l’attività (art. 10 l.fall.). Questa disposizione è stata riforma e
sostituita dall’art. 33 CCI.

La versione originaria dell’art. 10 l.fall. disponeva che l’imprenditore commerciale poteva essere dichiarato
fallito entro un anno dalla cessazione dell’impresa.

Orbene nessuno dubitava che la fase di liquidazione costituisse ancora esercizio dell’impresa e che perciò la
qualità di imprenditore si perdesse solo con la chiusura della liquidazione. Chiusura che momento si verifica
fino a quando vengono compiute operazioni intrinsecamente identiche a quelle normalmente poste in essere
durante l’esercizio dell’impresa.

Ma per l’imprenditore individuale la giurisprudenza riconosceva e riconosce correttamente che non è però
necessaria la completa definizione dei rapporti sorti durante l’esercizio dell’impresa.
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Ed invero se l’impresa dovesse ritenersi ancora in vita fin quando sopravvivono passività, non avrebbe senso
prevedere di un termine successivo alla cessazione dell’impresa per il fallimento o la liquidazione giudiziale
dell’imprenditore cessato: l’anno per l’apertura della procedura concorsuale comincerebbe a decorrere da
quando l’insolvenza in pratica non è più possibile.

Per oltre 50 anni le cose sonno andate invece nel modo diverso per le imprese societarie. Per queste ultime
chi riteneva che le società diventano imprenditori per effetto della sola costituzione, simmetricamente
affermava che esse perdessero tale qualità solo con la cancellazione dal registro delle imprese. Secondo
l’interpretazione giurisprudenziale, la cancellazione avrebbe presupposto non solo la disgregazione
dell’azienda ma anche l’ integrale pagamento delle passività.

L’esito di questo ragionamento era che, se si verificava che creditori ritardatari avanzassero pretese dopo la
cancellazione della società dal registro delle imprese, la giurisprudenza era irremovibile nell’ affermare che
una società doveva ritenersi ancora esistente ed esposta al fallimento.

L’art. 10 era così cancellato per le società. In ultimo la Consulta dichiarò l’incostituzionalità dell’articolo.

L’art. 33 CCI dispone ora che la liquidazione giudiziale può essere aperta entro un anno dalla cessazione
dell’attività se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo ma
precisa che la cessazione dell’attività coincide con la cancellazione del registro delle imprese oppure per gli
imprenditori non iscritti nel registro, si verifica dal momento in cui i terzi hanno conoscenza della cessazione
stessa.

Pertanto il sistema vigente può essere così ricostruito: se un imprenditore iscritto nel registro delle imprese
non si cancella, per lui il termine annuale non decorre: potrà perciò esserne sottoposto a liquidazione
giudiziale malgrado abbia di fatto cessato l’attività di impresa da oltre un anno. Se invece si cancella i
creditori ed il pubblico ministero sono tuttavia ammessi a provare che l’imprenditore ha proseguito l’attività
di impresa.

Per l’imprenditore non iscritto nel registro delle imprese il decorso del termine è subordinato ad un duplice
requisito: l’effettiva cessazione dell’attività di impresa e la conoscenza da parte dei terzi di tale evento.non è
ben chiaro di quali terzi si debba provare la conoscenza ma in ogni caso l’attuale dato normativo non sembra
ritenere sufficiente la mera diffusione della notizia della cessazione con mezzi idonei.

Altra novità del CCI è che la cancellazione dal registro delle imprese rende inammissibile la domanda di
concordato minore, concordato preventivo e di omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti. Perciò
l’imprenditore che si cancella prima di aver pagato i propri debiti di impresa vede precludersi la possibilità di
evitare la liquidazione giudiziale.

C. CAPACITÀ E IMPRESA

8. Incapacità e incompatibilità

La capacità all'esercizio di attività di impresa si acquista con la piena capacità di agire e quindi al
compimento del diciottesimo anno di eta. Si perde in seguito ad interdizione o inabilitazione, in quanto le
norme che regolano le relazioni giuridiche degli incapaci sono disposte a tutela degli stessi. L'esercizio di
attività di impresa in violazione di tali norme non fa perciò sorgere la qualità di imprenditore in testa
all'incapace ferma restando l'applicazione delle disposizioni che regolano la sorte dei singoli atti dallo stesso
compiuti. Così, il minore che ha con raggiri occultato la sua minore età non diventa imprenditore anche se i
contratti conclusi non sono annullabili (art. 1426).

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Non costituiscono limitazioni della capacità di agire, ma semplici incompatibilità, i divieti di esercizio di
impresa commerciale posti a carico di coloro che esercitano determinati uffici o professioni. La violazione di
tali divieti non preclude l'acquisto della qualità di imprenditore commerciale, ma espone solo a sanzioni
amministrative e ad un aggravamento delle sanzioni penali per bancarotta in caso di fallimento.

Non è causa di impedimento all’acquisto o riacquisto della qualità di imprenditore, l’inabilitazione


temporanea all'esercizio di attività commerciale che consegue alla condanna per bancarotta o per ricorso
abusivo al credito in caso di fallimento.

È possibile l'esercizio di attività di impresa per conto e nell'interesse di un incapace (minore e interdetto) o da
parte di soggetti limitatamente capaci di agire (inabilitato, minore emancipato e beneficiario di
amministrazione di sostegno).

Il codice non prevede regole particolari per l'attività agricola, sicché troveranno applicazione le norme di
diritto comune che regolano il compimento di atti giuridici da parte degli incapaci e infatti non è necessario
che il genitore sia preventivamente autorizzato dal tribunale affinché il minore consegua la qualifica di
imprenditore agricolo, contrariamente invece per l’attività commerciale (art 320 cc). Infatti una specifica
disciplina è invece prevista per l'attività commerciale e che può essere colta nelle sue peculiarità attraverso
un raffronto con la disciplina generale in tema di amministrazione del patrimonio degli incapaci.
L'amministrazione del patrimonio degli incapaci è regolata in modo da garantirne la conservazione e
l'integrità impedendo che lo stesso venga impiegato in operazioni aleatorie(di cui non si conosce o il
guadagno o la perdita) o di pura sorte. Perciò, il rappresentante legale del minore o dell'interdetto è
legittimato a compiere solo gli atti di ordinaria amministrazione, mentre quelli di straordinaria
amministrazione possono essere compiuti solo in caso di necessità o di utilità evidente, accertata dall'autorità
giudiziaria.

L'attività commerciale è per sua natura attività non conservativa del patrimonio e soprattutto è attività
rischiosa, perciò il legislatore considera con sfavore l'impiego del patrimonio degli incapaci in attività
commerciali e in tale prospettiva pone un divieto assoluto di inizio di impresa commerciale per il minore,
l'interdetto e l'inabilitato. Salvo che per il minore emancipato, è pertanto consentita solo continuazione
dell'esercizio di una impresa commerciale preesistente, quando ciò sia utile per l'incapace e purché la
continuazione sia autorizzata dal tribunale. In presenza di un'impresa già operante (minore che eredita
l'azienda paterna) è più agevole valutare i rischi cui l'incapace è esposto e, d'altro canto, la cessazione
dell'attività e la conseguente vendita o affitto dell'azienda potrebbero rappresentare un sicuro e grave danno
per l'incapace stesso. L'esercizio di impresa commerciale, richiede scioltezza e rapidità di decisioni, che sono
inconciliabili sia con la distinzione fra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, sia col sistema di
autorizzazione atto per atto su cui si fonda la pura amministrazione conservativa del patrimonio degli
incapaci. Ciò spiega perché l'autorizzazione del tribunale all'esercizio di impresa commerciale ha carattere
generale e comporta un sensibile ampliamento dei poteri del rappresentante legale dell'incapace o del
limitatamente capace.

In nessun caso è consentito l'inizio di una nuova impresa commerciale in nome e nell'interesse del minore.
Quando questi acquista (per successione ereditaria o per donazione) una preesistente azienda commerciale, il
rappresentante legale (genitore o genitori esercenti la potestà familiare, ovvero il tutore) può essere
autorizzato dal tribunale a continuare l'esercizio dell'impresa, sia pure con procedure e cautele diverse a
seconda che il minore sia sottoposto a potestà familiare o a tutela e per evitare l'interruzione sia pure
temporanea dell'attività, il giudice tutelare può consentire l'esercizio provvisorio dell'impresa fin quando il
tribunale non abbia autorizzato la continuazione. Intervenuta l'autorizzazione definitiva, il genitore o il tutore
è legittimato a compiere tutti gli atti che rientrano nell'esercizio dell'impresa, e la richiesta di specifica
autorizzazione sarà necessaria solo per quegli atti che non sono in rapporto di mezzo a fine per la gestione
dell'impresa (ad esempio, vendita dell'immobile in cui ha sede l'impresa).

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Per l'interdetto valgono regole identiche a quelle dettate per il minore sottoposto a tutela (art. 424) e
l'autorizzazione alla continuazione può riguardare anche l'impresa iniziata dallo stesso interdetto prima
dell'interdizione.

L'inabilitato è un soggetto la cui capacità di agire è limitata agli atti di ordinaria amministrazione. La sua
posizione è tuttavia parificata a quella degli incapaci assoluti per quanto concerne l'esercizio di impresa
commerciale: è possibile solo la continuazione di un'impresa preesistente, non l'inizio ex novo. Intervenuta
l'autorizzazione alla continuazione, l'inabilitato eserciterà personalmente l'impresa, sia pure con l'assistenza
del curatore e con il consenso di questi per gli atti di impresa che eccedono l'ordinaria amministrazione. Il
tribunale può tuttavia subordinare l'autorizzazione alla nomina di un institore (direttore generale); nomina
che sarà fatta dallo stesso inabilitato col consenso del curatore e in tal caso trova applicazione la disciplina
generale della rappresentanza institoria. Diversamente che per gli altri incapaci, il minore emancipato può
essere autorizzato dal tribunale anche ad iniziare una nuova impresa commerciale e in tal caso acquista la
piena capacità di agire. Può esercitare l'impresa senza l'assistenza del curatore e può compiere da solo gli atti
che eccedono l'ordinaria amministrazione anche se estranei all'esercizio dell’impresa. Tale disciplina ha però
perso gran parte del suo rilievo pratico con la fissazione della maggiore età al compimento del diciottesimo
anno.

Il beneficiario dell'amministrazione di sostegno conserva invece capacità di agire per tutti gli atti che non
richiedono la rappresentanza esclusiva o l'assistenza dell'amministratore di sostegno. Egli potrà liberamente
iniziare o proseguire un'attività d'impresa senza assistenza, salvo che il giudice tutelare disponga
diversamente.

I provvedimenti autorizzativi del tribunale e i provvedimenti di revoca dell'autorizzazione sono soggetti ad


iscrizione nel registro delle imprese. L'esercizio autorizzato dell'impresa determina l'acquisto della qualità di
imprenditore commerciale da parte dell'incapace. Acquistano tale qualità l'inabilitato ed il minore
emancipato in quanto l'impresa è da loro personalmente esercitata, sia pure con l'assistenza del curatore per
l'inabilitato. L'acquistano altresì il minore e l'interdetto in quanto tutti gli atti di impresa sono compiuti in
loro nome dal rappresentante legale. L'incapace resta perciò esposto a tutte le conseguenze che derivano
dalla titolarità di un'impresa commerciale, ed è fuori dubbio che sull'incapace ricadranno gli effetti
patrimoniali del fallimento. Il fallimento del minore (e dell'interdetto) solleva tuttavia delicati problemi di
giustizia sostanziale per quanto concerne l'applicazione delle norme fallimentari, poiché è iniquo far ricadere
tali effetti sul minore, perciò è possibile evitare che le sanzioni penali colpiscano il minore fallito e nel
contempo far ricadere le stesse sul rappresentante legale. Infatti, al minore imprenditore non possono essere
imputati reati da altri commessi e che egli non poteva impedire. D'altro canto, nei confronti del genitore o del
tutore è applica bile l'art. 227 1. fall, e ciò soprattutto se si dà rilievo non al nomen (institore) bensì alla
posizione nell'impresa e al potere di rappresentanza generale. È più arduo sottrarre il minore fallito alle
incapacità personali (ad esempio, esclusione dalla professione di avvocato, di dottore commercialista, di
notaio, ecc.). Ciò in quanto tali incapacità conseguono automaticamente dalla dichiarazione di fallimento, e
solo il minore in quanto imprenditore commerciale può essere dichiarato fallito.

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CAPITOLO QUARTO
LO STATUTO DELL’IMPRENDITORE COMMERCIALE

1. Premessa

L'imprenditore commerciale è destinatario di una peculiare disciplina dell'attività, in parte comune agli altri
imprenditori (c.d. statuto generale dell'imprenditore), in parte propria e specifica (c.d. statuto speciale
dell'imprenditore commerciale). È anche vero poi che alcuni tipi di imprese commerciali sono destinatarie di
un’ulteriore normativa settoriale la quale è una disciplina che ha carattere pubblicistico finalizzata alla tutela
degli interessi generali della collettività direttamente toccati da tali attività. Tale disciplina si concretizza in
precetti che incidono sull’organizzazione e sulle modalità di esercizio dell'attività. Esempi tipici di imprese
commerciali a statuto settoriale sono: le imprese bancarie; le imprese assicurative; le imprese editoriali.

A. LA PUBBLICITÀ LEGALE

2. La pubblicità delle imprese commerciali

Gli imprenditori avvertono da sempre la necessità di poter disporre con facilità di informazioni veritiere e
non contestabili su fatti e situazioni delle imprese con cui entrano in contatto. La necessità, cioè, di ricevere
informazioni di carattere organizzativo, rilevanti per il sicuro svolgimento delle relazioni di affari ed idonee
a conferire certezza alle contrattazioni evitando il successivo instaurarsi di liti giudiziarie. Per le imprese
commerciali (nonché oggi anche per le imprese agricole) e, più in generale, per le imprese a struttura
societaria, questa esigenza è soddisfatta dallo stesso legislatore con l'introduzione di un sistema di pubblicità
legale. È cioè previsto l'obbligo di rendere di pubblico dominio determinati atti o fatti della vita dell'impresa,
in modo che quelle informazioni legislativamente ritenute rilevanti non solo sono rese accessibili ai terzi
interessati (pubblicità notizia), ma producono l'effetto tipico proprio di ogni forma di pubblicità legale:
l'opponibilità a chiunque degli atti o dei fatti così resi conoscibili (c.d. conoscibilità legale).

Il registro delle imprese è lo strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali non piccole e delle
società commerciali previsto dal codice civile del 1942, ma per anni questo istituto non è stato applicato.
Durante i lunghi anni dell'attesa ha tuttavia trovato applicazione il regime transitorio previsto dagli artt. 100,
101 e 108 disp. att. cod. civ; Regime imperniato sull'iscrizione nei preesistenti registri di cancelleria presso il
tribunale e, soprattutto, caratterizzato dall'esonero temporaneo dall'iscrizione, degli imprenditori commerciali
individuali e degli enti pubblici economici, sicché un sistema di pubblicità legale (sostitutivo del registro
delle imprese) operava solo per le società commerciali e per i consorzi con attività esterna. La situazione si
era complicata per l'introduzione di nuove ed ulteriori forme di pubblicità per le società di capitali e le
società cooperative. Per le prime(società di capitali) fu prevista nel 1969 la pubblicazione nel Bollettino
ufficiale delle società per azioni e a responsabilità limitata (Busarl), in aggiunta all iscrizione nel registro
delle imprese (cancelleria del tribunale), Per le seconde(società cooperative) fu introdotta nel 1973 la
pubblicazione nel

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Bollettino ufficiale delle società cooperative e dei consorzi di cooperative (Busc), sempre in aggiunta
all'iscrizione nel registro delle imprese. Ulteriori adempimenti pubblicitari, con valore di pubblicità-notizia,
erano previsti da leggi speciali, quale l'iscrizione nel Registro delle ditte, disposta a carico di chiunque
esercitava l'industria, il commercio o l'agricoltura e quindi anche per i piccoli imprenditori e per le imprese
agricole. Ne risultava perciò un sistema di pubblicità disorganico ma la situazione finalmente si sblocca con
la legge 29-12-1993, n. 580, contenente norme per il riordino delle camere di commercio. L'art. 8 ha
finalmente istituito il registro delle imprese, che è divenuto pienamente operante agli inizi del 1997, con
conseguente cessazione e soppressione del Registro delle ditte, del Busarl e del Busc (art. 29, legge
266/1997), sicché anche per le società di capitali e cooperative l'unico strumento di pubblicità legale è oggi
costituito dal registro delle imprese

Il registro delle imprese ha introdotto alcune significative novità


a) L'attuale registro delle imprese non è più, solo strumento di pubblicità legale delle imprese
commerciali, ma è anche strumento di informazione sui dati organizzativi di tutte le altre imprese.
l'iscrizione nel registro delle imprese è stata estesa agli imprenditori agricoli, ai piccoli imprenditori
ed alle società semplici, dapprima con effetti di sola pubblicità-notizia ma oggi anche con effetti di
pubblicità legale per gli imprenditori agricoli. È stata estesa alle società tra avvocati ed alle altre
società tra professionisti
b) La tenuta del registro delle imprese è affidata alle camere di commercio
c) Il registro delle imprese è tenuto con tecniche informatiche (e non più in forma cartacea), in modo da
assicurare completezza ed organicità della pubblicità.Il registro delle imprese è pubblico.

3. Il registro delle imprese

L'ufficio del registro delle imprese è istituito in ciascuna provincia presso le camere di commercio ed è retto
da un conservatore nominato dalla giunta. L'attività dell'ufficio è svolta sotto la vigilanza di un giudice
delegato dal presidente del tribunale del capoluogo di provincia.

Il registro è attualmente articolato in una sezione ordinaria e in sezioni speciali. Nella sezione ordinaria sono
iscritti gli imprenditori per i quali l'iscrizione nel registro delle imprese era originariamente prevista dal
codice civile che peraltro non coincide puntualmente con quella degli imprenditori commerciali. Sono tenuti
all'iscrizione nella sezione ordinaria:
a) gli imprenditori individuali commerciali non piccoli
b) tutte le società tranne la società semplice, anche se non svolgono attività commerciale
c) i consorzi fra imprenditori con attività esterna
d) i gruppi europei di interesse economico con sede in Italia
e) gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un'attività commerciale
f) le società estere che hanno in Italia la sede dell'amministrazione ovvero l'oggetto principale della
loro attività
g) le reti di imprese dotate di soggettività giuridica

Oltre alla sezione ordinaria, il registro delle imprese presenta varie sezioni speciali, il cui numero è andato
via via crescendo in base alle previsioni di leggi speciali:
sezione speciale degli imprenditori agricoli e dei piccoli imprenditori: in questa sezione sono iscritti gli
imprenditori, ovvero gli imprenditori agricoli individuali, i piccoli imprenditori e le società semplici, che
secondo il codice civile ne erano esonerati e per i quali l’iscrizione, aveva solo funzione di pubblicità notizia.

Nella stessa sezione speciale sono poi annotati gli imprenditori artigiani, già iscritti nel relativo albo, tuttavia
si deve affermare che gli artigiani non qualificabili come piccoli imprenditori sono tenuti anche all'iscrizione
nella sezione ordinaria come imprenditori commerciali.
1) sezione speciale delle società tra professionisti: Si iscrivono le società tra avvocati e le altre società
tra professionisti con efficacia di pubblicità-notizia

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2) sezione speciale dei soggetti che esercitano attività di direzione coordinamento: è la sezione dedicata
alla pubblicità dei legami di gruppo. Vi si indicano le società o gli enti che esercitano attività di
direzione e coordinamento e quelle che vi sono soggette
3) sezione speciale delle imprese sociali
4) sezione speciale degli atti di società di capitali in lingua straniere: in questa sezione le società di
capitali possono pubblicare la traduzione giurata in una lingua ufficiale delle Comunità europee di
atti per i quali è obbligatoria l'iscrizione o il deposit. La pubblicazione in lingua straniera può essere
effettuata al fine di facilitare l'accesso alle informazioni da parte di creditori ed investitori esteri, ma
è facoltativa. In caso di discordanza fra l'atto in lingua italiana e la traduzione, il terzo può però
avvalersi della versione straniera sulla quale abbia fatto affidamento, salvo che la società dimostri
che lo stesso era a conoscenza della versione in lingua italiana;
5) sezione speciale delle start-up innovative e degli incubatori certificati: in questa sezione si iscrivono
le società qualificabili come start-up innovative, sono tali le società di capitali e cooperative
costituite da non più di quattro anni (c.d. fase di start-up), aventi ad oggetto lo sviluppo, la
produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico.
L’iscrizione nella sezione speciale è condizione per poter accedere alla speciale disciplina di favore
di carattere civilistico, tributario e laburistico. Allo stesso scopo, si iscrivono nella sezione le società
che offrono servizi per sostenere la nascita e lo sviluppo di start- up innovative (c.d. incubatori
certificati).

I fatti e gli atti da registrare sono specificati da una serie di norme e sono diversi a seconda della struttura
soggettiva dell’impresa

Sono poi soggette a registrazione tutte le modificazioni di elementi già iscritti.

Non è invece consentita l'iscrizione di atti non previsti dalla legge (principio di tipicità delle iscrizioni).

Le iscrizioni devono essere fatte nel registro delle imprese della provincia in cui l'impresa ha la sede e
l'iscrizione è eseguita su domanda dell'interessato ma può avvenire anche di ufficio se l'iscrizione è
obbligatoria e l'interessato non vi provvede e di ufficio può anche essere disposta la cancellazione di
un'iscrizione avvenuta senza che esistano le condizioni richieste dalla legge. D'ufficio può essere inoltre
disposta la cancellazione dell'impresa che ha cessato l'attività, quando l'imprenditore non vi provveda. Alla
cancellazione d'ufficio si perviene quando l'ufficio del registro rileva talune circostanze determinate dalla
legge, sintomatiche della definitiva assenza di vitalità dell’impresa.

In ogni caso, prima di procedere all'iscrizione, l'ufficio del registro deve controllare che il fatto o l'atto è
soggetto a iscrizione e che la documentazione è formalmente regolare, nonché l'esistenza e la veridicità
dell'atto o del fatto (legalità formale). È invece da escludersi, che il controllo possa investire anche la validità
dell'atto (legalità sostanziale) e, quindi, che l'ufficio possa rilevare eventuali cause di nullità dello stesso.
L'iscrizione è eseguita entro dieci giorni dalla data di protocollazione della domanda, mediante inserimento
dei dati nella memoria dell'elaboratore elettronico.

Contro il provvedimento motivato di rifiuto dell'iscrizione, il richiedente può ricorrere entro otto giorni al
giudice del registro, contro il decreto del giudice del registro può essere proposto ricorso al tribunale.

L’inosservanza dell'obbligo di registrazione è punita con sanzioni amministrative pecuniarie e con sanzioni
indirette.

Per quanto riguarda gli effetti dell'iscrizione, è necessario distinguere fra l'iscrizione nella sezione ordinaria e
quella nelle sezioni speciali.

L'iscrizione nella sezione ordinaria ha sempre funzione di pubblicità legale, serve cioè non solo a rendere
conoscibili i dati pubblicati, ma ha anche, a seconda dei casi, efficacia dichiarativa, costitutiva o normativa,
Di regola, l’iscrizione ha efficacia semplicemente dichiarativa. I fatti e gli atti soggetti ad iscrizione ed
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iscritti sono opponibili a chiunque e lo sono dal momento stesso della loro registrazione (c.d. efficacia
positiva immediata). Intervenuta la registrazione, i terzi non potranno eccepire l'ignoranza del fatto o dell'atto
iscritto.
L'omessa iscrizione invece impedisce che il fatto possa essere opposto ai terzi
(c.d. efficacia negativa). L'imprenditore che ha omesso la registrazione non è tuttavia senza difesa in quanto
gli è consentito di provare che i terzi hanno avuto ugualmente conoscenza effettiva del fatto o dell’atto.

L’iscrizione, in taluni casi, è anche presupposto perché l'atto sia produttivo di effetti, sia fra le parti che per i
terzi (efficacia costitutiva totale), ovvero solo nei confronti dei terzi (efficacia costitutiva parziale). Ha
efficacia costitutiva totale l'iscrizione nel registro delle imprese dell'atto costitutivo delle società di capitali e
delle società cooperative. Prima della registrazione, la società per azioni non esiste giuridicamente come tale
né per gli aspiranti soci né per i terzi. E lo stesso vale per le altre società di capitali e per le cooperative. Ha
efficacia costitutiva parziale la registrazione della liberazione di riduzione reale del capitale sociale di una
società in nome collettivo. L'omissione impedisce il decorso del termine di tre mesi entro il quale i creditori
possono proporre opposizione e perciò riduzione del capitale, è per loro improduttiva di effetti.

In altri casi, infine, l'iscrizione nella sezione ordinaria è presupposto per la piena applicazione di un
determinato regime giuridico(efficacia normativa). È questo il caso della società in nome collettivo e della
società in accomandita semplice. Tali società vengono ad esistenza anche se non registrate, ma la mancata
registrazione impedisce che operi il regime di autonomia patrimoniale proprio di tali società e comporta
l'applicazione del più gravoso. La società in tal caso si definisce irregolare.

L'iscrizione nelle sezioni speciali del registro non produce invece, alcuno degli effetti fin qui esposti in
quanto, ha solo funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia. L'iscrizione consente perciò di
prendere conoscenza dell'atto o del fatto iscritto, ma non lo rende di per sé opponibile ai terzi dovendosi a tal
fine sempre provare l'effettiva conoscenza.Questa disciplina è stata però di recente modificata per gli
imprenditori agricoli anche piccoli e per le società semplici esercenti attività agricola. Per tali categorie di
imprenditori l'iscrizione nella sezione speciale ha anche efficacia di pubblicità legale. La normativa di
attuazione del registro delle imprese del 1993 aveva lasciato inalterata:
a) la specifica disciplina della pubblicità delle società di capitali che prevedeva per una serie di atti la
pubblicazione nel Busarl (Bollettino ufficiale delle società per azioni e a responsabilità limitata) in
aggiunta all'iscrizione nel registro delle imprese e che faceva inoltre decorrere gli effetti della (sola)
pubblicità dichiarativa non dall'iscrizione nel registro delle imprese ma dalla successiva
pubblicazione nel Busarl
b) La specifica disciplina della pubblicità delle società cooperative che prevedeva per una serie di atti la
pubblicazione nel Busc (Bollettino ufficiale delle società cooperative e dei consorzi di cooperative),
sempre in aggiunta all'iscrizione nel registro delle imprese, ma con semplici effetti di pubblicità
notizia.

L’informatizzazione del registro delle imprese e l'avvio della tenuta con tecniche informatiche anche del
Busarl e del Busc avevano però finito col rendere inutile la sopravvivenza di questi ultimi, dato che la stessa
memoria elettronica valeva come registro delle imprese e come bollettino, Perciò il duplice regime di
pubblicità è stato soppresso con l'eliminazione del Busarl e del Busc. Ne consegue che anche per le società di
capitali e per le società cooperative, lo strumento di pubblicità legale torna ad essere solo il registro delle
imprese.

Restano tuttavia due differenze:


A) Mentre in base alla disciplina generale del registro delle imprese speciali gli atti iscritti sono
immediatamente opponibili ai terzi senza possibilità per questi ultimi di eccepire l'ignoranza degli
stessi per le sole società di capitali l'opponibilità diventa piena solo decorsi quindici giorni
dall'iscrizione nel registro delle imprese. In questo periodo i terzi sono ammessi a provare di essere
stati nell'impossibilità di avere conoscenza dell’atto.
B) Restano ferme le disposizioni che per alcuni atti delle società di capitali e/o delle società cooperative
prevedono la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale anziché nel registro delle imprese
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B. LE SCRITTURE CONTABILI

4. L’obbligo di tenuta delle scritture contabili

La vita delle imprese è vita dinamica: impone scelte e valutazioni economiche; si sviluppa attraverso una
serie continua di atti di scambio. La programmazione consapevole e razionale dell'attività di impresa
presuppone perciò una costante informazione ed un costante controllo sull'andamento degli affari;
informazione e controllo che sono facilitati dall'impianto di un ordinato sistema di rilevazione contabile dei
fatti aziendali. È altresì regola di condotta delle imprese accertare periodicamente la consistenza quantitativa
e monetaria del patrimonio nonché i costi sopportati e i ricavi realizzati nel medesimo periodo al fine di
verificare se e quale sia l'utile conseguito o la perdita subita.

Le scritture contabili sono appunto i documenti che contengono la rappresentazione dei singoli atti di
impresa.

Le scritture contabili contribuiscono a rendere razionale ed efficiente l'organizzazione e la gestione


dell'impresa e perciò sono di regola spontaneamente tenute da qualsiasi imprenditore. La tenuta delle
scritture contabili è elevata ad obbligo ed è legislativamente disciplinata per gli imprenditori che esercitano
attività commerciale.

Non vi è tuttavia perfetta coincidenza fra i soggetti obbligati a tenere Ie scritture contabili secondo il codice
civile e la categoria degli imprenditori commerciali.

La disciplina delle scritture contabili prevista dal codice civile non si applica ai piccoli imprenditori.

Le società commerciali devono ritenersi obbligate alla tenuta delle scritture contabili anche se non esercitano
attività commerciale. L'obbligo di tenere le scritture contabili è infine espressamente previsto per le
organizzazioni che assumono la qualifica di "impresa sociale” indipendentemente dalla natura. Il problema
più delicato è stato quello di fissare quali scritture debbano essere obbligatoriamente tenute e la soluzione
non è univoca: le scritture necessarie variano a seconda del tipo di attività, delle dimensioni e
dell'articolazione territoriale dell'impresa. Il legislatore ha optato per una soluzione di tipo misto fissata
dall'art. 2214. La norma pone il principio generale che l'imprenditore deve tenere tutte le scritture contabili
che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell'impresa». In ogni caso devono essere tenuti
determinati libri contabili: il libro giornale e il libro degli inventari e devono essere ordinatamente
conservati, per ciascun affare, gli originali della corrispondenza commerciale(lettere fatture telegrammi).

Il libro giornale è un registro cronologico-analitico. In esso devono essere indicate «giorno per giorno le
operazioni relative all'esercizio dell’impresa. Basta che le operazioni siano registrate nell'ordine in cui sono
compiute e non necessariamente il giorno stesso del loro compimento. Non è altresì necessario registrare
separatamente ciascuna operazione, purché le singole registrazioni riguardino operazioni omogenee
compiute nella giornata (ad esempio, si può registrare l'importo complessivo delle merci vendute in un
giorno). Il libro giornale può essere anche articolato in libri parziali in relazione alle articolazioni
dell'impresa.

Il libro degli inventari è invece un registro periodico-sistematico. Deve essere redatto all'inizio dell'esercizio
dell'impresa e successivamente ogni anno. L'inventario ha la funzione di fornire il quadro della situazione
patrimoniale dell'imprenditore. Deve perciò contenere l'indicazione e la valutazione delle attività e delle
passività dell'imprenditore, anche estranee all’impresa. L'inventario si chiude «con il bilancio e con il conto
del profitti e delle perdite.

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Il bilancio è un prospetto contabile riassuntivo dal quale devono risultare «con evidenza e verità» la
situazione complessiva del patrimonio. Il rispetto del principio generale sopra enunciato, ovvero il principio
di obbligo di redazione del bilancio, imporrà poi la tenuta di tutte le altre scritture contabili richieste dalla
natura e dalle dimensioni dell’impresa, ad esempio: libro mastro, nel quale le singole operazioni sono
registrate non cronologicamente ma sistematicamente, libro cassa, che contiene le entrate e le uscite di
danaro; libro magazzino, che registra le entrate e le uscite di merci. L’imprenditore oltre ai libri contabili
obbligatori dovrà.

Tenere anche le scritture contabili previste dalla legislazione tributaria e lavoristica mentre altre imprese
commerciali ad esempio le assicurazioni dovranno tenere altri libri previsti dalla legislazione speciale. La
scelta delle altre scritture da tenere è peraltro rimessa alla discrezionalità dell’imprenditore e tale principio è
largamente disatteso e soprattutto in sede fallimentare spesso si chiude un occhio dato che il precetto
legislativo si ritiene sempre e comunque soddisfatto purché siano state tenute le scritture obbligatorie
specificamente indicate (libro giornale, libro degli inventari, corrispondenza commerciale). Per garantire la
veridicità delle scritture contabili è imposta l'osservanza di determinate regole formali e sostanziali nella loro
tenuta. Le regole formali sono state ridotte e l'attuale disciplina prevede che il libro giornale e il libro degli
inventari devono essere solo numerati progressivamente in ogni pagina prima di essere messi in uso, tutte le
scritture contabili devono essere poi tenute secondo le norme di una ordinata contabilità e senza spazi in
bianco senza abrasioni ed in modo che le parole cancellate restino leggibili (formalità intrinseche).

È oggi consentito formare e conservare scritture contabili esclusivamente con sistemi informatici, purché le
registrazioni possano in ogni momento essere rese consultabili con mezzi messi a disposizione
dall'imprenditore. L'inosservanza delle formalità prescritte dalla legge rende le scritture irregolari e quindi
giuridicamente irrilevanti. Le scritture contabili e la corrispondenza commerciale devono essere conservate
per dieci anni (art. 2220). Le scritture contabili non sono di regola soggette ad alcuna forma di controllo
esterno, volto ad accertare la regolarità della tenuta e la verità dei fatti documentati, ma questa è una regola
che subisce significative eccezioni a tutela degli interessi esterni all’impresa e infatti la contabilità delle
società con azioni quotate in borsa è sottoposta al controllo esterno di apposite società di revisione. A partire
dal 2003 anche le società per azioni non quotate devono sottoporre la contabilità al controllo esterno di un
revisore o di una società di revisione. Tale forma di controllo è stata successivamente estesa a numerose altre
imprese.

L’obbligo di tenuta delle scritture contabili è assistito da sanzioni eventuali ed indirette. L'imprenditore che
non tiene regolarmente le scritture contabili non può utilizzarle come mezzo di prova a suo favore ed è
inoltre assoggettato alle sanzioni penali per i reati di bancarotta semplice o fraudolenta in caso di fallimento.
La regolare tenuta della contabilità non è più però requisito per l'ammissione al concordato preventivo.

Le scritture contabili sono destinate a restare nella sfera interna dell’imprenditore ma ci sono talune
eccezioni.

Il bilancio delle società di capitali e delle società cooperative deve essere reso pubblico mediante deposito
presso l'ufficio del registro delle imprese. Nelle imprese soggette a controllo pubblico il diritto al segreto non
sussiste nei confronti dell'organo pubblico preposto alla vigilanza. nelle società con azioni quotate, il diritto
al segreto non esiste nei confronti della Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), che ha
altresì il potere di imporre la pubblicazione di dati e notizie necessari per l'informazione del pubblico.

Il diritto al segreto contabile cede di fronte alle esigenze conoscitive della pubblica amministrazione,
finalizzate ad accertamenti di carattere tributario o alla repressione di reati anche di natura economica.

L'ipotesi più significativa di rilevanza esterna delle scritture contabili si ha sul piano processuale, potendo le
stesse essere utilizzate come mezzo di prova sia a favore, sia contro l’imprenditore. Le scritture contabili
possono sempre essere utilizzate dai terzi come mezzo processuale di prova contro l'imprenditore che le
tiene.

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Il terzo che vuol trarre vantaggio dalle scritture contabili di un imprenditore non può però scinderne il
contenuto; non può cioè avvalersi solo della parte a lui favorevole (art. 2709). L'imprenditore potrà inoltre
dimostrare con qualsiasi mezzo che le scritture non rispondono a verità.

Più rigorose sono invece le condizioni previste perché l’imprenditore possa utilizzare le proprie scritture
contabili come mezzo di prova contro i terzi e infatti a tal fine è necessario che ricorrano tre condizioni:

Si deve trattare di scritture regolarmente tenute, è necessario che la controparte sia a sua volta un
imprenditore e che la controversia sia relativa a rapporti inerenti all'esercizio dell'impresa. È rimesso
all'apprezzamento del giudice riconoscere valore probatorio alle scritture contabili. Quanto ai modi di
acquisizione nel processo delle scritture contabili, la regola è che il giudice può chiedere solo l'esibizione di
singole scritture contabili, ovvero di tutti i libri ma solo per estrarne le registrazioni concernenti la
controversia in esame tuttavia, in tre casi tassativi il giudice può ordinare la comunicazione alla controparte
di tutte le scritture contabili: controversie relative allo scioglimento della società, alla comunione dei beni e
alla successione per causa di morte.

C. LA RAPPRESENTANZA COMMERCIALE

5. Ausiliari dell’imprenditore commerciale e rappresentanza

Nello svolgimento della propria attività l'imprenditore può avvalersi e si avvale della collaborazione di altri
soggetti ovvero di soggetti stabilmente inseriti nella propria organizzazione aziendale per effetto di un
rapporto di lavoro subordinato che li lega all'imprenditore (ausiliari interni o subordinati), oppure di soggetti
esterni all'organizzazione imprenditoriale che collaborano con l'imprenditore, in modo occasionale o stabile
(ausiliari esterni o autonomi). In entrambi i casi la collaborazione può riguardare anche la conclusione di
affari con terzi in nome e per conto dell'imprenditore: l'agire in rappresentanza dell'imprenditore.

Il fenomeno della rappresentanza è regolato in via generale dagli artt. 1387 ss. del codice civile tuttavia è
regolato da norme speciali, quando si tratti di atti inerenti all'esercizio di impresa commerciale posti in essere
da alcune figure tipiche di ausiliari interni: institori, procuratori e commessi.

Le peculiarità di tale normativa (rappresentanza commerciale) si colgono con chiarezza dal raffronto col
sistema di diritto comune.

Il conferimento ad altro soggetto dell'incarico di compiere uno o più atti giuridici relativi alla propria sfera
patrimoniale non abilita di per sé l'incaricato ad agire in nome dell'interessato, con conseguente imputazione
diretta degli effetti degli atti posti in essere. A tal fine è necessario l'espresso conferimento del potere di
rappresentanza (rappresentanza volontaria), con specifica dichiarazione di volontà: la procura. Il potere di
rappresentanza sussiste nei limiti fissati dalla procura e presuppone che questa sia conferita con le forme
prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere. Il terzo è tenuto perciò ad accertare
esistenza, contenuto e regolarità formale della procura, esigendo che il rappresentante giustifichi i suoi poteri
in quanto è sul terzo contraente che ricade il rischio della mancanza o del difetto di potere rappresentativo
della controparte. Il contratto concluso dal falsus procurator è infatti improduttivo di effetti ed il terzo non
potrà vantare alcun diritto nei confronti del preteso rappresentato. L'art. 1398 gli riconosce solo la possibilità
di chiedere al falsus procurator il risarcimento del danno che ha sofferto per avere confidato senza sua colpa
nella validità del contratto.

Queste sono regole che trovano applicazione anche quando si tratti di atti compiuti
per un imprenditore commerciale da parte di collaboratori esterni alla sua organizzazione, anche se stabili.

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Queste regole cedono invece il passo ad altre, quando si è in presenza di determinate figure tipiche di
ausiliari interni che sono destinati ad entrare stabilmente in contatto con i terzi ed a concludere affari per
l’imprenditore.

Vige al riguardo un sistema speciale di rappresentanza fissato dagli artt. 2203-2213, i cui principi ispiratori
possono essere così fissati.

Per la posizione rivestita nell'organizzazione aziendale, institori, procuratori e commessi sono


automaticamente investiti del potere di rappresentanza dell'imprenditore e di un potere di rappresentanza ex
lege commisurato al tipo di mansioni che la qualifica comporta. Il loro potere di vincolare direttamente
l'imprenditore costituisce effetto naturale di quella determinata collocazione nell'impresa ad opera
dell'imprenditore. Questi, potrà modificare il contenuto legale tipico del potere di rappresentanza di tali
ausiliari, ma in tal caso sarà necessario uno specifico atto. Sono questi principi comuni alle tre figure di
ausiliari che si differenziano però fra loro per la diversa posizione funzionale nell'impresa e quindi per la
diversa ampiezza del rispettivo potere rappresentativo. E sono principi che facilitano le contrattazioni di
impresa in quanto ridimensionano i pericoli cui è di regola esposto chi contratta con l'altrui rappresentante.
Chi conclude affari con uno di tali ausiliari dell'imprenditore commerciale dovrà solo verificare se
l'imprenditore ha modificato i loro naturali poteri rappresentativi e non dovrà invece verificare se la
rappresentanza è stata loro conferita.

6. L’institore

È institore colui che è preposto dal titolare all'esercizio dell'impresa, o di una sede secondaria o di un ramo
particolare della stessa, art 2203.

È, nel linguaggio comune, il direttore generale dell'impresa o di una filiale o di un settore produttivo.
L'institore è di regola un lavoratore subordinato con la qualifica di dirigente. Ciò che lo contraddistingue è
comunque quello di essere al vertice della gerarchia del personale, in virtù di un atto di preposizione
dell’imprenditore.

Vertice assoluto se l'institore è preposto all'intera impresa e quindi dipenderà solo dall'imprenditore. Vertice
relativo se è preposto ad una filiale o ad un ramo del l'impresa; potrà trovarsi in posizione subordinata anche
rispetto ad altro institore (ad esempio, il direttore generale, dell'intera impresa). È possibile che più institori
siano preposti contemporaneamente all'esercizio dell'impresa ed in tal caso essi agiranno disgiuntamente se
nella procura non è diversamente previsto. Rilevante è che l'institore sia stato investito dall'imprenditore di
un potere di gestione generale, l'institore è tenuto, congiuntamente con l'imprenditore, all'adempimento degli
obblighi di iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili dell'impresa o della sede
cui è preposto .

In caso di fallimento dell'imprenditore troveranno applicazione anche nei confronti dell'institore le sanzioni
penali a carico del fallito fermo restando che solo l'imprenditore potrà essere dichiarato fallito e solo
l'imprenditore sarà esposto agli effetti personali e patrimoniali del fallimento. Al generale potere di gestione
il legislatore fa poi corrispondere un altrettanto ampio e generale potere di rappresentanza e infatti l'institore
può compiere in nome dell'imprenditore tutti gli atti pertinenti all'esercizio dell’impresa, formula questa
chiara in astratto, ma che può dar luogo a difficoltà applicative nel caso concreto, poiché è controverso se la
pertinenza di un dato atto all'esercizio dell'impresa debba essere valutata con riferimento astratto alle imprese
di quel determinato tipo o con riferimento alla specifica impresa cui l'institore è preposto.

La prima soluzione tutela maggiormente i terzi e va perciò preferita in quanto meglio risponde alla ratio della
disciplina della rappresentanza commerciale. L’institore non è legittimato a compiere atti che esorbitano
dall'esercizio (gestione) dell'impresa quali, ad esempio, la vendita o l'affitto dell’azienda ovvero il
cambiamento dell'oggetto dell'attività. Inoltre gli è espressamente vietato di alienare o ipotecare i beni

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immobili del preponente, ma tale divieto non opera quando oggetto del l'impresa è proprio il commercio di
immobili.

Per quanto riguarda poi la rappresentanza processuale, l'institore può stare in giudizio, sia come attore
(rappresentanza processuale attiva), sia come convenuto (rappresentanza processuale passiva) per le
obbligazioni dipendenti da atti compiuti nell'esercizio dell'impresa a cui è preposto e non solo per gli atti da
lui compiuti, ma anche per quelli posti in essere direttamente dall'imprenditore o comunque a questi
imputabili in tale veste. I poteri rappresentativi dell'institore, possono essere ampliati o limitati
dall'imprenditore, sia all'atto della preposizione sia in un momento successivo. Le limitazioni saranno però
opponibili ai terzi solo se la procura originaria o il successivo atto di limitazione siano stati pubblicati nel
registro delle imprese.

Mancando tale pubblicità legale, la rappresentanza si reputa generale, salva la prova da parte
dell'imprenditore che i terzi effettivamente conoscevano l'esistenza di limitazioni al momento della
conclusione dell'affare. È evidente perciò che, la procura non è affatto necessaria perché l'institore possa
ritenersi investito della rappresentanza generale (sostanziale e processuale) dell'imprenditore. È questo un
effetto che discende dall'atto interno di preposizione all'esercizio dell'impresa. Procura e pubblicità saranno
per contro necessarie solo se l'imprenditore voglia limitare i poteri rappresentativi dell'institore fissati ex
lege.

Princìpi analoghi valgono anche per la revoca della procura o, per la revoca dell'atto di preposizione. La
revoca è opponibile ai terzi solo se pubblicata o se l'imprenditore prova la loro effettiva conoscenza. La
tutela dell'affidamento dei terzi è poi completata da un ulteriore disposizione in tema di imputazione degli
atti compiuti dall'institore. È principio generale che il rappresentante deve rendere palese al terzo con cui
contratta tale sua veste, affinché l'atto compiuto e i relativi effetti ricadano direttamente sul rappresentato e
deve renderla palese spendendo il nome del rappresentato. II rappresentante che non osservi tale regola
obbliga solo se stesso ed il terzo perciò non si può rivolgere al rappresentato e questo è il cosiddetto principio
della contemplatio domini.

Principio parzialmente diverso è invece dettato dall'art. 2208 in tema di rappresentanza institoria. L'institore
è personalmente obbligato se omette di far conoscere al terzo che tratta per il preponente. Personalmente
obbligato è anche il preponente, quando gli atti compiuti dall'institore siano pertinenti all'esercizio
dell'impresa a cui è preposto. la disposizione tutela il terzo contraente, evitando che su di lui ricada il rischio
di comportamenti dell'institore che possono generare incertezze circa il reale dominus dell'affare

7. I procuratori

I procuratori sono coloro che in base ad un rapporto continuativo, abbiano il potere di compiere per
l'imprenditore gli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa, pur non essendo preposti ad esso (art. 2209) Sono
degli ausiliari subordinati di grado inferiore rispetto all'institore in quanto a differenza di questo:
a) non sono posti a capo dell'impresa o di un ramo o di una sede secondaria;
b) pur essendo degli ausiliari con funzioni direttive, il loro potere decisionale è circoscritto ad un
determinato settore operativo dell'impresa o ad una serie specifica di atti

Sono procuratori, ad esempio, il direttore del settore acquisti, il dirigente del personale, il direttore del settore
pubblicità.

A questi ausiliari l'art. 2209 estende la disciplina degli artt. 2206 e 2207 pertanto, in mancanza di specifiche
limitazioni iscritte nel registro delle imprese, i procuratori sono ex lege investiti di un potere di
rappresentanza generale dell'imprenditore; generale, però, rispetto alla specie di operazioni per le quali essi
sono stati investiti di autonomo potere decisionale. Il dirigente del settore acquisti potrà compiere in nome
dell'imprenditore tutti gli atti che tipicamente rientrano in tale funzione, ma non ha né potere decisionale né
potere di rappresentanza per quanto riguarda il settore pubblicità o il settore del personale. il procuratore:
1) non ha la rappresentanza processuale (attiva e/o passiva) dell'imprenditore,
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2) non è soggetto agli obblighi di iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta delle scritture
contabili.

Inoltre, non trova applicazione nei suoi confronti l'art. 2208: l'imprenditore non risponderà per gli atti,
compiuti da un procuratore senza spendita del nome dell'imprenditore stesso.

8. I commessi

Commessi sono ausiliari subordinati cui sono affidate mansioni esecutive e materiali che li pongono in
contatto con i terzi. Ad esempio, commesso di negozio. Per questa posizione, ai commessi è riconosciuto
potere di rappresentanza dell'imprenditore anche in mancanza di specifico atto di conferimento; suddetto
potere però è più limitato rispetto a quello degli institori e dei procuratori.

I commessi possono compiere gli atti che ordinariamente comporta la specie di operazioni di cui sono
incaricati art 2210 ma:
a) non possono esigere il prezzo delle merci delle quali non facciano la consegna, né concedere
dilazioni o sconti che non siano d'uso;
b) non hanno il potere di derogare alle condizioni generali di contratto predisposte dall'imprenditore o
alle clausole stampate nei moduli dell’impresa;
c) se preposti alla vendita nei locali dell'impresa, non possono esigere il prezzo fuori dei locali stessi né
possono esigerlo all'interno dell'impresa se alla riscossione è destinata apposita cassa.

A tutti i commessi è poi riconosciuta la legittimazione a ricevere per conto dell'imprenditore le dichiarazioni
che riguardano l'esecuzione dei contratti ed i reclami relativi alle inadempienze contrattuali. Gli è inoltre
riconosciuta, la legittimazione a chiedere provvedimenti cautelari nell'interesse dell’imprenditore.
L'imprenditore può ampliare o limitare tali poteri tuttavia non è previsto un sistema di pubblicità legale;
perciò le limitazioni saranno opponibili ai terzi solo se portate a conoscenza degli stessi con mezzi idonei (ad
esempio, avvisi affissi nei locali di vendita), o se si prova l'effettiva conoscenza

CAPITOLO QUINTO
L’AZIENDA

1. La nozione di azienda. Organizzazione ed avviamento

L'azienda è il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell’impresa (art. 2555).
emerge con evidenza il rapporto esistente fra azienda e impresa sotto il profilo giuridico. È un rapporto di
mezzo a fine: l'azienda costituisce l'apparato strumentale (materie prime, merci, ecc.) di cui l'imprenditore si
avvale per lo svolgimento e nello svolgimento della propria attività. Nella nozione di azienda l'accento va
posto sul dato dell'organizzazione perché l’azienda è un insieme di beni eterogenei che subisce modificazioni
qualitative e quantitative anche radicali nel corso dell'attività. È e resta però un complesso caratterizzato da
unità di tipo funzionale, per il coordinamento ed il rapporto di complementarietà fra i diversi elementi
costitutivi instaurato dall'imprenditore e soprattutto per l'unitaria destinazione ad uno specifico fine
produttivo. Organizzazione e destinazione ad un fine produttivo sono dati fattuali che attribuiscono ai beni
costituiti in azienda particolare rilievo economico. I beni organizzati ad azienda consentono la produzione di
utilità nuove, e se sul piano statico l'azienda si risolve nei beni che la compongono, sul piano dinamico essa è
un nuovo «valore», ed è proprio tale valore dinamico dell’azienda che acquista rilievo per quanti con lo
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stesso entrano in contatto concedendogli credito. il rapporto di strumentalità e di complementarietà fra i


singoli elementi costitutivi dell'azienda, fa sì che il complesso unitario acquisti di regola un valore di
scambio maggiore della somma dei valori dei singoli beni che in un dato momento lo costituiscono. Tale
maggior valore si definisce avviamento.

L'avviamento di un'azienda è in sostanza rappresentato dalla sua attitudine a consentire la realizzazione di un


profitto e può dipendere sia da fattori oggettivi sia da fattori soggettivi. Si suole perciò distinguere, fra
avviamento oggettivo e avviamento soggettivo.
È avviamento oggettivo quello ricollegabile a fattori suscettibili di permanere anche se muta il titolare
dell'azienda in quanto insiti nel coordinamento funzionale esistente fra i diversi beni (pensa alla capacità di
un complesso industriale di consentire una produzione a costi competivi)

Si definisce invece avviamento soggettivo quello dovuto all'abilità operativa dell'imprenditore sul mercato ed
in particolare alla sua abilità nel formarsi, conservare ed accrescere la clientela.

La clientela è essenziale perché l'impresa possa conseguire i necessari ricavi e realizzare un profitto.

Passando ora alla realtà economica al suo rilievo normativo dell’azienda, è da a tenere presente che l'unità
economica dell'azienda e gli interessi, al mantenimento di tale unità trovano oggi significativo
riconoscimento nella disciplina dettata dal codice civile in tema di trasferimento dell'azienda (artt. 2556-
2562).

Il trasferimento a titolo definitivo dell'azienda è infatti sottoposto ad un regime normativo che sotto più
profili deroga alla disciplina di diritto comune delle vicende circolatorie aventi ad oggetto singoli beni o
complessi di beni non finalizzati allo svolgimento di attività di impresa. Il passaggio dell'azienda da un
soggetto ad un altro comporta infatti peculiari effetti ex lege ispirati dalla finalità di favorire la conservazione
dell'unità economica e del valore di avviamento dell'azienda, e poiché tale disciplina frappone significativi
ostacoli alla disgregazione dell'azienda da parte dell'autonomia privata, è tutelato, anche l'interesse generale
alla circolazione dell'azienda come complesso unitario e quindi al mantenimento dell'efficienza e
funzionalità dei complessi produttivi.

2. Gli elementi costitutivi dell’azienda

Elementi costitutivi dell'azienda sono tutti i beni, organizzati dall'imprenditore


per l'esercizio dell’impresa. Per qualificare un dato bene come bene aziendale rilevante è perciò la
destinazione funzionale impressagli dall'imprenditore. Irrilevante è invece il titolo giuridico che legittima
l'imprenditore ad utilizzare un dato bene nel processo produttivo.

Non possono essere perciò considerati beni aziendali i beni di proprietà dell'imprenditore che non siano da
questi effettivamente destinati allo svolgimento dell'attività di impresa.

La qualifica di bene aziendale compete anche ai beni di proprietà di terzi di cui l'imprenditore può disporre in
base ad un valido titolo giuridico, purché impiegati nell'attività di impresa.

Controverso è invece tuttora quale sia il significato da attribuire alla parola -beni- nel l'art, 2555 infatti al
riguardo è largamente diffusa, la tendenza ad ampliare la nozione di «bene aziendale» ed a ricomprendere fra
gli elementi costitutivi dell'azienda ogni elemento patrimoniale facente capo all'imprenditore nell'esercizio
della propria attività e più in generale tutto ciò che può costituire oggetto di tutela giuridica.

Si afferma perciò che l'azienda è organizzazione non solo di beni ma anche di servizi; che della stessa fanno
parte integrante i rapporti di lavoro col personale, nonché tutti i rapporti contrattuali stipulati per l'esercizio
dell’impresa.

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Ed elementi costitutivi dell'azienda sono considerati anche i crediti verso la clientela, i debiti verso i fornitori
e lo stesso avviamento, che non è né un bene né un diritto, ma una semplice qualità dell’azienda

Questa concezione onnicomprensiva, non è però condivisibile. Più corretta è infatti l'opinione che considera
elementi costitutivi dell'azienda solo le cose in senso proprio di cui l'imprenditore attualmente si avvale per
l’esercizio dell'impresa. Beni, sono le cose che possono formare oggetto di diritti e la disciplina dell'azienda
non offre alcun valido argomento per affermare che nell'art. 2555 il termine «beni» sia stato utilizzato in un
significato diverso e più ampio.

Il trasferimento dell'azienda comporta come effetto ex lege il subingresso del cessionario nei contratti
stipulati per l'esercizio dell’impresa. È altrettanto vero però che si tratta di effetti solo naturali del
trasferimento dell’azienda, perciò convincente è l'osservazione che non possono essere considerati elementi
essenziali dell'azienda quelli che le parti possono eliminare, senza compromettere la qualificazione come
azienda del residuo.

L'azienda è e resta un complesso di soli beni (cose) e non è concepibile come un complesso di beni e di
rapporti giuridici.

Il che comporta: sul piano applicativo, che di trasferimento di azienda si potrà parlare quand'anche le parti
abbiano espressamente escluso dal trasferimento i contratti aventi ad oggetto prestazioni di cose future o di
servizi, i crediti e i debiti.

3. L’azienda tra concezione atomistica e concezione unitaria. Azienda e universalità di beni

Molto si è discusso sulla «natura giuridica» dell'azienda e vivo è stato il contrasto fra teorie unitarie e teorie
atomistiche.

Le teorie unitarie considerano l'azienda come un bene unico perciò si è così affermato che l'azienda è un
bene immateriale, rappresentato dall'organizzazione stessa e sempre nella stessa prospettiva l'azienda è stata
qualificata come una universalità di beni; Si ritiene perciò che il titolare dell'azienda abbia sulla stessa un
vero e proprio diritto di proprietà unitario, destinato a coesistere con i diritti che vanta sui singoli beni.

La teoria atomistica concepisce invece l'azienda come una semplice pluralità di beni tra loro funzionalmente
collegati e sui quali l'imprenditore può vantare diritti diversi. Si esclude perciò che esista un «bene» azienda
formante oggetto di autonomo diritto di proprietà o di altro diritto reale unitario.

La disputa è stata definita un vecchio rompicapo della scienza del diritto tuttavia è un rompicapo il cui
rilievo normativo può e deve essere drasticamente ridimensionato.

La possibilità di concepire l'azienda come un nuovo bene sotto ogni profilo trova ostacolo nei dati normativi.
Emerge con chiarezza che l'unificazione giuridica dei beni aziendali è solo relativa e funzionale, dato che per
il trasferimento del complesso aziendale dovranno essere necessariamente osservate le forme stabilite dalla
legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda. Ed in questa prospettiva deve essere
valutata la definizione dell'azienda in termini di universalità di beni poiché è vero che l'azienda è
espressamente equiparata alle universalità di beni dall'art. 670 c.p.c., che prevede il sequestro giudiziario «di
aziende o di altre universalità di beni» ma è altrettanto vero però che il considerare l'azienda un'universalità
di beni non offre argomenti per concepire la stessa come un bene nuovo ed unitario. Non esiste infatti alcuna
altra norma che disciplini direttamente le universalità di beni. Norme specifiche sono dettate solo per le
universalità di mobili, definite come la pluralità di cose che appartengono alla stessa persona e hanno una
destinazione unitaria».

La disciplina dettata per le universalità di mobili è applicabile all’azienda?

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L'applicabilità diretta ed integrale è certamente da escludere: l'azienda è di regola costituita da beni


eterogenei e può comprendere anche beni (immobili e mobili) che non sono di proprietà dell'imprenditore.
Le indubbie diversità strutturali fra azienda ed universalità di mobili non implicano però che debba ritenersi
senz'altro preclusa anche l'applicazione per analogia. Così, può ammettersi che, al pari delle universalità di
mobili:
a) l’insieme dei beni mobili aziendali di proprietà dell'imprenditore sia sottratto all'applicazione della
regola possesso di buona fede vale titolo valida per i singoli beni mobil
b) il complesso mobiliare aziendale possa essere acquistato per usucapione solo in virtù del possesso
continuato per venti anni
c) il titolare di un'azienda possa avvalersi dell'azione di manutenzione -oltre che per gli immobili -
anche per tutelare il possesso dell'insieme dei beni mobili aziendali.

L'azienda può formare oggetto di atti di disposizione di diversa natura. Può essere venduta, donata e
l'imprenditore può compiere anche atti di disposizione che riguardano uno o più beni aziendali. É importante
stabilire se un determinato atto di disposizione dell'imprenditore sia da qualificare come trasferimento di
azienda o come trasferimento di singoli beni aziendali, è principio consolidato che la qualificazione di una
data vicenda circolatoria come trasferimento di azienda (complesso di beni organizzati) o come trasferimento
di singoli beni aziendali deve essere operata secondo criteri oggettivi: guardando cioè al risultato realmente
perseguito e realizzato (anche attraverso una serie coordinata di distinti atti di disposizione) e non al nomen
dato al contratto dalle parti o alla loro intenzione soggettiva.

Se ciò è pacifico, è altrettanto pacifico però che, per aversi trasferimento di azienda, non è necessario che
l'atto di disposizione comprenda l'intero complesso aziendale; Necessario; ma al tempo stesso sufficiente, è
che sia trasferito un insieme di beni di per sé potenzialmente idoneo ad essere utilizzato per l'esercizio di una
determinata attività di impresa. È però necessario che i beni esclusi dal trasferimento non alterino l'unità
economica e funzionale di quella data azienda come, ad esempio, si verificherebbe qualora si escludesse dal
trasferimento il brevetto industriale su cui si fonda l'attività di impresa.

Accertato che si è in presenza di un trasferimento di azienda, l'atto di disposizione comprenderà tutti i beni
presenti in quel dato momento nell'azienda, e le forme da osservare nel trasferimento dell'azienda sono
fissate dall'art. 2556, nel testo modificato dalla legge 310/1993.

È al riguardo da operare una netta distinzione fra forma necessaria per la validità del trasferimento e forma
richiesta ai fini probatori e per l'opponibilità ai terzi.

In merito al primo punto(forma necessaria per la validità) è dettata una disciplina identica per ogni tipo di
azienda (agricola o commerciale) ovvero i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o la
concessione in godimento dell'azienda sono validi solo se stipulati con l'osservanza «delle forme stabilite
dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l'azienda o per la particolare natura del
contratto».Manca quindi un'autonoma ed unitaria legge di circolazione del l'azienda e il trasferimento di
ciascun bene aziendale segue il regime dettato in via generale. Solo per le «imprese soggette a registrazione»
secondo il sistema originario del codice civile è poi previsto che ogni atto di disposizione dell'azienda deve
essere provato per iscritto. La scrittura è chiaramente richiesta solo ad probationem e la sua mancanza
comporterà come unico effetto che le parti (ma non i terzi) non potranno avvalersi della prova per testimoni
per dimostrare l'esistenza del contratto.

Sempre per le imprese soggette a registrazione, il secondo comma dell'art. 2556 stabilisce che i relativi
contratti sono soggetti ad iscrizione nel registro delle imprese. A tal fine, il contratto di trasferimento deve
essere sempre redatto per atto pubblico o per scrittura privata autenticata e deve essere depositato a cura del
notaio per l'iscrizione, nel termine di trenta giorni. La disposizione, persegue anche finalità di ordine
pubblico e ciò spiega perché, si tende a riconoscere che l'obbligo di registrazione sussiste anche quando sia
l'alienante sia l'acquirente siano imprenditori tenuti solo all'iscrizione nelle sezioni speciali del registro delle
imprese.

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Resta tuttavia fermo che solo l'iscrizione nella sezione ordinaria del registro, se dovuta, produce la funzione
dichiarativa (opponibilità del trasferimento) nei confronti dei terzi.
l'alienazione dell'azienda produce ex lege effetti ulteriori che riguardano il divieto di concorrenza
dell'alienante (art. 2557), i contratti (art. 2558), i crediti (art. 2559) e i debiti aziendali.

ART 2557: Chi aliena un'azienda commerciale deve astenersi, per un periodo massimo di cinque anni dal
trasferimento, dall'iniziare una nuova impresa che possa comunque sviare la clientela dall'azienda ceduta.
Se l’azienda è agricola, il divieto opera solo per le attività ad essa connesse e sempre che rispetto a tali
attività sia possibile sviamento della clientela.

La norma contempera due opposte esigenze ovvero quella dell'acquirente dell'azienda di trattenere la
clientela dell'impresa e quindi di godere dell'avviamento del quale di regola si è tenuto conto nella
pattuizione del prezzo di vendita e quella dell'alienante a non vedere compressa la propria libertà di iniziativa
economica oltre un determinato arco di tempo.

Il divieto di concorrenza è derogabile ed ha carattere relativo; sussiste nei limiti in cui la nuova attività di
impresa dell'alienante sia potenzialmente idonea a sottrarre clientela all'azienda ceduta ed è in ogni caso
vietato prolungare oltre i cinque anni la durata del divieto. Il divieto è da ritenersi applicabile sia alla vendita
volontaria di azienda e sia alla vendita coattiva.

Maggiori incertezze solleva invece l'applicazione del divieto di concorrenza in altre ipotesi non
espressamente regolate:
a) divisione ereditaria con assegnazione dell'azienda caduta in successione ad uno degli eredi;
b) scioglimento di una società con assegnazione dell'azienda sociale ad uno dei soci quale quota di
liquidazione;
c) vendita dell'intera partecipazione sociale o di una partecipazione sociale di controllo in una società di
persone o di capitali.

Nei primi due casi non si può affermare che vi è stato trasferimento di azienda da un erede all'altro o da un
socio all'altro, sicché sembrerebbe da escludersi che gli altri eredi o gli altri soci siano tenuti a rispettare il
divieto di concorrenza. Nel terzo caso poi un negozio traslativo c'è, ma ha per oggetto le quote o le azioni
della società e non l'azienda, che formalmente resta della società e quindi non ricorre il presupposto (vendita
di azienda) per l'applicazione dell'art. 2557.

In sede di divisione ereditaria o nello stabilire la quota di liquidazione


spettante a ciascun socio si tiene di regola conto anche del valore di avviamento dovuto alla clientela. Non è
perciò senza fondamento applicare il divieto di concorrenza a favore dell'erede o del socio che subentra
nell'azienda ed a carico degli altri eredi o degli altri soci ed è altresì indubbio che la vendita dell'intero
pacchetto azionario o di una partecipazione di controllo permettono di raggiungere un risultato economico
sostanzialmente coincidente con la vendita dell'azienda, anche se formalmente non vi è stato alcun
trasferimento dell'azienda stessa. Vi è perciò chi considera non decisiva la diversità formale dei negozi e
assoggetta al divieto di concorrenza il socio alienante, purché ricorrano in concreto i presupposti su cui si
fonda l'art. 2557.

Il divieto di concorrenza, ha per oggetto l'inizio di una nuova impresa concorrente.

Esso però non sempre è puntualmente rispettato dall'alienante e frequenti sono anzi i tentativi di eludere il
divieto attraverso diversi espedienti (ad esempio vendo una azienda e incomincio una nuova attività per
mezzo di un prestanome). È discutibile se in questi casi vi sia stato inizio di una nuova impresa da parte
dell'alienante e quindi ci sia stata violazione del relativo obbligo di non fare. Il divieto dovrà ritenersi violato
ogni qualvolta si sia avuto sviamento di clientela dall'azienda ceduta, per fatto concorrenziale direttamente o
indirettamente imputabile all'alienante.

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È perciò opportuno che l'atto di alienazione contenga specifiche clausole al riguardo, rese possibili dalla
consentita estensione pattizia del divieto di concorrenza.

4. Usufrutto e affitto dell’azienda

L'azienda può formare oggetto di un diritto reale o personale di godimento. Può essere costituita in usufrutto
o può essere concessa in affitto.

La costituzione in usufrutto di un complesso di beni destinati allo svolgimento di attività di impresa


comporta, infatti, il riconoscimento in testa all'usufruttuario di particolari poteri-doveri fissati dall'art. 2561 e
ciò sia per consentire all'usufruttuario la libertà operativa necessaria per gestire proficuamente l'impresa, sia
per tutelare l'interesse del concedente a che non sia menomata l'efficienza del complesso aziendale, che
dovrà a lui tornare alla fine del rapporto.

L'art. 2561 dispone che l'usufruttuario deve esercitare l'azienda sotto la ditta che la contraddistingue. Lo
stesso deve condurre l'azienda senza modificarne la destinazione ed in modo da conservare l'efficienza
dell'organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte.

La violazione di tali obblighi determinano la cessazione dell'usufrutto per abuso dell'usufruttario.

Il potere-dovere di gestione dell'usufruttuario comporta che lo stesso non solo può godere dei beni aziendali,
ma ha anche il potere di disporne nei limiti segnati dalle esigenze della gestione. Tale potere di disposizione
sussiste non solo rispetto alle scorte e più in generale rispetto al cosiddetto capitale circolante, ma anche
rispetto al capitale fisso(immobili, impianti) purché tali atti di disposizione non alterino l'identità e
l'efficienza dell'azienda.

L'usufruttuario potrà acquistare ed immettere nell'azienda nuovi beni; beni che diventano di proprietà del
nudo proprietario e sui quali l'usufruttuario avrà diritto di godimento e potere di disposizione.

Al termine dell'usufrutto l'azienda perciò risulterà composta in tutto o in parte da beni diversi da quelli
originari perciò è previsto che venga redatto un inventario all'inizio ed alla fine dell'usufrutto e che la
differenza fra le due consistenze sia regolata in danaro, sulla base dei valori correnti al termine
dell’usufrutto.

La disciplina prevista per l'usufrutto si applica anche all'affitto di azienda per l'espresso rinvio operato
dall'art. 2562. L'affitto di azienda è contratto affatto diverso dalla locazione di un immobile destinato
all'esercizio di attività di impresa: nel primo caso, oggetto del contratto è un complesso di beni organizzati,
nel secondo caso, il contratto ha per oggetto il locale in quanto tale.

Usufrutto ed affitto di azienda sono poi parzialmente regolati dalle norme precedentemente esaminate in
tema di vendita. Si applicano ad entrambe le fattispecie gli artt. 2557 (divieto di concorrenza) e 2558
(successione nei contratti aziendali). Il nudo proprietario ed il locatore sono perciò tenuti a non iniziare una
nuova impresa idonea a sviare la clientela per la durata dell'usufrutto e dell’affitto, inoltre, l'usufruttuario o
l'affittuario subentrano automaticamente nei contratti aziendali per la durata dell'usufrutto o del l'affitto il che
comporta che i contratti originari, torneranno di nuovo automaticamente in testa al proprietario o al locatore.

Si applica all'usufrutto, ma non all'affitto, la disciplina dei crediti aziendali, Non si applica, infine, ad alcuna
delle due fattispecie l'art. 2560. Perciò, dei debiti aziendali anteriori alla costituzione dell'usufrutto o
dell'affitto risponderanno esclusivamente il nudo proprietario o il locatore, salvo che per i debiti di lavoro
espressamente accollati anche al titolare del diritto di godimento.

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CAPITOLO SESTO
I SEGNI DISTINTIVI

1. Il sistema dei segni distintivi

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La ditta, l’insegna ed il marchio sono i tre principali segni distintivi.


 La ditta contraddistingue la persona dell’imprenditore (c.d. Norme commerciale)
 L’insegna individua i locali in cui l’attività di impresa è esercitata
 Il marchio, infine, individua e distingue i beni o i servizi prodotti
Ditta, insegna e marchio favoriscono la formazione ed il mantenimento della clientela.

Intorno ai segni distintivi finiscono perciò col ruotare diversi e configgenti interessi.

Nel nostro ordinamento ditta, insegna e marchio sono disciplinati con disposizioni parzialmente diverse e
soprattutto di di diversa ampiezza. Nella moderna economia di mercato è infatti fuori dubbio la centralità del
ruolo del marchio.

Dalle tre discipline è tuttavia possibile desumere alcuni principi ispiratori comuni:
a) L’imprenditore gode di ampia libertà nella formazione dei propri segni distintivi. È tenuto però a
rispettare determinate regole: verità, novità e capacità distintiva.
b) L’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo dei propri segni distintivi. Si tratta però di un diritto non
assoluto, ma relativo e strumentale alla realizzazione della funzione distintiva rispetto agli
imprenditori concorrenti.
c) L’imprenditore può trasferire ad altri i propri segni distintivi. Ma neppure tale diritto è pieno e
incondizionata poiché l’ordinamento tende ad evitare che la circolazione dei segni distintivi possa
trarre in inganno il pubblico.

I tre segni distintivi tipici dell’imprenditore sono sì tutelati sul piano patrimoniale ma in modo non pieno ed
assoluto. Ed ill carattere relativo della tutela rende controverso se i segni distintivi possano essere inquadrati
nella categoria dei beni immateriali. L’inquadramento e la qualifica possono essere ormai accettati in pieno.

A. LA DITTA

2. La formazione della ditta e contenuto del diritto sulla ditta

La ditta è il nome commerciale dell’imprenditore. Ed è segno distintivo necessario, nel senso che in
mancanza di diversa scelta essa coincide con il nome civile dell’imprenditore. Nella scelta della propria ditta
però l’imprenditore incontra due limiti specifici: la verità e la novità.

Il principio di verità della ditta (art. 2563) ha tuttavia un contenuto assai limitato e soprattutto contenuto
diverso a seconda che si tratti di ditta originaria e ditta derivata.

 Ditta originaria: formata dall’imprenditore che lo utilizza. Essa deve contenere almeno il cognome o
la sigla dell’imprenditore. L’imprenditore non è tenuto a modificare la ditta patronimica anche
qualità intervengano mutamenti nel suo nome civile.
 Ditta derivata: formata da un dato imprenditore e successivamente trasferita ad altro imprenditore
insieme all’azienda. L’art. 2563 2° comma nel porre il principio della verità della ditta fa salvo
quando disposto dall’art. 2565 (trasferimento della ditta).

Più consistente è la portata del principio della novità (art. 2564). La ditta non deve essere uguale o simile a
quella usata da altro imprenditore e tale da creare confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo in cui
questa è esercitata. Chi ha adottato per primo una data ditta ha perciò diritto all’uso esclusivo della stessa.
La recente attuazione del registro delle imprese rende invece oggi applicabile il secondo comma dell’art.
2564 in base al quale per le imprese commerciali l’obbligo dell’integrazione o modificazione spetta a chi ha
iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore.

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Perciò è possibile l’omonimia tra ditte che non creano confusione sul mercato, non potendosi imporre la
differenziazione a chi produce beni o servizi destinati a soddisfare bisogni diversi dei consumatori.

È poi pacifico che la confondibilità tra ditte deve essere valutata sulla base delle ditte effettivamente
utilizzate anche se diverse da quelle ufficialmente prescelte (c.d. Ditta ufficiosa).

Si tenga presente, infine, che il principio della novità opera anche nei rapporti tra la ditta ed altri segni
distintivi: in particolare con il marchio. È questo il c.d. Principio di unitarietà dei segni distintivi in base al
quale il diritto di esclusiva che spetta al titolare di un marchio ha effetto nei confronti di tutti i segni distintivi
usati da altri imprenditori.

3. Il trasferimento della ditta

La ditta è trasferibile ma solo insieme all’azienda, ex art. 2565 1º comma del cod. civ. È da notare che la
persistenza del legame “segno distintivo-complesso produttivo” può forse tutelare il pubblico dei
consumatori contro un improvviso mutamento delle caratteristiche oggettive dei beni o servizi prodotti in
quella impresa.

Tutela invece molto meno quanti fondano i loro rapporti anche sulla persona dell’imprenditore: fornitori,
finanziatori, creditori. La circostanza che la ditta derivata non deve essere integrata con indicazioni idonee ad
individuare l’attuale titolare dell’impresa e l’ulteriore dato che il ritardo nell’attuazione del registro delle
imprese ha reso per lungo tempo inoperante il sistema di pubblicità legale del trasferimento dell’azienda e
della ditta previsto dall’art. 2556.

Pericoli poi ulteriormente accentuati dal fatto che si ammette pressoché concordemente che la ditta possa
essere trasferita anche quando non è trasferita l’intera azienda ma solo un ramo della stessa purché dotato di
organica unità.

Si ritiene che chi ha trasferito l’azienda è responsabile in solido con l’acquirente per i debiti da questo
contratti spendendo la ditta derivata qualora il terzo contraente abbia potuto ragionevolmente ritenere di
trattare con il cedente. Il risultato pratico di questo orientamento è che si addossa all’alienante l’onere di
portare a conoscenza dei terzi l’avvenuto trasferimento dell’azienda e della ditta (se si tratta di impresa non
commerciale) ovvero e comunque di imporre all’acquirente di integrare la ditta con indicazioni non
equivoche.

4. Ditta e nome civile. Ditta e nome delle società

L’imprenditore individuale ha un nome civile. Il nome civile è attribuito per legge; è a struttura fissa,
risultando composto dal prenome e dal cognome; è inoltre unico e non è liberamente modificabile. Principi
opposti regolano la formazione della ditta. Inoltre l’imprenditore, se ha un solo nome, può d’altro canto avere
più ditte.

Infine e soprattuto ditta e nome civile sono diversamente tutelati. Il nome civile è un attributo della
personalità e come tale tutelato dagli artt. 7-9 del codice. La ditta è invece tutelata come mezzo di attrazione
della clientela e come valore patrimoniale (bene immateriale). Perciò, mentre l’omonima tra i nomi è sempre
ammessa, non è invece consentita l’omonima tra ditte di imprenditori. Il nome civile, a differenza della ditta,
è indisponibile e intrasmissibile.

La distinzione tra nome civile e nome commerciale dell’imprenditore è da ritenersi valida anche per le
società.

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Una prima ricostruzione indurrebbe perciò a pesare che le società non possono formare liberamente la loro
ditta, non possono utilizzare una ditta derivata acquistata insieme ad un’azienda, né possono infine trasferire
la ditta originaria. Ne risulterebbe così una vistosa disparità di trattamento rispetto agli imprenditori
individuali.

Quindi, la disciplina dettata dall’art. 2567 regola solo il nome delle società e non impedisce affatto la
formazione e l’utilizzo di una ditta distinta dalla ragione o denominazione sociale.

Le società possono inoltre avere anche una ditta originaria, formatura rispettando le norme sulla ditta nonché
una o più ditte derivate.

Attraverso questo sottile distinguo è ristabilita la parità di trattamento tra imprenditori individuali e società.

B. IL MARCHIO

5. Nozione e funzioni del marchio

 Il marchio nazionale è regolato dagli artt. 2569–2574 del c.c. e dal Codice della proprietà industriale
(D. Lgs. 10-05-2005 n.30)
 Il marchio dell’Unione Europea, istituto con il regolamento CE 20-12-1993 n.40, oggi sostituito dal
regolamento UE 14-06-2017 n.1001
 Il marchio internazionale è a sua volta disciplinato da due convenzioni: la Convenzione d’Unione di
Parigi del 1883 per la protezione della proprietà industriale e l’Accordo di Madrid del 1891 sulla
registrazione internazionale dei marchi.

Tali normative riconoscono al titolare del marchio il diritto all’uso esclusivo dello stesso.

Al marchio gli imprenditori affidano infatti la funzione di differenziare i propri prodotti da quelli dei
concorrenti. Il pubblico è così messo in grado di riconoscere con facilità i prodotti provenienti da una
determinata fonte di produzione. Può quindi selezionare tra i molti prodotti similari quello ritenuto migliore
per qualità o per prezzo.

Il marchio non esaurisce però la sua finzione nel differenziare i prodotti similari. È di regola anche indicatore
della provenienza del prodotto. Dopo la riforma del 1992, questa funzione è stata comunque ridimensionata.
È infatti caduto il divieto di circolazione del marchio separatamente all’azienda e soprattutto si è riconosciuta
la legittimità del couso (diritto di far uso contemporaneamente di un bene) di uno stesso marchio da parte di
più imprenditori concorrenti. Il che però non significa che il marchio sia divenuto un semplice simbolo di
identificazione del prodotto in se e per se. Infatti i coutenti di uno stesso marchio sono tenuti ad assicurare
l’omogeneità dei caratteri essenziali e della stessa qualità dei prodotti dello stesso tipo contraddistinti dal
marchio comune.

Tra le funzioni del marchio, non può certamente ricomprenderai quella di garanzia della qualità. Invero il
pubblico molto spesso associa al marchio l’idea di un certo livello qualitativo. È altrettanto indubbiò però
che nella disciplina del marchi non vi è alcuna norma che assolva ad una funzione di garanzia della qualità.

È altresì dato di comune esperienza che certi marchi finiscono con l’assumere una autonoma forza attrattiva.

È comprensibile perciò l’interesse dei titolari di marchi celebri a contrastate l’uso degli stessi da parte di altri
produttori.

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La situazione è però oggi cambiata. L’attuale disciplina ha infatti espressamente recepito la distinzione tra
marchi ordinari e marchi celebri ed ha esteso la tutela di questi ultimi oltre i limiti segnati dalla necessità di
evitare confusione tra prodotti affini.

6. I tipi di marchio

Del marchio può anzitutto servirsi il fabbricante. E può anche essere imposto dal commerciante, sia esso
grossista o rivenditore finale.

Su uno stesso prodotto possono perciò coesistere più marchi ed in tal caso troverà applicazione la regola
dell’art. 2572 e dall’art. 20 3° comma del C.P.I. Per il marchio di commercio.

 Marchio di servizio: Il marchio può essere utilizzato anche da imprese che producono servizi. La
forma tipica di uso di tali marchi è quella pubblicitaria.
 Marchio generale: l’imprenditore può utilizzare un solo marchio per tutti i propri prodotti
 Marchio speciale: l’imprenditore può anche usare più marchi quando vuole differenziare i diversi
prodotti

Possono essere utilizzati come marchi tutti i segni suscettibili di essere rappresentati nel registro dei marchi.

 Marchio denominativo: costituito solo da parole


 Marchio figurativo: costituito da figure, lettere, cifre, disegni o colori ed anche da suoni
 Marchio misto: costituto dalla combinazione di parole e di uno o più altri simboli

Il marchio può però essere costituito anche dalla forma del prodotto o della confezione dello stesso.

 Marchio di certificazione: si distingue nettamente dai marchi di impresa in quanto serve a


contraddistinguere l’origine geografica, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi. Questi
marchi (ad esempio “pura lana vergine” o “prosciutto di Parma”) sono di regola utilizzati in aggiunta
a quelli individuali ed assolvono fa una seppur limitata funzione di garanzia della qualità o della
provenienza.

Funzione analoga al marchio di certificazione viene svolta anche dal marchio collettivo che viene registrato
da enti pubblici oppure associazioni di categoria degli imprenditori per distinguere i prodotti o servizi dei
membri della associazione titolare da quelli di altre imprese. Anche il marchio collettivo infatti viene
concesso in uso dal titolare agli imprenditori consociati che si impegnano ad usarlo rispettando le condizioni
predeterminate nel regolamento allegato alla domanda di registrazione.

7. I requisiti di validità del marchio

Per essere tutelato giuridicamente, il marchio deve rispondere a determinati requisiti di validità: liceità,
verità, originalità e novità.

 Liceità: Il marchio non deve contenere segni contrari alla legge, al buon costume, stemmi o altri
segni protetti dalla legge senza l’autorizzazione dell’autorità competente, segni lesivi di un altrui
diritto di autori e e di proprietà industriale. A tutela dell’altrui diritto all’immagine, è altresì fatto
divieto di utilizzare come marchio l’altrui ritratto senza il consenso dell’interessato. Per quanto
invece riguarda la tutela dell’altrui diritto al nome, bisogna fare un distinguo: se si tratta di persone
che ha acquisito notorietà (p.e. Un calciatore, un attore eccetera), è necessario il consenso
dell’interessato. Per le persone non note resta invece ferma la regola originaria: il nome altrui può
essere inserito nel marchio anche senza il consenso dell’interessato.

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 Verità: enunciato dall’art. 14 1º comma lett. B C.P.I., che vieta di inserire nel marchio segni idonei
ad ingannare il pubblico in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei
prodotti o servizi.

 Originalità: il marchio deve essere composto in modo da consentire l’individuazione dei prodotti
contrassegnati tra tutti i prodotti dello stesso genere immessi sul mercato. Ed il legislatore
predetermina i tipi di segni privi di tale capacità distintiva:
 Le denominazioni generiche
 Le indicazioni descrittive dei caratteri essenziali
 I segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente
La ratio di questi divieti è quella di impedire l’acquisto di posizioni di monopolio su simboli che nel
lessico comune individuano genericamente quel dato prodotto.

È infine possibile usare come marchio denominazioni generiche o parole di uso comune modificate o
combinate tra loro in modo fantasioso. Il marchio è perciò definito marchio debole e basteranno lievi
modifiche o aggiunte per escludere la confondibilità con altri marchi. Si definiscono, all’opposto,
marchi forti quelli dotati di accentuata capacità distintiva e sono tali in genere i marchi di pura
fantasia. La distinzione in concreto tra marchi deboli e marchi forti non è però sempre agevole e si
può anche verificare che un marchio diventi poi forte a seguito dell’uso che ne è stato fatto e della
notorietà acquisita presso il pubblico grazie alla pubblicità (c.d. Secondary meaning). Si riconosce
che il secondary meaning:
 Può far acquistare carattere distintivo ad un segno che originariamente ne era privo
rendendone così possibile la registrazione come marchio
 Può trasformare un marchio originariamente privo di capacita distintiva in un marchio
valido.

 Novità: un marchio non è nuovo se già registrato come marchio da altro imprenditore in quanto
genera confusione tra i consumatori. Più esattamente il codice distingue tra marchi ordinari e marchi
celebri.
 Marchi ordinari: non sono nuovi i segni che possono determinare un rischio di confusione
per il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione tra i due segni
 Marchi celebri: il rapporto di affinità tra prodotti non è necessario però se il marchio già
registrato (anche solo all’estero) è diventato celebre.

Il difetto dei requisiti fin qui esposti comporta la nullità del marchio (art. 25 C.P.I.) che può
riguardare anche solo parte dei prodotti (art.27). Sono tuttavia previste due significative eccezioni:

a) La nullità del marchio per difetto di novità non può essere più dichiarata quando chi ha
richiesto la registrazione non era in mala fede ed il titolare del marchio anteriore ne abbia
tollerato l’uso per cinque anni.

b) La nullità del marchio per difetto di originalità non può essere dichiarata quando, a seguito
dell’uso che ne è stato fatto, ha acquistato capacità distintiva prima della proposizione della
domanda o dell’eccezione di nullità (art. 13, 3° comma)

8. Il marchio registrato

Il titolare di un marchio in possesso di tutti i requisiti di validità ha diritto all’uso esclusivo del marchio
prescelte. Il contenuto del diritto è però sensibilmente diverso a seconda che il marchio sia stato o meno
registrato presso l’Ufficio Brevetti e Marchi, istituito presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy
(ex Mise).

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Cominciamo dal marchio registrato. La registrazione attribuisce al titolare del marchio il diritto all’uso
esclusivo dello stesso su tutto il territorio nazionale. In particolare il titolare di un marchio registrato può
impedire ai terzi di mettere in commercio, di importare o di esportare prodotti contrassegnati con proprio
marchio nonché di utilizzare lo stesso nella pubblicità.
Il diritto di esclusiva sul marchio registrato copre poi non solo i prodotti identici ma anche quelli affini. Vale
a dire, tutti i prodotti che a causa della loro vicinanza merceologica possono ritenersi in fatto destinati alla
stessa clientela.

La tutela del marchio registrato contro l’altrui usurpazione o contraffazione non impedisce però che altro
imprenditore registri o usi lo sesso marchio per prodotti affatto diversi. È principio consolidato, comunque,
che la tabella delle classi merceologiche contenute nel regolamento allegato alla Legge marchi, oggi
sostituita dall’Accordo di Nizza del 1957, serve solo a scopi amministrativi e fiscali.

La rigorosa applicazione di tale regola può tuttavia dar luogo a conseguenze particolarmente gravi quando si
tratta di marchi celebri (p.e. Cartier, Coca-Cola, Malboro…). L’uso di questi marchi da parte di altri
imprenditori oltre a costituire usurpazione di altrui fama può facilmente determinare equivoci sulla reale
fonte di produzione.

Con la riforma del 1992, la tutela dei marchi celebri è stata infatti svincolata dal criterio della affinità
merceologica. Il titolare di un marchio registrato che fonde nello stato di rinomanza può infatti vietare a terzi
di usare un marchio identico o simile al proprio anche per prodotti o servizi non affini, quando l’uso del
segno senza giustificato motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla
rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi. Il diritto di esclusiva sul marchio consente di impedire
infine di impedire l’utilizzo di segni confondibili non solo in funzione di marchio bensì anche come ditta,
denominazione o ragione sociale, insegna, nome a dominio o altro segno distintivo.

Il diritto di esclusiva sul marchio registrato decorre dalla data di presentazione della relativa domanda
all’Ufficio brevetti (art. 15, 2° comma C.P.I.).

Ogni domanda può avere per oggetto un solo marchio. L’Ufficio non compie un esame
preventivo della novità del marchio la cui mancanza in passato poteva essere fatta valere
solo per via giudiziaria. Il quadro è stato poi completato con la riforma del 2019 mediante
l’introduzione di una procedura per chiedere l’accertamento da parte dell’Ufficio della
nullità o della decadenza di un marchio registrato. L’esistenza di una decisione o la
pendenza di un procedimento in sede amministrativa preclude l’azione giudiziale e
viceversa. Al momento, tale rimedio amministrativo non è ancora operativo.

La registrazione nazionale è poi presupposto per poter estendere la tutela del marchio in ambito
internazionale attraverso la successiva registrazione presso l’Organizzazione mondiale per la proprietà
industriale (OMPI) di Ginevra.

Per il marchio dell’Unione Europea la registrazione è invece indipendente da quella nazionale. La


registrazione effettuata presso l’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) di
Alicante, Spagna.

La registrazione nazionale (comunitaria e internazionale) dura dieci anni (art. 15 C.P.I.) e non più venti come
in precedenza. È però rinnovabile per un numero illimitato di volte.

Dal marchio si decade per


1) Volgarizzazione
2) Sopravvenuta ingannevolezza dello stesso
3) Mancata utilizzazione entro cinque anni
4) Mancato pagamento dei diritti di rinnovo trascorsi sei mesi dalla scadenza

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In particolare, si ha volgarizzazione del marchio quando lo stesso è divenuto nel commercio denominazione
generica di quel dato prodotto. Non basta perciò come si riteneva in passato il dato oggettivo che il marchio
sia diventato denominazione generica del prodotto ma è necessario altresì un comportamento del titolare.
Questi perciò non perderà il diritto di esclusiva qualora ne difenda la capacità distintiva affidando o agendo
giudizialmente contro i concorrenti.

Il marchio registrato è tutelato sia civilmente che penalmente. Il titolare del marchio può promuovere contro
chi lo leda l’azione di contraffazione, volta ad ottenere l’inibitoria alla continuazione degli atti lesivi del
proprio diritto e la rinnovazione degli effetti degli stessi.

L’attuale disciplina consente inoltre al titolare stesso di ottenere (mediante l’azione di rivendica) la
cancellazione o il trasferimento di un nome a dominio lesivo del proprio diritto o comunque registrati da altri
in mala fede.

Si tenga un fine conto che il titolare di un marchio registrato può crearsi una rete di difesa del proprio
marchio contro le altrui contraffazioni registrando uno o più marchi protettivi. È in tal modo che si è
ampliato l’ambito dell’esclusiva e l’azione di contraffazione potrà essere vittoriosamente esercitata anche nei
confronti di chi utilizzi un marchio coincidente con un proprio marchio protettivo.

9. Il marchio di fatto

L’ordinamento tutela anche chi usi un marchio senza registrarlo (art. 2571 e art. 12 1º comma lett.a del
C.P.I.). Dispone l’art. 2571: chiunque anni a fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare
ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è avvalso.

Il titolare di un marchio non registrato potrà però impedire che altri usi in fatto lo stesso per gli stessi prodotti
ma non per prodotti affini.

Ben più modesta invece è la protezione che riceve il titolare di un marchio non registrato con notorietà
locale. Non potrà impedire che altro imprenditore usi in fatto lo stesso marchio per gli stessi prodotti in altra
zona del territorio nazionale. Non potrà inoltre impedire che un concorrente registri validamente li stesso
marchio ed in tal caso potrà solo continuare ad usare il proprio marchio nei limiti della diffusione locale.

È incerto poi se nella zona di preuso il titolare del marchio di fatto abbia diritto di esclusiva anche nei
confronti del titolare del marchio successivamente registrato. È fuor dubbio che il titolare del marchio
registrato avrà diritto di esclusiva anche nei confronti del titolare del marchio successivamente registrato. È
fuor di dubbio che il titolare del marchio registrato avrà diritto di esclusiva in ogni altra zona del paese.

