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Diritto tributario internazionale

Martedì 4 maggio 2021

E’ venuto fuori in questi giorni uno studio con riferimento alla redditività, agli utili quindi
delle principali imprese multinazionali digitali nel 2020. Ci sono dei numeri abbastanza
spaventosi. Nonostante la pandemia, i problemi generali che tutto questo ha comportato, i
numeri e la crescita di questi soggetti sono stati davvero vertiginosi. Quello che è cresciuto
un pò meno degli altri è Facebook, perché sembra essere rimasto legato ad un modello
‘tradizionale’ di messaggio sul web, legato alla piattaforma e alle inserzioni pubblicitarie,
non si è evoluta come parrebbe si siano evolute altre piattaforme, altri operatori, che hanno
avuto dei numeri maggiori.
Quando si parla di repubbliche digitali non si rende bene l’idea, questi sono imperi digitali
che hanno cittadini in numero enorme a loro disposizione, hanno risorse economiche
pressoché illimitate.
Il diritto tributario non può far tutto da solo, non si può pensare di risolvere tutto questo
problema con l’OCSE o con la Commissione che fa inchieste per gli aiuti di stati, ci vuole
sicuramente un approccio diverso all’economia.

Per merito dell’intervento di un vostro compagno di ieri voglio esprimere due parole sulla
crisi del 2008.
Con la crisi del 2008 si è assistito ad un cambiamento epocale. Non solo per le conseguenze
della crisi che non ha avuto eguali, ma proprio perché ha cambiato le cose a livello
tributario, soprattutto di quello internazionale. Se si fosse ragionato dei temi di cui
ragioniamo oggi, in concomitanza con la sentenza Cadbury Schweppes del 2006,
probabilmente ci avrebbero guardato con gli occhi sbarrati, perché nel 2006 eravamo ancora
nel vecchio mondo, dove i rapporti internazionali, da un punto di vista tributario erano
gestiti da ciascuno stato in sostanziale autonomia, e dove i rapporti erano prevalentemente
bilaterali. Il multilateralismo di oggi per fortuna è diventato un elemento quasi ordinario nel
modo di essere del diritto tributario internazionale, all’epoca era un’eccezione.
L’unico esperimento in ambito fiscale di un accordo multilaterale era la Convenzione di
Strasburgo sulla cooperazione amministrativa in materia fiscale, fatta nel 1998. Nel 2006
aveva 5\6 stati partecipanti e di fatto non funzionava, non aveva nessuna utilità pratica. Poi
la crisi, la consapevolezza di tante tematiche lasciate da parte e l’approccio multilaterale,
che ha mille problemi, limitazioni, però ormai è entrato nel lessico quotidiano nel diritto
tributario internazionale. E’ quasi più importante il multilateralismo piuttosto che le
convenzioni bilaterali, che sembrano ormai superate.
Questo è uno dei punti di novità, quello che conta è che davvero ci si deve rendere conto
che in quel momento è cambiato completamente il panorama del diritto tributario
internazionale di chi studia questa materia. Un retropensiero che abbiamo oggi, all’epoca
non ci poteva essere, nel giro di pochi anni sono cambiate talmente tante cose che ciò che
oggi diamo per scontato non era nemmeno tenuto in considerazione.

Domanda studente: caso sentenza Mediaset la quale ha condannato definitivamente


Berlusconi. E’ stata decisa dalla sezione feriale, non tributaria, perché altrimenti sarebbe
caduta in prescrizione. Quanto questo può essere stato inopportuno e quanto può essere stato
ingiusto?
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Risposta prof: l’importanza dei reati tributari nel nostro paese è cresciuta fortemente negli
ultimi anni. Poi magari anche per colpa della crisi e dell’importanza delle entrate fiscali che
ne consegue, nelle procure sono stati creati dei gruppi di lavoro dedicati al tributario penale
e quindi si sono intensificati questi processi.
Il processo Mediaset riguarda società interposte, diritti che vengono ceduti a titolo oneroso
dall’Italia verso società che si trovano in paradisi fiscali.
Il problema è che nella magistratura non c’è un insegnamento di diritto tributario, questo è
qualcosa che deve essere superato. E’ vero che nel nostro ordinamento c’è il principio del
doppio binario, c’è l’accertamento del giudice penale a prescindere da quelle che sono le
ricostruzioni dell’amministrazione finanziaria, però quando si parla di reato che dipende
dall’imposta evasa è ovvio che dobbiamo saper maneggiare la materia sia tributaria che
tributaria internazionale, e questo ancora manca. In tanti processi l’accusa sfrutta le
conoscenze della guardia di finanza come polizia giudiziaria, la difesa fa le consulenze
tecniche dove chiama l’esperto di diritto tributario per provare a spiegare come stanno le
cose. Questa è un’ulteriore riprova che il diritto tributario è qualcosa che sta quasi ovunque.

