Sei sulla pagina 1di 108

MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 1 - FORMAZIONE E CONTENUTO DELLE NORME


INTERNAZIONALI

1a Lezione - Consuetudini, principi e norme generali

1. Premessa

Il diritto internazionale è un insieme di norme che costituisce l’ordinamento o il diritto stesso della
comunità degli Stati, che si forma in forza della cooperazione tra essi e, quindi, “al di sopra” del
singolo Paese, il quale a mezzo delle proprie norme, anche di rango costituzionale, si impegna a
rispettarlo.
Tale disciplina si preoccupa di regolare i rapporti tra gli Stati che sono i principali destinatari delle
norme internazionali, le quali, infatti, creano diritti e obblighi per questi ultimi, ma la caratteristica
più rilevante è data dal fatto che esso non si occupa solamente di materie attinenti ai rapporti
interstatali, bensì disciplina le relazioni interne alle varie comunità statali.
L’internazionalismo che caratterizza la vita moderna ha delle ripercussioni sul mondo giuridico,
infatti, tale fenomeno è la causa della tendenza di trasferire dal piano nazionale a quello internazionale
la materia dei rapporti economici, commerciali e sociali, ormai disciplinate sempre più da
convenzioni internazionali.
Dunque, parlando di diritto internazionale si intende per lo più un complesso di norme rivolte agli
operatori giuridici interni e, soprattutto, ai giudici nazionali piuttosto che ai diplomatici, pertanto esso
ha carattere pubblicistico, contrapponendosi a quello privato.
Quest’ultima materia delimita il diritto privato di uno Stato prevedendo sia i casi in cui esso deve
trovare applicazione, sia quando i Giudici interni devono fare prevalere quello straniero.
Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, le norme di diritto internazionale privato sono contenute
nella Legge n. 218/1995.
Invero, tale distinzione della materia in esame in pubblico o privato è priva di senso, poiché non si
tratta di due rami del medesimo ordinamento ma di norme riconducibili ad ordinamenti totalmente
diversi, ossia quelli della comunità degli Stati e del singolo Paese.

1
2. La consuetudine

Le norme di diritto internazionale generale che si rivolgono e vincolano tutti gli Stati hanno natura
consuetudinaria.
Parlando di consuetudine internazionale si intende un comportamento costante e uniforme tenuto
dagli Stati, ripetuto nel tempo, in quanto accompagnato dalla convinzione dell’obbligatorietà e della
necessità dello stesso.
Ciò posto, gli elementi caratterizzanti la fonte in esame sono la diuturnitas e l’opinio iuris sive
necessitatis, anche se, in realtà, tale concezione dualistica non è stata accolta dall’intera dottrina.
Infatti, alcuni autori sostengono che la consuetudine sia costituita solamente dal primo elemento,
ossia dalla prassi, ritenendo invece un errore la seconda caratteristica, in quanto, nel momento in cui
la norma si sta formando, lo Stato crede che un dato comportamento sia richiesto dall’ordinamento e,
quindi, obbligatorio, ma in realtà il diritto non esiste e lo Stato è in errore.
Per tali ragioni, l’opinio iuris sive necessitatis non è uno degli elementi costituenti una norma, bensì
l’effetto psicologico scaturente dall’esistenza della stessa, presupponendo, pertanto, che questa si sia
già formata.
Di opinione opposta è la giurisprudenza, in quanto dalla prassi dei tribunali internazionali e statali
emerge che, affinché una consuetudine venga in essere, è indispensabile la sussistenza dell’elemento
in questione.
A sostegno della tesi favorevole alla concezione dualistica è la tendenza degli Stati, al fine di evitare
che la sola prassi possa creare diritto, di dichiarare che un dato comportamento che si vuole tenere è
legato a ragioni di cortesia o che esso non è capace di creare un precedente e, quindi, formare una
norma consuetudinaria o abrogarne una preesistente.
In tal modo si realizza la distinzione tra mero uso e consuetudine produttiva di norme giuridiche.
Un esempio di uso dettato da motivi di cortesia è dato dalla tendenza di estendere la sfera delle
immunità diplomatiche, la quale non si traduce in consuetudini giuridiche proprio perché gli Stati non
sono convinti della loro obbligatorietà.
Dunque, l’esistenza o meno dell’opinio iuris sive necessitatis è l’unico parametro utilizzabile per
ricavare una norma consuetudinaria dalla prassi convenzionale.
L’interpretazione dei trattati può confermare le norme consuetudinarie già esistenti oppure crearne di
nuove concernenti i rapporti tra gli Stati contraenti; dunque solo un’indagine dell’opinio iuris sive
necessitatis, ossia la ricerca volta a stabilire se questi Paesi intendono il vincolo contrattuale in un
senso o nell’altro, può consentire o escludere l’utilizzazione di alcuni trattati come prova
dell’esistenza di norme consuetudinarie.

2
Infine, tale elemento consente di distinguere il comportamento dello Stato diretto ad incidere sul
diritto consuetudinario preesistente, modificando o abrogando una determinata consuetudine
attraverso la formazione di una nuova oppure a mezzo di una desuetudine, da quello integrante un
illecito internazionale.
Dunque, il procedimento di formazione del diritto consuetudinario necessita dell’opinio iuris sive
necessitatis e, ovviamente, l’esecutivo può violare tali norme se convinto della doverosità sociale di
tale comportamento.
Per quanto riguarda l’elemento della diuturnitas, ossia la ripetizione del comportamento, va rilevato
che per la questione del tempo di formazione della consuetudine non vi sono soluzioni precise e
univoche.
Infatti, il trascorrere di un certo periodo di tempo è necessario per la formazione delle norme
consuetudinarie, anche se alcune, come ad esempio la sovranità territoriale, hanno carattere
plurisecolare mentre altre si sono consolidate in pochi anni.
Nonostante ciò, non può ritenersi che il tempo sia un fattore ineliminabile, poiché ipotizzare delle
consuetudini istantanee sarebbe una contraddizione, in quanto esse non possono generare norme
giuridiche per la mancanza del carattere di stabilità tipico del diritto non scritto.
La creazione di una norma consuetudinaria prevede la partecipazione di tutti gli organi statali, sia
interni che esterni, dunque i relativi atti riconducibili agli stessi che concorrono a tale processo di
formazione si trovano in una condizione di assoluta parità, infatti non è previsto alcun ordine di
priorità tra essi, i quali sono più o meno importanti in base al contenuto della norma consuetudinaria.
Ovviamente, nella formazione di quelle destinate a trovare applicazione all’interno dello Stato, la
giurisprudenza nazionale assume un ruolo decisivo.
In ogni caso, la consuetudine crea diritto generale e, conseguentemente, si impone a tutti gli Stati, a
prescindere dalla loro eventuale partecipazione al processo che vi ha dato origine, ragion per cui tali
norme si impongono anche agli Stati di nuova formazione.
Invero, tale principio non è stato visto di buon occhio dagli Stati sorti dal processo di
decolonizzazione che, tra l’altro, rappresentano la maggioranza degli attuali membri della comunità
internazionale, dato che il vecchio diritto internazionale consuetudinario si è formato in epoca
coloniale per soddisfare esigenze e interessi diversi da quelli attuali e, pertanto, non può vincolare
uno Stato che nasce oggi con bisogni opposti; da ciò, ne discende la pretesa di rispettare solo le norme
da essi liberamente accettate.
La contestazione del diritto consuetudinario se proveniente da un singolo Stato non è rilevante, al
contrario del caso in cui essa è fatta da un gruppo di Stati, in quanto in tale ipotesi la norma non solo
non è opponibile agli stessi ma non va neanche considerata come esistente, però spetta all’interprete

3
individuare l’elemento comune nell’atteggiamento degli Stati per potere ricostruire i principi
generalisti.
Le norme consuetudinarie generali sono suscettibili di applicazione analogica, ossia possono essere
interpretate estensivamente e, quindi, disciplinare un caso da esse non regolato che, però, presenta
caratteri sostanziali simili a quelli del caso previsto; tale meccanismo è particolarmente rilevante con
riguardo a fattispecie nuove, in quanto, in tal modo, le norme consuetudinarie trovano spazio anche
nei rapporti della vita sociale non esistenti al momento della loro formazione.
Infine, va rilevato che fino ad ora abbiamo parlato di norme consuetudinarie generali, ma accanto ad
esse si affiancano quelle particolari, che vincolano solo alcuni Stati, come avviene con le consuetudini
regionali e locali.

3. I principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili

I principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili sono annoverati tra le fonti dall’art. 38
dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, che, dopo gli accordi e le consuetudini, possono
trovare applicazione in mancanza di norme pattizie o consuetudinarie disciplinanti un caso concreto.
Dunque, si tratterebbe di una specie di analogia iuris volta a colmare le lacune esistenti
nell’ordinamento giuridico, alla quale vi si deve ricorrere prima di ritenere che gli obblighi
internazionali non sussistano in ordine a un caso concreto.
Si può parlare di principi generali di diritto internazionale a condizione che essi esistano e siano
uniformemente applicati nella maggior parte degli Stati e che si considerino obbligatori e necessari,
cosicché non sono altro che una categoria particolare di norme consuetudinarie internazionali.
Da qui ne deriva che il Giudice di uno Stato può applicare un principio inesistente nell’ordinamento
statale, purché esso imponga l’osservanza del diritto internazionale; in Italia un esempio è dato
dall’art. 10, co. I, Cost., che prevede l’illegittimità costituzionale di una legge ordinaria italiana
contrastante con il diritto internazionale generale.
Invero, parte della dottrina pone su un livello superiore, rispetto alle norme consuetudinarie, i principi
costituzionali che costituirebbero le norme primarie del diritto internazionale; alcuni con carattere
formale, in quanto si limiterebbero a istituire fonti ulteriori di norme internazionali, altri con carattere
materiale, dato che disciplinerebbero direttamente i rapporti tra Stati.

4
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 1 - FORMAZIONE E CONTENUTO DELLE NORME


INTERNAZIONALI

2a Lezione - I trattati

1. Procedimento di formazione e competenza a stipulare

L’accordo è una fonte di norme particolari che viene indicato con termini vari, quali trattato,
convenzione, fatto, ecc.; ad esempio con “carta” o “statuto” si fa riferimento ai trattati istitutivi di
organizzazioni internazionali, con “scambio di note” all’accordo risultante da esse.
In ogni caso, a prescindere dal nome utilizzato, la natura dell’atto è sempre la stessa, ossia quella
propria degli atti contrattuali.
L’accordo internazionale è il frutto dell’incontro delle volontà di due o più Stati dirette a regolare i
loro rapporti, nel rispetto del c.d. diritto dei trattati, ossia le norme consuetudinarie disciplinanti il
relativo procedimento di formazione e i requisiti di validità e di efficacia, al quale è dedicata la
convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, in vigore dal 27 gennaio 1980.
In relazione alla medesima materia, a Vienna sono state concluse altre due convenzioni di
codificazione nel 1978 e 1986, la prima riguardante la successione degli Stati nei trattati e la seconda,
nel riprodurre quella del ‘69, si occupa dei trattati stipulati tra Stati e organizzazioni internazionali o
tra queste ultime.
Il diritto internazionale prevede la libertà della forma e della procedura, per cui la stipulazione di un
accordo può dipendere da qualsiasi manifestazione di volontà degli Stati, a condizione che esse
abbiano il medesimo contenuto e che obblighino reciprocamente questi ultimi.
Pertanto, un accordo può realizzarsi istantaneamente o solo dopo procedure complesse; può essere
scritto o orale; può risultare da un documento ad hoc, dal processo verbale di un organo
internazionale, dallo scambio di note diplomatiche, ecc.
Per giungere ad un accordo, il procedimento normale, o meglio solenne, di formazione del trattato
prevede più fasi; la prima è quella della negoziazione, la cui complessità aumenta proporzionalmente
al numero degli Stati partecipanti e anche in base alla materia da regolare.

5
I negoziati si concludono con la firma dei plenipotenziari (organi, o comunque agiscono su mandato,
del potere esecutivo) che, però, non è vincolante per gli Stati ai fini dell’autenticazione del testo
predisposto in forma definitiva.
È con la fase della ratifica che lo Stato si impegna con la sua manifestazione di volontà, che in Italia
spetta al Presidente della Repubblica, ai sensi dell’art. 87, co. VIII, Cost., purché vi sia
l’autorizzazione delle Camere, quando prevista, e l’atto del Capo dello Stato sia controfirmato dai
Ministri proponenti che se ne assumono la responsabilità, in forza dell’art. 89 Cost.
Nel caso di trattati multilaterali, la manifestazione di volontà di concludere l’accordo può anche
promanare da uno Stato non partecipante ai negoziati, a condizione che tale possibilità sia prevista
nello stesso testo dalla c.d. clausola di adesione.
Una volta formatasi la volontà dello Stato, resa nota a mezzo delle deliberazioni degli organi
costituzionalmente competenti, si procede allo scambio o al deposito delle ratifiche, cosicché il
procedimento di formazione dell’accordo si conclude.
Infine, il trattato o l’accordo internazionale va registrato presso il segretariato delle Nazioni Unite, il
quale deve pubblicarlo, pena l’impossibilità di invocarlo innanzi ad un organo delle Nazioni Unite.
Oltre la procedura appena descritta, si può ricorrere anche ad altre alternative, le quali presentano
delle differenze senza, però, discostarsi troppo dal procedimento normale.
Una questione importante che sorge in sede di formazione dell’accordo internazionale riguarda la
capacità dell’organo stipulante di manifestare la volontà dello Stato di aderire al trattato, o meglio il
problema nasce in caso di sua incompetenza o inosservanza delle forme o delle procedure previste
dal diritto interno.
Una soluzione è rinvenibile nell’art. 46 della Convenzione di Vienna che, nel prevedere l’ipotesi in
cui il consenso di uno Stato, ad essere vincolato da un trattato, sia stato espresso in violazione di una
norma interna sulla competenza a stipulare tali atti, stabilisce che tale circostanza non può essere
invocata dallo Stato in questione come vizio del suo consenso, salvo l’inosservanza del diritto interno
sia manifesta o riguardi una regola di importanza fondamentale.

6
2. Inefficacia dei trattati nei confronti degli Stati terzi. Incompatibilità tra norme convenzionali

A differenza delle norme di diritto internazionale, quelle pattizie si dirigono ai soli Stati che le
pongono in essere, dunque da un trattato possono scaturire diritti e obblighi nei confronti di Stati terzi
solo se questi partecipano in qualche modo all’accordo stesso.
Un trattato può essere aperto e, dunque, contenere la clausola di adesione o accessione, consentendo,
così, agli Stati diversi dai contraenti originari di partecipare a pieno titolo all’accordo mediante una
loro dichiarazione di volontà.
Se, invece, la suddetta clausola manca o, comunque, non rileva la formale partecipazione di uno Stato
ad una Convenzione già conclusa da altri, è possibile che diritti o obblighi discendano dalla stessa
purché lo Stato terzo li abbia in qualche modo accettati.
Ad eccezione di tali ipotesi si applica il principio dell’inefficacia dei trattati nei confronti degli Stati
non contraenti, anche se le parti possono, in ogni caso, impegnarsi a tenere un comportamento
favorevole per i terzi.
Tuttavia, i suddetti vantaggi, se rimangono tali e non si trasformano in diritti, a seguito della
partecipazione del terzo all’accordo, possono venir meno per volontà delle parti contraenti, motivo
per cui nella prassi si è sempre negato il diritto del terzo di esigere l’applicazione del trattato o di
opporsi alla sua abrogazione.
Nel caso in cui uno Stato con un accordo si impegna a tenere un certo comportamento e con un altro,
concluso con Stati diversi, si obbliga ad una condotta contraria, oppure nell’ipotesi di una modifica
successiva di un trattato multilaterale da parte di alcuni Stati vincolati che spiega i suoi effetti anche
nei rapporti con le altre parti dello stesso, la soluzione è data dalla combinazione dei principi della
successione dei trattati nel tempo e della loro inefficacia per i terzi.
Ne discende che, fra gli Stati contraenti di entrambi trattati quello successivo prevale, invece per i
Paesi che sono parti di uno solo dei due accordi permangono tutti gli obblighi da essi derivanti.
Però, la partecipazione a due trattati contrapposti comporta per lo Stato la scelta di quali tra gli
impegni assunti rispettare, commettendo, in ogni caso, un illecito, fonte di responsabilità sul piano
internazionale.
Proprio, in considerazione di tali circostanze, nei trattati possono inserirsi le c.d. clausole di
compatibilità o subordinazione, al fine di salvaguardare i rapporti giuridici derivanti da accordi.

7
3. Le riserve nei trattati

Con la riserva uno Stato rifiuta certe clausole del trattato o le accetta ma modificandole o dando loro
una determinata interpretazione; in tal caso, tra lo Stato autore della riserva e gli altri contraenti,
l’accordo si forma solo per la parte non investita dalla riserva, invece il trattato resta integralmente
applicabile tra gli altri Stati.
Tuttavia, se una parte formula una riserva inammissibile, in quanto esclusa dal testo del trattato o
contraria all’oggetto e allo scopo del medesimo, essa va ritenuta come non apposta e lo Stato deve
rispettare il trattato.

4. L’interpretazione dei trattati

In materia di interpretazione dei trattati, si registra la tendenza ad abbandonare la ricerca della volontà
effettiva delle parti come contrapposta a quella dichiarata, invece per regola generale va attribuito al
trattato il senso che emerge dal suo testo e dai rapporti di connessione logica intercorrenti tra le sue
varie parti, che si armonizza con l’oggetto e la funzione dell’atto, desumibili dallo stesso.
In ogni caso vanno applicate le regole sull’interpretazione restrittiva o estensiva, quella per cui tra
più interpretazioni egualmente possibili va scelta la più favorevole alla parte maggiormente onerata
o al contraente più debole, ecc.

5. Cause di invalidità e di estinzione dei trattati

Molte cause di invalidità e di estinzione degli accordi internazionali sono analoghe a quelle previste
per i contratti e, più in generale, per i negozi giuridici nel diritto interno.
In ambito internazionale, esse sono disciplinate da norme consuetudinarie ad hoc e, soprattutto, dai
principi generali di diritto.
Le cause di invalidità sono i tipici vizi della volontà, dunque si tratta dell’errore essenziale su un fatto
o una situazione che lo Stato supponeva esistente al momento della conclusione del trattato e che
costituiva un elemento essenziale del consenso dello stesso; del dolo, ossia la corruzione dell’organo
stipulante; infine, la violenza fisica o morale esercitata sull’organo stipulante.

8
Tra le cause di invalidità va ricondotta anche la violazione esercitata sullo Stato nel suo complesso,
per cui è nullo il trattato conclusosi solo a seguito di minaccia o per l’uso della forza, in violazione
dei principi della carta delle Nazioni Unite.
Invece, sono cause di estinzione: la condizione risolutiva, il termine finale, la denuncia, il recesso,
l’inadempimento della controparte, la sopravvenuta impossibilità dell’esecuzione, l’abrogazione
totale o parziale, espressa o per incompatibilità.
Tra queste viene inserita anche la c.d. clausola rebus sic stantibus, si tratta di una condizione risolutiva
tacita, la quale prevede che il trattato si estingue, in tutto o in parte, se mutano le circostanze di fatto
esistenti al momento della sua stipulazione, a condizione che esse siano essenziali, senza le quali i
contraenti non avrebbero concluso il trattato in ogni sua parte.
Quando ricorre una di queste cause patologiche, l’atto formale di denuncia va notificato alle altre
parti contraenti o al depositario del trattato ed è espressione della volontà dello Stato di sciogliersi
definitivamente dal vincolo contrattuale.

9
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 1 - FORMAZIONE E CONTENUTO DELLE NORME


INTERNAZIONALI

3a Lezione - Accordi e raccomandazioni

1. Le fonti previste da accordi. Il fenomeno delle organizzazioni internazionali

I trattati possono contenere non solo regole materiali ma anche formali o strumentali, ossia quelle
volte ad introdurre e disciplinare ulteriori procedimenti o altre fonti di produzione di norme.
L’esempio per eccellenza si può trovare nell’ambito del settore dell’organizzazione internazionale, la
quale, in forza del trattato da cui trae origine e che costituisce, al contempo, il suo statuto, è abilitata
ad emanare decisioni vincolanti per gli Stati membri; dunque, si tratta di una fonte c.d. di terzo grado
prevista da un accordo.
Invero, il compito di tali organizzazioni, più che emanare norme, è quello di agevolare la
collaborazione tra gli Stati membri, conseguentemente l’azione delle stesse si svolge prevalentemente
in una fase priva di valore giuridico, poiché si traduce nella mera predisposizione di progetti di
convenzioni, che in un momento successivo, eventualmente, gli Stati membri possono decidere di
tradurre o meno in norme giuridiche, attraverso la ratifica delle convenzioni medesime.
Queste organizzazioni internazionali si occupano, altresì, di emanare raccomandazioni, ossia quegli
atti aventi valore di esortazione e, quindi, non vincolanti per gli Stati a cui sono rivolte.
In ogni caso, l’attività delle organizzazioni internazionali non va mai sminuita, neanche quando essa
comporta l’adozione di decisioni non vincolanti, infatti, ad esempio la negoziazione di accordi da
parte delle stesse rappresenta, oggi, un fenomeno di grande rilievo, ma non solo dal punto di vista
quantitativo.
D’altronde, i Governi devono negoziare apertamente in un clima che favorisce il superamento del
particolarismo statale, e, proprio grazie all’attività svolta dalle organizzazioni, l’accordo tende sempre
più a configurarsi come mezzo di cooperazione e di solidarietà per gli Stati nell’interesse dei popoli.
Sulla base delle prescrizioni contenute nei rispettivi statuti, le risoluzioni delle organizzazioni
internazionali possono essere prese a maggioranza, magari qualificata, anche se, considerando il fatto

10
che gli Stati non accettano volentieri di sottostare alle altre deliberazioni, spesso si è ricercata
l’unanimità.
Successivamente, si è diffusa la pratica del consensus, la quale prevede l’approvazione della
risoluzione senza una votazione formale, ma solitamente con una dichiarazione del Presidente
dell’organo attestante il raggiungimento dell’accordo tra i membri.

2. L’Unione Europea e il diritto comunitario

Come tutte le organizzazioni internazionali l’Unione Europea ha la capacità di concludere accordi


internazionali, nel rispetto delle norme contenute nel Trattato dell’Unione Europea e in quello sul
funzionamento dell’Unione Europea.
Il TFUE si occupa della procedura ordinaria di conclusione di tali atti, prevedendo che la direzione
dei negoziati spetta alla Commissione, previa autorizzazione del Consiglio, il quale può impartire
delle direttive ai negoziatori e, inoltre, deve consentire sia la firma del testo sia la sua conclusione.
Anche se si sta diffondendo la prassi dei c.d. accordi amministrativi, ossia atti aventi una forma
semplificata, il cui perfezionamento spetta esclusivamente alla Commissione.
Può accadere che uno Stato membro, il Parlamento, il Consiglio o la Commissione chiedano alla
Corte di Giustizia un parere preventivo circa la compatibilità dell’accordo con le disposizioni del
Trattato.
Se la Corte si esprime negativamente, l’accordo può entrare in vigore solamente in seguito ad una
modifica formale del trattato medesimo.
Gli accordi sono vincolanti sia per le Istituzioni dell’Unione sia per gli Stati membri, derogando, così,
il principio generale per cui gli accordi stipulati da un’organizzazione internazionale restano estranei
alla sfera giuridica di questi ultimi.
Invece, per quanto riguarda le Istituzioni tali accordi si pongono, all’interno dell’ordinamento
dell’Unione, sotto le norme del TUE e del TFUE, non potendoli contrastare, ma sopra l’Unione
Europea e i relativi atti delle Istituzioni, dai quali non possono essere derogati.
Il TFUE prevede specifiche disposizioni concernenti la conclusione di accordi; tra questi sono
importanti quelli rientranti nel quadro della politica commerciale comune; gli accordi in materia di
politica monetaria, ambientale e di cooperazione allo sviluppo; le Convenzioni di associazione,
concluse dall’Unione con uno o più Paesi terzi o organizzazioni internazionali per dare vita ad

11
un’associazione caratterizzata da diritti e obblighi reciproci, da azioni in comune e da procedure
particolari.
Sono principalmente gli accordi di associazione, commerciali e di cooperazione che costituiscono
una fitta rete di rapporti convenzionali con Stati terzi, oggi, riconducibile all’Unione.
Invero, non è facile distinguere tra accordi di associazione e commerciali, i primi si caratterizzano
per il loro contenuto, ossia essi non si limitano a prevedere diritti e obblighi relativi agli scambi
commerciali tra le parti ma anche azioni in comune e procedure particolari, le quali, però, sono spesso
considerate anche dai secondi.
Quando il trattato, in determinati casi, prevede la competenza esclusiva dell’Unione a concludere
accordi internazionali, obbliga implicitamente gli Stati membri a non concludere, individualmente,
tali atti nelle medesime materie.
Tale carattere esclusivo emerge dallo stesso spirito del Trattato sul Funzionamento dell’Unione
Europea, poiché non è altro che la conseguenza necessaria dell’instaurazione del mercato comune,
infatti la sostituzione dell’azione dell’Unione a quella degli Stati membri è stata ribadita più volte
della Corte di Giustizia.
Tuttavia, tale meccanismo può avere anche un effetto paralizzante e nocivo per gli stessi interessi
dell’Unione, tutte le volte in cui uno Stato terzo si rifiuta di contrarre con essa o quando in questo
ambito sovranazionale non si perviene ad un’intesa necessaria per l’azione esterna comune.
Pertanto, ne discende la pratica delle autorizzazioni accordate dal Consiglio ai singoli Stati membri
per la conclusione di accordi con Stati terzi e quella degli accordi misti, la quale, nei casi in cui
l’accordo per il suo contenuto non rientra interamente nella competenza dell’Unione, prevede che
esso può essere concluso attraverso la partecipazione degli Stati membri, oltre ovviamente quella
della stessa Unione.
Oltre i casi in cui è espressamente previsto da disposizioni specifiche, è possibile concludere un
accordo quando si rende necessario per realizzare uno degli obiettivi previsti nel Trattato, o se ciò è
stabilito da un atto vincolante dell’Unione, o se così si incide su norme comuni o se ne altera la
portata.
Può anche succedere che l’Unione e gli Stati membri partecipino ad un accordo, ognuno per le parti
di propria competenza, cosicché da rendere più complessa la situazione non essendo sempre facile
stabilire il confine tra queste due sfere.
Un esempio è dato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare.
Una complicata disciplina è contenuta a riguardo nell’annesso IX alla Convenzione di Montego Bay,
il quale stabilisce che un’organizzazione, cioè la Comunità Europea, oggi Unione, alla quale gli Stati
membri trasferiscono la competenza per alcune delle materie rientranti nell’oggetto disciplinato dalla

12
Convenzione, può essere parte contraente, purché essa dichiari al momento della firma e della ratifica
o adesione quali sono le materie di sua competenza.
Allo stesso modo, gli Stati membri, diventando parti contraenti della Convenzione, devono dichiarare
per quali materie hanno trasferito la competenza all’organizzazione.
Pertanto, in caso di modifiche successive relative alla ripartizione delle competenze già dichiarata
dall’Organizzazione e dagli Stati membri, essi sono tenuti a notificarle, così come devono rispondere
a tutti i quesiti che gli vengano posti in materia, relativamente a casi specifici, da parte di un altro
stato contraente.
Ciò posto, è chiaro come l’intero sistema faccia affidamento sull’accordo tra l’Unione e gli Stati
membri circa le materie di rispettiva competenza.

