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Diritto tributario internazionale Lezione 09-03-2021

Ieri, vi ricordate, ho fatto quel breve pistolotto sull’importanza di festeggiare le donne, sull’importanza
dell’8 marzo, e ieri sera riflettevo su questo tema; non sò se qualcuno di voi si è posto il problema del
possibile ruolo della fiscalità rispetto alla promozione di pari opportunità, o di un trattamento il più
possibile equo tra uomini e donne in qualsiasi contesto. Mi sono posto la questione del se il diritto
tributario possa aiutare in qualche modo questo fenomeno, il tema dell’agendar taxation è un tema che
apparentemente non c’entra niente con quello che stiamo dicendo in queste lezioni del nostro corso, ma in
realtà se andate a spippolare un po’ ci sono documenti dell’OCSE, del Parlamento Europeo che si occupano
di questo tema, spero di poter assegnare a qualcuno di voi un tema di tesi di laurea su questo argomento,
ma secondo voi è una soluzione che ha senso affidare alla fiscalità, e quindi a misure fiscali che possono
essere agevolative piuttosto che penalizzanti rispetto a situazioni che coinvolgono uomini, una delle
soluzioni a questo tema. Scusate, apparentemente non c’entra niente, però questo corso serve anche a
riflettere insieme su alcuni argomenti che comunque coinvolgono la fiscalità e sono di grande attualità; ieri
leggevo qualche articolo che, proprio in occasione della festa della donna, riproponeva il tema della
Tampon tax soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Cosa ne pensate voi di questo?

Intervento studente: il mio dubbio principale è se l’agendar tax è pensata per riequilibrare gli squilibri
rappresentati dal gender pay gap, per esempio una riduzione fiscale per le donne lavoratrici, ecco diciamo il
mio dubbio nell’attribuire questa responsabilità alla fiscalità e al diritto tributario rischia di continuare a
tamponare un problema culturale che invece deve essere affrontato a monte, a mio avviso.

Professore: certo mi sembra una posizione ragionevole. Ecco, quello che a me fa pensare, rispetto a questa
vicenda, rischiamo di mettere sullo stesso piano un’agendar tax, di questo genere, con la sugar tax, le tasse
ambientali che hanno una funzione molto paternalistica, cioè di dire su comportati in un certo modo
perché è giusto comportarsi così, ecco rispetto alla parità di genere questo atteggiamento è da rifiutare,
bisognerebbe partire da un presupposto completamente diverso, per cui ben vengano strumenti che
aiutino a realizzare questo obiettivo, ma, prima ancora della fiscalità, qualcos’altro dovrebbe muoversi.

Riprendiamo il discorso di ieri e anche qui vi faccio una domanda, mi state seguendo? Cioè rispetto alla
lezione di ieri, dove abbiamo iniziato a tirare fuori concetti partendo dal caso di studio e poi cercando di
generalizzare, avete in mente questo profilo che sto provando a seguire? Vi ritrovate?

Vi ricordate di cosa stavamo parlando ieri, introduciamo il tema di qual è l’oggetto del diritto tributario
internazionale e abbiamo detto che sono le fattispecie con elementi di estraneità, quindi fattispecie che
hanno un collegamento con più di un ordinamento statale. Fattispecie con elementi di estraneità che
pongono una serie di problematiche da sempre e, oggi, nel mondo digitalizzato ancora di più perché
pongono il problema: a) per gli Stati di intercettare e di assoggettare ad imposizione queste fattispecie; b)
per gli operatori di essere si assoggettati ad imposizione, ma non in maniera eccessiva, cioè evitando i
fenomeni di doppia imposizione. Abbiamo anche detto che strettamente correlato al tema delle fattispecie
con elementi di estraneità è quello della potestà impositiva ultra-territoriale; perché i due temi sono
collegati? Perché è ovvio che nel momento in cui una certa fattispecie ha un collegamento con più di un
ordinamento, è legittimo che ciascuno degli ordinamenti coinvolti aspiri a sottoporre ad imposizione,
quindi a percepire il gettito, relativo all’applicazione delle proprie imposte, su quella fattispecie. Quindi il
tema della potestà impositiva ultra-territoriale è il primo tema importante del diritto tributario
internazionale perché ci consente di capire se e come ciascuno Stato può pretendere di applicare le sue
norme fiscali ad una fattispecie che non è puramente interna; perché fattispecie puramente interna è ovvio
che il singolo Stato, all’interno del cui territorio si verificano, ha tutto il diritto di applicare le proprie norme
fiscali, mentre rispetto alle fattispecie che sono anche estranee all’ordinamento questo tema non è così
scontato, bisogna individuare quando l’esercizio di questa potestà fiscale è effettivamente legittimata.

Vi ricordate, abbiamo detto: bene, l’evoluzione del diritto tributario internazionale, nel passaggio dai
sistema del sovrano ai sistema costituzionali che fondano l’obbligo di imposta sul principio di contribuzione
alle spese pubbliche, sul principio di solidarietà e uguaglianza sostanziale, ecco questo passaggio ha fatto si
che si affermasse l’idea che un qualunque ordinamento statale non è libero di assoggettare ad imposizione
qualsiasi fattispecie, ma può aspirare ad applicare le proprie norme fiscali solo a quelle fattispecie che
hanno un minimo di collegamento con il suo ordinamento. Quindi non importa che la fattispecie sia tutta
interna, potrebbe anche essere una fattispecie che presenta dei collegamenti con un altro ordinamento,
quello che conta è che almeno un qualche collegamento con l’ordinamento che vuole applicare le proprie
leggi fiscali ci sia. Qui avevamo posto il nostro quesito: ma se il diritto tributario internazionale subordina
l’applicazione delle norme fiscali di uno Stato semplicemente al fatto che sia ravvisabile qualche
collegamento tra la fattispecie e lo Stato, allora perché la Francia, nell’esempio di Google, non decide, visto
che comunque un collegamento tra la fattispecie e la Francia c’è, non decide di assoggettare ad
imposizione quel reddito che si produce in Francia ancorchè poi venga percepito dalla società irlandese
(Google Irlanda limited). La risposta è che non ci sia questa libertà, nel senso che nel tempo nel diritto
tributario internazionale si sono formate dei principi, delle regole non scritte che però in qualche modo si
impongono agli Stati e nel nostro caso queste regole dicono che non basta un qualsiasi collegamento,
comunque definito a livello interno, per affermare che una fattispecie ha un collegamento rilevante tale da
consentire l’applicazione delle norme fiscali interne, ma occorre un collegamento qualificato, un
collegamento caratterizzato in termini di concretezza, effettività, tangibilità. Questo significa che uno Stato
non è libero di dire che secondo lui c’è un collegamento e questo lo legittima ad applicare alla fattispecie le
sue norme fiscali, ma bisogna verificare se sussiste nel caso concreto quel collegamento o quei
collegamenti che nel tempo, nella prassi degli Stati si sono affermati come i collegamenti rilevanti ai fini
dell’esercizio della potestà tributaria.

