1. IL DIRITTO COMMERCIALE:
Nel nostro sistema di diritto privato è presente un complesso di norme riferito agli imprenditori, questo poiché la
Costituzione determina un sistema giuridico che riconosce la proprietà privata e la libertà di iniziativa economica
(art.41 e 42 Cost.); inserendo il nostro paese in un modello di sviluppo economico basato sull’economia libera di
mercato, in cui il fenomeno imprenditoriale costituisce l’asse portante del sistema economico.
Nel nostro ordinamento è presente quindi una normativa (c.c.+ norme speciali) che riguarda:
a) Sia i singoli rapporti economici in cui si sviluppa l’attività d’impresa, una disciplina dei singoli atti di
autonomia privata a contenuto patrimoniale e volti dunque al soddisfacimento dei bisogni materiali della
collettività;
b) Sia l’attività d’impresa unitariamente considerata, la libertà di competizione economica, disciplina della
sua organizzazione e del suo esercizio, volta al raggiungimento del massimo guadagno.
Il diritto commerciale moderno è quella parte del diritto privato che regola ed ha per oggetto l’attività e gli atti
d’impresa; ma non è solo il diritto del commercio e dei commercianti (=diritto privato delle imprese).
Non lo è perché:
Imprese giuridicamente commerciali non sono solo quelle dedite al commercio, ma sono tutte le imprese
(industriali, bancarie, assicurative, di trasporto ecc.) ad eccezione di quelle agricole come si deduce
dall’art.2195 c.c.;
Nel sistema vigente tutti gli imprenditori (e non solo quelli commerciali) sono sottoposti ad uno speciale
statuto professionale.
Il diritto commerciale lo si etichetta come tale ormai per ragioni storiche; il diritto commerciale è stato ed è
ancora oggi:
a) Diritto speciale in quanto costituito da norme diverse da quelle valevoli per la generalità dei consociati;
b) Diritto tendente all’uniformità internazionale, per far identificare quelle esigenze giuridiche comuni alla
vita economica di tutti i paesi a economia di mercato e per una progressiva liberalizzazione dei rapporti
commerciali internazionali;
c) Diritto in continua evoluzione.
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Il diritto commerciale diventa diritto statale e nazionale. L’attività economica è vista come strumento di
accrescimento della potenza dello Stato e di espansione economica e territoriale ed è così che nascono i prototipi
della moderna società per azioni: le compagnie coloniali olandesi e inglesi nelle quali si afferma il principio della
responsabilità limitata dei soci e della divisione del capitale in azioni.
Nell’ambito di applicazione del diritto commerciale rientrano tutti gli atti di commercio, anche se nessuna delle
parti è commerciante e, alla legge commerciale è sottoposto inoltre chiunque contratti con un commerciante,
anche se non è commerciante. Così facendo il diritto commerciale regola la maggior parte dei rapporti sociali, e
prevale sul diritto civile per quanto riguarda lo svolgimento dell'intero ciclo economico.
Per il Codice italiano del 1882 rientrano negli atti di commercio:
I. Atti oggettivi di commercio, elencati dall’art.3, anche se occasionali;
II. Atti soggettivi di commercio, quegli atti svolti da un commerciante nell’esercizio
III. della propria attività;
IV. Atti di commercio unilaterali, commerciali per anche una sola delle parti.
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Dal 1942 sono intervenuti molti mutamenti del sistema politico economico:
1. La Costituzione repubblicana del 1948 la quale ha ribadito il Principio della libertà di iniziativa economica
privata, nel contempo ha delineato nuovi valori da tutelare e ha fissato nuove direttive programmatiche
della legislazione.
2. Mutamenti del sistema economico e relativa legislazione.
Si è affermato nel tempo il fenomeno della grande impresa, risultato della “privatizzazione” di molte imprese
pubbliche, in merito:
L’istituto delle società per azioni, prima unitario, oggi tende a polarizzarsi con l’introduzione nel 1974
delle società per azioni quotate in borsa.
Le prospettive di finanziamento della grande impresa mediante appello al pubblico risparmio si sono
ampliate a partire dal 1983.
Nel 1979 è stata introdotta una nuova procedura concorsuale: l’amministrazione straordinaria delle
grandi imprese in crisi, poi riformata.
La legge 287/1990 ha introdotto una normativa nazionale a tutela della struttura concorrenziale del
mercato
3. La costituzione della Comunità europea, oggi Unione Europea. Questa è volta alla realizzazione di un
mercato comune, realizzato e protetto tramite:
a. La costituzione di un vero e proprio ordinamento sovranazionale, con competenze relative alla
tutela della libertà di commercio fra Stati.
b. Progressivo avvicinamento delle singole legislazioni nazionali, tramite le direttive comunitarie volte
alla armonizzazione;
4. La globalizzazione dei mercati, con la conseguente esigenza di certezza delle transazioni la quale induce
sempre più a svincolare le contrattazioni internazionali dalle singole leggi nazionali ed a fondarle su regole
contrattuali uniformi.
L’IMPRENDITORE:
Art. 41: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni
perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Esistono delle formalità riguardo l’inizio e fine delle imprese, ma hanno delle finalità ben precise e quindi non
incidono nell’avvio dell’attività dell’impresa ovviamente vi sono attività particolari che richiedono formalità
precise e che di conseguenza possono essere realizzate solo da determinate imprese.
Art. 2082: “È imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della
produzione o dello scambio di beni o di servizi”.
Fornisce la definizione di imprenditore. È da questa norma che bisogna partire per identificare chi è imprenditore
commerciale. La qualifica dell’impresa deriva dal fatto che è imprenditore chi la svolge. 3 elementi “minimi”
fondamentali previsti dall’articolo:
1. Esercizio dell’attività economica. Economicità= concetto fondamentale nella qualifica di imprenditore
perché se un’attività non è economica non qualifica un imprenditore. Anche il termine attività è
importante perché indica un insieme di atti che qualifica l’imprenditore. Economicità= pareggio dei ricavi
con costi non basta che l’attività sia a scopo di lucro: non è fondamentale per la qualifica di un’attività
economica il fatto che essa venga svolta con scopo di lucro. È necessario che l’attività sia realizzata con
metodo economico, ovvero che ci sia un pareggio, che deve essere riscontrato effettivamente ( non
riscontrabile solo dal fatto che un’impresa è in perdita). Ovviamente finché sussiste la condizione per cui i
costi ricoprono i ricavi, si parla sempre di imprenditore, anche se ispirato a fine pubblico, ideale, o
altruistico (anche enti di diritto privato come associazioni e fondazioni) o anche se le condizioni di
mercato non consentano di remunerare i fattori produttivi.
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Il requisito dell’economicità deve sussistere nell’attività dell’impresa per poterne definire una tale.
L’impresa è attività produttiva (serie di atti) finalizzata alla produzione o allo scambio di beni e servizi.
Perché l’attività sia economica (da un punto di vista giuridico) non è essenziale che essa abbia scopo di
lucro, essendo individuabile l’attività di impresa tutte le volte in cui sussista una obiettiva economicità
dell’attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi.
Non è impresa l’attività di mero godimento, ovvero l’attività che non dà luogo alla produzione di nuovi
beni e servizi ma che gode esclusivamente di beni/servizi preesistenti.
Esempi: Impresa pubblica e sociale: fattispecie di attività economiche, in entrambi i casi troviamo una
definizione normativa del fenomeno (sono stabilite delle norme scritte che rispettano i criteri
dell’articolo). Lo stato avvia un’impresa pubblica per finalità economico-politiche che devono rispettare il
requisito dell’economicità: non ci possono essere costi>ricavi, ma deve essere previsto per lo meno un
pareggio nell’esempio dello stato italiano questo aspetto non è stato sempre rispettato, però allo
stesso tempo ha imposto la necessità di intervenire quando un’impresa pubblica sia in perdita:
intervenire= procede alla chiusura dell’azienda. L’impresa sociale è un altro esempio di impresa che non
ha scopo di lucro ma ha una finalità sociale: ciò è talmente importante che è vietata una distribuzione di
dividendi (qualora ci siano) più alta di quella istituita dal legislatore (si intende anche una distribuzione di
dividendi occulti). Tutta questa attenzione per quanto riguarda il fatto che un’impresa sociale non deve
avere uno scopo di lucro è dovuta al fatto che essa riceve un trattamento fiscale di favore proprio in
quanto si prefigge un obiettivo sociale piuttosto che di lucro.
Riguardo l’attività economica si è arrivati a sostenere la necessaria liceità dell’attività economica per
poterla definire tale: si presuppone che ciò che si svolge durante l’attività venga svolto in un ambito
lecito. Problema dell’impresa illecita è necessario andare a riflettere sulla natura della illeceità
dell’impresa: un’impresa può essere illecita per diversi motivi. Ad esempio, un’impresa che svolge
un’attività lecita ma non segue l’iter previsto dalla legge ben preciso e necessario affinché questa sia
considerata un’impresa a tutti gli effetti (deficit di caratteristiche organizzative, formali…), è definita
un’impresa illecita in questo caso il soggetto che gestisce l’impresa può essere sempre considerato un
imprenditore. Impresa illecita= esistono quei fenomeni in cui lo stesso soggetto imprenditoriale svolge
attività in parte lecita e in parte illecita. Il legislatore ritiene illecita anche l’impresa in cui l’attività illecita
risulti per valore nettamente superiore alla parte lecita di attività svolta.
L’impresa immorale invece è caratterizzata da una illegalità sostanziale, ovvero è l’attività economica in
sé ad essere illecita secondo un orientamento, in questo caso il legislatore non può consentire che tale
attività sia considerata impresa, cioè non si può mai parlare di impresa. Secondo un altro orientamento è
necessario fare una serie di altri ragionamenti.
Esistono diversi tipi di imprese. Esse si distinguono per:
Oggetto distinzione tra imprenditore commerciale (art. 2135) e imprenditore agricolo (art.
2195);
Dimensione distinzione tra piccolo imprenditore (art. 2083) e imprenditore medio-grande, le
grandi imprese hanno poche norme specifiche;
Partecipazione questo criterio riguarda la natura del soggetto che esercita l’impresa e troviamo
la distinzione tra impresa individuale, impresa societaria e pubblica. Ciascun tipo d'impresa ha
obblighi diversi. Possiamo immaginare anche altre distinzioni di minore rilievo (imprese pubbliche
e private).
2. Organizzazione= lavoro + capitale. Il mix tra queste due unità può essere uguale come no. In ogni caso
l’imprenditore organizza capitale e lavoro: questo concetto è rilevabile in modo molto esplicito quando si
osserva l‘inizio e la fine di un’impresa. Impresa= somma di attività e passività, flusso di contratti tutto
ciò è un mero elenco che è ben visibile soprattutto all’inizio e alla fine dell’impresa, ma sarà
l’organizzazione a far sì che questo elenco possa essere caratteristico di una reale impresa.
È normale e tipico che un imprenditore si doti di un complesso produttivo.
Si discute se un’impresa totalmente priva di lavoro o di capitale possa essere considerata un’impresa (ad
esempio nella piccola impresa spesso il fattore capitale è molto basso, mentre altre imprese sono
caratterizzate soprattutto da capitale e poco fattore lavoro). Si è arrivati però alla conclusione che è
imprenditore anche chi opera senza utilizzare altrui prestazioni lavorative autonome o subordinate e chi
no si dota di un apparato aziendale composto di beni mobili e immobili.
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Fa parte dell’organizzazione di un’impresa anche definire specifiche modalità di svolgimento dell’attività.
Il problema però si pone per quanto riguarda il confine tra imprenditore e lavoratore autonomo: sono da
considerare imprenditori anche quegli operatori economici la cui attività produttiva si fonda
esclusivamente sul loro lavoro personale? Il lavoratore autonomo è colui che utilizza esclusivamente il
proprio lavoro a fini produttivi, quindi con la mancanza totale di un minimo di “etero organizzazione”. Il
lavoratore autonomo (proprio perché manca l’etero organizzazione) non può essere considerato un
imprenditore ne deriva che un minimo di organizzazione di lavoro altrui o di capitale è necessaria per
definire un’impresa (anche se piccola) tale.
3. Professionalità. Professionalità=non occasionalità, ma abitualità di una data attività produttiva (può
anche essere un’attività stagionale, basta che sa abituale). La professionalità non richiede che quella di
impresa sia l’attività unica e principale. Si ha l’impresa anche se si opera per il compimento di un “unico
affare” se questo comporta il compimento di operazioni molteplici e l’utilizzo di un apparato produttivo
complesso.
Si considera impresa anche la cosiddetta “impresa per conto proprio”, ovvero l’impresa che produce beni
o servizi destinati ad uso o consumo personale.
Caso dei liberi professionisti non sono mai imprenditori. Disciplinati dall’art.2238: Se l'esercizio della
professione costituisce elemento di un'attività organizzata in forma di impresa, si applicano anche le
disposizioni della disciplina di impresa. Esempio: medico che gestisce una clinica privata nella quale
opera si è in presenza di due distinte attività (quella intellettuale e di impresa) quindi si applicano nei
confronti dello stesso soggetto la specifica disciplina dettata per la professione intellettuale e la disciplina
dell’impresa.
Artt.2229-2238 c.c. statuto specifico per i professionisti intellettuali. sono esonerati dallo statuto
dell’imprenditore. Non ci sono delle vere ragioni di esclusione dei professionisti dalla categoria degli
imprenditori, si tratta probabilmente di un vero e proprio privilegio.
Tutti gli imprenditori sono assoggettati a una disciplina base comune, lo “Statuto dell’imprenditore”: questo
comprende in parte la disciplina dell’azienda (artt. 2555-2562), dei segni distintivi (artt. 2563-2574), della
concorrenza e de consorzi (artt. 2595-2620). Oltre allo statuto generale dell’imprenditore esiste anche lo statuto
dell’imprenditore commerciale non piccolo.
1. L’imprenditore agricolo:
L’imprenditore agricolo è sottoposto solo alla disciplina prevista per l’imprenditore generale ed è esonerato, salvo
per alcuni aspetti, dalla disciplina dell’imprenditore commerciale (tenuta delle scritture contabili,
assoggettamento al fallimento e altre procedure concorsuali). L’imprenditore agricolo gode di un trattamento di
favore rispetto all’imprenditore commerciale.
All’art. 2135 troviamo una specifica definizione di imprenditore agricolo. Con il d.lgs. 228/2001 la norma
riguardante l’imprenditore agricolo è stata largamente ampliata.
Coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di bestiame sono attività tipicamente e tradizionalmente
agricole, quindi caratteristiche dell’attività agricola. Il continuo sviluppo tecnologico però ha permesso
un’evoluzione dell’agricoltura rendendola sempre più industrializzata ciò ha reso possibile ottenere prodotti
che dal punto di vista della merce prodotta sono agricoli, ma che sono ottenuti con metodi che prescindono dallo
sfruttamento della terra c’è un contrasto tra la definizione legislativa di impresa agricola e quella che è oggi
l’impresa agricola e questo ha reso necessario un intervento per modernizzare la norma (d.lgs.).
Nel nuovo testo formativo a coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali sono state aggiunte anche
le “attività connesse”. Inoltre, il termine bestiame è stato sostituito con quello più ampio di animali.
Differenza tra:
Attività essenziali: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di bestiame; qualsiasi tipo di
produzione di specie vegetali o animali;
Attività connesse.
All’imprenditore agricolo essenziale è stato equiparato con il d.lgs. anche l’imprenditore ittico.
Le attività connesse:
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Art. 2135 c.c.= Le attività agricole sono quelle attività dirette alla coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento
di animali e attività connesse. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore
agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che
abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento
di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di
attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività
di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite
dalla legge.
Il concetto di attività connesse è molto complesso. Questo deriva da due specificazioni:
Criterio della connessione soggettiva. La qualificazione di attività agricola di quell’attività presupposta
all’attività connessa (il soggetto che la esercita deve essere già di per sé imprenditore agricolo perché
svolge tutte le attività sopra citate e in particolare l’attività essenziale coerente con quella connessa);
Criterio della connessione oggettiva fra le due attività.
Criterio della prevalenza (il più importante). Deve riguardare prodotti ottenuti direttamente dallo
sfruttamento del fondo, l’elemento agricolo deve essere prevalente rispetto al resto (rispetto all’attività
commerciale, all’elemento capitalistico, ecc.). è necessario e sufficiente che le attività connesse non
prevalgano, per rilievo economico, sull’attività agricola essenziale.
