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PARADISI FISCALI:

Riprendiamo da dove ci siamo lasciati la scorsa volta. Abbiamo brevemente introdotto il


tema della doppia imposizione, tema classico del TBI, ma ci abbiamo dedicato poco
tempo, perché questo è un tema che, pur manifestando elementi di attualità, non è più il
tema centrale, il core business dello studioso del DTI. Oggi sono più rilevanti e soprattutto
più oggetto di attenzione, a tutti i livelli, le condotte che comportano una non imposizione,
e quindi quelli che vengono definiti i fenomeni BEPS, i fenomeni di base erosion and
profit shifting, fenomeni che sono tanto più importanti perché non soltanto contraddicono
quella che è la regola della giusta imposizione a fronte del perseguimento di un risultato
economico positivo, ma perché hanno delle ricadute in termini di finanziamento dei servizi
pubblici essenziali, di tenuta stessa del patto sociale. Il patto sociale si fonda sul fatto che
tutti i consociati sanno di contribuire perché tutti contribuiscono per un pezzetto al
benessere collettivo, ed è ovvio che nel momento in cui ci sono soggetti che non lo fanno e
che però hanno vantaggi enormi, anche coloro che sono disposti a farlo si pongono dei
quesiti e quindi si allenta inevitabilmente il patto sociale.

Sul tema della non imposizione, abbiamo iniziato l’indagine sul tema dei paradisi fiscali,
di cui dobbiamo parlare perché questo è un tema su cui si è molto dibattuto, perché fino a
qualche anno fa non era possibile parlare della doppia non imposizione se non intercettando
il tema dei paradisi fiscali, però abbiamo fatto una premessa che dobbiamo tenere a mente:
oggi gran parte della pianificazione fiscale aggressiva, soprattutto da parte delle
multinazionali digitali, non passa più dai paradisi fiscali, ma passa attraverso delle forme
più subdole di approfittamento, ossia passa attraverso stati apparentemente, formalmente,
del tutto ordinari e coerenti con i principi di una fiscalità ordinaria, e che però, attraverso
norme specifiche ad hoc, attraverso ruling, attraverso altri meccanismi specifici riescono
ad attribuire un trattamento fiscale assolutamente vantaggioso ad alcuni soggetti rispetto a
tutti gli altri. La non imposizione o i fenomeni BEPS o non passano più attraverso i paradisi
fiscali o ci passano in maniera marginale. Quindi sicuramente dobbiamo parlare dei paradisi
fiscali, ma occorrerà andare oltre e parlare di quelli che sono i c.d. regimi fiscali
preferenziali dannosi, che sono molto più numerosi dei paradisi fiscali.

Il professore ha caricato su moodle un articolo che è uscito qualche giorno fa e che riguarda
la presentazione del rapporto annuale di Tax Justice Network, una delle organizzazioni non
governative che con cadenza annuale pubblica il suo rapporto sui paradisi fiscali, e da
questa lettura emerge come i principali paradisi fiscali siano non solo le isole caraibiche,
ma vengono additati come stati paradisiaci e soprattutto come stati che mettono in difficoltà
con la loro condotta spregiudicata la tenuta dell’economia globale, anche stati europei come
Lussemburgo, Olanda, ecc. Si torna al tema della non perfetta rispondenza di queste
elaborazioni a quella che è la realtà dei fatti.

Non esiste una definizione di paradiso fiscale, ma il più delle volte ci si affida a quelle
che sono le liste, cioè elenchi di stati che sono elaborate a diversi livelli, a livello
internazionale, OCSE, a livello UE, e poi a livello spesso dei singoli stati, liste che
comprendono quelle giurisdizioni che si ritengono non corrette, non perfettamente

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conformi agli standard di una giusta imposizione che si stanno affermando a livello
nazionale e sovranazionale. Le liste si trovano oggi almeno su 3 livelli, internazionale,
europeo e statale, questo rende complessa la ricostruzione del fenomeno, nel senso che non
esiste un’unica lista di stati non cooperativi, o di stati paradisiaci su cui tutti concordano,
ma ci sono liste diverse, che comprendono Stati diversi, a seconda del livello nel quale ci
collochiamo, e quindi l’OCSE ha una certa lista, con certi stati, l’UE ne ha un’altra, gli Stati
altre ancora. Addirittura ci sono esempi a livello nazionale, come quello dell’Italia, nel
quale abbiamo più liste nere a seconda del tipo di normativa fiscale che si va ad applicare
nel caso concreto. Quindi abbiamo un panorama estremamente frammentato, di difficile
ricostruzione unitaria, che non rende agevole non solo ricostruire, per noi che siamo gli
studiosi di questa materia, l’esatto perimetro di queste liste, ma anche poi comprendere
davvero quali sono gli stati considerati paradisi fiscali e quindi, anche per una corretta
pianificazione fiscale, è difficile avere dei parametri unitari.

Qualche approfondimento lo faremo, l’OCSE ha una lista nera che è stata introdotta alla
fine del secolo scorso, che ha però avuto una sua importante evoluzione soprattutto dopo la
crisi finanziaria nel 2008-2009, la crisi di Lehman Brothers, e da quel momento triste, la
lista nera che pure esisteva è stata aggiornata, e oggi, se andiamo vedere la lista nera
dell’OCSE, troviamo che in lista nera c’è un solo stato, una sola giurisdizione, che è
Trinidad e Tobago, il che ci fa pensare: ma allora di che stiamo parlando? Se l’OCSE ha un
solo stato in lista nera, allora tutti i problemi di cooperazione fiscale, di lotta ai paradisi
fiscali sono stati risolti? No, per due ragioni:
- una è che in realtà queste liste il più delle volte hanno criteri di inserimento non del tutto
coerenti;
- la seconda è la conferma di quello che abbiamo detto all’inizio della lezione, cioè che in
realtà la pianificazione fiscale di tipo aggressivo oggi si fa non più passando dai paradisi
fiscali. Paradisi fiscali non ce ne sono più o l’ocse può ritenere che non ce ne siano quasi
più, senza che per questo si possa ritenere che la pianificazione fiscale aggressiva sia
venuta meno.

La lista nera dell’UE è arrivata in ritardo rispetto all’OCSE, la prima è stata introdotta nel
dicembre 2017, poi viene aggiornata con cadenza pressoché annuale, l’ultima lista nera
dell’UE è stata approvata e diffusa il 22 febbraio del 2021, però la lista nera dell’UE ha una
peculiarità, cioè che è pensata e costruita esclusivamente con riferimento a giurisdizioni
terze. L’UE ha la sua lista nera, ma esclude a priori che in questa lista nera possano essere
ricompresi stati membri dell’UE, nonostante ci siano una serie di giurisdizione europee, e
non si tratta solo di stati secondari, come Malta e Cipro, ma anche Olanda, Lussemburgo,
Irlanda, stati che hanno condotte non sempre specchiate da un punto di vista fiscale. Questa
è stata la scelta dell’UE, cioè quella di non includere stati membri nella lista nera, che ha
una connotazione pragmatica, l’UE sa bene che per adottare queste liste occorre passare
dalla deliberazione del consiglio e le deliberazioni del consiglio in materia di fiscalità
richiedono l’unanimità dei voti espressi in consiglio, tutti gli stati membri dell’UE devono
esprimersi a favore, pertanto è ovvio che se qualcuno proponesse di introdurre Cipro
piuttosto che Malta o Irlanda nella lista nera, questi stati semplicemente frapporrebbero il
loro veto e quindi non si giungerebbe a nessun tipo di approvazione della lista.