Vi ricordate, c’eravamo lasciati ieri, al termine di una brevissima disamina diacronica, e c’aveva mostrato
come questi criteri di collegamento, preferibili, si sono evoluti nel tempo, da criteri puramente territoriali,
quindi uno stato può legittimamente assoggettare ad imposizione soltanto quelle fattispecie che si
verificano all’interno del suo territorio rispetto alle quali la fonte del reddito si colloca all’interno del
territorio, verso criteri di collegamento di carattere soggettivo basati sulla residenza fiscale, quindi basta
che il soggetto che percepisce il reddito sia fiscalmente residente nello Stato per assoggettare ad
imposizione quei redditi anche se prodotti fuori dal territorio dello Stato, fino a quelle soluzioni miste, che
sono state di gran lunga preponderanti nei sistemi economici più evoluti fino ad oggi, che vedono applicare
congiuntamente il criterio soggettivo della residenza o il criterio oggettivo della fonte, cioè si applica il
criterio worldwide ai residenti, quindi si tassa il reddito ovunque prodotto nel mondo, mentre per i non
residenti si applica il criterio della fonte, il criterio territoriale, cioè quello per cui se il reddito è prodotto nel
territorio dello Stato allora può essere tassato, altrimenti no. Quindi tutto ha ruotato attorno ai criteri di
residenza, di fonte, e quindi anche di stabile organizzazione, perché le imprese tassano in relazione ai
principi di residenza, ma anche di stabile organizzazione che è in qualche modo la trasposizione del criterio
della fonte nell’ambito del reddito d’impresa. quindi ecco perché, e quindi vengo alla risposta alla domanda
relativa alla Francia, paradossalmente si dice perché la Francia non valorizza quei collegamenti che ci sono
tra la fattispecie e il suo ordinamento per affermare il suo potere fiscale? Perché non può. Perché i
collegamenti che fino ad oggi sono stati ritenuti rilevanti nell’ambito del diritto tributario internazionale,
cioè la residenza, la fonte e la stabile organizzazione sono stati definiti con riferimento ad altre fattispecie,
che niente hanno a che fare con le peculiarità dell’economia digitale, e quindi applicare quei concetti a
questa fattispecie diventa difficile. Ecco che allora tutto il dibattito, di cui si accennava qualche lezione fa,
che sta caratterizzando gli studi, in particolare, dell’OCSE sul concetto di Nexus, il fatto stesso che ci si stia
adoperando per l’individuazione di un nuovo concetto di Nexus dimostra: a) l’urgenza di questa
problematica; b) la difficoltà a superare quelle regole così assodate del diritto tributario internazionale che
sono proprio quelle regole che in qualche modo hanno consentito alle multinazionali digitali di avere dei
vantaggi.

Allora dove sta andando, oggi, il diritto tributario internazionale rispetto a questi criteri di collegamento
tradizionali (residenza, fonte, stabile organizzazione). L’idea, ora vedremo qualche esempio, ma vi anticipo
la mia idea è che il diritto tributario internazionale, nell’era dell’economia ditale, stia tornando verso la
valorizzazione di criteri di tipo oggettivo, quindi di un criterio legato alla territorialità, alla fonte, seppure
caratterizzando quel concetto di territorio e di fonte in modo diverso rispetto al passato; cioè si stanno,
gradualmente, abbandonando criteri puramente soggettivi per ritornare a criteri oggettivi che, però, sono
declinati in modo molto diverso rispetto al passato proprio perché il contesto è diverso da quello che si
affrontava appena qualche decennio fa. Proviamo a fare un esempio di quello che sto dicendo: gli esempi
vengono dalle due proposte di direttiva dell’Unione Europea la 147-148. Prendiamo la proposta di direttiva
147, quella che abbiamo detto riguarda la soluzione a regime, la modifica della nozione di stabile
organizzazione. L’art 4 della proposta introduce il famoso concetto di presenza digitale significativa, cioè il
nuovo concetto che dovrebbe consentire di collegare il reddito di un’impresa ad un certo ordinamento
diverso dall’ordinamento di residenza dell’impresa stessa. Il paragrafo 1 dell’art 4 dice: “ai fini dell’imposta
delle società si considera che sussista una stabile organizzazione se esiste una presenza digitale significativa
attraverso la quale è esercitata, in tutto o in parte, un’attività”. questa definizione è importante,
innanzitutto, perché ci dice che, qui, questo concetto di presenza digitale significativa è un concetto che
non vuole allontanarsi dai concetti tradizionali, anzi si agisce proprio sulla stabile organizzazione, quindi
questo concetto va ad integrare il concetto di stabile organizzazione, e poi si parla di presenza digitale
significativa. Guardate, questo concetto è poi meglio declinato nel comma 3 dell’art 4 dove si dice “si
considera che esista una presenza digitale significativa in uno Stato membro nel corso di un periodo
d’imposta se l’attività svolta attraverso di essa consiste, interamente o in parte, nella fornitura di servizi
digitali tramite un’interfaccia digitale”. Quindi qui sembra dire, guardate la presenza è legata ad un’attività
economica, quindi ad un’attività rispetto alla quale, verosimilmente, potremmo pensare di individuare un
flusso reddituale misurabile, come nella stabile organizzazione, da attribuire poi a questa presenza digitale
significativa. Se però poi continuiamo nel comma 3 dell’art 4, questo dà le condizioni in presenza delle quali
si può ritenere che si sia effettivamente svolta questa attività di carattere digitale. Occorre che
alternativamente ci siano:

a) La parte di ricavi totali, ottenuti nel corso del periodo d’imposta e derivanti dalla fornitura dei
servizi digitali autenti situati nello Stato membro considerato, è superiore a 7 milioni di euro.
b) Il numero di utenti in quello Stato è pari o superiore a 100.000 utenti.
c) Il numero di contratti per la fornitura di servizi digitali, con utenti situati nello Stato membro, è
superiore a 3.