Data la complessità del concetto di attività connesse è molto importante precisare (da un punto di vista
normativo) quando un’attività intrinsecamente commerciale possa qualificarsi come agricola per connessione.
La disciplina dell’imprenditore agricolo è cambiata notevolmente a partire del 2001, in quanto prima delle
modifiche la norma era molto stringata. L’attività connessa è un’attività di per sé commerciale, ma diventa
agricola se si rispettano le regole di connessione soggettiva (ovvero lo stesso soggetto deve svolgere sia l’attività
agricola che quella connessa) ed oggettiva (ovvero l’attività svolta non può essere del tutto distonica da quella
agricola, ma deve essere una modificazione di essa, il prodotto ottenuto deve provenire dalla lavorazione del
fondo agricolo). Lo statuto dell’imprenditore commerciale non si applica all’imprenditore agricolo, inoltre
quest’ultimo è soggetto ad una disciplina tributaria maggiormente agevolata questo perché il soggetto un
doppio rischio: il rischio di impresa (che può andar bene o andar male) e il rischio che la sua attività venga
deturpata anche da fattori atmosferici.
Altra importante distinzione è quella del piccolo imprenditore (al quale non si applica lo statuto dell’imprenditore
commerciale) rispetto all’imprenditore non piccolo. Distinzione in base alla dimensione.
1. Piccolo imprenditore:
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Art. 2083 = “Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro
che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della
famiglia.”.
Storicamente la distinzione del piccolo imprenditore aveva una disciplina fondamentale in ambito fallimentare
perché si prevedeva che il piccolo imprenditore non poteva essere dichiarare fallito ciò è stato abrogato, la
disciplina fallimentare offre un aggancio specifico al concetto di imprenditore che contiene anche quello di piccolo
imprenditore, sempre andando però a definire dei parametri quantitativi precisi che individuano l’imprenditore
escluso dalla disciplina fallimentare a prescindere dall’attività che esso svolge (art. 1 comma 2 legge fallimentare).
Al piccolo imprenditore non si applica lo statuto dell’imprenditore commerciale, ma lo statuto generale
dell’imprenditore. È esonerato, anche se svolge attività commerciale, dalla tenuta delle scritture contabili e
l’iscrizione al registro delle imprese (prevista recentemente) non ha scopo pubblicitario. L’art. 2083 non individua
questi soggetti come gli unici che possono essere definiti piccoli imprenditori, ma offre una definizione generale
non offre solo un’individuazione specifica. Nella disciplina del piccolo imprenditore non è rilevante la natura
dell’attività che esercita, è il requisito dimensionale che è importante (dimensione in termini di prevalenza del
lavoro sul capitale e in particolare tra coloro che vanno a formare la forza lavoro troviamo una prevalenza dei
membri della famiglia rispetto a terzi).
Per aversi piccola impresa è necessario:
Che l’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa
Il suo lavoro e quello degli eventuali familiari che collaborano dell’impresa prevalgano sia rispetto al
lavoro altrui sia rispetto al capitale proprio o altrui investito nell’impresa.
La definizione di piccolo imprenditore la si ritrova anche nella legge fallimentare, dove era descritto in base a dei
parametri quantitativi la presenza di due discipline ha creato per lungo tempo diversi problemi. Inoltre, la
disciplina fallimentare riguardante il piccolo imprenditore è stata modificata due volte (d.lgs. 5 del 09/01/2006 e
d.lgs. 169 del 12/09/2007), per arrivare al testo odierno che non si occupa più di definire “chi è” il piccolo
imprenditore, ma di individuare alcuni parametri dimensionali al di sotto dei quali l’imprenditore commerciale
non fallisce: «non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori […], i
quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:
Aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio
dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore
ad euro 300.000;
Aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di
fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo
non superiore ad euro 200.000;
Avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro 500.000.»
La definizione di piccolo imprenditore che dà il c.c. serve solo per individuare chi è il piccolo imprenditore e di
conseguenza applicare la disciplina adeguata.
Imprenditore Artigiano:
Rientra nei piccoli imprenditori. L’artigiano è il soggetto che ha una maggiore attenzione da parte del legislatore
vi sono delle discipline speciali. Sono state fatte 2 discipline:
Legge 860 del 25/07/1956 disciplina più ampia, contiene norme pe la disciplina giuridica. Voleva dare
dei benefici agli artigiani con un esonero dalla disciplina dell’imprenditore commerciale e da alcune
previsioni fiscali. Questa però non forniva una spiegazione precisa dal punto di vista civile della figura
dell’artigiano si limitava a dire che l’impresa rispondente ai requisiti fondamentali indicati è da
considerarsi artigiana a tutti gli effetti;
Legge 443/1985 disciplina più ristretta e di conseguenza più specifica. Ha abrogato la legge precedente.
Con questa si estende il concetto di impresa artigiana a tutte quelle imprese che svolgono attività di
produzione di beni/servizi (considerando anche le imprese societarie) ponendo come solo limite il
numero di dipendenti coinvolti. La definizione di impresa artigiana qui proposta è basata su:
o Oggetto dell’impresa;
o Ruolo dell’artigiano nell’impresa.
Scopo della legge quadro è quello di fissare i principi direttivi che dovranno essere osservati dalle regioni
nell’emanazione di una serie di provvidenze a favore dell’artigianato. Oggi infatti, per poter sottrarre l’artigiano
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allo statuto dell’imprenditore commerciale è necessario che sia rispettato anche il criterio della prevalenza fissato
dall’art.2083 del c.c.
La qualifica artigiana era riconosciuta, a certe condizioni, anche alle imprese costituite in forma di società
società artigiane. Questa è un’altra deroga alla disciplina originale apportata dalla legge 860/1956. Ad oggi però è
cessato anche l’esonero delle società artigiane dal fallimento. Una società artigiana gode delle provvidenze di cui
godono le altre imprese artigiane, ma in caso di dissesto fallirà al pari di ogni altra società che esercita attività
commerciale se supera le soglie dimensionali di fallibilità.
Impresa familiare:
Impresa familiare art. 230-bis. Riguarda la tutela del familiare. È da distinguere dalla piccola impresa. Si
considera impresa familiare, l’impresa in cui collaborano (anche attraverso il lavoro nella famiglia) il coniuge, i
parenti entro il terzo grado (fino ai nipoti) e gli affina entro il secondo grado (fino ai cognati) dell’imprenditore
si parla di famiglia nucleare.
Tale istituto è stato inserito con la riforma del diritto di famiglia del 1975 ed ha avuto molto successo perché
consente il frazionamento del reddito di impresa tra i parenti dell’imprenditore.
Con questo articolo si vuole andare ad attribuire dei diritti ai familiari che lavorano all’interno dell’impresa in
quanto, fino a prima della riforma del diritto di famiglia, si presumeva che dovessero offrire a titolo gratuito il
proprio lavoro.
L’articolo ha dunque lo scopo di predisporre una tutela minima nei confronti del lavoro familiare: sono previsti
una serie di diritti patrimoniali e amministrativi per il familiare che presta la sua attività in modo continuato:
Piano patrimoniale:
o Diritto al mantenimento, anche se non dovuto ad altro titolo;
o Diritto di partecipazione agli utili in proporzioni alla quantità del lavoro prestato;
o Diritto sui beni acquistati con gli utili;
o Diritto di prelazione.
Piano amministrativo:
o Le decisioni in merito alla gestione straordinaria dell’impresa e altre decisioni importanti è
previsto che vengano prese a maggioranza dei familiari che partecipano alla stessa.
Impresa familiare≠ impresa societaria l’impresa familiare rimane un’impresa individuale. L’imprenditore agisce
nei confronti dei terzi in proprio quindi solo a lui saranno imputabili gli effetti degli atti posti in essere e solo lui
sarà responsabile delle obbligazioni contratte in nome dell’impresa. Se l’impresa è commerciale e non piccolo solo
il capo di famiglia-datore di lavoro sarà esposto al fallimento.
1. Imprese pubbliche:
Concetto molto ampio. Si ha quando l’attività di impresa viene svolta dallo stato e dagli altri enti pubblici. Si hanno
3 possibili forma di intervento dei pubblici poteri:
Società a partecipazione pubblica: imprese societarie, tipicamente spa. Lo stato svolge attività di impresa
servendosi di strutture di diritto privato e generalmente costituendo o prendendo parte a una società per
azioni. La particolarità qui è che lo stato possiede una parte delle azioni dell’impresa. Si ha una disciplina
generale e si applica lo statuto dell’imprenditore commerciale in quanto l’impresa si presenta
formalmente come un’impresa societaria;
Enti pubblici economici: istituti di diritto pubblico il cui compito istituzionale esclusivo o principale è
l’esercizio dell’attività di impresa. Si ha una disciplina generale e l’applicazione dello statuto
dell’imprenditore commerciale, fermo l’esonero dal fallimento e dalle procedure concorsuali minori,
sostituiti dalla liquidazione coatta amministrativa e da altre procedure;
Imprese organo: strutture organizzative prive di distinta soggettività, ma dotate di una più o meno ampia
autonomia decisionale e contabile. Si applica una disciplina generale e lo statuto dell’imprenditore
commerciale, fermo l’esonero dall’iscrizione nel registro delle imprese e dalle procedure concorsuali. Si
ha quando lo stato o altri enti territoriali svolgono direttamente attività di impresa.
2. Impresa sociale:
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Nuova disciplina dell’impresa sociale. Introdotta dal d.lgs. 155 del 2006 e sostituito dal d.lgs. 112 del 2017:
riguarda le imprese gestite senza scopo di lucro in settori di interesse generale.
«Possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutti gli enti privati» che «esercitano in via stabile e principale
un’attività d’impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità
sociale». Assenza dello scopo di lucro:
Utili e avanzi di gestione destinati allo svolgimento dell’attività statutaria, all’incremento del patrimonio
dell’ente, oppure impiegati per erogazioni gratuite in favore di altri enti del Terzo settore per finanziare
specifici progetti di utilità sociale;
Sul patrimonio dell’impresa grava un vincolo di indisponibilità né durante l’esercizio dell’imprese né
allo scioglimento è possibile distribuire utili, fondi o riserve a vantaggio di fondatori, soci o associati,
componenti degli organi sociali, lavoratori e collaboratori (art. 3, comma 2);
Allo scioglimento dell’impresa sociale, il patrimonio residuo è devoluto ad altri enti del Terzo settore o
fondi per la promozione delle imprese sociali, secondo quanto previsto dallo statuto (art. 12, comma 5).
Il criterio dell’assenza dello scopo di lucro è però un divieto più leggero in determinati casi, si delineano dei
contorni più snelli. Questi sono i casi in cui si ricorra al contratto di consorzio o quando si sceglie la forma di
giuridica di società interviene una deroga al meccanismo dei possibili utili e avanzi di gestione, che possono
essere usati per una rivalutazione del patrimonio (sempre però con un limite). Gli utili possono anche essere divisi
tra i vari soci, sempre però con dei limiti. È prevista anche la possibilità che, al termine del rapporto sociale, è
consentita la restituzione del capitale versato, eventualmente rivalutato e aumentato tramite gli impieghi degli
utili.
Quando parliamo di imprenditore si intende quel soggetto di cui all’art.2082, quindi colui che esercita un’attività
economica in modo professionale ed organizzato. Noi pensiamo all’imprenditore o come persona fisica o come
società, però in realtà il legislatore non limita il concetto di imprenditore, per cui qualunque entità (individuale o
non) che svolga un’attività di impresa può essere considerata come imprenditore anche le associazioni e
fondazioni, in generale tutti gli enti privati anche con fini ideali e altruistici, questo proprio perché lo scopo di
lucro non è un elemento immanente alla definizione di imprenditore. Non è importante chi svolge l’attività di
impresa, è l’attività che fa l’impresa non l’imprenditore.
Dobbiamo andare ad individuare l’impresa per l’attività che svolge.
Questo tipo di impresa è stata inserita nel nostro regolamento nel 2006 (d.lgs. 155) e va a regolamentare un
fenomeno anche al fine di evitare conseguenze come il fallimento per le imprese sociali e prevede per queste dei
benefici di carattere organizzativo ( hanno il privilegio sul piano civilistico, ovvero di potersi organizzare in
qualsiasi forma di ente privato) e tributarie.
La disciplina di tale impresa è stata modificata con un decreto legislativo nel 2017 per la necessità di individuare
un nucleo di norme che possono essere applicate a tutte quelle imprese che operano nel terzo settore.
Per quanto riguarda la responsabilità per le obbligazioni dell’impresa, essa sarà regolata secondo le norme
caratteristiche del tipo di ente prescelto
Indipendentemente dalla natura agricola o commerciale dell’attività svolta, le imprese sociali:
Devono iscriversi in un’apposita sezione speciale del registro delle imprese (art. 5);
Devono redigere le scritture contabili, nonché pubblicare il bilancio d’esercizio ed il bilancio sociale, ossia
un documento volto a rappresentare l’osservanza nel corso della gestione delle finalità sociali proprie
dell’impresa (art. 10);
In caso di insolvenza, sono assoggettate alla liquidazione coatta amministrativa, invece che al fallimento
(art. 14).
Gli enti che intendono prendere la nomina di “impresa sociale” devono costituirsi per atto pubblico. L’atto
costitutivo deve essere redatto nella forma dell’atto pubblico e deve indicare:
L’oggetto sociale, individuandolo tra le attività di interesse generale riconosciute dalla legge;
L’assenza dello scopo di lucro;
La denominazione dell’ente, da integrare con la locuzione “impresa sociale”;
I requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza per i componenti delle cariche sociali;
Le modalità di ammissione ed esclusione dei soci (principio di non discriminazione);
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Adeguate forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell’attività d’impresa nell’assunzione
delle decisioni che possono incidere direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità delle
prestazioni erogate.
In particolare, lo statuto deve regolare casi e modalità di partecipazione dei lavoratori e degli utenti all’assemblea
degli associati o dei soci e, nelle imprese sociali di maggiori dimensioni, occorre prevedere la nomina da parte dei
lavoratori ed eventualmente degli utenti di almeno un componente dell’organo di amministrazione e di controllo.
Sempre all’interno dell’atto costitutivo è molto importante anche il profilo dei controlli, che si distinguono tra:
Controlli interni L’atto costitutivo deve prevedere la nomina di uno o più sindaci che hanno i compiti di
controllare: la legalità della gestione; il rispetto dei principi di corretta amministrazione; il rispetto delle
finalità dell’impresa.
NB: nelle imprese sociali di maggiori dimensioni, deve essere nominato un revisore legale incaricato del
controllo contabile.
Controlli esterni Le imprese sociali sono soggette alla vigilanza del Ministero del lavoro, che:
o Può procedere ad ispezioni per accertare il rispetto della relativa disciplina;
o Può disporre la perdita della qualifica di impresa sociale se rileva irregolarità non sanabili o se,
diffidati gli organi direttivi a porre fine ai comportamenti illegittimi, l’impresa non vi ottempera
entro un congruo termine;
o In caso di perdita della qualifica, l’impresa sociale sarà cancellata dalla sezione speciale e il suo
patrimonio dovrà essere devoluto ad un Fondo per la promozione e lo sviluppo delle imprese
sociali, dedotto in caso di società e consorzi il capitale e i dividendi eventualmente maturati.
Impresa agrituristica:
Si includono nelle attività connesse anche quelle attività di ricezione e di ospitalità così come previste dalla
legge si parla delle attività agrituristiche. La natura commerciale o agricola di un'impresa, rilevante al fine di
stabilire se la stessa sia soggetta a fallimento, deve essere apprezzata sulla scorta di criteri generali e uniformi,
valevoli per l'intero territorio nazionale: pertanto l'accertamento della concreta ricorrenza del requisito della
connessione tra le attività "agrituristiche" e quelle propriamente agricole, e della prevalenza di queste ultime sulle
prime, va principalmente condotto alla luce delle disposizioni del codice civile (in particolare, il comma 3 dell'art.
2135): ne consegue che i criteri integrativi della nozione di connessione, forniti dalle legislazioni regionali in
attuazione della legge quadro sull'agriturismo, possono fungere da criteri interpretativi ma non assumere
carattere decisivo ai fini della verifica della natura, se agricola o commerciale, dell'impresa - diversamente infatti
ciò si tradurrebbe nella fissazione di soglie di fallibilità diversificate da Regione a Regione.