10. Il trasferimento del marchio

Il marchio è trasferibile sia a titolo definitivo sia a titolo temporaneo (licenza di marchio).

L’atto di trasferimento è soggetto a trascrizione nell’apposito registro tenuto presso


l’Ufficio brevetti ma la trascrizione condiziona solo l’opponibilità del trasferimento
ai terzi e non la validità dell’atto.

La disciplina è stata modificata nel 1992: è stato abolito il collegamento tra circolazione dell’azienda e
circolazione del marchio; l’attuale disciplina (artt. 2573 c.c., art. 23 C.P.I.) opta decisamente per una più
libera circolazione del marchio.

È quindi possibile il trasferimento a titolo definitivo del marchio solo per una parte dei prodotti coperti dal
diritto di esclusiva dell’alienante con conseguente contitolarità del marchio.
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La novità più significativa è però costituita dall’espresso riconoscimento della ammissibilità della licenza di
marchio non esclusiva per la quale in passato su nutrivano forti perplessità.

È fissato il principio cardine che dal trasferimento o dalla licenza del marchio non deve derivare inganno nei
caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico.

La licenza non esclusiva è inoltre subordinata all’ulteriore condizione che il licenziatario si obblighi ad
utilizzare il marchio per prodotti con caratteristiche qualitative uguali a quelle dei corrispondenti prodotti.

La violazione di tali regole espone alla sanzione della decadenza.

C. L’INSEGNA

11. Nozione e disciplina

L’insegna contraddistingue i locali dell’impresa (stabilimento industriale, negozio di vendita).

L’art. 2568 dichiara applicabile alla disciplina dell’insegna il primo comma dell’art. 2564. L’insegna non
potrà perciò essere uguale o simile a quella già utilizzata da altro imprenditore concorrente. L’art. 22 C.P.I.
estende all’insegna il principio di unitarietà dei segni distintivi.

L’insegna dovrà quindi essere lecita; non dovrà contenere indicazioni idonee a trarre in inganno il pubblico
circa l’attività o i prodotti (veridicità) dovrà avere sufficiente capacità distintiva (originalità).

Nulla è disposto circa il trasferimento dell’insegna. È tuttavia pacifico che il diritto si possa trasferire. E si
ritiene che debba essere applicata la permissiva disciplina prevista per il trasferimento del marchio dato che
l’insegna identifica pur sempre elementi materiali (locali o azienda) e non la persona dell’imprenditore.

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CAPITOLO SETTIMO
LE OPERE DELL’INGEGNO. LE INVENZIONI INDUSTRIALI

1. Le creazioni intellettuali

Le opere dell’ingegno (idee creative nel campo culturale) e le invenzioni industriali (idee creative nel campo
della tecnica) costituiscono le due grandi categorie di creazioni intellettuali regolate dal nostro ordinamento.
Le opere dell’ingegno formano oggetto del diritto d’autore (artt.2575-2583) e dalla legge 22-4-1941 n.633).
Le invenzioni industriali a loro volta possono formare oggetto:
a) Del brevetto per invenzioni industriali (artt.2584-2591 e dal codice della proprietà industriale)
b) Del brevetto per modelli di utilità oppure dalla registrazione per disegni e modelli (artt.2592-2594)

Diritto d’autore e brevetti industriali formano anche oggetto di un’articolata disciplina internazionale, a rigor,
opere dell’ingegno ed invenzioni industriali non fanno parte del diritto delle imprese perché chiunque può
essere autore di un’opera dell’ingegno o di una invenzione industriale. Lo sfruttamento economico delle une
e delle altre avviene peraltro tramite le imprese.

2. Principi ispiratori della disciplina

La disciplina legislativa delle creazioni intellettuali si fonda su identici principi ispiratori. Principi che
tendono a realizzare un pinto di equilibrio tra due opposte esigenze:
 Quella di promuovere ed incentivare l’attività creativa dei privati
 Quella di consentire al contempi che tutti possano fruire del progresso

Il primo obiettivo è perseguito riconoscendo all’autore il diritto esclusivo allo sfruttamento dell’opera o
dell’invenzione.

Il secondo obiettivo invece è perseguito escludendo innanzitutto che una posizione di esclusiva possa essere
riconosciuta rispetto a talune creazioni intellettuali particolarmente significative per la collettività. Così l’art.
45 C.P.I. elenca una serie di invenzioni non considerate giuridicamente tali e che dunque non possono
costituire oggetto di brevetto. Sintomatica è al riguardo la vicenda dei prodotti medicinali. La brevettabilità
come invenzioni era esclusa dalla Legge del 1939. È stata invece ammessa con la riforma del 1979.

È così significativo che mentre il diritto d’autore si acquista per il solo fatto della creazione dell’opera
(art.2576); per le invenzioni industriali invece il diritto di esclusiva sorge solo in seguito alla loro
brevettazione (artt. 2584 e 2593).

Il diritto di esclusiva è inoltre limitato nel tempo. Dura fino a settanta anni dopo la morte dell’autore per le
opere dell’ingegno; venti, dieci e cinque anni dalla domanda di brevetto, rispettivamente per le invenzioni
industriali (art.60 c.p.i.), per i modelli di utilità (art.93 c.p.i.) e per i disegni e modelli (art. 37 c.p.i.).

Infine, il legislatore predispone per le invenzioni industriali strumenti tesi a tutelare l’interesse generale alla
loro adeguata realizzazione. Infatti, l’invenzione deve essere attuata nel territorio dello Stato in misura tale
da non risultare in grave sproporzione con i bisogni del Paese (art. 79 c.p.i.). E trascorsi tre anni dal rilascio
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del brevetto può essere concessa licenza obbligatoria per l’uso dell’invenzione a favore di ogni interessato
che ne faccia richiesta,

In definitiva, il diritto patrimoniale su una creazione intellettuale è un diritto funzionale e limitato.

A. IL DIRITTO D’AUTORE

3. Oggetto e contenuto del diritto d’autore

Il diritto d’autore è disciplinato dagli artt. 2575-2583 del c.c. e dalla legge 22-04-1941 n.633.

Formano oggetto del diritto d’autore le opere dell’ingegno scientifiche, letterarie, musicali, figurative,
teatrali e cinematografiche, romanzi, poesie, trattati scientifici, manuali didattici, canzoni, quadri, sculture,
programmi per l’elaborazione elettronica (software), banche dati e così via.

Tali opere sono protette indipendentemente dal loro pregio, dall’utilità pratica ed anche se illegali o
immorali. Unica condizione richiesta è che l’opera abbia carattere creativo: presenti cioè un minimo di
originalità oggettiva rispetto a preesistenti opere dello stesso genere. Originalità che può consistere anche nel
modo personali di esposizione di argomenti noti o nella rielaborazione di opere preesistenti.

Fatto costitutivo del diritto d’autore è la creazione dell’opera (art.2576 e 61 L.Aut.)

Dobbiamo distringere il diritto morale dal diritto patrimoniale di autore.


 Diritto morale: l’autore ha il diritto di rivendicare nei confronti di chiunque la paternità dell’opera, di
decidere se pubblicarla o meno (diritto di inedito) e se pubblicarla con il proprio nome o in anonimo.
Può inoltre ritirare l’opera dal commercio, previo indennizzo di coloro ai quali ha ceduto i diritti di
utilizzazione economica. Questi diritti sono irrinunciabili, inalienabili e possono essere esercitati
anche dai coniugi dopo la morte dell’autore.
 Diritto patrimoniale: l’autore ha il diritto di utilizzazione economica esclusiva dell’opera in ogni
forma e modo, originale e derivato.

L’art. 68 L. Aut. Consente la fotocopiatura di opere a stampa per uso personale solo nei
limiti del 15% di ciascun volume o fascicolo di periodico. Inoltre, i responsabili dei centri di
produzione devono corrispondere un compenso agli autori. La SIAE riscuote e ripartisce
tali compensi.

Diversamente dal diritto morale, il diritto patrimoniale di autore ha durata limitata. Infatti si estingue non
linea di principio in settanta anni dopo la morte dell’autore (art. 17, Legge 52/1996) anziché in 50 come
originariamente previsto. L’opera dell’ingegno può essere il fritto dell’attività creativa di una sola persona ed
in tal caso il diritto d’autore è acquistato a titolo originario.

È frequente tuttavia che l’opera sia il frutto della collaborazione di più persone ed in tal caso l’attribuzione
dei diritti segue regole specifiche e diverse.

 L’opera può essere costituita da più contributi autonomi e separabili, organizzati in forma unitaria da
un direttore o da un coordinatore. Questa è la c.d. Opera collettiva, che costituisce di per se opera
originale ed il cui autore è considerato il direttore o il coordinatore mentre i diritti di sfruttamento
economico spettano all’editore. Ai singoli autori è comunque riconosciuto il diritto d’autore sulla
proprio singolo contributo. —> giornali, riviste, enciclopedie.
 La cooperazione può anche dar vita ad un’opera composta da contributi omogenei e non distinguibili
o divisibili. In tal caso si instaura tra i coautori un regime di comunione (art. 10, L. Aut.).
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 Una terza ipotesi è quella dell’opera costituita da contributi eterogenei e distinti ma che danno vita
ad un’opera funzionalmente unitaria ed indivisibile (c.d. Opere composte). Anche tali opere cadono
in regime di comunione (art. 34 L. Aut.) ma, data la diversa rilevanza dei singoli contributi, sono
legislativamente individuati sia il soggetto cui è riservato l’esercizio del diritto di utilizzazione
economica dell’opera complessiva sia la quota parte di ciascuno nei proventi.

Diritti connessi o affini al diritto di autore sono poi riconosciuti a determinate categorie di soggetti
(produttori di dischi, interpreti ed esecutori di opere, attori e cantanti, fotografi etc). A tali soggetti è in
genere riconosciuto il diritto ad un equo compenso da parte di chiunque utilizzi la loro opera creativa o
interpretativa.

4. Trasferimento del diritto di utilizzazione economica. Tutela.

Il diritto di utilizzazione economica dell’opera dell’ingegno è liberamente trasferibile sia unitariamente che
nelle sue singole manifestazioni sia tra vivi che a causa di morte. Il trasferimento per atto tra vivi può essere
sia a titolo definitivo sia a titolo temporaneo.

 Con il contratto di edizione, l’autore concede in esclusiva ad un editore l’esercizio del diritto di
pubblicare per la stampa l’opera. L’editore, a sua volta, si obbliga a stampare, a mettere in
commercio l’opera e a corrispondere all’autore il compenso pattuito. Compenso che è costituito da
una partecipazione percentuale al ricavato della vendita ma per talune opere può essere anche fissato
a forfait. Il contratto può riguardare anche un’opera non ancora creata e può sia prevedere un
aumento determinato di edizioni (contratto per edizione) sia lasciare all’editore la facoltà di eseguire
le edizioni che riterrà necessarie (contratto a termine). In entrambi i casi, la durata del contratto non
può eccedere i venti anni.
 Con il contratto di rappresentazione e di esecuzione, l’autore cede, di regola non in esclusiva, il solo
diritto di rappresentazione in pubblico di opere destinate a tal fine. L’altra parte si obbliga a
provvedervi a proprie spese.

Il diritto d’autore è protetto con specifiche sanzioni civili, amministrative, pecuniarie e penali. In particolare,
il titolare può adire l’Autorità Giudiziaria per chiedere l’accertamento del proprio diritto e l’inibizione della
violazione temuta o in atto. Ed in questo secondo caso possono altresì chiedere che vengano applicate le
sanzioni tipiche della rimozione e della distruzione di quanto è stato strumento materiale della lesione del
dirtto patrimoniale o morale, oltre in ogni caso il dirtto al risarcimento dei danni subiti (art. 158 L. Aut)

Le opere dell’ingegno godono di una protezione circoscritta al territorio nazionale e per le loro caratteristiche
sono esposte al periodo della concorrente utilizzazione abusiva da parte di terzi in altri Stati. Tale pericolo ha
sollecitato accordi internazionali volti ad estendere l’ambito territoriale di tutela del diritto d’autore:
 La Convenzione di Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche del 1896, nel
testo di Parigi del 1971
 La Convenzione Universale sul diritto d’autore di Ginevra del 1952, nel testo di Parigi del 1971

B. LE INVENZIONI INDUSTRIALI

5. Oggetto e requisiti di validità

Le invenzioni industriali sono disciplinate dagli artt. 2584-2591 c.c. e dal codice della proprietà industriale.

Le invenzioni industriali sono idee creative che appartengono al campio della tecnica. Esse consistono nella
soluzione originale di un problema tecnico.
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Netta è perciò la distinzione rispetto alle opere dell’ingegno, dalle quali le invenzioni industriali si
differenziano anche per il diverso modo di acquisto del diritto di utilizzazione economica: la concessione del
corrispondente brevetto da parte dell’Ufficio italiano brevetti e marchi.

Possono formare oggetto di brevetto le idee inventive di maggior rilievo tecnologico, che possono essere
distinte in tre grandi categorie:
1) Invenzioni di prodotto, che hanno per oggetto un nuovo prodotto materiale
2) Invenzioni di procedimento, che possono consistere in un nuovo metodo di produzione di beni già
noti, in un nuovo processo di lavorazione industriale, in un nuovo dispositivo meccanico
3) Invenzioni derivate che si presentano come derivazione di una precedente invenzione.

Per scelta legislativa, ispirata dalla finalità di favorire la libera utilizzazione delle idee fondamentali, non
sono però considerate invenzioni:
1) Le scoperte, teorie scientifiche, i metodi matematici
2) I piani, i prìncipi ed i metodi per attività intellettuali, per gioco o per attività commerciali e i
programmi di elaborazione
3) Le presentazioni di informazioni

Non sono inoltre brevettabili come invenzioni i programmi per calcolatori ed elaboratori elettronici (c.d.
Software): la diffusione dei calcolatori elettronici tuttavia da tempo aveva posto la esigenza di delineare una
forma di tutela anche per i programmi elettronici e la giurisprudenza si era ormai decisamente orientata nel
senso che il software può rientrare nell’ambito di applicazione della legge sul diritto d’autore. Questa
soluzione è stata oggi recepita dal legislatore con il D. Lgs. 518/1992.

Sono invece brevettabili gli elementi materiali dei calcolatori, il c.d. Hardware: l’art. 45 3° comma c.p.i.
puntualizza infatti che la brevettabilità di quanto nominato nel secondo comma è esclusa solo nella misura
in cui la domanda di brevetto o il brevetto concerne scoperte, teorie, piani, principi e programmi considerati
in quanto tali. È perciò ammissibile la brevettazione dei processi produttivi o delle macchine che implicano
utilizzazione di principi o di programmi di elaboratori.

I trovati che non ricadono in uno di questi divieti devono poi rispondere a determinati requisiti di validità.
Devono essere leciti, devono essere nuovi, devono implicare una attività intentiva e devono essere infine
idonei ad avere una applicazione industriale.

È nuova l’invenzione che non è compresa nello stato della tecnica (si intende tutto ciò che sia comunque
accessibile al pubblico). In sostanza, manca del requisito della novità l’invenzione già divulgata.

L’invenzione implica attività inventiva se per una persona esperta del ramo, essa non risulta in modo
evidente dallo stato della tecnica.

Anche il requisito dell’industrialità oggi è da intendere in senso ampio. L’invenzione è considerata atta ad
avere applicazione industriale se il trovato può essere fabbricato o utilizzato in qualsiasi genere di industria,
compresa quella agricola (art. 49 c.p.i.).

6. Il diritto al brevetto

La tutela giuridica dell’invenzione ha contenuto sia morale che patrimoniale. L’inventore ha diritto ad essere
riconosciuto autore dell’invenzione (art.62 c.p.i.) e tale diritto morale acquista per il solo fatto
dell’invenzione. L’inventore ha inoltre il diritto trasferibile di conseguire il brevetto (c.d. Diritto al brevetto)
che ha la funzione costitutiva ai fini dell’acquisto del diritto all’utilizzazione economica in esclusiva del
trovato (diritto sul brevetto).

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Non sempre però l’autore dell’invenzione coincide col soggetto legittimato a richiedere il brevetto.

Il lavoratore ha sempre dirito ad essere riconosciuto autore dell’invenzione. L’attribuzione dei diritti
patrimoniali derivanti dall’invenzione è invece regolata secondo una triplice tipologia (art. 64 c.p.i.).

a) L’attività inventiva è prevista come oggetto del contratto. È questa la tipica posizione in cui si
trovano gli affetti agli uffici ricerca e progettazione. Le invenzioni da loro realizzate appartengono al
datore di lavoro, mentre al lavoratore nulla è dovuto per i risultati raggiunti.
b) L’invenzione è fatta nell’esecuzione di un contratto o di un rapporto di lavoro ma non è prevista una
specifica retribuzione per l’attività inventiva (c.d. Invenzione aziendale). Anche in tal caso i diritti
patrimoniali sorgono direttamente in capo al datore di lavoro.
c) L’invenzione rientra nel campo di attività dell’impresa cui è addetto l’inventore ma è affatto
indipendente dal contratto o dal rapporto di lavoro (c.d. Invenzione occasionale). In tal caso i diritti
patrimoniali spettano al lavoratore e solo il lavoratore potrà chiedere il brevetto. Al datore di lavoro è
però riconosciuta una posizione privilegiata in quanto ha il diritto di prelazione per l’uso
dell’invenzione, per l’acquisto del brevetto e per la brevettazioe all’estero della stessa invenzione.
Dovrà però pagare un corrispettivo.

La delineata disciplina trova applicazione anche alle invenzioni per le quali sia stato chiesto il brevetto entro
un anno dalla cessazione del rapporto di lavoro sicchè in questo arco di tempo l’ex dipendente non potrà
provare che la sua invenzione non ha alcun legame con l’attività lavorativa prestata.

Queste distinzioni sono però oggi venute meno quando il rapporto di lavoro intercorre con un’università o
un’altra istituzione pubblica di ricerca. In tal caso il titolare è sempre il ricercatore autore dell’invenzione.
All’Università o alla P.A. Interessata spetta solo una partecipazione dei proventi dello sfruttamento
dell’invenzione e l’inventore ha diritto a nome meno del 50% di tali proventi.

Lo svolgimento dell’attività inventiva può essere affidato dietro corrispettivo ai lavoratori autonomi o a
gruppi organizzati di ricercatori tramite appositi contratti di ricerca. Ed anche la posizione di ricercatore può
essere assunta sia da un privato che da un ente pubblico.

Per i contratti di ricerca manca una disciplina generale che regoli il diritto al rilascio del brevetto ed allo
sfruttamento economico dell’invenzione. Nei contratti di ricerca privati tali diritti sono di regola riservati al
committente e non all’inventore.

7. L’invenzione brevettata

Il brevetto per invenzione industriale è concesso dall’Ufficio Italiano Brevetti e marchi, sulla base di una
domanda corredata dalla descrizione dell’invenzione.

L’Ufficio Brevetti è tenuto ad accertare la regolarità formale della domanda, la liceità e che l’invenzione
abbia un oggetto per cui è consentita la brevettazione. A differenza che in passato l’Ufficio è inoltre tenuto
oggi a svolgere un’indagine preventiva volta ad accertare gli altri requisiti di validità della domanda.

Il brevetto per invenzioni industriali dura venti anni dalla data di deposito della domanda ed è esclusa ogni
possibilità di rinnovo. Il relativo diritto di esclusiva si può perdere prima della scadenza qualora sia
dichiarata la nullità del brevetto o sopravvenga una causa di decadenza dello stesso.

Il brevetto conferisce al suo titolare la facoltà esclusiva di attuare l’invenzione e di trarne profitto nel
territorio dello Stato fatte salve talune specifiche forme di libera utilizzazione dell’invenzione.

Peraltro l’esclusiva di commercio si esaurisce con la prima immissione in circolazione del prodotto
brevettato in uno Stato membro dell’Unione Europea o dello spazio economico europeo. Perciò chi ha
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acquistato il prodotto messo in commercio può liberamente rivederlo. Questa limitazione (principio
dell’esaurimento del brevetto) è ispirata dalla finalità di ridimensionate la posizione monopolistica connesssa
allo sfruttamento del brevetto.

L’esclusiva sussiste nei limiti dell’invenzione brevettata. Tuttavia se l’invenzione riguarda un nuovo metodo
o un nuovo processo di produzione, l’esclusiva copre solo l’applicazione del nuovo procedimento nonché la
messa in commercio del prodotto direttamente ottenuto con il nuovo metodo o processo.

Il brevetto è liberamente trasferibile sia tra vivi sia mortis causa, indipendentemente dal trasferimento
dell’azienda. Sul brevetto possono essere costituiti diritti reali di godimento o di garanzia.

Il titolare del brevetto può altresì concedere licenza di uso. La licenza di brevetto non è espressamente
regolata e può assumere i contenuti più vari. Ed è proprio licenza di brevetto senza esclusiva il tipico
contratto di cui si avvale la grande industria.

L’invenzione brevettata è tutelata con sanzioni civili e penali. In particolare, il titolare del brevetto ed il
licenziatario possono esercitare azione di contraffazione nei confronti di chi abusivamente sfrutti
l’invenzione. La sentenza ordina l’inibitoria per il futuro della fabbricazione o dell’uso di quanto forma
oggetto del brevetto. Sono altresì previste sanzioni volte ad eliminare dal mercato gli oggetti realizzati in
violazione del brevetto.

Il titolare del brevetto ha in ogni caso diritto al risarcimento dei danni.

8. Brevettazione internazionale. Brevetto europeo. Brevetto europeo con effetto unitario.

Il rilascio del brevetto per invenzione attribuisce diritto di esclusiva solo sul territorio nazionale. L’esclusiva
può essere però conseguita anche in altri Stati.

Brevettazione internazionale
La Convenzione di Unione di Parigi del 1883 riconosce a chi ha richiesto il brevetto per invenzione in uno
degli Stati dell’Unione diritto di priorità per ciascuno degli altri paesi, ma la novità dell’invenzione è valutata
con riferimento alla data del primo deposito nazionale.

Il trattato di Washington del 1970 ha poi consentito una notevole semplificazione della procedura per il
conseguimento del brevetto internazionale nei paesi aderenti a tale trattato.

Brevettazione europea
L’inventore può consentire il brevetto europeo. Unica è la domanda, unica è la procedura ed unico è l’Ufficio
che rilascia il brevetto (Ufficio europeo dei brevetti di Monaco). Unica è altresì la disciplina per quanto
riguarda i requisiti di brevettabilità ed il procedimento di brevettazione.

Brevettazione europea con effetto unitario


L’istituzione di un brevetto autonomo e unitario valido in tutta l’Unione Europea ha dovuto invece attendere
a lungo a causa dei contrasti insorti tra gli Stati membri principalmente in merito al regime linguistico della
domanda ed alla competenza giurisdizionale.

Un primo tentativo realizzato con la convenzione di Lussemburgo del 1975 sul c.d. Brevetto comunitario
fallì per la mancata ratifica da parte di alcuni Stati ma la situazione di stallo è stata superata nel 2011 quando
gli organi comunitari hanno autorizzato una cooperazione rafforzata atra gli Stati membri per la creazione di
un brevetto europeo con effetti unitari.

Il brevetto europeo con effetto unitario (o brevetto unitario europeo) è rilasciato dallo stesso Ufficio europeo
di Monaco secondo le regole ed il procedimento previsti per il brevetto europeo. Peraltro ha carattere
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sovranazionale, unitario ed autonomo. Si prevede che il brevetto europeo con effetto unitario entrerà
finalmente in vigore nell’Autunno del 2022.

9. L’invenzione non brevettata

L’inventore può astenersi dal brevettare il proprio trovato. La nuova disciplina delle invenzioni introdotta nel
1979 riconosce tuttavia una sia pur limitata tutela anche a chi abbia utilizzato una invenzione senza
brevettarla.
Dispone infatti l’art. 68 3° comma c.p.i. che chiunque ha fatto uso dell’invenzione nella propria azienda nei
dodici mesi anteriori al deposito dell’altrui domanda di brevetto può continuare a sfruttare l’invenzione
stessa nel limite del preuso, così come può trasferire tale facoltà ma solo insieme all’azienda in cui
l’invenzione è utilizzata. Si tratta di un temperamento equitativo della funzione costituiva del brevetto. Tale
tutela minima opererà peraltro nel caso di preuso segreto. Si tenga inoltre presente che il Codice della
proprietà industriale tutela non solo le invenzioni segrete ma più in generale tutte le informazioni aziendali e
le esperienze tecnico-industriali segrete (c.d. Segreti commerciali). Se invece l’inventore o il preutente
hanno divulgato l’invenzione, il successivo brevetto difetterà del requisito della novità e quindi potrà esperire
l’azione di nullità dello stesso (art. 76 c.p.i.).

C. I MODELLI INDUSTRIALI

10. Modelli di utilità

 I modelli di utilità sono nuovi trovati destinati a conferire particolare funzionalità a macchine,
strumenti, utensili o oggetti d’uso.
 I disegni e modelli sono invece nuove idee destinate a migliorare l’aspetto (forma, linea , colore ecc)
dei prodotti industriali o artigianali. È questo il vasto campo dell’industrial design.

In sostanza i modelli industriali riguardano la foggia funzionale o estetica.

Distinguere tra i due tipi di modelli industriali non è tuttavia sempre facile. La tutela dei modelli di utilità
continua a fondarsi sull’istituto della brevettazione e in materia trova applicazione larga parte della disciplina
delle invenzioni industriali, anche se i requisiti della novità e della originalità vanno ovviamente adattati allo
specifico minor rilievo dell’idea creativa.

Anche se con la riforma del 1987 le differenze tra le due discipline si sono attenuate, è comunque da ritenersi
che con la riforma della disciplina delle invenzioni si sia persa una buona occasione per eliminare una
distinzione sconosciuta a gran parte delle altre legislazioni anche se le conseguenze pratiche della errata
brevettazione come invenzione di un semplice modello sono neutralizzate dalla riconosciuta possibilità di
conversione del brevetto per invenzioni nullo in brevetto per modelli di utilità.

11. Disegni e modelli

Per disegni e modelli il D. Lgs. 95/2001 emanato in attuazione della direttiva 98/71/CE ha modificato
l’originaria disciplina. La relativa tutela avviene mediante registrazione presso l’Ufficio Italiano Brvetti e
marchi. È la nuova disciplina prevede che possono essere registrati i disegni e modelli che siano nuovi ed
abbiano carattere individuale.

È inoltre consentita la tutela separata di comportamenti destinati ad essere assemblati in un prodotto


complesso purchè le caratteristiche visibili del componente possiedano di per se i requisiti della novità e del
carattere individuale.
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Non possono però essere registrati disegni o modelli contrari all’ordine pubblico o al buon costume. La
registrazione dura cinque anni ma può essere rogata fino ad un massimo di 25 anni.La registrazione di un
disegno o modello conferisce al titolare il diritto di utilizzarlo e vietare ai terzi l’uso senza il suo consenso.
La tutela è estesa ed lege ad ogni altro disegno o modello che non dia un’impressione generale diversa.

Infine, è stato abrogato il divieto di cumulo tra tutela del diritto di autore e quella dei modelli industriali che
caratterizzava la precedente disciplina. Con l’attuale disciplina, invece, le opere del disegno industriale sono
ammesse a godere della più ampia tutela del diritto d’autore.

Ai disegni e modelli nazionali si sono di recente affiancati i disegni e modelli comunitari. La relativa
disciplina è in larga parte coincidente con la nostra legge e si basa sulla registrazione del modello o disegno
presso l’Ufficio dell’UE per la proprietà intellettuale (EUIPO). Il regolamento CE 6/2002 prevede una
limitata e provvvisoria tutela anche ai disegni e modelli non registrati. Il disegno o modello è infatti protetto
come disegno o modello comunitario non registrato per un periodo di tre anni dalla data in cui lo stesso è stat
divulgato al pubblico per la prima volta nella Comunità consentendo al suo titolare di vietarne l’imitazione
pedissequa da parte di terzi.
CAPITOLO OTTAVO
LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA

A. LA LEGISLAZIONE ANTI-MONOPOLISTICA

1. Concorrenza perfetta e monopolio

Il modello ideale di funzionamento del mercato è quello della concorrenza perfetta, che spinge verso una
generale e progressiva riduzione sia dei costi di produzione sia dei prezzi di vendita ed assicura la naturale
eliminazione dal mercato delle imprese meno competitive, stimola il progresso tecnologico e l’accrescimento
dell’efficienza, determina la più razionale utilizzazione delle limitate risorse e il raggiungimento del grado
più elevato possibile di benessere economico e sociale. Tuttavia la concorrenza perfetta è un modello ideale e
teorico, e la realtà è ben diversa. Nei settori strategici della produzione, la linea di tendenza è verso un
regime di mercato sempre più lontano dalla concorrenza perfetta.

Le imprese dedite alla produzione industriale di massa diventano perciò sempre meno numerose e sempre
più grandi dando così vita in taluni settori a situazioni di oligopolio (ad un mercato cioè caratterizzato dal
controllo dell’offerta da parte di poche grandi imprese). Si può arrivare al punto che tutta l’offerta di un dato
prodotto è controllata da una sola impresa o da poche grandi imprese coalizzate (monopolio di fatto).

Di fronte a tali tendenze, è chiaro che la libertà di iniziativa economica privata e della conseguente libertà di
concorrenza di cui all’art. 41 Cost., è presupposto necessario ma non sufficiente affinché si instauri un
regime oggettivo di mercato. Necessaria è anche una regolamentazione giuridica della concorrenza che
impedisca il formarsi ed il perpetuarsi di situazioni di monopolio e di quasi-monopolio.

Concentrazioni e pratiche limitative della concorrenza sono fenomeni che sovente rispondono ad esigenze
oggettive del sistema economico e che non si pongono necessariamente in contrasto con il funzionamento
concorrenziale del mercato. Parimenti, anche fra le intese limitative della concorrenza una visione realistica
induce a distinguere le “buone” dalle “cattive”. Non può poi essere trascurato un ulteriore ordine di fattori
che può comportare compressioni della libertà di iniziativa economica. L’una e l’altra trovano infatti
fondamento e limite nel pubblico interesse: l’art. 2595 c.c. dispone che “la concorrenza deve svolgersi in
modo da non ledere gli interessi dell’economia nazionale” e l’art. 41 Cost dispone che non possa svolgersi in
contrasto con l’utilità sociale.

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La ricerca di un faticoso punto di equilibrio costituisce però la linea direttiva di fondo che ispira la disciplina
della concorrenza nei sistemi giuridici ad economia libera (c.d. Concorrenza sostenibile).

Fissato il principio guida della libertà di concorrenza, il legislatore italiano:

A. Consente limitazioni legali della stessa per fini di utilità sociale


B. Ricollega alla stipulazione di determinati contratti dei divieti di concorrenza
C. Consente limitazioni negoziali della concorrenza ma ne subordina nel contempo la validità al rispetto
di condizioni che non comportino un radicale sacrificio delle libertà di iniziativa economica (art.
2596)
D. Assicura l’ordinato e corretto svolgimento della concorrenza (art. 2598-2601)

Per lungo tempo il sistema italiano ha avuto una vistosa lacuna. La mancanza di una normativa anti-
monopolistica. È vero che a partire dalla metà degli Anni Cinquanta la lacuna era parzialmente colmata dalla
diretta applicabilità nel nostro ordinamento della disciplina anti-trust dettata dai trattati istitutivi della
Comunità economica europea. Ed il vuoto è stato colmato definitivamente dalla Legge 10-10-1990. Tale
legge ha infatti introdotto una disciplina antimonopolistica nazionale a carattere generale.

2. La disciplina italiana ed europea

La libertà di iniziativa economica e la competizione tra imprese non possono tradursi in atti e comportamenti
che pregiudicano in modo rilevante e durevole la struttura concorrenziale del mercato.

La disciplina europea si rifa agli artt. 101 e 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea
(TUFE). La relativa disciplina è volta a preservare il regime concorrenziale. La Commissione europea vigila
sul rispetto di tali normative. È questo il principio cardine oggi recepito anche dalla legislazione anti-
monopolistica italiana generale, volta a preservare il regime concorrenziale del mercato nazionale e a
reprimere i comportamenti anti-concorrenziali.

L’Autorità garante della concorrenza e del mercato vigila sul rispetto della normativa anti-monopolistica. Per
il settore delle assicurazioni, l’Autorità garante deve sentire preventivamente l’Ivaas. Infine, per il settore
dell’editoria e della radiodiffusione dopo la riforma del 1997 la relativa autorità di vigilanza provvede ad
applicare la normativa di settore.

L’Autorità garante è investita di ampi poteri di indagine e ispettivi, adotta i provvedimenti anti-monopolistici
necessari e irroga le sanzioni amministrative. Contro i suoi provvedimenti può essere proposto ricorso
giudiziario, per il quale è competente esclusivamente il TAR del Lazio.

Identici sono i fenomeni pericolosi per la struttura anti-concorrenziale del mercato posti sotto controllo sia
dalla disciplina europea sia da quella nazionale: le intese, gli abusi di posizione dominante, le concentrazioni.
Diverso è invece l’ambito geografico di tali divieti. Da qui l’esigenza di un coordinamento fra le due
normative, che il legislatore italiano aveva in origine realizzato sulla base del c.d. Principio della barriera
unica. A partire dal 2017, questo criterio ha ceduto il passo al c.d. Principio della doppia barriera, secondo
cui le regole nazionali trovano applicazione anche parallelamente al diritto europeo: e l’Autorità garante
nazionale è chiamata a vigilare non soltanto sul rispetto della normativa nazionale ma anche degli artt. 101 e
102 del TUFE.

In particolare, va segnalato che nell’ampia nozione di impresa elaborata dalla Giurisprudenza comunitaria
rientrano anche gli esercenti professioni intellettuali che per il nostro ordinamento non sono Imprenditori.

3. Le singole fattispecie. Le intese restrittive della concorrenza

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Gianmarco Rubino
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LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

Tre sono i fenomeni rilevanti per la disciplina anti-monopolistica:


1. Le intese restrittive della concorrenza
2. Gli abusi di posizione dominante
3. Le concentrazioni

Le intese, o cartelli, sono comportamenti concordati tra imprese volti a limitare la propria libertà di azione
sul mercato. In particolare sono considerate intese:
A. Gli accordi tra imprese, anche se non vincolanti
B. Le deliberazioni di consorzi, di associazioni di imprese e di altri organismi similari
C. Le pratiche concordate tra imprese. In questa fattispecie vi rientra ogni forma di coordinamento
dell’attività delle imprese che si traduce in comportamenti paralleli, consapevolmente adottati
mediante contatti diretti o indiretti.

Non tutte le intese anticoncorrenziali sono però vietate. Vietate sono infatti solo le intese che abbiano per
oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in modo consistente il gioco della concorrenza
all’interno del mercato o in una sua parte rilevante.

La legge (art. 2, comma 2, L. 287/1990) elenca cinque tipi di intese espressamente vietate, sebbene
comunque questo elenco sia esemplificativo; sono quelle consistenti nel:
a) Fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o di vendita ovvero altre condizioni
contrattuali;
b) Impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo
tecnico o il progresso tecnologico;
c) Ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;
d) Applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente diverse per
prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza;
e) Subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni
supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con
l'oggetto dei contratti stessi.

Analogamente a quanto previsto dalla disciplina comunitaria, il divieto di intese anti-concorrenziali rilevanti
non ha però carattere assoluto. L’Autorità garante può infatti concedere esenzioni temporanee purché
ricorrano le condizioni specificate dalla legge. In particolare, si deve trattare di intese che migliorano le
condizioni di offerta sul mercato e producono un sostanziale beneficio per i consumatori in termini di
aumento della produzione, di miglioramento qualitativo, di progresso tecnico. È comunque necessario che
non sia eliminata la concorrenza da una parte sostanziale de mercato.

L’autorità garante non ha finora mai fatto uso del potere di disporre deroghe per categorie di accordi. La
Commissione UE avvalendosi delle autorizzazioni in tal senso del Consiglio ha invece fatto ampio uso del
potere di esentare in via di principio determinate categorie di accordi.

Le intese sono nulle ad ogni effetto.

L’Autorità, a sua volta, accertata con apposita istruttoria l’infrazione commessa, adotta i provvedimenti per
la rimozione degli effetti anti-concorrenziale. L’attuazione di un’intesa anti-concorrenziale obbliga inoltre i
partecipanti al risarcimento del danno, che è dovuto nei confronti di qualsiasi soggetto danneggiato anche se
non è entrato in rapporto contrattuale diretto con l’autore dell’illecito. La responsabilità dei partecipanti
all’illecito è solidale salvo alcune eccezione previste dalla legge a favore delle piccole e medie imprese (da
ora, PMI) e a favore di chi abbia ottenuto l’immunità dalle sanzioni nell’ambito di un programma di
clemenza.

 Quando sussistano le condizioni per l’operare del beneficio le PMI rispondono solidalmente del
danno arrecato ai propri acquirenti e fornitori mentre nei confronti degli altri danneggiati rispondo
solo nei limiti in cui gli stessi non riescano ad ottenere il risarcimento degli altri autori dell’illecito.
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Gianmarco Rubino
Studente di Giurisprudenza Uso personale
LUISS
LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

 Quanto a costoro che abbiano ottenuto l’immunità nell’ambito di un programma di clemenza, è


previsto il beneficio di preventiva escussione degli altri corresponsabili analogo a quanto stabilito
a favore delle PMI, ma non soggetto ad altre condizioni che l’aver ottenuto l’immunità da parte
dell’Autorità garante. Il beneficiario dell’immunità non risponde oltre i limiti del danno causato ai
propri acquirenti e fornitori diretti o indiretti.

La violazione del diritto anti-monopolistico si ritiene definitivamente accertata quando il procedimento


dell’Autorità garante che la constata diventa incontestabile. In più quando la violazione del diritto della
concorrenza consiste in un cartello anche l’esistenza del danno è presunta slava prova contraria. Se il danno
non è provato nel suo preciso ammontare il giudice può determinarlo in via equitativa.

L’illecito anti-concorrenziale determina tipicamente un danno (danno emergente) che consiste nel maggior
costo di beni e servizi per gli acquirenti (c.d. Sovrapprezzo). È possibile tuttavia che l’acquirente abbia a sua
volta rivenduto a terzi (c.d. Acquirenti indiretti) a prezzo maggiorato, riuscendo così a trasferire su questi il
danno da sovrapprezzo (c.d. Trasferimento del sovrapprezzo). Se l’azione di risarcimento viene promossa da
un acquirente indiretto, si presume che costui abbia effettivamente sopportato il danno da sovrapprezzo.
Perciò si determina un’inversione dell’onere della prova ed è l’autore dell’illecito che deve dimostrare il
contrario; se il convenuto riesce a dimostrare l’assenza di un danno da sovrapprezzo, l’attore può pretendere
solo il ristoro per l’eventuale danno da lucro cessante.

Ciascuna parte può chiedere al giudice di ordinare alla controparte o ad un terzo l’esibizione delle prove
rilevanti di cui il destinatario dell’ordine sia ragionevolmente in possesso. L’ordine di esibizione ( che si
ispira alla procedura di common law, discovery) può avere ad oggetto anche intere categorie di prove.
Il diritto al risarcimento si prescrive in cinque anni dal momento della cessazione del comportamento illecito,
ma il termine inizia a decorrere dopo che il danneggiato sia venuto a conoscenza del fatto lessico e
dell’identità dell’autore della violazione.

4. Abuso di posizione dominante e abuso di dipendenza economica

Il secondo fenomeno preso in considerazione è l’abuso di posizione domante da parte di una o più imprese.
Vietato non è il fatto in se dell’acquisizione di una posizione dominante sul mercato. Vietato è solo lo
sfruttamento abusivo di tale posizione dominante individuale o collettiva con comportamenti lesivi dei
concorrenti e dei consumatori capaci di pregiudicare la concorrenza effettiva. Nella valutazione della
posizione dominante, un ruolo decisivo gioca la individuazione merceologica e geografica del mercato
rilevante.

Il mercato rilevante comprende tutti i prodotti e/o servizi che sono considerati intercambiabili o sostituibili
dal consumatore in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell’uso al quale sono destinati.
L’individuazione del mercato rilevante, comunque, non è sempre agevole, anche per la tendenza della
Autorità garante a frammentare lo stesso.

I comportamenti tipici che possono dar luogo ad abuso di posizione dominante sono, a titolo esemplificativo,
le seguenti. Ad una impresa è in particolare vietato di:
a) Imporre prezzi o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose
b) Impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo tecnico a danno
dei consumatori
c) Applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti nei rapporti commerciali
d) Subordinare la conclusione di contrati all’accettazione di prestazioni supplementari

L’Autorità può inoltre infliggere sanzioni pecuniarie identiche a quelle stabilite per le intese e, in caso di
reiterata inottemperanza, l’Autorità italiana può anche disporre la sospensione dell’attività di impresa fino a
30 giorni.

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Gianmarco Rubino
Studente di Giurisprudenza Uso personale
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Nel contempo oggi è vietato nell’ordinamento nazionale, come in quello di altri paesi, anche l’abuso dello
stato di dipendenza economica nel quale su trova un’impresa, cliente o fornitrice, rispetto ad una o più altre
imprese. Si intende per dipendenza economica la situazione in cui una impresa sia in grado di determinare un
eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi.

Il patto attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo. Il tribunale può ordinare
l’inibitoria del comportamento abusivo e condannare l’autore al risarcimento del danno.

5. Le concentrazioni

In base alla normativa nazionale, che ricalca il regolamento CE, si ha concentrazione quando:
 Due o più imprese si fondono dando così luogo ad un’unica impresa (concentrazione giuridica)
 Due o più imprese pur restando giuridicamente distinte diventano una unica entità economica
(concentrazione economica)
 Due o più imprese indipendenti costituiscono un’impresa comune che opera come un’entità
autonoma rispetto alle prime

Le imprese comuni sono però sottratte alla disciplina delle concentrazioni quando abbiano come scopo
principale il coordinamento dei comportamenti concorrenziali delle imprese partecipanti. È da escludersi
perciò che la disciplina delle concentrazioni trovi applicazione quando le imprese partecipanti fanno già
parte di uno stesso gruppo.

È inoltre espressamente escluso che si abbia concentrazione quando una banca o un istituto finanziario
acquistano una partecipazione di controllo in un’impresa al fine di rivenderla sul mercato purché non
esercitino il diritto di voto per tutto il periodo di possesso delle azioni che comunque non deve superare i 24
mesi.

Le concentrazioni costituiscono un utile strumento di ristrutturazione ma non sono di per sé vietate in quanto
rispondo all’esigenza di accrescere la competitività delle imprese. Diventano però illecite e vietate quando
danno luogo a gravi alterazioni del regime concorrenziale del mercato.

È perciò stabilito che le operazioni di concentrazione che superano determinate soglie di fatturato devono
essere preventivamente comunicate rispettivamente alla Autorità italiana o alla Commissione UE.

Se l’Autorità ritiene di dover indagare, apre una istruttoria apposita che deve essere conclusa nel termine
perentorio di 45 giorni. Nel frattempo può ordinare alle imprese interessate di sospendere la realizzazione
della concentrazione. Terminata l’istruttoria, l’Autorità può senz’altro vietare la concentrazione. In
alternativa può autorizzarla. Pesanti sanzioni pecuniarie che possono giungere fino al 10% del fatturato delle
imprese interessate sono inflitte dalla Autorità se la concentrazione vietata viene ugualmente eseguita o se le
imprese non si adeguano a quanto dalla stessa prescritto per eliminare gli effetti anti-concorrenziali della
concentrazione già eseguita.

Diversamente dalle intese, non è però sancita la nullità delle operazioni che hanno dato luogo ad una
concentrazione vietata. Ai terzi resta perciò solo la possibilità di richiedere il risarcimento dei danni in via
giudiziaria.

B. LE LIMITAZIONI DELLA CONCORRENZA

6. Limitazioni pubblicistiche e monopoli legali

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Sia la Costituzione sia il Codice civile consentono che tali libertà possano essere limitate dai pubblici poteri.

In questa sede è sufficiente ricordare che le ipotesi più evidenti e tradizionali di interventi legislativi in tale
direzione.
 I controlli sull’acceso al mercato di nuovi imprenditori, subordinandone l’attività ad autorizzazione
amministrativa o a concessione
 Gli ampi poteri di indirizzo e di controllo dell’attività riconosciuti alla pubblica amministrazione nei
confronti delle imprese che operano in settori di particolare rilievo economico e sociale
 L’articolato sistema di controllo pubblico dei prezzi di vendita che per beni o servizi strategici o di
largo consumo può giungere fino alla fissazione di prezzi di Imperio da parte del CIP.

Infine, l’interesse generale può legittimare anche la radicale soppressione della libertà di iniziativa
economica creando monopoli pubblici. È necessario che la riserva di attività sia disposta con legge ordinaria
e che il sacrificio della libertà economica risponda ai fini di utilità generale. Inoltre, sono predeterminati in
modo tassativo i settori nei quali può essere legittimamente istituito un monopolio pubblico. Esempi tipici di
monopoli fiscali sono quello dei tabacchi, del lotto, delle lotterie nazionali e dei concorsi pubblici. È invece
cessato il monopolio statale della RAI per il servizio radiotelevisivo.

7. Obbligo di contrarre del monopolista

Derogando al principio generale della libertà di contrattare, l’art. 2597 c.c. pone un duplice obbligo a carico
di chi opera in regime di monopolio:
 L’obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano l0ogetto dell’impresa
 L’obbligo di rispettare la parità di trattamento fra i diversi richiedenti
Identici obblighi sono previsti dall’art. 1679 a carico di chi eserciti in regime di concessione amministrativa
pubblici servizi di linea per il supporto di persone o cose.

Il rispetto del principio della parità di trattamento comporta a sua volta che il monopolista debba
predeterminare e rendere note al pubblico le proprie condizioni contrattuali.

La parità di trattamento non implica però che le condizioni contrattuali debbano essere necessariamente le
stesse per tutti gli utenti. Il monopolista potrà prevedere anche modalità e tariffe differenziate purché
predetermini i relativi presupposti di applicazione e ne faccia godere chiunque si trovi nelle condizioni
richieste.

Ogni altra deroga alle condizioni generali di contratto è nulla.

La disciplina fin qui esaminata non è però applicabile al monopolista di fatto. A costui è però applicabile la
normativa di tutela della concorrenza introdotta dalla legge 287/1990; e ciò consente di reprimere per latra
via le pratiche discriminatorie e vessatorie poste in essere dallo stesso nei confronti di altri imprenditori (ma
non dei consumatori).

8. I divieti legali di concorrenza

Esiste un ordine di limitazioni disposte dal legislatore a tutela di interessi patrimoniali e privati. Si tratta per
lo più di divieti che accedono ad un rapporto di collaborazione economica destinato a svilupparsi nel tempo.
Perciò la loro durata coincide con quella del rapporto di collaborazione cui accedono.

Rientrano tra i divieti legali di concorrenza:


a) L’obbligo di fedeltà a carico dei prestatori di lavoro previsto dall’art. 2105 c.c.

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b) Il divieto di esercitare attività concorrente con quella della società posto a carico dei soci a
responsabilità illimitata di società di persone e degli amministratori di società di capitali e
cooperative
c) Il diritto di esclusiva reciproca nel contratto di agenzia

Tra i divieti in esame rientra anche il divieto di concorrenza posto a carico di chi aliena un’azienda
commerciale, divieto che tra l’altro ha una durata massima di cinque anni.

9. Limitazioni convenzionali della concorrenza

La libertà individuale di iniziativa economica e di concorrenza è libertà parzialmente disponibile. Tutto si


desume dall’art. 2596 c.c. Per esigenze di certezza giuridica, il patto deve essere provato per iscritto.

Finalità esclusiva della disciplina esposta è quella di tutelare il soggetto o i soggetti che assumono
convenzionalmente l’obbligo di non concorrenza. Alla norma è invece estranea la finalità di preservare la
struttura concorrenziale del mercato e di impedire la costituzione di situazioni di monopolio di fatto.

D’altro canto, non tutte le limitazioni pattizie della concorrenza sono assoggettabili alla disciplina prevista
dall’art. 2596.

È al riguardo opportuno considerare separatamente due distinte categorie di patti anti-concorrenziali: i patti
autonomi e i patti accessori.

 L’accordo limitativo della concorrenza può presentarsi come un autonomo contratto che ha come
oggetto e funzione esclusivi la restrizione della libertà di concorrenza. Questi ultimi contratti si
definiscono tendenzialmente cartelli o intese e possono prevedere impegni reciproci di vario tipo.

È fuori contestazione che i contratti che prevedono obblighi unilaterali di non concorrenza ricadono
nell’ambito di applicazione dell’art. 2596 c.c. La loro durata non potrà perciò essere superiore in nessun caso
ai cinque anni.

La soluzione non è altrettanto pacifica per tutti i contratti che prevedono restrizioni reciproche dell
concorrenza. Il problema nasce dal fatto che le finalità di un cartello (contratto innominato) possono essere
realizzate anche con un contratto tipico di consorzio (art. 2602), di cui parleremo nel prossimo capitolo ma
che in linea di base si caratterizza per la creazione di una organizzazione comune tra gli imprenditori
partecipanti e per esso non è oggi previsto alcun limite di durata. Anzi è disposto che se le parti nulla
prevedono si intende valido per dieci anni, ex art. 2604 c.c.

Ne consegue che il limite di durata quinquennale, previsto in via generale dall’art. 2596 è applicabile con
certezza solo alle restrizioni reciproche della concorrenza che non prevedono la costituzione di una
organizzazione comune per la realizzazione del loro oggetto.

Le restrizioni negoziali della concorrenza possono atteggiarsi, oltre che come contratti autonomi, anche come
clausola accessoria di un altro contratto avente un diverso oggetto. Ed anche tali pattuizioni, possono
prevedere sia restrizioni della concorrenza a carico di una sola delle parti sia restrizioni reciproche. Esse
inoltre possono intercorrere sia tra imprenditori in diretta concorrenza tra di loro in quanto operano al
medesimo livello del processo produttivo e commerciale (c.d. Restrizioni orizzontali) sia tra imprenditori
operanti a livelli diversi e tra i quali manca un rapporto diretto di concorrenza perché , ad esempio, uno è
produttore e l’altro è rivenditore di quella data merce (c.d. Restrizioni verticali).

Alcuni di questi patti accessori formano oggetto di specifica disciplina. Infatti il codice regola distintamente:
a) La clausola di esclusiva (art. 1567 e 1568 c.c.)

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b) Il patto di preferenza (art. 1556): il somministrato si obbliga a preferire, a parità di condizioni, lo


stesso somministrante qualora intenda stipulare un successivo contratto di somministrazione
c) Il patto di non concorrenza con il quale si limita l’attività del prestatore di lavoro per il tempo
successivo alla prestazione del contratto. Il patto è nullo se non risulta da atto scritto. È altresì nullo
se non è previsto un corrispettivo a favore del lavoratore.
d) Il patto con cui si limita la concorrenza dell’agente dopo lo scioglimento del contratto di agenzia.
Tale patto deve aversi per iscritto, non può avere durata superiore a due anni e deve riguardare la
stessa zona, clientela e genere di beni o servizi oggetto del contratto di agenzia. All’agente è inoltre
riconosciuta una indennità determinata d’accordo tra le parti o in mancanza dal giudice.

Non tutti i patti accessori limitativi della concorrenza ricadono perciò nell’ambito di applicazione della
disciplina generale dettata dall’art. 2596. Questa è in via di principio applicabile solo ai patti accessori
innominati. È tuttavia opinione prevalente che anche per i patti innominati debba essere operata una
distinzione. Si ritiene infatti che il limite quinquennale, posto dall’art. 2596, si applichi solo alle clausole
innominate che comportano limitazioni della concorrenza non funzionali al tipo di contratto cui accedono:
non invece quando tra il patto ed il contratto sussiste un collegamento causale.

Ad una ulteriore e più drastica restrizione dell’ambito di operatività dell’art. 2596 conduce poi l’opinione,
largamente diffusa, secondo cui le relative limitazioni si applicherebbero solo alle restrizioni orizzontali della
concorrenza, ai patti cioè stipulati tra produttori o tra rivenditori della stessa merce.

Si sottrarrebbero invece a tale disciplina tutti i patti non concorrenza stipulati tra imprenditori che operano a
livello diverso (restrizioni verticali, stipulati tra produttori e rivenditori). Questi patti sono regolati dalla più
permissiva disposizione dell’art- 1379 (divieto convenzionale di alienazione): questa ulteriore amputazione
delle sfere di applicazione dell’art. 2596 non merita però di essere condivisa. Essa si fonda sulla discutibile
premessa che l’art. 2596 riguardi solo i patti che limitano la concorrenza tra le parti contraenti. Ma così non è
in quanto un patto di esclusiva tra produttore e commerciante implica una diretta restrizione della
concorrenza a carico del secondo precludendogli la possibilità di rifornirsi da altri produttori. Ricade perciò
nell’ambito di applicazione dell’art. 2596 ed ovviamente anche della disciplina anti-monopolistica.

C. LA CONCORRENZA SLEALE

10. Libertà di concorrenza e disciplina della concorrenza sleale

La competizione tra imprese, in regime di libertà di iniziativa economica, può anche essere rude e pesante! Il
danno che un imprenditore subisce a causa della sottrazione della clientela da parte dei concorrenti non è
però un danno ingiusto e dunque risarcibile. Tuttavia, è interesse generale che la competizione tra
imprenditori si svolga in modo corretto e leale.

Nell’ordinamento vigente la stessa esigenza è soddisfatta in via legislativa dalla disciplina della concorrenza
sleale (art. 2598-2601 c.c.) che recepisce nella legislazione interna la corrispondente normativa dettata
dall’art. 10 bis della Convenzione di Unione di Parigi per la protezione della proprietà industriale del 1883.

Nello svolgimento della competizione tra imprenditori concorrenti è vietato servirsi di mezzi e tecniche non
conformi ai principi della concorrenza professionale. Tali arti sono repressi e sanzionati anche se compiuti
senza dolo o colpa. Basta infatti che ci sia il c.d. Danno potenziale (l’atto idoneo a danneggiare l’altrui
azienda). Tanto è necessario e sufficiente perché scattino le sanzioni tipiche della inibitoria della
continuazione degli atti di concorrenza sleale e della rimozione degli effetti prodotti salvo il diritto al
risarcimento dei danni in presenza dell’elemento psicologico.

Si tratta in definitiva di una disciplina speciale rispetto a quella generale dell’illecito civile e che offre agli
imprenditori una tutela sotto più profili più energica nelle relazioni con i concorrenti. L’interesse tutelato
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dalla disciplina della concorrenza sleale non è perciò esauribile nell’interesse degli imprenditori. Tutelato è
anche il più generale interesse a che non vengano falsati gli elementi di valutazione e di giudizio del
pubblico e non siano tratti in inganno i destinatari finali della produzione: i consumatori.

Il sistema della concorrenza sleale non può essere perciò deputato ad assolvere una diretta funzione
protettiva dei consumatori. In particolare, salvo i casi più gravi in cui ricorrono gli estremi per la repressione
penale delle frodi in commercio lascia questi ultimi esposti ai possibili inganni dei mezzi di persuasione
pubblicitaria.

Tuttavia anche sotto questo profilo significativi passi in avanti sono stati compiuti dal 1942 ad oggi. Infatti
alla originaria mancanza di norme sulla protezione dei consumatori contro gli inganni pubblicitari ha la
trovato un rimedio la volontaria adozione da parte delle imprese del settore di un Codice di autodisciplina
pubblicitaria, a cui si è poi affiancata una disciplina statale della pubblicità ingannevole e da ultimo il D. Lgs.
2/8/2007 n.146 che ha introdotto norme di tutela dei consumatori contro tutte le pratiche commerciali
scorrette nel c.d. Codice del Consumo (d.lgs. 206/2005).

11. Ambito di applicazione della disciplina della concorrenza sleale

L’applicazione della concorrenza sleale postula il ricorso di un duplice presupposto:


 La qualità di imprenditore sia del soggetto che pone in essere l’atto di concorrenza vietato sia del
soggetto che ne subisce le conseguenze
 L’esistenza di un rapporto di concorrenza economica tra i medesimi

Che soggetto passivo dell’atto di concorrenza sleale possa essere solo un imprenditore è fuori contestazione.
Lo stesso dato normativo, prevedendo che “chiunque compia atti…” (art.2598), alimenta invece qualche
incertezza sulla necessità che la qualità di imprenditore debba anche essere rivestita dall’autore del
comportamento: invero, tuttavia, concorrente di un imprenditore non può che essere imprenditore. E
soprattutto per tale soluzione milita una fondamentale esigenza di parità di trattamento dato che non si
saprebbe davvero ravvisare la giustificazione di una tutela privilegiata dell’imprenditore nei confronti di tutti
i consociati.

Né, a ben vedere, tale delimitazione è contraddetta dalla giurisprudenza che applica la disciplina della
concorrenza sleale a carico e a favore dell’imprenditore che sta organizzando la propria attività o che si trova
in fase di liquidazione.

Il secondo presupposto di applicabilità della disciplina della concorrenza sleale è l’esistenza di un rapporto di
concorrenza tra gli imprenditori e di concorrenza prossima o effettiva. Soggetto attivo e soggetto passivo
devono cioè offrire nello stesso ambito di mercato beni o servizi che siano destinati a soddisfare lo stesso
bisogno dei consumatori.

Un ulteriore passo avanti è stato poi compiuto dalla giurisprudenza con l’ammettere che essa è applicabile
anche tra operatori che agiscono a livelli economici diversi: produttore-rivenditore; grossista-dettagliante etc
(c..d concorrenza verticale).

12. Gli atti di concorrenza sleale. Le fattispecie tipiche

I comportamenti che costituiscono atti di concorrenza sleale sono definiti dall’art. 2598 del cod civ:
 Gli atti di confusione
 Gli atti di denigrazione e l’appropriazione di pregi altrui
Enuncia poi una regola generale di chiusura disponendo che sia atto di concorrenza sleale ogni altro mezzo
non conforme ai principi della concorrenza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.

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In breve, la previsione legislativa di atti tipici di concorrenza sleale risponde alla finalità pratica di
restringere i margini di incertezza e di discrezionalità insiti nella repressione fondata sulla applicazione della
elastica clausola generale di chiusura.

Ciò fissato, analizziamo le due fattispecie tipiche:


 È atto di concorrenza sleale ogni atto idoneo a creare confusione con i prodotti o con l’attività di un
concorrente (art. 2598 n.1). Molteplici sono le tecniche e le pratiche. Il legislatore ne individua
espressamente due:
 L’uso di nomi o di segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni
distintivi legittimamente usati da altri. La confondibilità può riguardare segni distintivi tipici
(ditta, insegna, marchio) ma anche segni non protetti da altre disposizioni (pe. Uno slogan
pubblicitario) ed in tal caso il valore individuale degli stessi potrà essere difeso solo
invocando l’applicazione della disciplina della concorrenza sleale.
 L’altra ipotesi è costituita dalla imitazione servile dei prodotti di un concorrente. È tale la
pedissequa riproduzione delle forme esteriori del prodotti altrui attuata in modo da indurre il
pubblico a supporre che i due prodotti provengono dalla stessa impresa. Non si ha perciò
limitazione servile quando vengono imitate forme comuni o ormai standardizzate e
rinvenibili in ogni prodotto di quel genere.

 La seconda vasta categoria di atti di concorrenza sleale (art. 2598 n.2) consiste negli atti di
denigrazione e nella appropriazione di pregi dei prodotti dell’impresa di un concorrente.
 Con la denigrazione si tende a mettere in cattiva luce i concorrenti danneggiando la loro
reputazione commerciale.
 Con la vanteria si tende invece ad incrementare artificiosamente il proprio prestigio attribuendo
ai propri prodotti o alla propria attività pregi e qualità che in realtà appartengono ad uno o più
concorrenti.

Diverse sono le pratiche riconducibili allo schema della concorrenza sleale.


 Diffide: le denunzie al pubblico di pratiche concorrenziali illecite da parte di concorrenti specifici
quando la diffida sia priva di fondamento.
 La pubblicità iperbolica: si tende ad accreditare l’idea che il proprio prodotto sia il solo a possedere
specifiche qualità o determinati pregi. Lecito invece è il cosiddetto puffing, consistente nella
generica ed innocua affermazione di superiorità dei propri prodotti.
Anche l’appropriazione di pregi altrui può essere realizzata con modalità e tecniche diverse. Ne costituiscono
forme tipiche:
 la pubblicità parassitaria: mendace attribuzione a se stessi di qualità, pregi, riconoscimenti, premi e
comunque di caratteristiche positive che in realtà appartengono ad altri imprenditori del settore.
 e la pubblicità per riferimento: tende a far credere che i propri prodotti siano simili a quelli di un
concorrente attraverso l’utilizzazione di espressioni come tipo, modello, sistema.

Non sempre costituisce invece atto di concorrenza sleale la pubblicità comparativa, che consiste in ogni
pubblicità che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente ovvero beni o servizi offerti da un
concorrente. La comparazione è infatti lecita quando non è ingannevole, confronta oggettivamente
caratteristiche essenziali e verificabili di beni o servizi omogenei, non ingenera confusione sul mercato e non
causa discredito o denigrazione del concorrente. Non deve inoltre procurare all’autore della pubblicità un
indebito vantaggio tratto dalla notorietà dei segni distintivi del concorrente. La pubblicità comparativa non si
può quindi ritenere vietata in modo assoluto.

13. Gli atti di concorrenza sleale

L’art. 2598 chiude l’elencazione con ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza
professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda. È questo un criterio evidentemente molto elastico.

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Fra gli atti contrati al parametro della concorrenza professionale rientra innanzitutto la pubblicità
menzognera: falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità o pregi non appartenenti ad alcun concorrente.
Ma illecita si deve considerare anche la pubblicità menzognera non specificatamente lesiva di un determinato
concorrente, quando il messaggio pubblicitario sia tale da trarre in inganno il pubblico falsandone gli
elementi di giudizio.

Alla medesima conclusione si deve inoltre pervenire per le altre condotte che il codice del consumo qualifica
come pratiche commerciali scorrette dato che anche in questo caso è fatta salva l’applicazione della
disciplina della concorrenza sleale, oltre agli specifici rimedi previsti dalla relativa disciplina.

Tra le forme di concorrenza sleale ricondotte all’art. 2598 n.3, vanno ricordate:

 La concorrenza parassitaria, che consiste nella sistematica imitazione delle altrui iniziative
imprenditoriali con accorgimenti tali da evitare la piena confondibilità delle attività e con un disegno
complessivo che denota il pedissequo sfruttamento dell’altrui creatività. Celebre è stato, in tal senso,
in passato il caso Motta-Alemagna.

 Il boicottaggio economico, tale è il rifiuto di un’impresa in posizione dominante usl mercato o di un


gruppo di imprese associate di fornire i propri prodotti a determinati rivenditori in modo da
escluderli dal mercato.

 Il dumping, cioè la sistematica vendita sotto costo dei propri prodotti. È tuttavia controverso se esso
sia o meno atto di concorrenza sleale ovvero se sia tale solo quando finalizzato all’eliminazione dei
concorrenti ed alla acquisizione di una posizione monopolistica.

 La sottrazione ad un concorrente di dipendenti o anche di collaboratori autonomi (agenti,


rappresentanti…) particolarmente qualificati quando venga attuata con modalità tali da manifestare il
deliberato proposito di danneggiare l’altrui azienda.

Tra gli atti di concorrenza sleale è oggi espressamente compresa anche la violazione di segreti commerciali:
vale a dire la rilevazione a terzi e l’acquisizione o l’utilizzazione da parte di terzi delle informazioni aziendali
segrete.

14. Le sanzioni

La repressione degli atti di concorrenza sleale si fonda su due distinte sanzioni: l’inibitoria (art. 2599) e il
risarcimento dei danni (art. 2600).

 L’inibitoria è diretta ad ottenere una sentenza che accerti l’illecito concorrenziale e ne inibisca la
continuazione per il futuro e disponga a carico della controparte i provvedimenti reintegrativi
necessari per far cessare gli effetti della concorrenza sleale.

 Ricorrendo anche il requisito del dolo e della colpa, allora il concorrente potrà anche chiedere il
risarcimento dei danni ex art. 2600. La colpa del danneggiante peraltro si presume una volta
accertato l’atto di concorrenza sleale.

Tra le misure risarcitorie il giudice può disporre anche la pubblicazione della sentenza in uno o più giornali a
spese del soccombente.

L’azione per la repressione della concorrenza sleale può essere promossa dall’imprenditore o dagli
imprenditori lesi. La relativa legittimazione è poi espressamente riconosciuta anche dalle associazioni
professionali degli imprenditori.
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Gianmarco Rubino
Studente di Giurisprudenza Uso personale
LUISS
LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

Tra i soggetti legittimati a promuovere la repressione della concorrenza sleale non sono invece menzionati né
i singoli consumatori né le associazioni rappresentative dei loro interessi. La situazione oggi è però
parzialmente cambiata quando ricorrono i presupposti per l’applicazione della disciplina specifica per la
repressione delle pratiche commerciali scorrette e della pubblicità ingannevole.

15. Le pratiche commerciali scorrette tra imprese e consumatori

Pratica commerciale è in senso lato qualsiasi condotta posta in essere da un professionista in relazione alla
promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori.

 Una pratica commerciale è scorretta quando, cumulativamente:


a) non è conforme al grado di diligenza che il consumatore può ragionevolmente attendersi dal
professionista in base ai principi generali di correttezza e buona fede nel settore di attività
del professionista stesso
b) ed è idonea a falsare il comportamento economico del consumatore medio, inducendolo ad
assumere una decisione commerciale che non avrebbe altrimenti preso.

 Sono ingannevoli le pratiche che, in quanto contengono informazioni false oppure per la
presentazione o in qualsiasi alto modo sono idonee ad indurre in errore. il consumatore medio su
elementi essenziali dell'operazione commerciale e possono indurlo ad assumere una decisione di
natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso.

La legge specifica dettagliatamente su quali elementi l'errore è essenziale: caratteri del prodotto,
prezzo, qualifiche del professionista, diritti del consumatore, ecc. (art. 21 cod. cons.).

Sono altresì ingannevoli le pratiche commerciali che in concreto comportino confusione con i
prodotti o i segni distintivi di un concorrente, ovvero siano realizzate in violazione dei codici di
comportamento

 Sono aggressive le pratiche che, mediante molestie oppure coercizione fisica o morale, sono idonee a
limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio e possono
indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso

L’Autorità garante, d'ufficio o su istanza di qualsiasi interessato, inibisce le pratiche commerciali illecite, ne
elimina gli effetti e commina sanzioni pecuniarie a carico del professionista (art. 27 cod. cons.)

L'intervenuta regolamentazione pubblicistica non preclude la possibilità di azionare preventivamente


eventuali sistemi di autodisciplina, eventualmente organizzati da associazioni imprenditoriali e professionali,
come il Giurì di autodisciplina pubblicitaria.

16. La pubblicità ingannevole e comparativa

A partire dalla metà degli anni sessanta, i più importanti mezzi di pubblicità hanno dato vita ad un sistema di
autodisciplina pubblicitaria che li impegna a non diffondere messaggi pubblicitari che contrastino con le
regole di comportamento fissate da un apposito codice privato (il codice di autodisciplina pubblicitaria). Un
organismo di giustizia privata, il Giurì di autodisciplina, con sede a Milano, vigila sul rispetto del codice e
funge da organo giudicante.

Il codice di autodisciplina e le decisioni del Giurì sono tuttavia vincolanti su base contrattuale solo per i
mezzi pubblicitari che hanno aderito alla autodisciplina. Dunque con il D.Lgs 74/1992 si è affiancata al Giurì
una disciplina legislativa statale.
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Gianmarco Rubino
Studente di Giurisprudenza Uso personale
LUISS
LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

La legge vieta qualsiasi forma di pubblicità ingannevole, stabilendo che è ingannevole qualsiasi pubblicità
che, in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induce in errore o può indurre in errore le persone
alle quali è rivolta e che possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero leggere un
concorrente.

CAPITOLO NONO
I CONSORZI FRA IMPRENDITORI

«Con il contratto di consorzio più imprenditori istituiscono un'organizzazione comune per la disciplina o per
lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese» (art. 2602).

La nuova definizione legislativa comporta che il consorzio è oggi schema associativo tra imprenditori idoneo
a ricomprendere due distinti fenomeni della realtà. Un consorzio può essere costituito al fine prevalente o
esclusivo di disciplinare la reciproca concorrenza sul mercato fra imprenditori (consorzio con funzione
anticoncorrenziale).

In tal caso il contratto di consorzio si presenta come una delle possibili manifestazioni dei patti limitativi
della concorrenza ed esempio classico di consorzio anticoncorrenziale, è quello costituito per il
contingentamento della produzione o degli scambi fra imprenditori concorrenti.

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Gianmarco Rubino
Studente di Giurisprudenza Uso personale
LUISS
LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

Più imprenditori possono però dar vita ad un consorzio anche per conseguire un fine parzialmente o
totalmente diverso: «per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese». In tal caso il consorzio
rappresenta anche (o rappresenta solo) uno strumento di cooperazione interaziendale, finalizzato (anche o
esclusivamente) alla riduzione dei costi di gestione delle singole imprese consorziate (consorzio con
funzione di coordinamento).

A queste forme di cooperazione reciproca ricorrono in modo particolare le imprese di piccole e medie
dimensioni, per raggiungere e recuperare competitività sul mercato attraverso la riduzione delle spese
generali di esercizio.

L'intento legislativo di rendere lo schema consortile idoneo a ricomprendere tali fenomeni della realtà è alla
base della riforma legislativa del 1976 e, della nuova formulazione della nozione del contratto di consorzio.

Consorzi anticoncorrenziali e consorzi di cooperazione interaziendale sollevano problemi legislativi diversi


quando si consideri il profilo pubblicistico della loro incidenza sulla struttura concorrenziale del mercato.

I consorzi anticoncorrenziali sollecitano controlli volti ad impedire che per loro tramite si instaurino
situazioni di monopolio di fatto contrastanti con l'interesse generale. E l’esigenza è oggi soddisfatta grazie
alla disciplina antimonopolistica (nazionale e comunitaria).

A valutazioni diverse danno invece luogo i consorzi di cooperazione interaziendale che rispondono
all'esigenza, di conservare e di accrescere la competitività delle imprese e, concorrono a preservare la
struttura concorrenziale del mercato. I consorzi che perseguono tale finalità sono perciò guardati con favore
dal legislatore, che ne agevola la costituzione ed il funzionamento.

Ciò tenuto presente, è da aggiungere che, sul piano della disciplina di diritto privato, consorzi
anticoncorrenziali e consorzi di cooperazione aziendale sono regolati in modo tendenzialmente uniforme.

Altra è però la distinzione sul piano civilistico.

Ed è la distinzione fra consorzi con (sola) attività interna e consorzi destinati a


svolgere (anche) attività esterna.

In entrambi si dà luogo alla creazione di un'organizzazione comune; ma nei consorzi con sola attività interna
il compito dell’organizzazione si esaurisce nel regolare i rapporti reciproci fra i consorziati e nel controllare
il rispetto di quanto convenuto.

Il consorzio in quanto tale non entra in contatto e non opera con i terzi.

Nei consorzi con attività esterna, le parti prevedono l'istituzione di un ufficio comune (art. 2612), destinato a
svolgere attività con i terzi nell'interesse delle imprese consorziate ed è questa la struttura più diffusa dei
consorzi di cooperazione interaziendale, mentre i consorzi limitativi della concorrenza possono in concreto
assumere entrambe le forme.

Il codice prevede innanzitutto una base normativa, volta a regolare la costituzione del consorzio ed i rapporti
fra i consorziati e detta poi disposizioni relative ai soli consorzi con attività esterna.

Iniziamo perciò dalla normativa comune.

Il contratto di consorzio può essere stipulato solo fra imprenditori perché, solo coloro che svolgono attività di
impresa possono essere interessati a disciplinare o a svolgere in comune determinate fasi delle rispettive
imprese.

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Gianmarco Rubino
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Non sono richiesti ulteriori requisiti soggettivi né è necessario che i partecipanti svolgano la medesima
attività o attività similari.

Il contratto di consorzio è un contratto formale. Deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità e deve
contenere una serie di indicazioni specificate dal secondo comma dall'art. 2603.

Essenziale è la determinazione dell'oggetto del consorzio, degli obblighi assunti dai


consorziati e degli (eventuali) contributi in danaro da essi dovuti per il funzionamento del consorzio.

Se si tratta di consorzio di contingentamento, il contratto deve altresì stabilire le quote dei singoli consorziati
o i criteri per la loro determinazione.

Il contratto di consorzio è per sua natura un contratto di durata. Questa può essere liberamente fissata dalle
parti, ma una previsione contrattuale al riguardo non è necessaria. Nel silenzio il contratto è valido per dieci
anni (art. 2604).

Questa è una scelta legislativa opposta a quella enunciata dal testo originario dell'art. 2604 (che fissava in
dieci anni la durata massima del consorzio) e il mutamento del dato normativo è stato ispirato dall'esigenza
di eliminare un ostacolo alla costituzione di stabili organismi consortili di cooperazione.

L'attuale art. 2604 non opera però alcuna distinzione fra consorzi di cooperazione e consorzi
anticoncorrenziali: perciò la nuova regola in tema di durata è da ritenersi applicabile anche a questi ultimi, in
deroga all'art. 2596 che fissa in cinque anni la durata massima dei patti limitativi della concorrenza.

Il contratto di consorzio è un contratto tendenzialmente aperto perciò è possibile la partecipazione al


consorzio di nuovi imprenditori senza che sia necessario il consenso di tutti gli attuali consorziati.

Le condizioni per l'ammissione di nuovi consorziati devono però essere predeterminate nel contratto seppur
l'indicazione non sia essenziale e infatti se il contratto nulla prevede al riguardo è da ritenersi che il consorzio
abbia struttura chiusa. Nuovi imprenditori potranno aderire (per iscritto, a pena di nullità) solo con il
consenso di tutti i consorziati.

L'art. 2610, dispone che il trasferimento a qualsiasi titolo dell'azienda comporta l'automatico subingresso
dell'acquirente nel contratto di consorzio.

Se sussiste una giusta causa e solo se il trasferimento dell'azienda è avvenuto per atto inter
vivos, gli altri consorziati potranno deliberare l'esclusione dell'acquirente dal consorzio, entro un mese dalla
notizia dell'avvenuto trasferimento.

Il contratto di consorzio, può sciogliersi limitatamente ad un consorziato, per volontà di questo (recesso) o
per decisione degli altri consorziati (esclusione). Le cause di recesso e di esclusione devono essere indicate
nel contratto.

Anche l'indicazione dei casi di recesso e di esclusione non è però clausola essenziale del contratto.
Comunque, se nulla è pattuito, opererà pur sempre la causa di esclusione prevista dall'art. 2610

L'esclusione potrà essere sempre deliberata in caso di gravi inadempienze.

Il rapporto individuale può essere interrotto quando un consorziato cessi di essere imprenditore, sia su
iniziativa degli altri consorziati sia per recesso dell’interessato e ciò in quanto la qualità di imprenditore delle
parti è uno dei requisiti essenziali del contratto di consorzio.

Al consorziato receduto o escluso competerà la liquidazione della sua quota di partecipazione al fondo
patrimoniale consortile ma è opinione largamente prevalente che il primo comma dell'art. 2609 non si
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Gianmarco Rubino
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LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

riferisce alla quota di partecipazione al fondo consortile, bensì e solo, ai diritti ed agli obblighi assunti dalle
parti nei consorzi di contingentamento. Dalle cause di recesso e di esclusione vanno tenute distinte le cause
di scioglimento dell'intero contratto di consorzio.

Queste sono elencate dall'art 2611 che consente lo scioglimento con delibera maggioritaria dei consorziati
quando sussiste una giusta causa.

In mancanza, lo scioglimento anticipato dovrà essere deciso all'unanimità.

Carattere strutturale essenziale dei consorzi è la creazione di un'organizzazione comune, cui è demandato il
compito di attuare il contratto assumendo e portando ad esecuzione le decisioni a tal fine necessarie.
l’organizzazione può avere rilievo solo interno o anche nei confronti dei terzi, ma che in ogni caso non può
mancare. Nei consorzi, si pone perciò la necessità di determinare quali siano gli organi preposti all'attuazione
del contratto, nonché le rispettive funzioni e le modalità di funzionamento.
Dai dati normativi emerge che la struttura organizzativa di ogni consorzio si fonda, sulla presenza di un
organo con funzioni deliberative composto da tutti i consorziati (assemblea) e di un organo con funzioni
gestorie ed esecutive (organo direttivo).

Le delibere «relative all'attuazione dell'oggetto del consorzio sono prese col voto favorevole della
maggioranza dei consorziati mentre è richiesto il consenso di tutti i consorziati per le modificazioni del
contratto (art. 2607).

Entrambe le regole hanno carattere dispositivo poiché è fatta salva la possibilità delle parti di disporre
diversamente nel contratto.

Le delibere adottate a maggioranza, possono essere impugnate entro trenta giorni davanti all'autorità
giudiziaria dai consorziati (assenti o dissenzienti), se non prese in conformità della legge o del contratto.

Nulla è invece disposto circa le regole procedurali da osservare nelle deliberazioni. È ragionevole pensare,
che almeno le deliberazioni a maggioranza debbano essere adottate rispettando le cadenze che reggono il
funzionamento di ogni organo collegiale: preventiva convocazione, riunione, discussione, votazione.

Ciò anche in assenza di specifiche previsioni contrattuali.

Ancor più ampio è lo spazio riservato all'autonomia privata per quanto riguarda l'organo direttivo, nei quali
la funzione tipica di tale organo è quella di controllare l'attività dei consorziati al fine di accertare l'esatto
adempimento delle obbligazioni assunte. Articolazione dell'organo direttivo, attribuzioni ulteriori oltre quella
di controllo, modalità di nomina, di revoca e di esercizio delle funzioni sono in vece rimesse all'autonomia
contrattuale. La responsabilità verso i consorziati degli organi preposti al consorzio è regolata dalle norme
sul mandato.
Una specifica disciplina, è prevista per i consorzi destinati a svolgere attività con i terzi, attraverso un ufficio
a tal fine istituito (art. 2612).

La disciplina trova fondamento sia nell'esigenza di regolare i rapporti patrimoniali consorzio- terzi, sia nel
carattere tipicamente imprenditoriale dell'attività di tali consorzi in quanto lo svolgimento dell’attività delle
imprese consorziate, almeno per i consorzi di cooperazione interaziendale, è esso stesso attività di impresa ed
attività commerciale.

I consorzi (con attività esterna) costituiscono perciò una delle possibili forme organizzative per l'esercizio
collettivo di attività di impresa.

Per essi è previsto un regime di pubblicità legale destinato a portare a conoscenza dei terzi i dati essenziali
della struttura consortile.

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Gianmarco Rubino
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Un estratto del contratto di consorzio, deve essere depositato per l'iscrizione presso l'ufficio del registro delle
imprese, entro trenta giorni dalla stipulazione, a cura degli amministratori.

Ad analoga forma di pubblicità sono soggette le modificazioni degli elementi iscritti.

Le persone che hanno la direzione del consorzio sono altresì tenute a redigere annualmente la situazione
patrimoniale del consorzio.

Nei consorzi con attività esterna è in particolare disposto che il contratto specifichi le persone cui è attribuita
la presidenza, la direzione e la rappresentanza del consorzio e i relativi poteri.

Inoltre, è previsto che il consorzio può essere chiamato in giudizio (rappresentanza processuale passiva) nelle
persone del presidente e del direttore, anche se la rappresentanza (sostanziale e processuale) è attribuita ad
altre persone il che significa che, la mancanza di rappresentanza processuale passiva del presidente e del o
dei direttori è inopponibile ai terzi, anche se iscritta nel registro delle imprese.

Nei consorzi con attività esterna è poi espressamente prevista la formazione di un fondo patrimoniale (c.d.
fondo consortile), costituito dai contributi iniziali e successivi dei consorziati e dai beni acquistati con tali
contributi (art. 2614). Tale fondo consortile è elevato a patrimonio autonomo rispetto al patrimonio dei
singoli consorziati ed è destinato a garantire il soddisfacimento dei creditori del consorzio e solo da questi è
aggredibile fin quando dura il consorzio.

Per la durata del consorzio, i consorziati non possono chiedere la divisione del fondo e i creditori particolari
dei consorziati non possono far valere i loro diritti sul fondo medesimo. Quali siano le obbligazioni gravanti
sul fondo consortile è stabilito dall'art. 2615. La norma distingue fra «obbligazioni assunte in nome del
consorzio» dai suoi rappresentanti e obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto dei singoli
consorziati. Per le prime( obbligazioni assunte in nome del consorzio) risponde esclusivamente il consorzio
ed i creditori possono far valere i loro diritti solo sul fondo consortile. La riforma del 1976 ha infatti
soppresso la responsabilità illimitata e solidale per tali obbligazioni delle persone che hanno agito in nome
del consorzio ed oggi, quindi, i terzi possono fare affidamento solo sul patrimonio del consorzio, per le
obbligazioni assunte in nome del consorzio e nell'interesse di tutti i consorziati.

Coloro che contrattano con un consorzio sono perciò esposti a non pochi pericoli dato che non è prevista
alcuna forma di controllo sulla consistenza del patrimonio consortile, sulla rispondenza al vero della
situazione patrimoniale annualmente redatta da gli amministratori e sul rispetto del vincolo di destinazione
del patrimonio consortile.

La tutela dei terzi è affidata solo all'estensione agli amministratori del consorzio delle sanzioni penali
previste per gli amministratori di società.

Maggiormente tutelati sono invece i terzi quando si tratta di obbligazioni assunte dagli organi del consorzio
per conto dei singoli consorziati.

Per tali obbligazioni rispondono solidalmente sia il consorziato o i consorziati interessati, sia il fondo
consortile.

Il debito dell'insolvente si ripartisce fra tutti gli altri consorziati in proporzione delle loro quote (art. 2615, 2°
comma) il che significa che per tali obbligazioni la responsabilità del fondo consortile ha funzione di
garanzia.

Il consorzio, se costretto a pagare, avrà azione di rivalsa per l'intero nei confronti del consorziato interessato
e, azione di rivalsa pro quota verso gli altri consorziati. Quest'ultimo regime di responsabilità, più favorevole
per il terzo contraente (doppia responsabilità del consorzio e del consorziato), trovi applicazione in tutti i casi

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Gianmarco Rubino
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in cui un'operazione rientrante nella sfera dell'oggetto consortile, sia stata compiuta nell'interesse esclusivo di
uno o di più consorziati determinati.

Consorzi e società sono istituti diversi. La diversità è netta ed è chiaramente percepibile quando il consorzio
svolge attività esclusivamente interna. Manca in tal caso l'esercizio in comune di un'attività economica
(attività di impresa) da parte dei consorziati, che invece costituisce elemento essenziale delle società. La
distinzione è invece più sottile e va ricercata su altro piano quando il consorzio è destinato a svolgere anche
attività con i terzi. Società e consorzi con attività esterna sono infatti fenomeni associativi che presentano in
comune, sia il normale carattere imprenditoriale dell'attività esercitata, sia il fine di realizzare attraverso tale
attività un interesse economico dei partecipanti (scopo egoistico). Essi si differenziano tuttavia per la
diversità dello scopo egoistico programmato e tipicamente perseguito.

Dall'art. 2602 si ricava che il consorzio si caratterizza per un duplice dato:


a) la qualità di imprenditore di tutti i partecipanti al consorzio;
b) lo stretto nesso funzionale che esiste fra l'attività del consorzio e l'attività svolta dai singoli imprenditori
consorziati.

Da questi dati è possibile desumere che funzione tipica di un consorzio con attività esterna è quella di
produrre beni o servizi necessari alle imprese consorziate ed almeno tendenzialmente destinati ad essere
assorbiti dalle stesse. Il che implica che l'attività di impresa del consorzio non si può ritenere tipicamente
finalizzata né alla produzione di beni o servizi destinati ad essere ceduti a terzi, né al conseguimento di utili
(ricavi eccedenti i costi), poiché i rapporti di scambio sono posti in essere con gli stessi imprenditori
partecipanti al consorzio. Si può quindi affermare che l'intento tipico che anima costoro non è lo scopo di
ricavare un utile, bensì quello di usufruire dei beni e servizi prodotti e messi a loro disposizione dall'impresa
consortile in modo da conseguire un vantaggio patrimoniale diretto nelle rispettive economie, sotto forma di
minori costi sopportati o di maggiori ricavi con seguiti nella gestione delle proprie imprese.

Lo scopo tipico (causa) dei consorzi è perciò diverso da quello delle società lucrative la cui finalità tipica è
quella di produrre utili da distribuire fra i soci e perciò esse svolgono tipicamente attività di scambio con i
terzi. È ad esse estraneo lo scopo tipico dei consorzi di agevolare l'attività di preesistenti imprese dei soci: di
regola, una società per azioni acquista merci per rivenderle sul mercato e ricavarne un guadagno da dividere
fra i soci, un consorzio invece di regola acquista merci che servono alle imprese dei consorziati, per
rivenderle ai consorziati stessi ad un prezzo calcolato in modo da coprire i costi di gestione e non di più.
Dico di regola, in quanto al consorzio non è fatto divieto di svolgere anche attività lucrativa con terzi.

Lo scopo consortile presenta invece più accentuate affinità con lo scopo mutualistico tipicamente perseguito
dalle società cooperative.

Anche l'impresa mutualistica non mira tipicamente a conseguire un utile dall'attività con terzi, ma tende a
procurare ai soci un vantaggio patrimoniale diretto, sotto forma di un risparmio di spesa o di un maggior
guadagno personale perciò si parla anche di scopo mutualistico dei consorzi e di «mutualità consortile».

La mutualità consortile si differenzia però, pur sempre, dalla generica mutualità delle cooperative in quanto
specifico e tipico è il vantaggio «mutualistico» perseguito dai partecipanti ad un consorzio: riduzione dei
costi di produzione o aumento dei ricavi delle rispettive imprese. L'interesse economico dei consorziati è, in
altre parole, un interesse tipicamente imprenditoriale: migliorare l'efficienza e la capacità di profitto delle
rispettive preesistenti imprese.

Se consorzi e società (lucrative e mutualistiche) sono forme associative tipiche previste dal legislatore per la
realizzazione di finalità non coincidenti, è però da dire che, già prima della modifica della disciplina dei
consorzi, era largamente diffusa la prassi di perseguire gli obiettivi propri del contratto di consorzio non già
costituendo un consorzio, bensì attraverso la costituzione di una società: in particolare, si preferiva dar vita
ad una società per azioni o ad una società cooperativa. Spingevano verso tale prassi la possibilità di

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beneficiare in tal modo di un regime di responsabilità limitata e l'opportunità di disporre di una struttura
organizzativa il cui funzionamento è dettagliatamente disciplinato dal legislatore.

La prassi dell'utilizzazione delle forme societarie per il perseguimento di uno scopo consortile ha trovato
riconoscimento legislativo con la riforma dei consorzi del 1976. L'art. 2615-ter dispone espressamente che
tutte le società lucrative, «possono assumere come oggetto sociale gli scopi indicati dall'art. 2602, non si fa
menzione in tale norma delle società cooperative, ma è opinione prevalente e corretta che anche tali società
possono essere utilizzate per la realizzazione di uno scopo consortile. È quindi oggi perfettamente lecito
costituire una società per azioni nel cui atto costitutivo si dichiari espressamente l'esclusiva finalità consortile
perseguita e altrettanto espressamente si dichiari che la società non persegue lo scopo di conseguire utili da
dividere fra i soci.

Resta invece tuttora aperto e dibattuto se una società consortile sia integralmente regolata dalle norme che il
codice detta per il tipo societario prescelto, ovvero se essa ritenersi sottoposta ad una disciplina mista.

I sostenitori della disciplina mista fanno osservare che in una società consortile sono contestualmente
presenti la «forma» della società e la «sostanza» del consorzio perciò, questi organismi sarebbero regolati
dalle norme societarie per quanto riguarda i profili formali. Resterebbero invece regolati dalla disciplina dei
consorzi per quanto riguarda i profili sostanziali: rapporti fra i soci e fra questi ed i terzi.

Questa impostazione, non merita di essere accolta.

L'ipotizzata disciplina mista delle società consortili non trova alcun sicuro fondamento nel sistema
legislativo e soprattutto presenta il grave inconveniente di rendere estremamente incerta la disciplina delle
società consortili e poi non è facile definire precisamente cosa sia forma e cosa sostanza.

Esigenze di certezza inducono a preferire l'impostazione che vede nelle società consortili vere e proprie
società, in via di principio integralmente assoggettate alla disciplina del tipo societario prescelto.

Gli imprenditori che danno vita ad una società con sortile potranno inserire nell'atto costitutivo specifiche
pattuizioni volte ad adattare la struttura societaria alla specifica finalità purché tali clausole non siano
incompatibili con norme inderogabili del tipo societario prescelto. in mancanza di specifiche disposizioni di
legge o dell'atto costitutivo, troverà integrale applicazione la disciplina legale del tipo societario prescelto.

CAPITOLO DECIMO
IL GRUPPO EUROPEO DI INTERESSE ECONOMICO

Il Gruppo europeo di interesse economico (Geie) è un istituto giuridico predisposto dall'Unione Europea per
favorire la cooperazione fra imprese appartenenti a diversi Stati membri. È uno strumento di cooperazione
economica transnazionale la cui disciplina è in larga parte uniforme nei singoli ordinamenti nazionali.

La disciplina base del Geie è applicabile in tutti gli Stati membri. Ciascun legislatore nazionale ha poi
provveduto ad emanare specifiche norme integrative, applicabili ai gruppi con sede centrale nello Stato.
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Gianmarco Rubino
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I gruppi con sede legale in Italia sono perciò disciplinati dalle norme del regolamento comunitario, uguali in
ogni ordinamento nazionale, e dalle norme integrative dettate dalla legge italiana.

Struttura e funzione del Geie in larga parte coincidono con quelle dei consorzi di cooperazione con attività
esterna.

Parti del contratto costitutivo del gruppo possono essere solo persone fisiche o giuridiche che svolgono
un'attività economica.

Diversamente che per i consorzi, non è necessario però che si tratti di imprenditori. È invece necessario che
almeno due membri abbiano l'amministrazione centrale e/o esercitino la loro attività economica in Stati
diversi della Comunità.

Il Geie è un organismo associativo a rilievo esterno cioè ha «la capacità, a proprio nome, di essere titolare di
diritti e di obbligazioni di qualsiasi natura».