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C’è infine il caso del livello nazionale, ancor prima che il tema fosse preso in mano
dall’OCSE e poi dall’UE, molti stati si erano dotati di proprie liste nere, e l’Italia in
particolare a partire da fine anni 80 inizio anni 90, ha introdotto alcune liste nere a seconda
della specifica normativa di riferimento. Per esempio, nella definizione di residenza fiscale
delle persone fisiche, articolo 2, comma 2 del TUIR, c’è una presunzione di residenza per
quelle persone fisiche che hanno spostato la loro residenza, iscrivendosi all’AIRE, in un
paradiso fiscale, o meglio, in uno degli stati compresi nella black list, quella è la black list
che opera in riferimento all’articolo 2, comma 2 del TUIR, quindi ai soli fini della residenza
fiscale. Ci sono altre black list, ad esempio la black list in materia di disciplina CFC delle
imprese estere controllate, lista nera che vale solo per quella disciplina, e potrebbe quindi
contenere stati non coincidenti con quelli elencati nella lista nera ai fini della residenza delle
persone fisiche.

Quindi, soprattutto a livello nazionale, e in particolare per l’Italia, c’è qualche problema di
chiarezza, di coerenza della normativa, e allora, di fronte a questi problemi, di fronte a
queste complessità ci si può chiedere se sia possibile, al di là delle liste, ricostruire una
definizione unitaria, generale, di cosa sia un paradiso fiscale, in modo da comprendere che
le varie liste, a qualsiasi livello siano previste, fanno riferimento a questa definizione
generale. In realtà una definizione generale di paradiso fiscale, di tax haven non esiste.

Apriamo una parentesi: la genesi della funzione di questi stati la dice lunga sull’efficacia
della lotta sbandierata nei confronti dei paradisi fiscali. I primi paradisi fiscali sono stati
creati dagli stessi stati ad economia e a fiscalità ordinaria, tutti gli stati più evoluti avevano,
e alcuni di essi hanno ancora oggi, i loro paradisi fiscali, gli Stati Uniti avevano le isole
caraibiche, Panama, il Regno Unito aveva le Isole del Canale, l’Italia aveva San Marino, la
Germania aveva Liechtenstein, e così via, la Francia aveva Andorra. Di fatto, è stata una
scelta delle economie più sviluppate quella, ad un certo punto, nella prima metà del secolo
scorso, di darsi dei regimi fiscali ordinari, quindi il più delle volte particolarmente gravosi,
ma allo stesso tempo favorire o comunque non contrastare la nascita, vicino ai loro confini,
di piccole giurisdizioni dedite a fare da cassaforte per patrimoni che volevano sfuggire ad
imposizione nei loro stati di origine. Questo perché si riteneva che questo consentisse di
attrarre capitali da altre giurisdizioni, che poi essendo affluiti vicino ai confini dello stato,
avrebbero potuto essere investiti nello stato stesso. L’origine la dice lunga sulla lotta che
oggi viene sbandierata ai paradisi fiscali, perché il più delle volte è una lotta intesa come
lotta ai paradisi fiscali altrui, nella consapevolezza di voler conservare e difendere i propri
paradisi fiscali. Non è un caso che gli Stati Uniti abbiano dei paradisi fiscali oggi giorno
non più vicino ai confini, ma direttamente dentro il territorio nella nazione, pensiamo al
Delaware, che è uno stato dove non c’è tassazione per le imprese, e si può costituire
un’impresa con azioni al portatore, senza che venga svelato il nome del socio, ma pensiamo
ad altre realtà come il Maine, il South Carolina, tanti stati che si avvicinano ad essere
paradisi fiscali e sono stati costitutivi degli Stati Uniti d’America. Oggi la lotta ai paradisi
fiscali, soprattutto dopo il 2008-2009, è diventata una priorità, ma da un lato è una priorità
che molti stati interpretano come una priorità volta a sfavorire i paradisi fiscali altrui, e
dall’altra conferma quello che accade tante volte, anche in altri settori diversi da quello
della fiscalità, cioè che si ha interesse a sostenere una certa soluzione un pò borderline
perché si ritiene che potrebbe avere dei vantaggi, poi ad un certo punto questa situazione
sfugge di mano. Gli esempi non fiscali da questo punto di vista potrebbero moltiplicarsi,

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pensiamo all’ISIS che in un primo tempo è stata nutrita dall’amministrazione degli Stati
Uniti, e poi è sfuggita ampiamente di mano.

Torniamo alla definizione, non esiste una definizione di paradiso fiscale, non esiste
quantomeno nell’elaborazione dei consessi e delle istituzioni che si occupano di fiscalità.
Non c’è un atto dell’OCSE che definisce il paradiso fiscale, non c’è un atto dell’UE che dà
una definizione generale di paradiso fiscale. Però una menzione a cosa sia il paradiso fiscale
la troviamo in un documento di un ente, di un’organizzazione internazionale che è il Fondo
Monetario Internazionale, FMI, che non si occupa principalmente di temi fiscali, ma si
interessa dell’economia degli stati, si interessa di garantire che gli stati abbiano delle
strutture finanziarie, politiche, stabili, attrattive, per garantire la libertà della circolazione
degli investimenti in giro per il mondo, ma non ha un focus specifico sui temi della fiscalità,
e qualche anno fa il FMI ha dato una definizione del fenomeno che tradisce questa
impostazione non esclusivamente fiscale. In questo documento si trova una definizione di
paradiso fiscale come luogo che cerca di attrarre le imprese offrendo strutture
politicamente stabili per aiutare persone fisiche o giuridiche ad aggirare norme, leggi o
regolamenti di altre giurisdizioni. Apparentemente il focus non è fiscale, si parla di una
struttura politicamente stabile, una struttura che sia credibile, che sia tranquillizzante per
quelle persone fisiche o per quelle imprese che vogliano portarvi i propri capitali, con lo
scopo non di sottrarli ad imposizione (che ci verrebbe spontaneo da dire qualora volessimo
definire il paradiso fiscale), ma per aggirare le norme, leggi o regolamenti di altre
giurisdizioni. Questa è una definizione che ha una portata estremamente ampia, si riferisce
ai paradisi fiscali come quelle giurisdizioni che offrono un porto sicuro agli investimenti,
ai capitali che vogliono sfuggire non solo e non tanto alla tassazione nel loro paese di
origine, quanto sfuggire anche ad altre normative, magari ritenute gravi e non aventi natura
fiscale.
Questa definizione, che da un punto di vista dello studioso del DTI, sembra avere poca
importanza, perché non affronta direttamente il fenomeno fiscale, la connotazione fiscale
del paradiso fiscale, è in realtà per noi abbastanza interessante perché ci mette in evidenza
come oggi il paradiso fiscale abbia una molteplicità di elementi costitutivi, il paradiso
fiscale è quello stato che non solo dà dei vantaggi fiscali, ma può dare dei vantaggi di altro
tipo a coloro che intendono nascondere le proprie risorse, i propri capitali. Pensiamo ad una
giurisdizione che ha delle leggi molto restrittive in tema di cooperazione penale con altre
giurisdizioni, io trasferisco i miei capitali in uno stato non solo perché lì non pago le
imposte, ma perché lì so che quello stato non ha firmato degli accordi di estradizione o degli
accordi per rogatorie internazionali con altri stati e quindi so che se la mia autorità penale,
del mio stato di residenza, chiederà collaborazione alle autorità penali di quello stato, non
l’avrà, è una sorta di scudo di carattere penale. Oppure pensiamo al caso in cui voglia fare
un investimento e voglia rimanere anonimo, voglio che nessuno sappia di questo mio
investimento societario, ci sono stati che permettono di costituire delle società senza alcun
tipo di capitale sociale, e senza che esista un registro delle imprese da cui emerga
nominativamente l’identità del socio di queste società, e quindi io, andando ad investire in
quell’ordinamento so che diventerò proprietario di una società, ma nessuno potrà mai
risalire a chi è il proprietario, il socio di quella società, e quindi a me come investitore. In
effetti questa definizione, per quanto non strettamente calata sul piano della fiscalità, è
interessante perché mette in luce il carattere multiforme, poliedrico dei paradisi fiscali, è
ovvio che in primo luogo il paradiso fiscale è uno stato nel quale si possono pagare poche

