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14 Maggio 2021

Lezione 10 Maggio 2021

Diritto Tributario Internazionale

Oggi completiamo la trattazione delle clausole generali anti abuso.



La settimana scorsa ci stavamo occupando della clausola generale anti abuso,
prevista nel progetto BEPS, ed oggi contenuta nell’art 7 del multilateral instrument e
nell’art 29 del Modello OCSE (del 2017). Questa disposizione fa propria la teoria del
Principal Porpouse Test (PPT), anche se l’OCSE ritiene che questo sia un minimum
standard che non esclude che gli Stati possano prevedere clausole generali anti
abuso che abbiano una connotazione diversa da quella della PPT.

La clausola PPT è de nita nel modello OCSE, come vediamo, ha un incipit
particolare poiché fa riferimento al “nonostante le altre disposizioni della
convenzione”; si tratta di una clausola di compatibilità che da il senso di questa
clausola anti abuso che, nell’ottica dell’OCSE, deve applicarsi nonostante le altre
disposizioni. Questa disposizione è vista in una ottica privilegiata in ottica della sua
funzione di evitare fenomeni di appro ttamento, nei quali si crea una fattispecie per
garantirsi un trattamento speciale dato dalla convenzione in assenza delle
condizioni sostanziali che la caratterizzano. Questa clausola serve proprio a
sottolineare questa impossibilità a sfruttare per ni abusivi le clausole di una
convenzione. Nella sostanza la clausola ha un suo esito che consiste, come
vediamo nella prima e nella seconda riga, nel fatto che il trattamento favorevole che
le parti volevano realizzare non si applica. Questa è una regolamentazione che si
ferma al lato destroens della disciplina, la norma si limita a dire ciò che non si
applica: non si applica la norma che è oggetto di elusione. Cosa si applica una volta
che la clausola è stata cancellata non è detto, questa individuazione è lasciata
all’interprete nazionale. Se la clausola è applicata si nega il vantaggio previsto dalle
singole disposizioni applicate, poi si tratta di capire quando questa norma si applica
e in presenza di che condizioni sostanziali si può giungere a questo esito di
disconoscimento degli e etti sostanziali di una disposizione.

Qualche ri essione deve essere fatta perché la norma ci dice, al terzo rigo, che la
convenzione si applica «se è ragionevole concludere che ottenne quel bene cio è
stato uno degli scopi principali della transazione». C’è un pro lo nel quale si
valorizza il nome stesso della clausole “principla porpouse”: è chiaro che la clausola
antiabuso ruota intorno al ne principale della trattazione tra le parti. Come si
accennava la scorsa settimana c’è un pro lo della formulazione che ci lascia
interdetti. Non avremmo avuto niente a che ridire se si fosse detto che il
disconoscimento si applica quanto l’unico scopo della trattazione è quello di
ottenere il bene cio convenzionale ovvero dove la norma avesse detto che lo scopo
principiale è quello di ottenere l’abuso. L’idea che la norma anti abuso si possa