Clausola generale antiabuso

Abbiamo parlato fin dal primo giorno di abuso, quando analizzammo il caso google, ma
anche altre fattispecie, che erano intrise di abuso, di elusione, di approfittamento, quindi non
è una novità.
La novità è il particolare strumento di lotta e di reazione nei confronti delle condotte
abusive, strumento che è dato dalla clausola generale antiabuso.
Finora abbiamo visto casi ben delimitati e descritti di abuso, rispetto ai quali le risposte del
legislatore nazionale (o degli indirizzi sovranazionali) che erano a loro volta ben delineate,
circoscritte e precise, come il transfer pricing, norme di contrasto delineate in modo netto,
come lo stesso per il CFS.
Quindi a specifiche condotte di abuso fin qui abbiamo visto specifiche reazioni da parte
dell’ordinamento con norme particolari antiabuso, costruite per contrastare quella condotta e
non altre.
Un approccio di questo genere (specifico problema, specifica reazione) è comprensibile ma
anche rischioso, perché come per tutte le norme specifiche, che quindi hanno un ambito di
applicazione circoscritto, rimangono al di fuori dell’applicabilità di queste norme tutta una
serie di condotte abusive che non avendo tutte quelle caratteristiche per rientrare sotto
l’applicazione della norma specifica, rischiano di non avere alcun tipo di regolamentazione
e quindi rischiano di alimentare le condotte aggressive ed elusive delle imprese, in
particolare delle imprese multinazionali.
Quindi questa riflessione ha sollecitato gli interpreti, così come consensi internazionali a
proporre qualche tipo di soluzioni, di intervento che potesse coprire anche quelle condotte
abusive che non rientrando nel paradigma delle condotte normativamente previste,
rischiavano altrimenti di non avere alcuna norma di reazione nei loro confronti.
Cosi si è incominciato a pensare di introdurre o a livello internazionale (nelle convenzioni)
o a livello europeo che poi a cascata negli ordinamenti nazionali, delle clausole generali
antaibuso, che spesso si trovano citate con l’acronimo ‘GAAR’-> general anti avoidance
rules.

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L’idea è stata quella non di moltiplicare le norme speciali antiabuso per provare a introdurre
una norma per ciascuna delle possibili condotte elusive o abusive che si possono trovare
nella prassi, è ovvio che una scelta di questo genere non avrebbe alcuna possibilità di avere
successo; si è detto invece: ferme quelle norme antiabuso già esistenti, proviamo ad
introdurre una norma generale che abbia un’applicazione generalizzata, che possa cioè
applicarsi a qualsiasi condotta abusiva e quindi possa reagire rispetto a tutte quelle
fattispecie, anche nuove, quindi non previste da alcuna normativa specifica, per evitare che
la novità di queste fattispecie possa far si che esse si vedano esenti da qualsiasi tipo di
reazione e quindi di sanzione da parte dell’ordinamento.
Questa riflessione che ha fatto strada a vari livelli, a partire dall’OCSE, è simile a quella che
già conosciamo dal diritto tributario, che riguarda la clausola antiabuso del nostro
ordinamento, dove all’inizio c’era una norma che prevedeva singole fattispecie abusive (art.
37 bis del DPR 600\1973), la quale prevedeva l’inopponibilità all’amministrazione
finanziaria degli effetti fiscali di specifiche e puntuali fattispecie, non di una qualsiasi
fattispecie abusiva, ma solo di quelle che rientravano nel comma 3 dell’art. 37-bis (fusioni,
scissioni, conferimenti, operazioni straordinarie…), quindi una configurazione che lasciava
fuori tutte le fattispecie abusive che non rientrassero in questa elencazione; e si è passati poi
con l’art. 10 bis dello statuto del contribuente ad una norma generale antiabuso, di
applicazione generalizzata, che vale per le imposte dirette, per l’iva, per l’imposta di
registro, che si applica a qualsiasi condotta che abbia le caratteristiche descritte nella norma
stessa.
Norma che ha un’applicabilità generalizzata per evitare che si lascino senza
regolamentazione settori ed ambiti nei quali gli operatori più scaltri poi riescono ad inserirsi
e ed avere vantaggi fiscali che non meriterebbero.

Nell’ambito internazionale si sta assistendo ad un approccio simile e la spinta decisiva verso


l’introduzione delle clausole generali antiabuso è stata data proprio dall’esplosione
dell’economia digitale perché ci si è resi conto che negli schemi di pianificazione delle
multinazionali digitali si trovano tutte una serie di condotte particolarmente aggressive,
molte delle quali non possono essere, proprio per la loro novità, ricondotte a nessuno degli
schemi internazionali già normati, sottoposti a disciplina antielusiva specifica.