Finalità del gruppo è quella di agevolare e di sviluppare l'attività economica dei suoi membri perciò la sua
attività deve necessariamente collegarsi, a quella dei partecipanti ne consegue dunque che il gruppo «non ha
lo scopo di realizzare profitti per se stesso».

Il contratto costitutivo del Geie deve essere redatto per iscritto a pena di nullità così come previsto per i
consorzi. Nel contratto devono essere indicati almeno: la denominazione del gruppo, la sede, che deve essere
situata nell'Unione Europea; l'oggetto; il nome dei membri; la durata, che può essere anche a tempo
indeterminato.

Il contratto è soggetto a pubblicità legale, mediante iscrizione nel registro delle imprese e successiva
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Dell'intervenuta pubblicazione deve essere poi data
comunicazione nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee.

La pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica ha efficacia meramente dichiarativa, mentre
l'iscrizione nel registro delle imprese ha efficacia costitutiva in quanto solo con l'iscrizione il gruppo acquista
la capacità di essere titolare di diritti ed obbligazioni.

Per gli atti compiuti in nome del gruppo prima dell'iscrizione sono responsabili solidalmente ed
illimitatamente coloro che li hanno compiuti, qualora il gruppo non assuma, dopo l'iscrizione, gli obblighi
che derivano da tali atti.

Le cause di nullità del contratto costitutivo del gruppo sono quelle previste dai singoli ordinamenti nazionali.

Per i gruppi con sede in Italia opereranno perciò le cause di nullità di diritto comune fissate dalla disciplina
generale dei contratti associativi.

Svincolata dai diritti nazionali ed uniforme è invece la disciplina degli effetti della nullità che coincide con
quella delle società di capitali e perciò, si discosta da quella di diritto comune, infatti la dichiarazione di
nullità del gruppo: non ha effetto retroattivo; non pregiudica la validità degli atti precedentemente compiuti;
opera solo come causa di scioglimento ex lege del gruppo e la sentenza che dichiara la nullità provvede alla
nomina dei liquidatori determinandone i poteri.

La nullità del Geie è sanabile ed il tribunale, deve concedere un termine che consenta di provvedervi.

L’organizzazione interna e le regole di funzionamento del Geie sono rimesse all'autonomia privata.

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Sono però espressamente previsti due organi: un organo collegiale composto da tutti i membri ed un organo
amministrativo.

I membri del gruppo possono adottare collegialmente qualsiasi decisione per la realizzazione dell'oggetto del
gruppo. Le decisioni più importanti devono essere prese al l'unanimità.

Per le altre il contratto fissa le maggioranze richieste. In mancanza tutte le decisioni sono prese
all’unanimità.

Ciascun membro dispone di un solo voto.

Il contratto può tuttavia attribuire più voti ad alcuni membri, a condizione che nessuno disponga da solo della
maggioranza dei voti.

La gestione del Geie è affidata ad uno o più amministratori, nominati con il contratto costitutivo del gruppo o
con decisione dei membri. Può essere nominato amministratore anche una persona giuridica, e i poteri degli
amministratori sono fissati dal contratto. Solo agli amministratori spetta per legge la rappresentanza del
gruppo verso i terzi e se gli amministratori sono più, la rappresentanza spetta a ciascuno disgiuntamente,
salvo che il contratto preveda la rappresentanza congiunta.

Specifiche norme, tutelano i terzi che entrano in contatto con i rappresentanti legali del Geie.

Il Geie deve tenere le scritture contabili previste per gli imprenditori commerciali indipendentemente dalla
natura commerciale o meno dell'attività esercitata. Gli amministratori redigono il bilancio, lo sottopongono
all'approvazione dei membri e provvedono a depositarlo nel registro delle imprese entro quattro mesi dalla
chiusura dell’esercizio. I profitti risultanti dall'attività del gruppo sono considerati direttamente profitti dei
membri e ripartiti fra gli stessi secondo la proporzione prevista nel contratto o, nel silenzio, in parti uguali.

Con lo stesso criterio i membri contribuiscono a coprire l'eccedenza delle uscite rispetto alle entrate del Geie.

La disciplina del Geie non prevede la formazione obbligatoria di un fondo patrimoniale iniziale, né eleva il
fondo patrimoniale eventualmente costituito a patrimonio autonomo e ciò funge da contrappeso ad un regime
di responsabilità per le obbligazioni particolarmente rigoroso.

Delle obbligazioni di qualsiasi natura assunte dal Geie rispondono solidalmente ed illimitatamente tutti i
membri del gruppo. La responsabilità dei membri è tuttavia sussidiaria rispetto a quella del Geie: i creditori
possono infatti agire nei confronti dei membri «soltanto dopo aver chiesto al gruppo di pagare e qualora il
pagamento non sia stato effettuato entro un congruo termine». Ogni nuovo membro del gruppo risponde
anche delle obbligazioni anteriori al suo ingresso, salvo patto contrario opponibile ai terzi solo se pubblicato.
I membri che cessano di far parte del Geie continuano a rispondere delle obbligazioni anteriori e la
responsabilità permane anche dopo lo scioglimento del Geie, per un termine massimo di cinque anni.
L'ammissione di nuovi membri deve essere decisa all'unanimità e l'unanimità è necessaria anche per
l'efficacia della cessione della quota di partecipazione, sia ad un terzo sia ad altro membro.

Le cause di recesso ed esclusione devono essere fissate nel contratto. Il recesso è tuttavia sempre possibile se
sussiste una giusta causa o con l'accordo unanime degli altri componenti.
In caso di gravi inadempienze l'esclusione può essere comunque pronunciata dal giudice su richiesta della
maggioranza degli altri membri.
Sono esclusi di diritto:
1) il componente che perda i requisiti soggettivi per la partecipazione al Geie
2) il membro insolvente che sia assoggettato a procedura concorsuale.

Il componente che cessa di far parte del gruppo ha diritto alla liquidazione del valore della sua quota di
partecipazione.
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Gianmarco Rubino
Studente di Giurisprudenza Uso personale
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Sono cause obbligatorie di scioglimento del Geie: la scadenza del termine; il conseguimento dell'oggetto o la
sopravvenuta impossibilità di conseguirlo; il venir meno della pluralità dei membri o della diversa
nazionalità degli stessi.

Il Geie che esercita attività commerciale è esposto al fallimento in caso di insolvenza ma ciò non determina
l'automatico fallimento dei suoi membri, tuttavia gli organi del fallimento potranno chiedere ai membri del
Geie il versamento delle somme necessarie per estinguere i debiti secondo la proporzione prevista nel
contratto o, nel silenzio, in parti uguali.

CAPITOLO UNDICESIMO
LE ASSOCIAZIONI TEMPORANEE DI IMPRESE

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Gianmarco Rubino
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Le associazioni temporanee o raggruppamenti temporanei di imprese, sono forme di cooperazione


temporanea ed occasionale fra imprese poste in essere per realizzare congiuntamente un'opera o un affare
complesso.
Si tratta per lo più di grandi opere pubbliche o private che superano le capacità operative della singola
impresa ma che, presentano caratteristiche tali da consentire il concorso di più imprese distinte nella loro
realizzazione.

La costituzione di tali organismi comporta spese preventive che potrebbero risultare del tutto inutili qualora
la gara di appalto non venga vinta. Inoltre, se le imprese partecipano alla gara attraverso una società o un
consorzio, saranno tali organismi a risultare, giuridicamente, aggiudicatari dell'appalto e non le singole
imprese perciò saranno la società o il consorzio ad assumere l'obbligo di costruire l'opera complessiva e ad
acquistare tutti i diritti relativi nei confronti del committente.

Molto spesso le imprese interessate vogliono evitare queste conseguenze in quanto eccedenti rispetto allo
scopo perseguito.

Esse vogliono eseguire ciascuna direttamente, una parte dell'opera, pur assicurando al committente il
coordinamento imposto dal carattere unitario dell'opera e pur prestando le necessarie garanzie di esecuzione
integrale dell'appalto.

Da qui lo svilupparsi nella pratica degli affari di accordi reciproci di cooperazione strutturati in modo da
soddisfare le delineate esigenze operative evitando nel contempo di dar vita ad un rapporto societario.

In base a tali convenzioni le imprese interessate si presentano di fronte alla controparte come imprese distinte
ma collegate.

Esse presentano un'offerta congiunta e si obbligano congiuntamente ad eseguire l'opera complessiva


affidando ad una di esse (c.d. impresa capogruppo o capofila) il compito di gestire unitariamente i rapporti
col committente e di coordinare i lavori nella fase esecutiva. Ciascuna impresa conserva piena autonomia
giuridica ed economica nel compimento della parte dell’opera.

Le forme di cooperazione fra imprese così strutturate presentano caratteri di originalità tali da rendere
difficile il loro puntuale inquadramento in alcuno dei tipi contrattuali legislativamente previsti e regolati.

Esse costituiscono, contratti associativi innominati, espressione dell'autonomia contrattuale delle parti.
Questi fenomeni non hanno ancora ricevuto nel nostro ordinamento una disciplina organica e infatti la nostra
legislazione si limita a regolare solo taluni aspetti di alcune forme tipiche di cooperazione temporanea
relative a determinati settori di attività:
a) gli accordi di cooperazione internazionale per la produzione di opere cinematografiche
b) l'istituto della contitolarità della concessione per la ricerca e la coltivazione di giacimenti di idrocarburi o
minerari.
C) le associazioni temporanee di imprese per la partecipazione agli appalti pubblici di lavori, forniture e
servizi, oggi unitariamente disciplinate dal Codice degli appalti pubblici

La legislazione in tema di appalti pubblici consente che l'esecuzione di una stessa opera o servizi, siano
affidate in appalto ad una pluralità di imprese che conservano la propria individualità. Detta norma è volta a
garantire che la cooperazione di più imprese non pregiudichi gli interessi dell'ente committente nella fase di
esecuzione del contratto.

II raggruppamento temporaneo di imprese si fonda su un mandato collettivo con rappresentanza, conferito


dalle imprese che intendono partecipare alla gara di appalto ad una di esse qualificata capogruppo.

Il mandato deve risultare da scrittura privata autenticata ed è per legge gratuito.

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In base a tale mandato la capogruppo è ammessa a formulare un'unica offerta, in nome e per conto, proprio e
delle altre imprese riunite.

Per assicurare all'ente pubblico committente un unico interlocutore per tutta la durata dell'appalto, la
capogruppo conserva la veste di rappresentante per tutto tale periodo.

Il mandato conferito alla capogruppo è irrevocabile e la revoca, anche per giusta causa, non ha effetto nei
confronti del soggetto appaltante ma è altresì espressamente stabilito che la capogruppo ha la rappresentanza
esclusiva, anche processuale, delle imprese mandanti nei confronti della stazione appaltante per tutte le
operazioni e gli atti di qualsiasi natura dipendenti dall'appalto, anche dopo il collaudo dei lavori, fino
all'estinzione di ogni rapporto.

La posizione di rappresentante ex lege della capogruppo opera però solo a favore dell'ente committente in
quanto questo conserva il diritto di far valere direttamente le responsabilità facenti capo ai mandanti.

La finalità di tutela dell'ente committente emerge anche dalla disciplina della responsabilità nei suoi
confronti.

Gli appalti non scorporabili, danno vita ai cosiddetti raggruppamenti orizzontali (un’autostrada). In tali
raggruppamenti, tutte le imprese rispondono solidalmente per l'intera opera.

Gli appalti con parti scorporabili danno vita ai cosiddetti raggruppamenti verticali e in essi, responsabile per
l'intera opera è solo la capogruppo. Le altre imprese riunite rispondono esclusivamente per l'esecuzione della
parte di propria competenza.

La posizione di particolare rilievo assegnata alla capogruppo trova poi conferma nella disciplina dettata per
le ipotesi di fallimento di una delle imprese riunite e di morte, interdizione o inabilitazione del suo titolare.

Se tali eventi riguardano la capogruppo, l'ente committente ha la facoltà o di proseguire il rapporto di appalto
con altra capogruppo ovvero di recedere dall’appalto.

Più modeste sono invece le conseguenze se uno di tali eventi colpisce altra impresa partecipante al
raggruppamento. L'appalto prosegue senz'altro e la capogruppo ha la facoltà di sostituire l'impresa venuta
meno con altra impresa in possesso dei prescritti requisiti di idoneità e, qualora non provveda alla
sostituzione, la capogruppo sarà tenuta ad eseguire la parte rimasta scoperta.

Così regolati i rapporti fra il raggruppamento e l'ente committente, il legislatore lascia piena libertà alle
imprese riunite per quanto riguarda l'assetto dei rapporti reciproci e di quelli con i terzi diversi dal
committente. Ognuna delle imprese conserva la propria autonomia ai fini della gestione, degli adempimenti
fiscali e degli oneri sociali.

È inoltre espressamente consentito che le imprese riunite per la partecipazione ad appalti di lavori pubblici
costituiscano fra loro una società, anche consortile, dopo l'aggiudicazione dell'appalto «per l'esecuzione
unitaria totale o parziale dei lavori». Tale società subentra automaticamente nell'esecuzione dei lavori però è
mantenuto fermo il regime di responsabilità delle imprese riunite, precedentemente esposto perciò, per
l'esecuzione dell'opera unitaria risponderanno sia la società appositamente costituita, sia le imprese del
raggruppamento. E ciò induce a pensare che l'originario raggruppamento non cessi di esistere anche nel caso
di subingresso della società nell'esecuzione dell'intera opera.

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Gianmarco Rubino
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CAPITOLO DODICESIMO
LE RETI DI IMPRESE

Le imprese italiane sono piccole e medie imprese. Per crescere, esse avvertono spesso il bisogno di allearsi e
cooperare fra loro. Tali collaborazioni possono avere oggetto e forme le più varie, ma quando più
imprenditori instaurano fra loro stabili rapporti di collaborazione per incrementare la reciproca capacità
competitiva, sotto il profilo economico si dice che essi hanno "fatto una rete" (network) di imprese.
L'ordinamento guarda con favore la cooperazione imprenditoriale. Non sempre però gli istituti esaminati nei
capitoli precedenti corrispondono alla collaborazione posta in essere in concreto tra gli imprenditori.

Il contratto di consorzio richiede necessariamente la creazione di un'organizzazione comune e la


realizzazione di un'attività qualificabile come "disciplina o svolgimento di determinate fasi delle rispettive
imprese".

L'impiego del GEIE necessita che almeno due membri abbiano l'amministrazione centrale e/ o esercitino la
loro attività economica in Stati diversi dell'Unione europea. A queste figure associative se ne è aggiunta una
nuova: il contratto di rete. il legislatore persegue due obiettivi fondamentali.

Per un verso, creare uno strumento giuridico utilizzabile per (quasi) tutte le forme di collaborazione fra
imprese, avente una struttura flessibile ma organizzata intorno ad un principio fermo: e cioè che la
formazione di una rete fra imprese deve avvenire sulla base di un programma chiaramente enunciato,
condiviso fra i contraenti e monitorabile in fase di attuazione.

Per altro verso, la nuova disciplina mira a consentire di venire a conoscenza di tali accordi e di valutarne il
programma ai terzi (ad esempio, banche e finanziatori) ed alla pubblica amministra, il che ne favorisce la
rapida diffusione, anche a scapito di forme giuridiche più collaudate e risalenti come il consorzio.

Con il contratto di rete più imprenditori, allo «scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la
propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato», si obbligano, sulla base di un programma
comune (programma di rete) ad una o più delle seguenti attività:
a) collaborare in ambiti predeterminati attinenti all'esercizio delle proprie imprese;
b) scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica;
c) esercitare in comune una o più attività rientranti nell'oggetto della propria impresa Il contratto di rete
presenta indubbie analogie con i consorzi.

Scopo del contratto di rete è infatti la predisposizione e l'attuazione di un programma di collaborazione fra
gli imprenditori contraenti volto a migliorare la capacità innovativa e la competitività delle rispettive im
prese. A differenza del consorzio, però, la costituzione di un'organizzazione comune non è elemento
necessario del contratto di rete.

Inoltre, oggetto della collaborazione può essere in sostanza qualsiasi attività idonea al conseguimento degli
obiettivi predeterminati dal programma di rete.

La rete può avere ad oggetto la costituzione di una nuova impresa in comune (joint venture) allo scopo di
dividerne gli utili fra i partecipanti alla rete, oppure, imprese specializzate nel realizzare solo alcune fasi di
un processo produttivo possono collaborare per offrire alla clientela un prodotto completo, presentandosi
come un'unica entità economica, pur restando formalmente autonome sul piano giuridico (c.d. reti verticali).

Di conseguenza, mentre lo scopo consortile è affine allo scopo mutualistico, il contratto di rete è
inquadrabile come contratto con scopo lucrativo o di tipo mutualistico a seconda dell'attività perseguita con
il programma;
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Il contratto di rete può essere stipulato solo tra imprenditori.

Il contratto di rete deve essere stipulato per atto pubblico, scrittura privata autenticata o atto munito di firma
digitale. Tale forma è richiesta ai fini degli adempimenti pubblicitari. Il contratto è soggetto ad iscrizione
nella sezione del registro delle imprese presso cui è iscritto ciascun partecipante. Si tratta però di una
pubblicità con effetti costitutivi, perché l'efficacia del contratto inizia a decorrere solo da quando è stata
eseguita l'ultima delle iscrizioni prescritte a carico dei contraenti originari.

Il contratto deve: indicare gli obiettivi strategici di innovazione e di innalzamento della capacità competitiva
perseguiti tramite la rete,
definire il programma di rete, nel quale si stabiliscono le modalità di realizzazione dello scopo comune e si
enunciano diritti ed obblighi dei partecipanti.

Il contratto determina pure la durata della rete; in mancanza di indicazione il contratto deve intendersi
stipulato a tempo indeterminato.

Ciascun contraente potrà recedere dandone congruo preavviso.

Quando la rete è stipulata a tempo determinato, il recesso anticipato è consentito solo in presenza di una
giusta causa (ad esempio, il mancato raggiungi mento degli obiettivi strategici programmati dal contratto, per
ragioni non imputabili al recedente). Il contratto può però prevedere ulteriori cause di recesso ed anche cause
di esclusione.

Nulla si prevede sulla liquidazione della quota all'imprenditore che recede o viene escluso dalla rete ma il
diritto è certamente da riconoscere, in proporzione alla consistenza dell'eventuale fondo patrimoniale della
rete.

Il contratto di rete può avere le caratteristiche di un contratto aperto: le modalità di adesione di nuovi
imprenditori sono predeterminate dal contratto stesso ed è sicuramente lecito prevedere procedure di
ammissione che non richiedono il preventivo consenso degli altri contraenti.

Se non si prevede nulla, l'ingresso di nuovi partecipanti deve essere deciso con le medesime modalità
previste per le altre modifiche contrattuali, vale a dire di regola all'unanimità, salvo che il contratto preveda
la modificabilità a maggioranza.

Le modifiche del contratto di rete sono soggette a pubblicità nel registro delle imprese.

Con le medesime modalità richieste per le modifiche contrattuali deve essere deciso anche lo scioglimento
anticipato della rete.

La disciplina dell’organizzazione della rete è estremamente flessibile fino al punto che sono ipotizzabili reti
del tutto prive di organi.

La legge si limita a rinviare al contratto di rete per la determinazione delle regole riguardanti l'assunzione
delle decisioni dei partecipanti su ogni materia o aspetto di interesse comune, ma non si tratta di una
determinazione indispensabile per la validità dell’accordo.

La mancanza di previsioni implica soltanto che le decisioni dei partecipanti dovranno essere prese
all'unanimità, sotto forma di accordi integrativi o modificativi del contratto di rete. Qualora invece sia
prevista la costituzione di un'assemblea dei partecipanti alla rete, è ragionevole ritenere applicabili le
corrispondenti regole della disciplina consortile. Facoltativa è pure la costituzione di un organo incaricato di
gestire in nome e per conto dei partecipanti l'esecuzione del contratto o di singole fasi dello stesso.

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Il soggetto incaricato di svolgere la funzione di organo comune per l'esecuzione del contratto viene nominato
per la prima volta nel contratto di rete ed il contratto stesso deve disporre le regole relative alla sua eventuale
sostituzione: in assenza di previsioni, il soggetto nominato resta a tempo indeterminato; tuttavia deve in ogni
caso ammettersi la possibilità della sua revoca per giusta
causa con decisione unanime degli altri contraenti. Titolare dell'organo può essere una persona fisica o anche
una persona giuridica.
Regole speciali sono previste per le reti destinate a svolgere attività con i terzi, e che a tal fine sono provviste
di un organo esecutivo e di un fondo patrimoniale comune. In questo caso la rete deve avere anche una
denominazione e una propria sede determinati dal contratto. La rete che svolge attività esterna può essere
dotata oppure priva di una soggettività giuridica distinta dai partecipanti: la soggettività giuridica si ottiene
con l'iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese e per ottenerla, la rete deve chiedere
l'attuazione di tale formalità pubblicitaria.

La rete con autonoma soggettività giuridica opera tramite il proprio organo esecutivo, assume in proprio
nome diritti ed obblighi e può conseguire la qualifica di imprenditore. All'organo comune può essere
attribuita anche la rappresentanza degli imprenditori partecipanti alla rete: e lo stesso potrà, formulare
proposte in nome e per conto di questi ultimi, e vincolarli direttamente con i propri atti.

Quando la rete è priva di soggettività giudica, la legge presume che sussista tale potere di rappresentanza per
alcune materie espressamente indicate se dal contratto non risulti diversamente.

Il fondo patrimoniale della rete è formato inizialmente dai conferimenti dei contraenti e dagli eventuali
contributi successivi che ciascun partecipante si obbliga a versare. Il contratto deve perciò determinare la
misura di tali obblighi e le modalità di valutazione degli apporti realizzati con beni diversi dal denaro.
Indipendente dalla attribuzione di soggettività giuridica alla rete, il fondo patrimoniale della rete è un
patrimonio autonomo e distinto dai patrimoni personali dei partecipanti, quindi è aggredibile solo dai
creditori della rete.

In merito alla responsabilità per le obbligazioni della rete, si applicano principi analoghi a quelli dei consorzi
con attività esterna.

Per le obbligazioni assunte dall'organo comune in relazione al programma di rete, i terzi possono far valere i
loro diritti esclusivamente sul fondo comune invece, per le obbligazione assunte per conto dei singoli
imprenditori aderenti alla rete rispondono questi ultimi in solido col fondo comune.
In sostanza, la rete di imprese con attività esterna costituisce una nuova forma associativa tipica, diversa sia
dalle società, sia dai consorzi, e soggetta ad autonoma disciplina. Talvolta avviene che le finalità del
contratto di rete siano perseguite mediante la costituzione di una società. La legge non disciplina
espressamente il fenomeno delle reti costituite in forma di società e in questo caso la rete sarà interamente
soggetta alla disciplina del tipo societario prescelto e che pertanto non potranno essere inserite nello statuto
clausole incompatibili con tale disciplina

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SECONDO LIBRO
DIRITTO DELLE SOCIETÀ

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CAPITOLO PRIMO
LE SOCIETÀ

1. Il sistema legislativo

Le società sono organizzazioni di persone e di mezzi create dalla autonomia privata per l’esercizio comune
di una attività produttiva. Distinguiamo otto tipi di società:
1) Società semplice (artt.2251-2290)
2) Società in nome collettivo (artt.2291-2312)
3) Società in accomandita semplice (artt. 2313-2324)
4) Società per azioni (artt. 2325-2451)
5) Società in accomandita per azioni (artt.2452-2461)
6) Società a responsabilità limitata (artt.2462-2483)
7) Società cooperativa (artt.2511-2545 octiesdecies)
8) Mutue assicuratrici (artt. 2546-2548)

A questi si sono aggiunti di recente altri due tipi societari: la società europea (reg.CE,2157/2001) e la società
cooperativa europea (reg.CE, n.1435/2003).

Se diversi sono i tipi di società unica però è la nozione legislativa di società. Quest’ultima è fissata
dall’art.2247 c.c.: “con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in
comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili.”

L’art. 2247 è muto per quanto riguarda la disciplina dei singoli tipi di società. Vuole però assolvere il
compito di fissare i caratteri minimi comuni del fenomeno societario.

A. LA NOZIONE DI SOCIETÀ

2. Il contratto di società

“Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una
attività economica allo scopo di dividerne gli utili.” (Art. 2247 c.c.)

Le società sono quindi degli enti associativi a base contrattuale, esse nascono dall’accordo di due o più parti
per costituire e regolare tra loro un rapporto giuridico a contenuto patrimoniale (art. 1321)

Sotto il profilo contrattuale le società possono essere inquadrate nella più ampia categoria dei contratti
associativi o con comunione di scopo.

Da ciò discendono alcuni peculiari caratteri strutturali associativi e del contratto di società:
a) Nei contratti associativi le prestazioni di ciascuna parte possono essere di diversa natura. Esse non
sono destinate a scambiarsi tra loro secondo un rapporto di corrispettività.
b) Il contratto associativo è un contratto potenzialmente plurilaterale ed aperto
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c) Il contratto associativo ed il contratto di società in particolare è, infine e soprattutto, contratto di


organizzazione di una futura attività. L’attuazione del contratto di società presuppone lo svolgimento
di una attività comune e la conseguente creazione di una organizzazione di gruppo.

Nei descritti elementi di differenziazione dei contratti associativi rispetto ai contratti di scambio trova
fondamento la speciale disciplina dettata dagli artt. 1420, 1446, 1459 e 1466 c.c. Nei contratti associativi la
nullità, l’annullabilità, la risoluzione per inadempimento o per impossibilità sopravvenuta che colpiscono il
vincolo di una delle parti non comportano rispettivamente nullità, annullamento o risoluzione dell’intero
contratto.

3. I conferimenti

Le società sono enti associativi che si caratterizzano per la contemporanea presenza di tre elementi:
 I conferimenti dei soci
 L’esercizio in comune di una attività economica (c.d. Scopo-mezzo)
 Lo scopo di divisione degli utili (c.d. Scopo-fine)

I conferimenti sono le prestazioni cui le parti del contratto di società si obbligano. Essi costituiscono i
contributi dei soci alla formaline del patrimonio iniziale della società. La loro funzione è quella di dotare la
società del capitale di rischio iniziale per lo svolgimento dell’attività di impresa. Con il conferimento ciascun
socio destina stabilmente parte della propria ricchezza personale all’attività comune.

Quanto all’oggetto dei conferimenti, l’art. 2247 stabilisce genericamente che essi possono essere costituiti
dai beni e dai servizi: denaro, beni in natura trasferiti in proprietà o concessi in godimento, prestazioni di
attività lavorativa sia manuale sia intellettuale.

L’ampio principio desumibile dall’art. 2247 va coordinato con la disciplina dei conferimenti dettata per i
singoli tipi di società. Ed al riguardo si può anticipare che esso trova piena e puntuale applicazione solo nelle
società di persone e dopo la riforma del 2003, anche nelle società a responsabilità limitata.

4. Patrimonio sociale e capitale sociale

Il patrimonio sociale è il complesso dei rapporti giuridici attivi e passivi che fanno capo alla società. Esso è
inizialmente costituito dai conferimenti. La consistenza del patrimonio sociale è accertata periodicamente
attraverso la redazione annuale del bilancio di esercizio. E si definisce patrimonio netto la differenza positiva
tra attività e passività.

Il patrimonio sociale costituisce, ex art. 2740, la garanzia generica principale o esclusiva dei creditori della
società.

Il capitale sociale nominale è una entità numerica: è una cifra che esprime il valore in denaro dei
conferimenti quale risulta dalla valutazione compiuta nell’atto costitutivo della società. Il capitale sociale
nominale rimane immutato nel corso della vita della società fin quanto non se ne decide l’aumento o la
riduzione. Il capitale sociale è quindi un valore storico.

Assolve però due fondamentali funzioni: una vincolistica ed una organizzativa.

 Il capitale sociale indica infatti l’ammontare dei conferimenti dei soci. Il legame tra capitale sociale e
patrimonio sociale è quindi costituito dal fatto che la cifra del primo indica la trazione del patrimonio
netto non distribuibile tra i soci (c.d. Capitale reale).
 Il capitale sociale nominale assolve anche ad una funzione organizzativa: in tutte le società è termine
di riferimento per accertare periodicamente se la società ha conseguito utili o ha subito perdite. Vi è

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infatti un utile se dal bilancio risulta che le attività superano le passività. Vi è invece una perdita se le
attività sono inferiori alle passività.

Oltre alla funzione organizzativa il capitale sociale nominale svolge un ulteriore e più accentuato ruolo
organizzativo nelle società di capitale. In queste società il capitale sociale funge anche da base di
misurazione di alcuni fondamentali situazioni oggettive dei soci sia di carattere amministrativo sia di
carattere patrimoniale.

In definitiva il capitale sociale nominale è sì una cifra numerica ma è nel contempo un fondamentale termine
di riferimento per un ordinato e corretto svolgimento della vita sociale.

5. L’esercizio in comune di attività economica

L’esercizio in comune di una attività economica è il c.d. Scopo Mezzo del contrato di società ed oggetto
sociale si definisce la specifica attività economica che i soci si propongono di svolgere. Tale attività deve
essere predeterminata nell’atto costitutivo della società ed è modificabile nel corso della vita della stessa.

In tutte le società l’oggetto sociale deve consistere nello svolgimento di una attività (serie coordinata di atti)
e di una attività economica. Più esattamente deve trattarsi di una attività produttiva: di una attività cioè a
contenuto patrimoniale condotta con metodo economico e finalizzata alla produzione o allo scambio di beni
e servizi.

Essenziale è inoltre che l’attività produttiva sia esercitata in comune.

Ciò non toglie tuttavia che alcuni requisiti minimi possono essere fissati considerando il fenomeno societario
sotto il profilo oggettivo. Ed invero, è certamente necessario che essa sia preordinata alla realizzazione di un
risultato unitario e comune.

È quindi il modo di svolgimento dell’attività che consente di qualificare la stessa come comune a più
soggetti. È necessario, mi breve, che chi agisce nei rapporti esterni sia abilitato ad agire per conto del gruppo
ed ulteriormente agisca in nome dello stesso.

Nell’associazione in partecipazione infatti l’attività di impresa resta propria ed esclusiva dell’associante.


Perciò titolare dell’impresa è e resta solo l’associante ed i terzi acquistano diritti ed assumono obbligazioni
solo verso lo stesso (art. 2551).

6. Società e impresa. Le società occasionali

L’attività delle società presenta di regola tutti i caratteri propri dell’attività di impresa (art. 2082): è attività
produttiva ed è attività che almeno normalmente è esercitata in modo professionale ed organizzato.

L’art. 2247 richiede che l’attività delle società abbia carattere predittivo ma non fa cenno alcuno al requisito
della professionalità richiesto dall’art. 2082 per l’acquisto della qualità di imprenditore.

Alle società occasionali è perciò applicabile la disciplina del tipo di società prescelto, ma non la disciplina
dell’impresa ed in particolare se l’attività è commerciale, la società occasionale deve ritenersi sottratta al
fallimento.

Dobbiamo però distinguere tre ipotesi:

 Certamente non si ha né società né impresa quando due persone realizzano insieme un affare che si
risolve nel compimento di un solo atto economico.
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 Certamente si ha sia società sia impresa quando due persone decidono di compiere insieme un
singolo affare complesso: un affare cioè che per sua natura implica il compimento di operazioni
numerose e l’utilizzo di un apparato produttivo idoneo ad accludere il carattere occasionale e non
coordinato dei singoli atti economici.

 L’ammissibilità di società senza imprese resta perciò circoscritta alle ipotesi in cui si sia in presenza
di esercizio in comune di attività oggettivamente non duratura: di una attività cioè che si esaurisce
nel compimento di pochi atti elementari coordinati.

7. Le società tra professionisti

L’attività dei professionisti intellettuali è attività economica, ma non è legislativamente considerata attività di
impresa.

La nozione di società non offre in verità indicazioni preclusive: l’art. 2247 parla infatti di attività economica
e non di attività di impresa. Esso è però coordinato con altre norme:
a) Con le norme del codice civile che regolano l’esercizio delle professioni intellettuali (art. 2229 ss)
dalle quali emerge il carattere rigorosamente personale dell’attività
b) E, in passato, con il divieto espresso di costituire società tra professionisti contenuto nell’art. 2 l.
1815/1939, che però è stato successivamente abrogato.

Questo quadro normativo ha determinato un acceso dibattito sulle società tra professionisti: aveva finito col
prevalere, almeno in giurisprudenza, la soluzione negativa con conseguenze di particolare gravità: la nullità
della società per violazione di norme imperative (art. 1418 c.c.).

La realtà però spingeva e spinge sempre più in senso opposto.

Infatti si sono susseguiti vari interventi parziali sulla materia: nel 2001 è stata ammessa la costituzione di
società tra avvocati (L.72/2001) e nel 2006 è stata conseguita la costituzione di società di persone tra
professionisti.

 La società tra professionisti non va innanzitutto confusa con il fenomeno largamente diffuso,
dall’assunzione congiunta di un incarico da parte di più professionisti. Si è in presenza perciò di
distinte attività professionali.

 La società tra professionisti va ancora tenuta distinta dalla c.d. Società di mezzi tra professionisti:
una società cioè costituita da professionisti per l’acquisto e la gestione in comune di beni strumentali
all’esercizio individuale delle rispettive professioni.

 Ulteriore fenomeno che va tenuto distinto dalle vere e proprie società di professionisti è quello delle
società di servizi che offrono sul mercato un prodotto complesso, per la cui realizzazione sono
necessarie anche prestazioni professionali dei soci e dei terzi. Prestazioni, queste ultime, che hanno
però carattere strettamente strumentale e servente. Il più classico esempio di queste società è
costituito dalle società di ingegneria: queste società svolgono un’attività che non è identificabile con
quella propria degli ingegneri e degli architetti. L’elaborazione dei progetti è solo parte di una ben
più complessa attività di natura imprenditoriale. Tra le società di servizi imprenditoriali possono
essere inserite anche le società di revisione legale.

Veniamo ora alle vere e proprie società tra professionisti. Tali possono essere considerate le società tra
professionisti intellettuali che hanno come oggetto unico ed esclusivo l’esercizio in comune della attività
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professionale. Gli incarichi professionali sono cioè assunti dalla società ed è la società che giuridicamente si
obbliga ad eseguire le relative prestazioni professionali.

Era al riguardo orientamento diffuso operare una netta distinzione tra professioni protette e professioni non
protette: tra professioni cioè il cui esercizio è subordinato all’iscrizione in appositi albi professionali
(avvocati, commercialisti, ingegneri, notai ecc.) e professioni per le quali invece ciò non è prescritto
(pubblicitari, sociologi, osteopati ecc.)

Già in passato per le professioni non protette si ammetteva quindi che la forma societaria potesse essere usata
senza limitazioni. Si può però ammettere che chi svolge una professione non protetta possa operare con
clienti secondo modelli giuridici diversi da quelli inderogabilmente fissati per le professioni intellettuali
sottraendosi all’obbligo della esecuzione personale della prestazione. Deve essere però altrettanto chiaro che
così facendo la prestazione non era più giuridicamente qualificabile come prestazione d’opera intellettuale
essendo venuto meno un carattere inderogabile della stessa.
È allora certamente vero che quanti esercitano processioni non protette possono validamente costituire una
società e qualsiasi tipo di società non essendo vincolati rispetto all’art. 2232: si sarà in presenza di una
comune società per l’esercizio di attività imprenditoriale (produzione d servizi) e di una società che è perciò
certamente da qualificare come di impresa commerciale.

Con queste distinzioni, si era limitato il dibattito esclusivamente per l’esercizio delle professioni intellettuali
protette. Per queste il panorama delle posizioni in dottrina era variegato. Pressoché monolitica era invece la
giurisprudenza nel negare la liceità di tali società. In altri termini si riteneva che il carattere rigorosamente
personale della prestazione, imposto dall’art. 2232, non fosse conciliabile con l’esercizio della professione da
parte di un ente impersonale qual è una società.

Il timore era che con l’esercizio della attività professionale in forma societaria, la persona o le persone
fisiche che hanno eseguito materialmente la prestazione intellettuale potessero sottrarsi ad ogni
responsabilità civile personale e diretta nei confronti dei terzi dato che il contratto d’opera intellettuale viene
stipulato con la società e non con i soci professionisti.

Tale era dunque il complesso quadro normativo esistente prima dell’introduzione della L. 183/2011. Questa
legge ha espressamente consentito in via generale la costituzione di società per l’esercizio di attività
professionali regolamentate nel sistema ordinistico secondo i modelli societari regolati dai titoli V e VI del
libro V del codice civile.

Ne consegue che ferma restando la libertà di mantenere in vita o costituire nuove associazioni professionali
nella vecchia forma degli studi professionali, i professionisti che intendono esercitare in comune una
professione protetta possono oggi optare per lo strumento giuridico della società. È non è questo l’unico
elemento di rottura con il passato: infatti si ammette che alla società possano partecipare oltre ai soci
professionisti anche i soci non professionisti. Con successive modifiche della legge è stato però scongiurato
il pericolo che i soci “capitalisti” assumano il sopravvento sui soci professionisti: il numero e la
partecipazione al capitale dei soci professionisti deve essere tale da determinare la maggioranza dei 2/3 nelle
deliberazioni o decisioni dei soci.

Altri aspetti della disciplina invece riprendono i principi già affermati nei precedenti interventi normativi:
1) L’atto costitutivo della società tra professionisti deve prevedere l’esercizio in via esclusiva
dell’attività professionale da parte dei soci (principio di esclusività dell’oggetto sociale)
2) La partecipazione ad una società è incompatibile con la partecipazione ad altra società tra
professionisti (principio di esclusività della partecipazione)
3) La denominazione deve contenere l’indicazione di società tra professionisti
4) Il socio professionista è tenuto all’osservanza del codice deontologico del proprio ordine. La
cancellazione del socio professionista dall’albo di appartenenza comporta poi anche l’esclusione
dalla società.

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La società tra professionisti è inoltre tenuta ad iscriversi in una apposita sezione speciale nel registro delle
imprese, con funzione di certificazione anagrafica e pubblicità notizia, in aggiunta all’iscrizione nella sezione
ordinaria. A tutela del cliente, l’atto costitutivo deve prevedere criteri e modalità affinché l’esecuzione
dell’incarico professionale conferito anke società sia eseguito solo dai soci in possesso dei requisiti per
l’esercizio della prestazione professionale richiesta. Il cliente ha diritto di chiedere che la prestazione sia
realizzata da un particolare socio professionista; in mancanza di designazione essa viene effettuata dalla
società.

La regola sulla individuazione del socio rende lo stesso direttamente responsabile in solido con la società.

L’estensione analogica della regola sulla responsabilità diretta del socio professionista autore della
prestazione si impone, tuttavia, per la necessità di conciliare l’esercizio delle professioni intellettuali in
forma societaria con i principi codicistici in tema di contratto d’opera professionale.

7.2. La società tra avvocati

La professione di avvocato è stata una delle prime attività liberali di cui è stato espressamente consentito
l’esercizio in forma societaria mediante il d.lgs. 96/2001. La questione oggi è risolta dalla legge 124/2017 la
quale ha introdotto una nuova disciplina della società tra avvocati che riprende molti principi sanciti dalla
legge 183/2011 per le società tra professionisti in generale.

In base alla nuova disciplina introdotta nel 2017, la società tra avvocati:
a) Può essere costituita in forma di società di persone, di capitali e cooperative. Poiché la legge nulla
prevede, si deve ritenere che la società sia soggetta a doppia iscrizione nel registro delle imprese:
nella sezione ordinaria o nella sezione speciale per le società semplici richiesta dalla disciplina del
tipo societario prescelto.
b) Ha ad oggetto lo svolgimento in comune della professione forense
c) Possono infatti diventare soci non solo avvocati ma anche iscritti negli albi di altre professionali o
soggetti privi dei requisiti professionali (soci capitalisti). I soci professionisti devono però essere
titolari di almeno i 2/3 del capitale e dei diritti di voto.
d) L’amministrazione può essere affidata esclusivamente a soci, però solo la maggioranza dei membri
dell’organo di gestione deve essere composta da soci avvocati

La ragione o denominazione sociale può essere formata liberamente ma deve contenere l’indicazione società
tra avvocati: in particolare non è richiesta l’indicazione del nome e del titolo professionale di uno e più soci.

La sospensione, cancellazione o radiazione del socio professionista dall’albo costituisce causa di esclusione
della società.

L’esercizio della professione forense in forma societaria non fa venire meno il principio della personalità di
prestazione professionale. L’incarico professionale conferito alla società può essere eseguito solo da soci
professionisti in possesso dei requisiti necessari per lo svolgimento della attività professionale. Inoltre la
responsabilità della società per l’inadempimento dell’incarico professionale non esclude la responsabilità del
professionista che ha esercito la specifica prestazione. Il socio che ha causato del danno professionale è
pertanto direttamente responsabile nei confronti del danneggiato in solido con la società.

8. Lo scopo-fine delle società

L’art. 2247 c.c. enuncia solo uno dei possibili scopi del contratto di società: lo scopo di divisione degli utili.
Una società può essere costituita per svolgere attività di impresa con terzi allo scopo di conseguire utili
(lucro oggettivo), desinati ad essere successivamente divisi tra i soci (lucro soggettivo).

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Società sono però anche le società cioè ratio e e queste devono perseguire per legge (art. 2511 e 2515) uno
scopo mutualistico. Lo scopo, cioè, di fornire direttamente ai soci beni, servizi o occasioni di lavoro a
condizioni più vantaggiose di quelle che i soci avrebbero sul mercato. Il loro scopo tipico è quello di
procurare ai soci un vantaggio patrimoniale. In sintesi, anche la società cooperativa è una società che deve
operare con metodo economico.

Per completare il quadro dei possibili scopi del contratto di società è infine da tener presente che tutti i tipi di
società possono essere utilizzati anche per la realizzazione di uno scopo consortile, i cui tratti distintivi sono
stati già illustrati nel volume sull’impresa. Una società consortile è tenuta ad operare con metodo economico.

In definitiva sotto il profilo dello scopo le società possono essere distinte in tre grandi categorie:
 Società lucrative (art. (art. 2247)
 Società mutualistiche (art. 2511)
 Società consortili (art.2615 ter)
Un dato è comunque costante: le società sono enti associativi che operano con metodo economico per la
realizzazione di un risultato economico a favore esclusivo dei soci.

9. Società ed associazioni. L’impresa sociale. Le società benefit

È possibile ora fissare gli elementi di distinzione tra le società e le associazioni del I libro del codice civile.

a) L’attività delle società è positivamente individuata: deve essere un’attività produttiva ed una attività
condotta con metodo lucrativo o quantomeno economico.

b) Lo scopo-fine delle società è uno scopo economico

Ne consegue che un gruppo associativo è certamente da qualificare come Associazione e non come Società
quando svolge attività produttiva con metodo non economico. Ma nel campo delle Associazioni si resta
anche quando l’attività produttiva è condotta con metodo economico ma gli utili conseguiti sono
istituzionalmente devoluti a scopi di beneficenza o comunque altruistici.

In breve, la linea di confine tra società e associazioni risiede nella autodestinazione ai membri del gruppo
(scopo lucrativo) o nella eterodirezione (scopo ideale) dei risultati economici.

Ad oggi però si ritene che le società di capitali sarebbero diventate strutture organizzative casualmente neutre
e quindi legittimamente utilizzabili dalla autonomia privata per la realizzazione di un qualsiasi scopo lecito.
È innanzitutto da osservare che il sistema del codice civile non offre, ancor oggi, dati che consentono di
affermare la derogabilità statutaria dello scopo di lucro o economico. Inoltre l’espresso riconoscimento
legislativo delle società consortili (art. 2615 ter) non dimostra affatto che delle stesse ci si possa servire per
uno scopo non economico, dunque ideale.

Discorso analogo vale anche per la legislazione speciale. Certamente in questa si rivengono numerosi casi di
società senza scopo di lucro oggettivo e/o soggettivo.

Numerose infatti erano almeno in passato le società per azioni a partecipazione prevalentemente pubblica. E
se questo fenomeno si è oggi drasticamente ridimensionato non mancano nella legislazione speciale più
recente casi di società per azioni che per legge non devono o non possono perseguire uno scopo di lucro.

 È quantomeno dubbio invece che tra le società di diritto speciale senza scopo di lucro soggettivo
possano ancora essere comprese le società sportive professionistiche, regolate dalla l. 91/1981. Sono
state invece abrogate le norme che originariamente vietavano la distribuzione degli utili ai soci.
L’attuale disciplina si limita invece a stabilire, per quanto riguarda la destinazione degli utili, che
l’atto costitutivo deve prevedere che una quota parte degli utili non inferiore al dieci percento sia
destinata a scuole giovanili di addestramento e formazione tecnico-sportive.
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 Una vistosa deroga al principio di lucratività delle società è invece prevista dalla disciplina sulla
impresa sociale. Le imprese sociali esercitano senza scopo di lucro ed in via stabile e principale una
attività di impresa di interesse generale. Le imprese sociali possono costituirsi sotto forma di
qualsiasi ente di diritto privato. E se viene adottata la forma societaria resta ferma la caratteristica
sostanzialmente non lucrativa dell’impresa. La costituzione di imprese sociali è consentita
esclusivamente nei settori di interesse generale tassativamente individuati dalla legge (art. 2,
d.lgs.112/2017). In caso di violazione il Ministero del Lavoro dispone la perdita da parte dell’ente
della relativa qualifica da cui consegue la cancellazione dell’impresa dalla apposita sezione speciale
del registro e l’obbligo di devolvere il patrimonio ad un fondo per la promozione e lo sviluppo delle
imprese sociali dedotto soltanto il capitale ed i dividendi eventualmente maturati.

Non poche sono le società di diritto speciale senza scopo di lucro. Non è meno vero però che esse
non avvalorano l’idea del tramonto dello scopo lucrativo. Le relative previsioni legislative devono
essere correttamente valutate come norme eccezionali.
Resta comunque il fatto che il delineato sistema legislativo è facilmente eludibile. E resta un aperto
senso di insoddisfazione per un sistema che per lungo tempo ha frapposto non pochi ostacoli alla
costituzione ed al funzionamento delle Associazioni con personalità giuridica.

Teniamo presente d’altra parte che il perseguimento di uno scopo lucrativo non è necessariamente
inconciliabile con una politica d’impresa volta a generare benefici anche per il territorio, le
comunità, i lavoratori ecc.

 Una società benefit è una società che, oltre allo scopo lucrativo o mutualistico, persegue anche una o
più finalità di beneficio comune. Le finalità di beneficio comune possono consistere tanto in effetti
positivi tanto in una riduzione degli effetti negativi. Esse devono essere specificatamente indicate
nell’oggetto sociale ed in questo modo la loro attuazione diventa obbligatoria per gli amministratori.
Ogni anno la società benefit redige e pubblica sul proprio sito internet una relazione in cui illustra i
risultati conseguiti. Le società benefit possono accedere ad incentivi pubblici previsti dalle leggi
speciali. Ma soprattutto possono avvantaggiarsi del ritorno di immagine e dell’ apprezzamento del
pubblico, però l’uso abusivo della denominazione di società benefit da parte di società che non
perseguono finalità di beneficio comune costituisce pubblicità ingannevole.

10. Società e comunione

Il legislatore stabilisce che la comunione è costituita o mantenuta al solo scopo di godimento di una o più
cose è regolata dalle norme del titolo VII del libro III (art. 2248).

Il significato di questo precetto legislativo può essere pienamente colto solo tenendo ben presente le
differenze che intercorrono tra società e comunione.

La società è un contratto che ha per oggetto l’esercizio in comune di una attività economica (produttiva). La
comunione è invece una situazione giuridica che sorge quando la proprietà o atro diritto reale spetta in
comune a più persone (art. 1100). Ed è una situazione giuridica che ha per oggetto il semplice godimento
della cosa comune secondo la sua normale e naturale destinazione (art. 1102 1° comma ed art. 2248).

È ben vero che anche nella comunione è per legge previsto lo svolgimento di attività patrimoniale
nell’interesse comune. Nella società i beni comuni (patrimonio sociale) hanno funzione servente rispetto
all’attività di impresa; sono un mezzo per lo svolgimento di quest’ultima.

Nella comunione invece il rapporto beni-attività si inverte. È l’attività che svolge funzione servente rispetto
ai beni. Essa è un mezzo per assicurare la conservazione della cosa comune e consentirne il migliore

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godimento individuale da parte dei comproprietari. Ed entro tali limiti sono rigorosamente circoscritti i poteri
dell’organizzazione dei comproprietari (art. 1105 e art. 1108).

I beni facenti parte di un patrimonio sociale sono affetti da un vincolo di stabile destinazione.

Diversa è la tecnica eseguita dal legislatore nelle società di persone e nelle società di capitali. In tutte le
società operano i seguenti principi cardine:
 Il singolo socio non può liberamente servirsi delle cose appartenenti al patrimonio sociale per fini
estranei allo svolgimento dell’attività di impresa programmata
 Il singolo socio non può provocare a sua discrezione lo scioglimento anticipato della società
 I creditori personali dei soci non possono soddisfarsi sul patrimonio della società

Principi opposti regolano invece la comunione:


 Ciascun comproprietario può liberamente servirsi della cosa comune perché non ne alteri la naturale
destinazione (art. 1102)
 Ciascuno dei comproprietari può in ogni momento chiedere lo scioglimento della comunione (art.
1111)
 I creditori personali dei singoli comproprietari possono liberamente aggredire anche la cosa comune.

Manca quindi nella comunione un vincolo di destinazione nei rapporti interni.

Le analogie tra società e comunione non vanno perciò oltre un fatti che sotto il profilo patrimoniale esse
costituiscono forme non individuali di proprietà (proprietà collettiva). Ma si tratta di forme di proprietà
collettiva assai diversa per struttura funzione e disciplina.

È possibile a questo punto cogliere in pieno il significato sistematico e di politica legislativa dell’art. 2248. Il
legislatore infatti ha voluto fissare il principio che il regime patrimoniale delle società è applicabile solo
quando i beni sono destinati allo svolgimento di una attività di impresa. Quando invece lo scopo perseguito è
solo quello di godere i beni messi in comune, la disciplina applicabile è e resta quella della comunione.

In breve, l’art. 2248 può e deve essere letto nel senso che sono vietate le società di mero godimento. Esse
costituiscono un abuso dell’istituto societario ed un abuso a danno die creditori personali dei comproprietari.

Certamente illegittime sono perciò anche le c.d. Società immobiliari di comodo; società il cui patrimonio
attivo è costituito esclusivamente dagli immobili conferiti dai soci la cui attività si esaurisce nel concedere
tali immobili in locazione a terzi o agli stessi soci. Tali società sono nulle per violazione di norma
imperativa. Non può invece essere considerata società di mero godimento una società immobiliare che ha per
oggetto la gestione di un albergo o di un residence utilizzando l’immobile conferito dai soci. In tal caso
infatti l’immobile è elemento di una più complessa organizzazione dei fattori produttivi.

11. Società e “comunione di impresa”

Il criterio distintivo tra ambito di operatività della disciplina della comunione e ambito di operatività della
disciplina delle società non sempre è di agevole applicazione. La risposta alla domanda se l’utilizzo dei beni
predittivi determini l’instaurarsi tra i comproprietari di un rapporto societario anche in mancanza di espressa
pattuizione in tal senso o se per contro si resta nel campo della comunione, non può essere univoca. È
necessario distinguere a seconda del caso concreto.

Si resta certamente nel campo della comunione quando ad esempio due persone acquistano una sala
cinematografica attrezzata e ne godono le utilità dandola in affitto ad un terzo. In tal caso l’attività di impresa
è svolta dal terzo. Si resta ancora nel campo della comunione quando i comproprietari della sala decidono di
gestirla individualmente ad anni alterni. I due soliti comproprietari della sala cinematografica daranno invece
vita ad una società se ad un certo punto decidono di gestirla in comune. È possibile perciò che dalla
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comunione si passi alla società. Ipotesi questa che classicamente si verifica quando più figli ereditano
l’azienda paterna.

Si potrebbe però obiettare: per dar vita ad una società l’art. 2247 richiede un accordo delle parti anche in
merito ai conferimenti e questo accordo non è dato rinvenire quando i comproprietari si limitano ad utilizzare
l’azienda comune.

L’ obiezione, se fondata, porterebbe ad ammettere che è possibile l’esercizio di impresa collettiva, ferma
restando l’applicazione del regime patrimoniale della comunione, per i beni utilizzati. Fenomeno questo
sinteticamente definibile come comunione di impresa. E di comunione di impresa (e non di società) si
dovrebbe parlare ogni volta che un’azienda in comunione venga utilizzata dai comproprietari per l’esercizio
in comune di attività di impresa senza precisi accordi in merito al conferimento in società dei relativi beni.

L’obiezione e la conclusione sono però prive di fondamento. Un contratto di società può essere concluso
anche per fatti concludenti e per fatti concludenti può avvenire anche il conferimento. E non vi è dubbio che
l’effettivo esercizio di attività di impresa da parte dei comproprietari di un’azienda è oggettivamente
apprezzabile come non equivoco atto di destinazione societaria dei relativi beni.

12. L’impresa coniugale

Ciò che è precluso all’autonomia privata non è però precluso al legislatore ed una figura, speciale, di
comunione di impresa è stata introdotta dalla riforma del diritto di famiglia del 1975.

In base all’art. 177 lett.d del Codice civile, formano oggetto della comunione legale tra coniugi anche le
aziende gestite da entrambe i coniugi e costituite dopo il matrimonio (c.d. Azienda o Impresa coniugale).

L’applicazione della disciplina della comunione familiare comporta che i creditori di impresa potranno
soddisfarsi su tutti i beni della comunione ma alla pari con gli altri creditori della comunione. I creditori di
impresa, inoltre, possono aggredire anche il patrimonio personale di ciascun codice.

I creditori particolari del singolo coniuge a loro volta possono soddisfarsi direttamente anche sui beni della
comunione legale e quindi anche sui beni aziendali.

Una particolare disciplina è prevista per lo scioglimento della comunione aziendale (art. 191).

In conclusione si è in presenza di una impresa collettiva il cui esercizio da vita l’ala formazione di un
patrimonio autonomo ed il cui regime non è accostabile né a quello della ordinaria comunione né a quello
della società di fatto.

B. I TIPI DI SOCIETÀ

13. Nozione. Classificazioni

L’attività della società solleva problemi di disciplina che riguardano a) l’ordinamento interno della società b)
i rapporti tra società e terzi.

Per quanto riguarda i rapporti interni è necessario definire le regole procedimentali di formazione della
volontà di gruppo. Per quanto riguarda i rapporti esterni, è necessario stabilire chi e secondo quali modalità è
abilitato ad agire con i terzi.

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La risposta del legislatore a questa serie articolata di problemi e di interrogativi non è univoca. Le società
formano un sistema composto da una pluralità di tipi. Gli otto tipi di società previste dal legislatore (società
semplice, società in nome collettivo, società in accomandita semplice, società per azioni, società in
accomandita per azioni, società a responsabilità limitata, società cooperative e mutue assicuratrici) possono
tuttavia essere aggregati in categorie omogenee.

 Società lucrative e mutualistiche: una prima distinzione è quella basata sullo scopo istituzionale
perseguibile. Sotto tale profilo le società cooperative e le mutue assicuratrici (società mutualistiche)
si contrappongo a tutti gli altri tipi di società.

 Società semplice e società commerciale: una seconda distinzione è quella basata sulla natura
dell’attività esercitabile. La società semplice è utilizzabile solo per l’esercizio di attività non
commerciale (art. 2249). Tutte le altre società lucrative possono esercitare sia attività commerciale
sia attività non commerciale e indipendentemente dall’attività esercitata, sono sempre state soggette
ad iscrizione nel registro delle imprese con effetti di pubblicità legale.

 Società con e senza personalità giuridica: altra distinzione legislativa è quella tra società dotate di
personalità giuridica e società prive di personalità giuridica. Hanno personalità giuridica le società di
capitali (società per azioni, società in accomandita per azioni e società a responsabilità limitata).

Nelle società di capitali in quanto società con personalità giuridica:


a) È legislativamente prevista ed è inderogabile una organizzazione di tipo corporativo, cioè
basata sulla necessaria presenza di una pluralità di organi (assemblea, organo di gestione,
organo di controllo)
b) Il funzionamento degli Organi sociali è dominato dal principio maggioritario. In particolare,
l’assemblea delibera a maggioranza anche le modifiche all’atto costitutivo e le maggioranze
sono definite in base alle partecipazioni di ciascun socio e non per testa.
c) Il singolo socio in quanto tale non ha alcun potere diretto di amministrazione e di controllo
ma h solo il diritto di concorrere alla designazione dei membri dell’organo amministrativo.

Nelle società di persone, in quanto prive di personalità giuridica:


a) Non è prevista un’organizzazione di tipo corporativo basata sulla presenza di una pluralità di
organi
b) L’attività della società si fonda su un modello organizzativo che, per un verso, riconosce ad
ogni socio a responsabilità illimitata il potere di amministrare la società (art. 2257) e per
altro richiede il consenso di tutti i soci per le modifiche all’atto costitutivo (art. 2252).
c) Il singolo socio a responsabilità illimitata è, in quanto tale, investito di un potere di
amministrazione e di rappresentanza della società e ciò indipendentemente dall’ammontare
del capitale conferito e dalla consistenza del suo patrimonio personale.

 Responsabilità dei soci: un ultimo profilo di distinzione è quello basato sul regime di responsabilità
per le obbligazioni sociali. Sotto tale profilo vi sono:
1) Società nelle quali per le obbligazioni sociali rispondono sia il patrimonio sociale sia i singoli
soci personalmente ed illimitatamente in modo inderogabile (società in nome collettivo) o
derogabile (società semplice)
2) Società, come l’accomandita semplice e per azioni, nelle quali coesistono istituzionalmente soci
a responsabilità illimitata (gli accomandatari) e soci a responsabilità limitata (gli accomandanti)
3) Società nelle quali per le obbligazioni sociali di regola rispondono solo le società con il loro
patrimonio (società per azioni e a responsabilità limitata e società cooperative)

Il panorama quindi è dei più vari. Si noti, comunque, che la responsabilità personale dei soci non è
univocamente ricollegabile né al riconoscimento o meno della personalità giuridica né alla distinzione tra
società di persone e società di capitali.

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L’unica regola costante al riguardo ricavabile è che nelle società di persone non è consentito che tutti i soci
siano a responsabilità limitata e l’amministrazione della società può essere affidata solo ai soci a
responsabilità illimitata.

14. Personalità giuridica ed autonomia patrimoniale delle società

Il codice del commercio del 1882 definiva unitariamente i tre tipi di società allora previsti (società in nome
collettivo, società in accomandita e società anonima) come enti collettivi distinti dalle persone dei soci.

Il legislatore del ’42 ha fatto una distinzione precisa, dicendo che le società di capitali e le società
cooperative sono persone giuridiche e invece non lo sono le società di persone. Queste ultime godono di però
di un’autonomia patrimoniale.

Nelle prime due come detto, viene riconosciuto espressamente la personalità giuridica ed in quanto tali,
queste società sono (per legge) trattate come soggetti di diritto formalmente distinti dalle persone dei soci.

La società (in posizione separata rispetto ai soci) gode di piena e perfetta autonomia patrimoniale. Infatti la
società è titolare di un proprio patrimonio/propri diritti/proprie obbligazioni, distinti da quelli personali dei
soci. Quindi sul patrimonio sociale non possono soddisfarsi i creditori personali dei soci, in quanto si tratta di
un patrimonio giuridicamente appartenente ad altro soggetto (società).
Allo stesso modo i creditori sociali non possono soddisfarsi sul patrimonio personale dei soci: delle
obbligazioni sociali risponde di regola solo la società col proprio patrimonio!
In breve: mediante il riconoscimento della personalità giuridica, il patrimonio sociale è reso autonomo
rispetto a quello della società.

Quali sono però i limiti? Va detto che la personalità giuridica è creazione del legislatore e la distinta
soggettività delle persone giuridiche non va enfatizzata. Questi limiti dimostrano che la personalità giuridica
non implica sempre l’irresponsabilità dei soci! responsabili personalmente (anche se in via sussidiaria) sono
per legge: l’unico azionista (art.2325, co.2) + l’unico quotista di società a responsabilità limitata (art.2462,
co.2) + i soci accomandatari dell’accomandita per azioni (art.2452).

In breve: Il concetto di personalità giuridica non può essere esasperato e caricato di significati ulteriori
rispetto al dettato normativo, d’altro canto non si può nemmeno svuotare di significato.

15. La soggettività delle società di persone

Alle società di persone il legislatore ha espressamente negato la personalità giuridica. Al contempo ha


provveduto a dettare disposizioni specifiche che rendono il patrimonio della società autonomo rispetto a
quello dei soci, oltre che stabilmente vincolato allo svolgimento dell’attività di impresa.

Infatti nelle società di persone:


 I creditori personali dei soci non possono aggredire il patrimonio della società per soddisfarsi.
 I creditori della società non possono aggredire direttamente il patrimonio personale dei soci
illimitatamente responsabili. Prima devono provare a soddisfarsi sul patrimonio della società e solo
dopo aver infruttuosamente escusso il patrimonio sociale, potranno agire nei confronti dei soci.

Anche nelle società di persone il patrimonio della società è (relativamente) autonomo rispetto a quello a
quello dei soci. Il patrimonio dei soci è (relativamente) autonomo rispetto a quello della società.

Nelle società di persone la distinzione formale società-soci si esaurisce sul terreno oggettivo (autonomia
patrimoniale) o è da ritenersi che anche tali società sono trattate come centri di imputazione giuridica (sogg.
di diritto) distinti dalle persone dei soci? Anche le società di persone danno vita ad un fenomeno di
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unificazione soggettiva? Decisamente diffusa in passato ed ancora oggi è la risposta negativa, poiché a tali
società non viene riconosciuta personalità giuridica.

Anche sul piano sostanziale la risposta è negativa, dato che le società in generale (non solo quella di persone)
sono composte da persone.

Ma sul piano giuridico-formale le cose non stanno così. Di fatti molti dati legislativi testimoniano
chiaramente che un fenomeno di unificazione soggettiva è presente anche nelle società di persone. Dice
infatti l’Art.2266, co.1 c.c.: “La società acquista diritti ed assume obbligazioni per mezzo dei soci che ne
hanno la rappresentanza e sta in giudizio nella persona dei medesimi”.

Quindi è la società che diventa titolare di diritti e delle obbligazioni relative (come qualsiasi altro sogg. di
diritto).

Conferma quanto detto l’art. 2659 c.c. che stabilisce che la trascrizione degli acquisti immobiliari è
effettuata, anche per le società di persone, al nome della società (ragione sociale).

Anche le società di persone hanno un proprio nome (artt.2292-2314) ed una propria sede (art.2295, co.4)
formalmente distinti da quelli dei soci.

In conclusione anche le società di persone vengono trattate come autonomi centri di imputazione, come
soggetti di diritto distinti dalle persone dei soci.
a) Nelle società di persone i beni sociali non sono in comproprietà “speciale” fra i soci, ma beni in
proprietà della società
b) Le obbligazioni sociali non sono obbligazioni personali dei soci ma obbligazioni della società, cui si
aggiunge a titolo di garanzia la responsabilità di tutti/alcuni dei soci
c) La responsabilità personale dei soci non è qualificabile come responsabilità per debito proprio
d) L’imprenditore è la società, non il gruppo dei soci (co-imprenditori), anche se il fallimento della
società determina automaticamente il fallimento dei soci illimitatamente responsabili.

Per descrivere la forma di alterità delle società di persone è più appropriata la formula “Soggetto collettivo
non personificato”, ipotizzato “tertium genus” tra persone fisiche e giuridiche.

16. Tipi di società ed autonomia privata

Chi vuole costituire una società può scegliere liberamente tra tutti i tipi di società previsti se l’attività da
esercitare non è commerciale (tranne la società semplice se l’attività è commerciale). Limitazioni ulteriori
nella scelta possono essere stabilite da leggi speciali (per particolari cat. di imprese commerciali, es: imprese
bancarie/assicurative/società gestione risparmio/società di intermediazione immobiliare/società di
investimento a capitale variabile).

La scelta di un determinato tipo di società non è condizione essenziale per la valida costituzione di una
società.

Ancor di più non lo è se l’attività da svolgere non è commerciale, poiché in questo caso la scelta del tipo è
necessaria solo se le parti vogliono sottrarsi al regime della società semplice.

Nel caso di attività commerciale, l’assenza di esplicita scelta delle parti può e deve essere interpretato come
implicita ma inequivocabile opzione per il regime della società in nome collettivo.

Accertato che sussistono i requisiti (ex.art.2247 c.c.) il contratto di società si intende perfetto. Se l’attività
dedotta in contratto è commerciale, la disciplina applicabile non può che essere quella della collettiva.

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Questo perché è il solo tipo di società commerciale che per la sua costituzione non richiede ulteriori
specificazioni contrattuali.

Quindi la società semplice e quella in nome collettivo costituiscono i regimi residuali dell’attività societaria,
rispettivamente non commerciale e commerciale.

Una volta scelto un determinato tipo di società, le parti possono disegnare un assetto organizzativo della loro
società parzialmente diverso da quello risultante dalla disciplina legale del tipo prescelto. Infatti i modelli
organizzativi non sono del tutto rigidi e consentono un parziale adattamento alle esigenze del caso concreto:
basta che le c.d. clausole atipiche non siano incompatibili con la disciplina del tipo di società prescelto.

Limiti all’autonomia privata nell’inserimento di clausole “atipiche”: non sono agevolmente definibili!va però
ricordato che i regimi di responsabilità per le obbligazioni sociali rivestono carattere cogente e non
derogabile.

È frequente che al momento della costituzione della società/durante la vita della stessa, i soci stipulino al di
fuori dell’atto costitutivo accordi destinati a regolare il loro comportamento nella società/verso la società.
Essi sono i patti parasociali.
Es: si impegnano ad effettuare futuri apporti di danaro a titolo di conferimento/di prestito o a concordare
preventivamente il modo in cui voteranno nelle assemblee della società

Tali accordi si dicono “parasociali” perché non risultano consacrati nell’atto costitutivo della società. Questi
patti hanno efficacia meramente obbligatoria e vincolano solo gli attuali soci contraenti e non anche i soci
futuri, a meno che questi non vi aderiscano espressamente. Si tratta di patti che non concorrono a definire
l’assetto organizzativo della società, in quanto non risultanti dal doc. costitutivo della stessa.

La loro violazione espone all’obbligo di risarcimento dei danni cfr. degli altri soci.

17. Contratto di società ed organizzazione

La società è, di regola, un contratto, ma è nel contempo e sempre forma di organizzazione giuridica di una
futura attività economica.

Con la stipula del contratto di società le parti contraenti diventano, infatti, membri della struttura
organizzativa e acquistano una serie articolata di situazioni di diversa natura, distinguibili in due grandi
categorie:
a) Situazioni di natura amministrativa, aventi ad oggetto la partecipazione individuale all’attività
comune
b) Situazioni di natura patrimoniale, aventi ad oggetto la partecipazione individuale ai risultati
dell’attività comune

Le situazioni soggettive di cui ciascun socio è investito variano, per contenuto e per grado di tutela, nei
singoli tipi di società e saranno perciò analizzate più avanti. In tutte le società presenti, però, presentano il
comune carattere di essere destinate ad esplicarsi all’interno e nei confronti di un gruppo organizzato per la
realizzazione di uno scopo comune.

I diritti di cui ciascun socio gode vanno infatti inseriti e valutati nell’ambito dell’organizzazione di gruppo
creata con il contratto di società.

Ne consegue che il sacrificio delle posizioni individuali deve pur sempre trovare il fondamento e
giustificazione nell’esigenza di una migliore realizzazione del risultato finale di comune interesse. Ed in ogni
caso il potere dispositivo della maggiorana non può legittimamente alterare le reciproche posizioni
individuali dei soci quali fissate dal contratto stesso. È legittimo il sacrificio dell’interesse attuale del singolo
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socio in nome dell’interesse finale di tutti. Non è invece legittimo il sacrificio del singolo socio o di gruppi di
soci a vantaggio degli altri.

Il problema della tutela del singolo di fronte a possibili abusi da parte della maggioranza può trovare
soluzione nelle società applicando i principi cardine che regolano la fase attuativa di ogni contratto e di quelli
associativi in particolare:
a) Il principio dell’esecuzione del contratto secondo correttezza e buona fede (art. 1375)
b) Quello ulteriore del rispetto della parità di trattamento tra i soci (art. 92 TUF)

CAPITOLO SECONDO
LA SOCIETÀ SEMPLICE
LA SOCIETÀ IN NOME COLLETTIVO

1. La società di persone

La società semplice, la società in nome collettivo e la società in accomandita semplice formano la categoria
delle società di persone.

 La società semplice (art. 2251-2290) è un tipo di società che può esercitare solo attività non
commerciale
 La società in nome collettivo (art. 2291-2312) è un tipo di società che può essere utilizzato sia per
l’esercizio di attività commerciale sia per l’esercizio di attività non commerciale. Tutti i soci
rispondono solidalmente ed illimitatamente per le obbligazioni sociali (art. 2291)
 La società in accomandita semplice (art. 2313-2324) è una società di persone che si caratterizza
rispetto alla società in nome collettivo per la presenza istituzionale di due categorie di soci: a) i soci
accomandatari che rispondono solidalmente ed illimitatamente per le obbligazioni sociali e b) i soci
accomandanti che rispondono limitatamente alla quota conferita (art. 2313).

La società semplice costituisce il prototipo normativo delle società di persone. Il codice infatti circoscrive
l’utilizzabilità al settore delle attività non commerciali. È vero poi che in tempi recenti la legislazione
speciale in deroga alla regola fissata dal 2249 ha ampliato l’ambito di utilizzazione della società semplice, da
ultimo consentendone l’utilizzo anche per la società tra professionisti.

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A. LA COSTITUZIONE DELLA SOCIETÀ

2. L’atto costitutivo. Forma e contenuto

Il contratto di società semplice non è soggetto a forme speciali salvo quelle richieste dalla natura dei beni
conferiti (art. 2251). In base al Codice del 1942 la società semplice non era altresì assoggettata ad iscrizione
nel registro delle imprese. Al riguardo la situazione è oggi cambiata: con la riforma del registro delle imprese
del 1993 è stata prevista l’iscrizione nel registro delle imprese. La legge 580/1993 stabilisce che l’iscrizione
avviene nella sezione speciale ed è priva di specifici effetti giuridici avendo solo funzione di certificazione
anagrafica. Sul punto è intervenuto du recente il D. Lgs. 228/2001 che ha attribuito funzione di pubblicità
legale all’iscrizione delle società semplici esercenti attività agricola.

La costituzione della società semplice resta comunque improntata alla massima semplicità formale e
sostanziale, anche perchè la registrazione non incide sull’esistenza e sulla disciplina delle società.

In particolare il contratto di società semplice può essere concluso verbalmente o può risultare da
comportamenti concludenti.

Regole non diverse valgono per la nascita della società in nome collettivo. È vero che sono infatti dettate
regole di forme (art. 2296) e di contenuto (art. 2295) per l’atto costitutivo. Entrambe sono prescritte solo ai
fini dell’iscrizione della società nel registro delle imprese: iscrizione che è condizione di regolarità della
società.

Da qui la distinzione tra società in nome collettivo regolare ed irregolare.


 È regolare la società in nome collettivo iscritta nel registro delle imprese, integralmente disciplinata
dalle norme della società in nome collettivo
 È irregolare la società in nome collettivo non iscritta nel registro delle imprese perché le parti non
hanno redatto l’atto costitutivo o perché, pur avendolo redatto, non hanno provveduto alla
registrazione dello stesso. Si applica la disciplina della collettiva irregolare.
Solo ai fini della registrazione e della regolarità della società l’atto costitutivo della società in nome
collettivo deve essere redatto atto pubblico o per scrittura privata autenticata. Deve inoltre contenere le
seguenti indicazioni:
1) Cognome e nome, luogo e data di nascita, domicilio e cittadinanza dei soci
2) Ragione sociale, costituita ex art. 2292 1° comma, dal nome di uno o più soci illimitatamente
responsabili con l’indicazione del rapporto sociale —> necessaria per la c.d. Spendita del nome della
società ed ecco perché nella società di capitali non è necessario inserire il nome dei soci, che nelle
società di persone sono responsabili
3) I soci che hanno l’amministrazione
4) La sede della società
5) L’oggetto sociale
6) I conferimenti
7) Le prestazioni a cui sono obbligati i soci d’opera
8) Le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti
9) La durata della società

La libertà di forma incontra un limite quando forme speciali sono richieste dalla natura dei beni conferiti (art.
2251). La forma scritta a pena di nullità sarà perciò necessaria quando il conferimento ha per oggetto beni
immobili o diritti reali immobiliari (art. 1350, nn. 1 e 9). È tuttavia diffusa opinione che la forma scritta è
richiesta solo per la validità del conferimento immobiliare e non per la validità del contratto di società. In
mancanza di ciò dunque sarà nullo solo il vincolo del socio conferente.

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3. Società di fatto. Società occulta

Per la costituzione di una società di persone non è necessario l’atto scritto. Il contratto di società si può
perfezionare anche per fatti concludenti e si parla, in tal caso, di società di fatto. La società di fatto è regolata
dalle norme della società semplice se l’attività esercitata non è commerciale. Una società di fatto che esercita
attività commerciale è esposta al fallimento al pari di ogni imprenditore commerciale. Ed il fallimento della
società determina automaticamente il fallimento di tutti i soci (art. 147 l. fall.). In breve l’esteriorizzazione
delle qualità di socio non è necessaria. L’aver tenuto celato ai terzi (rapporti esterni) la propria
partecipazione ad una società di fatto non esonera da responsabilità per le obbligazioni sociali e dal
fallimento.

Dalla società con soci occulti va tenuto distinto il fenomeno della società occulta. È società occulta quella
costituita con l’espressa e concorde volontà dei soci di non rivelarne l’esistenza all’esterno. La società
occulta può essere società di fatto ma anche risultare da atto scritto tenuto segreto dai soci. Per come accordo
l’attività di impresa deve essere svolta per conto della società ma senza spenderne il nome. La società esiste
nei rapporti interni tra i soci ma non viene esteriorizzata. Nei rapporti esterni l’impresa diventa, perciò,
impresa individuale di uno dei soci o anche di un terzo.

Lo scopo che le parti si propongono di realizzare con il patto di non esteriorizzazione della società p di
limitare la responsabilità nei confronti dei terzi. Obiettivi di per se leciti possono benissimo essere perseguiti.
È possibile costituire e controllare una società di capitali anche unipersonale. La limitazione di responsabilità
e l‘esenzione dal fallimento dei soci vengono conseguiti in modo trasparente e trovano applicazione una serie
di istituti posti a tutela anche dei terzi (regole sulla effettività ed integrità del capitale, responsabilità diretta e
personale degli amministratori, controlli interni ed esterni sulla gestione etc).

Tramite la società occulta i soci mirano invece a conseguire tali benefici segretamente e pertanto al di fuori
di ogni regola. Necessario e sufficiente a tal fine, si afferma, è che i terzi provino a posteriori l’esistenza del
contratto di società e che gli atti posti in essere dal soggetto agente in proprio nome siano comunque riferibili
a tale società sia pure non esteriorizzata. Perciò dichiarato il fallimento di un imprenditore individuale, il
fallimento viene esteso alla società ed agli altri soci occulti.

E questo orientamento è stato infine recepito anche dal legislatore nel 2006 con il d.lgs. 5/2006. Il nuovo art.
147 5° comma dispone che qualità, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti
che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile, si applica agli
altri soci illimitatamente responsabili la regola del fallimento del socio occulto.
Sono così considerati indici probatori di una società occulta, il sistematico finanziamento di un imprenditore
individuale anche attraverso il rilascio di fideiussioni omnibus, la partecipazione a trattative di affari con i
fornitori, il compimento di atti di gestione, il prelievo di somme di pertinenza dell’impresa e così via.

Deve escludersi che la società occulta sia direttamente responsabile verso i terzi per le obbligazioni contratte
per conto della stessa ma in nome proprio dall’imprenditore. Troverà invece applicazione la disciplina del
mandato e pertanto l’imprenditore individuale potrà agire nei confronti della società e dei soci occulti per
farsi somministrare i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato. In breve, fuori dalle procedure
concorsuali è l’actio mandati contraria il mezzo di tutela dei creditori dell’imprenditore individuale nei
confronti della società occulta successivamente scoperta.

4. La società apparente

Capita spesso che il giudice si convinca che dietro un imprenditore individuale, insolvente o già fallito, ci sia
una società. Ed allora, se il giudice ne è proprio convinto, il tribunale fallimentare si limita a prevenire
possibili obiezioni sulla prova dell’ esistenza delle società invocando il principio dell’apparenza. È nata così
la figura della società apparente: una società che ancorché non esistente nei rapporti tra i presunti soci dece

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tuttavia considerarsi esistente all’ esterno quando due o più persone operino in modo tale da ingenerare nei
terzi la ragionevole opinione che essi agiscano come soci.

Ciò non ha mancato di suscitare vivaci reazioni ctitiche. Ed invero il principio dell’apparenza può al più
determinare la responsabilità dell’apparente socio nei confronti di terzi in buona fede ma giammai il
fallimento della società apparente, dato che al fallimento partecipano tutti i creditori; anche quelli che con il
presunto socio non hanno trattato e che perciò non possono aver fatto affidamento almeno sulla sua
responsabilità.

Queste ed altre critiche non hanno tuttavia scalfito l’atteggiamento della Giurisprudenza, la cui posizione
tuttavia non manca di una sua coerenza. Perché mai i giudici non dovrebbero far fallire la società che
ritengono esistente di fronte ai terzi ma non nei rapporti interni? È agevole tuttavia replicare che la società
occulta fallisce proprio perché viene scoperta la reale esistenza di una società.

Il problema è in verità a monte: nella non superabilità del criterio di imputazione formale della responsabilità
per debiti di impresa. Ma fin quando si penserà il contrario continueranno a vivere nelle aule dei tribunali
società apparenti e presunte società occulte.

5. La partecipazione degli incapaci

La partecipazione degli incapaci ad una società in nome collettivo è per legge equiparata all’esercizio
individuale di una impresa commerciale, essendo subordinata alle norme del codice civile che regolano
l’esercizio dell’impresa commerciale individuale. Perciò:
a) Il minore, l’interdetto e l’inabilitato non possono partecipare ad una società in nome collettivo ma
con autorizzazione del tribunale possono solo conservare la partecipazione. Inoltre, in caso di
interdizione o di inabilitazione sopravvenuta, il tribunale può autorizzare la continuazione della
partecipazione, sempre che gli altri soci non deliberino la sua esclusione.
b) Il minore emancipato può anche partecipare alla costituzione di una collettiva o aderirvi
successivamente, sempre con l’autorizzazione del tribunale.
c) Il beneficiario della amministrazione di sostegno può partecipare alla costituzione di una società in
nome collettivo salvo che sia diversamente disposto nel decreto di nomina dell’amministratore di
sostegno.

Va escluso che l’art. 2294 vada applicato anche per la partecipazione degli incapaci alla società semplice in
quanto le norme in tema di imprenditore individuale richiamate sono riferite solo agli imprenditori
commerciali.

6. Partecipazione di società in società di persone

Una società può partecipare alla costituzione di una società di persone o diventare socio della stessa?

Per le società di capitali la questione è ora risolta affermativamente dagli artt. 2361, 2° comma, e 11-
duodecies disp. att. cod. civ., sia pure con alcune cautele:
a) L’assunzione di partecipazioni comportanti responsabilità illimitata deve essere deliberata
dall’assemblea
b) Gli amministratori devono dare specifiche informazioni nella nota integrativa del bilancio su tali
partecipazioni
c) Se tutti i soci illimitatamente responsabili di una società in nome collettivo oppure di una società in
accomandita semplice sono società di capitali il bilancio della società di persone deve essere redatto
secondo le norme della società per azioni

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In base alla nuova disciplina, è da ritenere inoltre che una società di capitali sia amministratore di una società
di persone. Risposta affermativa deve darsi anche per la partecipazione di società di persone in altre società
di persone.

Non decisiva è la tradizionale affermazione che le società di persone sono caratterizzate dall’intuitus
personae, infatti tale intuitus è configurabile anche nei comportamenti degli enti dotati di soggettività
giuridica.

Ed infine non vale per le società di persone l’obiezione principale che induceva in passato ad escludere la
partecipazione di società in capitali in società di persone: vale a dire che le persone fisiche socie della società
di capitali avrebbero potuto gestire direttamente la società di persone sottraendosi alla responsabilità
illimitata prevista dalla legge.

Infatti il solo effetto rilevante che si produce quando una società di persone è socio illimitatamente
responsabile di altra società di persone è una parziale modifica del regime di responsabilità dei soci.

7. L’invalidità della società

Valgono in materia di invalidità della società le cause di nullità (art. 1418) e di annullabilità (art. 1425 e ss.)
previste dalla disciplina generale dei contratti.

È necessario tuttavia distinguere tra cause di invalidità che colpiscono originariamente ed immediatamente
l’intero contratto di società (p.e. Oggetto illecito) e cause di invalidità che colpiscono direttamente solo la
singola partecipazione alla società (p.e. Partecipazione di incapace).

In caso di invalidità della singola partecipazione (che però non determini l’invalidità dell’intero contratto di
società, ossia quando la partecipazione viziata non sia essenziale per il conseguimento dell’oggetto sociale),
il contratto resterà valido per gli altri soci e la società continuerà tra costoro, sempre che la società non fosse
composta che da due soci. Il socio la cui partecipazione è stata dichiarata nulla o annullata avrà diritto alla
restituzione del conferimento eseguito ed al rimborso del valore attuale della quota di partecipazione.

La dichiarazione di nullità o l’annullamento dell’intero contratto di società non solleva problemi particolari
se l’attività della società non è ancora iniziata: la sentenza che accerta la nullità ha effetto ex tunc: le parti
sono liberate dall’obbligo di eseguire i conferimenti promessi. La situazione si complica quando l’attività
sociale è in fatto iniziata. Questo problema è risolto dall’art. 2332: la dichiarazione di nullità di una società
per azioni non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo l’iscrizione nel registro
delle imprese. Inoltre, non libera i soci dall’obbligo di eseguire i conferimenti ancora dovuti. Infine è stato
stabilito che la nullità non può più essere dichiarata se la causa di essa è stata eliminata per effetto di una
modificazione dell’atto costitutivo.

È opinione diffusa che questa disciplina abbia carattere eccezionale e non sia applicabile alla società di
persone. Tuttavia tale opinione non merita di essere condivisa: indubbiamente l’art. 2332 è norma
eccezionale se raffrontata con la disciplina della nullità dei contratti ma ciò non toglie che possa essere
considerata espressione di altro e contrapposto principio generale: le causa di invalidità di una società che ha
iniziato la propria attività legittimano l’eliminazione della stessa per il futuro ma non rendono improduttiva
di effetti tra le parti e per i terzi l’attività svolta in fatto prima dell’accertamento giudiziale dell’invalidità.

Perciò:
a) Restano in vita tutti gli atti precedentemente posti in essere in nome della società
b) I soci non sono liberati dall’obbligo di eseguire i conferimenti promessi
c) Resta ferma l’autonomia patrimoniale delle società e la responsabilità personale dei soci per le
obbligazioni sociali
d) Con la sentenza di nullità si apre il procedimento di liquidazione delle società
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Possibile sarà anche la sanatoria della nullità (art. 2332 5° comma), che però andrà adottata con il consenso
di tutti i soci.

B. L’ORDINAMENTO PATRIMONIALE

8. I conferimenti

Stabilisce l’art.2253 del codice che il socio è obbligato ad eseguire i conferimenti determinati nel contratto
sociale. Vanno però fatte delle precisazioni:
a) Nel silenzio del contratto si presume che tutti i conferimenti debbano eseguirsi in denaro (art. 2342
1° comma)
b) Se i conferimenti non sono determinati si presume che i soci siano obbligati a conferire in parti
uguali tra loro quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale (art. 2253 2° comma)

È perciò pacifico che il conferimento può essere costituito oltre che dai singoli beni anche dal trasferimento
in proprietà o in godimento di un’azienda pur se gravata da debiti; dalla prestazione di garanzie a favore
delle società; dall’inserimento del nome del socio nella ragione sociale.

Si è inoltre propensi ad ammettere che il conferimento possa essere costituito anche dalla semplice
responsabilità personale ed illimitata per le obbligazioni sociali. La verità è che l’enunciazione che il
conferimento è costituito dall’assunzione di responsabilità personale rappresenta, nella prassi
giurisprudenziale, nulla più che un espediente per affermare nel caso concreto l’esistenza di una società di
fatto quando proprio non si riesce a trovare null’altro sotto tale profilo.

9. La disciplina dei conferimenti

Per il conferimento di beni in proprietà è disposto che la garanzia dovuta dal socio e il passaggio dei rischi
sono regolati dalle norme sulla vendita (art. 2254 1° comma). Il socio è perciò tenuto alla garanzia per
evizione (art. 1483-1484) e per vizi (art. 1490). Sul socio grava inoltre il rischio del perimento della cosa
fornita in conferimento per caso fortuito.

L’applicazione del principio res perit domino subisce tuttavia un adattamento per le peculiarità del contratto
di società: il perimento di cosa promessa comporta che il socio può, ma non deve, essere escluso dalla
società ex art. 2286. Per le cose conferite in godimento il rischio resta a carico del socio che le ha conferite
(art. 2254 2° comma).

La garanzia per il godimento è poi regolata con rinvio alle norme sulla locazione. Troveranno quindi
applicazione gli artt. 1587 e ss. del codice civile.
Il bene conferito in godimento resta ovviamente di proprietà del socio. Ed il socio ha diritto alla restituzione
del bene al termine della società nello stato in cui si trova. Tuttavia, se il bene è perito o è stato deteriorato
per causa imputabile alla società, il socio ha diritto al risarcimento dei danni a carico del patrimonio sociale
(art. 2281).

Per il conferimento dei crediti, l’art. 2255 dispone che il socio risponde dell’insolvenza del debitore nei limiti
indicati dall’art. 1267 per il caso di assunzione convenzionale della garanzia.

10. Il socio d’opera

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Nelle società di persone il conferimento può anche essere costituito dall’obbligo del socio di prestare la
propria attività lavorativa (manuale o intellettuale) a favore della società. Questo è il c.d. Socio d’opera.

Il socio d’opera non è un lavoratore subordinato e non ha diritto al trattamento salariale e previdenziale del
lavoratore subordinato. Il compenso per il suo lavoro è rappresentato dalla partecipazione ai guadagni della
società. Sul socio d’opera grava inoltre il rischio della impossibilità di svolgimento della prestazione.
Peculiare è anche il trattamento del socio d’opera in sede di liquidazione della società. Egli parteciperà, in
proporzione alla sua parte nei guadagni, solo alla ripartizione dell’eventuale attivo. Non ha invece diritto al
rimborso del valore del suo apporto; a percepire, cioè, in prededuzione, una somma di denaro pari al valore
globale dei servizi prestati in società.

Il punto non è però pacifico: il timore che il socio d’opera subisca un trattamento di sfavore induce parte
della dottrina a ritenere che egli abbia diritto al rimborso del conferimento, ossia della sua opera prestata. Ma
l’obiezione non è decisiva ed invero nessun conferimento da rimborsare è stato effettuato dal socio d’opera,
egli si è solo impegnato a lavorare per la società. Naturalmente, nulla vieta che anche ai soci d’opera sia
riconosciuto il diritto alla restituzione del valore dell’apporto.

11. Patrimonio sociale e capitale sociale

I conferimenti dei soci formano il patrimonio iniziale (attivo patrimoniale iniziale) della società, che diventa
proprietaria dei beni conferiti dai soci. La distinzione tra patrimonio sociale e capitale sociale (che consiste
nel valore in denaro dei conferimenti) è stata già discussa in relazione anche alla funzione vincolistica ed
organizzativa. Ciò nonostante, la nozione di capitale sociale è del tutto assente nella disciplina della società
semplice.

Una, sia pur frammentaria, disciplina del capitale sociale è dettata invece dalla società in nome collettivo. È
prescritto che l’atto costitutivo indichi non solo i conferimenti dei soci ma anche il valore ad essi attribuito e
il modo di valutazione. È poi questione dibattuta sia sia obbligatorio (o possibile) sottoporre a valutazione ed
imputare a capitale tutti i conferimenti ovvero se tale esigenza sussista solo per i conferimenti che
attribuiscono al socio il diritto al loro rimborso.

L’art. 2303 vieta la ripartizione tra i soci di utili non realmente conseguiti; di somme cioè che non
corrispondono ad una eccedenza del patrimonio netto rispetto al capitale sociale nominale. La stessa norma
stabilisce poi che, se si verifica una perdita del capito sociale, non può farsi luogo alla ripartizione di utili
fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente.

L’art. 2306 vieta poi agli amministratori di rimborsare ai soci i conferimenti o di liberarli dall’obbligo di
ulteriori versamenti in assenza di una specifica deliberazione di riduzione del capitale sociale. Nonostante
l’opposizione, il tribunale può però disporre che la riduzione abbia ugualmente luogo, previa prestazione da
parte della società di un’idonea garanzia a favore dei creditori opponenti (art. 2306 2° comma).

12. La partecipazione dei soci agli utili ed alle perdite

Tutti i soci hanno diritto di partecipare agli utili ed alle perdite della gestione sociale in piena libertà. L’unico
limite posto all’autonomia privata è posto dal divieto di patto leonino: stabilisce infatti l’art. 2265 che è nullo
il patto con il quale uno o più soci sonno esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite. E nulli sono
anche i criteri di ripartizione congegnati in modo tale da determinare la sostanziale esclusione di uno o più
soci. Sono altresì nulle le convenzioni tra soci non risultanti dall’atto costitutivo (patti paraosociali) che
violano il contenuto precettive dell’art. 2265.

Troveranno applicazione i criteri legali di ripartizione degli utili e delle perdite previsti per l’ipotesi in cui
l’atto costitutivo nulla disponga a riguardo. Stabilisce infatti l’art. 2263 che:

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 Se il contratto nulla dispone, le parti spettanti ai soci nei guadagni e nelle perdite si presumono
proporzionali ai conferimenti
 Se, come è possibile, neppure il valore dei conferimenti è stato determinato, le parti si presumono
uguali
 Se è determinata soltanto la parte di ciascuno nei guadagni si presume che nella stessa misura debba
determinarsi la partecipazione alle perdite.

È infine disposto che la parte spettante al socio d’opera se non è determinata dal contratto è fissata dal
giudice secondo equità (art. 2263 2° comma). La determinazione della parte di ciascun socio a utili e perdite
può anche essere demandata ad un terzo che opererà come arbitratore (art. 2264).