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applicare solo quando la transazione non si giusti ca in altro modo se non con il
tentativo di avere un vantaggio scale non deve stupire. Questa volta la
formulazione dell’OCSE è un po’ diversa infatti ci dice che la clausola scatta ogni
volta che si dimostri che ottenere il bene cio sia stato uno degli scopi principali
della transazione. Questa formula “uno degli scopi principali” fa si che possano
rientrare sotto il cappello applicativo della clausola generale tutte quelle transazioni
in cui il vantaggio scale derivante dal trattamento favorevole non sia l’unico o il
principale, ma conviva con scopi economici dell’operazione che hanno la stessa
importanza del vantaggio scale. C’è una estensione molto alta della applicabilità
della clausola che può essere invocata quando il vantaggio scale conviva, con pari
importanza, con scopi ed obiettivi non scali ma commerciali ed economici. Questo
stupisce poiché noi abbiamo un portato diverso: l’art 10-bis è chiaro nel dire che la
norma scatta quanto il ne del vantaggio scale indebito è l’unico o il principale; la
norma continua dicendo che l’abuso non si applica quando il contribuente provi che
ci sono delle ragioni economiche non marginali che hanno spinto a porre in essere
la transazione. In questo caso anche se si prova che il vantaggio scale convive con
vantaggi commerciali ed economici, se questi obiettivi sono principali, la clausola
anti abuso può essere invocata. Questo pro lo è interessante ma desta anche
preoccupazione. La cosa importante è che il pro lo contenutistico della clausola è
di tipo soggettivo: si analizza l’intento ed il ne della transazione, si analizza il
“movente”; la clausola scatta quanto le parti vogliono ottenere il vantaggio previsto
dalle norme della convezione. Questo è il pro lo soggettivo. Incentrare il
funzionamento della norma convenzionale su un pro lo soggettivo è qualcosa di
molto complesso, non è facile ricostruire l’intento delle parti, come richiesto nel
PPT. La domanda che ci si pone è questa: accanto al pro lo soggettivo, la norma
richiede anche di ancorare il funzionamento a qualche elemento esterno di più facile
individuazione? Leggendo la norma sembrerebbe che ci sia qualche aggancio ad
elementi di tipo oggettivo: alla ne della terza riga c’è un inciso che ci dice che «la
prova dell’elemento soggettivo si fa avendo riguardo a tutti i fatti e le circostanze
rilevanti». La valutazione è quindi fatta tenendo conto di fatti e circostanze tangibili
che devono essere di più facile e certa interpretazione rispetto agli elementi interni.
Una lettura rapida della norma sembrerebbe mostrare che il funzionamento della
PPT ruota intorno al bilanciamento dell’aspetto soggettivo e di quello oggettivo. In
realtà, secondo me, non è proprio così; l’elemento oggettivo non entra con pari
dignità nella valutazione. Ci sono elementi, anche testuali, che protendono per
questa lettura. La prima è che questo riferimento ai fatti e alle circostanze rilevanti
sta in un inciso: per de nizione l’inciso non sta in primo piano. L’altra cosa è che, in
realtà, se leggiamo la norma nel complesso, il riferimento ai fatti e le circostanze
rilevanti, non abbia una sua dignità autonoma rispetto al pro lo soggettivo, ma sia
“servente” rispetto alla ricostruzione rispetto all’elemento soggettivo. Il riferimento ai
fatti e alle circostanze rilevanti sembra essere funzionale solo alla ricostruzione delle

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sussistenza dell’elemento soggettivo per individuare con maggior certezza il
movente delle parti. Nella prospettiva dell’OCSE e della clausola l’elemento centrale
per consentire l’applicazione della disciplina ruota intorno agli elementi soggettivi e
quelli oggettivi servono solo a supporto della ricostruzione dell’elemento soggettivo.
Se questo è vero, secondo me si, capite che siamo difronte ad una clausola che,
quando sarà inserita nelle convenzioni del MLI, attribuisce alla AF un potere
estremamente ampio: chi è che in prima battuta può invocare questa clausola è
l’amministrazione nanziaria del singolo stato che interesse ad a ermare che la
transazione posta in essere è fatta al solo scopo di avere un vantaggio e, pertanto,
viene disconosciuta. Questa clausola, che sembra essere costruita dando rilevo al
carattere soggettivo, da un grande margine di manovra alla AF. È chiaro che
ricostruire un movente, elmetto soggettivo, può essere fatto in tanti modi e lascia
libertà. È nella logica delle cose che la clausola generale anti abuso sia vaga, ma
qua siamo in un contesto di estrema vaghezza: concetti vaghi sono messi in mano
ad una parte che può moderare i concetti al ne di modellare l’ambito di
applicazione di questa norma. Questo solleva perplessità poiché si va a minare tutti
i principi che stanno alla base del rapporto tra AF e contribuente: principio di
a damento, principio di certezza e di prevedibilità. Questa clausola rischia di
applicarsi in maniera totalmente imprevedibile in quanto non si sa come l’AF può
ricostruire l’elemento soggettivo. Sicuramente c’è qualche problema da questo
punto di vista; problemi di carattere soggettivo che hanno riguardo alla costruzione
della disciplina. 