Se noi riprendiamo in mano lo schema di google vediamo che ci sono alcuni passaggi che
sono riconducibili alle fattispecie specifiche che abbiamo già analizzato, come il transfer
pricing dalla Francia in Irlanda, la CFS nei rapporti tra USA e Irlanda Holding, ma poi ci
sono tutta una serie di costruzioni in questa transazione che non rientrano in questi
paradigmi, come l’abuso della normativa sulla residenza fiscale che si ha a livello di Irlanda
Holding e Bermuda, o l’interposizione delle società irlandesi a quella olandese ai fini di
godere di una serie di vantaggi normativi interni, pattizi o del diritto dell’UE nel passaggio
dei soldi da una catena all’altra.
Questi pezzetti delle costruzioni proprie della pianificazioni delle multinazionali digitali,
non coperti da alcuna norma specifica, hanno attirato l’attenzione. Si è detto: se non si
interviene si rischia che queste condotte particolarmente aggressive proliferino, non avendo
alcun tipo di reazione, alcun tipo di strumento per contrastarle. Quindi si è incominciato a
pensare a introdurre una clausola generale antiabuso che avendo un’applicazione
generalizzata possa applicarsi anche a questi casi come a qualsiasi altro caso, a qualsiasi
altra costruzione nuova che la fantasia dei consulenti fiscali di certe multinazionali possono
partorire in qualsiasi momento storico.
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Questa riflessione ha avuto una serie di esiti a vari livelli.
Partiamo dal livello più alto, quello internazionale. E’ ovvio che dobbiamo fare i conti con
l’OCSE e in particolare col progetto BEPS, che non a caso ha dedicato a questa forma di
abuso una delle 15 azioni del progetto medesimo, ed in particolare l’azione 6.
L’azione 6 si intitola: “inappropriate use of tax treaties”, cioè riguarda l’utilizzo non
appropriato delle convenzioni fiscali e che dirige, analizza quelle condotte definite di ‘treaty
abuse’, cioè di abuso nei trattati. Qui si parla dei trattati fiscali, delle convenzione delle
doppie imposizioni.
L’azione 6 del BEPS analizza le principali condotte delle multinazionali volte ad abusare
degli strumenti convenzionali vigenti nella materia fiscale.
L’azione 6 del BEPS approfondisce due possibili fattispecie di abuso dei trattati:
1) Il rule shopping è il tentativo di un soggetto di manipolare la singola convenzione
applicabile nel caso di specie in modo tale da avere dei vantaggi previsti da quella
convenzione che altrimenti, per esempio in termini di minore ritenute o senza di
ritenuta su certi redditi, si sarebbero applicati. Il rule shopping è un caso di abuso del
trattato che è interno alla singola convenzione. Cioè, data una singola convenzione che
si applica fra i rapporti degli operatori di due Stati, si cerca di rendere applicabile una
norma di quella convenzione piuttosto che un’altra, si cerca di creare le condizioni per
applicare una norma piuttosto che un’altra e averne un vantaggio che altrimenti non ci
sarebbe;
2) Il treaty shopping (lo shopping dei trattati), sono quelle condotte che non si limitano a
precostituire situazioni che all’interno della convenzione applicabile si rifanno ad una
norma più favorevole rispetto che all’altra della stessa convenzione, ma a situazioni
nelle quali si precostituisce l’applicazione di una convenzione diversa da quella che
normalmente si applicherebbe attraverso l’interposizione di soggetti che si trovano in
un altro Stato con il quale vigila una convenzione diversa. Si tratta dell’applicazione di
una convenzione diversa che consente di avere vantaggi fiscali maggiori rispetto a
quelli che si avrebbero se si applicasse la convenzione ordinaria.

Esempi.

Rule shopping.
Supponiamo di avere due imprese: co1 e co2, una residente nello stato A: co1; una residente
nello stato B: co2. Supponiamo anche che non siano due imprese indipendenti, ma che co2
sia controllata al 100% (unico socio) dalla società co1.
Co2 è un’impresa che fa attività industriale, realizza degli utili che sono tassati come reddito
in capo a co2 nello stato B. Ad un certo punto questi utili devono essere redistribuiti,
devono quindi pervenire alla controllante co1 nello stato A.
I dividendi da redistribuire sono 50. Co2 ha pagato le sue imposte nello stato B, ha
comunque uno stock di utili da distribuire pari a 50 e li vuole mandare come dividendo alla
sua controllante nello stato A.
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Nell’esempio, tra A e B è in vigore una convenzione delle doppie imposizioni che prevede
che laddove un residente di uno stato, in questo caso co2, paghi i dividendi al residente di
un altro stato, in questo caso co1, la controllante, la prima società, cioè co2, quella che
distribuisce i dividendi, deve applicare una ritenuta alla fonte che poi verserà all’erario nello
stato B (come una sorta di sostituto di imposta) pari a 10 (20%). Deve trattenere e versare
all’amministrazione finanziaria del suo stato di residenza, cioè a B, un importo pari al 20%
del dividendo. Significa che in una situazione come questa, posto che 50 è il dividendo, alla
società controllante co1 arriva un importo solo pari a 40, perché una parte di questo
dividendo è oggetto di ritenuta e poi di versamento all’erario dello stato B, è sottoposto a
tassazione.
Una situazione di questo genere, nella quale c’è un utile che è frutto di un reddito già tassato
in capo a co2 nello stato B, il gruppo vorrebbe evitare un’ulteriore tassazione nello stato B
attraverso la ritenuta. Però come fa? Co2 sta nello statoB, co1 sta nello stato A, la
convenzione tra stato A e B dice che i dividendi sono assoggettati a ritenuta, sembra che
non ci sia la possibilità di uscire da questa situazione.
Allora ecco il rule shopping: si rimane nel contesto di quella convenzione contro le doppie
imposizioni tra lo stato A e B, ma si costruisce la transazione in modo tale che ciò che arriva
a co1 non sia più denominato come dividendo, ma in modo diverso, in modo tale che la
ritenuta prevista dalla convenzione tra A e B non si applichi.
Quindi si tiene ferma quella convenzione ma vado a fare shopping all’intento delle nome di
quella convenzione creandomi, precostituendomi la condizione per cui anziché applicare
quella norma che non mi piace, quella sua dividendi, applico una norma diversa.
Come faccio? Interpongo una società, cioè tra co1 e co2 metto una società co3 che è
residente nello stesso stato di co2. Come faccio ad interporre? Costituisco una società co3
controllata al 100% da co1 nello stato B e co1 cede, vende alla nuova controllata co3 le
quote di co2. Per cui se all’inizio la situazione era co1 controlla co2, dopo questa
operazione abbiamo co1, nello stato A, che controlla co3 nello stato B, la quale a sua volta,
per effetto di questo acquisto controlla al 100% la società co2.
Cosa accade? Co3 è debitrice di co1 perché co3 ha acquistato le quote della società co2 e
deve pagarla. Come fa a pagarla? Prova a pagarla attraverso i dividendi che provengono da
co2. Quindi co2 ha sempre in pancia i suoi utili di 50 che deve distribuire, non li vuole
distribuire a co1 perché altrimenti ci sarebbe la ritenuta sui dividendi, allora in questo nuovo
assetto co2 paga i dividendi alla sua nuova controllante co3, che è residente anche lei nello
stato B (due società che risiedono nello stesso stato), e magari, come spesso accade, sfrutto
la presenza di una normativa interna che esenta quasi integralmente da tassazione i
dividendi (partecipation exemption). Co3 controlla co2, le quali si trovano nello stesso stato,
se lo stato prevede un regime di pex allora i dividendi possono arrivare da co2 a co3 con una
tassazione molto bassa. Nel sistema italiano la pex è 95% esente, tasso con aliquota del 24%
solamente il 5% del dividendo, è una tassazione estremamente bassa.
Quindi il primo effetto di questa situazione è che ho tirato fuori i dividendi da co2 e li ho
spostati in co3 di fatto con una tassazione molto bassa per effetto di questa applicazione
della normativa interna allo Stato B della participation exemption. Però ho sempre il
problema di come fare a portare poi queste somme a chi ne ha diritto e a chi ne ha interesse
ad averne, cioè alla società co1.
Il gioco è presto fatto perché co3 è debitrice di co1 del prezzo pagato per le quote di co2 e
quindi co3 versa i 49.8 che ha ricevuto a seguito della pex come dividendo da co2, li versa a
co1 come corrispettivo dell’acquisto delle quote di co2, cioè come prezzo.