Il nostro punto di riferimento deve essere sempre l’art. 2135.
Impresa artigiana: L'art. 2083 c.c. definisce piccolo imprenditore l'artigiano che eserciti una attività professionale,
organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia, occorrendo valutare dunque
l'attività svolta, il capitale impiegato, l'entità dell'impresa, numero dei lavoratori, l'entità e la qualità della
produzione, finanziamenti ottenuti. Pertanto, l'artigiano, va considerato un normale imprenditore commerciale,
come tale sottoposto alle procedure concorsuali, allorché abbia organizzato la sua attività in guisa da costituire
una base di intermediazione speculativa e da far assumere al suo guadagno i connotati del profitto, avendo in tal
modo organizzato una vera e propria struttura economica a carattere industriale con un'autonoma capacità
produttiva, sicché l'opera di esso titolare non sia più né essenziale né principale.
L’imprenditore occulto:
Questa fattispecie si presenta nei casi in cui ci sia una dissociazione tra colui che è formalmente imprenditore e
colui che di fatto esercita l’attività di impresa non sempre colui che è formalmente imprenditore (colui che è
iscritto nel registro) è colui che decide gli atti da compiere, colui che finanzia l’attività di impresa: ci può essere
una dissociazione tra l’imprenditore palese e l’imprenditore effettivo.
Il fenomeno coinvolge due soggetti:
L’imprenditore palese si tratta di una persona fisica nullatenente (c.d. prestanome) o di una società per
azioni o società a responsabilità limitata con capitale irrisorio (c.d. società di comodo) che, pur eseguendo
direttive e impiegando mezzi e risorse messe a disposizione da altri, compie in proprio nome i singoli atti di
impresa, trattando con clienti e fornitori, intrattenendo rapporti con le banche e così via;
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L’imprenditore occulto (o indiretto) si tratta del reale dominus dell’attività che, pur non palesandosi come
imprenditore dinanzi ai terzi, è colui che definisce le strategie, finanzia l’attività e beneficia dei relativi
risultati.
Siamo nell’ambito dell’esercizio indiretto dell’attività di impresa, proprio per la presenza di questa dissociazione
nella persona dell’imprenditore.
PROBLEMA La responsabilità per le obbligazioni assunte dall’impresa deve appuntarsi sull’imprenditore
occulto, vero dominus dell’attività, o sull’imprenditore palese, puro e semplice interprete ed esecutore di scelte
imprenditoriali altrui? Tale problema si verifica quando si ha una crisi dell’impresa: il problema sorge se i creditori
dell’impresa non vengono soddisfatti. Normalmente l’imprenditore occulto è quello che ha risorse patrimoniali,
mentre quello palese generalmente è nulla tenente (oppure è una S.p.A. con capitale irrisorio= società di
comodo) anche se i creditori dichiarassero il fallimento dell’impresa, sarebbe inutile perché l’imprenditore
palese è nulla tenente.
Per cercare di risolvere questo problema sono state avanzate diverse teorie.
La prima teoria prevede che nei casi in cui si ha una dissociazione della figura dell’imprenditore, si aggiunge alla
responsabilità patrimoniale dell’imprenditore palese anche la responsabilità patrimoniale dell’imprenditore
occulto. A questa si aggiunge la teoria dell’imprenditore occulto (elaborata dal professor Bigiavi nel 1950) la quale
sostiene non solo l’aggiunta della responsabilità patrimoniale dell’imprenditore occulto, ma anche che i creditori
possono provocare il fallimento dell’imprenditore occulto stesso. La teoria dell’imprenditore occulto trova molte
obbiezioni.
I sostenitori della teoria dell’imprenditore occulto fondavo la loro tesi sul binomio potere-rischio/potere-
responsabilità: il soggetto che ha potere (decisionale, di attività) ha anche la responsabilità patrimoniale e il
rischio di impresa. Questo binomio però in realtà non esiste (non ha un fondamento normativo) e quindi non è
elevabile a principio generale dell’ordinamento, perché vi sono delle società di capitale che possono essere
unipersonali (con un unico socio), che di conseguenza non risponde illimitatamente delle obbligazioni sociali (
non esiste il binomio come principio generale). Tuttora non c’è nessuna norma che sancisca il fallimento
dell’imprenditore occulto dimostrazione che ad oggi la teoria dell’imprenditore occulto non ha grande seguito.
Una teoria che ha trovato più seguito è la teoria dell’impresa fiancheggiatrice. Tale teoria molto spesso è stata
considerata dall’ordinamento come teoria valida per superare il problema dell’imprenditore occulto. L’impresa
fiancheggiatrice è una figura inventata della dottrina. Si ritiene che nei casi in cui si verifichi una dissociazione, si
può ritenere che l’imprenditore occulto sia titolare di un’autonoma attività di impresa, ovvero l’impresa
fiancheggiatrice e come tale è soggetto a fallimento. Questa teoria interviene anche nel caso in cui l’imprenditore
palese sia socio unico di una S.p.A. o S.r.l. impersonale. Si utilizza tale teoria anche quando siamo davanti ad un
caso in cui il socio dominante di un’impresa ha abusato della stessa, disponendone a suo piacimento.
Inizio dell’impresa:
Principio di effettività La qualità di imprenditore si acquista con l’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività
d’impresa. Ciò è valido per le persone fisiche, per l’impresa individuale e per l’impresa collettiva. Per quanto
riguarda invece le società esse acquisterebbero la nomina di imprenditori fin dal momento della loro costituzione,
quindi prima ed indipendentemente dall’inizio effettivo dell’attività. Nonostante questo, però il principio di
effettività deve trovare applicazione anche nelle società.
È da tener presente poi, che l’effettivo inizio dell’attività di impresa è preceduto da una fase preliminare di
organizzazione si diventa imprenditori anche durante questa fase o no? Si tende ad accettare la risposta
affermativa perché l’organizzazione stessa viene considerata come attività di impresa indirizzata ad un fine
produttivo. Nel caso della persona fisica, è però necessario che gli atti di organizzazione siano numerosi e
significativi al fine di manifestare in modo non equivoco lo stabile orientamento dell’attività. Nel caso di società
basta anche un solo atto, soprattutto se particolarmente qualificato.
L’iscrizione dell’inizio dell’impresa ha rilevanza costituiva solo per le società di capitali. L’intervenuta iscrizione
dell’inizio dell’impresa in tutti gli altri casi non determina il reale inizio di essa. Quindi quando inizia
effettivamente l’impresa? Si può parlare di impresa che viene all’esistenza quando vi è un nucleo organizzato di
capitale e lavoro che possa lasciare intravedere l’esistenza di un’impresa.
Per quanto riguarda l’impresa commerciale, l’inizio dell’attività di impresa non è determinabile in un momento
preciso perché si arriva all’inizio di essa quando vi è un nucleo organizzato (quindi l’iscrizione nel registro non è
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fondamentale, infatti anche la legge fallimentare precisa che il creditore se riesce a dimostrare l’inizio di
un’impresa in un momento diverso da quello indicato nel registro, si considera questo come inizio dell’impresa).
Fine dell’impresa:
Si ha sempre il principio di effettività La qualità di imprenditore si perde con l’effettiva cessazione dell’esercizio
dell’attività d’impresa. Questo per quanto riguarda l’imprenditore individuale.
Anche qui abbiamo una grande differenza tra società di capitali e altre imprese. Per le società di capitali
l’estinzione si registra con la cancellazione dell’atto costitutivo dal registro delle imprese. Se esiste un’impresa
societaria che svolge la sua attività senza essere iscritta nel registro, nei fatti semplicemente non sarà una S.p.A.
(anche se è così registrata) ma sarà un altro tipo di società. Se invece una S.p.A. viene cancellata, da quel
momento questa risulta estinta (se ci sono dei debiti questi faranno carico ai soci per la parte ricevuta dai resti di
capitale e in parte al liquidatore se ha proceduto alla cancellazione in un momento in cui l’impresa non doveva
essere cancellata, però non si ha una riviviscenza dell’impresa). Per tutte le altre imprese, la cancellazione dal
registro delle imprese ha solo una funzione di indirizzo, di pubblicità dichiarativa, che determina che quella è la
data di cessazione dell’attività, salvo prova contraria: se si è in grado di dare una prova diversa riguardo la data di
fine dell’impresa, verrà considerata questa. Di conseguenza, l’impresa (nel caso di tutte le imprese eccetto quelle
di capitali) cessa nel momento in cui si ha una disgregazione nell’organizzazione del nucleo di capitale e lavoro,
del complesso aziendale (la cessazione non dipende dall’estinzione dei debiti o dal pagamento del salario di tutti i
dipendenti).
La società, benché cancellata dal registro delle imprese, doveva ritenersi ancora esistente ed esposta al
fallimento, fin quando non ci fosse stata la completa definizione dei rapporti pendenti.
La fine dell’impresa è di base preceduta da una fase di liquidazione (fa ancora parte dell’attività di impresa).
Questa fase è regolata per le società, ma non per l’imprenditore individuale. La fase liquidativa può ritenersi
chiusa solo con la definitiva disgregazione del complesso aziendale che rende definitiva ed irrevocabile la
cessazione.
Art. 10, l. fall.: «Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla
cancellazione dal registro delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro
l'anno successivo. In caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta
salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione
dell'attività da cui decorre il termine del primo comma.»
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L’ufficio del registro delle imprese è istituito in ciascuna provincia presso le camere di commercio ed è retto da un
conservatore nominato dalla giunta; l’attività si svolge sotto la vigilanza di un giudice delegato dal presidente del
tribunale del capoluogo di provincia.
È articolato in una sezione ordinaria ed in sezioni speciali:
Nella sezione ordinaria sono iscritti gli imprenditori (non agricolicommerciali) riportati nel d.p.r. 581,
per i quali l’iscrizione nel registro delle imprese era originariamente prevista e produce effetti di
pubblicità legale. Vi sono iscritte le imprese soggette allo statuto dell’imprenditore commerciale;
Il numero delle sezioni speciali varia a secondo della legislazione speciale, ad oggi:
o Sezione speciale degli imprenditori agricoli e dei piccoli imprenditori*: imprenditori agricoli
individuali, piccoli imprenditori, società semplici.
Per gli imprenditori agricoli, anche piccoli, e le società semplici esercenti attività agricola il d.lgs.
228 del 2001 ha anche efficacia di pubblicità legale;
o Sezione speciale delle società tra professionisti: ad efficacia di pubblicità notizia;
o Sezione speciale dei soggetti che esercitano attività di direzione e coordinamento: (pubblicità
dei legami societari di gruppo) sono comprese anche quelle che vi sono soggette, in aggiunta
all’autonoma iscrizione al registro;
o Sezione speciale delle imprese sociali;
o Sezione speciale degli atti di società di capitali in lingua straniera: dove queste possono
pubblicare la traduzione giurata in una lingua ufficiale delle Comunità europee di atti per i quali è
obbligatoria l’iscrizione o il deposito;
o Sezione speciale delle start-up innovative e degli incubatori certificati: le prime sono le società di
capitali e cooperative costituite da non più di 4 anni aventi ad oggetto sviluppo, produzione e
commercio di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico. Le seconde sono le società
che offrono servizi per sostenere la nascita e lo sviluppo delle start-up innovative.
o Sezione speciale delle piccole e medie imprese innovative (PMI innovative).
All’interno delle sezioni speciali sono iscritte tutte le altre imprese, quelle non soggette allo statuto
dell’imprenditore commerciale.
PROCEDIMENTO D'ISCRIZIONE:
Entro 30 giorni dall’inizio dell’impresa l’imprenditore deve presentare e richiedere l’iscrizione al registro delle
imprese della provincia in cui l’impresa ha sede su domanda dell’interessato o d’ufficio (se l’iscrizione è
obbligatoria e l’interessato non vi provvede).
Prima di procedere all’iscrizione l’ufficio deve controllare che il fatto o l’atto è soggetto a iscrizione e che la
domanda è formalmente regolare (regolarità formale), inoltre l’esistenza e la veridicità dell’atto o del fatto
(regolarità sostanziale).
In caso di verifica negativa entro 8 giorni dalla comunicazione del rifiuto dell’iscrizione il richiedente può ricorrere
al giudice del registro che, tramite decreto, può o accogliere l’iscrizione o rigettarla nuovamente.
Entro 15 giorni dalla comunicazione del decreto l’imprenditore può fare reclamo al tribunale che provvederà
anch’esso tramite decreto.
Se l’iscrizione è obbligatoria e l’interessato non vi provvede questa può essere effettuata d’ufficio, come la
cancellazione di un’iscrizione per carenza di requisiti e la cancellazione d’impresa che ha cessato l’attività.
L’inosservanza dell’obbligo di registrazione è punita con sanzioni amministrative e pecuniarie e con sanzioni
indirette quale il mancato decorso del termine annuale per la dichiarazione di fallimento.
EFFETTI DELL’ISCRIZIONE:
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L’iscrizione nella sezione ordinaria ha sempre funzione di pubblicità legale, serve non solo a rendere conoscibili i
dati pubblicati, ma, a seconda dei casi, ha anche efficacia: dichiarativa, costitutiva o normativa:
Di regola ha efficacia dichiarativa, ossia rileva SOLO sul piano della conoscenza e opponibilità (verso
chiunque) dell’atto o del fatto iscritto;
Ha efficacia positiva immediata= gli atti e i fatti soggetti ad iscrizione ed iscritti sono opponibili dal
momento stesso della registrazione ed efficacia negativa= in caso di omessa iscrizione impedisce che il
fatto possa essere opposto a terzi. L’imprenditore che ha omesso la registrazione ha la possibilità di
provare che, nonostante la mancata registrazione, i terzi hanno avuto conoscenza effettiva dell’atto o del
fatto.
Tassativamente ha efficacia costitutiva, ossia produce effetti ulteriori e rilevanti:
o Efficacia costitutiva totale, presupposto di effetti fra le parti e per i terzi. Prevista per le società di
capitali e le società cooperative.
o Efficacia costitutiva parziale, presupposto di effetti per i terzi. Prevista ad esempio per la
registrazione della deliberazione di riduzione reale del capitale sociale di una società in nome
collettivo.
o In altri casi efficacia normativa, presupposto per la piena applicazione di un determinato regime
giuridico; caso de società in nome collettivo (S.n.c.) e in accomandita semplice (S.a.s.) le quali vengono ad
esistenza anche SE NON registrate (operano senza autonomia patrimoniale)
L’iscrizione nelle sezioni speciali ha solo funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia l’iscrizione
consente di prendere conoscenza dell’atto o del fatto iscritto, ma NON lo rende opponibile a terzi, oltre agli
eventuali effetti previsti dalle leggi speciali.
La disciplina dell’iscrizione nel registro delle imprese è stata recentemente modificata dal d.lgs. 228 del 2001.
Questo prevede che per gli imprenditori agricoli anche piccoli (coltivatori diretti) e per le società semplici
esercenti attività agricola, l’iscrizione nella sezione speciale ha anche efficacia di pubblicità legale con questa
modifica si va ad eliminare la grande differenza che c’è tra sezioni speciali e sezione ordinaria.
Scritture contabili:
Le scritture contabili sono i documenti che contengono la rappresentazione, in termini numerici e/o monetari, dei
singoli atti di impresa, della situazione del patrimonio dell’imprenditore e del risultato economico dell’attività
svolta. Di regola sono spontaneamente tenute da qualsiasi imprenditore perché contribuiscono a rendere
razionale ed efficiente l’organizzazione e la gestione dell’impresa, tuttavia la tenuta di tali scritture è elevata ad
obbligo e legislativamente disciplinata per:
1. Gli imprenditori che esercitano attività commerciale, meno i piccoli imprenditori,
2. Le società commerciali anche se non svolgono attività commerciale,
3. Enti pubblici e di diritto privato diversi dalle società che svolgono attività commerciale in via secondaria
ed accessoria,
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4. Le imprese sociali indipendentemente dalla natura dell’attività.
L’art.2214 pone il principio generale per cui l’imprenditore deve tenere tutte le scritture contabili che siano
richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa; e conservare per ciascun affare gli originali delle lettere, dei
telegrammi e delle fatture ricevute, nonché le copie delle lettere, dei telegrammi e delle fatture spedite (si tratta
della corrispondenza commerciale).