Altri problemi vengono fuori dal pro lo procedurale con riguardo all’onere della
prova: questa norma vaga è costruita su pro li soggettivi e quisni l’AF ha ampia
manovra di ricostruire il pro lo soggettivo. Se però vediamo quale è il livello minimo
di prova che deve essere provato dalla AF a nché sia applicabile la fattispecie,
questa inquietudine viene ra orzata. Tornando al testo della norma si dice che
«l’e etto di disconoscimento dei vantaggi previsti dalla convenzione può essere
realizzato se è ragionevole concludere; è come se si dicesse “se l’AF conclude”.
Questo da un livello molto basso di onere della prova; solitamente nei testi normativi
inglesi, quando si vuole indicare che l’onere della prova deve essere pieno si usa il
termine “stabilire” (to establish), in questo caso non viene usato questo termine,
anzi viene usato un altro termine molto vago “se è ragionevole concludere”. L’AF,
che ha tra le mani uno strumento molto malleabile, ha anche la possibilità di
applicare la norma in presenza di un mero giudizio di ragionevolezza, ben lontano
dalla prova certa che di solito è richiesta in questi contesti. Può bastare un mero
giudizio di ragionevolezza a prescindere di una mera prova. Questa norma che dà la
sensazione di essere stata pensata a favore delle AF.

La norma ha poi un ultimo inciso che, a mio avviso, ra orza quanto siamo dicendo;
la norma ci dice che il potere di disconoscimento degli e etti della convenzione
«non si applica laddove sia stabilito che l’attribuzione di quel bene cio è in accordo

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con l’oggetto e con lo scopo delle rilevanti disposizioni della convenzione». Questa è
una parte che viene introdotta da un “unless” (a meno che) che quindi sottolinea
una eccezione. Si ha disconoscimento a meno che non si provi che quel bene cio
sia in accordo con le norme che lo concedono: è proprio l’attribuzione del bene cio
che da attuazione alla convenzione stessa. Come tutte le eccezioni dovrà fare
riferimento ad una prova contraria data dal contribuente. Questo ci potrebbe
tranquillizzare in quanto la vaghezza è bilanciata da una possibilità di prova
contraria. Come viene costruita la prova contraria? In primo luogo il contribuente
deve provare che il bene cio della convenzione non è indebito ma corrisponde allo
scopo e all’obiettivo della convenzione; questo è un pro lo di estrema incertezza:
spesso è di cile capire lo scopo della convenzione contro le doppie imposizioni nel
suo complesso: prima erano dirette ad eliminare la doppia imposizione oggi ci
orientiamo in direzioni diverse ed è quindi incerto l’oggetto delle convenzioni. In
questo caso si va oltre perché si richiedo l’oggetto e lo scopo della singola
disposizione rendendo molto più complesso l’onere. Sul versante procedurale è
facile rilevare che in questo caso non è richiesto un onere di mera ragionevolezza
ma si usa il termine “establish” per indicare che è necessaria una prova piena:
l’eccezione deve essere supportata da una prova estremamente forte. Quindi
vediamo che questa è una norma un po’ problematica poiché è costruita a favore
dell’interesse del pubblico e della AF. Ci possiamo chiedere perché l’OSCE abbia
creato una disposizione così sbilanciata verso l’AF. L’idea è che questa clausola è
gla del BEPS e quindi risente dell’impostazione e del retroterra che ha dato avvio
al progetto. Il retroterra è glio della crisi globale del 2008 e di un mutamento di
prospettiva con la messa in primo piano da parte degli stati e della comunità
internazionale della corretta riscossione delle imposte cui segue una messa in primo
piano degli interessi pubblici. Non si comprende probabilmente la portata della
clausola se non si hanno presenti in fatti che hanno portato alla creazione della
clausola e del progetto BEPS che si è spostato verso una lotta alla doppia non
imposizione. Il progetto vuole quindi dare un vantaggio alla AF a supporto
dell’interesse erariale. Questa è la fase storica in cui ci troviamo ad oggi. La
formulazione della clausola PPT può essere compresa solo se conosciamo questo
ambito storico.

