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Mercoledì 16.09.

2020
Corso dedicato all’economia del diritto antitrust. Prenderemo in considerazione il diritto antitrust e lo
analizzeremo alla luce dell’analisi economica.
Il corso è diviso in due:
Parte generale
1) Base giuridica antitrust – diritto antitrust in Italia ed Europa
2) Evoluzione storica del diritto antitrust
Parte speciale
3) Definizione di impresa – organizzazione per eccellenza per l’applicazione antitrust
4) Concetto di mercato antitrust e conseguenze
5) Tre fattispecie e loro categorie:
- Intese
- Abuso di posizione dominante
- Concentrazioni
6) Aspetti procedurali dell’applicazione del diritto antitrust

BASE GIURIDICE DELL’AZIONE ANTITRUST


- Diritto comunitario
1. Articoli 101, 102 e 106 del Trattato di Roma;
2. Regolamento CE n.1/2003;
3. Regolamento CE n.139/2004
- Diritto italiano – legge 287/1990
- Similarità e differenze
- Evoluzione e aggiornamenti della normativa
In sostanza definiamo la situazione attuale del diritto della concorrenza per poi riprendere le radici storiche
ed approfondirne singoli aspetti

PRINCIPALI FATTISPECIE DEL DIRITTO ANTITRUST ODIERNO

TRATTATO DI ROMA
DIVIETO DI INTESE RESTRITTIVE: articolo 101 Trattato di Roma
È un articolo che si occupa del divieto di intese restrittive. Le intese restrittive sono accordi tra imprese. Sono
situazioni in cui le imprese si mettono d’accordo. Per cosa? L’articolo 101 fornisce alcuni esempi.
PRIMO COMMA
“Sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di
associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati
membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza
all'interno del mercato interno”
Le pratiche concordate sono intese come mero comportamento.
L’articolo colpisce accordi formali cioè situazioni in cui le imprese oggettivamente decidono di mettersi
d’accordo e formalizzando l’accordo ma vengono inclusi anche comportamenti concordati. Quindi imprese
che adottano un comportamento parallelo senza una formale riunione, un formale accordo.
Qual è l’elemento importante? Gli accordi non sono di per sé vietati ma sono vietati quando pregiudicano il
commercio fra Stati Membri. Qui e in altre situazioni vedremo come l’obiettivo delle norme Antistrust
europee è quello di fare in modo che non vi siano impedimenti al commercio fra stati membri. Perché questo?
Perché la comunità europea prima, unione europea dopo, nasce proprio per aumentare l’intensità degli
scambi commerciali fra Stati Membri. L’obiettivo economico principale è quello di aumentare gli scambi,

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facilitare gli scambi e quindi anche eliminare gli ostacoli agli scambi tra Stati Membri. Tra questi possibili
ostacoli il legislatore degli anni 50 capì che potevano esserci anche gli accordi fra imprese.
Gli accordi fra imprese sono vietate se pregiudicano il commercio fra stati membri e hanno per oggetto o per
effetto di restringere o falsare il gioco della concorrenza. Il legislatore ha lasciato all’interpretazione della
concorrenza e del gioco della concorrenza.
Per oggetto  è esplicito l’obiettivo di falsare la concorrenza
Per effetto  effetto della pratica messa in atto è quello di falsare la concorrenza
In questa prima parte si fa riferimento al gioco della concorrenza. Che cos’è la concorrenza? Non è una
questione di poco conto. In questo caso il legislatore fa riferimento alla concorrenza in generale cioè a un
mercato in cui impese e consumatori sono libere di effettuare le proprie scelte (massimizzare i profitti –
massimizzare la propria utilità) che vadano nella direzione di una locazione di risorse che massimizza il
benessere di imprese e consumatori.
Nella prima parte della norma il legislatore fa riferimento agli accordi fra imprese, al possibile pregiudizio al
commercio, parla di concorrenza ecc. Il legislatore si sentono però in dovere di proporre qualche esempio.
Quali tipi di accordi sono considerati?

a. fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di


transazione  se le imprese si mettono insieme a fissare un prezzo sostanzialmente ricreano una
condizione di monopolio.
b. limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti = per esempio un
accordo fra imprese teso a fissare la quantità producibile da ciascuna impresa che sta dentro
l’accordo. Oppure una situazione in cui viene fissato un ammontare totale massimo di produzione e
all’interno di questo ammontare si fa una spartizione di quanto le imprese partecipanti all’accordo
possono produrre. Oppure le imprese potrebbero accordarsi per limitare gli investimenti di natura
produttiva o tecnica all’interno di un certo settore in modo da moderare le spese e allo stesso tempo
avere un ottimo risultato di mercato.
c. ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento = alcune imprese potrebbero decidere di assegnare
all’impresa A un mercato francese, all’impresa B un mercato tedesco ecc..
d. applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni
equivalenti, così da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza = FATTISPECIE
DELLA DISCRIMINAZIONE, situazione in cui un’impresa, o gruppo di imprese, pratica prezzi diversi o
condizioni di vendita diverse a soggetti diversi per lo stesso bene o servizio.
e. subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni
supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con
l'oggetto dei contratti stessi = Alcune imprese si accordano per la vendita di un certo bene o servizio
a condizione che gli acquirenti acquistino anche un altro bene o servizio. Si tratta della pratica
commerciale della VENDITA A PACCHETTO.
Questi punti sono tutti esempi di accordi vietati in termini antitrust. Esauriscono i possibili accordi tra impese?
No. Si tratta di un elenco esaustivo? No, le imprese possono accordare i prezzi, possono decidere le condizioni
di vendita ma possono fare altro. Per esempio possono accordarsi per la creazione di società che svolgono
determinate attività, possono accordarsi per lo sviluppo tecnologico in una certa direzione. Quindi l’elenco
va preso come tale. Chi applica le norme è comunque libero di imporre la norma anche in situazioni non
rintracciabili nei 5 punti che il legislatore ha indicato.
SECONDO COMMA: Gli accordi o decisioni, vietati in virtù del presente articolo, sono nulli di pieno diritto.
Le pratiche non sono nulle di pieno diritto perché sono comportamenti.
TERZO COMMA: ECCEZIONI

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Il legislatore stabilisce che le disposizioni precedenti sono inapplicabili per tutti gli accordi fra imprese, a
qualsiasi decisione tra imprese, a qualunque pratica concordata di imprese che abbiamo le seguenti
caratteristiche:
- Contribuire a migliore la produzione o distribuzione dei prodotti
- Promuovere il progresso tecnico o economico
- EVITARE di:
a) imporre alle imprese interessate restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali obiettivi;
b) dare a tali imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti di cui
trattasi.
In pratica a cosa si fa riferimento con il comma 3? A situazioni in cui le imprese si accordano e sviluppano un
processo produttivo particolarmente efficiente che fa risparmiare i costi di produzione e che teoricamente
potrebbe generare benefici per i consumatori. Oppure due imprese si accordano per effettuare
congiuntamente degli investimenti necessari per ottenere una nuova macchina.

Ricapitolando: l’articolo 101 precisa che le intese fra imprese diverse sono vietate perché rischiano di
giudicare il commercio fra stati membri. Il legislatore indica alcuni esempi di accordi tra imprese precisandone
la loro nullità. Infine il legislatore da uno spazio di esenzione al divieto di accordi indicando quali sono le
condizioni affinché questi accordi siano considerati leciti.
Questo articolo è rimasto immutato per molti anni. Nel 2004 è stato adottato dalla Commissione europea un
regolamento. Fino al 2004 solo la Commissione europea poteva stabilire se effettivamente erano verificate
quelle condizioni che permettevano di esentare un accordo dal divieto. Dal 2004 in poi anche giudici e
autorità antitrust nazionali hanno il potere di deroga cioè di stabilire quando si può derogare a questo divieto
di intesa, anche se questo tipo di intervento da parte delle autorità nazionali non è frequente perché molto
spesso gli accordi tra imprese hanno caratteristiche tali che vanno a influenzare il commercio fra stato
membri quindi necessariamente è la Commissione europea a doversene occupare.
Le intese, gli accordi, la collusione è la fattispecie considerata la più dannosa per la concorrenza. Gli altri due
pilastri del diritto antitrust sono l’abuso di posizione dominante e le concentrazioni.
L’articolo nasce negli anni 50. Prima di all’ora gli USA avevano stipulato una legislazione antitrust in cui vi era
il divieto di intese. Il diritto antitrust nasce in sistema capitalistici quindi in sistema in cui le istituzioni
accettano che le imprese e i consumatori possano incontrarsi sul mercato e possano prendere decisioni in
autonomia senza particolari vincoli. Quindi quando si fa riferimento al gioco della concorrenza come in
questo caso, si fa riferimento a un sistema economico in cui prevale la libertà di impresa, la libertà di svolgere
tutta una serie di operazioni per massimizzare il proprio benessere (consumatori) e il proprio profitto
(imprese).
Questo non è scritto nelle norme antitrust perché si dà per scontato che sia così cioè si dà per scontato che
le norme che disciplinano il divieto di intese restrittive sia applicato a un sistema capitalistico in cui i soggetti
economici si comportano liberamente.

DIVIETO DI ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE – Articolo 102 Trattato di Roma


Questo è l’altro pilastro del diritto antitrust.
È incompatibile con il mercato interno e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio
tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul
mercato interno o su una parte sostanziale di questo.
Dunque ciò che è necessario è:
1) Posizione dominante
2) Sfruttamento abusivo di posizione dominante
Per cadere in questo è necessario che un’impresa o un insieme di imprese, o un’organizzazione, abbia una
posizione dominante all’interno del mercato e sfrutti abusivamente questa posizione. Questi due elementi

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devono essere presenti contemporaneamente affinché un certo comportamento cada in questo divieto.
Essere in posizione dominante non è vietato. Ciò che non va bene è sfruttare questa posizione in modo
abusivo. Se non si abusa della posizione dominante non è sanzionabile come comportamento.
Sarà necessario definire il concetto di MERCATO.
L’articolo non definisce né cosa sia una posizione dominante né cosa sia lo sfruttamento abusivo della
posizione dominante. Tuttavia ci sono alcuni esempi di sfruttamento abusivo di posizione dominante
nell’articolo.
Tali pratiche abusive possono consistere in particolare:
a) nell'imporre direttamente od indirettamente prezzi d'acquisto, di vendita od altre condizioni di
transazione non eque = qui si aprono una serie di questioni che vedremo perché si parla di non equità ma
non si dice cosa si intende con questo termine.
b) nel limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori;
c) nell'applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni
equivalenti, determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza;
d) nel subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni
supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l'oggetto dei
contratti stessi.
Dal punto di vista della chiarezza, l’articolo 102 è meno chiaro rispetto al 101. Anche nel 101 ci sono
espressioni poco chiare ma nel 102 ancora di più. Non si definisce cosa è posizione dominante e nemmeno
l’abuso di posizione dominante. Se ne è usciti grazie alla giurisprudenza che ha proposto delle interpretazioni
di questi articoli. I primi giudici hanno proposto delle soluzioni, delle interpretazioni che ovviamente sono
cambiate nel tempo.
Giovedì 17.09.2020
Riepilogo: Stiamo introducendo il diritto antitrust odierno. Mettiamo quindi le basi del corso, l’oggetto del
corso tenendo conto della disciplina europea ed italiana. In particolare stiamo vedendo le fattispecie del
diritto antitrust comunitario. Questo significa eseguire la stessa operazione per l’Italia perché la disciplina
antitrust italiana è scritta sulla falsa riga di quello europeo. Dunque è sufficiente descrivere i principali articoli
del trattato di Roma. Abbiamo visto l’articolo 101 del trattato di Roma riguardo al divieto di intese restrittive.
Siamo rimasti all’articolo 102 che si occupa di abuso di posizione dominante. Stavamo dicendo che questo
articoli utilizza espressioni senza definirle come posizione dominante e abuso di posizione dominante. Grazie
ad alcuni esempi riportati in questo articolo possiamo capire di cosa parliamo. Mancano comunque delle
spiegazioni riguardo al concetto di mercato, di posizione dominante e di abuso che ha richiesto ulteriore
attività da parte di giuristi ed economisti per interpretarle.
A differenza del divieto di intese, nell’articolo 102 non ci sono esenzioni e non esistono. Non è possibile
esentare qualcuno da questo divieto come invece è possibile nel caso delle intese.

CONTOLLO DELLE CONCENTRAZIONI – Regolamento n.139 del 2004

L’altro pilastro dell’azione antitrust sono le CONCENTRAZIONI. Questa fattispecie si colloca su un piano
diverso rispetto alle intese e agli abusi. In primo luogo perché il controllo è preventivo quindi le commissioni
antitrust fanno una valutazione degli effetti di un evento che ancora non si è realizzato mentre nelle intese e
negli abusi riguarda uno o più eventi già verificati. Un altro elemento di distinzione è che a livello comunitario
il controllo delle concentrazioni è disciplinato da un regolamento e non lo ritroviamo nel trattato di Roma. Il
regolamento che disciplina il controllo delle concentrazioni è il n.139 del 2004, si tratta di una riforma, di un
aggiornamento dell’89 che era stato il primo regolamento a disciplinare le concentrazioni in ambito
comunitario. Perché così tardi? Perché l’obiettivo della comunità prima, Unione Europea dopo, era
aumentare la prosperità economica incentivando gli scambi tra i membri della comunità. Inoltre, in
considerazione della situazione in cui gli stati europei si trovavo dopo la seconda guerra mondiale, anche
incentivare la ripresa economica, la formazione di imprese di piccole, medie dimensioni che erano state

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danneggiate o comunque scomparse a seguito della guerra. Si ritenne quindi che adottare fin dagli anni 50
un regolamento che controllasse preventivamente le concentrazioni fosse controproducente. Si ritenne cioè
che sarebbe stato un ostacolo allo sviluppo di realtà produttive importanti europee che potessero competere
sui mercati internazionali alla pari di imprese orientali, imprese statunitense. Venne rimandata
l’approvazione di questo controllo preventivo al 1989, anno in cui fu introdotto un regolamento per il
controllo delle concentrazioni.
QUAL È L’OGGETTO DELLA DISPOSIZIONE?
Le concentrazioni cioè operazioni di fusione o acquisizione che si verificano tra imprese che abbiano una
dimensione comunitaria. Le imprese che partecipano a queste partecipazioni devono avere una certa
dimensione a livello complessivo. Si va a vedere la dimensione in termini di fatturato delle imprese e si
stabilisce se la concentrazione a cui queste imprese partecipano hanno una certa dimensione, superano una
certa soglia dimensionale.
Articolo 2 - VALUTAZIONE DELLE CONCENTRAZIONI
PRIMO COMMA:
Le concentrazioni regolamento sono valutate conformemente agli obiettivi del presente regolamento e alle
seguenti disposizioni per stabilire se siano compatibili o meno con il mercato comune.
In tale valutazione la Commissione tiene conto:
a) della necessità di preservare e sviluppare una concorrenza
effettiva nel mercato comune alla luce, segnatamente, della struttura di tutti i mercati interessati e della
concorrenza effettiva o potenziale di imprese situate all'interno o esterno della Comunità;
b) della posizione sul mercato delle imprese partecipanti, del loro potere economico e finanziario, delle
possibilità di scelta dei fornitori e degli utilizzatori, del loro accesso alle fonti di approvvigionamento o agli
sbocchi, dell'esistenza di diritto o di fatto di ostacoli all'entrata, dell'andamento dell'offerta e della domanda
dei prodotti e dei servizi in questione, degli interessi dei consumatori intermedi e finali nonché dell'evoluzione
del progresso tecnico ed economico purché essa sia a vantaggio del consumatore e non costituisca
impedimento alla concorrenza.
Questi sono elementi che vengono considerati quando si valuta l’operazione di concentrazione.
Perché si deve fare questa valutazione quando le concentrazioni hanno una dimensione comunitaria?
Perché la commissione antitrust possa dire che la fusione può procedere oppure no. Cioè gli effetti negativi
sulla concorrenza del mercato, sul benessere dei consumatori, sul progresso tecnico dovute all’operazione di
concentrazione, sono tali per cui questa attività non può essere autorizzata.

SECONDO COMMA:
Le concentrazioni che non ostacolino in modo significativo una concorrenza effettiva nel mercato comune o
in una parte sostanziale di esso, in particolare a causa della creazione o del rafforzamento di una posizione
dominante, sono dichiarate compatibili con il mercato comune.

TERZO COMMA:
Le concentrazioni che ostacolino in modo significativo una concorrenza effettiva nel mercato comune o in una
parte sostanziale di esso, in particolare a causa della creazione o del rafforzamento di una posizione
dominante, sono dichiarate incompatibili con il mercato comune.
L’elemento centrale di questa valutazione è stabilire la concentrazione crea o rafforza una posizione
dominante. Se la creazione o il rafforzamento di posizione dominante è ritenuta pericolosa per il benessere
dei consumatori in un dato mercato, le operazioni di concentrazioni sono incompatibili con il mercato
comune e non autorizzate. Anche in questo caso si fa riferimento a posizioni dominanti. Per questo staremo
molto tempo a capire cosa sono e come si misurano.
Vedremo che non è proprio così cioè non è che una concentrazione si autorizza o si vieta. Ci sono, soprattutto
in tempo recenti, molte concentrazioni che vengono autorizzazioni sotto condizione.

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Come è possibile che il controllo delle concentrazioni sia preventivo? È possibile perché le imprese che sono
coinvolte nell’operazione di concentrazione, se la concentrazione ha una dimensione comunitaria cioè se il
fatturato delle imprese supera una certa soglia, devono COMUNICARE alla commissione la volontà di
procedere alla concentrazione.
Ecco che nasce il concetto di NOTIFICA PREVENTIVA delle concentrazioni. Le imprese devono stare molte
attente a sé l’operazione di concentrazione a cui stanno per partecipare ha dimensione comunitaria oppure
no. Nel caso di dimensione comunitaria devono comunicarla alla commissione europea. Nel caso italiano vale
la stessa regola con riferimento all’autorità antitrust nazionale.
È obbligatoria la notificazione indipendentemente dagli effetti positivi o negativi.

Articolo 4 – NOTIFICAZIONE PREVENTIVA DELLE CONCENTRAZIONI


PRIMO COMMA:
Le concentrazioni di dimensione comunitaria di cui al presente regolamento sono notificate alla Commissione
prima della loro realizzazione e dopo la conclusione dell'accordo, la comunicazione dell'offerta d'acquisto o
di scambio o l'acquisizione di una partecipazione di controllo.

DIRITTO DELLA CONCORRENZA E IMPRESE PUBBLICHE – Articolo 106 Trattato di Roma


Ultimo articolo che consideriamo nella descrizione delle fattispecie del diritto antitrust è il 106 del Trattato
di Roma che riguarda le imprese pubbliche.
PRIMO COMMA:
Gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui
riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme dei trattati, specialmente a quelle
contemplate dagli articoli 18 e da 101 a 109 inclusi.
Cosa significa? Significa che le norme antitrust contenute nel trattato di Roma sono applicabili a tutte le
imprese, pubbliche e private. Sono applicabili anche a quelle imprese a cui sono riconosciuti diritti speciali
ed esclusivi.
Diritti speciali o esclusivi= non vengono definiti nell’articolo. Ricorso alla giurisprudenza. I diritti speciali
fissano un limite al numero di imprese in un mercato cioè il diritto esclusivo di fornire un certo bene o servizio
è assegnato a più imprese ma con un numero max di imprese a cui è possibile farlo.
I diritti esclusivi creano monopolio legale cioè lo stato attribuisce a un’impresa l’esclusiva per la fornitura di
un certo bene o servizio.
L’articolo 106 al primo comma dice che anche queste impese sono soggette alle norme antitrust. Vedremo
più avanti quali sono i motivi di riconoscimento di questi diritti speciali ed esclusivi.
Quali sono queste imprese? Ci sono alcune imprese che per motivi tecnici, economici particolari hanno una
esclusiva nella fornitura di beni e servizi. Queste possono essere imprese incaricate di gestire servizi di
interesse economico generale. Per esempio come sono state in passato quelle imprese che fornivano servizi
di energia, telecomunicazione, trasporto, servizio postale ecc. Abbiamo tanti casi in cui esiste una sola
impresa che è autorizzata a fornire un certo servizio. Altri casi in cui il numero delle imprese è limitato e solo
quelle possono fornire quei servizi. Perché esistono queste situazioni? Perché esistono motivi tecnico,
economici che giustificano un monopolio legale. Se pensiamo al servizio di telecomunicazione, per molti anni
è stato fornito da un solo monopolista legale perché per distribuire quei servizi, qualunque impresa avrebbe
dovuto sostenere dei costi fissi molto elevati, elemento che va a generare economie di scala e in presenza di
una situazione in cui all’aumentare della scala produttiva i costi medi diminuiscono, è inefficiente che vi siano
più imprese a fornire un certo servizio. In presenza di economie di scala, dovute a infrastrutture rilevanti e
costi fissi molto elevati, la soluzione di mercato più efficiente è quella del monopolio perché un monopolista
realizza un servizio, fornisce un servizio con una scala produttiva molto estesa in grado di abbattere

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fortemente i costi medi di produzione. Qualunque scelta diversa in presenza di 3-4 imprese che forniscono
lo stesso servizio creerebbe inefficienze perché i costi medi sarebbero elevati e anche i consumatori di quel
servizio sarebbero costretti a pagare un prezzo più alto. Pensiamo ai servizi di telecomunicazione, al mercato
dell’energia elettrica, gas, acqua, servizi postali, trasporti. Per esempio il trasporto ferroviario in cui per
fornire servizio sostiene costi fissi molto elevati. Anche nel trasporto ferroviario abbiamo avuto la partenza
di questo servizio con una situazione di monopolio legale. Poi nel corso del tempo queste situazioni
cambiano, cambia la tecnologia, cambia il comportamento dei consumatori e soprattutto i costi fissi elevati
sostenuti per fornire un certo servizio vengono ammortizzati nel corso tempo. Queste situazioni convincono
il legislatore ad abbandonare diritti esclusivi, monopoli legali aprendo alla concorrenza e permettendo a più
imprese di operare sul mercato. Questo è successo in quasi tutti i settori prima citati.
SECONDO COMMA:
Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere
di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei
limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di
fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in
misura contraria agli interessi dell'Unione
Dunque, anche le imprese che forniscono servizi relativi all’energia, alle telecomunicazioni ecc sono
sottoposte a priori alle norme sulla concorrenza. Questa considerazione è importante perché le imprese che
godono diritti speciali ed esclusivi sono anche tenute a fornire i servizi in un certo modo. Pensiamo al
trasporto ferroviario. In genere ci sono tratte molto frequentate e altre dove i passeggeri o merci sono poche.
L’impresa che gestisce una serie di linee ferroviarie, se gode di un certo diritto esclusivo, ha l’obbligo di fornire
il servizio in più aree geografiche di riferimento, sia dove la fornitura garantisce un profitto, sia dove invece
ci sarà una perdita. Se in questi mercati non vi fossero imprese che godono di diritti esclusivi e il mercato
fosse libero concorrenziale, le imprese private si concerterebbero solo sule tratte più redditizie. Quindi è
necessario da un lato sottoporre tutte le imprese, anche quelle pubbliche che godono di diritti speciali ed
esclusive, alle norme antitrust, ma allo stesso tempo non è possibile sottoporre queste imprese alla
concorrenza effettiva di qualunque altra impresa in quei mercarti perché spesso devono anche fornire servizi
che non sono profittevoli.
Da un lato è vero che le norme della concorrenza si applicano a tutte le imprese, dall’altro è necessario in
qualche modo proteggere le imprese che godono di diritti speciali ed esclusivi dalla concorrenza, quindi
esentarli in qualche modo dalle regole antitrust, per far sì che queste imprese possano compiere la loro
missione.
Nell’applicazione delle norme antitrust alle imprese pubbliche, l’autorità antitrust nazionale e le commissioni
devono fare una valutazione tenendo conto del principio di proporzionalità. Quindi se vi sono diritti speciali
ed esclusivi, questi saranno ritenuti illegittimi ai termini delle norme antitrust se il comportano di queste
imprese non ha niente a che fare con l’esigenza di fornire un servizio di un certo tipo. Oppure se nel
perseguire una certa missione le imprese pubbliche eccedono nell’esercizio del loro potere di mercato. Cosa
significa? Torniamo all’esempio del trasporto ferroviario. Le imprese che forniscono trasporto ferroviario
devono farlo anche dove c’è poca gente o poca merce e dove l’impresa va in perdita. Perché continua a
operarci? Perché la stessa impresa opera anche su tratte molto redditizie. Quindi l’impresa ferroviaria, nel
nostro caso Trenitalia, applica un prezzo più elevato sulle tratte redditizie e utilizza una parte di profitto per
finanziare la fornitura del servizio sulle tratte non redditizie. Questo tipo di comportamento è ritenuto lecito
e deve essere ritenuto lecito perché altrimenti non troveremmo nessuno che opera sulle tratte meno
redditizie. Ovviamente deve essere ritenuto lecito POSTO CHE l’impresa non esageri con tale sistema cioè
che Trenitalia non ecceda nel segmento redditizio praticando prezzi eccessivi giustificando che serve per
finanziare le tratte meno redditizie.

Gli articoli del trattato di Roma e quello sul regolamento sono la base odierna del diritto antitrust europeo.

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DIRITTO DELLA CONCORRENZA ITALIANO
Il diritto antitrust italiano è ripreso da quello comunitario. In Italia è stata approvata la legge n.287 del 1990.
In particolare sono gli articoli 2-3-4-6 che si occupano degli argomenti visti precedentemente.
Articolo 2 intese
Articolo 3 abuso di posizione dominante
Articolo 4 controllo concentrazioni
Articolo 6 imprese pubbliche
Dal punto di vista contenutistico la disciplina italiana è identica a quella comunitaria. Il fatto che la legge
italiana sia stata approvata così tardi ,100 anni dopo le norme antitrust dello Sherman Act degli USA, ha fatto
dire quanto tempo ci ha messo lo stato italiano per una disciplina antitrust. Vero che gli italiani arrivano
sempre in ritardo ma comunque il ritardo ci è servito perché abbiamo potuto imparare dall’estero e copiare
alcuni punti delle norme comunitarie.
DIFFERENZE TRA DISCIPLINA COMUNITARIA E ITALIANA: differenze minori e piccole
 Divieto di intese che ritengono la concorrenza in maniera “consistente” e “non significativa”
Articolo 2 legge del 1990  Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto
di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all'interno del
mercato nazionale o in una sua parte rilevante
 Condizioni per derogare al divieto di intese
La disciplina comunitaria stabilisce che le intese (accordi, pratiche concordate) con determinati fini
che hanno per oggetto o effetto la riduzione della concorrenza a livello comunitario sono da evitare.
La disciplina comunitaria prevede anche delle esenzioni cioè gli accordi sono validi purché
comportino miglioramenti produttivi, tecnico ecc. e posto che questi miglioramenti siano ottenibili
dall’accordo tra imprese senza danneggiare o ridurre la concorrenza nel mercato.
Stessa cosa viene detta nella disciplina italiana cioè le intese sono vietate. È possibile che ci siano
delle esenzioni poste certe condizioni. Nel caso italiano si fa riferimento alla possibilità di derogare
al divieto di intese affinché le imprese italiane che partecipano all’accordo non vedano ridursi la loro
concorrenzialità sul piano internazionale. Il legislatore fa riferimento al fatto che bisogna applicare le
norme antitrust purché non riduca la concorrenzialità delle imprese italiane all’estero. Questo è
molto comprensibile. Intanto ci sono de considerazioni da fare:
1) I paesi più avanzati hanno norme antitrust. Le norme sono simili ma i paesi no e specialmente le
imprese non si somigliano, in particolare in termini dimensionali. Negli USA quella che è
considerata una media impresa, in Europa o in Italia è considerata una impresa di maggior
dimensione. Se un’impresa negli USA ha il 30% del mercato, in Italia un’impresa corrispondente
avrebbe una quota di mercato molto superiore. Bisogna tenere conto anche di queste differenze
per valutare le condizioni di concentrazione.
2) Da quando sono state applicate le prime norme antitrust a oggi il mondo è cambiato.
L’integrazione economica tra i paesi è maggiore. Le imprese rispetto a 60 anni fa si fanno
concorrenza sul piano internazionale molto più di prima. Quindi nel valutare accordi tra imprese,
concentrazioni e posizioni dominanti è necessario tener conto del fatto che le imprese italiane,
francesi e tedeschi competono con altre imprese francesi, italiane e tedesche all’interno del
territorio nazionale ma anche all’estero.
 Altre differenze poco significative
Proprio e anche per questo motivo è necessario stabilire quando si applica una legislazione e quando l’altra.
Nel caso dell’Italia, l’autorità antitrust italiana è tenuta ad interpretare le norme italiane sulla base dei principi
europei. Questo è abbastanza semplice perché le due discipline sono identiche. In effetti l’AGCM fa cosante
riferimento alla legislazione e giurisprudenza comunitaria.

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Nella determinazione di quale diritto applicare si utilizza il PRINCIPIO RESIDUALE per cui la legge nazionale
287/90 si applica solo alle fattispecie che non ricadano nell’ambito di applicazione della disciplina
comunitaria. Quindi tutto quello che ricade nella disciplina comunitaria se ne occupa la commissione
europea. Quelle che non ricadono in quell’ambito di applicazione se ne occupa l’AGCM.
Anche qui c’è differenza tra intese, abuso e concentrazioni.
Per le intese e abusi si applica il diritto comunitario a tutte le fattispecie che possono arrecare pregiudizio al
commercio tra gli stati membri. Il controllo di intese e abusi è fatto affinché tali comportamenti non arrechino
pregiudizio agli stati membri. È interesse dell’U.E che il commercio fra stati membri non sia pregiudicato da
queste attività. Il pregiudizio è quasi certo se abusi e intese avvengono in più stati membri. Per esempio se
due imprese di nazionalità diversa si accordano su un prezzo da praticare, quantità da produrre su un insieme
di stati membri. Qui è certo che ci sia un pregiudizio sul commercio fra stati membri. È meno scontato se
intese e abusi sono commessi in un solo stato membro. È meno scontato ma non escluso. Per esempio 5
imprese tedesche possono concludere un accordo o pratica concordata che mira a isolare i consumatori
tedeschi dalle offerte di beni e servizi provenienti dall’estero.
Il pregiudizio deve essere SENSIBILE cioè la quota di mercato delle imprese che partecipano all’accordo o che
compiono un abuso di posizione dominante è di un certo livello. se l’accordo riguarda imprese che hanno
quote di mercato rispettivamente 0,3% e 0,01% in quel caso il pregiudizio al commercio non è più sensibile
o significativo.
infine, se un’autorità nazionale inizia un procedimento su un presunto abuso o una presunta intesa che
possano arrecare pregiudizio al commercio fra stati membri, l’autorità nazionale dovrà applicare
esclusivamente il diritto comunitario. Nel caso italiano non ha grandi effetti perché è uguale a quello
comunitario. Il problema della competenza (nazionale o comunitaria) è più rilevante per quei paesi che hanno
una legislazione antitrust diversa da quella comunitaria.
Per le concertazioni i rispettivi campi di intervento nazionale e comunitario sono definiti da soglie minime di
fatturato. Le soglie di fatturato sono modificate ogni anno, due anni a seconda del cambiamento
dell’inflazione.
Per cui se una concentrazione ha una dimensione comunitaria deve essere notificata esclusivamente alla
commissione europea. Quindi se due imprese italiane procedono alla concentrazione e la dimensione di
questa concentrazione è comunitaria, deve essere comunicato alla commissione europea per evitare che le
imprese, che magari operano su mercati, debbano autorizzazione a più mercati nazionali. Viceversa se quella
concentrazione non ha dimensione comunitaria viene comunicato solo all’autorità nazionale.
COSA SONO LE DIMENSIONI COMUNITARIE DI UNA CONCENTRAZIONE?
È necessario riferisci al regolamento 139 del2004 per le dimensioni comunitarie e alle normative nazionali
per quanto riguarda la dimensione nazionale.
Il regolamento stabilisce che la concentrazione è di dimensione comunitaria quando si verificano o la
situazione A o la situazione B.
ARTICOLO 1
COMMA 2:
Una concentrazione è di dimensione comunitaria quando:
a) il fatturato totale realizzato a livello mondiale dall'insieme
delle imprese interessate è superiore a 5 miliardi di EUR = Da questa frase si deduce che dal dal punto di
vista teorico, l’obbligo di comunicare può riguardare anche imprese non europee e che non hanno alcuna
attività in unione europea. Esempio: due imprese, brasiliana e australiana, hanno un fatturato complessivo
superiore a 5Miliardi di euro e decidono di unirsi attraverso una fusione ma nessuna delle due opera in
Europa. Sono comunque obbligate a comunicare la fusione alla commissione europea. Perché? Intanto
questo deriva dalla lettura della norma ma soprattutto perché operazioni di questo tipo possono risultare
dannose, pericolose per il benessere dei consumatori europei.
b) il fatturato totale realizzato individualmente nella Comunità

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da almeno due delle imprese interessate è superiore a 250 milioni di EU; salvo che ciascuna delle imprese
interessate realizzi oltre i due terzi del suo fatturato totale nella Comunità all'interno di un solo e medesimo
Stato membro = vale questa condizione B posto che le imprese che partecipano alla fusione non si
concentrino prevalentemente all’interno di un unico stato nazionale membro UE.
Dunque queste condizioni indicano le soglie di fatturato oltre le quali le imprese che desiderano realizzare
un’operazione di concentrazione, sono obbligate a comunicare alla commissione le loro intenzioni perché si
tratta di dimensioni comunitarie.
È possibile che la concentrazione deve essere comunicata se si verificano contemporaneamente le condizioni
previste al comma 3 dell’articolo 1. Quindi in quella situazione scatta l’obbligo di comunicare l’operazione di
concentrazione. Ciò significa che la norma vuole verificare che sia in termini di dimensione di imprese,
(fatturato realizzato), sia in termini di localizzazione dell’operazione all’interno della comunità, la
concentrazione ipotizzata abbia una dimensione comunitaria.
Quindi con dimensione comunitaria si indica sia la soglia dimensionale di fatturato delle imprese coinvolte,
sia anche dove stanno, dove realizzano quel fatturato queste imprese all’interno dell’U.E.
COMMA 3:
a) il fatturato totale realizzato a livello mondiale dall'insieme delle imprese interessate è superiore a 2,5
miliardi di EUR; b) in ciascuno di almeno tre Stati membri, il fatturato totale realizzato dall'insieme delle
imprese interessate è superiore a 100 milioni di EUR; c) in ciascuno di almeno tre degli Stati membri di cui alla
lettera b), il fatturato totale realizzato individualmente da almeno due delle imprese interessate è superiore
a 25 milioni di EUR e d) il fatturato totale realizzato individualmente nella Comunità da almeno due delle
imprese interessate è superiore a 100 milioni di EUR; salvo che ciascuna delle imprese interessate realizzi oltre
i due terzi del suo fatturato totale nella Comunità all'interno di un solo e medesimo Stato membro.
Mercoledì 23.09.2020
Riepilogo: Abbiamo affrontato gli elementi fondamentali del diritto antitrust. Abbiamo descritto le
disposizioni normative che definiscono per la maggior parte il diritto antitrust odierno comunitario e italiano.
È indifferente, abbastanza, descrivere il diritto comunitario e italiano perché sono identici. Sicuramente però,
facciamo riferimento al diritto comunitario perché le autorità nazionali anche nell’applicazione del diritto
nazionale devono riferirsi ai principi fondamentali del diritto antitrust comunitari.
Oggi concludiamo con questa parte e iniziamo l’evoluzione storica del diritto antitrust.
Abbiamo visto gli articoli del trattato di Roma che vietano le intese, che vietano l’abuso di posizione
dominante. Abbiamo letto gli articoli e abbiamo visto che contengono alcune ambiguità ed espressioni
generiche che poi devono essere meglio definite in seguito.
Quindi abbiamo visto l’articolo 101 in materia di divieto di intese restrittive, il 102 in materia di abuso di
posizione dominante e il regolamento 139 del 2004 per il controllo delle concentrazioni. Le intese sono
vietate di per sé anche se il legislatore ne ha riconosciuto delle esenzioni. Nell’abuso di posizione dominante
non si prevedono invece eccezioni perché questo è un comportamento illecito adottato da un’impresa che
già è in una posizione particolare, dominante appunto, e quindi non è possibile derogare al divieto. Nel caso
delle intese, la casistica degli accordi e delle pratiche concordate che possiamo osservare nella realtà è così
estesa che ce ne sono alcune che effettivamente potrebbero comportare dei vantaggi in termini di sviluppo
tecnologico, in termini di benessere. Quindi è stato previsto la possibilità di esenzione, posto che l’intesa non
pregiudichi la concorrenza nei mercati e che questi accordi siano capaci di generare un vantaggio
direttamente per il consumatore o per lo sviluppo tecnico o per altri aspetti.
Poi abbiamo visto l’applicazione del diritto antitrust alle imprese pubbliche, o meglio alle imprese che godono
di diritti speciali o esclusivi. In questo abbiamo aggiunto che è vero che alle imprese pubbliche e private si
applica la normativa antitrust ma evitando di impedire alle imprese che godono di diritti speciali ed esclusivi
di compiere la loro missione.
Successivamente abbiamo affrontato il problema della competenza cioè della divisione del lavoro tra
commissione antitrust europea e commissioni nazionali. Viene utilizzato il Principio residuale secondo il

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quale le disposizioni nazionali si applicano alle fattispecie che non ricadono nell’ambito di applicazione della
disciplina comunitaria. Quali sono i criteri per stabilire se una fattispecie ricade nell’applicazione della
disciplina comunitaria? Nel caso delle intese e degli abusi di posizione dominante si utilizza il criterio del
pregiudizio al commercio fra stati membri. Poiché l’U.E è stata creata per favorire il commercio fra stati
membri, quei comportamento sotto forma di intese, di abusi di posizione dominante che vanno a
pregiudicare il commercio fra stati membri ricadono nella disciplina comunitaria. Non è così semplice stabilire
quando c’è questa condizione perché molto spesso in un certo comportamento (accordo, intesa, abuso)
all’interno di un paese membro dell’UE, siamo portati a pensare che non ci sia pregiudizio al commercio fra
stati membri. In realtà il pregiudizio c’è perché un’intesa tra due stati nazionali comporta una chiusura
rispetto a imprese estere e questo va a pregiudicare il commercio.
Nel caso delle concentrazioni si utilizza il criterio dimensionale. Nel caso delle concentrazioni deve essere
definita cosa è una dimensione comunitaria delle concentrazioni. Questo viene fatto in termini di fatturato
delle imprese che sono interessate alla concentrazione. L’articolo 1 del regolamento 139 del 2004, che
riforma il primo regolamento dell’89, definisce le soglie di fatturato. Per cui se le dimensioni, calcolate con il
fatturato totale delle imprese coinvolte, supera una certa soglia quella concentrazione è di dimensione
comunitaria e se ne deve occupare la commissione europea.
Abbiamo anche visto un effetto curioso dell’articolo 1 sulle concentrazioni cioè viene fissato un fatturato di
5 miliardi di euro realizzato a livello mondiale dall’insieme delle imprese interessate della concentrazione,
indipendentemente dalla nazionalità delle imprese interessate e indipendentemente da dove le imprese
interessate svolgono i loro affari, vendono i loro prodotti. Questa norma stabilisce che c’è una operazione di
concentrazione tra due imprese statunitensi che magari non vendono in Europea, per questo articolo la
commissione europea deve occuparsi anche di quello. Il motivo sottinteso è che questo tipo di concentrazioni
potrebbe avere un risvolto anche a livello europeo, gli effetti di mercato anche a livello europeo. Qui ritorna
un’altra differenza tra intese e abusi da un lato, e concentrazioni dall’altro, secondo la quale l’analisi delle
intese e abusi è una valutazione ex post mentre il controllo delle concentrazioni è preventivo, si parla di una
valutazione ex ante.

Nel caso della disciplina nazionale, esistono anche qui delle soglie. Cioè anche a livello nazionale si fissano
periodicamente delle soglie di fatturato oltre le quali le operazioni di concentrazione devono essere
preventivamente notificate all’autorità nazionale, all’AGCM nel caso italiano. Nel caso italiano si è stabilito
nel marzo 2020 che le concentrazioni prive di dimensione comunitaria devono essere notificate quando
l’insieme delle imprese interessate all’operazione di concentrazione realizza un fatturato superiore a 504
milioni di euro o almeno due delle imprese interessate realizzata un fatturato di 30 milioni di euro. Quindi le
due soglie sono alternative e possono creare dei problemi.
Problema principale: impresa che realizza fatturato di 600 milioni di euro in un anno, acquista un’impresa
piccola che realizza 10 mila euro l’anno, l’operazione comunque deve essere comunicata all’antitrust. Questo
significa che c’è il rischio, che effettivamente si verifica nella realtà, che all’autorità antitrust nazionale
arrivino comunicazioni elevate di concentrazioni. In effetti, se chiediamo a qualche dirigente o funzionario
dell’antitrust, quale pratica fa lavorare di più, sono le comunicazioni delle concentrazioni. Molte
concentrazioni saranno soggette all’obbligo di notifica in alcuni stati membri ma non avranno dimensione
comunitaria. Quindi avremo situazioni in cui più autorità nazionali devono occuparsi della medesima
operazione di concentrazione e questo può comportare uno spreco di risorse.
Per risolvere questi problemi era stato proposto di abbassare la soglia per stabilire la dimensione comunitaria
e questo avrebbe ridotto il lavoro a carico delle autorità nazionali ma avrebbe aumentato il lavoro alla
commissione europea, quindi è stata respinta.
Il fatto che possa esserci un eccesso di comunicazione delle concentrazioni, e quindi anche un eccessivo
lavoro da parte delle autorità nazionali rispetto a quelle comunitarie, è un problema relativo perché le
autorità nazionali possono rinviare alla commissione gli esami di concentrazione anche se questa non ha

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dimensione comunitaria così come definita dalle soglie di fatturato viste prima, in particolare quando
l’operazione può pregiudicare il commercio fra stati membri.
Può anche avvenire il contrario cioè che una concentrazione che ha dimensione comunitaria viene
comunicata alla commissione e lei decide di inviare la valutazione della concentrazione all’autorità nazionale
di ino specifico stato membro quando quell’operazione può avere particolari impatti, in termini di
concorrenza interna, di quello stato membro. Questa possibilità è meno frequente della prima.
I medesimi criteri da utilizzare per dividere la competenza, quindi criterio della dimensione comunitaria per
le concentrazioni, e criterio del pregiudizio al commercio per intese e abusi, si applicano anche per valutare
comportamenti al di fuori dell’U.E perché in base a queste norme non è necessario che le imprese che
partecipano alle concentrazioni svolgano la loro principale attività di vendita all’interno dell’UE ma
potrebbero essere molto attive all’esterno.
Oltre alle norme che definiscono il diritto antitrust europeo e nazionale non ce ne sono molte altre.