3. Le raccomandazioni degli organi internazionali

Uno degli atti tipici degli organi delle Nazioni Unite e delle Organizzazioni internazionali è la
raccomandazione, la quale non è vincolante per lo Stato o gli Stati a cui si dirige a tenere il contegno
da essa raccomandato, ma si tratta di un atto che ha soltanto valore esortativo.
Negli anni ‘60 si attribuiva alla raccomandazione un effetto di liceità, in forza del quale uno Stato che
osservandola non rispetta gli obblighi precedentemente assunti nei confronti di altri Stati membri
dell’organizzazione raccomandante non commette illecito, a condizione che la stessa
raccomandazione sia legittima e, quindi, non ecceda dalle competenze proprie degli organi e da ogni
altro limite posto dal trattato istitutivo alla loro azione.
Una siffatta tesi può emergere dalla prassi delle Nazioni Unite quando le raccomandazioni degli
organi internazionali non erano, come oggi, così numerose e prolisse da contenere tutto e il contrario
di tutto.
Dunque, si deve ritenere che le raccomandazioni appartengono al soft law, ossia un diritto morbido
che si caratterizza per la sua non obbligatorietà, escludendo, così, che gli atti in questione possano
costituire l’avvio alla formazione di norme consuetudinarie o la promessa della conclusione di accordi
internazionali dal contenuto corrispondente.
Per contro, c’è chi, accentuando l’importanza dell’obbligo di cooperazione, insito nei Trattati istitutivi
delle Organizzazioni Internazionali, ritiene che sia illecito il comportamento dello Stato che rifiuta di
osservare alcune raccomandazioni.

13
In tal modo, si sostiene implicitamente che le raccomandazioni reiterate nel tempo diventerebbero
obbligatorie.
Ma tale teoria è inaccettabile, poiché il principio della cooperazione tra gli Stati membri non può
arrivare a sovvertire la natura dell’atto stesso, ossia non vincolare il destinatario al contegno
raccomandato.

14
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 1 - FORMAZIONE E CONTENUTO DELLE NORME


INTERNAZIONALI

4a Lezione - La gerarchia delle fonti internazionali

1. La gerarchia delle fonti internazionali. Il diritto internazionale cogente. L’unitarietà


dell’ordinamento internazionale

Per concludere il discorso sulle fonti delle norme internazionali occorre delineare la gerarchia
esistente tra le stesse.
Al vertice del sistema si collocano le norme consuetudinarie che comprendono la particolare categoria
dei principi generali di diritto comuni agli ordinamenti interni, dunque, la consuetudine è una fonte
di primo grado ed è l’unica che prevede norme generali, in quanto tali vincolanti tutti gli Stati.
Al secondo livello della gerarchia è posto il Trattato, il cui fondamento della sua obbligatorietà è
rinvenibile nella norma consuetudinaria pacta sunt servanda.
Infine, il terzo posto è occupato dalle fonti previste dagli accordi e, in particolare, dagli atti delle
organizzazioni internazionali.
Innanzitutto, per quanto riguarda i rapporti tra consuetudine e accordo, va rilevato che la posizione
subordinata riconosciuta alle norme pattizie rispetto a quelle consuetudinarie non implica
automaticamente l’inderogabilità di queste ultime da parte delle prime.
Infatti, una norma di grado inferiore può derogare quella superiore se quest’ultima lo consente, come
nel caso del diritto interno, ove un atto amministrativo può derogare alla legge se ciò è previsto.
In considerazione di ciò, il problema da affrontare riguarda la possibilità per i trattati di derogare le
norme consuetudinarie internazionali.
In linea generale, tale questione trova risposta negativa, in quanto le norme consuetudinarie, secondo
l’opinione comune, si caratterizzano per la loro flessibilità e quindi per essere derogate da un accordo.
Inoltre, queste ultime hanno carattere generale a differenza delle norme pattizie che sono particolari,
in quanto vincolano solo gli Stati contraenti, e pertanto prevalgono sul diritto consuetudinario;
d’altronde è noto che il diritto particolare prevale su quello generale, anche se anteriore, salvo il caso
in cui le consuetudini si formano proprio in deroga alle norme di un determinato trattato.
15
Tale regola della derogabilità mediante accordo riguarda, essendo norme consuetudinarie, anche i
principi generali di diritto comuni agli ordinamenti interni.
Un esempio di questo tipo di deroga è dato dall’art. 27, n. 3, della Carta delle Nazioni Unite che
prevede l’astensione di uno Stato membro del Consiglio di Sicurezza nelle votazioni relative a
questioni che lo riguardano ma limitatamente a determinati casi di minore importanza, infatti tale
obbligo non è previsto quando si discute su una proposta di espulsione dall’Onu o sull’adozione di
misure coercitive a tutela della pace.
È così evidente la deroga al principio generale “nemo iudex in re sua”, per cui nessuno deve essere
giudice nella propria causa.
Invero, non tutte le norme consuetudinarie hanno carattere flessibile, poiché alcune norme di diritto
internazionale generale sono, eccezionalmente, cogenti, c.d. ius cogens.
La Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati si pronuncia sul punto con l’art. 53, prevedendo la
nullità di un trattato contrastante una norma imperativa del diritto internazionale generale e, quindi,
accettata e riconosciuta dalla comunità degli Stati come norma inderogabile e immodificabile da una
nuova avente il medesimo carattere.
Il successivo art. 64 si occupa del diritto cogente stabilendo che se una nuova norma imperativa di
diritto internazionale generale si forma e un trattato esistente si pone in contrasto con la stessa, esso
diviene nullo e si estingue.
E ancora, l’art. 66, lett. a) prevede che nel caso in cui tra gli Stati contraenti la convenzione insorge
una controversia relativa all’invalidità di un accordo perché contrario allo ius cogens, essa può essere
decisa dalla Corte Internazionale di Giustizia, a seguito di ricorso unilaterale di una delle parti.
Questa disposizione ha carattere eccezionale, ad oggi mai applicata, poiché la stessa possibilità non
sussiste per un’altra causa di invalidità o di estinzione.
Tuttavia, nella convenzione di Vienna manca l’indicazione di quali sono le norme internazionali
imperative ma si limita a definire la norma cogente come quella che non può essere derogata, pertanto
la ricostruzione dello ius cogens è rimessa all’interprete.
Così, quest’ultimo dovrà, in primo luogo, stabilire se una norma presenta gli elementi della
diuturnitas e dell’opinio iuris sive necessitatis e, successivamente, verificare se la maggior parte degli
Stati la considera superiore rispetto alle comuni fonti internazionali, in quanto ispirata a valori
fondamentali e universali.
Ciò posto, la nozione di diritto cogente ha carattere storico, dato che essa può mutare, soprattutto
essere ampliata, da un’epoca all’altra.
Attualmente, analizzando dottrina e giurisprudenza interna e internazionale, può ritenersi che vanno
ricondotti al diritto cogente il nucleo essenziale dei diritti umani, il principio di autodeterminazione

16
dei popoli, il divieto dell’uso della forza fuori dal caso di legittima difesa, e forse anche il diritto allo
sviluppo.
In ogni caso, si tratta di una lista puramente indicativa, infatti l’art. 103 della Carta delle Nazioni
Unite, ad esempio, sancisce l’inderogabilità degli obblighi scaturenti dalla stessa Carta e dalle
decisioni vincolanti degli organi dell’Onu.
In effetti, il rispetto dei principi sanciti dalla Carta rappresenta una regola fondamentale per la vita di
relazione internazionale, come ritenuto anche dalla giurisprudenza interna.
In caso di violazione di una norma internazionale imperativa dovrebbe trovare applicazione il già
menzionato art. 53 che prevede la nullità del trattato contrario al diritto cogente, anche se nella prassi
non si sono registrati casi di trattati impugnati con successo da uno stato o dichiarati nulli da
un’istanza giudiziaria.
Ad esempio, c’è chi ha ritenuto contrario al principio che vieta l’uso della forza fuori dai casi di
legittima difesa l’articolo IV del Trattato di garanzia del 1960 relativo a Cipro, il quale autorizza
Grecia, Regno Unito e Turchia, nella qualità di parti contraenti dello stesso, a intraprendere azioni
congiunte o disgiunte quando la situazione di Cipro cambia rispetto a quella regolata dal trattato
medesimo.
Invero, vista l’assenza di clausole di intervento militare non sembra che tale norma sia contraria al
diritto cogente, piuttosto essa autorizza l’uso della forza solo nei casi di reazione ad attacchi armati
altrui nell’isola.
Invece, si è sostenuto in dottrina, in questo caso, fondatamente che l’art. 6 del Trattato di Amicizia
tra Urss e Iran del 1921, dichiarato decaduto dall’Iran nel maggio 1979, contrastasse con il divieto
dell’uso della forza, che consentiva all’Urss di intervenire, senza il previo consenso dell’Iran, con le
sue truppe qualora questo Stato fosse stato invaso o l’Urss minacciata.
Il carattere cogente riconosciuto al divieto dell’uso della forza non riguarda i c.d. interventi umanitari,
cioè quelle azioni violente volte a salvare vite umane dei propri o anche degli altri cittadini.
Un’applicazione attenuata della nullità è quella che si esprime in termini di mera superiorità o
prevalenza della norma di diritto cogente su quelle consuetudinarie normali, sui trattati e sulle fonti
derivanti dagli stessi, cosicché la norma internazionale contraria ad una imperativa resta, comunque,
valida ma è inapplicabile.
Ad esempio, la norma imperativa che vieta la tortura e i trattamenti disumani e degradanti è superiore
rispetto a quella sull’immunità degli organi statali e degli Stati stranieri, ma non incide sulla sua
vigenza, semmai ne sancisce l’inapplicabilità nei confronti dello Stato o dell’organo torturatore.
Quanto detto è corretto in linea di principio, in quanto le applicazioni pratiche sono scarse, anzi per
quanto riguarda il rapporto tra l’immunità degli Stati e degli organi statali stranieri e le c.d. gross

17
violations dei diritti umani, sia la giurisprudenza internazionale sia quella interna hanno dato
applicazione alle vecchie norme relative all’immunità, piuttosto che allo ius cogens.
Nell’ambito dei rapporti tra consuetudini e accordi ci si deve chiedere se le norme che regolano le
cause di invalidità e di estinzione dei trattati sono derogabili.
Si tratta di norme inderogabili, in quanto esse si occupano della struttura dell’accordo e non del suo
contenuto e, pertanto, si trovano su un piano superiore, anche nel senso della forza formale, rispetto
al trattato.
Ciò posto, se una clausola contrattuale deroga tali norme resterebbe, comunque, sempre soggetta ad
esse; ad esempio se una pattuizione prevedesse che il mutamento delle circostanze non comporti
l’estinzione di quel determinato trattato sarebbe, in ogni caso, soggetta al principio generale rebus sic
stantibus.
Invece, a proposito del problema dei limiti entro i quali gli atti delle organizzazioni internazionali
possono derogare alle norme dei trattati che ne prevedono l’emanazione, non c’è una soluzione
univoca ma esso va risolto caso per caso.
Infatti, i trattati istitutivi delle organizzazioni internazionali possono contenere contestualmente
norme derogabili e cogenti, tra queste ultime vi rientrano quelle che prescrivono le maggioranze
necessarie per l’adozione degli atti.
Il diritto internazionale si presenta come frammentato in sistemi di norme autosufficienti, creati con
uno o più trattati, anche se, in realtà, tale tesi trova scarso riscontro nella prassi, posto che la comunità
internazionale è formata da organizzazioni internazionali universali, come le Nazioni Unite, dove si
afferma l’esistenza di norme cogenti e norme generali che regolano la formazione, la vita e
l’estinzione dei trattati internazionali, compresi quelli da cui traggono origine i sopra indicati blocchi
di norme; ecco perché si ritiene che non ha senso dubitare dell’unitarietà dell’ordinamento giuridico
internazionale.
In conclusione, si deve ritenere che tutti i rapporti tra norme, come già detto, si caratterizzano per la
flessibilità delle sue fonti, salvo il diritto cogente, dunque, i sistemi autonomi di norme costituiscono
il diritto particolare che, in quanto tale, prevale sul diritto internazionale generale.

18
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 1 - FORMAZIONE E CONTENUTO DELLE NORME


INTERNAZIONALI

5a Lezione - La sovranità territoriale

1. Il contenuto del diritto internazionale come insieme di limiti all’uso della forza internazionale
ed interna degli Stati

Il diritto internazionale prevede una serie di limiti all’uso della forza da parte degli Stati, sia verso
l’esterno sotto forma di violenza di tipo bellico nei confronti di altri Paesi, c.d. forza internazionale,
sia verso l’interno rivolta agli individui, persone fisiche o giuridiche, e ai loro beni, c.d. forza interna.
La prima e più importante norma consuetudinaria in tema di delimitazione del potere di governo dello
Stato è quella sulla sovranità territoriale, la quale si consolidò con il venir meno del Sacro Romano
Impero, con cui cessò ogni forma di dipendenza, anche formale, delle singole entità statali
dall’imperatore e dal Papa.
Essa fu concepita come una sorta di diritto di proprietà dello Stato, o meglio del sovrano, avente per
oggetto il territorio, rispetto al quale gli individui erano considerati delle pertinenze, tantoché lo stesso
potere su essi veniva ricollegato alla disponibilità dell’area geografica stessa.
Quando il potere di governo veniva esercitato al di fuori dei confini stabiliti, a giustificazione di ciò,
si diceva che si trattava pur sempre di territorio, come nel caso delle navi.
Nel soffermarsi sulla natura giuridica internazionale del territorio, si ritiene che la norma
internazionale sulla sovranità territoriale attribuisce ad ogni Stato il diritto di esercitare in modo
esclusivo il potere di governo sulla sua comunità territoriale, cioè sugli individui e sui loro beni che
si trovano all’interno del territorio.
Al contempo, lo Stato non può esercitare nel territorio altrui, senza il consenso del sovrano locale, il
proprio potere di governo, quindi non può svolgere con i propri organi azioni aventi natura coercitiva
o, comunque, suscettibili di essere coercitivamente attuate.
In ogni caso, si configura la violazione della sovranità territoriale solo in caso di presenza fisica non
autorizzata dell’organo straniero nel territorio.

19
Tendenzialmente, il potere di governo dello Stato territoriale è esclusivo, rispetto a quello degli altri
Stati, e libero nelle forme e nei modi del suo esercizio e nei suoi contenuti, anche se siffatta la libertà,
in un primo momento era assoluta, ma con l’evoluzione del diritto internazionale moderno si è andata
progressivamente restringendosi.
Infatti, le norme internazionali prevedono un complesso di limiti sempre più stringenti per il potere
di governo del territorio, ma esse hanno soprattutto natura convenzionale, per cui sono gli Stati ad
averle liberamente accettate.
Quindi, gli Stati possono scegliere se vincolarsi o meno per convenzione ma con qualche eccezione,
prima fra tutte quella derivante dall’affermazione, nell’ambito del diritto consuetudinario e di quello
pattizio, delle norme che impongono un certo trattamento degli stranieri, persone fisiche o giuridiche,
degli agenti diplomatici, degli organi e degli stessi Stati stranieri.
Altri limiti, attualmente, importantissimi sono quelli prodotti dalle norme che perseguono valori di
giustizia, di cooperazione e di solidarietà tra i popoli.
Si pensi alla sovranità territoriale, la quale trova tutela nel principio di diritto internazionale che vieta
la minaccia o l’uso della forza nei rapporti fra gli Stati; d’altronde essa si traduce nel diritto di
esercitare in modo esclusivo e indisturbato il potere di governo e, pertanto, si acquista con l’esercizio
effettivo dello stesso (c.d. criterio dell’effettività).
Detto ciò, emerge l’importanza del problema degli acquisti di territori effettuati in violazione delle
norme internazionali, ossia con l’uso della forza o in violazione del principio di autodeterminazione
dei popoli, vista l’attuale prassi ancora orientata nel senso che, a prescindere da come un territorio
venga conquistato, con l’effettivo e consolidato esercizio del potere di governo su esso si acquista la
sovranità territoriale.
Lo Stato autore dell’aggressione o detentore del territorio in violazione del principio di
autodeterminazione dei popoli ha l’obbligo, in realtà più teorico che altro, di restituzione, mentre tutti
gli altri Stati devono negare gli effetti extraterritoriali agli atti di governo emanati in quel territorio,
purché vi sia contestazione dell’acquisto dalla maggior parte dei membri della comunità
internazionale.
Quando la controversia riguarda il riconoscimento della sovranità su zone di confine o isole il cui
possesso non è pacifico per gli Stati confinanti, la Corte Internazionale di Giustizia ha spesso dato
prevalenza ad un titolo giuridico certo, come un precedente accordo tra gli Stati interessati, e non
all’effettività, salvo una delle parti abbia prestato acquiescenza alle pretese dell’altra basate proprio
sull’effettività.
L’acquisto e la perdita della sovranità territoriale sono fenomeni legati alla vita stessa dello Stato, ad
esempio nel caso del distacco di una parte del territorio con conseguente formazione di un nuovo

20
Stato, della cessione di territorio, dell’incorporazione ecc., uno Stato perde la sovranità territoriale e
un altro la acquista, subentrando nelle proprietà pubblica e privata dello Stato predecessore.
Anche in questi casi è di fondamentale importanza il principio di effettività, poiché gli accordi,
eventualmente, posti a fondamento delle superiori vicende producono soltanto effetti obbligatori, non
essendo idonei da soli a far sorgere il diritto di sovranità territoriale.

2. I limiti della sovranità territoriale. L’erosione del c.d. dominio riservato e il rispetto dei diritti
umani

Come già detto, la libertà dello Stato all’interno del proprio territorio è soggetta a vari limiti, per lo
più previsti dalle norme internazionali, e in particolare da quelle convenzionali che perseguono valori
di giustizia, di cooperazione e di solidarietà tra i popoli.
Con esse si manifesta la tendenza del diritto internazionale a interferire nei rapporti interni alle singole
comunità statali, in quanto riguardano le stesse nel loro complesso non facendo, così, distinzione tra
cittadini, stranieri o apolidi.
Con l’affermarsi di questi limiti si è andato progressivamente erodendo il c.d. dominio riservato, ossia
la competenza interna dello Stato.
Già la libertà dello Stato di imporre o concedere la propria cittadinanza ad un individuo non è più
senza limiti, infatti, in linea con il principio affermato dalla Corte Internazionale di Giustizia, se essa
viene attribuita in mancanza di un legame effettivo tra l’individuo e lo Stato concedente, la stessa non
può essere opposta ad un altro Stato, soprattutto ai fini dell’esercizio della protezione diplomatica.
Inoltre, vari aspetti della materia e la cittadinanza sono regolati convenzionalmente; vanno ricordate
la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la Convenzione Interamericana dei diritti umani, la
Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, i due patti delle Nazioni Unite sui diritti civili e
politici e sui diritti economici sociali e culturali.
Si tratta di convenzioni che, oltre ad istituire degli organi destinati a vegliare sulla loro osservanza,
contengono un catalogo dei diritti umani.
In materia di diritti umani si sono formate anche norme consuetudinarie, precisamente dei principi
generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni Civili, le quali, contrariamente alle Convenzioni, si
limitano alla protezione di un nucleo fondamentale e irrinunciabile di diritti umani prevedendo il
divieto delle c.d. gross violations, ossia violazioni gravi e generalizzate di tali diritti.

21
In tal modo, da un lato, lo Stato deve astenersi dal ledere siffatti diritti e, dall’altro lato, deve evitare
che le violazioni dei diritti umani siano commesse da individui che si trovino sul suo territorio,
pertanto deve prendere tutte le misure idonee a prevenirle e reprimerle.

3. Limiti relativi rapporti economici e sociali

Molti limiti della sovranità territoriale dello Stato sono posti dal diritto internazionale economico,
ossia un settore dominato dalle norme convenzionali concernenti, soprattutto, i rapporti tra paesi
industrializzati e in via di sviluppo.
Una serie di principi sono stati enunciati dall’assemblea Generale delle Nazioni Unite, dall’UNCTAD
e da altri organi dell’Onu o di altre organizzazioni internazionali, sulla cui base una rete di
convenzioni, finalizzate alla cooperazione e allo sviluppo, ha posto dei limiti alla libertà degli Stati
di regolare liberamente i loro rapporti economici.
In materia economica, un altro limite è rappresentato dagli accordi volti alla liberalizzazione del
commercio internazionale e, in particolare, all’abbattimento degli ostacoli alla libera circolazione di
merci, servizi e capitali.
Invece, il potere di governo dello Stato non incontra limiti di diritto consuetudinario diversi da quelli
relativi al trattamento di interessi economici degli stranieri.
La dottrina ha varie volte tentato di individuare limiti di carattere generale, indipendenti da questi
ultimi, individuando quelli relativi all’irrogazione di sanzioni in base alla legislazione antitrust, alla
legislazione riguardante il commercio internazionale, alle norme che regolano l’amministrazione
della società, ecc.
Così, si è affermato che lo Stato non debba intromettersi negli interessi economici essenziali degli
Stati stranieri, oppure che tali interessi siano oggetto di una ponderazione e hanno il sopravvento, se
meritevoli di maggiore tutela, rispetto a quelli nazionali o, infine, che ogni Stato eserciti il proprio
potere nella materia in esame entro limiti ragionevoli.
Detto ciò, si contesta la c.d. dottrina degli effetti, ossia quel principio secondo cui la giurisdizione
dello Stato si radica tutte le volte in cui un atto produce effetti all’interno del territorio nazionale,
indipendentemente dal luogo in cui è stato posto in essere e dal suo autore.

22
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 1 - FORMAZIONE E CONTENUTO DELLE NORME


INTERNAZIONALI

6a Lezione - Il diritto internazionale marittimo

1. Il diritto internazionale marittimo. Libertà dei mari e controllo degli Stati costieri sui mari
adiacenti

Il potere di governo degli Stati, come già detto nella lezione precedente, è soggetto a dei limiti e
alcuni di questi sono posti da norme che delimitano lo stesso negli spazi marini.
La materia del diritto internazionale marittimo è stata oggetto di due importanti conferenze di
codificazione, una è quella tenutasi a Ginevra nel 1958, l’altra è la terza conferenza delle Nazioni
Unite sul diritto del mare svoltasi tra il 1974 e il 1982.
Dalla prima videro la luce la Convenzione sul mare territoriale e la zona contigua, la Convenzione
sull’alto mare, la Convenzione sulla pesca e la conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare
e la Convenzione sulla piattaforma continentale, invece dalla seconda è nata solamente un’unica
Convenzione firmata Montego Bay nel 1982.
La materia in esame, nel tempo, è stata ispirata dal principio della libertà dei mari, in forza del quale
nessuno Stato può impedire o intralciare l’utilizzazione degli spazi marini da parte degli altri Stati, o
meglio dalle navi che battono bandiera di altri Stati.
Il rispetto di tale criterio garantisce a tutti l’utilizzazione degli spazi marini ma, al contempo, incontra
un limite, ossia quello proprio di ogni regime di libertà che consiste nel rispetto delle pari libertà
altrui.
Ne discende, l’inammissibilità della sottrazione permanente delle risorse del mare da parte di uno
Stato a danno degli altri, ad esempio esaurendo o compromettendo la specie ittica in una determinata
zona oppure chiudendo la navigazione in determinati tratti di mare.
Tuttavia, nonostante il principio della libertà dei mari, gli Stati hanno sempre cercato di assicurarsi
un certo controllo delle acque adiacenti alle proprie coste, contrapponendosi alla prassi
internazionale, la quale era orientata nel senso opposto, ossia che il suddetto principio comprendesse

23
anche i mari adiacenti, facendo salva la possibilità per lo Stato costiero di esercitare eccezionali poteri
sulle navi altrui per regolamentare la pesca e per reprimere il contrabbando.
La situazione, però, cambia alla fine dell’Ottocento, momento in cui il vecchio principio della libertà
dei mari non viene più visto come una delle regole che fanno parte del diritto internazionale
marittimo, cosicché la pretesa degli Stati costieri al controllo dei mari adiacenti ha cominciato a
guadagnare sempre più terreno e a ricevere in ambito sovranazionale una tutela senza precedenti.
Dunque, dalla fine del XIX secolo si è diffusa nella prassi la figura del mare territoriale, intesa come
zona sottoposta al regime del territorio dello Stato e, negli anni immediatamente successivi alla
seconda guerra mondiale, si sono estesi in maniera considerevole i poteri dello Stato costiero.
Infine, negli ultimi anni del Novecento ha trovato spazio un nuovo istituto, la c.d. zona economica
esclusiva, ove, per un’estensione di massimo 200 miglia marine dalla costa, tutte o quasi le risorse in
essa presenti del fondo, del sottosuolo e anche quelle delle acque sovrastanti, sono di pertinenza dello
Stato costiero.

2. Il mare territoriale e la zona contigua

Il diritto internazionale consuetudinario sottopone il mare territoriale alla sovranità dello Stato
costiero, così come avviene con il territorio di terraferma, dunque l’acquisto della stessa avviene in
automatico, nel senso che il suo esercizio sulla costa implica anche la sovranità sul mare territoriale.
L’art. 33 della Convenzione di Montego Bay consente ad uno Stato costiero, in una zona d’alto mare
contigua al mare territoriale, di esercitare il controllo necessario volto a prevenire la violazione delle
proprie leggi di polizia doganale, fiscale, sanitaria o di immigrazione; di reprimere le violazioni delle
medesime leggi qualora siano state commesse all’interno del suo territorio o nel suo mare territoriale.
Però, per quanto riguarda la vigilanza doganale, il potere dello Stato costiero incontra un limite
funzionale e non spaziale, fissato dal diritto internazionale consuetudinario, ossia lo Stato può fare
tutto ciò che è necessario solamente per prevenire e reprimere il contrabbando nelle acque adiacenti
alle sue coste, dalle quali il luogo in cui la repressione avviene può essere distante anche più di 12 o
24 miglia, purché vi sia sempre l’idea di adiacenza.
Pertanto, è necessario che sussista un contatto tra la nave e la costa, che può consistere nel trasbordo
delle merci di contrabbando su imbarcazioni locali, nel fatto che il carico sia destinato ad essere
sbarcato nel territorio dello Stato costiero o sia ad esso diretto, nella particolare pericolosità sociale
della merce.