Prima della direttiva ATAD, introdotta dopo un lavorio della commissione, troviamo
ribadito il principio per cui dobbiamo far tesoro degli indirizzi che provengono
dall’ordinamento internazionale ma dobbiamo fare in modo che i capisaldi dei
principi dell’UE non vengano stravolti come invece si avrebbe se si desse accesso
alle norme che vengono dall’esterno, compreso il progetto BEPS. Anche in questa
materia, come nella disciplina delle CFC, la giurisprudenza della corte di giustizia
giocano un ruolo molto importante per delineare i con ni entro i quali deve essere
rispettato il diritto dell’UE. La clausola generale anti abuso la troviamo nell’art 6

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della direttiva 164/2016. Questa norma, al di là del contenuto, ha un peso diverso
rispetto a quello che può avere l’art 7 del MLI o l’art 29 del Modello OCSe, in quanto
le convenzioni internazionali possono avere e etto negli ordinamenti solo in forza di
una rati ca o di una modi ca della convenzione, invece in questo caso siamo in
presenza di una direttiva che può operare in quanto c’è un obbligo di adeguamento
rispetto ad essa.

Analizzammo la disposizione partendo dal primo parametro che ci dice che:

«ai ni del calcolo dell’imposta dovuta sulle società, gli stati membri ignorano una
costruzione o le costruzioni che, essendo stata posta in essere allo scopo principale
o ad uno degli scopi principali di ottenere un vantaggio scale che è in contrasto
con l’oggetto o la nalità del diritto scale applicabile, non è genuina avendo
riguardo a tutti i fatti e alle circostanze pertinenti.»

All’inizio di questa disposizione si precisa che questa clausola vale solamente per le
operazioni che comprendono imprese; fatta questa premessa si descrive il
meccanismo, se poi leggiamo questa disposizione probabilmente, al di là della
diversa terminologia usata, possiamo immaginare che questa norma ricalca l’art 7
del MLI: abbiamo una descrizione degli e etti, gli e etti scali non sono opponibili
alla AF, e il momento in cui questi vantaggi possono essere ignorati, cioè in
presenza di una costruzione non genuina. In prima battuta sembra davvero che il
legislatore abbia fatto propio l’indirizzo presente nel progetto BEPS. In realtà non è
così, anzi devo dire che una lettura attenta ci mostra di erenze macroscopiche di
approccio tra l’orientamento dell’OCSE e la norma dell’ATAD.

La norma OCSE privilegia l’aspetto della volontà delle parti, il movente, e fa del
riferimento agli elementi oggettivi un mero corollario per provare l’elemento
soggettivo. Qui invece sembra che il contesto sia diverso, addirittura ribaltato,
perché c’è un inciso che, se nell’art 7 riguardava gli elementi oggettivi, in questo
caso riguarda l’elemento soggettivo. Se togliamo l’inciso non c’è alcun riferimento
all’elemento soggettivo. Ancora una volta il fulcro della de nizione sta in un aspetto
oggettivo: la possibilità della AF di ignorare la costruzione scatta quando questa si
rilevi non genuina, avendo riguardo a tutti i fatti e le circostanze. Con riguardo a
questa connotazione in chiave oggettiva l’inciso sembra a sua volta servente.
Quello che conta è l’aspetto tangibile della operazione, la sua non genuinità che, in
secondo luogo, fa scaturire il movente. Pare che il quadro sia ribaltato rispetto al
progetto BEPS. Il secondo pro lo è quello procedurale: l’AF deve provare, al ne di
ignorare la costruzione, che questa non sia genuina. L’onere probatorio grava sulla
AF. Fin qua sembra non ci sia di erenza con la norma dell’OCSE, in realtà essi
costruivano la norma con un molto elastico onere probatorio per quanto riguarda il
movente ed un ben più corposo onere probatorio in capo al contribuente. La norma
sembra davvero costruita addossando per intero ed esclusivamente l’onere della
prova in capo alla AF; si deve infatti provare che l’operazione è posta in essere allo
scopo principale, o uno dei principali di ottenere un vantaggio scale che è in