Aggiornamenti recenti al diritto della concorrenza


Intese:
1) Fino al regolamento n.1 del 2003, le imprese che concludevano accordi tra loro, potevano
comunicare preventivamente alle commissioni antitrust la volontà di stringere quell’accordo e
chiedere l’autorizzazione a farlo, in virtù del trattato di Roma che stabilisce le eccezioni al divieto di
intese restrittive. Dopo il regolamento 1 del 2003 le imprese che desiderano stringere un accordo
con obiettivi produttivi o ricerca e sviluppo possono farlo senza comunicare niente. Il controllo
semmai viene fatto ex post dalle autorità antitrust. In altre parole sono le imprese che in modo
autonomo devono valutare la non concorrenzialità per la stipula degli accordi. Questa è una
variazione introdotta perché arrivavano troppe comunicazione di accordi cioè arrivavano troppe
comunicazioni di imprese che chiedevano di derogare al principio del divieto di intesa. Questo ha
sicuramente ridotto il lavoro delle commissioni.
2) Maggiore attenzione alla divisione del lavoro tra commissione e autorità nazionale. Cioè è stato
aumentato l’interscambiabilità di informazioni tra commissione europea e autorità nazionali. Ed è
anche stata creata la rete dell’antitrust dei paesi membri dell’Unione Europea che consiste
sostanzialmente nello scambio di informazioni e che è fondamentale in tanti casi. Per esempio
quando le imprese devono comunicare l’operazione di concentrazione lo scambio serve perché così
una sola commissione è incaricata di analizzare quell’operazione. Anche questo riduce lo spreco di
risorse.
3) Rafforzamento dei poteri investigativi e decisori e anche la capacità di imporre sanzioni della
commissione e delle autorità nazionali. Cioè le autorità nazionali e le commissioni hanno delle
istituzioni che possono svolgere funzioni investigative. In Italia è la Guardia di Finanza la forza
dell’ordine che lavoro per la commissione antitrust nazionale. Che cosa fa? Può svolgere indagini
presso istituzioni pubbliche e private, all’interno di abitazioni private. Questo tipo di indagine è
importante nelle intese perché queste sono vietate ma in alcuni casi è difficile dimostrare che ci sia
stata l’intesa. Cioè è difficile dimostrare che imprese distinte si siano accordate perché spesso
l’accordo non lascia traccia e se le lascia sono difficili da individuare. Spesso l’autorità nazionale e la
commissione europea possono effettivamente utilizzare molti strumenti per portare avanti le
indagini. Questo è importante soprattutto nel caso del Jeniency programs.
Jeniency programs - programmi di clemenza  sono quei programmi che hanno visto la luce per la
prima volta negli USA alla fine degli 70, nel 78, in cui si pensava ai cartelli e si cercava di trovare degli
strumenti che aumentassero la probabilità di individuare i cartelli. I cartelli sono accordi tra imprese
che hanno come obiettivo quello di cercare di creare una sorta di coordinamento, di parallelismo di
comportamento tra imprese diverse e di ricreare condizioni quasi monopolistiche. Per esempio 5
imprese si riuniscono e stabiliscono che il prezzo di quel prodotto non può scendere sotto 50 euro.

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Altra caratteristica dei cartelli è la segretezza. Le norme vietano questo tipo di accordi e quindi i
cartelli devono essere segreti. Per cercare di far venire fuori questi cartelli, le autorità statunitensi
hanno previsto una sorta di clemenza per quei membri dei cartelli che rivelavano l’esistenza dei
cartelli stessi. Sostanzialmente si riduceva la pena, la multa eventuale che avrebbe dovuto pagare il
membro del cartello che confessava di appartenere al cartello e che quindi dava informazioni
importanti per scoprire quel cartello.
Pian piano questo tipo di programmi si è diffuso in altri paesi e si sono studiati i meccanismi in grado
di aumentare la probabilità di far scoprire i cartelli. Oggi sono diffusi questi programma di clemenza
anche in Europa, anche in Italia seppur deve essere perfezionato. Sono programmi che nascono per
far venire alla luce i cartelli difficili da scoprire proprio perché segreti. Gli abusi di posizione
dominante sono qualcosa di diverso. Un’impresa in posizione dominante non rileva la sua volontà di
commettere l’abuso però è qualcosa che è alla luce del sole, si può osservare da un cliente, da un
consumatore. I programmi di clemenza o programmi di incentivo a dare informazioni possono essere
usati anche in situazione di abuso di posizione dominante. Teniamo conto che sia per le intese che
per gli abusi, il 90% dei procedimenti iniziati dall’autorità antitrust, la nasce, quindi l’istruttoria,
perché qualche soggetto esterno ha segnalato una possibile abuso di posizione dominante o un
possibile cartello. Quindi la segnalazione di abusi e intese dall’esterno è fondamentale per
l’applicazione delle norme antitrust. Senza la collaborazione esterna le autorità antitrust avrebbero
difficoltà ad applicare le norme sulla concorrenza. È possibile per l’autorità antitrust iniziare un
procedimento, iniziare ad indagare in modo individuale cioè aprire di ufficio un’istruttoria ma nel
90% dei casi questo non accade. Le istruttorie vengono aperte da segnalazioni esterne. Chi segnala?
Concorrenti di un’impresa, consumatori, fornitori, clienti, cittadini, altre istituzioni, mass media ecc..
Lo scambio di informazioni tra autorità nazionali è molto importante per i programmi di clemenza
perché magari un paese ha una legislazione antitrust che prevede i programmi di clemenza quindi
spinge il membro del cartello a venire fuori e segnalare l’esistenza del cartello, mentre in un altro
paese non c’è questo programma di clemenza. Questa impresa rischia di entrare in un programma
di clemenza e nell’altro caso sempre rilevando l’esistenza del cartello o facendo venir fuori l’esistenza
di un cartello, rischia di essere condannata. È necessaria comunicazione tra le varie autorità antitrust.
Concentrazioni: le modifiche sono marginali perché il sistema di controllo delle concentrazioni ha funzionato
abbastanza bene. Ci sono stati sviluppi in merito alla procedura di autorizzazione delle concentrazioni, in
particolare negli ultimi 20 anni sono aumentati i casi in cui le operazioni di concentrazione sono autorizzate
sotto condizione. Fino a un certo punto le operazioni di concentrazione erano autorizzate o non autorizzate
poi pian piano si è fatto strada questo processo in cui si chiede alle imprese coinvolte di adottare determinati
comportamenti e se accettano l’autorizzazione viene data.

Dunque possiamo riassumere dicendo che a livello complessivo le norme antitrust si articolano in 3 punti:
1. Divieto di intese
2. Controllo concentrazioni
3. Abuso posizione dominante
In definitiva la ratio delle norme antitrust è quella di ridurre il rischio che si creino nei mercati alcune posizioni
di un’impresa o insieme di imprese e che queste posizioni siano sfruttate eccessivamente a danno dei
consumatori. L’analisi economica, e anche l’esperienza, formazione pratica, ci hanno mostrato che quando
in alcuni mercati si creano posizioni particolari c’è il rischio che le imprese che godono di quella posizione,
sfruttino eccessivamente quella posizione a danno dei consumatori.
Perché possiamo riassumere in questo modo l’insieme delle leggi antitrust? Perché nel caso di abuso di
posizione dominante lo dice la parola cioè si vuole evitare che qualcuno in posizione dominante sfrutti
eccessivamente la posizione. Nel caso di intese, tramite un accordo collusivo più entità giuridiche separate
cercano di comportarsi come un’impresa in posizione dominante. Anche nel caso del controllo delle

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concentrazioni è lo stesso perché un’operazione di concentrazione rischia di creare una posizione dominante
e si vuole fare in modo che quella posizione non venga sfruttato eccessivamente a danno di altri. Alla fine
che si parli di abuso, di intesa o di concentrazione, l’obiettivo è lo stesso.

EVOLUZIONE STORICA DEL DIRITTO ANTITRUST: sviluppo storico


Il suo sviluppo deriva dall’esperienze statunitense. Alla fine del XIX c’è stato negli Stati Uniti un grande
sviluppo industriale. Tanto che alla fine del secolo, dal punto di vista produttivo, gli Stati Uniti hanno superato
l’Inghilterra come potenza mondiale. Questo sviluppo industriale ha riguardato le materie prime,
semilavorati, trasporti, trasformazioni di materie prime ecc. Quello che accadeva alla fine dell’800, era la
formazione di cartelli per controllare i prezzi e produzione. Questo è stato osservato da alcuni rappresentanti,
esponenti all’interno del congresso statunitense che hanno deciso di pensare a una norma antitrust che
impedissero in primo luogo dei cartelli. Si arriva quindi nel 1890 allo Scherman Act , dal nome del relatore
della legge. La legge proibisce ogni contratto, combinazione nella forma di trust, accordi restrittivi dell’attività
economica. Si proibiscono i cartelli, le intese. Dallo Scherman Act in poi, non è possibile mettersi d’accordo
sui prezzi, sui prodotti di mercato ecc perché i cartelli non sono altro che un tentativo di monopolizzare il
mercato. Attraverso i cartelli le imprese si coordinano e si comportano come se fossero un’unica impresa.
Questo non è altro che un tentativo di monopolizzazione. Lo stesso Scherman Act vieta la monopolizzazione
del mercato. Questo è un elemento importante che distingue la disciplina antitrust statunitense da quella
europea. Da questo punto di vista sembra essere più rigida, forte negli USA perché si vieta la
monopolizzazione di un mercato. Come abbiamo visto leggendo gli articoli del trattato di Roma, non è vietato
in europea la monopolizzazione del mercato ma l’abuso di posizione dominante. Negli Stati Uniti le autorità
antitrust controllano anche questi tentativi di rimanere gli unici sul mercato. Come è successo anni e anni
dopo in Europa, anche negli Stati Uniti lo Scherman Act usa dei termini che non definisce. Per esempio accordi
restrittivi di attività economica, monopolizzazione cioè conetti che non trovano una definizione precisa nella
legge. Quello che voleva questo atto voleva fare era di intervenire prontamente e tempestivamente sulla
pratica antitrust che si stava sviluppando a macchia di olio. Lo Scherman Act, come in Europa molti anni dopo,
non prevede una disciplina sulle concentrazioni (fusioni, acquisizioni, controllo di queste operazioni non era
inserito nell’atto). L’atto non diceva solo che gli accordi erano vietati ma vantava anche un risarcimento
danni. Questo testimonia come fosse presente al legislatore l’idea che i cartelli ricreano condizioni di
monopolio e queste condizioni danneggiano clienti, consumatori che una volta accertato il cartello hanno
diritto a essere risarciti. Questo è un elemento di estrema novità se parliamo della prima legge antitrust della
storia del 1890.
L’atto ha generato dei risultati. Quali sono i motivi di fondo?
1) Combattere i cartelli, quello più odioso era di Standard Oil Trust di Rockefeller, modo per combinare
comportamenti di più soggetti che operavano nel settore petrolifero e che portava a una limitazione della
produzione che consentiva di mantenere alto il prezzo del petrolio. In effetti alla fine fu smembrato lo
Standard Oil.
2) La società americana e anche le istituzioni americane erano già in parte permeate dalla consapevolezza
che la concorrenza avrebbe generato vantaggi per la società nel complesso e che i mercati lasciati liberi a sé
stessi avrebbero portato incrementi di benessere per i consumatori e utenti. Quindi permettere all’economia
americana di sfruttare i vantaggi della concorrenza di mercato.
In realtà i reali motivi secondo alcuni autori che si occupano di trust, sono ancora oscuri.
Conseguenze Scherman Act
 Smembramento cartelli più estesi
 Intensi processi di concentrazioni
 Diffusione della cultura di mercato,
 Date le genericità dello Scherman Act e l’assenza di alcune definizioni portarono numerosi contrasti
e controversie sull’applicazione della legge. Questo portò a degli sviluppi della legislazione antitrust.

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Sviluppi legislativi successivi allo Scherman Act
 Clayton Act, 1914  veniva disciplinato il controllo delle concentrazioni, gli accordi di esclusiva cioè
accordi per cui c’è un’impresa a monte e una a valle che ha l’esclusiva di vendita in un certo territorio.
Erano disciplinate le pratiche leganti cioè il fatto di fornire un bene o un servizio soltanto se il cliente
acquistava un altro bene. Infine questo atto considera anche la fattispecie della discriminazione di
prezzo.
 Federak Trade Commission Act ,1914 commissione che si occupa di antitrust così come si occupa
l’Antitrust Division del dipartimento di giustizia. Cioè commissione che affianca l’Antitrust Division.
 Hart-Scott-Rodino Antitrust Improvements Act, 1976  notifica obbligatoria e preventiva delle
operazioni di concentrazioni. Anche oggi come all’ora, se le imprese che vogliono procedere a una
concentrazione superano una certa soglia devono comunicare l’operazione.
Negli Stati Uniti si è andati per gradi per quanto riguarda il tipo di sviluppo.

Tratti caratteristici e distintivi degli Stati Uniti rispetto all’Unione Europea


-Ampio uso di strumenti di analisi economica negli USA: in Italia per molto tempo, l’applicazione del diritto
antitrust è stata portata avanti da giuristi. Gli economisti hanno sempre avuto meno peso. L’analisi
economica fornisce contributi importanti per l’applicazione dell’antitrust, allo stesso tempo molti risultati
sono ambigui e difficili da essere portati nei tribunali. Motivo per cui in Europa limitiamo il contributo degli
economisti all’applicazione antitrust.
-Attenzione maggiore all’efficienza economica negli USA: si va spesso a vedere i risultati finali di una certa
pratica, che sia intesa, abuso di posizione dominante o concentrazioni. Si guarda di più all’effettivo risultato
in termini di efficienza economica.
-Negli USA c’è una dipendenza dal potere politico data dalle modalità di formazione della FTC e de Doj. Inoltre
c’è una ciclicità degli interventi. Il concetto di fenomeno cresce in caso di espansione economica e diminuisce
in caso di recessione economica. C’è una sorta di ciclicità degli interventi antitrust: quando l’economia va
bene abbiamo più interventi antitrust, quando invece l’economia va male gli interventi antitrust si riducono.
Giovedì 23.09.2020
Stavamo confrontato gli aspetti della legislazione antitrust statunitense da quelli europei.
La differenza sta più che altro nella procedura, nelle modalità, nella prassi dell’applicazione del diritto
antitrust. Negli USA si fa un maggior uso degli strumenti di analisi economica. Questo non stupisce perché
negli USA l’analisi economica si è sviluppata in modo intenso alla fine dell’800, inizi 900, soprattutto nel
percorso del 900. È natura che l’analisi economica sia utilizzata negli Stati Uniti. C’è una differenza in termini
di organi. In Europa e in vari stati membri dell’UE c’è un organo che si occupa di antitrust mentre negli USA
ce ne sono due di agenzie federali (FTC e Doj cioè dipartimento di giustizia). Negli USA c’è una maggiore
ciclicità degli interventi cioè quando l’economia va bene l’antitrust è più operativa mentre quando l’economia
va male l’antitrust è più timido nell’intervenire.
C’è un’influenza maggiore delle autorità antitrust nei confronti delle autorità di settore cioè quelle autorità
che regolano i vari settori. Nel sistema statunitense l’antitrust è più incisiva nel suggerire interventi di
regolamentazione e deregolamentazione a queste autorità mentre in Europa c’è minore collaborazione da
questo punto di vista. Le autorità sono indipendenti dal potere politico e anche l’una dall’altra.
Negli USA è molto più diffusa l’azione da parte di cittadini privati all’autorità antitrust per segnare casi di
intese, di cartelli o abusi di posizione dominante. Negli USA non c’è l’abuso di posizione dominante ma c’è il
divieto di monopolizzare un mercato. Ci sono casi in cui l’azione antitrust viene stimolata dai singoli stati,
cosa che non avviene molto in Europa. Di tanto in tanto i Governi nazionali fanno degli interventi per
stimolare e suggerire l’attività antitrust ma in modo limitato. Infine, negli USA c’è la possibilità di infliggere
sanzioni penali di fronte a illeciti antitrust particolarmente gravi. In Europa ci sono sanzioni amministrative,
multe ma non è previsto il carcere per reati antitrust gravi.

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Diritto antitrust in Europa: come si è sviluppato?
Nel nostro continente, come nel caso statunitense, si sono creati molti cartelli. Tra l’altro in alcuni casi erano
proprio i governi centrale a incentivare la creazione dei cartelli per riprendersi dalla crisi dovuta al secondo
conflitto quindi per stabilizzare l’economia e la sua crescita. Ci si è resi conto che non potevano essere
tollerati più tanto questi cartelli e quindi si è iniziato a fare alcuni esperimenti di tutela della concorrenza. In
particolare la CECA nel 1951, prevedeva divieti di abusi di posizione dominante, divieti di intese e di controllo
delle concentrazioni.
A livello nazionale ci sono stati paesi che prima di altri hanno introdotto delle norme antitrust come Francia,
Olanda, Belgio, Germania anche se non erano molto applicate perché la necessità era quella di far ripartire
l’industria e sicuramente quelle norme avrebbero rallentato questo fine.
Il diritto comunitario nasce con il Trattato di Roma del 1957 che contiene gli articoli visti nella parte
introduttiva (101, 102, 106). La comunità economica europea nasce in corrispondenza del trattato. Oggi si
parla di Unione Europea ma le norme sulla concorrenza sono in vigore tutt’ora e sono le stesse. Tramite
l’introduzione delle norme antitrust nel trattato di Roma vi è il riconoscimento dei benefici della libera
concorrenza. Attraverso le norme i paesi che hanno fondato la CEE riconoscono, anche se indirettamente, i
benefici della libera concorrenza.
Quindi si fa una scelta netta quella per cui la concorrenza sui mercati conduce a questi risultati Efficiente
allocazione delle risorse, maggiore qualità e varietà di beni e servizi , prezzi più bassi.
In sostanza si riconosce la superiorità della libera concorrenza rispetto al controllo centralistico
dell’economia. Ovviamente una libera concorrenza che nel caso europeo, più in particolare nei singoli stati
nazionali membri, è una concorrenza regolata. Quindi da un lato c’è il riconoscimento delle norme antitrust,
libera concorrenza ma allo stesso tempo rimangono una serie di regole che disciplinano il comportamento
delle imprese nei vari mercati. Comunque già avere delle norme di questo contenuto nel 1957 è una enorme
testimonianza della fiducia delle istituzioni europee nei confronti del libero mercato. Nel trattato di Roma
troviamo la disciplina sulle intese, sull’abuso di posizione dominante, imprese pubbliche in cui troviamo degli
accorgimenti della normativa antitrust. Nel trattato di Roma non troviamo invece il controllo delle
concentrazioni perché al momento l’idea era quella di spingere le imprese a unirsi, concentrarsi per ricreare
un sistema economico e autonomo e non dipendenti da paesi non colpiti dalla guerra.
La differenziale sostanziale era che in Europa la tutela della concorrenza era funzionale alla formazione di un
mercato comune. Il che significa che l’integrazione politico-istituzionale tra i paesi europei era funzionale
all’integrazione economica tramite la libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone. Questo aspetto
è un altro riconoscimento dei vantaggi del libero mercato nei confronti dei mercati dove la concorrenza non
è libera. Se lo scambio è libero ciò conduce a un miglioramento delle condizioni di benessere di tutti, cittadini,
consumatori e clienti.
Per quanto riguarda lo spostamento di merci, persone e capitali c’è stato bisogno di un po' di tempo prima
di arrivare a una creazione di mercati dove capitali si possono spostare liberamente e poi ancora dopo la
creazione di un contesto dove sono le persone che possono spostarsi liberamente da un paese all’altro.
L’idea era che più scambi c’erano all’interno della CEE, maggiore sarebbe stato il benessere dei cittadini.
La tutela della concorrenza in Europa funziona per questo cioè bisogna fare in modo che la concorrenza sia
tutelata perché altrimenti si creano degli intoppi alla formazione del mercato comune. Negli USA questo non
è il punto centrale perché la libera circolazione di capitali, persone e merci tra gli Stati Uniti di Americana era
già possibile.
Il diritto della concorrenza in Europa si articola in intese, abuso di posizione dominante e concentrazioni.
Abbiamo visto che ci sono state integrazioni agli articoli del trattato avvenuti successivamente. Per esempio
i regolamenti della commissione europea che hanno disciplinato il controllo delle concentrazioni.
In Europa oltre agli articoli del trattato, oltre ai regolamenti della commissione, consiglio e parlamento
europeo, ci sono anche le sentenze. Questo non stupisce proprio per l’eccessiva genericità e vaghezza di

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alcune espressioni usate nelle normative che hanno costretto i vari Tribunali, le varie corti europee hanno
formulato sentenze che contenessero definizioni, spiegazioni.

Diritto antitrust in Italia: sviluppi storici


La normativa italiana nel diritto antitrust è del 1990, la numero 287. Il motivo principale del ritardo è quello
per cui l’Italia era stata molto di più rispetto agli altri paesi distrutta dalla seconda guerra mondiale. Quindi
si doveva far riorganizzare le imprese in modo libero da vincoli di natura antitrust.
C’è stato anche un conflitto parlamentare. Il dibattito sulla possibile legge antitrust italiana è iniziato negli
anni 60 ma era troppo presto. L’industria italiana aveva ancora bisogno di tempo per riprendersi e infatti le
posizioni nel parlamento sul tema erano eterogenee. Si è arrivata all’approvazione della legge n.287 del 1990.
Inoltre un altro motivo per cui la legge è stata approvata nel 1990 e non si poteva andare più lontani, era per
l’approvazione del regolamento che disciplinava il controllo delle concentrazioni del 1989. Quindi era
necessario anche a livello nazionale avere una normativa antitrust. Infine, anche in vista del completamento
del mercato unico interno del 1992.
Il ritardo ha permesso al legislatore italiano di copiare la legislazione europea. Se confrontiamo gli articoli
della 287 del 1990 con quelli della normativa comunitaria troviamo più o meno le stesse espressioni. Inoltre
il ritardo ha permesso di introdurre proprio nella legge 287 del 1990 il controllo delle concentrazioni. Quindi
nella stessa legge abbiamo intese, abusi e concentrazioni.
In Italia i giudici ordinari possono applicare il diritto nazionale della concorrenza ma non è frequente visto
che ci sono le autorità nazionali antitrust che si occupano di questo.

ELEMENTI GENERALI DEL DIRITTO ANTITRUST: aspetti generali


L’OGGETTO DELL’AZIONE ANTITRUST: le imprese
L’oggetto del sistema economico sul quale si concentra l’azione antitrust è l’IMPRESA. Le norme che abbiamo
visto, intese, abusi, concentrazioni si applicano alle imprese ma non si definisce cosa sia.
DEFINIZIONE: qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica, che offra beni e servizi in un determinato mercato,
indipendentemente dal suo status giuridico o dal modo in cui è finanziata; quindi qualsiasi attività, non
necessariamente a scopo di lucro (ma suscettibile di esserlo), che possa essere svolta in regime di concorrenza
cioè in un mercato in cui vi possono essere più operatori. È una definizione che lascia fuori poca roba perché
secondo questa definizione, possono essere considerate imprese anche queste forme organizzative:
-Associazioni di imprese
-Enti pubblici  ad eccezione del Governo centrale perché non è considerata impresa in termini antitrust.
-Alcune amministrazioni pubbliche  possono essere considerate tali perché magari operano in un contesto
che è un mercato. Se l’amministrazione pubblica, controllata al 100% dallo Stato, svolge un’attività in regime
di almeno potenziale concorrenza con qualche altra entità giuridica, si considera impresa. Per esempio le
agenzie di collocamento, monopoli di stato.
-Enti privati muniti di poteri pubblicistici  per esempio gli enti che gestiscono i fondi pensione.
Nell’applicazione del diritto si fi fa riferimento alla teoria dell’unità economica per cui l’impresa è un insieme
di beni e persone riconducibile a un singolo centro decisionale, indipendentemente dalla forma legale
assunta dagli elementi che la compongono. Cosa significa? Molto spesso ci troviamo di fronte a società che
sono una combinazione di società diverse in cui i rapporti tra società controllata e capo gruppo non ricadono
nell’ambito di applicazione dei divieti del diritto antitrust. Quindi i rapporti interni infragruppo tra società che
fanno capo alla stessa capo gruppo non rientrano nell’applicazione dell’antitrust. Così come il controllo delle
concentrazioni non si applica a operazioni di assetto societario all’interno dello stesso gruppo. Cioè quelle
soglie che abbiamo visto oltre le quali scatta l’obbligo di comunicazione di una concentrazione, non si
applicano se queste operazioni vengono fatte all’interno dello stesso gruppo. Ovviamente questo vale se si
parla di un gruppo in cui troviamo una capo gruppo che controlla il 100% di queste imprese e quindi va
valutato in termini quantitativi se l’operazione infragruppo è tale oppure no. Quasi sempre nei gruppi con

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più società le partecipazioni sono le più svariate. Per lo stesso motivo, se vi è un gruppo con una capogruppo
che controlla una società, la controllante può essere ritenuta di un’infrazione commessa da una controllata.
Questo può causare problemi nel momento in cui se arriva una decisione e si scontra una infrazione di una
norma antitrust a quel punto la controllante non esiste più, si è sciolta o si è incorporata con un’altra. Quindi
non si sa più chi è il responsabile. Possono sorgere quindi problemi quando la controllante non esiste più
all’atto della decisione di condanna di una infrazione.

MERCATO RILEVANTE
Si usa questa espressione per dividere il mercato antitrust da altri mercati della scienza economica. Qual è il
problema, l’importanza principale di questa definizione?
1)Come altri concetti non è definito nella normativa antitrust.
2)Inoltre, il mercato per l’applicazione delle norme della concorrenza è fondamentale perché la definizione
del mercato va a influenzare in modo decisivo il risultato dell’analisi antitrust. Facciamo un esempio teorico.
Quando una o più imprese comunicano all’autorità antitrust un’operazione di concentrazione, l’autorità
valuta se quell’operazione può comportare effetti concorrenziali o meno all’interno del mercato, può
comportare alla lunga problemi ai consumatori. Ma dove questi effetti concorrenziali? All’interno del
mercato. In secondo luogo, la stessa operazione di concentrazione consiste nell’acquisizione di due imprese.
Un elemento per valutare gli effetti di concentrazione fondamentale è quello di vedere quella che sarà la
quota di mercato della nuova impresa. Se la nuova impresa avrà una quota di merca del 95% non verrà
autorizzata l’operazione di concentrazione perché quell’impresa ha il quasi monopolio e può comportarsi in
modo indipendente dai propri concorrenti perché ce ne sono pochi o sono troppo piccoli, e questo può
incentivare l’impresa ad assumere comportamenti abusivi.
Dunque la definizione di un mercato rilevante è fondamentale di qualunque valutazione antitrust. A seconda
di come definiamo il mercato, definiamo anche una buona parte degli effetti della fattispecie.
I passi fondamentali, che vedremo nel dettaglio, della rilevazione del mercato rilevante sono i seguenti:
 Sostituibilità dal lato della domanda; quanto i prodotti sono sostituibili da parte del consumatore?
 Sostituibilità dal lato dell’offerta quindi dal punto di vista di chi produce
Tramite un sistema che adesso vediamo, si definiscono quali prodotti costituiscono un mercato assestante.
Dopo di che, una volta stabilito il mercato sarà necessario calcolare le quote di mercato delle imprese di cui
stiamo analizzando il comportamento.
La definizione del mercato avviene su due dimensioni distinte:
 dimensione merceologica: quali prodotti fanno parte di un mercato.
 dimensione geografica: in quale aerea tali prodotti competono. Per esempio due prodotti sono
sostituibili dal punto di vista della domanda quindi fanno parte del solito mercato però si tratta di
due prodotti che sono disponibili in aree geografiche diverse quindi i consumatori anche se volessero
sostituire i prodotti a parità di prezzo non possono perché non sono presenti nel solito luogo.
La logica di fondo per definire un mercato sono le c.d. condizioni concorrenziali cioè due o più prodotti fanno
parte del medesimo mercato se tra di loro sono sufficientemente sostituibili, soprattutto dal lato dei
consumatori. Quando due prodotti sono sufficientemente sostituibili per il consumatore? Quando le
condizioni di concorrenza sono sufficientemente omogenee. Cioè una condizione in cui le imprese
competono sul mercato alla pari offrendo prodotti simili tra di loro. Qual è la situazione in cui le condizioni
concorrenziali dal punto di vista delle imprese e del consumatore sono sufficientemente omogenee? Non
esiste un mercato reale con queste caratteristiche. Esiste solo a livello teorico cioè in un mercato di
concorrenza perfetta. In concorrenza perfetta ci sono le condizioni di omogeneità concorrenziale perché le
imprese sono identiche, producono e vendono prodotti identici. Quindi in questo mercato i consumatori si
trovano di fronte alla possibilità di sostituire i prodotti. Come vengono sostituiti? Se i prodotti hanno un
prezzo diverso, i consumatori acquistano dall’impresa che ha il prezzo più basso.

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In concorrenza perfetta abbiamo una situazione in cui le imprese sono piccole rispetto al mercato nel suo
complesso, le imprese decidono quanto produrre di un certo prodotto e lo fanno producendo una quantità
il cui prezzo è uguale al costo marginale. Nel mercato perfettamente concorrenziale è libera l’entrata e
l’uscita delle imprese. Quindi vi sarà un processo di entrata quando le imprese realizzano profitti e un
processo di uscita quando invece alcune imprese realizzano perdite. L’equilibrio di lungo periodo nel mercato
di concorrenza perfetta è una situazione in cui questo processo di entrata e di uscita non si osserva più.
Quando non si osserva più? Non si osserva quando le imprese non fanno né profitti, né perdite cioè quando
sono in pareggio. Questo spiega perché in concorrenza perfetta l’equilibrio di lungo periodo è una situazione
in corrispondenza della quale si verifica quello che vediamo nella figura (slide numero26) cioè una situazione
in cui ogni impresa produce una quantità Y* al prezzo P che coincide con il costo marginale e il valore minimo
del costo medio di produzione. In questa situazione che appunto rappresenta l’equilibrio di lungo periodo in
concorrenza perfetta, le imprese non realizzano profitti e non realizzano perdite.
Nel grafico abbiamo quantità e prezzi sugli assi, abbiamo il prezzo che è una retta orizzontale alle ascisse e il
motivo è che le imprese in concorrenza possono produrre qualunque quantità ma a un prezzo (P) che è un
prezzo che le imprese prendono per dato (price taker).
Il prezzo è uguale al ricavo marginale. Il ricavo marginale è per definizione è la variazione del ricavo totale
dovuta alla vendita di un’unità aggiuntiva di prodotto. Un’impresa in concorrenza perfetta se vuole vedere
un’unità aggiuntiva lo può fare ma al prezzo di mercato quindi c’è identità tra prezzo e ricavo marginale.
Nel grafico troviamo anche le curve dei costi, costo medio CM, costo marginale C’.
Costo medio  forma a U prima diminuisce poi aumenta
Costo marginale  si colloca al di sotto della funzione di costo medio quando il costo medio è decrescente e
il costo marginale diventa superiore al CM quando il costo medio è crescente.
Perché c’è questa relazione tra costo medio e costo marginale? Per fare in modo che la grandezza media
cresca, bisogna fare in modo che la grandezza marginale sia superiore. Se il numero medio di frequentanti in
questo corso è 14, perché aumenti il numero di frequentanti, è necessario che alla prossima lezione i presenti
siano di più di oggi. Un numero superiore alla media.
Per fare in modo che la media cresca è necessario che la grandezza marginale sia più grande di quella media.
Se la grandezza marginale è più bassa, quella media diminuisce. Se il numero oggi è 14 e domani sono 10, il
numero medio diminuisce.
Questo è ciò che vediamo nel grafico: la grandezza media diminuisce e quella marginale è inferiore e
viceversa.
Le assunzioni del mercato di perfetta concorrenza, fanno sì che vi sia dal punto di vista dei consumatori
perfetta sostituibilità tra i prodotti offerti sul mercato. Questo è l’ambito ideale in cui abbiamo perfetta
omogeneità dei prodotti.
Il mercato rilevante è l’ambito più piccolo in cui, tenendo conto delle opportunità di sostituzione per i
consumatori, è possibile per un’impresa alzare i prezzi sopra il livello concorrenziale cioè sopra il costo
marginale. Questa definizione ci fa capire che dobbiamo costruire un sistema per capire il mercato rilevante
che tenga conto sia della sostituibilità tra i prodotti dal punto di vista dei consumatori, sia della possibilità di
un’impresa di alzare i prezzi al di sopra del costo arginale. Questa operazione deve essere fatta sia a livello
merceologico quindi andando a vedere la sostituibilità dei prodotti, sia a livello geografico cioè se questi
prodotti sono effettivamente offerti nella stessa area geografica o meno.
Il sistema che utilizziamo per definire il mercato è SSNIP.
La sostituibilità più importante è quella dal lato della domanda. Quindi quanto uno o dei prodotti sono
sostituibili agli occhi dei consumatori. Quei prodotti che tra loro presentano un sufficiente grado di
sostituibilità agli occhi dei consumatori faranno parte dello stesso mercato. In sostanza, partiamo da un
prodotto e ci chiediamo quali sono i prodotti sostituibili per in consumatori e definiamo il mercato usando
questo sistema. Tecnicamente il sistema è il test SSNIP – SMAL BUT SIGNIFICANT NON TRANSITORY

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INCREASE IN PRICES cioè incremento piccolo ma significativo e non transitorio dei prezzi da parte di un
ipotetico monopolista.
Quello che facciamo è:
1) Partire da un prodotto
2) Poniamo di avere un unico venditore di quel prodotto
A questo monopolista convien aumentare i prezzi in modo significativo, anche se non in modo transitorio,
no? Se la risposta è SI allora ci fermiamo perché la capacità di un ipotetico monopolista di aumentare i prezzi
significa che i consumatori non hanno la possibilità di rivolgersi ad altra impresa per acquistare un prodotto
simile.
Vediamo meglio questo procedimento.
Poniamo di avere 3 prodotti A, B, C e ci chiediamo se fanno parte dello stesso mercato.
Partiamo dal prodotto A, poniamo che ci sia un ipotetico monopolista.
All’ipotetico monopolista di A conviene aumentare il prezzo del 10%?
Se la risposta è SI, nel mercato ci sarà solo il prodotto A perché in corrispondenza di un aumento di questo
tipo i consumatori non avranno la possibilità di rivolgersi ad altra impresa. Quindi a questo ipotetico
monopolista conviene aumentare.
Se la risposta è NO cioè non conviene perché i consumatori si spostano su altri prodotti, il meccanismo va
avanti. Si considera il primo sostituto potenziale del prodotto A, poniamo il prodotto B, e andiamo a ipotizzare
l’esistenza di un monopolista sia di A e di B. Conviene al monopolista di A e B aumentare il prezzo del 10% di
A e B? Se la risposta è SI, il mercato RILEVANTE che stiamo cercando è composto dal prodotto A e B.
Se la risposta è NO, si continua con il procedimento con altri prodotti. La logica è la stessa.
Il test serve per definire quali prodotti ci sono in uno stesso mercato. Il punto è questo cioè capire qual è il
mercato rilevante. Il nostro obiettivo è definire il mercato.
Come si misura la sostituibilità?
Dal punto di vista intuitivo è abbastanza ragionevole perché dal lato della domanda si chiede a un
consumatore se due prodotti sono sostituibili. In termini tecnici gli economisti misurano la sostituibilità con
il concetto di elasticità della domanda.
Nei corsi di economia politica abbiamo sicuramente parlato di elasticità diretta della domanda cioè si si
chiede qual è la variazione relativa della quantità domandata rispetto a una variazione relativa del prezzo.
La funzione della domanda ci dà informazioni, è una relazione tra prezzo e quantità e ci dice come varia la
quantità al variare del prezzo. Si tratta di un’informazione sulle variazioni assolute e non relative della
domanda. Cioè noi diciamo che il prezzo aumenta di 50 e la domanda si riduce di 100. Questo è quello che
leggiamo nella funzione della domanda. L’informazione proveniente dalla funzione di domanda può essere
arricchita con il concetto di elasticità. L’elasticità diretta della domanda è il rapporto fra la variazione della
quantità domandata e la variazione percentuale del prezzo quindi l’elasticità della domanda è un rapporto
fra variazioni percentuali. Questa informazione non la leggiamo direttamente sulla funzione di domanda ma
abbiamo bisogno di fare alcuni conti (vedremo la prossima settimana alcuni esempi).
Perché gli economisti hanno bisogno del concetto di elasticità diretta della domanda? Non basta la funzione
della domanda? No, perché un problema importante è che nei vari mercati che si considerano, l’unità di
misura del prezzo è sempre quello (euro, dollaro etc.) mentre l’unità di misura della quantità può variare, a
seconda del settore di riferimento. Per eliminare questo problema è utile il concetto di elasticità perché si
annullano le unità di misura. Per fare in modo da eliminare questo problema e paragonare le caratteristiche
della domanda di settori diversi tra loro, è utile il concetto di elasticità perché tramite il suo calcolo di
annullano le unità di misura. Quindi ci sarà un rapporto tra numeri puri. Un altro motivo per cui si usa il
concetto di elasticità della domanda è perché troviamo la variazione percentuale. In sostanza si vuole
conoscere in termini relativi cosa accade quando un’impresa oppure un’amministrazione pubblica modifica
un prezzo o la tariffa di un bene o un servizio. Vedremo che per valutare la sostituibilità del prodotto si usa
l’elasticità della domanda ma si utilizza anche l’elasticità incrociata della domanda dove si va a vedere il

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rapporto fra la variazione percentuale della quantità domandata di un certo bene con la variazione
percentuale del prezzo di un altro bene.
Mercoledì 30.09.2020
Abbiamo iniziato a vedere la definizione del mercato rilevante.
Abbiamo visto quella che è logica del funzionamento della definizione del mercato rilevante. La definizione
del mercato rilevante è un elemento chiave in ogni procedimento antitrust. Il test che si usa normalmente è
il test SSNIP cioè del piccolo ma significativo incremento di prezzo da parte di un ipotetico monopolista. La
logica del test è valutare qual è la più piccola aerea merceologica e geografica in cui c’è un’effettiva
concorrenza tra i prodotti che dobbiamo individuare facenti parti dello stesso mercato. Il processo consente
di ipotizzare la presenza di un’unica impresa quindi partire da un prodotto per poi andare a vedere quali altri
prodotti fanno parte dello stesso mercato. Si parte dal prodotto di un’impresa o una delle imprese coinvolta
nella concentrazione, intesa o abuso, e ci si chiede se il monopolista di quel prodotto avrebbe convenienza
ad aumentare il prezzo di quel prodotto.
Se la risposta è SI  il prodotto di riferimento A è l’unico prodotto del mercato. MERCATO FORMATO SOLO
DA A.
Se la risposta è NO cioè non conviene aumentare il prezzo  vuol dire che in seguito all’aumento di prezzo,
una buona parte di consumatori si sposteranno sul prodotto B, grazie alla sostituibilità tra A e B che può
esistere agli occhi dei consumatori.
Il processo continua allo stesso modo cioè ci si chiede se l’ipotetico monopolista di A e B conviene aumentare
il prezzo del 10% in maniera non transitoria. Se la risposta è SI il mercato è formato da A e B mentre se la
risposta e NO vuol dire che i consumatori si sposteranno in un mercato C.
Questo è il metodo di individuazione del mercato rilevante. È un test che si utilizza anche in altri contesti che
non centrano con l’antitrust perché è un modo per valutare oggettivamente la sostituibilità dei prodotti dal
punto di vista dei consumatori, che è l’elemento chiave e centrale della definizione e delimitazione di un
certo mercato rilevante.
Quando ci poniamo questa domanda cioè se all’ipotetico monopolista convenga o meno aumentare il prezzo,
come si fa a rispondere a questa domanda? Per rispondere a questa domanda ci si basa sul concetto di
sostituibilità per i consumatori. La profittabilità di un incremento di prezzo da parte di un ipotetico
monopolista dipende da quanti consumatori ritengono sostituibili i prodotti A,B.C ecc. Cosa significa
sostituibilità? In economia la sostituibilità si misura con l’elasticità della domanda. L’atra volta ci siamo
fermati su questo concetti.
VEDI QUADERNO L’ELASTICITÀ DELLA DOMANDA E L’ELASTICITÀ INCROCIATA DELLA DOMANDA.
Una volta chiarito questo punto, come si calcola l’elasticità della domanda? Possono essere utilizzate diverse
analisi. Può essere stimata tramite:
1. Tecniche econometriche: Quando si hanno a disposizione dati relativi alle abitudini di consumo dei
consumatori (dati relativi alla domanda di quei beni) per un periodo di tempo abbastanza lungo in
cui ci son state variazioni dei prezzi dei beni, si va a vedere se è variata la quantità domanda di quei
beni.
Questo sia nel caso di elasticità diretta, sia nel caso di elasticità incrociata è un esercizio difficile per
due motivi:
 Non abbiamo dati sufficienti per condurre analisi di questo tipo
 Il calcolo di queste elasticità deve essere effettuata a parità di altre condizioni. Quindi possiamo
osservare la variazione del prezzo di un bene e un corrispondente aumento della quantità di un altro
bene ma è necessario controllare che questo secondo effetto dipenda dal primo e non da altre
motivazioni. Supponiamo che vi sia stato un incremento del reddito delle famiglie in un certo periodo
di tempo e questo può aver condotto un incremento della domanda di tutti beni e i servizi. Per cui
può esserci una correlazione spuria tra le variazioni del prezzo di un bene e le variazioni della quantità
di un altro bene.