Il legislatore per l’imprenditore commerciale prevede 2 scritture contabili obbligatorie:
Libro giornale. È un registro cronologico-analitico: vi si annotano in maniera cronologica le operazioni
relative all’attività dell’impresa. Questo documento può anche essere articolato in libri parziali in
relazione alle articolazioni dell’impresa.
Libro degli inventari. È un registro periodico-sistematico che si redige all’inizio dell’impresa e
successivamente una volta all’anno, in cui sono contenute l’indicazione e la valutazione delle attività e
passività dell’impresa e le attività e passività personali dell’imprenditore (questo perché l’imprenditore
risponde con tutto il suo patrimonio personale per i debiti dell’impresa, quindi è necessario un
documento contabile riguardante il patrimonio dell’imprenditore) siamo nel caso delle imprese
individuali.
La norma sulle scritture contabili ci dice anche al termine di ogni esercizio, l’inventario si chiude annotando il
bilancio e il conto dei profitti e delle perdite si tratta del bilancio complessivo dello stato patrimoniale e del
conto economico. Il bilancio è un prospetto contabile riassuntivo dal quale devono risultare con evidenza e verità
la situazione complessiva del patrimonio (stato patrimoniale) alla fine di ciascun anno, nonché gli utili conseguiti o
l perdite sofferte (conto economico) nel medesimo arco di tempo.
Dicendo ciò la disciplina afferma che tutti gli imprenditori commerciali (individuali e societari) devono redigere il
bilancio e nel farlo devono seguire la disciplina del bilancio delle S.p.A. (art.2423-2435-bis).
Queste due scritture sono le scritture contabili obbligatorie, poi però il rispetto del principio generale imporrà la
tenuta di tutte le altre scritture contabili (=scritture contabili facoltative) richieste dalla natura e dalle dimensioni
dell’impresa l’imprenditore che svolge attività di impresa contenute può considerare tali scritture come
facoltative, per gli altri sono obbligatorie. Un esempio ne sono:
o Il libro mastro dove le operazioni sono registrate sistematicamente;
o Il libro cassa che contiene entrate e uscite di denaro;
o Il libro magazzino che contiene entrate e uscite di merci.
L’imprenditore deve inoltre tenere i libri e le scritture contabili previsti dalla legislazione tributaria e dalla
legislazione lavoristica.
Al fine di garantire veridicità alle scritture contabili è imposta l’osservanza di determinate regole formali e
sostanziali:
Formalità estrinseche: il libro-giornale e il libro-degli inventari devono essere solo enumerati in
progressione ad ogni pagina prima di essere messi in uso;
Formalità intrinseche: tutte le scritture devono essere tenute secondo le norme di un’ordinata contabilità.
Devono essere tenute regolarmente: bollate, vidimate, no cancellature, no abrasioni (se necessario
cancellare qualcosa, la cancellazione deve consentire di vedere cosa c’è scritto sotto).
Devono essere tenute dall’imprenditore che ne risponde
L’inosservanza delle formalità prescritte dalla legge rende le scritture irregolari e quindi giuridicamente irrilevanti;
inoltre, le scritture contabili e la corrispondenza devono essere conservate per 10 anni, cosa che può essere fatta
anche tramite supporti informatici.
Le scritture non sono di regola soggette ad alcun tipo di controllo esterno, tuttavia a partire dal 1975 la contabilità
delle società con azioni quotate in borsa è sottoposta ad un apposito controllo esterno; a partire dal 2003 ciò vale
anche per le società per azioni non quotate.
La violazione dell’obbligo di tenuta delle scritture non prevede alcuna sanzione generale e diretta, salvo quelle
previste dalla legislazione tributaria. Ne sono previste però alcune indirette: l’imprenditore non può utilizzarle
come mezzo di prova a suo favore e, in caso di fallimento, è assoggettato alle sanzioni penali per i reati di
bancarotta semplice o fraudolenta.
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Le scritture contabili, che siano tenute regolarmente o meno, hanno un’efficacia probatoria, ovvero possono
essere sempre utilizzate dai terzi come mezzo processuale di prova contro l’imprenditore che le tiene. Queste
fanno prova:
Contro l’imprenditore un terzo può chiedere in un giudizio di vedere le scritture contabili di un
imprenditore o può decidere di portarle lui stesso come prova. Ciò che è scritto nelle scritture contabili fa
prova contro l’imprenditore stesso sempre e in qualsiasi stato esse siano (però non possono essere scisse
nel contenuto);
A favore dell’imprenditore affinché possano fare prova a favore dell’imprenditore devono ricorrere 3
condizioni (più rigorose):
o Le scritture devono essere regolarmente tenute;
o Deve trattarsi di un rapporto attinente all’esercizio dell’impresa;
o Devono essere entrambe le parti imprenditori (per garantire la parità di trattamento)
Queste ultime due perché io devo poter confrontare le scritture contabili dei due imprenditori e ciò lo
posso fare solo se entrambi sono imprenditori.
In ogni caso è rimesso all’apprezzamento del giudice riconoscere valore probatorio alle scritture contabili.
Le scritture contabili si chiedono in giudizio con 2 metodi:
Esibizione: chiedo l’esibizione solo delle scritture relative al nostro rapporto, le quali però non possono
essere scisse, quindi dovranno essere considerate completamente. Molto più frequente come metodo;
Comunicazione: evento rarissimo, perché riguarda l’esibizione in giudizio della totalità delle scritture
contabili.
LA RAPPRESENTANZA COMMERCIALE:
Con tale formula si intende trattare tutti quei soggetti che a vario titolo collaborano con l’imprenditore: egli
nell’esercizio dell’attività si può avvalere della collaborazione di altri soggetti (=ausiliari) che possono essere
inseriti nell’organizzazione dell’impresa a vario titolo. Gli ausiliari possono essere:
Ausiliari esterni o autonomi soggetti esterni all’organizzazione imprenditoriale, che collaborano con
l’imprenditore in modo occasionale o anche stabile, sulla base di rapporti contrattuali di varia natura (artt.
1387 ss. c.c.)
Ausiliari interni o subordinati soggetti stabilmente inseriti nella organizzazione aziendale per effetto di
un rapporto di lavoro subordinato che li lega all’imprenditore (artt. 2203-2213 c.c.). sono gli ausiliari più
importanti:
o Institori;
o Procuratori;
o Commessi.
Tali soggetti sono ex-lege investiti del potere di rappresentanza dell’imprenditore: non sono investiti
tramite un’espressa procura, ma costituisce effetto naturale del ruolo che questi soggetti ricoprono
all’interno dell’organizzazione.
Con la rappresentanza i soggetti possono agire in nome e per conto dell’imprenditore stesso: spendono
direttamente il nome dell’imprenditore nei confronti di terzi.
La disciplina della rappresentanza si applica a tutti i tipi di ausiliari, con una disciplina specifica però per i
rappresentanti interni.
Nonostante la particolare disciplina, l’imprenditore può in tutti i casi modificare il contenuto legale tipico del
potere di rappresentanza, andando ad allargarlo, restringerlo o addirittura annullarlo. Ogni modifica del potere di
rappresentanza è possibile farla con uno specifico atto che può essere fatto valere nei confronti di terzi se si
rispettano alcune norme specifiche (soprattutto riguardo la pubblicità).
Institore:
È l’ausiliario più importante. Art. 2203: «È institore colui che è preposto dal titolare all'esercizio di un'impresa
commerciale. La preposizione può essere limitata all'esercizio di una sede secondaria o di un ramo particolare
dell'impresa. Se sono preposti più institori, questi possono agire disgiuntamente, salvo che nella procura sia
diversamente disposto».
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L’institore è di regola un lavoratore subordinato con la qualifica di dirigente ed è investito di un potere di gestione
generale, cui si affianca anche un altrettanto ampio e generale potere di rappresentanza sia sostanziale, sia
processuale (attiva e passiva).
Per quanto riguarda la posizione ricoperta dall’institore all’interno della società, di norma egli è un lavoratore
subordinato con la qualifica di dirigente posto al vertice della gerarchia del personale:
Vertice assoluto se è preposto all’intera impresa e in questo caso dipende solo dall’imprenditore;
Vertice relativo se è preposto ad una filiale o ramo dell’impresa e in tal caso può ritrovarsi in posizione
subordinata anche rispetto ad un altro institore.
Potere di gestione generale dell’impresa può svolgere qualsiasi atto, sia in termini di gestione che di
rappresentanza, non ha la necessità di un intervento dell’imprenditore stesso. Esiste un solo limite al suo potere,
inserito dal legislatore, e che è collegato alla tradizione storica per cui i beni immobili sono visti dal legislatore con
particolare cautela: per questo motivo il limite al potere dell’institore prevede che egli non possa alienare o
ipotecare i beni immobili dell’imprenditore.
Il potere di gestione generale deve abbracciare tutte le operazioni relative alla struttura alla quale è preposto. Ne
deriva l’obbligo di adempiere, congiuntamente con l’imprenditore, agli obblighi di iscrizione nel registro delle
imprese e di tenuta delle scritture contabili dell’impresa o della sede a cui è preposto (art.2205). Inoltre, in caso di
fallimento dell’imprenditore le sanzioni penali a carico del fallito troveranno applicazione anche nei confronti
dell’institore (art.27 legge fall.); fermo restando che solo l’imprenditore potrà essere dichiarato fallito e solo lui
sarà esposto agli effetti patrimoniali e personali del fallimento.
I poteri dell’institore possono essere ampliati o ristretti: ciò può essere fatto solo dall’imprenditore in persona e
devono risultare dalla procura istitoria (atto che deve essere iscritto al registro delle imprese). Se un atto di
ampliamento viene iscritto al registro, sarà più agevole per i terzi conoscere tale ampliamento, però se tale atto
abilita l’institore ad alienare un bene immobile egli per farlo dovrà esibire l’istitoria. Per quanto riguarda invece la
limitazione, se questa non viene registrata nel registro delle imprese, l’institore ha ancora tutti quei poteri che
l’imprenditore intendeva limitargli: il solo deposito nel registro della limitazione dei poteri la rende efficace.
L’unica situazione che può salvaguardare l’imprenditore in caso di limitazione non depositata nel registro è
l’imputazione di conoscenza: è perciò necessario che l’imprenditore provi in aula che i terzi fossero a conoscenza
delle limitazioni al momento della conclusione dell’affare. Stesso principio vale per la revoca e per il caso di
mancata iscrizione della revoca nl registro delle imprese.
L’institore non perde la propria sfera privata quando realizza un atto per conto dell’imprenditore, egli deve
dichiarare al terzo che tale atto lo sta compiendo nella qualità di institore: deve spendere il nome del
rappresentato. L’institore per essere escluso da qualsiasi responsabilità deve esplicitare il fatto che egli sta
spendendo il nome dell’imprenditore stesso le conseguenze di qualsiasi atto riguardante attività di impresa
ricadranno nella sfera del soggetto il cui nome è stato speso per metterli in pratica.
Quando omette la spendita del nome dell’imprenditore, l’institore avrà responsabilità solidale nei confronti
dell’imprenditore per tutto ciò che riguarda tale atto. Il fine è quello di salvaguardare e tutelare il terzo contraente
dalla possibilità di incertezze circa il reale dominus dell’affare.
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L’institore non risponde patrimonialmente degli atti compiuti a meno che non abbia occultato il suo ruolo di
institore lui non fallisce. Tuttavia, l’institore ha alcuni obblighi:
Iscrizione nel registro delle imprese;
Regolare tenuta delle scritture contabili.
Laddove l’institore ometta questi atti (ai quali sarebbe tenuto l’imprenditore ma che sono di competenza anche
dell’institore), l’institore risponderà solidalmente con l’imprenditore di ogni conseguenza.
Procuratori:
I procuratori sono coloro che “in base ad un rapporto continuativo, abbiano il potere di compiere per
l’imprenditore gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, pur non essendo preposti ad esso”. Sono degli ausiliari
subordinati di grado inferiore rispetto all’institore. Questo perché hanno un potere di rappresentanza di carattere
generale (anche in mancanza di esplicita procura, sono investiti ex lege) rispetto alla specie di operazioni per le
quali sono investiti di autonomo potere decisionale, però:
Non sono posti a capo né dell’impresa né di un ramo o di una sede della stessa;
Pur essendo degli ausiliari con funzioni direttive, Il loro potere decisionale resta circoscritto ad un
determinato settore operativo;
Non hanno rappresentanza processuale né attiva né passiva dell’imprenditore;
Non sono soggetti ad obblighi di iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili.
Esempio di procuratore dirigente del personale: ha un potere di gestione e di rappresentanza in questo settore,
però se ci spostiamo nel settore acquisti egli non ha alcun tipo di potere.
L’imprenditore non risponde per gli atti, pur pertinenti all’esercizio dell’impresa, compiuti da un procuratore
senza spendita del nome dell’imprenditore stesso.
Commessi:
I commessi sono ausiliari subordinati cui sono affidate mansioni esecutive o materiali che li pongono in contatto
con i terzi sono comunque ausiliari che hanno potere di rappresentanza (anche in mancanza di specifico atto di
conferimento).
Hanno poteri limitati rispetto agli institori o procuratori.
Art. 2210: principio base possono compiere gli atti che ordinariamente comporta la specie delle operazioni di
cui sono incaricati. Tuttavia, hanno dei poteri molto limitati ad esempio: i commessi preposti alla vendita nei
locali dell’impresa non possono esigere il prezzo delle merci che vendono se ad essi è preposta una cassa speciale,
inoltre al di fuori dei locali dell’impresa, dove non possono influire sul prezzo (a meno che non facciano le
consegne).
I commessi sono degli ausiliari di grado inferiore rispetto ai procuratori, anche se sono stabilmente legati alla
figura dell’imprenditore e all’organizzazione del lavoro all’interno dell’impresa. Anche i loro poteri possono essere
ampliati, ristretti o annullati dall’imprenditore affinché queste modifiche siano opponibili a terzi è necessario
che ciò venga portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei in quanto non è previsto un sistema di pubblicità
legale.
Poteri di deroga alle condizioni generali del contratto (art. 2211 c.c.): «I commessi, anche se autorizzati a
concludere contratti in nome dell'imprenditore, non hanno il potere di derogare alle condizioni generali di
contratto o alle clausole stampate sui moduli dell'impresa, se non sono muniti di una speciale autorizzazione
scritta.».
Poteri dei commessi relativi agli affari conclusi (art. 2212 c.c.): «Per gli affari da essi conclusi, i commessi
dell'imprenditore sono autorizzati a ricevere per conto di questo le dichiarazioni che riguardano l'esecuzione del
contratto e i reclami relativi alle inadempienze contrattuali.
Sono altresì legittimati a chiedere i provvedimenti cautelari nell'interesse dell'imprenditore.»
L’AZIENDA:
Ex art.2555: L’azienda è il complesso dei beni organizzati e destinati dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività
di impresa.
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L’azienda è l’apparato strumentale di cui si avvale l’imprenditore ed è anche un insieme di beni eterogenei che
subisce modificazioni qualitative e quantitative anche radicali nel corso dell’attività e resta però un complesso
caratterizzato da unità di tipo funzionale, per:
Il coordinamento e il rapporto di complementarità fra i vari elementi;
L’unitaria destinazione ad uno specifico fine produttivo.
Il rapporto di complementarità e strumentalità fra i singoli beni costitutivi, fa sì che il complesso acquisti un valore
di scambio maggiore della semplice somma dei singoli beni che lo costituiscono, tale maggior valore è il
cosiddetto avviamento. Si distingue fra:
1. Avviamento oggettivo, ricollegabile a fattori suscettibili di permanere anche se muta il titolare
dell’azienda, poiché insiti nel coordinamento esistente fra i vari beni;
2. Avviamento soggettivo, dovuto all’abilità operativa dell’imprenditore sul mercato ed in particolare alla
sua abilità nel formare e accrescere la clientela.
L’azienda (o un suo ramo dotato di organicità operativa) può formare oggetto di atti di disposizione di diversa
natura, a titolo definitivo così come temporaneo; la sua circolazione segue una particolare disciplina (artt. 2556-
2562 c.c.): ratio conservazione dell’unità economica e mantenimento dell’efficienza e della funzionalità dei
complessi produttivi.
Elementi costitutivi dell’azienda sono TUTTI i beni di qualsiasi natura, organizzati dall’imprenditore per l’esercizio
dell’impresa.