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contrasto con l’oggetto o lo scopo del diritto scale applicabile. La norma OCSE
poneva l’onere di dimostrare l’oggetto in capo al contribuente, questa volta l’onere
è in capo al’AF che invoca la clausola generale anti abuso ex art 6. Anche sotto
questo pro lo procedurale sembra si sia davanti ad un rovesciamento di
prospettiva. L’AF ha l’onere di provare elementi soggettivi e l’onere è stringete in
quanto riguarda tutti i pro li, compreso quello della concordanza con lo scopo della
normativa scale invocata. La conferma di questa interpretazione, che ruota intorno
all’elemento oggettivo, lo abbiamo leggendo il paragrafo 2:

«Ai ni del paragrafo 1, una costruzione o una serie di costruzioni è considerata non
genuina nella misura in cui non sia stata posta in essere per valide ragioni
commerciali che rispecchiano la realtà economica». Questa formula del paragrafo 2
che cerca di dare una de nizione alla “costruzione non genuina” conferma che
l’aspetto principale di questa disposizione è quello oggettivo, perché quello che
conta è se si ha o meno di fronte una costruzione che sia stata o meno posta in
essere per varie ragioni commerciali che rispecchiano la realtà economica; è chiaro
che questa realtà economica è una cosa oggettiva che può essere de nita con i fatti
e prescinde dall’elemento soggettivo. Il paragrafo 2 sottolinea che ciò che conta
realmente è l’elemento oggettivo.

Torno a quello che dico prima: sembra che l’elemento soggettivo vada in secondo
piano e sia la conseguenza della prova che viene data circa la non genuinità della
costruzione, non rientrando nell’onere della prova. Una volta provata la non
genuinità dell’operazione immediatamente scaturisce la volontà del soggetto a
creare le operazioni per scopi scali. Quindi l’esame della disposizione, se
guardiamo in particolare i “considerando” iniziali della direttiva vediamo che spesso
è richiamato il progetto BEPS, è quindi chiaro che il legislatore europeo ha preso a
modello il dibattito internazionale ma, almeno sotto questo pro lo, alla ne ha
ampiamente riformulato e modellato la norma in modo che l’art 6 è diverso nella sua
struttura dal modello internazionale. Vengo quindi al perché della diversità e questa
esigenza di scrivere questa norma in maniera disforma dal modello internazionale:
la motivazione sta nell’esigenza del rispetto del diritto UE e dalle indicazione della
Corte di Giustizia. NEll’art 6 si parla di costrizione non genuina, che troviamo anche
nell’art 7, ma è simile anche alla dizione “costruzione di puro arti cio” usata dalla
Corte. Vi ricordate anche quale era il punto di vista della corte in quella sentenza;
l’idea era che normative interne che limitano il godimento di libertà fondamentali,
nella fattispecie la libertà di stabilimento, si giusti cano solo se esse si applicano a
costruzioni di puro arti cio, esistenti solo sulla carta e non reali. In questi casi si dice
solo di aver esercitato libertà fondamentali, ma in realtà si cerca solo un vantaggio
indebito. Allora la corte ci dice che quando si prova che al libertà fondamentale è
stata realmente esercitata, e da anche gli elementi per dimostrarlo, allora anche se il
movente è esclusivamente scale (si va nel paese per un miglior trattamento scale)
non può esistere una norma interna che la limiti; questo ragionamento è ciò che sta

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dietro alla formulazione della clausola antiabuso. Questo principio viene allargato a
tutte le fattispecie e a tutto il diritto dell’UE: per negare gli e etti scali di una certa
operazione, per negare quindi che le parti abbiano voluto perseguire una libertà
fondamentale, occorre dare la prova che l’operazione non è genuina e si tratta di
una costruzione di puro arti cio. L’art 6 mette in primo piano l’elemento oggettivo e
non poteva essere diversamente: se l’art 6 della direttiva ATAD fosse stato costato
sull’art 7 del MLI, la norma avrebbe contrastato con le direttive della corte di
giustizia che ci dice che le norme antiabuso, per essere concordi con il diritto UE e
per non limitare le libertà fondamentali, devono dirigersi solo a situazione
patologiche ove l’insediamento o l’operazione è nta, in caso contrario non può
esserci abuso anche se si va a ricercare un vantaggio scale. La norma non poteva
che essere costruita così.