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imposte o addirittura dove non si paga nessuna imposta, però spesso il vantaggio di
approdare in questi ordinamenti è ulteriore rispetto a quello strettamente fiscale, come il
vantaggio penale, il vantaggio societario o altri tipi di vantaggi.

Al di là si questa definizione, che non ha nessuna vincolatività e nessuna dignità giuridica,


è un documento del FMI che non aspira minimamente a dare una definizione giuridica
vincolante o generale del paradiso fiscale, al di là di questa, nei documenti delle
organizzazioni, degli enti, che si occupano di fiscalità a livello internazionale, non si
rinviene una forma di definizione, e quindi i criteri per l’inserimento di uno stato in una o
in un’altra delle liste nere, sono importanti perché indirettamente sono questi criteri che
danno i confini della nozione di paradiso fiscale, se uno stato è inserito in una lista vuol dire
che ha le caratteristiche che quella lista richiede per poter introdurvi uno stato e questo
indirettamente ci dà gli elementi caratterizzanti il paradiso fiscale.

Andiamo un pò più in dettaglio nell’analizzare quali sono i caratteri che oggi consentono
l’inserimento di una giurisdizione, di uno stato in una delle liste nere, e partiamo dal livello
internazionale, dall’OCSE. L’OCSE ha iniziato ad occuparsi di doppia non imposizione e
quindi di lotta ai paradisi fiscali circa 25 anni fa, attorno alla metà degli anni 90 dello scorso
secolo, però il primo documento nel quale si è affrontato il tema dei regimi fiscali che
favorivano in modo non legittimo, in modo non corretto, gli evasori fiscali, è del 1998, un
rapporto che aveva proprio la funzione di sollevare il problema e invitare gli stati membri
dell’ocse a prendere provvedimenti rispetto a queste prassi. In questo primo documento
l’OCSE metteva in evidenza quelli che erano i caratteri che concorrevano a qualificare un
certo ordinamento come un paradiso fiscale, in particolare c’erano 4 caratteri che erano
messi in evidenza in questo documento del 1998:

- Il primo riguardava il livello di tassazione, il paradiso fiscale, secondo l’OCSE, era


quello nel quale l’aliquota era 0 oppure puramente simbolica, tassazione nulla o
puramente simbolica;

- Il secondo elemento era l’elemento della trasparenza o della cooperatività in materia


fiscale, lo stato paradiso fiscale è, secondo questo prima definizione dell’OCSE, uno
stato che non offre nessun tipo di assistenza nei confronti di altri stati terzi per lo scambio
di informazioni in materia fiscale, uno stato non collaborativo, gli giunge una richiesta
di cooperazione a livello fiscale, non risponde, non dà corso;

- Terzo elemento: l’assenza di trasparenza più in generale in materia amministrativa.


Questo terzo requisito era legato non ad una trasparenza fiscale in senso stretto, ma ad
una trasparenza amministrativa in senso ampio, ci si rifaceva a quell’elemento che
abbiamo detto prima, al fatto che vi fossero normative interne che consentivano di
schermare la reale proprietà di società, enti, oppure impedivano di ricostruire chi fosse
l’amministratore effettivo di una certa società, oppure la titolarità di conti correnti
bancari, di investimenti finanziari e così via;

- Quarto elemento: la possibilità di usufruire di certi regimi favorevoli, sul piano


fiscale, a chi portasse i suoi capitali in quello stato, impegnandosi a non svolgere

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attività economica sostanziale, in quel paese. Questo quarto requisito è rilevante,
perché dà l’idea del paradiso fiscale inteso come stato dove semplicemente i capitali
giungono e vengono conservati per essere sottratti ad imposizione nel loro stato di
origine, senza che questi capitali possano dar vita ad un’attività imprenditoriale nello
stato stesso. L’idea era che non vogliamo che questi capitali facciano concorrenza sleale
ai nostri imprenditori locali, e quindi ben vengano se sono investiti, ma si deve far sì che
questi capitali non siano fatti oggetto di un’attività economica effettiva, sostanziale, nei
confronti dello stato.

Queste 4 caratteristiche emergevano da questo primo documento del’OCSE, e queste 4


caratteristiche richiamano quella definizione generale del fondo monetario internazionale,
perché di questi 4 requisiti, due sicuramente hanno natura fiscale, quello del basso o nullo
livello impositivo e quello della non cooperatività in materia fiscale, ma gli altri due hanno
una portata più ampia, cioè travalicano l’ambito fiscale in senso stretto, perché riguardano
da un lato l’opacità di carattere amministrativo, burocratico, dell’ordinamento, e dall’altra
l’interazione con attività economica sostanziale.