Guardate, qui, si sta provando a lavorare sul concetto e sulla nozione di stabile organizzazione, quindi
sembra che ci poniamo nel contesto tradizionale della fonte, dov’è la fonte dei redditi? Dove sta la stabile
organizzazione? In questo caso dove sta la presenza digitale significativa? E però, la gran parte di questi
criteri non ha minimamente a che fare con un flusso reddituale effettivo, lasciamo perdere il primo criterio
(quello dei ricavi superiori a 7 milioni di euro, che richiama il flusso reddituale anche se i ricavi sono cosa
diversa dai redditi, i ricavi sono al lordo poi ci sono i costi), e concentriamoci su i criteri B e C. Il fatto che in
uno Stato ci sia un certo numero minimo di utenti non significa che da quegli utenti si generino
direttamente dei redditi, gli utenti potrebbe non comprare nulla, le multi-sided platforms di cui parla l’OCSE
sono semplicemente luoghi dove gli utenti si incontrano tra loro senza, magari, comprare niente, e lo stesso
i contratti commerciali possono presupporre indirettamente che poi a seguito del contratto ci sia un flusso
reddituale, ma non è così scontato e soprattutto non è un flusso reddituale che si possa facilmente
quantificare. Quindi qui stiamo agendo sul sistema della stabile organizzazione, quindi si sta tornando ad un
criterio legato alla fonte, ma ad un fonte ben diversa dalle fonti tradizionali dove c’era il negozio, la fabbrica
che produceva e vendeva e dove quindi il flusso reddituale era immediatamente visibile nello svolgimento
di quest’attività, qui semplicemente si sta cercando un qualche collegamento dell’impresa non residente
digitale in un ordinamento, rinunciando però, nella maggior parte dei casi a collegare direttamente a quel
collegamento l’esistenza di un effettivo flusso reddituale, gran parte di questa costruzione ruota intorno
alla presenza degli utenti.

Che si stia superando la concezione tradizionale è confermato in questa stessa proposta di direttiva la 147
dall’art 2 (campo di applicazione) dice” la presente direttiva si applica alle entità, a prescindere dal luogo in
cui risiedono ai fini delle imposte sulle società, che sia in uno Stato membro o in un paese terzo”. Quindi qui
sembra che il criterio della residenza così importante fino a ieri, sia in via di superamento, questo nuovo
criterio di collegamento prescinde dalla residenza, quello che conta è la fonte, ma questa è davvero la fonte
del reddito? Non è detto, è una fonte determinata in modo convenzionale con riferimento alla presenza
degli utenti. Questo profilo lo troviamo ancora più marcato nell’altra proposta di direttiva la 148 che
riguarda la soluzione transitoria, l’imposta sui servizi digitali. L’art 5 (luogo di imposizione) comma 1 ci dice
“ai fini della presente direttiva i ricavi imponibili (ricordatevi che la soluzione transitoria è una forma di
tassazione sui ricavi, quindi a lordo dei costi) ottenuti da un’entità, in un periodo di imposta, sono
considerati ottenuti in uno Stato membro in tale periodo d’imposta se gli utenti di tale servizio imponibile si
trovano in tale Stato membro in detto periodo d’imposta”. Questa è una norma che, se la leggiamo
attentamente, ci fa pensare parecchio a quanto sta mutando il sistema di imposizione rispetto a quanto
siamo abituati. Qui si dice che i ricavi non sono ottenuti, ma sono considerati ottenuti in uno Stato
membro. Cosa significa? Che lo Stato di riferimento è lo Stato della fonte, ma è una fonte che “finta” o
comunque non è necessariamente lo Stato della fonte nel senso tradizionale del termine, cioè lo Stato dove
si origina il flusso di denaro che costituisce la base imponibile, tanto è vero che si dice “sono considerati
ottenuti”, è una finzione, è una sorta di presunzione, e cosa si va a guardare per applicare questa
presunzione? Si va a guardare dove stanno gli utenti. Quindi la presenza dell’utente diventa il marchio
distintivo del collegamento della fattispecie con un certo ordinamento a prescindere se quegli utenti
generino un flusso di ricchezza. Pensate all’ipotesi dell’utente, presente in uno Stato, che partecipa ad una
piattaforma dove non compra niente, dove semplicemente, anche a sua insaputa, conferisce i suoi dati,
questi dati sono profilati ed utilizzati altrove, quindi il flusso reddituale potrà essere altrove, ma questo non
interessa, ciò che interessa è dove sta l’utente. Quindi, qui davvero si tocca con mano quello che dicevo
prima, cioè che in termini di criteri di collegamento e potestà impositiva ultra-territoriale il diritto tributario
internazionale sembra ritornare alle origini e quindi ad una territorialità basata sulla fonte, ma in realtà
proprio perché l’economia digitale rende difficilmente individuabili i concetti di residenza, collocazione
spaziale, di fonte, di valore, in questa incertezza gli ordinamenti mirano ad ottenere il massimo risultato
con il minimo sforzo. Cioè siccome è impossibile andare a calcolare quanto effettivamente, del reddito
globale delle nazionali digitali, deriva dall’utente x nello Stato A o dall’utente y nello Stato B, si fa una cosa
più semplice, cioè si ripartisce il reddito globalmente creato da queste multinazionali tra i vari Stati
proporzionalmente al numero degli utenti che ci sono nei vari Stati (es reddito globale 100, se nello Stato A
ci sono 20 utenti il 20 % sarà riterrà tassabile in quello Stato, se nello Stato B gli utenti sono 30, il 30% si
allocherà in quello Stato e così via, a prescindere da una verifica puntuale se davvero 20 di quei 100
derivano dagli utenti dello Stato A o se 30 di quei 100 derivano dagli utenti dello Stato B). quindi siamo in
un contesto di grande mutamento, però il campo continua ad essere delimitato dai criteri tradizionali, si sta
modificando l’approccio rispetto ai criteri tradizionali. È per questo che è ancora importante, ancora oggi, in
un corso di diritto tributario internazionale che pure ruota, come il nostro, attorno all’economia digitale,
affrontare la definizione di residenza, di residenza fiscale, stabile organizzazione, perché sono concetti che
ancora oggi il diritto tributario internazionale ritiene centrali, ritiene rilevanti, solo che il problema su cui ci
si sta dibattendo è su come adattare questi concetti ad un contesto mutato.
Quello che vi ho detto fino ad ora era nelle slide che vi ho già caricato ieri ed era quello che dicevamo
prima, cioè la crisi della residenza, la proposta di direttiva 147 e la proposta di direttiva 148.