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2. Test di correlazione dei prezzi: si prende il bene I e il bene J e si osserva l’andamento dei due prezzi.
Se due beni si muovono nel tempo allo stesso tempo, probabilmente sono sostituti perché le
variazioni dell’uno fanno aumentare la quantità dell’altro e quindi questo può comportare un
incremento anche del secondo bene. Generalmente si effettuano i test di correlazione dei prezzi
perché è più semplice osservano i prezzi che le quantità domandate.
Anche qui ci sono delle cautele da tenere a mente.
-Correlazione spuria  se osservo che i prezzi dei due beni sono correlati può essere che sia così non
perché c’è un rapporto di sostituibilità tra i due beni ma perché per esempio c’è un processo di
inflazione che riguarda tutti i beni e i servizi e questo spinge i prezzi dei beni a muoversi in modo
correlato.
-Orizzonte temporale  i due beni si muovono parallelamente in un certo periodo ma poi finisce
questa correlazione.
 Se la correlazione dei prezzi di due beni è bassa si può escludere che due o più beni appartengano
allo stesso mercato
 Bisogna vedere il rapporto fra le variazioni di ciascun prezzo e non tanto l’andamento del prezzo dei
due beni perché per esempio questo può essere dovuto a costi diversi dovuti a qualità diverse delle
materie prime.
L’utilizzo del test di correlazione dei prezzi può essere di aiuto a stabilire se due beni sono sostituti
quindi se fanno parte del medesimo mercato però è un metodo rischioso.
3. Ricerche di mercato: si possono intervistare campioni di consumatori andando direttamente a
chiedere se considerano due o più beni sostituti oppure no a parità di prezzo date certe condizioni.
Anche qui ci sono comunque delle cautele perché la necessaria ipotesi a parità di condizione poi
bisogna verificare che sia presente anche nella mente dei consumatori quando esprimono il loro
pensiero su quest’aspetto.
Esistono tutta una serie di tecniche che possono essere usate anche congiuntamente per arrivare a stabilire
se il prodotto A, B, C ecc fanno parte o no dello stesso mercato. In ogni caso non è un esercizio semplice, è
necessario usare molta cautela.

SOSTITUIBILITÀ DAL LATO DELL’OFFERTA


Il mercato rilevante si definisce andando a valutare se due o più beni sono sostituti per i consumatori
(sostituibilità dal lato della domanda) ma anche se c’è sostituibilità dal lato dell’offerta cioè per i venditori.
Se un’impresa o un gruppo di imprese aumenta il prezzo di un bene, è possibile che le altre imprese che non
stanno producendo quel bene, modifichino il loro processo produttivo per iniziare a produrre quel prodotto
o quel servizio? Si è possibile. L’aumento del prezzo da parte di un ipotetico monopolista potrebbe spingere
alcune imprese a entrare in quel mercato perché appare profittevole farlo.
La logica di questo passaggio è che appunto i due prodotti possono non essere sostituibili per consumatori
ma se i processi produttivi sono simili, un’impresa può adeguare la produzione per realizzare il bene di cui è
aumentato il prezzo.
ESEMPIO: BENI ALIMENTARI FORMAGGI  mozzarella e gorgonzola. Per i consumatori magari non sono
sostituti. Se per qualche motivo l’ipotetico monopolista di mozzarella aumenta il prezzo del 10%, è possibile
che altri produttori di altri tipi di formaggi modifichino il loro processo produttivo e inizino a produrre
mozzarelle. In quel caso le dimensioni del mercato si modificano.
Tuttavia, a differenza dei consumatori, le imprese non riescono a reagire velocemente modificando i propri
piani produttivi in seguito alla variazione dei prezzi. L’adeguamento produttivo richiede spesso consistenti
investimenti. Dal lato del consumatore invece, quando quindi valutiamo la sostituibilità dal lato della
domanda, ci immaginiamo che all’aumentare del prezzo di un certo bene, il consumatore può spostarsi su
altro immediatamente.

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Per questo motivo la Commissione e le autorità antitrust nazionali considerano la sostituibilità dell’offerta
soltanto in casi particolari.
Un altro elemento è la concorrenza potenziale cioè il fatto che alcune imprese o alcuni investitori che sono
fuori dal mercato, potrebbero entrare in seguito a un aumento dei prezzi. Perché si valuta questa possibilità?
Perché se c’è un inizio di produzione di nuovi concorrenti, le dimensioni del mercato si allargano. Si tratta di
valutazioni prospettiche cioè valutazioni che riguardano quello che potrebbe accadere nel futuro.
I nuovi concorrenti iniziano a farlo se non ci sono barriere all’entrata nel mercato che si cerca di definire.
Cosa sono le barriere all’entrata? Le barriere all’entrata sono asimmetrie tra chi è già dentro al mercato e chi
ne è fuori. Normalmente sono asimmetrie di costo tra chi è già dentro al mercato e imprese che stanno fuori
dal mercato. Queste asimmetrie possono essere di varia natura:
 Asimmetrie, barriere tecnologiche: queste dipendono dall’asimmetria produttiva, dalla disponibilità
di materie prime, beni intermedi per la produzione di un certo bene o un certo servizio.
 Economie di scala: se un processo produttivo è caratterizzato da economie di scale allora vi possono
essere delle barriere all’entrata cioè degli impedimenti a svantaggio delle imprese che stanno fuori
dal mercato. VEDI QUADERNO PER VEDERE GRAFICAMENTE QUESTO ASPETTO.
 Barriere di natura legale, spesso queste sono legate a quelle di natura tecnologica. Si parla di barriera
legale quando uno Stato, un’amministrazione locale, centrale, un’autorità che regola un settore che,
stabilisce che in quel mercato non possono operare più di un tot di operatori oppure più di un
operatore. I motivi potrebbero essere molti. Uno di questi sono le economiche di scale. Se un settore
è caratterizzato da economie di scale, non è efficiente che vi siano molte imprese perché si
spartirebbero la domanda tra loro, ciascuna produrre una quantità piccola di bene o servizio e
ciascuna impresa sosterebbe un costo medio molto elevato.
Un’autorità può decidere che in quel settore può operare un tot di imprese.
 Barriere all’entrata di natura strategica: questa è la situazione che interessa di più l’antitrust.
La situazione in cui le imprese che stanno dentro al mercato, mettono in atto delle politiche di prezzo,
delle politiche di prodotto, delle politiche di quantità ecc che rallenta l’entrata di altri nel mercato o
la impediscono completamente.
Quello che abbiamo detto finora sono tematiche relative alla definizione del mercato rilevante dal lato del
prodotto quindi con dimensione merceologica cioè ci chiediamo se vi può essere sostituibilità merceologica
sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta.

MERCATO RILEVANTE DI DIMENSIONE GEOGRAFICA


Le considerazioni sono diverse ma la logica è la stessa. Il mercato rilevante geografico è un’area in cui le
condizioni concorrenziali sono sufficientemente omogenee. Si deve stabilire se, in seguito a un aumento di
prezzo di un ipotetico monopolista di un certo prodotto, i consumatori sarebbero disposti a spostarsi per
acquistare il prodotto, quindi sostituibilità geografica dal lato della domanda, oppure se i produttori di altre
aree sarebbero disposti a vendere i prodotti nell’aerea in questione, quindi sostituibilità geografica dal lato
dell’offerta.
Se la risposta a queste domande è affermativa allora le due aree fanno part del medesimo mercato. quindi
la logica della definizione del mercato è la stessa.
Due prodotti, quindi due imprese realizzano lo stesso prodotto ma non sono sostituibili perché il loro bacino
di utenza è distante in termini geografici ma cosa se succede se un ipotetico monopolista aumenta il prezzo?
Si verificherebbero eventi di sostituibilità? I consumatori si spostano? I produttori si spostano?
Anche nel caso del mercato rilevante geografico è necessario vedere la sostituibilità quindi l’elasticità
domanda e dell’offerta in relazione a un certo prodotto o gruppi di prodotti. In questa valutazione è ovvio
che la sostituibilità della domanda e dell’offerta dal punto di vista geografico dipende dall’incidenza dei costi
di trasporto sul costo totale. Sia che consumatori vogliono spostarsi da un prodotto all’altro, sia se sono i

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produttori che vogliono spostarsi da un’area geografica all’altra, i costi di trasporto sono fondamentali.
Quindi bisogna valutare quanto inciderebbero i costi di trasporto sul costo totale cioè sul prezzo.
È possibile che oltre una certa distanza (raggio misurato in km) vi sia un incremento significativo dei costi di
trasporto, allora il mercato geografico rilevante si colloca entro quella distanza
Possono esserci anche altri elementi che incidono sui costi di trasporto e quindi sulla sostituibilità tra prodotti
diversi in termini geografici. Per esempio:
 differenze istituzionali (imposte, regolamenti ecc)
 differenze culturali e linguistiche che riguardano i consumatori ma anche i produttori. Abitudini di
consumo differenti. Per alcuni prodotti le differenze linguistiche sono fondamentali. Pensiamo alle
informazioni, se le lingue son diverse un quotidiano stampato in Italia difficilmente sarà venduto
anche in Francia o Germania.
 correlazione tra le variazioni dei prezzi in diverse aree. Anche nel caso della definizione del mercato
dal punto di vista geografico si possono andare a vedere come si muovono i prezzi degli stessi
prodotti che vengono scambiate in aree diverse. Anche qui le stesse cautele di prima perché c’è il
rischio della correlazione spuria perché due prezzi di due beni possono muoversi allo stesso modo
però per motivi che prescindono dalla loro sostituibilità sia merceologica sia geografica.

Dunque per concludere, per la dimensione merceologica e dimensione geografica dei mercati si utilizza la
stessa logica e ci si chiede se un ipotetico monopolista aumenta il prezzo che cosa farebbero consumatori e
altre imprese. Questa è la logica che deve guidare per definire il mercato rilevante.

ACCORGIMENTI PER LA DEFINIZIONE DI MERCATO RILEVANTE


Si tratta di accorgimenti che sono venuti alla luce al momento dell’applicazione della normativa antitrust.
1° Le caratteristiche intrinseche dei beni possono essere di aiuto nella definizione del mercato ma non
devono orientare l’analisi in modo esclusivo. L’obiettivo è quello di arrivare alla sostituibilità e questa si
misura solo in base all’elasticità della domanda e dell’offerta.
2° Alcuni beni e servizi possono essere considerati sostituti da consumatori e imprese solo per un certo
periodo dell’anno. Quindi bisogna considerare la stagionalità della sostituibilità.
ESEMPIO Pandori e panettoni in un dato periodo dell’anno possono essere sostituti ad altri prodotti simili
ma non lo sono a luglio.
3°Un bene può far parte contemporaneamente di più mercati ma che devono essere distinti. Per elementi di
sostituibilità della domanda e della offerta non è escluso che un bene o un servizio appartenga a più mercarti
poi ogni mercato deve essere analizzato in isolamento.
4°Coerenza delle definizioni di mercato da parte di un’autorità antitrust. Quando un’autorità antitrust apre
un’istruttoria per un’intesa, abuso o concentrazione, è tenuta a definire il mercato rilevante, di riferimento.
Per definire il mercato usa tutti gli strumenti visti. Se dopo un anno dalla chiusura del procedimento in
questione, si presenta di nuovo il problema di definire lo stesso mercato perché per esempio si presenta
un’operazione di concertazione, mi aspetto che la definizione sia lo stesso. Se nel 2018 ho definito il mercato
degli Smartphone. Passa un anno e mi aspetto che l’autorità definisca il mercato di Smartphone nello stesso
modo quindi indicando esattamente i prodotti e le imprese che già facevano parte di quel mercato l’anno
prima. Questa è un’aspettava lecita e corretta. Tuttavia, nel corso del tempo, spesso molto breve, possono
modificarsi le abitudini di consumo, può esserci un forte cambiamento tecnologico all’interno di un certo
settore, e quindi questo costringa le autorità antitrust a modificare la definizione del mercato. Non è esclusivo
che a distanza di poco tempo, anche di mesi, un’autorità antitrust definisca in modo diverso lo stesso
mercato.
Dunque  Minima coerenza per definire un mercato e presa di atto dei cambiamenti tecnologici e di
abitudini di consumo.

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Legato a questo, è necessario considerare che la definizione del mercato può variare a seconda del
procedimento che è stato aperto. Da un lato il mercato può essere definito per le intese o per gli abusi di
posizione dominante altre volte per una concentrazione. Nel primo caso si descrive una situazione che si
osserva allo stato corrente. Quindi si cerca di fare una sorta di fotografia a quello che è un mercato. Nel caso
delle concentrazioni si fa sia la fotografia allo stato attuale ma si cerca anche di avere anche una visione
prospettica perché si deve valutare qualcosa che ancora non si è verificato. L’operazione di concentrazione
e il comportamento della nuova impresa che si verrà a creare dalla concentrazione, potrebbe modificare
alcuni elementi che servono a definire il mercato stesso.
5° In molti “mercati” le imprese offrono prodotti “differenziati”. Questo significa che la varietà sul mercato è
ampia. La differenziazione del prodotto è un elemento che in economia si studia molto approfonditamente.
Si sono sviluppate molte teorie che cercano di formalizzare questo problema. In un mercato di concorrenza
perfetta i prodotti non sono differenziati ma sono perfettamente omogenei quindi qualunque impresa
realizza il solito prodotto e soprattutto agli occhi del consumatore questi prodotti risultano identici. All’inizio
della prima metà dello scorso secolo, le imprese hanno iniziato a differenziare i prodotti rispetto a quelli dei
concorrenti, hanno iniziato a effettuare campagne pubblicitarie e hanno iniziato a creare una certa
reputazione per i marchi, per i brand e tutti questi elementi vanno a differenziare i prodotti agli occhi dei
consumatori. In questi casi alcune volte è complicato stabilire se due prodotti offerti da imprese diverse sono
diversi oppure se in realtà sono prodotti che fanno parte del solito mercato e hanno semplicemente una
varietà diversa. Quindi definire il mercato rilevante quando i prodotti che l’antitrust deve considerare sono
fortemente differenziati, la definizione può essere complicata. La logica deve comunque essere identica:
aldilà della maggiore o minore differenziazione tra due prodotti, se l’autorità antitrust deve stabilire se quei
prodotti fanno parte dello stesso mercato oppure no, il processo deve essere lo stesso rispetto a beni non
molto differenziati. Si deve usare la sostituibilità tra i prodotti dal lato della domanda e dal lato dell’offerta.
L’importante è mantenere fissa questa barra nella logica della sostituibilità e della necessaria misurazione
valutazione empirica con le varie tecniche viste della sostituibilità dal lato della domanda e dal lato
dell’offerta.
6°Mercati primari e secondari: vi sono alcune situazioni in cui un bene primario (STAMPANATE) viene usato
da un bene secondario (CARTUCCIA).
Beni primari e beni secondari fanno parte dello stesso mercato? In qualunque situazione noi vogliamo
valutare la sostituibilità tra due beni, che siano primari o secondari, dobbiamo usare la logica della
sostituibilità dal lato della domanda e dal lato dell’offerta.
Normalmente le autorità antitrust ritengono mercati distinti quelli primari da quelli secondari. Però c’è un
altro problema. Posto che vi sia questa netta distinzione, come si definisce il prodotto secondario? Vi sono
situazioni in cui imprese non producono né beni secondari, né beni primari ma forniscono beni secondari. È
necessario comunque fare un test di prezzo e quindi valutare se l’aumento del prezzo del bene secondario è
profittevole per un ipotetico monopolista anche se vi è una distinzione netta tra il bene secondario offerto
dal monopolista e beni secondari offerti da altre imprese che comunque operano fornendo beni secondari.
Se a seguito all’aumento di prezzo i consumatori cambiano anche marca del bene primario, allora dobbiamo
dedurre che bene primario e secondario fanno parte dello stesso mercato. Quest’ultimo risultato è più
probabile se i costi di pezzi di ricambio e riparazioni sono elevati rispetto al totale e i consumatori scelgono
la marca anche in base a questo.
7°Cellophan phallacy  Fallacia del cellophan, problema il cui nome nasce da un procedimento antitrust che
riguardava un produttore di cellophan. Qui qual è il problema? Poniamo che un’impresa abbia un ampio
potere di mercato. Il monopolista può applicare un prezzo più alto rispetto al costo marginale.
VEDI QUADERNO.
Quindi se in queste situazioni il monopolista applica un prezzo molto superiore al CMG. Se in queste
condizioni utilizziamo il SSNIP osserviamo che in seguito all’incremento del prezzo del 10% rispetto al prezzo

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corrente, avremmo una forte sostituibilità del prodotto. Quindi la domanda se al monopolista conviene o no
aumentare il prezzo di quel prodotto, la risposta è no perché i consumatori si sposterebbero su altri prodotti.
Questo rischia di essere una conclusione sbagliata perché essendo l’impresa che stiamo considerando e i
prezzi correnti un monopolista, i prezzi di partenza sono già alti. Prezzi di partenza già alti generano una forte
sostituibilità tra prodotti che però di fatto non esiste per il consumatore.
È necessario che il prezzo del prodotto di partenza, quello che osserviamo e su cui ipotizziamo un incremento
di prezzo, non sia troppo diverso da quello concorrenziale.
In altri termini, il test SSNIP presuppone che ipotizziamo la presenza del monopolista. Quindi ipotizziamo che
c’è una situazione concorrenziale o comunque più imprese che competono tra loro e noi ipotizziamo se
all’ipotetico monopolista conviene alzare il prezzo del 5 o 10 % rispetto al prezzo corrente. Se già partiamo
da una situazione reale di monopolio, il prezzo corrente è già molto elevato e quindi un ipotetico aumento
di prezzo del 5 o 10 % sposta i consumatori in altri prodotti e farebbe pensare a chi svolge il test che vi è una
forte sostituibilità tra il bene realizzato dal monopolista e altri prodotti.

Giovedì 01.10.2020
Abbiamo concluso la definizione del mercato rilevante. Abbiamo visto esserci problemi, trabocchetti. La
logica è netta ma ci sono alcuni accorgimenti e cautele da tenere in considerazione perché è molto facile
commettere un errore. La definizione del mercato rilevante è cruciale perché tutto un eventuale
procedimento o anche un’istruttoria che viene aperta ne risente della definizione.

Alcuni esempi di mercato rilevante tratti dall’esperienza più o meno recente dell’autorità antitrust italiana

Distribuzione moderna ( distribuzione di beni alimentari e non alimentari)  ipermercati, discount,


supermercati, superette ( minimarket) . Ci sono tante forme di distribuzione alimentare che apparentemente
sono distinte ma dal punto di vista dell’antitrust è necessario stabilire se facciano parte del medesimo
mercato oppure no. Tra l’altro la distribuzione moderna ha conosciuto negli ultimi 20-30 anni un intenso
processo di concentrazione. C’è un continuo acquisto o vendita di negozi. Queste superfici passano spesso
da una società all’altra quindi essendo le società che gestiscono la distribuzione moderna grandi imprese, nel
caso delle concentrazioni queste società devono comunicare preventivamente la volontà di acquistare anche
un piccolo negozio. Questo è un problema della procedura per notificare l’operazione di concentrazione
preventivamene.
Proprio perché c’è stato e continua a esserci un intenso processo di concentrazione, l’autorità antitrust ha
dovuto stabilire i criteri per decidere se due negozi fanno parte dello stesso mercato oppure no.
Dal punto di vista merceologico la distinzione tra soggetti che operano in mercati diversi si basa sul criterio
dimensionale (superficie dell’area di vendita), posizionamento di prezzo (qui si distingue tra discount e altre
forme di distribuzione) e l’ampiezza e profondità della gamma dei prodotti quindi la varietà dei prodotti in
vendita e la varietà in termini di qualità e prezzi. Questi sono criteri per stabilire se un ipermercato e un
supermercato o minimarket fanno parte del medesimo mercato. Sono criteri che l’autorità raccomanda di
applicare ogni volta che si va a cercare di capire questo problema. Utilizzando questi criteri, dal punto di vista
merceologico, si è arrivati a stabilire che la sostituibilità tra queste categorie della distribuzione moderna è
scarsa e conseguentemente ogni tipologia costituisce un mercato assestante. Quindi avremmo un mercato
dove ci sono solo discount, un mercato dove troviamo solo superette e così via. Questo è fondamentale
perché di operazioni di acquisizione in questo settore ce ne sono tantissime. Esempi che spesso l’autorità si
trova a dover valutare  Coop che si compra una certa area geografica. Il problema era stabilire se quel tipo
di esercizio commerciale faceva parte del medesimo mercato in cui svolgeva l’attività la Coop.
Dal punto di vista geografico il mercato ha dimensione locale e la consuetudine che prevale nell’autorità
antitrust è di definire il mercato geografico in termini di provincia. La valutazione andrebbe fatta caso per
caso perché la provincia di per sé non vuol dire molto.

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Come si stabilisce se un soggetto A che compra un soggetto B fa parte dello stesso mercato geografico oppure
no? Bisognerebbe andare a vedere le abitudini dei consumatori e la sostituibilità per due consumatori in
termini geografici in due o più punti vendita. Andrebbe fatta una valutazione caso per caso ma per velocizzare
la decisione delle autorità, se aprire o no una nuova istruttoria, è stata adottata questa consuetudine che è
la provincia l’area geografica che definisce il mercato geografico nel settore della distribuzione moderna.
È una decisione di comodo perché le province sono diverse l’una dall’altra proprio anche come
conformazione. Soprattutto le abitudini dei consumatori, per quanto riguarda la scelta del luogo dove fare
acquisiti, non viene fatta in base alla provincia ma in base ad altre considerazioni. Questo è il modo con cui
si fa una valutazione per la distribuzione moderna.
Va valutata sia la sostituibilità dei consumatori dal punto di vista merceologico sia la sostituibilità die
consumatori dal punto di vista geografico.

Trasporto aereo passeggeri


La situazione è diversa rispetto al settore visto precedentemente. I criteri sono diversi.
L’esperienza nazionale e comunitaria di analisi di fattispecie antitrust ha condotto a definire i mercati tramite
le tratte gestite dalle compagnie aeree. Si considerano i collegamenti tra coppie di città o di aeroporti.
Ancora meglio, si considerano i collegamenti fra i rispettivi bacini di utenza. Quindi si considera un mercato
un collegamento tra due bacini di utenza che non è sostituibile dal punto di vista del consumatore. Si
considerano le tratte tra diversi bacini di utenza e si va a vedere se quelle tratte sono sostituibili con altre
tratte.
Il mercato rilevante può includere aeroporti che non coincidono necessariamente con le città di partenza e
arrivo della gamma dei prodotti proprio perché si fa riferimento a un bacino di utenza e non a una specifica
città o specifico aeroporto. In questo caso il mercato del prodotto e mercato geografico coincidono.
Apparentemente la definizione del mercato è semplice. Per esempio considero la tratta Milano-Roma come
assestante. Ma intanto bisogna considerare i bacini di utenza e nella tratta Milano-Roma ci sono più
aeroporto e questi non coincidono necessariamente con la città Roma e la città Milano.
Inoltre bisogna valutare la possibilità che vi sia sostituibilità con una combinazione di voli indiretti. Quindi in
uno stesso mercato, date certe condizioni, possono essere presenti sia tratte aeree quindi corrispondenti
compagnie che gestiscono quelle tratte dirette (Milano-Roma; Roma-Milano) ma anche tratte alternative che
prevedono scali intermedi. A livello di stati europei quest’ultimo aspetto non conta perché in una tratta
Milano-Roma o viceversa, normalmente, la sostituibilità un volo diretto e indiretto è scarsa ma ovviamente
dipende dall’ampiezza dello stato di riferimento. Se consideriamo Los Angeles-New York, è probabile che un
volo diretto sia ritenuto sostituibile rispetto a quello indiretto.
A livello nazionale i voli diretti e indiretti non fanno parte dello stesso mercato perché non sono ritenuti
sostituibili ma possono fare riferimento al solito mercato trasporti diversi, per esempio il treno. L’insieme dei
voli Milano-Roma è sostituito agli occhi di molti consumatori con il viaggio in treno. Quindi a livello nazionale
c’è la possibile sostituibilità con altri mezzi di trasporto.
Ci sono stati casi particolari in Italia nella definizione del mercato del trasporto aereo passeggeri. Per esempio
a un certo punto l’autorità antitrust ha stabilito che i voli da e per Milano, Linate, Malpensa e Orio al Serio
(quindi i bacini di utenza che facevano capoto a questi aeroporti) non possono essere considerati sostituibili
dal punto di vista della domanda e dell’offerta e quindi considerarti mercati rilevanti distinti
Questa è una valutazione forte perché definendo il mercato in modo così ristretto la quota di mercato delle
imprese che operavano su una certa tratta aumenta parecchio.
Nel caso del trasporto aereo è vero che non c’è differenza tra dimensione geografica e merceologica ma la
sostituibilità dell’offerta è più importante perché entrare in un mercato, iniziare a servire una tratta aerea è
abbastanza semplice. L’entrata del mercato da parte di concorrenti potenziali oppure quando alcuni
operatori iniziano a servire una certa linea, è molto più semplice e rapido rispetto ad altri settori dove invece
per la modifica o riconversione dei sistemi produttivi è necessario un investimento di lungo periodo.

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Abbagliamento, negozi e accessori
Troviamo due canali principali quando pensiamo a questo settore:
 negozio tradizionale di abbigliamento che stanno scomparendo
 distribuzione moderna quindi grandi catene che offrono abbigliamento
La distinzione tra mercati distinti si basa su una serie di criteri che devono essere valutati dall’autorità
antitrust per stabilire se due imprese fanno parte del solito mercato oppure no. Si guarda il tipo di servizio
al cliente, superficie di vendita, la presenza di reparti dedicati a differenti categorie di prodotti.
In base a questi criteri si distingue la distruzione moderna dal negozio tradizionale. In alcuni casi è molto
semplice questa distinzione, in altri è più complicato. Pensiamo ai negozi monomarca come Benetton, sono
luoghi dove si vende un capo di abbigliamento associato a poche marche dove c’è un servizio al cliente
particolarmente sviluppato tipico dei negozi tradizionali ma allo stesso tempo la superficie di vendite è
elevata e somiglia a quello che si osserva nella distribuzione moderna. In questi casi la situazione è ibrida ed
è complicato stabilire se il negozio monomarca fa parte del mercato del negozio tradizionale al dettaglio o
del mercato della distribuzione moderna.
Andando a leggere le istruttorie aperte per questi settori che avevano per oggetto intese, abusi o
concentrazioni, quello che si è osservato è che per la definizione di mercato, ha fatto anche valutazioni di
natura psicosociale. L’autorità ha assunto che il consumatore è disposto a visitare vari negozi e lo fa per “per
un insieme complesso di necessità legate all’immagine individuale e sociale di una persona”. L’idea che ha
l’autorità è quella per cui l’individuo esce di casa per comprare un abbigliamento, entra in vari negozi con
caratteristiche diverse e questo lo fa perché ha delle necessità di bisogni, delle preferenze che per motivi
psicosociali lo spingono a frequentare luoghi diversi. In alcuni di questi casi l’autorità ha concluso che negozi
appartamenti diversi, facessero parte dello stesso mercato perché il consumatore si recava in posti diversi.
La dimensione geografica del mercato è quella provinciale. Anche qui l’autorità avverte che la valutazione
andrebbe fatta caso per caso. Quindi non bisogna prendere queste indicazioni come fisse e immutabili.
Vi deve essere una certa coerenza temporale delle decisioni dell’antitrust ma allo stesso tempo le abitudini
dei consumatori si modificano, si modifica la tecnologia e quindi non c’è niente di immutabile, neanche nella
definizione del mercato rilevante. È ovvio che non è possibile, a distanza per esempio di un mese, che
l’antitrust prenda decisioni diverse rispetto a quella presa un mese prima riguardo la stessa cosa.

Per quanto riguarda gli elementi generali presenti in qualunque procedimento aperto dall’autorità antitrust
troviamo anche il concetto di POTERE DI MERCATO.
Il concetto di potere di mercato è importante perché viene usato molto spesso nei documenti delle
commissioni antitrust e perché è un punto centrale di tutta la normativa antitrust.
Per un’economista il potere di mercato è la capacità di un’impresa di applicare un prezzo superiore rispetto
a quello che prevarrebbe in concorrenza perfetta. L’economista parte dalla definizione di mercato in perfetta
concorrenza. In questo caso il prezzo di equilibrio è uguale al costo marginale. Ogni volta che il prezzo
superiore la costo marginale c’è un potere di mercato.
Nei mercati reali non è di aiuto questa definizione. Perché? In primo luogo perché si fa riferimento a una
concorrenza perfetta che non esiste. In secondo luogo potremmo utilizzare la differenza tra prezzo e costo
marginale per misurare il potere di mercato di un’impresa ma mentre il prezzo è osservabile il costo
marginale non è facilmente stimabile.
La misurazione del potere di mercato è fondamentale in tutti i procedimenti antitrust. Se pensiamo agli abusi
di posizione dominante, per stabilire se un’impresa ha abusato della sua dominanza, è necessario stabilire se
quell’impresa è veramente in posizione dominante. Cioè è necessario stabilire se quell’impresa ha potere di
mercato quindi ha la capacità di applicare un prezzo superiore al costo marginale. Torneremo più avanti a
definire la posizione dominante ma è evidente che il potere di mercato va stimato e immaginato dall’autorità
antitrust. È importante anche nelle concentrazioni e nelle intese. In fondo nel controllo delle concentrazioni
lo si fa proprio per impedire che si crei o si rafforzi una posizione dominante perché queste situazioni hanno

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un impatto negativo sul benessere sociale. Dunque è importante capire se a seguito di quell’intesa o di un
eventuale concentrazione quanto sia il potere di mercato.
È difficile stabilire in ogni mercato quale sarebbe il prezzo concorrenziale. È complesso e che andrebbe fatta
caso per caso ma molto spesso le autorità antitrust non hanno dati sufficiente per arrivare a questa stima.
Inoltre, in ogni mercato ogni impresa gode di un certo potere di mercato. Soltanto in condizioni di
concorrenza perfetta il potere di mercato delle imprese è pari a zero. Se assumiamo che la concorrenza
perfetta non esiste, concludiamo necessariamente che in qualunque mercato ogni impresa ha un certo grado
di potere di mercato. Il potere di mercato va misurato perché ai fini della valutazione antitrust è necessario
che tale potere sia significativo.
È un problema misurare direttamente il potere di mercato di un’impresa. Cosa si può fare quindi? Si stima
indirettamente il potere di mercato e il metodo indiretto che si utilizza è l’osservazione della struttura del
mercato cioè del numero di imprese sul mercato e delle loro dimensioni. È un criterio strutturale per
stabilire se le imprese hanno o meno potere di mercato. È ormai prassi dalle commissioni usare la QUOTA DI
MERCATO come indice principale, seppur indiretto, del potere di mercato.
La quota di mercato di un’impresa => si definisce il mercato, si definisce il fatturato totale delle imprese e il
loro rapporto è la quota di mercato. La quota di mercato di una certa impresa è il rapporto tra fatturato di
quell’impresa e fatturato complessivo realizzato dalle imprese che fanno parte di quel mercato, posto che si
sia già definito il mercato rilevante. La quota può essere calcolato in valore o in volume, normalmente in
valore. Calcolare la quota di mercato in valore è rischioso quando c’è un’alta inflazione perché i prezzi
cambiano ogni giorno.
Una volta stabilita la quota di mercato, come stabilire se ad essa corrisponde un effettivo potere di mercato?
Si adottano le PRESUNZIONI LEGALI:
Se un’impresa ha una quota uguale o superiore al 50% si presume che sia in posizione dominante. Se
l’impresa ritiene di non essere in posizione dominante sul mercato deve dimostrarlo.
Una quota inferiore al 10% è segno di assenza di potere di mercato
Una quota tra il 10 e il 25% è un indice insufficiente di dominanza ma è possibile che una quota del 23-24%
possa attribuire potere di mercato se contemporaneamente si osservano altri elementi.
Una quota tra il 25% e il 50% non c’è dominanza però induce a considerare ulteriori fattori per accertare
un eventuale dominanza

Perché l’autorità antitrust nazionali e sovranazionali hanno utilizzato e continuano a usare la quota di
mercato come indice, come misura indiretta del potere di mercato? Perché un’impresa che ha una quota
di mercato elevata dovrebbe essere ritenuta impresa in grado di influenzare il prezzo e praticare prezzi
superiori al costo marginale?
ESEMPIO1: Se un’impresa che detiene l’80% del mercato alza i prezzi e gli altri consumatori decidono di
rivolgersi ad altre imprese ma se il restante 20% del mercato è formato da imprese di piccole-medie
dimensioni, dovrebbero aumentare la produzione per soddisfare la domanda.
ESEMPIO2: Se un’impresa ha il 50% del mercato e alza i prezzi e tutti i consumatori decidono di spostarsi
nell’altro 50%. Queste altre imprese per soddisfare la domanda dovrebbero aumentare la produzione del
100% cioè dovrebbero raddoppiarla in modo istantaneo.
Una situazione così si verifica ma è difficile che un’impresa riesca a cambiare la propria produzione da un
giorno all’altro. È per questo motivo che un’impresa che ha una larga quota di mercato è presumibilmente
dominate in questo senso perché può, almeno nel breve e medio periodo, alzare i prezzi senza il rischio di
perdere troppi clienti.
Nel lungo periodo invece può essere che ci siano entrate di altre imprese, può esserci un ampliamento degli
stabilimenti produttivi delle imprese più piccole etc..
Posto che questo sia il motivo per cui si guarda la quota di mercato, le soglie viste danno una prima
indicazione all’antitrust su come interpretare una posizione dell’impresa sul mercato.

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La stessa quota può tuttavia avere significativo diversi in mercati distinti. La stessa quota del 50% può avere
un significativo diverso in mercati diversi perché la stessa elasticità della domanda e dell’offerta in mercati
diversi può variare a seconda delle abitudini dei consumatori e della capacità produttiva delle imprese.
Un altro elemento da tenere in considerazione per definire la quota di mercato è la STABILITÀ della quota di
mercato nel tempo. Possono esserci mercati in cui le quote sono volatili cioè passano dal 50 al 40, al 20 in
poco tempo. La conoscenza del settore in quel mercato è fondamentale perché se si fa una fotografia in un
unico istante di tempo possiamo vedere da quella fotografia una situazione che nella realtà si modifica molto
rapidamente nel tempo.

Non c’è solo la quota di mercato per stabilire se un’impresa ha potere di mercato. C’è anche la
DISTRIBUZIONE DIMENSIONALE DELLE ALTRE IMPRESE PRESE IN CONSIDERAZIONE- STRUTTURA DEL
MERCATO.
Una quota di mercato al 50% è un indice di dominanza e di potere di mercato ma l’altro 50% da chi è servito?
Può essere servito da 50 imprese ognuna delle quali detiene l’1% o due imprese che hanno il 25% del
mercato. È evidente che le due soluzioni sono diverse.
Oppure potremmo avere la situazione in cui un’impresa ha il 51% e l’altra che ha il 49%.
Per questo è utile considerare nel suo complesso il mercato andando a vedere sia la numerosità delle imprese
(quante imprese ci sono nel mercato), sia la loro distribuzione dimensionale (come sono distribuiti le quote
di mercato tra le imprese presenti). Questo perché la distribuzione dimensione influenza la capacità
dell’impresa di alzare profittevolmente il prezzo. La struttura di mercato è definita da gli indici di
concentrazione che sono dei numeri associati a mercati che ci dovrebbero dare una idea proprio di questi
due elementi: numerosità e distribuzione quote dimensionali.
Quali si utilizzano?
1) Rapporto di concentrazione: è la somma delle quote di mercato delle M imprese più grandi.
A) Si ordinano le imprese dalla più grande alla più piccola
B) Si considerano le prime M imprese  prendo tante imprese di quanto conoscono la quota di
mercato. Più imprese ho, meglio è.
C) Si sommano le loro quote di mercato
Esempio; impresa A 50%, impresa B 20%, impresa C 10% il rapporto di concertazione I3 è 0,8.
Proprietà del rapporto di concentrazione:
I. I dati necessari non sono molti rispetto agli indicatori. Ho bisogno delle quote di mercato
delle imprese più grandi
II. Non tiene conto del numero e della distribuzione dimensionale delle altre imprese e delle
distribuzioni dimensionali delle prime M imprese. Quindi non tiene conto di quello che c’è
oltre le M più grandi imprese che considero e non tiene conto neanche della distribuzione
dimensione delle prime M imprese.
III. Valore massimo 1
Il rapporto di concentrazione fa una fotografia di una situazione che può nascondere come numero altre
cose. È un indice comunque molto utilizzato.
Problema imprese che hanno formazioni diverse, possono dare vita allo stesso rapporto di concentrazione.
Consideriamo il caso numero nella slide. Per queste ragioni si utilizza l’indice HH.
2) Indice di Herfindal-Hirschman: la somma dei quadrati delle quote di tutte le n imprese. Quindi si
considerano tutte le imprese che sono nel mercato, si osserva la loro quota di mercato, si eleva al
quadrato la loro quota e si fa la somma.
È un indice diverso da quello precedente e ha le seguenti proprietà:
valore massimo 1
valore minimo è 1/n, è il valore che si ha quando c’è perfetta asimmetria tra imprese nel mercato.

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Nella prassi si usa questo valore ma moltiplicandolo per 10.000 perché siccome è un indice che
prende in considerazione le quote di mercato, poiché le quote di mercato sono un numero decimale
compreso da 0 e 1 e poiché elevando al quadrato un numero compreso tra 0 e 1 si ottiene un numero
ancora più piccolo, avremmo dei valori 0, qualcosa. Quindi per leggere meglio il valore si moltiplica
per 10.000 il valore che si ottiene.
sono necessari i dati relativi a tutte le imprese
L’aspetto più interessante di questo indice rispetto al rapporto di concentrazione, è che quando la
distribuzione dimensionale diventa più diseguale cioè vi è più asimmetria nella distribuzione delle
quote di mercato, aumenta l’indice HH. Perché? Perché l’indice da peso maggiore alle quote di
mercato maggiori proprio perché eleva al quadrato le quote di mercato. Riduce invece il peso
all’interno dell’indice per le quote di mercato molto piccole. Quindi tanto più diseguale è la
distribuzione dimensionale delle imprese, tanto maggiore è il valore dell’indice.
questo indice prende in considerazione tutte le imprese del mercato. Si dovrebbe in teoria
conoscenza le quote di mercato di tutte le imprese. Per le imprese più grandi è ottenibile. Il problema
sono le imprese più piccole perché spesso non pubblicano i loro bilanci oppure bisogna cercare il
dato in maniera più accurata. Cosa si può fare in questi casi? Si possono fare delle simulazioni cioè se
magari non conosco la distribuzione dimensionale delle imprese che soddisfano la domanda per 10%,
posso assumere che in quel 10% possono starci 10 imprese che hanno l’1% ciascuno oppure 20
imprese che hanno lo 0,5% ciascuno. Posso fare simulazioni e vedere cosa viene fuori.
Questo indice viene utilizzato dall’AGCM e per prassi si ritiene un mercato concentrato se HH>2000
e non concentrato se HH<1000.
LE BARRIERE ALL’ENTRATA
La quota di mercato è un indice importante per il potere del mercato, è un elemento strutturale che ci
consente di stimare il potere di mercato di una o più imprese. Tuttavia un’elevata quota di mercato non da
potere di mercato cioè non è una garanzia di potere di mercato se vi è una forte sostituibilità dell’offerta o
della domanda. Abbiamo fatto l’esempio dell’impresa che detiene una quota di mercato tale per cui nel
breve-medio periodo può permettersi di aumentare il prezzo perché per le altre imprese è difficile
concorrere. Se invece vi è la possibilità per soggetti esterni di entrare nel mercato in seguito ad aumenti di
prezzo, allora questa concorrenza potenziale potrebbe limitare potere di mercato anche in presenza di quote
di mercato elevate.
Quindi anche una quota di mercato del 50% non è garanzia assoluta di potere di mercato. È certamente un
elemento che va in quella direzione ma se c’è capacità di imprese di entrare nel mercato a seguito di aumenti
di prezzo, questo potere di mercato può essere limitato.
In relazione a questo aspetto è stata sviluppata una teoria molto particolare dalla scuola di Chicago. Si tratta
della teoria dei mercati contendibili che si basa sulla presenza o assenza delle barriere all’entrata di un
mercato. La barriera all’entrata è una asimmetria tra chi sta dentro e chi sta fuori al mercato. La teoria si basa
sulla presenza di barriere all’entrata e all’uscita. Barriere all’entrata possono essere di natura tecnologica,
legale, strategica. Molto spesso le barriere all’entrata dipendono dai costi perché per entrare è necessario
avviare un processo produttivo e quindi installare un processo produttivo e sostenere quindi costi fissi molto
elevati. Spesso i costi sono talmente elevati che scoraggio l’ingresso di concorrenti sul mercato.
Ci sono anche costi di uscita dal mercato. Se un’impresa entra nel mercato e per farlo deve acquistare una
serie di infrastrutture che servono per avviare la produzione, se per qualche motivo quell’impresa vuole
uscire dal mercato si trova di fronte al problema di dover dismettere questi costi fissi. Il costo di uscita può
essere elevato se non esiste un mercato di rivendita delle attrezzature, delle macchine ecc..
I costi di uscita dipendono da quanto quegli investimenti fissi sono specifici rispetto al mercato in cui si sta
entrando. Cioè se i macchinari di cui ci siamo dotati possono essere usati solo in quel mercato in cui siamo
entrati, i costi di uscita sono elevati sicuramente perché non esiste un mercato di rivendita di quelle
attrezzature.