Sulla base di questi requisiti generali, nel 2000, un paio di anni dopo, l’OCSE ha stilato la
prima lista nera, cioè l’elenco di quegli stati che corrispondendo a questi requisiti, erano
considerati paradisi fiscali. In questa prima lista nera erano elencati 41 stati, un numero
abbastanza consistente, però si trattava di un’elencazione veramente poco efficace, perché
la regola era che per uscire dalla lista nera, da questa prima lista nera, gli stati che vi erano
inseriti, elencati, bastava che facessero una sorta di proclamazione di intenti all’OCSE,
manifestassero la loro disponibilità in futuro ad adeguare i loro sistemi fiscali, societari,
normativi, agli standard previsti dall’OCSE, per essere posti al di fuori della lista nera, non
occorreva dar la prova di nessuna attività concreta normativa volta ad adeguare queste
normative, bastava impegnarsi solennemente a farlo, e con questo si usciva. Era un
escamotage semplice, fare la proclamazione e poi magari non fare più niente, ma intanto si
era usciti dalla lista nera. Tanto è vero che nel 2005, nella lista nera dell’OCSE, dai 41
stati introdotti nel 2000, ne rimanevano solo 3, quasi tutti erano riusciti ad uscire, ma
quasi tutti erano usciti con questo escamotage.

Questa situazione è apparsa del tutto irreale, inefficiente dopo lo scoppio della crisi
finanziaria del 2008 2009, dove ci si è resi conto che non tutti, ma una buona parte delle
condizioni che avevano portato alla crisi globale, venivano dalla concorrenza sleale che
questi paesi, questi paradisi fiscali facevano alle economie più evolute e sviluppate, ed
infatti, a partire dal 2009, l’OCSE ha cambiato la sua attitudine nei confronti delle liste, e
ha introdotto due liste, al posto dell’unica lista nera, la lista nera e la lista grigia. Nella
lista nera figurano tutte quelle giurisdizioni che, non solo non hanno allo stato attuale quelle
4 condizioni che abbiamo visto in precedenza, ma soprattutto sono giurisdizioni che non
manifestano alcuna intenzione concreta di adeguarsi in tutto o in parte agli standard previsti
dall’OCSE, quindi la lista nera comprende gli stati che non solo non hanno quelle
caratteristiche, ma sembra anche che non vogliano adeguarsi nel futuro, gli stati realmente
recalcitranti. Nella lista grigia, definita spesso dal professore come una sorta di purgatorio,
stanno quelle giurisdizioni che ovviamente presentano almeno in parte quegli elementi di
inadeguatezza che consentono all’OCSE di qualificarli come paradisi fiscali, ma che hanno
manifestato concretamente la loro intenzione di adeguarsi, avviando una procedura,

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indicata dall’OCSE stessa, volta alla conclusione di un numero minimo di convenzioni
bilaterali contro le doppie imposizioni, contenenti una clausola di cooperazione fiscale
piena, di scambio di informazioni piena. L’idea dell’OCSE era che uno stato può uscire
dalla lista grigia se stipula almeno 12 convenzioni contro le doppie imposizioni, che
abbiano una clausola piena di scambio di informazioni, restano in lita grigia quegli stati
che, pur non avendo ancora raggiunto questa soglia minima delle 12 convenzioni bilaterali,
ne hanno stipulate alcune e quindi hanno disastrato di volersi avviare nella direzione giusta,
quindi stati volenterosi, che sarebbe stato ingiusto mantenere nella lista nera e che però non
avevano ancora raggiunto quel livello minimo, e quindi sono collocati in lista grigia.

Queste erano le condizioni del 2009, fatto sta che nel 2010, un anno dopo, la black list
dell’OCSE era vuota, ed era vuota anche quella grigia, non c'erano più stati in nessuna
lista. Miracolo? Miracolo un pò falso, falsificato, perché questo criterio che l’ocse aveva
identificato, questa soglia minima delle 12 convenzioni contro le doppie imposizioni, era
stata evidentemente utilizzata in modo un pò furbesco da parte degli stati ex lista nera o ex
lista grigia, che avevano concluso tra di loro queste convenzioni, Panama aveva concluso
convenzioni con Hong Kong, Singapore, British Virgin Islands, ecc., perché tanto era una
soglia indicata solo numericamente, non si diceva nulla sulla natura degli stati coi quali si
sarebbe andati a fare questi accordi, quindi questa soglia era stata superata da tutti, ma era
evidentemente un escamotage, fare 12 accordi con la clausola dello scambio di
informazioni tra 12 paradisi fiscali, è ovvio che agli ordinamenti più evoluti, quelli ad
economia ordinaria che vogliono davvero combattere i paradisi fiscali, non interessava
niente, non cambiava niente della situazione generale. E allora ci si è resi conto che era una
pagliacciata e quindi si è giunti alla situazione attuale, nella quale per essere inseriti nella
lista bianca o comunque per non essere inseriti nella lista nera o nella lista grigia, occorre
che un certo stato, una certa giurisdizione, abbia realizzato congiuntamente queste 3
condizioni:

- Abbia implementato effettivamente lo standard OCSE sullo scambio di


informazioni su richiesta;

- Abbia implementato effettivamente lo standard OCSE per quanto riguarda lo


scambio automatico di informazioni;

- E abbia aderito alla convenzione multilaterale di Strasburgo sullo scambio di


informazioni, o comunque abbia stipulato un numero sufficiente di convenzioni
contro le doppie imposizioni aventi una clausola di cooperazione fiscale piena.

L’ultima versione dei requisiti per poter essere considerati stati conformi agli standard e
quindi non essere additati nè in lista nera nè in lista grigia, quest’ultima elencazione di
criteri fa leva sulla trasparenza e sulla cooperazione in materia fiscale. Uno stato è
considerato nella white list, se ha effettivamente implementato lo scambio di informazioni
su richiesta, quindi deve essersi dotato non solo di strumenti normativi, ma anche di
procedure interne che gli consentano di rispondere efficacemente, tempestivamente
nell’ipotesi in cui un altro stato gli faccia una richiesta specifica di fornire informazioni su
un certo contribuente, qui non basta, come nella versione originaria della lista nera

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dell’OCSE, la mera dichiarazione di volersi adeguare, occorre la prova che questo
adeguamento c’è stato in concreto, effettivamente. Poi occorre che egualmente in modo
concreto ed effettivo lo stato si sia adeguato allo standard per lo scambio automatico di
informazioni, lo standard nel quale la collaborazione fiscale è data non a fronte di una
richiesta specifica di collaborazione che proviene da un altro stato, ma viene fatta in maniera
routinaria: tutti gli elementi, le informazioni che l’amm. fiscale di uno stato reperisce nel
corso delle sue attività ordinarie, e che sembrano poter riguardare contribuenti di altri stati,
vengono automaticamente caricate su questa piattaforma dove possono accedere
contemporaneamente le amministrazioni fiscali di tutti gli stati per poter prendere
documenti. Questo è lo scambio automatico di informazioni, è l’ultima frontiera, la più
avanzata della cooperazione internazionale in materia fiscale, e quindi uno stato per essere
considerato uno stato corretto, deve dimostrare di aver effettivamente implementato questo
standard. Poi deve o aver prestato adesione alla convenzione multilaterale sullo scambio di
informazioni oppure dimostrare di aver concluso un numero sufficiente di convenzioni
contro le doppie imposizioni aventi una clausola sullo scambio di informazioni.
Quest’ultimo profilo è interessante perché si supera il riferimento numerico delle 12
convenzioni del periodo precedente che era stato abbondantemente eluso nella prassi di
alcuni stati, quindi non importa che questi accordi siano 5, 10 o 20, purché la rete sia
considerata sufficiente, il che vuol dire che difficilmente potrà essere considerata sufficiente
una rete di convenzioni contro le doppie imposizioni che riguardano i rapporti con altri
paradisi fiscali, mentre magari 3, 4 accordi con Stati importanti, come Stati Uniti,
Germania, Francia, potrebbe essere considerata sufficiente per i fini di questa elencazione.