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In questo modo quel flusso di denaro non è più definibile come dividendo perché co3 non
sta pagando un dividendo a co1, sta pagando esclusivamente un corrispettivo, il prezzo di un
contratto di compravendita avente ad oggetto le quote di co2. Questa è una fattispecie che
nella convenzione contro le doppie imposizioni tra A e B non prevede alcun tipo di ritenuta.
Qual è il risultato finale? Esattamente lo stesso che avremmo avuto nel caso fisiologico,
normale, gli utili maturati in capo alla società co2 residente nello stato B pervengono nello
stato A alla società co1.
Quindi il risultato è lo stesso da un punto di vista di fatto, ma il risultato economico è ben
diverso perché nel primo scenario, quello ordinario, a co1 arriva un importo decurtato della
ritenuta, riceve 40 invece che 50 che erano stati deliberati come dividendi da co2 perché c’è
la ritenuta.
Nel secondo caso a co1 arriva un importo che al netto dell’imposta dovuta per la pex, quindi
molto poco, è quasi 50. Il risultato finale è molto più vantaggioso perché co1 si vede
arrivare una quantità di denaro più alta perché ha evitato la ritenuta alla fonte.
Questo è un esempio di rule shopping perché qui non si va ad alterare i termini del
rapporto, cioè abbiamo sempre gli stessi Stati coinvolti, A e B, quello che cambia è la
qualificazione giuridica del flusso di denaro che dallo stato B perviene in co1 nello
stato A. Quel flusso di denaro cessa di essere dividendo e per effetto di questa costruzione,
con l’interposizione di co3 diventa un corrispettivo e quindi evita l’applicazione della
ritenuta.
Un vantaggio fiscale che deriva da una complicazione nella struttura dell’operazione perché
la struttura più semplice è quella originaria, dove co1 controlla co2, la quale distribuisce il
dividendo; qui è complicata perché si interpone un’altra società che ha acquistato le quote e
quindi ha il debito nei confronti di co1, ma a questa maggiore complicazione corrisponde un
maggiore vantaggio in termini di risparmio fiscale per il gruppo.

Anche quando abbiamo analizzato il caso google abbiamo messo in evidenza la complessità
di queste forme di pianificazione fiscale e la lontananza abissale tra queste forme di
organizzazione, queste transazioni è quella che sarebbe stata la transazione più semplice. Se
apple vuole fare business in Francia vende la sua pubblicità lì e incassa in America il
corrispettivo. La forma più semplice è anche la più onerosa dal punto di vista fiscale. La
forma più complicata non sempre, ma il più delle volte è quella che dà qualche maggiore
vantaggio fiscale.
Questo è il primo dei due casi di abuso dei trattati previste e analizzate dall’azione 6 del
BEPS.