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La teoria ci dice che in una situazione in cui i costi di entrata nel mercato sono bassi e anche le barriere di
uscita dal mercato sono basse, è possibile che un’impresa che ha un’elevata quota di mercato, al limite è
monopolista in un mercato, pratichi prezzi vicini a quelli concorrenziali perché la minaccia di entrata e di
concorrenza di prezzo è forte proprio perché entrare e uscire dal mercato non ha alcun costo. Se non esistono
Barriere all’entrata e all’uscita, un’impresa può entrare e uscire liberamente senza costo. Se vi è un
monopolista che pratica un prezzo superiore al costo marginale che garantisce profitti, allora un’impresa che
sta fuori può osservare questa situazione e decidere di entrare nel mercato per conseguire anch’essa dei
profitti.
Esiste una minaccia potenziale costante se le barriere sono inesistenti. In virtù di questa considerazione,
l’impresa che già si trova nel mercato dovrebbe, per evitare l’entrata di concorrenti, applicare un prezzo
molto basso. Questa teoria portava a una conclusione paradossale perché stabiliva che in assenza di barriere
all’entrata e all’uscita, anche un monopolista avrebbe praticato un prezzo uguale a quello concorrenziale.
Questo tipo di teoria aveva una motivazione anche politico-regolatoria cioè si oppone a tutte le forme di
controllo di imprese che hanno potere di mercato. È una teoria che va contro l’antitrust.
I mercati a cui facevano riferimento i teorici dei mercati contendibili erano mercati particolari. Per esempio
si faceva riferimento al trasporto aereo. Nel trasporto aereo le entrate e le uscite non hanno costo. Oppure
un altro esempio è il servizio taxi.
La teoria funziona solo se le barriere all’entrata e uscita sono inesistenti, cioè i costi di entrata e uscita di
mercato sono pari a zero.
Ultimo elemento da segnalare in relazione alle quote di mercato come indici di potere di mercato è il
countervailing buyer power cioè una situazione in cui una quota di mercato non garantisce potere di mercato
se vi è una situazione di monopolio bilaterale. Può esserci un’impresa che si rivolge ad un unico acquirente
(impresa a monte) di dimensioni notevoli per produrre beni e servizi. In questo caso l’impresa a valle può
subire il monopolio a monte, è costretta a pagare un prezzo elevato per assicurarsi un certo input e viene
limitato il potere di mercato a valle che in base alla quota di mercato sembrerebbe avere una quota id
mercato alta.
Martedì 07.10.2020
ANALISI ECONOMICA DELLE FATTISPECIE ANTITRUST
LE INTESE
Il diritto della concorrenza italiano e comunitario vietano tutti gli accordi, pratiche concordate e decisioni
associative che hanno per oggetto o per effetto il restringere la concorrenza in modo significativo.
COSA SONO VIETATI QUINDI?
 Accordi di natura formale come un contratto tra imprese
 Accordi informali come le decisioni prese congiuntamente che non sono trascritte in nessun
documento ma che consistono in una pratica collusiva.
 Le pratiche concordate sono comportamenti coordinati tra imprese
 Decisioni associative che possono essere accordi formali o informali all’interno di una pratica
associativa che consiste nel coordinare, organizzare il comportamento di imprese diverse all’interno
del quale possono essere rintracciati comportamenti di naturale collusiva che hanno per oggetto o
per effetto il restringere la concorrenza.
Questo tipo di definizione che troviamo nelle norme è molto ampia perché è necessario includere tanti
possibili comportamenti che si sa possono accadere nei mercati.
ACCORDO
Per quanto riguarda gli accordi possono essere presi da più imprese in contesti in cui i rappresentati di queste
si riuniscono fisicamente o comunque si scambiano informazioni e la presenza di un rappresentante di
un’impresa in queste situazioni può essere sufficiente a includere anche quel rappresentante che non
partecipa attivamente a un eventuale riunione, tra coloro che sono accusati di far parte di un’intesa. Questo
secondo la regola del chi tace acconsente. Se sono rappresentante di un’impresa e mi trovo in un contesto

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in cui altri prendono decisioni e io taccio in quella circostanza, non sono escluso dall’accusa di intesa in termini
di antitrust.
Dunque con accordo si intende una comune volontà delle imprese di attuare una politica, perseguire un
obiettivo o adottare un preciso comportamento nel mercato, a prescindere da come si sia manifestata la
volontà delle parti.
È un momento in cui le imprese manifestano la volontà di assumere un comportamento che può restringere
la concorrenza in un mercato. In questo tipo di definizione rientrano anche quelle situazioni in cui la volontà
sia manifestata in modi diversi, come abbiamo detto prima l’esempio del rappresentante che partecipa in
maniera passiva alla riunione dove si vogliono adottare comportamenti collusivi. Comunque la PRESENZA di
quel rappresentante manifesta la volontà di aderire a quell’intesa.
PRATICHE CONCORDATE
Si tratta di situazioni in cui non c’è un accordo formale o informale tra imprese che porta ad adottare un certo
comportamento parallelo tra imprese.
Questo tipo di comportamento può essere condannato alle norme antitrust anche se ci sono più imprese che
si comportano in modo molto simile per le strategie di prezzo, di quantità ecc. Parallelismo di comportamenti
che non è vietato di per sé ma se osservato genera illeciti sospetti. Se l’autorità antitrust è in condizione di
osservare un parallelismo di comportamenti dovrebbe approfondire questo aspetto.
La pratica è una “forma di coordinamento “che non è stata spinta fino all’approvazione di un vero e proprio
accordo ma costituisce una collaborazione tra imprese a danno stesso della concorrenza. Dunque un
comportamento che non è preceduto da un accordo formale, da una decisione comune di imprese di
adottare un certo comportamento ma semplicemente quel comportamento, magari caratterizzato da
parallelismo, costituisce una consapevole collaborazione tra le imprese stesse danno della concorrenza.
Si cerca di estendere la definizione per includere tanti casi particolari. Per esempio contatti anche indiretti
per lo scambio di informazioni e successivamente condotta coordinata sul mercato. Si osserva una situazione
in cui vi è uno scambio anche indiretto di informazione tra imprese può generare sospetto perché ciò può
condurre a coordinare comportamenti scorretti sul mercato in termini di fissazione dei prezzi, in termini di
spartizione dei mercati.
COMPORTAMENTI UNILATERALI
Vi è un’impresa che ha una posizione particolare nel mercato (50-60% del mercato), adotta le proprie
decisioni in modo indipendenti dai concorrenti ma allo steso tempo comunica ai propri concorrenti di voler
adottare in futuro determinate decisioni di prezzo, di quantità e così via.
Anche la semplice comunicazione di questa volontà può costituire, per tutti le imprese coinvolte, sia quella
in posizione dominante sia le altre, un problema nel senso che possono essere tutte accusate di intesa, pratica
illecita ai fini antitrust.
Questo è tipico nei rapporti verticali cioè un fornitore che impone un certo comportamento a chi sta a valle,
quindi a una serie di imprese, che accettano tacitamente l’accordo.
Anche l’accettazione tacita può essere interpretata come intesa.
Dunque le tipologie comportamentali che stanno nella definizione di intesa sono molto numerose.

PER OGGETTO O PER EFFETTO


Oggetto ed effetto significa che l’intesa può generare dei risultati oppure no. La norma è chiara: o l’uno o
l’altro. Cioè una volta accertato l’oggetto non è necessario verificare l’effetto.
Come si restringe la concorrenza? Oggetti restrittivi:
-Fissazione dei prezzi coordinata
-Fissazione della quantità coordinata
-Fissazione di quote di mercati
-Spartizione del mercato
-Fissazione di pratiche commerciali

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-Ecc
Sono tutti oggetti restrittivi della concorrenza. Rappresentano obiettivi che si pongono le imprese quando
colludono.
Tutti questi oggettivi restrittivi hanno come conseguenza la riduzione del benessere dei consumatori.
Perché? Questa è la ratio del divieto di intese nel diritto antitrust. In questo modo un oligopolio, un gruppo
di imprese che si coordina trasforma di fatto un oligopolio in un monopolio. Proprio perché il diritto antitrust
nasce per impedire che posizioni monopolistiche possano ridurre il benessere dei consumatori, allora tutto
ciò che può condurre a questa situazione deve essere vietato. Questo ragionamento è la logica di fondo del
divieto di intese.
Gli effetti di una intesa possono essere
 Attuali: effettivi reali osservabili sui mercati
 Potenziali: un intendo dell’intesa che non viene realizzato ma la volontà di ottenere un certo effetto
anticoncorrenziale può essere condannato
Se un’intesa non ha per oggetto o per effetto la restrizione della concorrenza, quindi esentata dal divieto, lo
sono anche le restrizioni ad essa accessorie. Quindi se un’intesa tra imprese, una pratica concordata, un
accordo collusivo può essere messo in atto e non avere per effetto o per oggetto la restrizione della
concorrenza (con delle condizioni che devono essere presenti), anche tutto quello che deriva dall’intesa
stessa e che non ha un effetto diretto sulla concorrenza non viene vietato.
SIGNIFICATIVITÀ DELLA RESTRIZIONE
COSA SIGNIFICA? Bisogna far ricorso a elementi strutturali di mercato.
In particolare quando consideriamo accordi tra imprese concorrenti il divieto non si applica quando le
quote di mercato sono inferiore al 10%.
Quando le intese si concludono tra imprese che non sono concorrenti (per esempio quando c’è un fornitore
e un cliente quindi imprese legate da un rapporto di fornitura) il divieto non si applica quando la quota di
mercato di ciascuna impresa è inferiore al 15%.
Sono previste altre soglie in caso di imprese legate da accordi particolari relativi ad esempio, alla
distribuzione di beni e servizi. A seconda del rapporto che hanno le imprese che partecipano all’intesa si
vanno a considerare delle quote diverse in ciascun mercato per stabilire se è un’intesa che restringe
significativamente la concorrenza oppure no.
Quando un’intesa ha come obiettivo la fissazione di prezzo o la spartizione di mercati le intese sono vietate
in ogni caso, indipendentemente dalle quote di mercato.
NORME STATALI
Queste norme che riguardano le intese non si applicano alle condotte di imprese quando queste sono
stabilite dalla legge. È abbastanza raro che vi siano disposizioni di legge che autorizzino imprese ad accordarsi
sul livello dei prezzi. È abbastanza raro.
Tra l’altro anche gli stati non possono mantenere o adottare misurano che limitano o riducono la concorrenza
tra imprese e non tanto perché gli stati o i governi sono oggetto dell’interesse antitrust (nella definizione di
impresa si fa riferimento a tutti una serie di soggetti ma non stato e governi). Ciò nonostante in maniera
indiretta gli stati non possono adottare anticoncorrenziali perché non possono essere adottare misure che
compromettono la realizzazione degli scopi del Trattato. Poiché tra gli scopi del Trattato vi è quello di
incentivare gli scambi di beni e servizi fra i membri dell’U.E, la fissazione di norme anticoncorrenziali va a
inficiare gli scambi tra gli stati. La creazione di un cartello va a inficiare la facilità degli scambi internazionali.
Quindi in maniera indiretta anche Stati e Governi sono soggetti a questo tipo di divieto di formazione di
cartelli. Non come soggetto principale dell’azione antitrust ma indirettamente come istituzioni che possano
creare condizioni anticoncorrenziali.
Raramente accade che lo stato o un governo imponga a un’impresa di creare un cartello. Non capita quasi
mai.

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ESENZIONI: deroga al divieto
Un’intesa può essere considerata lecita se genera effetti pro competitivi che vadano a compensare quelli anti
competitivi.
Il diritto antitrust dà per scontato che le intese comunque sono un male per la concorrenza perché genera
effetti anti competitivi. Tuttavia è possibile che alcune intese possano generare effetti pro competitivi che
vadano a compensare quelli anti competitivi. Le parti dell’intesa devono dimostrare queste 4 condizioni:
1) L’intesa migliora la distribuzione e produzione di beni o servizi oppure promuove il progresso tecnico
2) I consumatori nei mercati coinvolti devono beneficiare di tali conseguenze.
3) L’intesa non deve prevedere restrizioni che non siano indispensabili a raggiungere quell’obiettivo
4) L’intesa non deve eliminare una parte sostanziale della concorrenza
(Vedremo alcuni di questi punti in relazione a specifiche intese o operazione di concentrazioni)
CHI DEVE IN PRIMA BATTUTA FARE QUESTA VALUTAZIONE?
Fino al regolamento n.1 dl 2003 in Italia era possibile fare una valutazione preventiva che avesse queste
caratteristiche.
Oggi, dopo il regolamento comunitario n.1 del 2003, le imprese valutano da sole la legittimità dei propri
accordi sulla base delle condizioni viste.
Successivamente, se sono sollecitate, le autorità nazionali e sovranazionali possono fare una valutazione ex
post delle caratteristiche dell’intesa. Per le imprese sono valutazioni complesse perché richiedono la
conoscenza del diritto antitrust, la conoscenza dei precedenti che riguardano quel tipo di pratica e c’è un
rischio che si inizino attività previste dall’intesa e successivamente la commissione blocca quell’attività
perché gli effetti anti competitivi superano quelli pro competitivi.
Infine, in alcuni casi la commissione europea e autorità nazionali possono esentare intere categorie di
accordi, in modo da non esaminare ogni volta intese che ricadono in quella categoria. ESEMPIO: la
commissione può stabilire che un accordo tra imprese distinte realizzate in campo farmaceutico per ottenere
un’innovazione di prodotto e raggiungere la produzione di un farmaco che può risolvere determinate
patologie gravi.

Torniamo alla questione cruciale del divieto di intese: PERCHÉ SONO VIETATE LE INTESE?
Gli accordi di cartello tendono ad alzare i prezzi, ridurre la quantità prodotta, ridurre la varietà di prodotto
ecc, così come si comporterebbe un monopolista.
Attraverso un cartello si ricreano le condizioni di monopolio e queste sono dannose per i consumatori.
L’analisi economica mostra che in un mercato di monopolio il benessere dei consumatori è inferiore al livello
di benessere che si raggiunge in un mercato concorrenziale.
VEDI QUADERNO
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Ci sono alcune forme di intese che sono odiose e vietate di per sé. Le intese che riguardano fissazione di
prezzi o quantità è difficile che siano esentabili. È molto raro che le intese riguardanti prezzi e quantità siano
ammesse.
Arriviamo a un punto più strettamente relativo all’analisi economica. Ci sono situazioni in cui le imprese si
accordano su prezzi, quantità, si spartiscono il mercato e questo fa pensare che sia semplice accordarsi. Ci
sono elementi che rendono più complicato l’accordo tra imprese e soprattutto ci possono essere situazioni
in cui in teoria le imprese sono coscienti che un’intesa, una pratica collusiva farà aumentare i profitti ma allo
stesso tempo la messa in pratica, l’implementazione del cartello è complicata.
Quindi è necessario analizzare il concetto di STABILITÀ DEI CARTELLI. È possibile che imprese si accordino su
prezzi, su quantità però poi non riescano a mantenere stabile un certo cartello. Per studiare questo problema
dobbiamo ricorrere ad alcuni elementi di analisi strategica. In particolare gli economisti per studiare strategie
di impresa utilizzano alcuni elementi semplici e altri più complessi della TEORIA DEI GIOCHI. La teoria dei

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giochi è una teoria matematica elaborata nello scorso secolo da vari autori e che è risultata molto utile per
studiare queste forme strategiche.
Vediamo il problema della stabilità dei cartelli con un esempio che rappresenta la forma più semplice di
cartello:
Assumiamo che vi sia un mercato dove ci sono solo due imprese. Questo imprese producono lo stesso
prodotto. Le imprese scelgono soltanto il prezzo di questo prodotto e le informazioni che vediamo sono
disponibili alle imprese allo stesso modo (informazioni trasparenti).
Queste imprese sceglieranno una volta il prezzo (quindi se praticare quello alto o quello basso) e lo faranno
simulatamente. Oppure l’impresa A sceglie senza sapere quella che sarà la scelta di B e viceversa.
VEDI QUADERNO
Giovedì 08.10.2020
Riepilogo: Stavamo vedendo il divieto di intese restrittive.
Abbiamo chiarito qual è il punto centrale del divieto di intese quindi la logica che ha spinto il legislatore a
vietarle. Il punto è che le intese, tramite accordi sui prezzi, accordi sulle quantità, accordi sulla spartizione di
mercato, ricreano condizioni di monopolio che rischia di essere dannosa per il benessere dei consumatori.
Questo perché si tende a ridurre la quantità scambiata, all’aumentare i prezzi oppure anche altri possibili
effetti collaterali come la riduzione delle varietà di prodotto disponibile, possibile riduzione della qualità dei
prodotti o ritardo e rallentamento del progresso tecnico.
Abbiamo più volte detto che da un lato le intese sono la fattispecie più combattuta e odiosa dalle norme
antitrust e dalle commissioni antitrust, dall’altra ci sono anche possibili esenzioni. Oggi vedremo in quali
contesti le esenzioni possono essere concesso al divieto.
In conclusione abbiamo visto quali sono i fattori che possono facilitare o rendere difficile la conclusione di
accordi tra imprese. Un elemento che abbiamo visto tramite un gioco in forma normale è la stabilità o
instabilità di un cartello. Considerazione di ordine strategico possono rendere instabile un cartello. Quindi da
un lato mostrano queste considerazioni strategiche come non sia così naturale che si creino dei cartelli, delle
intese ma dall’altro per fare in modo che le intese si creino devono sussistere delle condizioni che ora
vedremo. Quindi c’è un continuo avanti indietro tra condizioni che facilitino e aumentano la probabilità che
si verifichi condizioni di cartello e altre che la riducono. Perché vediamo questi elementi? Perché le autorità
antitrust devono prendere in considerazioni questi elementi quando vanno a monitorare un certo mercato,
monitorare un comportamento delle imprese e quindi valutare la probabilità che certe comportamenti
ascrivibili all’intento di adottare condotte collusive.

FATTORI STRUTTURALI CHE FACILITANO LE INTESE: fattori che hanno a che fare con la struttura del mercato.
non sono fattori comportamentali ma sono fattori relativi alle caratteristiche oggettive di un mercato
 Barriere all’entrata: Asimmetria tra chi sta dentro il mercato e chi sta fuori dal mercato. Se vi sono
forti barriere all’entrata facilita la formazione di cartelli perché se le imprese che sono dentro il
mercato si organizzano e creano un cartello, lo fanno per aumentare i loro profitti. Se un osservatore
esterno nota che le imprese dentro il mercato ottengono profitti elevati, deciderà di entrare nel
mercato. L’entrata di quell’impresa va a inclinare la possibilità che i cartelli si creino e si mantengano.
Quindi più ci sono barriere all’entrata, più è facile che si creino cartelli.
 Grado di concentrazione del mercato: quando un mercato è altamente concentrato è probabile che
si crei un cartello. Il che significa che vi sono poche imprese e che queste hanno un’elevata quota di
mercato. Meno si è e più è facile mettersi d’accordo. I mercati più concentrati sono quelli che
preoccupano di più in termini di probabilità di formazione di un cartello. Un mercato molto
frammentato, costituito da imprese di piccole dimensione la creazione di un cartello è più
complicata.
 Collegamenti diretti e indiretti tra imprese: maggiori sono questi collegamenti, più probabile sarà la
formazione di un cartello, questo perché è più probabile che le imprese si scambino informazioni

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riguardo l’intenzione di creare un cartello. Le partecipazioni incrociate sono un collegamento diretto
fra le imprese. Partecipazione incrociata può significare anche che i rappresentanti di imprese
distinte si trovino seduti intorno a un tavolo perché magari fanno parte del consiglio di
amministrazione di una terza impresa. In questo caso si possono creare situazioni in cui i contatti fra
i rappresentanti delle imprese sono frequenti, numerosi e questo aumenta la probabilità che nasca
la volontà di creare un cartello.
 Somiglianza tra imprese, per esempio omogeneità del prodotto: se consideriamo imprese che hanno
processi produttivi simili, si rivolgono allo stesso mercato, agli stessi consumatori, offrono beni e
servizi molto simili tra loro sarà più semplice accordarsi su alcuni elementi come il prezzo da
praticare. Se invece i beni offerti sono differenziati, le imprese offrono bene e servizi a segmenti
diversi di consumatori all’interno del mercato, l’accordo su prezzi, quantità e produzione risulta
difficile.
 Facilità di individuare deviazioni all’accordo: tanto maggiore è la capacità di individuare lo
scartellamento da parte di un partecipante all’intesa, tanto minore sarà la probabilità di un cartello.
Abbiamo nel gioco in forma normale di ieri che i cartelli sono degli equilibri instabili perché uscire dal
cartello e adottare una pratica non prevista dal cartello può consentire l’aumentare dei propri
profitti. Se l’accordo era di applicare un px alto su un prodotto, l’impresa che esce dal cartello
(scartella) e pratica un px più basso potrebbe ottenere una quota di mercato molto elevata. Questo
riduce la probabilità di crearsi di cartelli.
Un esempio è la capacità produttiva elevata. Cioè, se un’impresa ha una capacità produttiva elevata
ha la possibilità di deviare all’accordo di cartello che riguarda prezzi, perché praticando un prezzo più
basso rispetto a quello di cartello, riuscirebbe ad accaparrarsi una quota di mercato elevata posto
che abbia una capacità produttiva sufficiente a soddisfare la maggior domanda.
 Stabilità – rigidità della domanda: Più stabile è la domanda, più rigida è la domanda più facile è la
gestione di un cartello perché si conosce la funzione di domanda, la domanda non varia molto
rispetto al prezzo (quindi è rigida) e questo dà sicurezza e garanzia ai membri di un cartello perché
permette di osservare eventuali deviazioni dall’accordo di cartello. Quindi fa sì che i mercati dove la
domanda è più rigida siano quelli dove è più probabile che il cartello si formi.
In un mercato dove la domanda è rigida c’è più incentivo a creare cartelli. Così come c’è maggiore
incentivo a essere monopolisti in un mercato dove la domanda è particolarmente rigida. I profitti
ottenibili sono maggiori perché i consumatori non hanno altre possibilità di sostituzione rispetto ai
prodotti offerti sul mercato. Qualunque sia la scelta del monopolista in termini di prezzo, di quantità
venduta, qualunque sia la scelta del cartello che riproduce le condizioni monopolistiche avremo
comunque che la domanda non varierà molto.
 Bassa concentrazione degli acquirenti cioè quelle imprese che si collocano a valle del processo
produttivo, a valle del mercato di cui studiamo la possibile creazione di un cartello. Se abbiamo un
mercato molto concentrato a monte con 3-4 imprese di medie dimensioni che fornisce un certo
prodotto a un insieme frammentato di imprese a valle, queste imprese a valle riducono la loro
possibilità di opporsi a eventuali accordi di cartello.
Questi fattori rendono semplicemente più probabile la realizzazione di mercati. Non è detto che si formi ma
comunque sono fattori che fanno in modo che le commissioni antitrust possano monitorare un po' di più
mercati che hanno queste caratteristiche.
FATTORI COMPORTAMENTALI CHE FACILITANO LE INTESE
 Scambio di informazione: senza acquisizione o scambio di informazioni i cartelli non potrebbero
esistere. I cartelli si formano sulla base di conoscenze minime delle caratteristiche del mercato e
anche dei concorrenti.
Che tipo di informazioni? se vi è un mercato in cui vi sono poche imprese di grande dimensione, lo scambio
di informazioni private è vietato. Lo scambio di informazioni che riguarda le singole imprese sono vietate

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dalle commissioni antitrust. È permesso lo scambio di informazioni solo in termini di dati aggregati. Questo
può avvenire per esempio quando le imprese che fanno parte di un mercato si riuniscono all’interno di un
contesto associativo (associazione di categoria). All’interno di questi contesti ciò che è permesso è lo scambio
di informazioni relative ai dati aggregati cioè dati sul mercato e non dati delle singole imprese. Le autorità, le
commissioni devono essere molto attente proprio a queste situazioni, circostanze in cui le imprese possono
scambiarsi informazioni. Maggiore è lo scambio di informazioni, maggiore è la probabilità che si arrivi a un
cartello.
Da questo punto di vista sono di particolare attenzione alcune CLAUSOLE che vengono utilizzate dalle imprese
nei confronti dei consumatori.
- Clausole inglesi con cui il fornitore si impegna a offrire ai propri clienti le stesse condizioni offerte da
fornitori concorrenti.
- Clausola del cliente favorito – most favoured client si tratta dell’impegno del fornitore a offrire le
stesse condizioni a tutti i propri clienti. È la classica condizione per cui se il cliente trova un’offerta
migliore di quella che offrirebbe il fornitore, il fornitore si impegna a uguagliare quell’offerta.
Le imprese usano queste clausole per aumentare la propria domanda.
Queste sembrerebbero delle clausole contrattuali che aumentano la concorrenza perché sembrerebbero
migliorare le condizioni contrattuali. Tuttavia devono essere poste sotto l’attenzione dalle commissioni
antitrust perché spingono clienti e imprese a far circolare una grande quantità di informazioni di natura
privata cioè relative alle singole imprese.
Inoltre questo tipo di clausola spingono a una uniformità di prezzi, di sconti contrattuali e disincentivano a
offrire condizioni contrattuali diverse da quelle offerte dai concorrenti. Questi due elementi (flusso di
informazioni relative a singole e imprese; spinte da parte delle clausole a una sorta di uniformità delle
condizioni contrattuali possono condurre a un cartello o comunque ad aumentare la probabilità che un
cartello si formi.
In relazione a questo bisogna fare una precisazione. Normalmente nelle scienze economiche si dice che
maggiori sono le informazioni a disposizione dei clienti e dei consumatori, maggiore sarà il grado
concorrenziale. Se io consumatore mi trovo in un mercato in cui vengono offerti prodotti a un certo prezzo,
maggiore informazioni ho sulle caratteristiche dei prodotti, sui prezzi praticati o comunque sulle condizioni
contrattuali, più riesco a mettere in concorrenza le imprese che sono presenti su quel mercato. Quindi da
questo punto di vista sembrerebbe che lo scambio di informazioni, quindi la trasparenza delle condizioni
contrattuali complessive in un mercato aumenti la concorrenza tra imprese. È anche vero che lo scambio
indiretto di informazioni tra concorrenti può essere qualcosa di pericoloso perché sono informazioni che i
clienti delle imprese veicolano all’interno del mercato e indirettamente le imprese si scambiano informazioni
private e questo scoraggia eventuali deviazioni dall’accordo di cartello.
Questi sono gli elementi che aumentano la probabilità che si formino accordi di cartelli.
DEROGA AL DIVIETO
I cartelli non sono vietati sempre e comunque. Tranne accordi particolari che riguardano i prezzi, quantità,
spartizione di mercati che in genere sono scoraggiate dall’autorità antitrust in qualunque contesto.
Ci sono altre categorie di accordi che possono essere permessi. Devono sussistere delle condizioni affinché
gli accordi siano autorizzati dalle norme antitrust (terzo comma articolo 101 TFUE).
Quale tipo di accordi sono?
COOPERAZIONE ORIZZONTALE
1. Accordi di ricerca e sviluppo  le imprese uniscono le proprie risorse per portare avanti attività di
ricerca e sviluppo, quindi attività innovativa.
2. Accordi di produzione riguardano la produzione congiunta dello stesso prodotto da parte di
imprese distinte
3. Accordi di acquisto  prevedono che imprese a valle cerchino di ottenere condizioni contrattuali
migliori rispetto a quelle che sono offerte dalle imprese a monte

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4. Accordi di commercializzazione riguardano i mercati a valle cioè imprese che si accordano per
gestire congiuntamente alcune fasi della vendita e distribuzione di beni e servizi.
5. Accordi di normazione tecnica e tutela ambientale
ELEMENTI GENERALI:
Questi accordi non sono accordi di cartello perché non dovrebbero prevedere intese su prezzo, quantità.
Sono accordi che in teoria ne possono beneficiare anche i consumatori.
La commissione ha prodotto documenti relativi a questi accordi, soprattutto per evitare di decidere di volta
in volta se autorizzare o meno un accordo fra specifiche imprese. Dunque sono state elaborate linee guida
nel 2000-2001 riviste nel 2011 che riguardano le modalità di approvazione di alcune categorie di accordi che
sono autorizzare di default.
Abbiamo anche detto che la stragrande maggioranza dei casi, le imprese in modo autonomo devono valutare
la liceità dell’intesa ed eventualmente ex post le commissioni antitrust fanno un monitoraggio e un controllo
per valutare se sono state rispettate quelle condizioni che possono esentare dal divieto di intesa.
Un accordo può ricadere nella disciplina delle intese orizzontali e di quelle verticali a seconda del rapporto
delle imprese tra loro e della natura dell’accordo.
Anche se esistono linee guida che fanno risparmiare risorse e tempo alle autorità antitrust, comunque questi
accordi possono inferire tra di loro in base alle caratteristiche del mercato, al rapporto fra imprese, al potere
di mercato rilevato alle imprese ecc. Quindi quando si analizza un accordo è sempre necessario fare
preventivamente un’analisi del contesto strutturale in cui questo accordo prende vita. In generale questo è
vero per qualsiasi valutazioni delle fattispecie antitrust.

ACCORDI DI RICERCA E SVILUPPO - R&S


Elementi principali:
“Gli accordi di R&S (…) possono prevedere l’esternalizzazione di alcune attività di R&S, il miglioramento in
comune di tecnologie esistenti e una cooperazione in materia di ricerca, sviluppo e marketing di prodotti
completamente nuovi” (linee direttrici 2011/C 11/01)
Dunque gli accordi di ricerca e sviluppo si fanno pensando a un prodotto o a un processo nuovo rispetto alla
situazione esistente.
Perché dal punto di vista economico le imprese cooperano con altre in questi ambiti? Perché le imprese
singole potrebbero non avere risorse e competenze per portare avanti da sole queste attività. Ci sono forti
motivazioni economiche che giustificano questi accordi.
In alcuni casi le attività di ricerca e sviluppo comportano forti investimenti. Quindi già in termini assoluti una
singola impresa può non avere risorse o non riuscire a ottenerle da un finanziatore esterno che svolge
quest’attività. In secondo luogo, non ci sono solo costi ma rischi. Proprio perché la ricerca e sviluppo riguarda
qualcosa di ignoto, ovviamente questo comporta dei rischi. Si fanno investimenti (COSTI CERTI) pensando a
ricavi incerti (RISCHI). È un rischio che in alcuni casi le imprese da sole non possono assumere da sole. Quindi
stipulano accordi con altre imprese.
Inoltre nell’attività di ricerca e sviluppo possono esserci economie di scale. Anziché realizzare due laboratori
di ricerca per ottenere un nuovo prodotto (farmaco, un nuovo bene alimentare) si organizzano laboratori che
presentano economie di scala perché sono costi fissi e vengono poi spalmati su tutte una serie di attività che
vengono svolte successivamente. Questo genera economie di scale. Se vi sono economie di scale allora è
meglio che vi siano pochi soggetti che effettuano investimento di questo tipo altrimenti vi sarebbe uno spreco
di risorse.
Vi possono essere anche economie di gamma o di scopo cioè una situazione in cui il costo totale della
realizzazione congiunta di attività diverse è inferiore al costo totale delle stesse attività svolte in modo
separato.
Quindi vi sono forti motivazioni economiche che fanno comprendere come sia piuttosto diffusa la volontà
delle imprese di unire le proprie risorse, i propri sforzi condividere rischi di un’attività di ricerca e sviluppo. È

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anche questo il motivo per cui non è quasi mai vietata la cooperazione in ricerca e sviluppo quando questa
attività riguarda stadi iniziali della ricerca. Quindi quando riguarda fasi che non sono fasi produttive, che non
sino fasi di mercato e quando l’attività non prevede lo sfruttamento congiunto degli eventuali risultati della
ricerca e sviluppo.
Quando non c’è nessun legame con la fase di produzione, vendita e di eventuali processi di prodotti che
scaturiscono dalla ricerca e sviluppo, allora questi accordi sono consentiti.
Inoltre anche quando gli accordi di ricerca e sviluppo sono conclusi tra imprese che non sono concorrenti,
quindi non operano nello stesso mercato, anche in questi casi le commissioni autorizzano.
Quando è dimostrabile che le imprese all’interno dell’accordo non avrebbero la capacità di intraprendere
autonomamente l’attività di ricerca e sviluppo, l’accordo viene autorizzato.
Non sono valutazioni scontate e immediate. È necessario fare un’analisi della condizione del mercato, della
condizione delle imprese e del loro posizionamento in termini di filiera produttiva e a quel punto stabilire se
un certo accordo di ricerca e sviluppo mette a rischio la concorrenzialità di qualche mercato oppure no.
Questo tipo di valutazione è certamente importante in tutti quei contesti economici in cui le imprese di
piccole dimensioni costituiscono la maggioranza delle imprese. In Italia questo è un problema forte da anni.
Le dimensioni medie delle imprese in Italia sono inferiori da quelle che osserviamo in molti paesi esteri. In
questa situazione imprese di piccole-medie dimensioni, e alcune volte anche di grandi dimensioni, non hanno
risorse sufficienti per fare ricerca e sviluppo, non hanno capacità di rischiare. Quindi è strettamente
necessario che più imprese mettano in comune le proprie risorse.
C’è un altro problema nella valutazione di questi accordo cioè il mercato di riferimento. Rispetto a quale
mercato vanno valutati i pro e contro di una cooperazione di ricerca e sviluppo?
Da un lato, la ricerca può condurre a risultati innovativi che sono positivi anche per i consumatori. Dall’altro
lato, c’è il rischio che se facciamo lavorare insieme le imprese queste sviluppino una volontà di colludere. Su
quale mercato dobbiamo riferimento?
Ci sono due possibilità:
L’innovazione spessa genera nuovi mercati perché due imprese mettendosi insieme, uniscono le loro forze
per sviluppare un processo produttivo nuovo da cui scaturisce un bene o un servizio che prima non esisteva.
Oppure due imprese uniscono le forze per creare direttamente un prodotto nuovo e il mercato di quel
prodotto ovviamente non c’è.
1) Se la cooperazione va a migliorare un prodotto o un processo esistente, il mercato di riferimento è
quello esistente.
2) Se la cooperazione mira a creare un prodotto o processi nuovi, la valutazione dovrà riguardare anche
la “concorrenza nell’innovazione”. Le autorità dovranno fare una difficile valutazione di quelli che
sono i soggetti che in un dato momento competono per arrivare a una certa innovazione di prodotto
o di processo.
Ci sono delle linee guida che tendono a sveltire il lavoro delle commissioni. Per esempio dal 2001 (revisione
2011) la Commissione ha adottato un regolamento per l’esenzione dal divieto di intese di alcune forme di
cooperazione orizzontale: il regolamento esenta tutti gli accordi tra imprese che non detengano più del 25%
del mercato dei prodotti che potrebbero essere migliorati o rimpiazzati come risultato della cooperazione.
Due imprese: una ha il 10% del mercato e l’altra il 5% del mercato. Si mettono d’accordo per fare ricerca e
sviluppo per arrivare a un miglioramento di prodotti esistenti, questo tipo di intesa è esentata dal divieto. A
meno che gli accordi non contengano alcune restrizione vietate.
La presunzione si basa su un elemento strutturale del mercato. Non potrebbe essere altrimenti.
In alcuni casi è permesso anche lo sfruttamento congiunto dei risultati sotto certe condizioni. Se due imprese,
una ha il 10% del mercato e l’altra 5%, uniscono le forze per ricerca e sviluppo, ottengono un nuovo prodotto
o processo nuovo, sotto certe condizioni è possibile anche permettere a queste imprese di produrre quel
prodotto e immetterlo nel mercato.

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ACCORDI DI PRODUZIONE
Si possono presentare sotto forme diverse:
 Produzione congiunta tramite joint venture
 Subfornitura orizzontale: l’accordo è tra imprese concorrenti per cui una di queste imprese si
specializza nella produzione di un certo bene
 Subfornitura verticale: accordi tra imprese legate da rapporti di fornitura
Possibili effetti anti concorrenziali
È possibile che le imprese coordinano il proprio comportamento in termini produttivi, magari limitando la
produzione di un certo bene o un certo servizio.
Inoltre è possibile che questi accordi abbiano il fine di limitare l’accesso al mercato a terze parti. Due imprese
si accordano, producono una quantità elevate di un certo prodotto grazie allo sfruttamento di economie di
scala, di economie di gamma ecc e questo crea barriere all’entrata. I concorrenti potenziali osservano queste
situazioni e vedono che la maggior parte della domanda è soddisfatta da queste imprese che partecipano alla
joint venture e non entrano nel mercato.
Possibilità di esenzione
Se la quota congiunta delle parti non supera il 20% - in questo caso si presume che gli effetti positivi della
collaborazione prevalgano su quelli negativi.
Gli accordi non devono comunque contenere restrizioni particolarmente pronunciate della concorrenza
(fissazione di prezzi, quantità, quote di mercato, ecc)

ACCORDI DI ACQUISTO
ACCORDI DI COMMERCIALIZZAZIONE
ACCORDI DI NORMAZIONE TECNICA E TUTELA AMBIENTALE
Possibili effetti anticoncorrenziali
- Eccessivo potere di mercato a valle o a monte (accordi di acquisto)
- Coordinamento politiche di prezzo, ripartizione artificiale dei mercati (accordi di
commercializzazione)
- Ostacolo alle parti nello sviluppo di standard alternativi (accordi di normazione tecnica)
Possibilità di esenzione
- Accordi di acquisto e commercializzazione sono esentati dal divieto se le parti hanno congiuntamente
meno del 15%del mercato
- Normalmente gli accordi di tutela ambientale sono permessi
Vedi libro per questi tre.

LE INTESE VERTICALI
Tipologia di intesa molto importante. Finora abbiamo ragionato su intese orizzontali cioè su possibili accordi
che avvengono tra imprese che stanno sullo stesso mercato. Cioè tra imprese concorrenti. Questi sono gli
accordi più pericolosi infatti.
Gli accordi tra imprese che non sono concorrenti ma che si collocano su stadi diversi del processo produttivo
sono definite INTESE VERTICALI. Sono più interessanti per il ricercatore perché se sulle intese orizzontali c’è
una sostanziale avversità da parte delle autorità antitrust e da parte delle commissioni, sulle intese verticali
c’è da discutere.
Che tipo di intese verticali possiamo osservare sui mercati? Varie tipologie.
Spesso nella teoria economica viene utilizzato un modello per definire queste intese, modello che non
riprendiamo. È il modello del principale agente cioè un modello in cui vi è una parte, principale, che ha un
certo obiettivo e per raggiungerlo incarica di svolgere determinate operazioni.
Dunque la situazione è spesso descritta come modello principale agente in cui:
gli obiettivi delle due parti possono essere divergenti;

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l’agente dispone di maggiori informazioni rispetto al principale
Uno degli aspetti più importanti è l’attività di monitoraggio che deve svolgere il principale sull’attività
dell’agente.
Non utilizziamo questo modello. Ci concentriamo sugli aspetti pro e anti competitivi delle intese verticali.
Le intese verticali non generano troppe preoccupazioni antitrust. Quando ci sono effetti invece anti
concorrenziali questi sono inferiori rispetto agli effetti positivi delle intese.
Un altro elemento è che gli effetti di queste intese vanno di solito a ricadere nel rapporto delle parti che
partecipano alla intesa. I consumatori spesso non sono interessati dagli effetti delle intese verticali ma se lo
sono, lo sono positivamente.
Tuttavia può essere che le intese verticali favoriscano collusivo nei mercati a monte e a valle. Il principale
effetto anti concorrenziale è quello escludente cioè si esclude uno o più concorrenti nel mercato a valle e nel
mercato a monte.
L’analisi che facciamo adesso delle intese verticali va bene anche per le concentrazioni verticali.
TIPOLOGIE DI INTESE VERTICALI:
- Distribuzione monomarca L’acquirente si impegna ad acquistare i prodotti di un solo venditore.
Quindi entriamo in un negozio e sono esposti in vendita prodotti di una sola marca
- Distribuzione esclusiva Il fornitore vende a un solo acquirente in una data area geografica – il
distributore non può vendere nei territori “altrui”.
- Distribuzione selettiva Il distributore, quindi l’impresa a valle, non può rivendere il bene ad altri
distributori
- Fornitura esclusiva Vi è all’interno di una certa area (supponiamo UE) un unico acquirente dei
prodotti del fornitore
- Franchising Il franchisor (A MONTE) cede al franchisee (a valle), dietro corrispettivo, la propria
formula commerciale, diritti di proprietà intellettuale, assistenza tecnica e commerciale o una
combinazione di questi elementi. È una formula distributiva nel mondo.
- Imposizione prezzi di rivendita l’impresa che sta a monte che fornisce un certo prodotto all’impresa
che sta a valle, stabilisce che non può praticare un prezzo sopra un certo livello o sotto un certo livello
oppure stabilisce il prezzo da praticare. Dunque imposizione prezzi minimi, massimi o fissi
Queste tipologie non sono mutualmente esclusive cioè in una pratica possiamo ritrovare elementi dell’una o
dell’altra.

Mercoledì 14.10.2020
GLI ACCORDI DI TRASFERIMENTO DI TECNOLOGIA
Gli accordi di trasferimento di tecnologia riguardano i beni immateriali. Cioè uno o più soggetti producono
conoscenze che possono essere usate da chi l’ha generata oppure può essere oggetto di scambio, oggetto di
affitto. Il trasferimento tecnologico può avvenire in modi diversi. Che cosa viene trasferito? Viene trasferita
una tecnologica che si può incarnare in istituti giuridici diversi come brevetti, marchi, diritti di autore e design.
Sono elementi fondamentali degli ordinamenti giuridici che cercano di regolare queste attività delle imprese
e delle organizzazioni sotto il controllo dello Stato.
Si tratta di diritti di proprietà intellettuale, diritti che riguardano la conoscenza, la creazione. Sono diritti
diversi. Ognuno ha la sua particolare disciplina.
BREVETTI
I brevetti sono un istituto giuridico che tutela le invenzioni. Tutela le innovazioni di processo, di prodotto.
Ogni qualvolta vi è un soggetto o un gruppo di soggetti che generano un’innovazione, ha la possibilità di
depositare l’innovazione con allegata descrizione di ciò che si sta depositando, presso l’ufficio brevetti e
marchi che valutano il deposito di queste invenzioni e la loro originalità. Se il riscontro è positivo avviene la
registrazione. La registrazione garantisce per un periodo di 20 anni a chi ha depositato l’innovazione, il diritto
a sfruttare commercialmente e produttivamente quella invenzione.