Anche qua si pone il problema per cui sia stat usata la “costruzione non genuina” e
non la “costruzione di puro arti cio” che per alcuni è elemento che dimostra una
volontà di staccarsi dalla direttiva, ma vedremo poi cosa risponderà la corte se sarà
chiamata a pronunciarsi su questa disciplina. L’importante è che questa norma
subordina l’invocazione della norma anti abuso alla veri ca della genuinità della
operazione che deve essere avvenuta realmente.

La peculiarità dell’ATAD è quella che obbliga gli stati europei ad adeguarsi alla
direttiva, gli stati hanno dovuto introdurre una clausola generale antiabuso che
ricalcasse l’art 6. Ciò è successo anche all’Italia? Si e no, nel senso che una norma
anti abuso c’è, ma nel recepire la direttiva ATAD l’Italia ha dichiarato di non aver
bisogno di recepire l’art 6 in quanto si era già dotata di una clausola generale anti
abuso che avesse gli stessi requisiti dell’art 6, cioè la norma del 10-bis. Secondo il
legislatore italiano il 10-bis ha già in se tutti gli elementi previsti dalla normativa
ATAD. 

L’art 6 della direttiva ATAD, essendo previsto in uno strumento normativo europeo,
vincola gli stati membri anche nei propri rapporti reciproci. A prescindere da una
clausola anti abuso tra due stati dell’UE ciò che conta è che i due stati sono
obbligati ad applicare una normativa concorde con l’art 6. Il problema sorge nei
rapporti con gli stati terzi. Abbiamo un pro lo che attiene alle fonti del diritto
tributario internazionale che porta a qualche complicazione perché, quando l’Italia
rati cherà il MLI, tutte le convezioni contro le doppie imposizioni tra Italia e altri stati
che avranno aderito al MLI, saranno modi cate e quando mancherà una clausola
anti abuso ne verrà inserita una uguale alla PPT ex art 7 MLI. Questo in astratto può
comportare un problema: nei rapporti tra gli stati membri UE si applica la disciplina
ex art 6 ATAD, mentre nei rapporti con gli stati terzi si applicherà l’art 7 MLI. Si crea
quindi un doppio binario di trattamento dell’abuso nei rapporti tra stati membri e nei
rapporti con gli stati terzi. Allora nel prendere nella disciplina ATAD l’UE si è
interrogata sul problema e ha dato una soluzione molto simile a quella data
nell’approccio alla tassazione della economia digitale e nella nuova dedizione di

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stabile organizzazione. Rispetto a questa direttiva si è usato una approccio simile:
insieme alla direttiva si è approvata la raccomandazione 136/2016 relativa alla
applicazione della direttiva contro l’abuso dei trattati scali, che si riferisce proprio
la rapporto tra stati membri e stati terzi. La commissione mostra la consapevolezza:

«al ne di assicurare la conformità con il diritto dell’Unione, la norma generale
antiabuso basata su un test per la veri ca delle nalità principali, come suggerito
dalla relazione nale sull’azione 7, deve essere allineata alla giurisprudenza della
Corte di Giustizia dell’Unione Europea in materia di abuso del diritto”.

La commissione, nel proporre la raccomandazione, ci dice che, siccome la
convenzione non vale nei confronti degli stati terzi, è chiaro che si dovrà provare a
modellare le convezioni contro le doppie imposizioni concluse in relazione al
progetto BEPS e al MLI, in modo tale che questa clausola sia coerente con il diritto
dell’Unione Europea; se così non fosse gli Stati europei dovrebbero applicare due
tipi di trattamenti a seconda dei rapporti. In questa raccomandazione la
commissione dice che nelle convenzioni sottoscritte con stati membri o con stati
terzi, nelle quali si voglia introdurre una clausola geniale anti abuso modellata sul
modello della PPT, questa clausola dovrebbero essere modi cata proprio per tener
conto dell’ordinamento UE e della sua giurisprudenza. 