Questi criteri ruotano tutti attorno alla cooperazione, alla trasparenza, allo scambio di
informazioni, mentre sta assolutamente in secondo piano il profilo del livello della
tassazione, di quante imposte si pagano in questi stati, quello che conta ai fini della
qualificazione di un ordinamento come paradiso fiscale oppure no, è il grado di
collaboratività, il grado di trasparenza nei confronti degli altri orientamenti che quello stato
è in grado di realizzare, di evidenziare. Questo sul presupposto che nel mondo globalizzato
è normale verosimilmente che un contribuente possa cercare di allocare i propri capitali, i
propri redditi in giurisdizioni dove si pagano meno imposte, purché questo non accada in
modo occulto, in modo da pregiudicare il diritto dello stato di provenienza di quei redditi o
dello stato di residenza del contribuente che quei redditi ha prodotto, di conoscere
esattamente dove sono stati spostati quei redditi, quei capitali, come sono tassati o
quant’altro. L’idea è che la trasparenza, la collaboratività servono per valutare se la
collocazione in questi stati dei redditi, dei capitali, e degli investimenti, è o no effettiva, se
risponde davvero ad una finalità reale, concreta, e legittima del contribuente, oppure se è
solo fatta con l’obiettivo di sottrarre quei redditi, quei capitali alla legittima imposizione
dello stato di origine. Per far questo l’elemento dirimente, centrale è proprio la
cooperatività, lo scambio di informazioni, se cerco di sfuggire alla giusta imposta nel mio
stato di residenza, se lo stato dove colloco i miei redditi è collaborativo e quindi rivela la
mia intenzione allo stato di residenza, lo stato di residenza è contento, gli basta questo. Se
in virtù di queste informazioni, lo stato di residenza si convince che la mia collocazione in
quello stato, la collocazione dei miei investimenti in quello stato, ancorché lì io non paghi
imposte, corrisponde ad una scelta reale, genuina, effettiva, perché mi sono trasferito
davvero lì, lì ho intrapreso un’attività imprenditoriale, allora niente potrà essere preteso

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dallo stato di origine. Questa è l’importanza della trasparenza, della cooperatività in questi
criteri, rispetto al livello di tassazione.

Abbiamo detto che attualmente nella lista nera dell’OCSE c’è solo uno stato, Trinidad e
Tobago, uno stato caraibico, che evidentemente ha più vantaggio a mantenere ferme le sue
caratteristiche di paradiso fiscale, piuttosto che di adeguarsi agli standard dell’OCSE, però
tutti gli altri stati, che nell’immaginario collettivo immaginiamo da sempre essere paradisi
fiscali, Montecarlo, Svizzera, Hong Kong, Singapore, Panama, non ci sono nella lista nera
dell’ocse, e allora uno si può chiedere: che è successo? Sono diventati tutti trasparenti,
collaborativi? Non è detto che la risposta sia effettivamente questa, a leggere quel rapporto
di Tax Justice network che abbiamo visto all’inizio, sembrerebbe che tante di queste
manifestazioni di adeguamento siano rimaste soltanto sulla carta e non si siano tradotte in
attività effettive, però è vero che tanti stati che un tempo hanno prosperato come paradisi
fiscali, hanno davvero scelto di intraprendere una strada diversa, diventando qualcosa di
diverso rispetto a quello che erano prima. La Svizzera non è più nella lista nera nè
dell’OCSE, nè dell’UE, è soltanto per certi aspetti secondari nelle liste nere italiane, però
non è più un paese black list, perché la Svizzera ha capito che non era più l’epoca dei
paradisi fiscali e quindi ha avuto l’intelligenza di riconvertire la sua economia, da un lato
diventando un centro finanziario che raccoglie capitali leciti e trasparenti, capitali che
magari per paura della crisi dell’euro, si collocano in uno stato, la Svizzera, che sta al di
fuori dell’Euro e che verosimilmente non subirà contraccolpi rispetto alla costruzione
europea, ma dall’altra riconvertendosi in settori diversi da quello della finanza. Oggi tante
imprese italiane, alcune anche importanti, hanno delocalizzato in Svizzera perché in
Svizzera si sono introdotte delle agevolazioni fiscali per chi introduceva attività
imprenditoriale, per chi costruiva capannoni, acquisiva manodopera, quindi forme di
delocalizzazione imprenditoriale, industriale effettiva, reale. Questa pressione proveniente
in primo luogo dall’OCSE ha davvero per tanti stati e per tanti aspetti rappresentato un giro
di boa importante.

Rispetto a questo meccanismo introdotto dall’OCSE, non è che se uno stato dimostra di
avere questi 3 requisiti, esce dalla lista nera, o dalla lista grigia e se ne sta tranquillo per
sempre, perché l’aspetto interessante della costruzione voluta dall’OCSE in tema di paradisi
fiscali è che tutti gli stati sono periodicamente sottoposti ad un meccanismo di peer
review, di revisione tra pari, cioè ogni certo periodo di tempo, un comitato composto da
rappresentanti degli Stati dell’OCSE va a verificare la situazione normativa, interna dei
singoli stati, e verifica che quelle condizioni, che in precedenza erano state verificate e
avevano fatto sì che quello stato fosse considerato pienamente collaborativo, sussistano
sempre, perché le cose cambiano, i tempi passano e quindi può darsi che uno stato che
prima era pienamente collaborativo, poi introduca delle normative interne che lo rendono
meno collaborativo, nessuna situazione è definitivamente acquisita. Uno stato che sta in
lista nera può aspirare ad andare in lista grigia e poi in lista bianca, ma viceversa uno stato
che sta in lista bianca, potrebbe anche cambiare la sua normativa e quindi essere retrocesso
in lista grigia o in lista nera. Questa verifica periodica viene effettuata dall’OCSE attraverso
questo meccanismo molto importante della peer review, revisione tra pari, che è un pò un
incentivo a far sì che gli stati che hanno intrapreso certe scelte, poi non si allontanino nel
tempo da queste scelte, anche perché l’inclusione di uno stato nella lista nera dell’ocse può

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avere delle conseguenze. Quindi è interesse del singolo stato non solo uscire dalla lista nera
se ci è stato inserito, ma anche fare in modo di rimanere nel tempo fuori dalla lista nera.