Adesso invece andiamo al tema/i della lezione odierna, quindi criteri di collegamento che servono per
limitare la potesta impositiva del singolo Stato rispetto a fattispecie non unicamente interne, importanza
dei criteri di collegamento della residenza, di cui parleremo oggi, e della stabile organizzazione di cui
parleremo settimana prossima, che naturalmente devono essere introdotti secondo l’impostazione
tradizionale vista alla luce delle modifiche che sono in corso. Oggi, sulla residenza qualcosa già conoscerete
perché in particolare sulla residenza fiscale delle società, anche in chiave internazionale, qualcosa abbiamo
già detto nel corso di diritto tributario, ma naturalmente andremo più a fondo nella nostra lezione. La
residenza, avete visto, è un concetto che per certi aspetti appare un po’ in crisi, l’art 2 della proposta di
direttiva 147 sembra dire che la residenza non ci interessa più, ma dall’altra parte il modo con cui viene
ricostruita, attualmente, la residenza è qualcosa che le multinazionali digitali conoscono bene e hanno
provato a utilizzare anche a proprio favore nelle forme di pianificazione fiscale. Nel nostro caso Google,
insomma quel passaggio da Stati Uniti ad Irlanda, Google Irlanda Holding con sede legale in Irlanda, ma
sede dell’amministrazione a Bermuda è un passaggio fondamentale per un buon esito in termini di resa
fiscale, in termini di risparmio d’imposta dell’intera catena, perché se non ci fosse questo passaggio che
sfrutta la normativa interna irlandese, e quindi il fatto per l’Irlanda la residenza di una società sta dov’è la
sede dell’amministrazione, se non ci fosse questa possibilità è ovvio che avremmo una resa fiscale diversa
dell’operazione, sempre conveniente rispetto all’imposta sulle società dei paesi come gli Stati Uniti, ma
sicuramente meno appetibile rispetto al caso della collocazione presso le bermuda.

Vediamo il concetto di residenza

La residenza è il principale criterio di collegamento soggettivo perché è un collegamento che riguarda il


soggetto d’imposta (persona fisica o impresa) e si disinteressa di dove si colloca l’oggetto della pretesa
impositiva (la base imponibile), il criterio soggettivo fa si che lo Stato di residenza del soggetto possa
legittimamente assoggettare ad imposizione i redditi posseduti da quel soggetto residente ovunque essi si
collochino nel mondo. È ovvio che il tema della residenza e quindi il tema del come si attribuisce la
residenza e quindi quali criteri di collegamento tra un ente ed uno Stato devono essere valorizzati perché si
possa dire che quell’ente è fiscalmente residente in uno Stato, può essere, in teoria, risolto con due
approcci diversi:

- Approccio formale: mi disinteresso relativamente a dove agisce l’ente/società e guardo al dato


costitutivo. Cioè secondo quali leggi è stata costituita la società e quindi conseguentemente dove si
trova la sede legale. Il dato formale (sede legale) consente di attribuire a quel paese dove c’è la
sede legale la residenza fiscale e quindi la piena applicazione delle norme fiscali interne secondo il
principio del worldwide. Questo della sede legale è un criterio diffuso soprattutto nei sistemi
anglosassoni, regno unito/Stati Uniti, sono storicamente Stati esportatori di capitale, è ovvio che
l’interesse dello Stato era quello di mantenere il più possibile il controllo e quindi la tassazione sui
redditi che pure questi soggetti producevano ovunque nel mondo. Quindi l’idea era di valorizzare la
sede legale e disinteressiamoci di dove queste imprese vadano effettivamente ad operare e quindi
a generare i loro redditi.
- Approccio sostanziale: secondo questi approcci non interessa la sede legale, ma interessa la sede
effettiva, cioè dove effettivamente l’impresa opera, ha la sua effettiva organizzazione (la teoria
della sede reale “real seat theory” tipica dei sistemi continentali, in particolare la Germania, per
certi aspetti anche l’Italia). È chiaro che, però, ogni Stato è in prima battuta libero di definire quali
sono i collegamenti rilevanti ai fini dell’attribuzione della residenza fiscale, quindi il Regno Unito si è
sentito libero di utilizzare criteri formali (sede legale), la Germania si è sentita libera di valorizzare
criteri di carattere sostanziale (sede effettiva).
Quindi, in prima battuta, il collegamento è rimesso alla scelta del legislatore nazionale. Questo profilo noi lo
troviamo, in qualche modo cristallizzato, nell’art 4 modello OCSE che al comma 1 dice che residente di uno
Stato contraente significa “ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è ivi assoggettata ad
imposta a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione o di ogni altro criterio
di natura analoga”. Quindi il modello OCSE dice che in prima battuta sono gli Stati liberi di determinare
quando sussiste quel collegamento, formale o sostanziale, che è il presupposto per l’attribuzione delle
residenza fiscale.

Apriamo una parentesi con riferimento al modello OCSE. Chi di voi conosce il modello OCSE? Il modello
OCSE è un modello di convenzione internazionale contro le doppie imposizioni, cioè l’OCSE, ad un certo
punto, ha deciso di redigere un modello di convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni; quindi, un
modello che gli Stati desiderosi di concludere tra di loro una convenzione di questo genere potessero
prendere a riferimento per negoziarne termini, quindi senza dover riscrivere la convenzione da zero. Quindi
il modello OCSE è il riferimento di un gran numero di convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni,
che sono delle convenzioni internazionali che gli Stati possono concludere fra di loro per ripartirsi la potestà
impositiva rispetto a fattispecie con elementi di estraneità, per evitare sia la doppia imposizione, sia doppia
non imposizione, qualcuno tassa, almeno uno tassa, ma non tutti e due.