Nella società semplice il diritto del socio di percepire la sua parte di utili nasce con l’approvazione del
rendiconto (art. 2262) che deve essere predisposto dai soci amministratori al termine di ogni anno salvo che
il contratto stabilisca un termine diverso e ovviamente per il compimento di affari sociali che dura oltre un
anno (art. 2261 2° comma). Nella società in nome collettivo tale norma va coordinata anche con l’obbligo di
tenuta delle scritture contabili ex art. 2302.

Il bilancio deve essere predisposto dai soci amministratori ed è da ritenersi che la approvazione competa a
tutti i soci.

L’art. 2262 stabilisce che salvo patto contrario, ciascun socio ha il diritto di percepire la sua parte di utili
dopo l’approvazione del rendiconto. Nelle società di persone in mancanza di una specifica clausola abilitante
nell’atto costitutivo, la maggioranza dei soci può legittimamente deliberare la non distribuzione.

Le perdite incidono direttamente sul valore della singola partecipazione sociale riducendola
proporzionalmente tanto che in sede di liquidazione della società il socio si vedrà rimborsare una somma
inferiore al valore originario del capitale conferito. E, d’altro canto, solo all’atto dello scioglimento della
società i liquidatori possono richiedere ai soci illimitatamente responsabili le somme necessarie per il
pagamento dei debiti sociali. Prima dello scioglimento della società le perdite accertate hanno quindi un
rilievo solo indiretto.

13. La responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali

Nella società semplice e nella società in nome collettivo, delle obbligazioni sociali risponde la società con il
proprio patrimonio in primis (art. 2267 1° comma). Nella società semplice, la responsabilità personale di tutti
i soci è principio dispositivo, parzialmente derogabile. L’art. 2267 dispone infatti che per le obbligazioni
sociali rispondono personalmente e solidalmente tutti i soci che hanno agito in nome e per conto della
società e, salvo patto contrario, gli altri soci.

Nella società in nome collettivo la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci è inderogabile.
L’eventuale patto contrario non ha effetti nei confronti dei terzi (art. 2291 2° comma). In entrambe le società
la responsabilità per le obbligazioni sociali precedentemente contratte è estesa anche ai nuovi soci.

L’ex socio o gli eredi del socio defunto sono responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali sorte fino al
giorno in cui si verifica lo scioglimento (art. 2290 1° comma).

La norma è dettata in tema di società semplice ed è applicabile anche per la collettiva irregolare. Per la
collettiva regolare invece L’ opponibilità ai terzi delle cause di scioglimento del rapporto sociale resta
soggetta al regime di pubblicità legale delle modificazioni dell’atto costitutivo (art. 2300).

Dall’iscrizione dello scioglimento del rapporto nel registro delle imprese decorre inoltre il termine annuale
entro cui l’ex socio può essere dichiarato fallito a seguito del fallimento della società.

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Gianmarco Rubino
Studente di Giurisprudenza Uso personale
LUISS
LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

14. Responsabilità della società e responsabilità dei soci

I soci sono responsabili ex art. 2267 1° comma ed ex art.2291, in solido tra loro ma sono responsabili in via
sussidiaria rispetto alla società in quanto del beneficio di preventiva escussione del patrimonio sociale.

Nella società semplice il creditore sociale può rivolgersi direttamente al singolo socio illimitatamente
responsabile e sarà questi a dover invocare la preventiva escussione del patrimonio sociale indicando i beni
sui quali il creditore possa agevolmente soddisfarsi.

Nella società in nome collettivo regolare invece il beneficio di escussione è più intenso; opera
automaticamente. È tuttavia corretta opinione che la preventiva escussione del patrimonio sociale non è
necessaria quando circostanze oggettive dimostrano con certezza l’inutilità della stessa.

Ricorrendo comunque le condizioni per poter agire contro i soci, il creditore sociale potrà chiedere a
ciascuno di essi il pagamento integrale del proprio credito. Il socio che ha pagato potrà a sua volta esercitare
azione di regresso verso gli altri soci.

È frequente nella pratica che i creditori sociali più forti si facciano rilasciare dai soci specifiche garanzie
personali. Si è in passato dubitato della validità di tali garanzie; si è sostenuto che esse costituirebbero
garanzia per debito proprio e dunque sarebbero invalide. Tale modo di argomentare è però privo di
fondamento. Ed invero si ha in ogni caso duplicazione dei titoli di responsabilità con il rilascio di tali
garanzie con l’indubbio vantaggio per il creditore di poter aggredire direttamente il patrimonio del socio
garante. Sussiste perciò l’interesse del creditore a tali garanzie e tanto basta a riconoscerne la validità.

15. I creditori personali del socio

Il patrimonio della società è insensibile alle obbligazioni personali dei soci ed intangibile da parte dei
creditori di questi ultimi. Inoltre, se è nel contempo debitore della società non può compensare tale suo
debito con il credito che vanta, a titolo personale.

Il creditore personale del socio non è però del tutto sprovvisto di tutela. Sia nella società semplice sia in
quella collettiva egli infatti può:
a) Far valere i suoi diritti sugli utili spettanti al socio suo debitore
b) Compiere atti conservativi sulla quota allo stesso spettante nella liquidazione della società (art. 2270
1° comma)

Nella società semplice e nella società in nome collettivo irregolare il creditore particolare del socio può
inoltre chiedere anche la liquidazione della quota del suo debitore. La richiesta opera come causa di
esclusione di diritto del socio. Il che significa che neppure in tal caso il creditore personale del socio può
soddisfarsi direttamente sul patrimonio sociale.

Una diversa disciplina invece è dettata per la società in nome collettivo regolare. In questa il creditore
particolare del socio, finchè dura la società, non può chiedere la liquidazione della quota del socio debitore
(art. 2305), neppure se prova che gli altri beni dello stesso siano insufficienti a soddisfarlo.

Tale regola vale tuttavia fino alla scadenza della società. I soci possono prorogare la durata della società.

A tal riguardo l’art. 2307 distingue due ipotesi:


a) Se la proroga è espressa ed è iscritta nel registro delle imprese, il creditore particolare può opporsi
giudizialmente ala proroga entro tre mesi dall’iscrizione della delibera
b) Se la proroga è tacita, si applica la disciplina dettata dall’art. 2270 per la società semplice.

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C. L’ATTIVITÀ SOCIALE

16. Modello legale e modelli statutari

Ogni socio illimitatamente responsabile è investito del potere di amministrazione (art. 2257) e di
rappresentanza (art. 2266) della società.

Per contro, è necessario il consenso di tutti i soci per le modificazioni del contratto sociale (art. 2252)

Questo modello legale non ha però carattere rigido. Tale quadro pone peraltro due problemi di fondo
all’interprete: quello di individuare gli eventuali limiti che i soci incontrano nel modellare a loro piacimento
la struttura organizzativa della società e quello di colmare i non pochi silenzi del legislatore.

17. L’amministrazione delle società

L’amministrazione della società è l’attività di gestione dell’impresa sociale. Secondo il modello legale ogni
socio illimitatamente responsabile è amministratore della società (art. 2257). Quando l’amministrazione della
società spetta a più soci trova applicazione il modello legale della amministrazione disgiuntiva (art. 2257).
Ciascun socio amministratore è investito del potere di intraprendere da solo tutte le operazioni che rientrano
nell’oggetto sociale.

L’ampio potere di iniziativa individuale è tuttavia temperato dal dritto di opposizione riconosciuto a ciascuno
degli altri soci amministratori. L’opposizione deve essere esercitata prima che l’operazione sia stata
compiuta,

Sulla fondatezza dell’opposizione decide infatti la maggioranza dei soci, determinata secondo la parte
attribuita a ciascun socio negli utili. In alternativa, l’atto costitutivo può stabilire che la decisione sul
contrasto tra gli amministratori venga deferita ad uno o più terzi in qualità di arbitratori (art. 37, d.lgs.
5/2003).

Il legislatore prevede anche un metodo alternativo di amministrazione che privilegia l’esigenza di maggiore
ponderazione nelle decisioni: l’amministrazione congiuntiva (art., 2258). L’amministrazione congiuntiva
deve essere espressamente convenuta dai soci nell’atto costitutivo. Con l’amministrazione congiuntiva è
necessario il consenso di tutti i soci amministratori per il compimento delle operazioni sociali. L’atto
costitutivo può tuttavia prevedere che per l’amministrazione o per determinati atti sua necessario il consenso
della maggioranza dei soci. Tuttavia, se i soci scelgono l’amministrazione congiunta e nulla specificano, la
regola è quella dell’unanimità. Questa rigidità è però temperata dal riconoscimento ai singoli amministratori
del potere di agire individualmente quando vi sia urgenza di evitare un danno alla società (art. 2258).

18. Amministrazione e rappresentanza

Tra le funzioni di cui gli amministratori sono per legge investiti vi è anche quella di rappresentanza della
società (c.d. Potere di firma).

Il potere dai rappresentanza è il potere di agire nei confronti dei terzi in nome della società (art. 2266 1°
comma). Il potere di gestione riguarda l’attività amministrativa interna, la fase decisoria delle operazioni
sociali. Il potere di rappresentanza riguarda invece l’attività amministrativa esterna.
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Secondo il modello legale, vi è puntuale coincidenza tra potere gestori o e potere di rappresentanza, sia per
quanto riguarda i soggetti investiti dell’uno o dell’altro. Nel caso di amministrazione disgiunta, ogni
amministratore può perciò da solo decidere e da solo stipulare atti in nome della società (firma disgiunta).
Nell’amministrazione congiuntiva, tutti i soci amministratori devono partecipare alla stipulazione dell’atto.

Inoltre sempre secondo il modello legale, sia il potere di gestione sia il potere di rappresentanza si estendono
a tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale.

L’atto costitutivo può tuttavia prevedere una diversa regolamentazione. Ad esempio, può riservare la
rappresentanza legale solo ad alcuni soci amministratori e può altresì stabilire modalità di esercizio diverse
da quelle valevoli per il potere di gestione. L’atto può infine limitare l’estensione del potere di
rappresentanza del singolo amministratore. La previsione di limitazioni convenzionali al potere di
rappresentanza degli amministratori solleva il problema della loro opponibilità ai terzi. Il problema è
linearmente risolto nella società in nome collettivo regolare, attraverso lo strumento della pubblicità legale.
Le limitazioni non sono opponibili ai terzi se non sono iscritte nel registro delle imprese o se non si provi che
i terzi ne hanno effettiva conoscenza.

Nella società in nome collettivo irregolare, l’omessa registrazione si ritorce contro i soci. Infatti si presume
che ogni socio che agisce per la società abbia la rappresentanza sociale anche in giudizio. Diversa è la
situazione delineata per la società semplice dall’art. 22666 3° comma. Per la mancanza all’epoca di un
regime di pubblicità legale la norma rinvia alla disciplina di diritto comune (art.1296). Le limitazioni
originarie sono sempre opponibili ai terzi,sicchè su costoro incombe l’onere di accertare se il socio che
agisce in nome della società ha effettivamente il potere di rappresentanza.

19. I soci amministratori

L’atto costitutivo può riservare l’amministrazione solo ad alcuni soci. In tal caso, i soci investiti
dell’amministrazione possono essere nominati direttamente nell’atto costitutivo. Nell’atto si può anche
prevedere che i soci siano nominati dai soci con atto separato; il legislatore tuttavia ha omesso di specificare
se la nomina per atto separato debba essere decisa all’unanimità o se sia sufficiente l’accordo della
maggioranza dei soci.

La revoca dell’amministratore nominato nel contratto sociale comporta una modifica di quest’ultimo. È
inoltre espressamente stabilito che la revoca non ha effetto se non ricorre una giusta causa (art. 2259 1°
comma).

L’amministratore nominato per atto separato invece è revocabile secondo le norme del mandato (art.2259 2°
comma). Quindi è certamente revocabile anche se non ricorre una giusta causa. È infine stabilito che la
revoca per giusta causa può in ogni caso essere chiesta giudizialmente da ciascun socio (art. 2259 3°
comma).

La qualità di amministratore va tenuta comunque distinta dalla qualità di socio. Il rapporto di


amministrazione costituisce infatti rapporto autonomo e distinto. E comunque il rapporto di amministrazione
è fonte per l’investito di diritti, poteri, obblighi e responsabilità diversi e distinti da quelli che gli competono
come socio.

Per quanto riguarda i diritti e gli obblighi degli amministratori, l’art. 2260 stabilisce che essi sono regolati
dalle norme sul mandato.
Così, l’amministratore è investito per legge (art. 2266) del potere di compiere tutti gli atti che rientrano
nell’oggetto sociale. Per esso non opera perciò il limite degli atti di ordinaria amministrazione né il limite ai
poteri dell’institore posto dall’art. 2207.

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Numerosi ed articolati sono poi i doveri specifici che incombono sugli amministratori. In particolare nella
società in nome collettò questi devono procedere agli adempimento pubblicitari connessi all’iscrizione nel
registro delle imprese; devono istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla
natura ed alle dimensioni dell’impresa. E specifiche sanzioni penali sono per gli stessi previste anche in caso
di fallimento della società.

Gli amministratori sono poi solidalmente responsabili verso la società.

Nel contempo pur nel silenzio del dato legislativo è da ritenersi che gli amministratori incorrano in
responsabilità anche nei confronti dei singoli soci.

È possibile perciò concludere che il rapporto di amministrazione va propriamente configurato come un


rapporto sui generis non risolubile in quello di mandato. Ne consegue che la disciplina del mandato sarà
applicabile agli amministratori di società nei limiti compatibili con le peculiarità del relativo rapporto è
sempre che non contrasti con principi desumibili dalla disciplina societaria.

Tra le norme sicuramente applicabili si può comprendere l’art. 1709 secondo cui il mandato si presume
oneroso. I soci amministratori avranno perciò diritto al compenso per il loro ufficio. La presunzione di
onerosità è però destinata a cadere quando l’esercizio dell’amministrazione sia oggetto di conferimento da
parte del socio d’opera.

20. I soci non amministratori

Ogni socio non amministratore ha:


a) Diritto di avere dagli amministratori notizie dello svolgimento degli affari sociali
b) Diritto di consultare i documenti relativi all’amministrazione
c) Diritto di ottenere il rendiconto degli affari sociali al termine di ogni anno salvo che il contratto
stabilisca un termine diverso

È invece questione controversa se i soci non amministratori possano impartire direttive vincolanti ai soci
amministratori. La questione sembra comunque da risolvere in senso negativo dopo le modifiche introdotte
nel 2019 all’art. 2257 dal codice della crisi (in particolare al nuovo principio che la gestione dell’impresa
spetta esclusivamente ai soci amministratori).

21. Il problema dell’amministratore estraneo

È possibile che i soci affidino l’amministrazione della società ad un non-socio? La soluzione negativa è
enunciata con chiarezza dal legislatore all’art. 2318 2° comma per quanto riguarda la società semplice.
Invece è controverso se analogo divieto valga anche per la società semplice e per la società in nome
collettivo. Almeno in quest’ultimo caso, si ritiene che la figura dell’amministratore estraneo debba
considerarsi ammissibile. Non ha invero ragione di porsi per la società in nome collettivo l’unico
significativo argomento che può ostacolare la soluzione permissiva nella società semplice.

Sulla posizione del terzo amministratore, va detto che egli gestisce pur sempre l’impresa sociale
nell’interesse esclusivo dei soci; pertanto è revocabile ad nutum. I soci non possono inoltre imporre al terzo
il compimento di atti di gestione o impartirgli direttive vincolanti.

Resta fermo, comunque, che la nomina di un amministratore estraneo nella società in nome collettivo può e
deve ritenersi perfettamente legittima in quanto non altera il principio della responsabilità illimitata.

22. Il divieto di concorrenza


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Nella società in nome collettivo (ma non nella semplice) incombe su tutti i soci l’obbligo di non esercitare
per conto proprio o altrui una attività concorrente com quella della società ed inoltre di non partecipare come
socio illimitatamente responsabile ad altra società concorrente (art. 2301).

Il divieto non impedisce però al socio di partecipare come socio limitatamente responsabile in altra società
concorrente di persone o di capitali. Non gli impedisce inoltre né lo svolgimento di altra attività di impresa o
di attività medesima della società quando debba escludersi l’esistenza di un rapporto concorrenziale.

La violazione del divieto espone il socio al risarcimento dei danni nei confronti della società.

Il divieto non ha tuttavia carattere assoluto e può essere rimosso dagli altri soci.

23. Le modificazioni dell’atto costitutivo

Nella società semplice e nella società in nome collettivo il contratto sociale può essere modificato solo con il
consenso di tutti i soci se non è convenuto diversamente (art. 2252).

Tra le modificazioni del contratto sociale rientrano anche i mutamenti nella composizione della compagine
sociale. Per il rapporto fiduciario il consenso di tutti gli altri soci è necessario per il trasferimento della quota
sociale sia tra vivi che a causa di morte. Il consenso al trasferimento della quota può anche essere dato in via
preventiva così come può risultare da comportamenti concludenti.

Nella società in nome collettivo le modificazioni dell’atto costitutivo sono soggette a pubblicità legale. Nella
collettiva irregolare, le modificazioni dell’atto costitutivo devono essere invece portate a conoscenza dei terzi
con i mezzi idonei e non sono opponibili a coloro che le abbiano senza colpa ignorate.

E quest’ultimo era anche il regime delle società semplici. Per le società semplici esercenti attività agricola
tuttavia la recente previsione dell’iscrizione nel registro delle imprese con efficacia di pubblicità legale porta
a ritenere oggi operante una disciplina identità a quella della società in nome collettivo. Frequente è nella
pratica la clausola che prevede la modificabilità a maggioranza dell’atto costitutivo. Si esclude infatti che la
maggioranza possa modificare le basi essenziali della società.

Tale rilievo risulta ulteriormente rafforzato alla luce della riforma del diritto societario del 2003, con la quale
si è disposto che salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo le decisioni riguardanti la trasformazione di
società di capitali (art. 2500-ter), la fusione (art. 2502 1° comma) e la scissione (art. 2506 ter 5° comma)
sono approvate nelle società di persone a maggioranza, calcolata secondo le quote di partecipazione agli utili.
Queste nuove disposizioni rendono manifesto che non esiste un principio inderogabile in forza del quale le
basi essenziali di una società di persone non potrebbero essere modificate senza il consenso di ciascun socio.

Il che non significa però che i poteri modificativi della maggioranza siano senza limiti. In materia possono e
devono trovare applicazione i principi generali a suo tempo enunciati: l’obbligo di esecuzione del contratto
secondo buona fede ed il rispetto della parità di trattamento tra i soci.

24. Metodo collegiale e principio maggioritario

Il consenso di tutti i soci è espressamente richiesto dal legislatore per le modifiche dell’atto costitutivo (art.
2252). Il principio maggioritario per la soluzione dei conflitti tra soci amministratori in regime di
amministrazione disgiunta.

Nell’esporre la disciplina delle società di persone ci si è tuttavia imbattuti in numerose norme che prevedono
una decisione dei soci ma non specificano se la stessa debba essere adottata all’unanimità o a maggioranza.
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Dunque la domanda: le decisioni prese quando l’atto costitutivo nulla disponga, vanno o prese all’unanimità
o a maggioranza?

Entrambe le tesi sono state autorevolmente sostenute con ricchezza di argomenti. Più persuasiva è la opzione
che vede negli artt. 2252 (unanimità) e 2257 2° comma (maggioranza per quote) non già eccezioni ad un
presunto opposto principio destinato a prevalere, bensì due regole distinte con autonomo campo di
applicazione a seconda che la decisione riguardi la struttura organizzativa o la gestione della società.

 In altri termini l’art. 2252 esprime il principio che il consenso di tutti i soci è necessario quando la
decisione tocca le basi organizzative della società.

 Viceversa la regola della maggioranza e della maggioranza calcolata per quote di interesse troverà
applicazione, pur nel silenzio dell’atto costitutivo, quando si tratti di decisioni che attengono alla
gestione dell’impresa.

La sintetica disciplina delle società di persone trova poi un delicato problema: le deliberazione devono essere
adottate usando il criterio collegiale o assembleare (convocazione dei soci, riunione, discussione, votazione)
ovvero possano essere prese nella più assoluta libertà di forme ove l’atto costitutivo nulla preveda a riguardo.

Si ritiene che il metodo assembleare sia superfluo nelle società di persone. A sostegno di tale scelta,
particolarmente grave per le decisioni a maggioranza, si invoca sul piano formale l’assenza di personalità
giuridica delle società di persone. Si invoca inoltre sul piano sostanziale, l’esigenza di rapidità ed elasticità
delle decisioni.

Non è però mancata e non manca ancora oggi una schiera di giuristi che si oppone a tale modo di ragionare.
E con argomenti di non poco peso, è agevole constatare che nel nostro ordinamento il metodo collegiale è
largamente presente.

È vero che la riforma del 2003 ha apportato alcune novità riguardanti le società di capitali delle quali non si
può tenere conto, per coerenza sistematica. In particolare, nelle società a responsabilità limitata il metodo
collegiale non è più inderogabile. Orbene, è difficile sostenere che nella società di persone debbano valere
regole procedimentali più rigorose di quelle previste per una società di capitali, quale è la società a
responsabilità limitata.

Non è men vero che proprio la nuova disciplina della società a responsabilità limitata ribadisce due principi
fondamentali:
a) In mancanza di diversa disposizione le deliberazioni dei soci vanno adottate con metodo collegiale
b) Ciascun socio ha diritto di partecipare alle decisioni

Non è poi del tutto infondato ritenere che anche nelle società di persone i soci siano tenuti a rispettare un sia
pur embrionale metodo assembleare, e che tale regola sia inderogabile quanto meno per le decisioni a
maggioranza di maggior rilievo.

Anche perché l’assenza di specifiche sanzioni può indurre a pensare che la violazione del metodo
assembleare non determini l’invalidità delle decisioni adottate.

Benché il punto meriti approfondimento è ipotizzabile perciò che gli abusi procedimentali nelle società di
persone non pregiudichino i terzi che entrano in contatto con la società ma diano luogo solo a rimedi di
carattere obbligatorio ed interno.

D. SCIOGLIMENTO DEL SINGOLO RAPPORTO SOCIALE


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25. Scioglimento del singolo rapporto è scioglimento della società

Il singolo socio può cessare di far parte della società per morte, recesso od esclusione. Il venir meno di uno o
più soci non determina in alcun caso lo scioglimento delle società: di per se comporta solo la necessità di
definire i rapporti patrimoniali.

La disciplina generale dei contratti associativi subisce perciò profondi adattamenti e mutamenti in materia
societaria, nel duplice senso che a) la valutazione del carattere essenziale della partecipazione venuta meno è
in definitiva rimessa ai soci superstiti b) il contratto e l’organizzazione sociale rimangono temporaneamente
in vita anche se rimane un solo socio.

26. La morte del socio

La morte del socio produce come effetto ex lege lo scioglimento del rapporto. I soci superstiti non sono
quindi tenuti a subire il subingresso in società degli eredi del defunto. L’art. 2284 concede infatti ai soci
superstiti altre due possibilità:
a) Essi possono decidere lo scioglimento anticipato della societò
b) I soci superstiti possono decidere di continuare la società con gli eredi del socio defunto, ma in tal
caso è necessario sia il consenso di tutti i soci superstiti sia il consenso degli eredi.
E sembrerebbe che gli eredi non dispongano di alcuno strumento giuridico per rimuovere lo stato di
incertezza e costringere i soci ad una decisione anticipata.

Tra le clausole più diffuse nella pratica vanno ricordate:


a) La clausola di consolidazione con la quale si stabilisce che la quota del socio defunto resterà
senz’altro acquisita agli altri soci mentre agli eredi sarà liquidato solo il valore della stessa
b) La clausola di continuazione con gli eredi con la quale i soci manifestano in via preventiva il
consenso al trasferimento della quota mortis causa.

Le clausole di continuazione possono ancora distinguersi in tre gruppi:


1) La clausola vincola solo i soci superstiti
2) La clausola prevede anche l’obbligo degli eredi di entrare in società
3) La clausola prevede l’automatico subingresso degli eredi in società

27. Il recesso

Il recesso è lo scioglimento del rapporto sociale per volontà del socio (art. 2285).

Se la società è a tempo indeterminato o è contratta per tutta la vita di uno dei soci, ogni socio può recedere
liberamente. Il recesso deve essere comunicato a tutti gli altri soci con un preavviso di almeno tre mesi (art.
2285 3° comma) e diventa produttivo di effetti solo dopo che sia decorso tale termine.

Se la società è a tempo determinato, il recesso è ammesso per legge solo se sussiste una giusta causa (art.
2285 2° comma).

28. L’esclusione

L’esclusione del socio dalla società in alcuni casi ha luogo di diritto ex art. 2288, a volte è rimessa invece
alla decisione degli altri soci ex art. 2286.

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È escluso di diritto:
a) Il socio che sia dichiarato fallito
b) Il socio il cui creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della quota nei casi consentiti per
legge e già in precedenza esaminati.

I fatti che legittimano la società a deliberare l’esclusione di una società sono stabiliti dall’art. 2286 possono
essere raggruppati in tre categorie:
1) Gravi inadempienze degli obblighi che derivano dalla legge o dal contratto sociale
2) Sono ancora cause di esclusione facoltativa l’interdizione, l’inabilitazione del socio o la sua
condanna ad una pena che comporti l’interdizione anche temporanea dai pubblici sociali
3) Casi di sopravvenuta impossibilità di esecuzione del conferimento per causa non imputabile agli
amministratori

L’esclusione è deliberata dalla maggioranza dei soci calcolata per teste.

La deliberazione (motivata) deve essere cominciata al socio escluso ed ha effetto decorsi 30 giorni dalla data
di comunicazione. Entro tale termine il socio può fare opposizione davanti al tribunale.

Questo procedimento non è evidentemente possibile quando la società è composta da due soli soci. In tal
caso l’esclusione di uno di essi è pronunciata direttamente dal tribunale.

29. La liquidazione della quota

In tutti i casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente ad un socio, questi o i suoi eredi hanno diritto
alla liquidazione della quota sociale. Più esattamente hanno diritto soltanto ad una somma di denaro che
rappresenti il valore della quota (art. 2289 1° comma).

Il valore della quota è determinato in fase alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si
verifica lo scioglimento del rapporto (art. 2289 2° comma), tenendo però conto anche dell’esito delle
eventuali operazioni ancora in corso (art. 2289 3° comma).

Il pagamento della quota spettante al socio deve essere effettuato entro sei mesi dal giorno in cui si è
verificato lo scioglimento del rapporto (art. 2289 4° comma).

Il socio uscente o gli eredi del socio defunto continuano a rispondere personalmente nei confronti dei terzi
per le obbligazioni sociali sorte fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento.

E. SCIOGLIMENTO DELLA SOCIETÀ

30. Le cause di scioglimento

Le cause di scioglimento della società semplice, valide anche per quella collettiva, sono fissate dall’art. 2272
e sono:
 Il decorso del termine fissato nell’atto costitutivo. È tuttavia possibile la proroga, sia espressa che
tacita
 Il conseguimento dell’oggetto sociale o la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo
 La volontà di tutti i soci, salvo che l’atto costitutivo non preveda che lo scioglimento anticipato della
società può essere deliberato a maggioranza
 Il venir meno della pluralità dei soci se nel termine di sei mesi questa non è ricostituita
 Le altre cause previste dal contratto sociale

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Sono poi causa di scioglimento specifiche per la società in nome collettivo:


 Il fallimento della stessa
 Il procedimento dell’autorità governativa con cui si dispone la liquidazione coatta amministrativa
della società (art.2308)

Tutte le cause di scioglimento operano automaticamente (di diritto) per il solo fatto che si sono verificate.

31. La società in stato di liquidazione

Verificatasi una causa di scioglimento la società entra automaticamente in stato di liquidazione e nella
società in nome collettivo tale situazione deve essere espressamente indicata negli atti e nella corrispondenza
(art. 2250 3° comma). La società però non si estingue immediatamente.

L’ulteriore attività della società deve tendere alla definizione dei rapporti in corso è perciò i poteri degli
amministratori sono per legge limitati al compimento degli affari urgenti (art. 2274); così come i liquidatori
che ad essi subentrano non possono intraprendere nuove operazioni e rispondono personalmente e
solidalmente per gli affari intrapresi in violazione del divieto.

Sorge inoltre il diritto dei soci a che si dia avvio al procedimento di liquidazione attraverso la nomina dei
liquidatori (art. 2275) ed il diritto ulteriore della liquidazione della quota una volta estinti i debiti sociali (art.
2282).

Muta anche la posizione dei creditori personali dei soci. Essi non potranno più ottenere la liquidazione della
quota del proprio debitore ma dovranno attendere l’espletamento della liquidazione della società per potersi
rivalere sulla quota di liquidazione. Non muta invece la posizione dei creditori della società.

Comporta che i soci potranno sempre autorizzare o ratificare gli atti non urgenti compiuti dai soci
amministratori e le nuove operazioni effettuate dei liquidatori così rimuovendo i limiti legali posti ai loro
poteri.

Comporta ancora che lo stato di liquidazione non può essere revocato dai soci con il conseguente ritorno
della società alla normale attività di gestione.

32. Il procedimento di liquidazione

Il procedimento di liquidazione è regolato dagli artt. 2309-2312 per quanto riguarda specificatamente la
società in nome collettivo. Le modalità possono altresì essere liberamente determinate dai soci non contratto
sociale o al momento dello scioglimento (art. 2275 1° comma).

 Il procedimento inizia con la nomina di uno o più liquidatori.


I liquidatori possono essere revocati per volontà di tutti i soci ed in ogni caso dal tribunale per giusta
causa su domanda di uno o più soci. Nella società in nome collettivo ed oggi anche nella società
semplice la nomina dei liquidatori e la loro cessazione dalla carica sono soggette ad iscrizione nel
registro delle imprese (art. 2309)
 Con l’accettazione della nomina i liquidatori prendono il posto degli amministratori.
 Entrano così in funzione i liquidatori il cui compito è quello di definire i rapporti che si ricollegano
all’attività sociale: conversione in denaro dei beni, pagamento dei creditori, ripartizione tra i soci
dell’eventuale residuo attivo. I liquidatori sono investiti per legge del potere di compiere tutti gli atti
necessari per la liquidazione e se i soci non hanno disposto diversamente possono vendere anche in
blocco i beni aziendali nonché procedere a transazioni e compromessi.

Sui liquidatori incombe un duplice divieto:


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 Non possono intraprendere nuove operazioni


 Non possono ripartire tra i soci neppure parzialmente i beni socialifinche i creditori sociali non siano
stati pagati o non siano state accantonatele somme necessarie a pagarli (art. 2280).
Estinti tutti i debiti sociali la liquidazione si avvia all’epilogo con la definizione dei rapporti tra i soci.

I liquidatori devono restituire ai soci i beni conferiti in godimento nello stato in cui si trovano.

Resta infine da ripartire tra i soci l’eventuale attivo patrimoniale residuo convertito in denaro, se i soci non
hanno convenuto che la ripartizione dei beni sia fatta in natura.

Il saldo attivo di liquidazione è destinato innanzitutto al rimborso del valore nominale dei conferimenti
determinato secondo la valutazione fattane in contratto. L’eventuale eccedenza è poi ripartita tra tutti i soci in
proporzione della partecipazione di ciascuno nei guadagni (art. 2282).

Nella società in nome collettivo invece i liquidatori devono redigere il bilancio finale di liquidazione ed il
piano di riparto (art. 2311). Il primo è in sostanza il rendiconto della gestione dei liquidatori: esporrà le
entrate e le uscite verificatesi, nonché la situazione patrimoniale finale. Il secondo invece è una proposta di
divisione tra i soci dell’attivo residuo.

Il bilancio ed il piano di riparto vanno comunicati ai soci mediante raccomandata e si intendono approvati se
non sono impugnati dai soci nel termine di due mesi dalla comunicazione.

33. L’estinzione della società

Compiute le operazioni descritte, il procedimento di liquidazione ha termine.

Nelle società in nome collettivo irregolare la chiusura del procedimento di liquidazione determina
l’estinzione della società sempre che la relativa disciplina sia stata rispettata e siano stati perciò soddisfatti
tutti i creditori sociali. In mancanza, la società dovrà considerarsi ancora esistente anche perché manca un
atto formale che segni chiaramente il momento finale della sua vita.

Principi diversi valgono per la società in nome collettivo registrata. In particolare, stabilisce l’art. 2312 che
approvato il bilancio finale di liquidazione i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal
registro delle imprese.

La cancellazione può anche essere disposta d’ufficio, quando l’ufficio del registro rilevi alcune circostanze
sintomatiche dell’assenza di attività sociale.

È da ritenersi che l’atto formale di cancellazione dal registro delle imprese è condizione necessaria per
l’estinzione della società. La norma da ultimo richiamata chiarisce poi che con la cancellazione dal registro
delle imprese la società si estingue quand’anche non tutti i creditori sociali sian stati soddisfatti.

I creditori insoddisfatti non sono però senza tutela. Essi, come stabilisce l’art. 2312 2° comma, possono agire
nei confronti dei soci. Possono inoltre agire anche nei confronti dei liquidatori se il mancato pagamento è
imputabile a colpa o a dolo di questi ultimi. Ed in quest’ultimo caso i liquidatori sono altresì esposti alle
sanzioni penali previste dall’art. 2633.

34. Il fallimento della società estinta

Le società irregolari possono invece essere dichiarate fallite senza limiti di tempo dopo la cessazione
dell’attività di impresa. Per esse il termine annuale non può decorrere mancando un atto formale di
cancellazione dal registro. È questa un’ulteriore conseguenza sfavorevole della mancata iscrizione.
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CAPITOLO TERZO
LA SOCIETÀ IN ACCOMANDITA SEMPLICE

1. Nozione e caratteri distintivi

La società in accomandita semplice (artt. 2313-2324) si caratterizza per la presenza di due categorie di soci:
 I soci accomandatari che rispondono solidamente ed illimitatamente per le obbligazioni sociali
 I soci accomandanti che rispondono limitatamente alla loro quota

Diversa è anche la posizione delle due categorie di soci per quanto riguarda l’amministrazione della società.
Questa compete ai soci accomandatari. I soci accomandanti sono invece esclusi dalla direzione dell’impresa
sociale.

La disciplina della società in accomandita semplice è modellata su quella della società in nome collettivo
(art. 2315).

L’accomandita semplice risponde alla specifica funzione economica di consentire l’aggregazione di soggetti
che intendono gestire personalmente gli affari sociali assumendo responsabilità illimitata e di soggetti che
intendono finanziare l’attività dei primi.

Netta è dunque la distinzione tra la società in accomandita semplice e contratto di


associazione in partecipazione (art. 2549) dato che questo non da vita ad un
patrimonio comune né ad un’impresa comune.

Questa è l’unica tipologia di società di persone che consente l’esercizio in comune di una impresa
commerciale con limitazione del rischio e non esposizione a fallimento personale per alcuni soci
(accomandanti).

Il nodo centrale della disciplina di queste società consiste nel trovare un punto di equilibrio tra due opposte
esigenze:
 L’esigenza dominante di evitare un uso anomalo e distorto di tale tipo di società
 L’esigenza di non estraniare del tutto i soci accomandanti dall’attività di società

2. La costituzione della società. La ragione sociale

Per la costituzione della società semplice valgono le regole esposte per la società in nome collettivo. Anche
l’atto costitutivo dell’accomandita semplice è soggetto ad iscrizione nel registro delle imprese.

Una significativa deviazione dalla disciplina della collettiva si ha tuttavia per quanto riguarda la formazione
della ragione sociale (art, 2314). Nella società in accomandita semplice essa deve essere formata con il nome
almeno di uno dei soci accomandatari e con l’indicazione del tipo sociale.

La sanzione per l’accomandante che violi tale divieto è che esso risponde ai terzi illimitatamente e
solidalmente con i soci accomandatari per le obbligazioni sociali (art. 2314 2° comma). L’accomandante
perde quindi il beneficio della responsabilità limitata e lo perde per tutte le obbligazioni sociali e nei
confronti di qualsiasi creditore sociale.

La partecipazione di incapaci in veste di accomandatari è soggetta alla disciplina dettata dall’art. 2294 per la
società in nome collettivo. È invece opinione diffusa e corretta che lo speciale regime autorizzato previsto da
tale norma non si applichi quando l’incapace assume la veste di accomandante. Nessuna disposizione
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specifica è infine dettata per i conferimenti dei soci. È perciò da ritenersi che sia per gli accomandatari che
per gli accomandanti trovi piena applicazione la disciplina dettata per le altre società di persone.

3. I soci accomandanti e l’amministrazione della società

L’art. 2315 rinvia l’ordinamento della società in accomandita semplice a quello della collettiva.

L’art. 2318 pone il principio che i soci accomandatari hanno gli stessi diritti e gli stessi obblighi dei soci
della collettiva e che l’amministrazione della società può essere conferita soltanto ai soci accomandatari.
Dall’amministrazione della società sono invece esclusi i soci accomandanti e la portata di tale esclusione è
poi puntualizzata dall’art. 2320 1° comma.

Agli accomandanti sono tuttavia riconosciuti per legge o possono essere riconosciuti per contratto alcuni
diritti e poteri di carattere amministrativo.

I soci accomandanti hanno innanzitutto il diritto di concorrere con gli accomandatari alla nomina ed alla
revoca degli amministratori. È invece necessario il condenso di tutti i soci per la revoca dell’amministratore
nominato nell’atto costitutivo.

Anche il socio accomodante può chiedere giudizialmente la revoca per giusta causa degli amministratori.

Per quanto riguarda poi la partecipazione all’attività dell’impresa comune è in parte temperato dal
riconoscimento legislativo (art. 2320 2° comma) che essi:
a) Possono trattare o concludere affari in nome della società sia pure solo in forza di una procura
speciale per singoli affari
b) Possono prestare la loro opera manuale o intellettuale all’interno della società sotto la direzione
degli amministratori
c) Possono dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni (intesa come categoria di operazioni
nella loro generalità)

In ogni caso i soci accomodanti hanno diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto dei
prodotti e delle perdite e di controllarne l’esattezza. Ed è opinione comune che gli accomandanti hanno
anche il diritto di concorrere alla approvazione del bilancio. In quanto esclusi dalla amministrazione, essi non
sono tenuti a restituire gli utili fittizi eventualmente riscossi purché ricorra la duplice condizione che essi
siano in buona fede e che gli utili risultino da un bilancio regolarmente approvato.

4. Il divieto di immistione

Il 1° comma dell’art. 2320 stabilisce che gli accomandanti non possono compiere atti di amministrazione, né
trattare o concludere affari in nome della società se non in forza di procura speciale per singoli affari.
L’accomandante che contravviene a tale divieto assume responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per
tutte le obbligazioni sociali.

Tale disposizione merita alcune precisazioni. Non vi è dubbio che all’accomodante è preclusa sia la
partecipazione all’amministrazione interna della società sia la possibilità di agire per la società nei rapporti
esterni.

Più esattamente per quanto riguarda l’amministrazione interna l’accomodante deve ritenersi privo di ogni
potere decisionale autonomo. Per lo stesso motivo è da escludere che in regime di amministrazione
disgiuntiva (art. 2257) gli accomodanti possano partecipare alla decisione sull’opposizione di un
amministratore al compimento di un atto da parte di un altro amministratore.

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Non contrasta invece col divieto di immistione la collaborazione degli accomodanti nell’amministrazione
interna della società sotto le direttive degli accomandatari. Meno rigido è il contenuto del divieto di
immistione per quanto riguarda l’attività esterna. L’accomandante può infatti legittimante trattare e
concludere affari in nome della società in forza di procura speciale per singoli affari. L’accomodante cui la
procura speciale è stata conferita godrà del margine di autonomia decisionale proprio di ogni mandatario con
rappresentanza proprio di ogni mandatario con rappresentanza nella fase esecutiva della operazione decisa
dagli accomandatari.

All’accomandante è invece in ogni caso la possibilità di agire di fronte ai terzi come procuratore generale o
come institore. L’accomodante che viola il divieto di immistione si espone ad una sanzione patrimoniale.
Egli infatti risponde di fronte ai terzi illimitatamente e solidalmente per tutte le obbligazioni sociali che a
qualsiasi titolo siano imputabili alla società.

L’accomandante che viola il divieto di immistione non diventa però un socio accomandatario: perde il
beneficio della responsabilità limitata solo nei confronti dei terzi (Galgano ritiene invece che la perdita del
beneficio della responsabilità limitata operi anche nei rapporti interni ma tale tesi si pone in contrasto con la
lettera del dato legislativo). Viceversa, gli accomandatari non hanno azione di regresso verso l’accomandante
che ha vuotato il divieto di immistione.

Ma qual è la posizione della società rispetto alle obbligazioni nate dall’atto di immistione di un
accomandante? Non vi è dubbio che trovino applicazione i principi generici in tema di rappresentanza. La
società resta perciò obbligata solo se l’accomandante ha agito in base a regolare procura.

L’accomandante ha però pur sempre violato il divieto di immistione perciò troverà applicazione nei suoi
confronti la sanzione della perdita del beneficio della responsabilità limitata per tutte le obbligazioni sociali.

L’accomandante che ha violato il divieto di immistione è esposto infine all’ulteriore sanzione dell’esclusione
dalla società.

5. Il trasferimento della partecipazione sociale

Per quanto riguarda la disciplina del trasferimento, resta ferma per i soci accomandatari la disciplina prevista
per la società in nome collettivo. Se l’atto costitutivo non dispone diversamente, il trasferimento può
avvenire solo con il consenso di tutti gli altri soci. È per la trasmissione mortis causa sarà necessario anche il
consenso degli eredi.

Diversa invece è la disciplina per il trasferimento della quota degli accomandanti. La loro quota è
liberamente trasferibile per causa di morte. Per il trasferimento per atto tra vivi invece è necessario il
consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale sociale.

6. Lo scioglimento della società

La duplice categoria di soci che caratterizza la società in accomandita semplice deve perdurare per tutta la
vita della società altrimenti la società si scioglie. Quindi, oltre che per le altre cause previste per la società in
nome collettivo, quando rimangono soltanto soci accomandatari o soci accomandanti sempre che nel termine
di sei mesi non sia stato sostituito il socio che è venuto meno, ex art. 2323, la società si scioglie.

Durante il periodo di sei mesi l’attività della società continua normalmente se sono venuti meno i soci
accomandanti. Se invece sono venuti meno i soci accomandatari, gli accomandanti devono nominare un
amministratore provvisorio. Spirato il termine dei sei mesi senza che sia stata ricostituita la categoria dei soci
mancanti e senza che si dia inizio al procedimento di liquidazione la società si trasformerà tacitamente in una
collettiva irregolare.
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Per il procedimento di liquidazione valgono le regole dettate per la società in nome collettivo. Tuttavia,
cancellata la società dal registro delle imprese, i creditori rimasti insoddisfatti potranno far valere i loro
crediti nei confronti dei soci accomodanti solo nei limiti in quanto dagli stessi ricevuto a titolo di quota di
liquidazioni.

7. La società in accomandita irregolare

È irregolare la società in accomandita semplice il cui atto costitutivo non è stato iscritto nel registro delle
imprese.

Anche nell’accomandita irregolare i soci accomandanti rispondono limitatamente alla loro quota salvo che
abbiano partecipato alle operazioni sociali (art. 2317, 2° comma).

Nell’accomandita irregolare il divieto di immistione degli accomandanti abbia portata più ampia. Neppure il
rilascio di una procura speciale per singoli affari esonera l’accomandante da responsabilità illimitata verso i
terzi per tutte le obbligazioni sociali.

Per il resto vale per l’accomandita irregolare la stessa disciplina vista per la collettiva irregolare:
a) I creditori sociali possono agire direttamente nei confronti dei soci illimitatamente responsabili
b) I creditori particolari del socio possono chiedere in ogni tempo la liquidazione della quota del loro
debitore, provando che gli altri beni di questi siano insufficienti a soddisfarli (art. 2270). Possibilità
questa preclusa quando la società è regolare per la durata prevista in contratto (art. 2307).
c) Si presume che ciascun socio che agisce per la società abbia anche la rappresentanza in giudizio (art.
2297 2° comma)

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CAPITOLO DICIOTTESIMO
LA SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA

1. Caratteri distintivi

La società a responsabilità limitata (art. 2462-2483) è una società di capitali nella quale:
 Per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio
 Le quote di partecipazioni dei soci non possono essere rappresentate da azioni

La riforma del 2003 era stata anzi l’occasione di limitare ulteriormente la possibilità per le srl di raccogliere
capitale mediante appello al pubblico risparmio. Tuttavia su quest’ultimo punto il legislatore ha fatto negli
ultimi tempi una sostanziale retromarcia con l’introduzione di deroghe estese progressivamente ed oggi il
divieto di offerta al pubblico risparmio non opera più per le quote delle piccole e medie imprese (PMI).

Al contempo, alle s.r.l. è fatto divieto di emettere obbligazioni. Con la riforma del 2003 (D. Lgs. 6/2003) è
stato consentito loro di emettere titoli di debito per la raccolta del capitale di credito. I titoli di debito emessi
dalle s.r.l. possono essere sottoscritti solo da banche o altri investitori qualificati.

Eppure la s.r.l. è il tipo di società più diffuso. Le ragioni di questo sono molteplici:

1) Minori requisiti di capitale – il capitale sociale minimo richiesto per la costituzione di questo tipo di
società è di diecimila euro anziché cinquantamila come per le altre società di capitali. Il capitale
minimo inoltre a partire dal 2013 non costituisce più condizione per la costituzione. La società a
responsabilità limitata può essere costituita anche con un capitale inferiore al minimo legale purchè
pari ad almeno un euro con l’unica conseguenza che i conferimenti devono versarsi per intero e in
denaro al momento della sottoscrizione. È da escludere per contro che le società già dotate del
capitale minimo possano successivamente ridurlo al di sotto di tale soglia.

2) Minori costi di funzionamento – la presenza di un organo di controllo è in sostanza obbligatoria solo


per le società a responsabilità limitata che superano determinate dimensioni.

3) Maggiore flessibilità organizzativa – secondo la disciplina delineata dal codice del 1942 l’assetto
organizzativo della società a responsabilità limitata ricalcava il modello base della società per azioni
pur caratterizzandosi per la possibilità di una più snella articolazione e di una più attiva e diretta
partecipazione dei soci alla vita della società. E sono proprio questi ultimi profili ad essere
significativamente accentuati dall’attuale disciplina.

4) Minori costi di costituzione – il legislatore negli ultimi anni ha puntato molto su questo aspetto al
fine di agevolare la costituzione di nuove imprese non solo con la ricordata riduzione fino ad un euro
della dotazione iniziale di capitale ma anche introducendo nel 2012 un sottotipo di società a
responsabilità limitata: la s.r.l. semplificata.

2. La costituzione della società. La società a responsabilità limitata unipersonale

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La costituzione presenta alcune deviazioni dal regime della società per azioni:

 Non è ammessa la stipulazione dell’atto costitutivo per pubblica sottoscrizione e non trova perciò
applicazione la disciplina prevista per i promotori

 Il capitale sociale minimo è di diecimila euro. Però in sede di costituzione il capitale può essere
determinato in misura inferiore purché pari ad almeno un euro.

 La denominazione sociale può essere liberamente formatta come nella società per azioni ma deve
ovviamente contenere l’indicazione di società a responsabilità limitata.

Il contenuto dell’atto costitutivo fissato dall’art. 2463 ricalca quello della società per azioni salvo la
sostituzione delle indicazioni relative alle azioni con quella della quota di partecipazione di ciascun socio. E
come nelle s.p.a. non può più ritenersi nulla la vendita delle quote prima dell’iscrizione nel registro delle
imprese.

La s.r.l è il primo tipo di società per cui fu introdotto nel 1993 la possibilità di costituzione da parte di un
singolo socio con il mantenimento della responsabilità limitata per le obbligazioni sociali.

3. I conferimenti. Le altre forme di finanziamento

Con l’attuale disciplina sono caduti larga parte dei limiti e dei divieti previsti per la società per azioni
riguardo all’oggetto del conferimento. L’attuale principio di base è che, come nelle società di persone, anche
nella società a responsabilità limitata possono essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di
valutazione economica (art. 2464 2° comma).

Per semplificare e ridurre i costi di costituzione della società il versamento iniziale del 25% dei conferimenti
in denaro e dell’intero sovrapprezzo (o dell’intero ammontare se si tratta di società unipersonale o von
capitale determinato in misura inferiore al minimo legale) va effettuato direttamente all’organo
amministrativo.

In teoria, la legge prevede anche che il versamento possa essere sostituito dalla stipula di una polizza di
assicurazione o di una fideiussione salvo il diritto del socio di sostituire in ogni momento la polizza o la
fideiussione con il versamento del corrispondente importo in denaro. Questa disposizione però non è mai
divenuta operativa.

È espressamente consentito il conferimento di prestazioni d’opere o servizi purché l’intero valore assegnato
sia garantito da una polizza di assicurazione o da una fideiussione. Se l’atto costitutivo lo prevede il socio ha
però facoltà di sostituire la polizza o la fideiussione con il versamento.

Semplificata è anche la disciplina dei conferimenti in natura. Resta fermo il vincolo che gli stessi devono
essere interamente liberati al momento della sottoscrizione. Non è però necessario che l’esperto chiamato ad
effettuare la valutazione sia designato dal tribunale ma è sufficiente che sia iscritto al registro dei revisori di
società. Non è inoltre espressamente prevista alcuna revisione della stima: essa è certamente doverosa per gli
amministratori. Analoga semplificazione della stima è prevista per gli acquisti pericolosi della società nei
confronti di soci, amministratori e fondatori.

Specificamente disciplinata è la posizione del socio moroso (art. 2466). Decorso inutilmente il termine di 30
giorni dalla diffida ad adempiere da parte degli amministratori, il socio moroso non può partecipare alle
decisioni dei soci. Rispetto alla disciplina della società per azioni resta ferma la facoltà per la società di
vendere coattivamente le quote del socio moroso: la sua quota però prima deve essere offerta in opzione agli
altri soci, in proporzione della loro partecipazione, e se mancano offerte di acquisto da parte dei soci si
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procede alla vendita all’incanto solo se l’atto costitutivo lo consente. In mancanza di compratori, gli
amministratori escludono il socio moroso trattenendo le somme riscosse. Altra significativa novità della
riforma del 2003 è l’introduzione di una specifica disciplina dei finanziamenti dei soci. L’art. 2467 stabilisce
al riguardo che il rimborso dei finanziamenti dei soci alla società è postregato rispetto al soddisfacimento
degli altri creditori. Ne consegue che gli amministratori non possono rimborsare i finanziamenti dei soci
quando il rimborso metta a repentaglio il soddisfacimento degli altri creditori.

Inoltre, in caso di fallimento della società i finanziamenti postregati dei soci devono essere ammessi al
passivo con il rango di crediti “sotto-chirografari” e quindi partecipano alla distribuzione dell’attivo solo
dopo l’integrale pagamento di tutti i creditori chirografari.
La regola della postregazione subisce tuttavia una deroga parziale per i finanziamenti erogati dai soci in
funzione della presentazione di una domanda di concordato preventivo o accordo di ristrutturazione dei
debiti.

Per favorire il tentativo di salvataggio della società nel quadro di una soluzione della crisi concordata con i
creditori si dispone che tali crediti sono prededucibili in caso di successivo fallimento fino a concorrenza
dell’80% del loro ammontare (art. 184 quater della L. Fall.) perciò la postregazione è destinata ad operare
solo sul restante 20%. L’intero credito è poi elevato al rango di credito prededucibile quando l’acquisto della
qualità di socio è avvenuto in esecuzione del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei
debiti.

4. I titoli di debito

Con l’attuale disciplina è infine consentito alle srl di emettere titoli di debito (art. 2483).

A differenza delle obbligazioni, l’emissione di titoli di debito è consentita solo se prevista nell’atto
costitutivo. Ed è l’atto costitutivo a stabilire se la competenza ad emettere titoli di debito spetta ai soci o agli
amministratori determinando gli eventuali limiti.

Ampia è la libertà concessa all’autonomia statutaria nella determinazione del contenuto dei titoli di debito.
La legge puntualizza però che tali titoli sono emessi a fronte di un apporto a titolo di prestito. Ne consegue
che al pari delle obbligazioni il diritto al rimborso del capitale non può essere condizionato all’andamento
economico della società.

Né la disciplina codicistica né le disposizioni di attuazione emanate dal CICR, stabiliscono limiti quantitativi
all’emissione. I titoli di debito non possono essere collocati direttamente presso il pubblico dei risparmiatori.
Possono infatti essere sottoscritti solo da investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale; investitori
cioè per i quali è prescritto il rispetto di idonei requisiti di solidità patrimoniale stabiliti dalle competenti
autorità di vigilanza.

5. Le quote sociali

Il capitale della società a responsabilità limitata è perciò diviso in parti in base al numero di soci.

Mentre le azioni sono necessariamente di ugual valore le quote possono essere di diverso ammontare. Infatti
se l’atto costitutivo non prevede diversamente il valore delle quote è determinato in misura proporzionale al
conferimento. Come nelle s.p.a., l’atto costitutivo può però determinare il valore delle partecipazioni in
misura non proporzionale ai conferimenti, purchè il valore complessivo dei conferimenti non sia inferiore
all’ammontare globale del capitale (art. 2464 1° comma). Ma anche in questo caso, nella s.p.a il socio
riceverà un certo numero di azioni tutte di ugual valore; nella società a responsabilità limitata invece diventa
titolare di una sola quota del valore indicato nell’atto costitutivo.

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Infatti la regola base è che i diritti sociali spettano ai soci in misura proporzionale alla partecipazione da
ciascuno posseduta.

Si tratta tuttavia di una regola dispositiva ma di regola che può essere ampiamente derogata dall’autonomia
statutaria dato che l’atto costitutivo può prevedere l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti
l’amministrazione della società o la distribuzione di utili.

In caso di alienazione della quota i diritti speciale non si trasferiscono direttamente dal venditore alienante
all’acquirente: essi si estinguono con la perdita della qualità di socio da parte del cedente.

Il contrario avviene invece quando l’atto costitutivo crea categorie speciali fornite di diritti diversi: in questo
caso i diritti speciali circolano insieme alla quota e sono riconosciuti sempre all’attuale titolare della
partecipazione sociale.
Non viene chiarito invece se alle categorie speciali di quote della s.r.l sia applicabile per analogia la
disciplina delle azioni speciali, ed in particolare gli artt. 2367 (assemblee speciali) e 2351 (limiti
all’emissione di azioni con voto limitato o plurimo).

Pur nel silenzio del dato legislativo, è inoltre pacificamente ammessa la previsione di prestazioni accessorie a
carico di uno o più soci.

Mentre nelle società per azioni il socio può avere più partecipazioni autonome e distinte tra loro, nella
società a responsabilità limitata è in linea di principio titolare di una sola quota e l’acquisto di altre quote non
rende il socio titolare di più quote distinte. Di converso, mentre l’azione è indivisibile, la quota è divisibile.

Ulteriore differenza tra quote e azioni, è che le quote non possono essere rappresentate da titoli di credito.
L’eventuale certificato di quota rilasciato dalla società costituisce semplice documento probatorio della
qualità di socio e della misura della partecipazione sociale, non uno strumento per la circolazione della
stessa.

La quota di s.r.l non è quindi un bene mobile materiale. Tuttavia essa per legge viene trattata, sotto più
profili, come oggetto unitario di diritti (artt. 2466, 2468 e 2471) ed è assimilata ai beni immateriali.

6. Le vicende e il trasferimento delle quote sociali

Le quote della società a responsabilità limitata sono per legge liberamente trasferibili. Tuttavia l’atto
costitutivo non può solo limitare ma anche escludere del tutto il trasferimento delle quote (art. 2496). In tali
casi però il socio o i suoi eredi possono recedere dalla società. A maggior ragione l’atto costitutivo può
contenere clausole di prelazione, di riscatto o di covendita delle quote. Può infine prevedere che il recesso
non possa essere esercitato prima di un certo termine.

Specifiche disposizioni sono poi dettate, a partire della l. 310/1993, per assicurare la trasparenza nella
cessione delle quote e la conoscenza del l’effettiva composizione della compagine societaria. A tal fine i
conferimenti per atto tra vivi devono risultare da scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio
oppure un da un documento informatico sottoscritto dalle parti mediante firma digitale.

Il trasferimento della quota è valido ed efficace tra le parti per effetto del semplice consenso. È però
produttivo di effetti nei confronti della società solo dal momento del deposito dell’atto presso il registro o dal
momento dell’iscrizione nel registro che segue al deposito dato che solo l’iscrizione produce efficacia legale.

La legge non richiede più invece l’annotazione del trasferimento del libro dei soci.

Regole analoghe sono dettate per assicurare la trasparenza dei trasferimenti mortis causa (art. 2470 2°
comma). Se la quota trasferita non è interamente liberata, l’alienante risponde in solido con l’acquirente per i
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versamenti ancora dovuti. Tuttavia la società è tenuta a richiedere preventivamente il pagamento al socio
attuale e solo dopo all’alienante (art. 2472).

La quota può costituire oggetto di pegno, usufrutto e sequestro. In tal caso l’art. 2471 bis richiama la
corrispondente disciplina dettata per le azioni al fine di determinare i diritti sociali spettanti al socio ed al
titolare del diritto frazionario. Resta così risolto il problema dell’ ammissibilità di tali vincoli sulle quote di
società a responsabilità limitata e della spettanza dei relativi diritti.

La quota può inoltre formare oggetto di espropriazione. L’attuale disciplina precisa al riguardo che il
pignoramento si esegue mediante notificazione al debitore ed alla società e successiva iscrizione nel registro
delle imprese. L’ordinanza del giudice che dispone la vendita deve essere notifica alla società a cura del
creditore.

L’espropriazione è consentita anche se la quota non è liberamente trasferibile. In tal caso però la vendita
all’incanto può aver luogo solo se il creditore, il socio e la società non raggiungono un accordo sulle
modalità di vendita. Inoltre la vendita è priva di effetto se la società presenta entro dieci giorni un altro
acquirente che offra lo stesso prezzo. Tale disciplina è richiamata anche per il pegno, usufrutto e sequestro di
quote non liberamente trasferibili (art. 2471 bis).

Alla s.r.l è vietato l’acquisto di proprie quote. Una deroga è prevista soltanto per le PMI costituite in forma di
s.r.l. Come anticipato, le quote di s.r.l. non possono essere oggetto di offerta al pubblico ad eccezione di
quelle emesse da PMI. L’offerta di quote di PMI può avvenire anche tramite appositi portali gestiti da SIM,
banche e altri soggetti gestiti dalla Consob.

Per le sole quote sottoscritti attraverso tali portali di raccolta del capitale l’attuale disciplina consente poi di
porre in essere un particolare meccanismo di intestazione fiduciaria. Il sistema prevede che l’investitore
effettui poi la sottoscrizione per il tramite di un intermediario abilitato alla prestazione di servizi di
investimento: l’intermediario effettua la sottoscrizione in nome proprio sulla base di un mandato fiduciario.
Al fiduciante spetta l’esercizio dei diritti sociali. Il fiduciante può inoltre alienare la quota, nel qual caso il
trasferimento all’acquirente avviene mediante semplice annotazione del trasferimento nei registri tenuti
dall’intermediario.

La successiva certificazione rilasciata dall’intermediario all’acquirente ai fini dell’esercizio dei diritti sociali
sostituisce ed esaurisce le formalità di cui all’art. 2470 2° comma del codice civile.

Si vedrà se questa nuova forma alternativa di circolazione delle quote di s.r.l. prenderà piede anche da noi.

7. Recesso ed esclusione

La disciplina del recesso prevista dall’art. 2473 c.c. è stata ampiamente riformata. In questa prospettiva è
riconosciuta ampia libertà all’autonomia statutaria: l’atto costitutivo infatti stabilisce quando il socio può
recedere e le relative modalità. Il recesso è inderogabilmente riconosciuto per legge in una serie di casi:

a) Se la società è a tempo indeterminato ogni socio può recedere con un preavviso di almeno 180 giorni
b) In ogni caso possono recedere i soci che non hanno consentito
1) Al cambiamento di oggetto sociale o di tipo di società
2) Alla sua fusione o scissione
3) Alla revoca dello stato di liquidazione
4) Al trasferimento della sede sociale all’estero
5) All’eliminazione di una o più cause di recesso
6) Al compimento di operazioni che comportano una sostanziale modifica dell’oggetto sociale

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Igiene il diritto di recesso è riconosciuto al socio contrario all’aumento del capitale sociale nonché nei casi di
limitazioni statutarie alla trasferibilità delle quote e di società soggettate all’altrui attività di direzione e
coordinamento.

Si prevede, come nelle s.p.a., che il recesso non possa essere esercitato se la società revoca la delibera che lo
legittima ovvero se è deliberato lo scioglimento della società (art. 2473 ult. comma).

I soci che recedono hanno diritto di ottenere il rimborso della propria partecipazione in proporzione del
patrimonio sociale entro 180 giorni falla comunicazione del recesso alla società.

Come nella s.p.a., articolate soluzioni sono volte a contemperare l’interesse del socio che recede con la tutela
dell’integrità del capitale e dei creditori sociali. Infatti si precede che la quota del socio recedente debba
prima essere offerta in opzione agli altri soci oppure ad un terzo concordemente individuato dai soci stessi.
Se non vi sono acquirenti si procede al rimborso attingendo alle riserve disponibili della società. Ma se anche
la riduzione del capitale risulta impossibile la società si scioglie.

Altra novità dell’attuale disciplina è che l’atto costitutivo può precedere specifiche cause di esclusione e del
socio per giusta causa.
Per il rimborso di applica la disciplina del recesso con esclusione della riduzione del capitale sociale (art.
2473 bis).

8. Gli organi sociali. Le decisioni dei soci

Le materie rimesse alle decisioni dei soci di società a responsabilità limitata sono ora definite in materia
autonoma. L’art. 2479 2° comma stabilisce che sono rimesse inderogabilmente alla decisione dei soci:
1) L’approvazione del bilancio e la distribuzione degli utili
2) La nomina degli amministratori
3) La nomina dei sindaci, del presidente del collegio sindacale e del soggetto incaricato di effettuare la
revisione legale dei conti
4) Le modificazioni dell’atto costitutivo
5) La decisione di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto
sociale

E l’atto costitutivo può riservare alla competenza dei soci ulteriori materie (art. 2479 1° comma). Con regola
opposta rispetto alla società per azioni, si prevede inoltre che i soci decidono su qualsiasi argomento sia
sottoposto alla loro approvazione dagli amministratori. Tale competenza deve tuttavia essere oggi esercitata
nel rispetto del principio, introdotto nel 2019, secondo cui la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli
amministratori.

Sulle materie di cui sopra delibera l’assemblea. L’atto costitutivo può tuttavia prevedere che le decisioni dei
soci siano adottate con una procedura più snella. In tal caso, le decisioni sono adorare con il voto favorevole
di una maggioranza che rappresenti almeno la metà del capitale sociale (art. 2479).

Pur in presenza di tale clausola statutaria, alcune decisioni particolarmente importanti, devono comunque
essere adottate con il metodo assembleare: le modificazioni dell’atto costitutivo, le decisioni che comportano
una sostanziale modifica dell’oggetto sociale o una rilevante modifica dei diritti dei soci nonché la riduzione
del capitale per perdite obbligatorie. La deliberazione assembleare è inoltre necessaria quando ne sia fatta
richiesta da uno o più amministratori.

È così rimessa all’atto costitutivo la determinazione dei modi di convocazione degli amministratori con una
lettera raccomandata spedita ai soci almeno otto giorni prima dell’adunanza nel domicilio risultante dal
registro delle imprese (art. 2479 bis). Possono intervenire in assemblea tutti i soci. Inoltre il socio può

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interamente farsi rappresentare in assemblea. La società è tenuta a conservare le deleghe le quali pertanto
dovranno essere rilasciate per iscritto.

Il voto dei soci vale in misura proporzionale alla loro partecipazione (art. 2479 5° comma).

Se non è diversamente previsto dall’atto costitutivo, l’assemblea è regolarmente costituita con la presenza di
tanti soci che rappresentano almeno la metà del capitale sociale.

Per le modificazioni dell’atto costitutivo una sostanziale modifica dell’oggetto sociale o una rilevante
modifica dei diritti dei soci è invece necessario il voto favorevole dei soci che rappresentano almeno la metà
del capitale sociale. Perciò se il 50% del capitale vota a favore e il restante 50% vota contro la delibera non è
approvata.

Non è prevista una assemblea di seconda convocazione con maggioranza ridotte (che però può essere
introdotta con l’atto costitutivo).

L’attuale disciplina prevede espressamente l’assemblea totalitaria (art. 2479 bis 5° comma) per la quale cioè
si richiede la presenza dell’intero capitale. L’assemblea totalitaria può però deliberare solo su argomenti alla
cui trattazione nessuno degli intervenuti si oppone.

9. L’invalidità delle decisioni dei soci

Esistono tre regimi di invalidità:


 un’invalidità che può essere fatta valere solo da alcuni soggetti entro breve termine e non opponibile
ai terzi in buona fede (annullabilità);
 Un’invalidità conseguente da più gravi vizi sostanziali o procedimentali che può essere fatta valere
da chiunque vi abbia interesse ma entro tre anni;
 Una sola causa di invalidità che può essere fatta valere da chiunque senza limiti di tempo

Annullabilità: Regola generale è che le decisioni prese non in conformità della legge o dell’atto costitutivo
possono essere impugnate dai soci che non vi hanno consentito anche individualmente nonché da ciascun
amministratore e dall’organo di controllo entro 90 giorni. Nelle stesse forme sono impugnabili le decisioni
prese col voto determinante di soci in conflitto di interessi qualora possano recare danno alla società.
L’annullamento della decisione ha effetto nei confronti di tutti i soci ed obbliga gli amministratori a
pretendere i conseguenti provvedimenti.

Inoltre l’annullamento non può aver luogo se la decisione impugnata è sostituita con altre presa in
conformità alla legge. Pertanto la sostituzione sana retroattivamente. A riguardo delle decisioni assunte con
metodo assembleare sono ulteriormente richiamate le due specifiche forme di convalida per la mancanza id
convocazione e per la mancanza di verbale. E quindi la mancata convocazione non può essere fatta valere da
chi anche successivamente abbia dichiarato il suo assenso allo svolgimento della assemblea. La mancanza
del verbale può essere sanata mediante verbalizzazione eseguita prima dell’assemblea successiva.

Nullità. Possono invece essere impugnate da chiunque vi abbia interesse ma nel termine di tre anni, le
decisioni aventi oggetto impossibile o illecito e quelle prese in assenza assolta di informazione. Essa ricorre
certamente quando la decisione è assunta senza coinvolgere un socio nella procedura di consultazione scritta
ovvero senza informarlo della raccolta dei consensi.

Nullità imprescrittibile. Infine, possono essere impugnate senza limiti di tempo le deliberazioni che
modificano l’oggetto sociale prevedendo attività impossibili e illecite.

10. Amministrazione e controlli


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La gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori.

L’amministrazione è affidata per legge ad uno o più soci nominati con decisione dei soci (art.2457 1°
comma). In deroga a questa disposizione, l’atto costitutivo può consentire che l’amministrazione possa anche
essere affidata a non soci. Si tende comunque ad escludere invece l’ammissibilità di una clausola che
attribuisca il potere di nomina degli amministratori a terzi.

Salvo diversa previsione, gli amministratori restano in carica a tempo indeterminato.

Non sono previste cause di incompatibilità o ineleggibilità, e sarà pertanto l’atto costitutivo eventualmente a
precisarle, sebbene vada mantenuta ferma quanto meno l’ineleggibilità degli incapaci. Nulla stabilisce poi la
nuova disciplina riguardo alla cessazione dell’incarico. Nulla riguardo al potere di revoca che deve
comunque essere riconosciuto alla società con decisione dei soci.

L’amministratore scaduto resta in carica in regime di prorogatio fino alla nomina dei sostituti. Sebbene la
disciplina non lo precisi, è indubitabile che gli amministratori debbano osservare il divieto di concorrenza
con la società.

Quando l’amministrazione è affidata a più persone, queste costituiscono il consiglio di amministrazione.


L’adozione del metodo collegiale non è tuttavia inderogabile, l’atto costitutivo può consentire che le relative
decisioni siano adottate mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto (art.
2475).

Inoltre, l’atto costitutivo può anche prevedere che gli amministratori operino non già come consiglio di
amministrazione, bensì disgiuntamente o congiuntamente come nelle società di persone. Perciò, se è adottato
il sistema di amministrazione disgiunta, ciascun amministratore può da solo decidere e da solo realizzare atti
in nome della società, ma con alcune eccezioni. Infatti, devono comunque essere assunte da tutti gli
amministratori le decisioni riguardanti la redazione del progetto di bilancio e dei progetti di fusione e
scissione, nonché l’aumento di capitale per delega. Rispetto a tali materie non sono pertanto ammesse
deleghe né decisioni disgiunte. Nell’amministrazione disgiunta, ciascun amministratore può poi opporsi al
compimento di atti da parte di un altro, ed in tal caso la decisione sull’opposizione è deferita ai soci a
maggioranza; maggioranza da calcolarsi per quote di capitale, secondo l’opinione preferibile.

Se l’atto costitutivo opta invece per il modello di amministrazione congiunta, questa potrà essere
all’unanimità o a maggioranza, come nelle società di persone. Me se non è diversamente previsto, deve
ritenersi che la maggioranza vada calcolata per teste fra tutti gli amministratori.

Gli amministratori hanno il potere generale di rappresentanza della società (art. 2475.bis). Si puntualizza
però che i contratti conclusi dagli amministratori con rappresentanza in conflitto di interessi possono essere
annullati su domanda della società, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo. Secondo la regola
generale l’azione si prescrive entro cinque anni dalla conclusione del contratto. Possono inoltre essere
impugnate le decisioni adottate dal consiglio di amministrazione con il voto determinante di un
amministratore in conflitto di interessi, qualora cagionino un danno patrimoniale alla società (art. 2475-ter).

L’impugnazione può essere presentata entro novanta giorni dagli altri amministratori, nonché dal sindaco e
dal soggetto incaricato della revisione legale dei conti. In ogni caso, sono salvi i diritti acquistati in buona
fede dai terzi in forza di atti compiuti in esecuzione della decisione.

Il dato normativo non richiede espressamente che l’amministratore comunichi in via preventiva al consiglio
di amministrazione gli interessi che ha in una determinata operazione, ma l’esistenza di tale obbligo di
trasparenza si ricava implicitamente dai doveri generali di diligenza e correttezza. Secondo la regola
generale, gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti
dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo, salvo che dimostrino di essere
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esenti da colpa e, essendo a cognizione che l’atto dannoso si stava per compiere, abbiano fatto vedere/
risultare il proprio dissenso (art. 2476).

Responsabili solidalmente con gli amministratori sono anche i soci che hanno intenzionalmente deciso e
autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi, e quindi i soci che di fatto, anche se
non formalmente, amministrano la società (art. 2476).

Il dato normativo sembrerebbe tuttavia limitare la responsabilità del socio al solo caso di dolo. Soprattutto,
l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori può essere promossa dal singolo socio, il quale
può altresì chiedere, come provvedimento cautelare, la revoca degli amministratori in caso di gravi
irregolarità nella gestione della società (art. 2476).

Fondatamente si ritiene che la revoca giudiziale degli amministratori possa essere domandata dal singolo
socio anche senza promuovere l’azione di responsabilità. Intervenuta la revoca giudiziaria
dell’amministratore, sarà la società stessa a dover nominare il nuovo amministratore. In caso di accoglimento
della domanda di risarcimento, il ricavato va a vantaggio della società, la quale è tenuta sola a rimborsare il
socio agente delle spese di giudizio e di quelle sostenute per l’accertamento dei fatti, salvo rivalersi nei
confronti degli amministratori condannati.

Ne consegue che:
a) la società deve essere necessariamente chiamata in giudizio come litisconsorte necessario;
b) alla società spetta ogni corrispettivo che abbiano ottenuto i soci attori per rinunciare all’azione o
transigerla;
c) il socio non può agire se la società ha rinunciato all’azione o l’ha transatta. Benché il codice taccia
sul punto, va inoltre ammesso che l’azione di responsabilità contro gli amministratori possa essere
promossa dalla società stessa.

Resta fermo, inoltre, che in caso di fallimento l’esercizio delle azioni di responsabilità spettanti alla società
fallita nei confronti degli amministratori e dei soci è riservato al curatore; e lo stesso vale per il commissario
liquidatore o commissario straordinario, rispettivamente, nella liquidazione coatta amministrativa e
nell’amministrazione straordinaria.

Salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo, alla società è riconosciuto il potere di rinunciare o transigere
l’azione di responsabilità contro gli amministratori, anche se promossa dai soci. Più elevati sono però i
quorum richiesti rispetto alla disciplina delle S.p.A., essendo necessario il consenso della maggioranza dei
due terzi del capitale e, nel contempo, che non vi si oppongono tanti soci che rappresentano il dieci per cento
del capitale.

L’approvazione del bilancio non implica però la liberazione implicita degli amministratoti (e dei sindaci) per
la responsabilità incorse nella gestione.

La disciplina della responsabilità degli amministratori verso i singoli soci, terzi direttamente danneggiati e
anche verso i creditori ricalca quella della S.p.A. (art. 2476 sesto e settimo comma). Inoltre, l’atto costitutivo
può prevedere la nomina di un organo di controllo o di un revisore determinandone competenze e poteri. Se
l’atto costitutivo non dispone diversamente, l’organo di controllo è costituito da un solo membro effettivo.

La nomina di un organo di controllo oppure di un revisore è però obbligatoria in alcuni casi, e cioè quando
ricorre una delle seguenti circostanze:
1) la società è tenuta alla redazione del bilancio consolidato;
2) la società controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti;
3) la società ha superato per due esercizi consecutivi uno dei seguenti limiti: a) totale dell’attivo dello
stato patrimoniale: 4 milioni di euro; b) ricavi delle vendite e delle prestazioni: 4 milioni di euro; c)
dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 20. L’obbligo cessa solo quando per tre esercizi
consecutivi non viene superato alcuno dei precetti limiti.
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4) la società è soggetto al controllo di un ente pubblico.

Resta fermo, inoltre, l’obbligo di nominare un revisore o una società di revisione previsto dalla disciplina
degli enti di interesse pubblico o sottoposti ad un regime intermedio, quando la stessa è in concreto
applicabile alle s.r.l. Inoltre, l’assemblea deve provvedere alla nomina dell’organo di controllo o del revisore
entro trenta giorni dall’approvazione del bilancio dal quale risulta il superamento dei limiti indicati al punto
3. Altrimenti provvede il tribunale, su richiesta di qualsiasi interessato o su segnalazione del conservatore del
registro delle imprese. Per contro, il venir meno dell’obbligo di nomina costituisce giusta causa di revoca del
sindaco o del revisore.

All’organo di controllo delle s.r.l. si applica la disciplina del collegio sindacale delle società per azioni.
Alcuni dei poteri di controllo propri dei sindaci sono però riconosciuti direttamente anche ai soci che non
partecipano all’amministrazione. Ogni socio non amministratore ha diritto di avere dagli amministratori
notizie riguardo lo svolgimento degli affari e di consultare i libri sociali e i documenti relativi
all’amministrazione, compresi quindi i libri e le scritture contabili della società. Di tali diritti l’atto
costitutivo può regolare l’esercizio per conciliarli con l’esigenza di non intralciare l’attività sociale, ma non
può sopprimerli. I soci dovranno però esercitare i controlli nel rispetto del principio di correttezza e buona
fede e senza divulgare a terzi le informazioni ricevute, esponendosi a responsabilità in caso di abuso.

Infine, nel 2019 è stata ripristinata l’applicabilità alle s.r.l. del controllo giudiziario sulla gestione, che era
stata esclusa con la riforma del 2003. La denuncia al tribunale può essere presentata anche se la società è
priva di organo di controllo (art. 2477).

11. Bilancio. Modificazioni dell’atto costitutivo. Scioglimento

La redazione del bilancio di esercizio e la distribuzione degli utili non presentano sostanziali differenze
rispetto alla disciplina della società per azioni (art. 2478-bis). Il bilancio viene predisposto dall’organo
amministrativo (con deliberazione necessariamente collegiale), approvato dai soci (anche senza assemblea,
se l’atto costitutivo lo consente), ed infine depositato entro trenta giorni nel registro delle imprese. Degli utili
annuali deve essere dedotta una quota per formare la riserva legale.

Nelle s.r.l. il cui capitale è determinato in misura inferiore al minimo legale, l’obbligo di accantonamento
degli utili è più accentuato rispetto alle S.p.A., e ciò per fa fronte alla condizione di sottocapitalizzazione
mediante un maggior accumulo di riserva legale: deve essere dedotto un quinto degli utili di ciascun
esercizio, fino a che la riserva non abbia raggiunto, unitamente al capitale, l’ammontare di euro diecimila
(art. 2463).

La decisione dei soci che approva il bilancio decide anche sulla distribuzione degli utili. In caso di
distribuzione di utili fittizi, i dividendi non sono ripetibili se i soci li hanno riscossi in buona fede in base ad
un bilancio regolarmente approvato, da cui risultano utili netti corrispondenti. Come anticipato le
modificazioni dell’atto costitutivo sono di competenza inderogabile dell’assemblea, la quale deve deliberare
con il voto favorevole di tanti soci che rappresentano almeno la metà del capitale sociale.

La modificazione diviene però efficace soltanto a seguito dell’iscrizione della stessa nel registro delle
imprese, su richiesta del notaio verbalizzante, deputato ad effettuare il controllo di legittimità (art. 2480).
Contro il rifiuto del notaio di procedere all’iscrizione, gli amministratori possono promuovere il giudizio di
omologazione presso il tribunale.

Sono invece autonomamente disciplinate le variazioni del capitale sociale. È espressamente prevista e
disciplinata la deroga agli amministratori per l’aumento del capitale sociale a pagamento (art. 2481): la
determinazione dei limiti e delle modalità di eserciio è tuttavia integralmente rimessa all’atto costitutivo,
fermo restando che la decisione degli amministratori deve risultare da verbale redatto da notaio e deve essere
iscritta nel registro delle imprese. La decisione di aumentare il capitale non può essere attuata finché i
conferimenti precedentemente dovuti non sono stati interamente eseguiti.
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Anche la regolamentazione del diritto di opzione (che l’art. 2481-bis chiama “diritto di sottoscrizione”) è
prevalentemente rimessa alle previsioni statutarie ed alle determinazioni dei soci. L’esclusione del diritto di
opzione è possibile solo se espressamente prevista dall’atto costitutivo. E in ogni caso non è ammessa
quando l’aumento di capitale è reso necessario da una riduzione dello stesso per perdite. Fatta eccezione per
tale divieto, la legge non predetermina i casi in cui si può escludere il diritto di opzione, ma riconosce ai soci
che non hanno consentito alla decisione il diritto di recesso dalla società. Le modalità ed i termini entro cui
può essere esercitato il diritto di sottoscrizione sono determinati dalla delibera di aumento di capitale.

Tali termini non possono tuttavia essere inferiori a trenta giorni dal momento in cui viene comunicato ai soci
che l’aumento di capitale può essere sottoscritto. La delibera deve altresì indicare se e con quali modalità
consentire che la parte di capitale non optata sia sottoscritta dagli altri soci o da terzi. Determina inoltre
l’eventuale sovrapprezzo e può infine consentire un aumento solo parziale di capitale, nel caso di
sottoscrizione non integrale. In mancanza, l’aumento di capitale è inscindibile. Entro trenta giorni
dall’avvenuta sottoscrizione, gli amministratori depositano per l’iscrizione presso il registro delle imprese
l’attestazione dell’esecuzione dell’aumento di capitale.

Per i conferimenti in sede di aumento di capitale sociale vale la medesima disciplina dei conferimenti al
momento della costituzione delle società a responsabilità limitata. Il versamento del 25% dei conferimenti in
denaro deve essere effettuato al momento della sottoscrizione direttamente alla società. Allo stesso tempo, il
sottoscrittore deve interamente versare l’eventuale sovrapprezzo. La disciplina dell’aumento di capitale
gratuito è sostanzialmente identica con quella delle S.p.A.; si precisa comunque che a seguito di tale
operazione la quota di partecipazione di ciascun socio deve restare immutata (art. 2481-ter).

Sostanzialmente coincidente con quella delle S.p.A. è, infine, anche la disciplina della riduzione reale (art.
2482) e nominale del capitale sociale (art. 2482-bis e 2482-ter). In particolare, la riduzione reale del capitale
può essere attuata mediante rimborso ai soci delle quote pagate o mediante liberazione degli stessi
dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti. Non è necessario che la decisione di ridurre il capitale sia
ancorata ad una motivazione specifica come la sovrabbondanza o esuberanza dello stesso, fermo tuttavia il
diritto di opposizione dei creditori. Perciò la delibera può essere eseguita solo dopo 90 giorni dal giorno
dell’iscrizione nel registro delle imprese senza che nessun creditore sociale anteriore all’iscrizione abbia fatto
opposizione, oppure dopo che il tribunale abbia rigettato l’opposizione perché non ritiene sussistere pericolo
di pregiudizio per i creditori o perché la società ha prestato idonee garanzie. La riduzione reale del capitale
non può diminuire al di sotto del minimo legale di diecimila euro.

In merito alla riduzione legale per perdite si ripropone la distinzione fra riduzione facoltativa (perdite che
intaccano il capitale per meno di un terzo) ed obbligatoria (perdite che diminuiscono il capitale per più di un
terzo). Quando la riduzione del capitale è obbligatoria è previsto che gli amministratori convochino senza
indugio l’assemblea e sottopongano ai soci una relazione sulla situazione patrimoniale della società con le
osservazioni del collegio sindacale e del soggetto incaricato della revisione legale (se nominati).

Se l’atto costitutivo non prevede diversamente, tali documenti devono essere depositati nella sede della
società per almeno 8 giorni prima dell’assemblea perché i soci possano prenderne visione (art. 2483-bis).

Nell’assemblea, gli amministratori dovranno inoltre dar conto dei fatti di rilievo avvenuti dopo la redazione
della relazione. L’assemblea potrà procedere immediatamente alla riduzione del capitale, oppure rinviare
ogni decisione all’esercizio successivo. Se entro l’esercizio successivo le perdite non risultano diminuire a
meno di un terzo, l’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio deve ridurre il capitale in
proporzione delle perdite accertate; in mancanza, vi provvede il tribunale su richiesta degli amministratori,
dei sindaci, del soggetto incaricato della revisione legale o di qualsiasi interessato.

La riduzione del capitale non è procrastinabile all’esercizio successivo, qualora la perdita di oltre un terzo
abbia ridotto il capitale al di sotto del minimo legale. Si impone in questo caso l’immediata riduzione e
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contestuale ricostituzione del capitale al di sopra del minimo legale, o la trasformazione della società (art.
2483-ter). Altrimenti la società si scioglie. La legge non chiarisce tuttavia se e come le norme sulla riduzione
obbligatoria del capitale per perdite trovino applicazione quando la s.r.l. è costituita con un capitale inferiore
al minimo legale. Pone difficoltà in particolare la disciplina dell’art. 2483-ter perché, a rigore, manca qui un
requisito per la sua applicazione: non è la perdita a produrre la riduzione del capitale al di sotto del minimo
legale, bensì il capitale era ab origine fissato in un importo inferiore di diecimila euro. Tuttavia, l’art. 2464
stabilisce che la s.r.l. con capitale ridotto devono pur sempre avere almeno un euro di capitale, ed è pertanto
con riferimento a quest’ultimo più modesto importo che devono operare i meccanismi previsti dalla
disciplina della riduzione per le perdite. Pertanto, quando il suo patrimonio netto si è ridotto a meno di un
euro per effetto di perdite, la società deve essere ricapitalizzata o trasformata oppure posta in liquidazione.
Come nelle S.p.A. poi l’obbligo di riduzione del capitale per perdite è sospeso durante lo svolgimento della
procedura di concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182-sexies l. fall.). In
tuti i casi di riduzione del capitale per perdite è esclusa ogni modificazione delle quote di partecipazione e
dei diritti spettanti ai soci (art. 2482-quater c.c.). Lo scioglimento della società è oggi disciplinato
unitariamente per tutte le società di capitali.

12. La società a responsabilità limitata semplificata

La s.r.l. “semplificata” è un tipo speciale di s.r.l. disciplinata dall’art. 2463- bis del codice civile; introdotta
nel 2012 per stimolare la creazione di nuove imprese e lo sviluppo economico del Paese. La s.r.l.
semplificata prevista dall’art. 2463-bis è interamente disciplinata dalle norme in tema di s.r.l., salvo poche
ma significative differenze. La società può essere costituita con contratto o atto unilaterale solo da persone
fisiche. La denominazione sociale deve contenere l’indicazione di società a s.r.l. semplificata. Il capitale
sociale deve essere pari ad almeno un euro ed inferiore a diecimila euro. Sono ammessi solo conferimenti in
denaro ed il capitale deve essere interamente sottoscritto e versato nelle mani dell’organo amministrativo alla
data della costituzione. La s.r.l. semplificata deve essere costituita per atto pubblico, secondo la regola
comune delle società di capitali, ma l’atto costitutivo e l’iscrizione nel registro delle imprese sono esenti da
diritti di bollo e di segreteria. Singolare privilegio, non è dovuto neppure l’onorario del notaio. Il quale è
tenuto a prestare gratuitamente la sua opera. L’atto costitutivo deve essere redatto in conformità al modello
standard tipizzato con decreto del ministro della giustizia. L’attuale disciplina stabilisce espressamente che le
clausole del modello standard sono inderogabili (art. 2463-bis). Perciò, la riduzione dei costi di costituzione
è bilanciata da una sostanziale limitazione dell’autonomia statuaria dei soci. Però, la norma codicistica non
vieta espressamente di introdurre nell’atto costitutivo clausole ulteriori che integrino (senza derogare) le
scarne previsioni del modello standard. Ed anzi, la normativa secondaria emanata dal ministro della giustizia
espressamente lo consente, sebbene ritenga che quando i costituenti richiedono integrazioni allo schema
tipico, la prestazione del notaio debba essere ricompensata.

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TERZO LIBRO
CONTRATTI; TITOLI DI CREDITO; PROCEDURE CONCORSUALI

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CAPITOLO SECONDO
CONTRATTO ESTIMATORIO

1. Nozione. Funzione

È il contratto col quale una parte (tradens) consegna una o più cose mobili all’altra parte (accipiens) e questa
si obbliga a pagarne il prezzo entro un termine stabilito, con restituzione stesse cose al termine (art. 1556).

È utilizzato nei rapporti tra fornitori e rivenditori, quando quest’ultimi non vogliono accollarsi il rischio
economico, rischio elevato quando si tratta di beni che trovano acquirenti in breve arco di tempo (libri o
giornali). Tale contratto trova applicazione nel commercio di giornali, libri, articoli d’abbigliamento; infatti,
il rivenditore può disporre di più merce, dato che dovrà rendere al fornitore solo quanto è riuscito a vendere,
il fornitore sopporta il rischio dell’in- venduto e trae dal vantaggio dalla distribuzione più capillare.

2. La disciplina

È un contratto reale: si perfeziona con la consegna delle cose all’accipiens; solo quest’ultimo può disporre
delle cose ricevute, la proprietà resta al tradens fino a quando il primo non le ha rivendute o pagato il prezzo.
Le cose inoltre non possono esposte a pignoramento o sequestro da parte dei creditori dell’accipiens finché
non ne paga il prezzo, ma i creditori del tradens possono agire con tali azioni. Il principale obbligo per
l’accipiens è pagare il prezzo delle cose al momento della conclusione del contratto, può liberarsi da tale
obbligo restituendo le cose nel termine pattuito, inoltre non è obbligato a promuovere la vendita delle cose
ricevute, anche se tale contratto e stipulato per questo fine.

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LUISS
LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

CAPITOLO TERZO
LA SOMMINISTRAZIONE

1. Nozione

È il contratto col quale una parte (somministratore) si obbliga, verso corrispettivo, ad eseguire verso l’altra
parte (somministrato) prestazioni periodiche o continuative di cose (art. 1559). È un contratto di durata e
soddisfa un bisogno durevole, come per l’erogazione d’acqua, dell’energia, del gas o per fornitura gasolio.
Può avere per oggetto solo la prestazione di cose, se ha per oggetto prestazioni continuative o periodiche di
servizi si parla di appalto, inoltre opera la distinzione dalla vendi- ta delle cose ripartite, avendo la
somministrazione per oggetto una pluralità di prestazioni ed è diretta a soddisfare un bisogno durevole, la
vendita ha per oggetto un’unica prestazione, unica analogia è l’applicazione di norme della vendita
obbligatoria, perché sia ha scambio di cosa contro prezzo.

2. La disciplina

Può essere a tempo indeterminato, applicando così la disciplina del quantum delle singole prestazioni, se le
parti omettono entità delle prestazioni, si determina ex lege. Inoltre, è possibile stabilire un limite massimo o
minimo, in tal caso il somministrato stabilirà quantitativo entro i limiti contrattuali. Se prezzo non stabilito,
si determina secondo le regole della vendita, se contratto a carattere periodico il prezzo deve essere pagato
all’atto delle singole prestazioni, in quella continuativa avviene secondo le scadenze d’uso (mensilmente,
trimestralmente, ecc.). Per quanto concerne la risoluzione per inadempimento, se una parte è inadempiente,
non legittima l’atra a chiedere la risoluzione del contratto, solo in due situazioni è possibile: inadempimento
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Gianmarco Rubino
Studente di Giurisprudenza Uso personale
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di notevole importanza e semina la fiducia per successivi adempimenti. In deroga al diritto comune, se
l’inadempimento è lieve, il somministrante non può sospendere l’esecuzione del contratto senza congruo
preavviso. Generalmente previste delle clausole in deroga al diritto comune che prevedono risoluzione
contratto se l’utente non provvede al pagamento di una singola bolletta entro un breve periodo di scadenza.
Il patto di preferenza è il patto col quale il somministrato si obbliga a preferire lo stesso somministrante se
vuole stipulare un contratto successivo con lo stesso oggetto, come per le limitazioni convenzionali di
concorrenza che non può essere superiore a cinque anni.

La clausola d’esclusiva può essere pattuita a favore del somministrante, a favore del somministrato o a
favore di entrambi le parti, nel primo caso il somministrato non può ricevere prestazioni da terzi della stessa
natura, né procurarsi con mezzi propri cose che formano oggetto del contratto; nel secondo caso il
somministrante non può svolgere prestazioni verso terzi nella zona d’esclusiva. Per quanto concerne il
rivenditore beneficiario con apposito patto può promuovere le vendite nella zona.