La clausola PPT dovrebbe essere così strutturata: «fatte salve le altre disposizioni
della presente convenzione, non viene concesso, a norma della stessa convenzione,
un bene cio in relazione a elementi di reddito o di capitale qualora, tenuto conto di
tutti i fatti e di tutte le circostanze pertinaci, si possa ragionevolmente concludere
che l’acquisizione di tale bene cio costituiva una delle nalità principali di un
accordo o transazione che che prodotto, direttamente o indirettamente, tale
bene cio, a meno che non sia possibile accertare che esso è il frutto di una attività
economica reale o che la concessione del bene cio in parola è conforme all’oggetto
e alle nalità delle pertinenti disposizioni della presente convenzione». Questa è
sicuramente la norma anti abuso del progetto BEPS, ma la di erenza c’è e ci dice
che la prova contraria può anche derivare dall’essenza di una attività economica
reale. Questa è la novità della raccomandazione che riprende la giurisprudenza della
corte: per gli stati UE deve essere consentito al contribuente di sottrarsi a questa
norma dimostrando che quell’operazione corrisponde ad una attività economica
reale. È evidente che stiamo parlando una raccomandazione che ha ad oggetto una
clausola antiabuso tra stati membri e stati terzi; non c’è quindi una pretesa che gli
stati membri impongano agli stati terzi esattamente la clausola dell’art 6 della
direttiva ATAD, questa è la formulazione della General Anti Avoidance Rule (GAAR)
del BEPS, con tutti i suoi elementi, ma con una clausola che consente di modellare
la clausola generale antiabuso in funzione della giurisprudenza e dei principi UE. Si
tratta comunque di una raccomandazione e non c’è la pretesa che essa venga
inserita in ogni convenzione con gli stati terzi, si tratta di un tentativo.

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Una ultima considerazione piche questa vicenda della clausola generale antiabuso
ci mette sotto gli occhi un aspetto tipico del diritto tributario internazionale: l’aspetto
della pluralità delle fonti. Si sono sovrapposte varie fonti di diversa ordina che rende
di cile la ricostruzione e individuazione della disciplina applicabile ad una certa
fattispecie. Questo tema lo abbiamo ricordato tante volte ed è proprio del modo di
esser attuale del diritto tributario internazionale, con una serie di complicazione.
Una cosa è cercare di trovare la fonte da applicare quando siamo in presenza di
tutte fonti normative formali, normativa e legge interna, cosa divers è dover
considerare anche fonti che tecnicamente non sono tali, come il progetto BEPS che
è “softlaw”, o il commentario al modello OSCE ecc; abbiamo visto che queste fonti
spesso in gioco e che spesso hanno una valenza importante. Il caso dell’abuso
pone anche l’accento sull’importanza della giurisprudenza dell’UE; davvero nel caso
dell’antiabuso si tocca con mano come pronuncia che dovrebbero valere per un
singolo caso tocchino poi più aspetti.

Ad esempio la sentenza cadbury schweppes, che aveva ad oggetto il regime CFC
del Regno Unito non solo ha in uenzato le scelte in ambito di CFC, ma ha anche
esteso la sua in uenza alle scelte della norma sale antiabuso. Questa peculiarità
del dritto tributario internazionale dimostra l’importanza della prassi. Il fenomeno
della importanza delle sentenze della Corte di Giustizia ci interessa in maniera
particolare come paese membro. Una sentenza sulla “exit tax”; quando una
impresa, secondo le leggi del suo stato, trasferisce l’impresa in un altro stato, lo
Stato da cui avviene il trasferimento, può assoggettare ad una imposizione c.d. in
uscita. La corte di giustizia, su un caso olandese, disse che i regimai che
impongono il pagamento per interno dell’imposta in uscita (che si pagava sulle
plusvalenza non ancora realizzate) contrasta con la libertà di movimento UE. L’unica
cosa che lo Stato può fare è quello di prevedere in un secondo momento una
tassazione sulle plusvalenze che verranno realizzate. Questa sentenza valeva solo
per l’Olanda ma dava un campanello per tutti gli stati che avevano una legge
strutturata in maniera simile. L’Italia ha quindi modi cato l’art 166 TUIR, riguardo la
tassazione in uscita, citando espressamente nella norma quella sentenza della corte
di giustizia, a conferma della pervasività della giurisprudenza della corte di giustizia. 

In altri corsi avrei dedicato una lezione al rapporto delle fonti ma quest’anno ho
deciso di non farlo. Ho voluto però tirare le la e mostrare come le fonti non
gommali abbiano una grande importanza.

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