Treaty shopping.
Lo shopping, la scelta sul mercato, riguarda non la norma della singola convenzione data,
ma riguarda addirittura quale convenzione applicare, quale convenzione conviene applicare
nel caso concreto.
Partiamo da una situazione semplice, quella fisiologica, ordinaria: abbiamo due stati: stato
A dove è collocata la società co1 e lo stato B dove è collocata la società co2. Però rispetto al
caso precedente qui c’è una precisazione: lo stato A è membro dell’UE, mentre lo stato B è
extra UE, cioè uno stato terzo.
Co1 che controlla al 100% co2, ha finanziato il capitale, quindi le attività di co2, ha fatto un
prestito infragruppo (fra due società che appartengono allo stesso gruppo) e naturalmente
per evitare contestazioni di transfer pricing il prestito è fruttifero, come fosse un prestito
dato da una banca, do un prestito e ricevo in cambio degli interessi. Quindi co1 finanzia co2
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e co2 ripaga il debito pagando gli interessi, i quali costituiscono una voce di reddito per co2
che passano dallo stato B che è il soggetto che li paga allo stato A del soggetto che li riceve.
Supponiamo ancora che tra stato membro e stato extraUE sia in vigore una convenzione
contro le doppie imposizioni che prevede che un soggetto residente in uno stato, in questo
caso B, che paga interessi al soggetto residente nello stato A, in questo caso co1, deve
applicare una ritenuta a questi interessi. E’ lo stesso meccanismo di prima, non si parla di
dividendi ma di interessi fruttiferi, ma il meccanismo è lo stesso: co2 che dovrebbe pagare
10 di interesse, in realtà versa 8 alla sua controllante co1, 2 li trattiene e li versa
all’amministrazione finanziaria dello stato B. Questa transazione estremamente semplice è
una transazione che costa al gruppo dal punto di vista fiscale, quindi come fare per evitare
questo costo fiscale? Anche qui c’è un’interposizione che però a differenza di quella che
abbiamo visto prima dove la società interposta era residente nello stesso stato della società
che pagava il dividendo, cioè in B; qui l’interposizione riguarda una società che è posta in
uno stato terzo, nello stato D, che è lo stato del soggetto interposto, anch’esso stato membro
dell’UE.
Dalla situazione originaria che vede lo stato A dell’UE e stato terzo, cioè B extra UE,
abbiamo una situazione nuova: che vede la presenza dello stato A dell’UE, stato D sempre
dell’UE e stato B terzo extra UE.
Come faccio a scegliere lo stato D? Lo scelgo in modo tale che tra B e D vi sia una
convenzione contro le doppie imposizioni che non prevede alcuna ritenuta in uscita sul
pagamento degli interessi.
Qui sta il nocciolo del treaty shopping, cioè della scelta del trattato: vado a collocare la
società interposta co3 non in un qualsiasi stato membro, ma vado a scegliermi quello stato
membro che ha una convenzione con B che a me serve, perché è quella convenzione la cui
norma sugli interessi dice che quando co2 paga l’interesse a co3 non applica alcun tipo di
ritenuta in uscita.
Accade che co3 finanzia co2, quindi quel finanziamento che prima era fatto da co1 adesso
viene fatto da co3; co2 paga gli interessi e ovviamente poiché la convenzione tra D e B non
prevede ritenuta, questi interessi escono dallo stesso B puliti, senza ritenuta, la quale
sarebbe applicata nel caso ordinario.
A questo punto cosa succede? Adesso c’è l’esigenza del gruppo che questo flusso di denaro
arrivi alla capogruppo, a co1, e in questo caso co3 pagherà i dividendi a co1, quindi i denari
arrivano in co1. Ma non si era detto nell’esempio precedente che i dividendi escono con
ritenuta? Si ma il caso di prima era particolare, questo è un caso dove lo stato D è stato
scelto appositamente come membro dell’UE che deve avere una certa convenzione contro le
doppie imposizioni buona con lo stato B terzo, ma deve essere uno stato membro come lo
stato A perché nell’UE c’è una direttiva che fa si che proprio per evitare gli ostacoli alla
libertà di stabilimento impone che quando una società controllata in uno stato membro paga
i dividendi alla sua controllante in un altro stato membro, non si applica la ritenuta. Quindi i
dividendi da una società figlia di uno stato membro alla società madre di un altro stato
membro escono senza ritenuta: DIRETTIVA MADRE-FIGLIA.
A questo punto è chiuso il cerchio: co1 ha ricevuto i denari che gli spettavano ma li ha
ricevuti senza alcun tipo di decurtazione. Nel primo esempio arrivavano in co1 8 dei 10
dell’interesse pagato di co2 perché 2 erano oggetto di ritenuta. In questo caso 10 erano in
partenza da co2 e 10 arrivano in co1 perché non c’è ritenuta nel passaggio da co2 a co3 e
non c’è ritenuta per la direttiva madre-figlia nel passaggio da co3 a co1.
Questo è il treaty shopping, perché qui non mi sono limitato a cambiare la qualificazione del
reddito in modo tale da applicare una norma piuttosto che un altra dello stesso trattato, ma
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ho inserito nella mia fattispecie, nella mia operazione, uno stato terzo, cioè un terzo stato
che è pur sempre uno stato membro dell’UE, in modo tale che con riferimento a quello stato
posso sfruttare la direttiva madre-figlia nei rapporti con co1, ma soprattutto (treaty
shopping) scegliere di avere quella convenzione giusta che mi consente di non avere la
ritenuta in uscita sugli interessi, quindi scelgo il trattato.
Anche in questo caso abbiamo una soluzione semplice che però è onerosa sul piano fiscale e
una soluzione più complessa che però da un vantaggio considerevole al gruppo perché il
gruppo alla fine può disporre di liquidità per 10 quando qualsiasi altro operatore avrebbe
una disponibilità più bassa, cioè di 8, perché avrebbe subito la ritenuta.
Il treaty shopping: scelgo il trattato che mi fa risparmiare di più.