Nel mondo c’è un network di convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni enorme, oltre 3000,
avremo modo di parlarne quando parleremo delle fonti del diritto tributario internazionale, però insomma
il modello OCSE che è il modello di riferimento di queste convenzioni è qualcosa di importante. Quando
parleremo del modello OCSE il più delle volte staremo parlando di tutte le convenzioni bilaterali realmente
esistenti che si rifanno al modello OCSE. Quindi l’art 4 del modello OCSE lo ritroviamo, con qualche
modifica, in tantissime convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni. L’art 4, che si occupa della
residenza fiscale, ci dice che in prima battuta spetta alla legislazione del singolo Stato attribuire la residenza
fiscale. Quindi, il primo step fondamentale per ricostruire una certa fattispecie è guardare come il singolo
ordinamento coinvolto ricostruisce la nozione di residenza fiscale. Voi vi ricordate come l’Italia ricostruisce
la nozione di residenza fiscale delle persone giuridiche all’art 73 TUIR. Quest’ultimo definisce un ente
societario residente fiscalmente in Italia quando, per la maggior parte del periodo di imposta, in Italia si
colloca o la sede legale, o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale. Basta la presenza di uno di
queste tre criteri per radicare la residenza fiscale in Italia purchè questo criterio sia presente in Italia per la
maggior parte del periodo di imposta. Il tema, al di là del profilo temporale, è piuttosto cosa significano
sede legale, sede dell’amministrazione e oggetto principale. Come ci dice l’art 4 paragrafo 1 del modello
OCSE sono elementi di collegamento che sceglie il singolo Stato e che quindi dovranno trovare in prima
battuta una definizione nella normativa di quello Stato. Ecco, l’Italia è un po' un caso ibrido tra i due grandi
sistemi (formale o sostanziale) perché in realtà mette sullo stesso piano sia un criterio formale (la sede
legale) sia i criteri sostanziali (la sede dell’amministrazione e l’oggetto principale) secondo l’ottica tipica del
sistema fiscale che ambisce ad allargare il più possibile l’ambito di applicazione delle proprie norme fiscali e
quindi ambisce a rendere il più ampio possibile il proprio concetto di residenza fiscale diciamo comprende
tutto, ma con una differenza: la sede legale costituisce una sorta di presunzione assoluta, se una società ha
sede legale in Italia, per la maggior parte del periodo di imposta, è molto difficile sfuggire dalla
conseguenza di essere considerata fiscalmente residente in Italia per quel periodo d’imposta, perché
qualsiasi prova contraria si scontra contro il dato formale della sede legale in Italia; mentre invece il
contrario, cioè il fatto che una società abbia la sede legale in un altro Stato, non costituisce ragione per
negare a priori il fatto che quella società sia considerata fiscalmente residente in Italia perché se
l’amministrazione finanziaria prova che la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale sono in Italia per
la maggior parte del periodo d’imposta, la sede legale all’estero non ha nessun significato e quindi
l’ordinamento italiano sarà libero di considerare quella società fiscalmente residente e quindi
assoggettarla, secondo il principio worldwide, alle proprie norme fiscali.
Facciamo qualche considerazione con riferimento al criterio dell’oggetto principale e al criterio della sede
all’amministrazione. Sono concetti che in qualche modo voi conoscete già, ma che, in questa sede, ha
senso richiamare perché ormai sono tante le situazioni che, poi sono stato oggetto di giurisprudenza, hanno
avuto ad oggetto la residenza fiscale, la residenza effettiva e che quindi chiamano in causa il rapporto tra
questa definizione di fonte domestica italiana con altri ordinamenti con cui magari la stessa società
presenta altri collegamenti (es caso della società costituita secondo le leggi di un altro paese, ad esempio
del Lussemburgo, e quindi ha sede legale in Olanda, ma che l’amministrazione finanziaria italiana ritiene
fiscalmente residente valorizzando criteri di carattere sostanziale (oggetto principale o sede
dell’amministrazione). L’oggetto principale trova una sua definizione nell’art 73 TUIR perché questa norma
ci dice che per ricostruire l’oggetto principale si deve andare a guardare ciò che emerge dalla legge,
dall’atto costitutivo o dallo statuto, però lasciando libera l’amministrazione finanziaria laddove le
indicazioni previste dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto non siano univoche, di far prevalere
ancora una volta il profilo della sostanza sulla forma; quindi, se al di là di quello che indicano la legge, l’atto
costitutivo o lo statuto, l’attività in concreto dell’ente si svolge in Italia, allora potrà prevalere la sostanza
sulla forma e si potrà ritenere che l’oggetto principale, di quella società, sta in Italia. Naturalmente sembra
tutto facile, ma il problema è che cosa significa “attività tipica” dell’impresa, questione non affatto
semplice. Facciamo l’esempio della società della società che produce e vende, cioè ha uno stabilimento
produttivo in uno Stato e vende in altri Stati. Dov’è l’attività tipica? Potrebbe essere la produzione perché
senza la produzione non potrebbe esserci la commercializzazione, ma potrebbe essere la
commercializzazione; quindi seguendo l’attività produttiva si dovrebbe collocare l’oggetto principale in un
certo ordinamento, seguendo l’attività commerciale o amministrativa potremmo orientarci nel collocare
l’oggetto principale in un diverso ordinamento. Quindi un concetto definito dalla legge, a livello pratico,
desta qualche difficoltà; e pensate quante più difficoltà ci sono con riferimento ad un’impresa digitale, cioè
un’impresa che il più delle volte non ha sede legale in Italia (es Netflix) l’amministrazione potrebbe
controllare se ha l’oggetto principale è in Italia, allora qui è assolutamente sfuggente la ricostruzione di
quale sia l’oggetto principale di Netflix, beh in prima battuta si può dire che l’oggetto principale sta dove
vengono conservati tutti quei file che poi vengono scelti dall’abbonato e poi vengono scaricati sul suo
dispositivo e chissà dove vengono conservati questi file (probabilmente non in Italia); allora guardiamo gli
utenti, ma dire che l’oggetto principale sta in Italia è difficile.

Molto problematico è anche l’ultimo criterio e cioè quello della sede dell’amministrazione. perché?
Continuando con l’esempio italiano nell’art 73 TUIR noi non troviamo una definizione di sede
dell’amministrazione, la si dà per scontata, ma la si dà per scontata rispetto ad un concetto che è tutt’altro
che scontato. Se ci pensate bene la sede dell’amministrazione può essere:

a) sede amministrativa, cioè dove stanno i dipendenti, dove stanno gli uffici, dove viene gestita
quotidianamente l’attività quotidiana;
b) b) sede dell’alta amministrazione, cioè di dove vengono assunte le decisioni.