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Perché esiste l’istituto giuridico del brevetto?
In sostanza il brevetto garantisce monopolio a chi ha fatto registrare la propria invenzione. Il brevetto tutela
l’esclusiva sullo sfruttamento dell’invenzione.
Serve per incentivare l’innovazione e la ricerca. È vero che il brevetto tutela l’innovatore ma lo si tutela perché
nessuno avrebbe incentivi a svolgere attività di ricerca e sviluppo, effettuare investimenti a dedicare tempo
per generare un’innovazione. Perché si vuole evitare l’incentivo a innovare? Perché la scienza economica ha
dimostrato che il progresso economico si fonda in gran parte sull’innovazione tecnologica. Se vogliamo un
progresso economico, sociale e culturale basato sull’innovazione è necessario in qualche modo creare
situazione in cui ci sono incentivi all’innovazione.
Questa è la spiegazione più frequente che viene data all’esistenza di brevetti, in particolare è la spiegazione
data dagli economisti. Tuttavia vi sono altre discipline che su questo aspetto non sono completamente
d’accordo. Cioè alcuni ritengono che l’innovazione può venir fuori anche da altro e non grazie all’innovazione
registrata da un certo individuo.
In generale l’istituto del brevetto esiste esattamente per quello che abbiamo detto. Se non ci fossero forme
di tutela dell’attività innovativa ci sarebbero minori casi di innovazione.
Finora abbiamo delineato l’aspetto centrale per spiegare e comprendere l’esistenza dei brevetti. Allo stesso
tempo, nell’istituto brevettuale si riconosce la natura monopolistica. Per questo motivo la tutela brevettuale
dura massimo 20 anni. Dopo di che chiunque può usare quel brevetto per produrre beni e servizi. Chiunque
può sfruttare commercialmente quell’innovazione. Per fare in modo che ciò possa accadere, è importante il
momento della registrazione perché viene resa pubblica l’innovazione in modo che chiunque possa osservare
in cosa consiste e fare in modo che alla scadenza chiunque possa sfruttarla.
Dunque allo scadere dei 20 anni viene dato modo di poter utilizzare quell’innovazione a tutti e permettere
quindi a chiunque di sfruttarla commercialmente.
Le imprese di medie e grande dimensioni, soprattutto quelle che fanno ricerca e sviluppo, depositano tanti
brevetti. La maggior dei brevetti depositati non è utilizzata, nemmeno da chi ha depositato. In generale molti
brevettano per fermare un’innovazione, per fare in modo che nessun’altro lo faccia prima.
MARCHIO
Il marchio è simile al brevetto ma riguardano delle caratteristiche che contraddistinguono un insieme di beni
e servizi. Il marchio può essere un nome, un logo o un disegno cioè qualcosa che identifica che quei beni o
servizi provengono da un certo produttore.
Il marchio viene registrato su alcune categorie di prodotti. Nessun’altro può vendere il prodotto simile con
quello marchio.
A differenza della protezione brevettuale, la protezione dei marchi va avanti all’infinito. Viene rinnovata ogni
10 anni.
Perché esiste la protezione del marchio? Cosa viene protetto con il marchio?
Evitare la confusione per i consumatori. Il marchio evita che il consumatore possa fare confusione non
riuscendo a distinguere tra il prodotto realizzato da un’impresa e quello realizzato da un’altra imprese. I
marchi riducono la confusione che può esserci nella mente del consumatore nel momento in cui sceglie il
prodotto, acquista il prodotto.
In questo modo si tutela anche eventuali investimenti che l’impresa ha assunto per proteggere il marchio,
far conoscere il prodotto ecc.
DIRITTI DI AUTORE
Si applica a una serie di contenuti creativi: una parola scritta, musica ecc. Tramite il diritto di autore si va a
tutelare la possibilità di sfruttare un’invenzione culturale.
La motivazione dell’esista del copyright è legata a incentivi economici. Se non ci fossero incentivi economici
per realizzare tali opere creative, poche persone si metterebbero a scrivere poesie ecc.
Non è facilmente dimostrabile che la creazione di opere culturali contribuisca allo sviluppo economico e
culturale di un certo popolo.

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Ci sono alcuni giuristi, filosofi del diritto, che sostengono che il diritto di autore esiste non tanto per creare
incentivo alla creazione di opere di natura culturale ma per il diritto di proprietà. Se scrivo una poesia, quella
poesia è mia e quindi per un certo periodo devo sfruttarla in modo esclusivo o devo evitare che qualcuno
possa sfruttarla.
Dunque sul perché esiste un diritto di autore c’è un forte dibattito.
DESIGN
Si cerca di tutelare l’incentivo a realizzare determinate opere che poi possono essere utilizzate in vario modo
a livello di consumo.

QUAL È LA MOTIVAZIONE DI QUESTI ISTITUTI GIURIDICI?


Questi istituti sono connessi al diritto antitrust perché con tutti questi vengono a crearsi delle situazioni di
monopolio, soltanto un soggetto può sfruttare commercialmente le innovazioni, le creazioni. Dunque
riusciamo facilmente a capire che tipo di legame c’è con il diritto antitrust.
Sicuramente la storia di questi istituti giuridici è più lunga rispetto al diritto antitrust, specialmente in paesi
come il nostro. Sono sicuramente nati prima. Per questo motivo potremmo pensare che i bisogni che vanno
a soddisfare questi istituti siano più importanti rispetto a quelle esigenze portate avanti dal diritto antitrust.
Comunque c’è un necessario compromesso tra situazioni di monopolio create da brevetti, marchi e diritti di
autore e tutela della concorrenza che invece è obiettivo delle norme antitrust.
Le motivazioni di questi istituti giuridici si applica anche alla concessione di licenze. Si tratta di una situazione
in cui per esempio, l’inventore che ha depositato un brevetto, può sfruttarlo commercialmente ma può anche
cedere l’esclusiva a terzi. Tale concessione è la concessione di una posizione di monopolio. Si applicano gli
stessi ragionamenti anche alla concessione di monopolio cioè se l’innovazione è importante, se l’innovazione
è un motore dello sviluppo economico allora viene tutelata anche la concessione di licenze.
La concessione di licenze di tecnologia ha questo obiettivo. Di per sé, la possibilità di concedere in licenza
una tecnologia è un incentivo per l’innovatore. L’innovatore investe risorse, tempo, denaro nella ricerca di
un’innovazione perché sa che può sfruttarla commercialmente in esclusiva, sia che può concedere l’esclusiva
a terzi. Questo è un incentivo economico che può aumentare l’attività di ricerca e lo sviluppo. Inoltre, la
diffusione di nuove tecnologie può essere un obiettivo della possibilità di concedere in licenza perché un
innovatore, un inventore può essere bravo e rapido a generare processi nuovi ma non essere in grado di
sfruttare commercialmente le nuove tecnologie.
Anche per questo motivo le normative antitrust non si oppongono a queste tipo di concessioni di licenze,
accordi tra imprese.
In generale ci sono possibili effetti concorrenziali:
-Riduzione di concorrenza tra le parti interessate cioè fra chi concede l’utilizzo della tecnologia e chi acquista.
Queste due parti si presuppone che non siano in concorrenza, non si comportano come concorrenti sui
mercati.
-Esclusione: l’inventore concede al soggetto X l’invenzione, automaticamente esclude terzi allo sfruttamento
di quell’invenzione.
-Forme di restrizione verticale quando l’accordo di licenza avviene tra imprese che si collocano a stadi
successivi del processo produttivo. In particolare l’impresa a monte sviluppa un processo produttivo nuovo
e una parte di questa innovazione può essere utilizzata dall’impresa che si colloca a valle. Quindi in qualche
modo si riduce la concorrenza a valle. Anche questo è un effetto di esclusione in fondo perché tutte le
imprese a valle che non partecipano all’accordo sono escluse.
Mercoledì 21.10.2020
I diritti di proprietà intellettuale creano condizioni di monopolio parziale, relativo allo sfruttamento
economico di marchi, brevetti ecc. Tuttavia ci sono motivazioni convincenti per la concessione di questi
monopoli parziali, per cui il diritto antitrust non va a incidere troppo su questo.

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La legislazione su marchi, brevetti ecc esisteva prima dell’approvazione antitrust nei vari paesi. È rimasta. Gli
orientamenti giuridici ritengono importante per lo sviluppo tecnologo, economico e culturale l’utilizzo di
questi diritti e quindi condizioni di monopolio.
Se questo vale per i diritti di proprietà individuale, vale anche per la concessione di licenze di questi diritti di
proprietà intellettuale.
Tuttavia possono esserci possibili effetti anticoncorrenziali perché di per sé queste concessioni ricreano
condizioni particolari nel mercato e quindi le autorità antitrust devono mettere sotto analisi ognuna di questi
episodi. Dal punto di vista giuridico la concessione di licenze non pone problemi antitrust perché se non pone
problemi lo sfruttamento di un brevetto, non deve porre problemi nemmeno la concessione in licenza del
brevetto. È necessario fare controlli in termini di posizione di mercato. Se le parti che si accordano per la
concessione di tecnologia hanno un potere di mercato elevato, dovuto alla quota di mercato elevata, bisogna
verificare che l’accordo non contenga clausole assolutamente vietate (fissazione prezzi, quantità, spartizione
dei mercati ecc). Queste clausole non devono essere comunque presenti negli accordi di trasferimento
tecnologico. Si chiamano clausole nere cioè fattispecie vietate dall’antitrust.
Clausole grigie= possibili elementi all’interno dell’accordo che possono essere ritenute pericolose in termini
antitrust. Quali sono le fattispecie più preoccupanti sotto il profilo antitrust?
Circostanze in cui la concessione di una licenza tecnologica è legata anche ad altro.
- Formazione di consorzi dove partecipano più imprese all’interno dei quali si possono formare accordi
anticoncorrenziali.
- Obblighi di non concorrenza quando vi sono due imprese che si accordano anche a non farsi
concorrenza su determinati mercati
- Accordi transattivi
Sono elementi che possono essere inseriti nelle clausole e che l’autorità antitrust deve tenere sotto controllo.
Ci sono degli accordi possibili tra le imprese, situazioni in cui il divieto non viene applicato, ma è necessario
controllare che al suo interno non contengano clausole che limitino la concorrenza.
Il problema delle autorità antitrust in questi casi è quello che le tecnologie si modificano velocemente, così
come i modelli di business. Dunque da un lato le autorità devono mantenere una certa coerenza
nell’applicare le norme, dall’altro lato è innegabile il cambiamento tecnologico e dei modelli di business.
Quindi non è semplice il lavoro nel velocizzare le decisioni su questi accordi di trasferimenti tecnologici.
CASI RECENTI ANALIZZATI DALLA COMMISSIONE EUROPEA E AUTORITA’ ANTITRUST ITALIANA
Italia, caso 2019 Consip  La consip gestisce gli acquisti di beni e servizi che sono destinati alla PA,
all’università. In questo modo la PA ha centralizzato gli acquisiti di beni e servizi e questo permette alla PA di
ottenere sconti vantaggiosi. Come fa la Consip ad acquistare beni e servizi e decidere quali acquistare?
Organizza delle gare (aste, competizioni tra offerte concorrenti).
Nel 2014 ha organizzato un’asta importante (FM4) e l’oggetto era la gestione di servizio di pulizia e
manutenzione degli uffici pubblici in tutta Italia.
A seguito di segnalazioni all’autorità antitrust, venne fuori che le imprese partecipanti all’asta, parteciparono
a scacchiera. Cioè la partecipazione all’asta avveniva in seguito alla divisione, spartizione dei servizi da
aggiudicarsi. Spartizione sia sul tipo di servizio, sia su base geografica proprio perché riguardava servizi da
svolgere in tutta Italia.
Quindi avvenne una sorta di spartizione del mercato prima che ci fosse il mercato.
Secondo l’autorità antitrust l’intesa che si è realizzata ha eliminato la concorrenza sui vari lotti messi all’asta.
Emissione di una multa 235 milioni di euro, distribuita fra le imprese che avevano partecipato all’intesa.
Questi interventi non sono semplici perché in caso di collusione, qualcuno deve segnalare la collusione
all’autorità antitrust. Inoltre, l’autorità anche se osserva una sorta di parallelismo di comportamento tra
imprese o come in questo caso un’impesa che partecipa a un’asta e non all’altra, bisogna comunque poi
dimostrare che effettivamente un accordo, formale, informale, c’è stato. Questo richiede tempo, indagini
investigative che comporta un utilizzo di risorse intere all’autorità e anche esterne.

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Caso comunitario, Intesa cd, dvd, bue ray 2019
Il mercato di riferimento era quello delle unità a dischi ottici utilizzati nei personal computer e in altri prodotti
simili di Dell e HP.
Per selezionare i fornitori Udo Dell e di HP usavano procedure di gara d’appalto su scala mondiale. Le
trattative avvenivano trimestralmente su un prezzo a livello mondiale, su volumi di acquisti globali, con
ristretto numero di fornitori preselezionati.
I fornitori ebbero l’idea di mettersi d’accordo per partecipare all’asta. Le società coinvolte furono Sony,
Quanta Storage, Hitachi-LG, Toshiba, Samsung. Si è accertato che queste società si erano scambiate
informazioni e avevano colluso nella partecipazione a queste aste dal 2004 al 2008.
È stato chiuso nel 2019 ma riguarda comportamenti verificati molto prima.
C’è stata una condanna di questa collusione alle gare da parte di questa società che hanno fatto ricorso. Il
ricorso è stato presentato al tribunale dell’UE. La corte EU ha confermato la condanna la condanna inflitta
dalla commissione EU più le ammende (100 milioni di euro per 8 produttori).
Caso delle verdure in scatola  decisione della commissione dell’ottobre 2019. La commissione ha accertato
che tre imprese europee avevano formato un cartello per fornire vari tipi di ortaggi in scatola ai settori della
vendita al dettaglio e alla ristorazione.
Cartello di durata di 13 anni consistente in fissare prezzi, scambiarsi informazioni e ripartirsi il mercato.
Le società coinvolte erano due francesi e una olandese. La Bonduelle ha rivelato l’esistenza del cartello perché
si è resa conto che probabilmente se la commissione avesse scoperto del cartello, lei essendo quella più
grande avrebbe ottenuto una multa molto elevata. Le altre due non hanno collaborato con la commissione.
Il cartello è stato accertato e sono state inflitte multe a queste due. Bonduelle non è stata sanzionata. Questo
è un aspetto molto interessante cioè la possibilità per un’impresa di rivelare informazioni all’autorità. Se ciò
avviene, in determinate condizioni cioè prima che l’autorità non abbia accertato già da sola il cartello,
l’impresa può essere graziata. I c.d. programmi di clemenza prevedono proprio questo.

Necessario coordinamento tra autorità nazionali soprattutto in Europa.


Da sole non posso fare più di tanto. Sulla forma collaborativa bisogna lavorare.

L’ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE


Abbiamo visto quali sono i fondamenti del divieto di abuso di posizione dominante. L’articolo di riferimento
è il 102 del TFUE e l’articolo 3 della normativa antitrust italiana. La legislazione nazionale riprende quasi
perfettamente quella europea.
Il divieto riguarda l’abuso e non la posizione. Occupare una posizione dominante non è vietato dalle norme
antitrust comunitarie e nazionali.
A differenza dell’esperienza statunitense in cui viene vietata la monopolizzazione.
Rispetto alle intese, non sono previste esenzioni perché in questa situazione viene posto in essere un
comportamento illecito da parte di un’impresa che già si trova in una posizione particolare rispetto alle altre.
LOGICA ECONOMIA DEL DIVIETO DI ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE:
La logica economica deriva dall’analisi microeconomica standard del monopolio. Nel monopolio si riduce la
quantità scambiata e si aumentano i prezzi rispetto al livello concorrenziale. Di conseguenza il benessere dei
consumatori si riduce. Questo risultato è esteso nella normativa antitrust anche a quelle imprese che pur non
essendo monopoliste, occupano una posizione dominante. Nella valutazione dell’abuso di posizione
dominante, anche nella concettualizzazione dell’abuso, è necessario sempre far riferimento al benessere dei
consumatori. I costi sociali dell’abuso di posizione dominante ricadono sui consumatori. È il benessere dei
consumatori che deve essere il faro, l’elemento centrale, la chiave per comprendere se un insieme di
circostanze è rilevante ai fini antitrust. Anche le pratiche messe in atto da un’impresa dominante che va ad
ostacolare la libera concorrenza tra imprese, e quindi se sono mirate a creare problemi, impedimenti,

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difficoltà ai concorrenti, rientrano nel divieto perché in presenza di una concorrenza falsata i consumatori ne
soffrono.
Abbiamo visto come le intese siano vietate perché ricreano condizioni di monopolio e il benessere dei
consumatori si riduce. La logica delle intese va applicata anche nel caso di abuso di posizione dominante. Il
diritto antitrust non protegge i concorrenti dell’impresa dominante. Lo fa nella misura in cui ciò va a falsare
la concorrenza e una concorrenza ridotta va a peggiorare il benessere dei consumatori.
In alcuni casi, soprattutto nella giurisprudenza, nei casi concreti, si ha l’impressione che il diritto e la pratica
antitrust tuteli i concorrenti dell’impresa dominante e non i consumatori all’interno di quel mercato.
Tuttavia, alcuni profili di abuso sono poco chiari. In normativa abbiamo visto che non è definito l’abuso, ci
sono degli esempi ma non esaustivi. Questa scarsa chiarezza la dobbiamo ridurre andando a vedere quello
che hanno fatto nella pratica quotidiana i tribunali a livello comunitario e nazionale.
Cosa è vietato?
È vietato l’abuso di posizione dominante. Non è vietata la posizione dominante. Per parlare di abuso è
necessario avere una posizione dominante.
Un’impresa è in posizione dominante se è in grado di comportarsi in maniera autonoma nei confronti di
concorrenti, clienti e consumatori.
Se ci riflettiamo, nessuna impresa, neanche un monopolista, gode di una tale autonomia in termini
comportamentali. Perché? Se pensiamo al monopolista, lo descriviamo come un’impresa che fronteggia la
domanda di mercato. Solo pensando a questo non possiamo parlare di una totale autonomia del
monopolista. Il monopolista sa che può vendere una certa quantità di prodotto a un certo prezzo. Se vuole
vendere una quantità maggiore dovrà ridurre il prezzo e viceversa. Quindi anche nel caso estremo di
monopolio, totale autonomia di comportamento non è osservabile. Quindi questa autonomia la riferiamo
per comodità a un comportamento specifico, in particolare al comportamento di PREZZO. Non solo,
definiamo il potere di mercato, quindi la dominanza sul mercato, in relazione alla sua discrezionalità, capacità
di praticare prezzi significativamente superiori a quelli concorrenziali senza recare danni all’impresa.
Quindi un’impresa in posizione dominante, in termini logico economici, è un’impresa che in termini di
comportamento di prezzo, può praticare prezzi superiori di quelli concorrenziali senza che questo comporti
svantaggi all’impresa.
Ecco, questa è una definizione più precisa ma non molto perché se facciamo riferimento a un livello di prezzo
concorrenziale, dal momento che le condizioni di concorrenza perfetta raramente si presentano in mercati
reali, abbiamo qualche ambiguità del reale significato del termine.
Se questa è la definizione generale di posizione dominante cioè un’impresa che ha sufficiente discrezionalità
sul livello di prezzo, e pratica prezzi superiori al costo marginale, come si stabilisce nella pratica se
quell’impresa ha una posizione dominante?
Il comportamento dell’impresa è rilevante ma fino a un certo punto. Il comportamento può essere osservato
in un certo momento, in un altro no. Il prezzo superiore al costo marginale è una grandezza che in alcuni casi
può essere osservata e in altri casi no.
Si utilizzano criteri strutturali per definire l’eventuale dominanza di un’impresa. Quali sono? Quota di
mercato. Per cui se un’impresa ha una quota di mercato elevate per un periodo prolungato di tempo, questo
è un indizio che quell’impresa gode di dominanza sul mercato.
Quota > 50%  dominanza dell’impresa
Quota tra 25-50%  bisogna valutare anche altri elementi che dimostrano la dominanza di quell’impresa.
Quali sono?
- Confronto con le altre quote di mercato concorrenti. Una quota di mercato del 30% può essere
ritenuta bassa ma se il restante 70% del mercato è frammentato fra tante imprese che hanno lo
0,05% del mercato, è tale da far pensare a una dominanza della prima impresa.
- Tecnologie usate dall’impresa. Se l’impresa utilizza tecnologie superiori rispetto alle altre e grazie a
questo gode di economie di scala o di gamma, è un indizio che l’impresa è dominante.

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- Rapporti verticali. Un’impresa può svolgere attività produttiva a più stadi della filiera produttiva
stessa e in questo caso è in grado di controllare più mercati contemporaneamente, quindi esercitare
su di esse una forte dominanza.
- Reputazione immagine dell’impresa o dei marchi che quell’impresa possiede, questo contribuisce
a rafforzare la dominanza sul mercato e quindi la capacità di comportarsi discrezionalmente in merito
ai prezzi
- Barriere all’entrata = se sono elevate le barriere all’entrata, aumenta la probabilità che l’impresa sia
dominante
- Condotta = come si comporta e come si è comportata l’impresa negli ultimi 5 anni
In base alla quota di mercato e le condizioni strutturali dell’impresa, si dovrebbe arrivare a stabilire se
l’impresa è in posizione dominante o no. È un passaggio fondamentale di un procedimento aperto per abuso
di posizione dominante perché posso mettermi a stabilire se una condotta è abusiva o no, solo se ho già
stabilito se l’impresa è in posizione dominante.
Le imprese che vengono condannate per abuso cercano di dimostrare che la loro posizione non è di domanda.
Quindi anche questo tipo di analisi deve essere condotta in maniera rigorosa per evitare:
1. Di occuparsi di imprese che non si trovano in posizione dominante
2. Non occuparsi delle condotte di imprese perché si ritiene che non abbiano dominanza sul mercato
Altro elemento che aumenta la complessità di questo tipo di analisi, è che nel caso della definizione di
posizione dominante i precedenti non hanno alcuna rilevanza.
Dunque il concetto di posizione dominante da un lato è ambiguo perché le norme antitrust non definiscono
cosa sia, dall’altro lato vi è un’altra complicazione cioè la c.d. posizione dominante collettiva. Cosa si
intende? Quando la posizione di dominanza è detenuta congiuntamente da 2 o più imprese. In effetti anche
la norma parla di posizione dominante di una o più imprese. Quindi il concetto di posizione dominante
collettiva, è stato studiato sia perché in alcuni mercati si creavano delle circostanze particolari, sia perché la
norma antitrust fa riferimento alla dominanza di una o più imprese.
A monte, nei mercati reali, vi sono legami tra imprese e dei comportamenti in parte coordinati tra queste
imprese legate, che fanno sì che i concorrenti, clienti e consumatori percepiscano l’insieme di imprese come
un’unica identità. Che tipi di legami possono portare a questa percezione?
- Legami di natura azionaria – partecipazione incrociate dalle imprese: l’impresa A ha il 5% dell’impresa
B, l’impresa B ha il 7% dell’impresa A
- Accordi e licenze permessi, autorizzati dalle norme antitrust
- Vincoli familiari tra le imprese: padre e figlio siedano in CdA di imprese diverse oppure legami
familiari meno stretti ma riconducibili alla stessa famiglia.
- Legami economici non strutturali: quando non vi sono accordi formali, informali familiari ma ci sono
poche imprese sul mercato e quindi è facilitato il coordinamento di comportamento.
In tutti questi casi si dovrebbero fare delle valutazioni relative alla probabilità di intese. Anche se, non
dovremmo considerare la probabilità di intesa tra due imprese ma il legame tra imprese, elementi
comportamentali possono percepire clienti, consumatori e concorrenti come unica identità. I precedenti non
hanno rilevanza. Le eventuali dominanze collettive devono essere valutate caso per caso.
Detto questo, di casi a livello nazionale e a livello comunitario in cui questi legami e comportamenti hanno
portato ad accertare una dominanza collettiva sono pochissimi.
Mercoledì 28.10.2020
CONCETTO DI ABUSO
La nozione di abuso non è definita nel diritto comunitario e nazionale della concorrenza. Tuttavia in entrambe
le normative ci sono una serie di esempi che aiutano a comprendere il concetto di abuso - articolo 102 TFUE
e articolo 3 L.287/1990.
1. Imposizione di prezzi di acquisto, di vendita o altre condizioni di transazione non eque  per
esempio prezzi eccessivamente gravosi come precisa la disciplina nazionale. Prezzo elevato,

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condizione contrattuale particolarmente gravosa per chi la subisce. Si tratta comunque di una
circostanza poco chiara, vedremo come si manifesta questa poca chiarezza.
2. Limitazione della produzione, limitazione degli sbocchi, limitazione dello sviluppo tecnico a danno
dei consumatori
Limitazione della produzione= riduce la possibilità di fare scambi e quindi riduce la possibilità di
incrementare il surplus del consumatore e il surplus del produttore e quindi viene ridotta la
possibilità di raggiungere l’efficienza allocativa.
Limitazione degli sbocchi= limitazione dei mercati in cui un certo bene o un certo servizio è offerto
Limitazione dello sviluppo tecnico= l’impresa dominante o al limite monopolista, rallenta lo sviluppo
tecnologico che sarebbe possibile perché non ha incentivo a farlo. Questa può essere uno svantaggio
per i consumatori che devono rivolgersi a prodotti o processi vecchi quando invece avrebbero la
possibilità di accedere a qualcosa di nuovo. L’analisi economica ha studiato approfonditamente
soprattutto a livello teorico, che cosa accade allo sviluppo tecnico in condizioni di monopolio. In
condizione di monopolio c’è disincentivo a sviluppi tecnologici.
3. Discriminazione delle condizioni contrattuali = si applicano condizioni contrattuali diverse a soggetti
o a gruppi di soggetti diversi. Ciò che si studia in termini economici, è se la discriminazione delle
condizioni contrattuali comporta sempre e inequivocabilmente la riduzione del benessere dei
consumatori oppure ci sono circostanze in cui il benessere aumenta.
4. Tying = pratiche che consistono in condizioni particolari poste a clienti e consumatori. Per cui il cliente
può acquistare il prodotto A solo se acquista anche il prodotto B.
Bundling= due prodotti che potrebbero essere venduti separatamente, vengono offerti solo
congiuntamente.
La c.d. vendita a pacchetto.

La giurisprudenza comunitaria e nazionale, le azioni e le decisioni dei tribunali, delle corti hanno chiarito che
sono casi di abuso anche tutte le pratiche escludenti cioè qualunque pratica messa in atto da un’impresa
dominante che tende a escludere dal mercato un concorrente, che tende a escludere un concorrente
effettivo oppure che limiti l’accesso a un concorrente potenziale. Queste sono pratiche abusive molto diffuse.
Non sono state inserite nel legislatore negli esempi precedenti, perché erano pratiche che andavano
direttamente a colpire un concorrente e a colpire i consumatori sono indirettamente.
Problema: La normativa antitrust tutela i consumatori o le imprese? È un falso problema perché se
un’impresa dominante riesce a escludere o limitare la concorrenza, di fatto danneggia i consumatori. I
consumatori traggono beneficio da un mercato concorrenziale solo se questo è effettivamente
concorrenziale.
L’abuso rimane una nozione OGGETTIVA. Significa che riguardo solo le imprese dominante. Quindi una
pratica adottata da un’impresa può essere classificata come abuso solo se l’impresa che la adotta è
dominante. Lo stesso comportamento può essere ritenuto lecito se adottato da un’impresa che non è
dominante.
Inoltre, è sempre necessario valutare se un comportamento va a ridurre la concorrenza all’interno di un
mercato, indipendentemente dall’intenzione dell’impresa dominante. Se un certo comportamento
all’interno del mercato va a ridurre la concorrenza, limita la produzione, discrimina le condizioni contrattuali
questa pratica è valutata negativamente. Quindi anche se l’impresa dominante non aveva intenzione di
ridurre la concorrenza, quella pratica sarà comunque classificata come abuso. Questo fa capire anche come
nel caso dell’abuso di posizione è complicato definire le categorie generali di abuso, delle pratiche che sono
certamente un abuso. In altre parole è molto complicato utilizzare i precedenti, anzi non si dovrebbero mai
utilizzare perché ogni comportamento che si verifica deve essere adottato da un’impresa dominante e poi
ogni comportamento si osserva in un contesto particolare che può mutare anche molto rapidamente nel
tempo.

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I MERCATI INTERESSATI DALL’ABUSO
Non necessariamente la posizione dominante e l’abuso devono essere presenti nello stesso mercato. Nella
stragrande maggiore dei procedimenti aperti per abuso è così.
Dunque si definisce il mercato, c’è un’impresa che ha una posizione dominante in quel mercato, questa
impresa adotta un comportamento in quel mercato e quel comportamento può non essere un abuso.
Tuttavia possono essere considerate anche situazioni diverse:
- Un’impresa è dominante nel mercato A, sfrutta la dominanza per avere vantaggi nel mercato B =
questo caso avviene molto spesso quando siamo di fronte a un’impresa che è integrata
verticalmente. Opera a due stadi successivi del processo produttivo di un bene o un servizio, e magari
ha una posizione dominante nel mercato a monte ma non dominante nel mercato a valle. Quindi
cerca acquisire dominanza a valle sfruttando la dominanza del mercato a monte.
- L’abuso è compiuto nel mercato B, non dominato, e provoca effetti nel mercato A che è dominato
- La condotta abusiva e i suoi effetti hanno luogo in mercati che non sono dominati dall’impresa che li
mette in atto. L’impresa è dominante nel mercato A, compie una pratica abusiva nel mercato B e gli
effetti avvengono nel mercato D.
Questi due casi sono meno frequenti.
Le commissioni antitrust devono sempre considerare tutte queste possibile ogni qualvolta un’impresa ricopre
una posizione dominante. L’elemento che non deve mai mancare è la dominanza di un’impresa in un dato
mercato.
Sono cari rari ma molto diffusi nel caso di imprese integrate verticalmente o che comunque operano su più
mercati contemporaneamente. È possibile che un’impresa operi su 2-3 mercati che non sono neanche legati
tra di loro in termini verticali, però se l’impresa in questione è dominante in uno di questi 2-3 mercati, vanno
valutati attentamente i comportamenti di quell’impresa in altri mercati e gli effetti provocati. Anche questo
ci dimostra come sia importante l’analisi CASO PER CASO degli abusi di posizione dominante.

Criteri di ragionevolezza nell’applicazione della norma


La valutazione del presunto comportamento abusivo non è assolutamente semplice perché l’impresa in
posizione dominante ricopre una posizione diversa da quella che hanno le imprese non dominanti. Vi sono
alcuni comportamenti che possono essere concorrenziali se adottate da imprese non dominanti e
comportamenti che sono anticoncorrenziali adottate da imprese dominanti.
Esempio 1: l’impresa pratica prezzi molto vicini al costo marginale oppure pratica prezzi sotto il costo
marginale quindi sotto costo. Queste pratiche sono lecite se adottate da imprese non dominanti, se adottate
da imprese dominanti potrebbe essere considerata lecita se è una pratica di risposta cioè una condotta di
risposta alla stessa pratica adottata dall’impresa concorrente.
Esempio 2: Impresa che interrompe la fornitura al proprio distributore. Si tratta de caso del rifiuto di
contrarre. Un’impresa ha una relazione contrattuale con un’altra e a un certo punto la prima impresa decide
di irrompere la relazione contrattuale. Ovviamente le imprese sono libere di contrarre con chi vogliono però
in alcuni casi se l’impresa è dominante, tale condotta rischia di essere interpretata come una strategia di
esclusione dal mercato. Dunque è necessario andare a vedere il rapporto che hanno le imprese coinvolte. Se
l’impresa B è insolvente e non paga i beni intermedi forniti dall’impresa dominante, è chiaro quest’ultima
non può rispettare il contratto perché è l’impresa B che non esegue il contratto. Non è così semplice, a priori,
stabilire se una data condotta è anticoncorrenziale configurandosi come comportamento abusivo. È la
situazione speculare, anche se non del tutto, rispetto alle intese. Nelle intese, alcune forme collusive sono
vietate di per sé. Se due imprese si accordano per praticare prezzi sul mercato, limitare la produzione,
spartirsi il mercato, tali condotte sono vietate di per sé. Tuttavia ci sono delle esenzioni cioè se sono verificate
delle condizioni, queste rimuovono il divieto di intese. Qui siamo nella situazione speculare: ci sono condotte
che di per sé non sono definitive abusive perché bisogna valutare la dominanza dell’impresa, il contesto in
cui è stata portata quella condotta però non ci sono esenzioni.

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I COMPORTAMENTI ABUSIVI
Comportamenti abusivi per sfruttamento
PREZZI ECCESSIVI - Condizioni contrattuali non eque
Il primo esempio di abuso di posizione dominante, presente anche nell’articolo 3 della L.287/90, stabilisce
che l’impresa in posizione dominante non può praticare prezzi ingiustificatamente gravosi.
Questa parte del divieto di abuso, ripresa pari pari dalla legislazione comunitaria, ha sollevato subito
perplessità e ha fatto riflettere gli economisti perché in sostanza un prezzo non equo, ingiustificato è qualcosa
che sfugge alla certezza. Cosa significa prezzo non equo, eccessivamente gravoso? Un prezzo troppo alto. In
economia alto, basso non ha molto significato. Parlare di prezzi non equi è complicato dal punto di vista
dell’analisi economica Standa. Nella letteratura economica medievale in realtà si parlava di prezzi ingiusti,
non equi, iniqui con particolare riferimento all’usura, prestiti ecc. Oggi parlare di prezzi troppo alti è
complicato perché non è chiaro che cosa sia un prezzo alto e non alto.
Una possibile interpretazione del prezzo non equo è prendere un peso dominante e vedere il rapporto tra i
prezzi praticati dall’impresa e i costi che sostiene. Da lì si potrebbe dire che il prezzo praticato, essendo 3
volte il costo marginale relativo a un certo prodotto, è troppo alto. Anche questo sarebbe una discrezionalità
troppo eccessiva perché bisognerebbe stabilire una soglia entro il quale il prezzo rientra nella normalità
(sempre che sia possibile definire la normalità di un prezzo).
In ogni caso, andare a studiare il rapporto costi-prezzi è un’analisi molto complessa perché si dovrebbe
conoscere esattamente il costo imputabile al singolo imposto. Intanto le imprese non realizzano un solo
prodotto ma potrebbe essere multi prodotto che hanno costi fissi e costi variabili. I costi fissi riguardano tutti
i prodotti realizzati, quindi bisognerebbe fare un’attenta analisi tramite la quale si vanno a imputare ai singoli
prodotti quote diverse dei costi fissi. Stessa cosa per i costi variabili. Pensiamo a un’impresa che ha uno
stabilimento e produce diversi tipi di automobile. Per ogni auto ci saranno dei costi riferiti alle materie prime.
Questo è semplice. Ciò che risulta complicato è imputare a ciascun singolo modello di auto quella parte di
costi fissi o variabili che vengono sostenuti per intero in una volta sola dall’impresa. Come costo di energia,
di lavoro ecc che sono elementi di costo distribuiti in più prodotti.
Inoltre si dovrebbe considerare il costo marginale. In un mercato ipotetico perfettamente concorrenziale, le
imprese praticano dei prezzi uguali al costo marginale. Per poter valutare quanto ci si allontana dalla
condizione concorrenziale, quindi quanto è rilevante lo sfruttamento, la dominanza, il potere di mercato di
un’impresa, si dovrebbe andare a vedere di quanto il prezzo praticato si discosta dal costo marginale.
Si tratta di un’operazione complessa perché il costo marginale di un prodotto dovrebbero essere stimato in
qualche modo. Nei bilanci delle imprese non troviamo una voce “costo marginale”. In alterativa
all’impossibilità di stimare i costi marginali, si potrebbe far fronte ai prezzi di mercato. Per esempio
guardando ai mercati simili, a quei mercati in cui opera l’impresa dominante che stiamo osservando. Tuttavia
i mercati sono simili ma non identici. Quindi i prezzi che sono praticati in diversi mercati possono risultare in
circostanze diverse, condizioni diverse di domanda, condizioni istituzionali giuridici diversi, condizioni
tecnologiche diverse. Quindi anche questo metodo è complicato.
Anziché andare a guardare il rapporto prezzi-costi, si potrebbe andare a guardare la redditività dell’impresa.
Andare a vedere cioè, se un’impresa dominante ha un rapporto utile/fatturato spropositato rispetto a quello
che avviene in mercati in cui vi sono imprese dominanti. Anche qui però non si va lontano perché in realtà,
se un’impresa ottiene utili elevati è una buona notizia dal punto di vista della concorrenza. Significa che esiste
un contesto, un mercato in cui è possibile realizzare utili importanti. Questa situazione non fa altro che
incentivare altre imprese ad entrare nel mercato e cercare di ottenere anch’esse degli utili.
Stessa cosa possiamo dirla anche dei prezzi elevati. Se un’impresa dominante o meno, opera in un mercato
e pratica prezzi elevati rispetto ai costi, questo permette di ottenere profitti elevati. La presenza di utili elevati
dovuti alla presenza di un margine prezzo-costo molto elevato non fa altro che incentivare la concorrenza in
quel mercato perché le imprese che stanno fuori sono incentivate ad entrare. Un prezzo elevato di un
prodotto è una pratica PRO concorrenziale e non anticoncorrenziale.

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Perché il legislatore comunitario prima e nazionale poi, ha introdotto il divieto di praticare prezzi non equi?
Essendo l’interesse primario del diritto antitrust tutelare il consumatore finale, è stata introdotto la norma
che va ad aggredire direttamente quell’aspetto. In quella fase legislativa non ci si è chiesti se qualcuno avesse
mai definito cosa si intende con prezzo alto. Nessuno è mai riuscito a definire cosa è un prezzo alto e un
prezzo basso. Bisogna sempre far riferimento a una situazione particolare, a uno standard come il costo
marginale ma abbiamo visto come anche fissando termini di riferimento precisi, l’applicazione della norma
comporta una serie di problemi insormontabili. Questo ha fatto sì che l’applicazione di prezzi non equi da
parte di un’impresa dominante si applica molto raramente. Tuttavia, questo tipo di condotta è associata ad
altri tipi di abuso. Normalmente è legato alla esclusione di concorrenti dal mercato. L’impresa dominante
adottata comportamenti di esclusione, rimane sola e così può permettersi di praticare prezzi elevati rispetto
al costo marginale. Succede che ci sia combinazione di condotte abusive.
(Prezzo non equo nel diritto antitrust tesi prof)
DISCRIMINAZIONE DEI PREZZI
Applicare condizioni contrattuali diverse a soggetti diversi oppure a gruppi di consumatori diversi. Questo
non è permesso dalle norme antitrust se è l’impresa dominante ad adottare questa pratica.
Noi ci concentriamo nella condizione contrattuale più importante e più visibile nel mercato, quella del prezzo.
Le norme antitrust stabiliscono che un’impresa dominante non può discriminare sul prezzo. La letteratura
economica è molto ricca in termini di discriminazioni di prezzo. È una pratica molto studiata.
Cosa significa discriminare il prezzo? Situazione in cui un’impresa applica un prezzo diverso per unità dello
stesso prodotto, a parità di costo. Dunque un’impresa vende due unità identiche di un bene o un servizio a
un prezzo diverso, a parità di costo medio di produzione. Come consumatori, clienti di beni e servizi, abbiamo
esperienza di discriminazione di prezzo. Cioè, ci sono tante situazioni in cui si presenta quello che abbiamo
appena definito. Ci sono mercati di beni e servizi in cui è possibile questa discriminazione. In generale,
quando è possibile per un’impresa generica discriminare sul prezzo? Devono essere presenti 3 CONDIZIONI:
1. L’impresa deve godere di potere di mercato cioè deve essere un’impresa che può modificare il prezzo
verso l’alto, verso il basso senza il rischio di perdere troppo clienti. Possiamo pensare all’impresa che
in virtù della suo quota di mercato elevata, ha questa discrezionalità nel fissare un prezzo di un bene
o un servizio. Quindi non dobbiamo essere in un mercato concorrenziale.
2. Segmentazione del mercato, l’impresa che vuole discriminare deve identificare segmenti diversi del
mercato, quindi gruppi diversi di consumatori, che hanno una diversa disponibilità a pagare per lo
stesso bene.
È una condizione che richiede l’esistenza di diversi gruppi di consumatori con reddito, preferenze
diverse e diverse disponibilità a pagare per lo stesso bene. L’impresa deve essere consapevole di
questa situazione. Inoltre deve conoscere esattamente come è fatto il mercato, quindi poter
identificare i gruppi di consumatori diversi per praticare prezzi diversi.
3. Assenza di arbitraggio – assenza di rivendita, non è possibile per i consumatori scambiarsi i beni e i
servizi una volta acquistati. Se fosse possibile l’arbitraggio, la discriminazione non porterebbe al suo
obiettivo.
ESEMPIO 1: un biglietto del cinema. Le categorie di consumatori di spettacoli cinematografici non
pagano il solito prezzo. Ci sono i minori, gli anziani, alcune categorie particolari pagano un prezzo più
basso. Se non fosse possibile distinguere queste categorie di clienti al botteghino e se fosse possibile
l’attività di arbitraggio e di rivendita, succederebbe che un consumatore appartenente a una categoria
particolare per la quale paga di meno il biglietto, acquista una ventina di biglietti e li rivende ai
consumatori che avrebbero pagato prezzo pieno. Il prezzo di scambio, di rivendita sarà un prezzo che
si colloca tra ciò che ha pagato il primo consumatore e ciò che avrebbe pagato il secondo, entrambi ci
guadagnano.