24
Invero, nella prassi si registra la tendenza di non prendere in considerazione le distanze in favore
dell’interesse alla repressione del contrabbando, sostenendo quando necessario la teoria della
presenza costruttiva, ossia la tesi secondo cui la nave che ha contatti con la costa, in particolare nel
caso di trasbordo di merci su imbarcazioni dirette proprio verso essa, è come se si trovasse negli spazi
sottoposti al potere di governo dello Stato costiero.
Per quanto riguarda i poteri dello Stato costiero sul mare territoriale, questi coincidono con quelli
esercitati nell’ambito del territorio, però essi sono sottoposti a due limiti caratteristici del mare
territoriale che servono a distinguerlo dalle acque interne.
Uno consiste nel c.d. diritto di passaggio inoffensivo o innocente nel mare territoriale riconosciuto
alle navi straniere, sia per attraversarlo, sia per entrare nelle acque interne o per prendere il largo
provenendo da queste, a condizione che tale transito sia continuo e rapido, in quanto esso è
inoffensivo finché non reca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero.
Delle ipotesi in cui viene meno tale carattere sono previste dall’art. 19 della Convenzione di Montego
Bay, che indica l’uso della forza, esercizi o manovre con armi, propaganda ostile, inquinamento,
pesca, come fattispecie in cui il passaggio non può considerarsi inoffensivo.
Al ricorrere di tali circostanze, lo Stato costiero può adottare ogni misura volta ad impedirle, inoltre,
eccezionalmente, può anche chiudere al traffico determinate zone del mare territoriale per motivi di
sicurezza, ad esempio per procedere a manovre militari, purché ne dia adeguata pubblicità e non
effettui discriminazioni tra le navi di diversa nazionalità.
Le suddette norme sul passaggio inoffensivo fanno riferimento a tutti i tipi di navi, per cui vanno
applicate anche nei confronti di quelle da guerra, salvo l’obbligo per i sottomarini di navigare in
superficie.
Il secondo limite, di cui sopra, riguarda l’esercizio della giurisdizione penale sulle navi straniere,
posto che essa non può esercitarsi in ordine a fatti puramente interni che non hanno alcuna
ripercussione nell’ambiente esterno, cioè inidonei a turbare il normale svolgimento della vita della
comunità territoriale.
Sul punto, la Convenzione di Montego Bay non si allinea al diritto consuetudinario, poiché all’art. 27
si limita a prescrivere che lo Stato costiero non dovrebbe esercitare la giurisdizione su fatti interni,
lasciandolo libero di decidere se esercitare o meno la propria potestà punitiva.
3. La piattaforma continentale. La zona economica esclusiva

Con la fine della seconda guerra mondiale, si assiste ad un fenomeno generale di accaparramento
delle risorse marine, poiché i rapidissimi progressi della tecnica mostrano le possibilità di

25
sfruttamento delle stesse e, pertanto, gli Stati costieri iniziano ad estendere il proprio controllo oltre
il mare territoriale e, comunque, al di là delle acque strettamente adiacenti alle coste.
Tale tendenza ha portato la dottrina ad accettare, prima, la piattaforma continentale e,
successivamente, l’istituto della zona economica esclusiva.
Dunque, nonostante la libertà di tutti i Paesi di utilizzare le acque e lo spazio atmosferico sovrastante,
lo Stato costiero aldilà del mare territoriale ha il diritto esclusivo di sfruttare tutte le risorse della
piattaforma, intesa come quella parte del suolo marino contiguo alle coste che costituisce il naturale
prolungamento della terra emersa e, quindi, presenta una profondità costante di circa 200 metri per
poi precipitare o degradare negli abissi.
Lo Stato costiero acquista tale diritto automaticamente, a prescindere dall’occupazione effettiva della
piattaforma, in quanto esso ha natura funzionale, ragion per cui l’esercizio del proprio potere di
governo non può avere ad oggetto ogni aspetto della vita sociale, bensì solo quanto necessario per
controllare e sfruttare le risorse della piattaforma.
In un primo momento, la dottrina della piattaforma continentale si basava sulla conformazione
geografica delle coste risultando palesemente iniqua, tuttavia l’introduzione della zona economica
esclusiva ha comportato l’attribuzione allo Stato delle risorse del fondo marino fino a 200 miglia dalla
costa.
In tal modo, ai poteri dello Stato costiero sulla piattaforma continentale si sono sovrapposti quelli
esercitabili nell’ambito della zona economica esclusiva, ove i poteri dello Stato costiero si traducono
nel controllo esclusivo di tutte le risorse economiche della zona, biologiche e minerali, del suolo,
sottosuolo e acque sovrastanti.
Tale attribuzione delle risorse allo Stato costiero non deve, però, impedire la partecipazione degli altri
Stati ad ulteriori forme di utilizzo della zona, inoltre essi continuano a godere della libertà di
navigazione, di sorvolo, di posa di condotte e di cavi sottomarini.
Considerando che tutti i diritti, sia dello Stato costiero che degli altri Stati, hanno carattere funzionale,
sono permesse solamente le attività necessarie e indispensabili, rispettivamente, per lo sfruttamento
delle risorse e per le comunicazioni e i traffici marittimi e aerei.

26
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 1 - FORMAZIONE E CONTENUTO DELLE NORME


INTERNAZIONALI

BIBLIOGRAFIA

− Cassese, A. (2017). Diritto internazionale. Bologna: Il Mulino.


− Conforti, B. (2018). Diritto internazionale. Napoli: Editoriale Scientifica.

27
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 2 - APPLICAZIONE E VIOLAZIONE DELLE NORME


INTERNAZIONALI

1a Lezione - L’adattamento al diritto internazionale

1. L’adattamento del diritto statale al diritto internazionale

Gli Stati sono tenuti ad osservare il diritto internazionale e tale compito è affidato, in primo luogo,
agli operatori giuridici e, in particolare, agli stessi organi statali nel rispetto delle norme, più o meno
esistenti in tutti gli ordinamenti nazionali, relative all’adattamento del diritto interno a quello
internazionale.
Sul tema si registrano delle dispute tra monisti e dualisti, in quanto secondo i primi il diritto statale
trova fondamento in quello internazionale, a differenza dei secondi che, sostenendo l’originarietà
dell’ordinamento statale, ritengono che esso sia distinto e separato rispetto all’ordinamento della
comunità degli Stati.
In ogni caso, a prescindere dalla tesi avallata, la sostanza non cambia, nel senso che l’importante è
soffermarsi su come in un dato ordinamento statale trovano applicazione le norme internazionali e su
come esse vengono coordinate con quelle interne.
Tutti i problemi di adattamento richiedono di soffermarsi su un aspetto di tipo tecnico che attiene al
mezzo attraverso il quale il diritto internazionale viene nazionalizzato, cioè introdotto
nell’ordinamento statale; si tratta della distinzione tra procedimenti ordinari e speciali di adattamento.
Il primo avviene mediante norme che formalmente sono uguali a quelle statali, rispetto alle quali se
ne differenziano solo nella ratio, che sarebbe quella di creare delle regole corrispondenti a
determinate norme internazionali; in sostanza queste ultime vengono riformulate all’interno dello
Stato.
Nel secondo caso la norma internazionale non viene riformulata all’interno dello Stato, in quanto gli
organi preposti alle funzioni normative si limitano a ordinarne l’osservanza, operando semplicemente
un rinvio alle stesse, alle quali si conferisce, comunque, pieno vigore sul piano nazionale.
Ad esempio, l’art. 10, primo comma, della Costituzione, prevedendo che l’ordinamento giuridico
italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, adotta un
28
procedimento speciale di adattamento.
Al fine di garantire l’esatta applicazione del diritto della comunità degli Stati nei territori nazionali si
preferisce il procedimento speciale, dato che quello ordinario pone l’interprete di fronte ad una norma
che non differisce da quelle statali, se non per il motivo che l’ha ispirata, alla quale deve dare
applicazione e, solo in caso di dubbi circa l’esatta interpretazione della medesima, egli può tenere
conto della norma internazionale che ha fornito l’occasione per l’emanazione di quella interna.
In tal modo, l’interprete è costretto ad applicare una norma interna completamente riformulata, anche
nei casi in cui chi l’ha emanata non ha interpretato correttamente la regola internazionale da introdurre
nell’ordinamento statale, oppure ha fatto riferimento a norme internazionali giuridicamente
inesistenti o estinte.
Come già accennato, la situazione cambia nel procedimento speciale, ove la norma interna opera un
mero rinvio a quelle vigenti nell’ordinamento internazionale e l’interprete deve ricostruire
integralmente il contenuto delle relative norme, stabilire se esse sono effettivamente efficaci, estinte
o illegittimamente emanate, ecc.
In questo modo, se l’interprete dovesse incorrere in un errore nella sua ricostruzione, ciò avrà
conseguenze solo nel singolo caso concreto.
Però, è vero che il procedimento ordinario, in certi casi, è indispensabile, ossia quando la norma
internazionale non è direttamente applicabile e, quindi, non è self-executing, richiedendo
necessariamente, ai fini della loro applicazione, un’attività normativa integratrice da parte degli
organi statali.
Ovviamente, i due procedimenti analizzati possono anche coesistere, ad esempio ciò si verifica
quando si dà ordine di esecuzione di un trattato e, successivamente, si provvede ad emanare gli atti
di integrazione delle norme non self-executing, in tutto o in parte, in esso contenute.
Nel momento in cui le norme internazionali vengono introdotte nell’ordinamento interno, esse
diventano fonti di diritti e obblighi per gli organi statali e per tutti i soggetti, pubblici e privati, che
operano all’interno dello Stato, in maniera analoga ad una qualsiasi norma di origine nazionale.
Ciò è evidente nel caso di adattamento mediante procedimento ordinario, posto che la norma
internazionale addirittura scompare, ma lo stesso vale con riguardo alle norme introdotte all’interno
dello Stato a mezzo del rinvio, con il quale non si vuole fare altro che attribuire valore formale alle
norme internazionali dal punto di vista del diritto interno e, dunque, equipararle alle regole nazionali.
Tali norme internazionali, una volta nazionalizzate non sono direttamente applicabili solamente nei
casi in cui esse lasciano ampi margini di libertà allo Stato, a proposito della loro esecuzione, ossia
quando si tratta di norme non self-executing.
Una norma assume il suddetto carattere solo in alcune ipotesi che vanno rigorosamente circoscritte e,

29
dunque, essa non è direttamente applicabile se attribuisce semplici facoltà agli Stati; così come la
norma, pur imponendo obblighi, non può trovare esecuzione a causa della mancanza di organi o di
procedure interne indispensabili alla sua applicazione; infine, se sono necessari particolari
adempimenti di carattere costituzionale affinché essa possa produrre effetti nell’ordinamento interno.
Abbiamo visto che la distinzione tra i procedimenti ordinari e quelli speciali di adattamento riguarda
la modalità attraverso la quale l’ordinamento interno si adatta al diritto internazionale, ossia come
quest’ultimo venga introdotto e penetra nel contesto statale. Delineato tale aspetto, è necessario
stabilire qual è il rango assunto dalle norme internazionali nella gerarchia delle fonti interne, una volta
introdotte e, conseguentemente come esse devono coordinarsi con le altre norme statali.
Tale rango dipende da quale procedimento di adattamento viene utilizzato, posto che esse non hanno
la stessa forza.
Infatti, se dell’adattamento se ne occupa il costituente le norme internazionali introdotte tenderanno
ad assumere rango costituzionale, invece, se a procedere alla loro introduzione nell’ordinamento
interno è il legislatore ordinario, come avviene nel caso dei trattati, le regole provenienti dalla volontà
della comunità degli Stati saranno equiparabili alle leggi ordinarie.

2. L’adattamento al diritto internazionale consuetudinario

L’art. 10, primo comma, della Costituzione stabilendo che l’ordinamento giuridico italiano si
conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, attua l’adattamento al diritto
generale della Comunità degli Stati attraverso un procedimento speciale o mediante rinvio.
Il costituente si è, così, limitato ad esprimere la propria volontà, ossia un adattamento automatico e,
quindi, completo e continuo, rimettendo all’interprete interno la rilevazione e l’interpretazione delle
norme internazionali generali.
Dunque, è compito del Giudice risolvere ogni questione relativa all’esistenza e al contenuto delle
norme generali internazionali, e per esercitare tale funzione deve innanzitutto individuare le regole
provenienti dalla comunità degli Stati, anche se tale operazione ha un’efficacia limitata al caso
concreto.
Essendo l’adattamento alle norme internazionali previsto dalla Costituzione, esse si collocano in un
livello superiore alla legge ordinaria, la quale non può contrastare il diritto internazionale
consuetudinario, altrimenti diviene costituzionalmente illegittima per la violazione del
summenzionato art. 10 della Costituzione, ragion per cui potrebbe essere annullata dalla Corte

30
Costituzionale.
Atteso che la siffatta disposizione costituzionale impone l’adattamento dell’ordinamento giuridico
italiano, ossia il diritto interno nella sua totalità, al diritto internazionale generale, si può escludere,
in linea di massima, la subordinazione del diritto consuetudinario a quello costituzionale, ragion per
cui il primo prevale sul secondo a titolo diritto speciale.
Al contempo, va sottolineato un aspetto fondamentale, ossia che sempre l’art. 10 della Costituzione
richiede un’interpretazione sistematica, dalla quale si evince che tale norma contiene una clausola
implicita di salvaguardia dei valori fondamentali, posti a fondamento della nostra Carta
Fondamentale, dunque, una norma internazionale generale che eccede il suddetto limite non può
ritenersi richiamata dall’art. 10 Cost. e, pertanto, non può trovare applicazione all’interno dello Stato.
Infatti, al ricorrere della suddetta ipotesi, tutti i soggetti tenuti a darvi applicazione, primi fra tutti i
Giudici, possono rifiutarsi di far produrre effetti giuridici alla norma internazionale lesiva dei principi
fondamentali dell’ordinamento interno, senza che sia indispensabile che sul punto intervenga una
pronuncia della Corte Costituzionale.
Ovviamente, prima di procedere alla disapplicazione di una norma, l’Autorità Giudicante deve
esaminare e considerare tutte le circostanze del caso concreto con molta cautela.
Ad esempio, l’art. 24 della Costituzione italiana garantisce la tutela giurisdizionale dei diritti,
pertanto, è pacifica la sua natura di principio fondamentale della Costituzione, che legittima la
disapplicazione delle norme consuetudinarie sull’immunità dalla giurisdizione civile, purché il
Giudice accerti che tale norma costituzionale non sia, nel caso concreto, soddisfatta per equivalenti,
cioè nello Stato straniero, in quello di appartenenza dell’agente diplomatico, o nell’organizzazione
internazionale, beneficiari dell’immunità, non devono esistere procedure di soluzione delle
controversie azionabili da chi viene danneggiato a causa dell’immunità.

31
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 2 - APPLICAZIONE E VIOLAZIONE DELLE NORME


INTERNAZIONALI

2a Lezione - L’adattamento ai trattati e al diritto dell’Unione Europea

1. L’adattamento ai trattati e alle fonti derivate dai trattati

Nell’ordinamento italiano, l’adattamento alle norme pattizie internazionali richiede normalmente un


apposito atto per ogni singolo trattato, ossia l’ordine di esecuzione il quale non è altro che un
procedimento speciale o di rinvio, come quello previsto dall’art. 10, primo comma, della Costituzione
per il recepimento delle norme consuetudinarie.
L’ordine di esecuzione manifesta la volontà di attribuire efficacia al trattato sul piano nazionale
dandovi applicazione nello Stato, senza, però, riformularne le norme bensì attribuendo all’operatore
interno il compito di ricostruire l’interpretazione delle stesse.
Solitamente, tale atto è contenuto in una legge ordinaria, o meglio in quella che, ai sensi dell’art. 80
della Costituzione, autorizza la ratifica del trattato da parte del Presidente della Repubblica
contenendo una formula del seguente tenore: “piena e intera esecuzione è data al trattato X”, seguita
dalla riproduzione del testo dell’accordo.
Dunque, in genere l’ordine di esecuzione precede l’entrata in vigore dell’accordo che si verifica con
lo scambio delle ratifiche o con il deposito di un certo numero di esse, ma ciò non rileva, posto che
tale atto è un procedimento di adattamento mediante rinvio che, dunque, subordina l’applicazione
della norma internazionale alla sua effettiva esistenza in quanto tale, che deve essere oggetto di
accertamento dell’interprete.
Tale operazione impone a quest’ultimo di considerare tutte le vicende relative a una data norma
proveniente dalla comunità degli Stati, infatti, nel caso di trattati occorre stabilire sia se e quando essi
sono entrati in vigore, sia quali sono gli Stati che ne fanno parte al tempo in cui occorre darvi
applicazione e se questi hanno avanzato riserve, vi si sono opposti, hanno proceduto a notifiche di
successione, hanno denunciato l’accordo, ecc.
Ci si è interrogati sulla rilevanza che assume un trattato nell’ordinamento italiano in mancanza di un
ordine di esecuzione; si tratta di un problema che può rilevare nel caso di trattati stipulati in forma
32
semplificata o di un accordo vincolante sul piano internazionale.
Invero, in difetto dell’ordine di esecuzione, il trattato non ha valore per l’ordinamento italiano, al più
ad esso si attribuisce una funzione ausiliaria sul piano ermeneutico, nel senso che, in sede di
interpretazione delle norme interne, va preso in considerazione al fine di conformare queste ultime il
più possibile alla fonte internazionale, anche se si riconosce la prevalenza di eventuali norme interne
contrarie.
Un altro aspetto che richiede attenzione riguarda il rango assunto dalle norme convenzionali
nazionalizzate mediante un ordine di esecuzione dato con legge ordinaria e, quindi, i rapporti
intercorrenti tra le stesse e le norme di altre leggi ordinarie o quelle costituzionali.
Per quanto riguarda i primi rapporti, prima dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3/2001,
si riteneva che essi avessero ad oggetto norme di pari rango e che, quindi, fossero regolati dal
principio per cui la legge posteriore abroga quella anteriore e la norma speciale prevale su quella
comune.
Tale visione muta nel 2001 con la legge citata, la quale prevede che la legislazione statale deve essere
esercitata nel rispetto dei vincoli internazionali, riconoscendo, in tal modo, la preminenza degli
obblighi derivanti dai trattati sulla legislazione ordinaria, sancita dall’art. 117 Cost.
Ne discende un vizio di illegittimità per violazione indiretta della Costituzione, con conseguente
annullamento da parte della Corte Costituzionale, della legge ordinaria inosservante dei vincoli
derivanti da un trattato.
Ciò posto, va rilevato che non sempre la suddetta Corte è competente in via esclusiva a intervenire
per togliere efficacia alla legge interna che si pone in contrasto con la norma di un trattato
internazionale, in quanto la prevalenza di quest’ultima può anche essere assicurata dal Giudice
comune nell’esercizio della sua normale attività interpretativa.
Si tratta di un tema che è stato oggetto di approfondimento delle sentenze della Corte Costituzionale
nn. 348 e 349 del 2007, con le quali si è riconosciuta al Giudice comune la competenza a interpretare
le norme interne in modo conforme alle disposizioni internazionali, salvo ciò non sia espressamente
vietato o vi siano dubbi circa la compatibilità della regola interna con quella convenzionale, in quanto
in tali ipotesi è necessaria l’instaurazione del giudizio di costituzionalità.
Dunque, da tali pronunce giurisprudenziali emerge il carattere eccezionale dell’intervento della Corte
Costituzionale volto a garantire, sul piano interpretativo, la prevalenza del trattato sulle leggi interne,
il quale deve essere attuato il più possibile dai Giudici comuni.
Spesso, in giurisprudenza si è fatto ricorso alla presunzione di conformità delle norme interne al
diritto internazionale, in forza della quale si ritiene che, quando una legge posteriore risulta essere
ambigua, va preferita l’interpretazione che si pone in linea con una norma internazionale, in modo da

33
consentire allo Stato il rispetto degli obblighi assunti in precedenza.
Inoltre, la prevalenza del trattato è anche garantita dal fatto di considerarlo come diritto speciale,
dunque, in forza di tale principio ermeneutico, la suddetta fonte, una volta introdotta nell’ordinamento
interno, deve trovare applicazione fin quando non si dimostri la volontà del legislatore di venir meno
agli impegni internazionali.
Si tratta, quindi, di un criterio di specialità sui generis, poiché la norma internazionale è sorretta dalla
volontà che determinate situazioni vengano disciplinate in una certa maniera nel rispetto degli
obblighi internazionali.
A proposito dei rapporti intercorrenti tra il trattato, o meglio tra le norme costituitesi nell’ambito
nazionale, in forza della legge di esecuzione dello stesso, e la Costituzione ci si deve attenere ai
principi relativi alla gerarchia delle fonti, cosicché le norme pattizie nazionalizzate possono essere
sottoposte al controllo di costituzionalità ed eventualmente annullate per violazione delle norme
contenute nella nostra Carta Fondamentale.
A conferma di quanto detto, la giurisprudenza della Corte Costituzionale, nel riconoscere il proprio
controllo sulla legge di esecuzione di un trattato, nelle sentenze del 2007 sopra citate, ha affermato
che, in forza del novellato art. 117 Cost., le norme pattizie introdotte nell’ordinamento italiano sono
superiori alla legge, comportando l’illegittimità costituzionale di quelle ad esse contrarie, ma
contestualmente anche le norme internazionali sono soggette ad un controllo di costituzionalità e
possono essere annullate in caso di contrasto con le norme costituzionali.
Alla luce di tali considerazioni, è possibile affermare che quelle pattizie siano delle norme interposte
tra la legge ordinaria e la Costituzione, dunque, da un lato, si pongono come parametro di
costituzionalità delle prime ma, dall’altro lato, assumono un rango inferiore alla seconda.
In ogni caso, nonostante, dal punto di vista formale, le leggi di esecuzione dei trattati sono sempre
sottoposte alla Costituzione, la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha spesso fatto riferimento
ai trattati riguardanti materie costituzionali, in particolare alle Convenzioni internazionali sui diritti
dell’uomo, in sede di interpretazione dei singoli articoli della Carta Fondamentale e anche a supporto
di quelle aventi carattere evolutivo.
A questo punto, occorre chiarire se l’adattamento ad un trattato comprende anche le eventuali fonti
da esso previste e se l’ordine di esecuzione di un trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale
impone di considerare anche le decisioni delle stesse vincolanti per l’ordinamento italiano oppure per
esse è indispensabile uno specifico atto interno.
A volte, un trattato prevede espressamente la diretta applicabilità delle decisioni degli organi
all’interno degli Stati membri a proposito delle organizzazioni internazionali, invece per quanto
riguarda i regolamenti dell’Unione Europea, le norme prodotte dagli organi sono necessariamente

34
immesse automaticamente nell’ordinamento.
Al contrario, quando un trattato istitutivo dell’organizzazione non prevede nulla a tal proposito, per
risolvere la questione si deve fare riferimento all’ordinamento interno.
D’altra parte, in un trattato, al più, si può rintracciare la volontà e l’aspettativa che le decisioni
vincolanti degli organi vengano rispettate ed eseguite nell’ambito nazionale, ma le modalità con le
quali il singolo Stato dia esecuzione alle stesse è un problema che attiene l’ordinamento interno.
Ad esempio, in Italia viene adottato un atto di esecuzione per ogni decisione proveniente da un organo
internazionale vincolante lo Stato, a mezzo del quale si procede all’adattamento in forma ordinaria,
ossia riformulando le norme internazionali in leggi, decreti legislativi o regolamenti amministrativi.
Ciò, però, non toglie valore alle decisioni degli organi internazionali, nell’ordinamento italiano, prima
dell’emanazione degli specifici atti di adattamento, in quanto già il solo ordine di esecuzione del
trattato istitutivo di una determinata organizzazione attribuisce a queste piena forza giuridica interna.
Dunque, è richiesta l’emanazione dei singoli atti di adattamento nella forma ordinaria per conferire
maggiore certezza alle decisioni e integrare il loro contenuto che non sempre è autosufficiente.
Infatti, considerando che con l’art. 11 della Costituzione l’Italia acconsente a delle limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni e che
promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo, tale consenso giustifica
l’introduzione nell’ordinamento interno di fonti normative facenti capo agli organi internazionali.

35
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 2 - APPLICAZIONE E VIOLAZIONE DELLE NORME


INTERNAZIONALI

3a Lezione - L’adattamento al diritto dell’Unione Europea

Sin dall’epoca della Comunità Europea, poi Unione Europea, fino al trattato di Lisbona,
l’ordinamento italiano si è sempre conformato ai trattati succedutisi nel tempo con un classico ordine
di esecuzione contenuto in una legge ordinaria, come avviene nella generalità dei casi.
Tuttavia, questi particolari trattati di cui si discute presentano alcuni elementi che solitamente sono
estranei al diritto delle comuni organizzazioni internazionali, posto che riguardano per lo più vincoli
di tipo federalistico, sicché, in considerazione di tale circostanza e, soprattutto, sotto la spinta della
giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, vista per molto tempo con diffidenza da
parte delle Corti degli Stati membri, l’adattamento degli ordinamenti nazionali al diritto comunitario,
oggi dell’Unione Europea, è avvenuto con metodi diversi rispetto a quelli previsti per i comuni trattati.
In questo modo, si assicura al diritto europeo una prevalenza sulle norme nazionali, comprese quelle
costituzionali, a tal fine anche la Corte Costituzionale fa leva sull’art. 11 Cost. in forza del quale
l’Italia acconsente, in condizioni di parità con gli altri Stati, a quelle limitazioni di sovranità necessarie
ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni e che promuove e favorisce le
organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
E ancora, l’art. 117, primo comma, della Costituzione, così come riformato nel 2001, impone al
legislatore il rispetto degli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione Europea.
Come già detto, i trattati cha hanno visto la luce hanno sempre avuto esecuzione a mezzo della legge
e, per effetto dell’ordine di esecuzione, non solo le norme di essi acquistano forza giuridica all’interno
dell’ordinamento italiano ma la stessa efficacia viene automaticamente riconosciuta alle norme dei
regolamenti, dopo la loro emanazione.
D’altronde, l’art. 288 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea prevede, espressamente,
la diretta applicabilità dei regolamenti in ogni Stato membro, introducendo, così, in Italia una fonte
di tipo legislativo non prevista dalla Costituzione, la quale non può considerarsi violata per tale
ragione, infatti, i fenomeni di rinvio permanente da parte di leggi interne a norme di altri ordinamenti
sono implicitamente ammessi dalla nostra Carta Fondamentale.
36
In linea con tale conclusione si pone la tesi affermata dalla Corte Costituzionale, sulla quale non si
può più dubitare che, nell’agganciare il diritto dell’Unione Europea al summenzionato art. 11 Cost.,
si ritiene legittima la parziale sostituzione degli organi sovranazionali al Parlamento italiano, senza
dovere procedere ad una revisione o integrazione della Carta Fondamentale.
Riconoscendo la diretta e automatica applicabilità dei regolamenti si discute della loro forza formale,
in virtù della quale si legittimano gli stessi a creare diritti e obblighi all’interno del contesto statale,
prescindendo da eventuali provvedimenti di adattamento appositi.
Tale circostanza non consente, però, di ritenere la diretta, o meglio immediata, applicabilità di tutti i
regolamenti anche per quanto riguarda il relativo contenuto, infatti alcuni di essi nascono incompleti
e, pertanto, richiedono, affinché possano produrre i loro effetti in tutto o in parte, di atti statali di
esecuzione ed integrazione.
Un esempio è dato dai regolamenti che riconoscono ampia discrezionalità all’autorità statale, o che
richiedono l’istituzione di organi interni competenti per la materia regolata, o che comportano il
ricorso a procedure costituzionalmente richieste, come la messa a disposizione dei fondi a carico del
bilancio dello Stato.
In tutte queste ipotesi, per potere le disposizioni regolamentari esplicare i loro effetti, è necessaria ed
indispensabile l’emanazione di norme interne di attuazione, dunque dare applicazione ai regolamenti
implica la sovrapposizione ad essi di atti legislativi interni.
A differenza dei regolamenti, le direttive e le decisioni non sono automaticamente applicabili in forza
della sola legge di esecuzione dei trattati, bensì richiedono sempre atti di adattamento precisi, che
possono essere una legge, un decreto legislativo, un decreto-legge o, infine, un atto amministrativo.
Dunque, in tali casi si ricorre al meccanismo del procedimento ordinario di adattamento,
conseguentemente, il provvedimento interno non si limita ad un mero rinvio alla norma della direttiva
o della decisione ma procede all’integrale riformulazione della medesima, ragion per cui esse non
possono trovare applicazione senza un provvedimento interno che vi dia esecuzione.
Invero, la teoria appena descritta è oggi abbandonata, essa si fondava su un argomento al contrario,
ossia la previsione della diretta applicabilità per i soli regolamenti, senza, però, tenere in
considerazione il fatto che l’art. 288 TFUE, che ha sostituito l’art. 249 TCE, sancendo l’obbligatorietà
anche delle direttive e delle decisioni, non poteva volere altro che l’osservanza di tali atti.
Dunque, nel sistema attuale si ritiene che regolamenti, direttive e decisioni vanno posti tutti sullo
stesso piano, per quanto concerne la loro diretta applicabilità, e solo quando essi sono incompleti è
necessario procedere all’emanazione di atti interni per potervi dare esecuzione.
Detto ciò, occorre rilevare che la direttiva è un atto incompleto per definizione, quindi gli unici effetti
che può produrre immediatamente sono quelli conciliabili con l’obbligo di risultato.