Qui, la prassi e anche la giurisprudenza italiana, rispetto a questo concetto, hanno dato nel tempo tante
soluzioni diverse, spesso anche difficilmente conciliabili. Per esempio è stato detto che conta dove sta la
struttura organizzativa, quindi conta dove stanno coloro che svolgono quelle attività che servono per far
funzionare giorno dopo giorno la società, con la conseguenza che se l’amministrazione fiscale italiana trova
in Italia dei dipendenti di una società italiana che svolgono dall’Italia le funzioni amministrative per la
società controllata che sta in un altro Stato, allora si può dire che in realtà l’amministrazione di quella
società si trova in Italia; in altri casi, quelli dove la società con sede legale in altro Stato aveva dei dipendenti
laggiù in quello Stato che effettivamente svolgevano le attività di amministrazione quotidiana, quello che è
stato valorizzato è stato il livello superiore, cioè il livello delle decisioni; cioè gli amministratori della società
controllata olandese, che pur stanno in olanda, in realtà non decidono niente perché le direttive venivano
mandate dall’Italia. Fino a quella prassi dell’amministrazione finanziaria, che è stata oggetto della sentenza
Dolce&Gabbana della Cassazione penale del 2015, che diceva: non importa dove stanno i dipendenti che
gestiscono quotidianamente la società, non importa dove stanno gli amministratori che magari all’estero si
riuniscono anche e prendono le decisioni, ma conta da dove partono gli impulsi volitivi, cioè da dove
partono quelle indicazioni che in qualche modo gli amministratori devono tradurre in pratica, con la
conseguenza che, sulla base di questo orientamento, gli impulsi volitivi provengono sempre dal luogo in cui
sta il proprietario della società, quindi dove stanno i soci, i soci italiani di una società estera ancorchè
gestita all’estero e ancorchè amministrata all’estero è ovvio che stando in Italia le decisioni fondamentali le
matureranno in Italia e quindi, secondo il criterio degli impulsi volitivi, qualsiasi società i cui soci sono
italiani è automaticamente da ricondursi alla residenza italiana perché in Italia ci sarebbe la sede
dell’amministrazione. Su questo la Dolce&Gabbana, sebbene nel contesto di un giudizio penale, ha
sostenuto che questo, almeno nel contesto dell’UE, non può essere perché dire che tutte le società,
ovunque costituite e ovunque operanti, per il solo fatto di avere soci italiani sono amministrate dall’Italia,
significa ostacolare la libera circolazione delle società, dei capitali perché un socio italiano non sarà libero di
impiantare una società in un altro Stato per il timore di vedersi contestata l’esterovestizione della società,
cioè il fatto che quella società apparentemente estera è in realtà una società residente in Italia. Quindi, qui,
venivano in considerazione le libertà fondamentali e il contrasto di questo indirizzo con i principi dell’UE.

Ma c’è un’altra questione che rende, almeno dal punto di vista dell’ordinamento italiano, così complicata la
questione della collocazione della sede dell’amministrazione, ed è questa: quando l’amministrazione
finanziaria ricorre al criterio della sede dell’amministrazione vuol dire che siamo in presenza di una società
che ha la sua sede legale in un altro Stato perché se la sede legale fosse in Italia non ci sarebbe bisogno di
nessun discussione, basta quella, mentre se si deve andare a verificare dove sta la sede
dell’amministrazione è perché la sede legale sta in altro Stato e quindi è necessario vedere se il dato
sostanziale prevale sul dato formale. Questo vuol dire che quando si discute di sede dell’amministrazione
vuol dire che siamo in presenza davvero di una fattispecie con elementi di estraneità, cioè di società che è
costituita (es Olanda, Lussemburgo, ecc) e quindi riconosciuta come tale dall’ordinamento in base alle cui
leggi è stata costituita e che però l’amministrazione finanziaria italiana ritiene che possa essere considerata
residente in Italia perché presenta un collegamento, sub-specie di sede dell’amministrazione, con l’Italia. E
allora, la difficoltà qui sta nel fatto che l’amministrazione italiana così come in realtà tante amministrazioni
dei singoli Stati assumono un atteggiamento molto pragmatico e anche utilitaristico, dicono: “io valorizzo il
collegamento che verifico in Italia tra quella società e l’ordinamento italiano, che siano i soci, che siano le
direttive mandate all’amministratori dell’altra società, c’è un collegamento e mi basta questo per affermare
la residenza fiscale in Italia di quella società”; quando invece, trattandosi di una fattispecie con elementi di
estraneità, andrebbe prima ancora valutata l’intensità dei rapporti e dei collegamenti che quella società ha
con lo Stato di incorporazione (stato nel quale si colloca la sede legale) perché l’idea della sede
dell’amministrazione valutata unilateralmente (dal singolo Stato) nasconde il pregiudizio che la sede legale
non conta, che occorre guardare la sostanza, ma non è vero automaticamente, correggetemi se sbaglio, che
se una società ha sede legale in uno Stato non ci possano essere anche criteri sostanziali che collegano
quella stessa società con quello Stato; quindi la valutazione dovrebbe essere sempre fatta bilateralmente,
cioè raccolgo dei dati in Italia che mi mostrano un qualche tipo di collegamento qualificato tra la società e
l’Italia, ma poi li confronto con i dati ulteriori rispetto alla sfera sede legale che indicano il collegamento di
quella società nell’altro ordinamento e poi faccio un bilanciamento e dove stanno i collegamenti più stretti
e più pesanti allora li ci sarà la residenza fiscale; ecco questo manca in quasi tutte le amministrazioni fiscali
che ovviamente tirano acqua al loro mulino per cui l’obiettivo è ricondurre a residenza fiscale in Italia il
maggior numero di soggetti accontentandomi di valutare solo gli elementi di collegamento che trovo in
Italia. Ma la residenza è, invece, un concetto che, in casi come questi, deve essere valutato bilateralmente e
da qui l’importanza del ricorso allo scambio di informazioni, quindi nel momento in cui io (amministrazione)
trovo in Italia alcuni elementi di collegamento busserò alla porta dei miei colleghi nell’altro Stato dicendo:
“io ho trovato questo, fai delle verifiche per vedere cosa trovi tu”? se poi troviamo che quella società ha
solo una scrivania, un numero di telefono e non fa nient’altro, allora sarò legittimato a ritenere che la sede
dell’amministrazione è in Italia, ma se invece trovo che la società opera, ha collegamenti, rapporti bancari,
ecc, allora il ragionamento dovrà essere più approfondito. Tutto questo, però, non accade e questo è uno
dei motivo per cui l’art 4 del modello OCSE, dove aver detto che ogni Stato decide secondo le proprie
norme, si è posto anche il problema di come risolvere quelle situazioni, estremamente numerose proprio
sulla base di quell’atteggiamento che vi stavo dicendo, nelle quali tutti e due gli Stati pretendono di
attribuire la residenza fiscale, secondo le proprie norme, allo stesso ente e conseguentemente ad applicare,
secondo il principio worldwide, al reddito di quell’ente le proprie norme fiscali e quindi realizzando una
fattispecie di doppia imposizione.