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Se fosse possibile questa pratica, in questo caso verrebbe meno il risultato della discriminazione dei
prezzi per gruppi (quella per terzo grado). Inoltre verrebbe meno anche l’obiettivo di massimizzazione
dei profitti delle imprese.
Come si impedisce l’arbitraggio? Ci sono delle azioni che mettono in pratica le imprese per impedire
questa attività. Per esempio il colore dei biglietti. Biglietto arancione = minore; biglietto bianco=
anziano. Non posso rivendere quei biglietti perché comunque al controllo, l’addetto che strappa il
biglietto prima di far entrare in sala si accorgerebbe che il soggetto non rientra nella categoria del
minore o dell’anziano.
ESEMPIO2: Un altro esempio riguarda l’alcool. L’alcol si usa per bere e per fare pulizia. Al
supermercato troviamo questi prodotti. L’alcol da bere costa di più rispetto all’alcol per pulire. Quindi
c’è una sorta di discriminazione di prezzo. Per impedire arbitraggio tra chi compra alcol per bere o per
pulire, si mette nell’alcool destinato alle pulizie delle sostanze che impediscono di berlo. L’alcol
denaturato non è altro che alcol con dentro sostanze che lo rendono imbevibile.
ESEMPIO 3: Biglietto aereo, non posso rivenderlo perché sono nominativi.
Obiettivo di discriminare su prezzo: motivazioni
Dal punto di vista delle imprese private, le imprese praticano discriminano i prezzi:
1)Per massimizzare i profitti. In molti mercati in cui sono presenti queste condizioni, l’impresa che fa
discriminazione di prezzo, realizza profitti superiori rispetto a quelli che otterrebbe con l’applicazione di un
prezzo uniforme. Questa è la motivazione principale sulle imprese private.
2)Tutelare alcune categorie particolari. Quindi praticare prezzi diversi ad alcune categorie diverse proprio
perché magari hanno condizioni particolari come reddito basso oppure un’età molto giovane o molto elevata.
COME SI MANIFESTA LA DISCRIMINAZIONE DI PREZZO? 3 forme principali:
-Discriminazione di primo grado o discriminazione perfetta  un’impresa riesce a far pagare a ogni
consumatore un prezzo diverso per il medesimo bene o servizio. Oppure quando l’impresa riesce a far pagare
allo stesso consumatore un prezzo diverso per ogni unità acquistata di prodotto.
Esempio: il primo gelato costa 3 euro, il secondo 2 euro, il terzo 1 euro. Una situazione in cui il consumatore
paga prezzi diversi per ogni unità di prodotta acquistata. In realtà la discriminazione perfetta non è altro che
la situazione in cui la politica di prezzi praticati dall’impresa si muovono lungo la curva di domanda del
consumatore. L’impresa cerca di far pagare al consumatore il massimo che è disposto a pagare per ogni unità
di prodotto.
Un’altra forma di discriminazione perfetta è quando il consumatore acquista una sola unità di prodotto ma
ciascuno paga un prezzo diverso.
Sono forme di discriminazione estreme, le più teoriche perché richiedono da parte dell’impresa la conoscenza
perfetta delle funzioni di domanda dei consumatori. L’imprese deve conoscere le preferenze ma anche il
reddito disponibile dei consumatori. Per avere queste conoscenze l’impresa deve sostenere costi informativi
molto elevati tanto che nei fatti non vediamo molto spesso una situazione di discriminazione perfetta.
Tuttavia, ci sono casi che si avvicinano alla discriminazione perfetta. Per esempio quando acquistiamo
un’auto. Recandoci in concessionaria, il responsabile vendite inizia a chiacchierare, fa domande ecc perché
in quel modo acquisisce informazioni sul reddito, sulle preferenze dei clienti. In sostanza riesce a informarsi
su quanto i clienti sono disposti a spendere per un certo modello auto. Non è escluso che alla fine il
responsabile vendite proponga un prezzo di acquisto tarato sulle preferenze e sulle disponibilità del
consumatore.
-Discriminazione di terzo grado o discriminazione per gruppil’impresa fa pagare un prezzo diverso a
gruppi di consumatori diversi che hanno una diversa disponibilità a pagare. Più tecnicamente, hanno una
diversa elasticità della domanda.
-Discriminazione di secondo grado o prezzi non lineari  il prezzo unitario di un bene o un servizio
diminuisce all’aumentare della quantità acquistata. Esempio di questa forma sono gli sconti quantità.
All’aumentare della quantità acquistata dal consumatore, il prezzo unitario diminuisce. In caso di sconti

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quantità non c’è perfetta linearità con l’aumento della quantità acquistata e riduzione di prezzo. Magari ci
sono delle discontinuità, come il 3 per 2. Compro un prodotto 1 euro, se ne compro 2 il prezzo unitario è
inferiore.
All’aumentare della quantità prodotta, la spesa complessiva aumenta ma ciò che si riduce è il prezzo unitario.
Esempio 1: abbonamenti di quotidiani, si discrimina tra chi acquista di più e chi acquista di meno.
Esempio 2: in casi in cui per accedere a un servizio si paga una parte fissa e una parte variabile. Pensiamo a
tutti i contratti di telefonia, di fornitura di luce, gas acqua ecc.. Pensiamo all’entrata in qualche locale dove
paghiamo un prezzo per entrare e un prezzo se vogliamo consumare.
In tutti i casi in cui per accedere a un servizio si paga una parte fissa e una parte variabile, c’è discriminazione
di prezzo perché la parte fissa si va a spalmare su più un’unità di prodotto all’aumentare dell’unità. Questo
fa sì che il prezzo effettivo di ogni unità acquistata diminuisce all’aumentare delle unità di prodotto stesso.

Perché le imprese praticano questa discriminazione di prezzo? Per massimizzare i profitti. Praticando prezzi
diversi per le stesse quantità di beni o servizi, i profitti aumentano perché aumenta anche la domanda.
La pratica non è vietata di per sé. È vietata dalle norme antitrust solo se utilizzata da un’impresa dominante.
In questo caso allora può essere considerata abusiva. Tuttavia gli economisti hanno dimostrato che la
discriminazione di prezzo può aumentare la quantità scambiata sul mercato. Praticando un prezzo unico
alcune categorie di clienti non sarebbero serviti. In particolare quelle categorie che sono disposte a spendere
meno.
La teoria economica ha dimostrato che se la discriminazione aumenta la quantità scambiata sul mercato,
aumenta il benessere sociale cioè aumento il surplus dei consumatori. Quindi, di per sé, la discriminazione
anche se praticata da un monopolista in termini strettamente economici, di benessere sociale non è
necessariamente negativa. Dipende se la quantità scambiata sul mercato aumenta o diminuisce. Questa
considerazione, questo risultato della teoria economica non è stato utilizzato molto nelle cause antitrust
perché comunque le norme comunitarie e nazionali dicono che quelle pratiche sono abusive. La norma è
sufficiente per ritenere che quel comportamento è considerato abusivo, se viene osservato.
L’accertamento della discriminazione di prezzo non è così banale. Noi siamo partiti dalla definizione. La
definizione dice che c’è discriminazione se osserviamo prezzi diversi unità identiche di beni. Quindi è
necessario dimostrare che stiamo parlando di unità identiche di beni.
In ogni caso la discriminazione può essere colpita dall’autorità antitrust non di per sé, ma perché ha un
obiettivo di esclusione dal mercato. Cioè, ha come obiettivo quello di escludere concorrenti dal mercato.
Questo a livello europeo si verifica molto spesso. Un’impresa può praticare un prezzo elevato nel mercato
nazionale e un prezzo molto basso in un mercato estero semplicemente perché vuole eliminare nel mercato
estero il concorrente che ha sede legale in quel mercato.
La discriminazione è una pratica considerata abusiva se adottata da un’impresa dominante. Questo dicono
le norme antitrust comunitarie e nazionali. La teoria economica è più cauta perché non necessariamente
un’impresa dominante, al limite monopolista, riduce il benessere dei consumatori se pratica discriminazione.
Infine, la discriminazione può essere non colpita di per sé dalle norme, dalla giurisprudenza antitrust perché
ha un altro obiettivo, quello di esclusione dal mercato.
Per chiudere la questione, sulle variazioni di benessere dovute alle pratiche discriminatorie, è necessario dire
che la discriminazione di prezzo rende disponibile un prodotto in alcuni paesi. Ci sono paesi il cui reddito pro
capite degli individui è molto basso. I consumatori di questi paesi non potrebbero accedere a un certo
prodotto o un certo servizio se il prezzo fosse al di sopra di un certo livello. Dunque per rendere disponibile
un prodotto in un paese praticare prezzi bassi e quindi discriminare prezzi rispetto ad altre aree geografiche.
Quindi anche a livello internazionale bisogna essere cauti nel colpire una pratica discriminatoria posta in
essere da un’impresa dominante perché può essere funzionale ad aumentare il benessere dei consumatori.

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Comportamenti abusivi escludenti derivanti da politiche non di prezzo
RIFIUTO DI CONTRARRE
Un’altra forma di abuso che non è indicata palesemente nella normativa ma può verificarsi molto spesso
nella realtà è il rifiuto di contrarre.
Situazione in cui l’impresa dominante decide di non stipulare contratto con terzi o si ritira da una relazione
contrattuale. Il rifiuto di contrarre può avere varie motivazioni. Le imprese possono decidere di non entrare
in relazione con altre per vari motivi.
Esempio: un’impresa propone a un’altra di iniziare un rapporto di fornitura ma l’altra declina l’offerta.
Il rifiuto di contrarre diventa interessante in ambito antitrust quando è adottato da un’impresa dominante.
Perché? Perché potrebbero delle volontà ascoste da questo rifiuto, per esempio la volontà di escludere un
concorrente dal mercato. Specialmente quando l’impresa è integrata verticalmente, dominante nel mercato
a monte ma non a valle, vuole acquisire dominanza a valle. Un concorrente nel mercato a valle chiede
all’impresa integrata di fornire input intermedio per il processo produttivo ma l’impresa a monte si rifiuta di
fornire input intermedio. Questo mette in difficoltà l’impresa a valle che è anche concorrente valle.
Per dimostrare che c’è stato davvero abuso l’autorità antitrust deve dimostrare che il rifiuto di contrarre è
ingiustificato.
La fattispecie del rifiuto di contrarre può riguardare beni scambiati sul mercato ma anche beni intermedi. In
generale le autorità devono fare attenzione a questa fattispecie perché si rischia di colpire la libertà
dell’impresa. Ogni impresa è libera di fare quello che vuole. Non possono essere vincolate nel concludere
contratti con altre imprese. Nell’andare a colpire l’impresa dominante in questa situazione, si rischia di
colpire la libertà di impresa.
In molti casi un rifiuto di contrarre può essere giustificato da particolari pratiche della controparte. Per
esempio la controparte è insolvente, non paga forniture di input, appare ragionevole che l’impresa dominanti
cessi il rapporto contrattuale.
Questa fattispecie può apparire un po' vaga. È vaga per forza perché si può manifestare in tante forme diverse
e può riguardare tipo di relazione contrattuale.

Un caso interessante di rifiuto di contrarre riguarda le infrastrutture essenziali - Essential facilities cioè una
situazione in cui un’impresa dominante dispone, è proprietaria legalmente di un’infrastruttura che può
essere utilizzata anche da altre imprese sue concorrenti. Vedremo che l’aspetto che rileva è che ciò avviene
tra imprese integrate verticalmente.
Giovedì 29.10.2020
Il rifiuto di contrarre può configurarsi come un abuso di posizione dominante se sussistono determinate
condizioni:
-Il rifiuto deve essere espresso da un’impresa in posizione dominante – elemento necessario sempre
-l’obiettivo è l’esclusione del mercato
In questo tipo di analisi l’autorità deve avere molta attenzione perché si rischia di ledere la libertà delle
imprese. Ogni imprese è libera di fare ciò che vuole sul mercato in termini di identità, di soggetti con i quali
interagire ecc. Per cui ci si muove su un terreno piuttosto complesso quando si vuole risolvere il problema di
rifiuto di contrarre come abuso di posizione dominante.
Il rifiuto di contrarre è una fattispecie ha trovato applicazione molto importante nel caso delle essential
facilities o infrastrutture essenziali. Le infrastrutture essenziali sono infrastrutture indispensabili per la
fornitura di un servizio nel mercato a valle. Cioè, una situazione in cui per fornire un servizio o bene, è
necessaria un’infrastruttura fisica che è sotto il controllo di un’unica impresa. Questa situazione la possiamo
trovare nel caso dei trasporti, dell’energia, telecomunicazioni ecc. Viene fornito un certo servizio (trasporto,
energia ecc) e tale fornitura richiede l’utilizzo di una infrastruttura.
Il problema dell’essential facilities nasce durante il processo di liberalizzazione di alcuni servizi pubblici, quindi
nel momento in cui i monopolisti legali di un certo servizio non sono più stati tali.

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Nei settori di cui sopra, energia, trasporto ecc, la presenza di costi di fissi elevati dovuti alla realizzazione di
reti, infrastrutture estese ha suggerito ai Governi dei vari paesi, di affidare a un’unica impresa la gestione di
quel servizio. Infatti, gli investimenti necessari per realizzare reti e infrastrutture erano elevati, le imprese
private disposte a effettuare questi investimenti erano poche. Quindi gli Stati, i governi si sono sostituiti al
mercato e si sono create delle società ad hoc che godevano di monopolio assoluto per la fornitura di un
servizio. Con monopolio assoluto intendiamo il monopolio legale cioè una sostituzione in cui è una legge che
stabilisce che in un dato mercato può esserci un unico operatore.
A certo punto è successo che la tecnologia è cambiata, ci sono stati sviluppi tecnologici importanti, il costo
fisso per la costruzione di un’infrastruttura (esempio stesura di binari ferroviari per i trasporti di merci e
persone) sono stati ammortizzati nel corso degli anni. Il suggerimento che proveniva dagli economisti era
quello di liberalizzare determinati settori proprio in virtù dello sviluppo tecnologico e in virtù del fatto che i
costi fissi erano state ammortizzati completamente. L’idea era di liberalizzare molti servizi cioè permettere a
più operatori di essere presenti nel mercato e fornire un certo servizio. Quindi era necessario creare quelle
condizioni in base alle quali in un mercato potevano essere presenti più concorrenti. Dunque condizioni che
permettessero a imprese fuori dal mercato di entrare nel mercato e competere con l’ex monopolista legale,
che ovviamente rimane sul mercato.
Quindi era necessario garantire alle imprese che entravano nel mercato condizioni eque non discriminatorie.
Il problema era che vi era un proprietario della rete infrastrutturale che era l’ex monopolista che comunque
rimaneva nel mercato. L’infrastruttura della rete doveva essere utilizzato dai concorrenti del proprietario
della rete stesse. È chiara la difficoltà nella gestione di questo problema.
La realizzazione di infrastrutture richiede investimenti elevati e non recuperabili. Ciò significa che una rete
infrastrutturale era necessaria per la fornitura di un certo servizio. Si decide per la stragrande maggioranza
dei paesi, che alcuni servizi dovevano essere liberalizzati. Da un lato è necessario fare in modo che le imprese
possano entrare nel mercato senza condizioni non discriminatorie, dall’altro lato questi ingressi nel mercato
e quindi l’accesso alle infrastrutture non sia completamente indiscriminato. Perché? Se guardiamo
all’attualità e pensiamo ai trasporti, all’energia elettrica, alle telecomunicazioni, le infrastrutture per fornire
questi servizi esistono ma se in futuro si dovesse procedere con un aggiornamento delle reti infrastrutturali,
se si dovesse realizzare una nuova rete infrastrutturale per fornire nuovi servizi, è necessario garantire a chi
investe in quella direzione che potrà sfruttare in maniera adeguata quell’infrastruttura, quindi sfruttare
commercialmente e profittevolmente quell’infrastrutturale, senza temere la concorrenza di imprese che
entrano nel mercato a costi bassi e quindi possono essere concorrenti agguerriti.
In altre parole, se si permettesse l’accesso indiscriminato alla fornitura di questi servizi a imprese che sono
fuori dal mercato, si salvaguarderebbe la concorrenza di breve periodo perché si porrebbe alla pari tutte le
imprese ma allo stesso si rischierebbe di ridurre la concorrenza di lungo periodo. Se ci fosse accesso
indiscriminato nessuno in futuro sosterebbe gli investimenti necessari per realizzare una rete infrastrutturale
che poi può essere utilizzata da chiunque.
Riassumendo: motivi tecnologici e di mercato spiegano come mai in alcuni settori abbiamo avuto regimi di
monopolio legale. A un certo punto si liberalizzano questi servizi e quindi si apre la strada a più concorrenti.
La fornitura di certi servizi richiede l’utilizzo di un’infrastruttura che è sotto il controllo dell’ex monopolista
legale, quindi è necessario regolare l’accesso dei concorrenti del monopolista legale che andranno a sfruttare
quell’infrastruttura.
Quali sono i criteri da utilizzare nella valutazione dell’accesso alle essential facilities? Nel fare questo tipo di
analisi, questo tipo di valutazione, bisogna prendere in considerazione vari elementi:
1) Individuare i mercati interessati  vuol dire stabilire con esattezza se per la fornitura di un servizio è
assolutamente necessaria quell’infrastruttura già presente o se ci sono altre infrastrutture esistenti che
possono essere utilizzare per garantire un mercato concorrenziale.
Oppure, stabilire se è necessario o meno replicare quell’infrastruttura. In alcuni casi la duplicazione di
un’infrastruttura è sostenibile da punto di vista economico.

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2)Una volta appurato che duplicare un’infrastruttura è insostenibile dal punto di vista economico, è
necessario stabilire se questa insostenibilità sia oggettiva cioè che debba valere per tutti, per chiunque e
non solo per l’attuale proprietario dei diritti di proprietà  è necessario quindi un approfondimento di
natura tecnologica per fare queste valutazioni. Non è necessario dimostrare che l’accesso all’infrastruttura
renda più vantaggiosa l’entrata nel mercato di concorrenti, ma bisogna dimostrare che l’utilizzo di
quell’infrastruttura per i concorrenti, è l’unico modo per gli stessi concorrenti del monopolista legale, per
entrare nel mercato.
L’utilizzo dell’infrastruttura esistente e non replicabile, è l’unico modo per i concorrenti di entrare nel
mercato. Per esempio dimostrando che i concorrenti non abbiano la capacità economica e tecnica di
utilizzare un’infrastruttura alternativa. In ogni caso bisogna fare in modo che l’ex monopolista legale abbia
una sorta di remunerazione per l’utilizzo della rete di cui ancora è prioprietario.
3)Il titolare dell’infrastruttura ha comunque sempre il diritto di dimostrare che non permette ai concorrenti
di utilizzare la sua infrastruttura per motivi oggettivi  per esempio perché un incremento del numero di
concorrenti nel mercato crea una situazione di congestione nella fornitura di un servizio che va a ridurre la
qualità del servizio, l’efficienza del servizio ai clienti finali.

Elementi simili di discussione sorgono a proposto della proprietà intellettuale - Proprietà intellettuale ed
Essential facilities
Quali sono i diritti di proprietà intellettuale?
Brevetti
Marchi
Design
Diritti di autore
Perché esistono?
La principale motivazione dell’esistenza di tali istituti giuridici è la tutela non tanto la proprietà personale
dell’inventore sulla propria invenzione ma quanto incentivare a realizzare innovazioni di nuova tecnologia, di
nuovi prodotti.
Anche in questo caso è possibile che sorga il problema del rifiuto di contrarre perché il diritto di proprietà
intellettuale può essere concesso in licenza. Posso creare un’invenzione, brevettarla e non utilizzarla in
termini commerciali ma posso cedere a terzi lo sfruttamento. Tuttavia posso rifiutare di farlo. Un’impresa
terza che richieda la licenza per sfruttare un brevetto o un marchio e l’inventore si rifiuta.
L’essenza dei diritti di proprietà intellettuale sta proprio nel fatto di ricreare condizioni di monopolio proprio
per lo sfruttamento del diritto di proprietà. Quindi sembrerebbe assolutamente da consentire il rifiuto di
concedere a terzi lo sfruttamento di un brevetto o di un marchio. Per fare in modo che un titolare di un diritto
di proprietà intellettuale sia obbligato a cedere in licenza il proprio diritto, è necessario che siano verificate
alcune condizioni. Queste 3:
1. La richiesta di accesso al diritto di proprietà intellettuale deve essere necessaria per introdurre sul
mercato beni o servizi nuovi che il titolare del diritto non offre. Questo è importante perché si assume
che nuovi beni o nuovi servizi migliorino il benessere sociale.
2. Bisogna dimostrare che per i beni e servizi che sono realizzabili tramite lo sfruttamento del diritto di
proprietà intellettuale, esista una domanda. Quindi devono esserci dei consumatori, dei clienti
disposti ad acquistare quei beni o quei servizi.
3. Non devono esserci giustificazioni oggettive per il rifiuto di concedere la licenza. Il titolare ha sempre
la possibilità di dimostrare che la concessione della licenza comporterebbe danni in termini di sviluppo
economico, di benessere dei consumatori. L’antitrust si occupa di questo aspetto perché il rifiuto di
concedere una licenza può avere come obiettivo l’esclusione dal mercato un pericoloso concorrente.

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Perché l’antitrust si occupa dell’introduzione di prodotti nuovi? Intanto, se un prodotto nuovo viene immesso
nel mercato questo aumenta il benessere dei consumatori. L’interesse del consumatore si tutela anche senza
far riferimenti a pratiche abusive.
In pratica e spesso, il rifiuto di contrarre può essere configurato di per sé come abuso, ma è legato alla volontà
di escludere dal mercato qualche impresa.

Vendite abbinate
Un’altra condotta abusiva previste dalla norma antitrust sono le vendite abbinate. Si ha una vendita abbinata
quando sue o più beni o servizi sono venduti congiuntamente.
Si distinguono due casi:
 Tying quando un’impresa permette di acquistare il prodotto A solo se si acquista anche il prodotto B.
Bundling classico, puro quando due prodotti sono venduti sempre congiuntamente. Si parla invece di
bundling misto quando i prodotti A e B sono vendute sia insieme, nello stesso pacchetto o separatamente.
Le vendite abbinate interessano la normativa e le autorità antitrust perché tramite questa pratica, un’impresa
dominante sul mercato A può cercare di aumentare il potere di mercato nel mercato B. Si parla di levaraging
cioè si cerca di fare leva sulla dominanza in un mercato per aumentare il potere di mercato in un altro
mercato.
Motivazioni che prescindono dagli effetti anticoncorrenziali
Complementarietà tecniche
Qualunque bene o servizio nei suoi mercati può essere visto come bundling perché qualunque bene o servizi
è formato da una combinazione di elementi. Per cui un’auto è costituita da una combinazione di motore,
strumenti a bordo, telaio, carrozzeria, ruote, pneumatici. L’acquirente prende un prodotto per intero e non
singoli elementi.
Ci sono motivazioni tecniche che spiegano perché molti beni e servizi sono una combinazione di elementi e i
consumatori acquistano quelle combinazioni di elementi. Ci sono delle complementarietà tecniche. Vi sono
componenti di un bene o di un servizio che sono realizzati proprio per essere venduti insieme.
Le complementarietà tecniche possono essere anche dovute al bene che stiamo acquistato. Per esempio se
acquisto un paio di scarpe in genere le prendo tutte 2. Non è possibile acquistare la scarpa destra o la scarpa
sinistra o tutte e due. In genere le acquistiamo insieme. Non viene venduta una sola scarpa. Oppure, non
acquisto le scarpe senza lacci.
Per esempio bundling misto  scarpe con lecci, lacci separati. Quindi due beni che possono essere venduti
insieme anche separatamente.
Costi di transazione
È anche vero che oltre al fatto che vi sono complementarietà tecniche sia nella produzione, sia nel consumo,
vi sono anche motivazioni dei costi di transazione. I costi di transazione sono quelli relativi all’utilizzo del
mercato da parte di consumatori e imprese. Per cui, anche se il consumatore dovesse acquistare un’auto a
pezzi (prima le gomme, poi il telaio, poi le ruote ecc), anche se fosse possibile ricomporre questi elementi in
modo semplice e poco costoso, il consumatore dovrebbe sostenere dei costi di transazione elevatissimi
perché dovrebbe rivolgersi a una serie di fornitori per comporre il prodotto. Dunque l’esistenza di costi di
transazioni elevati suggerisce alle imprese di offrire beni e servizi beni già impacchettati.
Ci sono motivazioni che spiegano perché troviamo combinazioni di beni diversi nel solito pacchetto.
Tuttavia, possono però esserci motivazioni diverse. La vendita abbinata a volte può essere intrepretata come
desiderio di estendere il proprio potere di mercato su un mercato in cui il potere di mercato non è così
sviluppato.

C’è il rischio che tramite la vendita abbinata vi sia una forma di discriminazione di prezzo. Sotto certe
condizioni le vendite abbinate generano discriminazione di prezzo.

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Vediamo l’esempio nella slide. Poniamo che un editore monopolista di un quotidiano possa offrire dei
contenuti di informazione che sono sportivi e politici. L’editore deve decidere se realizzare un unico
quotidiano che contiene informazioni sportive e politiche, oppure due quotidiani uno sportivo e uno dedicato
alla politica.
In questa matrice abbiamo riportato le preferenze di due lettori (A e B). In questa tabella vediamo il massimo
che ciascun lettore è disposto a pagare per ottenere i contenuti sportivi e contenuti politici.
A è appassionato allo sport ed ha uno scarso interesse per i contenuti politici
B è appassionato alla politica ed ha uno scarso interesse per i contenuti sportivi
I valori contenuti potrebbero essere i centesimi di euro disposti a pagare per quei contenuti.
Il massimo che i lettori sono disposti a pagare per la combinazione dei due contenuti non è altro che la somma
di quello che leggiamo nella seconda e terza colonna. Per esempio A è disposto a pagare 60 centesimi per lo
sport, 10 per la politica quindi massimo 70 centesimi per entrambi.
B invece 15 di sport e 70 politica quindi 85 centesimi per entrambi.
L’obiettivo dell’editore è quello di massimizzare i ricavi derivanti dalla vendita. Non ci preoccupiamo dei costi.
1)Come il monopolista dovrebbe vendere i contenuti? Separatamente o congiuntamente?
2)A che prezzo?
VENDITA SEPARATA
L’editore vende separatamente i due contenuti. L’editore vuole vendere entrambi i contenuti sia ad A che a
B. Per lo sport dovrà praticare un prezzo pari a 15, cioè il minore tra i due, per la politica un prezzo pari a 10,
il minore tra i due.
Questo comporterebbe un ricavo molto basso per l’editore.
Una strategia di vendita separata potrebbe essere l’editore realizza due quotidiani diversi, uno sportivo e uno
di politica. Quello sportivo viene venduto ad A ottenendo ricavi pari a 60, e quello politico viene venduto a B
ottenendo ricavi 70.
60+70= 130 ricavi complessivi con vendita separata
VENDITA A PACCHETTO
A  70 centesimi per entrambi
B 85 centesimi per entrambi
Se l’editore vuole vendere un unico quotidiano a entrambi, praticherà il prezzo di 70, quello più basso. In
questo modo otterrà 140 ricavi. 70+70.
Quindi in questo caso conviene offrire i contenuti congiuntamente. I suoi ricavi sono di più rispetto a quelli
che otterrebbe con la vendita separata.

La cosa interessante è che entrambi pagano lo stesso quotidiano. All’interno del pacchetto di contenuto il
consumatore paga un prezzo diverso. Le vendite a pacchetto sono apparentemente non discriminatorie ma
in realtà lo sono perché dentro al pacchetto i consumatori pagano un prezzo diverso.
Questo è un esempio di come le vendite abbinate già di per sé, possono creare discriminazione di prezzo.
Tuttavia, anche nell’esempio dell’editore monopolista ci sono delle motivazioni tecnologiche che possono
spiegare la vendita congiunta.

Torniamo alla questione delle vendite abbinate


La rilevanza antitrust riguarda il fatto che un’impresa con posizione dominante in un mercato, il mercato A,
vuole estendere dominanza anche nel mercato B grazie alla vendita abbinata. Ad esempio costringo i
consumatori ad acquistare A solo se acquistano anche B.
Un’altra strategia simile è quella di ridurre fortemente gli sconti solo se si acquista il prodotto principale.
Propongo sconti interessanti su A e B ma questi sconti non vengono praticati se il consumatore acquista solo
A.

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In questo modo si riduce la concorrenza nel mercato del prodotto complementare perché nel mercato del
prodotto B molti consumatori acquistano quel prodotto perché sono costretti a farlo. Questo è un problema
che rilevare sotto il profilo antitrust.
C’è stata una critica a questa impostazione, portata avanti da due economisti di Chicago, Bork e Posner. La
critica è quella per cui l’effetto anticoncorrenziale dovuto alle vendite abbinate si verifica solo se uno dei due
mercati non è concorrenziale. Se invece uno dei due mercati è concorrenziale, per esempio il mercato B, e il
prezzo praticato è uguale al costo marginale, il monopolista nel mercato A, nel mercato B può solo adeguarsi
al prezzo concorrenziale. Non c’è possibilità di sfruttare la propria dominanza in A nel mercato B.
Se il monopolista sta già sfruttando la dominanza nel suo mercato A avrà già determinato una quantità ottima
e un prezzo ottimo da praticare, l’unica cosa che può fare è cercare di espandersi nel mercato B tramite
vendite abbinate ma se il mercato B è concorrenziale, c’è poca possibilità di sfruttamento. Bork e Posner
ritengono che non ci sia incentivo a utilizzare il tying, bundling per espandersi in un mercato che già è
concorrenziale. Questo ragionamento è giusto ma l’analisi antitrust deve avere una prospettiva più di medio-
lungo periodo perché nel breve periodo una strategia di tying può essere irrazionale, però può essere
razionale nel lungo periodo perché la strategia può effettivamente portare a una eliminazione dei concorrenti
nel mercato del prodotto complementare.
La compagnia Microsoft propone sempre tanti esempi di abuso di posizione dominante. È una società di
software e opera in più mercati, soprattutto opera sia nel settore di sistema operativi (Windows), sia nel
mercato di programmi applicativi. Poiché in tanti momenti della storia la Microsoft ha avuto una posizione
nettamente dominante nel mercato dei sistemi operativi, ha cercato di usare la dominanza anche nel
mercato dei programmi applicativi.
Nel lungo periodo, se vi è una grande percentuale di utenti che usa il sistema operativo Windows, ed è
costretta ad acquistarsi anche i programmi applicativi Word, Excel ecc, questo può comportare una forte
riduzione di concorrenza nel mercato dei programmi applicativi, quindi del mercato complementare. Quindi
questo giustifica la strategia di tying che nel breve periodo è considerata irrazionale.

Prezzi predatori
Un’altra pratica che si può configurare come abuso sono i prezzi predatori. Sono uno strumento intermedio
di abuso perché viene utilizzato per escludere i concorrenti dal mercato. Consiste nell’abbassare i prezzi per
costringere i concorrenti ad uscire dal mercato per poi rialzare i prezzi fino a livello di monopolio,
recuperando le eventuali perdite e da allora in poi godere di profitti di monopolio.
È una strategia che prevede nel breve periodo forti perdite e barriere all’entrata piuttosto alte perché
altrimenti i concorrenti usciti rientrerebbero subito una volta che l’impresa dominante ha rialzato i prezzi.
Come si stabilisce se i prezzi sono predatori?
I prezzi sono predatori se sono sufficientemente bassi. Due economisti-giuristi Areeda-Turner hanno
proposto che il prezzo è da definire predatorio se è inferiore ai costi medi variabili.
I costi medi di un’impresa possono essere distinti in vario modo:
-medi fissi = costi diviso la quantità e sono sempre decrescenti perché i costi fissi sono fissi e la quantità
aumenta.
-medi variabili = costi variabili diviso la quantità. L’andamento è difficile stabilirlo perché appunto essendo
costi variabili, variano.
-costi medi fissi + costi medi variabili = costi medi
Areeda-Turner ritengono che i prezzi sono predatori se sono inferiori ai costi medi variabili perchè costi
variabili sono relativi a quei fattori di produzione che devono essere remunerati se si vuole mandare avanti
la produzione. Per cui, è possibile che qualunque impresa operi in perdita perché all’inizio della sua vita
sostiene costi fissi elevati che vanno ammortizzati, quindi vanno distribuiti e spalmati su un numero di anni
molto lungo ma certamente gravano sui bilanci di ogni anno.

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gravano sui bilanci di ogni anno. Ogni anno l’impresa deve pagare una parte di costi fissi. Questi sono i costi
fissi medi. Questo non impedisce alle imprese di produrre.
L’impresa non riesce a produrre quando non riescono a sostenere i costi medi variabili. Sono quei fattori che
variavano al variare della produzione. Sono il costo dell’energie, costo del lavoro, costo delle materie prime.
Questi sono costi variabili perché se aumento la quantità prodotta, aumentano anche i costi relativi a questi
fattori.
Se un’impresa non è in grado di coprire i costi medi variabili, sta sopportando un sacrificio forte perché è
costretta a non pagare alcuni di questi fattori che a un certo punto cessano di dare contributo al processo
produttivo. Quindi se i prezzi praticati sono al di sotto dei costi medi variabili, c’è una situazione in cui è
assolutamente irrazionale operare in questo modo nel breve periodo, se lo fa ha degli obiettivi di medio lungo
periodo cioè quelli di buttare fuori dal mercato i concorrenti.
In realtà, possono esserci anche altri comportamenti sospetti. Per esempio i prezzi sono al di sopra dei prezzi
medi variabili ma al di sotto dei costi medi totale potrebbero segnalare la strategia predatoria. Per cui è
possibile che l’impresa pratichi un prezzo non così basso da stare sotto ai costi medi variabili ma comunque
basso da comportare delle perdite perché sotto ai costi medi.
Riepilogo:
-l’analisi dell’autorità parte da una segnalazione di un concorrente
-l’autorità antitrust deve andare a vedere i prezzi praticati
Problemi del controllo
A) Ogni qualvolta sia necessario raccogliere dati sui costi sostenuti dalle imprese, è difficile stimarli. Le
imprese spesso sono molti prodotti, si dovrebbe a ogni prodotto un certo costo e questa non è un’operazione
semplice.
B) In secondo luogo, è vero che un’impresa in alcune situazioni pratica prezzi sotto i costi ma può avvenire
anche per altri motivi. Se gli investimenti iniziali sono davvero elevati, è possibile che l’impresa operi in
perdita per 4-5 anni. Non è una situazione strana. Ovviamente se un’impresa sono anni che opera in perdita,
vi saranno degli stakeholder dell’impresa (lavoratori, banche, azionisti ecc) che solleveranno delle
perplessità.
In conclusione, i prezzi predatori sono simili alla forma dei prezzi eccessivamente gravosi. Sono simili perché
è difficile stabilire cosa è un prezzo alto e cosa è un prezzo basso. Si può fare in relazione ai costi ma questi si
stimano difficilmente. Inoltre, la similitudine dipende dal fatto che queste pratiche sono combinate con altri
tipi di abusi. Raramente prezzi eccessivamente gravosi e prezzi predatori sono condannati come abuso di
posizione dominante in maniera isolata.
Solitamente i prezzi predatori si combinano con la discriminazione di prezzo.

Sconti e pratiche fidelizzanti


L’altra forma abusiva sono la presenza di sconti e pratiche fidelizzanti. Ci sono tante situazioni in cui le
imprese offrono sconti, quindi in sostanza fanno discriminazioni di prezzo intertemporali. Oppure, applicano
sconti a clienti specifici.
Pratiche fidelizzanti = si propone uno sconto se il consumatore acquista una certa quantità di beni e di servizi.
Gli sconti sono una forma di discriminazioni di prezzi. Per esempio tra chi consuma di più e chi consuma di
meno. Chi consuma di più paga un prezzo unitario inferiore da chi consuma di meno.
Gli sconti sono una forma promozionale e quindi l’impresa cerca di aumentare la quantità venduta. Gli sconti
possono avere effetti escludenti. Hanno rilevanza antitrust quando producono effetti escludenti. Gli sconti
hanno effetti escludenti se sono fidelizzanti cioè se cercano di dissuadere i clienti dal rifornirsi presso
un’impresa concorrente.
Non hanno effetto escludente, quindi non sono considerati comportamenti abusivi, gli sconti se sono
semplicemente un modo per trasferire a clienti e consumatori un livello di efficienza dovuto a un nuovo

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processo produttivo o economie di scale. Per cui se tramite lo sconto si incrementa il prodotto e la quantità
scambiata, realizzando economie di scale e quindi abbattendo i costi medi di produzione, questo risparmio
di costo può essere trasferito in tutto o in parte sul prezzo praticato al consumatore. Questo migliora anche
il benessere dei consumatori.
Sono tendenzialmente vietati gli sconti che hanno queste 4 possibili caratteristiche:
- Sconti che obbligano il cliente a rifornirsi solo presso l’impresa dominante
- Sconti che costringono il cliente ad acquistare altri prodotti dell’impresa dominante: combinazione
di sconti e pratica di tying
- Si applicano agli acquisti passati una volta raggiunta una soglia di acquisti
- Sconti che sono legati all’aumento della domanda del cliente: sconti a condizione.
Dunque ricapitolando:
- Necessità di capire se veramente l’impresa è dominante
- Necessario dimostrare che la pratica di prezzo sugli sconti sono legali ad altre azioni dell’impresa
dominante che è tesa a escludere concorrenti dal mercato.
Non è così scontata l’analisi di questa pratica.
Quando si va a fare una valutazione della giustificabilità economica degli sconti, si dovrebbe fare una
valutazione rispetto ai costi incrementali. I costi incrementali è il rapporto tra costo marginale e le unità di
prodotto. Sarebbe una sorta di costo marginale medio.
Questa precisazione perché lo sconto potrebbe essere giustificabile quindi non un illecito antitrust, se lo
sconto incrementando la quantità prodotta, riduce i costi medi di produzione. Questa riduzione potrebbe
essere trasferita nei prezzi applicati ai consumatori. Questo tipo di valutazione va fatta. Quindi bisogna
valutare i prezzi presenti nello sconto e porli in relazione ai costi incrementali e non ai costi medi. Se si valuta
lo sconto rispetto ai costi medi correnti si potrebbe accertare un abuso perché il prezzo contenuto dello
sconto risulterebbe inferiore ai costi medi correnti. Se alla pratica di sconto si collega un incremento della
produzione, questo potrebbe comportare un ulteriore sfruttamenti di economie di scala e quindi riduzioni di
sconto. A quel punto il prezzo non sarebbe più inferiore al costo medio.
Alcune volte gli sconti sono combinati con la riduzione selettiva dei prezzi cioè quando un’impresa osserva
l’entrata di un concorrente nel mercato e riduce i prezzi del prodotto solo nell’area in cui quel concorrente
sta entrando. In questo caso la riduzione può essere vista come forma di discriminazione dei prezzi perché
si va a cercare di essere competitivi solo nell’area in cui si vuole evitare che quel concorrenti entri.
Questo è un elemento che fa tornare in discussione la questione se le leggi antitrust tutelano i consumatori
o i concorrenti dell’impresa dominante. L’eliminazione di un concorrente di per sé non è qualcosa di
preoccupante per le norme antitrust. La libera concorrenza consiste anche nell’eliminazione di concorrenti
tramite concorrenza di prezzo per esempio. Certamente se ci sono forti barriere all’entrata, per cui i
concorrenti avranno difficoltà a rientrare, questo tipo di azioni, pratiche di sconti devono essere monitorate.
Tutto questo ci dimostra come spesso è difficile distinguere una pratica di prezzo concorrenziale e altre
pratiche di prezzo che sono anti competitive, hanno l’obiettivo di escludere e sono predatorie, quindi
dovrebbero essere condannate dall’autorità antitrust.
Bisogna fare un’analisi strutturale del mercato rilevante:
- la valutazione delle caratteristiche del mercato: come è fatto il mercato, cosa si scambia, la tecnologia usata,
quali sono le barriere all’entrata
-la posizione dell’impresa dominante di cui stiamo studiando la condotta
Una volta che si hanno queste informazioni strutturali sul mercato è possibile stabilire se quella pratica di
prezzo ha dei fini anticoncorrenziali o concorrenza. Queste sono valutazioni da fare caso per caso, questo
rende complicata l’analisi di abuso di posizione dominante.
Dunque per potere stabilire se una politica di prezzo è anticoncorrenziale, danneggia la concorrenza e quindi
danneggia anche i consumatori, è sempre bene fare un’analisi strutturale del mercato rilevante cioè quello
su cui si sta analizzando la condotta.