CAPITOLO QUARTO
I CONTRATTI DI DISTRIBUZIONE

1. La categoria

Vengono introdotti per realizzare una più stretta integrazione economica fra produttore e rivenditori, tali
contratti prevedono clausole, che prevedono un’ingerenza nella sfera decisionale dei rivenditori, a
quest’ultimi sono offerte più sicure possibilità di guadagno attraverso la concessione di una posizione
previlegiata, costituita dall’esclusiva di rivendita per una certa zona. Il contenuto minimo di tali contratti è:
impegno del distributore di acquistare con periodicità quantitativi minimi e nel- l’impegno ulteriore di
promuovere la rivendita dei prodotti nella zona determinata con modalità stabilite.

2. La concessione di vendita

Spetta ai concessionari organizzazione nei punti di vendita, inoltre le clausole assicurano l’ingerenza del
concedente verso i primi: acquisto di quantitativi minimi, organizzazione di vendita, la prati- ca dei prezzi
stabilita dal produttore, fornitura e assistenza tecnica dopo la vendita, controlli periodici. Si parla di contratto
atipico e per analogia e applicabile il contratto di somministrazione per quanto riguarda la determinazione
dell’entità delle singole forniture e per la risoluzione del contratto.

3. Franchising
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Disciplinato dalla legge n. 129/2004 diffuso in Italia per il settore dell’abbigliamento, è il contratto stipulato
fra soggetti giuridicamente ed economicamente indipendenti, l’affiliante: concede verso corrispettivo la
disponibilità di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni
commerciali, insegne, diritti d’autore, know how, brevetti ed assistenza; inserisce l’affiliato in un sistema
costituito da una pluralità di affiliati, per commercializzare determinati prodotti o servizi. Ha un campo di
applicazione più ampio della concessione di vendita: sarà f. di distribuzione per la vendita di beni, f. di
produzione per la produzione di beni e f. di servizi per la distribuzione di servizi o può integrare tutte e tre le
tipologie; ulteriore differenza è che l’affiliato deve usare i segni distintivi nella vendita ed è tenuto ad usare i
modelli operativi dell’affiliante, de- finendo così la formula commerciale dell’affiliante.

Nel franchising confluisce una pluralità di prestazioni tipiche di contratti nominati (licenza d’uso dei segni
distintivi, somministrazione, appalto di servizi e locazione), si parla quindi di una figura autonoma
contrattuale, la disciplina degli altri contratti sarà applicabile per analogia quindi.
Il mancato rinnovo del contratto o il recesso ad nutum con breve preavviso potevano recare abusi per
l’affiliato, con la legge 129/2004 precisa che l’affiliante deve aver già sperimentato la sua for- mula
commerciale sul mercato, inoltre almeno 30gg prima l’affiliante deve recapitare una copia del contratto al
futuro affiliato, con allegati del funzionamento della formula commerciale ed eventuali rischi, sull’ affiliato
grava l’obbligo di comunicare ogni informazione necessaria od utile per la sti- pulazione del contratto.
Il contratto deve essere stipulato per forma scritta, pena la nullità e deve indicare le condizioni di rinnovo,
risoluzione ed eventuale cessione; deve precisare gli investimenti e spese richieste all’affi- liato, le
percentuali versate dall’affiliante ed incasso minimo dell’affiliato da realizzare; specificati anche gli obblighi
dell’affiliato: il know how fornito con formula commerciale e i servizi offerti al- l’affiliato (assistenza, ecc.).
Il contratto può essere a tempo indeterminato o determinato, in que- st’ultimo caso c’è garanzia di durata
minima (non inferiore a tre anni). L’affiliato è tenuto a mante- nere la massima riservatezza sul contenuto e
sul know how del franchising, obbligo che permane anche dopo lo scioglimento del contratto.

CAPITOLO DODICESIMO
IL CONTO CORRENTE ORDINARIO

1. Nozione. Funzione

Il conto corrente (artt. 1823-1833), detto ordinario per distinguerlo dal conto corrente bancario o di
corrispondenza, è quel contratto con il quale le parti si obbligano ad annotare in un conto i crediti derivanti
da reciproche rimesse, considerandoli inesegibili ed indisponibili fino alla chiusura del conto. Alla chiusura
del conto il saldo risultante dalla compensazione globale dei crediti e debiti annotati, diventa esigibile e la
parte che risulta creditrice della differenza ne può chiedere il pagamento. Se il pagamento non è richiesto, il
saldo si considera come prima rimessa di un nuovo conto ed il contratto si intende rinnovato a tempo
indeterminato.

Costituiscono caratteri essenziali del conto corrente:


a) L’assoggettamento dei crediti reciproci ad un regime temporaneo di inesegibilità ed indisponibilità
b) La compensazione globale degli stessi a scadenze periodiche e la liquidazione per differenza

2. Disciplina

Sono inclusi nel conto tutti i crediti reciproci, eccezion fatta per quelli che non sono suscettibili di
compensazione. L’obbligo di annotazione in conto può riguardare anche crediti che una delle parti vanta
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verso terzi e che, con l’immediata inclusione nel conto, vengono trasferiti a titolo oneroso (cessione) al
ricevente.

L’inclusione nel conto di tali crediti si presume però fatta con la clausola salvo incasso. In caso di mancata
riscossione il ricevente può agire per la riscossione o eliminare la partita dal conto.

I crediti tra le parti inseriti nel conto diventano inesegibili ed indisponibili. Non possono essere perciò
riscossi. Questo regime si riflette anche sulla posizione dei creditori dei correntisti. Essi non possono
compiere atti conservativi od esecutivi sui singoli crediti. Ne consegue che:
a) Ogni credito continua a produrre interessi nella misura convenuta o in quella legale e restano dovute
le eventuali spese e commissioni per le operazioni che hanno dato luogo a rimessa.
b) L’incisione nel conto non preclude l’esercizio delle azioni e delle eccezioni relative all’atto in cui il
credito deriva e, se questo è dichiarato nullo, annullato, rescisso o risolto, la relativa partita è
eliminata dal conto corrente
c) Le garanzie reali o personali che assistono il singolo credito non si estinguono ma persistono a
favore del saldo.

La chiusura del conto con la dichiarazione del saldo è fatta alla fine di ogni semestre. Alla chiusura del conto
viene di regola inviato da un correntista all’altro un estratto conto, che si intende approvato se non è
contestato in modo specifico nel termine pattuito o in quelli usuali. L’approvazione del conto non preclude il
diritto ad impugnare per errori di scritturazione o calcolo ma l’impugnativa deve essere proposta, a pena di
decadenza, entro 6 mesi dalla recezione dell’estratto conto.

Quando il contratto è o diventa a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere ad ogni chiusura del
conto. Sono poi cause legittime di recesso l’interdizione, l’inabilitazione, l’insolvenza o la morte di una delle
parti. Con il recesso il conto rimane bloccato e non possono essere incluse nuove partite.

È da dire infine che il conto corrente ordinario è contratto oggi scarsamente diffuso nella pratica. La
disciplina del conto corrente ordinario conserva tuttavia rilievo in quanto parzialmente applicabile,
relativamente agli artt. 1826, 1829 e 2832) alle operazioni bancarie in conto corrente ed al conto corrente
bancario o di corrispondenza

CAPITOLO TREDICESIMO
I CONTRATTI BANCARI

1. Impresa bancaria ed operazioni bancarie

Le imprese bancarie sono imprese commerciali la cui attività consiste nella raccolta del risparmio fra il
pubblico e nell’esercizio del credito. Le operazioni di raccolta del risparmio sono operazioni passive,
rendono la banca debitrice, le operazioni di concessione di credito, si definiscono operazioni attive; sono
operazioni accessorie le altre operazioni di carattere finanziario o strumentale (servizi di pagamento, ecc.).
Le banche svolgono un ruolo centrale nell’attività finanziaria (leasing, factoring, ecc.), queste attività
possono essere svolte dalle banche anche in modo indiretto, attraverso la costituzioni di società autonome,
controllate dalle stesse banche, per settore specifico.

È sottoposta ad un’articolata e penetrante disciplina pubblicistica. La relativa normativa, oggi, è racchiusa


nel Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia approvato con il Dlg 385/1993 (TUB).

Questa disciplina incide: 1) sull’accesso all’attività bancaria, autorizzato dalla Banca d’Italia, 2) sulla
struttura giuridica dell’impresa bancaria, 3) sullo statuto delle società, delle imprese e del gruppo bancario,
che hanno profili più specifici rispetto alle altre imprese, 4) sull’organizzazione e sull’esercizio dell’attività
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bancaria, sottoposte alla vigilanza della Banca d’Italia, in conformità alle direttive del CICR (comitato
interministeriale per il credito ed il risparmio) per la stabilità del sistema bancario.

2. Le operazioni bancarie nel Codice civile

Il codice si limita a regolare solo alcune delle tipiche operazioni attuate dalle banche, si astiene ancora oggi
di dettare una specifica disciplina per le operazioni di raccolta del risparmio e di erogazione del credito a
medio e lungo termine; tale raccolta oggi è disciplinata dal TUB e dalla normativa regolamentare della
Banca d’Italia. Attraverso strumenti di diritto comune avviene anche l’erogazione del credito a medio e
lungo termine, assumendo la forma di credito speciale agevolato e può concretizzarsi in mutui di scopo se
destinati a funzione economica e sociale, tali mutui di soli- to sono garantiti da ipoteca, pegno o privilegio
speciale a favore della banca concedente, tutto disciplinato dal TUB.

Tuttavia, la regolamentazione dei contratti bancari è rimasta oggi affidata alle norme bancarie uni- formi
(n.b.n.), le condizioni generali sono poi applicate in modo uniforme dalle banche assicurando una
standardizzazione dei rapporti con la clientela; rappresentano un’importante fonte normativa, perché spesso
non solo colmano i vuoti normativi, ma la modificano o la sostituiscono in più punti con clausole spesso
vessatorie per i clienti e di dubbia validità, c’era bisogno di modificarle.

3. Disciplina generale dei contratti bancari

La legge 154/1992 ha introdotto una disciplina generale dei contratti bancari e finanziari, che pre- vede una
serie di obblighi volti ad assicurare trasparenza alle condizioni contrattuali attuate dalle banche e dagli altri
intermediari finanziari.

In primo luogo, le banche sono tenute a rendere note a clienti in modo chiaro le condizioni economiche (tassi
d’interesse, prezzi, spese, ecc.) delle operazioni e dei servizi offerti. Per le operazioni di finanziamento deve
essere pubblicato il tasso effettivo globale medio (TEGM), comprende gli interessi e gli oneri per l’uso del
credito. Ampi poteri sono riconosciuti al CICR, che dispone l’obbligo di pubblicità mediante il documento
contenente i principali diritti del cliente esposto nei locali della banca aperti al pubblico e di figli informativi,
i contenuti vengono puntualizzati anche dalla Banca d’Italia.

I contratti bancari devono essere redatti per iscritto, inoltre una copia del contratto deve essere consegnata al
cliente per assicurargli la conoscenza e la prova delle condizioni contrattuali. L’inosservanza della forma
scritta comporta la nullità, che opera solo a vantaggio del cliente. Il contenuto minimo obbligatorio è fissato
dalla legge per offrire un quadro chiaro delle condizioni economiche al cliente; devono essere indicati: tasso
d’interesse, prezzo, condizioni; inoltre, le clausole, che era- no nelle n.b.n., sono nulle e non apposte, nulle
sono anche clausole che prevedono condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelle pubblicizzate.

Nei contratti bancari di durata può essere convenuta la facoltà della banca di poter modificare le condizioni
(ius variandi), ma il legislatore nel tempo ha circoscritto tale potere da due punti di vi- sta: Sostanziale, per
cui la modifica deve essere sorretta da un giustificato motivo, regola più restrittiva è prevista per le clausole
che prevedono la modifica unilaterale di tassi d’interesse in un contratto a tempo determinato, del tutto
vietate se banca stipula con una microimpresa. Le variazioni del tasso d’interesse devono riguardare sia
quelli debitori che creditori e non recare pregiudizio al cliente. Formale, per cui la clausola che accorda alla
banca lo ius variandi deve essere approvata dal cliente, come clausola vessatoria. Per le variazioni, la banca
deve comunicarlo con un preavviso di due mesi, il cliente ha diritto di recedere dal contratto senza spese e di
ottenere le condizioni applicate prima. Le variazioni contrattuali non comunicate sono inefficaci, se
sfavorevoli nei confronti del cliente. Nei contratti a tempo indeterminato il cliente ha la facoltà di recedere in
qualsiasi mo- mento e non possono essere previste penalità o spese di chiusura.

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Nei contratti di durata, c’è l’obbligo della banca di fornire, almeno una volta l’anno, una comunicazione
completa sullo svolgimento del rapporto, mediante consegna del rendiconto e del documento di sintesi sulle
principali condizioni.

La Banca d’Italia vigila sul rispetto della disciplina, può prescrivere, a pena di nullità, che determinati
contratti o titoli abbiano un contenuto predeterminato.

Maggior tutela dei clienti si è avuta con la disciplina antimonopolistica nazionale, oggi le competenze
derivanti sono esercitate dall’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato, ma nel 1994 la Banca d’Italia
stabilì che le n.b.n. costituissero limitazioni alla concorrenza, imponendo all’Abi che le stesse non hanno
carattere vincolante per le banche associate e la soppressione di clausole in contrasto con le regole della
concorrenza. Oggi anche con l’Autorità garante si è concordato una revisione delle n.b.n. favorendo
unilateralità per le banche.

Dal 2009 attivo un sistema stragiudiziale di risoluzione delle controversie, al quale le banche devono aderire:
l’Arbitro bancario finanziario (ABF); è un organismo autonomo ed imparziale a cui i clienti possono
rivolgersi, dopo aver reclamato invano alla banca, le sue decisioni non sono vincolanti, hanno una funzione
di “sanzione reputazionale”, pubblicato inadempimento della banca.

4. Depositi bancari

Il deposito di denaro è la principale operazione passiva delle banche, costituisce un tipo particolare di
deposito irregolare, che vede la banca come depositario. La banca acquista la proprietà della somma ricevuta
in deposito e si obbliga a restituirla nella stessa specie monetaria, alla scadenza del termine (d. vincolato) o a
richiesta del depositante (d. libero), con o senza preavviso.

La banca deve corrispondere degli interessi sulle somme depositate, se regolati da un termine gli interessi
sono più elevati, inoltre le condizioni economiche devono risultare dal contratto o dal libretto del portatore.

Gli interessi sono capitalizzati con la periodicità pattuita nel contratto e liquida- ti all’estinzione del deposito.

Nei depositi liberi, la banca può modificare il tasso d’interesse, con un preavviso di due mesi, secondo la
disciplina del TUB; in caso di ribasso del tasso d’interesse, il cliente può recedere dal contratto ed ha diritto
che gli sia applicato il tasso precedente, più favore- vole.
I depositi bancari possono essere semplici e a risparmio; i primi non possono essere alimentati da versamenti
e non vi è la possibilità di prelevamenti parziali prima della scadenza del contratto, i secondi danno la facoltà
al depositante di effettuare versamenti e prelevamenti parziali, attuati solo in contanti. I depositi a risparmio
sono comprovati da un apposito documento, il libretto di deposito a risparmio, nel quale sono annotate tutte
le operazioni, ha inoltre valore probatorio per la firma del- l’impiegato della banca; quindi, fa piena prova del
rapporto tra banca e depositante, non potranno perciò avvalersi di ulteriori mezzi di prova. È nullo ogni patto
contrario. Il libretto può essere nominativo, con cui i prelevamenti possono essere effettuati dall’intestatario
o da un suo rappresentante; se sono nominativi pagabili al portatore, i prelevamenti possono essere fatti
anche da un soggetto diverso, con effetto liberatorio per la banca; infine, i libretti al portatore, il cui solo
possesso abilita di per sé alla riscossione delle somme di denaro. Tutti i libretti non possono avere un saldo
pari o superiore a 1000 euro, vantano un’ulteriore procedura di ammortamento in caso di furto, smarrimento
o distruzione.

5. L’apertura di credito

È il contratto con il quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di denaro,
per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato. È un’operazione bancaria attiva, in cui il cliente può
utilizzare o meno, in tutto o in parte, il credito concessogli, gli interessi saranno dovuti sulle somme
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effettivamente usate; oltre agli interessi alla banca è dovuta la commissione d’affidamento, calcolata in
proporzione alla somma messa a disposizione del cliente e alla durata, la commissione non può superare lo
0,5% per trimestre dell’importo concesso. Il CICR stabilisce ulteriore oneri al cliente a fronte di
sconfinamenti in assenza o superando il fido concesso (commissione d’istruttoria veloce), ulteriori clausole
che prevedono oneri diversi sono nulle.

Il cliente può usare la somma una o più volte, può ripristinare la disponibilità con successivi versamenti,
alternandoli con i prelevamenti, può usarlo per emettere assegni bancari o impartire alla banca pagamenti
verso terzi. Può essere garantita da garanzie, reali o personali a favore della banca, se risultano insufficienti
la banca può chiedere un supplemento o una sostituzione della garanzia, in mancanza può ridurre in
proporzione il credito concesso o recedere dal contratto.

Se a tempo determinato, salvo patto contrario, la banca può recedere prima solo se sussiste giusta causa, il
recesso sospende subito l’uso del credito, concedendo un termine di quindici giorni per la restituzione delle
somme utilizzate; se a tempo indeterminato, la banca può recedere liberamente dal contratto, ma dando
preavviso di quindici giorni, nei quali il cliente può continuare ad usare il credito, ma alla scadenza dei giorni
dovrà immediatamente restituire le somme utilizzate. Tale distinzione scompare però nella disciplina delle
n.b.n., in entrambi i casi la banca può recedere liberamente, anche solo con comunicazione verbale, il
termine di restituzione è ridotto a due giorni, tale disciplina prevede che se è a tempo determinato il recesso
ammesso solo per giusta causa.

6. L’anticipazione bancaria

È una tipica operazione di finanziamento garantita da pegno: la garanzia reale offerta dalla banca è costituita
esclusivamente da titoli o merci, il cui valore e accertabile; l’ammontare del credito con- cesso dalla banca è
proporzionale al valore dei titoli e delle merci date in pegno e si determina de- ducendo una percentuale
(regola della proporzionalità), che resterà tale per la durata del rapporto. In deroga al principio di
indivisibilità del pegno, il beneficiario, può ritirare parte dei titoli o delle merci in proporzione alle somme
rimborsate dalla banca; che a sua volta, ha diritto di ottenere un supplemento di garanzia se il valore delle
cose date in pegno diminuisce di un decimo rispetto all’iniziale, in mancanza la banca procede alla vendita
delle cose e ha diritto al rimborso, dal ricavato.

Proprio questo regime di garanzia pignoratizia caratterizza l’anticipazione rispetto al mutuo o al- l’apertura
del credito, inoltre può essere regolata in conto corrente.
Se propria: merci o titoli costituiti in pegno regolare, la banca perciò non può disporre delle cose ricevute ed
alla scadenza dovrà restituire gli stessi titoli o la stessa merce, le spese sono del cliente.
Se impropria: titoli sono costituiti in pegno irregolare, la banca avrà la facoltà di disporne, inoltre la proprietà
passa alla banca, che alla scadenza dovrà restituire i titoli solo dello stesso genere.

7. Sconto

È il contratto con il quale la banca (scontante) anticipa al cliente (scontatario) l’importo di un credi- to verso
terzi non ancora scaduto, decurtato dell’interesse, il cliente cede, salvo buon fine, il credito stesso. Il più
diffuso è lo sconto di cambiali, che vengono girate alla banca scontante.

È un utile strumento per monetizzare prima della scadenza il credito concesso alla clientela, la banca lucra
sulla differenza (sconto) fra il valore nominale del credito e la somma anticipata al cliente, la quale si ha
deducendo dal valore nominale del credito l’interesse (tasso di sconto), fra la data del- lo sconto e alla
scadenza del credito. La banca divenuta titolare del credito, attende la scadenza per riscuotere il valore
nominale dal terzo debitore, se allo stesso tempo ha bisogno di liquidità può usa- re il credito presso un’altra
banca (risconto). Cessione pro solvendo e non pro soluto, la banca può esercitare le azioni cambiarie,

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compresa l’azione di regresso verso scontatario e l’azione causale, derivante dal rapporto di sconto, verso lo
scontatario.

È un contratto tipico e autonomo di credito, dato che la legge sulla cessione si applica per analogia,
integrando così la disciplina dello sconto.

8. Operazioni in conto corrente

L’art. 1852 c.c. prevede che il deposito bancario, l’apertura di credito e le altre operazioni bancarie possano
essere regolate in conto corrente, il correntista può disporre in qualsiasi momento delle somme, salvo
presenza termine preavviso eventualmente previsto. Ciò comporta due effetti essenziali: il deposito o
l’apertura di credito sono regolati nella forma tecnica, ma non con gli effetti, del conto corrente ordinario, la
somma degli accreditamenti e degli addebitamenti determina l’ammontare del credito di cui può disporre il
cliente; il cliente può disporre del credito non solo con i prelevamenti, ma anche con gli assegni bancari,
potendo anche alimentarlo con versamenti di assegni. Sul deposito e sull’apertura di credito si innesta
un’attività gestoria della banca per conto del cliente (SERVIZIO DI CASSA) riducibile al mandato senza
rappresentanza.

9. Conto corrente bancario

Si è sviluppato nella prassi bancaria e regolato dalle n.b.n., in cui il rapporto iniziale può essere costituito
indifferentemente da un deposito bancario o da un’apertura di credito, è alimentato da ogni altro credito o
concessioni dall’azienda di credito al correntista. Il servizio di cassa che la banca si impegna a svolgere per
conto del cliente assume un contenuto più ampio ed articolato; in particolare è tenuta ad eseguire ogni altro
ordine di pagamento (rimesse, bonifici, giroconti). I relativi importi sono addebitati in conto e riducono il
credito disponibile. La banca è anche tenuta a ricevere, per conto del correntista, tutti i versamenti disposti da
terzi e di svolgere azioni di riscossione di crediti. I relativi importi sono messi a disposizione del correntista
mediante accredito e alimentano il credito.

Gli elementi costitutivi sono: un rapporto iniziale di credito costitutivo della disponibilità; una com- ponente
gestoria, avente ad oggetto lo svolgimento del servizio di cassa, inquadrabile nel mandato generale con
oggetto specifico e la regolamentazione nella forma tecnica del conto corrente.

L’apertura del conto corrente, il cui contratto deve essere redatto per iscritto a pena di nullità, è ac-
compagnata dal rilascio del carnet di assegni, che il cliente deve costudire con diligenza. Il titolare

del conto deve depositare la firma, per l’autenticità della stessa di traenza degli assegni e altri ordini.

La banca risponde secondo le regole del mandato per l’esecuzione degli incarichi ricevuti dal correntista.

Tutti i movimenti derivanti da operazioni tra banca e cliente sono regolati mediante scritturazioni contabili:
gli addebiti riducono il credito disponibile, gli accrediti determinano un incremento del credito disponibile.
Le somme versate in contanti o accreditate sono subito disponibili, fino al successivo prelievo, tale regola
subisce un’eccezione per quelle operazioni che comportano una successiva attività d’incasso da parte della
banca (assegni, circolari, ecc.); per tali accreditamenti la disponibilità non può superare i quattro giorni
lavorativi successivi al versamento.

Considerando il saldo valute, che rileva solo il conteggio per interessi, ai singoli addebitamenti e
accreditamenti è attribuita una data convenzionale (valuta), diversa da quella dell’operazione; le valute
devono formare oggetto di pubblicità: per gli addebiti, la valuta non può precedere la giornata
dell’operazione, per gli accrediti non può essere successiva alla giornata in cui la banca riceve l’importo. Per
gli assegni vige una disciplina più articolata: per assegni bancari o assegni circolari emessi dalla stessa banca
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(stesso giorno del versamento), per assegni circolari emessi da un’altra banca, in Italia (un giorno lavorativo)
e per gli assegni bancari tratti dalla banca, in Italia (tre giorni).

Oggi le clausole che permettono una modifica unilaterale delle banche del tasso d’interesse sulla base delle
condizioni sugli “interessi uso piazza”, sono nulle, restano valide clausole di rinvio a criteri prestabiliti ed
oggettivamente individuabili; inoltre nelle operazioni in conto corrente è assicurata la periodicità nel
conteggio degli interessi debitori e creditori, in più l’attuale normativa stabilisce che nel conto corrente
l’accredito e l’addebito degli interessi avviene sulla base e con la periodicità indicate nel contratto.

Tale contratto è di regola a tempo indeterminato, facendo si che il cliente abbia il diritto di essere informato
sul rapporto, mediante invio dell’estratto conto. Il termine entro cui il cliente può porre opposizione scritta è
di sessanta giorni dal ricevimento dell’estratto conto.

Può essere intestato a più soggetti: se a firma disgiunta, gli intestatari sono creditori in solido e debitori in
solido; la banca si libera pagando uno di loro, inoltre rimangono obbligati in solido per eventuali scoperti,
anche se imputabili a solo uno di loro; se intestazione congiunta, gli atti di disposizione devono provenire da
tutti i cointestatari, i versamenti possono essere fatti anche separatamente. Inoltre, un soggetto può avere con
la banca più rapporti o conti, ma la banca opererà sul conto indicato dal cliente.

Essendo a tempo indeterminato, il conto corrente bancario, le parti possono recedere dando preavviso, di cui
quello della banca rende immediatamente esigibile il saldo passivo, anche se il conto corrente era assistito da
un’apertura di credito.

10. Garanzie bancarie omnibus

La fideiussione omnibus, regolata dalle n.b.n., è una garanzia personale che si caratterizza così essendo una
garanzia generale; assicura alla banca qualsiasi adempimento di obbligazioni del cliente.

Dal dibattito in dottrina, si rende nulla la garanzia per indeterminatezza dell’oggetto, ma con il nuovo art.
1938, deve essere stabilito l’importo massimo garantito. In deroga all’art. 1945, il fideiussore è tenuto a
pagare subito alla banca, a richiesta di quest’ultima, evitando le eccezioni per rifiuta- re di adempiere. Oggi
la fideiussione omnibus, non è configurabile come una garanzia personale autonoma rispetto all’obbligazione
garantita, ma l’obbligo di pagare a prima richiesta ha il valore di clausola di solve et repete: dopo il
pagamento il fideiussore può far valere tutte le eccezioni, con l’azione di ripetizione. L’art. 1956 stabilisce
che la preventiva rinuncia del fideiussore è invalida, se condizioni del debitore peggiorano, la banca non
potrà concedere credito se non per autorizzazione scritta del fideiussore.
Per rafforzare la tutela della banca introdotto il pegno omnibus, previsto dalle n.b.n., i beni in oggetto
possono garantire tutti i crediti, presenti e futuri, vantati nei confronti del cliente, la clausola che lo prevede è
inopponibile agli altri creditori.

11. Crediti documentari

È una particolare forma di pagamento a mezzo banca, diffusa nel commercio internazionale, disciplinata
dall’art. 1530 e dalle Regole ed Usi uniformi (UCP). Il compratore della merce (ordinante) incarica la
propria banca (emittente) di pagare il prezzo al venditore (beneficiario) o di negoziare cambiali, dietro
consegna di determinati documenti (fattura, ecc.).

C.d. revocabile, se banca si limita a comunicare al beneficiario l’apertura del credito, senza obblighi. C.d.
irrevocabile, la banca con apposita lettera di credito si obbliga verso il beneficiario a pagare o accettare le
tratte dello stesso, dietro concessione di documenti.

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Gianmarco Rubino
Studente di Giurisprudenza Uso personale
LUISS
LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

Nell’operazione interviene anche la banca del paese del beneficiario, dato il domicilio, questa banca definita
intermediaria, può limitarsi ad informare il beneficiario dell’apertura del credito o può obbligarsi anch’essa.
Tale situazione riproduce la delegazione: in particolare quella di pagamento nel credito documentario
revocabile e quella obbligatoria nel credito documentario irrevocabile.

Il venditore non può rivolgersi al compratore se non dopo il rifiuto opposto della banca o di una
contestazione; in quello irrevocabile la banca può opporre le eccezioni al venditore sull’incompletezza o
irregolarità dei documenti, per altri casi la banca non potrà opporre eccezioni di nullità del rapporto di
compravendita né la nullità sul mandato conferitole.

12. Garanzie bancarie autonome

Si tratta di garanzie con nomi diversi, congegnate a seconda dell’operazione garantita, la cui disciplina ha
due costanti: la banca garante si obbliga a pagare a prima richiesta; quindi, senza che il beneficiario debba
provare l’inadempimento della controparte o porre eccezioni sull’esigibilità del credito; e la banca si obbliga
a pagare anche se l’obbligazione non è venuta ad esistenza.

Si ha il distacco dal modello della fideiussione, la banca non solo copre l’inadempimento, ma assicura in
ogni caso la soddisfazione dell’interesse economico del beneficiario della garanzia, si par- la quindi di
contratto autonomo di garanzia.

13. I servizi di custodia

Il primo è il deposito di titoli in amministrazione, la banca oltre che alla loro custodia assume l’incarico di
provvedere all’esercizio di tutti i diritti inerenti ai titoli stessi, la banca diventa quindi sia depositario e
mandatario. Per gli atti di riscossione che non comportano scelte discrezionali, sono attuati dalla banca senza
sentire il cliente; per gli altri atti di amministrazione la banca deve chiedere istruzioni al cliente, in mancanza
la banca cura la vendita di diritti d’opzione per conto del cliente. Inoltre, il depositante deve pagare i servizi
di custodia e le commissioni, rimborsando le spese sostenute. È nullo il patto col quale si esclude la banca
dall’osservare l’ordinaria diligenza nell’amministrazione dei titoli.

Il secondo è le cassette di sicurezza, la banca mette a disposizione del cliente uno scomparto metallico, posto
in locali corazzati custoditi nella banca, munito di doppia chiave: una al cliente e una per la banca. La banca
non può assistere alle operazioni di immissione e prelievo, facendo si che il contenuto della cassetta resti
ignoto alla banca, la verifica è ammessa solo per ragioni di sicurezza. In caso di morte dell’intestatario, la
banca può consentire l’apertura della cassetta solo col consenso di tutti gli aventi diritto o ricorrendo
all’autorità giudiziaria. È prevista anche una procedura forza- ta di apertura (tramite pretore o notaio) se alla
scadenza del contratto l’utente non provvede a svuotarla e restituire le chiavi in suo possesso.
È un contratto con funzione tipica non identificabile né come deposito né come locazione. Inoltre, la banca
risponde illimitatamente, salvo caso fortuito o se riesce a fornire la prova positiva che un evento dannoso era
imprevedibile ed inevitabile con la diligenza professionale. Sull’utente incombe l’onere di provare il valore
del contenuto per determinare il risarcimento del danno. Su quest’ultimo punto si sono susseguite molte
modificazioni ed integrazioni legislative, arrivando a stabilire che l’utente è obbligato non conservare nella
cassetta cose con valore superiore ad un determinato importo, ma recentemente questa clausola è stata
dichiarata nulla; si è infatti riconosciuto che tale clausola integra un patto limitativo non dell’oggetto, ma del
debito risarcitorio della banca, an- ch’essa è nulla e non preclude la possibilità di chiedere il risarcimento
integrale del danno in caso di dolo o colpa grave della banca. Nullità quindi dovuta allo squilibrio che si
determina a carico del cliente.

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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA. I SERVIZI DI PAGAMENTO

1. Leasing

Il leasing o locazione finanziaria è una nuova tecnica contrattuale nata per far disporre alle imprese dei beni
strumentali per l’attività produttiva, senza essere costrette ad immobilizzare ingenti capitali per l’acquisto.
L’acquisto a rate non è sempre conveniente, dato che una volta finito il pagamento ci si può ritrovare
proprietari di un macchinario privo di valore per logoramento. Quindi nasce questa tipologia di contratto che

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Gianmarco Rubino
Studente di Giurisprudenza Uso personale
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intercorre fra un’impresa finanziaria specializzata e chi ha bisogno di strumenti per la propria impresa.
Godendo di agevolazioni fiscali, ha avuto una grande diffusione.

Leasing di impresa, ha per oggetto beni strumentali di impresa,


Leasing di consumo, ha per oggetto beni di consumo durevoli (automobili),
Leasing di beni immobili (stabilimenti industriali o studi professionali). 2. Leasing finanziario

Operazione trilaterale alla quale partecipano la società di leasing (concedente), impresa interessata
all’utilizzo del bene (utilizzatore) ed un’impresa che produce o distribuisce il bene stesso (fornitore).

L’impresa di leasing acquista il bene dal fornitore desiderato dall’utilizzatore e lo cede in godimento
stipulando un contratto che presenta i seguenti dati: il godimento è concesso per periodo di tempo
determinato che nel solo leasing coincide con la vita del bene, come corrispettivo del godimento
l’utilizzatore deve corrispondere un canone periodico e all’utilizzatore è riconosciuta la facoltà di acquistare
la proprietà del bene alla scadenza del contratto pagando un prezzo pre- determinato. Utilizzatore quindi ha
la facoltà di scegliere se acquistare il bene, restituirlo o rinnovare il contratto; diverso dalla locazione in
quanto, con apposite clausole, l’impresa di leasing pone a carico dell’utilizzatore tutti i rischi connessi al
godimento:
1) l’utilizzatore è tenuto a pagare i canoni anche in caso di mancata o ritardata consegna del bene da
parte del fornitore,
2) in deroga agli art. 1578 e 1579, l’utilizzatore non può invocare la garanzia per vizi nei confronti del
concedente;
3) in deroga all’art. 1588 l’utilizzatore è responsabile per la perdita o il perimento del bene anche se
dovuti a causa a lui non imputabile, dovrà finire di corrispondere i canoni pattuiti.

Sono clausole per assicurare all’impresa di leasing il recupero di quanto pagato al fornitore per l’acquisto del
bene e l’utilizzatore ha il diritto nei primi due casi precedenti di esercitare contro il fornitore le azioni che
spettano al concedente. Per leasing stipulati con consumatori, il consumatore può chiedere al finanziatore di
agire per la risoluzione del contratto, dovuto all’inadempimento del fornitore, si sospende il pagamento dei
canoni, il leasing si scioglie di diritto senza oneri o penalità.

Se l’inadempimento è dell’utilizzatore l’impresa di leasing: ha diritto di chiedere la risoluzione del contratto


anche in caso di mancato pagamento di un solo canone e ha diritto di trattenere integralmente i canoni
riscossi, salvo ulteriore risarcimento del danno; queste clausole derogano alla disciplina della vendita con
riserva di proprietà. Alla scadenza del contratto i canoni hanno un valore residuo minimo ed il pagamento
integrale dei canoni si giustifica con l’esigenza di assicurare al concedente il recupero del finanziamento con
gli interessi.

Cambia nel leasing di beni durevoli o nel leasing di immobili, non essendoci coincidenza tra la durata del
leasing e quella del bene, il quale conserva un valore finale non trascurabile; il bene è vendibile a terzi. In
questo modo il concedete riscuote più di quanto avrebbe fatto con la esecuzione regolare del contratto.
Nel leasing di godimento, l’art.1526 non è applicabile, così l’impresa può trattenere i canoni ri- scossi ed
esigere gli altri ed il prezzo d’opzione.
Nel leasing traslativo, si applica per analogia l’art.1526: l’utilizzatore dovrà corrispondere un equo compenso
per l’uso ed il risarcimento dei danni nella misura quantificata dal giudice. Nei contratti più recenti si
prevede che l’utilizzatore ha diritto alla restituzione del ricavato della vendita, dedotto quanto ancora dovuto
per le rate a scadere.

In caso di fallimento, dell’utilizzatore si applica la regola generale secondo cui il contratto rimane sospeso
finché il curatore non decide di subentrare e risolverlo, ma ci può essere anche esercizio provvisorio salvo
decisione contraria del curatore. Il curatore fa diventare il concedente creditore della massa, va soddisfatto
prima, ma se si opta per lo scioglimento del contratto, il concedente ha diritto alla restituzione del bene,
trattenendo i canoni, può inoltre, per il credito vantato, inserirsi nel passivo; il concedente può trattenere dal
ricavato la somma pari al proprio credito residuo in via ca- pitale e dovrà restituire l’eccedenza durante il
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fallimento. Per il fallimento del concedente, c’è la prosecuzione del contratto, l’utilizzatore può acquistare il
bene alla scadenza, previo pagamento dei canoni e del prezzo pattuito.

Nel leasing operativo, i beni sono concessi in godimento direttamente dal produttore, che si obbliga anche a
fornire dei servizi collaterali (assistenza, ecc.). Tale contratto ha per oggetto beni strumentali, come
macchine fotocopiatrici o calcolatori, la sua durata è più breve della vita del bene e i canoni sono calcolati
per il valore d’uso; rientra nello schema della locazione e c’è applicazione art. 1526.

Nel leaseback, un imprenditore vende i propri beni ad una società di leasing che ne paga il prezzo, inoltre
stipula un contratto col venditore ad oggetto gli stessi beni, i quali rimarranno nella diponibilità del
venditore, che pagherà i canoni di leasing e potrà riacquistarli alla scadenza esercitando l’opzione. Dal
dibattito su questo istituto è dedotto che il leaseback è nullo per violazione del divieto del patto commissorio,
ma si è affermato che: il leaseback non si identifica con la vendita a scopo di garanzia, nel primo manca un
credito preesistente da garantire, inoltre il bene resta nella disponibilità del venditore; nel leaseback l’importo
del credito garantito è di regola proporzionale al valore del bene trasferito in proprietà all’impresa. Nullità si
potrà avere solo quando risulti una sproporzione fra credito garantito e valore del bene trasferito.

2. Il factoring

Attuato da imprese specializzate nella gestione dei crediti d’impresa e che offrono con un unico contratto di
durata (contratto di factoring) tutti i relativi servizi: tenuta della contabilità, gestione dell’incasso dei crediti,
eventuale concessione di anticipazioni sull’importo dei crediti, eventuale assunzione a proprio carico del
rischio di insolvenza. Il cliente può fruire di tutte o alcune di queste prestazioni, pagando per ciascuna delle
commissioni.

In Italia il factoring è strutturato sulla base della cessione del credito. Disciplinato dalla legge 52/1991,
successivamente viene dettata una disciplina pubblicistica per l’attività di factoring. Si può parlare di
cessione globale dei crediti pecuniari futuri, servono dei presupposti: il cedente è un imprenditore, i crediti
ceduti sorgono da contratti stipulati dal cedente, il cessionario è una banca o un intermediario finanziario.

Quindi l’imprenditore cedente cede in massa al factor tutti i suoi crediti, il factor a sua volta si obbliga a
gestire e riscuotere i crediti cedutigli. Deve essere specificato il (futuro) debitore ceduto e dovrà riguardare
solo crediti sorti nei successivi ventiquattro mesi. Il fornitore dovrà consegnare al factor tutti i documenti
probatori dei crediti cedutigli.

La cessione avviene di regola pro solvendo: il cedente garantisce la solvenza del debitore ceduto, può
tuttavia rinunciare alla garanzia di solvenza sarà così cessione pro soluto. Il factor può concedere
anticipazioni sull’ammontare dei crediti ceduti, conteggiando gli interessi per il tempo dell’anticipazione.

L’opponibilità ai terzi della cessione è svincolata dalla necessità della notifica giudiziale quando: il factor ha
pagato, in tutto o in parte, il corrispettivo della cessione ed il pagamento da data certa anteriore al titolo
d’acquisto degli aventi causa del cedente, al pignoramento o al fallimento.

3. La cartolarizzazione dei crediti

L’istituto cartolarizzazione dei crediti si fonda sulla cessione globale di crediti al fine di facilitare lo
smobilizzo di masse di crediti.

L'emittente i titoli, risponde del pagamento degli stessi esclusivamente con il flusso finanziario derivante dai
crediti che sono a base dell'operazione di cartolarizzazione e quindi non già con tutto il suo patrimonio.

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Gianmarco Rubino
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Sugli investitori viene a gravare il rischio dell'eventuale insolvenza dei debitori originari.

La cartolarizzazione è utilizzata dalle banche per smobilizzare masse di crediti in sofferenza ed è


realizzabile, secondo due modalità:
a) cessione dei crediti ad una società veicolo che li acquista finanziandosi con i titoli emessi sul
mercato e vincola al pagamento degli stessi solo la massa dei crediti ceduti;
b) cessione dei crediti ad un fondo comune di investimento chiuso avente per oggetto crediti

La prima tecnica, è stata prescelta come modello base dalla disciplina.

I caratteri essenziali dell'operazione di cartolarizzazione dei crediti, possono essere così fissati:
a) la cessione a titolo oneroso di crediti pecuniari esistenti o futuri, ad una società di capitali che ha per
oggetto esclusivo la realizzazione di operazioni di cartolarizzazione;
b) l'emissione da parte di tale società, di titoli di credito destinati a finanziare l'acquisto del portafoglio
crediti ceduto;
c) la destinazione esclusiva da parte della società cessionaria delle somme corrisposte dai debitori
ceduti al soddisfacimento dei diritti incorporati nei titoli emessi per finanziare l'acquisto dei relativi
crediti, nonché al pagamento dei costi dell'operazione.

I titoli emessi sono qualificati come strumenti finanziari. Se destinati ad essere collocati fra il pubblico,
troverà applicazione la disciplina dell'offerta al pubblico di prodotti finanziari con obbligo della società
cessionaria o della società emittente, di redigere il prospetto informativo dell'operazione di cartolarizzazione.

La redazione del prospetto informativo, è tuttavia prescritta anche quando i titoli sono destinati ad essere
offerti ad investitori professionali.

Solo quando i titoli sono offerti a investitori non professionali l'operazione di cartolarizzazione deve essere
sottoposta a valutazione del merito di credito da parte di operatori terzi (agenzie di rating).

I titoli emessi dalla società di cartolarizzazione sono, titoli di massa che incorporano un diritto di credito e
sono pertanto inquadrabili fra i titoli obbligazionari. Sono sottratti alla disciplina delle obbligazioni di società
ed in particolare ai limiti di emissione rapportati al capitale sociale.

I crediti relativi a ciascuna operazione costituiscono patrimonio separato da quello della società e da quello
relativo alle altre operazioni.

Su ciascun patrimonio non sono ammesse azioni da parte di creditori diversi dai portatori dei titoli emessi per
finanziare l'acquisto dei crediti stessi.

La cessione diventa perciò efficace nei confronti del debitore ceduto con la semplice pubblicazione nella
Gazzetta ufficiale della notizia dell'avvenuta cessione,

Da tale data, sulle somme corrisposte dai debitori ceduti, sono ammesse solo azioni a tutela dei di- ritti dei
portatori dei titoli. I portatori dei titoli sono pienamente tutelati in caso di fallimento dei debitori ceduti in
quanto i pagamenti da questi effettuati alla società cessionaria non sono sotto- posti a revocatoria
fallimentare

4. Il credito al consumo

Il ricorso al credito per l'acquisto di beni o servizi destinati al consumo è fenomeno diffuso che può assumere
forme diverse (concessione di dilazioni di pagamento da parte dello stesso fornitore, come nella vendita a
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rate) perciò da tempo era emersa, l'esigenza di una disciplina specifica per tali forme di credito volta a
tutelare i consumatori, contraenti deboli, sia in sede di valutazione del- le condizioni praticate sia, durante lo
svolgimento del rapporto.

Da ciò si muove la disciplina del credito al consumo.

Costituisce credito al consumo la concessione, di credito sotto forma di dilazione di pagamento, di


finanziamento o di altra facilitazione finanziaria a favore di un consumatore ovvero di una persona fisica che
agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta. L'esercizio del
credito al consumo è riservato alle banche, agli intermediari finanziari e ai soggetti autorizzati alla vendita di
beni o servizi, tuttavia dalla disciplina sono esonerati alcuni rapporti, quali: i finanziamenti di importo
inferiore a 200 euro o superiore a 75.000; quelli destinati ad operazioni su immobili o strumenti finanziari; i
contratti di somministrazione, di appalto o di locazione, ma non quelli di leasing.

Per consentire al consumatore la piena conoscenza dell'onere economico del finanziamento, la pub- blicità
deve in ogni caso indicare, il tasso annuale effettivo globale (Taeg) ed il relativo periodo di validità.

Il Taeg è il costo totale del credito per il consumatore espresso in percentuale annua dell'importo totale del
credito e comprende gli interessi e tutti gli oneri da sostenere per utilizzare il credito. Obblighi
precontrattuali di informazione e di consulenza gravano inoltre sul finanziatore o l'intermediario del credito
affinché il consumatore, riceva le informazioni necessarie per confrontare le diverse offerte di credito sul
mercato e valutare.

Il contratto di credito al consumo, deve essere redatto per iscritto a pena di nullità, una copia deve essere
consegnata al consumatore e il contratto deve contenere a pena di nullità l'indicazione del tipo, delle parti e
dell'importo totale del finanziamento con le condizioni di prelievo e di rimborso.

Deve inoltre stabilire la durata, gli oneri e il Taeg a carico del consumatore: qualora le relative clausole
contrattuali manchino o siano nulle, esse sono sostituite di diritto secondo i criteri fissati dalla legge.

La durata è fissata in trentasei mesi, il Taeg equivale al tasso nominale minimo dei buoni del tesoro annuali
emessi nei dodici mesi precedenti la conclusione del contatto e nessuna altra somma è dovuta dal
consumatore a titoli di interessi o altri oneri. In caso di nullità del contratto, il cliente è tenuto a restituire solo
le somme utilizzate senza pagare interessi o altri oneri, e può farlo anche a rate con la stessa periodicità
prevista nel contratto, o in mancanza in trentasei mesi.

Il consumatore può liberamente recedere dal contratto di credito entro quattordici giorni dalla sua
conclusione. In tal caso deve restituire entro trenta giorni il capitale e pagare gli interessi maturati. Il
finanziatore non può imporre oneri ulteriori per il recesso, inoltre nei contratti a tempo indeterminato, il
consumatore può recedere in ogni momento senza penalità e senza spese. Il contratto può stabilire un termine
di preavviso non superiore ad un mese.

Per il recesso del finanziatore non può essere pattuito un preavviso inferiore a due mesi.

La disciplina del credito al consumo è completata da una serie disposizioni che tutelano il consumatore
durante lo svolgimento del rapporto e infatti si prevede fra l'altro, che:
a) in caso di modifica unilaterale delle condizioni contrattuali da parte del finanziatore, il cliente può
recedere con applicazione delle condizioni precedentemente praticate in ossequio allo ius variandi;
b) il consumatore ha la facoltà di adempiere anticipatamente ed in tal caso ha diritto ad un'equa
riduzione del costo complessivo del credito:
c) qualora il finanziatore ceda il credito, il consumatore può sempre opporre al cessionario tutte le
eccezioni che poteva far valere nei confronti del cedente, compresa la compensazione;
d) in caso di inadempimento del fornitore, il consumatore può risolvere il contratto ed ottenere dal
finanziatore il rimborso delle rate già pagate e di ogni altro onere applicato. La relativa azione può
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essere esercitata anche contro il terzo al quale il finanziatore abbia ceduto i diritti derivanti dal con-
tratto di concessione del credito

5. I servizi di pagamento. Le carte di credito. La moneta elettronica.

L'espressione "servizi di pagamento" indica prestazioni rese da un intermediario professionale che si


interpone fra il pagatore ed il beneficiario di una somma di denaro.

Le prestazioni possono consistere in semplici rimesse di denaro perciò l'intermediario riceve i fondi dal
pagatore al solo scopo di trasferire un ammontare corrispondente al beneficiario.

Oppure possono essere basate su una disponibilità esistente su un conto tenuto dal pagatore presso
l'intermediario: esecuzioni di ordini di pagamento, come bonifici.

O infine prestazioni di pagamento che si basano su strumenti di pagamento emessi o acquisiti dal-
l'intermediario, come le carte di credito trilaterali o la moneta elettronica.

Alcuni "servizi di pagamento" sono tradizionalmente resi dalle banche, altri si sono sviluppati più di recente
grazie all'evoluzione delle prassi commerciali (carte di credito) e della tecnologia informatica (moneta
elettronica) perciò fa si il d.lgs. 27-1-2010, n. 11 ha introdotto una disciplina generale dei servizi di paga
mento, volta a stabilire princìpi comuni per questo genere di attività. Restano esclusi dall'ambito di
applicazione del decreto, i pagamenti effettuati in contanti e senza alcuna intermediazione, nonché i
pagamenti di titoli di credito (assegni, cambiali) ed una serie di ulteriori attività (cambiavalute, carte di
credito bilaterali).

La prestazione di servizi di pagamento è riservata alle banche, ed agli istituti di pagamento.

Gli istituti di pagamento sono società di capitali o cooperative autorizzate alla prestazione di servizi di
pagamento ed attività accessorie, iscritti nell'apposito albo tenuto dalla Banca d’Italia. Essi non possono
concedere crediti, se non in stretta relazione ai servizi di pagamento prestati e nei limiti fissati dalla Banca
d'Italia. Non è necessario che l'istituto svolga esclusivamente attività di prestazione di servizi di pagamento,
infatti la Banca d'Italia può autorizzare anche società che esercitino contestualmente altre attività
imprenditoriali, purché per l'attività relativa ai servizi di pagamento sia costituito un patrimonio destinato.

Le somme detenute dagli istituti di pagamento nei conti aperti presso di loro dai clienti per l'esecuzione di
operazioni di pagamento (conti di pagamento) sono investite in attività che costituisco- no un patrimonio
distinto da quello dell'istituto di pagamento: tali attività non sono esposte alle azioni esecutive di altri
creditori.

Fra prestatore e utilizzatore di servizi di pagamento è in genere stipulato un contratto quadro (quale può
essere lo stesso contratto di conto corrente bancario, il conto pay-pal, ecc.) volto a regolare le condizioni
generali del rapporto nell'ambito del quale si inseriranno i singoli ordini di paga- mento.

Per il contratto quadro valgono regole analoghe dei contratti bancari: forma scritta a pena di nullità operante
soltanto a vantaggio del cliente; obbligo di indicare il tasso di interesse ed ogni altro prezzo o condizione
praticati, altrimenti si applicano le condizioni contrattuali fissate per legge.

Il contratto può attribuire al prestatore di servizi di pagamento il diritto di modificarne unilateralmente le


condizioni, ma la modifica deve essere comunicata con almeno due mesi di anticipo al cliente, il quale ha
facoltà di recedere senza spese prima dell'applicazione delle nuove condizioni. I tassi di interesse e di cambio
praticati possono invece essere modificati con effetto immediato e senza preavviso in conseguenza della
variazione dei tassi di riferimento convenuti, se il contratto così prevede.

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L'utilizzatore di servizi di pagamento ha sempre facoltà di recedere dal contratto senza penalità e senza
spese.

Il prestatore può invece recedere solo se previsto dal contratto e con due mesi di preavviso.

La Banca d'Italia disciplina le informazioni che il prestatore deve fornire all'utilizzatore di servizi di
pagamento prima della stipula del contratto quadro e durante lo svolgimento del rapporto.

Ogni operazione di pagamento deve essere autorizzata dal pagatore nelle forme e con le procedure
concordate con il prestatore del servizio di pagamento.

In caso di contestazione, la prova dell'autorizzazione è a carico di quest’ultimo (prestatore).

I pagamenti non autorizzati non possono essere addebitati al cliente o devono essere rimborsati
immediatamente dal prestatore del servizio, salvo il risarcimento dell'ulteriore danno.

Il cliente ha l'onere di comunicare senza indugio al proprio prestatore di servizi di pagamento le operazioni
di pagamento non autorizzate o eseguite in modo inesatto di cui venga a conoscenza, per ottenerne la
rettifica.

La comunicazione va effettuata nei termini convenuti fra le parti, non superiori comunque a tredici mesi
dalla data di addebito o accredito del pagamento.

Non è necessario che l'ordine di eseguire il pagamento sia impartito direttamente dal pagatore; que- sti può
anche autorizzare il prestatore del servizio ad eseguire pagamenti su richiesta prove- niente dal beneficiario,
come avviene in caso di addebito diretto del corrispettivo di una somministrazione (acqua, luce, gas,
telefono, ecc.) o delle rate di un leasing.

Utilizzatore e prestatore del servizio possono inoltre pattuire che l'ordine di pagamento sia impartito dal
cliente per mezzo di uno strumento di pagamento, cioè di un dispositivo personalizzato e/o di un insieme di
procedure concordate. Sono strumenti di pagamento le carte di credito trilaterali, il borsellino elettronico, il
bancomat, ma anche i codici e le password per disporre via internet, o tele- fono ecc.

L'attuale disciplina stabilisce i diritti ed obblighi del cliente in caso di utilizzo indebito da parte di terzi dello
strumento di pagamento.

L'utilizzatore di uno strumento di pagamento è tenuto ad adottare le misure idonee a garantire la sicurezza
dei relativi dispositivi personalizzati in suo possesso.

In caso di smarrimento, furto, appropriazione indebita o uso non autorizzato dello strumento di paga mento,
deve comunicarlo senza indugio al prestatore del servizio, non appena venutone a conoscenza.

Ricevuta la denuncia, il prestatore del servizio deve impedire qualsiasi utilizzo dello strumento di
pagamento, perciò il cliente non risponde dei pagamenti non autorizzati avvenuti dopo.

In caso di furto o smarrimento dello strumento di pagamento il cliente può invece essere chiama- to a
rispondere dell'utilizzo indebito dello stesso avvenuto prima della richiesta di blocco; però, se ha agito senza
dolo o colpa grave ed ha adottato le misure idonee a garantire la sicurezza dei dispositivi usati, la
responsabilità a suo carico è limitata ad un massimo di centocinquanta euro.

Il mero fatto che sia stato registrato l'uso dello strumento di pagamento in una transazione non è
necessariamente sufficiente a dimostrare che l'operazione è stata debitamente autorizzata dall'utilizzatore,
qualora egli lo neghi.

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L’ordine di pagamento non è più revocabile dal pagatore dopo che è stato ricevuto dal prestatore del servizio.

Se l'operazione di pagamento deve essere avviata in un giorno convenuto, l'ordine si intende ricevuto dal
prestatore del servizio nella medesima giornata operativa concordata per l'esecuzione, ed è revocabile entro
la fine della giornata operativa precedente.

Lo stesso vale pure per gli addebiti diretti da effettuare in un giorno convenuto.

Il prestatore del servizio di pagamento deve assicurare che l'importo dell'operazione venga accreditato o
messo a disposizione del beneficiario entro la fine della giornata operativa successiva a quella in cui ha
ricevuto l’ordine.

Il prestatore di servizi del pagatore è responsabile della mancata o inesatta esecuzione dell'ordine di
pagamento ricevuto, salvo caso fortuito, forza maggiore o impedimenti derivanti da obblighi di legge però
può liberarsi, dimostrando che il fatto è imputabile al prestatore di servizi del beneficia- rio, ad esempio per
la non corretta trasmissione dell'ordine o ritardo nel rendere disponibile la somma ricevuta, e in tale caso,
quest'ultimo risponde nei confronti del proprio cliente e gli mette a disposizione l'importo del pagamento.

Nessuna responsabilità incombe sul prestatore del servizio se il pagamento non è andato a buon fine a causa
di erronee indicazioni fornite dal cliente stesso. In questa circostanza, se il prestatore del servizio ha
realizzato l'operazione conformemente all'identificativo unico ricevuto (ovvero alle indicazioni date dal
cliente), egli ha adempiuto correttamente i suoi obblighi, ed è solo tenuto a compiere sforzi ragionevoli per
cercare di recuperare i fondi oggetto del pagamento.

Le carte di credito sono documenti (sotto forma di tessere) che consentono al titolare di acquistare beni o
servizi senza pagamento immediato del prezzo. Esse costituiscono uno strumento convenzionale di
pagamento, che consente al titolare di godere anche di una breve dilazione. Le carte di credito possono essere
distinte in due grandi categorie: carte bilaterali e carte trilaterali.

Le carte di credito bilaterali sono rilasciate dalle stesse imprese fornitrici di beni o servizi e con- sentono di
effettuare acquisti in tutti i punti di vendita dell'emittente, con differimento del pagamento del prezzo. Le
somme dovute sono pagate periodicamente dall'acquirente, previo invio da parte del fornitore di un estratto
conto con l'indicazione dell'importo dei singoli acquisti. Le carte di credito bilaterali, per la loro limitata
utilizzabilità, sono escluse dall'applicazione della disciplina generale dei servizi di pagamento

Più note sono le carte di credito trilaterali (Visa, Mastercard) che sono emesse da imprese specializzate nella
gestione di tale servizio di pagamento.

L'emittente la carta di credito, paga ai fornitori quanto loro dovuto dai titolari della carta per merci o servizi
acquistati a scadenze periodiche si fa poi rimborsare da questi ultimi.

Per il servizio reso percepisce un compenso sia dai fornitori sia dagli acquirenti.
Il meccanismo delle carte di credito trilaterali è reso possibile da una serie di convenzioni tipo che l'emittente
stipula preventivamente con i fornitori (convenzione di abbonamento) e con gli utilizzatori della carta
(convenzione di rilascio).

Con la convenzione di abbonamento l'esercizio convenzionato si obbliga verso l'emittente a forni- re ai


titolari della carta i beni e servizi chiestigli, senza pretendere il pagamento immediato. L'emittente a sua volta
si obbliga a pagare al fornitore il relativo importo, decurtato di una percentuale (di- saggio) a titolo di
compenso per il servizio.
Il pagamento è effettuato dietro presentazione di un documento firmato dal titolare della carta, nel quale sono
riportati gli estremi dell'operazione conclusa.

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Con la convenzione di rilascio il titolare della carta è legittimato, dietro pagamento di un canone annuo, ad
utilizzare la stessa per effettuare acquisti presso gli esercizi convenzionati senza paga- mento del prezzo.

La carta ha di regola validità triennale ed è rinnovata tacitamente alla scadenza per eguale pe- riodo.

Essa deve essere utilizzata solo dal titolare, ma è previsto il rilascio di carte supplementari a favore di altre
persone.

L'emittente si obbliga a pagare per conto del titolare gli importi corrispondenti, risultanti dalle note di spesa
inviategli dagli esercizi convenzionati.

Il titolare a sua volta si obbliga a rimborsare mensilmente all'emittente quanto pagato per suo conto, dietro
invio dell'estratto conto del periodo.

Il rimborso da parte del titolare può avvenire con versamento diretto (mediante invio di segno bancario) o
anche mediante addebito del relativo importo in un conto corrente bancario preventivamente indicato dallo
stesso.

Con una specifica convenzione può essere inoltre pattuito rimborso rateale (c.d. carte di credito revolving).

L'ordine di pagamento attiva il complesso degli effetti programmati nelle convenzioni di base e che
possono essere così ricostruiti:
a) l'emittente si sostituisce al titolare della carta nel pagamento del debito di questi verso il fornito- re;
b) il fornitore può richiedere il pagamento esclusivamente all'emittente poiché, accettando il
regolamento mediante carta, rinunzia al pagamento da parte dell'acquirente;
c) col pagamento l'emittente estingue il debito dell’acquirente verso il fornitore ed acquista il diritto di
conteggiare al titolare della carta il pagamento eseguito per suo conto;
d) il credito dell'emittente verso il titolare della carta diventa tuttavia esigibile solo a scadenze
periodiche, per effetto del differimento pattuito con la convenzione di rilascio.

Si è in presenza di una vicenda trilaterale che, riproduce i meccanismi della delegazione di pagamento.

Sono così ridotti i rischi degli spostamenti materiali di danaro, con vantaggio sia per gli esercizi
convenzionati sia per i titolari della carta poiché i primi conseguono in tempi brevi il prezzo della merce
venduta e i secondi sono sollevati dal rischio di portare danaro contante con se. Il rischio dell'emittente di
non recuperare le somme anticipate è in parte coperto dai compensi percepiti per il servizio.

La moneta elettronica è un valore monetario rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente.

La sua emissione avviene dietro versamento da parte del richiedente dell'importo corrispondente, più una
commissione (fissa o in percentuale) per remunerare il servizio. L'emittente "carica" l'importo disponibile su
una tessera di plastica dotata di banda magnetica o microprocessore (c.d. borsellino elettronico), mediante la
quale è possibile effettuare pagamenti presso gli esercizi commerciali convenzionati. Presso questi ultimi è
presente un apposito apparecchio, denominato POS (Point of Sale), in grado di leggere la carta e scalare,
l'importo dovuto.

L'esercente comunica quindi all'emittente la quantità di moneta elettronica accumulata dal POS, per
ottenerne il pagamento.

Il borsellino elettronico si differenzia dalle carte di credito in quanto si tratta di una carta "prepagata". Sono
così ridotti i rischi di uso abusivo della carta, dato che è possibile caricare di volta in volta sulla stessa solo la
quantità di moneta elettronica necessaria per effettuare gli acquisti o le spese previsti.

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La moneta elettronica può essere emessa senza il supporto materiale di una carta, e la relativa disponibilità
viene memorizzata in un computer o nel telefono cellulare del richiedente.

Il detentore della moneta elettronica può chiedere il rimborso in ogni momento al valore nominale, entro
l'ordinario termine decennale di prescrizione.

L’emissione di moneta elettronica è riservata agli istituti di moneta elettronica (IMEL), nonché alle banche,
alle Poste italiane e alcune pubbliche autorità. Gli IMEL sono società di capitali o cooperative iscritte in un
apposito albo tenuto dalla Banca d'Italia e soggette alla vigilanza della stessa. An- che per gli istituti di
moneta elettronica opera la regola di segregazione dei fondi dei clienti: le somme ricevute dalla clientela a
fronte dell'emissione di moneta elettronica sono investite in attività che costituiscono un patrimonio distinto
da quello dell'IMEL. Non sono pertanto esposte alle azioni esecutive dei creditori dell'istituto, ma solo a
quelle dei creditori dei clienti nei limiti dell'importo spettante a ciascun cliente.

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CAPITOLO DICIOTTESIMO
L’ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE

1. Nozione

L’associazione in partecipazione è il contratto con il quale una parte (associante) attribuisce all’altra
(associato) una partecipazione agli utili della sua impresa (art. 2549).

L’associazione in partecipazione non dà vita alla formazione di un patrimonio comune né ad attività


economica giuridicamente comune, ma solo a rapporti interni tra gli stessi. L’apporto dell’associato entra
infatti a far parte del patrimonio dell’associante. L’associante inoltre fa propri gli utili dell’impresa o
dell’affare, salvo l’obbligo di corrispondere all’associato la quota di utili pattuita e di restituirgli l’apporto.

Tanto emerge chiaramente dalla seppur scarna disciplina dell’associazione in partecipazione. È opinione
corretta che, nonostante il nome, l’associazione in partecipazione sia da inquadrare nei contratti di scambio a
carattere aleatorio e non tra i contratti associativi. Non mancano tuttavia posizioni contrarie.

2. Disciplina

Nell’associazione in partecipazione, l’attività di impresa o l’affare dedotto in contratto sono e restano


imputabili al solo associante. Infatti:
a) I terzi acquistano diritti ed assumono obbligazioni soltanto verso l’associante (art. 2251)
b) La gestione dell’impresa o dell’affare spettano esclusivamente allo stesso associante (art. 2552 1°
comma)

Naturalmente, nulla impedisce che l’associante attribuisca all’associato il potere di compiere atti di impresa
in suo nome e per suo conto ma in tal caso si ha un distinto rapporto contrattuale che si affianca
all’associazione in partecipazione.

Estremamente limitati sono i poteri di controllo che la legge riconosce all’associato. Egli ha diritto al
rendiconto dell’affare compiuto o al rendiconto annuale. I poteri di controllo dell’associato comunque
possono essere ampliati.

Se non è stabilito diversamente, la quota di utili spettante all’associato è proporzionale al valore dell’apporto.
Inoltre, salvo patto contrario, l’associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili.
Le perdite che colpiscono l’associato non possono però superare il valore del suo apporto (art. 2553)

Il contratto di associazione in partecipazione può essere stipulato con una pluralità di associati. È però
richiesto il consenso dei precedenti associati (art. 2550).

Questa duplice possibilità è stata sfruttata verso la fine degli anni ’70 soprattutto da società immobiliari. E
ciò attraverso l’emissione di titoli di credito di massa all’ordine rappresentativi dei diritti degli associati ad
un determinato affare.

Si trattò però di esperienze poco felici per gli investitori.


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Fu comunque proprio l’esperienza dei certificati immobiliari ad evidenziare la necessità di una adeguata
regolamentazione dell’attività di raccolta del risparmio mediante l’emissione di titoli di credito di massa
atipici, cioè diversi dalle azioni e dalle obbligazioni). In base alla disciplina originaria del codice, l’apporto
dell’associato poteva consistere nell’obbligo di prestare la propria attività lavorativa nell’impresa
dell’associante. Per questo motivo, il legislatore ha limitato con la l. 92/2012 l’ammissibilità
dell’associazione con apporto di lavoro e poi nel 2015 ha optato per la soluzione drastica ossia si stabilisce
che l’apporto non possa consistere nemmeno in parte in una prestazione di lavoro.

PARTE SECONDA
I TITOLI DI CREDITO

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CAPITOLO DICIANNOVESIMO
I TITOLI DI CREDITO IN GENERALE

1. Premessa

I titoli di credito sono documenti destinati alla circolazione che attribuiscono il diritto ad una determinata
prestazione.

- Titoli di credito in senso stretto: la prestazione può consistere nel pagamento di una somma di
denaro.
- Titoli di credito rappresentativi di merci: può consistere anche nel diritto alla riconsegna di merci
depositate o viaggianti
- Titoli di partecipazione: rappresentano una situazione giuridica complessa ed i relativi diritti
- Titoli individuali: tra i titoli di credito ce ne sono alcuni che vengono di regola emessi per ognuno
per una distinta operazione economica
- Titoli di massa: altri rappresentano frazioni di uguale valore nominale di una unitaria operazione
economica di finanziamento ed attribuiscono ciascuno uguali diritto
- Titoli causali: alcuni titoli presuppongono un ben determinato rapporto giuridico e solo in base a tale
rapporto possono essere emessi.
- Titoli astratti: per altri invece il rapporto giuridico che dà luogo alla loro emissione può variamente
atteggiarsi.

Alcune leggi speciali già regolavano prima dell’emanazione del codice civile (e regolano tuttora) alcune
figure tipiche dei titoli di credito: cambiale, assegno bancario e circolare, titoli azionari.

Il codice civile del 1942 ha introdotto una disciplina generale dei titoli di credito. È necessario individuare
quale sia la funzione essenziale e costante dei titoli di credito e quali i principi giuridici cardine che tale
funzione consentono di realizzare. È necessario dunque capire perché cambiali, assegni, azioni, obbligazioni,
titoli del debito pubblico, fedi di deposito, polizze di credito e così via sono tutti titoli di credito.

2. Funzione e caratteri essenziali dei titoli di credito

I titoli di credito svolgono un ruolo essenziale in una moderna economia basata sui titoli di credito. La loro
funzione è quella di rendere più semplice la circolazione del credito.

Le regole di circolazione più semplici e sicure sono certamente quelle previste per i beni mobili, la cui
proprietà si trasferisce ex art. 1376 c.c con il semplice consenso. Allora, se il problema è quello di rendere
più semplice e sicura la circolazione della ricchezza immateriale, la soluzione è quella di creare un modello
alternativo alla circolazione del credito.

La finzione giuridica consiste nel ritenere che oggetto di circolazione sia il documento (cosa mobile) anziché
il diritto in esso menzionato mentre in realtà è l’opposto. Tale collegamento si esprime sinteticamente

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affermando che nel titolo di credito il diritto è incorporato nel documento e si concretizza in 4 principi
cardine fissati dalla disciplina generale dei titoli di credito.

a) Chi acquista la proprietà del documento diventa titolare del diritto. È questo il principio che consente
di neutralizzare il più grave dei rischi della cessione del credito; il rischio cioè che chi trasferisce il
credito non sia titolare dello stesso.
b) Chi acquista un titolo di credito acquista un diritto il cui contenuto è determinato esclusivamente dal
tenore letterale del documento. Sono questi i principi della letteralità e dell’autonomia in sede di
esercizio del diritto cartolare fissato dall’art. 1993.
c) Chi ha conseguito il possesso materiale del titolo di credito nelle forme prescritte dalla legge è
senz’altro legittimato all’esercizio del diritto cartolare. Può cioè pretendere dal debitore la
prestazione senza essere tenuto a provare l’acquisto della proprietà del titolo. È questa la funzione di
legittimazione del titolo di credito fissato dall’art. 1992. Funzione non esclusiva dei titoli di credito
ma che contribuisce a rendere più semplice e rapida la circolazione e l’esercizio del credito.
d) I vincoli sul diritto menzionato in un titolo di credito (pegno, sequestro, pignoramento) devono
essere effettuati sul titolo e non hanno effetto se non risultano dal titolo.

Nel titolo di credito il collegamento tra documento e diritto opera non solo in sede di costituzione, di prova e
di esercizio del dritto ma anche in sede di circolazione (incorporazione).

Dunque in sintesi si può dire che il titolo di credito è un documento necessario e sufficiente per la
costituzione, la circolazione e l’esercizio del diritto letterale ed autonomo in essa incorporato.

3. La creazione del titolo di credito: rapporto cartolare e rapporto fondamentale

La creazione ed il rilascio di un titolo di credito trovano giustificazione in un preesistente rapporto tra


emittente e primo prenditore (c.d. Rapporto fondamentale o causale) ed in un accordo tra gli stessi con cui si
conviene di fissare nel titolo di credito la prestazione dovuta dal primo al secondo in base a tale rapporto. Ad
esempio, in una vendita con pagamento differito si pattuisce che il compratore rilasci al venditore un
“pagherò” cambiario.

I titolo di credito riproduce in forma semplificata e schematizzata secondo le indicazioni prescritte dalla
legge l’obbligazione derivante dal rapporto fondamentale.

La dichiarazione risultante dal titolo di credito costituisce il rapporto cartolare ed il diritto della stessa
riconosciuto al prenditore del titolo il diritto cartolare destinato a circolare.

L’emissione di un titolo di credito produce effetti diversi a seconda che si consideri l’immediato prenditore
del titolo od il terzo portatore.

Se l’adempimento è richiesto dal primo prenditore, il debitore può certamente opporgli tutte le eccezioni
derivanti dal rapporto fondamentale trattandosi di eccezioni a lui personali (art. 1993). Se il rapporto ha
invece circolato e l’adempimento è richiesto da un terzo, la situazione cambia: scattano infatti a favore del
terzo possessore i principi di letteralità ed autonomia.

Questo dualismo di effetti è fuori contestazione e trova giustificazione nel fatto che letteralità ed autonomia
del diritto cartolare sono principi posti a tutela della circolazione del credito.

Vi è chi ritiene che già per il primo prenditore il titolo di credito abbia valore costitutivo di un rapporto
cartolare distinto dal rapporto fondamentale. In breve secondo questa ricostruzione l’emittente si trova ad
essere obbligato due volte nei confronti dell’immediato prenditore. Naturalmente non si contesta che il primo
prenditore ha diritto ad essere pagato un a sola volta e non potrà ricevere mai più di quanto dovuto in base al
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rapporto fondamentale. Vi è pertanto chi ritiene che l’emissione del titolo di credito dia vita alla costituzione
di un rapporto cartolare.

È invece fuori contestazione che nei confronti del terzo acquirente l’emittente resta obbligato solo in base al
rapporto cartolare in quanto il trasferimento del titolo non comporta di per se cessione del credito derivante
dal rapporto fondamentale.

4. Titoli di credito astratti e causali

Sono titoli di credito astratti quelli che possono essere emessi in base ad un qualsiasi rapporto fondamentale
e che inoltre non contengono alcuna menzione del rapporto che in concreto ha dato luogo alla loro
emissione.

Sono invece titoli causali quelli che possono essere emessi solo in base ad un determinato tipo di rapporto
fondamentale predeterminato per legge. Sono titoli di credito causali: le azioni e le obbligazioni di società, le
quote di partecipazione a fondi comuni di investimento, i titoli rappresentativi di merce.

Nei titoli astratti il contenuto del diritto cartolare è determinato esclusivamente dalla lettera del titolo: in essi
manca ogni riferimento al rapporto fondamentale che ha dato luogo all’emissione. Nei rapporti tra emittente
e terzo prenditore resta perciò preclusa in radice ogni possibilità di fare riferimento ad altre fonti
regolamentari.

Nei titoli causali il contenuto del diritto cartolare è determinato non solo dalla lettera del titolo ma anche
dalla disciplina legale del rapporto obbligatorio tipico richiamato nel documento. E ciò anche se tale
disciplina non è riprodotta nel titolo ma anche dalla disciplina legale. Questi titoli per tanto si definiscono a
letteralità incompleta o anche per relationem.

Eccezion fatta per i titoli azionari, è invece oggi pacifico che anche ai titoli causali è pienamente applicabile
il principio dell’autonomia del diritto cartolare in sede di esercizio. Il rapporto cartolare resta indipendente
dal rapporto fondamentale ed al terzo portatore non sono opponibili le eccezioni derivanti da quest’ultimo
rapporto in quanto in eccezioni fondate sui rapporti personali.

Qualche ulteriore puntualizzazione è invece necessaria per i titoli rappresentativi di merce. Questi titoli
attribuiscono al possessore:
a) Il diritto alla consegna delle merci che sono in essi specificate
b) Il possesso delle medesime
c) Il potere di disporne mediante il trasferimento del titolo
Rappresentando quindi strumenti per la circolazione documentale di merci viaggianti.

Orbene, il vettore o il depositario potranno opporre al terzo portatore che chiede la riconsegna che la merce
indicata nel titolo non gli è stata mai consegnata o è difforme da quella ricevuta per il trasporto o in custodia?
E se si, deve ritenersi che per tali motivi di credito non opera il principio dell’autonomia del diritto cartolare?
La risposta affermativa al primo quesito non è affermativa. Si ritiene infatti che anche i rischi ex recepto
ricadano sull’emittente del titolo rappresentativo.

Inoltre anche chi propende per la soluzione affermativa ha chiarito che l’opponibilità delle eccezioni ex
recepto non contrasta con l’autonomia del rapporto cartolare rispetto a quello sottostante. È solo conseguenza
della natura di cosa determinata della prestazione promessa. Resta perciò fuori contestazione l’inopponibilità
al terzo possessore di ogni altra eccezione desunta dalla disciplina convenzionale del rapporto di trasporto e
deposito.

5. La circolazione dei titoli di credito


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Titolare del diritto cartolare è il proprietario del titolo. Legittimato al suo esercizio è invece il possessore del
titolo.

 Si ha circolazione regolare quando il titolo viene trasferito dall’attuale proprietario ad altro soggetto
in forza di un valido negozio di trasmissione che di regola trova fondamento in un preesistente
rapporto causale tra le parti. Il contratto con cui si trasferisce la proprietà di un titolo di credito si
perfeziona con il semplice consenso o è a tal fine essenziale anche l’investitura nel possesso
qualificato? In breve, si tratta di un contratto consensuale o reale?

La prima soluzione, tuttora prevalente, è preferibile. D’altro canto, argomenti decisivi in senso
contrario non sono offerti dalla formulazione letterale delle norme che regolano la circolazione dei
titoli di credito (artt. 2003, 2011 e 2022); norme che invece sono invocate da chi sostiene che i
contratti traslativi dei titoli di credito sono contratti reali o quantomeno esclude che il semplice
consenso sia sufficiente a perfezionare il trasferimento della proprietà del titolo. Si deve perciò
correttamente ritenere che nella circolazione regolare il solo consenso è sufficiente per il
trasferimento della proprietà.
 Veniamo alla circolazione irregolare. Essa si ha quando la circolazione del titolo non è sorretta da un
valido negozio di trasferimento. Chi ha perso il possesso del titolo contro la sua volontà non è
ovviamente senza tutela. Potrà esercitare azione di rivendicazione nei confronti dell’attuale
possessore e riottenere così il documento necessario ai fini della legittimazione. Inoltre potrà anche
avvalersi della procedura di ammortamento. Tutto ciò fino a quando il titolo non pervenuta nelle
mani di un terzo di buona fede.

Stabilisce infatti l’art. 1994 che chi ha acquistato in buona fede il possesso di un titolo di credito in
conformità delle norme che ne disciplinano la circolazione non è soggetto a rivendicazione, vale a
dire, diventa anche proprietario del titolo e titolare del diritto cartolare.

Più esattamente perché si perfezioni l’acquisto a non domino di un titolo di credito devono ricorrere tre
presupposti:
a) Un negozio astrattamente idoneo a trasferire la proprietà del titolo
b) L’investitura dell’acquirente nel possesso del titolo con l’osservanza delle formalità
prescritte dalla relativa legge di circolazione
c) La buona fede dell’acquirente cioè l’ignoranza non dovuta a colpa grave

Si tenga infine presente che i titoli di credito possono circolare anche secondo i meccanismi di diritto
comune. In tal caso però oggetto immediato del trasferimento è il diritto cartolare e non la proprietà del
titolo.

6. La legge di circolazione. I titoli al portatore

In base alla legge di circolazione i titoli di credito si distinguono in titoli al portatore, all’ordine e nominativi.

In tutte e tre la legittimazione presuppone il possesso del titolo, nei titoli all’ordine e nominativi il possesso
deve essere però integrato da indicazioni nominative risultanti dal titolo. I titoli al portatore sono perciò
definiti titoli a legittimazione reale. I titoli all’ordine e nominativi sono invece titoli a legittimazione
nominale.

Sono al portatore i titoli di credito che recano la clausola “al portatore”. I titoli al portatore circolano
mediante la semplice consegna del titolo. Il possessore è legittimato all’esercizio del diritto in essi
menzionato in base alla sola presentazione del titolo al debitore.

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L’emissione di titoli di credito al portatore è ammessa solo nei casi stabiliti dalla legge. Possono essere al
portatore: gli assegni bancari, le azioni di risparmio, l’obbligazione di società, le azioni di Sicav e di Sicaf, le
quote di partecipazione a fondi comuni, i titoli del debito pubblico.

7. I titoli all’ordine

I titoli all’ordine sono titoli intestati ad una persona determinata. Essi circolano mediante consegna del titolo
accompagnata dalla girata.

La girata è una dichiarazione scritta sul tutolo e sottoscritta, con la quale l’attuale possessore (girante) ordina
al debitore cartolare di adempiere nei confronti di altro soggetto (giratario).

La girata può essere in pieno o in bianco.

 È piena quando contiene il nome del giratario (art. 2009).


 È in bianco quando non contiene il nome del giratario.

Chi riceve un titolo girato in bianco può a) riempire la girata con il proprio nome b) girare di nuovo il titolo
in pieno o in bianco c) trasmettere il titolo ad un terzo senza riempire la girata.

In quest’ultimo caso la circolazione successiva avviene mediante semplice consegna manuale del titolo.

La girata non può essere sottoposta a condizioni e qualsiasi condizione apposta si considera non scritta.

Effetto costante della girata è quello di mutare la legittimazione dell’’esercizio del diritto cartolare.

Quando vi sono state più girate, l’attuale possessore del titolo si legittima in base ad una serie continua di
girate.

Di regola la girata non ha funzione di garanzia. Salvo diversa disposizione di legge o clausola contraria
risultante dal titolo, il girante non assume alcun a obbligazione cartolare: non è responsabile verso i giratari
successivi.

Il giratario acquista nei confronti dell’emittente un diritto letterale ed autonomo ed è di ebola libero di
trasferire ulteriormente il tutolo. Il codice regola però due tipi di girata con effetti limitati: la girata per
incasso o per procura (art. 2013) e la girata a titolo di pegno (art. 2014).

 Nella girata per procura, il giratario assume la veste di rappresentante per l’incasso del girante.
Titolare del credito cartolare resta il girante ed il giratario non acquista alcun diritto autonomo.
 La girata a titolo di pegno attribuisce al giratario un diritto di pegno sul titolo. Il giratario perciò
acquista un diritto autonomo sia pur limitato.

8. I titoli nominativi

I titoli nominativi sono titoli intestati ad una persona determinata. Essi si caratterizzano per il fatto che
l’intestazione deve risultare non solo dal titolo ma anche da un apposito registro tenuto dall’emittente.

Possono essere titoli nominativi le obbligazioni e le quote di partecipazione a fondi comuni di investimento.
La nominatività è inoltre obbligatoria per le azioni diverse da quelle di risparmio e delle Sicav e delle Sicaf.

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Complesse sono invece le procedure per il trasferimento della legittimazione nei titoli nominativi: è in ogni
caso necessaria la cooperazione dell’emittente. La doppia annotazione del nome dell’acquirente può avvenire
secondo due diverse procedure.

Una prima procedura prevede il cambiamento contestuale delle due intestazioni.

Il transfert può essere richiesto sia dall’alimentante sia dall’acquirente. L’alienante deve esibire il titolo e
deve provare la propria identità e la propria capacità di disporre. L’acquirente che richiede il transfert deve
invece esibire il titolo e deve inoltre dimostrare il suo diritto. Più snella e diffusa è dunque la seconda forma
di trasferimento prevista per i titoli nominativi. Nel trasferimento per girata la doppia annotazione è eseguita
da soggetti diversi ed in tempi diversi.

La girata dei titoli nominativi è assoggetta a particolari regole di forma e produce effetti diversi dalla girata
dei titoli all’ordine. La girata deve essere datata, deve contenere l’indicazione del giratario e deve essere
sottoscritta anche da quest’ultimo.

Nettamente diversi sono gli effetti della girata dei titoli nominativi. La girata infatti attribuisce al possessore
solo la legittimazione ad ottenere la legittimazione, ad ottenere cioè l’annotazione del trasferimento nel
registro dell’emittente.

Regole analoghe valgono per la costituzione dei diritti reali limitati e di vincoli sul credito (art. 2024). La
costituzione in legno può però farsi anche mediante consegna del tutolo, girato con la clausola in garanzia o
altra equivalente (art. 2026), cui dovrà seguire l’annotazione del vicolo nel registro dell’emittente.

9. L’esercizio del diritto cartolare. La legittimazione

La disciplina dei titoli di credito si caratterizza per la notevole semplificata delle modalità di esercizio del
diritto.

Stabilisce il primo comma dell’art. 1992 che il possessore di un titolo di credito ha diritto alla prestazione in
esso indicata verso presentazione del titolo. Nel contempo, il debitore che senza dolo o colpa grave adempie
la prestazione nei confronti del possessore è liberato anche se questi non è il titolare del diritto (art. 1992, 2°
comma). Il debitore è liberato non solo quando ignora il difetto di titolarità del legittimato ma anche quando
non disponga di mezzi di prova pronti e sicuri per contestare il difetto di titolarità.

Questa disciplina comporta poi che salvo i casi tassativamente previsti in cui la legge consente di dissociare
l’esercizio del diritto dal possesso del titolo, il debitore può rifiutare il pagamento allo stesso titolare che ha
perduto il possesso del titolo.

In breve, il possesso qualificato del titolo è, di regola, condizione non solo sufficiente ma anche necessaria
per l’esercizio del diritto cartolare da parte dello stesso titolare.

10. Le eccezioni cartolari

L’art. 1993 pone i principi della letteralità e dell’autonomia del diritto cartolare. Le eccezioni cartolari si
distinguono in due grandi categorie: eccezioni reali ed eccezioni personali.

Danno luogo ad eccezioni reali:


a) Le eccezioni di forma, vale a dire la mancata osservanza dei requisiti formali
b) Le eccezioni fondate sul contesto letterale del titolo
c) La falsità della firma
d) Il difetto di capacità o di rappresentanza al momento dell’emissione del titolo
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e) La mancanza delle condizioni necessarie per l’esercizio dell’azione

Sono invece eccezioni personali tutte le eccezioni diverse da quelle reali. Rientrano in particolare:
1) Le eccezioni derivanti dal rapporto fondamentale che ha dato luogo all’emissione del titolo
2) Le eccezioni fondate su altri rapporti personali con i precedenti possessori
3) L’eccezione di difetto di titolarità del diritto cartolare, opponibile al possessore del titolo che non ne
ha acquistato la proprietà o l’ha successivamente persa

Le eccezioni di cui ai punti 1 e 2 di definiscono eccezioni personali fondate su rapporti personali, mentre
invece quella di cui al punto 3 eccezione personale in senso stretto.

Per le eccezioni personali in senso stretto, è applicabile la regola dettata dall’art. 1994 per l’acquisto a non
domino. L’eccezione di difetto di titolarità è quindi opponibile nei confronti di tutti i successivi possessori in
malafede o colpa grave.

Condizioni più gravose sono invece richieste per l’opponibilità ai successivi possessori delle eccezioni
personali fondate su rapporti personali. È questa la c.d. Exceptio doli, che richiede non solo la conoscenza
(mala fede) o conoscibilità (colpa grave) De-‘eccezione ma una situazione più grave: il dolo, ossia un
accordo fraudolento.

11. L’ammortamento

A favore di colui che ha perso il possesso del titolo e la legittimazione sono apprestati rimedi che consentono
di svincolare l’esercizio del diritto dal possesso del titolo.
Per i titoli all’ordine e nominativi è previsto l’istituto dell’ammortamento (artt. 2016-2020 e 2027). È questo
uno speciale procedimento diretto ad ottenere la dichiarazione giudiziale che il titolo originario non è più
strumento di legittimazione.

La procedura per l’ammortamento è ammessa solo in caso di smarrimento, sottrazione o distruzione del
titolo.

La procedura di ammortamento inizia con la denuncia al debitore della perdita del titolo e con il contestuale
ricorso dell’ex possessore al presidente del tribunale del luogo in cui il titolo è pagabile.

Il presidente del tribunale pronuncia con decreto l’ammortamento. Il debitore non può però pagare neppure
all’ammortante prima che siano decorsi 30 giorni dalla pubblicazione.

Si apre così un ordinario giudizio di cognizione che ha per oggetto l’accertamento della proprietà del titolo e
si chiude con la revoca del decreto se l’opposizione è accolta. Se invece l’opposizione è respinta il decreto di
ammortamento diventa definitivo ed il titolo è consegnato al ricorrente (art. 2017 2° comma).

Il decreto di ammortamento diventa definitivo anche se non è proposta opposizione nei termini. In tal caso
però il titolo è privato solo della funzione di legittimazione.

La procedura di ammortamento non è ammessa per i titoli al portatore salvo alcune eccezioni tassativamente
previste.

Il possessore del titolo al portatore che ne provi la distruzione ha tuttavia diritto ad ottenere dall’emittente il
rilascio di un duplicato o di un titolo equivalente (art. 2007).

Nel caso invece di smarrimento o sottrazione del titolo chi ha subito tali eventi e li abbia denunziati
all’emittente, dandone la prova, ha diritto alla prestazione decorso il termine di prescrizione del titolo (art.
2006).
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LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

12. Documenti di legittimazione e titoli impropri

I titoli di credito vanno tenuti distinti dai documenti che hanno solo una funzione di legittimazione. L’art.
2002 prevede due categorie di tali documenti: i documenti di legittimazione ed i titoli impropri.

I documenti di legittimazione servono solo ad identificare l’avente diritto alla prestazione. Questi documenti
legittimano il possessore semplicemente come titolare originario del diritto.

I titoli impropri consentono il trasferimento del diritto senza l’osservazione delle forme proprie della
cessione ma con gli effetti di quest’ultima.

I titoli impropri agevolano la circolazione in quanto dispensano il cessionario dalla formalità della notifica
del debitore.

Ai documenti di legittimazione ed ai titoli impropri non è perciò applicabile la disciplina dei titoli di credito
(art. 2002). È applicabile, meglio, solo l’art. 1992:
a) Il possessore di tali documenti è dispensato dal provare la titolarità del diritto originaria o la qualità
di cessionario
b) Il debitore che, senza dolo o colpa grave, adempie la prestazione nei confronti del possessore del
documento, è liberato anche se questi non è titolare del diritto

13. Dematerializzazione e gestione accentrata dei titoli di massa. Rinvio

La circolazione documentale non è senza pericoli dato il rischio di smarrimento o di furto dei titoli.
Il sistema di gestione accentrata di strumenti finanziari rappresentati da titoli risponde alla necessità di
rendere più sicuro il mercato dei titoli di massa a larga diffusione.

6) L’attività di gestione accentrata di strumenti finanziari di emittenti privati è esercitata da apposite


società a statuto speciale che operano come depositario centrale dei titoli sotto la vigilanza della
Consob e della Banca d’Italia

7) Sono ammessi al sistema azioni ed altri strumenti finanziari di emittenti privati

8) La gestione accentrata dei titoli di Stato è affidata sempre alla Monte Tioli ed è disciplinata dal
Ministro dell’economia.

9) Le modalità di funzionamento del sistema di gestione accentrata sono diverse a seconda che gli
strumenti finanziari immessi possono o meno essere rappresentati da titoli in base alla disciplina
della dematerializzazione.

Questo sistema consente di sostituire la circolazione documentale dei titoli volontariamente immessi nella
gestione con una circolazione dematerializzata fondata su scritture contabili poste in essere dal depositario
centrale. L’ accredito contabile è cioè equiparato ex lege al trasferimento materiale del titolo e determina
l’acquisto di un diritto cartolare autonomo di parte del beneficiario dell’ordine.

Nel contempo l’esercizio dei diritti cartolari è svincolato dall’esibizione dei titoli custoditi dal depositario.
Questo sistema non comporta tuttavia la soppressione materiale dei titoli. Una vera e propria
dematerializzazione dei titoli di massa è stata invece introdotta dal d.lgs.213/1998 per alcune categorie di
strumenti finanziari. In base alla attuale disciplina non possono più essere rappresentati da titoli e sono
invece immessi nel sistema in regime di dematerializzazione:
a) I valori mobiliari italiani negoziati in mercati italiani o europei
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Gianmarco Rubino
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b) Quelli emessi da società aventi strumenti finanziari diffusi tra il pubblico secondo i criteri individuati
da Consob
c) Le obbligazioni e gli altri titoli di debito per i quali l’importo dell’emissione sia superiore a 150
milioni di euro

L’emissione e la circolazione degli strumenti finanziari avviene esclusivamente attraverso il sistema di


gestione accentrata. Infatti, pur mancando un espresso rinvio a tale disciplina, come per la gestione non
dematerializzata si stabilisce che:
a) Effettuata la registrazione, il titolare del conto ha la legittimazione piena ed esclusiva all’esercizio
dei diritti relativi agli strumenti finanziari in esso registrati e può disporne in conformità con quanto
previsto dalle norme vigenti in materia
b) Colui il quale ha ottenuto la registrazione a suo favore in base a titolo idoneo e in buona fede non è
soggetto a pretese o azioni da parte dei precedenti titolari
c) L’emittente potrà opporre al soggetto in favore del quale è avvenuta la registrazione solo le eccezioni
personali al soggetto stesso e quelle comuni a tutti gli altri titolari degli stessi diritti.
d) I vincoli sugli strumenti finanziari dematerializzati si costituiscono unicamente con le registrazioni
in apposito conto tenuto dall’intermediario.