Prima, però, di far questo, cioè di andare a vedere come il modello OCSE e quindi le convenzioni bilaterali
contro le doppie imposizioni mirano a risolvere questo problema, concludiamo questo piccolo excursus
sulla normativa italiana ricordando la presunzione di esterovestizione che, oggi, ritroviamo nel comma 5 bis
dell’art 73 TUIR, quella presunzione che consente un’inversione dell’onere della prova per cui, mentre in
condizione ordinaria a fronte di una società che ha sede legale in un altro Stato la prova che l’oggetto
principale o la sede dell’amministrazione deve essere data dall’amministrazione finanziaria,
l’amministrazione dovrà soltanto dimostrare che sussistono le condizioni previste dalla norma per far
scattare la presunzione e spetterà invece al contribuente dimostrare il contrario. Cose molto rapide su
questo perché ripeto sono temi su cui ci siamo già soffermati nel corso di diritto tributario, la presunzione
di esterovestizione riguarda solo il criterio della sede dell’amministrazione, quindi la norma dice “si ritiene
che sia in Italia la sede dell’amministrazione se…”, quindi riguarda la residenza ma non tutta la definizione
di residenza (solo la sede dell’amministrazione) e vi ricordate i due casi: a) quello nel quale la società
costituita in uno Stato controlla una società italiana ed è a sua volta controllata da una società straniera; b)
quella nella quale la società straniera controlla una società italiana ed, a prescindere da chi la controlli, è
costituita da un consiglio di amministrazione costituito in prevalenza da soggetti residenti in Italia.

Proviamo ad applicare questa regola della presunzione al nostro caso Google, secondo voi da qualche parte
una presunzione di questo genere servirebbe?

Studente: sicuramente nei rapporti tra Irlanda e Olanda.

Professore: esatto. Abbiamo proprio il panino che è quello dei primi due casi del nostro comma 5 bis
(Irlanda-Olanda-Irlanda) e l’Italia direbbe: “che cosa ci sta a fare l’olandese?” per me l’olandese è residente
in Italia e in questo caso sarebbe residente in Irlanda e questo avrebbe delle conseguenze importanti su
questa situazione. Invece, una presunzione di questo genere in Irlanda non c’è, comunque in Italia è
sempre un presunzione relativa e quindi è sempre ammessa la prova contraria, e quindi questo non opera,
però questo è un caso dove un presunzione di questo genere potrebbe servire. Quindi qui finisce l’excursus
sull’ordinamento italiano, se fossimo dei fiscalisti bravi dovremmo farlo per tutte le giurisdizione del mondo
per avere chiaro come ogni Stato attribuisce, secondo le proprie norme interne, la residenza fiscale perché
questo è importante, rispetto alle fattispecie con elementi di estraneità, per capire chi considera residente
cosa e anche l’art 4 del modello OCSE ce lo dice.

Sennonchè siccome a) ciascuno Stato applica le proprie norme senza tener conto delle norme degli altri
Stati; b) tendenzialmente l’applicazione, in concreto, delle norme sulla residenza viene fatta in modo
unilaterale, quindi guardando gli elementi in fatto che si ritrovano all’interno dell’ordinamento senza
confrontarli con quelli che riguardano la stessa società e che si possono trovare in un altro ordinamento,
questo riferimento, alla normativa interna dei singoli Stati ai fini dell’attribuzione della residenza, porta con
se, in molti casi, situazioni di conflitto di residenza, quello che viene definito il conflitto positivo di
residenza, cioè i due diversi ordinamenti ritengono, ognuno legittimamente per parte propria, che quella
società sia propria residente e i suoi redditi debbano essere tassati worldwide secondo le norme fiscali
interne. Allora, siccome il modello OCSE si chiamava, fino ad ieri, modello OCSE di convenzione bilaterale
contro le doppie imposizioni, è chiaro che l’obiettivo tradizionale era proprio quello di consentire ai due
Stati, che concludessero una convenzione bilaterale ispirata al modello, di ripartirsi le competenze in modo
da evitare la doppia imposizione. Quindi è ovvio che l’art 4, in tema di residenza, affronta questo tema,
della doppia residenza, e cerca di dare una soluzione; perché se si ammettesse, come cosa normale, che
una società può essere considerata residente sia nello Stato A sia nello Stato B, si ammetterebbe la doppia
imposizione. Il fatto che tutti e due gli Stati la considerino residente significa che tutti e due gli Stati
legittimamente assoggettano ad imposizione il reddito di quella società.

(Piccolissima parentesi: dicevo che fino a ieri si chiamava modello OCSE contro le doppie imposizioni perché
oggi, dopo le modifiche che sono che state introdotte a seguito dei lavori del BEX, si è detto la convezione si
deve evitare la doppia imposizione, ma non deve nemmeno diventare uno strumento per realizzare doppie
non imposizioni).