Il progetto BEPS ha fatto riferimento ad entrambe queste situazioni ed è interessante perché


nel rapporto finale dell’azione 6 del 2015 noi troviamo una definizione di treaty shopping
che ci dice: ‘questa fattispecie si ha quando si è in presenza di un certo numero di accordi,
di contratti, di situazioni giuridiche, attraverso le quali una persona (sia fisica che giuridica)
che non è residente di uno strato contraente della singola convenzione bilaterale contro le
doppie imposizioni può tentare di ottenere dei benefici che un trattato fiscale attribuisce solo
ai residenti di quello stato’. Quindi vuol dire che col treaty shopping cerco di
precostituirmi il collegamento con un certo ordinamento, che normalmente non mi
interesserebbe, solo per poter invocare l’applicazione della convenzione che riguarda
quello’ordinamento, solo per ottenere un beneficio.
In questa definizione del treaty shopping, ma la stessa cosa si può dire anche per il rule
shopping, qui la parte importante è la parte iniziale dove si parla di ‘a number of
arrangments’ perché l’idea è che una singola transazione, quella più semplice, non interessa,
perché è quella che costa di più, l’abuso c’è dove si spezzetta la transazione e quindi si fa
riferimento ad un certo numero di passaggi, di transazioni proprio per spezzettare la
transazione originaria e avere il vantaggio fiscale.
Non è detto che sempre la maggiore complessità di una organizzazione, di una transazione
corrisponda ad un vantaggio fiscale indebito, quello che è importante, per il gruppo, è
riuscire a provare che a questo spezzettamento corrisponda un interesse economico, perché
può darsi che lo spezzettamento economico serva non per vantaggi fiscali, ma per esempio
per sfruttare i vantaggi di mercato di nu certo ordinamento piuttosto che di un altro, quindi
che abbiano una propria logica commerciale, economica. E’ ovvio he lo spezzettamento
nella maggior parte dei casi serve solo per avere il vantaggio fiscale, per poter sfruttare il
vantaggio dato da una convenzione contro le doppie imposizioni che in condizioni normali
non avrei senza che quello spezzettamento abbia una sostanza economica. La logica è: se a
fronte di uno spezzettamento io gruppo, io imprenditore, posso provare che ciascun
passaggio ha una logica economica, non solo fiscale, allora è evidente che non siamo nelle
fattispecie di abuso del trattato previste dall’azione 6 del BEPS.

Nel nostro caso google è chiaro che c’è una complicazione perché per andare dagli USA alla
Francia passo dall’Irlanda, poi dalle Bermuda, dopodiché dall’Olanda, poi di nuovo
dall’Irlanda e poi in Francia… ma se potessi dimostrare che nella holding Irlanda c’è un
significato commerciale, che nella controllata interposta olandese c’è un significato
commerciale e cosi via, potrei evitare l’applicazione della norma sull’abuso dei trattati. La
verità è che in questo caso non potrei mai dare questa dimostrazione e quindi la transazione
sarebbe comunque abusiva.

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Quindi rispetto a queste situazioni di abuso dei trattati nella duplice veste di rule shopping o
di treaty shopping, il progetto BEPS ha proposto una soluzione: quella di suggerire di
prevedere l’introduzione nelle convenzioni contro le doppie imposizioni (soluzione
convenzionale) di una clausola generale antiabuso (GAAR). Quindi il BEPS guarda le
convenzioni contro le doppie imposizioni e individua la risposta alle forme di abuso dei
trattati tramite l’inclusione nelle convenzioni di una norma generale antiabuso che consenta
di evitare queste situazioni incresciose, non condivisibili. E’ ovvio che nel delineare questa
clausola generale antiabuso l’OCSE non si è inventata niente, si è rifatta all’esperienza di
tanti Stati, in particolare degli USA, ma non solo, Stati cioè che già in alcune delle loro
convenzioni avrebbero introdotto normative di questo genere, le ha fatte proprie e le ha
generalizzate.
Qual è la clausola generale antiabuso che emerge dall’azione 6 del BEPS? E’ la cosiddetta
clausola PPT, cioè la clausola del principal purpose test, la clausola che fa riferimento al
test dello scopo principale, del principal purpose. Cioè l’idea di questa clausola è che
un’operazione può essere considerata abusiva se di fatto uno degli obiettivi principali
dell’impresa nel porre in essere quella transazione è stato l’ottenimento di un
vantaggio fiscale derivante evidentemente dal trattato.

Questa clausola è estremamente problematica nell’identificazione dei suoi esatti confini


applicativi. Però il progetto BEPS non sceglie una volta per tutte e sempre la clausola PPT,
perché l’OCSE è consapevole che in questa materia, ogni stato ha le sue preferenze, la sua
prassi, i suoi precendeti normativi, quindi si è limitato a dire che la clausola più desiderabile
e più efficace da introdurre è la clausola PPT, ma ha permesso agli Stati nelle loro
convenzioni internazionali e nelle convenzioni contro le doppie imposizioni di prevedere
delle clausole di tipo diverso se per esempio sono clausole sulle quali quello Stato ha già
sviluppato una prassi. Quindi c’è una preferenza nei confronti della clausola PPT, ma questa
non è l’unica ammessa, gli stati potrebbero prevedere clausole generali antiabuso di tipo
diverso ed essere pienamente conformi a quelli che sono gli indirizzi dell’UE.