Ne consegue che nonostante la soppressione del titolo di credito come documento, sopravvivono i secolari
principi ispiratori della disciplina dei titoli di credito.

CAPITOLO VENTESIMO
LA CAMBIALE

1. Cambiale tratta e vaglia cambiario

La cambiale è un titolo di credito la cui funzione tipica è quella di differire il pagamento di una somma di
denaro attribuendo nel contempo al prenditore la possibilità di monetizzare agevolmente il credito concesso
con il trasferimento del titolo.

Essa è regolata dal R.D. 1669/1993.

Esistono due tipi di cambiali: la cambiale tratta ed il vaglia cambiario.

Nella cambiale tratta, una persona (traente) ordina ad un’altra persona (trattario) di pagare una somma di
denaro al portatore del titolo. Perciò la cambiale tratta ha la struttura di un ordine di pagamento. In essa
figurano tre persone: il traente che dà l’ordine e per legge garantisce l’accettazione ed il pagamento del
titolo, il trattario che è il destinatario dell’ordine di pagamento e che diventa obbligato cambiario ed
obbligato principale solo in seguito alla accettazione, il prenditore che è il beneficiario dell’ordine di
pagamento.

Il vaglia cambiario ha invece struttura di una promessa di pagamento. In esso figurano solo due persone:
l’emittente che promette il pagamento ed il prenditore che è il beneficiario della promessa di pagamento.

La cambiale tratta ed il vaglia cambiario pur diversi per struttura presentano alcuni caratteri fondamentali
comuni:
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a) La cambiale è un titolo di credito all’ordine, circola quindi mediante girata


b) La cambiale è un titolo astratto. Può essere emessa anche se manca un preesistente debito del traente
o dell’emittente nei confronti del prenditore.
c) La cambiale è un titolo rigorosamente formale
d) La cambiale è un titolo che può incorporare e di regola incorpora una pluralità di obbligazioni:
quelle del traente, dell’accettante, dei giranti, dei loro avallanti e dell’accettante per intervento nella
cambiale tratta; quelle dell’emittente, deo giranti e dei loro avallanti nel vaglio cambiario. Gli
obbligati cambiari sono obbligati in solido verso il portatore del titolo ma nel contempo sono disposti
per gradi e distinti per legge in obbligati diretti ed in obbligati di regresso.
e) La cambiale è un titolo esecutivo ed è assistita da particolari agevolazioni processuali in modo da
consentire al portatore un pronto soddisfacimento in caso di mancato pagamento.

2. I requisiti formali della cambiale

La cambiale è redatta su appositi moduli prestampati predisposti dall’amministrazione finanziaria. Il modulo


bollato è qualificabile come cambiale solo se contiene determinate indicazioni fissate dagli artt. 1 e 100 della
legge cambiaria (rispettivamente per cambiale tratta e vaglio cambiario). Sono questi i requisiti formali della
cambiale, la cui mancanza comporta che il titolo non vale come cambiale (artt. 2 e 101). Tuttavia, mentre
alcune di tali indicazioni sono indispensabili (requisiti essenziali) altre possono anche mancare (requisiti
naturali).

Sono requisiti formali:


1) La denominazione di cambiale inserita nel contesto del titolo ed espressa nella lingua in cui è redatto
il testo
2) L’ordine incondizionato nella cambiale tratta (pagherete a…) o la promessa incondizionata del tratto
cambiario (pagherò a…) di pagare una somma determinata, espressa in lettere o in cifre. In caso di
discordanza, prevale la somma scritta in lettere. Se la somma è scritta più volte, vale la somma
minore.
3) L’indicazione nella cambiale tratta nel nome di chi è destinato a pagare (trattario) nonché il luogo e
data di nascita ovvero il codice fiscale dello stesso.
4) L’indicazione nel vaglia cambiario del luogo e della data di nascita ovvero del codice fiscale
dell’emittente
5) Il nome del primo prenditore
6) La data di emissione della cambiale
7) La sottoscrizione del traente o dell’emittente

A differenza di tutti gli altri requisiti, la sottoscrizione deve essere autografa (apposta manualmente dal
traente o dall’emittente).

Sono requisiti formali naturali della cambiale


1) L’indicazione della scadenza, che può essere omessa ed in tal caso la cambiale si considera pagabile
a vista
2) L’indicazione del luogo dove la cambiale è emessa. In mancanza, la cambiale è sottoscritta nel luogo
indicato accanto al nome del traente (art. 2 4° comma) o dell’emittente (art. 101 4° comma).
3) L’indicazione del luogo di pagamento. In mancanza, la cambiale tratta è pagabile nel luogo indicato
accanto al nome del trattario (art. 2 3° comma); il vaglia cambiario nel luogo di emissione del titolo
(art. 101 3° comma).

Non costituisce requisito di validità della cambiale il pagamento, all’atto dell’emissione, dell’imposta
proporzionale di bollo. La mancanza o L’ insufficienza originaria del bollo privano però la cambiale della
qualità di titolo esecutivo (art. 104). La successiva regolarizzazione fiscale è comunque necessaria affinché il
portatore possa esercitare in giudizio i diritti cambiari, ferma restando la perdita della qualità di titolo
esecutivo.
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3. La cambiale in bianco

Il titolo privo di alcuno dei requisiti essenziali indicati nel paragrafo precedente non vale come cambiale.
Eccezion fatta per la sottoscrizione del traente o dell’emittente non è però necessario che tutti i requisiti siano
presenti all’atto dell’emissione del titolo.

La cambiale che circola sprovvista di uno o più requisiti essenziali si chiama cambiale in bianco. E perché si
possa parlare di titolo di credito cambiario sia pure in bianco basta la sola sottoscrizione autografa apposta
sull’usuale modulo bollato o anche su un qualsiasi foglio di carta che porti la denominazione cambiale.

Di regola, l’emissione della cambiale in bianco è accompagnata da un accordo di riempimento fra emittente e
primo creditore. All’emissione della cambiale in bianco si ricorre infatti quando alcuni dati cambiari non
sono attualmente determinabili.

Chi rilascia una cambiale in bianco resta esposto al rischio che la stessa sia riempita dal prenditore. Il rischio
è ben più grave se l’immediato prenditore, dopo aver completato il titolo in difformità degli accordi, lo giri
ad un terzo.

Il portatore decade dal diritto di riempire la cambiale in bianco dopo tre anni dal giorno dell’emissione del
titolo. Il riempimento tardivo non è però opponibile al portatore di buona fede.

Ma la disciplina fin qui esposta è applicabile anche quando sia mancato del tutto un accordo di riempimento
tra emittente e primo prenditore? Si potrebbe obiettare, come è stato obiettato, che in questo caso la
situazione è diversa in quanto manca la volontà della destinazione al riempimento; la volontà di dar vita ad
una cambiale. Se ne è dedotto che la cambiale incompleta è nulla dato che il testo cambiario non è
imputabile alla volontà del sottoscrittore. La relativa eccezione sarebbe perciò reale e non personale e
pertanto opponibile dal sottoscrittore del titolo incompleto.

È questa però una soluzione che contrasta con le esigenze di tutela della circolazione della cambiale
completata e col dettato dell’art. 14 legge cambiaria. Il dato normativo non distingue infatti tra cambiale in
bianco e cambiale meramente incompleta ma attribuisce rilievo solo al dato oggettivo.

Tutto ciò significa che la sottoscrizione di un modulo cambiario è estrinsecazione necessaria e sufficiente
della volontà di obbligarsi cambiariamente. Tanto basta perché l’emittente resti obbligato nei termini
oggettivi del testo cambiario successivamente completato.

Ne consegue un importante corollario. I requisiti formali di validità della cambiale non possono essere tutti
elevati a requisiti formali di validità della singola dichiarazione cambiaria, ma requisito di forma in senso
proprio è solo il rispetto delle regole fissate dall’art. 8 per la sottoscrizione cambiaria.

Requisiti sostanziali di validità sono solo la capacità al momento dell’emissione del titolo o, se la firma è
apposta da un Rappresentante, che questi abbia i necessari poteri sempre al momento dell’emissione.

In sintesi, per aversi valida assunzione di obbligazione cambiaria basta che il modulo cambiario, sia pure
incompleto, sia sottoscritto, nelle forme previste dall’art. 8, da una persona capace di agire al momento
dell’emissione del titolo.

4. Capacità e rappresentanza cambiaria

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L’assunzione di obbligazione cambiaria costituisce sempre atto eccedente l’ordinaria amministrazione. Il


rappresentante legale può assumere obbligazioni cambiarie in loro nome solo previa autorizzazione del
giudice tutelare.

Per l’inabilitato ed il minore emancipato non autorizzato all’esercizio di impresa commerciale è previsto che
la loro firma sia accompagnata da quella del curatore.

L’obbligazione cambiaria può essere assunta anche a mezzo rappresentante. Questi deve far risultare dal
titolo tale sua qualità utilizzando la formula “per procura”. Regole specifiche sono dettate dalla legge
cambiaria in tema di interpretazione della procura generale (art. 12) e di rappresentanza senza poteri (art. 11).

In merito al primo punto la soluzione è diversa a seconda che il rappresentato sia o meno imprenditore
commerciale. Per contro, il rappresentante generale di chi non è imprenditore commerciale non può
assumere obbligazioni cambiarie salvo prova contraria.

In merito al secondo punto, l’art. 11 l. camb. Introduce una vistosa deroga alla disciplina di diritto comune
(art. 1398 c.c.). Infatti, il rappresentante cambiario senza poteri è per legge obbligato cambiariamente come
se avesse firmato in proprio.

Il rappresentante senza poteri che ha pagato ha gli stessi diritti che avrebbe avuto il preteso rappresentato.
Può cioè agire cambiariamente nei confronti degli eventuali obbligati cambiari di grado anteriore.

5. Le obbligazioni cambiarie

La cambiale è un titolo di credito destinato ad incorporare più obbligazioni. Nasce con l’obbligazione del
traente. Le obbligazioni cambiarie sono rette da alcuni principi peculiari.

Innanzitutto, l’invalidità della singola obbligazione cambiaria non incide sulla validità delle altre. Il principio
è fissato dall’art. 7 della legge cambiaria: “se una cambiale contiene firme di persone incapaci di obbligarsi
cambiariamente, firme false o di persone immaginarie, ovvero firme che per qualsiasi altra ragione non
obbligano le persone che hanno firmato la cambiale o con il nome delle quali essa è stata firmata, le
obbligazioni degli altri firmatari restano tuttavia valide.

Inoltre, tutti gli obbligati cambiari sono obbligati in solido nei confronti del portatore del titolo alla scadenza
(art. 54) che perciò può chiedere a ciascuno di essi il pagamento dell’intera somma cambiaria.
Nei confronti del portatore del titolo gli obbligati cambiari sono distinti in due categorie: obbligati diretti ed
obbligati di regresso. L’azione nei confronti dei primi non è subordinata a particolari formalità. L’azione nei
confronti dei secondi presuppone invece il verificarsi di determinate condizioni sostanziali. Sono obbligati
diretti: l’emittente, l’accettante ed i loro avallanti. Sono obbligati di regresso: il traente, i giranti, i loro
avallanti e l’accettante per intervento.

Diversa è anche la posizione degli obbligati cambiari nei rapporti reciproci. Nei rapporti interni infatti gli
obbligati cambiari sono disposti per gradi, secondo un ordine tassato per legge. Nella cambiale tratta
accettata, obbligato di primo grado è l’accettante, obbligato di secondo grado è il traente, obbligato di terzo
grado è il primo girante e seguono poi nell’ordine i successivi giranti. Nel vaglio cambiario, obbligato di
primo grado è sempre l’emittente, seguono poi i giranti nell’ordine sopra indicato.

L’avallante assume invece un grado cambiario immediatamente successivo a quello dell’obbligato per il
quale l’avallo è stato dato.

La graduazione delle obbligazioni cambiarie comporta che, se paga l’obbligato di primo grado, tutti gli altri
sono liberati non solo nei confronti del portatore ma anche nei rapporti interni. Per contro, il pagamento
effettuato da un obbligato di grado intermedio libera definitivamente solo quelli di grado successivo, dato
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che il solvens ha azione cambiaria per il recupero dell’intera somma pagata nei confronti degli obbligati di
grado anteriore.

6. L’accettazione della cambiale

L’accettazione è la dichiarazione con la quale il trattario si obbliga a pagare la cambiale alla scadenza. Con
l’accettazione il trattario diventa obbligato principale (di primo grado) e diretto (art. 33 2° comma).

La presentazione della cambiale per l’accettazione costituisce di regola una facoltà del portatore del titolo ed
il traente può anche vietare che la cambiale sia presentata per l’accettazione.

La presentazione per l’accettazione è tuttavia obbligatoria a) nella cambiale a certo tempo vista b) quando la
presentazione per l’accettazione è prescritta dal traente o da un girante con eventuale fissazione del termine
(art. 27).

L’accettazione deve essere scritta sulla cambiale ed è espressa con le parole “accetto”, “visto” ecc. Vale
come accettazione anche la semplice sottoscrizione del trattario. L’accettazione deve essere incondizionata.
Può essere però limitata ad una parte della somma (art. 31 1° comma) ed in tal caso il portatore potrà agire
anticipatamente contro gli obbligati di regresso per la parte residua.

L’accettazione diventa definitiva con la restituzione del titolo al portatore e prima di tale momento può
essere sempre revocata mediante cancellazione. Nondimeno, il trattario che ha dato notizia scritta
dell’accettazione al portatore o ad un firmatario qualsiasi, resta obbligato nei loro confronti nonostante la
cancellazione.

Il rifiuto di accettazione della cambiale espone gli obbligati di regresso al pagamento prima della scadenza.
Per evitare questa conseguenza la legge prevede l’istituto dell’accettazione per intervento (art. 75-77). In
caso di rifiuto da parte del trattario, l’accettazione può essere cioè fatta da un terzo.

L’accettante per intervento non diventa in alcun caso obbligato principale. Egli è infatti obbligato nello
stesso modo di colui per il quale interviene e, nel silenzio, l’accettazione si reputa data per il traente.

7. La cessione della provvista

Per ovviare al problema della insicurezza della posizione del portatore, è stato introdotto l’istituto della
cambiale tratta garantita mediante cessione di credito derivante da forniture.
Istituto che consente di realizzare un collegamento automatico tra circolazione del titolo e circolazione del
credito di provvista.

La realizzazione di tale risultato è però subordinata ad una serie di condizioni:


a) La relativa clausola di cessione può essere apposta dal traente solo nella cambiale tratta non
accettabile
b) La cessione può avere per oggetto solo un credito derivante da fornitura di merci che il traente ha
versato il trattario e nei limiti dell’importo della cambiale.
c) La clausola di cessione deve contenere a pena di nullità la data ed il numero della fattura relativa
della fornitura di merci
d) La cessione può avvenire solo a favore di una banca ma giova a tutti i successivi giratari

La cessione diventa efficace con la notifica al trattario e da tale momento questi può pagare solo al portatore
della cambiale. Il portatore della cambiale, elevato il protesto per mancato pagamento, può esercitare i diritti
contro il trattario derivanti dalla cessione della provvista contestualmente all’esercizio dell’azione cambiaria
verso il traente e gli altri obbligati.
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8. L’avallo

L’avallo (art. 35 1° comma l.camb.) è una dichiarazione cambiaria con la quale un soggetto garantisce il
pagamento della cambiale per tutta o parte della somma. L’avallo è una tipica garanzia cambiaria. Esso deve
risultare dal titolo e dal foglio di allungamento ed è espresso con le parole “per avallo” o equivalenti.

L’avallo può essere prestato da un terzo o anche da un firmatario della cambiale.

L’avallo può essere dato per uno qualsiasi degli obbligati cambiari e l’avallante deve indicare per chi l’avallo
è dato. Questa indicazione non è però essenziale. Infatti, in mancanza, l’avallo si intende dato ex lege.

L’individuazione dell’avallato ha particolare rilievo in quanto l’avallante è obbligato nello stesso modo di
colui per il quale l’avallo è stato dato. Questa indicazione non è però essenziale; infatti in mancanza l’avallo
si intende dato ex lege.

L’individuazione dell’avallato ha particolare rilievo in quanto l’avallante è obbligato nello stesso modo di
colui per il quale l’avallo è stato dato.

Nei confronti del portatore del titolo l’avallante è obbligato in solido con l’avallato.

Nei rapporti interni, l’avallante è invece un obbligato di garanzia di grado successivo rispetto all’avallato.

L’avallo può essere prestato anche da più persone congiuntamente per lo stesso obbligato cambiario. Si ha in
tal caso la figura del coavallo. I coavallanti restano obbligati di grado successivo rispetto all’avallato ma
sono obbligati di pari grado tra di loro.

L’avallo è una obbligazione di garanzia collegata con quella dell’avallato ma è pur sempre un’obbligazione
autonoma rispetto a quest’ultima.

In altri termini, trova applicazione anche per l’avallo il principio cardine della reciproca indipendenza delle
obbligazioni cambiarie, con la sola limitata eccezione che l’avallante può opporre al portatore il vizio di
forma dell’obbligazione autonoma rispetto a quest’ultima.

In altri termini, trova applicazione anche per l’avallo il principio cardine della reciproca indipendenza delle
obbligazioni cambiarie con la sola limitata eccezione che l’avallante può opporre al portatore il vizio di
forma dell’obbligazione dell’avallato.

L’avallo è perciò una tipica garanzia cambiaria che si differenzia nettamente dalla fideiussione! Infatti
l’avallo è una garanzia autonoma mentre la fideiussione accessoria. Ne consegue che:
a) L’avallo invalido come tale non si converte automaticamente in una fideiussione
b) Non sono applicabili all’avallo le norme proprie della fideiussione che trovano fondamento nel
carattere accessorio della relativa garanzia.

Così sono certamente inapplicabili all’avallo sono gli artt. 1939 e 1945 c.c che legittimano il fideiussore ad
opporre al creditore tutte le eccezioni personali che spettano al debitore principale. Ed ad identica
conclusione si deve pervenire in relazione agli artt. 1953 (rilievo del fideiussore), 1955 (liberazione del
fideiussore), 1956 (liberazione del fideiussore per obbligazione futura) e 1957 (onere del creditore di agire
tempestivamente contro il debitore principale).

L’autonomia dell’avallo non impedisce dunque all’avallante di opporre al portatore il pagamento a lui
effettuato da parte dell’avallato o altri fatti estensivi dell’obbligazione intervenuti tra l’avallato e quel
determinato portatore.
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9. La cambiale ipotecaria

Il pagamento della cambiale può essere assistito anche da garanzie reali: pegno e ipoteca.

Per la cambiale garantita da ipoteca l’art. 2831 cc detta una speciale disciplina.

A tal fine, l’ipoteca rilasciata a garanzia di una determinata obbligazione cambiaria deve essere non solo
iscritta nei registri immobiliari, ma anche annotata sulla cambiale a cura del conservatore (art. 2839 2°
comma).

In seguito all’annotazione sulla cambiale, l’ipoteca, iscritta a favore dell’attuale possessore del titolo, si
trasferisce automaticamente con la girata.

In caso di mancato pagamento della cambiale, l’attuale possessore potrà avvalersi dell’ipoteca.

La cancellazione dell’ipoteca può essere consentita dal creditore anche prima del pagamento. In tal caso, la
cancellazione deve essere annotata anche sulla cambiale a cura del conservatore e comporta la perdita del
diritto di regresso nei confronti dei giranti anteriori alla cancellazione (art. 2887). Ciò perché la loro
obbligazione sia di grado successivo a quella garantita in quanto, se costretti a pagare, avrebbero avuto
diritto ad essere surrogati dall’ipoteca.

10. La circolazione della cambiale

La disciplina della circolazione della cambiale (art. 15-25 l.camb) coincide con quella dettata in via generale
dal codice civile per i titoli di credito all’ordine.

Il trasferimento della cambiale con girata può essere escluso dal traente o dall’emittente. In tal caso la
cambiale è trasferibile solo nella forma e con gli effetti di una cessione ordinaria. L’acquirente subentra a
titolo derivativo nei diritti cambiari e resta esposto a tutte le eccezioni.

La girata deve essere apposta sulla cambiale e deve essere sottoscritta dal girante nel modo fissato dall’art. 8.

La girata della cambiale può essere fatta anche a favore del trattario o di uno qualsiasi degli obbligati
cambiari. Il giratario di ritorno può girare di nuovo la cambiale.

I principi cardine sono identici a quelli dettati dal codice civile per i titoli di credito in generale. Anche nella
cambiale la girata trasferisce la legittimazione all’esercizio dei diritti cartolari.

La disciplina della cambiale si distacca invece da quella generale per quanto riguarda la funzione di garanzia
della girata. Nella cambiale il girante risponde come obbligato di regresso.

Diversa dalla girata senza garanzia è la girata non all’ordine. La clausola non all’ordine apposta dal girante
non impedisce che il titolo possa essere ulteriormente trasferito mediante girata. Il girante resta obbligato
solo nei confronti dell’immediato giratario e non risponde nei confronti di coloro la cui cambiale sia
ulteriormente girata.

La cambiale può essere girata per procura o a titolo di pegno.

La cambiale può essere girata anche dopo la scadenza. Tuttavia la girata effettuata dopo il protesto per
mancato pagamento produce solo gli effetti di una cessione ordinaria. Anche per la girata tardiva è da
escludersi che il girante assuma responsabilità cambiaria.
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11. Il pagamento della cambiale

Legittimato a chiedere il pagamento è il portatore della cambiale che giustifica il suo diritto con una serie
continua di girate, anche se l’ultima è in bianco. Le girate cancellate si hanno per non scritte (art. 20 1°
comma).

Eseguiti tali controlli ed identificato l’attuale possessore il debitore cambiario è liberato anche se paga al non
titolare, a meno che da parte sua non vi sia dolo o colpa grave.

La cambiale deve essere presentata per il pagamento al trattario nella cambiale tratta e all’emittente nel
vaglia cambiario ovvero alla diversa persona designata nel titolo a pagare per loro.

Nella cambiale a giorno fisso e a certo tempo data o vista, la presentazione deve essere effettuata nel giorno
della scadenza o in uno dei due giorni feriali successivi,

L’omessa presentazione nei termini comporta la perdita dell’azione cambiaria nei confronti degli obbligati di
regresso.

In deroga al diritto comune, il termine di scadenza della cambiale è termine essenziale non solo per il
creditore ma anche per il debitore cambiario. Il portatore non è tenuto a ricevere il pagamento prima della
scadenza.

D’altro canto se la cambiale non è presentata per il pagamento nei termini, ogni obbligato cambiario può
liberarsi depositando la somma presso la Banca d’Italia.

Sempre in deroga al diritto comune (art. 1181) il portatore della cambiale non può rifiutare un pagamento
parziale.

Il pagamento per l’intero dà diritto alla restituzione del titolo, quietanziato dal portatore. In caso di
pagamento parziale, il debitore può invece esigere che ne sia fatta menzione nel titolo.

Come l’accettazione, anche il pagamento della cambiale può essere effettuato per intervento.

Colui che paga per intervento può essere un terzo o una persona già obbligata cambiariamente, tranne
l’accettante. La sua indicazione può essere già contenuta nel titolo o può trattarsi di un terzo che interviene
spontaneamente.

Il pagamento per intervento non può essere parziale e deve essere effettuato al più tardi nel giorno successivo
all’ultimo giorno consentito per elevare il protesto per mancato pagamento.

Il pagamento per intervento libera gli obbligato di grado successivo a quello per il quale il pagamento è stato
effettuato mentre chi ha pagato acquista i diritti cambiari verso costui e gli obbligati di grado anteriori.
Perciò in mancanza di indicazione il pagamento si reputa fatto per il traente.

Il portatore che rifiuta il pagamento per intervento perde il regresso contro coloro che sarebbero stati liberati.

12. Le azioni cambiarie

In caso di rifiuto del pagamento, il portatore del titolo può agire contro tutti gli obbligati cambiari. La
relativa azione è però regata diversamente a seconda che si tratti di obbligati diretti o di regresso. Sono

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obbligati diretti l’emittente, l’accettante ed i loro avallanti. Sono invece obbligati di regresso, il traente, i
giranti ed i loro avallanti.

Orbene, l’azione diretta non è soggetta a particolari formalità ed in particolare non è subordinata alla levata
del protesto.

Il portatore è tenuto ad osservare solo il termine di prescrizione di tre anni. Più complessa è la disciplina
dell’azione cambiaria di regresso. Il suo esercizio è infatti subordinato a particolari condizioni sostanziali.
L’azione contro gli obbligati di regresso può essere innanzitutto esercitata alla scadenza. Può inoltre essere
esercitata anche prima della scadenza.:
1) Se l’accettazione è stata rifiutata in tutto o in parte
2) In caso di apertura della liquidazione giudiziale o dell’emittente nel pagherò cambiario, di
cessazione dei pagamenti da parte degli stessi
3) In caso di apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del traente di una cambiale non
accettabile.

In caso di liquidazione giudiziale, per esercitare il regresso è per legge subordinato alla preventiva
constatazione del rifiuto di accettazione o di pagamento con atto autentico denominato protesto.

Pur se dispensato dal protesto, il portatore è inoltre tenuto a dare avviso della mancata accettazione o del
mancato pagamento al traente, al proprio girante ed ai loro avallanti, entro i 4 giorni feriali successivi alla
legata del protesto o al giorno della presentazione.

L’omissione dell’avviso nei termini comporta più limitate conseguenze: il portatore non decade dal regresso,
ma dovrà risarcire i danni eventualmente arrecati nei limiti dell’importo della cambiale.

Gli obblighi cambiari sono tutti obbligati in solido nei confronti del portatore. Inoltre l’azione promossa
contro uno degli obbligati non gli impedisce di agire contro gli altri, congiuntamente o disgiuntamente, anche
se gli obbligati di grado successivo rispetto a colui contro il quale si sia prima preceduto.

L’obbligato cambiario che ha pagato libera infatti definitivamente i coobbligati di grado successivo dai quali
non potrà ripetere alcunché. Ha invece azione cambiaria di ulteriore regresso contro gli obbligati di grado
anteriore e può chiedere a ciascuno di essi il rimborso integrale di quanto pagato. Non si ha cioè divisione
del debito nei rapporti tra obbligati cambiari di grado diverso.

L’obbligato cambiario che ha pagato non ha invece azione cambiaria, neppure pro quota, nei confronti degli
eventuali coobbligati di pari grado. Contro costoro potrà agire solo in via extracambiaria. Troverà in
particolare applicazione la presunzione di divisione del debito nei rapporti interni.

L’azione di regresso è soggetta al breve termine di prescrizione di un anno.

L’azione di ulteriore regresso cambiario del solvens si prescrive invece in sei mesi dal giorno del pagamento.
In applicazione del principio di indipendenza delle obbligazioni, l’interruzione della prescrizione opera solo
nei confronti dell’obbligato cambiario rispetto al quale è stato compiuto l’atto interruttivo.

13. Il protesto

Il protesto è l’atto autentico necessario per la conservazione delle azioni di regresso.

Il protesto deve essere elevato, dietro presentazione del titolo, contro i soggetti designati dalla cambiale per
l’accettazione o il pagamento nei luoghi indicati dall’art. 44.

Sono abilitati alla levata del protesto i notai, gli ufficiali giudiziari ed i loro aiutanti.

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Gianmarco Rubino
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Il notaio e l’ufficiale giudiziario possono avvalersi della collaborazione di presentatori nominati su loro
indicazione dal presidente della corte d’appello. Essi presentano il titolo, ne incassano l’importo o constatano
il mancato pagamento. L’atto di protesto è invece redatto successivamente dal notaio o dall’ufficiale
giudiziario che rispondono civilmente dell’operato dei propri presentatori in solido con questi ultimi.

Il protesto può essere annotato sulla cambiale o può essere fatto con atto separato.

I protesti per mancato pagamento sono soggetti a pubblicità legale. In base all’attuale disciplina gli elenchi
dei protesti sono trasmessi mensilmente al presidente della Camera di commercio e pubblicati in un apposito
registro informatico dei protesti.

La registrazione di ciascun protesto è cancellata dopo cinque anni. Tuttavia il debitore che paga la cambiale
entro 12 mesi dalla levata del protesto ha diritto di onere l’immediata cancellazione del proprio nome.

Inoltre, il debitore protestato che adempia le obbligazioni per le quali il protesto è stato elevato e non abbia
subito ulteriori protesti può chiedere al giudice di pace la riabilitazione trascorso un anno dalla levata del
protesto.

L’illegittima levata del protesto può essere fonte di responsabilità per danni del creditore richiedente e/o del
pubblico ufficiale per il discredito che arreca al debitore.

Il protesto può essere sostituito da una dichiarazione scritta di rifiuto.

14. Il processo cambiario. Le eccezioni

L’azione cambiaria gode di un particolare regime processuale. La cambiale vale come titolo esecutivo. Il
possessore della stessa dunque può iniziare la procedura esecutiva sui beni del debitore. L’esecuzione deve
essere preceduta dalla notificazione del precetto.

L’eventuale opposizione al precetto non sospende l’esecuzione. Il giudice può tuttavia concedere la
sospensione sul ricorso dell’opponente che disconosca la propria firma o la rappresentanza oppure adduca
gravi e fondati motivi.

Il portatore della cambiale può avvalersi in alternativa dell’ ordinario procedimento di cognizione diretto ad
ottenere sentenza di condanna.

Alle stesse condizioni il portatore può infine far ricorso al procedimento monitorio per ottenere un decreto
ingiuntivo provvisoriamente esecutivo. In caso di opposizione al decreto ingiuntivo si instaura un ordinario
procedimento di cognizione.

La cambiale gode di un particolare regime processuale. Su istanza del creditore, il giudice deve infatti
emettere sentenza provvisoria di condanna se le eccezioni opposte dal debitore sono di lunga indagine.

Quanto alle eccezioni, anche per la cambiale opera la distinzione tra eccezioni reali ed eccezioni personali.
Al riguardo, nonostante alcune apparenti difformità della legge cambiaria, è opinione ormai consolidata che
il relativo regime coincida puntualmente con quello dettato dalla disciplina generale dei titoli di credito. In
particolare, le eccezioni reali nella cambiale coincidono con quelle previste dall’art. 1993 c.c.

Tipica della cambiale è invece l’ulteriore distinzione tra eccezioni oggettive ed eccezioni soggettive.

Sono eccezioni oggettive quelle che possono essere opposte solo da un determinato obbligato.

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Gianmarco Rubino
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È eccezione reale e soggettiva l’eccezione di difetto di capacità o di rappresentanza in quanto opponibile solo
da quel determinato obbligato ad ogni possessore della cambiale. È eccezione reale ed oggettiva l’eccezione
di nullità della cambiale per mancanza dei requisiti di forma.

È eccezione personale e soggettiva ogni eccezione desunta dal rapporto casuale intercorso tra un determinato
debitore cambiario ed il portatore del titolo. È invece eccezione personale ed oggettiva l’eccezione di
pagamento della cambiale non risultante dal titolo.

15. Le azioni extracambiarie

L’emissione e la circolazione della cambiale trovano di regola fondamento in un preesistente rapporto di


debito. Per realizzare il proprio credito il possessore della cambiale ha perciò a disposizione, oltre alle azioni
cambiarie, anche l’azione causale nei confronti del debitore che è stato parte del relativo rapporto.

Per poter esercitare l’azione causale è infatti necessario che:


a) Siano stati accertati con il protesto la mancata accettazione o il mancato pagamento della cambiale
b) Il portatore offra al debitore la restituzione della cambiale, depositandola presso la cancelleria del
giudice competente
c) Il portatore abbia inoltre adempiute tutte le formalità necessarie per conservare al debitore le azioni
di regresso che possono competergli.

L’inosservanza di queste condizioni, fissate dall’art. 66 l.camb., comporta la decadenza dell’azione causale.
È tuttavia da ritenersi che il rispetto della condizione sub a) non sia necessario quando l’azione causale è
promossa contro un obbligato cui non competono azioni cambiarie di ulteriore regresso.

Può infine verificarsi che il portatore della cambiale abbia perduto, per decadenza o prescrizione, tutte le
azioni cambiarie. In tal caso l’art. 67 l.camb., gli consente di agire contro il traente, l’accettante o il girante
per la somma di cui si siano arricchiti ingiustamente a suo danno. L’azione sarà in concreto esercitabile solo
nei confronti dell’obbligato cambiario beneficiario dell’arricchimento. Quindi nei confronti dell’accettante
nella cambiale tratta e dell’emittente del pagherò.

16. Ammortamento. Duplicati e copie

La disciplina dell’ammortamento della cambiale coincide con quella dettata in via generale dal codice per i
titoli di credito all’ordine.

È solo da notare che l’art. 90 l.camb. non richiede che l’opponente al decreto di ammortamento depositi il
titolo. Ed è opinione ormai consolidata che tale adempimento non sia necessario.

Costituiscono invece istituti ormai desueti la creazione di duplicati e di copie della cambiale.

I duplicati sono riproduzioni della cambiale rilasciate al portatore del suo girante e che contengono la
ripetizione autografa di tutte le sottoscrizioni.

Le copie sono invece riproduzioni del titolo originario effettuate dallo stesso portatore.
17. Le cambiali finanziarie

Le cambiali finanziarie costituiscono uno strumento di finanziamento delle imprese introdotto e disciplinato
dalla legge 43/1994. La loro funzione è quella di offrire alle imprese uno strumento per raccogliere capitale
di credito a breve e medio termine. Esigenza questa già avvertita a partire dalla metà degli anni ’70.

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Gianmarco Rubino
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Le cambiali finanziarie sono titoli di credito all’ordine emessi in serie, con scadenza non inferiore ad un
mese e non superiore a 36 mesi alla data di emissioni.

Le cambiali finanziarie sono equiparate per ogni effetto di legge alle cambiali ordinarie.

Le cambiali finanziarie sono titoli emessi in serie e non titoli individuali come le comuni cambiali.

La denominazione di cambiale finanziaria deve essere inserita nel contesto del titolo in aggiunta agli altri
requisiti formali richiesti dall’art. 100 l.camb.

Nella cambiale finanziaria devono essere indicati anche i proventi a favore del prenditore in qualunque forma
pattuita; proventi di regola costituiti dalla differenza tra il valore nominale della cambiale e la minor somma
corrispondente all’emittente. In base alla attuale disciplina, le cambiali finanziarie possono essere soltanto
emesse da società di capitali, cooperative e mutue assicuratrici. Non quindi da imprenditori individuali e
società di persone. È inoltre divieto di emissione alle imprese che rientrano nella categoria delle c.d.
Microimprese.

Più precisamente l’ammontare della raccolta tra il pubblico effettuata mediante cambiali finanziarie, da parte
di società per azioni, in accomandita per azioni e cooperative unitamente alla raccolta realizzata mediante
obbligazioni o altri strumenti finanziari non può complessivamente superare i limiti fissati dall’art. 2412 c.c.
per l’emissione di obbligazione; invece per le società a responsabilità limitata si applica la disciplina dei
titoli di debito con la conseguenza che non sono predeterminati limiti quantitativi ma i titoli devono essere
sottoscritti da un investitore professionale.

A tutela del pubblico risparmio l’attuale disciplina stabilisce poi ulteriori vincoli:
a) Le cambiali devono essere emesse e girate esclusivamente in favore di investitori professionali che
non siano soci dell’emittente
b) L’ultimo bilancio prima dell’emissione deve essere certificato da una revisione legale dei conto o da
una società di revisione
c) L’emissione deve essere assistita da uno sponsor

Lo sponsor è una banca o un intermediario mobiliario (Sim, Sgr, Sicav) che supporta l’emittente nella
procedura di emissione. Compito dello sponsor è anche fornire al mercato informazioni qualificate
sull’emissione.

Per indurre lo sponsor a non supportare emissioni da parte di società immeritevoli di credito, la legge
stabilisce che lo stesso deve di regola mantenere nel proprio portafoglio fino alla naturale scadenza, una
quota delle cambiali finanziarie restando così parzialmente esposto al rischio di insolvenza del debitore.

Possono fare a meno di nominare uno sponsor le imprese di grandi dimensioni.

In alternativa, è consentita anche l’emissione delle cambiali in forma dematerializzata con applicazione della
corrispondente disciplina del tuf in quanto compatibile. In questo caso la dichiarazione cambiaria si
sostanzierà nella promessa incondizionata di pagare alla scadenza le somme dovute ai titolari delle cambiali
finanziarie che risultano dalle scritture contabili degli intermediari depositari.

Per le cambiali finanziarie è previsto un regime tributario agevolato.

Le cambiali finanziarie sono espressamente qualificate come valori mobiliari.


CAPITOLO VENTUNESIMO
L’ASSEGNO BANCARIO

1. Nozione. Caratteri essenziali


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Gianmarco Rubino
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L’assegno bancario è un titolo di credito che contiene l’ordine incondizionato diretto ad una banca di pagare
a vista una somma determinata. L’assegno bancario è invece uno strumento di pagamento.

L’assegno bancario è attualmente regolato dal R.D. 1736/1933.

L’assegno bancario è redatto dal traente su appositi moduli prestampati fornitigli dalla banca ed ha la stessa
natura prestampati fornitigli dalla cambiale tratta. Nell’assegno bancario figurano tre persone: il traente, che
dà l’ordine di pagamento alla banca e risponde ex lege del mancato pagamento, la banca-trattaria alla quale
l’ordine di pagamento è rivolto, ed il prenditore dell’assegno.

Essendo identica la struttura, la disciplina dell’assegno è in larga parte modellata su quella della cambiale
tratta. In particolare anche l’assegno bancario è un titolo di credito astratto, formale ed esecutivo.

Se identica è la struttura diversa è però la funzione tipica dei due titoli. La disciplina dell’assegno bancario
presenta perciò alcune differenze rispetto a quella della cambiale tratta. Esse possono così essere sintetizzate:
a) Trattario può essere solo una banca
b) Il rapporto di provvista tra traente e banca trattario può essere costituito esclusivamente da fondi
disponibili esistenti presso la Banca e utilizzabili mediante l’emissione di assegni bancari.
c) L’assegno bancario è sempre pagabile a vista
d) L’assegno bancario è assistito da una particolare disciplina sanzionatoria di recente depenalizzata
volta a reprimere l’uso abusivo di assegni bancari.

2. I requisiti dell’assegno bancario

È necessario distinguere i requisiti di validità dell’assegno bancario dai semplici requisiti di regolarità.

Costituiscono semplici requisiti di regolarità dell’assegno bancario quelli fissati dall’art. 3 e cioè:
a) L’esistenza presso la Banca trattaria di fondi disponibili per somma almeno pari all’importo
dell’assegno emesso
b) L’esistenza di una convenzione, espressa o tacita, che attribuisce al traente il diritto di disporre
mediante assegni bancari dei fondi disponibili

L’emissione di assegni bancari senza l’osservanza delle condizioni in esame configura un illecito. Comporta
inoltre il divieto di emettere assegni per un periodo da due a cinque anni nonché nei casi più gravi anche
all’Interdizione dall’esercizio di attività professionale o imprenditoriale.

Semplice requisito di regolarità è anche l’osservanza delle norme sul bollo. In mancanza l’assegno bancario
perde la qualità di titolo esecutivo.

Sono invece requisiti di validità dell’assegno bancario:


1) La denominazione di assegno bancario
2) L’ordine incondizionato
3) L’indicazione del trattario
4) L’indicazione del luogo di pagamento
5) La data ed il luogo di emissione dell’assegno
6) La sottoscrizione del traente

La “legge assegni” non detta una specifica disciplina per l’assegno in bianco e ciò ha fatto a lungo discutere
se lo stesso sia valido, se cioè tutti i requisiti formali debbano esistere, a pena di nullità, al momento
dell’emissione del titolo.

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È certo comunque che l’eventuale nullità è inopponibile al terzo portatore. È certo inoltre che oggi l’ipotesi
più diffusa di assegno in bianco, e cioè l’assegno senza data di emissione, non esponga più a sanzioni penali.

Come per la cambiale, i requisiti di validità dell’assegno vanno perciò tenuti distinti dai requisiti di validità
delle singole obbligazioni cartolari.

Al riguardo valgono regole identiche a quelle esposte per la cambiale con una sola differenza in tema di
rappresentanza. La procura generale comprende la facoltà di emettere o girare assegni bancari anche se
rilasciata da chi non è imprenditore commerciale.

3. La posizione della banca trattaria

L’assegno bancario non può essere accettato. La banca trattaria non asusme quindi in alcun caso la posizione
di obbligato cartolare. Ma se l’assegno è Regolare ed è coperto, la banca è quantomeno obbligata extra
cartolarmente verso il portatore a pagare l’assegno? Il rifiuto la espone al risarcimento dei danni verso
quest’ultimo? Orientamento prevalente è che la soluzione debba essere negativa. Ed in particolare
argomenti in senso contrario non sono offerti dall’articolo 35 secondo cui l’ordine del traente di non pagare
l’assegno emesso è vincolante per la banca solo dopo che siano scaduti i relativi termini di presentazione.
Ciò significa solo che fino a tale momento la banca ha la facoltà, , non l’obbligo, di pagare al portatore.

Ne consegue che rifiuto ingiustificato di pagare l’assegno espone la banca responsabilità contrattuale solo
nei confronti del traente, non nei confronti del prenditore. Nei confronti di quest’ultimo la banca ha la
facoltà di pagare l’assegno. Questo è oltretutto un convincimento ormai saldamente radicato nella prassi e
nella coscienza sociale.

Non mancano tuttavia strumenti che consentono di tutelare l’aspettativa del portatore di pagamento
dell’assegno. A tale fine la legge assegni prevede l’istituto del visto. Il visto non comporta un obbligo di
pagamento della banca trattaria ma soltanto l’effetto di accertare l’esistenza dei fondi e di impedirne il ritiro
da parte del traente.

Nel contempo altri istituti sono stati elaborati dalla prassi bancaria per offrire al portatore una parziale
garanzia extra cartolare della banca trattaria contro il rischio delle emissioni di assegni a vuoto. Vale a dire
assegno bancario a copertura garantita nonché la carta assegni, ormai in disuso. Più diffuso è il c.d.
Benefondi, che consiste nella conferma dell’esistenza dei fondi da parte della banca trattaria.

Gli effetti del benefon sono diversi a seconda del contenuto della dichiarazione della banca trattaria. Di
regola il benefondi ha il valore di semplice informazione dell’esistenza dei fondi. La banca trattaria perciò
sarà tenuta al risarcimento dei danni solo quando abbia fornito delle informazioni inesatte.

La banca può però impegnarsi espressamente a bloccare i fondi corrispondenti all’ammontare dell’assegno.
In tal caso essa è anche obbligata extra cartolarmente a pagare l’assegno qualora questo risulti irregolare.

4. Circolazione. Avallo

La circolazione dell’assegno bancario all’ordine è regolata da norme che sostanzialmente coincidono con
quelle dettate per la cambiale (Art. 17-21 l.ass). sola significativa differenza e che la girata al trattario vale
come quietanza ed estingue il debito. Viene così preclusa la possibilità che la banca trattaria giri
ulteriormente l’assegno assumendo obbligazione cartolare di regresso.

La circolazione dell’assegno al portatore è regolata dalle disposizioni generali del Codice civile in tema di
titoli al portatore. La legge assegni si limita a stabilire che l’eventuale girata apposta su un assegno bancario

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al portatore rende il girante obbligato in via di regresso, ma non trasforma il titolo in un assegno bancario
all’ordine.

Occorre tener presente che la libera circolazione degli assegni è fortemente limitata. Gli assegni bancari di
importo pari o superiore a 1000 euro devono recare il nome del beneficiario e la clausola di non trasferibilità.

Anche l’assegno bancario può essere garantito mediante avallo ma si tratta di un istituto desueto data la
breve vita del titolo.

5. Il pagamento dell’assegno

L’assegno bancario non solo è pagabile a vista ma deve essere presentato per il pagamento. La presentazione
dell’assegno ad una stanza di compensazione equivale a presentazione per il pagamento. L’omessa
presentazione comporta la perdita dell’azione di regresso contro i giranti ed i loro avallanti , non però verso il
traente.

La banca è perciò libera di pagare anche dopo la scadenza dei termini.

Nell’assegno all’ordine, la banca che paga è tenuta ad accertare la regolare continuità delle girate ma non a
verificare l’autenticità delle firme dei giranti. La banca è inoltre tenuta ad identificare colui che incassa ed a
verificare che la firma del traente corrisponde a quella dallo stesso depositata al momento dell’apertura del
c/c.

Questi principi sono in particolare applicabili qualora si scopra che la firma del traente era falsa.

È ben vero infatti che, con apposita clausola inserita nel contratto di conto corrente bancario, le banche
tendono a scaricare sul cliente ogni responsabilità che possa derivare dalla perdita, smarrimento o uso
abusivo dei moduli di assegni fino al momento in cui ha dato comunicazione scritta alla banca della perdita o
sottrazione degli stessi. Resta ferma, tuttavia, anche anteriormente a tale momento, la responsabilità della
banca al pagamento degli assegni secondo i principi della diligenza professionale.

6. Il regresso per mancato pagamento

In caso di mancato pagamento da parte della banca, il portatore dell’assegno può agire in regresso contro il
traente, il girante ed i loro avallanti. Non sono necessaire per l’esercizio dell’azione di regresso contro il
traente ed i suoi avallanti la presentazione del titolo alla banca trattaria nei termini di legge e la constatazione
del rifiuto di pagamento mediante protesto. Lo sono invece per agire contro i giranti ed i loro avallanti. Nei
confronti del traente, la presentazione tardiva comporta come unica conseguenza che il portatore perde i
diritti verso il traente per la somma che è venuta a mancare.

L’azione di regresso al portatore contro il traente, i giranti e gli altri obbligati si prescrive in sei mesi dal
termine di presentazione. L’azione di ulteriore regresso si prescrive invece in 6 mesi dal giorno del
pagamento o dal giorno in cui l’azione di regresso è stata promossa contro di lui.

7. Assegno sbarrato, da accreditare, non trasferibile. Assegno turistico

L’assegno sbarrato è un assegno in cui vengono apposte due rete parallele sulla faccia anteriore. La
sbarratura può essere generale o speciale. È generale quando tra le sbarre non vi è alcuna indicazione o la
parola banchiere. Lo sbarramento non impedisce la circolazione dell’assegno. L’assegno bancario con
sbattatura può essere pagato solo ad un banchiere o ad un cliente del trattario mentre invece l’assegno con

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sbarratura speciale può essere pagato solo al banchiere designato tra le sbarre o, se questi è il trattario, ad un
suo cliente.

La banca trattaria che non osserva tali disposizioni è tenuta al risarcimento dei danni.

In definitiva, lo sbarramento offre una limitata tutela contro i rischi di furto o di smarrimento. Effetti
sostanzialmente equivalenti produce la clausola “da accreditare”. L’assegno da accreditare, infatti, pur poco
diffuso in Italia, può essere regolato dalla Banca trattaria solo mediante scritturazione contabile.

Maggior sicurezza offre invece l’assegno non trasferibile. L’assegno emesso con tale clausola può essere
pagato solo all’immediato prenditore o accreditato nel suo conto. L’unico mezzo a disposizione
dell’immediato prenditore, che non possa o non voglia riscuotere personalmente l’assegno non trasferibile, è
quello di girarlo per l’incasso.

La clausola di non trasferibilità preclude del tutto la circolazione dell’assegno non solo mediante girata ma
anche mediante cessione ordinaria, il che distingue l’assegno non trasferibile dall’assegno non all’ordine. La
banca che paga un assegno non trasferibile a persona diversa dall’originario prenditore o dal banchiere
giratario per l’incasso, risponde del pagamento (art. 43 2° comma).

Comunque è questione controversa se la banca sia sempre e comunque responsabile ovvero se possa
linberarsi provando di essere immune da colpa. La prima soluzione appare la preferibile anche se rende meno
agevole la riscossione dell’assegno non trasferibile e più gravosa la posizione della banca. Essa meglio
risponde infatti all’interesse dell’autore nella clausola e del portatore a premunirsi contro qualsiasi rischio
derivante dallo smarrimento o dalla sottrazione del titolo.

È da ritenersi che incorra in responsabilità ex art. 431 l.ass. anche la banca girataria per l’incasso che anticipi
l’importo dell’assegno qualora non provveda all’esatta individuazione del prenditore.

Caratteristica peculiare è infatti che il pagamento è subordinato alla presenza sul titolo di una doppia firma
conforme del prenditore. La prima firma è apposta al momento del rilascio del titolo; la seconda al momento
del pagamento.

8. L’ammortamento

La disciplina dell’ammortamento (artt. 69-74) è modellata su quella della cambiale. È da tenere presente che:

a) L’art. 69 l.ass non distinte tra assegno all’ordine e assegno al portatore e perciò la procedura di
ammortamento è eccezionalmente prevista anche per quest’ultimo.

b) La procedura di ammortamento è esclusa per l’assegno non trasferibile dato che lo stesso non può
circolare.

c) Il termine per presentare opposizione è di soli 15 giorni, la metà di quanto previsto in via generale
dall’art. 2016 c.c.

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CAPITOLO VENTIDUESIMO
L’ASSEGNO CIRCOLARE E GLI ASSEGNI SPECIALI

1. L’assegno circolare

L’assegno circolare è un titolo di credito all’ordine che contiene la promessa incondizionata della banca
emittente di pagare a vista una somma di denaro. Esso è un mezzo di pagamento come l’assegno bancario
tuttavia si differenzia da quest’ultimo in quanto ha la struttura del vaglia cambiario e non della cambiale
tratta: incorpora infatti un’obbligazione diretta di pagamento della banca emittente. Per evitare però che
l’assegno circolare possa far concorrenza alla moneta legale, lo stesso non può mai essere messo al portatore
diversamente dall’assegno bancario.

L’emissione degli assegni circolari inoltre è subordinata ad una serie di condizioni di regolarità (art. 82
l.ass.):
a) L’emissione di assegni circolari è consentita solo alle banche, specificamente autorizzate dalla Banca
d’Italia
b) La banca può emettere assegni circolari solo per somme che siano presso di essa disponibili al
momento dell’emissione
c) La banca autorizzata ad emettere assegni circolari deve costituire presso la Banca d’Italia una
cauzione in titoli a garanzia dei medesimi.

Costituiscono invece requisiti formali di validità:


1) La denominazione di assegno circolare inserita nel contesto del titolo;
2) La promessa incondizionata di pagare a vista una somma determinata
3) L’indicazione del prenditore
4) L’indicazione della data e del luogo nel quale l’assegno è emesso
5) La sottoscrizione della banca emittente

All’assegno circolare si applica in quanto compatibile la disciplina del vaglia cambiario a vista. Tuttavia a) la
girata a favore dell’emittente estingue il titolo; b) il possessore deve presentare l’assegno per il pagamento
entro 30 giorni dall’emissione; c) la prescrizione triennale dell’azione diretta contro la Banca emittente
decorre dalla data di emissione anziché dalla presentazione come invece è previsto per la cambiale.

Nel contempo si applica all’assegno circolare part e della disciplina dell’assegno bancario; quella in tema di
assegno sbarrato, da accreditare, non trasferibile e turistico; nonché la disciplina dell’ammortamento. Però il
prenditore di un assegno circolare non trasferibile, decorsi 20 giorni dalla denunzia dello smarrimento o della
sottrazione, può senz’altro ottenere il pagamento dalla filiale alla quale fu fatta la denunzia. Inoltre, il
richiedente può sempre restituire l’assegno circolare non trasferibile all’emittente ed ottenere il rimborso del
corrispondente importo. Valgono altresì le regole di contrasto al riciclaggio e all’evasione fiscale previste per
l’assegno bancario.

Le banche autorizzate ad emettere assegni circolari possono affidarne l’emissione ad una o più banche
corrispondenti. L’autorizzazione ad emettere assegni circolari è concessa, per ragioni di sicurezza, ai relativi
Istituti centrali di categoria. Questi affidano l’emissione degli assegni ale Banche aderenti che assumono la
posizione di banche corrispondenti e rilasciano gli assegni.

2. Gli assegni speciali. Gli assegni della Banca di Italia

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Il vaglia cambiario della Banca di Italia è un titolo di credito all’ordine che contiene la promessa
incondizionata della Banca d’Italia di pagate a vista una somma determinata rilasciata solo dietro versamento
in contanti. La disciplina coincide con quella dell’assegno circolare ma è una disciplina destinata a sparire.
L’assegno bancario, l’intero o piazzato della Banca d’Italia si differenzia dal comune assegno bancario
perché è emesso dalla banca traente dietro versamento in contanti del relativo importo da parte del
richiedente. Il titolo offre la stessa sicurezza di pagamento dell’assegno circolare e del vaglia della Banca
d’Italia.

PARTE TERZA
I TITOLI DI CREDITO

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CAPITOLO VENTITREESIMO
LA CRISI DELL’IMPRESA. LA COMPOSIZIONE NEGOZIATA DELLA CRISI

A. IL SISTEMA DELLE PROCEDURE CONCORSUALI

1. Crisi dell’impresa e procedure concorsuali

La crisi economica dell’impresa è un evento che coinvolge una gran massa di creditori. È un evento di fronte
al quale i mezzi di tutela individuali dei creditori previsti dall’ordinamento ed in particolare l’azione
esecutiva individuale sui beni del debitore si rivelano strumenti inadeguati, perché si tratta di tutelare non il
singolo creditore ma una massa di creditori, ed insufficienti, perché il problema non è solo quello di
salvaguardare e realizzare i diritti di una massa di creditori ma anche quello di cercare di contemperare a tale
esigenza con gli ulteriori interessi collettivi.

Per queste ragioni la legge disciplina una serie di speciali procedure, dette concorsuali. Queste procedure
sono nate per regolare in modo efficiente il dissesto economico del solo imprenditore commerciale non
piccolo, anche se successivamente furono introdotte altre rivolte a tutti gli altri tipi di debitore.

Le singole procedure concorsuali condividono alcuni caratteri costanti e comuni. Esse sono tutte procedure
generali e collettive. A tal fine le forme ordinarie di tutela dei creditori sono sostituite ex lege da forme di
tutela collettiva.

Diverse possono essere le cause di crisi dell’impresa. Da qui la necessità di predisporre modelli articolati di
composizione del dissesto dell’imprenditore e la conseguente differenziazione delle procedure concorsuali.

2. Evoluzione del sistema. Dalla legge fallimentare…

Per circa 80 anni la disciplina delle procedure concorsuali è stata regolata in Italia dalla legge fallimentare
(R.D. 267/1942). Il fallimento era una procedura giudiziaria mirante a liquidare il patrimonio
dell’imprenditore insolvente e a ripartirne il ricavato tra i creditori. Non era estranea al disegno originario
dell’istituto una concezione afflittiva e screditante per il debitore.

 Nei confronti di alcuni tipi di imprese operanti in settori particolari (p.e. Il ramo bancario) il
fallimento era invece sostituito dalla liquidazione coatta amministrativa, procedura di liquidazione
amministrativa e non giudiziale.

 La legge fallimentare contemplava anche alcune procedure concorsuali consensuali: volte a


conseguire una composizione del dissesto mediante un accordo raggiunto tra debitore proponente ed
una maggioranza qualificata tra creditori.

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Gianmarco Rubino
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LUISS
LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

 L’amministrazione controllata era destinata all’imprenditore in temporanea difficoltà e con


comprovate possibilità di risanare l’impresa ed era finalizzata ad ottenere una moratoria dei
pagamenti per un periodo massimo di due anni.

 Il concordato preventivo era invece riservato agli imprenditori insolventi che rispettavano specifici
requisiti di meritevolezza fissati dalla legge, tra cui la capacità di garantire ai creditori il pagamento
di una percentuale consistente di quanto loro dovuto.

Tuttavia, gli strumenti approntati dalla legge fallimentare sono stati fatti oggetto nel tempo di crescenti
critiche: si trattava di procedure tardive, inefficienti, lente e costose. All’apertura del fallimento si arrivava
quando la decozione dell’imprenditore era ormai irreversibile.
Né migliore risultato pratico avevano quasi sempre dato il concordato preventivo e l’amministrazione
controllata, spesso usati in modo anomalo come anticamera del fallimento. Inefficienti, in quanto le vendite
fallimentari, a causa della loro macchinosità e della scarsa competenza imprenditoriale, avevano spesso esito
rovinoso.

Peraltro, la durata delle procedure concorsuali, non di rado ultradecennale, impediva per lungo tempo ai beni
inclusi nel patrimonio di ritornare nel ciclo della attività produttive. E infine poteva accadere che le somme
faticosamente raccolte tramite la liquidazione dei beni del debitore venissero in larga parte assorbite dai costi
della procedura stessa.

La spinta per il cambiamento era pertanto forte.

Già nel 1979 con la l. 95 si era avuto un primo intervento con l’introduzione della amministrazione
straordinaria delle grandi imprese insolventi. In pratica però l’istituto non ha dato buoni risultati. Nessun
giovamento ne è perciò derivato al superamento delle disfunzioni presentate dalle altre procedure
concorsuali. Il che ha condotto nel 1999 ad una radicale riforma con la l. 270.

Tuttavia a partire dal 2005 le riforme assunsero un ritmo incalzante. La L. 35/2995 viene riformato
radicalmente il concordato preventivo. Vengono soppressi i requisiti di meritevolezza che facevano barriera
all’ammissibilità della domanda. Sempre nel 2005 vengono introdotti gli accordi di ristrutturazione dei debiti
che nascono come accordi negoziali stragiudiziali vincolanti solo per i contraenti a cui l’omologazione del
giudice si limita a conferire una particolare stabilità degli effetti.

Nel 2006 con la L. 3 viene colmata una grave lacuna del nostro ordinamento con l’introduzione di procedure
concorsuali destinate ai soggetti sovraindebitati. Queste erano le procedure concorsuali da
sovraindebitamento composto da tre Istituti:
1) La procedura di liquidazione del patrimonio, finalizzata a liquidare il patrimonio del debitore
2) L’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, che mira al raggiungimento di una
soluzione della crisi da sovraindebitamento concordata tra debitore e creditori.
3) Il piano del consumatore, che è infine una procedura riservata solo ai consumatori incolpevoli del
proprio sovraindebitamento.

In definitiva il vento del cambiamento ha soffiato con forza negli ultimi anni. Da tempo difatti si avvertiva
l’esigenza di una risistemazione organica. Così si è arrivati alla l. 155/2017 (legge delega), con il quale è
stato emanato dal legislatore delegato il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D. Lgs 14/2019).
Questo è comunque un testo normativo ricco di imperfezioni e di scelte controverse di politica legislativa
(p.e. Penalizzare l’accesso al concordato preventivo).

Finalmente il 15 luglio 2022 il codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza è entrato in vigore ed ha
mandato in soffitta la legge fallimentare e la legge per le procedure da sovraindebitamento. Fine della storia?
Non proprio se consideriamo che le numerose novità del codice faranno emergere l’esigenza di ulteriori
modifiche.

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Gianmarco Rubino
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LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

3. … al Codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza

Il Codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza riunisce in un unico testo normativo le discipline delle
procedure concorsuali prima regolate dalla legge fallimentare. Restano invece fuori dal codice la disciplina
dell’amministrazione straordinaria delle grandi e grandissime imprese insolventi, nonché le leggi speciali in
tema di liquidazione.

Numerose sono le novità: il rimaneggiamento è arrivato fino a cambiare il nome stesso di alcune procedure a
cominciare dal fallimento che ora è chiamato liquidazione giudiziale, per segnare il definitivo abbandono di
ogni implicazione infamante.

Il nuovo sistema delle procedure concorsuali risulta così composto:


1) Liquidazione giudiziale: riservata agli imprenditori commerciali
2) Concordato preventivo: basato su un piano approvato dai creditori finalizzato al risanamento oppure
alla liquidazione del complesso aziendale
3) Accordi di ristrutturazione dei debiti: basato su un accordo tra debitore ed una maggioranza
qualificata di creditori.
4) Convenzione di moratorietà: è un accordo stragiudiziale con cui si pattuisce una dilazione della
scadenza dei crediti nonché la rinuncia agli atti o la sospensione delle azioni esecutive. Se approvato
da una maggioranza qualificata dei creditori appartenenti ad altra categoria, produce effetto anche
nei confronti degli altri creditori dissenzienti.
5) Liquidazione coatta amministrativa
6) Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi

Vi sono infine tre procedure da sovraindebitamento (l. 3/2012):


7) Liquidazione giudiziale del sovraindebitamento (che corrisponde alla liquidazione del patrimonio)
8) Concordato minore (che corrisponde alla composizione della crisi da sovraindebitamento)
9) Ristrutturazione dei debiti del consumatore (che corrisponde al piano del consumatore)

B. GLI STRUMENTI DI EMERSIONE ANTICIPATA DELLA CRISI. LA COMPOSIZIONE


NEGOZIATA DELLA CRISI

4. Gli assetti organizzativi adeguati. Le segnalazioni per l’emersione anticipata della crisi

L’evoluzione del diritto della crisi d’impresa segna il progressivo passaggio da una visione delle procedure
concorsuali come strumento volto a liquidare il patrimonio dell’imprenditore insolvente e ripartire il credito
tra creditori.

Il nuovo codice prevede una strategia basata su due pilastri: 1) l’autovigilanza: l’imposizione al debitore di
una serie di doveri di organizzazione e di vigilanza al fine di riconoscere tempestivamente l’esistenza di uno
stato di crisi e attivare le iniziative necessarie a superarlo 2) le segnalazioni di allerta che gli organi di
controllo interno o alcuni creditori qualificati devono far pervenire al debitore quando rilevano determinati
segnali di crisi stabiliti dalla legge.

Secondo la definizione del codice, per “crisi” si intende “lo stato del debitore che rende probabile
l’insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle
obbligazioni nei successivi 12 mesi” (art. 2 comma 1 lett. A del CCI). In sostanza, è in crisi il debitore che
non disporrà della liquidità sufficiente per adempiere regolarmente i pagamenti in scadenza nell’arco dei
successivi 12 mesi.

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Per precisare meglio il concetto, il codice indica anche alcune circostanze che costituiscono i “segnali”. E
segnatamente l’esistenza di rilevanti ritardi di pagamento per quanto riguarda gli stipendi di lavoratori,
fornitori, banche ecc.

Tutti gli imprenditori devono adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi.

L’emersione anticipata e tempestiva della crisi è inoltre agevolata da un sistema di segnalazioni di allerta
indirizzate all’imprenditore da alcuni soggetti qualificati. Si distingue al riguardi la c.d. Allerta “esterna”
dalla allerta “interna”.

 L’ allerta interna si applica specificamente alle società e consiste nell’obbligo dell’organo di


controllo interno di segnalare per iscritto all’Organo amministrativo la sussistenza dei presupposti
per presentare l’istanza di accesso alla fase di composizione negoziata della crisi (art. 25 octies CCI)

 L’alleata esterna riguarda invece tutti gli imprenditori. I soggetti obbligati a dare l’allerta sono:
l’Agenzia delle Entrate, l’Agenzia delle Entrate – Riscossione, l’INPS e l’INAIL. Essi sono tenuti ad
inviare una segnalazione al debitore quando l’esposizione di quest’ultimo nei loro confronti ha
superato determinate soglie di rilevanza fissare dall’art. 25 novies CCI.

Infine, le banche e gli intermediari finanziari nel momento in cui comunicano al cliente variazioni, revisioni
o revoche degli affidamenti ne devono dare notizia anche agli organi di controllo (art. 25 decies).

L’imprenditore che riceve una segnalazione di allerta è certamente obbligato a tenerne diligentemente conto.
Con la riforma del 2022 però non è più previsto che l’organo di controllo o gli enti pubblici facciano partire
una segnalazione ad un organismo esterno per l’avvio coattivo di un procedimento di valutazione delle
condizioni dell’impresa in crisi.

La disciplina originaria del codice della crisi prevedeva che trascorso l’organo o il
creditore segnalante facesse partire un avviso ad un organo di composizione della
crisi di impresa (OCRI), costituito presso la Camera di commercio. L’OCRI avrebbe
provveduto quindi a nominare un collegio di 3 esperti e a convocare il debitore per
una audizione.

5. I servizi di orientamento via internet. I piani di rateizzazione automatici

Nei siti internet istituzionali del Ministero della giustizia e del Ministero dello sviluppo economico sono
pubblicate informazioni aggiornate. Inoltre, gli imprenditori iscritti nel registro delle imprese possono
accedere alla nuova piattaforma telematica nazionale per la composizione negoziata e per la soluzione delle
crisi d’impresa gestita dal sistema delle camere di commercio. Sulla piattaforma è disponibile un programma
informatico gratuito che elabora i dati necessari per accertare la sostenibilità del debito esistente. Se
l’indebitamento dell’imprenditore non supera l’importo di 30.000 euro e sulla base del test effettuato tale
debito risulta sostenibile il programma informatico elabora automaticamente un piano di realizzazione.

6. I piani di risanamento attestati

È molto più probabile tuttavia che l’indebitamento superi la soglia prevista dal piano di rateizzazione
automatica. In questo caso l’imprenditore può ancora tentare la strada di predisporre un piano di
risanamento. Nella redazione del piano può avvalersi delle indicazioni contenute nella lista di controllo: la
check list è un documento che recepisce le migliori prassi operative di redazione dei piani di risanamento di
impresa e per l’analisi della loro coerenza.

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Il piano attestato di risanamento è un piano unilateralmente predisposto dall’imprenditore in stato di crisi o di


insolvenza che appare idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria e assicurare il
riequilibrio della situazione finanziaria (art. 56 CCI).

7. La composizione negoziata della crisi

La composizione negoziata della crisi (introdotta nel 2022) prevede la nomina di un esperto indipendente e
professionalmente qualificato con la funzione di facilitatore delle negoziazioni. Può presentare domanda di
nomina dell’esperto qualsiasi imprenditore (anche agricolo) che si trovi in condizioni di squilibrio
patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza (art. 12 1° comma).

L’attuale disciplina precisa che è necessario il rispetto di altri due requisiti oggettivi:
a) Che sia ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa (art. 12 1° comma)
b) Che non sia pendente nei confronti dell’imprenditore il procedimento per l’apertura di una procedura
concorsuale né l’imprenditore abbia rinunciato alla domanda di accesso ad una procedura
concorsuale da meno di quattro mesi (art. 25 quinquies).

L’istanza va presentata alla Camera di commercio e può essere presentata collettivamente da più imprese
appartenenti allo stesso gruppo per la nomina di un unico esperto incaricato di svolgere le trattative in modo
unitario (art. 25).

L’esperto viene nominato da una commissione tra gli iscritti in un apposito elenco degli esperti in
composizione negoziata della crisi formato presso ciascuna Camera di commercio. Il codice fissa dei criteri
di professionalità particolarmente elevati: bisogna essere avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro da
almeno cinque anni. L’iscrizione è subordinata inoltre allo svolgimento di una specifica formazione, tra
l’altro anche sulle tecniche di gestione delle trattative.

L’esperto deve anche essere in possesso di requisiti di indipendenza analoghi a quelli del professionista
incaricato di attestare il piano di risanamento.
 L’esperto deve auto certificare la propria indipendenza al momento dell’accettazione dell’incarico.
 Egli ha diritto ad un compenso.
 Può inoltre avvalersi di ausiliari dotati di specifiche competenze

Compito dell’esperto è quello di agevolare le trattative tra le parti. Egli deve osservare la riservatezza delle
informazioni acquisite nell’esercizio delle sue funzioni. Rientra tra i compiti dell’esperto verificare la
coerenza complessiva delle informazioni fornite dall’imprenditore anche mediante l’accesso alle banche dati
dell’Agenzia delle entrate, degli enti previdenziali e alla Centrale dei rischi della Banca di Italia. Non rientra
invece nelle sue funzioni attestare ai creditori la veridicità o la fattibilità del piano proposto
dall’Imprenditore.

Non meno importante è la possibilità per l’imprenditore di chiedere l’applicazione di misure protettive del
proprio patrimonio. La domanda può essere presentata insieme alla nomina dell’esperto oppure
successivamente. Le misure protettive richieste diventano efficaci dal giorno della pubblicazione ma sono
soggette a successiva convalida. All’esito dell’udienza di conferma, il tribunale provvede inoltre a
determinare la durata delle misure protettive.

L’applicazione di misure protettive comporta questi effetti:


1) I creditori non possono acquisire diritti di prelazione non concordati con l’imprenditore né possono
iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul suo patrimonio o sui beni e diritti aziendali;
2) I creditori non possono esercitare i rimedi contrattuali per l’inadempimento per il solo fatto del
mancato pagamento di crediti anteriori rispetto alla pubblicazione della domanda di misure protettive
3) Fino alla conclusione delle trattative, non può essere pronunciata la sentenza di apertura della
liquidazione giudiziale o di accertamento dello stato di insolvenza
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L’imprenditore può calibrare la portata delle misure di cui ai numeri 1 e 2 ed eventualmente chiedere che le
stesse non si applichino a tutti bensì solo ad alcune categorie di creditori. Sono sempre esclusi dalle misure
protettive però i diritti di credito dei lavoratori.

Nel corso delle trattative, l’imprenditore conserva la gestione dell’impresa e può compiere tutti gli atti di
ordinaria e straordinaria amministrazione, né gli è inibito di effettuare pagamenti. Deve però astenersi dal
compiere atti che pregiudicano ingiustamente gli interessi dei creditori (art. 16 4° comma) e deve gestire
l’impresa in crisi in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività.

Gli atti compiuti dall’imprenditore dopo l’accettazione dell’esperto che siano coerenti con le trattative non
sono soggette alla revocatoria concorsuale degli atti normali. Qualora invece l’imprenditore intenda
compiere atti di straordinaria amministrazione deve informare preventivamente l’esperto. L’operazione può
essere compiuta nonostante l’opposizione dell’esperto ma se pregiudica gli interessi dei creditori questo deve
rendere pubblico il proprio dissenso. Inoltre l’atto potrà essere revocato e comportare l’incriminazione per
bancarotta in caso di successiva liquidazione giudiziale (art. 24 3°, 5° comma).
Con l’autorizzazione del Tribunale è consentito:
a) Contrarre finanziamenti
b) Effettuare trasferimento d’azienda

Lo svolgimento della composizione negoziata avviene in maniera informale sotto l’impulso dell’esperto.
Dopo l’accettazione dell’incarico, l’esperto deve innanzitutto convocare l’imprenditore. Se egli arriva alla
conclusione che non ci sono prospettive di risanamento, chiede l’archiviazione dell’istanza di composizone.
Se invece ritiene che il risanamento è possibile, allora incontra anche le altre parti e prospetta le possibili
strategie di intervento.

Le parti coinvolte nelle trattative sono libere di non aderire alle proposte ricevute. Devono inoltre mantenere
la riservatezza sulla situazione del debitore, sulle iniziative da questo assunte e sulle informazioni acquisite.

Le trattative possono proseguire fino a 180 giorni, prorogabili di altri 180 quando è pendente un
procedimento davanti al tribunale per la concessione di autorizzazioni o misure protettive.

L’archiviazione comporta che l’imprenditore non può presentare una nuova domanda di composizione
negoziata prima di un anno.

Con la riforma del 2022, non è più previsto però che si dia notizia dell’esito negativo. Qualora la
composizone negoziata sia andata a buon fine, il risultato è un contratto tra l’imprenditore ed uno o più
creditori che consenta di superare la crisi ma può anche essere stipulata una convenzione di moratoria oppure
un accordo che abbia gli stessi effetti del piano attestato di risanamento.

In caso contrario, l’imprenditore potrà proseguire la ricerca di una soluzione della crisi o dell’insolvenza
attraverso altri strumenti: predisporre unilateralmente un piano di risanamento, domandare l’omologazione di
un accordo di ristrutturazione dei debiti o chiedere l’ammissione di altra procedura concorsuale.

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CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO
LA LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE

A. L’APERTURA DELLA LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE

1. I presupposti della liquidazione giudiziale

Liquidazione giudiziale è il nuovo nome dato dal codice della crisi e dell’insolvenza alla procedura di
fallimento. Nella sistematica del codice della crisi, è considerata come extrema ratio. E questo lo si vede
bene nell’art. 7 CCI dove si stabilisce che tutte le domande presentate dall’imprenditore o contro di lui per
l’apertura di una procedura concorsuale devono essere trattate in un unico procedimento ma il tribunale
esamina in via prioritaria quella diretta a regolare la crisi o l’insolvenza con strumenti diversi dalla
liquidazione giudiziale.

Presupposti per l’apertura della liquidazione sono:


a) La qualità di imprenditore commerciale del debitore;
b) Lo stato di insolvenza dello stesso;
c) Il superamento di almeno uno dei limiti dimensionali fissati dall’art. 3 1° comma lett. D CCI
d) La presenza di inadempimenti complessivamente superiori all’importo fissato dalla legge

L’ambito di applicazione della liquidazione giudiziale subisce alcune limitazioni in quanto:


1) La liquidazione giudiziale è sostituita dalla liquidazione coatta amministrativa per alcune categorie
di imprenditori commerciali (art. 295 CCI ). Ad esempio, imprese bancarie ed assicurative,
società di intermediazione mobiliare, imprese sociali
2) La liquidazione giudiziale cede il passo all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in
stato di insolvenza quando ricorrono i presupposti specifici per l’applicazione di tale procedura
3) Gli enti pubblici sono esonerati dalla liquidazione giudiziale
4) Le società c.d. Start-up innovative iscritte nella apposita sezione del registro delle imprese, sono
soggette alle procedure concorsuali delle crisi da sovraindebitamento.

Primo presupposto oggettivo della liquidazione giudiziale è, come anticipato, lo stato di insolvenza
dell’imprenditore.

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L’imprenditore versa in stato di insolvenza quando non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie
obbligazioni (art. 2 1° comma lett. A CCI). Presupposto oggettivo della liquidazione giudiziale è dunque una
situazione patologica ed irreversibile che coinvolge l’intero patrimonio dell’imprenditore. L’insolvenza può
tuttavia manifestarsi anche indipendentemente dagli inadempimenti attraverso fatti esteriori.

È evidente perciò che altro è stato di insolvenza altro è inadempimento: il primo è una situazione del
patrimonio del debitore; il secondo è un fatto che rileva come uno dei possibili indici dello stato di
insolvenza. Infatti, un imprenditore può aver soddisfatto tutti i suoi debiti ed essere ciò nonostante
insolvente. Viceversa, l’imoprenditore può essere inadempiente senza essere insolvente. Infine, proprio
perché l’insolvenza è una situazione di impotenza patrimoniale non transitoria, essa non si identifica
necessariamente con l’eccedenza delle passività rispetto alle attività (squilibrio patrimoniale). Il passivo può
superare l’attivo senza che vi sia insolvenza se l’imprenditore ispira ancora fiducia e riesce a procurarsi
normalmente i mezzi finanziari per pagare i debiti che scadono.

In base alla attuale disciplina per aprire la liquidazione giudiziale devono sussistere entrambe le circostanze.
Il dissesto non ha assunto per la legge rilievo sociale ed economico. Perciò, il CCI dispone che non si fa
luogo all’apertura della liquidazione giudiziale se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli
atti dell’istruttoria è complessivamente inferiore a 30.000 euro.

In particolare, l’attuale disciplina prevede che non è soggetto a liquidazione giudiziale l’imprenditore
commerciale che dimostri il possesso congiunto dei seguenti requisiti:
a) Aver avuto nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza un attivo patrimoniale di
ammontare complessivo annoio non superiore ad euro trecentomila
b) Aver realizzato nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di liquidazione giudiziale
ricavi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro 200.000
c) Avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro 150.000

Basta aver superato anche solo uno degli indicati limiti dimensionali per poter essere sottoposti a
liquidazione giudiziale. Inoltre spetta al debitore l’onere di provare di essere imprenditore minore cosicchè
nel dubbio la liquidazione giudiziale sarà comunque aperta.

2. La liquidazione giudiziale dell’imprenditore cessato e defunto

La cessazione dell’attività di impresa o la morte dell’imprenditore non impediscono la liquidazione


giudiziale. La liquidazione giudiziale può essere però aperta solo se non è trascorso più di un anno dalla
cancellazione dal registro delle imprese, oppure se l’imprenditore non era iscritto nel registro entro un anno
dal momento in cui i terzi hanno avuto conoscenza della cessazione.

È inoltre necessario che lo stato di insolvenza si sia manifestato prima di tali eventi o entro l’anno
successivo.

La liquidazione giudiziale dell’imprenditore defunto può essere chiesta anche dall’erede.

D’altro canto la apertura della liquidazione giudiziale del defunto su iniziativa degli altri soggetti legittimati
elimina la confusione con il patrimonio dell’erede.

Se l’imprenditore muore dopo l’apertura della liquidazione giudiziale, la procedura prosegue nei confronti
degli eredi anche se hanno accettato con beneficio di inventario.

3. L’apertura della liquidazione giudiziale

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La procedura di liquidazione giudiziale è aperta su ricorso presentato da uno dei soggetti legittimati: 1) uno o
più creditori 2) il debitore 3) il pubblico

Il tribunale non può procedere d’ufficio tuttavia se rileva l’insolvenza nel corso di un procedimento lo
segnala al pubblico ministero.

L’iniziativa di uno o più creditori è l’ipotesi più frequente nella pratica. Non è necessario che il credito
vantato riguardi l’attività di impresa del debitore né che il ricorso provenga da più creditori.

D’altro canto l’ insufficienza delle prove addotte per dimostrare che ricorrono i presupposti della
liquidazione giudiziale non giustifica di per se il rigetto della domanda. L’iniziativa del debitore costituisce
di regola una facoltà dello stesso e l’imprenditore può aver interesse a provocare l’apertura della liquidazione
giudiziale per sottrarsi ad una serie di azioni esecutive individuali in atto.

L’imprenditore che chiede l’apertura della liquidazione giudiziale deve depositare presso la cancelleria del
tribunale una serie di documenti (art. 39):
 Le scritture contabili e fiscali obbligatorie,
 Le dichiarazioni fiscali dei tre esercizi precedenti ovvero dall’inizio dell’impresa se questa ha avuto
minore durata,
 Una relazione sulla sua situazione economica, patrimoniale e finanziaria aggiornata
 Uno stato particolareggiato ed estimativo delle sue attività
 L’elenco nominativo dei creditori e dei rispettivi crediti nonché di coloro che vantano diritti reali e
personali su cose in suo possesso
 Una relazione riepilogativa degli atti di straordinaria amministrazione compiuti nel quinquennio
anteriore

Il Pubblico ministero ha il potere-dovere di chiedere l’apertura della liquidazione giudiziale in ogni caso in
cui ha notizia dell’esistenza di uno stato di insolvenza (art. 38).

Competente per l’apertura della liquidazione giudiziale è il tribunale nel cui circondario l’imprenditore ha il
centro degli interessi principali (art. 27 2° comma).

Non rileva tuttavia ai fini della competenza il trasferimento del centro di interessi principali nell’anno
antecedente alla domanda di liquidazione giudiziale (art, 28). Si vuole così impedire che il trasferimento
della sede serva da espediente all’imprenditore insolvente per ostacolare o ritardare l’apertura della
liquidazione.

L’imprenditore che ha il centro degli interessi principali all’estero può essere assoggettato a liquidazione
giudiziale in Italia, quando ha una dipendenza nel territorio dello Stato. Inoltre, la giurisdizione italiana non
viene meno per effetto del trasferimento all’estero del centro di interessi principali nell’anno precedente alla
domanda di liquidazione giudiziale ovvero di altro strumento di regolamentazione della crisi o
dell’insolvenza.

Il codice della crisi e dell’insolvenza disciplina un procedimento speciale per l’apertura della liquidazione
giudiziale che mira a contemperare la necessaria speditezza nell’avvio della procedura concorsuale con il
rispetto del diritto di difesa del debitore: un procedimento caratterizzato da maggiore semplicità di forme
rispetto al rito ordinario ma comunque preordinato a raggiungere un accertamento non sommario dei
presupposti di legge.

La domanda presentata dal debitore viene trasmessa d’ufficio al PM. Solo quando l’istanza di liquidazione
proviene dal debitore se ne dà anche pubblicità mediante iscrizione d’ufficio nel registro delle imprese (art.
40 3° comma). Il tribunale può delegare lo svolgimento dell’istruttoria ad un giudice relatore. Il debitore e
l’autore del ricorso devono essere sentiti in udienza.

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Il tribunale è dotato di poteri inquisitori e può perciò disporre d’ufficio di tutti i mezzi istruttori che ritiene
opportuni al fine di accertare l’esistenza dei presupposti per l’apertura della liquidazione giudiziale (art. 41
6° comma CCI).

Il tribunale infine su istanza di parte può emettere i provvedimenti cautelari che appaiono secondo le
circostanze più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della sentenza che dichiara l’apertura della
liquidazione quale il sequestro giudiziario dell’azienda e la nomina di un custode.

Inoltre, il debitore che domanda la propria liquidazione giudiziale può contestualmente richiedere il blocco
delle azioni esecutive e cautelari dei creditori sul suo patrimonio per un periodo massimo di 4 mesi.

Il giudice stabilisce la durata delle misure protettive o cautelari e, su istanza di parte, può prorogarle,
modificarle o revocarle (art. 55 4° comma). La durata complessiva non può tuttavia superare il termine di
dodici mesi.

Sono esclusi dalla applicazione di misure protettive i diritti di credito dei lavoratori.

Se il tribunale ritiene di non dover accogliere la domanda di liquidazione giudiziale allora provvede con
decreto motivato.

L’apertura della liquidazione giudiziale è invece dichiarata dal tribunale con sentenza (art. 49).

La sentenza contiene anche alcuni provvedimenti necessari per lo svolgimento della procedura:
 Nomina il giudice delegato ed il curatore,
 Ordina al debitore il deposito dei bilanci, dei libri sociali, delle dichiarazioni tributarie, delle scritture
contabili e fiscali obbligatorie e dell’elenco dei creditori entro 3 giorni;
 Fissa i termini relativi al procedimento di accertamento dello stato passivo (Agenzia delle entrate,
banche ecc)
 Autorizza il curatore a procurarsi presso terzi informazioni e documenti relativi ai rapporti con
l’impresa debitrice

La sentenza viene comunicata d’ufficio al debitore, al Pubblico ministero e a coloro che hanno presentato la
domanda. È inoltre resa pubblica mediante iscrizione al registro delle imprese. La sentenza è
immediatamente esecutiva tra le parti del processo. Invece gli effetti nei riguardi dei terzi si producono solo
dalla data di iscrizione del provvedimento.

4. Il reclamo. La revoca della liquidazione giudiziale

La sentenza può essere impugnata mediante reclamo alla corte d’appello (art. 51 CCI)

L’impugnazione non sospende gli effetti della sentenza: nel giudizio di reclamo si dibatte sugli eventuali vizi
del procedimento di primo grado e soprattutto sul unto se i presupposti della liquidazione giudiziale
esistevano o meno all’epoca della sentenza che la dispone. Quindi la liquidazione giudiziale deve essere
revocata qualora si accerti che l’imprenditore non era insolvente al momento della apertura. In questa
circostanza, però, la corte d’appello deve segnalare l’insolvenza al Pubblico ministero affinché chieda
l’apertura di una nuova liquidazione giudiziale i cui effetti decorrevano da tale data.

Contro la sentenza che decide il reclamo si può proporre ricorso per Cassazione nel termine abbreviato di 30
giorni d’ala notificazione d’ufficio del provvedimento (art. 51 13° comma).

Con la sentenza che accoglie il reclamo la liquidazione giudiziale è revocata. Il provvedimento è pubblicato
nel registro delle imprese (art. 51 12° comma). Ma sul piano patrimoniale ciò che è stato ormai è stato.
Restano infatti salvi gli effetti degli atti legalmente compiuti dagli organi concorsuali (art. 53).
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Al debitore non resta che rivolgersi nei confronti del creditore istante per ottenere la condanna al
risarcimento dei danni. E se è così, a carico del creditore istante sono anche le spese di procedura ed il
compenso del curatore. Altrimenti, spese e compenso giravamo sul debitore se all’origine dell’apertura della
liquidazione vi è stato un suo comportamento colposo. In caso contrario le spese della procedura ed il
compenso al curatore sono a carico dello Stato.

B. GLI ORGANI DELLA LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE

5. Il tribunale concorsuale

La procedura della liquidazione giudiziale richiede lo svolgimento di una complessa attività giudiziaria e
amministrativa volta all’accertamento, liquidazione del patrimonio dell’imprenditore e ripartizione del
ricavato fra i creditori.

Per tali attività sono preposti quattro organi , ciascuno con proprie funzioni:
1) il tribunale concorsuale;
2) il giudice delegato;
3) il curatore;
4) il comitato dei creditori

Partendo dal tribunale, esso è investito dell’intera procedura concorsuale e controlla il corretto svolgimento
della stessa. In particolare, il tribunale concorsuale:
a) Nomina il giudice delegato e il curatore, ne sorveglia l’operato e può sostituirli per giustificati
motivi;
b) Sostituisce i componenti del comitato dei creditori;
c) Decide le controversie relative alla procedura che non sono di competenza del giudice delegato
d) Può in ogni tempo chiedere chiarimenti e informazioni al curatore, al debitore e al comitato dei
creditori.

Tutti questi provvedimenti sono attuati dal tribunale con decreto. Per la vecchia disciplina, tali decreti non
erano soggetti a reclamo, anche se l’attuale disciplina stabilisce che si può presentare reclamo alla corte
d’appello per il curatore, il debitore, il comitato dei creditori e chiunque vi abbia interesse.

Il reclamo deve essere proposto entro 10 giorni dalla notificazione del decreto, e non sospende la sua
esecuzione. La Corte d’appello, poi, decide con speciale procedimento in camera di consiglio. Inoltre, il
tribunale concorsuale è competente a decidere su tutte le controversie che derivano dalla liquidazione. Si
deduce quindi che il tribunale fallimentare ha vasta competenza, salvo che l’azione derivi dal fallimento
(formula da estendersi nel senso che non rientrano nella competenza del tribunale solo le azioni che si
originano dallo stato di dissesto, ma anche quelle che incidono sul patri- monio del fallito).

6. Il giudice delegato

Il giudice delegato vigila sulle operazioni del fallimento e controlla la regolarità della procedura. Dalla
riforma del 2006 ha invece perso la funzione di dirigere le operazioni di fallimento, ora riconosciuta al
curatore.

In particolare, il giudice delegato:


a) Nomina il comitato dei creditori e, in caso di inerzia, impossibilità di funzionamento o urgenza, pone
in essere gli atti che rientrano nella competenza di tale organo;
b) Forma lo stato passivo del fallimento e lo rende esecutivo con decreto;
c) Autorizza il curatore a stare in giudizio;
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d) Decide sui reclami posti contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori;
e) Emette i provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio.

I provvedimenti del giudice delegato sono adottati con decreto motivato. Contro tali decreti chiunque vi
abbia interesse può porre reclamo dinanzi il tribunale fallimentare, con stessa procedura dei reclami contro i
decreti del tribunale concorsuale. Il reclamo non sospende l’esecuzione.

7. Il curatore

Il curatore è l’organo preposto all’amministrazione del patrimonio fallimentare, e compie tutte le operazioni
della procedura connesse ad esso. Inoltre, il curatore è investito della qualità di pubblico ufficiale.

Il curatore è nominato dal tribunale con la sentenza che dichiara l’apertura della liquidazione, o con decreto
in caso di seguente sostituzione o revoca. Esso è scelto fra avvocati, ragionieri, dottori commercialisti, ma
può anche essere nominato tra persone che hanno svolto funzioni di amministrazione e controllo in società
per azioni. Inoltre, ad oggi l’incarico si può attribuire non più solo al singolo, ma anche a studi associati o
società fra professionisti.

Per la nuova disciplina, anche i creditori possono influire sulla designazione del curatore: difatti, concluso
l’esame dello stato passivo e prima dell’esecuzione di questo, i creditori che rappresentino la maggioranza
dei crediti possono chiedere la sostituzione del curatore, indicando al tribunale la motivazione della richiesta
e un nuovo nominativo. Il tribunale, verificata la presenza dei requisiti di legge, nomina il soggetto designato
dai creditori.

Il curatore ha diritto a un compenso per l’attività svolta (dato da una percentuale dell’attivo realizzato) e al
rimborso delle spese sostenute. Può essere sempre revocato dal tribunale, su richiesta del giudice delegato o
del comitato dei creditori.
Inoltre, entro 60 giorni dalla dichiarazione di fallimento, il curatore deve presentare al giudice de- legato una
relazione sulle cause del dissesto e sulle eventuali responsabilità del fallito.

Come detto, funzione centrale è quella di conservare, gestire e realizzare il patrimonio fallimentare sotto la
vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori. Per gli atti di straordinaria amministrazione si
necessita poi l’autorizzazione del comitato dei creditori.

Il curatore esercita personalmente le proprie funzioni, essendo la delega ad altri ammessa (eccetto per atti di
particolare rilevanza) solo per singole operazioni e previa autorizzazione del comitato dei creditori. Il
compenso del delegato è detratto dal compenso per il curatore.

Nonostante ciò, il curatore può essere anche autorizzato dal comitato dei creditori a farsi coadiuvare da
tecnici o altre persone retribuite, compreso il debitore (c.d. coadiutori).

Il curatore deve adempiere con diligenza i doveri lui attribuiti, dovendo risarcire per danni causati dalla sua
gestione, anche se compiuti previa autorizzazione del giudice delegato o comitato dei cre- ditori.

Durante lo svolgimento della procedura, l’azione di responsabilità contro il curatore revocato è posta dal
nuovo cura- tore previa autorizzazione del giudice delegato o comitato dei creditori. Inoltre, contro gli atti
del curatore, il fallito e ogni interessato possono porre reclamo al giudice entro otto giorni dalla conoscenza
dell’atto, e contro il decreto del giudice è ammesso ricorso in tribunale (sempre con termine di 8 giorni).

8. Il comitato dei creditori

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Il comitato dei creditori vigila sull’operato del curatore, ne autorizza gli atti ed esprime pareri, nei casi
previsti dalla legge o su richiesta del tribunale o giudice delegato.

Il comitato è composto da tre o cinque membri scelti fra i creditori ed è nominato dal giudice delegato entro
30 giorni dalla sentenza di fallimento. Tuttavia, poiché in tale fase iniziale della procedura non è ancora stato
accertato il passivo, e dunque non si conoscono i creditori concorrenti, il giu- dice procede in base alle
istanze documentali e sentendo il curatore e i creditori interessati. Nulla toglie però che in seguito il giudice
delegato possa modificare la composizione del comitato in base alle modificazioni dello stato passivo.