37
Oltre alla dottrina, anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ammette l’applicabilità diretta
delle direttive entro certi limiti che vanno sempre più ampliandosi.
Tali atti producono effetti diretti al ricorrere di determinate circostanze, ossia quando i giudici interni
devono interpretare le norme interne che recano la disciplina di materie oggetto di una direttiva, i
quali sono tenuti a conformarsi alla lettera e allo scopo della stessa; quando la direttiva chiarisce la
portata di un obbligo già previsto nei trattati la sua interpretazione è vincolante; quando la direttiva
impone allo Stato un obbligo, anche di risultato, che non richiede necessariamente l’emanazione di
appositi atti di esecuzione, essa può essere invocata innanzi ai Giudici interni per fare valere gli effetti
che la stessa si propone.
Considerando che la direttiva prevede degli obblighi in capo allo Stato, la Corte ritiene che la stessa
può essere invocata soltanto contro lo stesso (c.d. effetti verticali), e non anche nelle controversie tra
i singoli individui (c.d. effetti orizzontali).
Invero, in determinati casi una direttiva può essere direttamente applicabile anche nei rapporti tra i
privati, cioè quando essa fornisce un chiarimento circa un principio generale del diritto dell’Unione
Europea.
La diretta applicabilità caratterizza anche quelle direttive che fissano un termine entro il quale vanno
eseguite nel diritto interno, in tali casi lo Stato, pur non avendo vincoli fino alla scadenza fissata, non
può adottare disposizioni che possono compromettere gravemente il risultato prescritto dalla stessa.
Infine, sono direttamente applicabili le direttive che impongono allo Stato obblighi procedurali,
infatti, la Corte ha previsto che il mancato rispetto dell’obbligo di informare la Commissione
dell’Unione Europea circa l’adozione di determinate norme interne o la loro adozione prima del
decorso dei termini stabiliti per consentire a tale Istituzione di pronunciarsi ed eventualmente
chiederne la modifica comporta la disapplicazione delle norme in questione.
Anche la giurisprudenza prevede delle ipotesi di diretta applicabilità delle direttive, considerando
sempre le caratteristiche della stessa.
Ad esempio, quando una direttiva si occupa di una materia che il diritto interno rimette alla
discrezionalità della Pubblica Amministrazione, la sua inosservanza da parte di quest’ultima
costituisce un’ipotesi di eccesso di potere causante la mancata realizzazione di un fine pubblico
riconosciuto nell’ordinamento nazionale.
Analogamente, nelle materie coperte da riserva di legge, l’eventuale inerzia del legislatore interno
può essere sopperita dall’esistenza di direttive aventi il medesimo oggetto.
Infine, occorre fare riferimento ad un effetto riconosciuto dalla Corte di Giustizia alle direttive che
non sono direttamente applicabili e che non trovano attuazione, dunque in violazione del diritto
dell’Unione Europea.

38
Invero, la conseguenza prevista dalla Corte che ne deriva non riguarda le sole direttive bensì ogni
caso di violazione, ossia il diritto dei singoli, lesi dall’inosservanza delle prescrizioni contenute in un
atto proveniente dalle Istituzioni europee, di chiedere il risarcimento del danno subito, a condizione
che le norme disattese attribuiscano diritti e sussista un nesso di causalità tra l’inattuazione delle
stesse e il nocumento patito da colui che avanza la pretesa risarcitoria.
All’interno degli ordinamenti degli Stati membri, l’efficacia diretta va riconosciuta anche agli accordi
che l’Unione Europea conclude con Stati terzi, purché essi contengano norme complete, che non
richiedono integrazione da parte degli organi europei.
A proposito del rango delle norme dell’Unione Europea, secondo la Corte Costituzionale esse sono
direttamente applicabili e prevalgono sulle leggi interne anteriori e posteriori, le quali vanno
disapplicate se confliggenti con le norme comunitarie self-executing.
Si tratta di una tesi che trova fondamento nel citato art. 11 della Costituzione che prevede un
coordinamento tra il diritto interno e quello dell’Unione, in base al principio del primato del secondo
sul primo, il quale cede di fronte alle regole comunitarie direttamente applicabili rendendo irrilevanti
le norme interne con esse incompatibili.

39
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 2 - APPLICAZIONE E VIOLAZIONE DELLE NORME


INTERNAZIONALI

4a Lezione - Violazione delle norme internazionali: il fatto illecito

1. Il fatto illecito nei suoi elementi costitutivi: l’elemento soggettivo

Si parla di responsabilità internazionale degli Stati nelle ipotesi di violazione del diritto internazionale
o di un fatto illecito internazionale.
La materia è stata, già all’epoca della Società delle Nazioni, oggetto di plurimi tentativi di
codificazione, ma solamente nel 2001 si giunge ad un progetto definitivo, formato da 59 articoli che
si occupano degli elementi e delle conseguenze dell’illecito, la cui caratteristica fondamentale è quella
di considerare i principi sulla responsabilità applicabili per la violazione di qualsiasi norma
internazionale.
Iniziando con l’analisi dell’origine della responsabilità, il fatto illecito consiste in un comportamento
di uno o più organi statali che, nel loro insieme, identificano lo Stato-organizzazione, il quale non
può che considerarsi un soggetto di diritto internazionale.
Per potere parlare di fatto illecito devono sussistere alcuni elementi, ossia un comportamento (azione
o omissione) attribuibile allo Stato e integrante una violazione di un obbligo internazionale.
Quindi, innanzitutto, deve sussistere un elemento soggettivo legato alla condotta di un organo
legislativo, giudiziario o esecutivo dello Stato o di persone che si comportano come se lo fossero; si
pensi all’esercizio privato di pubbliche funzioni o a coloro che agiscono sotto il controllo o dietro
istruzioni dello Stato.
Dato che l’autore dell’illecito deve necessariamente essere un organo dello Stato, la condotta
antigiuridica deve dipendere da un’azione, posto che in caso di reati omissivi l’identificazione di chi
era competente ad attivarsi e simili questioni non interessano il diritto internazionale.
Tendenzialmente, tutti gli organi possono, con le proprie azioni, implicare la responsabilità dello
Stato, anche se ciò trova un limite nel contenuto delle norme internazionali, infatti tale diritto non dà
rilevanza all’astratta possibilità, riconosciuta agli Stati, di indirizzare comandi agli individui se essi
non possono ricevere concreta attuazione.
40
Ecco perché non è configurabile la violazione delle norme internazionali con la sola emanazione di
leggi o altre norme aventi portata astratta, posto che il contenzioso internazionale deve avere ad
oggetto questioni concrete.
Dunque, solo l’emanazione di un atto legislativo contenente un provvedimento effettivamente
attuabile costituisce un fatto illecito internazionale, il quale si verifica solo dopo che sono stati esauriti
gli eventuali mezzi di ricorso interni, ossia quando lo Stato, pur avendo la possibilità di riparare, non
lo abbia fatto.
Ciò posto, l’illecito internazionale deve provenire da un comportamento assunto dagli organi statali
e, pertanto, allo Stato non può attribuirsi una responsabilità per gli atti posti in essere dai privati lesivi
degli interessi di individui, organi o Stati stranieri.

2. L’elemento oggettivo

Per potere configurare un fatto illecito deve sussistere un secondo elemento, ossia un comportamento
dell’organo statale antigiuridico consistente nella violazione di una norma internazionale.
Tale inosservanza si verifica quando lo Stato pone in essere un fatto non conforme a quanto prescritto
da un obbligo già esistente al momento della sua commissione, in forza del principio del tempus regit
actum.
Gli articoli 14 e 15 del progetto determinano il tempus commissi delicti in relazione agli illeciti
istantanei, continui e composti; ciò è particolarmente rilevante ai fini dell’interpretazione dei trattati
di arbitrato e di regolamento giudiziario, i quali, normalmente, si vogliono applicare alle sole
controversie aventi ad oggetto fatti precedenti la loro entrata in vigore o, comunque, una certa data.
L’argomento di cui si discute richiede di soffermarsi anche sulle cause o circostanze escludenti
l’illiceità di una condotta che a prima vista sembra integrare una violazione di un obbligo
internazionale.
Una prima causa è costituita dal consenso, validamente dato, dello Stato leso alla commissione, da
parte di un altro Stato, di un fatto determinato; ad esempio, l’autorizzazione al compimento di alcuni
atti coercitivi, come la cattura di un criminale o la liberazione di ostaggi, da parte di organi stranieri.
Tale consenso, apparentemente, assume le vesti di un vero e proprio accordo tra lo Stato autorizzante
e quello autorizzato, volto a sospendere, limitatamente al caso specifico, un obbligo preesistente.
Invero, tale causa di esclusione dell’illiceità si manifesta mediante un’autorizzazione dello Stato che
altrimenti sarebbe leso, dunque, si tratta sostanzialmente di un atto unilaterale, il quale, infatti, può

41
essere revocato, ma non può mai violare una norma imperativa, data l’inderogabilità assoluta dello
ius cogens.
Tra le più importanti cause di esclusione dell’illiceità trova un posto l’autotutela, cioè l’insieme di
azioni la cui funzione è quella di reprimere un illecito altrui e, pertanto, non possono essere
considerate come antigiuridiche anche quando comportano l’inosservanza di norme internazionali.
L’art. 23 include tra le suddette cause la forza maggiore, ossia quando risulti materialmente
impossibile adempiere un obbligo a causa del verificarsi di una forza irresistibile o di un evento
imprevisto, purché, come previsto dal successivo art. 25, l’atto non conforme ad un obbligo
internazionale sia l’unico mezzo per proteggere un interesse essenziale.
In ogni caso, la necessità non può essere invocata se è espressamente esclusa dall’obbligazione in
questione o nei casi in cui lo Stato abbia contribuito al verificarsi di tale situazione.

3. Gli elementi controversi: la colpa e il danno

Un punto controverso riguarda la necessità o meno che sussista la colpa dell’organo statale autore
della violazione, che permette la configurazione di tre tipi di responsabilità.
Si parla di responsabilità per colpa nei casi in cui l’autore dell’illecito lo commette intenzionalmente
(dolo) o per negligenza, cioè non adottando tutte le misure idonee ad evitare l’evento dannoso (colpa
lieve o grave, in base al grado di diligenza richiesto dalla norma violata).
Invece, si configura una responsabilità oggettiva relativa quando essa sorge per il solo compimento
dell’illecito, anche se il relativo autore può invocare, per sottrarsi alla stessa, una causa di
giustificazione, consistente in un evento esterno che rende impossibile osservare una data norma.
Invero, si tratta di una responsabilità aggravata, poiché l’unica causa di giustificazione alla quale può
farsi ricorso è la forza maggiore e per l’inversione dell’onere della prova, in quanto non è la vittima
dell’illecito a dovere provare l’esistenza della colpa, bensì è il relativo autore che deve dimostrare
l’esistenza della causa di giustificazione.
Infine, il terzo tipo di responsabilità è quella oggettiva assoluta, la quale, a differenza di quella
relativa, non ammette alcuna causa di giustificazione.
In un primo momento, si riteneva che la responsabilità dello Stato fosse quella per colpa, richiedendo
un comportamento dell’organo statale intenzionale o frutto di negligenza, successivamente si
sosteneva la natura obiettiva della stessa, infine, la dottrina si è divisa.
Oggi, si può ritenere che il regime della responsabilità può essere previsto in base al tipo di norme

42
violate; ad esempio, la violazione del dovere di protezione degli stranieri o degli organi stranieri
determina la responsabilità per colpa dello Stato per non avere usato la dovuta diligenza, invece un
caso di quella assoluta è previsto dalla Convenzione sulla responsabilità internazionale per i danni
causati dagli oggetti spaziali, in capo allo Stato di lancio per tutti i danni causati alla superficie della
terra o agli aeromobili in volo.
Il regime residuale, applicabile in tutti gli altri casi, è quello della responsabilità oggettiva relativa,
dunque, uno Stato risponde per qualsiasi violazione del diritto internazionale compiuta dai suoi
organi, salvo riesca a dimostrare una causa di impossibilità assoluta, dell’osservanza dell’obbligo,
non da lui provocata.
Invero, la maggior parte delle violazioni del diritto internazionale, anche se provenienti da un singolo
organo condizionato da tutte le norme amministrative, legislative e costituzionali, affondano le loro
radici nell’ordinamento statale, rendendo impossibile la ricerca nell’illecito di un atteggiamento di
negligenza o doloso.
Infatti, anche gli Stati che reagiscono alla violazione di norme internazionali, soprattutto quelle
pattizie, nel ricorrere a contromisure non si soffermano sull’eventuale esistenza di negligenza o di
intenzionalità.
E ancora, esaminando la giurisprudenza della Corte dell’Unione Europea e della Corte Europea dei
diritti umani, le quali più volte si sono occupate della violazione di norme convenzionali, si può notare
che non è mai stata effettuata un’indagine sul dolo o sulla colpa degli organi dello Stato accusato.
Ciò posto, il regime residuale delineato riguarda qualsiasi illecito consistente nell’inosservanza di una
norma consuetudinaria, pattizia o posta da un atto di un’organizzazione internazionale, e il carattere
relativo della responsabilità oggettiva trova conferma nell’abbondante prassi internazionale.
Tale prospettiva si pone in linea con il progetto, dato che non si occupa del problema della colpa, la
quale non è menzionata come elemento costitutivo dell’illecito internazionale. Infine, un altro punto
controverso riguarda la configurazione del danno materiale e morale come presupposto dell’illecito,
al quale il progetto dà risposta negativa per il fatto che, oggi, vi sono delle norme di diritto
internazionale, come quelle che obbligano gli Stati a tutelare i diritti umani dei propri cittadini, o
quelle che vietano l’uso della forza, o quelle sull’autodeterminazione, la cui inosservanza da parte di
uno Stato è vista come un illecito nei confronti di tutti gli altri destinatari, a prescindere dalla lesione
di un loro interesse diretto e concreto.

43
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 2 - APPLICAZIONE E VIOLAZIONE DELLE NORME


INTERNAZIONALI

5a Lezione - Le conseguenze da fatto illecito internazionale

La violazione del diritto internazionale comporta una responsabilità in capo allo Stato, tenuto a
rispondere dell’illecito commesso, la cui conseguenza principale consiste nel dar vita ad una nuova
relazione giuridica tra lo Stato offeso e quello offensore, in forza della quale il primo pretende
un’adeguata riparazione corrispondente al correlato obbligo posto a carico del secondo.
Dunque, si può dire che i suddetti diritti e obblighi costituiscono una norma secondaria, data, quindi,
dalle conseguenze giuridiche dell’illecito, che si contrappone a quella primaria, ossia la disposizione
violata.
La riparazione pretesa dallo Stato leso comporta, da un lato, il ripristino della situazione precedente
la commissione della violazione e, dall’altro lato, il risarcimento del danno o, se esso è immateriale,
la soddisfazione (es. presentazione ufficiale di scuse, omaggio alla bandiera dello Stato offeso, ecc.).
Si registra la tendenza di ricondurre alla norma secondaria, quindi di considerare come conseguenza
dell’illecito, anche i mezzi di autotutela, specialmente le rappresaglie o le contromisure.
Ciò posto, dal fatto illecito discende per lo Stato offeso, oltre al diritto di chiedere la riparazione, la
facoltà di ricorrere a contromisure coercitive, non necessariamente implicanti l’uso della forza, al fine
di punire lo stato offensore.
Dunque, atteso che in ambito internazionale manca un sistema accentrato di garanzia dell’attuazione
delle norme, la normale reazione contro un illecito è farsi giustizia da sé, contrariamente a quanto
previsto nel diritto interno, ove tale circostanza presenta carattere eccezionale ed è ammessa solo nel
rispetto di certi limiti, in certi campi e in presenza di circostanze particolari.
Anche se, dalla fine della seconda guerra mondiale, si è ritenuto che l’autotutela non possa giustificare
la minaccia o l’uso della forza, in quanto vietati dalla Carta delle Nazioni Unite e dal diritto
internazionale consuetudinario.
Nonostante il carattere cogente del superiore principio, esso trova un limite generale nella legittima
difesa, vista come la risposta ad un attacco armato già sferrato.
Affinché si consideri integrata una forma di aggressione non è necessario che l’attacco provenga da
44
forze regolari, dato che uno Stato può agire anche a mezzo di bande irregolari o di mercenari da esso
assoldati, invece non è sufficiente la sola assistenza data a forze ribelli, in un territorio straniero, sotto
forma di fornitura di armi, di assistenza logistica e simili.
Invero, un’altra eccezione al divieto dell’uso della forza è rappresentata dal filone umanitario, per cui
sono ammissibili quegli interventi armati volti a proteggere la vita dei propri cittadini all’estero e a
reagire contro altri Stati che compiono violazioni gravi dei diritti umani nei confronti dei loro stessi
cittadini.
Un esempio di quest’ultimo caso è dato dall’intervento degli Stati della Nato contro la Repubblica
Jugoslava per i massacri compiuti nel Kosovo.
E ancora, un ulteriore limite al divieto in questione è costituito dalla tendenza di estendere la categoria
della legittima difesa individuale o collettiva, allo scopo di legittimare l’uso della forza in via
preventiva e di giustificare le reazioni contro Stati sul cui territorio gruppi terroristici stabiliscono le
loro basi e preparano attacchi contro altri; si pensi alla guerra della coalizione di Stati facenti capo
agli Stati Uniti contro l’Afghanistan, per distruggere le basi dell’organizzazione terroristica al Qaeda
dopo la strage dell’11 settembre 2001.
In considerazione di tale sistema, sia molti Stati e prevalentemente i più deboli, sia la dottrina hanno
manifestato forti dubbi, ritenendo che, a proposito del filone umanitario, l’uso della forza deve essere
autorizzato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, come previsto dalla Carta delle Nazioni Unite.
Anche l’ampliamento dei casi di legittima difesa, soprattutto per giustificare la reazione al terrorismo,
è stato visto come un espediente teso a legittimare l’uso della forza, in quanto anche con gli attacchi
terroristici si realizzano crimini internazionali individuali, la cui punizione non deve essere la causa
di altre vittime innocenti.
Dunque, se la forza è usata su larga scala, configurando una vera e propria guerra, significa che il
sistema di sicurezza collettiva dell’Onu non riesce a funzionare e il diritto internazionale ha esaurito
il suo scopo.
Pertanto, la guerra può essere valutata solo politicamente e moralmente e venire giustificata o
condannata in base ai valori perseguiti, invece sul piano giuridico non è né lecita né illecita, bensì
indifferente.
Tale quadro dimostra come ogni ordinamento giuridico può presentare delle lacune, in quanto non
sempre esiste una norma di chiusura dello stesso; ecco perché tutto ciò che non è vietato è permesso.
Lo stato di guerra comporta la vigenza di un insieme di regole consuetudinarie e pattizie, c.d. ius in
bello, le quali tendono a contemperarne gli effetti crudeli, a proteggere le popolazioni civili e i paesi
estranei al conflitto e a imporre la punizione per i crimini di guerra, contrapponendosi allo ius ad
bellum.

45
A questo punto, occorre soffermarsi sul significato di “divieto dell’uso della forza”, considerando la
distinzione tra forza internazionale e interna, in quanto il diritto internazionale vieta solamente la
prima, ossia le operazioni militari di uno Stato contro un altro.
D’altronde, un siffatto divieto avente ad oggetto la forza interna comporterebbe l’abolizione del
diritto di sovranità territoriale, posto che essa rientra nel normale esercizio della potestà di governo
dello Stato.
Anche se, non sempre è agevole procedere a tale distinzione, per cui si ritiene che l’unico criterio
utilizzabile sia quello del luogo dove l’azione dello Stato è commessa, pertanto se uno Stato utilizza
la forza all’interno del suo territorio e degli altri spazi soggetti alla sua sovranità si configura
un’azione di polizia interna, al contrario, se ciò avviene al di fuori di tali spazi geografici si realizza
un’ipotesi di uso della forza internazionale.
Ritornando sul tema dell’autotutela, si rileva che la forma più importante è costituita dalla
contromisura, ossia un comportamento dello Stato leso che sarebbe illecito se non costituisse la
reazione ad una condotta antigiuridica altrui, conseguentemente, lo Stato leso può reagire contro lo
Stato offensore e violare, a sua volta, solamente nei confronti di quest’ultimo gli obblighi derivanti
dalle norme consuetudinarie e da quelle sul trattamento degli stranieri o degli Stati stranieri.
In ogni caso, anche le contromisure incontrano vari limiti contemplati dal diritto internazionale
generale e particolare, come la proporzionalità richiesta tra la violazione subita e quella commessa
per rappresaglia.
Tale limite non è così restrittivo da pretendere una perfetta corrispondenza tra le due violazioni, in
quanto, di solito, a fronte dell’inosservanza di un obbligo si può reagire disattendendone un altro del
tutto diverso, purché non vi sia un’eccessiva sproporzione, pena l’illiceità della contromisura per la
parte eccedente.
Un altro ostacolo è dato dall’impossibilità di violare il diritto internazionale cogente, anche quando
la contromisura consiste in una reazione contro violazioni dello stesso tipo; tra le norme di ius cogens
vi rientrano quelle volte a tutelare la dignità umana, pertanto un ulteriore limite è dato dal rispetto dei
principi umanitari.
Dunque, si può ritenere che il diritto cogente segna la linea di confine entro la quale la contromisura
diventa illegittima, posto che agli Stati è consentito derogare ad una norma mediante accordo,
altrettanto possono fare a titolo di contromisura.
Ecco perché non convince la tesi che prevede l’estensione del divieto di contromisure a tutte le norme
internazionali, consuetudinarie e pattizie, sui diritti umani o a quelle relative all’immunità degli agenti
diplomatici, fatti salvi il rispetto della dignità umana e il divieto delle gross violations dei diritti
umani.

46
In tal modo, lo Stato potrebbe disattendere queste norme solo per reagire a violazioni esattamente
corrispondenti, ossia quando i suoi cittadini e i suoi agenti diplomatici abbiano subito le stesse
violazioni.
Infine, si ritiene che il ricorso alla contromisura è subordinato ad un preventivo tentativo di
raggiungimento di una soluzione concordata della controversia, però manca una regola rigida sul
punto, pertanto non si può impedire ad uno Stato, che deve fronteggiare una situazione di emergenza,
di adottare quelle necessarie.
Nell’ambito del concetto di autotutela si può ricondurre anche la ritorsione, la quale si differenzia
dalla contromisura perché non comporta la violazione di norme internazionali, bensì si traduce in un
comportamento inamichevole; ad esempio l’attenuazione o la rottura di rapporti diplomatici o della
collaborazione economica e commerciale, posto che non esiste alcun obbligo internazionale di
intrattenere tali relazioni, salvo siano imposti da alcuni trattati. Invero, si sostiene che la ritorsione
non possa essere considerata una forma di autotutela, in quanto uno Stato può sempre tenere un
siffatto comportamento nei confronti di un altro, a prescindere dall’esistenza di un eventuale illecito
subito.
Però, un sostegno della tesi contraria è rinvenibile nella prassi relativa alla materia delle sanzioni
economiche, come l’interruzione parziale o totale dei rapporti commerciali, di un programma di aiuto
allo sviluppo ecc., alle quali si ricorre per fare cessare violazioni di norme internazionali, non
necessariamente relative a rapporti economici.
Spesso tali sanzioni consistono, allo stesso tempo, in violazioni di obblighi precedenti e in
comportamenti inamichevoli, dunque in esse i caratteri della contromisura e della ritorsione sono
difficilmente separabili.

47
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 2 - APPLICAZIONE E VIOLAZIONE DELLE NORME


INTERNAZIONALI

6a Lezione - L’accertamento delle norme internazionali nell’ambito della comunità


internazionale

1. L’arbitrato. La corte internazionale di giustizia

La funzione giurisdizionale internazionale consiste nell’accertamento vincolante del diritto e, ancora


oggi, ha natura arbitrale, poiché è legata al principio secondo cui un Giudice internazionale può
giudicare solo se la sua giurisdizione è stata preventivamente accettata da tutti gli Stati parti di una
controversia.
Gli Stati possono deferire al Tribunale Internazionale qualsiasi controversia relativa ai loro reciproci
rapporti, purché essi concordino nel sottoporre la questione ad un’istanza giurisdizionale
sovranazionale, accettando la vincolatività della decisione.
Per controversia si intende un qualunque disaccordo su un punto di diritto o di fatto, un contrasto,
un’opposizione di tesi giuridiche o di interessi tra due soggetti.
Non si può fare una distinzione tra controversie giustiziabili e non, in quanto il diritto internazionale
può pronunciarsi su qualsiasi rapporto tra Stati, quantomeno a favore della libertà di quello da cui la
controparte pretende qualcosa.
Semmai, in alcuni casi le parti possono assumere l’impegno di sottoporsi ad un Tribunale
Internazionale comunque costituito, invece, in altre controversie tale scelta non viene effettuata e la
loro eventuale soluzione è rimessa alle vie diplomatiche.
La distinzione tra controversie giuridiche e politiche, consistente nel fatto che nelle seconde, a
differenza delle prime, una o entrambe le parti non invocano il diritto internazionale ma pretendono
di mutarlo a loro favore è, ormai, priva di senso.
Anche se molti importanti accordi vigenti impongono l’obbligo di regolamento giudiziario, da essi
previsto, alle controversie giuridiche, ciò non ha quasi mai indotto i Tribunali Internazionali a negare
la propria giurisdizione.
Qualora gli Stati rendono un’apposita dichiarazione per accettare come obbligatoria la giurisdizione
48
della Corte, possono essere citati innanzi a tale Autorità da un qualsiasi altro Stato che abbia reso la
medesima manifestazione di volontà.
Tale dichiarazione di accettazione può riguardare ogni controversia di natura giuridica avente ad
oggetto l’interpretazione di un trattato, qualsiasi questione di diritto internazionale, l’esistenza di un
fatto integrante la violazione di un obbligo internazionale, la natura o la misura della riparazione
dovuta per la commissione di un illecito internazionale.
Ciò posto, il processo internazionale ha carattere sostanzialmente arbitrale, basandosi sulla volontà,
o meglio sull’accordo, di tutti gli Stati parti di una controversia, in mancanza della quale non è
possibile obbligare una controparte a sottoporsi a giudizio.
Già alla fine del XIX secolo si è cominciato a ricorrere a dei meccanismi per facilitare l’accordo degli
Stati, indispensabile per l’instaurazione del processo internazionale, ragion per cui si è inserita una
clausola compromissoria nelle convenzioni, creando, così, l’obbligo per gli Stati di ricorrere
all’arbitrato per le eventuali controversie che possono sorgere in futuro circa l’applicazione e
l’interpretazione della stessa.
Analoga funzione è attribuita al trattato generale di arbitrato che, addirittura, crea il suddetto obbligo
generico di ricorrere all’arbitrato per qualsiasi controversia, ad eccezione di quelle che in passato
erano indicate come toccanti l’onore e l’indipendenza delle parti o aventi natura politica, e oggi come
quelle relative alle questioni di dominio riservato.
Nello stesso periodo si è proceduto all’istituzionalizzazione dei tribunali internazionali, ossia organi
arbitrali permanenti, e alla predisposizione di regole di procedura applicabili ai procedimenti
instaurati.
Dopo la fine della prima guerra mondiale, è stata creata la Corte Permanente di Giustizia
Internazionale e successivamente la Corte Internazionale di Giustizia in sostituzione della prima.
Inoltre, compaiono le figure della clausola compromissoria e del trattato generale di arbitrato,
entrambi “completi”, nel senso che non solo creano l’obbligo di stipulare il compromesso ma
prevedono anche quello di sottoporsi direttamente al giudizio di un Tribunale Internazionale già
predisposto e funzionante.
In tal modo, essi permettono ad uno Stato contraente di citarne unilateralmente un altro di fronte al
Tribunale Internazionale investito della controversia.
In ogni caso, il fondamento del giudizio resta volontario perché dipende dall’esistenza di una clausola
compromissoria o di un trattato generale completo.
Anche a proposito delle sentenze internazionali, arbitrali ed emanate dai Tribunali settoriali e
regionali, ci si può interrogare sui mezzi che ne assicurano l’esecuzione in via coattiva.
Tale problema è riconducibile a quello dell’attuazione coercitiva delle norme internazionali e, anche

49
in questo caso, si lamenta la scarsezza di mezzi idonei a tal fine, a livello interstatale e, pertanto,
occorre fare affidamento sul diritto interno degli stessi Stati tenuti ad osservare la sentenza.
In particolare, una sentenza internazionale va assicurata dalle stesse norme statali che provvedono
all’adattamento alle regole internazionali, il cui contenuto è accertato con il provvedimento
giudiziario in questione; ad esempio, la legge italiana di esecuzione di un trattato impone di osservare
lo stesso e anche l’eventuale sentenza internazionale emessa in ordine al trattato medesimo nei
confronti dell’Italia o di persone che operano all’interno dello Stato italiano.