Quali conseguenze possono verificarsi a seguito dell’inclusione di uno stato in lista


nera?Dobbiamo distinguere due tipi di conseguenze, ci sono le conseguenze giuridiche e le
conseguenze politiche:

- Le conseguenze politiche sono le più facili da spiegare, è il danno reputazionale


relativamente ad uno stato, lo stato che sta in lista nera è visto come uno stato canaglia,
uno stato messo un pò ai margini della comunità internazionale, e quindi nessuno stato
ha piacere, anche quello che ha prosperato nel tempo, attraverso la fornitura di questi
servizi, di questi vantaggi fiscali o quant’altro, nessuno stato ha piacere ad essere additato
come stato che sta nella lista nera, e questo è un primo profilo, che ha valenza e natura
prevalentemente politica;

- Poi c’è il tema delle conseguenze giuridiche, che cosa accade giuridicamente ad uno
stato che è introdotto in lista nera? In prima battuta si potrebbe rispondere niente, nel
senso che l’OCSE non fa discendere, dall’aver incluso uno stato in lista nera, alcuna
conseguenza giuridica. L’OCSE probabilmente non avrebbe neanche gli strumenti
giuridici per applicare delle sanzioni a questo stato, non sono poteri che rientrano nello
statuto dell’OCSE, che invece potrebbe avere l’ONU in certe circostanze, però un
qualche effetto giuridico indiretto si può ritenere che si possa verificare. Se l’OCSE
introduce uno stato in lista nera, vuol dire che per l’ocse quello stato non ha le
caratteristiche di un ordinamento corretto, e quindi questo legittima gli stati membri
dell’OCSE, non l’ocse in quanto tale, ma gli stati che fanno parte dell’ocse, nell’esercizio
della loro sovranità, ad intraprendere delle iniziative nei confronti di quello stato, per
esempio introdurre delle limitazioni commerciali agli scambi con quello stato, oppure
delle limitazioni ai rapporti diplomatici. L’idea non è quella di una obbligatorietà di
queste misure degli stati membri dell’OCSE, tendenzialmente questa lista nera è
approvata come una raccomandazione dall’OCSE, non come un atto vincolante,
quindi gli stati membri dell’OCSE non sono vincolati a loro volta a considerare paradiso
fiscale quello stato, ma sono liberi di fare le loro scelte, scelte politiche, economiche e
giuridiche, ma l’effetto importante e indiretto è il cosiddetto effetto di liceità delle
raccomandazioni delle organizzazioni internazionali, non è un obbligo, ma se il
singolo stato membro recepisce il contenuto di quella raccomandazione, e agisce di
conseguenza, cioè recepisce che un certo stato è considerato paradiso fiscale, e sulla base
di questo tronca i rapporti commerciali con quello stato, fa delle misure di embargo nei
confronti di questo stato, allora quelle misure saranno lecite, effetto di liceità indotto dal
fatto che si tratta di misure che lo stato sta prendendo sulla base della raccomandazione
proveniente dall’organizzazione internazionale di cui fa parte. Non ci sono conseguenze
dirette, ma giuridiche indirette, e politiche di immagine dirette, ci sono eccome.

Questo è il profilo internazionale, il profilo OCSE. Non meno importante è il profilo


europeo e soprattutto per noi che siamo membri dell’UE. Non meno importante perché
come abbiamo accennato all’inizio della lezione anche l’UE, sebbene con ritardo rispetto
all’OCSE, ha iniziato ad occuparsi di questo tema e si è dotata a sua volta di una lista nera.
L’UE si è accorta, o meglio ha deciso di prendere in mano questa situazione della

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concorrenza fiscale dannosa dei paradisi fiscali molto in ritardo rispetto all’ocse, che aveva
iniziato ad occuparsene negli anni 90, la prima lista dell’ocse è del 2000. Per quanto
riguarda invece l’UE, il primo documento nel quale si fa espressamente riferimento alla
necessità di combattere i paradisi fiscali è una comunicazione della commissione europea,
numero 351 del 2012, neanche 10 anni fa, evidentemente una presa di posizione indotta
dalla consapevolezza che è venuta fuori dagli effetti della crisi Lehman Brothers del 2008
2009, non solo a livello economico globale, ma anche a livello di diritto tributario
internazionale, quello snodo del 2008 2009 è centrale per tante ragioni, sotto tanti profili.
Un pò in ritardo, ma finalmente nel 2012 l’UE si occupa di questo tema e lo fa in questa
comunicazione 351, che è interessante perché c’è una sorta, un tentativo di dare una
definizione di paradiso fiscale, ancora una volta si tratta di un tentativo di definizione, non
è certo una definizione ufficiale, cogente, perché la troviamo dentro un documento, la
comunicazione della commissione, che in quanto tale non ha nessun valore vincolante per
gli stati membri dell’UE. La comunicazione è tipicamente un atto di indirizzo che
l’esecutivo dà agli stati membri e soprattutto al legislativo, cioè al consiglio dell’UE su certi
temi, ma di per sé la comunicazione non ha nessuna efficacia vincolante, quindi non si può
come tale imporre a nessuno degli stati membri, però è un tentativo di definizione molto
importante, anche perché viene formulata da un ente particolarmente importante.

Cosa dice questa comunicazione? Non parla di paradisi fiscali, parla di giurisdizioni che
realizzano una forma di concorrenza fiscale dannosa, e “sono quelli giurisdizioni in
grado di finanziare i propri servizi pubblici senza prelevare imposte, o imponendo
un’imposta minima sui redditi, e che si offrono come luoghi che i non residenti possono
utilizzare per sfuggire alla tassazione nel loro paese di residenza”. Questa impostazione
che la commissione dell’UE vuole dare al tema, si discosti notevolmente da quella assunta
negli ultimi documenti dall’OCSE. L’OCSE basa principalmente il giudizio su di una
giurisdizione sul suo livello di cooperatività, di trasparenza, l’ocse lascia da parte, almeno
in prima battuta, il profilo della entità della tassazione, qui invece la prima parte di questa
definizione ruota tutta attorno al livello della tassazione, “lo stato che non applica imposte
o applica imposte sui redditi di entità minima”, qui ci si focalizza su quello che è l’aspetto
tradizionale, quello che ci si aspetterebbe maggiormente nella definizione di paradiso
fiscale, cioè il livello della tassazione. Leggendo questo tentativo di definizione, siamo
convinti che non vi sia nessun riferimento alla cooperatività, alla trasparenza? Risposta
studente: L’ultima parte si riferisce alla cooperazione, perché nel momento in cui ci dice
“per sfuggire alla tassazione nel loro paese di residenza”, questo implicitamente ci dice che
se io aprissi una società in South Carolina, e l’Italia andasse a chiedere a questo stato,
informazioni sui miei redditi prodotti laggiù, e l’amministrazione non desse risposta o
addirittura potesse creare una società con azioni al portatore, è chiaro che da una parte io
porto i miei capitali laggiù, e dall’altra parte sfuggo a tassazione nel mio paese di residenza.
Questa è una definizione multipla, che dà principale rilievo, mettendola all’inizio, alla
questione della entità della tassazione nello stato che riceve i capitali o gli investimenti,
ma allo stesso tempo, il fatto che si parli di luoghi che i non residenti possono utilizzare per
sfuggire alla tassazione nel loro paese di residenza, è indicativa del fatto che non si sta
affatto abbandonando il profilo della trasparenza, e tra l’altro tra la prima e la seconda
parte della definizione c'è la congiunzione E, sono due condizioni, quella dell'assenza o
carattere simbolico della tassazione e quello della non cooperatività, sono due fattori che
sono considerati congiuntamente, devono coesistere, perché si possa ricadere in questa