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Ogni volta che si apre un procedimento per abuso di posizione dominante, non esistono delle tracce da
seguire che non si modificano nel corso del tempo Ogni volta si deve riaprire la discussione, capire come è
fatto quello specifico mercato, quali sono le imprese che ne fanno parte, chi è l’impresa dominante in quel
caso e andare avanti in questo modo. I precedenti non hanno importanza. Questo spiega perché le pratiche
abusive sono pratiche più complesse. Per le intese e per le concentrazioni c’è una sorta di regolarità, una
sorta di routine che viene seguita dall’autorità e soprattutto velocizza il risultato finale dell’analisi.
Per l’abuso invece ogni caso aperto è diverso dagli altri e bisogna cominciare da capo.
Mercoledì 04.11.2020
Margin squeeze e price squeeze
Due espressioni distinte ma spesso utilizzate come sinonimi.
In generale sono pratiche che si verificano quando un’impresa opera su più mercati legati a rapporti di
fornitura. Quindi l’impresa opera a stadi diversi del processo produttivi ed è dominante in uno di questi stadi.
Abbiamo già fatto riferimento alla volontà che un’impresa ha di estendere il suo dominio in mercati dove
ancora non ce l’ha. Questo accade spesso quando l’impresa opera a monte e a valle di un processo
produttivo.
Per margin squeeze e price squeeze si intendono queste due possibili situazioni:
1)Impresa dominante in un mercato a monte ma opera anche nel mercato a valle. Nel mercato a valle ci sono
dei concorrenti che sono anche clienti dell’impresa dominante per quanto riguarda la fornitura di un certo
input. L’impresa dominante praticherà un prezzo eccessivo ai concorrenti/clienti a valle. Questo riduce i
margini delle imprese a valle e può costringerle anche a uscire dal mercato. In questo modo il potere
dominante dell’impresa a monte viene esteso anche a valle.
2)L’impresa è dominante a valle e agisce come fornitore di input a monte. In questo caso l’impresa dominante
pratica un prezzo eccessivamente basso ai suoi fornitori/concorrenti a monte. In questo caso riduce i margini
dei concorrenti a monte e costringe loro a uscire dal mercato oppure la loro quota di mercato viene a ridursi.
Quindi sono strategie di prezzo che mirano a estendere a valle o a monte la dominanza dell’impresa. La
pratica ha come obiettivo ridurre la concorrenza e conseguentemente anche il benessere dei consumatori.
Si tratta di pratiche frequentemente analizzate dall’autorità antitrust che può stabilire se queste politiche di
prezzo costituiscono effettivamente un abuso andando a confrontare il prezzo praticato a monte e a valle
dall’impresa dominante con alcuni elementi di riferimento. Per esempio vedere se il prezzo praticato
dall’impresa dominante è di natura predatoria.
In tutti queste situazioni non è semplice effettuare i confronti perché abbiamo di fronte un’impresa
dominante e si dovrebbe confrontare il suo comportamento con quello di un’altra impresa in un mercato
simile con prodotti simili. Questo non è facile. Non è facile osservare questa situazione.
Oltre a questo, sia nel caso di margin squeeze a valle o monte, ci sono sempre i soliti problemi nel confrontare
un prezzo con qualcos’altro.
Intanto bisogna confrontarli con dei costi sostenuti. Questo è complicato soprattutto nelle imprese multi
prodotto. Bisognerebbe andare a imputare il costo al singolo prodotto.
Bisogna scegliere i costi da osservare. In teoria dovrebbe essere osservato il costo marginale ma non è
stimabile.
C’è sempre da considerare anche l’impatto effettivo del comportamento dell’impresa dominante nei
confronti dei clienti
Vedi libro + slide

Altre tipologie di comportamenti escludenti (slide)


Aumento dei costi concorrenti
Obbligazione di contrattazione esclusiva
Abusi legati ad accordi di licenza

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CASI REALI DI ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE (quaderno)

LE CONCENTRAZIONI
Terzo pilastro della disciplina antitrust.
I riferimenti normativi
Regolamento comunitario del 1989 poi aggiornato con il regolamento n.139 del 2004
La legge antitrust italiana, Legge n.287 del 1990.
Elementi generali:
Si tratta di operazioni che modificano la struttura di mercato. In che modo avviene la modifica?
1. Acquisizione
2. Fusione
3. Join venture cioè quando si formano imprese comuni
Ci concentriamo sulle prime due. Acquisizioni e fusioni che si distinguono tra di loro perché nel caso di
acquisizione l’impresa A acquisisce una partecipazione azionaria dell’impresa B che gli garantisce il controllo
oppure l’impresa A acquista l’impresa B.
La fusione viene spesso utilizzata come sinonimo di acquisizione. La fusione sarebbe un’unione tra pari. Nella
realtà le quasi tutte le fusioni consistono in acquisizioni. Per questo utilizziamo fusione-acquisizione nello
stesso modo.
Perché le fusioni-acquisizioni si realizzano? Motivazioni delle operazioni di concentrazioni:
 Economie di scala  all’aumentare della scala produttiva diminuiscono i costi medi di produzione.
Queste sono le principali motivazioni indicate dai manager responsabili del processo di fusione.
Posso essere:
Economie di scala tecniche= quando fanno riferimento al processo produttivo in maniera stretta,
quindi alle economie tecnologiche. Si aumenta la scala produttiva e a parità di altre condizioni, quindi
a parità dei prezzi dei fattori, si riducono i costi medi di produzione
Economie di scala pecuniarie = significa che quando tra due imprese se ne forma una, l’impresa di
maggiore dimensione può ottenere degli sconti considerevoli quando si reca a rifornirsi di input.
Pecuniarie perché non dipendono dal processo produttivo ma esclusivamente dal fatto che stiamo
parlando di un’impresa più grande. Sono quelle economie di cui godono i supermercati rispetto ai
negozi al dettaglio.
Sulla base di questa prima motivazione, sembrerebbe essere ragionevole l’operazione di concentrazione sia
perché va a migliore il sistema economico sia per i consumatori.
In realtà le concentrazioni sono realizzate:
 Per aumentare il potere di mercato delle imprese che partecipano alla concentrazione  Tramite
la concentrazione si crea un’impresa con una quota di mercato maggiore, questa quota garantisce
maggiore indipendenza per quanto riguarda le decisioni di prezzo, le decisioni di quanto produrre, le
decisioni sulle caratteristiche dei prodotti ecc. Quindi questo significa maggior potere di mercato e
quindi maggiore capacità di generare profitti.
 CASO ESTREMO: Monopolizzazione del mercato se ci sono due imprese sul mercato e si uniscono,
si crea un monopolio e questo si comporta come tale.
Si tratta di motivazioni che non vengono comunicate come quella di economia di scala.
 Eliminazione di un rivale particolare = se osserviamo la storia delle grandi imprese, questa è
caratterizzata da una lunga sequenza di acquisizioni. Molto spesso il successo di una grande impresa
dipende dallo spirito imprenditoriale del fondatore, dalle innovazioni introdotte, dalla capacità di
adattarsi alle mutate condizioni del mercato, condizioni istituzionali e social demografiche ecc.
Tuttavia, se prendiamo le più grandi imprese del mondo e osserviamo come si sono sviluppate e

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come sono cresciute nella storia, scopriamo che queste imprese hanno acquisito tante imprese
concorrenti. Piuttosto che competere con un pericoloso concorrente, conviene comprarselo.
 Motivi manageriali  il manager di un’impresa può decidere di procedere con una serie di
acquisizioni per far crescere la propria impresa perché questo è sintomo di ottima performance. I
manager aumentano di visibilità quando la loro impresa cresce.
 Motivi fiscali  per pagare meno tasse
Dunque, esistono vari motivi che spingono all’operazione di concentrazione. Alcune di queste sono rese note,
altre no.
FORME DI MANIFESTAZIONE DELLE CONCENTRAZIONI
1.Concentrazioni di natura orizzontale  imprese concorrenti che appartengono allo stesso mercato si
uniscono
2.Concentrazioni di natura verticale  fusione di imprese che operano a stadi successivi del processo
produttivo
3.Concentrazioni conglomerali  i mercati di riferimento e le imprese che si uniscono sono completamente
separati
Quali sono i motivi per cui l’antitrust si occupa di concentrazioni? Possibili effetti anti competitivi:
 Tramite un’operazione di concentrazione scompare almeno un’impresa, quindi viene eliminato un
concorrente. Questo modifica la struttura del mercato e riduce in parte la concorrenza
 Crea una posizione dominante o rafforzare una posizione dominante se questa già esisteva
 Aumenta la probabilità di comportamenti collusivi perché ci sono meno concorrenti in un dato
mercato
Come si monitorano le concentrazioni? In termini preventivi. C’è forte differenza tra intese e abusi proprio
per questo. Se l’operazione di concentrazione supera certe soglie di fatturato scatta l’obbligo di
comunicazione alla commissione o all’autorità di volontà di procedere alla concentrazione. Da qui sarà la
commissione o l’autorità che dovrà fare una valutazione preventiva sull’operazione di concentrazione.
Le soglie a livello nazionale sono presenti nella legge 287 del 90 mentre le soglie a livello comunitario sono
inserite nel regolamento comunitario.
La differenza con gli abusi e le intese è forte perché in quei casi si valuta una condotta presente o passata
mentre nelle concentrazioni si valuta una condotta futura.
Gli elementi da tenere in considerazione sono numerosi. L’analisi è piuttosto complessa perché la
commissione e le autorità devono valutare una situazione futura. E devono valutare se una situazione futura
potrà comportare effetti anticoncorrenziali. Non si valuta solo il futuro di quell’impresa che nasce dalla
fusione, si considera anche quale sarà il contesto competitivo in cui si muoverà quell’impresa che nasce dalla
fusione. Infine, l’altra difficoltà è che il procedimento di valutazione della concentrazione deve essere rapido
perché altrimenti si blocca la variazione strutturale (naturale) del mercato.
COSA DEVE ESSERE VALUTATO QUANDO SI MONITORA LA NOTIFICA DI OPERAZIONE DI UNA
CONCENTRAZIONE?
Fino al 1989, anno in cui è stato adottato a livello europeo il regolamento delle concentrazioni, il criterio di
valutazione corrispondeva al dominance test. Si sarebbero dovute vietare quelle concentrazioni che
rafforzavano o creavano una posizione dominante in grado di ostacolare in modo significativo la concorrenza.
Questo criterio generava una coerenza con il divieto dell’abuso di posizione dominante e non della posizione
dominante.
Dal 1989, quindi dal regolamento comunitario, si dovrebbe usare un criterio leggermente diverso. Sono
vietate le concentrazioni che ostacolano la concorrenza effettiva, in particolare per la creazione o il
rafforzamento di una posizione dominante. Quindi il rafforzamento o creazione della posizione dominante
non è più elemento necessario affinché si debba aprire un procedimento che valuti con attenzione
un’operazione di concentrazione. Bisognerebbe utilizzare un criterio più generale cioè l’ostacolo alla

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concorrenza effettiva. Tuttavia si precisa che questo ostacolo deriva quasi sempre dal rischio di creare o
rafforzare una posizione dominante.
Perché è stata cambiata l’impostazione? Perché si è dovuto prendere atto, da una decisione
giurisprudenziale, dell’introduzione del concetto di posizione dominante collettiva. Il concetto di posizione
dominante deve tener conto anche della possibile fusione o intesa tra due imprese, si crea una posizione
dominante collettiva e quindi non si può utilizzare più il concetto di posizione dominante in senso stretto
nella valutazione di operazione di concentrazioni.
Resta il fatto che, da un lato il fenomeno della posizione dominanza collettiva è raro, e dall’altro lato ciò che
la Commissione tramite il regolamento del 89 e dopo gli aggiornamenti, ha confermato che le operazioni di
concentrazione vanno valutate con il criterio della dominanza. Quindi con il dominance test.
Di notifiche alla Commissione e all’autorità antitrust nazionale ne arrivano tantissime perché le soglie fissate
per la notifica preventiva sono basse. Ogni giorno arrivano notifiche. C’è una sorta di problema a livello
nazionale nel senso che se un’impresa compra un’impresa molto piccola comunque deve essere notificata la
volontà di concentrazione all’autorità antitrust nazionale.
Tuttavia, di queste notifiche, per poche si apre un procedimento. Nel decidere se aprire o meno il
procedimento, il criterio è il dominance test quindi domandarsi se la concentrazione rafforza o crea una
posizione dominante.

CONCENTRAZIONI ORIZZONTALI
Si tratta di concentrazioni che avvengono tra imprese che appartengono allo stesso mercato. Quando due
concorrenti si uniscono l’effetto è la scomparsa di concorrenza tra di loro. Si elimina un concorrente dal
mercato.
Se consideriamo che le due imprese che si uniscono hanno dimensione rilevante, la scomparsa di un
concorrente significa che non c’è più per la nuova impresa il problema della reazione di quel concorrente.
Prima della concentrazione se una di queste imprese alzava i prezzi, rischiava di perdere i clienti in favore
dell’altra impresa. Questo problema dopo la fusione non esiste più. Questo è il motivo della preoccupazione
dell’autorità antitrust.
Come tanti altri procedimenti antitrust, la definizione del mercato è un passaggio fondamentale perché a
seconda di come definiamo il mercato avremo una posizione diversa delle imprese al suo interno. Se il
mercato viene definito in maniera molto ampia, le imprese che ne fanno parte avranno una minima quota di
mercato. Quindi anche in caso di fusione, la quota di mercato della nuova impresa sarà abbastanza limitata.
Se il mercato è definito in modo ristretto, le quota di mercato delle imprese sarà elevata. Una fusione andrà
a incrementare notevolmente gli indici di concentrazione di quel mercato.
Il procedimento di definizione di mercato può essere diverso rispetto alle intese ad abusi. Nelle intese e negli
abusi si fa riferimento a una condotta passata in mercati che hanno già avuta una dimensione temporale, che
sono già stati definiti. Tuttavia, anche quando il mercato è esistito comunque c’è un minimo di analisi da fare.
Nel caso di concentrazione, proprio perché la valutazione deve riguardare il futuro, si deve cercare di definire
quale sarà il mercato futuro in cui opererà quell’impresa che nasce dalla concentrazione. È necessaria questa
valutazione prospettica nella definizione del mercato quando stiamo parlando di concentrazione.
Una volta definito il mercato rilevante (test SSNIP se si hanno dati sufficienti per portare avanti questo test),
si vanno a calcolare le quote di mercato delle imprese prima e dopo la concentrazione. Normalmente una
quota di mercato al 50% è associata a una posizione dominante. Per quote più basse si devono fare ulteriori
valutazioni.
Se si hanno dati a sufficienza è possibile calcolare anche l’indice di concentrazione cioè qual è il valore
dell’indice prima e dopo la concentrazione e come è la variazione dell’indice stesso.
L’indice di concentrazione utilizzato è l’indice HH  somma delle quote di mercato elevate al quadro di tutte
le imprese che sono nel mercato.

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Si misura l’indice prima e dopo. Si assume che la concentrazione non porterà problemi quando di verificano
una di queste circostanze, Presunzioni legali:
- l’indice HH è inferiore a 1000 dopo la concentrazione
- l’indice HH è compreso tra 1000 e 2000 e la sua variazione è inferiore a 250
- l’indice HH è superiore a 2000 però la variazione è inferiore a 150
Se si osserva una di queste, si conclude che le concentrazioni non sollevano grosse preoccupazioni in termini
antitrust. Si dovrebbero anche considerare le azioni e reazioni delle imprese concorrenti o anche fuori dal
mercato dopo la concentrazione. Quindi bisogna valutare la possibilità che altri concorrenti escano dal
mercato a seguito dell’operazione di concentrazione. È una valutazione complicata, bisognerebbe chiederlo
a quelle imprese e quindi è comunque qualcosa che riguarda il futuro ed è di difficile valutazione.
Questa valutazione prospettiva è complessa e riguarda un mercato che si sta formando. Bisogna definire un
mercato che si sta formando.

Quali sono gli effetti che può produrre una concentrazione orizzontale in un mercato?
-Effetti coordinati
-Effetti non coordinati o effetti unilaterali
EFFETTI NON COORDINATI
Le imprese che partecipano alla fusione non sono più concorrenti. In base a questa considerazione, ci sono
meno concorrenti sul mercato e minore reazione dei concorrenti rispetto alla nuova impresa che è diventata
dominante. In seguito a questo i prezzi rischiano di aumentare perché aumenta l’autonomia in termini di
politiche di prezzo della nuova impresa che nasce dalla fusione.
COSA È NECESSARIO FARE PER STABILIRE SE LA CONCENTRAZIONE CREA O RAFFORZA POSIZIONE
DOMINANTE?
Stessa logica nel caso di abuso di posizione dominante.
Mercati omogenei:
Se stiamo considerando mercati con prodotto omogeno quindi mercati che offrono più o meno gli stessi
prodotti o comunque i consumatori percepiscono quei prodotti come omogenei, si ritiene che l’eventuale
posizione dominante della nuova impresa sia meno dannosa. I consumatori possono chiedere il prodotto ai
concorrenti della nuova impresa dominante se praticano prezzi più bassi.
La minore pericolosità di creazione di posizione dominante in seguito a operazione di fusione, varia anche
quando si considera la variazione della quantità prodotta, della qualità dei prodotti ecc..
È anche vero che se la fusione crea una un’impresa che ha una quota di mercato dell’80-90%, è ovvio che
anche in presenza di prodotti omogeni le imprese concorrenti non riuscirebbero a soddisfare l’intera
domanda a seguito di un aumento di prezzi. Questo almeno nel breve periodo.
Si deve valutare anche la possibilità che altre imprese entrino nel mercato.

Mercati differenziati
Le cose cambiano di fronte a mercati differenziati? La differenziazione dei prodotti può avvenire lungo più
dimensioni: i prodotto sono differenziati in termini di qualità, di varietà ecc..
È possibile che quando l’autorità va a definire un certo mercato, includa imprese che realizzano prodotti
differenziati. I prodotti non sono omogenei. Non esistono molti mercati che offrono stessi prodotti. Dunque
è molto frequente che il mercato che è stato definito dall’autorità antitrust includa prodotti differenziati. È
sufficiente che la differenziazione sia percepita dai consumatori. Questo è possibile anche quando i prodotti
sono intrinsecamente identici. L’elemento che definisce mercati differenziati è la percezione dei
consumatori.
La differenziazione può derivare da effettiva diversità intrinseca oppure da elementi che riguardano la sfera
psicologica del consumatore: marchio, localizzazione geografica dei venditori.

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L’elemento da considerare nel caso di concentrazioni tra imprese che offrono beni differenziati qual è?
Bisogna fare attenzione alla sostituibilità tra i prodotti offerti dalle imprese che partecipano alla fusione e la
sostituibilità tra questi e quelli dei prodotti delle imprese che non partecipano alla fusione.
Quindi bisogna valutare come la sostituibilità si riflette nel potere di mercato dell’impresa che nasce dalla
concentrazione.
Esempio: Poniamo che in un mercato vi siano 3 imprese che offrono prodotti differenziati A, B, C. I prodotti
A e B non sono perfettamente omogenei. Si ritengono diversi agli occhi dei consumatori. Poniamo che i
consumatori non ritengono stretti sostituti A e B rispetto a C.
Può essere che in seguito alla fusione, risulti che l’insieme dei beni A e B, sia sostituto forte del prodotto C.
In questo caso il potere di mercato della nuova impresa non è così elevato.
Quindi la sostituibilità tra prodotti deve essere valutata nella fase pre e post fusione. A seconda della
sostituibilità dei prodotti dal lato della domanda si può avere risultati diversi della valutazione complessiva
in termini di potere di mercato della nuova impresa che nasce dalla concentrazione.
Un’altra questione relativa alla possibile differenziazione o diversificazione dei prodotti, riguarda quello che
sarà la varietà dei prodotti offerti nelle fasi post fusione.
È possibile che due imprese che si uniscono riescano a offrire una gamma di versione diverse dello stesso
prodotto e quindi è possibile avere una sorta di proliferazione del prodotto. I prodotti offerti dalla nuova
impresa vanno a coprire in modo preciso le preferenze di tutti i consumatori. Questo va a ridurre la
profittabilità di entrata nel mercato di altre imprese. In alcuni casi le imprese adottano volontariamente una
strategia di proliferazione di prodotto cioè vendono un solo prodotto ma di una ampia gamma di varietà.
Oppure, è possibile che questo sia il risultato semplicemente del fatto che l’impresa A e l’impresa B si
uniscono e ne deriva una grande impresa che va a coprire in modo piuttosto preciso le preferenze dei
consumatori. Questo crea una barriera all’entrata del mercato e mette in difficoltà i consumatori che
rischiano di vedersi aumentare i prezzi delle varie varietà del prodotto.
È abbastanza raro che si riesca a definire un mercato in cui le imprese offrono beni omogeni. Quasi sempre
la differenziazione la osserviamo come consumatori. Prodotti anche identici ma offerta da imprese diverse
hanno nome e marchio diverso. La pubblicità anche è importante. Quando abbiamo una fusione all’interno
di mercati di prodotti differenziati bisogna chiederci qual è il grado di sostituibilità pre e post fusione. A
seconda di quello si valuta meglio il potere di mercato della nuova impresa.
Per riassumere: Per valutare gli effetti unilaterali delle concentrazioni orizzontali l’analisi è questa: definire il
mercato e poi fare una valutazione prospettica chiedendoci quale sarà il comportamento probabile della
nuova impresa date le condizioni di contesto, di mercato, di concorrenza, data la tecnologia che sarà utilizzata
o usata.

Giovedì 05.11.2020
Effetti coordinati
Una concentrazione può aumentare la probabilità di comportamenti collusivi su tutta una serie di grandezze
come i prezzi, la quantità prodotta, le quote di mercato ecc. Questa è una osservazione scontata perché una
concentrazione va a ridurre di per sé il numero dei concorrenti e quindi rende più semplice la collusione, il
coordinamento tra imprese. La collusione può essere sia tacita che esplicita. In questo senso c’è un legame
molto stretto con la disciplina delle intese e anche con il concetto di abuso di posizione dominante collettiva.
La posizione dominante collettività è una fattispecie particolare del diritto antitrust, relativamente recente,
piuttosto rara che si può avere quando il mercato è abbastanza concentrato. Le poche imprese che lo
compongono possono coordinarsi in modo tacito (senza accordi formali) in relazione a determinati variabili
(prezzi, quantità prodotte ecc).

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Perché è importante prendere in considerazioni gli effetti coordinati collusivi nella valutazione di
un’operazione di concentrazione?
1) è vero che la collusione deve essere analizzata nella disciplina delle intese ma qui ancora non c’è l’intesa.
C’è solo la notifica di concentrazione e quindi l’autorità antitrust deve semplicemente verificare se in futuro
questa nuova configurazione del mercato renderà più probabile fenomeni collusivi.
2)è importante analizzare nell’ambito di valutazione delle concentrazioni, i possibili effetti coordinati perché
quello che vieta la legge non è la creazione della posizione dominante collettiva ma l’eventuale abuso di
quella posizione.
È necessario analizzare in questo ambito la possibilità che una nuova configurazione di mercato vada a creare
una posizione dominante e questa possa poi essere sfruttata abusivamente.
La Corte di Giustizia della CE ha chiarito nel corso del tempo che effettivamente possono essere vietate
concentrazioni che creano o rafforzano una posizione dominante collettiva. Gli elementi da considerare e da
valutare sono gli stessi che abbiamo visto facilitano o rendono possibile un accordo di cartello. Gli elementi
che possono sorgere durante la valutazione non sono elementi che necessariamente se presenti, portano
l’autorità a vietare una concentrazione. Devono essere presi come tali. Per esempio le barriere all’entrata,
caratteristica dei beni e servizi prodotti ecc sono elementi da valutare alla luce della possibile sostenibilità di
comportamenti collusivi che non sono ancora stati messi in pratica. Sono più probabili data la nuova struttura
di mercato.
Nella valutazione di possibili effetti coordinati, si è dibattuto a lungo se si poteva applicare il test della
dominanza cioè test per cui si verifica se si crea o rafforza una posizione dominante in seguito alla
concentrazione. L’esempio più tipico di una circostanza che poteva comportare alcuni problemi
nell’applicazione del test dominanza all’interno della valutazione degli effetti coordinati, era una situazione
in cui in un mercato si uniscono la seconda e terza impresa nel mercato, la loro quota congiunta rimane
inferiore a quella del leader. Quindi si crea una situazione particolare perché le imprese che partecipano alla
fusione non diventano dominanti. Non poteva essa utilizzato il criterio della dominanza perché non c’era
questa circostanza di creazione o rafforzamento di una posizione dominante. Anzi, la dominanza della prima
impresa viene scalfita, ridotta come forza di una seconda impresa sul mercato più grande. Questo era un
problema perché non poteva essere utilizzato un criterio che non aveva le basi. Ecco perché la Commissione
ha eliminato il riferimento esclusivo al criterio della dominanza, sostituendolo con la diminuzione sostanziale
della concorrenza effettiva. La Commissione ha anche specificato che nella stragrande maggioranza si deve
valutare la creazione o rafforzamento di posizione dominante.
Per tenere conto di esempi simili a quello precedente, quindi si usa un criterio più ampio in modo che possa
essere applicato in mercati in cui si verificano concentrazioni, in cui l’impresa che nasce dalla fusione non è
dominante e non c’è il rischio di coordinamento tacito collusivo. La modifica del regolamento delle
concentrazioni del 1989, nella nuova versione del 2004, che non dà attenzione solo sulla creazione o
rafforzamento della posizione dominante ma fa riferimento alla diminuzione sostanziale della concorrenza,
permette di prendere in considerazione operazioni di concentrazione dove effettivamente non si crea o
rafforza una posizione dominante.
Resta il fatto che queste sono situazioni rare. Tuttavia la Commissione europea ha ritenuto fosse utile
comunque definire in modo più generico i criteri per valutare un’operazione di concentrazione.
Nella valutazione degli effetti della concentrazione è importante tenere conto della possibile reazione di
acquirente e concorrenti. Quindi concorrenti della nuova impresa e la reazione anche degli acquirenti.
Questo soprattutto in termini di rapporto tra nuova impresa e acquirenti, quindi magari imprese che si
collocano a valle del processo produttivo. La creazione o rafforzamento di posizione dominante va valutata
anche al potere controbilanciante degli acquirenti (countervailing buyer power). Per cui se gli acquirenti a
valle sono grandi e sofisticanti possono reagire alla concentrazione che si è verificata a monte rivolgendosi a
fornitori alternativi o sfruttare il proprio potere negoziale per impedire alla nuova impresa di sfruttare il
potere di mercato che gli deriva dalla maggiore quota di mercato. Questa capacità degli acquirenti di

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rivolgersi a fornitori alternativi dipende da una serie di condizioni strutturali e comportamentali. Spesso,
coloro che si collocano a valle del processo produttivo, quindi si rivolgono alle imprese a monte per acquisire
un input, hanno effettuato investimenti specifici. Cioè hanno realizzato investimento che sono tarati su quel
particolare input fornito dall’impresa a monte. Quindi rinunciare all’input significa rinunciare a una parte
degli investimenti realizzati. Dunque questo conduce a sostenere switching cost elevati che possono ridurre
la capacità di reazione degli acquirenti a valle.
Da questo punto di vista dovrebbe essere considerata anche la probabilità di entrata all’interno del mercato
in cui si realizza la concentrazione, di altri concorrenti. Dunque bisogna considerare la reazione di concorrenti
già presenti sul mercato ma anche la reazione di chi sta fuori del mercato. L’incentivo delle imprese fuori dal
mercato dipende dagli stessi fattori: barriere all’entrata, dai costi irrecuperabili da sostenere per entrare in
un mercato (sunk cost). Se in un mercato si osservano dei costi irrecuperabili all’entrata molto elevati, deve
essere valutata bene l’autorizzazione all’operazione di concentrazione cioè a concedere la fusione. Le
barriere all’entrata sono un ostacolo. A seguito di concentrazione, in presenza di barriere molto elevate si
esclude la possibilità di entrata di terze imprese nel breve periodo quindi la valutazione deve essere
maggiore.
In alcuni specifici mercati, cioè in mercati in cui l’innovazione tecnologica è molto importante in termini
concorrenziali, le imprese competono sulla velocità con cui riescono a introdurre innovazioni nel mercato, è
necessario tenere conto del possibile impatto delle operazioni di concentrazioni sul tasso di innovazione di
processo o di prodotto. L’innovazione viene indicata di frequente come un elemento fondamentale, se non
il più importante, della crescita economica. La capacità di un paese di generare reddito dipende molto dalla
capacità di quel paese di generare innovazioni. Le innovazioni tendono a ridurre i costi produttivi, quindi ad
aumentare l’efficienza dei sistemi produttivi, permettono di abbassare i prezzi di mercato e i consumatori ne
sono beneficiati.
In realtà, dal punto di vista economico generale, non è chiaro il legame tra crescita economica e tasso di
innovazione perché è vero che le innovazioni, fin dalla nascita del capitalismo, sono considerate una spinta
alla crescita economica ma è anche vero che sono quei paesi che hanno tassi di crescita economica maggiori
che investono di più in ricerca e sviluppo, quindi hanno maggiore capacità di realizzare innovazioni. C’è un
rapporto anche inverso di causa-effetto. Per cui in letteratura economica si studia questo problema da anni:
è la crescita economica che stimola innovazione o sono le innovazioni a stimolare la crescita economia.
Il rapporto di causa-effetto vale su entrambe le direzioni.
Per tornare all’aspetto più microeconomico, il problema qual è? Il problema affrontato dalla letteratura
economica teorica ed empirica è il rapporto tra dimensione di impresa e innovazione  Gli economistici si
chiedono se le innovazioni emergono più probabilmente in un mercato concentrato o frammentato? È
probabile che un monopolista introduca innovazioni nel mercato (quindi investa in ricerca e sviluppo) o
questo avviene di più in regime di concorrenza?
Dal punto di vista teorico, un monopolista in un mercato, quindi consideriamo caso estremo di mercato
concentrato, da un lato ha maggiori risorse per effettuare attività di ricerca e sviluppo e quindi maggiore
capacità di generare innovazioni. Allo stesso modo il monopolista, in quanto tale, ha scarsi incentivi a
introdurre innovazioni perché sta già massimizzando profitto di monopolio. Se ci sono barriere all’entrata
non ha incentivo a migliorare il proprio processo produttivo e a introdurre nuove innovazioni.
Diversamente le imprese piccole e medie dimensioni, da un lato hanno minore capacità di impegnarsi in
ricerca e sviluppo perché non è possibile creare una divisione che si occupa e si specializza nella ricerca e
sviluppo perché le risorse necessarie sono elevate e tali imprese dovrebbero realizzare investimento rischiosi,
allo stesso modo hanno un grande incentivo a cercare di generare innovazioni perché se riescono a farlo,
questo consente di guadagnare quote di mercato e passare ad avere magari una quota di mercato elevata.
Quando in economia ci sono tesi contrapposte a livello teorico, si cerca di andare a vedere nella pratica quello
che succede nei fatti, nei mercati. Sono state portate avanti varie ricerche empiriche, si è andati a prendere
dati relativi a tanti mercati diversi e nei vari mercati si è andati a misurare:

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un indice di concentrazione HH
il rapporto complessivo tra spese in ricerca e sviluppo e fatturato

Ogni punto nel grafico rappresenta un mercato e rappresenta la combinazione tra il livello di concentrazione
del mercato e l’intensità della ricerca e sviluppo.
Quello che si osserva è una nuvola di punti fatta in questo modo. Si osserva una correlazione positiva tra il
livello di concentrazione del mercato e intensità della ricerca e sviluppo. Attività di ricerca e sviluppo non
significa innovazione, significa sforzo profuso nel cercare di ottenere innovazioni.
Quindi si potrebbe concludere che nei mercati più concentrati c’è maggiore sforzo innovativo. Anche qui però
bisogna fare attenzione perché c’è un problema di ordine di causalità. Cioè, mostrato in quel modo il grafico
sembra voler dire che più un mercato è concentrato e più viene fatta ricerca e sviluppo. Dunque se vogliamo
un mercato con un tasso di innovazione molto elevato dovremmo cercare di rendere concentrati i mercati.
Questo andrebbe a sconfessare tutta l’attività dell’antitrust.
In realtà il grafico può segnalare un ordine inverso di causalità. Potrebbe segnalare che nei mercati in cui si
fa molta ricerca e sviluppo, oppure ci sono imprese che fanno molta ricerca e sviluppo, queste imprese
riescono a ottenere innovazioni di processo o di prodotto, e questo attribuisce loro un vantaggio competitivo
sui concorrenti e fa guadagnare fette di mercato. Anche in questo caso ci sono problemi riguardo la variabile
che influenza più l’atra. È il mercato concentrato che rende più probabile il processo di innovazione o
viceversa? È un po' questo il dato che si indaga empiricamente.
Questo per dire che in economia c’è questo problema. Se ci vogliamo concentrare sull’innovazione non è
chiarissimo né dal punto di vista teorico, né empirico, se per innovazione sia meglio un mercato più o meno
concentrato. Tra l’altro c’è anche un problema contabile perché se ad esempio si osserva un processo di
concentrazione. Quindi due imprese si uniscono. Prima del processo di fusione già stavano portando avanti
attività di ricerca e sviluppo e la nuova impresa continua a farlo. Possiamo osservare che il rapporto tra spese
R&D e fatturato è diminuito. Il rapporto R&D fatturato è inferiore di quello delle due imprese prima della
concentrazione. Quindi bisogna concludere che la concentrazione riduce l’incentivo alla innovazione? Beh,
non è detto. È possibile che siano state eliminate duplicazioni nell’attività di ricerca e sviluppo. Cioè, le due
imprese svolgevano attività simili e questo costitutiva a livello di mercato uno spreco di risorse. Dopo la
fusione le duplicazioni vengono eliminate. Inoltre, nell’attività di ricerche e sviluppo è possibile osservare
delle economie di scale.
In definitiva gli effetti sono controversi perché si sta parlando di elementi che non esistono ancora. Nel
momento in cui l’antitrust va a valutare l’impatto delle concentrazioni sull’attività di ricerca e sviluppo, deve
fare una stima di qualcosa che accadrà in futuro. In questo tipo di valutazione giocano un ruolo fondamentale
le dichiarazioni delle imprese che partecipano alla fusione perché sono quelle imprese che hanno
informazioni rilevanti, informazioni in più nei confronti dell’autorità antitrust, dell’autorità di settore ecc.
È necessario fare una valutazione sul futuro basandosi sulle dichiarazioni delle imprese che sono parte in
causa.

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Poiché si parla di innovazione e di futuro, un ulteriore considerazione generale è che in economia si continua
a scrivere di innovazione. Viene molto incentivato e stimolato lo studio e la ricerca su questi temi
(innovazione in mercati concentrati o meno ecc).
La stessa “economia dell’innovazione” si fonda su paradosso metodologico. Studiare l’innovazione dal punto
di vista economico significa cercare le regolarità a livello teorico e a livello empirico nei processi di
innovazioni. Il problema è che l’innovazione è qualcosa di non regolare. Se fosse possibile individuare delle
regolarità nei processi di innovazione, significa che non stiamo studiando l’innovazione ma qualcosa che si
ripete in certe condizioni allo stesso modo. Da questo punto di vista l’economia dell’innovazione è
paradossale come disciplina. Se invece l’attività di ricerca è quella di descrivere le attività di innovazione
passate, non è più economia dell’innovazione ma storia dell’innovazione che non si preoccupa di trovare
delle regolarità, o se lo fa è comunque in modo più cauto rispetto agli economisti.
Per concludere su questo aspetto della concentrazione-innovazione, in alcuni mercati l’innovazione è
l’elemento essenziale del mercato stesso. I consumatori sono avvantaggiati in termini di benessere
dall’innovazione perché comporta maggiore varietà di prodotti e costi più bassi, ma dal punto di vista
previsionale, prospettivo è complicato fare delle considerazioni di questo tipo. In alcuni casi è necessario
andare a vedere se una determinata innovazione è stata brevettata quindi vedere se c’è esclusività nello
sfruttamento di un’invenzione. L’impresa che ha grande quota di mercato si compra un concorrente perché
quella ha sviluppato una particolare innovazione, l’ha brevettata e acquistandosi il concorrente risparmia in
spese di ricerca e sviluppo e può sfruttare l’innovazione senza licenza per esempio.

Effetti verticali possibili delle concentrazioni orizzontali


Vi è una concentrazione tra due imprese concorrenti che stanno nello stesso mercato. È possibile che vi siano
effetti verticali in termini concorrenziali? È possibile se una volta che la concentrazione crea una posizione
dominante a valle, questa impresa può esercitare a monte (mercato per esempio frammentato) una pratica
abusiva. La nuova impresa di grande dimensione a valle, può sfruttare la sua posizione per costringere ad
abbassare prezzi di un dato input. Questo apparentemente sembrerebbe essere un effetto anti competitivo.
Apparentemente perché, se l’impresa a valle si rivolge ai consumatori, il fatto che paghi un prezzo all’ingrosso
più basso per un certo input, può far ridurre anche i prezzi finali praticati ai consumatori. I consumatori
starebbero meglio.
In termini verticali ci sono le concentrazioni verticali ma che vedremo più avanti.

Approfondimento su un aspetto  EFFETTI DI EFFICIENZA o GUADAGNO DI EFFICIENZA


Le concentrazioni orizzontali sono illustrate dai responsabili dicendo che se avvengono tra imprese che
producono beni e servizi simili, l’unione di due imprese comporterà economie di scala. Cioè si produce
all’interno dello stesso stabilimento produttivo un prodotto con una scala produttiva più ampia e questo
comporta un abbattimento dei costi medi. Questo elemento è stato considerato esplicitamente dalla
Commissione antitrust e in particolare all’interno del regolamento delle concentrazioni del 2004 ma anche
all’interno delle linee guida, degli orientamenti pubblicati dalla Commissione nel 2004 relativa su come fare
valutazioni di concentrazione. La maggior efficienza economica più importante giustificazione delle
operazioni di concentrazioni. Se la nuova impresa ha costi più bassi grazie a economie di scala, di questo
risparmio di costo possono beneficiarne anche i consumatori. Il guadagno efficienza deve essere valutato
esplicitamente nell’analisi delle concentrazioni se sussistono contemporaneamente queste condizioni:
1. I miglioramenti di efficienza, quindi i risparmi di costo, devono essere trasferiti effettivamente in
tutto o in parte ai consumatori (nel prezzo finale)
2. La maggior efficienza si ottiene solo mediante concertazione e non ci sono altri strumenti
3. La maggior efficienza deve essere dimostrabile e verificabile

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Se sono soddisfatte queste condizioni, la Commissione o autorità antitrust può considerare gli effetti di
efficienza e andare a vedere se questi controbilanciano gli effetti anticoncorrenziali dell’operazione di
concentrazione.
Per entrare nel dettaglio di questo problema, la prima condizione richiede che i miglioramenti di efficienza
debbano essere trasferiti in tutto o in parte ai consumatori. Questo significa che se la nuova impresa ha costi
medi più bassi, anche i prezzi finali devono risentirne e abbassarsi. Da cosa dipende la traslazione dei vantaggi
di efficienza sui prezzi pagati dai consumatori? Dipende da questi due elementi:
1) La maggior efficienza dovrebbe riguardare i costi marginali e non i costi fissi perché le decisioni di prezzo
delle imprese dipendono dal costo marginale. Il costo marginale è in relazione con costi fissi? In parte si e in
parte no. Il costo marginale è la variazione del costo totale dovuta alla produzione di un’unità aggiuntiva di
bene o servizio. Quanto costa in più l’unità produttiva.
Se nel costo totale c’è una parte di costo fisso, costo totale e costo fisso sono legati. Tuttavia se abbiamo una
riduzione esclusivamente dei costi fissi, questo ha un impatto molto limitato sui costi marginali.
In economia viene insegnato che nelle varie forme di mercato che possiamo ipotizzare (monopolio,
concorrenza, oligopolio), le decisioni di prezzo dipendono dai costi marginali. Il monopolista sceglie la
quantità da produrre eguagliando costi e ricavi marginali. Dalla quantità poi troviamo il prezzo che pratica il
monopolista. La scelta della quantità o del prezzo è alternativa. In ogni caso la scelta del prezzo è legata al
costo marginale perché dipende dall’uguaglianza tra ricavo marginale e costo marginale. Quindi se la maggior
efficienza incide sul costo marginale allora ne risentirà anche il prezzo.
2) Affinché vi sia la traslazione di vantaggi dalle imprese ai consumatori deve esistere una pressione
concorrenziale. Se parliamo di una fusione che crea una situazione di monopolio, è abbastanza improbabile
che questo monopolista in seguito di vantaggi di efficienza voglia condividere con i consumatori questi
guadagni di efficienza.
Cosa ci dicono le linee guida che servono ad applicare il regolamento? La Commissione, l’organo che applica
le leggi antitrust, può effettivamente tenere conto dei guadagni di efficienza e vedere se sono così elevati da
controbilanciare gli svantaggi che derivano da un’operazione di concentrazione, a condizione che si
verifichino quelle circostanze. Non è semplice che si verifichino. Perché? Se guardiamo alla prima condizione,
spesso non è così. Spesso, la maggior efficienza riguarda proprio i costi fissi perché le imprese molto spesso,
quando si uniscono, le prime funzioni aziendali su cui si risparmia qualcosa, sono proprio quelle funzioni e
divisioni che generano costi fissi. Pensiamo alla funzione dell’amministrazione dell’impresa, quella più
burocratica dell’impresa genera costi fissi cioè che non dipendono dalla scala produttiva e dalle unità
prodotte ma altri impegni (istituzionali, fiscali ecc). È lì che si risparmia inizialmente quindi è improbabile che
venga poi trasferito ai prezzi pagati ai consumatori.
Questo aspetto dei guadagni di efficienza è stato dibattuto fortemente. Se prendiamo il regolamento 139 del
2004 sulle concentrazioni, al 29esimo considerando troviamo:
Per determinare l'impatto di una concentrazione sulla concorrenza nel mercato comune, è opportuno tener
conto di qualsiasi documentato e probabile guadagno di efficienza addotto dalle imprese interessate.
Sono le imprese interessate che devono segnalare il guadagno di efficienza.
È possibile che l'incremento di efficienza prodotto dalla concentrazione compensi gli effetti sulla concorrenza,
e in particolare il pregiudizio potenziale per i consumatori, che questa avrebbe potuto altrimenti produrre, e
che di conseguenza la concentrazione stessa non ostacoli in modo significativo una concorrenza effettiva nel
mercato comune o in una sua parte sostanziale, in particolare a causa della creazione o del rafforzamento di
una posizione dominante.
= Si possono considerare guadagni di efficienza sempre che non vi sia una situazione in cui la concentrazione
ostacoli la concorrenza in modo significativo. Allora il guadagno di efficienza non devono essere ritenuti
sufficienti per autorizzare la fusione.