2. I Tribunali internazionali settoriali e regionali

Vanno sempre più aumentando gli organi giurisdizionali internazionali con competenze settoriali, che
spesso si differenziano dall’arbitrato perché, per disposizione dei loro trattati istitutivi, possono essere
aditi unilateralmente e, alcuni di essi, sono aperti anche gli individui o addirittura sono creati per
giudicarli.
Gli organi settoriali sono quasi giurisdizionali, in quanto si occupano dell’accertamento di norme
internazionali, come un tribunale, ma non possono emanare sentenze o decisioni vincolanti, ma
solamente adottare raccomandazioni o atti equivalenti.
I tribunali internazionali settoriali possono avere carattere regionale o universale; i primi si occupano
solitamente dei diritti umani e della cooperazione o integrazione economica.
Tale aumento dei Giudici internazionali è una delle cause della frammentazione del diritto
internazionale, in quanto questi possono pronunciarsi in modo diverso sull’esistenza e
sull’interpretazione della stessa norma.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha competenze particolari, infatti si dubita sulla sua
qualifica di tribunale internazionale, con cui ha in comune soltanto l’origine pattizia, essendo sorta e
disciplinata dai trattati istitutivi della Comunità Europea e poi dell’Unione.
Tale Corte, oltre a svolgere una classica funzione arbitrale, si occupa di ricorsi per violazione dei
trattati da parte di uno Stato membro, del controllo di legittimità sugli atti degli organi dell’unione,
infine delle cosiddette questioni pregiudiziali.
Tali ricorsi possono essere proposti dalla Commissione o da ogni Stato membro, previa consultazione
della prima; se l’accusato viene dichiarato inadempiente deve adottare tutti i provvedimenti necessari
per dare esecuzione alla sentenza.
Il controllo di legittimità sugli atti comunitari ha ad oggetto quelli legislativi e non vincolanti, ossia

50
regolamenti, direttive e decisioni, del Consiglio, della Commissione, della Banca centrale, del
Parlamento e del Consiglio Europeo.
I vizi degli stessi comportano il loro annullamento ex tunc e dipendono dall’incompetenza
dell’organo, dall’inosservanza di forme sostanziali, del trattato o di altra regola di diritto relativa alla
sua applicazione, o dallo sviamento di potere.
Infine, in tema di questioni pregiudiziali la competenza della Corte è disciplinata dall’art. 267 TFUE,
il quale prevede che se innanzi a un Giudice di uno Stato membro viene sollevata una questione
relativa all’interpretazione dei trattati o alla validità o interpretazione degli atti degli organi
dell’Unione, egli ha il potere o, se è in ultima istanza, il dovere di sospendere il processo e chiedere
una pronuncia della Corte a riguardo.
Tale decisione ha effetto immediato nel giudizio nazionale in questione ma l’interpretazione in essa
contenuta sarà utilizzata in tutti gli Stati membri fin quando la Corte non la muti con una successiva
pronuncia, dunque la suddetta competenza persegue lo scopo di assicurare l’interpretazione uniforme
del diritto dell’Unione negli Stati membri.
Quando una sentenza della Corte pone a carico di persone diverse dagli Stati un obbligo pecuniario
costituisce titolo esecutivo negli Stati membri.
Accanto la Corte si colloca il Tribunale di primo grado dell’Unione Europea, competente
principalmente nei ricorsi promossi dalle persone fisiche e giuridiche, in tema di controllo sulla
legittimità degli atti, e le relative sentenze possono essere impugnate davanti alla Corte per motivi di
diritto.
Infine, merita di essere menzionata la Corte Europea dei diritti dell’uomo garantisce il rispetto della
Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei suoi
protocolli da parte degli Stati contraenti.
Il ricorso alla Corte è interstatale o individuale se viene proposto, rispettivamente, da un altro Stato
contraente nell’interesse obiettivo o da qualsiasi persona fisica o giuridica o organizzazione o gruppo
di individui, in tale secondo caso è necessario che lo stesso ricorrente si affermi essere la vittima di
una violazione della Convenzione.
Alla formazione delle norme internazionali sui crimini di guerra e contro l’umanità si accompagna la
tendenza ad attribuire la correlativa giurisdizione penale ai Tribunali Internazionali.
Si ricordano il tribunale di Norimberga del 1945, quello di Tokyo e la Corte Penale Internazionale
del 1998.

51
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 2 - APPLICAZIONE E VIOLAZIONE DELLE NORME


INTERNAZIONALI

BIBLIOGRAFIA

− Cassese, A. (2017). Diritto internazionale. Bologna: Il Mulino.


− Conforti, B. (2018). Diritto internazionale. Napoli: Editoriale Scientifica.

52
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 3 - IL PUBBLICO IMPIEGO

1a Lezione - La disciplina del lavoro nel pubblico impiego

1. Il diritto del lavoro e le sue fonti

La materia sulla quale ci soffermeremo nelle prossime lezioni si occupa delle relazioni giuridiche che
si instaurano tra il datore e il lavoratore, infatti il diritto del lavoro è costituito da tutte quelle regole
che disciplinano tale rapporto e, contestualmente, tutelano l’interesse economico, la libertà, la dignità
e la personalità del soggetto subordinato.
La particolarità di tale disciplina è che i soggetti coinvolti, dal punto di vista giuridico, operano in
condizioni di parità ma, sotto il profilo economico, il prestatore di lavoro si trova in una posizione di
debolezza rispetto all’altra parte.
L’ordinamento si occupa del diritto del lavoro attraverso plurime fonti giuridiche, innanzitutto la
Costituzione introduce dei principi generali, agli articoli 1, 3 e 4, e contiene delle norme all’interno
del titolo terzo della parte prima relativa ai rapporti economici.
Più specificatamente, l’art. 35 riguarda la tutela del lavoro, la formazione e l’elevazione professionale
dei lavoratori in considerazione delle condizioni del mercato del lavoro interno e internazionale; l’art.
36 stabilisce i criteri di determinazione della retribuzione, l’inderogabilità del riposo settimanale e
delle ferie annuali, invece, riserva alla legge la fissazione della durata della giornata lavorativa; l’art.
37 introduce il principio della parità con riguardo alla donna lavoratrice e ai minori, riconoscendo
loro gli stessi diritti e retribuzioni spettanti al lavoratore uomo; l’art. 38 prevede forme di previdenza
e assistenza sociale, infine, gli artt. 39 e 40 tutelano l’attività sindacale e riconoscono il diritto di
sciopero.
A proposito del pubblico impiego, nonostante la mancanza di norme di rango costituzionale che lo
disciplinano espressamente, molte disposizioni se ne occupano in via indiretta, ponendo dei principi
generali in riferimento a delle figure specifiche: funzionari, dipendenti pubblici e impiegati (artt. 28,
29 e 98 Cost.).
Merita menzione l’art. 97 Cost., il quale pone la riserva di legge in materia di organizzazione e
introduce i principi di imparzialità e di buon andamento, cosicché, in forza del primo, la P.A. deve
53
svolgere la propria attività nel rispetto delle esigenze generali di giustizia, in una posizione di equa
terzietà, senza compiere atti di discriminazione, e comportandosi correttamente nei rapporti diretti
con chiunque; il secondo, invece, obbliga tutti gli agenti dell’amministrazione a svolgere la propria
attività attraverso modalità tali da garantire l’efficacia, l’efficienza, la speditezza e l’economicità
dell’azione amministrativa, sacrificando il meno possibile gli interessi particolari dei singoli.
Infine, la disposizione in esame prevede che agli impieghi pubblici si accede mediante concorso,
salvo i casi stabiliti dalla legge.
Il diritto del lavoro è disciplinato anche dalle fonti di origine statuale, ossia il codice civile, che dedica
a tale materia il libro quinto, e la legislazione ordinaria; in particolare, il D.Lgs. n. 165/2001 (c.d.
Testo Unico del pubblico impiego) costituisce il principale provvedimento contenente le norme
generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze della P.A.
Per quanto riguarda la competenza legislativa delle Regioni ordinarie, essa è stata per molto tempo
limitata all’istruzione professionale e all’assistenza sanitaria ospedaliera, per poi essere estesa, con il
D.Lgs. n. 469/97, al collocamento e alle politiche del lavoro.
Solamente con la Legge costituzionale n. 3/2001 si è provveduto ad una nuova suddivisione della
potestà legislativa tra lo Stato e le Regioni, modificando l’art. 117 Cost; in tal modo, con riferimento
alla materia del lavoro e previdenza sociale, la riforma ha attribuito allo Stato la determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali da garantire sull’intero territorio
nazionale, la previdenza sociale e l’ordinamento civile; alla competenza concorrente delle Regioni
spetta la tutela e la sicurezza del lavoro, la tutela della salute e la previdenza complementare
integrativa; infine, queste ultime si occupano di tutti gli ambiti non riservati né alla legge statale, né
alla legislazione regionale concorrente.
Infine, l’ultima fonte è costituita dalla contrattazione collettiva, ossia tutti i contratti stipulati tra le
associazioni rappresentanti i lavoratori e i datori di lavoro, disciplinanti il trattamento economico e
normativo del personale dipendente di una determinata categoria professionale.

2. Lavoro subordinato e lavoro autonomo

L’art. 2094 c.c. definisce il prestatore di lavoro subordinato come colui che si obbliga, in cambio di
una retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando la propria opera intellettuale o manuale alle
dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore, il quale deve stabilire le modalità dell’attività
lavorativa, nel rispetto della legge e del contratto collettivo, tutelando la personalità e la dignità del

54
lavoratore.
Al contrario, ai sensi dell’art. 2222 c.c., il lavoratore autonomo è colui che si obbliga a compiere,
verso un corrispettivo, un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di
subordinazione nei confronti del committente.
Inoltre, nel lavoro autonomo l’attività può essere materialmente svolta da sostituti o assistenti, pur
rimanendo il lavoratore l’unico responsabile nei confronti dell’altra parte contrattuale, in più l’opera
prestata è considerata nella sua unitarietà, a differenza di ciò che accade nel rapporto di lavoro
subordinato, ove prevale il carattere continuativo della prestazione che è temporalmente suddivisibile.
Nonostante tali differenze, non sempre, nella realtà, è facile distinguere tali rapporti di lavoro, ragion
per cui la giurisprudenza ritiene che, a tal fine, l’elemento fondamentale da considerare è costituito
dall’assoggettamento del prestatore d’opera al potere di direzione e di controllo del datore di lavoro,
che non sussiste tra lavoratore autonomo e committente.
Altrimenti, se neanche tale circostanza è sufficiente, altri indici che rivelano la natura subordinata del
rapporto di lavoro sono l’osservanza di un orario predeterminato, la collaborazione, l’assenza del
rischio in capo al lavoratore, la natura della prestazione, la continuità di essa, il versamento a cadenze
fisse di una retribuzione prestabilita, l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione produttiva.

3. I soggetti del rapporto di lavoro subordinato

Il datore di lavoro, come già detto, è colui che fa eseguire al lavoratore subordinato una data attività
alle proprie dipendenze e sotto le direttive dallo stesso impartite, in cambio di una retribuzione.
La disciplina del lavoro subordinato trova sempre applicazione nei rapporti che vede parti tali
soggetti, a prescindere dall’eventuale qualifica di imprenditore riconosciuta al datore, poiché il codice
civile prevede espressamente la compatibilità del regime normativo in questione con quei rapporti
non inerenti l’esercizio di un’impresa.
Entrambi i soggetti citati devono soddisfare il requisito della capacità di essere parte del contratto di
lavoro, così al datore si applicano gli ordinari criteri previsti dal diritto privato, mentre il lavoratore è
assoggettato a regole particolari, infatti acquista tale idoneità al compimento dell’età legale per
l’accesso al lavoro, che nel nostro ordinamento coincide con il momento in cui cessano gli obblighi
scolastici, ossia sedici anni.
Un’eccezione è rappresentata dal contratto di apprendistato con cui possono essere occupati coloro
che hanno compiuto quindici anni, in quanto è, comunque, possibile assolvere l’obbligo di istruzione.

55
Analogamente, un’altra deroga al suddetto divieto sussiste nei casi di lavoro avente carattere
culturale, artistico, sportivo o pubblicitario e nel settore dello spettacolo, per i quali è necessaria
un’autorizzazione della direzione territoriale del lavoro e l’assenso scritto dei titolari della
responsabilità genitoriale.

4. Il lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni Pubbliche

Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, c.d. pubblico impiego, si
configura quando una persona fisica pone volontariamente, in modo continuativo, la propria attività
lavorativa, a fronte di un corrispettivo, alle dipendenze di una P.A., acquistando uno specifico status,
dal quale discendono particolari diritti e doveri.
In tal modo, il dipendente è inserito nell’organizzazione del suddetto ente, datore di lavoro, rispetto
al quale si trova in una posizione gerarchicamente subordinata, e la sua prestazione concorre alla
realizzazione dei fini istituzionali dello stesso.
La materia del pubblico impiego è stata riformata con il D.Lgs. n. 29/1993, oggi trasfuso nel D.Lgs.
n. 165/2001, il quale ha riavvicinato il lavoro pubblico a quello privato privatizzando il rapporto di
lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni.
Così, la disciplina relativa a tale materia è stata trasferita dall’iniziale area pubblicistica a quella
privatistica, anche in considerazione del fatto che i rapporti di pubblico impiego sono regolati dalle
disposizioni del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, salvo
quanto previsto nel decreto citato.
Pertanto, atteso che alle norme di diritto comune si affiancano delle speciali disposizioni di legge,
regolamento o statuto, le quali pongono una disciplina limitata ai dipendenti delle amministrazioni
pubbliche, si configura un modello misto.
In ogni caso, va rilevato che, nonostante la progressiva assimilazione tra lavoro pubblico e privato,
sussistono delle differenze sostanziali tali da non consentire una totale assimilazione delle due
situazioni, che ne giustificano una disciplina differenziata, posto che il processo di omogeneizzazione
incontra il limite della specialità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche
Amministrazioni e delle esigenze di perseguire l’interesse generale.

56
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 3 - IL PUBBLICO IMPIEGO

2a Lezione - La libertà sindacale

1. L’associazionismo sindacale

Il sindacato è un’associazione di lavoratori costituita per tutelarne gli interessi professionali collettivi
nei confronti sia di organizzazioni simili sia dello Stato e di ogni altro soggetto giuridico esterno.
L’art. 39 Cost. prevede che i sindacati, aventi un ordinamento interno a base democratica, sono
sottoposti al solo obbligo della registrazione presso uffici centrali o periferici, al fine di acquisire
personalità giuridica e capacità di stipulare, attraverso rappresentanze unitarie, contratti collettivi con
efficacia erga omnes, ossia a tutti gli appartenenti alla categoria professionale.
Tuttavia, tale regime non ha mai trovato applicazione, infatti le associazioni sindacali sono
disciplinati dalle norme di diritto comune, dunque, oggi esse sono enti di fatto privi della predetta
personalità.

2. La libertà sindacale. Le garanzie dello Statuto dei Lavoratori

L’art. 39, primo comma, della Carta Fondamentale riconosce, da un lato, la libertà di organizzazione
sindacale, ossia il diritto di costituire associazioni sindacali per la stessa categoria, tutelandone i
rappresentanti e riconoscendo loro la possibilità di svolgere ogni forma di attività inerente alle stesse,
dall’altro lato, tale norma attribuisce ad ogni individuo sia la facoltà di aderire ad un sindacato, sia
quella di non iscriversi a nessuno di essi.
Al fine di garantire il rispetto di tale disposizione costituzionale nei luoghi di lavoro, un ruolo
fondamentale è riconosciuto alla Legge n. 300/1970, c.d. Statuto dei Lavoratori, il cui primo titolo si
occupa della libertà e della dignità dei lavoratori senza fare alcuna distinzione, riconoscendo agli
stessi il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, a tal fine esso pone in capo al datore di
lavoro il divieto di utilizzare le guardie giurate per scopi diversi da quelli della tutela del patrimonio
57
aziendale, di adoperare impianti audiovisivi per controllare a distanza l’attività dei lavoratori, di
effettuare accertamenti sanitari sull’idoneità e sulle infermità dei dipendenti, di compiere indagini
sulle opinioni politiche, religiose o sindacali dei lavoratori.
Il secondo titolo concerne la libertà sindacale e prevede il diritto di ogni lavoratore di costituire
associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività di propaganda nei luoghi di lavoro.
Contestualmente, sono vietati patti, atti e trattamenti discriminatori in relazione all’attività sindacale
dei prestatori di lavoro, così come è inammissibile costituire e sostenere sindacati di comodo, ossia
controllati occultamente dai datori.
Il terzo titolo si occupa dell’attività sindacale prevedendo la possibilità di costituire rappresentanze
sindacali aziendali nei luoghi di lavoro (RSA e RSU); esso regola, altresì, il diritto di assemblea, di
referendum, di affissione di comunicati di interesse sindacale e del lavoro e, infine, impone ai datori,
con più di duecento dipendenti, di assicurare la disponibilità di locali idonei per lo svolgimento
dell’attività sindacale.
Per concludere, il quarto titolo, ed in particolare l’art. 28, reprime la condotta antisindacale del datore
di lavoro, che si esplica in tutti quei comportamenti volti ad impedire o limitare l’esercizio della
libertà o dell’attività sindacale e del diritto di sciopero.
L’art. 51 del D.Lgs. n. 165/2001 ribadisce che la disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti
pubblici si informa ai principi della contrattualizzazione e della privatizzazione e statuisce che
lo Statuto dei lavoratori si applica anche alle Pubbliche Amministrazioni, a prescindere dal
numero dei dipendenti.
Dunque, la disciplina dei diritti e delle relazioni sindacali nel pubblico impiego è alquanto
complessa, poiché ai lavoratori pubblici si applicano le norme in tema di libertà e dignità
previste per tale categoria; le disposizioni in materia di responsabilità disciplinare operano
anche nei casi relativi al pubblico impiego; infine, le norme sull’attività sindacale riguardano,
generalmente, i dipendenti pubblici.
L’operatività della Legge n. 300/1970 anche nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni si evince,
altresì, dall’art. 42 del Testo Unico del pubblico impiego, il quale prevede che, in tali enti, la libertà
e l’attività sindacale sono tutelate nelle forme previste dalle disposizioni dello Statuto dei
lavoratori.
Invece, la contrattazione collettiva fissa il regime relativo alle modalità e agli istituti di
partecipazione sindacale.

58
3. Le rappresentanze sindacali: RSA e RSU

Ai sensi dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, in azienda è garantita la presenza del sindacato
riconoscendo ai lavoratori la possibilità di costituire, nell’unità produttiva con più di 15
dipendenti, rappresentanze sindacali aziendali (RSA).
Si tratta di un diritto riconosciuto a tutte le associazioni sindacali, purché esse siano firmatarie
dei contratti collettivi di lavoro, di qualsiasi livello, anche soltanto aziendale, applicati nell’unità
produttiva.
Secondo la versione originaria della suddetta norma, solamente le associazioni aderenti alle
confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale potevano costituire RSA;
anche se, in seguito ad un referendum sul primo comma della norma summenzionata, i criteri
per la costituzione di tali rappresentanze sindacali aziendali sono stati modificati ed è, così,
venuto meno il criterio della maggiore rappresentatività.
Successivamente, si è registrato un nuovo intervento sul punto con la sentenza n. 231/2013
della Corte Costituzionale, la quale ha sancito l’illegittimità dell’art. 19, comma 1, lett. b) della
L. 300/1970, nella parte in cui non prevede che possono costituirsi RSA anche nell’ambito di
associazioni sindacali non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, a
condizione che esse, in qualità di rappresentanti dei lavoratori dell’azienda, abbiano,
comunque, partecipato alla negoziazione degli stessi.
Con gli accordi interconfederali del 28 giugno 2011, del 31 maggio 2013 e del 10 gennaio 2014,
le confederazioni sindacali si sono impegnate a sostituire, progressivamente, le RSA con le
rappresentanze sindacali unitarie (RSU).
Queste ultime possono essere costituite sia dai sindacati aderenti alle confederazioni firmatarie
dei citati accordi o dalle organizzazioni sindacali aderenti al contratto collettivo nazionale di
lavoro applicato all’unità produttiva, sia da quelle che hanno effettuato un’adesione formale al
contenuto di questi accordi, se la lista presentata abbia un dato numero di firme dei lavoratori;
in ogni caso si deve trattare di unità produttive di aziende con più di 15 dipendenti.
Le RSU possono essere costituite su iniziativa congiunta o disgiunta; sono elette a suffragio
universale a scrutinio segreto tra liste concorrenti e durano in carica tre anni; ad esse si
riconoscono i medesimi diritti e doveri facenti capo ai membri delle RSA, previsti dallo Statuto
dei lavoratori.
Inoltre, gli accordi o i contratti collettivi possono stabilire che tali rappresentanze siano comuni
a più amministrazioni o enti di modeste dimensioni, ubicati nel medesimo territorio, così come

59
possono prevedere che siano costituiti organismi di coordinamento delle RSU nelle
amministrazioni o enti con pluralità di sedi o strutture.
Per quanto riguarda la nomina dei componenti, si applica il criterio proporzionale, quindi
avviene in base ai voti conseguiti dalle singole liste concorrenti e il numero di essi varia in base
a quanti sono i lavoratori occupati in ciascuna unità produttiva.

4. La tutela contro la condotta antisindacale del datore di lavoro

L’art. 28 dello Statuto dei lavoratori prevede, come già detto, la repressione della condotta
antisindacale posta in essere, in qualsiasi forma, dal datore di lavoro, riconoscendo la facoltà
delle organizzazioni sindacali di ottenere la tutela giurisdizionale degli interessi collettivi
violati da tale comportamento.
Tale condotta antisindacale può essere integrata sia da un atto negoziale (es. un licenziamento
intimato per motivi sindacali), sia da un comportamento materiale (es. lo strappo di un
manifesto sindacale), inoltre può consistere in comportamenti attivi (es. minacce) o omissivi
(es. il rifiuto di concedere una bacheca per le affissioni).
In ogni caso, un siffatto comportamento è sempre illegittimo, a prescindere dalla volontà del
datore di lavoro, in quanto è sufficiente che esso sia oggettivamente idoneo a ledere la libertà
sindacale e il diritto di sciopero.
I soggetti legittimati attivi sono solo gli organismi locali delle associazioni nazionali che vi
hanno interesse, i quali possono adire l’autorità giudiziaria competente, ossia il Tribunale, in
funzione di Giudice del lavoro, del luogo dove è posto in essere il comportamento antisindacale
denunciato.
In tal modo, attraverso la presentazione di un ricorso, si richiede la tutela del libero esercizio
dei diritti sindacali di tutti lavoratori e non solo dei rappresentanti sindacali, così il Giudice, nei
due giorni successivi, convoca le parti per assumere sommarie informazioni e, qualora ritenga
sussistente la violazione denunciata, ordina al datore di lavoro, con un decreto motivato
immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione dei
relativi effetti.
Dunque, il suddetto procedimento, previsto dalla norma sopra citata, tendente a reprimere la
condotta antisindacale, è esteso ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche
Amministrazioni, in forza del richiamo espresso previsto dall’art. 63, terzo comma, del D.Lgs. n.
60
165/2001.
Motivo per cui, al fine di ottenere la rimozione degli effetti sia dei comportamenti illegittimi
lesivi dei diritti e delle libertà dell’organizzazione sindacale, sia di quelli plurioffensivi posti in
essere dalla Pubblica Amministrazione, in quanto contrari ai diritti del singolo dipendente e del
sindacato, il procedimento deve esperirsi sempre davanti al Tribunale ordinario in funzione di
Giudice del lavoro.

61
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 3 - IL PUBBLICO IMPIEGO

3a Lezione - La contrattazione collettiva

1. Cos’è la contrattazione collettiva?

L’autonomia e la libertà sindacale trovano la loro massima espressione nella contrattazione collettiva,
ossia lo strumento con cui i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro fissano la disciplina e
la regolamentazione dei rispettivi rapporti, ragion per cui essa costituisce il compito fondamentale
dei sindacati.
Dunque, con tale mezzo, le parti sopra indicate mirano a definire un contratto collettivo di lavoro,
cioè quell’accordo tra i datori e i lavoratori, volto a stabilire il trattamento minimo garantito e le
condizioni di lavoro, ai quali devono conformarsi i singoli contratti individuali di quella categoria.
Pertanto, con il contratto collettivo si disciplina il rapporto individuale di lavoro subordinato e,
conseguentemente, esso ha un contenuto normativo, dato dall’insieme di clausole destinate ad avere
efficacia nei singoli rapporti di lavoro, e uno obbligatorio, il quale vincola le associazioni dei
lavoratori e dei datori a tenere determinati comportamenti.
Tuttavia, attesa la mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione, oggi, si può realizzare solamente
il c.d. contratto collettivo di diritto comune, che trova regolamentazione nelle norme civilistiche
valide in materia contrattuale, ma non è fonte del diritto, quindi, non avendo efficacia erga omnes,
vincola solo gli associati alle organizzazioni sindacali che lo hanno stipulato.
Anche se, nel tempo, questa rigida regola è stata superata rendendo applicabile il contratto collettivo
anche ai soggetti non iscritti alle parti stipulanti.
È evidente che la contrattazione collettiva svolge una funzione di tutela, per cui il contratto, risultato
di tale attività, non può essere derogato da uno individuale, ad eccezione del caso in cui le disposizioni
di quest’ultimo siano più favorevoli, con conseguente nullità delle clausole difformi, in peius, e
l’inserzione automatica di quelle generali.