Inoltre, così come col curatore, concluso l’esame dello stato passivo i creditori che rappresentano la
maggioranza dei crediti possono effettuare nuove designazioni del comitato dei creditori.
Il comitato, convocato per la prima volta dal curatore, nomina a maggioranza un presidente, e que- st’ultimo
convoca in seguito l’organo per adottare le deliberazioni. Il comitato delibera a maggio- ranza dei votanti, e
deve adottare i provvedimenti entro quindici giorni da quando la richiesta è pervenuta al presidente.
In caso di mancata costituzione dell’organo per insufficienza o indisponibilità dei creditori, provve- de in via
sostitutiva il giudice delegato.

Inoltre, contro gli atti del comitato dei creditori si può fare ricorso al giudice delegato nelle stesse modalità
previste per il reclamo contro gli atti del curatore. Se il giudice accoglie il reclamo, si provvede alla
sostituzione del comitato.

In origine, il comitato aveva rilievo marginale e con funzioni consultive, essendo il suo parere ob- bligatorio
in certi casi ma quasi mai vincolante. La riforma del 2006 ha invece rafforzato il ruolo del comitato:
Il parere del comitato, come in passato, è per lo più non vincolante, vincolando solo in alcuni casi (es. sulla
restituzione di beni mobili di terzi; sulla continuazione temporanea dell’attività d’impresa; sull’affitto di
azienda).

Inoltre, l’attuale disciplina prevede che il comitato dei creditori autorizzi alcuni atti del curatore: atti di
straordinaria amministrazione; nomina di coadiutori del curatore; delega ad altri di operazioni del curatore;
azione di responsabilità contro il curatore revocato.
Il comitato dei creditori e ogni suo membro possono sempre ispezionare le scritture contabili e i documenti
del fallimento, avendo inoltre diritto di chiedere notizie e chiarimenti al curatore e al falli- to.

Il comitato può anche presentare istanza al tribunale per la revoca del curatore, ed esercitare l’azione di
responsabilità contro il curatore revocato.

Dunque, viste le più ampie funzioni, e dunque anche responsabilità, l’attuale disciplina riconosce ai
componenti del comitato il diritto al rimborso delle spese, oltre a un compenso non superiore al 10% di
quello liquidato al curatore.

C. EFFETTI DELLA LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE

9. Effetti della liquidazione giudiziale per il debitore: effetti patrimoniali

L’apertura della liquidazione giudiziale produce molteplici effetti che possono essere patrimoniali, personali
e penali. Con la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale il debitore perde l’amministrazione e
la disponibilità (ma non la proprietà) dei suoi beni ex art. 142 CCI.

Lo spossessamento colpisce tutti i beni eccezion fatta per quelli elencati dall’art. 146, vale a dire:
a) I beni ed i diritti di natura strettamente personale
b) Gli assegni a carattere alimentare, stipendi, pensioni, salari, nei limiti di quanto occorre per il
mantenimento del debitore e della sua famiglia
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c) I frutti derivanti dall’usufrutto legale sui beni dei figli ed i beni costituiti in fondo patrimoniale con i
loro frutti
d) Le cose che non possono essere pignorate

Inoltre, se è proprietario della propria abitazione, il debitore ha il diritto di continuare ad abitarla fino alla
vendita.

Se privo di mezzi, il debitore può ottenere dal giudice la concessione di un sussidio a titolo di alimenti (art.
147).

Lo spossessamento si estende ai beni che pervengono al debitore durante la liquidazione giudiziale a titolo
gratuito ed oneroso. Per i beni sopravvenuti vanno però dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la
conservazione degli stessi.

Del pari, il curatore previa autorizzazione del Comitato dei creditori può decidere di non acquisire all’attivo
un bene esistente nel patrimonio del debitore alla data di apertura della liquidazione giudiziaria o rinunciare a
liquidarlo dopo che è stato appreso alla massa della procedura se l’attività di liquidazione appaia
manifetstatamente antieconomica. In questo caso il bene ritorna nella disponibilità del debitore, ed i creditori
possono su di esso esercitare azioni esecutive individuali.

Con la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale il debitore non poterne la capacità di agire né
perde la proprietà dei beni oggetto dello spossessamento fino a quando non siano stati trasferiti a terzi cin atti
di disposizione dell’amministrazione della procedura.

Gli atti posti in essere dal debitore sono però inefficaci rispetto alla massa dei creditori.

L’art. 144 va tuttavia coordinato con l’art. 142, che prevede l’acquisizione alla liquidazione giudiziale dei
beni sopravvenuti al netto delle passività.

La perdita dell’amministrazione e della disponibilità del patrimonio comporta infine che il debitore non
possa stare in giudizio né come attore né come convenuto nelle cause relative a rapporti patrimoniali
compresi nella liquidazione giudiziale. In suo luogo starà in giudizio il curatore. Il debitore può intervenire
nel giudizio solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico o se
l’intervento è previsto dalla legge.

10. Effetti personali e penali

Con la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale il debitore vede limitati alcuni diritti civili
garantiti dalla Costituzione: il diritto al segreto epistolare (art. 15 Cost) ed il diritto alla libertà di movimento
(art. 16 Cost).

Infatti, la corrispondenza indirizzata al debitore che non sia persona fisica viene direttamente consegnata al
creditore. Invece, nel caso di persona fisica, si evita che il curatore prenda visione anche della
corrispondenza a carattere privato e personale: in questo caso essa viene consegnata al debitore che ha però
l’obbligo di consegnare al curatore quella riguardante i rapporti compresi nella liquidazione giudiziale (art.
148 CCI).

Il debitore è inoltre tenuto a comunicare al curatore ogni cambiamento della propria residenza o del proprio
domicilio e deve presentarsi agli organi della procedura ogni qual volta è chiamato per fornire informazioni e
chiarimenti (art. 149).

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Il debitore nei cui confronti è stata aperta la liquidazione giudiziale non può essere amministratore, sindaco,
revisore o liquidatore di società, non può essere iscritto all’albo degli avvocati o dei dottori commercialisti e
non può svolgere la funzione di tutore, amministratore di sostegno, arbitro e notaio.

Sono state altresì soppresse le incapacità politiche che in passato colpivano il fallito: perdita dell’elettorato
attivo e passivo; interdizione dai Pubblici uffici.

La liquidazione giudiziale espone infine il debitore a sanzioni penali per fatti compiuti prima dell’apertura
della procedura o anche successivamente e che la legge configura come reati in quanto diretti a recare
pregiudizi ai creditori. Esse sono:
a) La bancarotta fraudolenta (art. 322), caratterizzata dal dolo
b) La bancarotta semplice (art. 323), caratterizzata dalla sola colpa dell’imprenditore e dunque punita
con peni più lievi
c) Il ricorso abusivo al credito, reato di chi ricorre o continua a ricorrere al credito dissimulando il
proprio dissesto (art. 325)

11. Effetti della liquidazione giudiziale per i creditori

L’art. 151 CCI dispone che la liquidazione giudiziale apre il concorso dei creditori sul patrimonio del
debitore.

Diventano in tal modo creditori concorrenti i creditori concorsuali che acquistano il diritto di partecipare alla
ripartizione dell’attivo. Tuttavia essi non sono messi tutti sullo stesso piano: da qui la distinzione tra creditori
chirografari e creditori privilegiati, ossia garantiti da pegno, ipoteca o privilegio.

Il principio della par condicio creditorum non incide sui diritti specifici dei creditori privilegiati. Questi
hanno diritto di prelazione sul ricavato della vendita del bene oggetto di garanzia. Se in tal modo non sono
soddisfatti integralmente, allora concorrono per il residuo alla pari dei creditori chirografari (art. 153). I
creditori chirografari invece partecipano solo alla ripartizione dell’attivo non gravato da vincoli.

Si definiscono infine i creditori postregati quelli che devono essere soddisfatti dopo il pagamento dei
creditori chirografari (ad esempio i soci che hanno concesso finanziamenti alla società nelle condizioni
indicate dall’art. 2467 cc).

Dai creditori concorrenti, siano essi chirografari, privilegiati o postregati, vanno distinti i creditori della
massa.
Sono tali coloro i cui crediti devono essere soddisfatti in prededuzione: vale a dire prima dei creditori
concorrenti per intero.

Sono crediti prededucibili quelli così qualificati da una specifica disposizione di legge nonché i crediti
legalmente sorti durante le procedure concorsuali per la gestione del patrimonio del debitore e la
continuazione dell’esercizio dell’impresa, il compenso degli organi preposti e le prestazioni professionali
richieste dagli organi medesimi.

Sono pertanto creditori della massa coloro che diventano creditori del debitore dopo la dichiarazione di
apertura della liquidazione giudiziale per atti compiuti dagli organi della procedura.

L’apertura della liquidazione giudiziale incide innanzitutto sulle modalità processuali di realizzazione del
credito. All’esecuzione individuale sui beni del debitore si sostituisce infatti l’esecuzione collettiva
concorsuale. Due sono i principi cardine al riguardo:
a) Ogni credito deve essere accertato giudizialmente nell’ambito della liquidazione giudiziale, secondo
le norme fissate per la formazione dello stato passivo.

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b) Dal giorno della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale nessuna azione esecutiva
individuale può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nella procedura (art. 150).

Resta inoltre preclusa ogni altra azione cautelare dei creditori diretta a sottrarre beni all’esecuzione
concorsuale mentre il curatore si sostituisce ai creditori nelle azioni volte a ricostruire il patrimonio del
debitore.

Il divieto di azioni esecutive individuali subisce tuttavia alcune eccezioni:


1) I creditori garantiti da pegno o assistiti da privilegio speciale su mobili con diritto di ritenzione
possono essere autorizzati dal giudice delegato alla vendita dei beni vincolati o farseli assegnare in
pagamento (art. 152 CCI) una volta ammessi al passivo con prelazione.
2) Analogamente, i creditori garantiti da pegno mobiliare non possessorio possono escutere la garanzia
nelle forme previste dalla legge speciale dopo l’ammissione al passivo con prelazione
3) Le banche possono iniziare o proseguire l’azione esecutiva individuale sugli immobili ipotecati a
garanzia di operazioni di credito fondiario, di credito alle opere pubbliche e di credito agrario.
4) Le banche e gli altri enti finanziari pubblici o privati indicati dal D. Lgs 170/2004 possono escutere
il pegno avente ad oggetto attività finanziarie ottenuto a garanzia di obbligazioni finanziarie con le
formalità previste dal contratto senza autorizzazione del giudice delegato.

In tutti questi casi il creditore dopo l’escussione della garanzia deve restituire alla liquidazione giudiziale
l’eventuale eccedenza rispetto a quanto gli è dovuto.

12. La determinazione dei crediti

Tutti i debiti pecuniari del debitore si considerano scaduti agli effetti del concorso alla data di dichiarazione
di apertura della liquidazione giudiziale (art. 154 2° comma CCI). Ed al concorso hanno diritto di partecipare
anche coloro che vantano un credito sottoposto a condizione o che può essere fatto valere verso il debitore.

Altra regola generale è che i creditori partecipano al concorso per l’importo che il loro credito ha al momento
della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale.

Infatti, l’apertura della liquidazione sospende il corso degli interessi.

Ancora, i crediti non pecuniari e quelli pecuniari determinati con riferimento ad altri valori concorrono se
non ancora scaduti secondo il loro valore alla data della dichiarazione di apertura della dichiarazione
giudiziale (art. 158).

Regole particolari vengono infine dettate per determinare il valore attuale dei crediti derivanti da titoli
obbligazionari ed altri titoli di debito a premio (art. 157) nonché da rendite perpetue o vitalizie (art. 159).
La scadenza anticipata dei crediti verso il debitore si riflette poi sulla disciplina della compensazione in sede
concorsuale (arr. 155). La possibilità di compensazione è ampliata: è infatti a essa anche se il credito verso
l’imprenditore non è scaduto prima dell’apertura della procedura concorsuale.

Inoltre, è orientamento consolidato che il diritto del creditore di far valere la compensazione non è
subordinato all’ammissione del suo credito al passivo della procedura, consentendosi al creditore non
insinuato al passivo di opporre la compensazione, in via di eccezione, nel giudizio promosso dal curatore per
ottenere la condanna al pagamento del credito dell’imprenditore sottoposto alla liquidazione.

L’attuale disciplina estende l’esclusione anche all’acquisto di crediti verso l’imprenditore già scaduti al
momento della domanda di liquidazione giudiziale; inoltre fa decorrere il termine a ritroso dal momento
della domanda e non dalla dichiarazione di apertura della procedura.

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Norme specifiche sono infine dettate per l’ipotesi in cui il credito sia vantato verso più obbligati in solido, al
fine di evitare che la liquidazione giudiziale di uno o più di essi pregiudichi la posizione del creditore. I
principi cardine di tale disciplina sono così sintetizzabili:
1) Il creditore concorre alla liquidazione giudiziale di ciascuno dei co-obbligati per l’intero credito
ancora vantato alla data di apertura della procedura concorsuale fino al totale pagamento
2) I diritti che spettano ai co-obbligati verso il debitore sottoposto a liquidazione giudiziale vanno a
beneficio del creditore fino a quanto questi non sia integralmente soddisfatto.

13. Effetti della liquidazione giudiziale sugli atti pregiudizievoli ai creditori

Di regola intercorre un certo intervallo di tempo tra il momento in cui si manifesta lo stato di insolvenza è
quello in cui la liquidazione giudiziale è dichiarata aperta. In tale periodo l’imprenditore può aver compiuto
una serie di atti che alterano l’integrità del proprio patrimonio.

Il singolo creditore può infatti ottenere dal giudice che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di
disposizione con i quali il debitore reca pregiudizio alle sue ragioni e così soddisfarsi sui relativi beni (art.
2902 cc). L’azione revocatoria ordinaria non è però di agevole esercizio. Incombe infatti sul creditore agente
l’onere di provare l’eventus damni (l’impossibilità cioè di soddisfarsi sul residuo patrimonio del debitore)
nonché il consilium fraudis del debitore e, se l’atto è a titolo oneroso, del terzo (art. 2901).

L’azione revocatoria ordinaria è esercitabile anche in caso di liquidazione giudiziale di un imprenditore ed è


esercitata dal curatore nell’interesse di tutti i creditori (art. 165 CCI). In caso di liquidazione giudiziale però
con la disciplina della revocatoria ordinaria concorre anche la specifica disciplina della revocatoria
concorsuale (artt. 163, 164, 166 CCI).

Il principio ispiratore della revocatoria concorsuale è che tutti gli atti posti in essere dall’imprenditore in
stato di insolvenza si presumono pregiudizievoli per i creditori perché idonei quanto meno ad alterare la par
condicio creditorum. Il curatore che agisce in revocatoria è perciò dispensato dall’onere di provare l’eventus
damni ed il consilium fraudis.

Presupposti della revocatoria concorsuale:


a) Lo stato di insolvenza (presupposto oggettivo)
b) La conoscenza dello stato di insolvenza da parete del terzo (presupposto soggettivo)

Nella revocatoria concorsuale la posizione del curatore è agevolata sotto un duplice profilo:
a) Gli atti posti in essere dall’imprenditore in un certo periodo anteriore all’apertura della liquidazione
giudiziale su presumono compiuti in stato di insolvenza
b) È posta anche una presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo, sicchè sarà
ancora una volta questi a dover provare che in concreto ignorava lo stato di insolvenza
dell’imprenditore.

Se diversi sono i presupposti, uguali sono però gli effetti. L’atto di disposizione revocato resta valido ma è
inefficace nei confronti della massa dei creditori. Il terzo che ha subito la revocatoria dovrà perciò restituire
alla liquidazione giudiziale quanto in precedenza ricevuto dal debitore. Nel contempo, il creditore sarà
ammesso al passivo della liquidazione giudiziale per il suo eventuale credito verso il debitore (art. 171 2°
comma) e parteciperà alle ripartizioni dell’attivo in concorso con gli altri creditori subendo la relativa
facilità.

L’attuale disciplina precisa che se il pagamento è stato realizzato per il tramite di un intermediario
specializzato di una stanza di compensazione o di una società fiduciaria o di revisione, l’azione revocatoria
va esercitata e produce effetti nei confronti del destinatario finale della prestazione e non verso
l’intermediario.

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Identico è altresì il termine entro cui le due azioni revocatorie devono essere esercitate. Infatti esse vanno
promosse entro tre anni dall’apertura della liquidazione e comunque si prescrivono decorsi cinque anni dal
compimento dell’atto (art. 170).

Vi è innanzitutto una categoria di atti che è senz’altro priva di effetti nei confronti dei creditori. Rientrano in
tale categoria:
1) Gli atti a titolo gratuito compiuti fino a due anni prima della domanda da cui è seguita l’apertura
della liquidazione giudiziale
2) I pagamenti dei debiti che scadono nel giorno della dichiarazione di apertura della liquidazione
giudiziale o successivamente, anch’essi se compiuti fino a due anni prima della domanda cui è
seguita l’apertura della procedura concorsuale (art. 164 1° comma).
3) I rimborsi di finanziamenti di soci e info gruppo colpiti da postregazione in base alla disciplina del
codice civile se effettuati fino ad un anno prima della domanda cui è conseguita l’apertura della
liquidazione giudiziale (art. 164 2° e 3° comma).

Per questi atti il curatore non ha bisogno di agire in giudizio per l’accertamento della loro inefficacia. Il terzo
è senz’altro tenuto a restituire alla liquidazione giudiziale quanto ricevuto.

Tutti gli altri atti sono revocabili in seguito ad azione giudiziaria promossa dal curatore. La disciplina di tale
azione ha subito rilevanti modifiche. All’originaria disciplina si contestava l’eccessiva facilità con cui il
curatore poteva ottenere la revoca degli atti compiuti anche molto tempo prima del fallimento. La riforma del
2005 ha dimezzato perciò i termini entro cui le azioni revocatorie retroagiscono.

Immutate sono rimaste tuttavia le linee generali dell’istituto rispetto alla vecchia “revocatoria fallimentare”
in base alla quale gli atti soggetti a revocatoria sono distinti in due categorie: a) quelli per i quali la
conoscenza dello stato di insolvenza si presume b) quelli per i quali è il curatore a dover provare che il terzo
conosceva lo stato di insolvenza.

La prima categoria comprende gli atti anormali di gestione:


1) Gli atti a titolo oneroso compiuti fino ad un anno prima della domanda caratterizzati da una notevole
sproporzione tra la prestazione a carico del debitore e quella a carico della controparte.
2) I pagamenti di debiti pecuniari scaduti ed esigibili effettuati con mezzi anomali di pagamento sempre
se compiuti fino ad un anno prima della domanda.
3) I pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie costituite sempre nell’anno anteriore per debiti
preesistenti non scaduti
4) Le garanzie indicate al punto precedente più le ipoteche giudiziarie per debiti preesistenti ma scaduti,
poste in essere fino a sei mesi prima della domanda cui è esecutiva l’apertura della liquidazione
giudiziale.

Per tutti questi atti spetterà al terzo convenuto in revocatoria dare la prova, non facile, che ignorava lo stato
di insolvenza.

La situazione processuale invece si ribalta per la seconda categoria di atti sottoposti a revocatoria giudiziale.
È il curatore a provare che il terzo conosceva lo stato di insolvenza. Rientrano in tale categoria, purché
compiuti fino a sei mesi prima della domanda:
a) I pagamenti di debiti liquidi ed esigibili effettuati con mezzi normali
b) Gli atti costitutivi di diritti di prelazione per debiti sorti contestualmente: la giurisprudenza esclude
tuttavia la contestualità della garanzia quando le somme ottenute vengono utilizzate per pagare un
preesistente debito non garantito nei confronti nello stesso mutuante.
c) Ogni altro titolo oneroso

Non sono invece revocabili:

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1) I pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso. Qui si
vuole evitare che l’imprenditore in odore di crisi vengano subitamente interrotte le forniture,
precludendo la prosecuzione dell’ordinaria gestione;
2) I pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro a dipendenti e a collaboratori anche non
subordinati del fallito;
3) Le vendite a giusto prezzo d’immobili ad uso abitativo a parenti e affini entro il terzo grado.
4) Le vendite a giusto prezzo ed i preliminari di vendita di immobili destinati a costituire la sede
principale dell’attività d’impresa dell’acquirente.

Quando la revoca ha ad oggetto atti che estinguono posizioni passive derivanti da rapporti continuativi o
reiterati, il creditore deve restituire al fallimento solo l’importo di cui si è ridotta l’esposizione debitoria del
fallito nel periodo rilevante per la revocatoria (regola del massimo scoperto)

Altre esenzioni:
 Non sono revocabili i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore posti in essere in
esecuzione di un piano attestato di risanamento.
 Analoga esenzione è prevista anche:
 Per gli accordi raggiunti tramite una procedura di composizione negoziata della crisi
 Per gli atti e i pagamenti effettuati dall’imprenditore nella fase di compensazione negoziata della
crisi in coerenza con lo stato delle trattative e le prospettive di risanamento
 Per gli atti, i pagamenti e le garanzie legittimamente posti in essere durante la procedura di
concordato preventivo
 Dell’accordo di ristrutturazione omologato
 Nonché per il pagamento della crisi e dell’insolvenza o ad una procedura di insolvenza

Sono inoltre sottratte alla disciplina della revocatoria concorsuale alcune operazioni di finanziamento
bancario. In particolare l’esenzione è prevista:
 Per le ipoteche concesse a garanzia di operazioni di credito fondiario, alle opere pubbliche ed agrario
e per i pagamenti effettuati dal debitore a fronte dei relativi crediti
 Per le operazioni di credito su pegno disciplinate dalla legge 745/1938

Infine una disciplina particolare è prevista per il pagamento di cambiali, per la riscossione di crediti
realizzate nell’ambito di operazioni di factoring e di cartolarizzazione dei crediti.

14. Rapporto tra coniugi

Il coniuge difficilmente ignora lo stato di insolvenza e spesso si presta a far da tramite per il compimento di
atti pregiudizievoli ai creditori. Perciò il codice della crisi detta una disciplina rigorosa per gli atti di
disposizione tra il debitore e il coniuge, sotto il duplice aspetto:
a) È eliminato il limite temporale (1 anno o 6 mesi) e possono essere revocati tutti gli atti di
disposizione a partire dal momento in cui il fallito aveva iniziato l’esercizio d’impresa;
b) La conoscenza dello stato di insolvenza da parte del coniuge è sempre presunta.

Con la riforma del 2006 è stata invece soppressa la cosiddetta presunzione muciana, per la quale i beni
acquistati a titolo oneroso dal coniuge nei 5 anni anteriori al fallimento si presumevano acqui- stati con
danaro del fallito.

15. Effetti della liquidazione giudiziale nei contratti in corso di esecuzione

L’imprenditore sottoposto a liquidazione giudiziale è di regola al centro di rapporti contrattuali che non
hanno ancora avuto esecuzione. È dunque necessario concimare gli interessi del contraente in bonis con
quelli della massa dei creditori.

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Le soluzioni prescelte possono tuttavia raggrupparsi in tre categorie:

 Vi è innanzitutto un gruppo di contratti che si scioglie di diritto a seguito della dichiarazione di


apertura della liquidazione giudiziale con conseguente definizione delle posizioni reciproche a tale
momento. Questa è la regola generale che vale per tutti i contratti di carattere personale. Rientrano
inoltre in tale categoria:
a) I contratti di borsa a termine su merci o titoli (art. 181)
b) L’associazione in partecipazione, in caso di liquidazione giudiziale dell’associazione (art.
182)
c) I contratti di conto corrente ordinario e bancario, commissione e mandato nel caso di
apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del mandatario (art. 183)

Tra i contratti che si sciolgono di diritto c’è anche l’appalto (art.186), con una particolarità: entro 60
giorni dall’apertura della liquidazione giudiziale il curatore, previa autorizzazione del comitato dei
creditori, può dichiarare di voler subentrare nel contratto offrendo idonee garanzie.

 Vi è poi un secondo gruppo di contratti che continua nonostante la liquidazione giudiziale di una
delle parti in quanto per legge tali contratti sono ritenuti vantaggiosi per la massa dei creditori.
Rientrano in tale categoria:
1) Il contratto di locazione di immobili. L’attuale disciplina però non riconosce la
prededucibilità dell’ indennizzo che costituisce un mero credito concorsuale. Nel dissenso
delle parti, l’indennizzo è determinato dal giudice delegato.
2) L’affitto di azienda
3) Il contratto di edizione
4) Il contratto di cessione di crediti di impresa (factoring) in caso di liquidazione giudiziale del
cedente
5) Il leasing finanziario in caso di apertura della liquidazione giudiziale nei contratti del
concedente

 Vi è infine un terzo gruppo di contratti la cui sorte non è prefissata dalla legge. Essi restano sospesi
in seguito alla apertura della liquidazione giudiziale nei confronti di una delle parti e sarà il curatore
a decidere se sciogliere il contratto o continuarlo. In questo secondo caso tutte le obbligazioni
maturate nel corso della procedura dovranno essere adempiute dal curatore in prededuzione.

Il contraente in bonis può chiedere al giudice delegato di fissare un termine decorso il quale il contratto si
intende sciolto. Non è invece consentito pattuire fin dall’inizio che il contratto si risolva di diritto.

In caso di scioglimento, il contraente ha diritto di far valere nel passivo il credito conseguente al mancato
adempimento, ad esempio, per la restituzione degli anticipi.

Il codice stabilisce che questa più elastica soluzione sia regola residuale e si applichi quindi a tutti i contratti
pendenti, anche preliminari, per i quali la legge non prevede diversamente.

Anche la vendita a termine o a rate con riserva di proprietà rimane sospesa per effetto della liquidazione
giudiziale (art.178) ma con una significativa eccezione: l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti
del venditore non comporta lo scioglimento del contratto.

Rimane sospeso inoltre il preliminare di vendita di immobili. Se il curatore opta per lo scioglimento, il
credito che il promittente acquirente insinua al passivo della procedura è assistito da privilegio speciale
sull’immobile oggetto del preliminare (art. 173 2° comma).

L’art. 173 4° comma regola anche gli effetti del subentro del curatore nel preliminare con una norma
innovativa: l’immobile è trasferito al promissario acquirente nello stato in cui si trova e libero da vincoli.

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Però solo la metà dell’importo versato a titolo di acconto prima dell’apertura della procedura è opponibile
alla massa.

Regole speciali sono però previste per i preliminari di vendita aventi ad oggetto un immobile destinato a
costituire l’abitazione principale dell’acquirente o dei suoi parenti. In tal caso è previsto il subentro del
curatore nel contratto se il promissario acquirente ne fa richiesta.

Più semplice è la disciplina dei contratti ad esecuzione periodica, come ad esempio la somministrazione. La
scelta spetta in ogni caso al curatore che, se opta per la prosecuzione del contratto, dovrà pagare per intero il
prezzo delle consegne avvenute.

Rimane sospeso anche il mandato in caso di apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del mandante
(art. 183 3° comma) ma con una peculiarità: se il curatore subentra nel contratto, i crediti del mandatario
sono sì da soddisfare in prededuzione ma solo per l’attività compiuta dopo l’apertura della procedura.

L’apertura della liquidazione giudiziale determina la sospensione pure del rapporto di lavoro subordinato per
il quale il codice della crisi prevede ora una espressa disciplina (art. 189). Il curatore può subentrare nel
contratto di lavoro assumendo i relativi obblighi a partire dal momento della comunicazione al lavoratore;
altrimenti recede dal rapporto di lavoro con effetto retroattivo alla data di apertura della procedura.

Il rapporto di lavoro prosegue invece se viene autorizzato l’esercizio dell’impresa durante la liquidazione
giduiziale. Resta ferma la possibilità per il dipendente di dimettersi in qualunque momento e le dimissioni si
intendono rassegnate per giusta causa.

In seguito alla cessazione del rapporto di lavoro al lavoratore è riconosciuta l’indennità di mancato
preavviso, tale indennità viene però trattata come credito anteriore alla procedura e quindi è soggetta alla
falcidia concorsuale come pure il trattamento di fine rapporto.

Rimangono sospesi:
1) Il contratto di leasing finanziario in caso di apertura della liquidazione giudiziale nei confronti
dell’utilizzatore
2) Il contratto di assicurazione contro i danni. L’assicuratore può recedere dal contratto adducendo che
la prosecuzione determina un aggravamento del rischio

Tra i contratti che sono soggetti alla regola della sospensione in via residuale meritano di essere ricordati in
particolare:
a) L’associazione in partecipazione in caso di apertura della liquidazione giudiziale nei confronti
dell’associato
b) Il contratto di agenzia in caso di apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del preponente

16. L’esercizio dell’impresa nella liquidazione giudiziale. L’affitto di azienda

Con l’apertura della liquidazione giudiziale l’attività di impresa si arresta. Si può tuttavia avere una
continuazione. Due a riguardo sono le ipotesi previste dall’art. 211 CCI.

La prima si ha con la sentenza che dichiara aperta la procedura. Il tribunale può autorizzare il curatore a
proseguire l’esercizio dell’impresa.

La seconda interviene dopo che è stato nominato il comitato dei creditori. Questo deve infatti pronunciarsi
sull’opportunità di continuare.

Solo se il parere è favorevole il giudice delegato, su proposta del curatore, può disporre la continuazione o la
ripresa dell’attività.
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La continuazione dell’esercizio dell’impresa è provvedimento che richiede particolare cautela. Durante


l’esercizio dell’impresa tutti i contratti pendenti proseguono salvo che il curatore non intenda sospenderne
l’esecuzione o scioglierli.

E le obbligazioni sorte nel corso dell’esercizio dell’impresa costituiscono debiti della massa da soddisfare in
prededuzione (art. 211 8° comma).

D’altro canto le obbligazioni assunte dal curatore che si sostituisce al debitore nella gestione dell’impresa
sono e restano imputabili al debitore.

La continuazione dell’esercizio dell’impresa è perciò provvedimento eccezionale che si giustifica solo se


tende alla migliore liquidazione del patrimonio del debitore.

Per tale ragione, l’attuale disciplina dispone che durante l’esercizio dell’impresa il curatore informi il
Comitato dei creditori sull’andamento della gestione. Se il comitato dei creditori non ravvisa l’opportunità di
continuare l’esercizio dell’impresa, il giudice delegato ne ordina la cessazione. Essa può anche essere
ordinata dal tribunale in qualsiasi momento laddove ne ravvisi l’opportunità.

La conservazione del complesso aziendale in vista di una vendita in blocco può essere realizzata anche
attraverso il non facile affitto dell’azienda (art. 212). Il codice della crisi e dell’insolvenza prevede una
disciplina particolare a riguardo. L’affitto dell’azienda o di specifici rami di essa è autorizzato dal giudice
delegato su proposta del curatore e previo parere favorevole del comitato dei creditori, quando appaia utile al
fine della più proficua vendita dell’azienda o di parti di essa (art. 212 1° comma CCI).

L’affittuario è prescelto dal curatore.

L’affitto dell’azienda non deve però intralciare o ritardare la liquidazione dei beni. Il contratto deve
prevedere il diritto del curatore di recesso. In tal caso, all’affittuario è dovuto solo un giusto indennizzo da
soddisfare in prededuzione.

In base alle regole generali in tema di affitto d’azienda, l’affittuario subentra in tutti i contratti aziendali che
non abbiano carattere personale e non siano sciolti. Alla fine dell’affitto, il complesso aziendale viene
retrocesso alla liquidazione giudiziale. L’affittuario rimane pertanto unico debitore per le obbligazioni che
assume e i creditori concorsuali sono così posti al riparo almeno in parte dalle conseguenze di una cattiva
gestione da parte di quest’ultimo.

Sui rapporti pendenti al momento della retorcessione si producono invece gli effetti normalmente connessi
all’apertura della liquidazione giudiziale.

All’affittuario può essere concesso convenzionalmente il diritto di prelazione in caso di successiva vendita
dell’azienda.

D. LO SVOLGIMENTO DELLA PROCEDURA

17. L’accertamento del passivo

La procedura di accertamento del passivo si apre con la domanda di ammissione dei creditori (art. 200 CCI).
Sono esonerati dall’accertamento i compenso liquidati dal giudice delegato a coloro che hanno prestato opera
nell’interesse della procedura.

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La domanda si presenta con ricorso da trasmettere all’indirizzo di posta certificata (PEC) indicato nell’avviso
del curatore almeno 30 giorni prima della data di udienza. Essa deve tra l’altro indicare a pena di
inammissibilità le generalità del creditore, l’oggetto del credito e gli elementi di diritto su cui si fonda.

Analoga domanda deve essere presentata per la restituzione o la rivendicazione di beni di proprietà di terzi
che sono stati appresi alla massa concorsuale in quanto erano in possesso del debitore.

Devono infine presentare domanda di ammissione al passivo coloro in favore dei quali l’imprenditore
sottoposto a concorso ha costituito un’ipoteca sui propri beni a garanzia di debiti altrui.

Il procedimento di accertamento del passivo si articola in due fasi: la prima ad opera del curatore e del
giudice delegato consiste nella predisposizione dell’elenco dei crediti ammessi alla procedura nonché dei
diritti spettanti ai terzi sui beni della massa; la seconda, eventuale, di fronte al tribunale concorsuale, è quella
delle impugnazioni,

Sulla base delle domande presentate, il curatore predispone un progetto di stato passivo (art. 203) nel quale
deve indicare:
a) I crediti ammessi
b) I crediti non ammessi in tutto o in parte
c) I crediti ammessi con riserva come quelli a condizione e quelli per i quali non è stato presentato il
titolo per fatto non imputabile al creditore.

In un separato elenco sono poi inclusi i titolari di diritti su beni di proprietà o in possesso del debitore.

Per ciascun diritto riconosciuto o non riconosciuto, il curatore deve motivare le proprie conclusioni.

Il progetto di stato passivo è depositato in cancelleria, almeno 15 giorni prima di quello fissato per l’udienza
di esame e trasmesso ai creditori ed ai titolari di diritti su beni della massa.

Si apre così la fase di esame dello stato passivo che coinvolge il curatore e tutti i creditori che desiderino
parteciparvi. Il debitore può chiedere d’essere sentito. Nell’udienza di esame, il giudice delegato esamina le
posizioni dei singoli creditori quali risultano dal progetto di stato passivo del curatore.

Il giudice delegato può anche procedere agli atti di istruzione richiesti dalle parti.

Esaurite ke operazioni in esame, il giudice delegato forma lo stato passivo definitivo, lo dichiara esecutivo
con proprio decreto e lo deposita in cancelleria. È questo un momento particolarmente importante della
procedura. In base all’attuale disciplina le decisioni sulle domande di restituzione e rivendicazione
acquistano piena forza di giudicato: esse sono perciò opponibili al debitore anche al di fuori della procedura
concorsuale (art. 206 5° comma).

Il decreto di esecutività non preclude la possibilità di presentare nuove domande di ammissione (c.d.
Domande tardive).

Il credito per il quale si richiede l’ammissione tardiva deve essere comunque diverso da quello per il quale si
è chiesta l’ammissione ordinaria.

La domanda di insinuazione tardiva viene esaminata con lo stesso procedimento previsto per le domande
tempestive richiamato anche per la parte relativa alle impugnazioni (art. 208 2° comma).

Il trattamento dei crediti ammessi tardivamente non è uniforme. Se il ritardo della domanda è imputabile al
creditore, questi ha diritto di partecipare solo alle ripartizioni dell’attivo successive all’ammissione, salvi i
diritti di prelazione. In caso contrario, il creditore è ammesso a prelevare sull’attivo ancora non ripartito
anche la parte che gli sarebbe spettata nelle ripartizioni precedenti.
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Contro lo stato passivo possono essere proposte impugnazioni ed opposizioni (art. 206).

Le opposizioni possono essere proposte dai creditori esclusi contro il curatore al fine di ottenere
l’ammissione del loro credito o il riconoscimento di una causa du prelazione disconosciuta dal giudice
delegato.

Le impugnazioni possono invece essere proposte dai creditori ammessi, dai titolari di diritti su beni della
massa nonché dallo stesso curatore e sono dirette ad ottenere l’eliminazione dalla massa passiva di uno o più
crediti o della relativa causa di prelazione.

Il tribunale decide con decreto. La decisione viene comunicata d’ufficio alle parti che possono ricorrere
direttamente in Cassazione entro 30 giorni.

18. Liquidazione e ripartizione dell’attivo

La liquidazione dell’attivo è rivolta a convertire in denaro i beni del debitore per soddisfare i creditori.

Alla liquidazione procede il curatore. Questi deve predisporre un programma di liquidazione entro 150 giorni
dalla sentenza di apertura della liquidazione giudiziale a pena di revoca per giusta causa (art. 213).

Il programma deve, tra l’altro, indicare criteri e modalità di liquidazione dei beni e di riscossione dei crediti,
le azioni che il curatore intende promuovere nonché gli atti necessari per la conservazione del valore
dell’impresa.

Il completamento della liquidazione deve essere programmato entro 5 anni dall’apertura della procedura.

Il programma di liquidazione è trasmesso al giudice delegato che ne autorizza la sottoposizone al comitato


dei creditori per l’approvazione.

Ci seguita l’approvazione del programma il curatore può pertanto procedere senz’altro alla liquidazione dei
beni. Ed anzi l’attuale disciplina impone che il primo tentativo di vendita e l’inizio delle attività di recupero
dei crediti inizino entro otto mesi prima dall’apertura della procedura.

Le vendite dei beni mobili e immobili sono realizzate dal curatore secondo le modalità indicate nel
programma di liquidazione tramite procedure competitive adeguatamente pubblicizzate che assicurino la
massima partecipazione degli interessati. Il curatore può anche avvalersi di soggetti specializzati e deve
operare sulla base di stime fatte da operatori esperti, salvo cifre esigue.

Resta ferma comunque la possibilità di avvalersi del procedimento di vendita disciplinato dal codice di
procedura civile.

Con le stesse modalità il curatore può cedere i crediti, compresi quelli futuri o di natura fiscale, anche se
oggetto di contestazione nonché le azioni revocatorie già proposte (art. 215). Il che consente di prevenire più
speditamente alla chiusura della liquidazione giudiziale.

Ulteriore obiettivo della disciplina concorsuale fin dal 2006, è evitare nei limiti del possibile la disgregazione
del patrimonio complessivo aziendale. La vendita dei singoli beni infatti è disposta o lo quando risulta
prevedibile che la vendita dell’intera azienda non consenta un maggiore soddisfacimento dei creditori. Per
favorire ulteriormente la vendita dell’azienda si prevede inoltre che:
a) In deroga all’art. 2560 c.c., l’acquirente non risponde delle obbligazioni pregresse (art. 214 CCI)

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b) In deroga all’art. 2112, si può on d IF. On le rappresentanze sindacali che solo una parte dei
lavoratori si trasferisca alle dipendenze dell’acquirente e le ulteriori modifiche del rapporti di lavoro
consentite dalla disciplina sindacale.
c) I crediti ceduti insieme con l’azienda conservano tutti i privilegi e le garanzie

Degli esiti delle procedure di liquidazione, il curatore informa il giudice delegato. Il giudice delegato può
sospendere le operazioni di vendita quando ricorrono gravi e giustificati motivi.

Le somme che si rendono via via disponibili sono ripartite tra i creditori ed in questa sede acquista rilievo la
distinzione tra crediti prededucibili, crediti privilegiati, crediti chirografari e crediti postregati.

PRI,a di procedere a qualsiasi ripartizione, si deve procedere al pagamento dei crediti prededucibili (art. 221
1° comma lett. A). I crediti prededucibili sorti nel corso della procedura che sono liquidi e non contestati
vengono soddisfatti man mano che diventano esigibili. Se però l’attivo non è presumibilmente sufficiente a
soddisfare tutti i crediti prededucibili, gli stessi sono soddisfatti nell’ambito del procedimento di riparto.

Il ricavato della vendita dei beni oggetto di pegno e ipoteca viene devoluto per il pagamento dei creditori a
cui spetta la relativa garanzia.

Quanto residua è destinato innanzitutto al pagamento degli altri creditori privilegiati rispettando l’ordine di
privilegio.

Quanto residua ulteriormente è destinato al pagamento proporzionalmente dei creditori chirografari e dei
creditori privilegiati rimasti insoddisfatti.

Le somme che spettano ai creditori sono assegnate loro con periodiche ripartizioni parziali cui segue una
ripartizione finale.

Per le ripartizioni parziali ogni 4 mesi a partire dalla data di esecutività dello stato passivo il curatore
trasmette a tutti i creditori un prospetto delle somme disponibili ed un progetto di ripartizione delle
medesime. Entro il termine di 15 giorni dal ricevimento i creditori possono presentare reclamo davanti allo
stesso giudice delegato. Scaduti i termini, il giudice delegato rende esecutivo il progetto.

Le ripartizioni parziali non possono superare l’80% delle somme disponibili in quanto almeno il 20% deve
essere trattenuto per eventuali imprevisti.

Esaurita la liquidazione dell’attivo, il curatore rende al giudice delegato il conto della sua gestione (art. 231).
Questo è approvato dal giudice delegato in una apposita udienza. Se sorgono contestazioni si apre un
giudizio contenzioso dinnanzi al tribunale. Approvato il conto della gestione viene liquidato il compenso al
curatore. La somma dovuta ai creditori incerti è depositata nei modi stabiliti dal giudice delegato.

La somma dovuta ai creditori che non si presentano e sono irreperibili è depositata presso un ufficio postale
o una banca. Decorsi 5 anni, possono essere reclamate dagli altri creditori rimasti insoddisfatti altrimenti
sono incamerate dallo Stato.

E. LA CESSAZIONE DELLA LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE

19. La chiusura della liquidazione giudiziale. L’esdebitazione

Oltre che per concordato, la liquidazione si chiude, ai sensi dell’art. 233 CCI, per:
a) Mancata presentazione di domande di amissione allo stato passivo nel termine stabilito dalla
sentenza cui cui è stata dichiarata aperta la procedura
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b) Pagamento integrale dei creditori ammessi al passivo e di tutti i debiti e le spese da soddisfare in
prededuzione prima che sia compiuta la ripartizione integrale dell’attivo;
c) Ripartizione integrale dell’attivo, che lascia i creditori parzialmente insoddisfatti;
d) Impossibilità di continuare utilmente la procedura per insufficienza dell’attivo. il che si verifica
quando le attività rinvenute nel patrimonio del debitore sono talmente scarse da far pre- vedere che il
tutto non consentirà di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorrenti, né i crediti prededucibili
e le spese di procedura.

La chiusura della liquidazione giudiziale è dichiarata con decreto di chiusura motivato del tribunale, su
istanza del curatore, del debitore o d’ufficio con successiva pubblicazione. Esso è reclamabile in corte
d’appello e in Cassazione, e lo stesso rimedio è esperibile pure contro il decreto che respinge la richiesta di
chiusura. Il decreto ha effetto quando non è più impugnabile o quando il reclamo è stato definitivamente
rigettato.

Con la chiusura decadono gli organi preposti alla procedura e cassano gli effetti della liquidazione giudiziale.

L’attuale disciplina, che riprende le modifiche intervenute nel 2015, precisa che la chiusura della
liquidazione giudiziale non è impedita dalla pendenza di giudizi. In questo caso, il giudice delegato e il
curatore restano in carica per compiere le attività necessarie e conseguenti alla definizione degli stessi. Una
volta definito il giudizio con decisione passata in giudicato gli accantonamenti residui e le sopravvenienze
attive sono fatti oggetto di un riparto supplementare tra i creditori.

Di regola, il debitore rimane obbligato verso i creditori concorsuali non interamente soddi- sfatti, che
riacquistano la possibilità di proporre le azioni esecutive individuali. La liberazione del fallito dai debiti
residui può aversi solo in 2 casi: concordato preventiva o esdebitazione.

 L’esdebitazione è un beneficio concesso al debitore meritevole per buona condotta e atteggiamento


collaborativo. È perciò ammesso all’esdebitazione solo l’imprenditore che:

1) Non è stato condannato per bancarotta fraudolenta o per delitti contro l’economia
pubblica, l’industria e il commercio, ed altri delitti compiuti in connessione con
l’esercizio di impresa.
2) Non ha distratto l’attivo o esposto debiti inesistenti, cagionato o aggravato il dissesto
rendendo gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli
affari o fatto ricorso abusivo al credito
3) Ha cooperato con gli organi della procedura
4) Non ha beneficiato di altra esdebitazione nei 5 anni precedenti

L’esdebitazione può anche essere concessa nel corso della procedura su istanza del debitore quando
siano trascorsi almeno tre anni dalla data in cui è stata aperta liquidazione giudiziale.

Contro il decreto di esdebitazione il debitore, il pubblico ministero e i creditori ammessi al passivo e


non integralmente soddisfatti possono proporre reclamo in corte d’appello.

Con il decreto di esdebitazione sono dichiarati inesegibili nei confronti del debitore i crediti
concorsuali non soddisfatti integralmente nell’ambito della procedura concorsuale. L’esdebitazione
opera di regola su tutti i beni anteriori all’apertura della liquidazione.

(Art. 278 7° comma) Fanno eccezione alcune categorie di debiti rispetto alle quali l’esdebitazione
non opera:
a) Obblighi di mantenimento e alimenti, e obbligazioni non derivanti dall’esercizio di impresa
b) La responsabilità extracontrattuale, e le sanzioni pecuniarie penali ed amministrative che non
siano accessorie a debiti esistinti.

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L’esdebitazione di una società produce effetto anche nei confronti dei soci illimitatamente
responsabili. Sono invece salvi i diritti vantati dai creditori contro i coobbligati, i fideiussori del
debitore e gli obbligati in via di regresso.

20. La riapertura della liquidazione giudiziale

La procedura di liquidazione giudiziale può essere successivamente riaperta a condizione che:


a) Non devono essere trascorsi 5 anni dal decreto di chiusura;
b) Nel patrimonio del debitore si rinvengono nuove attività, o il debitore offre garanzie di pagare
almeno il 10% ai creditori vecchi e nuovi.

La riapertura della liquidazione può essere richiesta dal debitore o da qualsiasi creditore, anche nuovo (non
d’ufficio). Al momento riaperto concorrono infatti anche i nuovi creditori che saranno sottoposti al normale
procedimento di verifica per l’ammissione.

Infine, il tribunale deve richiamare in carica, se possibile, il giudice delegato e il curatore della liquidazione
chiusa. Il comitato dei creditori è invece nominato ex novo, dovendo la sua composizione tenere conto anche
dei nuovi creditori.

Per il resto si applica la disciplina standard.

21. Il concordato nella liquidazione giudiziale

Il concordato consente all’imprenditore di chiudere definitivamente i rapporti pregressi tramite il pagamento


parziale dei creditori, o altra forma di ridistribuzione dei debiti, ottenendo la liberazione dei beni soggetti alla
procedura.

I creditori chirografari rinunciano sì a parte del proprio credito, ma possono ottenere qualcosa di più e più
rapidamente rispetto a quanto otterrebbero attraverso la liquidazione. In questa prospettiva la chiusura della
liquidazione con concordato è agevolata.

La proposta di concordato può essere presentata, mediante il ricorso al giudice delegato, dai creditori, da un
terzo e anche dal debitore. Creditori e terzi possono proporre il concordato in qualsiasi momento (di regola si
attenderà che sia formato lo stato passivo poiché solo allora si avrà l’accertamento dei crediti ammessi al
concordato). Il debitore invece non può proporlo prima che sia trascorso 1 anno dalla apertura della
liquidazione giudiziale; inoltre, il debitore non può proporlo dopo che siano trascorsi 2 anni dal decreto che
rende esecutivo lo stato passivo.

Il contenuto della proposta può essere variamente articolato: l’ipotesi più frequente è l’offerta di pagamento
in percentuale e dilazionato; può essere proposta anche la suddivisione in classi dei creditori. Rispetto al
passato è stato soppresso l’obbligo di soddisfare per intero i crediti privilegiati: ora essi possono essere
soddisfatti parzialmente, purchè in misura non inferiore a quanto gli stessi potrebbero ottenere dalla
liquidazione. A tal fine il valore dei beni gravati da causa di prelazione, deve essere stimato da un esperto,
designato dal tribunale.
La proposta presentata da creditori o terzi può prevedere che persone diverse dal fallito assumano la veste di
obbligato principale per l’adempimento del concordato: è questo l’assuntore del concordato, che può
obbligarsi in solido on il debitore (accollo cumulativo) o può restare il solo obbligato, se si prevede la
liberazione immediata del fallito da ogni debito (accollo liberatorio).

Come rispettivo dell’accollo, all’assuntore viene di regole ceduto tutto l’attivo fallimentare; su di lui grava
perciò il rischio della realizzazione dello stesso. Ad esso possono esser cedute anche le azioni di pertinenza
della liquidazione.
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La proposta di concordato è soggetta ad esame del giudice delegato, tenuto a richiedere il parere vincolante
del comitato dei creditori e quello non vincolante del curatore. Espletati tali adempimenti preliminari, il
giudice delegato ordina la comunicazione della proposta e dei relativi pareri ai creditori e fissa il termine
(minimo 20 giorni massimo 30 giorni) entro il quale gli stessi devono far pervenire la loro dichiarazione di
dissenso in cancelleria.

Non possono votare i creditore privilegiati, se ad essi si offre l’integrale pagamento, a meno che non
rinuncino al privilegio; non possono inoltre votare:
 il coniuge,
 i parenti e affini fino al quarto grado;
 coloro che sono divenuti cessionari o aggiudicatari dei crediti di dette persone da meno di un anno
prima della liquidazione;
 le società appartenenti al gruppo di quella debitrice.

Per l’approvazione è richiesta la maggioranza dei crediti ammessi al voto, e se sono previste classi di
creditori, è necessari la maggioranza delle classi. Se il concordato è approvato, su istanza del proponente si
apre il giudizio di omologazione al quale possono opporsi i creditori dissenzienti, il debitore e qualsiasi
interessato. Allo stesso tempo il comitato dei creditori deposita una relazione col suo parere definitivo.

A differenza che in passato, il tribunale procede ad un controllo solo di legalità e non di merito.

In mancanza di oppositori, il tribunale decide sull’omologazione con decreto non soggetto a gravame.

Se vi sono invece opposizione decide con decreto impugnabile con reclamo in corte d’appello e Cassazione.

Quando il decreto diviene definitivo il tribunale dichiara chiusa la liquidazione giudiziale.

Il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla liquidazione, compresi quelli che
non hanno presentato domanda di ammissione al passivo. Anche a questi ultimi è perciò dovuta la
percentuale concordataria, ma non si estendono a loro favore le garanzie date nel concordato da terzi.

Nonostante il concordato, restano in vita le azioni dei creditori per l’intero contro i coobbligati, i fideiussori
del debitore e gli obbligati in via di regresso. È invece preclusa ogni azione dei creditori verso il debitore (o
l’assuntore) per la parte non soddisfatta del credito.

Dopo l’omologazione, ha inizio l’esecuzione del concordato (liquidazione dei beni e pagamento dei
creditori).

Il concordato è eseguito dal debitore (o dall’assuntore) sotto la sorveglianza del giudice delegato, del
curatore e del comitato dei creditori, che sopravvivono.

Accertata la completa esecuzione del concordato, il giudice delegato ordina lo svincolo delle cauzioni, la
cancellazione delle ipoteche e adotta ogni misura idonea per il conseguimento delle finalità del concordato.

Gli effetti del concordato possono cessare per risoluzione o per annullamento.
 La risoluzione si fonda sull’inadempimento del concordato. Non può essere però pronunziata quando
gli obblighi del concordato sono stati assunti da un terzo, con liberazione immediata del debitore. In
tal caso i creditori potranno agire solo contro l’assuntore, provocandone il fallimento se ne riescono i
presupposti.
 L’annullamento del concordato è disposto dal tribunale su istanza del curatore o di qualsiasi
creditore, quando si scopre che il passivo era stato dolorosamente esagerato o che una parte
dell’attivo era sottratta o dissimulata.

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Gianmarco Rubino
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Annullato o risolto il concordato, si riapre automaticamente la liquidazione. Tuttavia i creditori anteriori


non devono restituire quanto già riscosso in base al concordato e conservano le garanzie per le somme ad
essi tuttora dovute in base al concordato stesso.

F. LA LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE DELLE SOCIETÀ E DEI GRUPPI

22. La liquidazione giudiziale delle società

Alla liquidazione giudiziale delle società è in via di principio applicabile la disciplina fin qui esposta. Il che
non manca di sollevare alcuni problemi solo in parte risolti dalla scarna disciplina specifica dettata dal codice
della crisi e dell’insolvenza (artt. 254-267 CCI).

È così fuori contestazione che possono essere sottoposte a liquidazione giudiziale solo le società che
esercitano una impresa commerciale. In base all’attuale disciplina anche le società commerciali sono sottratte
alla liquidazione giudiziale se non superano le soglie dimensionali fissate dall’art. 2 1° comma lett. D CCI.

È invece controverso se per l’assoggettamento alla liquidazione giudiziale sia necessario l’effettivo inizio
dell’attività di impresa.

Il codice della crisi e dell’insolvenza non specifica poi a chi compete l’iniziativa per l’apertura della
liquidazione giudiziale. Sono preferiti comunque gli amministratori sia per le società di persone sia per le
società di capitali.

È per contro pacifico che in queste ultime gli amministratori sono legittimati a presentare reclamo contro la
dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale.

Come visto, la legittimazione a presentare la domanda di liquidazione giudiziale è oggi espressamente


riconosciuta anche agli organi di controllo delle società e delle autorità che esercitano funzioni di vigilanza
su di essa.

Alcuni adattamenti si hanno anche per quanto riguarda gli effetti della liquidazione giudiziale.

Ogni qual volta la legge richieste che sia sentito il debitore dovranno essere sentiti gli amministratori o i
liquidatori della società debitrice. Sugli stessi grava inoltre l’obbligo di presentarsi agli organi della
liquidazione giudiziale quando ne siano richiesti e di fornire le informazioni e i chiarimenti necessari per la
gestione della procedura.

Nei confronti di amministratori, sindaci , direttori generali e liquidatori sono poi applicabili le sanzioni penali
per i reati di bancarotta semplice e fraudolenta (art. 329 ss).

Nelle società di capitali al curatore è riservato l’esercizio sia dell’azione sociale di responsabilità sia di quella
spettante ai creditori sociali contro amministrazioni, componenti di organi di controllo, direttori generali e
liquidatori. Il curatore deve essere preventivamente autorizzato dal giudice delegato.

Al curatore è inoltre riconosciuto il potere di compiere gli atti e le operazioni riguardanti l’organizzazione e
la struttura finanziaria della società previsti nel programma di liquidazione.

È infine espressamente stabilito che la proposta e le condizioni del concordato nella liquidazione giudiziale
devono essere approvate:
 Nelle società di persone, dai soci che rappresentano la maggioranza del capitale
 Nelle società di capitali e nelle cooperative, dagli amministratori con decisione verbalizzata dal
notaio

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Gianmarco Rubino
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L’apertura della liquidazione giudiziale è causa legale di scioglimento della società.

Quando la liquidazione giudiziale di una società di capitali si chiude per mancata presentazione di domande
il curatore convoca l’assemblea perché assuma le deliberazioni necessarie per la ripresa dell’attività.

Nel caso che la liquidazione giudiziale si chiuda invece per integrale ripartizione dell’attivo o insufficienza
della massa il curatore deve chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese (art. 233 CCI).

Va esclusa anche la possibilità di riapertura della liquidazione giudiziale dopo l’estinzione della società.

23. La posizione dei soci nella liquidazione giudiziale della società

L’apertura della liquidazione giudiziale della società non è senza effetti per i soci.

Per i soci a responsabilità limitata, la liquidazione giudiziale della società comporta come unica conseguenza
che il giudice delegato può ingiungere loro di eseguire i conferimenti ancora dovuti. Nelle società in nome
collettivo, nella società in accomandita semplice e nell’accomandita per azioni, l’apertura della liquidazione
giudiziale della società produce invece anche l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti dei soci a
responsabilità illimitata.

D’altro canto, l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti dei soci consegue automaticamente alla
liquidazione giudiziale della società. I soci possono perciò sottrarsi alla liquidazione giudiziale solo
contestando l’esistenza della società o la sua insolvenza. Ed a tal fine devono essere sentiti dal tribunale
prima che sia disposta la liquidazione giudiziale nei loro confronti per potersi difendere (art. 256 3° comma).

Altro principio cardine è che la liquidazione giudiziale della società determina la liquidazione giudiziale nei
confronti non solo dei soci noti al momento dell’apertura della procedura contro la società ma anche di quelli
la cui esistenza è successivamente accertata (art. 256 4° comma).

L’estensione della liquidazione giudiziale ai soci occulti può essere richiesta dai soci o dai loro creditori
personali, dai creditori della società o dal curatore o dal pubblico ministero.

L’estensione della liquidazione giudiziale ai soci occulti si produce infine anche se, dopo l’apertura della
liquidazione, risulti che l’impresa è riferibile ad un a società di cui il debitore è socio illimitatamente
responsabile (art. 256 5° comma). Così si sancisce la soggezione alla liquidazione giudiziale della società
occulta.

L’ambito di applicazione dell’art. 256 CCI merita tuttavia qualche ulteriore precisazione. In base alla attuale
disciplina, è fuori di dubbio che la norma opera solo nei tre tipi societari espressamente indicati nonché negli
enti collettivi non societari. Sono soggetto alla liquidazione giudiziale in estensione perciò: i soci della
società in nome collettivo, palesi ed occulti, gli accomandatari dell’accomandita semplice e dell’accomandita
per azioni; l’accomandante di società in accomandita semplice che ha violato il divieto immistione, i
componenti di enti collettivi non societari che rispondono personalmente e illimitatamente per le
obbligazioni dell’ente.

Non sono sottoposti a liquidazione giudiziale invece l’unico quotista di società a responsabilità limitata e
l’unico azionista. E ciò anche quando ricorre una responsabilità illimitata degli stessi.

L’art. 256 2° comma CCI estende poi alla liquidazione giudiziale in estensione dei soci i principi dettati
dall’art. 33 CCI in tema di liquidazione giudiziale. I soci illimitatamente responsabili sono sottoposti a
liquidazione giudiziale pertanto anche se hanno cessato di far parte della società per morte, recesso od
esclusione. La liquidazione giudiziale può però essere disposta solo se non è trascorso più di un anno da
quando sono state realizzate le formalità necessarie per rendere noti ai terzi tali fatti.
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È inoltre necessario che lo stato di insolvenza della società attenga in tutto o in parte, a debiti esistenti alla
data della cessazione della responsabilità illimitata.

La medesima regola si applica quando i soci hanno perso la qualità di soci illimitatamente responsabili.
Benchè la legge non lo precisi è tuttavia da ritenere che i soci possano essere sottoposti a liquidazione
giudiziale solo nel caso che non abbiano conseguito la liberazione della responsabilità per le obbligazioni
anteriori alla trasformazione o alla fusione.

24. Liquidazione giudiziale della società e dei soci

Il Tribunale nomina un solo giudice delegato ed un solo curatore per le diverse liquidazioni giudiziali.

Alla liquidazione giudiziale della società partecipano solo i creditori sociali. Nella liquidazione giudiziale dei
singoli soci concorrono invece sia i creditori sociali sia i rispettivi creditori particolari. Tuttavia, per
semplificare la procedura la domanda di ammissione allo stato passivo della società vale anche come
domanda di ammissione al passivo. I crediti verso la società assistiti da privilegio generale conservano
inoltre tale privilegio anche nella liquidazione giudiziale dei soci.

Distinte restano pure le masse attive delle diverse procedure. I creditori sociali hanno diritto di partecipare
alle ripartizioni dell’attivo di tutte le liquidazioni giudiziali fino all’integrale pagamento.

Il concordato della società ha efficacia anche per i soci e fa chiudere la liquidazione giudiziale anche nei loro
confronti (art.266).

Ciascuno dei soci può concludere un concordato particolare con i creditori, il quale fa cessare solo la
liquidazione giudiziale di quel socio (art. 267).

Anche la chiusura della liquidazione giudiziale della società per mancata presentazione di domande di
insinuazione al passivo determina la chiusura della liquidazione giudiziale del socio.

25. Liquidazione giudiziale e patrimoni destinati

L’attuale disciplina detta alcune regole applicabili alle società per azioni.

Al riguardo le conseguenze sono diverse a seconda del tipo di patrimonio destinato oppure sia quello
generale a cadere in stato di insolvenza.

Cominciamo dalla ipotesi che la società abbia costituito un patrimonio destinato c.d. operativo. Quando il
patrimonio destinato non consente di soddisfare integralmente le relative obbligazioni, ma il patrimonio
generale è in bonis, non viene aperta la liquidazione giudiziaria. I creditori insoddisfatti possono chiedere la
liquidazione del patrimonio destinato ma la legge puntualizza che la liquidazione avverrà osservando
esclusivamente le disposizioni sulla liquidazione delle società di capitali in quanto compatibili.

Nell’ipotesi inversa, può invece essere dichiarata aperta la liquidazione giudiziale nei confronti della società
e la gestione del patrimonio destinato compete al curatore. Non viene tuttavia meno la separazione
patrimoniale tra il patrimonio generale e quello destinato. I creditori del patrimonio destinato operativo non
possono perciò insinuarsi al passivo della liquidazione giudiziale se non nei limiti in cui la società ha prestato
garanzia con il suo patrimonio generale a loro favore.

Ne consegue che il curatore può esercitare l’azione revocatoria contro gli atti pregiudizievoli per i creditori
del patrimonio generale che incidono sul patrimonio destinato (art. 267 CCI). Revocabili devono anche
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ritenersi i c.d. Rapporti intergestori. Il requisito soggettivo della revoca è la conoscenza dello stato di
insolvenza della società.

Il curatore deve vagliare la possibilità di cedere a terzi il patrimonio separato. Il corrispettivo della cessione è
acquisito al patrimonio della liquidazione giudiziale detratto quanto necessario per pagare i creditori
separatisti. Se infine durante la liquidazione giudiziale della società risulta che il patrimonio separato è
incapiente, il curatore con l’autorizzazione del giudice delegato lo pone in liquidazione.
Regole più favorevoli al creditore separatista sono invece previste per l’altro tipo di patrimonio destinato
previsto dalla legge: il finanziamento destinato (art. 2447 bis 1° comma lett. B cod. civ.).

Finché la società è in bonis, il finanziatore non ha azione sul patrimonio generale della stessa.

In caso di apertura della liquidazione giudiziale occorre invece distinguere: se la liquidazione giudiziale
impedisce la realizzazione o la continuazione dell’affare, il contratto si scioglie e il finanziatore può
insinuarsi al passivo per l’intero importo del finanziamento ancora non rimborsato.

Se invece l’affare non è impedito dalla liquidazione giudiziale, il curatore può decidere di subentrare nel
contratto assumendone tutti i relativi oneri dalla data del subentro. Ove il curatore non subentri nel contratto
lo stesso finanziatore può chiedere al giudice delegato di realizzare o di continuare l’operazione in proprio o
affidandola a terzi.

26. La liquidazione giudiziale di gruppo

Il codice della crisi e dell’insolvenza introduce infine una specifica disciplina della liquidazione giudiziale
dei gruppi di impresa.

Il dissesto di più imprese appartenenti allo stesso gruppo può essere affrontato mediante procedure
concorsuali autonome. Tuttavia, se per conseguire il miglior soddisfacimento possibile dei creditori risultino
opportune forme di coordinamento nella liquidazione degli attivi, è possibile presentare un ricorso per
l’apertura di una liquidazione giudiziale unitaria.

La nuova disciplina non specifica però chi sia legittimato a presentare il ricorso. Non invece, dai creditori e
probabilmente nemmeno da parte del pubblico ministero.

Per quanto riguarda la competenza territoriale, il tribunale competente è quello dinnanzi al quale è stata
depositata la prima domanda di liquidazione giudiziale. Se è stata presentata domanda contemporaneamente
da più imprese di gruppo, la procedura si svolge davanti al tribunale competente per il soggetto indicato
come capogruppo, in base alle risultanze della pubblicità nel registro delle imprese.

Per i procedimenti di accesso ad uno strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza, è prevista la
competenza per materia del tribunale sede della sezione specializzata in materia di imprese (art. 27 1°
comma).

L’unitarietà della procedura di gruppo non comporta alcuna confusione ed unificazione dei patrimoni.

Perciò il tribunale nomina di regola un unico giudice delegato ed un unico curatore ma viene costituito un
diverso comitato di creditori. Nel programma di liquidazione il curatore illustra le modalità di coordinamento
nella liquidazione delle diverse imprese mentre le spese generali della procedura sono imputate alle imprese
di gruppo in proporzione alle rispettive masse attive.

Quando il curatore della procedura concorsuale unitaria ravvisa l’insolvenza di un’impresa del gruppo non
ancora assoggettata alla procedura di liquidazione giudiziale, lo segnala agli organi di amministrazione e
controllo.
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Il codice della crisi e dell’insolvenza prevede una serie di strumenti volti ad assicurare una più efficace tutela
patrimoniale delle società controllate danneggiate dalla politica di gruppo. Si tratta du misure in parte già in
passato contemplate dalle norme in materia di amministrazione straordinaria.

Un primo intervento è costituito dal potenziamento delle azioni revocatorie nei confronti degli atti posti in
essere con altre imprese del gruppo. Il termine è raddoppiato: quello fissato dall’art. 166 per gli atti a titolo
oneroso sproporzionati e per i pagamenti effettuati con mezzi anomali è portato a due anni anteriori al
deposito della domanda di apertura della liquidazione giudiziale.
Anche l’azione revocatoria ordinaria è rafforzata: il curatore può chiedere la dichiarazione di inefficacia
degli atti e contratti posti in essere nei cinque anni antecedenti il deposito dell’istanza di liquidazione
giudiziale. Con inversione dell’onere della prova, poi, spetta sempre alla beneficiaria dimostrare di non
essere stata a conoscenza del carattere pregiudizievole.

Nella stessa direzione è stabilito poi che il curatore può proporre la denuncia al tribunale per gravi
irregolarità prevista dall’art. 2409 c.c., nei confronti di amministratori e sindaci di altre società del gruppo
non assuefatte alla procedura di liquidazione giudiziale.

Inoltre il curatore può esercitare azione di responsabilità verso la capogruppo per abuso di attività di
direzione.

Viene infine integrata e potenziata la disciplina della postregazione dei finanziamenti infra gruppo prevista
dall’art. 2497 quinquies.

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CAPITOLO VENTICINQUESIMO
IL CONCORDATO PREVENTIVO.
GLI ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI.
LA CONVENZIONE DI MORATORIA.

1. Caratteri generali. Presupposti

L’attuale disciplina stabilisce che può accedere al concordato preventivo sia l’imprenditore in stato di
insolvenza sia quello che versi solo in stato di crisi.

Se la crisi è temporanea e reversibile, il concordato mira a superare tale situazione attraverso il risanamento
economico e finanziario dell’impresa.
Se la crisi è definitiva ed irreversibile il concordato preventivo può essere proposto prima che sia aperta la
liquidazione al fine di evitare la stessa.

In base alle finalità perseguite si distingue la figura del concordato liquidatorio dal concordato con continuità
aziendale. Il primo prevede la cessazione dell’attività di impresa, la liquidazione dei beni ed il
soddisfacimento dei creditori tramite il ricavato.

Il concordato con continuità aziendale invece mira a recuperare l’equilibrio economico dell’impresa. Alla
continuazione dell’impresa da parte dell’imprenditore che ha presentato la domanda è equiparata a
continuazione da parte di un altro soggetto al quale l’azienda sia ceduta.

Ne consegue che il concordato preventivo meramente liquidatorio e quello con continuità aziendale si
presentano sotto vari aspetti come due tipologie di concordato preventivo regolate in modo differente ed il
codice della crisi dopo le modifiche apportate nel 2022 ha ulteriormente accentuato queste distinzioni.

Il concordato preventivo presenta però indubbie affinità di struttura e di effetti. Anche il concordato
preventivo è infatti un concordato giudiziale e di massa, in quanto viene perfezionato nel quadro di una
procedura che richiede la necessaria presenza di organi giurisdizionali e perché, una volta approvato, è
produttivo di effetti per tutti i creditori anteriori.

Il concordato preventivo offre però il vantaggio di evitare le pesanti conseguenze patrimoniali, personali e
penali della liquidazione giudiziale. Costituisce perciò in definitiva un beneficio concesso all’imprenditore
per favorire la composizione della crisi. L’attuale disciplina non fissa particolari condizioni soggettive di
meritevolezza per l’ammissione alla procedura.

Con la riforma del 2005 erano stati aboliti i c.d. Requisiti di meritevolezza oggettiva della proposta nel senso
che non era più richiesto che l’imprenditore fosse in grado di garantire il pagamento di una percentuale non
esigua ai creditori chirografari. Su questo punto però il legislatore del 2015 è tornato sui suoi passi: a ciascun
creditore deve essere assicurata una utilità specificatamente individuata ed economicamente valutabile ma si

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precisa che tale utilità può anche consistere nella prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il
debitore o con il suo avente causa.

Invece, per i concordati liquidatori, la proposta deve rispettare contemporaneamente due condizioni di
meritevolezza “oggettiva”: a) deve prevedere l’apporto di risorse esterne tali da incrementare di almeno il
10% il soddisfacimento dei creditori b) deve consentire il soddisfacimento di almeno il 20% dell’ammontare
complessivo del credito chirografario (art- 84 4° comma).

Ciò non significa che sia necessario soddisfare per intero i creditori privilegiati. Questi devono essere
soddisfatti in modo non inferiore a quanto gli stessi potrebbero conseguire in caso di liquidazione. Perciò se
la proposta prevede il pagamento parziale dei crediti privilegiati, il valore di mercato di tali beni o diritti al
netto delle spese, deve essere attestato da un esperto indipendente. La quota residua del credito è trattata
come credito chrografario.
Inoltre, quando viene proposto un concordato con continuità aziendale, è consentito prevedere una moratoria
non superiore a due anni. Per il resto, il concordato può perseguire le sue finalità di risanamento o di
liquidazione attraverso qualsiasi forma.

La proposta può contemplare il pagamento falcidiato o dilazionato.

Se il concordato è proposto da una società il piano può prevedere qualsiasi modificazione.

L’attuale disciplina presta particolare attenzione ai criteri con cui la proposta prevede di distribuire il ricavato
della procedura tra i creditori e attribuisce al proponente maggiore flessibilità al fine di agevolare
l’approvazione del concordato. Al riguardo, va tenuto presente che già la disciplina del concordato
preventivo nella legge fallimentare consentiva di suddividere i creditori in classi. Interpretato rigorosamente,
questo principio implicava che non era possibile offrire alcun pagamento per i creditori con rango inferiore.
Ma ciò significava in pratica che poco o nulla sarebbe arrivato dal concordato preventivo ai creditori
chirografari.

Il codice della crisi adotta invece una soluzione di compromesso basata sulla distinzione tra valore di
liquidazione e c.d. Plusvalore concordatario. Più nel dettaglio:
a) Nel concordato liquidatorio il plusvalore concordatario è costituito dalle risorse esterne apportate da
terzi in aggiunta al patrimonio del debitore, e tali risorse possono essere distribuite tra i creditori
senza rispettare alcun ordine di prelazione o anche assegnate a soggetti diversi dai creditori.
b) Nel concordato con continuità aziendale il maggior valore che la prosecuzione dell’attività consente
di ottenere rispetto all’alternativa della liquidazione del patrimonio deve essere distribuito ai
creditori secondo la c.d regola di priorità relativa: vale a dire è sufficiente che i crediti in una classe
ricevano complessivamente un rallentamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado.

Ma la formazione di classi non è solo un modo per differenziare il trattamento da riservare ai creditori ma
serve anche ad evitare che un certo gruppo di creditori predomini sugli altri. Perciò il codice della crisi
precisa che la suddivisione dei creditori in classi è obbligatoria quando è prevista la continuità aziendale.

Con scelta di discontinuità rispetto al passato, la riforma del 2022 ha consentito inoltre di prevedere una o
più classi di soci o di portatori di strumenti finanziari. Ciò non vuol dure che i soci si trasformano in creditori
nel concordato, ma esprime il concetto che anche i soci sono soggetti i quali possono subire un pregiudizio
dal concordato e devono pertanto potersi esprimere sulla proposta. Ed il trattamento economico della classe
si intende rappresentato dal calore effettivo che le loro partecipazioni avranno a seguito della omologazione
della proposta.

Da tutto ciò risulta chiaro che l’imprenditore dispone di un ampio spazio discrezionale nel determinare il
contenuto del piano concordatario. A partire dal 2015 questo potere è bilicato dalla contrapposta facoltà per i
creditori ed i terzi di avanzare proposte concorrenti. Il che può avvenire in due casi segnatamente:

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1) Se la proposta del debitore prevede il trasferimento a titolo oneroso di specifici beni o dell’azienda
ad un soggetto predeterminato
2) Se il debitore presenta una proposta di concordato che assicura il pagamento inferiore al 30%
dell’ammontare dei crediti chirografari

Il commissario giudiziale comunica le informazioni utili per la presentazione di proposte e offerte


concorrenti.

2. L’ammissione al concordato

La procedura inizia con la domanda di ammissione del debitore, che è pubblicata d’ufficio nel registro delle
imprese entro due giorni ed è trasmessa al pubblico ministero. La domanda di concordato non preclude la
presentazione di una domanda di liquidazione giudiziale da parte degli altri legittimati ma la liquidazione
giudiziale potrà essere dichiarata aperta solo nel caso che il concordato non prevenga ad omologazione.

Se il debitore è una società la presentazione della domanda di concordato è decisa in via esclusiva dagli
amministratori che sono solo tenuti ad informare i soci della loro decisione e sull’andamento della procedura.

La domanda di concordato può essere presentata già completa della proposta concordataria rivolta ai
creditori oppure con riserva. La domanda completa della proposta deve essere corredata dagli stessi allegati
richiesti per la domanda di liquidazione giudiziale; in più deve essere accompagnata da un piano di
concordato.

La proposta e gli allegati devono essere accompagnati dalla relazione di un professionista scelto dal debitore.
Il professionista deve accertare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano; nel concordato con
continuità aziendale attesta anche che la prosecuzione dell’attività di impresa è idonea a garantire il ripristino
della sostenibilità economica dell’impresa e a riconoscere a ciascun creditore un trattamento non deteriore
rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale.

A partire dalla riforma del 2012 però il debitore può presentare anche la domanda di concordato incompleta.
Devono essere depositi insieme alla domanda solo i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi.

Contestualmente poi il debitore può chiedere al tribunale di disporre misure cautelari e protettive idonee ad
assicurare provvisoriamente gli effetti del concordato.

Con la domanda di concordato in bianco perciò un debitore mira a ottenere un lasso di tempo per predisporre
il piano al riparo dalle aggressioni patrimoniali del creditori.

Quando viene presentata una domanda incompleta, il tribunale concede un termine compreso tra 30 e 60
giorni; il termine è prorogabile in presenza di giustificati motivi fino ad ulteriori sessanta gionri. Il tribunale
stabilisce anche gli obblighi informativi periodici a carico del debitore e la presentazione con cadenza
almeno mensile di una relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria da pubblicare nel
registro delle imprese. Il tribunale nomina infine un commissario giudiziale principalmente con compiti di
vigilanza, tuttavia se richiesto, o quando sono state concesse misure protettive, il commissario può anche
prestare attività consulenziale in favore delle parti.

Entro la scadenza, il debitore deve depositare la domanda di concordato preventivo completa di tutta la
documentazione necessaria o in alternativa richiedere l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei
debiti: se non lo fa, la domanda di ammissione al concordato viene rigettata e il tribunale può aprire la
liquidazione giudiziale ove ne ricorrano i presupposti ex art. 49 2° comma.

Ricevuta la domanda completa della proposta, il tribunale svolge un controllo preliminare volto ad accertare
se ricorrono i presupposti di legge per l’ammissione della procedura, la completezza e la regolarità della
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documentazione. Risolvendo un punto controverso, il codice prevede che in sede di ammissione al


concordato il tribunale debba verificare anche la fattibilità della proposta, ma solo nei limiti di un giudizio di
non manifesta inadeguatezza.

Prima di pronunciarsi il tribunale deve acquisire il parere del commissario giudiziale e sentire le parti.

Se l’accertamento ha esito negativo, il tribunale dichiara inammissibile la proposta di concordato, ma può


concedere al debitore un termine non superiore a quindici giorni per apportare integrazioni. Inoltre dichiara
l’apertura della liquidazione giudiziale ove ne sia stata presentata la domanda da uno dei soggetti legittimati
e sussistano gli altri presupposti.

Se invece ritiene ammissibile la proposta, il tribunale dichiara aspetta la procedura di concordato preventivo:
nomina il giudice delegato ed il commissario giudiziale. Sempre nel decreto di ammissione, il tribunale
determina la data iniziale e finale per l’espressione del voto dei creditori; fissa inoltre la somma che ritiene
necessaria come acconto sulle spese della procedura ed il termine entro il quale il debitore deve depositarla.
Il decreto di ammissione al concordato è comunicato e pubblicato con le stesse modalità del provvedimento
di apertura della liquidazione giudiziale.

Il decreto di ammissione è revocabile da parte del tribunale ed inoltre quando durante la procedura di
concordato il debitore compie atti non autorizzati o comunque diretti a frodare le ragioni dei creditori, o se
risulta che mancano le condizioni prescritte per l’ammissibilità del concordato. Quando revoca
l’ammissione, il tribunale può contestualmente pronunciare con sentenza l’apertura della liquidazione
giudiziale.

Il debitore deve attenersi durante la procedura e nella fase di esecuzione del concordato al principio generale
di buona fede, il che implica a) il dovere di trasparenza b) il dovere di assumere tempestivamente tutte le
iniziative idonee alla rapida definizione della procedura.

A differenza che nella liquidazione giudiziale, il debitore conserva l’amministrazione dei suoi beni e
continua l’esercizio dell’impresa; subisce però una limitazione del potere di gestione in quanto può compiere
solo gli atti di ordinaria amministrazione. Per gli atti di straordinaria amministrazione, è invece necessaria
una autorizzazione del tribunale.

L’autorizzazione è concessa se risulta che l’atto è funzionale al migliore soddisfacimento dei creditori.
Devono in particolare essere autorizzati gli atti elencati dal secondo comma dell’art. 94 (contrazione di mutui
anche in forma cambiaria, concessione di ipoteche, pegno e fideiussioni, transazioni, accettazioni di eredità
ecc). L’ elencazione però non ha carattere tassativo.

In caso di concordato preventivo con continuità aziendale il tribunale può altresì autorizzare il debitore a
pagare determinati crediti anteriori alla presentazione della domanda (art. 100). Questi pagamenti
costituiscono una deroga al principio della par condicio creditorum, in presenza di alcune condizioni:

a) Che un professionista in possesso dei requisiti per l’asseverazione del piano di concordato attesti che
tale prestazioni sono essenziali per la prosecuzione dell’attività di impresa.
b) Che i pagamenti siano effettuati con nuove risorse finanziarie apportate al debitore senza obbligo di
restituzione

Possono invece essere pagati senza autorizzazione i crediti prededucibili che vengono a scadenza durante la
procedura.

Gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione e i pagamenti compiuti senza la necessaria autorizzazione sono
inefficaci. Espongono inoltre l’imprenditore alla revoca della ammissione al concordato.

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L’amministrazione dei beni e la gestione dell’impresa sono soggette alla vigilanza del commissario
giudiziale.

Gli effetti per i creditori anteriori sono coincidenti con quelli propri della liquidazione giudiziale.

Se il debitore ne fa richiesta nella domanda di concordato, dalla data della pubblicazione del ricorso nel
registro delle imprese i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari individuali sul
patrimonio del debitore.

Dalla data di presentazione della domanda di accesso al concordato preventivo, i creditori non possono
inoltre acquistare diritti di prelazione con efficacia rispetto ai creditori concorrenti, salvo che vi sia
autorizzazione del tribunale o del giudice delegato. Resta sospeso il corso degli interessi e si producono gli
altri effetti per i creditori. Non trova invece applicazione la disciplina della revocatoria concorsuale.

L’apertura al concordato non incide sui rapporti contrattuali in corso. L’attuale disciplina perciò che tutti i
contratto ancora inseguiti da entrambe le parto dalla data della presentazione del ricorso proseguono, salvi gli
effetti della disciplina sulle offerte concorrenti, per gli atti che prevedono l’alienazione e l’affitto di beni.
Sono inefficaci i patti contrari. Proseguono anche i contratti pubblici, sia pure con alcune cautele: a tal fine si
richiede che un professionista dotato dei requisiti per l’asseverazione della proposta concordataria attesti la
conformità al piano della continuazione del contratto pubblico e la ragionevole capacità di adempimento.
Analoga attestazione deve essere presentata dall’impresa in concordato per partecipare a nuova assegnazione
di contratti pubblici. Le prestazioni effettuate in conformità degli accordi o defogli usi durante il concordato,
devono essere pagate per intero come crediti prededucibili.

Se viene sciolto un contratto di leasing, trova applicazione una disciplina analoga a quella introdotta nel 2017
per il caso di risoluzione del contratto per l’inadempimento ed il credito è trattati come credito anteriore al
concordato. Regole speciali sono previste in caso di scioglimento di finanziamento bancario c.d
autoliquidante.

3. Lo svolgimento della procedura

Intervenuta l’ammissione alla procedura, il procedimento di concordato preventivo si articola in due fasi:
l’approvazione del concordato da parte del tribunale. Nel concordato preventivo manca un accertamento
giudiziario dello stato passivo. Il commissario giudiziale provvede perciò a verificare l’elenco nominativo
presentato dal debitore apportando di sua iniziativa le necessarie rettifiche.

Nel contempo, il commissario redige l’inventario del patrimonio del debitore ed una relazione
particolareggiata sulle cause del dissesto, sulla condotta del debitore e sulla proposta di concordato. La
relazione va depositata in cancelleria e comunicata in via telematica ai creditori almeno 45 giorni prima della
data iniziale stabilita per il voto. Essa deve essere tempestivamente integrata se sopraggiungono nuove
proposte. Come anticipato, l’attuale disciplina consente ai creditori che rappresentano almeno il 10% dei
crediti ed ai soci che rappresentano almeno il 10% dei capitali di avanzare proposte di concordato alternative.

Le proposte concorrenti devono essere presentate entro 30 giorni dalla data iniziale del voto insieme al piano
concordatario. Se sono previste classi di creditori, il tribunale ne verifica preventivamente i criteri di
formazione. Tutte le proposte sono modificabili fino a 20 giorni prima della data iniziale stabilita per il voto.

A tal fine, almeno 15 giorni prima della data di inizio del voto, il commissario giudiziale invia ai creditori, al
debitore e a tutti gli interessati una comunicazione in cui illustra le proposte definitive presentate e allega
l’elenco dei creditori legittimati al voto.

Ogni contestazione è decisa, ai soli fini dell’ammissione al voto e del calcolo delle maggioranze, dal giudice
delegato senza che ciò precluda le pronunzie definitive sulla sussistenza del credito (art. 108 1° comma).
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LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

I creditori della votazione possono opporsi all’esclusione in sede di omologazione del concordato.

Infine, entro 7 giorni, il curatore comunica e deposita in cancelleria la propria relazione definitiva.

Il voto dei creditori è espresso mediante posta elettronica certificata inviata al commissario giudiziale. I
creditori muniti di diritto di prelazione non votano, salvo che rinunciano alla prelazione. La rinuncia ha
effetto ai soli fini del concordato. I creditori privilegiati sono equiparati ai chirografari.

Valgono regole analoghe a quelle esposte per il concordato nella liquidazione giudiziale per quanto riguarda
l’esclusione dal voto dei creditori in conflitto di interessi. I creditori sono chiamati a votare su tutte le
proposte di concordato, prima su quella del debitore e poi sulle proposte concorrenti secondo l’ordine di
presentazione (art. 107 2° comma).

Per quanto riguarda le maggioranze necessarie per l’approvazione del concordato a partire dal 2022 la legge
distinte tra concordato liquidatorio e concordato con continuità aziendale.

1) Il concordato liquidatorio è approvato con il voto favorevole della maggiorana dei crediti ammessi al
voto

2) Il concordato con continuità aziendale è approvato se tutte le classi hanno votato a favore, anche se
la rigidità di questa regola può essere attenuata dal tribunale in sede di omologazione,

Ove non si sia raggiunta la maggioranza assoluta, la classe si considera ugualmente favorevole quando ha
votato la maggioranza dei crediti appartenenti alla stessa.

Chi ha votato a favore di una proposta approvata può però modificare il proprio voto in senso contrario al
caso in cui il commissario giudiziale abbia rilevato che sono mutate le condizioni. Se la proposta è respinta il
tribunale dichiara d’ufficio inammissibile la proposta di concordato.

In sede di omologazione il tribunale controlla:


- la regolarità della procedura e il risultato della votazione
- L’ammissibilità della proposta
- La fattuibilità del piano nei limiti della sua non manifesta inadeguatezza

A partire dal 2005 il tribunale non effettua più un controllo di riferimento. Fa tuttavia eccezione l’ipotesi che
la convenienza del concordato sia contestata mediante una opposizione da parte di un creditore. Nel
concordato con continuità aziendale può presentare opposizione qualsiasi creditore dissenziente. Invece, nel
concordato liquidatorio è necessario che il creditore opponente appartenga ad una delle classi dissenzienti.

Anche i soci possono presentare opposizione per lamentare che il trattamento economico loro riservato nel
concordato è meno vantaggioso di quello che potrebbero conseguire tramite l’alternativa liquidatoria.

Vi sono poi due casi specifici anche quando non sono state raggiunte le maggioranze richieste.

 Quando la maggioranza non è stata raggiunta per la mancata adesione


 (Solo al concordato con continuità aziendale) la c.d. Ristrutturazione trasversale. Il tribunale può
omologare il concordato con continuità aziendale anche quando è approvato solo dalla maggioranza
delle classi perché sussistano tutte le condizioni:
 Il trattamento dei creditori concordatari rispetta i vincoli imposti dall’art. 84 CCI
 Nessun creditore riceve più dell’importo del proprio credito
 Tra le classi favorevoli almeno una è composta da creditori privilegiati

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Il tribunale omologa il concordato con sentenza: il provvedimento è pubblicato nel registro delle imprese e
da quel momento produce effetto nei riguardi dei terzi. Quando invece il tribunale rifiuta l’omologa dichiara
contestualmente aperta la liquidazione giudiziale. Contro la sentenza è possibile proporre reclamo alla corte
d’appello.

Il concordato preventivo è obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione nel registro delle
imprese della domanda di ammissione (c.d. Creditori concordatari). Restano tuttavia impregiudicati i diritti
dei creditori concordatari verso i coobbligati, i fideiussori e gli obbligati in via di regresso (art. 117 1°
comma).

Nel caso di società con soci a responsabilità illimitata, il concordato della società ha efficacia anche per i soci
(art. 117 2° comma). È tuttavia discusso se tale disposizione si applichi anche quando i soci abbiano prestato
specifiche garanzie personali o reali a favore della società.

L’imprenditore resta invece obbligato per l’intero per i debiti contratti rispettivamente alla pubblicazione
della domanda.

4. Esecuzione. Risoluzione ed annullamento del concordato

Con la sentenza di omologazione del concordato, la procedura si chiuse (art. 113 CCI). Il concordato viene
eseguito sotto la sorveglianza del commissario giudiziale.

Anche se è stata approvata una proposta concorrente dei creditori. Il debitore è tenuto a compiere ogni atto a
lui richiesto per darvi attuazione: in mancanza il tribunale può attribuire al commissario giudiziale i poteri di
agire in sostituzione (art. 118 4° comma).
Qualora il concordato consista nella cessione dei beni ai creditori, il tribunale nomina uno o più liquidatori
ed un comitato di 3 o 5 creditori per assistere alla liquidazione. Trova inoltre applicazione, la disciplina delle
vendite nella liquidazione giudiziale. Infatti, il concordato con cessione non comporta il trasferimento della
proprietà dei beni ai creditori ma solo il conferimento ai creditori stessi di un mandato irrevocabile in re,
propriam.

Come nella liquidazione giudiziale, poi, si prevede che in caso di trasferimento d’azienda l’acquirente non
risponde delle obbligazioni pregresse.

I pagamenti e le operazioni compiuti in esecuzione del concordato preventivo e sono esentati da revocatoria
in caso di successiva liquidazione giudiziale.

Il concordato preventivo può essere risolto su istanza di ciascun creditore o presentata al commissario
giudiziale su richiesta di un creditore, purchè l’inadempimento non sia di scarsa importanza.

Il concordato può inoltre essere annullato negli stessi casi e modi previsti per il concordato nella liquidazione
giudiziale. Benchè la legge non lo disponga espressamente si deve ritenere che anche in caso di
annullamento o risoluzione del concordato il tribunale debba valutare se sussistono i presupposti per
l’apertura della liquidazione giudiziale.

5. Consecuzione di procedure. I crediti prededucibili

L’apertura della liquidazione giudiziale in seguito al mancato perfezionamento del concordato solleva due
delicati problemi. Un primo problema è se i termini per l’esercizio delle azioni revocatorie concorsuali
decorrano a ritroso dalla presentazione della domanda di concordato preventivo oppure all’avvio della
liquidazione giudiziale.

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Gianmarco Rubino
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La giurisprudenza formatasi sotto la legge fallimentare si era orientata nel senso che i termini retroagissero
dalla data dei decreto di ammissione al concordato preventivo.

Nel 2012 questo orientamento era stato infine recepito nell’art. 69 bis L.Fall., ed ora è stato trasfuso nell’art.
170 2° comma CCI. Secondo questa norma quando alla domanda di accesso ad una procedura concorsuale
consegue l’apertura della liquidazione giudiziale i termini delle revocatorie concorsuali e di inefficacia dei
rimborsi dei finanziamenti postregati sono da calcolare a ritroso dalla data di pubblicazione della predetta
domanda di accesso.

E veniamo al secondo problema: gli atti, i pagamenti e le garanzie legittimamente posti in essere dal debitore
dopo la presentazione della domanda di concordato non sono soggetti e revocatoria. Anche su questo punto,
sotto il vigore della legge fallimentare, l’orientamento della giurisprudenza era favorevole. Ed in questo caso
sono chiare le ragioni di politica del diritto. Si vuole offrire ai creditori di impresa successivi la carola della
prededucibilità, per consentire all’imprenditore qualche chance in più di ripresa.

Il codice della crisi e dell’insolvenza conferma esplicitamente questo indirizzo.