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La Commissione dovrebbe pubblicare degli orientamenti in merito alle condizioni alle quali è disposta a tener
conto di considerazioni di efficienza nel valutare una concentrazione.
=In questo regolamento scritto dalla commissione troviamo che la Commissione stabilisce che la
Commissione dovrebbe pubblicare orientamenti che la Commissione dovrebbe seguire. È un po' tautologico.
Questi orientamenti sono stati pubblicati? SI  Orientamenti relativi alla valutazione delle concentrazioni
orizzontali (2004)
Orientamenti che servono ad applicare regolamento del 2004. All’interno degli orientamenti troviamo linee
guida:
La maggior parte delle informazioni necessarie alla Commissione per valutare se la concentrazione potrà
produrre miglioramenti di efficienza sono in possesso unicamente delle imprese partecipanti alla
concentrazione stessa.
= La Commissione riconosce la forte asimmetria informativa. Le informazioni sui processi produttivi le hanno
le parti che si uniscono tramite fusione.
Spetta dunque alle parti notificanti comunicare tempestivamente tutte le informazioni pertinenti, necessarie
per dimostrare che gli incrementi di efficienza addotti hanno un nesso specifico con la concentrazione e che è
probabile che si realizzino.
= i miglioramenti di efficienza devono essere relativi alla concentrazione e non realizzabili anche senza
concentrazione. Inoltre che è molto probabile che si realizzino guadagni di efficienza se venisse autorizzata
la fusione.
Analogamente tocca alle parti notificanti dimostrare in che misura gli incrementi di efficienza sono atti a
controbilanciare gli effetti negativi sulla concorrenza che sarebbero altrimenti prodotti dalla concentrazione,
e che quindi andranno a beneficio dei consumatori.
= questa è una frase interessante perché dice che sono le parti, che sono informate, a dover portare
argomenti a favore dei guadagni di efficienza cioè devono dimostrare che questi ci saranno solo se viene
autorizzata la concentrazione e che questo andrà a beneficio dei consumatori. Inoltre, devono dimostrare
che i guadagni di efficienza controbilanceranno gli effetti negativi sulla concorrenza dovuti alla
concentrazione. In altre parole, le parti coinvolte dovranno affermare che ci sono guadagni di efficienza che
andranno a controbilanciare gli effetti anticoncorrenziali della concentrazione. Quindi in qualche modo si
costringe le parti ad ammettere che la concentrazione avrà degli effetti anticoncorrenziali. Questo è un
aspetto importante che può spiegare perché di questi guadagni di efficienza se ne valuti raramente.
Tesi sui guadagni di efficienza la ragazza è andata a valutare tutti i procedimenti che sono stati aperti per
concentrazione. Quindi tutti i casi che sono stati analizzati dall’autorità antitrust italiana di concentrazioni.
Tutti i casi significa quelli per i quali è stato deciso di aprire un procedimento. Le concentrazioni notificate
sono molte di più.
Dal 1993-2019 sono stati aperti 102 procedimenti per valutare le concentrazioni. Gli anni sono tanti ma le
concentrazioni analizzate sono poche. Di queste 96 erano concentrazioni orizzontali e 6 verticali. Quindi in
partenza capiamo che le autorità antitrust decide di aprire procedimenti soprattutto per le concentrazioni
orizzontali perché quelle verticali, come vedremo, preoccupano meno ai fini antitrust. Così come le intese
verticali.
L’aspetto interessante è che la valutazione di guadagni di efficienza è stata fatta solo in 7 casi su 102. Questo
è un numero basso. Le parti coinvolte hanno portato elementi sulla valutazione di efficienza e l’autorità le ha
valutate.
Individuare questo aspetto significa andarsi leggere o fare una ricerca abbastanza precisa di tutti i
procedimenti aperti per concentrazione.
Il grafico nella slide ci mostra la distribuzione delle concentrazioni concesse, non concesse e concesse a
condizione.
21 non autorizzate
18 autorizzate

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63 autorizzate con condizione. Quindi la stragrande maggioranza delle concentrazioni analizzate, è stata
autorizzata con condizione. Viene autorizzata la concentrazione posto che vi siano dei rimedi. Rimedi che
possono essere strutturali o comportamentali. Strutturali= l’impresa A e B si uniscono, si autorizza la
concentrazione ma si costringe l’impresa A a cedere una parte dell’impresa a una terza impresa.
Comportamentali= imponendo un comportamento all’impresa che nasce dalla fusione. Comportamento da
tenere per un certo numero di anni.
Motivi dell’estrema rarità di una valutazione dei guadagni di efficienza
1. Fare una valutazione dei guadagni di efficienza è molto complicato perché bisogna fare una valutazione
dell’andamento dei costi medi del futuro che saranno sostenuti dalla nuova impresa dopo la fusione. Tra
l’altro la valutazione devono farla le imprese perché sono loro che hanno le informazioni rilevanti. Quindi le
imprese dovrebbero sostenere dei costi elevati per presentare all’autorità tale valutazione perché
dovrebbero far riferimento a esperti che sappiano stimare accuratamente costi medi, costi fissi, costi
marginali e come questi variano dopo la fusione.
2. Le linee guida impongono alle parti di bilanciare effetti concorrenziali della concentrazione con quelli anti
concorrenziali. Somiglia a una trappola. L’impresa può dimostrare che con la fusione c’è un guadagno di
efficienza ma deve anche dimostrare che controbilanciano gli effetti anti concorrenziali. Quindi le parti sono
costrette anche a mettere sul tavolo gli effetti anti concorrenziali.
3. Sono diffuse le concentrazioni con condizione riduce il problema del guadagno di efficienza. Anziché
cercare di intraprendere la strada in cui si costringe le parti a valutare i guadagni di efficienza, a dimostrare
che questi controbilancio gli effetti anti concorrenziali, si opta per una decisione diretta in modo da limitare
i possibili effetti anti concorrenziali e quindi di riflesso anche dando meno importanza a eventuali guadagni
di efficienza che avrebbero dovuto compensare gli effetti anti concorrenziali. Invece che accettare alcuni
danni anti concorrenziali ma con guadagni di efficienza, si cerca direttamente di limitare gli effetti anti
concorrenziali nelle fusioni mediante rimedi.
Mercoledì 11.11.2020
Failing firm defense: la concentrazione di salvataggio
Anche quando vi è un’operazione di concentrazione che conduce a una riduzione della concorrenza sul
mercato, questa potrebbe essere autorizzate perché una delle imprese coinvolte, normalmente quella
acquisita, scomparirebbe comunque dal mercato. Quindi la concentrazione appare come un salvataggio e
non avrebbe effetti sulla concorrenza perché l’impresa acquisita sarebbe comunque scomparsa. Dunque dal
punto di vista della struttura di mercato non ci sono cambiamenti.
Affinché questo criterio sia utilizzato per autorizzare un’operazione di concentrazione pur in presenza di
effetti distorsivi della concorrenza, devono essere verificate queste 3 condizioni:
1. dimostrare che l’impresa acquisita uscirebbe a breve dal mercato
2. non esistono alternative alla concentrazione per salvare quell’impresa.
3. non possono essere acquisiti beni e target da altre imprese. Quindi per esempio non esiste altra impresa
dimostra ad acquisire quell’impresa che sta fallendo. Non c’è altra via per salvare l’impresa.
È necessario dimostrare la presenza contemporanea di questi elementi.
Lo stesso criterio vale per una divisione di un’impresa? Negli USA vale anche per una specifica divisione
dell’impresa. In Europa, anche in caso di divieto di concentrazione, si fa notare che se all’interno di
un’impresa vi è una divisione in perdita cioè produce perdite anche per la società nel complesso, un’impresa
multi divisionale ha le capacità di mantenere in vita l’impresa anziché vendere la divisione a un’altra impresa.
Negli USA questo concetto della firm defense non si applica soltanto alla firm ma anche a un pezzo
dell’impresa (division).

Tecniche quantitative: tecniche di analisi delle concentrazioni orizzontali

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Oltre alle verifiche qualitative sulle caratteristiche del mercato, sulle caratteristiche dei prodotti, sulle
abitudini dei consumatori, un rapporto tra concentrazione ed effetti anti concorrenziali della stessa, si esplora
anche tramite tecniche quantitative di natura empirica o di natura teorica.
Tecniche quantitative di natura empirica:
Possono essere fatte delle stime econometriche cioè si possono raccogliere dati se disponibili, relativi a
mercati simili al mercato che si sta analizzando, e si va a vedere in quei mercati simili se operazioni di
concentrazioni hanno avuto impatto ad esempio sul livello dei prezzi. Cioè, si può andare a vedere se in un
mercato simile a seguito di fusione i prezzi sono aumentati o diminuiti. Oppure si può andare a vedere
l’effetto sulla qualità dei prodotti o sulla varietà dei prodotti. Dunque se in seguito a una fusione, in mercati
simili i consumatori hanno avuto a disposizione la stessa gamma di prodotto o la gamma di prodotti è
diminuita.
Questo tipo di analisi è complessa perché i mercati non sono mai troppo simili. Se consideriamo il mercato
automobilistico italiano o europeo confrontato con quello statunitense troveremo tanti elementi diversi
(istituzionali, comportamento del consumatore, distribuzione ecc). Non possiamo dire che a seguito di una
fusione in USA i prezzi non sono aumentati e quindi non aumenteranno neanche in Europa.
Inoltre, rimane il problema nell’analisi delle concentrazioni cioè fare valutazioni che si basano su dati correnti
o passati e fare la differenza riguardante il futuro.
Tecniche quantitative di natura teorica:
Si possono cioè creare dei modelli di simulazione, modelli economici analitici in cui si assume che vi sia un
certo numero di imprese sul mercato e che facciano concorrenza in un certo modo. Questi modelli sono utili
quando non abbiamo dati relativi al passato o dati relativi ad altri mercati.
Come si costruiscono i modelli? Facendo delle assunzioni sul comportamento delle imprese, sul
comportamento dei consumatori, sul comportamento delle imprese e poi si fa funzionare il modello. Si
assume che le imprese massimizzano i profitti o massimizzano la domanda e si va a vedere cosa succede
quando se su 4 imprese presenti su quel mercato, 2 si uniscono tramite fusione e si va a vedere che impatto
ha sui prezzi per esempio.
Il problema di questi modelli è il fatto di fare assunzioni. I risultati dipendono dalle assunzioni. È vero che
quando usiamo modelli, siamo liberi di fari assunzioni diverse e quindi un modello può avere versioni diverse.
Per esempio possiamo costruire un modello di oligopolio e su questo possiamo fare assunzioni che le imprese
siano 4, si può ipotizzare che le imprese si facciano concorrenza di quantità, di prezzo, possiamo ipotizzare
che i prodotti siano omogenei o differenziati. Dunque possiamo costruire tante versioni di un modello ma è
certo ma è certo che le assunzioni fatte influenzano i risultati. Tra l’altro, fino a poco tempo fa, all’interno
delle commissioni antitrust, la maggioranza dei funzionari e dirigenti proveniva da studi giuridici. Quindi,
queste persone con i modelli si trovavano in difficoltà. Comprendono la ratio dell’utilizzo di questi modelli
ma capire come sono fatti fino in fondo e come sono costruiti, fanno difficoltà. Per questo motivo le autorità
basano raramente le decisioni su modelli di simulazione. Questo è comprensibile. I modelli hanno una serie
di problematiche che riconoscono gli economisti stessi perché i mercati reali sono molto diversi dai modelli
teorici che sono piuttosto semplificati. Tuttavia due considerazioni importanti:
1) Anche con i dati empirici si fa fatica a ritenerli comunque utili per valutare un’operazione di concentrazione
attuale
2) Anche l’impianto, la legislazione antitrust alla deriva da modelli della microeconomia standard (modello di
oligopolio, concorrenza perfetta ecc). Le indicazioni che troviamo nella legge antitrust nascono dall’analisi
economica. L’analisi economica non è qualitativa ma quantitativa che si basa su modelli analitici che
comunque nonostante i problemi interni, forniscono indicazioni importanti al legislatore. È vero che usare
modelli analitici complessi per studiare gli effetti di una concentrazione è complesso ma non è un modo di
procedere così lontano da quello che viene fatto normalmente. Da un lato c’è uno scarso utilizzo dei modelli
di simulazione nelle effettive analisi antitrust delle varie commissioni, ma dall’altro le commissioni
quotidianamente si affidano a modelli di microeconomia per interpretare le norme.

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LE CONCENTRAZIONI VERTICALI
La maggior parte delle preoccupazioni antitrust relativi alle concentrazioni nasce per quelle orizzontali cioè
quelle che nascono tra imprese concorrenti perché l’impatto sulla struttura del mercato è immediato ed
evidente.
Tuttavia le concentrazioni possono avere altra natura, possono essere anche verticali.
Le concentrazioni verticali sono quelle che operazioni di fusione che si realizzano tra imprese che si collocano
a stadi diversi del processo produttivo (in genere si realizzano tra imprese di cui uno è il fornitore di un certo
input e l’altra è il cliente di quell’input).
Motivi per cui le imprese procedono con operazioni verticali:
L’analisi economica ci dice che le imprese tramite una fusione verticale ottengono dei vantaggi:
1) Le fusioni eliminano tutti quei costi di transazione cioè quei costi da sostenere quando un prodotto viene
scambiato sul mercato. I costi di transazione derivano dal fatto che le imprese devono raccogliere
informazioni su quali sono i possibili venditori e acquirenti di un certo input, devono raccogliere informazioni
sulle condizioni contrattuali, sulle caratteristiche degli input. Quindi una serie di costi di natura informativa
da sostenere prima della stesura di un contratto. Tra l’altro, un contratto prima di essere stipulato ha bisogno
di essere negoziato. Le imprese quindi spendono risorse e denaro per questo.
Una volta realizzato il contratto di fornitura di input possono nascere ulteriori problemi che vanno a
ingrandire i costi di transazione legati al rispetto del contratto. I contratti sono strumenti di cui il capitalismo
non può fare a meno ma sono incompleti cioè non definiscono tutte i possibili eventi che possono accadere
in futuro e tutti i possibili comportamenti delle parti in virtù di questi eventi.
In presenza di incompletezza dei contratti c’è molta discrezionalità delle parti all’interno della relazione
contrattuale. Questo significa che, come suggeriscono alcuni autori che hanno vinto il premio Nobel per
l’economia, in presenza di incompletezza contrattuale, le parti che fanno parte di un contratto possono
adottare comportamenti opportunistici. Cioè, possono sfruttare le lacune del contratto per approfittarsi della
controparte. Di questo le parti che firmano un contratto sono consapevoli. Ciò significa che i costi di
transazione sono ancora maggiori e quindi l’impresa che sta per intraprendere una relazione contrattuale sul
mercato sa che sta andando a dover sostenere tutta una serie di costi di stesura del contratto e anche di
possibili comportamenti opportunistici della controparte che magari possono essere alti da convincere i
soggetti a non concludere transazioni sul mercato.
Un modo per ridurre i costi di transazione, anziché negoziare con il fornitore, anziché stipulare un contratto
temendo che la controparte adotti comportamenti opportunistici, ci si integra verticalmente, ci si compra il
fornitore. A quel punto tutti gli aspetti che generavano costi di transazione vengono generati all’interno della
stessa impresa. Quindi in un colpo solo i costi di transazione scompaiono. Al posto di questi, nascono i costi
di organizzazione cioè quei costi necessari per organizzare le attività dentro la stessa impresa che prima
venivano svolte sul mercato.
2) Le concentrazioni verticali possono assicurare alle imprese che partecipano, un maggior controllo della
filiera produttiva. Per esempio un maggior controllo della qualità degli input.
3) Ci sono anche teorie di altra natura che spiegano perché esistono concentrazioni verticali. Una di queste
tesi è quella per cui quando un mercato si sta sviluppando, la domanda di un bene è ancora poco sviluppata,
in quelle condizioni le imprese sono più integrate perché non esiste incentivo per nessuna impresa a
specializzarsi in una specifica fase del processo produttivo. Per esempio quando si è creato il mercato
automobilistico, i primi modelli di auto come la Ford, la domanda di auto era bassa. Quindi le unità di auto
vendute sul mercato finale era bassa. In quelle situazioni non c’è incentivo per una impresa di specializzarsi
in impianti frenanti oppure nella produzione di una particolare componente del motore. Queste attività
erano inserite all’interno della stessa impresa. Quando invece il mercato si è espanso, c’è stato spazio per la
specializzazione in una singola fase del processo produttivo.

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Esistono teorie che mettono in relazione all’integrazione verticale o meno, in base al grado di maturità del
mercato.

Le concentrazioni verticali hanno effetti simili alle intese verticali. La differenza è che le concentrazioni non
sono reversibili. L’intesa verticale è una sorta di accordi formale o meno tra due entità distinte. La fusione
verticale è un’intesa verticale che si protrae all’infinito. Ovviamente, un’impresa che si fonda con un’altra sia
orizzontalmente che verticalmente può chiudere da un giorno all’altro ma non c’è una reversibilità. Dal punto
di vista dell’analisi antitrust è necessario, una volta che si sono accertati possibili effetti anti concorrenziali di
una fusione verticale, l’autorità deve controllare in maniera più attenta questi effetti anticoncorrenziali
perché la concentrazione non è reversibile. Una volta che la concentrazione viene autorizzata, non si torna
più indietro. Ecco perché le concentrazioni chiedono un’analisi più attenta. Nel caso delle intese, l’autorità
valuta se ci sono effetti contrari alla concorrenza nel caso di intese verticali, se ci sono invita a concludere
l’accordo collusivo.
Nel caso delle intese verticali, abbiamo visto tanti possibili esempi. Soprattutto le imprese che stavano a
monte cercavano di porre vincoli alle imprese a valle. Abbiamo visto che il maggior problema delle intese
verticali era la possibile esclusione dei concorrenti dal mercato dal lato della domanda e del lato dell’offerta.
Per integrazioni, concertazioni verticali intendiamo integrazione a monte (impresa a valle che si compra
un’impresa a monte) e integrazione a valle (impresa a monte che compra quella a valle). Per queste forme di
integrazione verticale dobbiamo fare le stesse considerazioni delle intese verticali. Quindi possiamo
riprendere alcune fattispecie di intesa verticale e applicarle di nuovo nel caso delle concentrazioni verticali.
Gli effetti saranno gli stessi, anzi di più proprio perché la concentrazione una volta autorizzata non è
reversibile. Prendiamo in considerazione il caso di imposizione di prezzi.
Prendiamo l’esempio dell’imposizione dei prezzi. L’impresa a monte impone un prezzo massimo all’impresa
a valle. Abbiamo fatto una discussione basata su un grafico (riprendi appunti vecchi).
Questo tipo di risultato vale lo stesso se intendiamo non tanto un’intesa verticale ma anche, a maggiore
ragione, in caso di integrazione verticale. Si potrebbe ipotizzare che il produttore a monte si compra il
distributore a valle. A questo punto vi è una sola impresa che produce e distribuisce il prodotto. L’impresa
integrata verticalmente pratica un prezzo pari a p* e si ottiene lo stesso risultato della situazione di intesa
verticale. Si ottengono gli stessi risultati anche in termini di variazione di benessere. I profitti dell’impresa
integrata sono maggiori rispetto alla somma dei profitti delle due imprese non integrate e i consumatori
stanno meglio perché pagano un prezzo più basso e la quantità scambiata sarà più alta.
In termini di impatto sul mercato sono gli stessi gli effetti dell’intesa verticale sul prezzo. L’unica differenza è
che in questo caso i maggiori profitti che risultato da integrazione verticale possono essere spartiti tra la
divisone a monte e la divisione a valle della nuova impresa. Invece nel caso dell’intesa verticale vi era un
incremento di profitti a monte e zero profitti a valle. Dunque dal punto di vista del benessere forse nel caso
di integrazione verticale migliorano le condizioni di tutti sia dei consumatori sia delle due imprese coinvolte.
Questo è un esempio di come le conseguenze delle intese verticali sono identiche rispetto alle concentrazioni
verticali. Le stesse identiche situazioni le troviamo in tutti gli altri casi delle intese verticali. Quindi rivedere
la parte delle intese verticali. Sapendo sicuramente che in quel caso rimangono imprese separate mentre qui
l’impresa è unica post fusione.

LE CONCENTRAZIONI CONGLOMERALI
Sono concentrazioni quelle fusioni che non si sono verificano tra imprese che sono concorrenti o legate da
rapporti di fornitura. Si tratta di concentrazioni che non si verificano nello stesso mercato e non
appartengono nemmeno a mercati legati tra loro da rapporti di fornitura. Non sono orizzontali, non sono
verticali e per esclusione sono conglomerali. Quindi si verificano tra mercati separati.
Alcuni economisti ritengono che questo tipo di concentrazioni non dovrebbero sollevare problemi antitrust.
Tuttavia vi è un problema, quello del levarage cioè l’effetto di leva. Si cerca cioè di creare tramite una

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concentrazione conglomerale una posizione dominante su un mercato dove prima di quella non esisteva
nessuna posizione dominante.
Questo tipo di effetto anti concorrenziale può dipendere da comportamenti assunti dalla nuova impresa
dopo la concentrazione conglomerale stessa.
1)Per esempio attraverso il tying cioè obbligo di acquistare un prodotto per poter acquistare un altro.
Dunque, l’impresa ha una posizione dominante nel mercato del prodotto A e si estende in un mercato dove
viene venduto il prodotto B in cui non c’è posizione dominante e non c’è legame con A, ma si pone la
condizione per cui per poter acquistare A è necessario acquistare anche B.
2)Ci possono essere comportamenti che riguardano informazioni, aspetti tecnici. Non si divulgano
informazioni su un prodotto B a meno che non si acquisiti anche il prodotto A.
Dunque ci sono alcuni comportamenti che sono stati osservati a seguito di concentrazioni conglomerali che
hanno spinto le autorità a bloccare alcune di queste operazioni. Sono comunque rare le concentrazioni
conglomerali bloccate sulla base di questi argomenti. Un caso noto concluso dalla Commissione europea nel
1997, riguardava la Guinness e Grand Metropolitan, due imprese che commercializzavano prodotti alcolici.
La Guiness produceva birra irlandese poi questa società desiderava acquistare un’altra impresa che offriva
anch’essa prodotti alcolici. La commissione nel 1997 ha autorizzato questa fusione sotto condizione cioè ha
costretto la nuova impresa a cedere alcuni rami di azienda e a non essere presente in alcuni mercati. Questo
perché la Commissione ha rilevato che, nonostante la concentrazione fosse conglomerale, vi erano problemi
antitrust. In particolare queste due società producevano vari prodotti (gin, whisky, tequila, vodka ecc) . La
commissione ha osservato come il mercato di questo prodotti fossero separati (quindi il mercato della vodka
è separato da quello del gin ecc) ma allo stesso tempo ha sostenuto che l’acquisizione avrebbe creato
soprattutto in alcuni paesi dell’UE, in Grecia in particolare, una posizione dominante in capo alla nuova
impresa perché avrebbe avuto un portafoglio di prodotti così ampio che le avrebbe assicurato un vantaggio
rispetto ai concorrenti. I concorrenti non avrebbero avuto credibilità sul mercato perché non sarebbero
riusciti ad avere una gamma di prodotti così ampia. Soprattutto nei confronti della grande distribuzione, dei
bar, dei ristoranti, la nuova impresa avrebbe potuto offrire la gamma di prodotti e nei confronti dei quali
avrebbe potuto praticare forme di tying o bundling. Dunque la Commissione ritenne problematica la
concentrazione conglomerale e poi si spinse verso possibili pratiche abusive, ancora non realizzate, da parte
della nuova impresa che avrebbe assunto una posizione dominante non tanto in uno specifico mercato ma
in alcuni paesi.
La commissione non vietò questa concentrazione. Venne autorizzata ma sotto condizione.
In Italia è molto diffusa la pratica di autorizzare le concentrazioni sotto condizione. Nel caso specifico, la
concentrazione fu autorizzata posto che la nuova impresa rinunciasse ad alcuni prodotti in alcuni mercati e
che comunque non commercializzasse alcuni prodotti in determinati stati. Quindi c’erano dei vincoli
comportamentali e strutturali alla nuova impresa nata dalla fusione. La nuova impresa oggi si chiama Diageo.
Uno dei problemi delle concentrazioni conglomerali è che non è molto chiaro cosa succede al benessere dei
consumatori. Nel caso di Diageo, la Commissione faceva notare che la creazione di questa nuova impresa in
alcuni mercati avrebbe comportato un beneficio per i consumatori e clienti per la vasta gamma di prodotti
offerti. Per esempio un bar o un ristorante che interagisce con un’impresa che può offrire loro una serie di
prodotti, risparmia sui costi di transazione.
Inoltre, era evidente il danno per i concorrenti, in particolare nel lungo periodo. La nuova impresa avrebbe
avuto un vantaggio rispetto ai concorrenti che non sarebbero stati in grado di offrire i soliti prodotti e che
quindi sarebbe usciti dal mercato. Dunque nel breve periodo è probabile che i clienti e consumatori abbiano
un vantaggio non solo in termini i varietà dei prodotti ma anche di prezzo ma nel lungo periodo i concorrenti
principali escono dal mercato, i prezzi rialzano e quindi i consumatori vengono danneggiati. Qui si ritrova il
problema se l’antitrust deve proteggere i consumatori o i concorrenti delle imprese dominanti? Entrambe
perché sono legati da un rapporto stretto. Se un’impresa elimina i concorrenti poi nel medio e lungo periodo
anche i consumatori rischiano di essere danneggiati.

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CASI DI CONCENTRAZIONI ORIZZONTALI NEGLI ULTIMI 10 ANNI
1) Principali linee aeree irlandesi  Ryanair e Aer Lingus (2013)
Si tratta delle due linee aree principali, occupavano il primo e secondo posto sul mercato. Proponevano da
tempo una concentrazione. Era la terza volta.
Nel 2012 i due vettori, secondo la Commissione europea, si sovrapponevano su 46 rotte da e per l’Irlanda.
Su 28 si sarebbe creato un monopolio assoluto perché non c’erano altri operatori. Su 11 si sarebbe creata
una posizione dominante.
Non c’erano altre imprese che avrebbero voluto operare su questi mercati. Soprattutto, non ci sarebbe stata
nessuna compagnia area in grado di competere su questi mercati offrendo una gamma di voli come
avrebbero fatto congiuntamente le due linee irlandesi.
Se la nuova impresa avesse alzato i prezzi dei biglietti non avrebbero avuto alternative cioè non c’erano altri
operatori a cui potersi rivolgere. Questo è un segnale di posizione dominante.
Le compagnie avevano proposte una serie di misure correttive ma la Commissione nel 2013 non ha ritenuto
sufficienti tali misure e ha negato la concentrazione.
2) Deutsche Borse NYSE Euronext (2015) - Mercato finanziario tedesco e mercato statunitense che riguarda
i titoli europei
Questa concentrazione secondo la Commissione avrebbe creato una posizione dominante e un quasi
monopolio in relazione allo scambio di alcuni strumenti finanziari derivati.
Soltanto alcune società di borsa vanno e permettono di acquistare e vendere alcuni strumenti finanziari. Su
alcuni questi la fusione avrebbe creato un monopolio o quasi monopolio. Si sarebbe creata una struttura
verticale che avrebbe realizzato la negoziazione e la compensazione di più del 90% delle transazioni mondiali
in derivati europei negoziati in borsa.
La concentrazione fu vietata nel 2015 in maniera netta. A questo divieto, la Deutsche Borse ha imposto un
ricorso davanti al tribunale dell’UE, secondo l’impresa la commissione avrebbe sbagliato a definire i mercati
e inoltre che avrebbe portato un effetto di efficienza a seguito di fusione.
La concentrazione rimane vietata perché il ricorso è stato respinto.
3) UPS e TNT (2017), sono entrambe società che svolgono attività di trasporto e logistica. In Europa queste
attività sono attive nel trasportare pacchi.
In Europa sono attive nei mercati dei servizi internazionali di consegna rapida di piccoli pacchi. La fusione
avrebbe comportato, secondo la Commissione, una restrizione della concorrenza nel mercato di consegna di
pacchi in 15 stati membri. In alcuni casi la fusione avrebbe ridotto a 3 o solo a 2 gli operatori. Questo
comportava il rischio di un mercato concentrato oppure perché essendo troppo concentrato vi potevano
essere effetti coordinati nella fusione. Il pericolo era l’aumento dei prezzi.
In questi casi la definizione del mercato rilevante è molto importante.
In base a queste preoccupazioni la Commissione nel 2013 non ha autorizzato la fusione.
Le società hanno fatto ricorso. Nel 2017 il tribunale dell’UE annulla la decisione della Commissione non
perché aveva sbagliato a definire il mercato o a valutare gli effetti della fusione ma perché non aveva dato
alle due imprese la possibilità di partecipare a un adeguato contradditorio. Al momento, la situazione è
bloccata. La fusione non c’è stata ma UPS ha fatto causa alla Commissione per danni sostenendo che
l’impedimento della fusione abbia fatta perdere molto denaro alla società di trasporti.
4) Bayer, Monsanto (2018), sono società attive nella chimica, nella bioecologica ecc.
Queste società dovevano unirsi.
Secondo la Commissione il nuovo gruppo avrebbe controllato tra il 24 e il 27% di vari mercati del settore. Per
arrivare a questo la Commissione ha dovuto analizzare circa 2000 mercati a livello mondiale in cui queste
società se unite, avrebbero potuto creare una posizione dominante.
Sarebbe stata un’acquisizione che avrebbe comportato forti rischi di aumento di prezzi elevati e
rallentamento dell’attività di innovazione. In alcuni mercati, un mercato concentrato, può comportare

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rallentamenti perché non avendo concorrenti non ha incentivo a investire in ricerca e sviluppo e quindi a
lavorare per l’innovazione.
La Bayer ha proposto dei rimedi: in caso di autorizzazione della fusione avrebbe ceduto l’intera attività
industriale a un suo concorrente, a Basf. Inoltre, avrebbe ceduto sempre a Basf una divisione in ricerca e
sviluppo che avrebbe avuto incentivo a farla la ricerca e sviluppo per competere con la nuova impresa. Inoltre
la Bayer si impegnava a concedere licenze. Grazie a questi impegni e rimedi la Commissione ha approvato la
fusione nel 2018.
Mercoledì 18.11.2020
L’APPLICAZIONE DEL DIRITTO DELLA CONCORRENZA
Intese e abusi
Come inizia il procedimento? Il procedimento inizia su segnalazione di un soggetto esterno (imprese,
associazioni di consumatori, una pubblica amministrazione o anche da parte di un singolo individuo quindi
un consumatore singolo).
Oltre a queste segnalazioni che l’autorità riceve in grande quantità, vi è anche la possibilità di aprire il
procedimento di ufficio. Quindi l’autorità, in virtù di procedimenti precedenti, in virtù di indagini conoscitive
che l’autorità ha portato avanti, in seguito all’osservazione di alcuni comportamenti sospetti di imprese può
aprire un procedimento. Nella maggioranza dei casi sono segnalazioni esterne che avviano un procedimento.
In passato c’era la possibilità per le imprese di comunicare all’autorità la formazione di accordo con
determinati obiettivi. Oggi questa possibilità non c’è più perché eventuali accordi saranno valutati ex post
dall’autorità quando un accordo avrà un effetto anti concorrenziale. Questo ha ridotto molto il carico
sull’autorità.
Quando viene segnalato un possibile abuso o intesa, nei casi in cui queste fattispecie costituiscono spunto
per intraprendere o meno il procedimento, in ogni caso l’onere della prova ricade sull’autorità o commissione
europea. L’unica situazione in cui l’onere della prova cade sulle imprese è quando le imprese chiedono
l’esenzione al divieto di intesa.
L’autorità quindi, di fronte alle segnalazioni deve decidere se aprire o no il procedimento per intesa o abuso.
Nella stragrande maggioranza non viene aperto.
Nel corso del procedimento l’autorità antitrust può:
 interpellare le imprese interessate come vuole per acquisire informazioni.
 Può anche interpellare esperti quando l’intesa o l’abuso si verifica in un mercato che ha
caratteristiche particolare. In questi contesti l’autorità può chiedere a esperti del settore di preparare
un rapporto in modo che l’autorità possa prendere le decisioni sulla base di conoscenza più precise.
 L’autorità fare anche ispezioni tramite la guardia di finanza presso le imprese coinvolte e anche
presso abitazioni privati. Questo viene usato per indagare su eventuali accordi di cartello perché si
ricercano indicazioni, documenti quindi qualche traccia. L’obiettivo è quello di accertare la
volontarietà di una certa condotta anche se per alcune fattispecie, come le intese, non è necessaria
la presenza della volontà. Anche la sola partecipazione passiva a una riunione rende responsabile un
individuo di far parte di un accordo di cartello.
L’autorità, in virtù della condotta segnalata quindi dell’eventuale illecito segnalato, fa una valutazione interna
sulla volontà di aprire o no il procedimento.
La commissione europea non ha termini per concludere un procedimento mentre l’autorità italiana è
obbligata a fissare la data prevista per la conclusione del procedimento. Questo anche per dare un minimo
di certezza alle imprese coinvolte.
Poiché le decisioni della commissione e autorità sono pubbliche, quindi ogni volta che l’autorità decide di
aprire un procedimento lo pubblica nel proprio bollettino settimanale, tutti gli interessati sono consci della
situazione e possono durante il procedimento comunicare di aver interrotto la pratica che secondo le
segnalazioni e secondo il sospetto, sarebbe stata illecita.

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Nel caso in cui vi è accertamento di intesa o abuso, sono previsti delle sanzioni. In particolare sanzioni
amministrative o pecuniarie e quindi non ci sono sanzioni penali. Queste sanzioni non possono superare il
10% del fatturato mondiale delle imprese che hanno infranto la legge.
Come viene fissata la sanzione? Si considerano due elementi:
1) Gravità dell’inflazione: quindi l’impatto che la condotta abusiva o collusiva ha avuto sui consumatori. Sotto
il profilo della gravità 3 sono le categorie:
- illeciti poco gravi come nel caso di restrizioni verticali. Quindi comportamenti che consistono
nell’imposizione da parte di un’impresa a monte di determinati comportamenti nei confronti di un’impresa
a valle. Le intese verticali non sollevano grande preoccupazione antitrust, anzi l’analisi economica dimostra
come il benessere dei consumatori aumenta in questi casi.
- inflazioni gravi quando vi è impatto sul mercato, quindi in termini di struttura di mercato. Si tratta dei casi
di esclusione di terzi dal mercato, comportamenti discriminatori. Tutte quelle forme di abuso che hanno
impatto sulla struttura del mercato.
- inflazioni molto gravi che riguardano la collusione cioè le intese sui prezzi, sulle quantità, sulle spartizioni
dei mercati tra imprese e abuso di posizione dominante da parte di un monopolista. Quest’ultimo caso è più
raro semplicemente perché di monopoli privati nei mercati se ne trovano pochi. Mentre di intese sui prezzi
se ne verificano molto spesso.
Per valutare la gravità dell’infrazione, soprattutto nel caso delle intese, si deve valutare quanto ciascuna
impresa ha contribuito a determinare l’infrazione.
2) Durata dell’infrazione
Breve inferiore a un anno
Media 1-5 anni
Lunga maggiore di 5 anni
A seconda della durata l’ammenda può essere diversa.
Nel corso del procedimento le imprese coinvolte possono partecipare in più forme:
- Possono essere interpellate dall’autorità quindi chiamate a testimoniare o a riferire informazioni
- Ci sono casi in cui le imprese collaborano alle indagini quindi informare l’autorità sugli obiettivi della
intesa, come si è creata ecc. In base all’entità della collaborazione le sanzioni possono essere ridotte
o annullate.
Nel 2014 l’antitrust ha adottato nuove linee guida in materie di sanzioni proprio tenendo conto di queste
possibili collaborazioni e soprattutto del diverso ruolo che le imprese possono avere nella determinazione
dell’infrazione. Intanto si è introdotta una percentuale minima pari al 15% del valore delle vendite per i
cartelli di fissazione di prezzi, di ripartizione dei mercati e di limitazione della produzione. Dunque questa
percentuale minima riguarda infrazioni gravi. 15 % del valore delle vendite dei prodotti che sono oggetto
dell’indagine.
La percentuale può salire fino al 50% se l’impresa responsabile ha un fatturato totale a livello mondiale molto
elevato rispetto al valore delle vendite dei beni e dei servizi oggetto dell’infrazione.
Inoltre vi è la possibilità di aumentare la sanzione a seconda degli utili ottenuti a seguito dell’illecito.
Queste linee guida che vanno a determinare le condizioni in base alle quali la sanzione può essere aumentata
di molto, ha a che fare con il fatto che si cerca di stimare l’impatto che una certa condotta ha creato nei
confronti dei consumatori in termini di prezzi o in termini di qualità dei prodotti.
Ogni volta che si determina un ammontare della sanzione tenuto conto dei prodotti e dei mercati coinvolti.
A quel punto si va a vedere se quella sanzione non superare il 10% del fatturato totale dell’impresa coinvolta.
Nelle linee guida del 2014 è stato poi adottato:
- programma di compliance (conformità) = quando viene rilevato un comportamento illecito di intesa
o abuso, l’autorità definisce come le imprese coinvolte debbono interrompere il comportamento e
come devono comportarsi in futuro. Il programma serve per andare a vedere se effettivamente il
comportamento delle imprese si è modificato secondo le indicazioni dell’autorità a seguito di

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accertamento di violazione delle norme antitrust. Il motivo che sta alla base di questi programmi
deriva dal fatto che spesso, una volta accertato un illecito, sono state irrogate delle sanzioni ma le
imprese coinvolte non hanno seguito le indicazioni dell’autorità e sono ricadute in comportamenti
scorretti e segnalati all’autorità che di nuovo ha riaperto il procedimento.
- introduzione di amnesty plus= forma di amnistia rafforzata quando un’impresa coinvolta in un
procedimento come partecipante a un cartello o comportamenti abusivi, fornisce informazioni
decisive per accertare infrazioni diverse da quelle oggetto di indagine. L’impresa presenta all’autorità
che non dovrebbe indagare soltanto su quelle condotte illecite ma anche su altre cose. In questi casi
c’è la possibilità per l’impresa che fornisce tali indicazioni di vedersi ridotta la sanzione o del tutto
eliminata.
Concentrazioni
Il sistema va avanti in modo diverso. Intanto, c’è un obbligo di notifica quando le imprese superano una certa
soglia di fatturato.
Se le imprese hanno dimensione comunitaria devono comunicare la volontà di porre in essere una
concentrazione alla commissione europea. Le soglie sono: Se le imprese interessate a partecipare hanno un
fatturato a livello mondiale di 5 miliardi di euro o se una delle due ha un fatturato a livello europea di 250
milioni di euro.
Mentre le imprese prive di dimensione comunitaria hanno l’obbligo di comunicare la volontà di operare una
fusione quando le due imprese interessate realizzato un fatturato pari a 504 milioni di euro oppure una delle
due realizza un fatturato pari a 31 milioni di euro.
Come viene comunicata la notifica? Con apposito formulario. Chi non comunica riceve sanzioni.
A livello italiano, le soglie creano dei problemi perché spesso l’autorità riceve tante comunicazioni anche da
parte di un’impresa che acquista una piccola impresa. La proposta è stata quella di cambiare le soglie ma
questo avrebbe aumentato l’attività della commissione. Tuttavia, il problema sembra essere ridotto perché
è stato accentuato il rinvio alla commissione.
Fasi del procedimento:
A seconda che siamo in Europa o in Italia, c’è un termine entro il quale l’autorità deve decidere se aprire o
no il procedimento. Per il caso italiano entro 30 giorni dalla notifica deve decidere se aprire il procedimento
o meno. Entro 45 giorni dall‘apertura deve decidere se autorizzare o meno la fusione quindi deve chiudersi.
Sono termini abbastanza stringenti per l’autorità italiana. È possibile prorogare i termini ma una volta sola,
situazioni frequente. La proroga può avvenire più volte quando sopraggiungo informazioni nuove, fattori
nuovi.
Conclusione del procedimento:
1. Autorizzazione della concentrazione
2. Autorizzazione della concentrazione sotto condizione  viene autorizzata soltanto se le parti coinvolte
sottoscrivono degli impegni:
Impegni strutturali cioè quando si costringe una o più imprese a vendere divisioni, dismettere partecipazioni
azionarie ecc. Quindi si costringe l’impresa a modificare i suoi asset
Impegni comportamentali cioè quando non si modifica la struttura dell’impresa ma si costringe l’impresa a
adottare determinati comportamenti (per esempio concedere a terzi di essential facilities cioè di
infrastruttura necessaria per fornire un certo servizio).
Alcune volte troviamo entrambi gli impegni. La differenza è che, quelli strutturali sono irreversibili cioè non
si può tornare indietro mentre quelli comportamentali sono da monitorare. Quindi si crea un trade off.
Nel caso di concentrazioni autorizzate sotto condizione in presenza di impegni sia comportamentali che
strutturali, l’autorità e il diritto antitrust va fuori dai ruoli attribuiti perché la legge antitrust e anche la sua
pratica, nascono come volontà di eliminare all’interno dei mercati quegli elementi che impediscono di
raggiungere la perfetta concorrenza. La legge antitrust e la sua filosofia nasce dall’idea che i mercati privi di
vincoli funzionano meglio. Imponendo impegni strutturali e comportamentali nei confronti di imprese che

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partecipano alla fusione, va a regolare il mercato. Dunque sembra un’autorità di regolamentazione più che
antitrust, motivo per cui questa azione dell’autorità antitrust a livello nazionale e internazionale è spesso
stata criticata.
Sono comunque pratiche frequenti perché permettono di risparmiare tante risorse. Garantiscono alle
imprese di portare avanti le loro fusioni senza troppi intoppi e quindi sono pratiche che sono sempre più
diffuse.
3. Non autorizzazione della concentrazione – concentrazione vietata

All’interno dei singoli procedimenti l’autorità possono richiedere varie indicazioni, possono muoversi come
vogliono. Possono scegliere liberamente come portare avanti il procedimento. Possono chiedere
collaborazioni alle imprese. Può interpellare commissione nel caso in cui si fosse occupata di casi simili nel
passato. Non vi sono regole precise sul come fare e cosa fare nel procedimento. L’unica rigidità riguarda la
divisione del lavoro all’interno dell’autorità. Ogni divisione si occupa di un insieme di mercato. Aldilà di
questa divisione del lavoro, ogni divisione delle autorità antitrust si muove come desidera.

Tesi ragazzo CHI SEGNALA GLI ILLECITI QUINDI COME PARTONO I PROCEDIMENTI SULLE INTESE O ABUSI
La raccolta dati, ha riguardato le intese e gli abusi di posizione dominante. Per queste fattispecie ci deve
essere un soggetto che segnala tali illeciti.
Dal 1994 al 2019  i dati hanno riguardato tutti i procedimenti aperti in 25 anni. I procedimenti aperti sono
stati 318.
Dall’analisi effettuata è emerso che chi segnala l’intesa sono:
Fornitori
Consumatori
Associazioni di categoria
Pubblica amministrazione
Mass medi
Imprese si sono autodenunciate
Soggetti anonimi
AGCM che apre di ufficio il procedimento
GRADI DI GIUDIZIO DEL DIRITTO ANTITRUST
A LIVELLO EUROPEO
1. Commissione europea
2. Tribunale dell’U.E che effettua un controllo di legittimità di fatto e di diritto
3. Corte di giustizia europea che si occupa soltanto di questioni di diritto
A LIVELLLO ITALIANO
1. Autorità Garante della concorrenza e del mercato – AGCM
2. TAR del Lazio
3. Consiglio di Stato valutazione su questioni di diritto

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