62
2. La contrattazione collettiva nel pubblico impiego e il sistema delle fonti

Prima di soffermarsi sul sistema delle fonti del pubblico impiego è indispensabile distinguere gli atti
di macro e di micro organizzazione, in quanto, a seguito della privatizzazione del lavoro pubblico,
solo i primi hanno carattere pubblicistico, ossia quelli che stabiliscono le linee fondamentali di
funzionamento degli uffici, individuando quelli di maggiore rilevanza, indicano i modi di
conferimento della titolarità degli stessi e determinano le dotazioni organiche complessive.
Invece, i secondi sono quegli atti soggetti a regime privatistico, in quanto emanati dalla Pubblica
Amministrazione, datrice di lavoro, nell’ambito dell’organizzazione e della gestione del rapporto
stesso.
Dunque, con la legge e i regolamenti viene delineata la struttura degli apparati pubblici, mentre gli
atti di diritto privato si occupano del funzionamento degli uffici e della gestione dei rapporti di lavoro.
A proposito delle fonti regolatrici del pubblico impiego, cioè legge e contratto, la relativa disciplina
ha attraversato diversi momenti che meritano un approfondimento.
Negli anni ‘90 si inizia a parlare di contrattualizzazione del pubblico impiego, poiché con la
privatizzazione viene meno l’esclusiva operatività delle fonti aventi natura pubblicistica e,
conseguentemente, i contratti individuale e collettivo diventano la fonte principale della materia.
Successivamente, con la riforma Brunetta del 2009, tale assetto viene modificato e l’equilibrio tra la
legge e il contratto viene nuovamente spostato a favore della prima, creando, così, una situazione di
complessità e problematiche di coordinamento tra le fonti, anche a causa della lunga sospensione
delle attività negoziali a livello nazionale.
Tuttavia, con l’attuazione della riforma Madia e il D.Lgs. n. 75/2017, il contratto riacquista una
posizione di supremazia, in quanto viene modificato l’art. 2, secondo comma, D.Lgs. n. 165/2001, in
modo da consentire ai contratti collettivi nazionali di derogare leggi, regolamenti e statuti
disciplinanti il rapporto di lavoro nel rispetto dei principi del Testo Unico sul pubblico impiego, e
viene, altresì, abrogata la previsione per cui tale derogabilità deve essere necessariamente ammessa
dalla legge.

63
3. La contrattazione collettiva nazionale ed integrativa

Con l’art. 11 del D.Lgs. n. 75/2017 viene riformata la disciplina del pubblico impiego, contenuta
nell’art. 40 del D.Lgs. n. 165/2001, che, specularmente alle novità relative al sistema delle fonti e al
rapporto tra la legge e il contratto, incide anche sulla contrattazione e sul relativo ambito di
applicazione.
Va premesso che la contrattazione collettiva si articola su due livelli, ossia i contratti collettivi
nazionali di comparto (CCNL), che riguardano i singoli comparti, e quelli integrativi, i quali sono
collocati nell’ambito delle singole amministrazioni rispondendo alle specifiche realtà contingenti di
esse, sempre nel rispetto del quadro tracciato dai CCNL.
Quindi, tale differenza si traduce nel fatto che la contrattazione collettiva nazionale rappresenta il
perno del sistema contrattuale, considerato nella sua unitarietà, mentre quella integrativa completa la
disciplina dettata con il CCNL.
Ciò posto, la contrattazione collettiva nazionale disciplina il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali
ed è consentita, senza, però, violare i limiti previsti dalle norme di legge, nell’ambito delle sanzioni
disciplinari, della valutazione delle prestazioni, ai fini della corresponsione del trattamento accessorio
e della mobilità.
Invece, essa è inammissibile nelle materie relative all’organizzazione degli uffici, alle prerogative
dirigenziali, al conferimento o alla revoca degli incarichi dirigenziali e in quelle oggetto di
partecipazione sindacale.
E ancora, la contrattazione collettiva disciplina, in linea con il settore privato, la struttura contrattuale,
i rapporti tra i diversi livelli e la durata dei contratti collettivi nazionali e integrativi.
Come già detto, le Pubbliche Amministrazioni si occupano della contrattazione collettiva integrativa,
al fine di assicurare adeguati livelli di efficienza e produttività dei servizi pubblici, incentivando
l’impegno e la qualità della performance lavorativa e destinandovi una quota delle risorse da utilizzare
per i trattamenti economici accessori, per l’ottimale perseguimento di questi obiettivi organizzativi e
individuali.
Le PP.AA. devono, però, uniformarsi ai contratti collettivi nazionali, pertanto, la contrattazione
integrativa, che può anche avere ambito territoriale e riguardare più Amministrazioni, ha ad oggetto
le materie da essi previste, così come deve svolgersi, nel rispetto dei vincoli e dei limiti, tra i soggetti
e con le procedure negoziali che stabiliti dagli stessi.
Nel caso di mancato raggiungimento di un accordo per la stipulazione di un contratto collettivo
integrativo o la lunga durata delle trattative comporta un pregiudizio alla funzionalità dell’azione
amministrativa, in osservanza dei principi di correttezza e buona fede tra le parti, l’Amministrazione

64
interessata può provvedere provvisoriamente sulle materie oggetto del mancato accordo fino alla
successiva sottoscrizione e, al contempo, proseguire le trattative per pervenire velocemente alla
conclusione dell’accordo.
Oltre a questi due livelli di contrattazione, merita menzione anche quello c.d. intercompartimentale,
formato da contratti o accordi quadro relativi ad argomenti o aspetti comuni a tutti lavoratori pubblici
(ad es. TFR, previdenza, sciopero).

4. I soggetti della contrattazione la formazione del contratto collettivo

L’agenzia per la rappresentanza negoziale delle Pubbliche Amministrazioni (ARAN) è un organismo


dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, la quale esercita a livello nazionale tutte quelle
attività relative alle relazioni sindacali, alla negoziazione dei contratti collettivi e all’assistenza delle
Pubbliche Amministrazioni per l’uniforme applicazione di questi ultimi.
Infatti, essa può anche intervenire, ai fini della corretta interpretazione dei contratti collettivi, nei
giudizi sulle controversie di lavoro il cui esito può avere conseguenze rilevanti sui contratti nazionali
o sulla spesa pubblica.
Per quanto riguarda la stipula dei contratti collettivi nazionali, i lavoratori, invece, sono rappresentati
dalle organizzazioni sindacali che hanno nel comparto una rappresentatività di almeno il 5%.
Inoltre, alla contrattazione collettiva nazionale partecipano le confederazioni alle quali sono affiliate
le organizzazioni sindacali.
L’unità fondamentale della contrattazione collettiva nel pubblico impiego è rappresentata dai
comparti, ossia ministeri, enti pubblici non economici, regioni e autonomie locali, servizio sanitario
nazionale, scuole, università, presidenza del consiglio, agenzie fiscali, istituti di alta formazione e
specializzazione artistica e musicale, istituzioni e enti di ricerca e sperimentazione.
La procedura si avvia con i comitati di settore che, prima di ogni rinnovo contrattuale, emanano gli
indirizzi per la contrattazione collettiva nazionale, i quali sono sottoposti al Governo che, entro 20
giorni, deve esprimere valutazioni circa la compatibilità di essi con le linee di politica economica
finanziaria nazionale.
Se tale termine trascorre invano l’atto di indirizzo può essere inviato all’ARAN, che formula
un’ipotesi di accordo, da sottoporre al vaglio del Governo e della Corte dei Conti, la quale deve
rilasciare una certificazione di compatibilità con gli strumenti di programmazione e bilancio, cosicché
l’ARAN e le organizzazioni sindacali possono procedere alla firma dell’accordo, che acquista

65
efficacia erga omnes, per le Amministrazioni coinvolte e per tutti lavoratori coinvolti.
I contratti e gli accordi collettivi nazionali e le eventuali interpretazioni autentiche sono pubblicati
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, oltre che sui siti dell’ARAN e delle
Amministrazioni interessate.

66
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 3 - IL PUBBLICO IMPIEGO

4a Lezione - Accesso al pubblico impiego

1. L’accesso ai pubblici uffici mediante procedure selettive: il concorso pubblico

L’art. 97, quarto comma, Cost. impone l’accesso mediante concorso agli impieghi nelle Pubbliche
Amministrazioni, infatti, tale strumento rappresenta la forma ordinaria a cui si ricorre a tal fine,
trattandosi di una procedura conforme al canone di efficienza della P.A., salvi i casi stabiliti dalla
legge.
In tal modo, la summenzionata norma mira a garantire l’imparzialità dell’operato dei pubblici agenti,
in quanto limita l’utilizzo del meccanismo della nomina diretta, che si caratterizza per il forte legame
tra il nominante e il nominato, permettendo, così, una rigorosa selezione del personale più adatto
all’espletamento di determinate funzioni, dando attuazione al principio di buon andamento
dell’azione amministrativa.
Ciò posto, in linea con quanto previsto dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 110 del 2017, la
regola del concorso pubblico è derogabile solo nei casi strettamente funzionali al buon funzionamento
della Pubblica Amministrazione e in presenza di particolari e straordinarie esigenze di interesse
pubblico.
Sulla scia di tale previsione costituzionale, l’art. 35 D.Lgs. n. 165/2001 dispone che l’assunzione nelle
Amministrazioni Pubbliche avviene mediante procedure selettive volte ad accertare la professionalità
richiesta e attraverso l’avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento; costituiscono
un’eccezione le assunzioni obbligatorie dei soggetti appartenenti a categorie protette.
Con il D.Lgs. n. 75/2017, di attuazione della riforma Madia, si è modificata anche la disciplina di
accesso agli uffici e del reclutamento del personale, imponendo l’accertamento di più lingue straniere,
oltre l’inglese, sia per potere partecipare al concorso sia come titolo di merito valutabile della
commissione giudicatrice; valorizzando il titolo di dottore di ricerca nei concorsi pubblici; infine,
favorendo l’integrazione delle persone con disabilità nel mondo del lavoro.
Nei procedimenti di selezione per l’accesso e per la progressione del personale nei pubblici uffici
vanno rispettati determinati criteri fondamentali, ossia un’adeguata pubblicità della selezione stessa
67
e delle modalità di svolgimento, in modo da garantire l’imparzialità, l’economicità e la celerità di
espletamento, ricorrendo all’occorrenza all’utilizzo di sistemi automatizzati per realizzare delle forme
di preselezione; l’adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti volti a verificare il possesso dei
requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire; il rispetto delle
pari opportunità tra lavoratori e lavoratrici; il decentramento delle procedure di reclutamento; la
composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di provata competenza nelle materie di
concorso; la facoltà di inserire nel bando un limite al numero degli eventuali idonei in misura non
superiore al 20% dei posti messi a concorso; la possibilità di richiedere tra i requisiti necessari il
possesso del titolo di dottore di ricerca.
In ogni caso, a prescindere da questi principi generali, i concorsi pubblici possono presentare
caratteristiche peculiari in base alle esigenze che la Pubblica Amministrazione vuole soddisfare,
quindi, possono aversi concorsi per esami, per titoli, per esami e per titoli, riservati a chi si trova già
in servizio ma con un incarico fuori ruolo o agli appartenenti alle categorie protette.
La Pubblica Amministrazione decide di procedere ad una selezione di dipendenti tenendo in
considerazione il piano triennale dei fabbisogni del personale e manifesta all’esterno tale volontà,
invitando gli interessati a far conoscere la loro eventuale intenzione di partecipare, mediante un bando
di concorso, pubblicato di regola nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana e nel Bollettino
Ufficiale della Regione di appartenenza dell’ente a cui si riferiscono i posti di lavoro disponibili.
La fase successiva dell’iter concorsuale prevede la redazione della domanda di partecipazione, la
quale deve essere chiara e completa, per consentire all’Amministrazione il controllo preliminare dei
requisiti generali che devono essere posseduti alla data di scadenza del termine previsto, ossia la
cittadinanza italiana o europea, l’età non inferiore 18 anni, il godimento dei diritti politici e il titolo
di studio, in modo che la stessa possa procedere all’ammissione e all’eventuale esclusione dei
candidati.
Infine, le commissioni giudicatrici procedono alla formulazione della graduatoria degli ammessi,
contenente i risultati delle fasi precedenti, la quale, prima di essere resa pubblica, deve ricevere
l’approvazione dell’Amministrazione che ha indetto il concorso, che, però, si limita a svolgere un
controllo di legittimità e di regolarità ma non di merito, che resta di esclusiva competenza della
commissione.
Una volta pubblicata, la graduatoria rimane in vigore tre anni, salvo periodi di vigenza inferiori
previsti dalle leggi regionali.

68
2. L’accesso extraconcorsuale

Come già detto, la regola dell’accesso ai pubblici uffici, mediante il meccanismo concorsuale, può
subire delle deroghe previste dalla legge stessa, cioè la chiamata numerica dalle liste di collocamento
e le assunzioni dei disabili.
Nel caso di assunzioni obbligatorie, esse si fondano sul principio del c.d. inserimento mirato, pertanto,
si rende indispensabile un esame preventivo delle effettive minorazioni e capacità del soggetto da
collocare per individuare il posto più adatto alle sue condizioni.

3. La stipulazione del contratto individuale di lavoro

La Pubblica Amministrazione per assumere impegni o concludere contratti deve rispettare le forme
stabilite dalla legge e dai regolamenti, ragion per cui l’instaurazione del rapporto di pubblico impiego
avviene con un contratto individuale, che per sua natura deve avere la forma scritta, come, d’altronde
previsto dalla contrattazione collettiva nazionale per i comparti della P.A.
Inoltre, è necessario che prima della stipula del contratto, l’Amministrazione inviti coloro che hanno
superato il concorso a presentare la documentazione, indicata dalle disposizioni regolatrici l’accesso
ai rapporti lavoro, e dichiarare sotto la propria responsabilità di non trovarsi in alcuna delle situazioni
di incompatibilità indicate dalla legge.
Dunque, nel caso in cui si intrattenga un altro rapporto di pubblico impiego, oltre ai documenti, va
presentata la dichiarazione di opzione per la nuova Amministrazione nel termine prescritto, altrimenti
quest’ultima dovrà comunicare di non dar luogo alla stipulazione del contratto.
Contestualmente alla sottoscrizione di esso, al soggetto assunto viene consegnata una copia del codice
di comportamento dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni e nell’ipotesi di successive
modifiche della prestazione lavorativa o della condizione economica viene stipulato un nuovo
contratto individuale di lavoro.
In ogni caso, tale tipo di assunzione è sempre assoggettata all’esito positivo di un periodo di prova,
per espressa previsione di legge e non per effetto di clausole contrattuali, a differenza di quanto accade
nel lavoro privato, ove il patto di prova deve essere messo per iscritto, nel negozio stipulato tra le
parti, a pena di nullità.
Tale periodo di prova non ha una durata fissa, bensì varia in ragione della complessità delle
prestazioni professionali richieste ed è oggetto di discussione in sede di contrattazione collettiva, al

69
termine del quale, se non vi è recesso di alcuna delle parti, il dipendente si intende confermato con il
riconoscimento dell’anzianità di servizio a tutti gli effetti.

4. Le forme flessibili di impiego nella P.A. e gli incarichi esterni

Nonostante la regola generale per cui le Pubbliche Amministrazioni assumono, esclusivamente, con
contratti seguendo le ordinarie procedure di reclutamento, può succedere che per far fronte ad
esigenze temporanee ed eccezionali vengano stipulati contratti di lavoro a tempo determinato,
contratti di formazione e lavoro, o contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato,
nonché è possibile avvalersi delle forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle altre
leggi sui rapporti di lavoro nell’impresa, nei limiti e con le modalità previsti per la loro applicazione
nell’ambito della P.A.
L’eventuale violazione delle disposizioni imperative, riguardanti l’assunzione di pubblici dipendenti,
non comporta la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con la stessa Pubblica
Amministrazione, fatta salva ogni responsabilità e sanzione, infatti, il lavoratore interessato ha diritto
al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro realizzata in violazione di tali norme
inderogabili.
Infine, la P.A., sempre per soddisfare bisogni imprevedibili e momentanei, può ricorrere ad incarichi
individuali esterni, affidati a soggetti estranei al personale in servizio, in quanto esperti e aventi
particolare e comprovata specializzazione, anche universitaria.
Affinché il conferimento di tali incarichi sia legittimo è necessario che l’oggetto della prestazione
corrisponda alle competenze attribuite dall’ordinamento all’Amministrazione, che vengano
perseguiti obiettivi e progetti specifici e, infine, che sia coerente con le esigenze di funzionalità della
P.A., la quale deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse
umane disponibili al suo interno.
E ancora, è necessario che la prestazione sia temporanea e altamente qualificata, pertanto, non è
ammesso il rinnovo della stessa e l’eventuale proroga dell’incarico è consentita in via eccezionale,
solo per completare il progetto o per ritardi non imputabili al collaboratore, senza che il compenso
pattuito possa subire variazione, il quale unitamente alla durata e all’oggetto devono essere
preventivamente determinati.

70
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 3 - IL PUBBLICO IMPIEGO

5a Lezione - L’organizzazione degli uffici

1. L’organizzazione del personale

Parlando di organizzazione delle Pubbliche Amministrazioni si fa riferimento alla definizione dei


ruoli e delle responsabilità per il raggiungimento di un comune obiettivo, a tal fine vanno rispettati
alcuni principi.
Innanzitutto, va assicurata la funzionalità dei compiti e dei programmi di attività, in quanto essi
devono perseguire gli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità, a tal fine si effettuano delle
verifiche ed eventuali revisioni periodicamente, ma anche nel momento in cui vengono definiti i
programmi operativi e assegnate le risorse.
Vanno, altresì, garantiti l’ampia flessibilità, riconoscendo adeguati margini ai dirigenti nelle
determinazioni operative e gestionali, e il collegamento delle attività degli uffici, imponendo un
dovere di comunicazione, interna ed esterna, e di interconnessione mediante sistemi informatici e
statistici pubblici.
E ancora, non possono essere violati i principi di imparzialità e trasparenza che devono informare
l’azione amministrativa, pertanto, possono essere istituite apposite strutture per l’informazione ai
cittadini.
Infine, vanno armonizzati gli orari di servizio e di apertura degli uffici con le esigenze dell’utenza e
con gli orari delle Amministrazioni Pubbliche dei paesi dell’Unione Europea.
Nella suddivisione dei pubblici dipendenti possono utilizzarsi due criteri, quello orizzontale, che
prende come riferimento i comparti, e quello verticale, che si incentra sull’area che si riferisce alla
mansione e al conseguente livello di responsabilità di ciascuno, al cui interno sono collocati i profili
professionali, i quali se riconducibili ad un medesimo settore di attività o ad una stessa tipologia
lavorativa o professionale, possono essere tra loro omogenei o affini.
Tali profili professionali, secondo i settori di attività, definiscono i contenuti tecnici della prestazione
lavorativa e delle attribuzioni proprie del dipendente, attraverso la descrizione delle mansioni svolte,
dei requisiti e del livello di professionalità richiesto.
71
Per la classificazione del personale pubblico si fa riferimento a tre concetti chiave, ossia il ruolo
organico, di cui dispone ogni P.A., con il numero di posti suddiviso in posizioni funzionali (mansioni)
e posizioni retributive (stipendio); la dotazione organica, cioè l’insieme dei posti assegnati a ciascun
ruolo definiti in base all’effettivo fabbisogno delle Pubbliche Amministrazioni, e, infine, la pianta
organica, oggi superata dal concetto di dotazione organica, che individuava, nell’assetto precedente
la privatizzazione, il complesso delle posizioni lavorative previste dal disegno organizzativo
dell’ente.
Tale aspetto dell’organizzazione del personale rappresenta un profilo importante nel lavoro pubblico,
anche in considerazione della connessione con la capacità delle Amministrazioni di procedere con le
assunzioni, ragion per cui è riconducibile ai c.d. atti di macro organizzazione.
Con la riforma Madia, anche il concetto di dotazione organica è superato da quello di fabbisogno di
personale, che costituisce il criterio guida nell’organizzazione degli uffici pubblici, la quale deve
avvenire in conformità del piano triennale.
L’art. 7 D.Lgs. n. 165/2001 disciplina la gestione e la formazione delle risorse umane nel lavoro
presso la P.A., ove vanno garantite la parità e le pari opportunità tra uomini e donne, dunque, è vietata
ogni forma di discriminazione, diretta e indiretta, relativa a genere, età, orientamento sessuale, razza,
origine etnica, religione, lingua.
Infine, per quanto riguarda la formazione e l’aggiornamento del personale, l’Amministrazione deve
occuparsi della formazione professionale garantendo l’adeguamento dei programmi formativi,
pertanto, a tal fine è stata istituita la Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA).

2. Il sistema delle relazioni con il pubblico

I pubblici uffici sono organizzati in maniera tale da soddisfare i bisogni dei cittadini-utenti con i quali
gli stessi si devono relazionare, pertanto, è costituito quello che si occupa delle relazioni con il
pubblico (URP).
Tale ultimo ufficio deve agevolare il più possibile la partecipazione del privato al procedimento
amministrativo ponendosi al servizio dell’utenza, ragion per cui provvede a garantire ad essa i diritti
di partecipazione, previsti dalla legge sul procedimento amministrativo, e di informazione relativa
agli atti e allo stato dei procedimenti, alla ricerca e all’analisi, finalizzate alla formulazione di proposte
alla propria Amministrazione su aspetti organizzativi e logistici del rapporto con i privati.

72
3. Mansioni e progressioni

Ad ogni lavoratore è attribuita una mansione, ossia un insieme di compiti e operazioni, per i quali è
stato assunto, che lo stesso è chiamato ad eseguire.
Tuttavia può accadere che il prestatore di lavoro venga adibito a mansioni equivalenti nell’ambito
dell’area di inquadramento o a quelle corrispondenti alla qualifica superiore, successivamente
acquisita a seguito di procedure selettive, c.d. diritto alla funzione.
Allo stesso modo, nel caso di vacanza di posto in organico, per obiettive esigenze di servizio, al
prestatore di lavoro possono attribuirsi mansioni superiori per non più di sei mesi, prorogabili fino a
dodici qualora sono state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti, così come per la
sostituzione di un altro dipendente assente, mantenendo, però, il diritto alla conservazione del posto,
con esclusione dell’assenza per ferie per il tempo della sua durata.
In queste ipotesi, in relazione al periodo di effettiva prestazione, il lavoratore ha diritto al trattamento
previsto per la qualifica superiore.
Al contrario, la Pubblica Amministrazione non può adibire il dipendente a mansioni inferiori,
altrimenti si configurerebbe un illegittimo demansionamento, il quale sussiste anche in caso di
sottrazione, in tutto o in parte, delle mansioni precedentemente esercitate, cagionando, così, un danno
alla professionalità del lavoratore.
Si parla di “progressioni” con riferimento ai mutamenti della prestazione lavorativa, i quali possono
riguardare il lato economico, se si sostanziano in scatti da una posizione retributiva ad un’altra
nell’ambito della stessa area funzionale, o la carriera, se riguardano il passaggio ad un’area
contrattuale superiore.
All’interno di una stessa area, le progressioni sono c.d. orizzontali e avvengono secondo principi di
selettività, in considerazione delle qualità culturali e professionali dell’attività svolta e dei risultati
conseguiti attraverso l’attribuzione di fasce di merito.
Invece, tra aree diverse, le progressioni avvengono tramite un concorso pubblico, facendo salva la
possibilità della P.A. di riservare un determinato numero di posti, massimo la metà di quelli messi a
concorso, al personale interno in possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno.

73
4. Il luogo di esecuzione della prestazione di lavoro

Generalmente la prestazione di lavoro va eseguita presso la P.A. di appartenenza, tuttavia, essendo il


rapporto di pubblico impiego di lunga durata, esso può essere soggetto a varie vicende modificative,
tra le quali la mobilità.
Quest’ultima comporta l’estinzione del rapporto di impiego e può essere individuale, se riguarda il
passaggio di un singolo dipendente da una P.A. ad un’altra, o collettiva, in caso di eccedenza di
personale rispetto alla situazione finanziaria o alle esigenze funzionali.
La copertura dei posti vacanti in organico presso le Pubbliche Amministrazioni può avvenire
mediante il passaggio di dipendenti, che presentano domanda di trasferimento, aventi una qualifica
corrispondente, in servizio presso altre Amministrazioni, le quali devono prestare il loro assenso, c.d.
mobilità individuale volontaria.
I dipendenti possono essere trasferiti all’interno della stessa Amministrazione o in altre, purché le
sedi si trovino nel medesimo Comune o a non più di 50 chilometri da quella in cui gli stessi sono
adibiti, c.d. mobilità obbligatoria, infatti, prima di avviare nuove procedure concorsuali per coprire
posti vacanti in organico, la P.A. deve attivare il meccanismo della mobilità, immettendo in ruolo,
preliminarmente, i dipendenti di altre Amministrazioni.
Invece, in caso di eccedenza di personale si parla di mobilità collettiva, ragion per cui ogni anno le
Amministrazioni devono verificare l’eventuale sussistenza di tale circostanza, in relazione alle
esigenze funzionali e alla situazione finanziaria.

4. Estinzione del rapporto di impiego

La disciplina delle vicende estintive del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche
Amministrazioni è molto complessa, considerando che essa è il frutto di un combinato di norme
aventi varia origine, ossia pubblicistica, privatistica e pattizia.
Secondo le previsioni del CCNL, la cessazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato può
avvenire per superamento del periodo di comporto in caso di assenza per malattia; in seguito al
licenziamento disciplinare con o senza preavviso; per il compimento del limite di età, ai sensi delle
norme di legge in vigore; per dimissioni o decesso del dipendente.
Oltre tali ipotesi, residuano alcune vecchie previsioni contenute nel Testo Unico sugli impiegati civili
dello Stato, per le quali l’estinzione dell’impiego si verifica anche in caso di perdita della cittadinanza

74
italiana; per avvenuta accettazione di una missione o di un altro incarico da un’autorità straniera senza
autorizzazione del Ministro competente; per una situazione di incompatibilità, persistente nonostante
la ricezione di una diffida, tra obblighi di servizio e attività svolte dal dipendente.
Infine, un ulteriore ipotesi di scioglimento del rapporto di lavoro è rinvenibile in ambito privatistico,
cioè il licenziamento per giusta causa che si configura quando si verifica una circostanza tale da non
consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto; tale motivo può avere natura
soggettiva, se determinato dall’inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro, o
oggettiva, se dovuto a ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro e al
regolare funzionamento di essa.