Il modello OCSE prevede, per le società, quella che viene definita la tie-breaker rule, cioè una regola che
serve proprio, ai fini della convenzione, per risolvere questa situazione di impasse, cioè una situazione nella
quale una stessa società è considerata fiscalmente residente, sulla base delle norme interne, sia dallo Stato
A sia dallo Stato B. E il comma 3, nella versione ante 2017 perché vedremo che questa disposizione è
cambiata in quell’anno, diceva “quando, in base alle disposizioni precedenti, una persona diversa da una
persona fisica (quindi di fatto una società) è residente di entrambi gli Stati contraenti, si ritiene che essa è
residente solo dello Stato in cui si trova la sua direzione effettiva “place of effective management”. Qui la
scelta che era stata fatta dal modello OCSE era quella di introdurre una tie-breaker rule che
tendenzialmente doveva essere decisiva, cioè si diceva la sede della direzione può essere in tante parti, ma
la sede di direzione effettiva, cioè quella in cui vengono prese le decisioni strategiche dell’impresa
tendenzialmente sta in un posto solo e attraverso questa soluzione si risolvevano i problemi perché è un
criterio univoco. Che cosa significa? Non è che questa tie-breaker rule si sostituisce alle norme interne dei
due Stati, però l’idea è che ai fini della risoluzione dei casi di doppia imposizione solo uno dei due Stati
potrà legittimamente ritenere propria residente quella società.

Il problema qual è? Il problema è che il modello OCSE non dà una definizione di “place of effective
management”, sembra quasi ritornare quella problematica dell’ordinamento italiano della tesi della sede
dell’amministrazione. Cioè quali sono gli elementi che caratterizzano il place of effective management?

In questo caso, come in tanti altri casi che riguardano l’applicazione del modello OCSE, ci aiuta il
commentario al modello OCSE. quest’ultimo aiuta a comprendere cosa significano le norme del modello
OCSE e soprattutto qual è l’ambito di applicazione del modello OCSE. la prima edizione del modello OCSE è
stata approvata dall’OCSE nel 1963, quasi 60 anni fa, nel tempo, quando si doveva adattare il modello OCSE
al mutato contesto economico-mondiale, il più delle volte si è ritenuto non di modificare la norma del
modello, ma di andare a riscrivere il diverso ambito applicativo dentro il commentario. Quindi nel
commentario troviamo anche una serie di fattispecie alle quali, secondo l’OCSE, le norme del modello,
ancorchè scritte in un momento in cui quelle fattispecie ancora non erano venute ad esistenza, si devono
applicare (es il tema del server). Qui poi si pone il tema, che non affrontiamo oggi ma che semplicemente vi
lascio li, dell’efficacia giuridica del commentario. Il commentario accompagna il modello OCSE, gli Stati
vanno a concludere delle convezioni bilaterali ricalcando il modello OCSE, il commentario, che riguarda il
modello, vale come strumento interpretativo della singola convenzione conclusa sulla base del modello
OCSE oppure no? Questo è un tema che riguarda l’interpretazione dei trattati e ce ne occuperemo più
avanti.

Il commentario è qualcosa di interessante perché, rispetto al tema del place of effective management, aiuta
a specificare quali sono le caratteristiche di questo concetto che non trova una sua definizione all’interno
dell’art 4. Qui il commentario, nella versione antecedente al 2017, dava una serie di indicazioni di possibili
criteri idonei a collocare il place of effective management dando prevalenza a fattori di collegamento di
tipo sostanziale (il vecchio paragrafo 22 diceva “non sarebbe soluzione adeguata attribuire importanza ad
un criterio puramente formale come quello del luogo di registrazione (sede legale)”, e ancora il paragrafo
24 diceva “è importante il luogo nel quale si assumono in sostanza le decisioni chiave manageriali e
commerciali necessarie alla conduzione dell’impresa nel suo complesso”). Quindi un riferimento
all’altissima amministrazione, niente a che fare con l’amministrazione rutinaria, con l’amministrazione day
by day, ma la realtà delle decisioni strategiche fondamentali. Però, sostanzialmente, l’idea era che si
lasciavano gli Stati liberi di negoziare questi elementi prendendo in considerazione, diceva il paragrafo 24,
tutti i fatti e le circostanze rilevanti necessarie per determinare il luogo di direzione effettiva. Capite che, in
questa definizione si annidano una serie di incertezze che sono proprie quelle che, attraverso questa tie-
breaker rule, l’OCSE mirava ad eliminare. Questo perché? Quando si dice che gli Stati devono prendere in
considerazione tutti i fatti e le circostanze rilevanti significa che neanche il commentario riesce a delimitare
con chiarezza dove si collochi e come si definisca il place of effective management, ma è un apprezzamento
in fatto e quindi continua a scontare tutte quelle problematiche che noi abbiamo già analizzato con
riferimento alla sede dell’amministrazione italiana. Perché il tema è: chi è che deve valutare dove sta il
place of effective management? Tendenzialmente il singolo Stato, cioè lo Stato che vuole attribuire la
residenza fiscale ad una società, alla quale l’altro Stato vuole attribuire allo stesso modo la residenza fiscale,
deve valutare dove sta il place of effective management e lo farà in modo unilaterale e allora
tendenzialmente sarà portato a effettuare questa valutazione, che pure dovrebbe essere oggettiva sulla
base della convenzione, con le stesse problematiche con cui in Italia si determina la sede
dell’amministrazione e quindi questo significa che il place of effective management non è un criterio
univoco, ma è qualcosa che rischia di non risolvere la doppia imposizione. Allora qual è la soluzione? La
soluzione non scritta era che, laddove il place of effective management non consentisse di determinare in
modo univoco dove si colloca la residenza fiscale, vi fosse un obbligo da parte dei due stati di negoziare tra
loro, attraverso lo strumento della procedura amichevole (altro strumento previsto dalle convenzioni
contro le doppie imposizioni) per decidere dove si colloca il place of effective management. Con una
complicazione non da poco, le procedure amichevoli impongono agli Stati solo un obbligo di mezzi, non un
obbligo di risultato; quindi, l’obbligo di negoziare tra di loro, ma se non trovano l’accordo non c’è qualcosa
che li costringa a trovare una soluzione. Quindi in questo sistema, ante 2017, il place of effective
management immaginato come criterio decisivo non lo era affatto e il rimedio, cioè la procedura
amichevole, rischiava di non portare, effettivamente, ad una soluzione. Allora, nel 2017, anche dopo i lavori
del BEX, l’OCSE è tornata modificando direttamente il modello OCSE e cioè ha modificato la tie-breaker rule
dell’art 4 delle persone giuridiche nei termini che vedremo lunedì, ma tendenzialmente eliminando il
riferimento privilegiato al place of effective management e dicendo che la soluzione è il negozio tra gli Stati
(cioè si toglie la tie-breaker rule, si mette in primo piano la procedura amichevole, ma resta il problema che
la procedura amichevole non necessariamente risolve il problema).

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