Il progetto BEPS è fatto da 15 azioni che sono delle mere raccomandazioni agli stati, quindi
documenti senza una valenza giuridica vincolante nei confronti di nessuno. Però su alcuni
temi caldi, importanti, tra cui il tema dell’abuso, gli stati dell’OCSE hanno pensato che
limitarsi solo a delle esortazioni non vincolanti nei confronti degli Stati sarebbe stato
pericoloso, perché se uno Stato è libero di adeguarsi oppure no alcuni lo avrebbero fatto ed
altri no, quindi si sarebbero perpetrati quei disallineamenti su cui poi prosperano le forme di
pianificazione aggressiva delle multinazionali e anche delle multinazionali digitali. Allora
rispetto ad alcuni temi, tra cui quello della clausola generale dell’antiabuso il BEPS ha
identificato dei minimi standard, dei livelli minimi di normativa che tendenzialmente tutti
gli Stati dovrebbero avere e rispettare.
Però il problema è come fare a far si che ogni Stato sia obbligato a garantire quel minimo
standard se le azioni del BEPS non sono vincolanti?
L’idea è stata quella di trasporre alcune di queste soluzioni nelle convenzione multilaterali,
nel cosiddetto MLI (multilateral instrument), cioè una convenzione multilaterale nella quale
sono presenti alcune di queste norme che costituiscono un minimo standard e che quindi
diventano vincolanti per gli Stati che partecipano, che diventano parte di questa
convenzione multilaterale. La clausola PPT è una clausola di minimo standard introdotta nel
MLI. Vuol dire che gli Stati che sono parte del multilateral instrument tendenzialmente o si
dotano di una clausola antiabuso a loro scelta o se non hanno nei loro trattati, nelle loro
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convenzioni bilaterali, alcuna clausola antiabuso, automaticamente viene inserita la clausola
PPT.

Gli stati che fanno parte del MLI sono obbligati ad introdurre nelle loro convenzioni
bilaterali o la clausola PPT o una qualsiasi altra clausola antiabuso, però questo è un obbligo
convenzionale che per essere attuato richiede che tutti gli stati che sono parte del MLI
rinegozino tutte le convenzioni bilaterali con tutti gli altri stati che sono parte a loro volta
del MLI e inseriscano questa clausola.
La funzione del MLI è stata non solo quella di obbligare gli Stati a dotarsi del minimo
standard ed in particolare della clausola PPT, ma anche di operare automaticamente
un adeguamento delle convenzioni bilaterali in vigore tra gli Stati che sono parte del
MLI, convenzioni che sono automaticamente aggiornate con la clausola PPT senza bisogno
di una rinegoziazione una per una di queste convenzioni. Cioè se la Francia diventa parte
del MLI è obbligata ad introdurre nelle sue convenzioni bilaterali con tutti gli altri Stati del
mondo la clausola PPT, quindi il fatto che la Francia sia parte del MLI insieme ad altri stati
fa si che le convenzioni contro le doppie imposizioni in vigore tra la Francia e tutti questi
altri stati, dal giorno dopo l’entrata in vigore del MLI, inglobano la clausola PPT
automaticamente.
L’Italia non è ancora parte del MLI, ha sottoscritto il multilateral instrument ma non l’ha
ancora ratificato, quindi questo effetto di adeguamento delle convenzioni bilaterali contro le
doppie imposizioni alle clausole generali antiabuso, PPT in particolare, per l’Italia non si è
verificata, però l’idea è che l’Italia ratificherà e si manifesterà anche per l’italia.
Pone una serie di problemi interpretativi notevoli, un conto è che io Italia rinegozio la
convenzione contro la doppia imposizione con l’Indonesia, riscrivo il testo della
convenzione e ci metto dentro (ad esempio) l’art. 24 bis in cui c’è la clausola generale
antiabuso, un conto è dire che tutte le convenzioni contro le doppie imposizioni che l’Italia
ha con tutti gli altri Stati che fanno parte del MLI contemplano la clausola PPT. Il testo della
convenzione originario non viene modificato, quindi per capire il testo di quella
convenzione dovrò tenere da una parte il testo originario della convenzione, dall’altra il
testo del MLI con la norma che riguarda la clausola PPT e dire che questa clausola che non
è scritta nel testo della convenzione, però, fa parte della convenzione. E’ molto difficoltoso
dal punto di vista interpretativo, infatti l’OCSE, con l’intelligenza artificiale, ha dato vita ad
un programma che cerca di ricostruire il contenuto delle singole convenzioni alla luce di
queste modifiche attuate a seguito dell’entrata in vigore del MLI.

Vediamo come questa PPT rule che noi troviamo sia nel MLI all’art. 7, sia riprodotta anche
nel modello OCSE all’art. 29 come modificato nel 2017.
La norma dice: ‘nonostante qualsiasi altra norma prevista dalla convenzione (questa è
norma pensata per essere messa all’interno di una convenzione bilaterale contro le doppie
imposizioni, quindi qui la parola convenzione fa riferimento alla convenzione bilaterale
dentro la quale si troverà questa norma), un vantaggio, un beneficio spettante sulla base di
questa convenzione non sarà attribuito, non sarà goduto con riferimento a un reddito o a un
capitale (una voce di reddito o di capitale), se è ragionevole concludere avendo riguardo a
tutti i fatti e le circostanze rilevanti, che l’ottenimento di quel beneficio ha costituito uno
degli scopi principali di qualsiasi accordo o transazione dalla quale direttamente o
indirettamente quel vantaggio\beneficio è scaturito, a meno che non sia provato che

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attribuire quel beneficio in quelle circostanze sarebbe conforme all’oggetto e allo scopo
delle norme rilevanti di questa convenzione’.