In particolare sono dichiarati prededucibili:


1) I crediti sorti per effetto di atti legalmente compiuti dal debitore durante la procedura
2) I crediti legalmente sorti durante la procedura per la gestione del patrimonio del debitore
3) I crediti dei professionisti sorti in funzione della presentazione della domanda di concordato

Una particolare attenzione viene infine rivolta alla prededucibilità della nuova finanza concordataria. Il
codice della crisi prevede in particolare le seguenti ipotesi:
a) Durante lo svolgimento della procedura, quando il piano prevede la continuazione dell’attività anche
solo fino alla liquidazione, il debitore può chiedere al tribunale di essere autorizzato a contrarre
nuovi finanziamenti prededucibili funzionali all’apertura e allo svolgimento del concordato oppure
funzionali all’esercizio dell’attività aziendale sino all’omologa. L’istanza deve essere accompagnata
dall’attestazione di un professionista indipendente che tali finanziamenti sono funzionali alla
migliore soddisfazione dei crediti.

Nel rispetto delle regole sopra esposte è possibile chiedere la prededucibilità anche di finanziamenti
erogati prima della domanda di concordato.

b) Nella fase di esecuzione: sono inoltre prededucibili i crediti derivanti da finanziamenti erogati in
esecuzione di un concordato preventivo con continuità aziendale ed espressamente previsti dal piano.

In ogni caso la prededucibilità accordata alla nuoca finanza concordataria non opera se emerge che il piano
era basato su dati falsi o incompleti.

Il beneficio della prededuzione è infine riconosciuto anche quando la nuova finanza concordataria viene
erogata ad una società proponente il concordato dai suoi stessi soci. Ma poiché non pare equo che i soci
riversino per intero il rischio del salvataggio sui creditori, i finanziamenti concordatari effettuati dagli stessi
sono prededucibili solo nella misura dell’80% (art. 102 CCI).

6. Il concordato preventivo di gruppo

Se la procedura viene aperta, il tribunale nomina un unico giudice delegato ed un unico commissario
giudiziale. E per la fase di esecuzione, nel caso di cessione dei beni, nomina un unico liquidatore. Viene
inoltre disposto il deposito di un unico fondo per l’anticipazione delle spese.

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Resta ferma l’autonomia patrimoniale delle masse attive e passive delle imprese di gruppo. Perciò nel
concordato di gruppo ciascuna impresa presenta una distinta proposta concordataria ai propri creditori. Il
piano è unitario o in alternativa possono essere presentati piani reciprocamente collegati e interferenti.

Il piano di concordato può prevedere operazioni contrattuali o riorganizzative. In questo caso un


professionista indipendente deve attestare che tali operazioni sono necessarie per la continuità aziendale ed
inoltre che le stesse sono coerenti con l’obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori di tutte le imprese.

La votazione del concordato di gruppo avviene in maniera separata e contestuale. Se il concordato di grupoo
ha finalità liquidatoria possono presentare opposizione all’omologazione i creditori che, nell’ambito della
votazione relativa alla proposta della società loro debitrice, sono risultati in una classe dissenziente o, in
mancanza di classi, rappresentano il 20% dei crediti votanti. Tuttavia il tribunale può omologare ugualmente
il concordato quando ritenga che il pregiudizio sia escluso in considerazione dei vantaggi compensativi
ricevuti dalla società debitrice oppure che il creditore possa essere soddisfatti tramite il concordato di
gruppo.

Se invece la proposta prevede la continuità aziendale, trovano applicazione le regole già esaminate per
l’omologazione di questo tipo di concordato. Il concordato di gruppo omologato può essere annullato o
risolto quando se ne verificano i presupposti rispetto ad una o più imprese.

Trova applicazione per il resto la disciplina generale del concordato preventivo già esaminata.

7. Il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione

Con l’attuazione della direttiva UE 1023/2019 il concordato preventivo è stato affiancato da due strumenti
affini: il piano dia ristrutturazione soggetto ad omologazione che presenta strette analogie con il concordato
con continuità aziendale; e il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio che può essere usato
in luogo di un concordato preventivo liquidatorio solo se prima si è tentata senza successo la fase di
composizione giudiziale della crisi.

Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione può essere considerato una forma semplificata di
concordato. Si caratterizza tuttavia per una più ampia flessibilità riguardo al contenuto della proposta.

Caratteristica principale del piano di ristrutturazione omologato è che il debitore può proporre di distribuire
tra le classi di creditori il valore generato dal piano anche in deroga agli artt. 2740 e 2741 del codice civile e
alle disposizioni che regolano la graduazione delle cause legittime di prelazione. Pertanto, il proponente è
tendenzialmente libero di stabilire quanta parte delle risorse attive della procedura concorsuale destinate al
soddisfacimento dei creditori e in qual modo distribuirle senza tener conto dell’esistenza e dell’ordine dei
privilegi.

La domanda di omologazione è presentata dall’imprenditore con le modalità previste per il concordato


preventivo.

Ulteriore significativo vantaggio di questo strumento è che, diversamente dal concordato preventivo,
l’ammissione alla procedura non determina alcun effetto di spossessamento. La gestione del patrimonio
segue invece principi simili a quelli che operano nella fase di composizione negoziata della crisi: dalla data
di presentazione della domanda fino all’omologazione, l’imprenditore conserva la gestione dell’impresa.
Tuttavia se intende compiere atti di straordinaria amministrazione, deve informarne il commissario
giudiziale.

Per l’approvazione del piano da parte dei creditori valgono regole analoghe a quelle previste per
l’approvazione del concordato preventivo con continuità aziendale. E, come nel concordato, se un creditore

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dissenziente contesta la convenienza della proposta, il tribunale può ugualmente omologare l piano se ritiene
che l’opponente non potrebbe ricevere trattamento migliore.

Se il piano non è approvato da tutte le classi il tribunale non può procedere all’omologazione attraverso il
meccanismo di ristrutturazione trasversale. Le conseguenze di questa situazione sono tuttavia attenuate dalla
regola che il debitore può modificare la domanda e chiedere di essere ammesso ad un concordato preventivo.
E reciprocamente il debitore può chiedere l’omologazione di un piano di ristrutturazione sino a che non sono
iniziate le operazioni di voto.

8. Il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio

Con il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio introdotto con il D.L. 118/2021,
l’imprenditore che ha inutilmente esperito la fase di composizione negoziata della crisi predispone una
proposta di concordato con cessione dei beni e lo sottopone all’omologazione del tribunale.

Si tratta dunque di uno strumento alternativo ad un normale concordato preventivo liquidatorio.

A differenza del concordato preventivo, può chiedere di essere ammesso al concordato semplificato
liquidatorio non soltanto l’imprenditore che potrebbe essere sottoposto a liquidazione giudiziale ma anche un
imprenditore agricolo o un imprenditore minore.

La domanda può essere presentata solo se l’esperto incaricato di gestire la fase di composizione negoziata
della crisi dichiara che le trattative si sono svolte secondo buona fede che non hanno avuto esito positivo e
non è stato possibile raggiungere un accordo di salvataggio con i creditori.

La proposta deve necessariamente contemplare la liquidazione del patrimonio del debitore mediante cessione
dei beni ai creditori. È espressamente concessa la facoltà di formare classi di creditori.

Non è invece richiesto che la proposta soddisfi i requisiti di meritevolezza oggettiva del concordato
liquidatorio. Nè il debitore deve allegare alla proposta l’attestazione dell’esperto sulla veridicità dei dati
aziendali e la fattibilità del piano.

Il ricorso è cominciato al Pubblico Ministeri e pubblicato d’ufficio nel registro delle imprese.
Non sussiste una vera fase di ammissione al concordato, bensì il tribunale si limita a valutare la ritualità della
proposta.

Non viene nominato un commissario giduiziale ma solo un ausiliario ai sensi dell’art. 68 c.p.c.

I creditori non votano sulla proposta di concordato ma possono solo presentare opposizione alla sua
omologazione. Perciò con lo stesso decreto di apertura del concordato semplificato il tribunale fissa
direttamente la data dell’udienza. Possono proporre opposizione tutti i creditori e qualsiasi interessato.

Durante l’udienza il tribunale verifica la regolarità del contraddittorio e del procedimento, la fattibilità del
piano di liquidazione e può disporre la assunzione di mezzi istruttori e d’ufficio o richiesti dalle parti.

Condizioni sostanziali sono che il piano di liquidazione:


1) Rispetti l’ordine delle cause di prelazione
2) Nona arrechi pregiudizio ai creditori
3) Assicuri una utilità a ciascun creditore

Contro il decreto di omologazione è possibile presentare reclamo davanti alla corte d’appello. Nel decreto di
omologa il tribunale provvede anche a nominare un liquidatore. Sorge il dubbio che la vera funzione del

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nuovo istituto sia di costituire una minaccia incombente sui creditori durante la fase della composizione
negoziale della crisi per indurli a trattare.

C. GLI ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI. LA CONVENZIONE DI MORATORIA

9. Caratteri generali

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono un nuovo istituto introdotto nella legge fallimentare dal
decreto-legge del 2005 (art. 182-bis). Essi sono accordi stipulati fra l’imprenditore in stato di crisi ed una
maggioranza qualificata di creditori, i quali, una volta pubblicati nel registro delle imprese e ottenuta
l’omologazione del tribunale, consentono di porre gli atti compiuti in esecuzione degli stessi al riparo
dall’azione revocatoria fallimentare, qualora la crisi non sia superata e sopraggiunga la liquidazione
giudiziale.

Consentono inoltre di rendere prededucibili i crediti derivanti da nuovi finanziamenti accordati all’impresa in
crisi. Infine, i pagamenti e le operazioni compiuti in esecuzione di un accordo di ristrutturazione dei debiti
omologato sono posti al riparo anche dall’applicazione di sanzioni penali. Gli accordi di ristrutturazione si
distinguono dal concordato preventivo in quanto non costituiscono un concordato giudiziale e di massa. Non
sono concordati giudiziali perché non sono raggiunti per il tramite di organi giudiziari, bensì mediante
trattative dirette fra debitore e creditori ed il tribunale interviene sull’accordo già concluso solo con una
funzione di controllo mediante l’omologazione. Non sono inoltre concordati di massa perché parte
dell’accordo sono esclusivamente i creditori che lo accettano, e che proprio per questo possono acconsentire
a ricevere trattamenti non conformi al principio della par condicio creditorum: gli altri sono qualificati dalla
legge come creditori estranei e devono essere soddisfatti per intero entro i termini massimi stabiliti dalla
legge. Inoltre e soprattutto, le categorie di imprenditori che possono accedere agli accordi di ristrutturazione
sono più ampie di quelle ammissibili al concordato preventivo, perché oggi anche gli imprenditori agricoli
possono servirsi di tale strumento di composizione della crisi. Gli accordi di ristrutturazione danno origine ad
una procedura concorsuale ciò in quanto a seguito dell’omologazione l’accordo è in grado di produrre effetti
anche nei confronti dei creditori estranei. Ed in questo va ravvisata la concorsualità, vale a dire, nell’essere
mezzo di composizione della crisi mediante il coinvolgimento di tutti i creditori anteriori. Il che giustifica
l’applicazione analogica di alcune norme del concordato preventivo per colmare la scarna disciplina dell’art.
182-bis della legge fallimentare.

Gli accordi di ristrutturazione vanno altresì distinti dai piani di risanamento. I piani di risanamento
conseguono lo stesso risultato ma senza il bisogno del preventivo accordo con i creditori, senza essere
anticipatamente pubblicati nel registro delle imprese e senza essere sottoposti al previo controllo
omologatorio del tribunale: è infatti sufficiente che il piano sia stato redatto prima di compiere gli atti che si
intendono sottrarre alla revocatoria e che un esperto ne attesti la fattibilità. Sulla carta sembrerebbero più
semplici e vantaggiosi degli accordi di ristrutturazione; presentano però un elemento di grave incertezza: essi
sono esibiti al giudice solo a liquidazione aperta, per contrastare l’azione revocatoria del curatore. Forte è
quindi il rischio che il giudice si convinca che il piano era fin dall’inizio inidoneo a superare la crisi; e
conseguentemente non riconosca l’esenzione dalla revocatoria degli atti esecutivi.

Gli accordi di ristrutturazione, invece, proprio perché soggetti a controllo giudiziale preventivo, conferiscono
certezza riguardo ai loro effetti protettivi nei confronti di un’eventuale successiva azione revocatoria. Solo
gli accordi di ristrutturazione e il concordato preventivo consentono di assicurare il beneficio della
prededucibilità ai nuovi finanziamenti.

10. La disciplina generale degli accordi di ristrutturazione

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Secondo la regola generale, all’accordo di ristrutturazione dei debiti devono aderire i creditori che
rappresentano almeno il 60% dei crediti (art. 57 1° comma CCI).

L’accordo può essere finalizzato tanto alla liquidazione del patrimonio, tanto al risanamento ed alla
continuazione dell’attività aziendale.

Ai creditori che non aderiscono all’accordo deve invece essere assicurato l’integrale pagamento. Con una
precisazione però: a partire dal 2012 il pagamento dei creditori istantanei all’accordo deve essere sì integrale
ma non necessariamente regolare, nel senso che è possibile dilazionare l’adempimento nei loro confronti fino
ad un massimo di 120 giorni dalla omologazione.

Inoltre, il principio di integrale pagamento dei creditori non aderenti subisce delle eccezioni in caso di crediti
del fisco e degli enti previdenziali.

Come anticipato, all’accordo si perviene all’esito di negoziazioni dirette tra il debitore ed i creditori senza
partecipazione di alcun organo giudiziario. Durante le trattative il debitore deve attenersi al dovere generale
di trasparenza nei confronti del creditore. In questa delicata fase, l’imprenditore può chiedere al Tribunale di
essere posto al riparo dalle azioni cautelari od esecutive individuali di creditori con una istanza corredata
dalla documentazione volta ad attestare l’esistenza di trattative in corso e l’idoneità della proposta.

Se l’esame della domanda ha esito positivo, il tribunale stabilisce con proprio decreto un termine compreso
tra 30 e 60 giorni entro il quale un debitore deve depositare per l’omologazione l’accordo raggiunto o, in
alternativa, una proposta di concordato preventivo. Stabilisce anche la durata del divieto di azioni esecutive
individuali. Come nel concordato preventivo, con la presentazione della domanda di omologazione
dell’accordo tutti i contratti proseguono ed è nullo il patto contrario. Inoltre i creditori forniscono prestazioni
essenziali per la continuazione della gestione corrente dell’impresa.

Dopo la stipulazione dell’accordo, il debitore ne deve chiedere l’omologazione al tribunale. In particolare,


l’accordo deve contenere un piano economico-finanziario. La relazione di un professionista indipendente
attesta la veridicità dei dati aziendali, la fattibilità dell’accordo e del piano e la loro idoneità ad assicurare
l’integrale pagamento dei creditori. Va poi allegata una documentazione analoga a quella già vista per la
domanda di apertura della liquidazione giudiziale presentata dal debitore. Se il debitore è una società,
trovano applicazione le regole sulla competenza degli amministratori già esaminate per il concordato
preventivo.

Contestualmente alla domanda di omologazione, l’accordo è pubblicato nel registro delle imprese. Dal
giorno della pubblicazione, l’accordo acquista efficacia e può essere eseguito. In caso di successiva apertura
della liquidazione giudiziale, gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo
omologato non sono soggetti ad azione revocatoria da parte del curatore..

Durante lo svolgimento della procedura, il debitore conserva l’amministrazione del suo patrimonio, ma deve
gestirlo mel rispetto dell’interesse prioritario dei creditori. Il tribunale piò inoltre nominare un commissario
giudiziale in funzione di vigilanza.

Il tribunale decide sulla domanda di omologazione decorso il termine per la presentazione delle eventuali
opposizioni di 30 giorni. L’omologazione è concessa con sentenza contro la quale è proponibile reclamo
davanti alla corte d’appello. Il decreto di omologazione è pubblicato nel registro delle imprese. Se invece
l’accordo non è omologato, il tribunale valuta la sussistenza dei requisiti per l’apertura della liquidazione
giudiziale.

Qualora dopo l’omologazione si rendano necessarie modifiche sostanziali al piano per assicurare
l’esecuzione degli accordi, il debitore deve rinnovare l’attestazione di fattibilità da parte di un professionista
indipendente. Il piano modificato e la nuova attestazione, sono pubblicati nel registro delle imprese.

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È dubbio invece se dopo l’omologazione l’accordo di ristrutturazione intervenga l’apertura della liquidazione
giudiziale si pongono problemi relativi alla consecuzione delle due procedure, analoghi a quelli già visti a
proposito del concordato preventivo.

Perciò i crediti prededucibili sorti nell’ambito della procedura di omologazione degli accordi conservano lo
stesso trattamento anche nella liquidazione giudiziale. Trovano inoltre applicazione le norme in tema di
prededucibilità della nuova finanza erogata per consentire la presentazione della domanda e lo svolgimento
della procedura, oppure in caso di esecuzione dell’accodo omologato.

11. Le forme speciali di accordi di ristrutturazione dei debiti

Il Codice della Crisi e dell’Insolvenza prevede alcune varianti.

1) Gli accordi di ristrutturazione agevolati sono accordi in cui il debitore a) non propone la moratoria
dei crediti estranei agli accordi; b) rinuncia a richiedere misure protettive temporanee. La quota di
adesioni all’accordo necessaria per chiederne l’omologazione è ridotta al 30% dei crediti.
2) Gli accordi di ristrutturazione con efficacia estesa sono accordi che estendono i loro effetti anche ai
creditori non aderenti. A tal fine, l’accordo deve avere carattere non liquidartorio e deve prevedere la
suddivisione dei creditori in categorie.

Sotto il profilo procedurale, tutti i creditori della categoria devono essere posti in condizione di
partecipare alle trattative. Qualora sia raggiunta la necessaria maggioranza di adesioni (60% e in più
il 75% all’interno della stessa categoria) il debitore è tenuto a notificare l’accordo con gli allegati e
la sdomanda id omologazione ai creditori non aderenti, per i quali il termine di opposizione decorre
solo dal giorno della comunicazione.

In nessun caso è però possibile imporre ai creditori non aderenti all’accordo l’esecuzione di nuove
prestazioni, l’erogazione di nuovi finanziamenti o il mantenimento della possibilità di utilizzare gli
affidamenti esistenti

3) Gli accordi di ristrutturazione di gruppo sono accordi che mirano alla ristrutturazione dei debiti non
già di una singola impresa bensì di più imprese appartenenti allo stesso gruppo ed aventi tutte il
centro di interessi principale in Italia. L’attuale disciplina consente alle imprese debitrici di
presentare una domanda unitaria di omologazione. Trovano applicazione le regole per il concordato
preventivo di gruppo, quanto alla possibilità di prevedere trasferimenti di risorse infragruppo
necessari alla realizzazione di un piano con continuità aziendale.

12. La convenzione di moratoria

Con la convenzione di moratoria un imprenditore anche non commerciale o minore allo scopo di disciplinare
in via provvisoria gli effetti della crisi concorda con i creditori una delle seguenti misure:

a) La dilazione delle scadenze dei crediti


b) La rinuncia agli atti o la sospensione delle azioni esecutive e conservative
c) Ogni altra misura che non comporti rinuncia al credito

Se la convenzione è approvata dai creditori che rappresentano il 75% di una categoria la moratoria è efficace
anche nei confronti dei creditori non aderenti alla medesima categoria.

Come per gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa, il debitore ha il dovere di informare tutti i
creditori appartenenti ad una categoria e deve consentire loro di partecipare in buona fede alle trattative.
Inoltre, la convenzione di moratoria è efficace senza bisogno di omologazione da parte del tribunale.
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Gianmarco Rubino
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LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

Tuttavia, un controllo giudiziario può essere attivato ex post, se un creditore non aderente presenta
opposizione. In questo caso il tribunale decide sulle opposizioni in camera di consiglio con sentenza contro
la quale si può proporre ricordo davanti alla Corte d’Appello.

CAPITOLO VENTISEI
LA LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA

1. Caratteri generali.

La liquidazione coatta amministrativa è una procedura concorsuale a carattere amministrativo cui sono
assoggettate determinate categorie di imprese specificamente indicate da leggi speciali. Si trat- ta per lo più
di imprese pubbliche o di imprese private sottoposte a controllo pubblico per il rilievo economico e sociale
della loro attività. Tale procedura concorsuale è prevista per le imprese banca- rie, le imprese di
assicurazione, le società cooperative ed i loro consorzi, la società di gestione del risparmio, le società di
intermediazione mobiliare, le imprese sociali.
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LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

Le leggi speciali che stabiliscono l’assoggettamento a liquidazione amministrativa determinano an- che i casi
in cui la stessa può essere disposta. E dalle leggi speciali emerge che la liquidazione coat- ta può essere
disposta non solo quando vi è insolvenza, ma anche per gravi irregolarità di gestione o per violazione di
norme di legge o regolamentari. In alcuni casi può essere determinata anche da ragioni di pubblico interesse
che giustificano la soppressione dell’ente. L’autorità competente a di- sporre la liquidazione è l’autorità
amministrativa individuata dalle singole leggi speciali.

Il fine specifico della liquidazione coatta amministrativa, rispetto alla liquidazione giudiziale, è
l’eliminazione dal mercato dell’impresa e ciò attraverso un procedimento amministrativo di liquidazione che
assicura anche il soddisfacimento dei creditori come passaggio per arrivare alla soppressione dell’impresa.
Per quanto riguarda il rapporto tra le diverse procedure della liquidazione giudiziale e della liquidazione
coatta, vediamo come l’art. 2 della legge fallimentare esplica che le imprese soggette a liquidazione coatta
sono sottratte al liquidazione giudiziale. L’art. 196 della legge fallimentare risolve il conflitto tra le due
servendosi del criterio della prevenzione: la dichiarazione di liquidazione giudiziale, possibile solo in caso di
insolvenza, preclude la liquidazione coatta e viceversa. Contrasto che nasce dal fatto che anche la
liquidazione coatta può avere come presupposto oggettivo lo stato di insolvenza dell’impresa.

La legge fallimentare si limita a dettare uno schema generale di disciplina applicabile in assenza delle
numerose disposizioni delle leggi speciali presenti in materia. Allo stesso tempo si è voluto assicurare un
minimo di unità alle diverse procedure di liquidazione coatta e in questa prospettiva sono dichiarate
inderogabili e prevalgono su quanto disposto dalle leggi speciali:
a) le disposizioni generali della legge fallimentare che regolano gli effetti della liquidazione coatta secondo i
principi del concorso;
b) quelle che prevedono l’intervento dell’autorità giudiziaria a tutela dei diritti soggettivi dei credi- tori e dei
terzi coinvolti dalla procedura amministrativa di liquidazione.

2. Il provvedimento di liquidazione. L’accertamento dello stato di insolvenza.

La liquidazione coatta amministrativa è disposta con decreto dall’autorità governativa che ha vigi- lanza
sull’impresa. Entro dieci giorni dalla sua data, il decreto deve essere pubblicato nella Gazzetta Ufficiale e
comunicato per l’iscrizione all’ufficio del registro delle imprese (art. 197 l. fall.).

La stessa autorità governativa nomina gli organi della procedura, che sono il commissario liquidato- re ed il
comitato di sorveglianza (art. 198).

Il commissario liquidatore è l’organo deputato a svolgere l’attività di liquidazione, secondo le diret- tive
impartitegli dall’autorità di vigilanza (art. 204). È investito della qualità di pubblico ufficiale e trovano
applicazione nei suoi confronti le norme in tema di responsabilità del curatore (art. 199).

Il comitato di sorveglianza è composto da 3 o 5 membri scelti fra persone esperte nel ramo di attivi- tà
esercitato dall’impresa (possono essere anche i creditori della stessa). ha funzioni consultive e di controllo.
L’autorità amministrativa di vigilanza sovrintende all’intera procedura e riassume in sé le funzioni svolte
nella liquidazione giudiziale dal tribunale e dal giudice delegato.

Resta però di competenza esclusiva dell’autorità giudiziaria l’accertamento dell’eventuale stato di


insolvenza; accertamento che per le sole imprese private può procedere o seguire il provvedimento
amministrativo di apertura della liquidazione coatta. Gli enti pubblici economici sono invece sot- tratti
all’accertamento preventivo dello stato di insolvenza (art. 195) e ciò al fine di concentrare il più possibile
nell’autorità amministrativa il potere discrezionale di apertura della liquidazione coat- ta.

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L’accertamento preventivo dello stato di insolvenza di un’impresa privata soggetta a liquidazione coatta di
regola può essere richiesto da uno o più creditori, da parte dello stesso imprenditore o dal- l’autorità
governativa che ha la vigilanza sull’impresa.
Prima di provvedere il tribunale deve sentire il debitore, con le modalità previste per l’istruttoria
fallimentare, nonché l’autorità governativa che ha vigilanza sull’impresa. La sentenza che accerta lo stato di
insolvenza è comunicata a quest’ultima, entro 3 giorni, perché disponga la liquidazione, che costituisce in tal
caso atto dovuto della pubblica amministrazione.

L’accertamento dello stato di insolvenza di un’impresa che già si trova in liquidazione coatta può essere
invece richiesto al tribunale solo dal commissario liquidatore o dal pubblico ministero, non dai creditori.
anche in tal caso lo stato di insolvenza è dichiarato con sentenza ed il tribunale è tenu- to a disporre la
preventiva comparizione dell’imprenditore in camera di consiglio affinché possa esercitare il diritto di difesa.
Contro la sentenza che dichiara lo stato di insolvenza e contro il decreto che respinge il relativo ricorso sono
previsti gravami analoghi a quelli ammessi contro la dichiarazione di liquidazione giudiziale.

Gli effetti del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa sono in parte diversi a seconda che sia
stato o meno accertato lo stato di insolvenza. In entrambi i casi trovano applicazione le norme in tema di
effetti del liquidazione giudiziale sul patrimonio del debitore e se l’impresa è una società restano sospese le
funzioni degli organi sociali (art. 200). Si applicano inoltre integralmente le norme che regolano gli effetti
della liquidazione giudiziale per i creditori e quelle sui rapporti giuridici in corso di svolgimento.

Solo se è stato accertato lo stato di insolvenza trovano invece applicazione le norme della legge fallimentare
relative agli atti pregiudizievoli ai creditori e le sanzioni penali disposte per il liquidazione giudiziale. Perciò,
solo se è stato accertato lo stato di insolvenza è possibile promuovere l’azione revocatoria fallimentare per
reintegrare il patrimonio dell’imprenditore. si tenga infine presente che la liquidazione coatta amministrativa
non si estende in alcun caso ai soci illimitatamente responsabili.

Nei confronti dei soci a responsabilità illimitata trova tuttavia applicazione la disciplina della revocatoria
fallimentare, relativamente agli atti dagli stessi compiuti sul patrimonio personale prima del- l’apertura della
liquidazione coatta della società.

3. Il procedimento. Chiusura.

La liquidazione coatta amministrativa si sviluppa attraverso le fasi dell’accertamento dello stato passivo,
della liquidazione dell’attivo e del riparto del ricavato fra i creditori concorrenti. Tutte que- ste fasi si
svolgono però in sede amministrativa.

Significative differenze rispetto alla liquidazione giudiziale si hanno in primo luogo per quanto riguarda la
formazione dello stato passivo. Non è necessaria una domanda di ammissione dei creditori e lo stato passivo
è formato d’ufficio dal commissario liquidatore sulla base delle scritture contabili, dei documenti
dell’impresa e delle eventuali osservazioni od istanze dei creditori. Agli stessi il commissario è tenuto a
comunicare, entro un mese dalla nomina, le somme risultanti a credito di ciascuno (art. 207).

Manca inoltre una fase di verificazione dello stato passivo. È sempre il commissario liquidatore che, entro 90
giorni dalla data del provvedimento di liquidazione, forma lo stato passivo definitivo, lo deposita nella
cancelleria del tribunale e lo trasmette tramite posta elettronica certificata a coloro la cui pretesa non sia stata
in tutto o in parte riconosciuta. Col deposito lo stato passivo diventa ese- cutivo (art. 109).

A questo punto si può aprire una fase contenziosa davanti all’autorità giudiziaria, con la proposizio- ne di
opposizioni e di impugnazioni da parte dei creditori. per questa fase contenziosa è richiamata la
corrispondente disciplina del liquidazione giudiziale, salvo gli opportuni adattamenti. Identica disciplina si
applica inoltre per le domande di rivendica e restituzione di cose possedute dall’imprenditore e per le
insinuazioni tardive di crediti.
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Gianmarco Rubino
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Notevolmente più snella rispetto al liquidazione giudiziale è anche la liquidazione dell’attivo. Vi provvede il
commissario, investito per legge di tutti i poteri necessari e che può procedere in piena libertà, salve le
limitazioni stabilite dall’autorità di vigilanza. Per le vendite di immobili e la vendita in blocco di mobili sono
però necessari in ogni caso l’autorizzazione di quest’ultima ed il parere del comitato di sorveglianza (art.
210).

Per la ripartizione dell’attivo valgono criteri analoghi a quelli dettati per la liquidazione giudiziale. Le
ripartizioni parziali sono però facoltative e possono essere disposte anche prima che lo stato passivo è stato
reso esecutivo (art. 212).

Prima dell’ultimo riparto, il commissario liquidatore deve sottoporre all’autorità amministrativa di vigilanza
il bilancio finale di liquidazione con il conto della gestione ed il piano di riparto fra i cre- ditori,
accompagnati da una relazione del comitato di sorveglianza. L’autorità di vigilanza ne auto- rizza il deposito
presso la cancelleria del tribunale e liquida il compenso al commissario (art. 213). Si può aprire a questo
punto un’ulteriore fase giudiziaria. Il tribunale può essere infatti investito del- le eventuali contestazioni nel
termine di 20 giorni, che decorre per i creditori dalla comunicazione dell’avviso di deposito e dall’inserzione
dello stesso nella Gazzetta Ufficiale per ogni altro interes- sato. Le contestazioni sono decise in camera di
consiglio con la procedura già vista per i reclami contro gli atti del giudice delegato.

In mancanza di contestazioni, bilancio finale e piano di riparto si intendono approvati. Il commissa- rio
provvede alla ripartizione finale fra i creditori e alla cancellazione della società dal registro delle imprese.

La liquidazione coatta amministrativa si può chiudere anche mediante concordato (art. 214 e 215). La
procedura di concordato presenta però notevoli differenze rispetto al concordato fallimentare e si caratterizza
in particolare per il fatto che non è richiesta l’approvazione dei creditori. la proposta di concordato previa
autorizzazione dell’autorità di vigilanza è infatti approvata direttamente dal tri- bunale, sentito il parere di
quest’ultima. I creditori possono far valere le loro ragioni solo mediante opposizione presentata al tribunale
prima dell’approvazione. Il tribunale può approvare la proposta di concordato anche se si oppongono tutti i
creditori, ritenendosi preminente la valutazione della rispondenza della proposta all’interesse pubblico.
Contro il decreto del tribunale che approva o re- spinge il concordato si può proporre reclamo alla corte
d’appello (art. 214).

CAPITOLO VENTISETTESIMO
L’AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA DELLE GRANDI IMPRESE INSOLVENTI

1. Caratteri generali.

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La liquidazione giudiziale, il concordato preventivo e la liquidazione coatta amministrativa sono procedura


con- corsuali che di regola conducono alla disgregazione del complesso aziendale con conseguente per- dita
dei posti di lavoro per i dipendenti. Da qui l’esigenza di una nuova procedura concorsuale ido- nea a
conciliare il soddisfacimento dei creditori dell’imprenditore insolvente con il salvataggio del complesso
produttivo in crisi e la conservazione dei posti di lavoro. È questo il motivo ispiratore dell’amministrazione
straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza: procedura concorsua- le introdotta nel 1979 e
radicalmente riformata dal decreto legislativo 8-7-1999, n. 270. A questo istituto si è poi affiancata di recente
un’amministrazione straordinaria speciale riservata alle imprese di maggiori dimensioni. La revisione del
1999 è andata ad abrogare l’originaria disciplina la quale, non solo non tutelava adeguatamente i creditori,
ma aveva finito con il favorire l’artificiosa perma- nenza in vita, a spese della collettività, di organismi
produttivi privi di qualsiasi prospettiva di ripre- sa.

Oggi, in base all’attuale disciplina, l’amministrazione straordinaria è la procedura concorsuale della grande
impresa commerciale insolvente con finalità conservative del patrimonio produttivo, me- diante
prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali (art. 1 del d. lgs. del 1999). Nel
frattempo, è significativamente rafforzata la tutela dei creditori dell’imprenditore insol- vente il cui
soddisfacimento costituisce finalità concorrente della procedura, come emerge dal fatto che il tribunale
dispone, anche d’ufficio, la conversione dell’amministrazione straordinaria in falli- mento quando risulta che
la stessa non può utilmente proseguire.

L’attuale amministrazione straordinaria si atteggia infatti come una procedura concorsuale allo stes- so
tempo giudiziaria e amministrativa, articolata in due fasi:
1) la dichiarazione dello stato di insolvenza da parte dell’autorità giudiziaria;
2) la successiva eventuale apertura della procedura di amministrazione straordinaria vera e propria,
subordinata all’accertamento delle concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività
imprenditoriali.

Competente a disporre l’apertura e la cessazione di questa seconda fase è ancora l’autorità giudizia- ria; a
quest’ultima sono inoltre riservati anche l’accertamento del passivo e la ripartizione dell’atti- vo, secondo le
disposizioni in tema di liquidazione giudiziale.

È invece devoluta all’autorità amministrativa la gestione della procedura che si caratterizza per l’au-
tomatica continuazione dell’esercizio dell’impresa insolvente da parte di un commissario straordi- nario.
Commissario che provvede anche a predisporre il programma di risanamento secondo uno degli indirizzi
alternativi fissati per legge, la cui attuazione avviene sotto il controllo della stessa autorità governativa e con
interventi statali volti ad agevolare il risanamento.

2. Presupposti. Dichiarazione di insolvenza.

La nuova procedura di amministrazione straordinaria è riservata alle imprese commerciali, anche individuali,
soggette a liquidazione giudiziale, che rispondono ai requisiti ed alle condizioni fissati dagli artt. 2 e 27 del
decreto legislativo del 1999. Vale a dire:
a) hanno un numero di dipendenti non inferiore a 200 da almeno un anno;
b) hanno debiti per un ammontare complessivo non inferiore ai due terzi tanto del totale dell’attivo dello
stato patrimoniale che dei ricavi provenienti dalle vendite e dalle prestazioni dell’ultimo eser- cizio;
c) sono in stato di insolvenza;
d) presentano concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico.

Condizione quest’ultima il cui accertamento avviene dopo la dichiarazione dello stato di insolvenza. Nella
prima fase il tribunale si limita ad accertare lo stato di insolvenza e deve astenersi dal dichiarare la
liquidazione giudiziale e deve invece emettere una sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza. Si da così
avvio ad un procedimento diretto ad accertare se esistono concrete possibilità di risanamento e che può avere
un duplice sbocco: l’apertura dell’amministrazione straordinaria o la dichiarazione di liquidazione giudiziale.
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Competente a dichiarare lo stato di insolvenza è il tribunale del luogo dove l’impresa ha la sede principale,
che vi provvede d’ufficio o su iniziativa degli stessi soggetti legittimati a chiedere la dichiarazione di
liquidazione giudiziale (art. 3). La sentenza è comunicata e resa pubblica con le modalità previste per la
dichiarazione di liquidazione giudiziale.

È inoltre comunicata entro tre giorni al ministro dello sviluppo economico. Trova applicazione la disciplina
dettata dalla legge fallimentare per il liquidazione giudiziale dell’imprenditore cessato o defunto (art. 4).

Con la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza il tribunale nomina il giudice delegato, nonché uno o
tre commissari giudiziali in conformità delle indicazioni del Ministero dello sviluppo econo- mico se
pervenute o autonomamente. Inoltre, dà avvio al procedimento per la formazione dello sta- to passivo.

Gli effetti della sentenza che accerta lo stato di insolvenza coincidono con quelli propri dell’ammis- sione al
concordato preventivo (art. 18). L’imprenditore insolvente conserva, perciò, l’amministra- zione dei suoi
beni e l’esercizio dell’impresa, che continua sia pure sotto la vigilanza del commissa- rio giudiziale e con le
limitazioni esposte in sede di concordato preventivo. Il tribunale può tuttavia affidare la gestione
dell’impresa al commissario giudiziale con la stessa sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza o con
successivo decreto.

E solo in tal caso l’imprenditore perde l’amministra- zione e la disponibilità di tutto il suo patrimonio. Allo
stesso tempo, i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, né possono acquisire
diritti di prelazione salvo autorizza- zione del giudice delegato. Ed inoltre, con l’autorizzazione del giudice
delegato, l’imprenditore può pagare i debiti anteriori alla dichiarazione dello stato di insolvenza. Infine, è
stabilito che i crediti sorti per la continuazione dell’esercizio dell’impresa e la gestione del patrimonio del
debitore sono considerati crediti della massa e vanno soddisfatti in prededuzione (art. 20).

Se è dichiarata insolvente una società con i soci a responsabilità illimitata, gli effetti della dichiara- zione
dello stato di insolvenza si estendono ai soci illimitatamente responsabili, compresi e soci re- ceduti, esclusi
o defunti. Si specifica tuttavia che l’estensione a quest’ultimi è possibile solo se la dichiarazione di
insolvenza è pronunciata entro l’anno successivo alla data in cui lo scioglimento del rapporto sociale è
divenuto opponibile ai terzi e sempre che lo stato di insolvenza della società attenga, in tutto o in parte, ai
debiti contratti prima di tale data (art. 23). Gli effetti della dichiarazio- ne di insolvenza si estendono altresì
ai soci la cui esistenza è accertata dopo la dichiarazione dello stato di insolvenza della società o anche di una
impresa individuale.

L’estensione può essere richie- sta anche dagli altri soci o dal commissario giudiziale (art. 24).

3. Apertura dell’amministrazione straordinaria.

Con l’attuale disciplina l’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria è subordinata


all’accertamento che ricorrano concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico dell’atti- vità
imprenditoriali (art. 27). Ed il dato normativo specifica anche che tale risultato deve potersi rea- lizzare
tramite uno dei seguenti indirizzi alternativi:
a) cessione dei complessi aziendali, sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio del- l’impresa
di durata non superiore ad un anno (programma di cessione di complessi aziendali);
b) ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa, sulla base di un programma di risanamento di durata
non superiore a due anni (programma di ristrutturazione).

Inoltre, la disciplina è congegnata in modo tale che il tribunale compia in tempi brevi il relativo ac-
certamento.

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Infatti, il commissario giudiziale deve redigere una relazione contenente una motivata valutazione circa
l’esistenza di tali condizioni e depositarla in cancelleria entro 30 giorni dalla di- chiarazione dello stato di
insolvenza (art. 28). La relazione viene anche trasmessa ai creditori per via telematica ed al Ministero dello
sviluppo economico (art. 29).

Entro trenta giorni dal deposito della relazione, il tribunale assume le sue determinazioni, tenuto conto del
parere del ministero e delle eventuali osservazioni dell’imprenditore, dei creditori e di ogni interessato. Se
ritiene che sussistano concrete prospettive di risanamento, con decreto motivato dichiara aperta la procedura
di amministrazione straordinaria. Altrimenti sempre con decreto motivato dichiara la liquidazione giudiziale
(art. 30). Con il decreto che dichiara la liquidazione giudiziale, il tribunale nomina il giudice delegato ed il
curatore. Se invece dichiara aperta la procedura di amministrazione straordinaria, il tribunale adotta i
provvedimenti opportuni per la prosecuzione dell’attività dell’impresa, la cui gestione deve essere
necessariamente affidata al commissario giudiziale sino alla nomina del commissario straordinario (art. 32).

L’amministrazione straordinaria si svolge infatti ad opera di uno o tre commissari straordinari no- minati dal
Ministro dello sviluppo economico e che sono sottoposti alla vigilanza dello stesso. Il commissario
straordinario ha la gestione dell’impresa e l’amministrazione dei beni dell’imprendito- re insolvente, nonché
degli eventuali soci a responsabilità illimitata ammessi alla procedura, il cui patrimonio deve comunque
essere tenuto distinto da quello della società (art. 40).

Il ministro dello sviluppo economico nomina anche un comitato di sorveglianza composto da tre o cinque
membri, di cui rispettivamente uno o due creditori chirografari. E nomina altresì il presiden- te del comitato
(art. 45). Il comitato di sorveglianza esprime pareri sugli atti del commissario nei casi previsti per legge e
ogni qualvolta il ministro lo ritenga opportuno (art. 46).

Per quanto non espressamente previsto si applicano all’amministrazione straordinaria le disposizio- ni sulla
liquidazione coatta amministrativa in quanto compatibili (art. 36).

Il divieto di azioni esecutive individuali a carico dei creditori ha carattere assoluto e non offre le eccezioni
consentite in caso di liquidazione giudiziale da leggi speciali 8art. 48), quale quella a favore del credi- to
fondiario. Inoltre, le azioni revocatorie possono essere promosse dal commissario straordinario solo se è stata
autorizzata l’esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali (art. 49). Non quando è stato
autorizzato un programma di ristrutturazione, dato che obiettivo dello stes- so è il ritorno in bonis
dell’imprenditore sicché il risultato delle revocatorie andrebbe a vantaggio dell’imprenditore e non dei
creditori.

E poi dettata una disciplina dei contratti in corso di svolgimento (art. 50). Tutti in contratti conti- nuano ad
avere esecuzione fino a quando il commissario straordinario non decide se subentrare nel contratto o
scioglierlo. A tale regola fanno tuttavia eccezione: i contratti di lavoro subordinato per i quali restano ferme
le disposizioni vigenti in tema di licenziamento; il contratto di locazione di im- mobili, nel quale il
commissario subentra ex lege, salvo patto contrario, se sottoposto ad ammini- strazione straordinaria è il
locatore.
I crediti dei terzi derivanti dalla prosecuzione dei contratti in corso some tutti i crediti sorti per la
continuazione dell’esercizio dell’impresa e la gestione del patrimonio del debitore sono soddisfatti in
prededuzione. Infine, resta ferma la competenza dell’autorità giudiziaria per la formazione dello stato
passivo.

4. Lo svolgimento della procedura.

Con l’attuale disciplina la continuazione dell’esercizio dell’impresa è automatica in quanto essen- ziale per la
conservazione del complesso aziendale. Inoltre, in tempi brevi (60 gg dall’apertura della procedura) il
commissario straordinario deve predisporre e presentare al ministero dello sviluppo economico un
programma per il recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali, optando per uno degli
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indirizzi alternativi previsti per legge. Programma di cessione dei complessi aziendali da realizzare entro un
anno: programma di ristrutturazione da attuare entro due anni (art. 54). Il programma deve tendere a
salvaguardare l’unità operativa dei complessi aziendali, tenuto conto degli interessi dei creditori. Deve
inoltre conformarsi alle disposizioni ed agli orientamenti comunitari sugli aiuti di stato per il salvataggio e la
ristrutturazione delle imprese in difficoltà.

Col programma di cessione dei complessi aziendali si avvia infatti anche una fase di liquidazione destinata a
soddisfare i creditori con il ricavato delle cessioni, mentre l’attività di impresa sarà even- tualmente portata
avanti dai cessionari. Il programma deve perciò indicare le modalità della cessio- ne, segnalando le offerte
pervenute o acquisite, nonché le previsioni in ordine alla soddisfazione dei creditori.

Col programma di ristrutturazione si tende invece a risanare l’impresa. Il programma deve perciò indicare i
tempi e le modalità di soddisfazione dei creditori, anche sulla base di piani di proroga del- le scadenze e di
riduzione degli importi da concordare con gli stessi, nonché le eventuali previsioni di ricapitalizzazione
dell’impresa e di mutamento degli assetti proprietari.

L’esecuzione del programma è autorizzata dal Ministero dello sviluppo economico, sentito il comi- tato di
sorveglianza, entro 30 giorni dalla presentazione (art. 57). Nel corso della procedura il pro- gramma può
essere modificato o sostituito adottando l’indirizzo alternativo a quello inizialmente autorizzato (art. 60).

Così, fermo restando che i debiti contratti dal commissario durante l’esercizio dell’impresa sono debiti di
massa da soddisfare in prededuzione, per evitare che vengano chiusi i canali del finanzia- mento bancario è
prevista la concessione della garanzia dello Stato a favore delle banche che eroga- no i finanziamenti per la
gestione corrente e per la riattivazione ed il completamento di impianti, immobili ed attrezzature industriali.
È evidente però che anche il peso di questi debiti si scarica sui creditori anteriori: lo stato interviene come
semplice garante e diviene perciò a sua volta creditore di massa per il recupero delle somme pagate a chi ha
concesso tali finanziamenti.

Il trasferimento in blocco dei beni aziendali è inoltre agevolato sotto più profili.

La vendita di aziende e di rami di aziende, soggetta ad autorizzazione del ministero dello sviluppo
economico, può avvenire anche a trattativa privata, previo espletamento di idonee forme di pubbli- cità, se il
valore supera l’equivalente di 51.465,69 euro.

Inoltre, può essere concesso un consistente sconto sul valore del complesso aziendale a chi acquista aziende
non ancora risanate e che perciò continuano a produrre perdite. Infatti, nella determinazione del valore si
tiene conto della redditività, anche negativa, non solo all’epoca della stima, ma anche nel biennio successivo
alla vendita. L’acquirente si deve però impegnare a continuare l’esercizio dell’impresa per almeno due anni
ed a mantenere per lo stesso periodo i livelli di occupazione stabi- liti all’atto di vendita; e si specifica che
l’acquirente deve essere scelto tenendo conto anche delle garanzie di mantenimento dei livelli occupazionali
(art. 63). Infine, l’acquirente non risponde dei debiti aziendali anteriori al trasferimento.

Contro gli atti e i provvedimenti relativi alla liquidazione dei beni, lesivi dei diritti soggettivi, è ammesso
ricorso al tribunale (art. 65). L’attuale disciplina dell’amministrazione straordinaria regola anche la
ripartizione dell’attivo prevedendo due forme di distribuzione: gli acconti (art. 68) e i ri- parti (art. 67). Gli
acconti possono essere disposti dal commissario straordinario in qualsiasi mo- mento della procedura, hanno
carattere provvisorio e sono ripetibili. I riparti invece possono essere effettuati solo dopo che lo stato passivo
è stato reso esecutivo, con l’osservanza della disciplina al riguardo dettata dalla legge fallimentare; sono
definitivi e non revocabili. Inoltre, gli acconti posso- no essere distribuiti indipendentemente dal tipo di
programma adottato e nella distribuzione è data preferenza ai crediti dei lavoratori subordinati e degli
imprenditori per le vendite e somministrazio- ne di beni e per le prestazioni di servizi effettuate nei sei mesi
precedenti la dichiarazione dello stato di insolvenza.

I riparti sono possibili solo quando il programma adottato prevede la cessione dei complessi azien-dali.
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Allo stesso tempo, avvenuta l’integrale cessione dei complessi aziendali nei termini stabiliti dal programma,
qualora residuino attività da liquidare o somme da recuperare il tribunale, su richiesta del commissario
straordinario o di ufficio, dichiara con decreto la cessazione dell’esercizio dell’impresa. A partire da tale
momento l’amministrazione straordinaria perde la propria funzione conservativa ed è considerata mera
procedura concorsuale liquidatoria. Non potrà quindi essere continuata alcuna attività di impresa, né
potranno sorgere a tale titolo crediti prededucibili, mentre la liquidazione dei beni residui prosegue secondo
la disciplina propria dell’amministrazione straordinaria.

5. Cessazione della procedura.

L’amministrazione straordinaria termina per conversione in liquidazione giudiziale o con la chiusura della
pro- cedura. La conversione in liquidazione giudiziale può essere disposta nel corso della procedura quando
risulta che la stessa non può essere utilmente proseguita. È inoltre disposta alla scadenza del programma di
cessione o di ristrutturazione quando, rispettivamente, la cessione non sia ancora avvenuta in tutto o in parte,
oppure l’imprenditore non abbia recuperato la capacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni
(art. 70). La conversione è disposta dal tribunale con decreto motivato, su richiesta del commissario
straordinario o di ufficio e sentiti il Ministro dello sviluppo economico, il comitato di sorveglianza e
l’imprenditore (art. 71).

La chiusura dell’amministrazione straordinaria può a sua volta avvenire nei casi previsti dall’art. 74. Sono
cause generali di chiusura, oltre al concordato:
a) la mancata presentazione di domande di ammissione al passivo, nei termini stabiliti dalla senten- za
dichiarativa dello stato di insolvenza;
b) il recupero da parte dell’imprenditore della capacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni,
con conseguente eliminazione dello stato di insolvenza.
Se è stato autorizzato un programma di cessione dei complessi aziendali, la procedura si chiude altresì:
a) quando tutti i crediti ammessi sono soddisfatti o in altro modo estinti e sono pagati i compensi agli organi
della procedura e le relative spese;
b) quando è comunque compiuta la ripartizione finale dell’attivo.
La chiusura è disposta con decreto motivato del tribunale, il quale può essere impugnato in corte di appello
(art. 76).

Se l’amministrazione straordinaria con programma di cessione dei complessi aziendali si chiude per
ripartizione integrale dell’attivo e quindi sono rimasti creditori insoddisfatti, il tribunale può ordina- re la
riapertura della procedura, su istanza dell’imprenditore o di qualsiasi creditore, quando ricorrono condizioni
analoghe a quelle previste per la riapertura della liquidazione giudiziale. La sentenza di riapertura non
comporta però la ripresa della procedura di amministrazione straordinaria, bensì la sua conversione in
liquidazione giudiziale (art. 77).

La cessazione dell’amministrazione straordinaria può infine aversi per concordato, proposto dal-
l’imprenditore o da un terzo dopo che lo stato passivo è stato reso esecutivo (art. 78). La proposta di
concordato deve essere autorizzata dal Ministero dello sviluppo economico ed è assoggettata alla stessa
disciplina prevista per il concordato nella liquidazione coatta amministrativa. Nell’amministrazione
straordinaria di una società con soci a responsabilità illimitata, ciascun socio ammesso alla procedura può
concludere un concordato particolare con i creditori sociali ed i creditori personali che concorrono sul suo
patrimonio (art. 79).

6. L’amministrazione straordinaria speciale del d.l. 347/2003 (cd. decreto Marzano).

L’amministrazione straordinaria è una procedura particolarmente complessa soprattutto per i tempi tecnici
richiesti per la sua realizzazione e che comportano di fatto la necessità di attendere mesi prima che si possa
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insediare il commissario straordinario ed avviare concretamente il piano di recupero. Mesi di incertezza che
inevitabilmente gravano sulle già residue chances di risanamento del- l’impresa. Nel frattempo, può anche
accadere che venga aperta una procedura di insolvenza in altro stato europeo, con la conseguenza che
l’amministrazione straordinaria aperta per seconda non potrebbe essere qualificata come la procedura
principale di insolvenza per quell’impresa, bensì come una procedura secondaria. Ciò significa che non
potrebbe coinvolgere l’intero patrimonio del debitore ma solo i beni presenti in Italia. Questi inconvenienti
erano ben noti al legislatore del 2003, quando si è trovato ad affrontare l’insolvenza del gruppo Parmalat e
per risolvere i problemi posti da quella insolvenza, si decise di introdurre in via d’urgenza
un’amministrazionE straordinaria speciale, specificamente dedicata alle imprese di grandissime dimensioni
(decreto-legge 347/2003).

La nuova procedura è riservata alle imprese soggette alla liquidazione giudiziale che versano in stato di
insolvenza. È però ulteriormente necessario che l’impresa, singolarmente o come gruppo di imprese
costituito da almeno un anno:
a) abbia impiegato da almeno un anno non meno di cinquecento dipendenti;
b) abbia debiti, inclusi quelli derivanti da garanzie rilasciate, per non meno di trecento milioni di euro.

Diversamente da quanto previsto in origine, la procedura di amministrazione straordinaria speciale è oggi


utilizzabile non solo se l’impresa intende perseguire il recupero dell’equilibrio economico attraverso un
programma di ristrutturazione, ma anche se si vuol realizzare un programma di cessione.

In presenza di tali requisiti, l’ammissione a tale procedura speciale viene disposta direttamente dal Ministro
dello sviluppo economico su semplice richiesta dell’impresa in crisi. Con il decreto di apertura il debitore
viene spossessato e la gestione dell’impresa viene assunta dal commissario straordinario. Scatta inoltre il
divieto per i creditori di intraprendere azioni esecutive individuali. Contestualmente alla domanda di
ammissione, l’impresa deve però presentare ricorso al tribunale del luogo in cui ha la sede principale, perché
ne accerti la condizione di insolvenza. L’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza avviene pertanto
ad amministrazione straordinaria già aperta, con il commissario straordinario insediato e la procedura
indirizzata verso l’attuazione di un pro- gramma di ristrutturazione o di cessione. Resta fermo che qualora il
tribunale accerti l’insussistenza dello stato di insolvenza o di uno dei limiti dimensionali per l’ammissione
alla procedura, cessano gli effetti del decreto ministeriale di ammissione, sia pure senza travolgere la validità
degli atti legalmente compiuti fino a quel momento dagli organi della procedura.

Non è previsto invece alcun accertamento giudiziale circa l’effettiva capacità di recupero dell’impresa
insolvente. Ogni decisione in merito è rimessa all’autorità governativa, che può approvare o respingere il
progetto di risanamento presentato dal commissario straordinario. Con la sentenza che dichiara lo stato di
insolvenza si producono gli effetti propri dell’amministrazione straordinaria, che retroagiscono a partire dal
momento del decreto ministeriale di ammissione alla procedura. Con una vistosa eccezione: il commissario
straordinario può infatti proporre le azioni revocatorie anche nel caso di autorizzazione all’esecuzione del
programma di ristrutturazione, purché tali azioni si traducano in un vantaggio per i creditori.

Entro 180 giorni dalla nomina, il commissario straordinario deve presentare al ministro dello svi- luppo
economico il programma di ristrutturazione o di cessione. Il programma può avere durata di due anni, esso è
presentabile anche in seguito alla mancata approvazione di un programma di ri- strutturazione. Fra l’altro, il
programma può essere unico per tutte le società del gruppo sottoposte ad amministrazione straordinaria e
prevedere la soddisfazione dei creditori attraverso un concorda- to.

Qualora nessun programma sia autorizzato, il tribunale, dispone la conversione della procedura di
amministrazione straordinaria in liquidazione giudiziale.

Anche prima dell’approvazione del programma, il commissario straordinario può però: a) pagare i debiti
anteriori all’apertura della procedura, con l’autorizzazione del giudice delegato, quando ciò sia necessario
per evitare un grave pregiudizio alla continuazione dell’attività d’impresa o alla consistenza patrimoniale
dell’impresa stessa; b) compiere le operazioni necessarie per la salvaguardia della continuità aziendale delle
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imprese del gruppo, con l’autorizzazione del ministro dello sviluppo economico per atti di importo superiore
a 250 mila euro; c) può inoltre ottenere che quest’ultime siano ammesse ad amministrazione straordinaria
con la procedura accelerata del d.l. 347/2003, qualora le stesse versino in stato di insolvenza e sussistano
prospettive di recupero o risulti comunque opportuna la gestione unitaria dell’insolvenza nell’ambito del
gruppo; ciò anche se le società del gruppo non sono in possesso dei prescritti requisiti dimensionali. In
questo caso spetta al commissario straordinario l’opzione di attuare le procedure relative alle imprese del
gruppo unitariamente a quella relativa alla capogruppo, o in via autonoma, attraverso un programma di
ristrutturazione o mediante un programma di cessione.
Solo il commissario straordinario è legittimato a proporre il concordato. Il concordato si propone con istanza
al giudice delegato, cui va allegata copia del programma autorizzata dall’autorità governativa.

Il concordato può perseguire la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi
forma. Può prevedere la formazione di classi di creditori, raggruppate secondo un modello successivamente
esteso anche al concordato fallimentare e a quello preventivo, ma che è stato introdotto per la prima volta nel
nostro ordinamento proprio con il decreto-legge 347/2003.

Si può, altresì, proporre l’accollo dei debiti da parte di un assuntore, nonché l’assegnazione ai credi- tori di
partecipazioni sociali o altri strumenti finanziari (quote, azioni). All’assuntore può essere trasferito l’intero
attivo ed anche le azioni revocatorie promosse dal commissario straordinario fino alla data della sentenza di
approvazione del concordato.

La proposta di concordato viene pubblicata in Gazzetta Ufficiale e con le altre modalità ritenute idonee dal
giudice delegato (quotidiani, siti internet).

La presentazione della proposta di concordato impone un’accelerazione alla fase di accertamento del
passivo, essendo necessario stabilire senza indugio i creditori legittimati a votare. Si interrompe pertanto la
normale procedura di accertamento dei singoli crediti secondo la disciplina del fallimento: gli elenchi dei
creditori ammessi, ammessi con riserva e non ammessi vengono predisposti dal giudice delegato con la
collaborazione del commissario straordinario, sono depositati quindi nella cancelleria del tribunale e
dichiarati esecutivi con decreto del giudice delegato stesso. Contro lo sta- to passivo reso esecutivo possono
essere proposte opposizioni e impugnazioni, secondo le regole del liquidazione giudiziale, nel termine
abbreviato di 15 giorni dalla comunicazione del deposito degli elenchi. Si passa quindi alla fase di
approvazione. Il concordato deve ottenere l’approvazione dei creditori che rappresentano la maggioranza dei
crediti ammessi al voto. Ove siano previste diverse classi di creditori è inoltre necessaria l’approvazione di
ciascuna classe, con il consenso dei creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti (nelle varie classi)
che vi sono inclusi.

Per agevolare l’approvazione, tutti i creditori che non fanno pervenire per iscritto il loro dissenso nel termine
fissato dal giudice delegato, si ritengono consenzienti. Ottenuta l’approvazione dei creditori, il concordato
viene infine approvato anche dal tribunale con sentenza. Inoltre, il tribunale può approvare il concordato
nonostante l’opposizione di una o più classi di creditori qualora ritenga che i creditori appartenenti alle classi
dissenzienti possono risultare soddisfatti dal concordato in misura non inferiore rispetto alle altre alternative
praticabili. Il passaggio in giudicato della sentenza di approvazione determina la chiusura della procedura di
amministrazione straordinaria.

Se invece la proposta concordataria è respinta, il commissario straordinario può presentare nei successivi 60
giorni al ministro dello sviluppo economico un programma di cessione dei complessi aziendali. Altrimenti la
procedura si converte in liquidazione giudiziale.

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CAPITOLO VENTOTTESIMO
LE PROCEDURE CONCORSUALI DELLE CRISI DA SOVRAINDEBITAMENTO

1. Caratteri generali

L’esenzione dal liquidazione giudiziale, prevista ad esempio per l’imprenditore agricolo poiché assoggettato
sia al rischio economico sia al rischio ambientale ma anche per i professionisti e tutti i soggetti non
imprenditori, è certamente un vantaggio e un privilegio per il debitore, perché significa non essere esposto ai
gravi effetti personali e penali della procedura. Per altro verso vuol dire anche che il debitore resta
perennemente esposto alle azioni esecutive individuali dei creditori senza possibilità di liberarsi dai debiti
con una procedura di concordato, oppure con un provvedimento di esdebitazione.

Una procedura di composizione della crisi è stata introdotta per la prima volta nell’ordinamento italiano con
il decreto-legge 212/2011, la cui disciplina è poi confluita nella legge 3/ 2012. Il testo del- la legge è stato
poi ulteriormente modificato dal decreto-legge 179/2012 che, accanto alla originaria procedura degli accordi
di composizione della crisi, ne ha aggiunte altre due, la procedura di liquidazione del patrimonio ed il piano
del consumatore.

Il sistema delle procedure concorsuali destinate ai soggetti non fallibili si articola perciò in tre istituti: 1)
procedura di liquidazione del patrimonio, tutti i beni del debitore sono sottoposti a liquidazione;
2) accordi di composizione della crisi da sovraindebitamento, ossia crisi viene superata tramite un piano
predisposto dal debitore e accettato dalla maggioranza dei creditori;
3) piano del consumatore, una procedura riservata solo ai consumatori incolpevoli del proprio stato di
sovraindebitamento, in cui il piano predisposto dal debitore viene omologato e rese effettivo dal giudice
senza bisogno di accettazione da parte dei creditori.

Presupposto oggettivo comune a tutte queste procedure è che il debitore versi in stato di sovraindebitamento:
vale a dire si trovi in situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio
prontamente liquidabile per farvi fronte. Nella nuova formulazione del 2012, il sovraindebitamento è dunque
una condizione di illiquidità patrimoniale del debitore che può consistere tan- to in uno stato di insolvenza,
tanto in una mera crisi finanziaria. Mentre non dipende necessaria- mente dal rapporto fra passività e attivo
patrimoniale: un debitore che ha molti debiti, in proporzione alle sue sostanze, non è sovraindebitato finché
riesce a procurarsi le risorse necessarie per adempiere regolarmente le obbligazioni in scadenza.
Sovraindebitamento che non va confuso con l’inadempimento.

Solo il debitore può dare avvio ad un procedimento da sovraindebitamento. Solo per la conversione di una
procedura di composizione della crisi in una procedura di liquidazione è riconosciuta anche ai creditori la
legittimazione a presentare la domanda.

Una volta che il debitore ha fatto ricorso ad uno di questi strumenti, per cinque anni non può più usufruire di
altra procedura disciplinata dalla legge 3/2012.

A. LA PROCEDURA DI LIQUIDAZIONE DEL PATRIMONIO


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2. Apertura della procedura.

Con la procedura di liquidazione del patrimonio il debitore in stato di sovraindebitamento chiede la


liquidazione giudiziale di tutti i suoi beni affinché il ricavato sia distribuito ai creditori secondo il principio
della par condicio creditorum; se si tratta di una persona fisica, può inoltre ottenere l’esdebitazione dai debiti
rimasti insoddisfatti al termine della procedura. A differenza del fallimen- to però, può essere utilizzato
anche in presenza di una mera crisi finanziaria non ancora qualificabi- le come insolvenza.

Possono presentare domanda di liquidazione del patrimonio i debitori non soggetti ad altre procedu- re
concorsuali fuorché quelle disciplinata dalla legge 3/2012. Pertanto, rientrano nell’ambito di applicazione
della procedura i consumatori, i professionisti e gli imprenditori commerciali che non superano le soglie di
fallibilità stabilite dall’art. 1 della legge fallimentare. Per quanto concerne l’imprenditore agricolo, esso è
legittimato a presentare un accordo di ristrutturazione dei debiti ma in via alternativa è assoggettabile alla
procedura di liquidazione del patrimonio.

Non può presentare domanda di ammissione il debitore che ha fatto ricorso nei precedenti cinque anni ad
altra procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento o di liquidazione del pa- trimonio
disciplinata dalla legge 3/2012.

La domanda si propone con ricorso al tribunale del luogo dove il debitore ha la residenza o la sede
principale.

Ad essa vanno allegati una serie di documenti: l’inventario di tutti i beni del debitore, l’elenco dei creditori,
l’elenco degli atti di disposizione compiuti negli ultimi cinque anni, le dichia- razioni dei redditi degli ultimi
tre anni, la certificazione del nucleo familiare del debitore con l’elen- co delle spese correnti necessarie per il
sostentamento suo e della famiglia. Se il debitore svolge at- tività d’impresa, devono essere allegate anche le
scritture contabili degli ultimi tre esercizi.

Nella presentazione della domanda il debitore deve farsi assistere da un organismo di composizione della
crisi, che possono essere enti pubblici dotati di indipendenza e professionalità, come le camere di commercio
e gli ordini professionali di avvocati, commercialisti e notai. Gli organismi di compo- sizione della crisi sono
iscritti in un albo tenuto presso il ministero della giustizia. In alternativa, i compiti e le funzioni di organismo
di composizione della crisi possono essere svolti da un profes- sionista in possesso dei requisiti per la
nomina come curatore fallimentare, o da un notaio, nominati dal tribunale.

L’organismo di composizione della crisi deve verificare la veridicità dei dati contenuti nella doman- da di
ammissione e negli allegati, ed esprime un giudizio sulla completezza e attendibilità della re- lativa
documentazione mediante una relazione che va a sua volta allegata alla domanda. Nella me- desima
relazione l’organismo riferisce in maniera particolareggiata sulle cause della crisi, sulla dili- genza del
debitore nell’assumere obbligazioni, sulla sua capacità di adempiere in passato nonché sull’eventuale
esistenza di atti impugnati dai creditori. La domanda di liquidazione è inammissibile se la documentazione
prodotta non consente di ricostruire compiutamente la situazione economica e patrimoniale del debitore.

La fase di apertura della procedura è regolata secondo le forme dei procedimenti in camera di con- siglio in
quanto compatibili. Nel corso del procedimento il giudice verifica l’esistenza di requisiti di ammissibilità
della domanda ed accerta l’assenza di atti di frode ai danni dei creditori negli ultimi cinque anni. A tal fine
può assumere informazioni esercitando poteri inquisitori, come l’accesso al- l’anagrafe tributaria e ad altre
banche dati pubbliche e provate. L’esame si conclude con decreto motivato di ammissione o di rigetto della
domanda, contro cui è possibile presentare reclamo al medesimo tribunale: per il rispetto del principio di
terzietà del giudice, tuttavia, l’impugnazione viene decisa da un collegio del quale non può far parte il
giudice che ha pronunciato il provvedi- mento impugnato. Con il decreto di ammissione il giudice nomina

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anche il liquidatore, prescelto fra i professionisti in possesso dei requisiti per la nomina di come curatore
fallimentare, può essere nominato liquidatore anche l’organismo di composizione della crisi.

La domanda ed il conseguente provvedimento di ammissione sono soggetti a pubblicità mediante


annotazione nel registro delle imprese, se il debitore è un imprenditore, nonché con le altre forme
determinate dal giudice.

Il decreto è inoltre trascritto a cura del liquidatore nei registri dei beni mo- bili ed immobili.

3. Effetti della procedura.

L’apertura della procedura di liquidazione determina per il debitore effetti patrimoniali sostanzial- mente
simili a quelli del liquidazione giudiziale.

Con il decreto di ammissione il giudice ordina la consegna o il rilascio al liquidatore dei beni facen- ti parte
del patrimonio di liquidazione, salvo che non ritenga, in presenza di gravi e specifiche ra- gioni, di
autorizzare il debitore ad utilizzare alcuni di essi.

Il decreto di ammissione è espressamente equiparato all’atto di pignoramento. Perciò gli atti di di- sposizione
del debitore sono inefficaci nei confronti dei creditori concorsuali, analogamente a quan- to si verifica con lo
spossessamento del debitore.

La liquidazione ha ad oggetto l’intero patrimonio del debitore con le seguenti eccezioni:


a) gli assegni a carattere alimentare, stipendi, pensioni, salari e ciò che il debitore guadagna con al propria
attività, nei limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia determinati dal giudice col
decreto di apertura della procedura;
b) i frutti derivanti dall’usufrutto legale sui beni dei figli ed i beni costituiti in fondo patrimoniale con i loro
frutti;
c) i crediti e le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge.

La liquidazione si estende altresì ai beni che pervengono al debitore nei quattro anni successivi al deposito
della domanda di ammissione, dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conserva- zione degli stessi,
da soddisfare in prededuzione.

Durante la procedura, il patrimonio oggetto di liquidazione è amministrato dal liquidatore, che può esercitare
ogni azione correlata con lo svolgimento di tale attività, quali quelle volte al recupero dei crediti o a
conseguire la disponibilità dei beni. Inoltre, è consentito l’esercizio delle azioni recupera- torie dirette a
reintegrare la massa attiva da parte degli organi della procedura purché vadano a van- taggio di tutti i
creditori concorsuali e non dei singoli.

A carico del debitore ammesso alla procedura di liquidazione non si producono invece gli effetti personali e
quelli penali della liquidazione giudiziale. Né viene richiamata la disciplina degli effetti della liquidazione
giudiziale sugli atti pregiudizievoli per i creditori, che pertanto potranno essere impugnati solo con gli stru-
menti di diritto comune.

Inoltre, l’apertura della liquidazione non determina la sospensione automatica e lo scioglimento dei contratti
in corso di esecuzione.

Per quanto concerne gli effetti della procedura per i creditori, vediamo come i creditori per titolo e causa
anteriore al decreto di apertura di liquidazione (creditori concorsuali) devono far valere le loro pretese
esclusivamente nell’ambito della procedura concorsuale, al fine di consentire l’attua- zione del principio
della par condicio creditorum. Pertanto, non possono, sotto pena di nullità inizia- re o proseguire azioni

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cautelari o esecutive, né acquistare diritti di prelazione sul patrimonio oggetto di liquidazione. Se alla data di
apertura della liquidazione sono pendenti procedure esecutive, il li- quidatore può subentrarvi.

Il deposito della domanda sospende il corso degli interessi convenzionali e legali fino alla chiusura della
liquidazione, salvo che per i crediti privilegiati.

Come nel liquidazione giudiziale, i creditori che partecipano al concorso si dividono in gradi, a seconda che
sia- no chirografari, privilegiati o creditori della massa. Questi ultimi sono titolari di crediti sorti in oc-
casione o in funzione della liquidazione o di altra procedura disciplinata dalla legge 3/2012 e devo- no essere
soddisfatti con preferenza rispetto agli altri, salvo quanto ricavato dalla liquidazione dei beni oggetto di
pegno ed ipoteca per la parte destinata ai creditori garantiti.

I creditori con causa o titolo posteriore al momento in cui è eseguita la pubblicità del decreto di apertura sono
invece esclusi dal concorso. Essi potranno pertanto avviare azioni esecutive indivi- duali anche durante lo
svolgimento della procedura, ma soltanto sui beni non facenti parte del pa- trimonio di liquidazione.

Il procedimento di liquidazione prevede una fase di accertamento del passivo, sia pure con modalità
semplificate rispetto al liquidazione giudiziale. Pertanto, i creditori, devono presentare domanda di
partecipazio- ne alla liquidazione. Lo stesso devono fare i titolari di diritti reali e personali su beni in
possesso o nella disponibilità del debitore per rivendicarne la proprietà o ottenerne la restituzione. La
domanda si presenta con ricorso entro il termine indicato nell’avviso del liquidatore. Il suo contenuto ricalca
quello dell’insinuazione al liquidazione giudiziale: il ricorrente deve indicare la generalità, il contenuto del
dirit- to e gli eventuali titoli di prelazione, l’esposizione dei fatti e degli elementi alla base della pretesa, ed il
domicilio eletto ai fini della procedura. Al ricorso vanno allegati i documenti giustificativi del diritto fatto
valere.

Il liquidatore esamina le domande, predispone un progetto di stato passivo e lo comunica agli inte- ressati,
assegnando un termine per osservazioni. In mancanza di contestazioni, il liquidatore appro- va lo stato
passivo.

Altrimenti rimette gli atti al giudice che lo ha nominato, il quale provvede alla definitiva formazione del
passivo. Il decreto del giudice è impugnabile con reclamo davanti al tri- bunale.

4. Liquidazione del patrimonio ed esdebitazione.

Nell’assumere la gestione del patrimonio di liquidazione, il liquidatore deve verificare l’attendibili- tà della
documentazione allegata alla domanda e formare l’inventario dei beni da liquidare. Entro 30 giorni dalla
formazione dell’inventario elabora un programma di liquidazione, che comunica al de- bitore ed ai creditori
e deposita presso la cancelleria del tribunale. Il programma deve assicurare la ragionevole durata della
procedura.

Le vendite poste in essere in esecuzione del programma di liquidazione devono essere effettuate dal
liquidatore mediante procedure competitive adeguatamente pubblicizzate, che consentono la mas- sima
informazione e partecipazione degli interessati. A tal fine il liquidatore è tenuto a far stimare previamente i
beni da parte di operatori esperti e può avvalersi di soggetti specializzati per lo svol- gimento delle procedure
di vendita.

Trattandosi di una vendita giudiziaria, resta fermo in goni caso il ruolo di controllo del giudice. Al giudice
spetta inoltre autorizzare lo svincolo delle somme ed ordinare la cancellazione dei vincoli sui beni, così da
realizzare il cd. effetto purgativo delle vendite forzate.

Nulla prevede la legge circa le modalità di ripartizione dell’attivo. Al riguardo possono però richiamarsi i
principi della disciplina giudiziale, con la conseguenza che il concorso dei creditori sarà in concreto attuato
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dal liquidatore mediante una serie di riparti parziali del ricavato di liquidazione, ed un riparto finale da
realizzare dopo la presentazione del conto della gestione.

La procedura rimane aperta sino alla completa esecuzione del programma di liquidazione e per una durata
minima di quattro anni successivi al deposito della domanda di ammissione. Trascorso que- sto termine ed
accertata la completa esecuzione del programma, il giudice dispone con decreto la chiusura della procedura.

Al termine della procedura, il debitore persona fisica è ammesso al beneficio dell’esdebitazione per ottenere
la liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali. A tal fine è necessario che lo stesso
presenti i requisiti di meritevolezza determinati dalla legge e che la procedura ab- bia consentito di
soddisfare almeno in parte i creditori concorsuali.

Non è meritevole il debitore al quale è imputabile lo stato di sovraindebitamento per aver fatto ri- corso al
credito in modo colposo e sproporzionato rispetto alle sue capacità patrimoniali. Sono inol- tre esclusi coloro
che hanno beneficiato di altra esdebitazione negli 8 anni antecedenti la domanda. Il debitore perde il
requisito di meritevolezza anche quando ha posto in essere atti in frode ai credi- tori, pagamenti o latri atti
dispositivi del proprio patrimonio, o simulazioni di titoli di prelazione, allo scopo di favorire alcuni creditori
a danno di altri. Non può ottenere l’esdebitazione chi ha con- seguito una condanna penale definitiva per
reati attinenti allo svolgimento di una procedura di so- vraindebitamento.

Infine, il debitore deve aver mantenuto una condotta collaborativa ed operosa durante la procedura. Egli
deve, in particolare:
a) aver cooperato al regolare, rapido ed efficace svolgimento della procedura;
b) aver svolto un’attività produttiva di reddito o quanto meno cercato un’occupazione, senza rifiuta- re
ingiustificatamente proposte di impiego.

In presenza dei sopra indicati requisiti, l’esdebitazione viene concessa dal giudice su richiesta del debitore,
da presentare entro un anno dalla chiusura della procedura, e sentiti i creditori non inte- gralmente
soddisfatti. Il provvedimento può essere impugnato dai creditori mediante reclamo al tri- bunale; esso
comunque è sempre revocabile se risulta che il debitore h compiuto atti in frode ai cre- ditori, violato la par
condicio, oppure ha con dolo o colpa grave rappresentato infedelmente il pro- prio stato patrimoniale.

Per effetto del decreto di esdebitazione, tutti i crediti concorsuali ancora non integralmente insoddi- sfatti
sono dichiarati inesigibili. L’esdebitazione non opera tuttavia per alcune categorie di debiti: a) debiti di
mantenimento e alimentari; b) debiti da responsabilità extracontrattuale, sanzioni pecunia- rie penali ed
amministrative che non siano accessorie a debiti estinti; c) debiti fiscali accertati suc- cessivamente
all’apertura della procedura in ragione della conoscenza di nuovi elementi.

B. LE PROCEDURE DI COMPOSIZIONE DELLE CRISI DA SOVRAINDEBITAMENTO

Sotto il nome di procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento la legge 3/2012 rag- gruppa
due procedure: l'accordo di composizione della crisi e il piano del consumatore, le quali sono accumunate
dalla circostanza che la crisi economica del debitore viene superata mediante l'at- tuazione di un piano
proposto dal debitore stesso.

L'accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento è una procedura concorsuale che, presenta
somiglianze tanto con il concordato preventivo che con gli accordi di ristrutturazione dei debiti disciplinati
dalla legge fallimentare.

Possono proporre un accordo di composizione della crisi tutti i debitori in stato di sovraindebita- mento, i
quali non siano soggetti ad altre procedure concorsuali.

Possono avvalersi della procedura anche gli imprenditori agricoli.


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La proposta di accordo può prevedere la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei creditori attraverso
qualsiasi forma. Ad esempio, l'affidamento del patrimonio del debitore ad un gestore per la liquidazione,
(accordo con cessione dei beni);
la rinunzia da parte dei creditori ad una parte dei loro crediti (accordo remissorio);
la dilazione di pagamento (accordo dilatorio);
o una combinazione di tutti questi elementi (accordo misto).

Si possono inoltre suddividere i creditori in classi, allo scopo di offrire a ciascuna classe un tratta- mento
differenziato.

La proposta deve prevedere scadenze e modalità di pagamento dei creditori ed indicare le eventuali garanzie
rilasciate per l'adempimento dei debiti per la liquidazione dei beni.

Il contenuto della proposta deve tuttavia osservare i seguenti limiti:


a) per i crediti impignorabili per legge (alimenti, stipendi, trattamento di fine rapporto(tfr) ecc.) deve essere
assicurato il regolare pagamento. Nessuna dilazione o falcidia o modalità alternativa di adempimento è
perciò ammessa;
b) i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca devono essere soddisfatti in misura non inferiore a quella
realizzabile in ragione della loro collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquida- zione, Quando la
proposta di accordo prevede la continuazione dell'attività d'impresa, è però possi- bile stabilire una moratoria
per tali crediti, salvo che siano liquidati i beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione
c) per i tributi costituenti risorse proprie dell'Unione europea, l’iva, si può prevedere esclusivamente una
dilazione di pagamento

Il debitore che intende presentare una proposta di accordo deve rivolgersi un organismo di compo- sizione
della crisi.

L'organismo assume ogni iniziativa funzionale alla predisposizione del piano e, dopo l'omologa- zione,
all'esecuzione dello stesso; verifica la veridicità dei dati contenuti nella proposta e negli al- legati.

La proposta di accordo è depositata presso il tribunale del luogo di residenza o sede principale del debitore.

Qualora i beni e i redditi del debitore non siano sufficienti a garantire la fattibilità del- l'accordo, la proposta
deve essere sottoscritta anche da uno o più terzi che consentono il conferi- mento, anche in garanzia, di
redditi o beni sufficienti per assicurarne l’attuabilità.

La proposta è inammissibile quando il proponente non rientra in una delle categorie di debitori ammesse a
presentarla, ed inoltre quando il debitore:
1) ha fatto ricorso nei cinque anni precedenti ad una procedura di composizione della crisi o di li- quidazione
del patrimonio;
2) ha subito, per causa a lui imputabile, un provvedimento di annullamento o risoluzione di un pre- cedente
accordo di composizione della crisi, oppure di revoca o cessazione degli effetti di un prece- dente piano del
consumatore;
3) ha fornito una documentazione che non consente di ricostruire compiutamente la sua situazione
economica e patrimoniale
Per lo svolgimento della procedura sono richiamate, le regole dei procedimenti in camera di consi- glio.

Il giudice effettua un esame preliminare della domanda volto ad accertare la sussistenza dei requisi- ti di
ammissibilità, la completezza della documentazione ed il rispetto dei limiti posti dalla legge al contenuto
della proposta.

Se rileva irregolarità può concedere al debitore un termine perentorio non superiore a quindici giorni per
apportare integrazioni alla proposta e produrre nuovi documenti.
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Gianmarco Rubino
Studente di Giurisprudenza Uso personale
LUISS
LUISS Guido Carli – Dipartimento di Giurisprudenza

Non può sindacare in merito alla convenienza dell’accordo.

L'esame si conclude con un decreto di apertura della procedura oppure di rigetto, contro il quale è possibile
presentare ricorso al tribunale: anche in questo caso, l'impugnazione viene decisa da un collegio del quale
non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento impugnato.

La proposta ed il decreto di apertura della procedura sono soggetti a pubblicità con le forme sta- bilite dal
giudice, ed in ogni caso mediante pubblicazione nel registro delle imprese, se il proponen- te svolge attività
d’impresa. Il decreto è inoltre trascritto nei registri mobiliari e immobiliari, a cura dell'organismo di
composizione della crisi, quando il piano prevede la cessione o l'affidamento a terzi di tali beni.

Dal decreto di apertura fino all'omologazione si producono per il proponente e per i creditori ef- fetti
analoghi a quelli del concordato preventivo.

Il proponente resta nella disponibilità del proprio patrimonio ma può compiere autonomamente solo atti di
ordinaria amministrazione, mentre per gli atti di straordinaria amministrazione è ne- cessaria l'autorizzazione
del giudice.

I creditori aventi titolo o causa anteriore al decreto di apertura (creditori concorsuali) non possono, sotto pena
di nullità, iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, attuare sequestri conservati- vi, acquistare diritti
sul patrimonio del proponente. Per lo stesso periodo rimangono sospese le pre- scrizioni e non si verificano
le decadenze.

Il divieto di azioni esecutive individuali non opera però per i titolari di crediti impignorabili. Resta sospeso il
corso degli interessi convenzionali e legali.

Il decreto di apertura della procedura è espressamente equiparato ad un atto di pignoramento sui beni oggetto
del piano, a favore dei creditori, e tali beni non possono essere aggrediti dai creditori con causa o titolo
posteriore al momento in cui è stata data pubblicità al decreto, poiché sono credi- tori non concorsuali.

I crediti sorti in occasione o in funzione di una procedura di composizione della crisi sono invece considerati
crediti prededucibili e devono essere soddisfatti con preferenza rispetto agli altri, con esclusione di quanto
ricavato dalla liquidazione dei beni oggetto di pegno ed ipoteca per la parte destinata ai creditori garantiti.

Con il decreto di apertura, il giudice fissa l'udienza nella quale si dovrà constatare se l'accordo è stato
raggiunto.

Dispone la comunicazione ai creditori della proposta del decreto, ed i creditori possono aderire
espressamente all'accordo facendo pervenire all'organismo di composizione della crisi una dichiara- zione di
consenso alla proposta. In mancanza, si ritiene che gli stessi abbiano prestato consenso alla proposta nei
termini in cui è stata loro comunicata. Quindi opera un meccanismo di silenzio-assen- so, analogo a quello
previsto per il concordato preventivo: tutti i creditori che non hanno manife- stato volontà contraria sono
considerati consenzienti.

L'accordo deve essere raggiunto con i creditori che rappresentano almeno il sessanta per cento dei crediti

Come nel concordato preventivo, i creditori privilegiati non sono computati ai fini del raggiun- gimento della
maggioranza.

Sono inoltre esclusi dall'approvazione e dal diritto di esprimersi sulla proposta, il coniuge del debi- tore, i
suoi parenti ed affini fino al quarto grado, nonché i cessionari o aggiudicatari dei loro crediti da meno di un
anno prima della proposta.

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Gianmarco Rubino
Studente di Giurisprudenza Uso personale
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All'udienza il giudice verifica che non vi siano state iniziative o atti in frode ai creditori, altrimenti dispone
immediatamente la revoca del decreto di ammissione e la cessazione delle forme di pubbli- cità dello stesso.

Se l'accordo è stato raggiunto, l'organismo di composizione della crisi avvia una serie di attività preliminari
all'omologazione.

Predispone una relazione sui consensi espressi e sul raggiungimento della maggioranze e la trasmet- te, ai
creditori; costoro possono sollevare contestazioni entro dieci giorni dalla ricezione.

In sede di omologazione, il giudice verifica il raggiungimento della necessaria maggioranza, l'ido- neità del
piano ad assicurare il pagamento integrale dei crediti per i quali non è ammessa riduzione ed in generale la
regolarità del procedimento. Non entra invece nel merito della convenienza del- l'accordo per i creditori.

Il decreto di omologazione è pubblicizzato con le stesse forme disposte per il decreto di ammissione alla
procedura.

L'accordo omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori dal momento in cui è stata ese- guita la
pubblicità del decreto di ammissione, la quale non determina novazione delle obbligazioni, salvo che sia
diversamente stabilito; né pregiudica i diritti dei creditori nei confronti dei coobbligati, fideiussori del
debitore e obbligati in via di regresso.

Pertanto, anche se il creditore ha acconsentito ad una proposta che prevede la falcidia del credito verso il
proponente, può invece rivalersi per l'intero nei confronti degli eventuali garanti. Intervenuta l'omologazione
si passa alla fase di esecuzione, alla quale provvede il debitore stesso, oppure un liquidatore giudiziale. Il
liquidatore dispone in via esclusiva dei beni sottoposti alla pro- cedura concorsuale e delle somme incassate.

Spetta al giudice ordinare lo svincolo delle somme e la cancellazione dei vincoli sui beni, dopo aver
verificato la conformità all'accordo dell'atto di aliena- zione.

I pagamenti e gli atti dispositivi di beni posti in essere in violazione dell'accordo sono inefficaci nei confronti
dei creditori concorsuali, e in ogni caso, il giudice può sospendere gli atti di esecuzione dell'accordo quando
ricorrono gravi motivi.

Nella fase di esecuzione, l'organismo di composizione della crisi vigila sull'esatto adempimento dell'accordo,
segnalando ai creditori ogni irregolarità riscontrata.

L’accordo raggiunto con i creditori può essere revocato, risolto o annullato.

È revocato d'ufficio se risultano compiuti durante la procedura atti diretti a frodare le ragioni dei creditori.

Ogni creditore può poi presentare istanza di annullamento, quando il debitore abbia, dolosa- mente o con
colpa grave, aumentato o diminuito il passivo, sottratta o dissimulata una parte rilevante dell'attivo ovvero
dolosamente simulate attività inesistenti. Non sono ammesse altre cause di an- nullamento.

Il ricorso deve essere proposto entro sei mesi della scoperta dei fatti

La risoluzione può avvenire di diritto o in via giudiziale.

È di diritto:
1) quando il debitore non esegue integralmente, entro novanta giorni dalle scadenze previste, i pagamenti
dovuti secondo il piano alle amministrazioni pubbliche ed agli enti previdenziali
2) per il mancato pagamento di crediti per i quali non è consentito proporre l'adempimento parziale (crediti
impignorabili, tributi costituenti risorse proprie dell'Unione europea, iva, ritenute). L'accertamento del
mancato pagamento deve però essere richiesto al tribunale
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3) quando interviene la dichiarazione di liquidazione giudiziale del proponente. Gli atti, i pagamenti e le
garanzie posti in essere in esecuzione dell'accordo omologato non sono tuttavia soggetti all'azione
revocatoria fallimentare; inoltre, i finanziamenti effettuati in esecuzione o in funzione dell'accordo con-
servano il rango di crediti prededucibili.

La risoluzione è disposta dal tribunale su richiesta dei creditori, quando il proponente non adem- pie agli
obblighi assunti, oppure se le garanzie promesse non vengono costituite.

Il ricorso per la risoluzione deve essere proposto entro sei mesi dalla scoperta e comunque entro un anno
dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto dall’accordo.

I creditori possono domandare la risoluzione dell'accordo anche quando l'esecuzione dello stesso è diventata
impossibile per ragioni non imputabili al debitore. In questo caso, però, il debitore può proporre, una
modifica del piano originario.

Per effetto della risoluzione o dell'annullamento, cessano retroattivamente gli effetti dell'accordo, ma
vengono fatti salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede. Inoltre, quando interviene la revo- ca, il giudice
può disporre la conversione della procedura di composizione della crisi in una proce- dura di liquidazione del
patrimonio
In alternativa alla proposta di accordo di composizione della crisi, il consumatore che versi in stato di
sovraindebitamento può regolare i rapporti con i creditori mediante la più agevole procedura del piano del
consumatore.

In base a questa procedura, il piano predisposto dal debitore viene omologato e reso vincolante dal giudice,
senza necessità di ottenere l'approvazione dei creditori. Si tratta di un istituto particolar- mente vantaggioso
per il debitore, riservato ai consumatori che presentino specifici requisiti di meritevolezza.

Per "consumatore" si intende la persona fisica che ha assunto obbligazioni esclusivamente per sco- pi
estranei all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta.

La disciplina del piano del consumatore è in larga parte coincidente con quella degli accordi di composizione
della crisi.

Il consumatore deve depositare la proposta di piano, redatta con l'ausilio di un organismo di com- posizione
della crisi, presso il tribunale del proposta luogo ove ha la residenza.

Valgono gli stessi vincoli previsti per la proposta di accordo di composizione della crisi in merito ai crediti
per i quali non può essere previsto un pagamento ridotto o dilazionato.

In più, però, deve essere depositata una relazione particolareggiata dell'organismo di composi- zione della
crisi, nella quale si illustrano le cause della crisi e si forniscono elementi utili per valu- tare la meritevolezza
della condotta del debitore: diligenza nell'assumere obbligazioni; capacità di adempiere in passato; esistenza
di atti impugnati dai creditori ecc.

Nella medesima relazione l'organismo è chiamato, ad esprimere un giudizio sulla probabile conve- nienza
del piano per i creditori.

Il giudice, fissa la data per la convocazione dei creditori per l'udienza di omologazione. Il decreto ed il piano
vengono quindi comunicati ai creditori a cura dell'organismo di composizione della crisi, almeno trenta
giorni prima della data fissata per l'udienza.

A differenza dell'accordo di composizione della crisi, la presentazione della proposta non comporta la
sospensione automatica delle azioni esecutive individuali dei creditori

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All'udienza, il giudice risolve in via preliminare le contestazioni sollevate dai creditori anche in ordine
all'effettivo ammontare dei crediti.

Prima di omologare, deve inoltre verificare d'ufficio la fattibilità del piano e la meritevolezza del debitore:
sotto quest'ultimo profilo il piano non può essere omologato quando il consumatore «ha assunto obbligazioni
senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere», ovvero ha colposa- mente determinato il
sovraindebitamento.

La convenienza del piano non è oggetto di una valutazione di merito da parte del giudice, salvo in presenza
di specifiche contestazioni sul punto da parte di uno dei creditori o di qualsiasi interessato. Il decreto di
omologazione è soggetto a pubblicità con le forme determinate dal giudice ed è tra- scritto nei pubblici
registri a cura dell'organismo di composizione della crisi. Solo con l'adempimen- to delle formalità
pubblicitarie del decreto di omologa si determina la distinzione fra creditori con- corsuali e non concorsuali.

Sono creditori concorsuali tutti i creditori anteriori al momento in cui è stata eseguita la pubblici- tà del
decreto: per costoro il piano omologato è obbligatorio.

I creditori non concorsuali, cioè con causa o titolo posteriore alla pubblicità del decreto di omolo- gazione
non sono invece soggetti agli effetti del concorso. Perciò non sono soggetti al divieto di azioni esecutive
individuali, però non possono procedere esecutivamente sui beni che formano og- getto del piano, perché il
decreto di omologa equivale ad un atto di pignoramento.

Gli effetti dell'omologazione vengono meno di diritto, oppure possono essere revocati dal giudice su istanza
dei creditori, negli stessi casi previsti per la revoca, l'annullamento o la risoluzione degli accordi di
composizione della crisi.

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