75
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 3 - IL PUBBLICO IMPIEGO

6a Lezione - La dirigenza pubblica

1. Il dirigente nelle Amministrazioni Pubbliche

Per procedere all’analisi della dirigenza pubblica bisogna partire dalla configurazione dei rapporti tra
politica e burocrazia, che si fondano sulla distinzione tra attività di indirizzo politico e attività di
gestione amministrativa.
In particolare, l’indirizzo politico rappresenta il principio unificatore dell’azione dei pubblici poteri,
in quanto consiste nell’individuazione, da parte degli organi di governo, delle scelte e dei programmi,
i quali devono essere realizzati dalla burocrazia mediante la relativa attività di gestione.
Facendo riferimento ai dirigenti nelle aziende private si intende considerare tutti i lavoratori
subordinati che ricoprono nell’ente una posizione che conferisce loro un elevato grado di
professionalità, autonomia e potere decisionale.
Invece, nell’ambito delle Amministrazioni Pubbliche la dirigenza riveste caratteristiche tali da
renderla molto diversa da quella privata o, quantomeno, era così originariamente, poiché a causa
dell’evoluzione della cultura organizzativa, del mutamento nella gestione delle risorse umane e
produttive, del progressivo abbandono di logiche incentrate più sul singolo che non sul gruppo e, in
particolar modo, della diffusione di esigenze di managerialità a seguito dei processi di decentramento
e di istituzione di autonomia funzionale e operativa, si è proceduto ad una rivalutazione della funzione
dirigenziale e della sua centralità che ha comportato l’avvio di un processo di omogeneizzazione tra
i settori privato e pubblico.
La dirigenza pubblica trova un’organica regolamentazione nel D.P.R. n. 748 del 1972, a mezzo del
quale la carriera dirigenziale è stata scorporata da quella direttiva, fino a quel momento in essa
compresa, al fine di riconoscere specifiche attribuzioni ai dirigenti pubblici. Tuttavia, questi ultimi
non erano indipendenti dai vertici politici, infatti, solamente a partire dalle riforme degli anni ‘90 si
è riusciti, progressivamente, a riconoscere tale figura come soggetto dotato di una propria autonomia
decisionale e, conseguentemente, di determinate forme di responsabilità.
Motivo per cui, con il decreto di riforma n. 29 del 1993 viene introdotto il principio della netta
76
separazione tra attività di indirizzo politico e quella di gestione, al fine di accrescere l’autonomia e i
poteri direttivi della classe dirigenziale.
Tale nuovo assetto ha comportato la sostituzione della precedente tripartizione: dirigente generale -
dirigente superiore - primo dirigente, con una bipartizione: dirigente generale - dirigente; l’autonomia
gestionale e operativa dei dirigenti rispetto agli organi di direzione politica mediante il passaggio da
un rapporto di gerarchia a uno di direzione; la totale responsabilizzazione del ceto dirigente; infine,
la modifica dei criteri di reclutamento e formazione.
Successivamente, con la legge n. 59 del 1997 e il relativo decreto attuativo, D.Lgs. n. 80/98, viene
meno la distinzione tra i dirigenti soggetti alla privatizzazione e i dirigenti generali ancora disciplinati
da norme di diritto pubblico.
E ancora, il D.Lgs. n. 165/2001 ha introdotto dei criteri di managerialità ed efficienza, in forza dei
quali la dirigenza assume il monopolio delle decisioni gestionali.
Più specificatamente, l’art. 4 ha un ruolo strategico, poiché si attribuiscono al dirigente una propria
autonomia decisionale, dalla quale discende la responsabilità relativa all’adozione degli atti e dei
provvedimenti amministrativi, compresi quelli aventi rilevanza esterna, e autonomi poteri di spesa di
organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo, per consentire la gestione finanziaria,
tecnica e amministrativa.
Infine, un ulteriore intervento del Legislatore si è registrato con la Legge Frattini, n. 145/2002, che
ha riformato radicalmente la dirigenza pubblica, in quanto essa ha nuovamente conferito natura
pubblicistica alla disciplina del rapporto di lavoro dirigenziale, sottraendone molti aspetti alla
privatizzazione; ha innovato il profilo del conferimento degli incarichi dirigenziali prevedendo che
debba avvenire con un provvedimento, seguito da un contratto individuale; ha, altresì, abolito la
durata minima di questi incarichi, disponendone, al contempo, un tetto massimo.
Con la riforma Brunetta viene accentuato il ruolo e la posizione dei dirigenti, i quali vengono
inquadrati come veri e propri datori di lavoro pubblico, responsabili della gestione delle risorse umane
e della qualità e quantità delle prestazioni poste in essere dei dipendenti. Conseguentemente, il
dirigente deve individuare le risorse e i profili professionali necessari per l’espletamento dei compiti
assegnati all’ufficio che presiede ed effettua la valutazione del personale sia per l’aspetto della
produzione economica tra le aree sia per la corresponsione di indennità e premi incentivanti.
Coloro che sono a capo di uffici dirigenziali generali si impegnano, anche, a contrastare i fenomeni
di corruzione e, pertanto, devono definire e rispettare le misure idonee a tal fine.
Per quanto riguarda il rapporto tra i dirigenti degli uffici dirigenziali generali e i dirigenti sottoposti,
ai primi sono attribuiti i compiti di direzione, coordinamento e controllo, i cui relativi atti e
provvedimenti, visto il carattere apicale della funzione svolta, non possono essere suscettibili di

77
ricorso gerarchico, mentre ai secondi viene delegata la gestione.

2. La responsabilità dirigenziale (art. 21 D.Lgs. n. 165/2001)

Con i recenti interventi normativi sono stati attribuiti ai dirigenti maggiori poteri, ai quali si connette,
inevitabilmente, una forma di responsabilità più incisiva, tantoché costoro rispondono per l’eventuale
mancato esercizio delle funzioni datoriali che comporta lo scarso rendimento dei propri dipendenti.
Ciò posto, non è possibile rinnovare l’incarico dirigenziale, previa contestazione, quando dalle
risultanze del sistema di valutazione di cui al ciclo di gestione della performance emerge il mancato
raggiungimento degli obiettivi, così come nell’ipotesi di inosservanza delle direttive imputabile al
dirigente, facendo sempre salva un’ipotetica responsabilità disciplinare, in forza della
regolamentazione contenuta nel contratto collettivo.
Inoltre, in casi particolarmente gravi, dopo averli eccepiti al dirigente e nel rispetto del principio del
contraddittorio, l’Amministrazione può revocare l’incarico collocando quest’ultimo a disposizione
dei ruoli unici dei dirigenti oppure recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del
contratto collettivo.
Qualora venga accertato che il dirigente abbia colpevolmente violato i doveri di vigilanza sul rispetto,
da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard qualitativi e quantitativi fissati dalla
Pubblica Amministrazione, la retribuzione di risultato dello stesso viene decurtata di una quota
massima dell’80%, secondo quanto stabilito dal comitato dei garanti, tenuto conto della gravità della
violazione.

3. L’accesso alla dirigenza

L’accesso alla dirigenza è disciplinato dagli artt. 28 e 28 bis del D.Lgs. n. 165/2001, i quali prevedono
l’istituzione, presso ogni Amministrazione, di un ruolo di dirigenti articolato nella prima e seconda
fascia dirigenziale.
Per consentire l’accesso alla qualifica di dirigente della prima fascia, le singole Amministrazioni
devono bandire un concorso pubblico per titoli ed esami, nel rispetto dei criteri generali stabiliti con
D.P.C.M. e previo parere della Scuola Nazionale dell’Amministrazione, avente ad oggetto la metà

78
dei posti, calcolati facendo riferimento a quelli che, annualmente, si rendono disponibili in seguito
alla cessazione dal servizio dei soggetti incaricati.
Invece, l’accesso alla qualifica di dirigente della seconda fascia nelle Amministrazioni statali, anche
ad ordinamento autonomo, e negli enti pubblici non economici avviene per concorso, indetto dalle
singole Amministrazioni ovvero per corso concorso selettivo di formazione, bandito dalla Scuola
Superiore della Pubblica Amministrazione, oggi Scuola Nazionale dell’Amministrazione.

4. Gli incarichi dirigenziali

L’art. 19 del D.Lgs. n. 165/2001 è una norma non derogabile da contratti e accordi collettivi che si
occupa del conferimento degli incarichi ai dirigenti, la quale prevede che bisogna, necessariamente,
tenere conto della natura e delle caratteristiche degli obiettivi prefissati; della complessità della
struttura interessata; delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dipendente; dei risultati
conseguiti nella precedente Amministrazione di appartenenza e della relativa valutazione; delle
specifiche competenze organizzative possedute e delle esperienze di direzione eventualmente
maturate all’estero attinenti al conferimento dell’incarico sia nel settore privato sia in quello pubblico.
Nel provvedimento di conferimento vanno specificati l’oggetto dell’incarico e gli obiettivi da
conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi, stabiliti dall’organo di vertice nei
propri atti di indirizzo, e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengono nel corso del rapporto.
Va, altresì, indicata la durata dell’incarico che deve essere proporzionata agli scopi prefissati, che è
rinnovabile e, in ogni caso, non può essere inferiore a tre anni e superiore a cinque anni, salvo il caso
in cui l’interessato raggiunga il limite di età per il collocamento a riposo in un tempo inferiore al
termine minimo.
Il suddetto provvedimento di conferimento dell’incarico è seguito da un contratto individuale, con il
quale è definito il corrispondente trattamento economico.
I dirigenti non titolari di uffici dirigenziali possono svolgere, in caso di richiesta degli organi di vertice
delle Amministrazioni, funzioni ispettive, di consulenza, studio, ricerca e altri incarichi specifici
previsti all’ordinamento, compresi quelli presso i collegi di revisione di enti pubblici in
rappresentanza di Amministrazione ministeriali.

79
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 3 - IL PUBBLICO IMPIEGO

BIBLIOGRAFIA

− Carinci, F., De Luca Tamajo, R., Tosi, P., Treu, T. (2015). Diritto del lavoro. Volume 1: il
diritto sindacale. Torino: Utet Giuridica.
− Carinci, F., De Luca Tamajo, R., Tosi, P., Treu, T. (2016). Diritto del lavoro. Volume 2: il
rapporto di lavoro subordinato. Torino: Utet Giuridica.
− Del Giudice, F., Izzo, F., Solombrino, M. (2018). Manuale di diritto del lavoro. Napoli:
Edizioni Giuridiche Simone.

80
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 4 - I PUBBLICI DIPENDENTI

1a Lezione - Doveri e diritti

1. I doveri del pubblico dipendente

Il contratto di lavoro subordinato pone in capo alle parti stipulanti reciproche obbligazioni, d’altronde,
da un lato, la prestazione lavorativa e, dall’altro, la retribuzione, pur costituendo l’oggetto del negozio
giuridico in questione, al contempo, esse rappresentano i principali obblighi derivanti dallo stesso.
Per quanto riguarda i doveri del dipendente, è possibile ricondurli a due ampie tipologie, ossia una di
stampo prettamente pubblicistico, riconducibile al dovere di fedeltà alla Repubblica (art. 51 Cost.),
ai principi di imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.) e al carattere democratico della Repubblica
(art. 1 Cost.), il quale impone di favorire rapporti di fiducia tra Amministrazione e cittadino;
contrariamente alla seconda categoria che richiama i criteri di diligenza, obbedienza e fedeltà previsti,
come per il rapporto di lavoro privato, dagli artt. 2104 e 2105 c.c.
Facendo riferimento alla diligenza si intende quell’insieme di cautele, cure e attenzioni richieste dalla
natura della prestazione, che devono informare l’esecuzione della stessa.
L’obbedienza e la collaborazione impongono al lavoratore il rispetto delle disposizioni impartitegli
direttamente dall’imprenditore o dai superiori gerarchici nell’azienda.
La fedeltà consiste nell’obbligo di tenere un comportamento leale verso il datore e di tutelarne in ogni
modo gli interessi, perciò ne discendono i divieti di concorrenza con l’imprenditore nello svolgimento
della prestazione di lavoro e di diffusione di notizie private dell’impresa (c.d. segreto aziendale).
Generalmente i doveri del dipendente sono definiti nel codice di comportamento generale, valevole
per tutte le Amministrazioni Pubbliche, e in quelli particolari, adottati da ognuna di esse per eventuali
integrazioni e specificazioni.

2. Il codice di comportamento (D.P.R n. 62/13)

Con la legge anticorruzione (n. 190/12) è stato adottato l’attuale codice di comportamento che
81
contribuisce alla definizione dei doveri e delle responsabilità dei pubblici dipendenti, dirigenti e non,
e si inserisce nell’ambito della riforma della P.A. tesa al recupero della legalità, della trasparenza e
della democraticità dell’azione amministrativa.
Esso definisce i doveri minimi di diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta che i lavoratori sono
tenuti ad osservare, i quali, come già detto, vengono poi integrati e specificati dai codice di
comportamento adottati dalle singole amministrazioni.
Le prescrizioni codicistiche, oltre a rivolgersi a tutti i dipendenti pubblici, costituiscono principi di
comportamento per quelle categorie di personale sottratte alla privatizzazione (art. 3 D. Lgs. n.
165/01), in quanto compatibili con le disposizioni dei rispettivi ordinamenti. Inoltre, le Pubbliche
Amministrazioni devono applicare gli obblighi di condotta previsti dal codice a tutti i consulenti, ai
titolari di organi e di incarichi negli uffici di diretta collaborazione delle autorità politiche, nonché
nei confronti dei collaboratori di imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore
dell’Amministrazione.
A differenza di quelli precedenti, il nuovo codice si occupa di ulteriori profili normativi, infatti fissa
la disciplina relativa a regali, compensi e altre utilità, prevedendo che il dipendente non deve chiederli
o sollecitarli per sé o per altri, così come non può accettarli, salvo quelli d’uso di modico valore (non
superiore a €. 150,00 circa, anche sottoforma di sconto), effettuati occasionalmente nell’ambito delle
normali relazioni di cortesia e delle consuetudini internazionali.
Un’altra importante novità è il richiamo fatto dal codice alla lotta contro gli illeciti all’interno
dell’Amministrazione, imponendo al dipendente il rispetto delle prescrizioni contenute nel piano
triennale per la prevenzione della corruzione, la collaborazione con il responsabile della prevenzione
e l’obbligo di denuncia, all’autorità giudiziaria o al proprio superiore gerarchico, di eventuali
situazioni illecite.
E ancora, altri doveri posti in capo al dipendente sono quelli connessi al rispetto del principio di
trasparenza nell’organizzazione dei pubblici uffici.

3. La tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti: il whistleblowing

Con il termine whistleblowing ci si riferisce alla condotta di chi denuncia attività illecite o fraudolente
all’interno di un’organizzazione pubblica o privata.
Si tratta di un istituto introdotto nell’ordinamento inizialmente solo per il pubblico impiego, per poi
essere esteso anche al settore privato con la Legge n. 179/17, contenente disposizioni per la tutela

82
degli autori di segnalazioni di reati e irregolarità conosciuti nell’ambito del proprio rapporto di lavoro.
L’art. 54 bis T.U. Pubblico impiego, come riformulato dalla citata legge, prevede che il pubblico
dipendente denunciante condotte illecite, nell’interesse dell’integrità della Pubblica
Amministrazione, non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra
misura organizzativa determinata dalla segnalazione, avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle
condizioni di lavoro.
L’eventuale adozione di misure ritorsive nei confronti del segnalante va comunicata all’ANAC dallo
stesso interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative
nell’Amministrazione ove esse sono state poste in essere.
Ricevuta la comunicazione, l’ANAC deve informare il Dipartimento della Funzione Pubblica o gli
altri organismi di garanzia o di disciplina, per le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza.

4. Il dovere di esclusività (art. 53 D.Lgs. n.165/2001)

Ai sensi dell’art. 98 Cost., i pubblici dipendenti sono soggetti al dovere di esclusività e, pertanto,
devono riservare tutta la propria attività lavorativa all’Amministrazione.
La disciplina relativa al tema di incompatibilità, accumulo di impieghi e incarichi nel pubblico
impiego è rinvenibile nell’art. 53 D.Lgs. n. 165/01, applicabile sia ai dipendenti privatizzati sia a
quelli in regime di diritto pubblico.
In forza di tale disposizione, il pubblico impiegato non può svolgere attività commerciali,
imprenditoriali, industriali, artigiane e professionali in costanza di rapporto di lavoro, salvo si tratti
di impiego part-time che non superi il 50% dell’orario ordinario.

4. I diritti dell’impiegato

I doveri e gli obblighi dell’impiegato sono bilanciati da una serie di diritti di diverso contenuto e
consistenza giuridica riconosciuti allo stesso, visto il carattere bilaterale del rapporto di impiego,
pubblico o privato.
I diritti possono avere carattere personale, se inerenti alla personalità dell’individuo o sindacale, in
cui rientrano le espressioni tipiche di tale attività riconosciuta ai singoli lavoratori.
Invece, hanno contenuto patrimoniale il diritto alla retribuzione, quale complessivo trattamento

83
economico, ossia una prestazione periodica in denaro cui il datore di lavoro è tenuto verso i propri
dipendenti, come corrispettivo del servizio prestato, proporzionata alla quantità e alla qualità del
lavoro svolto da questi ultimi.
Nel pubblico impiego, essa si compone di due parti, cioè una fondamentale, comprensiva delle voci
a carattere fisso e continuativo, e un’altra accessoria, costituita da emolumenti eventuali e occasionali.
Con il decreto legislativo (n. 54/2017) attuativo della riforma Madia, incidendo sull’assetto delineato
dall’art. 19 D.Lgs n. 150/2009, viene introdotto un nuovo sistema di distribuzione delle risorse
economiche da utilizzare per la remunerazione della performance dei lavoratori pubblici, che in
passato rappresentava uno strumento con cui venivano garantiti il merito e le premialità dei lavoratori
migliori.
Infatti, l’art. 19 citato, nella precedente versione, suddivideva i dipendenti di ciascuna
Amministrazione in tre fasce, prevedendo per ognuna di esse un determinato trattamento economico
accessorio, ad eccezione di quella più bassa; invero, tale previsione, visto il blocco dei contratti
collettivi nazionali, non ha mai trovato attuazione.
Ecco perché, oggi, a mezzo della modifica della suddetta norma si prevede che spetta al contratto
collettivo nazionale stabilire la quota delle risorse destinate al trattamento economico accessorio
collegato alla performance e fissare i criteri idonei a garantirne un’effettiva diversificazione,
corrispondenti ai giudizi sull’attività lavorativa svolta.
Invece, per quanto riguarda i dirigenti il criterio di attribuzione dei premi è collegato al risultato
conseguito.
Oltre ad analizzare i diritti patrimoniali, è opportuno soffermarsi su quelli non aventi tale contenuto,
ai quali si è già fatto un breve riferimento.
Tra questi occorre citare il diritto del dipendente pubblico all’ufficio, ossia alla permanenza nel
rapporto di lavoro; il c.d. diritto alla funzione, cioè allo svolgimento delle mansioni; il diritto alla
progressione; il diritto al riposo, in base al quale il lavoratore deve potere godere delle ferie, assentarsi
per motivi specifici mediante permessi o in caso di malattia; il diritto alla riservatezza per cui le
Pubbliche Amministrazioni devono rispettare le particolari condizioni previste per il trattamento dei
dati sensibili dei pubblici dipendenti e, soprattutto, devono prestare maggiore attenzione nel tutelare
le informazioni idonee a rivelare lo stato di salute degli stessi; il diritto alle pari opportunità,
configurabile come diretta esplicazione del principio di uguaglianza contenuto nell’art. 3 della
Costituzione, il quale attribuisce alle Amministrazioni Pubbliche un ruolo propositivo e propulsivo
per garantire la promozione e l’attuazione concreta del summenzionato criterio, attraverso la
rimozione di forme esplicite e implicite di discriminazione tra uomini e donne; il diritto di accesso
agli atti e documenti che riguardano la propria posizione lavorativa e, infine, i diritti sindacali.

84
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 4 - I PUBBLICI DIPENDENTI

2a Lezione - Responsabilità disciplinare

1. La responsabilità dei pubblici dipendenti

Tutti i rapporti di impiego possono essere fonte di responsabilità e, in particolare, essa assume
specifiche e precise forme nel caso in cui discende dal lavoro prestato alle dipendenze di una Pubblica
Amministrazione, a condizione che scaturisca in seguito all’espletamento delle mansioni che
contrattualmente sono state assegnate al dipendente.
D’altronde, quest’ultimo, nello svolgimento del rapporto lavorativo, può potenzialmente incorrere in
quattro diverse tipologie di responsabilità a seconda delle circostanze concrete dalle quali viene
originata.
Se il dipendente arreca un danno a terzi, sia interni che esterni all’Amministrazione, oppure
pregiudica quest’ultima, l’istituto in esame rileva ai fini civilistici, invece si parla di responsabilità
penale quando il lavoratore pone in essere una condotta delittuosa con effetti lesivi per
l’Amministrazione di appartenenza.
Qualora il pregiudizio arrecato al datore di lavoro pubblico deriva da un danno di tipo erariale si
configura una responsabilità di tipo amministrativo contabile, la quale avrà, invece, natura
disciplinare se il dipendente viola gli obblighi di condotta sanciti direttamente dalla legge, dal codice
di comportamento o dal contratto collettivo nazionale di lavoro.
Il fondamento costituzionale dal quale discende il principio di responsabilità del dipendente pubblico
è costituito dall’art. 28, che prevede la diretta responsabilità dei funzionari e dei dipendenti dello Stato
e degli enti pubblici per gli atti compiuti in violazione di diritti, secondo quanto previsto dalle leggi
penali, civili e amministrative; in una simile ipotesi, la responsabilità civile si estende anche alla
Pubblica Amministrazione datrice dell’autore della condotta antigiuridica.
Ciò posto, attesa la diversa causa posta a loro fondamento, le forme di responsabilità appena
analizzate possono agire congiuntamente nei riguardi della stessa persona, nonostante l’unicità della
trasgressione da questa commessa.

85
2. La responsabilità e il procedimento disciplinare

Come già detto, la responsabilità disciplinare deriva dalla violazione dei doveri inerenti al rapporto
di impiego da parte del dipendente.
Affinché si configuri un illecito disciplinare occorre un’azione o un’omissione compiuta dal
lavoratore in violazione della legge, del regolamento e, in particolare, dei doveri previsti dal contratto.
La materia oggetto di studio è stata uno degli oggetti principali delle riforme Brunetta del 2009 e
Madia del 2017, cosicché l’attuale sistema della responsabilità disciplinare e delle relative sanzioni
si connota per alcuni precisi aspetti generali.
La disciplina dell’istituto in esame è rinvenibile negli artt. 55 - 55 octies del D. Lgs. n. 165/2001, i
quali sono norme imperative, pertanto la violazione dolosa o colposa delle suddette disposizioni
costituisce illecito disciplinare, attribuibile ai dipendenti preposti alla loro applicazione.
Fatta salva la disciplina in materia di responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile, nel
pubblico impiego trova applicazione l’art. 2106 c.c., il quale, però, non può contrastare quanto
previsto dalle disposizioni sopra citate contenute nel D. Lgs del 2001.
Più specificatamente, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni viene definita dai contratti
collettivi ed è contenuta anche nel codice disciplinare, che necessita di pubblicazione sul sito
istituzionale dell’Amministrazione, la quale equivale, a tutti effetti, alla sua affissione all’ingresso
della sede di lavoro.
L’art. 55 bis D. Lgs n. 165/2001, e successive modifiche e integrazioni, pone la disciplina del
procedimento disciplinare che si applica a tutti i pubblici dipendenti, ad eccezione del personale della
scuola, per il quale vige un regime differenziato.
Tale norma, in considerazione della gravità dell’infrazione posta in essere dal dipendente, prevede
due strade diverse.
Infatti, per quelle di minore gravità, per le quali è prevista l’irrogazione della sanzione del rimprovero
verbale, il procedimento disciplinare è di competenza del responsabile della struttura presso cui presta
servizio il dipendente e trova applicazione la disciplina del CCNL di riferimento.
Invece, per le infrazioni punibili con una sanzione superiore al rimprovero verbale, ciascuna
Amministrazione, secondo il proprio ordinamento nell’ambito della propria organizzazione, deve
individuare l’ufficio per i procedimenti disciplinari competente, anche se è possibile, previa
convenzione, prevedere una gestione unificata delle funzioni di questo ufficio da parte di più
Amministrazioni.
In ogni caso, la procedura deve concludersi entro 120 giorni decorrenti dalla contestazione
dell’addebito al dipendente.

86
L’art. 55 quater D. Lgs n. 165/2001, modificato dalla riforma Brunetta, D. Lgs. n. 150/09 e dalla
riforma Madia, attraverso i D. Lgs. nn. 116/2016 e 118/2017 sui “furbetti del cartellino” e il D. Lgs.
n. 75/2017 sul pubblico impiego, regolamenta una serie di situazioni per le quali è prevista la sanzione
del licenziamento disciplinare, fatta salva la disciplina generale dei licenziamenti per giusta causa,
giustificato motivo e di cui alla contrattazione collettiva.
Alle specifiche ipotesi elencate dalla summenzionata norma va ricondotta la falsa attestazione della
presenza in servizio mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre
modalità illecite, così come la giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione
medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia.
Per falsa attestazione della presenza in servizio si intende qualsiasi modalità fraudolenta, posta in
essere anche con l’ausilio di terzi, volta a far risultare il dipendente in servizio o tesa ad ingannare
l’Amministrazione, presso la quale quest’ultimo presta attività lavorativa, convincendola del rispetto
dell’orario di lavoro da parte del soggetto subordinato.
In tal caso, per la violazione commessa risponde anche chi ha agevolato in ogni modo la condotta
fraudolenta, non solo mediante un comportamento attivo ma anche omissivo.
Il licenziamento disciplinare è previsto anche nel caso di assenza priva di valida giustificazione per
un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre negli ultimi due anni o, comunque, per
più di sette giorni nell’arco di un decennio.
Analogamente, tale sanzione è irrogata nelle ipotesi di mancata ripresa del servizio per assenza
ingiustificata, entro il termine fissato dalla Pubblica Amministrazione; di ingiustificato rifiuto del
trasferimento disposto dall’ente pubblico datore di lavoro per motivate esigenze di servizio; di falsità
documentale o dichiarativa commesse per giungere all’instaurazione del rapporto di lavoro o di
progressioni di carriera o in occasione di tali eventi; di gravi condotte aggressive, moleste,
minacciose, ingiuriose o, comunque, lesive dell’onore e della dignità personale altrui reiterate
nell’ambiente di lavoro.
Parimenti, il licenziamento disciplinare è previsto dopo l’intervento di una condanna penale definitiva
in relazione alla quale è prevista l’interdizione perpetua dei pubblici uffici o, comunque, un’altra
forma di estinzione dei rapporti lavoro; in caso di gravi o reiterate violazioni dei codici di
comportamento di obblighi concernenti la prestazione lavorativa che abbiano determinato
l’applicazione, in sede disciplinare, della sospensione dal servizio per un periodo complessivo
superiore a un anno nell’arco di un biennio; a seguito dell’infrazione, commessa con dolo o colpa
grave, consistente nel mancato esercizio o decadenza dall’azione disciplinare dovuti ad omissione o
ritardo.
Infine, anche l’insufficiente rendimento dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la

87
prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o
individuale, da atti e provvedimenti dell’Amministrazione di appartenenza, rilevato da continue
valutazioni negative della performance del dipendente negli ultimi tre anni.
Con i decreti attuativi della riforma Madia summenzionati, il legislatore ha voluto fissare una
disciplina più rigorosa in tema di responsabilità disciplinare al fine di prevenire e contrastare il
fenomeno diffuso delle condotte assenteistiche.
Ragion per cui, viene introdotto un iter disciplinare più celere a cui ricorrere in caso di falsa
attestazione della presenza in servizio, la quale se accertata in flagranza ovvero mediante strumenti
di sorveglianza o di registrazione determina l’immediata sospensione cautelare senza stipendio del
dipendente, che non deve essere necessariamente ascoltato preventivamente.
Di tale sospensione si occupa il responsabile della struttura in cui il dipendente lavora o, ove ne venga
a conoscenza per primo, l’ufficio per i procedimenti disciplinari; in ogni caso è richiesto un
provvedimento motivato immediato o, comunque, entro quarantotto ore dal momento in cui i predetti
soggetti ne sono venuti a conoscenza.
Nel medesimo atto, oltre a disporre la sospensione cautelare, si deve anche contestare per iscritto
l’addebito e convocare il dipendente dinanzi all’ufficio per i procedimenti disciplinari, il quale deve
concludere tale iter entro 30 giorni dalla ricezione da parte del dipendente della contestazione
dell’addebito.
In presenza di specifici presupposti, al dipendente può addebitarsi anche la responsabilità per il danno
all’immagine subito dall’Amministrazione, il cui ammontare, ai fini del risarcimento, è rimesso alla
valutazione equitativa del Giudice.
Per concludere, vista l’importanza della questione, le modifiche introdotte demandano alla
contrattazione collettiva il compito di fissare le condotte e le relative sanzioni per le ripetute e
ingiustificate assenze dal servizio in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale, nonché
per quelle collettive in determinati periodi nei quali è necessario assicurare continuità nell’erogazione
dei servizi all’utenza.