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fattispecie. Ed in effetti non si parla di non trasparenza, di non cooperatività, ma il fatto che
questi stati si pongano come luogo (non a caso evoca il porto, il tax haven), che serve per
sfuggire a tassazione, è evidente che la commissione qui si sta riferendo ad una situazione
di inconoscibilità, e quindi di opacità dell’ordinamento stesso. L’ordinamento protegge
questi investimenti e non consente a nessun’altra giurisdizione, men che meno a quella di
origine dei capitali o di residenza del contribuente, di avere informazioni, di accedere a
queste informazioni. Quindi anche questa definizione della commissione dell’UE mantiene
fermo il profilo della trasparenza, che abbiamo visto essere unico nell’approccio più recente
dell’ocse, ma vi affianca anche quello del livello di tassazione.

Quindi questa comunicazione, siamo nel 2011, iniziava a porsi il problema, sollevava la
questione e nelle intenzioni della commissione, anche coerentemente con quella che è la
funzione istituzionale della commissione, quella di fare proposte normative al consiglio,
nelle intenzioni della commissione c’era proprio quella di sollevare il problema e aprire una
riflessione che auspicabilmente portasse il consiglio a sviluppare una qualche riflessione
sulla necessità o comunque sulla opportunità di introdurre delle liste europee, più che altro,
perché come sempre ci si rendeva conto che altrimenti sarebbero stati gli stati membri in
ordine sparso, ognuno liberamente e autonomamente ad introdurre delle misure, ma come
sempre, specie nel contesto dell’UE, se le misure sono prese senza uniformità, rischiano di
fare più danni di quelli che intendono risolvere. L’idea era quella di cominciare una
riflessione che portasse all’intrapresa, all’avvio di un’azione comune.

Ed infatti, questo suggerimento, questa sollecitazione da parte della commissione europea


ha iniziato a sortire i suoi effetti, perché nel 2015, circa 3 anni dopo, assistiamo ad un
fenomeno che non è ancora l’approvazione di una black list europea, che si è avuta per la
prima volta nel 2017, però nel 2015 c’è un primo passaggio intermedio che è interessante
citare, perché dà un pò il senso delle difficoltà che anche in questo campo l’UE ha a
sviluppare azioni comuni in un contesto nel quale la sovranità degli stati membri è ancora
molo forte. Nel 2015 si ha l’introduzione della c.d. lista paneuropea. Cosa è questa lista,
una black list europea? No, perché la black list avrebbe comportato l’introduzione di criteri
ad hoc, elaborati all’UE, per essere inseriti o meno nella lista nera, e poi la selezione dei
vari stati, che rispondendo a questi criteri, potevano essere introdotti nella lista nera, questo
avrebbe significato costituire una lista nera europea. Ed invece nel 2015 si è fatto qualcosa
di meno, si è costruita una lista, nella quale però gli stati venivano introdotti, non perché
avessero certe caratteristiche scelte, decise dall’UE, ma semplicemente perché erano
considerati stati paradisi fiscali e quindi introdotti nelle black list da un certo numero di
stati membri. Nella lista paneuropea, nella lista nera paneuropea venivano introdotte
quelle giurisdizioni che si trovavano nelle liste nere di almeno 10 stati membri dell’UE.
Si tratta di un primo passo avanti, perché per la prima volta si individua un elenco di stati
che sono ritenuti essere non gigliati, però si rinuncia in questa prima fase ad individuare dei
criteri genuinamente europei per l’inclusione o meno in questa lista e si fa riferimento alle
scelte degli stati membri. Ciascuno stato membro si è dotato di una propria lista con propri
criteri, se un certo stato sta nella lista nera di almeno 10 stati membri, allora
automaticamente viene messo nella lista nera paneuropea. C’è un profilo ancora di un certo
grado di insoddisfazione rispetto a questo atteggiamento, la consapevolezza da parte
dell’UE che ancora si vuole rispettare, non turbare la sovranità degli stati membri, per cui
l’UE rinuncia ad individuare dei criteri che si sovrappongano e prevalgano rispetto a quelli

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degli stati membri, e si rifa alle scelte degli stati membri stessi: ciò che viene considerato
paradiso fiscale da un certo numero significativo di stati membri, allora viene considerato
paradiso fiscale anche dall’UE. L’ottica resta centrata su quella degli stati membri, senza
l’introduzione di criteri propri. Sicuramente è una prima risposta a quella sollecitazione che
era venuta nel 2012 con la comunicazione 351, ma è un primo passo ancora abbastanza
insoddisfacente.

Tra il 2015 e il 2017, tra la lista nera paneuropea, e nel 2017, la prima black list dell’UE,
succede qualcosa che fa improvvisamente cambiare idea, convince della necessità di
un’azione forte, unitaria, e soprattutto autonoma da parte dell’UE, e questo qualcosa è lo
scoppio dello scandalo Panama Papers. Lo scandalo Panama Papers, così come altri
scandali, come WikiLeaks, che si sono susseguiti negli ultimi anni e hanno avuto ad oggetto
frodi importanti di carattere fiscale, è venuto fuori, non a seguito di inchieste, di indagini
dell’amm. finanziaria di uno stato piuttosto che di un altro, ma è venuto fuori sulla stampa,
sono stati degli scandali mediatici, perché certi gruppi, certi consorzi di giornalisti
indipendenti hanno svolto delle indagini approfondite, anche grazie a delle persone che
hanno parlato e hanno rivelato certi segreti. Si è quindi venuti in possesso di documenti, nel
caso Panama Papers, di documenti riservati di questo studio legale, Mossack Fonseca, che
si trovava a Panama, documenti che hanno dimostrato che nonostante gli sforzi dell’OCSE,
nonostante la reazione alla crisi Lehman Brothers, il proclama del 2009 per cui non si
sarebbero più tollerati paradisi fiscali e si sarebbe fatta la guerra ai paradisi fiscali,
nonostante la comunicazione della commissione del 2012, la lista paneuropea, nonostante
tutto questo, certe forme di evasione fiscale internazionale, di pianificazione fiscale
aggressiva, di concorrenza fiscale sleale, continuavano a prosperare e a proliferare. Tra i
documenti che sono emersi, documenti che riguardavano persone fisiche, reali, grandi
imprenditori, ma anche gruppi imprenditoriali, è venuto fuori che il mondo apparentemente
era cambiato, ma quello che accadeva nel sottosuolo era esattamente quello che accadeva
prima. Questo ha fatto scattare una reazione a livello globale, ma anche una reazione
all’interno dell’UE, che ha detto che non si può continuare a navigare a vista, occorre
prendere in mano la situazione.