Questa norma ci sta dicendo che se una certa transazione produce l’effetto di attribuire alle
parti della transazione un vantaggio, un trattamento favorevole previsto dalla convenzione
applicabile, appunto non si applica la ritenuta come gli esempi precedenti, questo
trattamento favorevole non è riconosciuto, viene disconosciuto laddove si possa concludere
ragionevolmente sulla base di tutti i fatti e le circostanze della controversia che uno degli
scopi principali di questo accordo è stato proprio quello di ottenere quel vantaggio.

E’ qualcosa di simile all’inopponibilità degli effetti fiscali di una transazione secondo l’art.
10 bis dello statuto del contribuente, ma in realtà in questa norma ci sono una serie di insidie
interpretative notevoli.
Com’è descritta in questa norma la situazione che consente di negare il godimento di un
beneficio convenzionale, ossia il godimento di un beneficio per il quale non si applica la
trattenuta in uscita prevista dalla convenzione, quando si può giungere a questo risultato?
La norma dice se è ragionevole concludere che quel beneficio è stato uno degli scopi
principali di quella transazione.
Qui ci sono già due problemi notevoli:
1) di natura sostanziale: il fatto che occorre provare che quel beneficio è stato uno degli
scopi principali della transazione;
2) Il profilo probatorio: cosa devo provare? Devo provare che è ragionevole concludere
che quella finalità ha rappresentato uno degli scopi principali della transazione.
Questi sono due punti che sono estremamente complicati.
Il profilo sostanziale:
Noi siamo abituati che quando leggiamo il nostro art. 10 bis che quello che abbiamo di
fronte deve essere molto chiaro, cioè una situazione nella quale una certa transazione ha
avuto come scopo esclusivo o principale quello di avere un vantaggio fiscale indebito.
Quindi o provo che non c’è nessun altra finalità economica ma solo quella fiscale, oppure
provo che si ci sono al latere dell’operazione anche dei vantaggi economici ma il principale
obiettivo perseguito dalle parti era fiscale.
Qui la situazione è diversa, mi sta dicendo che la norma antiabuso si applica quando
semplicemente una delle finalità principali è stata quella di ottenere quel vantaggio.
Vuol dire che se anche l’imprenditore o il gruppo aveva delle finalità non fiscali,
imprenditoriali di pari livello rispetto a quella fiscale, queste finalità ulteriori non si
considerano perché quello che importa è che una di queste finalità principali sia il vantaggio
fiscale, sia l’ottenimento del beneficio del trattato.
Questo amplia in maniera esponenziale la possibilità di applicare la norma antiabuso e
quindi di disconoscere il trattamento previsto dalla convenzione, perché non solo i casi più
smaccati di abuso, quelli dove faccio una transazione solo per il vantaggio fiscale vi
rientrano, ma vi rientrano anche qui casi dove lo scopo economico commerciale e lo scopo
fiscale sono di pari importanza per l’imprenditore, questo non importa, anche se sono di pari
importanza, viene considerato lo scopo fiscale e questo da vita all’applicazione della
clausola antiabuso.
E questo è tanto più importante se si pensa chi deve provare questa situazione, ed è
l’amministrazione finanziaria di un certo Stato. La clausola antiabuso è invocata e applicata
dall’amministrazione finanziaria, il che significa che l’amministrazione finanziaria avrà un
potere molto ampio di applicazione di questa norma, quindi non solo i casi dove è evidente
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che l’operazione è stata fatta solo per avere il vantaggio fiscale, ma anche in tutti quei casi
nei quali addirittura ci sono delle ragioni di pari importanza economiche diverse da quelle
fiscali, ma il fatto che ci sia una finalità fiscale principale al pari delle altre può far scattare
l’applicazione della norma antiabuso.

Questo è un primo profilo abbastanza problematico. La norma sembra davvero essere figlia
di un contesto particolare dove la crisi ha messo in primo piano, nell’ambito del rapporto di
imposta, le ragioni erariali dell’amministrazione finanziaria. Tanto sono più importanti le
ragioni dell’amministrazione finanziaria che questa sembra essere libera di applicare la
norma antiabuso, quindi di disconoscere gli effetti fiscali di una transazione, quando anche
quella transazione sia posta in essere per ragioni economiche di pari importanza rispetto a
quelle fiscali, del risparmio fiscale attraverso l’invocazione della convenzione.

L’altro punto problematico riguarda l’onere della prova che grava sull’amministrazione, ma
quale prova deve dare essa di questa situazione di principale purpose?
Qui la norma dice che deve essere ‘ragionevole concludere’. Dal testo si vede quanto è
vaporosa questa definizione, non si dice che l’amministrazione finanziaria deve provare
(establish), stabilire, provare oltre ogni ragionevole dubbio, basta solo che sia ragionevole
concludere, un fumus, è una situazione quindi di forte vantaggio dell’amministrazione
finanziaria che ha in mano questa clausola e può applicarla in modo estremamente ampio.

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