Ai fini della qualifica aziendale del bene è rilevante la destinazione funzionale impressagli:
1. Non sono aziendali i beni dell’imprenditore che non siano destinati all’attività;
2. Sono beni aziendali i beni di proprietà di terzi di cui l’imprenditore può disporre in base ad un valido titolo
giuridico, purché attualmente impiegati nell’attività di impresa.
In merito al termine “beni aziendali” in giurisprudenza è presente la tendenza ad ampliare la nozione a tutto ciò
che può costituire oggetto di tutela giuridica; Campobasso ritiene che siano elementi costitutivi dell’azienda SOLO
le cose in senso proprio di cui l’autore si avvale per l’esercizio dell’impresa.
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È necessario che sia trasferito un insieme di beni potenzialmente idoneo a essere utilizzato per l’esercizio
di una determinata attività d’impresa. È però necessario che i beni esclusi dal trasferimento non alterino
l’unità economica e funzionale di quella data azienda.
Le forme da osservare nel trasferimento dell’azienda sono fissate all’art.2556, modificato dalla legge 310 del
1993; in merito alla:
1. Validità: i contratti di trasferimento della proprietà o del godimento dell’azienda sono validi se rispettano
le forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o per la
particolare natura del contratto manca un’autonoma ed unitaria legge di circolazione dell’azienda.
(Forma necessaria ed identica per ogni tipo di azienda, sia agricola che commerciale);
2. Prova: SOLO per le imprese soggette a registrazione con effetti di pubblicità legale, secondo l’originario
sistema del Codice, “ogni atto di disposizione dell’azienda deve essere provato per iscritto ad
probationem”;
3. Pubblicità: per tutte le imprese soggette a registrazione secondo l’originario sistema del Codice, è oggi
prescritto che i relativi contratti di trasferimento sono da iscriversi nel registro delle imprese nel termine
di 30 giorni redatto o per atto pubblico o per scrittura privata autenticata.
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contratto si estingue definitivamente ed il contraente può solo chiedere il risarcimento del danno all’alienante,
provando la sua mancata cautela nella scelta dell’acquirente.
Contratti personali:
La disciplina sopra esposta non trova applicazione ai contratti con carattere personale; così si definiscono quei
contratti nei quali l’identità della persona e le qualità personali dell’imprenditore alienante sono state in concreto
determinanti per il consenso del terzo contraente, da accertare in base a criteri oggettivi. Per il trasferimento di
tali contratti saranno necessari un’espressa pattuizione contrattuale tra alienante ed acquirente, sia il consenso
del contraente ceduto.
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I DIRITTI DI PROPRIETÀ INDUSTRIALE: I SEGNI DISTINTIVI
La ditta è il segno distintivo dell’impresa (c.d. nome commerciale), l’insegna è quello dei locali in cui viene
esercitata all’attività di impresa e il marchio il segno distintivo dei prodotti. Sta acquistando sempre più
importanza il nome a dominio, che individua un sito internet usato nell’attività economica.
Attorno ai segni distintivi ruotano vari interessi:
1. Quello degli imprenditori a dotarsi di segni che godano di spiccata
forza distintiva ed attrattiva, parallelo all’interesse alla tutela di quanti con essi entrino in contatto per
non essere tratti in inganno;
2. Quello degli imprenditori di poter cedere ad altri i propri segni per monetizzare l’autonomo valore
economico;
3. Quello generale a che la competizione concorrenziale si svolga in modo ordinato e leale.
Dalle tre distinte discipline è possibile desumere principi ispiratori comuni:
1. L’imprenditore ha ampia libertà nella formazione dei propri segni distintivi, MA è tenuto a rispettare
criteri di: verità, novità e capacità distintiva.
2. L’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo dei propri segni distintivi, MA è un diritto relativo e
strumentale alla realizzazione della funzione distintiva.
3. L’imprenditore può trasferire ad altri i propri segni distintivi, MA in modo tale da evitare di trarre in
inganno il pubblico.
La ditta: è il nome commerciale dell’imprenditore, lo individua come soggetto di diritto nell’esercizio dell’attività
d’impresa è per questo che è segno distintivo necessario infatti in mancanza di diversa scelta coincide con il
nome dell’imprenditore. Non è necessario che coincida per forza con il nome dell’imprenditore: c’è libertà di
scelta purché si rispettino i principi della verità e della novità.
Nasce come ditta soggettiva all’inizio dell’attività c’è una totale corrispondenza tra ditta e imprenditore, solo
con l’inizio dell’attività la ditta si oggettivizza e quindi viene ricondotta all’impresa nella sua oggettività. I requisiti
della ditta:
Requisito della verità (art. 2563). La ditta deve essere vera, ovvero deve riportare il nome e cognome o
almeno la sigla dell’imprenditore (parliamo dell’imprenditore individuale). Accanto a questi elementi si
può accompagnare una denominazione di fantasia. Occorre distinguere tra:
o Ditta originaria, formata dall’imprenditore che la utilizza: deve contenere almeno il cognome o la
sigla dell’imprenditore. Oltre questo requisito formale, l’imprenditore è poi libero di completare
come preferisce la propria ditta;
o Ditta derivata, formata da un dato imprenditore e successivamente trasferita ad un altro insieme
all’azienda; quest’ultimo NON è tenuto ad integrarla con il proprio cognome o con la propria sigla.
La verità in questo caso è “storica”.
Requisito della novità (art. 2564): la ditta deve essere nuova non devono esserci altre imprese nel
mercato che per il luogo in cui si esercita l’attività o per l’oggetto dell’attività siano confondibili con la
ditta che si vuole usare. Novità estrinseca del segno: non deve essere uguale o simile a quella usata da
altro imprenditore. La ditta che voglio creare non si deve neanche confondere con altre esistenti.
Chi ha adottato per primo una data ditta ha diritto all’uso esclusivo della stessa, ma tale diritto e il
corrispondente obbligo di differenziazione sono relativi: sussistono SOLO SE gli imprenditori sono in
rapporto concorrenziale tra loro e si possa dunque creare confusione. Per le imprese commerciali vale il
principio della priorità dell’iscrizione nel registro delle imprese: l’obbligo dell’integrazione o modificazione
spetta a chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore.
Il Principio di novità, secondo il Principio di unitarietà dei segni distintivi, opera anche nei rapporti fra la
ditta ed altri segni distintivi.
Per paragonare più ditte si fa riferimento al cuore della ditta il cuore della ditta è quell’elemento che la
rende diversa e riconoscibile rispetto a ogni altra ditta (in alcuni casi può essere anche il nome e cognome
dell’imprenditore, o anche la denominazione di fantasia). Si può verificare la situazione in cui per superare
il requisito della novità si debba fare a meno del requisito della verità e quindi che l’imprenditore non
possa usare il proprio nome o cognome (per ovviare ciò l’imprenditore è costretto a modificarli in modo
che non si confondano con altre attività). Vale però il principio della non concorrenza, infatti se parliamo
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di attività diverse o luoghi diversi è possibile avere due ditte confondibili perché tanto tra le due non si
crea concorrenza. Colui che ha utilizzato per primo e iscritto per primo nel registro delle imprese è colui il
quale ha il diritto di chiedere e imporre al successivo imprenditore che vuole usare la stessa ditta di
cambiare ditta.
Requisito della liceità. Si declina in due modi, entrambi devono essere rispettati:
o La ditta deve rispettare le norme imperative, di buon costume e di ordine pubblico;
o Non decettività della ditta la ditta non deve essere tale da indurre in errore coloro che operano
con questa ditta.
La ditta può essere oggetto di trasferimento, tuttavia siccome essa è elemento distintivo dell’impresa essa può
essere trasferibile sol congiuntamente all’azienda (art. 2565). Quando si parla di trasferimento dell’azienda ci
riferiamo non necessariamente al trasferimento alla totalità dell’azienda ma anche al trasferimento di un solo
ramo dell’azienda. Trasferimento della ditta= situazione molto delicata trasferimento per atto tra vivi: affinché
il trasferimento sia effettivo, la volontà dell’originale titolare della ditta di trasferirla all’altro, deve risultare da
esplicita dichiarazione scritta. Inoltre, l’alienante deve provvedere subito all’iscrizione nel registro delle imprese
altrimenti, dato che sia l’azienda che la ditta hanno lo stesso nome, il mercato potrebbe cadere in errore nel caso
in cui voglia entrare in rapporti con l’azienda.
Nel caso del trasferimento mortis causa non è possibile avere il consenso del defunto, per cui il legislatore decide
che in questo caso si trasferisce automaticamente per successione anche la ditta, salvo diversa disposizione
testamentaria (ad es: il defunto prima di morire può stabilire che la ditta cessi con la sua morte).
L’Insegna: segno distintivo dei locali nei quali viene esercitata l’attività d’impresa o dell’intero complesso
aziendale. La disciplina dell’art.2568 prevede l’obbligo di modificazione dell’insegna simile o confondibile. La
disciplina dell’insegna deve essere ricostruita: questo perché pure nel silenzio della disciplina specifica sono
applicabili i principi cardine della ditta e del marchio. Requisiti:
Requisito della liceità (nei due sensi già visti per la ditta)
Requisito della novità non deve essere simile o confondibile a quella usata da un altro imprenditore che
per il luogo di svolgimento dell’attività o per l’oggetto dell’attività sia in concorrenza con essa. Deve avere
sufficiente capacità distintiva.
No requisito della verità.
Per il trasferimento dell’insegna, si applica il principio per cui si trasferisce solo con l’azienda? Non si è arrivati a
una conclusione pacifica perché secondo alcuni dato che non c’è una disciplina esplicita è possibile trasferirlo
senza il trasferimento dell’azienda, ma altri no. Rimane però opinione condivisa il fatto che l’insegna è trasferibile:
si applica la più permissiva disciplina prevista per il marchio dato che l’insegna riguarda elementi materiali e non
la persona dell’imprenditore.
Laddove l’insegna abbia una forte connotazione geografica/storica con il luogo in cui l’impresa è esercitata,
questa non può essere trasferita se il trasferimento implica un grande cambiamento dal punto di vista geografico
del luogo di realizzazione dell’attività d’impresa.
Il Marchio: La disciplina dei marchi la ritroviamo sia nell’ordinamento nazionale che nell’ordinamento
comunitario ed internazionale.
Il marchio è il segno distintivo del prodotto/servizio. Elementi che compongono il marchio: da questo punto di
vista il legislatore dà ampia libertà agli imprenditori, per cui può essere: una denominazione, un colore, un
numero, un segno, un profumo, ecc. può essere qualsiasi cosa. Vi è però un limite, ovvero che il marchio possa
essere rappresentabile graficamente questo perché la rappresentabilità grafica è elemento fondamentale
affinché il marchio possa essere soggetto a brevettazione.
Marchio nazionale: disciplinato dagli artt.2569-2574 dal Codice Civile e dal Codice della proprietà
industriale d.lgs. 30 del 2005;
Marchio comunitario: disciplinato dal regolamento Ce 207/2009. Obiettivo= delineare un marchio che
ottenga gli stessi effetti in tutta l’Unione;
Il marchio internazionale, disciplinato da Convenzione d’Unione di Parigi del 1883 e dall’Accordo di
Madrid del 1891 e relativo Protocollo.
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Queste normative, tutte imperniate sull’istituto della registrazione, riconoscono al titolo del marchio il diritto
all’uso esclusivo dello stesso. Il marchio NON è un segno distintivo essenziale, ma è il più importante dei segni
distintivi per le funzioni che svolge:
1. Funzione distintiva dei prodotti, costituisce il principale simbolo di collegamento fra produttori e
consumatori e li distingue dagli altri;
2. Funzione attrattiva, alcuni assumono un’autonoma forza attrattiva dei consumatori a causa del massiccio
impiego della pubblicità commerciale.
Fra queste non può ricomprendersi la Funzione di garanzia della qualità, dato che nella disciplina dei marchi non
c’è nessuna norma a riguardo.
esistono diversi tipi di marchio I marchi possono essere classificati secondo diversi criteri:
In base alla natura dell’attività:
a. Marchio di fabbrica e di commercio, di un marchio può servirsi il fabbricante di un prodotto, ma
anche il commerciante dello stesso. Perciò su un prodotto possono coesistere più marchi e in tal caso
ex art.2572 il rivenditore può apporre il proprio marchio ai prodotti ma NON può sopprimere il
marchio del produttore;
b. Marchio di servizio, utilizzato da imprese che producono servizi; la sua forma classica è quella
pubblicitaria;
c. Marchio generale e marchio speciale, il primo quello che l’imprenditore utilizza per tutti i propri
prodotti (UN SOLO MARCHIO), il secondo quello che utilizza per differenziare i diversi tipi di prodotti
o tipi diversi dello stesso prodotto;
d. Marchio denominativo costituito cioè da sole parole (può coincidere con la stessa ditta e/o il nome
civile dell’imprenditore;
e. Marchio figurativo costituito da sole figure, disegni, lettere ecc.;
f. Marchio di forma o tridimensionale, costituito dalla forma del prodotto o dalla confezione dello
stesso;
g. Marchio collettivo, svolge la funzione di garantire l’origine, la natura o la qualità di determinati
prodotti o servizi ed è utilizzato non dall’ente che lo registra ma da produttori o commercianti
consociati che rispettino determinate regole.
Il marchio per essere tutelato giuridicamente deve rispettare i requisiti:
Requisito di originalità deve essere composto in modo tale da consentire l’individuazione dei prodotti
contrassegnati fra tutti gli altri;
Requisito della novità estrinseca del segno. Deve essere nuovo, non deve essere già usato da un altro
imprenditore per quel determinato settore di attività. Il codice di proprietà industriale però da questo
punto di vista si allarga, perché impone che il marchio non deve essere confondibile anche con qualsiasi
altro segno distintivo (anche ditta o insegna) usato da altre imprese. Aggiunge anche il tema del marchio
di fatto può accadere che un imprenditore usi un marchio senza brevettarlo= lo usa di fatto.
Utilizzandolo di fatto quel segno acquisisce una capacità distintiva, però nel momento in cui un’altra
persona brevetti lo stesso marchio, egli obbliga l’imprenditore che ha iniziato a usarlo senza brevetto, ad
usarlo solo nell’ambito di utilizzo che ne faceva anche prima dell’introduzione del brevetto. Il marchio
deve essere nuovo anche intrinsecamente, ovvero dotato di capacità distintiva o dotato di originalità
non può essere usato come marchio il nome generico del prodotto, la forma esteriore del prodotto, una
forma che dà una particolare utilità al prodotto, ecc. Inoltre, nella disciplina dei marchi vige il principio
della lontananza del segno dal nome, per cui più lontano è il segno marchio dal nome generale del
prodotto, quanto più quel marchio sarà originale questo introduce la differenza tra:
o Marchio debole: segno molto vicino al prodotto;
o Marchio forte: segno molto lontano dal nome del prodotto
Questa differenza fa sì che quando il marchio è debole occorre una debole modifica di un segno
successivo per renderlo un marchio utilizzabile. Il marchio può anche acquisire forza in base all’uso che
l’imprenditore ne fa. Qualifica massima nel mondo dei marchi= marchio notorio o marchio dotato di
rinomanza.
Esistono dei casi in cui gli imprenditori usano i nomi dei prodotti come marchi (es: divani e divani o
poltrone e sofà): questi sono esempio di marchi che acquistano significato nella loro composizione
letterale.
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Requisito di liceità. Concetto molto ampio che si estende a tanti fenomeni e fattispecie. Si sostanzia nel
rispetto delle norme citate per la ditta, ma anche in altro. Il marchio non deve contenere: segni contrari
alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume; stemmi o altri segni protetti da convenzioni
internazionali senza autorizzazione; il nome notorio può essere brevettato come marchio solo da chi ha
quel nome o da chi ne ha la proprietà; il nome non notorio può essere brevettato anche da chi non lo
possiede purché chi ne fa uso non lo usi in modo che crei danno al titolare. Questo requisito è proprio
solo del segno, però se il segno è il cuore della ditta, allora il requisito della novità diventa il più
importante. Nel caso in cui si voglia usare un ritratto come marchio, questo sia che si tratti di una persona
famosa che non, può essere utilizzato solo dietro consenso del soggetto. Impossibilità di registrare come
marchio la forma del prodotto quando questa sia necessaria o abbia una capacità tecnico/funzionale;
Requisito di verità: non deve contenere segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla
provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi.