Quindi finalmente l’UE, sull’onda dell’indignazione suscitata dalla conoscenza di questi


documenti, ha deciso nel 2017 di dotarsi di una lista una propria lista nera, quindi ha
superato l’approccio paneuropeo, ha superato quell’approccio fin troppo rispettoso della
sovranità degli stati, e ha deciso di dare lei, UE, dei criteri che consentissero di distinguere
gli stati buoni dagli stati cattivi, gli stati fiscalmente buoni dagli stati fiscalmente cattivi.
Mettiamo in evidenza un aspetto: questa determinazione, questo intervento dell’UE e i
criteri che l’UE nel 2017 ha posto, sono criteri e posizioni che valgono solo per le
giurisdizioni terze, non per gli stati membri dell’UE. Questa non è una cosa che è passata
sotto traccia, sperando che qualcuno non se ne accorgesse, è stata proprio una scelta
espressa ed espressamente motivata dell’UE, che ha detto che questa lista nera serve per
orientare, indirizzare i rapporti tra l’UE e i suoi stati membri, con gli stati terzi, con le
giurisdizioni terze. Rispetto agli stati membri, dice l’UE, ci sono eventualmente altri
strumenti che potrebbero essere attivati, al fine di scongiurare condotte non conformi ai
parametri di trasparenza e di collaboratività che vengono ora introdotti. In realtà la ragione
vera perché non si includono gli stati membri nella lista nera europea è che altrimenti, col
criterio dell’unanimità, la lista nera europea non sarebbe mai approvata, però di fatto la

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giustificazione è: abbiamo altre carte in mano per combattere i nostri “paradisi fiscali
domestici”. Il caso Apple ha dimostrato che almeno il tentativo è stato fatto, ossia il
tentativo di intercettare delle condotte fiscalmente dannose da parte di alcuni stati membri,
con l’invocazione della disciplina del divieto di aiuti di stato, identificando i ruling dati
dall’Irlanda ad Apple come delle forme di aiuto di stato selettivo, come tale illegittimo.
L’esito che fin qui si è avuto del contenzioso attivato da queste misure di recupero non è
molto lusinghiero, il tribunale dell’UE in prima battuta ha dichiarato che l’atto di recupero
non è legittimo, perché la commissione non avrebbe dimostrato le condizioni per poter
invocare il divieto di aiuti di stato. Adesso la questione è di fronte alla corte di giustizia,
vedremo quello che dirà la corte di giustizia, ma in primo grado c’è stato un pò una forma
di scoffessamento dell’uso di uno strumento non fiscale, il divieto di aiuti di stato, per
intercettare queste forme di concorrenza fiscale sleale, dannosa. Al di là di questo resta che
la scelta espressa e consapevole dell’UE è stata nel senso di costruire una lista nera che
riguardasse soltanto le giurisdizioni terze.

Quindi, rispetto a queste giurisdizioni terze, l’UE ha individuato i criteri per formulare il
giudizio di correttezza fiscale o meno di una giurisdizione, però, prima di andare a vedere
nel dettaglio questi criteri, ha voluto seguire una procedura che apparentemente è un pò
complessa, ma che è interessante, perché è basata sul dialogo costante e preventivo tra le
autorità europee e i governi degli stati in qualche modo “incriminati”. L’idea dell’UE non
è stata quella di dare i criteri, vedere quali stati non rispettano quei criteri e inserire
automaticamente questi stati in lista nera, la scelta è stata un’altra, ossia quella di darsi dei
criteri, identificare in astratto quali giurisdizioni non rispettavano questi criteri, e prima
però di introdurre in lista nera queste giurisdizioni, la scelta è stata quella di aprire un
dialogo con queste giurisdizioni, tentando di far comprendere ai relativi governi quali erano
gli elementi di criticità riscontrati dall’UE, verificando se non ci fosse la possibilità da parte
di questi stati di introdurre dei correttivi, delle riforme, delle modifiche idonee ad evitare
questo aspetto politicamente forte dell’inclusione dello stato in lista nera, e quindi
preservando la correttezza e la bontà dei rapporti tra queste giurisdizioni e l’UE. Una volta
introdotti questi criteri, l’UE ha individuato un numero molto alto di stati che rigorosamente
parlando non rispettavano tutti questi criteri, erano 150, circa 150 all’inizio, ed è chiaro che
non era interesse di nessuno, men che meno dell’UE, fare una lista nera con 150 stati, vuol
dire quasi tutti gli stati di un certo livello del mondo messi in lista nera, ed invece l’idea è
stata quella di aprire un dialogo con queste giurisdizioni. E come è avvenuto questo
dialogo? Questo ha richiesto un dispendio, oltre che di tempo, anche di energie procedurali
molto elevate, cioè l’UE ha aperto un canale di comunicazione singolarmente, uno per
uno, con ciascuno di questi stati, rappresentando specificamente gli elementi di criticità
ravvisati, e quindi cercando di capire se questi stati erano disposti ad adattare, modificare,
o adeguare la propria normativa in modo tale da essere conformi a quanto richiesto dall’UE.
Ed infatti, all’esito di questo processo piuttosto lungo si è arrivati nel dicembre del 2017
alla pubblicazione della prima lista nera europea, dove erano introdotti “solo” 17 Stati,
molti di più di quanti siano oggi gli stati in lista nera dell’OCSE, ma indubbiamente molti
meno rispetto a quella platea di 150 stati che in prima battuta, attraverso un’applicazione
formale, rigorosa dei criteri previsti dall’UE, avrebbero potuto rientrarvi. Quindi di fatto
quali sono gli stati che sono rimasti in lista nera? Sono quelli che pur invitati dall’UE
hanno deciso di non dar corso a questo dialogo, o comunque di non modificare la propria
normativa, le proprie procedure, le proprie istituzioni, evidentemente nella consapevolezza

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di questi stati che avevano più da guadagnare nel rimanere come erano, piuttosto che
nell’adattarsi e nell’essere esclusi dalla lista nera dell’UE, sono stati che hanno pensato che
forse rispetto al flusso di investimenti a cui sono interessati, quello proveniente dall’UE è
secondario e quindi poco importava l’inclusione in lista nera da parte dell’UE.

L’UE ha aggiornato la sua lista nera il 22 febbraio 2021, l’aggiornamento è con cadenza
annuale, e subito dopo anche l’Italia ha aggiornato le sue liste nere, c’è una sorta di osmosi
quasi automatica tra le scelte dell’UE e le scelte degli Stati membri. Attualmente sono 12
gli Stati rimasti in lista nera, 17 erano nel 2017, adesso sono diventati 12, è abbastanza
significativo dare un occhio a quali tipo di stati sono oggi considerati paradisi fiscali
dall’UE, perché danno uno spaccato interessante anche di quelli che sono gli obiettivi
politici che l’UE cerca di perseguire attraverso questa lista nera.

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