Rappresentazione grafica. Elemento fondamentale per procede alla registrazione del marchio. Un
marchio deve essere registrato, in modo tale anche da tutelarlo da abusi che terzi ne possano fare. La
registrazione vale dal momento in cui si presenta la domanda e ha una durata di 10 anni ma può essere
sempre rinnovato, anche all’infinito. I principi sopra elencati devono essere proprio del marchio per tutta
la durata della registrazione, perché nel momento in cui un marchio perde questi requisiti non può essere
più tutelato.
Il legislatore stabilisce i tipi di segni privi di capacità distintiva:
Denominazioni generiche,
Indicazioni descrittive dei caratteri essenziali del prodotto
I segni divenuti di uso comune nel linguaggio.
Il requisito dell’originalità viene però rispettato quando si utilizzano tali denominazioni o figure generiche che non
hanno alcuna relazione con il prodotto o sono state combinate e modificate fra loro.
Il Codice della proprietà industriale distingue fra:
Marchi ordinari, per cui NON sono nuovi i segni che possono determinare un rischio di confusione per il
pubblico.
Marchi celebri, per cui ex lege non sono nuovi i marchi confondibili da altri successivamente usato per
prodotti e servizi non affini, se chi lo usa “trarrebbe indebito vantaggio dal carattere distintivo o della
rinomanza del segno anteriore”.
Ex art.25 c.p.i. il difetto di uno dei requisiti di cui sopra comporta la nullità del marchio con 2 eccezioni:
1. Il difetto di novità non implica nullità SE colui che ne ha chiesto la registrazione non era in mala fede e il
titolare del marchio ne abbia tollerato l’uso per 5 anni.
2. Il difetto di originalità non implica nullità SE per l’uso fattone ha acquistato capacità distintiva prima della
domanda o dell’eccezione di nullità.
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La registrazione nazionale dura 10 anni ed è rinnovabile per un numero illimitato di volte, fornisce quindi una
tutela perpetua salvo la successiva dichiarazione di nullità per difetto dei requisiti.
Il marchio può anche non essere sottoposto a registrazione siamo nel caso del marchio di fatto (non registrato).
L’ordinamento tutela in modo minore anche il marchio non registrato sulla base dell’uso di fatto e dell’effettivo
grado di notorietà raggiunto, permettendo al titolare di continuare ad usarlo dopo la registrazione altrui nei limiti
in cui se ne era avvalso(art.2571)
Tuttavia, la tutela non riguarda i prodotti affini ed è limitata alla zona di pre-uso.
La circolazione del marchio: è prevista una disciplina totalmente diversa da quella prevista per la ditta e per
l’insegna. Il marchio è trasferibile e può essere trasferito sia a titolo definitivo che a titolo temporaneo (licenza di
marchio), per tutti o per una parte dei prodotti per i quali è stato registrato, senza che sia necessario come prima,
il contemporaneo trasferimento dell’azienda o del corrispondente campo produttivo. Una particolarità del
marchio è che può anche capitare che il proprietario di un marchio conceda una licenza ad altro imprenditore per
l’utilizzo di esso per un determinato lasso di tempo, riappropriandosi totalmente del marchio una volta trascorso
quel periodo licenza non esclusiva: è possibile quindi la contitolarità del marchio (licenza non esclusiva),
utilizzato nello stesso momento sia dal titolare originario sia da uno o più concessionari: vengono immessi sul
mercato prodotti dello stesso genere, con stesso marchio ma fonte di provenienza diversa.
Sono previsti dei limiti Il legislatore ex art.2573 ha stabilito che dal trasferimento o dalla licenza non deve
derivare inganno nei caratteri dei prodotti o servizi e che, ex art.23 c.p.i., il licenziatario sia obbligato ad utilizzare
il marchio per prodotti con caratteristiche qualitative uguali a quelli degli altri licenziatari e dell’originario titolare.
La contraffazione del marchio: la brevettazione conduce a una tutela molto forte, molto più forte di quella
realizzata dalla disciplina della concorrenza sleale. Nel caso della contraffazione del marchio, il proprietario non
deve dimostrare niente, deve solo provare che l’altro marchio sia confondibile o richiami il suo affinché venga
applicata la disciplina punitiva che prevede l’annullamento di tutto ciò che è stato realizzato con il marchio
contraffatto.
Le invenzioni industriali. Si definiscono creazioni intellettuali tutte quelle invenzioni che portano alla soluzione di
un problema. Ne fanno parte le opere dell’ingegno idee creative nel campo culturale) e le invenzioni industriali
(idee creative nel campo della tecnica). Le opere dell’ingegno fanno parte del diritto d’autore, mentre le
invenzioni industriali possono formare oggetto:
a. Brevetto per invenzioni industriali;
b. Brevetto per modelli di utilità oppure della registrazione per disegni e modelli.
Con il termine invenzioni industriali si definisce la soluzione originale di un problema tecnico e riguarda le idee
creative che appartengono al campo della tecnica. Deve trattarsi di un’invenzione di un qualcosa, di una soluzione
originale (non conosciuto o utilizzata sul mercato) che può riguardare il prodotto o il procedimento. Si distinguono
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dalle opere dell’ingegno soprattutto per il diverso modo di acquisto del diritto di utilizzazione economica, che per
le invenzioni avviene tramite la concessione del brevetto: possono formare oggetto di brevetto le idee inventive di
maggior rilievo tecnologico abbiamo:
Invenzioni di prodotto. Oggetto= nuovo prodotto/servizio;
Invenzioni di procedimento (produttivo/distributivo). Consistono in nuovo metodo di produzione di beni
già noti, nuovo processo di lavorazione industriale, nuovo dispositivo meccanico;
Invenzioni derivate. Derivazione di una precedente invenzione. Si distinguono:
o Invenzioni di combinazione: combinazione di invenzioni precedenti per ricavarne una nuova;
o Invenzioni di perfezionamento: migliorare un’invenzione precedente;
o Invenzioni di traslazione: nuova utilizzazione di una sostanza/composizione già conosciuta.
Non vengono considerate invenzioni industriali:
Le scoperte, le teorie scientifiche e i metodi matematici;
I piani, i principi ed i metodi per attività intellettuali, per gioco o per attività commerciali e i programmi di
elaboratori;
Le presentazioni di informazioni.
Ne deriva che non può essere considerato come invenzione industriale ciò che già esiste in natura e l’uomo si
limita a percepire o una nuova teoria.
Requisiti dell’invenzione industriale (necessari affinché l’invenzione sia oggetto di brevetto):
Novità è nuova l’invenzione che non è compresa nello stato della tecnica, ovvero tuto ciò che sia
accessibile al pubblico prima della data di deposito della domanda di brevetto= manca del requisito di
novità l’invenzione divulgata;
Deve implicare attività inventiva questo avviene quando per una persona esperta del ramo,
l’invenzione non risulta in modo evidente dallo stato della tecnica;
Liceità;
Industrialità sono escluse quindi dalla brevettazione le invenzioni commerciali: devono essere idonee
ad avere un’applicazione industriale.
Ovviamente, un’invenzione per essere brevettata deve anche essere rappresentabile graficamente.
La tutela giuridica dell’invenzione ha carattere sia patrimoniale che morale. L’inventore ha diritto ad essere
riconosciuto autore dell’invenzione e tale diritto morale lo acquista per il solo fatto dell’invenzione. Il brevetto per
invenzione industriale è concesso dall’Ufficio brevetti a seguito di una domanda che deve essere corredata di
descrizione dell’invenzione e di rivendicazione, ovvero in cui si deve specificare ciò che deve formare oggetto del
brevetto. Tutto ciò che nascondo nel processo di brevettazione non verrà tutelato dal brevetto, quindi se voglio
avvalermi del brevetto devo presentare tutto.
Il vantaggio della brevettazione sa nel fatto che essa impedisce agli altri operatori di mercato di produrre il
medesimo prodotto/servizio o di adottare il medesimo procedimento. La brevettazione di un’invenzione ha
solitamente una durata di 20 anni (esclusa ogni possibilità di rinnovo), ma si riduce a 10/15 in alcuni casi. Nel
momento in cui scade il brevetto, l’invenzione diventa pubblica, in modo tale che anche un altro imprenditore
possa arrivare alla stessa invenzione. Il diritto di esclusiva che deriva dal brevetto può venire meno anche prima
della scadenza di esso: questo avviene in caso di nullità o di decadenza del brevetto.
Diritto di esclusiva: il brevetto concede al titolare la facoltà esclusiva di attuare l’invenzione e di trarne profitto nel
territorio dello stato esclusiva: di fabbricazione, di commercio (che si esaurisce con la prima immissione in
circolazione del prodotto) e importazione dei prodotti cui l’invenzione si riferisce. Se l’invenzione che si vuole
brevettare è un’invenzione di procedimento, l’esclusiva copre solo l’applicazione del nuovo procedimento e la
messa in commercio del prodotto.
Trasferimento del brevetto: è liberamente trasferibile sia fra vivi che mortis causa e lo si può trasferire
indipendentemente dal trasferimento dell’azienda. Sul brevetto si possono costituire diritti reali di godimento o di
garanzia. Il titolare del brevetto può inoltre concedere licenza d’uso dello stesso con o senza esclusiva di
fabbricazione a favore del licenziatario.
L’invenzione brevettata è tutelata con sanzioni civili e penali il titolare del brevetto:
Può esercitare azione di contraffazione nei confronti di chi sfrutta l’invenzione abusivamente;
Ha diritto al risarcimento dei danni subiti sia patrimoniali che morali;
Può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione.
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Oltre al brevetto che concede il diritto di esclusiva sul territorio nazionale abbiamo anche un brevetto autonomo e
unitario che è il brevetto unitario europeo (o brevetto europeo con effetto unitario) questo ha carattere
sovranazionale, unitario ed autonomo.
L’invenzione non brevettata: l’inventore può astenersi dal brevettare il proprio trovato e decidere di sfruttarlo in
segreto: così facendo corre il rischio che qualcun altro arrivi a brevettare la stessa invenzione prima di lui
conseguendone il relativo diritto di esclusiva (tra due inventori prevale chi ha per primo presentato la domanda di
brevetto). La disciplina prevede però una tutela (limitata) di chi ha fatto uso di un’invenzione senza brevettarla
chiunque ha fatto uso dell’invenzione nella propria azienda, nei 12 mesi anteriori al deposito dell’altrui domanda
di brevetto, può continuare a sfruttare l’invenzione stessa nei limiti del pre-uso.
Il tema delle invenzioni industriali porta con sé varie problematiche, che spesso sfociano anche nell’etica, nel
sociale ad esempio spesso nel campo farmaceutico si pone spesso il problema se è giusto dare il brevetto a
determinate invenzioni. La ratio giuridica del brevetto dell’invenzione è però quella di incentivare coloro che
fanno ricerca e sviluppo a continuare a farlo.
L’invenzione del dipendente nel caso normale l’imprenditore assume dei soggetti specifici per svolgere attività
di ricerca e sviluppo. Se tali soggetti riescono a fare un’invenzione i diritti patrimoniali e di proprietà
dell’invenzione spettano all’imprenditore perché essi erano remunerati per la loro attività di ricerca (l’unica cosa
che spetta ai dipendenti in questo caso è la titolarità morale dell’invenzione). Ci sono però delle eccezioni:
Un dipendente non viene assunto per scopo di ricerca e sviluppo, ma svolgendo il proprio lavoro arriva lo
stesso a un’invenzione la titolarità dell’invenzione spetta sempre all’imprenditore, ma al dipendente
dovrà essere riconosciuto un equo compenso che dovrà essere dato dall’imprenditore o dal giudice;
Un dipendente raggiunge un’invenzione senza che questa abbia alcun collegamento con la sua attività
operativa tutti i diritti sono del dipendente, l’imprenditore avrà solo diritto di prelazione sull’acquisto
dell’invenzione in caso di vendita della stessa, ma la dovrà pagare a prezzo di mercato.
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Il modello di concorrenza perfetta prevede la contemporanea presenza sul mercato di numerose imprese in
competizione tra loro, nessuna delle quali sia singolarmente in grado di condizionare il prezzo delle merci
vendute, piena mobilità dei fattori produttivi e assenza di barriere all’entrata.
La concorrenza perfetta è appunto solo un modello ideale e teorico perché spinge verso una riduzione dei costi e
dei prezzi di vendita; assicura la naturale eliminazione dal mercato delle imprese meno competitive; stimola il
progresso tecnologico e l’accrescimento dell’efficienza produttiva.
Nella realtà si vengono spesso a creare situazioni di oligopolio (mercato caratterizzato dal controllo dell’offerta da
parte di poche grandi imprese al fine di limitare la reciproca concorrenza).
Le imprese arrivano anche al punto da controllare l’intera offerta di un dato prodotto (monopolio di fatto). Fissato
il principio guida della libertà di concorrenza (art. 41 Cost.) il legislatore italiano:
1. Consente limitazioni legali della concorrenza per fini di “utilità sociale” e la creazione di monopoli legali in
specifici settori di interesse generale
2. Consente limitazioni negoziali della concorrenza nel rispetto della libertà di iniziativa economica attuale e
futura
3. Reprime gli atti di concorrenza sleale
Per lungo tempo il sistema italiano della concorrenza è stato sprovvisto di una normativa antimonopolistica.
Questo vuoto è stato colmato dalla legge 287/1990, recante norme per la tutela della concorrenza del mercato.
Con la legge 287/1990 è stata istituita l’Autorità garante della concorrenza del mercato, che vigila sul rispetto
della normativa antimonopolistica generale, adotta i provvedimenti antimonopolistici necessari ed irroga le
sanzioni amministrative e pecuniarie previste dalla legge.
Tre sono i fenomeni rilevanti per la disciplina antimonopolistica nazionale e comunitaria:
Le INTESE (o cartelli) sono comportamenti concordati fra imprese, anche attraverso organismi comuni, volti a
limitare la libertà di azione sul mercato.
Non tutte le intese anticoncorrenziali sono vietate: sono vietate le intese che abbiano per oggetto o per effetto di
impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato o in una sua parte rilevante; sono
lecite invece le intese minori in quanto non incidono in modo rilevante sull’assetto concorrenziale del mercato.
(art.4 l. 287/1990) Peraltro il divieto di intese anticoncorrenziali non ha carattere assoluto: l’Autorità può
concedere esenzioni temporanee purché si tratti di intese che migliorano le condizioni di offerta del mercato o
producono un sostanziale beneficio per i consumatori.
Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto e chiunque può agire in giudizio per farne accertare la nullità, così che
l’Autorità a sua volta possa adottare i provvedimenti per la rimozione degli effetti anticoncorrenziali generati ed
irrogare le relative sanzioni pecuniarie. (può ridurre o non applicare la sanzione alle imprese che, ravvedendosi,
forniscano informazioni utile o decisive per la scoperta di un’intesa illecita di cui hanno fatto parte – legge
248/2006 c.d. “programmi di clemenza”).
Qualsiasi danneggiato può agire per il risarcimento davanti alla magistratura ordinaria, secondo una speciale
disciplina introdotta dal D.lgs. 3/2017 (applicabile anche agli abusi di posizione dominante, no concentrazioni).
Il diritto al risarcimento si prescrive in cinque anni dal momento della cessazione del comportamento illecito, ma il
termine inizia a decorrere solo dopo che il danneggiato sia venuto a conoscenza del fatto lesivo e dell’autore di
tale violazione. (art. 8)
L’attuale disciplina agevola l’onere probatorio del danneggiato con presunzioni e speciali mezzi di ricerca prove: la
violazione si ritiene definitivamente accertata quando il provvedimento dell’Autorità garante non è più
impugnabile oppure è stato confermato in sede di ricorso con sentenza passata in giudicato.
Quando la violazione del diritto di concorrenza consiste in un cartello, l’esistenza del danno è presunta salva
prova contraria; se il danno non è provato nel suo preciso ammontare, il giudice può determinarlo in via
equitativa.
Ciascuna parte può chiedere al giudice di ordinare alla controparte o ad un terzo l’esibizione delle prove di cui
dispone e le eventuali informazioni contenute nel fascicolo aperto dall’Autorità garante sia pure con alcuni limiti
fissati dall’art. 4
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Il secondo fenomeno è L’ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE da parte di una o più imprese (art. 3 legge 287/1990 e
102 TFUE).
Vietato non è il fatto in sé dell’acquisto di una posizione dominante sul mercato, ma lo sfruttamento abusivo di
tale posizione con comportamenti capaci di pregiudicare la concorrenza effettiva.
Una posizione tale per cui l’impresa non è price-taker, ma price-maker, può agire dunque liberamente in relazione
alla quota di mercato posseduta (maggiore del 40%);
Quando un’impresa con posizione dominante ne abusa?
- Pone prezzi o condizioni contrattuali ingiustamente gravose
- Impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo tecnico o il progresso
tecnologico, a danno dei consumatori (non è vietato ad un’impresa in posizione dominante di generare sviluppo
tecnico).
- Applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti.
- Subordinare la conclusione dei contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti (contratti collegati –
fenomeno per cui l’impresa in posizione dominante pone un’ulteriore condizione non giustificata per concludere
un determinato contratto)
Il divieto di abuso di posizione dominante non ammette eccezioni (a differenza delle intese che possono avere
esoneri da parte dell’Autorità Garante).
Accertata infrazione, l’Autorità competente ne ordina la cessazione, irroga le sanzioni pecuniarie e, in caso di
ripetuta inottemperanza, può anche disporre la cessazione dell’attività d’impresa fino a 30 giorni (art. 15).
L’abuso di stato di dipendenza economica consiste nella “situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare,
nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi” (art. 9 legge
191/1998, nel testo modificato dalla legge 57/2001).
Al di là della rilevanza dominante dell’impresa, si ha un rapporto one to one: spesso nei settori automobilistici.
In questo caso il patto è nullo ed espone al risarcimento dei danni nei confronti dell’impresa che ha subito l’abuso.
La l. 287/1990 non fornisce una definizione generale di CONCENTRAZIONE, preferendo invece indicare le varie
fattispecie attraverso le quali si può realizzare tale operazione.
In particolare, si ha concentrazione quando:
- più imprese si fondono e danno luogo ad un’unica impresa (concentrazione giuridica);
- due o più imprese, pur restando giuridicamente distinte, diventano un’unica entità economica;
- Due o più imprese indipendenti costituiscono un’impresa societaria comune;
Le concetrazioni costituiscono un utile strumento di ristrutturazione aziendale e non sono di per sé vietate: sono
vietate quando comportano la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante sul mercato in modo da
ridurre sostanzialmente e in maniera durevole la concorrenza.
È perciò stabilito che le operazioni di concentrazione che superano determinate soglie di fatturato, a livello
nazionale o comunitario devono essere preventivamente comunicate all’Autorità italiana o alla Commissione
europea.
In presenza di rilevanti interessi generali dell’economia nazionale, l’Autorità può, in via eccezionale, autorizzare
anche concetrazioni vietate, in conformità dei criteri generali fissati preventivamente dal Governo (art. 25 legge
287/1990).
In relazione alle sanzioni pecuniarie, esse possono giungere fino al 10% del fatturato delle imprese interessate e
vengono inflitte dall’Autorità se la concentrazione vietata viene comunque eseguita o se le imprese non si
adeguano a quanto dallo stesso prescritto per eliminare gli effetti anticoncorrenziali della concentrazione.
RATIO: La finalità è quella di tutelare i soggetti che assumono convenzionalmente l’obbligo di non concorrenza,
evitando un’eccessiva compressione della loro libertà individuale di iniziativa economica.
Esempi classici di patti limitativi della concorrenza sono:
1. i cartelli
2. i consorzi anticoncorrenziali
La concorrenza sleale:
Ciascun imprenditore gode di ampia libertà di azione e può porre in essere le strategie economiche che ritiene più
proficue, non solo per attirare clienti ma anche per sottrarli alla concorrenza.
È necessario però distinguere fra comportamenti concorrenziali leali e comportamenti sleali.
Nello svolgimento della competizione fra imprenditori concorrenti è vietato servirsi di mezzi e tecniche non
conformi ai principi della correttezza professionale e gli atti o i fatti che non soddisfano questo requisito vengono
considerati atti di concorrenza sleale.
È tutelato anche l’interesse generale dei destinatari finali della produzione: i consumatori. Per tutelare le esigenze
di questi è stata introdotta nel Codice del consumo una disciplina contro tutte le pratiche commerciali scorrette
(che possono indurre il consumatore medio ad assumere le decisioni commerciali che altrimenti non avrebbe
preso).
È un atto di concorrenza sleale ogni atto idoneo a creare confusione con i prodotti o con l’attività di un
concorrente (art. 2598). È lecito attrarre a sé l’altrui clientela, ma non è lecito farlo avvalendosi di mezzi che
possono trarre il pubblico in inganno. Molteplici sono le tecniche o le pratiche che l’imprenditore può porre in
atto per realizzare la confondibilì dei propri prodotti:
1. Uso di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente
usati da altri imprenditori concorrenti
2. Imitazione servile dei prodotti di un concorrente (riproduzione delle forme esteriori dei prodotti altrui).
La seconda vasta categoria di atti di concorrenza sleale comprende:
- gli atti di denigrazione che sono notizie e giudizi sui prodotti e sulle attività di un concorrente idonei a
determinarne il discredito;
- appropriazione di pregi dei prodotti o delle imprese di un concorrente.
Esempio di concorrenza sleale per denigrazione è la pubblicità iperbolica con cui si tende ad accreditare l’idea che
il proprio prodotto sia il solo a possedere determinati pregi (non oggettivi) che invece vengono implicitamente
negati ai concorrenti.
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- Per quanto riguarda la pubblicità comparativa, la comparazione è lecita quando è fondata su dati veri e
oggettivamente verificabili, non genera confusione sul mercato e non comporta discredito o denigrazione del
concorrente.
- La pubblicità menzognera è la falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità o pregi non appartenenti ad alcun
concorrente (quindi non inquadrabile nella figura tipica dell’appropriazione di pregi).
Altre forme di concorrenza sleale sono:
- concorrenza parassitaria (sistematica imitazione di prodotti, marchi, campagne pubblicitarie altrui, sia pure con
accorgimenti tali da evitare la piena confondibilità delle attività;
- dumping (sistematica vendita sottocosto dei propri prodotti finalizzata alla eliminazione dei concorrenti);
- storno di dipendenti (sottrazione ad un concorrente di dipendenti particolarmente qualificati attuata con mezzi
scorretti come ad esempio fornire false notizie sulla situazione economica del concorrente).
3. IL CONTRATTO DI CONSORZIO:
Il contratto di consorzio ha come solo requisito soggettivo, quello di essere stipulato SOLO fra imprenditori; è un
contratto formale, ex art.2603 deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità e deve contenere indicazioni
relative a:
-Determinazione dell’oggetto del consorzio
-obblighi assunti dai consorziati
-eventuali contributi in denaro dovuti da essi per il suo funzionamento.
Se si tratta di un consorzio di contingentamento deve altresì stabilire le quote dei singoli consorziati o i criteri di
determinazione delle stesse.
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Il contratto di consorzio è un contratto di durata, in caso di mancato previsione ex art.2604 è valido SEMPRE per
10 anni, in deroga all’art.2596 (—> fissa a 5 anni la durata massima dei patti limitativi della concorrenza).
È un contratto tendenzialmente aperto, NON è necessario il consenso di tutti gli attuali consorziati; ex art.2603 le
condizioni per l’ammissione dei nuovi imprenditori devono però essere predeterminate nel contratto.
Ex art.2610, salvo diversa pattuizione, il trasferimento dell’azienda comporta l’automatico subingresso
dell’acquirente nel contratto di consorzio; tuttavia se è presente una giusta causa e si tratta di un atto fra vivi, gli
altri membri potranno determinare l’esclusione dell’acquirente.
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6. LE SOCIETÀ CONSORTILI:
Ex art.2247 Consorzio e società sono istituti diversi:
● il consorzio svolge solo attività interna MANCA l’esercizio in comune di un’attività economica—>
elemento essenziale delle società
● il consorzio svolge ANCHE attività con terzi la distinzione (che diventa più sottile) sta nella diversità dello
scopo egoistico perseguito:
1. Scopo societario è ricavare un utile dall’attività con i terzi poi distribuito;
2. Scopo consortile è conseguire un vantaggio patrimoniale diretto sotto forma di minor costi
sopportati o maggiori ricavi conseguiti nella gestione delle imprese (consorzi con attività esterna).
In ogni caso al consorzio non è vietato svolgere attività lucrativa con terzi.
Lo scopo consortile presenta più affinità con lo scopo mutualistico delle società cooperative, che tende a
procurare ai soci un vantaggio patrimoniale diretto, sotto forma di un risparmio si spesa o maggior guadagno
personale; ma si differenzia poiché la mutualità consortile è tipicamente imprenditoriale.
Consorzi e società sono forme associative previste dal legislatore per la realizzazione di società non coincidenti.
In passato per perseguire lo scopo consortile si preferiva dar vita a società per azioni o a società cooperative, per
godere di un regime di responsabilità limitata e di una disciplina dettagliata dell’organizzazione.
Con la riforma della legge 377 del 1976 si è riconosciuta tale possibilità e sebbene non sia stato esplicitato
Campobasso ritiene che si debba guardare alle società consortile come a vere e proprie società assoggettare alla
tipica disciplina.
STRUTTURA E FUNZIONE
La struttura del GEIE coincide con quella dei consorzi di attività esterna: parti del contratto costitutivo del gruppo
possono essere solo persone fisiche o giuridiche che svolgono un’attività economica, ma non necessariamente
imprenditori.
È necessario che almeno due membri esercitino la loro attività economica in stati diversi della comunità.
Il GEIE è un centro autonomo di imputazione di rapporti giuridici distinto dai suoi membri, ma privo di personalità
giuridica.
Anche il GEIE non ha lo scopo di realizzare profitti.
DISCIPLINA
Per quel che riguarda la disciplina del GEIE ci sono delle differenze con quella dei consorzi:
● Il contratto del GEIE deve essere redatto per iscritto, a pena di nullità (come consorzi)
● Nel contratto devono essere indicati almeno: la denominazione del gruppo, la sede, l’oggetto, la durata.
● Il contratto è soggetto a pubblicità legale, mediante iscrizione nel registro delle imprese e pubblicazione
nella gazzetta ufficiale della repubblica e in quella delle comunità europee.
L’organizzazione interna e le regole del GEIE sono rimesse all’autonomia privata, ma sono previsti due organi:
● Un organo collegiale: è l’assemblea.
Le decisioni più importanti devono essere prese all’unanimità, le altre secondo maggioranze richieste.
ciascun membro dispone di un solo voto, ma il contratto può attribuire più voti ad alcuni membri.
● Un organo amministrativo: la gestione è affidata ad uno o più amministratori e può essere nominato
amministratore anche una persona giuridica, che esercita le sue funzioni tramite un rappresentante. solo
a questi spetta la rappresentanza del gruppo verso terzi.
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Le scritture contabili
Il GEIE deve tenere le scritture contabili previste per gli imprenditori commerciali, indipendentemente dalla
natura commerciale o meno dell’attività.
Gli amministratori redigono il bilancio, lo sottopongono all’approvazione dei membri e provvedono a depositarlo
nel registro delle imprese.
In applicazione del principio che il GEIE non ha scopo di realizzazione di profitti per sé stesso, questi vengono
ripartiti tra i membri secondo proporzioni previste dal contratto o, nel silenzio, in parti uguali.
Inoltre, nel GEIE non viene a formarsi obbligatoriamente un fondo, ma tutti i membri devono rispondere
solidamente e illimitatamente delle obbligazioni con il proprio patrimonio.
ogni nuovo membro de gruppo risponde delle obbligazioni anteriori al suo ingresso, salvo patto chiaro opponibile
a terzi, solo se pubblicato.
In caso di insolvenza il GEIE è esposto a fallimento, che non determina l’automatico fallimento dei suoi membri,
ma la richiesta ai membri di estinguere i debiti secondo le proporzioni indicate o in parti uguali.
LA SOCIETÀ SEMPLICE:
1. LE SOCIETÀ DI PERSONE:
La categoria delle società di persone comprende:
● La società semplice (artt.2251-2290): società che può esercitare SOLO attività NON commerciale, è il
regime residuale dell’attività societaria non commerciale.
La società semplice può essere intesa come il prototipo normativo della società di persone, ma con scarsa
diffusione
RUOLO DELLA S.S.
La legislazione speciale ha ampliato il suo ambito di utilizzazione consentendone l’uso per la costituzione
di società tra professionisti.
La sua disciplina è in linea di principio applicabile anche alla collettiva e all’accomandita semplice per i
rinvii operati dal legislatore: artt.2293 e 2315, ma nella pratica la sua disciplina non ha avuto una
significativa diffusione in sostanza infatti essa viene impiegata SOLO per le imprese agricole.
● La società in nome collettivo (artt.2291-2312):
Tipo di società che può esercitare SIA l’attività commerciale che l’attività NON commerciale, è il regime
residuale dell’attività societaria non commerciale.
È in ogni caso soggetta all’iscrizione nel registro delle imprese con effetti di pubblicità legale.
In essa tutti i soci rispondono solidalmente ed illimitatamente per le obbligazioni sociali, sono NULLI
patti contrari (art.2291).
● La società in accomandita semplice (artt.2312-2324):
Tipo di società scelto specificatamente dalla parte e caratterizzata dalla presenza istituzionale di due
categorie di soci:
1. accomandatari, che rispondono solidamente ed illimitatamente per le obbligazioni sociali,
2. accomandanti, che rispondo limitatamente alla quota conferita.
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D.Lgs. 228/2001 costituisce modifica della legge precedente e all’art.2 attribuisce all’iscrizione delle
società semplici esercenti attività agricola funzione di pubblicità legale.
Il contratto può essere concluso verbalmente o risultare da comportamenti concludenti, si parla nel caso di
società di fatto; l’eventuale silenzio delle parti in merito a suoi aspetti essenziali è colmato dal legislatore con
norme suppletive.
Tali pergole però sono soltanto condizioni di regolarità della società -ai fini dell’iscrizione delle stessa al registro
delle imprese- e non di esistenza; si distinguono infatti:
S.n.c. regolari, ISCRITTE nel registro delle imprese e interamente disciplinate dalle norme della S.n.c.
S.n.c. irregolari, NON iscritte nel registro delle imprese e possono essere talvolta disciplinate dalle norme
relative alla S.S. o S.n.c. irregolare.
La libertà di forma trova il suo limite nella richiesta di forme speciali in base alla natura die beni conferiti: in
particolare la forma scritta ad substantiam per beni immobili o diritti reali immobiliari o il godimento a tempo
determinato o per un tempo di oltre 9 anni.
Tuttavia, la forma è richiesta per la sola validità del conferimento, non per la validità del contratto di società,
essa infatti non sarà NULLA a meno che la partecipazione del socio in questione non rivesta carattere essenziale.
Ciò è possibile anche per le società di persone, sia come socio illimitatamente responsabile, sia come
accomandante, ossia limitatamente responsabile.
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In senso contrario NON sono decisive le affermazioni relative all’intuitus personae al presupposto di qualità di
persona fisica dei soci, ma soprattutto che le persone fisiche socie delle società di capitali avrebbero potuto di
fatto gestire direttamente la società di persone sottraendosi alla responsabilità illimitata prevista dalla legge.
Infatti, il solo effetto che si produce in questo caso è una parziale modifica del regime di responsabilità dei soci
della società partecipante, il cui patrimonio potrà essere aggredito solo dopo l’inutile escussione di quello di una e
dell’altra società.
4. I CONFERIMENTI:
Il Principio dell’obbligo del conferimento è ripreso dall’art.2253 per cui: “il socio è obbligato a eseguire i
conferimenti determinati nel contratto sociale”.
Se le parti NON fissano convenzionalmente il conferimento dovuto da ciascuno:
Si presume che tutti i conferimenti debbano essere eseguiti in denaro;
Si presume che i soci siano obbligati a conferire in parti uguali tra loro, quanto necessario per il
conseguimento dell’oggetto sociale.
La determinazione del conferimento non è infatti condizione essenziale per la valida costituzione della stessa
società.
Nelle società di persone conferito ogni bene o servizio suscettibile di valutazione economica ed utile per il
conseguimento dell’oggetto sociale: prestazioni di fare, di dare ed anche di non fare.
Nella prassi giurisprudenziale si ammette quale conferimento anche la semplice responsabilità personale ed
illimitata, per affermare nel caso concreto l’esistenza di una società di fatto, occulta o apparente, se proprio non
si riesce a trovare altro.
IL SOCIO D’OPERA.
Si definisce socio d’opera, il socio che presta la propria attività lavorativa manuale o intellettuale a favore della
società.
Si tratta di un conferimento e NON di lavoro subordinato e questi NON gode delle garanzie previste
dall’ordinamento per quest’ultimo, non ha dunque diritto al trattamento salariale e il suo compenso è
rappresentato dalla partecipazione ai guadagni della società.
Su questi grava il rischio dell’impossibilità dello svolgimento della prestazione, anche per causa a lui non
imputabile e nel caso può per volontà degli altri soci, ma non deve, essere escluso per sopravvenuta inidoneità
(art.2286, c.2)
In sede di liquidazione egli partecipa solo alla ripartizione dell’eventuale attivo che residua DOPO il rimborso del
valore nominale del conferimento ai soci che hanno apportato capitali; a meno che non gli sia pattiziamente
riconosciuto il diritto alla restituzione del valore dell’apporto, che se non determinato è stabilito dal giudice
secondo equità.
Nullo in via di principio è solo il patto leonino con la conseguenza che troveranno applicazione i criteri legali di
ripartizione degli utili e delle perdite suppletivi.
Infatti, ex art.2263:
● Se il contratto nulla dispone, le parti spettanti ai soci nei guadagni e nelle perdite si presumono
proporzionali ai conferimenti;
● Se neppure il valore dei conferimenti è stato determinato, le parti spettanti ai soci si presumono uguali;
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● Se è determinata solo la parte di ciascuno nei guadagni, si presume che nella stessa misura debba
determinarsi la partecipazione alle perdite e viceversa.
Inoltre, si dispone che la parte spettante al socio d’opera se non è determinata è fissata dal giudice secondo
equità; la determinazione della parte di ciascuno può essere demandata ad un terzo che opererà come
arbitratore.
Ex art.2262: Salvo patto contrario, ciascun socio ha diritto di percepire la sua parte di utili dopo l'approvazione del
rendiconto; se il compimento degli affari sociali dura oltre un anno, deve essere predisposto dai soci
amministratori, al termine di ogni anno, salvo patto contrario. La sua approvazione compete a TUTTI i soci, anche
gli amministratori che lo hanno predisposto, ma si discute se a maggioranza o unanimità.
Nelle società di persone, salvo patto contrario, la maggioranza dei soci NON può legittimamente deliberare la
NON distribuzione degli utili accertati e l’autofinanziamento.
Il rendiconto nel caso della S.n.c. in ragione del rinvio operato dall’art.2217 di un vero e proprio bilancio di
esercizio redatto secondo i criteri dettati per le società per azioni.
Per quanto riguarda le perdite, queste incidono direttamente sul valore della singola partecipazione sociale,
riducendolo proporzionalmente, cosicché in sede di liquidazione della società il socio si vedrà rimborsare meno di
quanto conferito.
Prima dello scioglimento le perdite hanno un rilievo solo indiretto: impediscono la distribuzione degli utili
conseguiti dopo, fino al ristoro o alla riduzione del capitale.
7. LA RESPONSABILITÀ DEI SOCI PER LE OBBLIGAZIONI SOCIALI:
Come stabilito dall’art.2267 nella società Semplice e nella S.n.c. delle obbligazioni sociali risponde innanzitutto la
società con il proprio patrimonio, che costituisce la garanzia primaria per i creditori sociali, ma NON esclusiva
dato che rispondono personalmente ed illimitatamente anche i singoli soci.
Tuttavia:
○ Nella società semplice ex art.2267 la responsabilità personale di tutti i soci è un principio
dispositivo parzialmente derogabile: i soci non investiti del potere di rappresentanza possono
essere limitati o esclusi dalla responsabilità, a patto che ciò sia stato reso noto a terzi con mezzi
idonei.
In NESSUN caso può essere esclusa la responsabilità di tutti i soci:
● Nella società in nome collettivo la responsabilità illimitata di tutti i soci è inderogabile, ex art.2291
l’eventuale patto contrario non ha effetto nei confronti dei terzi.
● In entrambe le società per quanto riguarda la responsabilità dei nuovi soci
ex art.2269: Chi entra a far parte di una società già costituita risponde con gli altri soci per le obbligazioni
sociali anteriori all'acquisto della qualità di socio.
● Per quanto riguarda la responsabilità dell’ex socio, ai sensi dell’art.2290:
Nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi sono
responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento.
In tal senso lo scioglimento parziale del rapporto sociale non fa venir meno la responsabilità personale
del socio per le obbligazioni sociali anteriori al verificarsi degli eventi.
Lo scioglimento deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza non è
opponibile ai terzi che lo hanno senza colpa ignorato. Tale norma dettata in materia di società semplice è
da ritenersi applicabile anche alla collettiva irregolare, mentre nella collettiva regolare l’opponibilità ai
terzi delle cause di scioglimento resta soggetta al termine di pubblicità legale delle modificazioni dell’atto
costitutivo.
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● Nella società semplice il beneficio opera in via d’eccezione: il creditore sociale può rivolgersi direttamente
al singolo socio responsabile e questi deve invocare il beneficio, indicando l’onere probatorio ed i beni sui
quali il creditore può agevolmente soddisfarsi, per capienza e prontezza.
● Nella collettiva irregolare il beneficio opera in via d’eccezione come sopra, fermo restando la
responsabilità solidale ed illimitata di tutti i soci.
● Nella collettiva regolare il beneficio opera automaticamente, ex art.2304: “i creditori sociali non possono
pretendere il pagamento dai singoli soci se non dopo l’escussione del patrimonio sociale”.
È necessario che abbiano esperito senza successo l’azione esecutiva sul patrimonio sociale, a meno che
circostanze oggettive già prima dimostrino l’inutilità della stessa.
In ragione della natura solidale della responsabilità, il socio che paga può a sua volta esercitare azione di
regresso:
1. Anzitutto verso la società stessa per l’intero debito, possibilità solo teorica nella collettiva regolare,
2. Poi verso gli altri soci, secondo la misura della partecipazione di ciascuno alle perdite.
Nella pratica i creditori sociali più forti, ad esempio le banche, si fanno rilasciare dai soci specifiche garanzie
personali per sottrarsi ai tempi della procedura di escussione; in passato si è dubitato della loro validità
sostenendo che non ampliassero il potere di aggressione del creditore ma ad oggi si riconosce che si tratta di una
duplicazione dei titoli di responsabilità a vantaggio del creditore.
Nella società semplice e nella collettiva irregolare il creditore personale del socio può anche:
● chiedere la liquidazione della quota del debitore, dovendo però provare che gli altri beni del debitore
sono insufficienti a soddisfare i suoi crediti. Anche in tal caso non si soddisferà sul patrimonio della
società, ma questa sarà tenuta a versargli una somma di denaro corrispondente al valore della quota al
momento della domanda.
Nella collettiva regolare il creditore personale del socio ex art.2305 NON può, finché dura la società, chiedere la
liquidazione della quota del socio debitore.
In caso di proroghe (tacite o espresse) della durata ex art.2307 se espresse può opporsi giudizialmente altrimenti
può compiere atti conservativi.
L’ATTIVITÀ SOCIALE:
MODELLO LEGALE E MODELLI STATUTARI.
La disciplina dell’attività sociale nella ss. e nella Snc si caratterizza per lo spazio lasciato all’autonomia negoziale; è
previsto un modello organizzativo fondato sulla distinzione fra amministrazione e modificazione dell’atto
costitutivo,
basato sui tali principi:
1. OGNI socio illimitatamente responsabile è investito del potere di amministrazione e di rappresentanza
della società;
2. È NECESSARIO il consenso di tutti i soci per le modificazioni del contratto sociale.
Si tratta di principi dispositivi, applicati SOLO se i soci non dispongono diversamente; questo però pone due
problemi di fondo: individuare gli eventuali limiti che i soci incontrano nel moderare la struttura e colmare i silenzi
del legislatore in materia, soprattutto di regole procedimenti nella formazione della volontà di gruppo.
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10. L’AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ:
L’amministrazione della società è l’attività di gestione dell’impresa sociale; il potere di amministrare è quello di
compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale.
Secondo il modello legale (art.2257) ogni socio illimitatamente responsabile è amministratore, ma l’atto
costitutivo può prevedere che siano amministratori solo alcuni.
La rappresentanza è anche processuale: la società può agire e essere convenuta in giudizio in persona dei soci
amministratori che ne hanno la rappresentanza.
Ai sensi degli artt.2266 e 2298 vi è coincidenza fra il potere gestori e il potere di rappresentanza, salvo patto
contrario, la rappresenta spetta a ciascun amministratore disgiuntamente o congiuntamente a seconda della
modalità di esercizio dell’amministrazione.
Il rapporto di amministrazione è autonomo rispetto a quello sociale; diritti ed obblighi degli amministratori, ex
art.2260 sono regolati dalle norme sul mandato, ma sono diversi e più ampi di quelli di un mandatario o
dell’institore.
PoteriEx art.2266: L’amministratore per legge è investito del potere di compiere tutti gli atti che rientrano
nell’oggetto sociale, meno gli atti che comportano modificazioni del contratto sociale stesso.
Doveri Ha doveri specifici: nelle S.n.c. devono tenere le scritture contabili e redigere il bilancio di esercizio e
provvedere agli adempimenti pubblicitari connessi all’iscrizione nel registro; è gravato da specifiche sanzioni
penali anche in caso di fallimento della società.
Gli amministratori hanno il dovere di amministrare con la diligenza del mandatario e sono solidamente
responsabili verso la società per i danni ad essa arrivati; l’azione si prescrive in 5 anni e può essere esercitata da
chi abbia rappresentanza legale o se sono responsabili tutti gli amministratori, da qualsiasi socio.
Ex applicazione dell’art.1709 avranno diritto al compenso per il loro uffici, meno si tratti di conferimenti di soci
d’opera, compenso che può essere costituito da una più elevata partecipazione agli utili.
IL DIVIETO DI CONCORRENZA:
Nella S.n.c. incombe su tutti i soci il divieto di concorrenza stabilito ex art.2301: “Il socio non può, senza il
consenso degli altri soci, esercitare per conto proprio o altrui un'attività concorrente con quella della società, né
partecipare come socio illimitatamente responsabile ad altra società concorrente”.
Il consenso si presume, se l'esercizio dell’attività o la partecipazione ad altra società preesisteva al contratto
sociale, e gli altri soci ne erano a conoscenza.
In caso di inosservanza delle disposizioni del primo comma la società ha diritto al risarcimento del danno, salva
l'applicazione dell'art. 2286 ossia l’esclusione.
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Nella società semplici e nella S.n.c. ex art.2252: “il contratto sociale può essere modificato soltanto con il
consenso i tutti i soci, se non è convenuto diversamente”.
Sono modificazioni anche i mutamenti nella composizione della compagine sociale, dato l’intuitu personae, è
necessario il consenso di tutti gli altri soci, preventivo, espresso o risultante da comportamenti concludenti, per il
trasferimento della quota sociale sia fra vivi che causa di morte o la costituzione di diritti reali sulla quota;
altrimenti sono privi di effetti per la società e gli altri soci.
Giurisprudenza e dottrina sono concordi nell’affermare la libertà di forme, in quanto il metodo assembleare è
superfluo nelle società di persone, data sul piano formale l’assenza di personalità giuridica delle società di
persone e sul piano sostanziale l’esigenza di rapidità ed elasticità delle decisioni.
Considerando le argomentazioni della dottrina minoritaria e quanto stabilito per le società a responsabilità
limitata con la riforma del 2003, secondo Campobasso nelle società di persone i soci sono comunque tenuti a
rispettare una forma embrionale di metodo assembleare, inderogabile, quanto meno per le decisioni a
maggioranza di maggior rilievo.
Abusi procedimentali danno luogo a rimedi di carattere obbligatorio ed interno, risarcimento dei danni e possibile
esclusione dalla società.
IL RECESSO:
Il recesso è lo scioglimento del rapporto sociale per volontà del socio ex art.2285.
Se la società è a tempo indeterminato o è contratta per tutta la vita di uno dei soci, ogni socio può recedere
liberamente con un preavviso di almeno 3 mesi e il recesso diviene produttivo al decorrere di questi.
Se la società è a tempo determinato il recesso è possibile se sussiste una
giusta causa, ossia secondo la giurisprudenza, se è la reazione ad un illegittimo comportamento degli altri soci,
tale da minare la reciproca fiducia. Tale volontà deve essere portata a conoscenza degli altri soci ma ha effetto
immediato; questa possibilità vale anche nel caso di società a tempo indeterminato.
Il contratto sociale può prevedere altre ipotesi di recesso, oltre a quelle stabilite per legge, specificandone le
modalità, ma non può privare il socio di recedere nelle ipotesi previste dal legislatore, quindi inderogabili.
L’ESCLUSIONE:
L’esclusione del socio dalla società può essere:
● Esclusione di diritto, ex art.2288 colpisce il socio:
○ Che sia dichiarato fallito, salvo si tratti di fallimento a causa della società;
○ Il cui creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della quota;
● Esclusione facoltativa, rimessa alla decisione dei soci nei casi previsti dall’art.2286, che possono essere
raggruppati in 3 categorie:
1. Gravi inadempienze degli obblighi che derivano dalla legge o dal contratto sociale: mancata
esecuzione dei conferimenti promessi, violazione del divieto di concorrenza ed anche il
sistematico comportamento ostruzionistico tale da porre in pericolo la vita stessa della società.
2. Interdizione, inabilitazione del socio o condanna ad una pena che comporti l’interdizione, anche
temporanea, dei pubblici offici; eventi che possono determinare sia discredito per la società che
subentro di terzi sgraditi, il tutore o curatore, nell’amministrazione.
3. Sopravvenuta impossibilità di esecuzione del conferimento per causa non imputabile agli
amministratori; perimento della cosa prima del trasferimento, perimento della cosa in
godimento, impossibilità di prestazione per il socio d’opera.
L’esclusione facoltativa è ex art.2287 deliberata dalla maggioranza dei soci calcolata per teste, non contando nel
numero il socio da escludere; deve essere comunicata al socio ed ha effetto decorsi 30 giorni, durante i quali il
socio può fare opposizione di fronte al tribunale, che può respingerla o sospenderne l’esecuzione, stabilendo il
suo reintegro con effetto retroattivo.
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Nel caso in cui la società sia composta da solo 2 soci, allora l’esclusione di un socio è pronunciata direttamente
dal tribunale su domanda dell’atro e opera dal momento in cui la sentenza sia passata in giudicato, salvo
provvedimento d’urgenza.
I liquidatori possono essere revocati per volontà di tutti i soci ed in ogni caso dal tribunale per giusta causa, su
domanda di uno o più soci (art. 2275).
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Non possono intraprendere «nuove operazioni» e, in caso di violazione, essi «rispondono personalmente
e solidalmente per gli affari intrapresi» (art. 2279) nei confronti dei terzi;
Non possono ripartire tra i soci i beni sociali finché i creditori sociali non siano stati pagati o non siano
state accantonate le somme necessarie per pagarli (art. 2280).
ATTIVITÀ DI LIQUIDAZIONE:
I liquidatori procederanno alla vendita dei beni aziendali e ai pagamenti ai creditori secondo la loro discrezione,
nell’interesse della società.
Estinti tutti i debiti sociali, se eventualmente residua un attivo patrimoniale, esso sarà convertito in denaro, salvo
che i soci abbiano convenuto per la ripartizione dei beni in natura, e verrà distribuito fra i soci.
Il saldo attivo di liquidazione è destinato:
Anzitutto, al rimborso del valore nominale dei conferimenti;
L’eventuale eccedenza è poi ripartita tra i soci in proporzione della partecipazione di ciascuno nei
guadagni, in denaro o in natura se è stato così convenuto.
(Nelle S.n.c. i liquidatori devono redigere il bilancio finale nonché il piano di riparto cioè la proposta di
divisione tra i soci dell’attivo residuo).
Per le S.n.c. irregolari la chiusura del procedimento di liquidazione determina l’estinzione della società sempre
che la relativa disciplina richiedente il soddisfacimento di tutti i creditori sia stata rispettata; in mancanza, la
società dovrà considerarsi ancora esistente, anche perché manca un atto formale che segni chiaramente il
momento finale della sua vita.
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