88
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 4 - I PUBBLICI DIPENDENTI

3a Lezione - Il sistema dei controlli

1. Il sistema dei controlli e il ciclo di gestione della performance

Dal 2009 in poi, prima con la riforma Brunetta e successivamente con le più recenti, in particolare
quella legata all’attuazione della legge delega Madia, il tema della misurazione e della valutazione
della performance, ossia delle prestazioni lavorative e del rendimento dei pubblici impiegati, ha
riacquistato notevole importanza e, pertanto, ha coinvolto anche il profilo dei controlli, al quale è
inscindibilmente connesso.
D’altronde, per potere procedere alla misurazione della performance dei dipendenti e degli uffici, non
si può prescindere da un’analisi del sistema dei controlli sull’attività e sulla gestione.
Parlando di “controllo” si fa riferimento al raffronto tra l’oggetto dello stesso, ossia un atto o
un’attività, e un parametro di valutazione, in modo da verificare la conformità del primo al secondo
e, sulla base dei risultati del riscontro effettuato, eventualmente adottare misure correttive.
Invece, la “performance”, con riferimento alla P.A., è espressione della prestazione erogata dai
singoli e dalle strutture organizzative, corrispondente alla posizione attribuita e, quindi, alle connesse
mansioni, nonché delle relative aspettative di risultato, nel contesto della programmazione e della
gestione delle risorse umane.
La misurazione e la valutazione della performance nel pubblico impiego, delineate analiticamente
dalle riforme di cui sopra, perseguono l’obiettivo di garantire il raggiungimento dei risultati
dell’azione amministrativa e il soddisfacimento dei bisogni del cittadino utente, all’interno della più
ampia cornice del rispetto dell’interesse della collettività, il quale informa sempre più l’attività
amministrativa funzionalizzata al bene comune.

89
2. I controlli sull’attività nel lavoro pubblico

I controlli sull’attività hanno ad oggetto la valutazione dell’attività amministrativa nel suo complesso
e non il singolo atto.
Infatti, essi si rivolgono alla gestione amministrativa e sono finalizzati alla verifica dell’efficacia e
dell’efficienza dei risultati ottenuti.
L’istituto in esame può distinguersi in controlli interni o di gestione ed esterni o sulla gestione, a
seconda della rilevanza dell’organo, rispetto all’ente, che li pone in essere.
Per quanto riguarda i controlli interni, la relativa disciplina è contenuta nel D. Lgs. n. 286/99, il quale
ne individua quattro diversi tipi.
Innanzitutto, il controllo di regolarità amministrativa e contabile, teso a garantire la legittimità, la
regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa, il quale è di competenza
degli organi individuati dalle disposizioni vigenti nei diversi comparti delle Pubbliche
Amministrazioni (organi di revisione, uffici di ragioneria, servizi ispettivi).
Un secondo tipo di controllo è quello di gestione, volto a verificare l’efficacia, l’efficienza e
l’economicità dell’azione amministrativa, per garantire l’ottimizzazione del rapporto tra costi e
risultati, anche mediante tempestivi interventi di correzione.
E ancora, la valutazione dei dirigenti finalizzata a giudicare le prestazioni del personale con qualifica
dirigenziale.
Infine, il controllo strategico diretto a valutare l’adeguatezza delle scelte compiute, in sede di
attuazione dei piani, programmi e altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini
di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti.
Tale tipologia di controllo costituisce un mezzo di supporto per l’attività di programmazione
strategica di indirizzo politico e, pertanto, spetta a strutture che rispondono direttamente agli organi
di indirizzo politico amministrativo.
Il sistema dei controlli interni appena delineato, previsto dal D. Lgs. n. 286/99 è stato modificato dalla
riforma Brunetta, infatti dal 30 aprile 2010 la disciplina sulla valutazione della dirigenza è stata
sostituita da quella relativa alla misurazione e valutazione della performance, svolta dagli organismi
indipendenti di valutazione della performance (OIV).
Gli OIV monitorano il funzionamento complessivo del sistema della valutazione della trasparenza e
dell’integrità dei controlli interni, garantendo la correttezza dei processi di misurazione e valutazione
nel rispetto del principio di valorizzazione del merito e della professionalità, ed elaborano una
relazione annuale sullo stato dello stesso.

90
Ad essi è, altresì, attribuita la funzione di valutazione e controllo strategico, ossia verificano
l’andamento della performance rispetto agli obiettivi programmati nel periodo di riferimento, anche
attraverso i risultati dei controlli strategici e di gestione presenti nella P.A.
Gli OIV, se lo ritengono opportuno, devono segnalare gli interventi correttivi all’organo di indirizzo
politico.
I controlli di regolarità amministrativa e contabile sono stati, invece, riformati dal D. Lgs. n. 123/11
sotto il profilo procedurale.
Oltre i controlli analizzati aventi carattere interno alla P.A., uno esterno trova la disciplina di
riferimento nella L. n. 20/94, ossia quello spettante alla Corte dei Conti sulla gestione delle singole
amministrazioni e, dunque, in merito alla corrispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli
obiettivi fissati dalla legge, svolto appunto da un organo terzo e imparziale.

3. I nuovi sistemi di valutazione della performance

La valutazione del personale è una procedura che prevede un giudizio periodico su ogni dipendente
per valutare ed individuare, secondo criteri omogenei, il rendimento e le caratteristiche che si
estrinsecano nell’esecuzione del lavoro.
L’importanza di tale strumento è stata ribadita dalle recenti riforme, la cui ratio è quella di delineare
un’Amministrazione Pubblica più efficiente, snella, sburocratizzata e, soprattutto integra, in modo da
ottimizzare la produttività del lavoro pubblico e garantire, contestualmente, l’efficienza e la
trasparenza degli uffici pubblici.
A tal fine è richiesto l’intervento attivo e fattivo dei cittadini, i quali devono esprimere una propria
valutazione sull’operato dei pubblici uffici e sulla qualità dei servizi resi.
Infatti, ogni Amministrazione Pubblica, nel misurare e valutare la performance, deve prendere come
riferimento l’Amministrazione nel suo complesso, cioè le unità organizzative o aree di responsabilità,
i singoli dipendenti, gli indirizzi impartiti dal Dipartimento della Funzione Pubblica.
Il rispetto delle disposizioni in materia è condizione necessaria per l’erogazione di premi e
componenti del trattamento retributivo legati alla performance e rileva, altresì, per il riconoscimento
delle progressioni economiche, per l’attribuzione di incarichi di responsabilità al personale e per il
conferimento di incarichi dirigenziali.
L’eventuale valutazione negativa ha conseguenze sul piano dell’accertamento della responsabilità
dirigenziale e, dunque, rileva ai fini dell’irrogazione del licenziamento disciplinare.

91
Al fine di procedere alla misurazione della performance, si prende in considerazione un apposito ciclo
di gestione, che si articola in più fasi: definire e assegnare gli obiettivi da raggiungere e i risultati
attesi, tenendo conto anche dell’andamento dell’anno precedente; collegare gli obiettivi
all’allocazione delle risorse; monitorare il corso dell’esercizio e adottare eventuali interventi
correttivi; misurare e valutare la performance organizzativa e individuale; utilizzare dei sistemi
premianti secondo criteri di valorizzazione del merito; infine, rendicontare i risultati agli organi di
indirizzo politico amministrativo, ai vertici delle Amministrazioni, ai competenti organi interni di
controllo ed esterni, ai cittadini, ai soggetti interessati, agli utenti e ai destinatari dei servizi.
Le Amministrazioni, per assicurare la qualità, la comprensibilità e l’attendibilità dei documenti di
rappresentazione della performance, sono tenute a redigere e pubblicare annualmente, entro il 31
gennaio, sul proprio sito istituzionale, un documento programmatico triennale, c.d. piano della
performance.
Si tratta di un atto frutto dell’attività dell’organo di indirizzo politico amministrativo e dei vertici
della Pubblica Amministrazione, nel rispetto degli indirizzi impartiti dal Dipartimento della Funzione
Pubblica, relativi agli scopi strategici e operativi, agli indicatori per la misurazione e la valutazione
della performance dell’Amministrazione, nonché agli obiettivi assegnati al personale dirigenziale e
relativi indicatori.
Inoltre, le Amministrazioni devono presentare entro il 30 giugno la c.d. relazione sulla performance,
che deve essere approvata dall’organo di indirizzo politico amministrativo e validata dagli organismi
indipendenti di valutazione, con la quale si evidenziano a consuntivo, con riferimento all’anno
precedente, i risultati organizzativi individuali raggiunti rispetto agli obiettivi e alle risorse
programmate, rilevando eventuali scostamenti.

4. I soggetti della valutazione e la partecipazione del cittadino-utente

I protagonisti del processo di misurazione e valutazione della performance oggetto di studio sono: il
Dipartimento della Funzione Pubblica, gli OIV, l’organo di indirizzo politico amministrativo e i
dirigenti di ciascuna Amministrazione, oltre al cittadino, in qualità di utente finale dei servizi erogati
dagli uffici pubblici.
Secondo le previsioni contenute nell’art. 19 bis D.Lgs. n. 150/09, introdotto dal D.Lgs. n. 74/17, i
cittadini, anche in forma associata, devono partecipare a tale processo valutativo comunicando
direttamente agli organismi indipendenti di valutazione delle performance il proprio grado di

92
soddisfazione per le attività e per i servizi erogati e, al contempo, le Amministrazioni devono adottare
sistemi volti a favorire ogni più ampia forma di coinvolgimento e collaborazione dei destinatari dei
servizi.
I risultati della rilevazione vanno pubblicati annualmente sul sito dell’Amministrazione.

93
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 4 - I PUBBLICI DIPENDENTI

4a Lezione - La responsabilità patrimoniale

1. Profili introduttivi

L’art. 103 della Costituzione attribuisce alla Corte dei Conti, nella qualità di Giudice nelle materie di
contabilità pubblica, il compito di verificare l’operato di chi maneggia risorse della collettività e di
chi agisce per conto di una Pubblica Amministrazione in forza di un rapporto di servizio.
Si tratta di un’attività finalizzata sia all’accertamento di un danno arrecato alle casse pubbliche e,
quindi, di riflesso all’intera comunità, e alla conseguente reintegrazione del patrimonio con
contestuale sanzione del responsabile del danno, sia alla guida del dipendente verso la corretta
funzionalizzazione delle risorse pubbliche, strumentali all’azione amministrativa.

2. I soggetti passivi della giurisdizione contabile

La norma costituzionale citata non fornisce alcun indizio circa il destinatario della giurisdizione
contabile, di conseguenza sono sottoposti ad essa tutti i dipendenti pubblici, per i danni arrecati
nell’esercizio delle loro funzioni, indipendentemente dall’Amministrazione di appartenenza.
Invece, merita un discorso a parte una specifica categoria di dipendente pubblico, ossia l’agente
contabile, il quale, occupandosi di risorse pubbliche, è soggetto a responsabilità contabile e risponde
del proprio operato innanzi alla Corte dei Conti, attraverso il c.d. giudizio di conto.
Tra i soggetti passivi della giurisdizione contabile vanno inclusi anche coloro che sono inseriti in
modo stabile nell’apparato organizzativo dell’Amministrazione.
Dunque, è chiaro che per i soggetti interni all’Amministrazione il presupposto imprescindibile per
essere sottoposti alla responsabilità amministrativa consiste semplicemente nel loro status di
amministratori o dipendenti, mentre per i soggetti esterni occorre un legame con l’Amministrazione.
Affinché si configuri un rapporto di servizio, non è indispensabile una prestazione professionale di
94
lavoro subordinato, bensì è sufficiente che un soggetto venga investito di una determinata attività
finalizzata al raggiungimento degli scopi della P.A., attraverso l’inserimento nella sua organizzazione
e il conseguente assoggettamento a particolari obblighi e vincoli istituzionali.
Quindi, oltre agli impiegati pubblici, destinatari della giurisdizione contabile sono anche i titolari di
incarichi elettivi (es. ministri) o onorari e i c.d. funzionari di fatto, cioè quelli che svolgono funzioni
pubbliche.

3. La responsabilità a contenuto patrimoniale del dipendente pubblico

Gli impiegati pubblici rispondono del loro operato non soltanto sul piano penale e disciplinare ma
anche su quello civile, infatti nei casi di lesione della sfera giuridica di un soggetto, grava sull’autore
del danno provocato il dovere di risarcimento.
D’altronde, l’art. 2043 c.c., norma cardine in materia di responsabilità nel nostro ordinamento,
prevede il c.d. principio del neminem laedere, in forza del quale chi commette un fatto doloso o
colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto deve risarcirlo.
Dunque, si tratta di una forma di responsabilità avente contenuto patrimoniale, la quale assume diversi
aspetti, a seconda dei soggetti cui si riferisce, delle norme violate e del tipo di danno cagionato.
Pertanto, si può configurare una responsabilità civile verso i terzi oppure una responsabilità
amministrativa o contabile, che sono due differenti aspetti in cui si articola quella per danno erariale.
Questa classificazione si basa sul diverso soggetto danneggiato, infatti nella prima ipotesi il
dipendente pubblico arreca un danno a un soggetto estraneo al suo rapporto con l’amministrazione
ed è tenuto a rifonderlo, anche in solido con quest’ultima, invece nel secondo caso è la stessa
Amministrazione Pubblica di appartenenza che subisce una lesione patrimoniale e, quindi, va
risarcita.
In particolare, la responsabilità amministrativa o erariale è quella in cui incorre il funzionario o
impiegato, che non osserva, dolosamente o colposamente, i suoi obblighi di servizio, cagionando alla
Pubblica Amministrazione un pregiudizio, che deve risarcire; invece, la responsabilità contabile è
quella in cui incorrono i soli agenti contabili.
La disciplina sostanziale della responsabilità patrimoniale del pubblico dipendente è rinvenibile nella
legge e nel regolamento di contabilità di Stato, nel Testo Unico delle disposizioni concernenti lo
statuto di impiegati civili dello Stato e nell’art. 52 del Testo Unico delle leggi sulla Corte dei Conti,
invece quella processuale, trattandosi di una responsabilità oggetto del giudizio della Corte dei Conti,

95
è contenuta nel codice di giustizia contabile (D.Lgs. n. 174/2016).

4. Il danno erariale

Un presupposto indispensabile per la sussistenza della responsabilità amministrativo contabile è il


danno erariale, che, però, non trova una definizione nelle varie disposizioni che si occupano della
materia analizzata.
In termini generali, si parla di danno con riferimento ad ogni evento conseguente e connesso ad una
condotta antigiuridica, attiva o omissiva, posta in essere da un soggetto che determina una lesione,
economicamente valutabile, ad un altro.
In particolare, secondo la dottrina, il danno erariale consiste nel depauperamento del patrimonio
sofferto dall’erario (Stato o altro ente pubblico), a causa di una condotta illecita compiuta da un
pubblico dipendente nell’esercizio di specifiche funzioni amministrative.
In linea con l’art. 1223 c.c., esso, che consiste in un pregiudizio suscettibile di valutazione economica,
si articola in due voci, ossia il danno emergente, che consiste nel danneggiamento o nella perdita di
beni o di denaro, e il lucro cessante, per il mancato conseguimento di incrementi patrimoniali.
Invero, la Corte dei Conti predilige una nozione più ampia di danno, non coincidente con una perdita
patrimoniale, che ricomprende la lesione di un interesse generale della collettività non
necessariamente suscettibile di valutazione economica (ad esempio il c.d. danno esistenziale, che
comprende anche il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione).
In particolare, con riguardo al danno non patrimoniale, in dottrina si distinguono i pregiudizi subiti
direttamente dall’Amministrazione e quelli patiti da tutta la collettività.
Il danno erariale può essere diretto, quando è cagionato dal soggetto responsabile ad
un’Amministrazione Pubblica, non per forza a quella di appartenenza, anche se in questo secondo
caso l’art. 1, quarto comma, della Legge n. 20/1994 parla di danno trasversale o obliquo; invece è
indiretto quello consistente nelle somme che l’Amministrazione ha corrisposto al terzo a titolo di
risarcimento del danno commesso dal dipendente o dall’amministratore.
Il danno erariale ha natura pubblicistica, in quanto, comportando un nocumento alle finanze
pubbliche, si traduce in un danno alla collettività che deve essere certo e attuale, quindi sussistente al
momento dell’esercizio dell’azione di responsabilità ed economicamente valutabile.

96
5. Il danno all’immagine della P.A.

Generalmente, il danno erariale ha contenuto patrimoniale ma è possibile ricondurre nell’ambito di


tale categoria anche il c.d. danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, che consiste nella
perdita di prestigio della stessa agli occhi degli amministrati.
Il nostro ordinamento giuridico riconosce e garantisce il diritto all’immagine non solo alle persone
fisiche ma anche a quelle giuridiche e, in particolare, la Pubblica Amministrazione trova tutela negli
artt. 2 e 97 Cost. concernenti, rispettivamente, le formazioni sociali e l’organizzazione della
medesima.
D’altronde, le Amministrazioni Pubbliche hanno il diritto di organizzarsi e agire secondo i criteri di
efficacia, efficienza, imparzialità e trasparenza, conseguentemente se un pubblico amministratore o
dipendente agisce ledendo o danneggiando tale diritto, viene alterata negativamente l’immagine della
P.A., la quale potrebbe sembrare un’organizzazione strutturata confusamente e mal gestita, così da
incidere sul rapporto di fiducia e di affidamento che lega Amministrazione e amministrati.
Dunque, affinché si configuri tale tipo di danno, la condotta posta in essere deve avere causato la
reiterata violazione di doveri di servizio e un discredito per l’Amministrazione.
L’azione risarcitoria per il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione trova la sua fonte
nell’art. 17 della Legge n. 102/09, anche se successivamente è intervenuto il legislatore del codice di
giustizia contabile.
In forza di questi interventi riformatori, oggi la giurisprudenza individua come presupposti
dell’azione risarcitoria per danno all’immagine della Pubblica Amministrazione tutti i delitti
commessi a danno della stessa da parte dei dipendenti pubblici, a condizione che essi vengano
accertati con sentenza penale definitiva.
Ai fini della quantificazione del danno in questione, il Giudice contabile non può prescindere dai
criteri oggettivi, soggettivi e sociali.
Motivo per cui, quest’ultimo deve sempre valutare l’oggettiva gravità dell’illecito, la particolare
posizione rivestita dai presunti responsabili all’interno dell’organizzazione dell’ente, infine, le
ripercussioni sociali della condotta illecita nell’opinione pubblica.
A proposito dell’entità del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, la Legge n.
190/2012, nel modificare quella precedente n. 20/1994, ha introdotto specifiche previsioni sul punto
prevedendo che, nel giudizio di responsabilità, la lesione in questione, derivante dalla commissione
di un reato contro la Pubblica Amministrazione, accertato con sentenza passata in giudicato, si
presume, salvo prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di

97
altra utilità illecitamente percepita dal dipendente.
Inoltre, in tali procedimenti è concesso il sequestro conservativo in tutti casi in cui vi è il fondato
timore di attenuazione della garanzia del credito erariale.

98
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 4 - I PUBBLICI DIPENDENTI

5a Lezione - La Corte dei Conti e la giurisdizione contabile

1. La responsabilità contabile e l’elemento soggettivo

Originariamente, atteso il bisogno che un organismo neutrale verificasse, ex post, la sana gestione
delle risorse pubbliche, da parte degli agenti contabili, furono attribuite funzioni giurisdizionali alla
Corte dei Conti.
Infatti, la prima tipologia di responsabilità rientrante nella competenza della stessa è stata quella
contabile, ossia quella scaturente da irregolarità rilevate durante l’esame del giudizio sul conto redatto
dal contabile, in quanto tutti coloro che maneggiano denaro o valori della P.A. sono tenuti al c.d.
obbligo di rendiconto, ossia un documento in cui vengono rappresentati in sintesi i risultati finali
dell’attività gestoria.
Dunque, possono incorrere nella responsabilità contabile solamente una determinata categoria di
dipendenti pubblici, cioè gli agenti contabili, ovvero coloro che, per contratto o per compiti di
servizio, curano lo svolgimento delle operazioni contabili di un’Amministrazione.
L’art. 178 del Regio Decreto n. 827/1924 ha individuato, dettagliatamente, i soggetti che rivestono
tale qualifica, ossia gli agenti che, con qualsiasi titolo, sono incaricati di riscuotere le varie entrate
dello Stato e di versarle nelle casse del tesoro; i tesorieri che ricevono, nelle loro casse, le somme
dovute allo Stato o le altre delle quali questo diventa debitore, che seguono i pagamenti delle spese
per conto dello stesso e che disimpegnano tutti quegli altri servizi speciali loro affidati dal Ministro
delle Finanze o dal Direttore Generale del Tesoro; coloro che facendo parte di consigli di
amministrazione per i servizi della guerra e della marina e simili maneggiano pubblico denaro o sono
consegnatari di generi, oggetti e materie appartenenti allo Stato; gli impiegati di qualsiasi
Amministrazione Pubblica che hanno l’incarico di riscuotere entrate di qualunque natura e
provenienza e coloro che, pur non avendo una legale autorizzazione, interferiscono nell’espletamento
di tali incarichi.
In relazione a quest’ultimo caso, vanno distinti i contabili che svolgono tale funzione in virtù di un
rapporto di impiego o di un contratto e quelli che lo fanno di propria iniziativa, anche se sono
99
assoggettati alla stessa disciplina relativa ad obblighi, doveri e responsabilità.

2. La responsabilità amministrativa o erariale

Il funzionario o l’impiegato che non osserva dolosamente o colposamente i propri obblighi di servizio,
cagionando un pregiudizio alla P.A. consistente in un danno pubblico risarcibile, ossia una lesione
ingiustificata al patrimonio dell’erario, incorre in responsabilità amministrativa o erariale.
In tale ipotesi, in forza degli artt. 18 e 19 T.U. impiegati civili dello Stato, il pubblico dipendente deve
risarcire l’Amministrazione per il danno arrecatole, anche nei casi in cui ha agito su delega del
superiore, salvo l’obbligo di eseguire l’ordine ricevuto derivi da specifiche norme del rapporto di
impiego.
L’istituto in esame è disciplinato dalla legge di contabilità di Stato (Regio Decreto n. 2440/1923) che
agli artt. 82 e 83 delinea i profili peculiari della stessa; in particolare tali norme prevedono che
nell’ipotesi appena considerata la giurisdizione è della Corte dei Conti.
Si tratta di una responsabilità generica o non tipizzata, in quanto l’illecito può presentare un contenuto
sempre diverso non riconducibile a fattispecie già previste dal legislatore, le quali, invece, vengono
concretamente individuate dalla giurisprudenza della Corte dei Conti, ragion per cui le norme
sostanziali si limitano ad individuare i presupposti della responsabilità.
In passato si è a lungo dibattuto sulla natura giuridica della responsabilità amministrativa, ossia se la
stessa fosse riconducibile ad un modello sanzionatorio o alla comune responsabilità civile per danno;
la giurisprudenza contabile e la dottrina maggioritaria hanno optato per la seconda ipotesi, riportando
il danno nell’ambito del rapporto che lega il dipendente allo Stato e richiamando, così, il principio
generale dell’adempimento delle obbligazioni.
Anche se alcuni ritengono che quella amministrativa sia una forma di responsabilità sui generis,
autonoma rispetto a quelle aventi natura civile, connotata da elementi propri.
Oggi, la giurisprudenza contabile, senza rinnegare l’impostazione tradizionale, riconosce una
funzione sanzionatoria all’azione amministrativa, almeno nei casi direttamente sanzionati dalla legge.

3. La responsabilità amministrativa di tipo sanzionatorio

Nel tempo, il legislatore ha introdotto, attraverso leggi finanziarie, alcune fattispecie di responsabilità
sanzionatoria poste accanto a quelle di tipo risarcitorio.

100
Si tratta di ipotesi di responsabilità amministrativa tipizzate e sanzionate, pur in assenza di un danno
patrimoniale, e devolute sempre alla cognizione del Giudice contabile.
Dunque, attesa tale evoluzione del concetto di responsabilità amministrativa, in un’importante
pronuncia n’è stata operata una ricostruzione sistematica evidenziando le differenze tra i due aspetti,
risarcitorio e sanzionatorio, della stessa.
In primo luogo, le Sezioni riunite della Corte dei Conti hanno confermato la compatibilità
costituzionale della predetta novità, in quanto il secondo comma dell’art. 103 Cost. riconosce la
giurisdizione di tale Autorità Giudicante nelle materie di contabilità pubblica e in quelle specificate
dalla legge.
In secondo luogo, esse esplicitano le differenze degli istituti in questione, precisando che la
responsabilità amministrativa per danno è generica, in quanto non è tipizzata né nei comportamenti
né nella quantificazione del debito, e avendo natura risarcitoria si configura nei casi in cui si
determina, con dolo o colpa grave, un danno patrimoniale alla P.A. risarcibile, economicamente
valutabile, attuale e concreto.
Invece, la responsabilità amministrativa sanzionatoria deve essere necessariamente tipizzata, poiché
ogni fattispecie concreta deve corrispondere ai parametri costituzionali di cui all’art. 25 Cost., per cui
la legge deve precisamente indicare ogni elemento dell’intera fattispecie sanzionatoria, sia con
riferimento al precetto che alla sanzione.

4. Gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa

Affinché si possa parlare di responsabilità amministrativa devono sussistere alcuni presupposti o


elementi costitutivi, i quali sostanzialmente coincidono con quelli della comune responsabilità civile
con l’aggiunta, però, della necessaria presenza del rapporto di servizio e della natura pubblica
dell’ente danneggiato.
Pertanto, a tal fine, è indispensabile che l’ente danneggiato sia un’Amministrazione Pubblica, la quale
può essere anche diversa da quella di appartenenza degli amministratori e dei dipendenti pubblici
responsabili.
Come già detto, il danno erariale deve essere effettivo e attuale, oltre che economicamente valutabile,
posto che il risarcimento consiste nel pagamento di una somma equivalente alla misura del
nocumento.
Le ipotesi rilevanti ai fini del giudizio contabile sono quelle di danno patrimoniale e non patrimoniale,

101
diretto e indiretto.
Per quanto riguarda l’elemento soggettivo della responsabilità, la condotta antigiuridica deve essere
dolosa o gravemente colposa, ossia nel primo caso è necessaria una volontà cosciente del soggetto di
provocare con la sua condotta un determinato evento, invece nella seconda ipotesi, pur in assenza
dell’intenzione di arrecare un determinato danno, il soggetto agisce trascurando gli accorgimenti
dettati dalla prudenza, dall’esperienza e dall’osservanza delle norme, alla luce della natura delle
funzioni o mansioni svolte dall’agente pubblico e del contesto organizzativo in cui il responsabile è
collocato.
Inoltre, deve sussistere un nesso di causalità tra l’evento lesivo e il comportamento dannoso posto in
essere, per cui il danno prodotto deve essere la conseguenza diretta e immediata della condotta dolosa
o gravemente colposa posta in essere dal danneggiante.

5. La corte dei conti e la giurisdizione contabile

La Corte dei Conti è titolare della c.d. giurisdizione contabile, nella quale vengono tradizionalmente
ricondotte le ipotesi di responsabilità amministrativa per danni all’erario, la materia della contabilità
pubblica, i giudizi in materia pensionistica e quelli aventi ad oggetto l’irrogazione di sanzioni
pecuniarie, oltre i casi specificati dalla legge.
Si tratta di una giurisdizione “piena”, in quanto la Corte conosce delle controversie sia sotto l’aspetto
dell’accertamento dei fatti che di quello dell’applicazione del diritto, in più essa può accertare la
legittimità degli atti amministrativi ed eventualmente negarne l’applicazione, ma non può annullarli
o sostituirli, ed è, al contempo, “esclusiva” poiché il Giudice conosce sia di diritti soggettivi che di
interessi legittimi.
La giurisdizione contabile è esercitata dalle sezioni giurisdizionali regionali, di appello e da quelle
riunite in sede giurisdizionale o in speciale composizione della Corte dei Conti.
Al fine di riordinare il processo contabile, considerando la peculiarità degli interessi pubblici oggetto
di tutela dei diritti soggettivi coinvolti, in attuazione dell’art. 20 della Legge delega n. 124/2015, il
D.Lgs. n. 174/2016 ha introdotto il c.d. codice di giustizia contabile, il quale disciplina organicamente
ogni tipologia di giudizio instaurato d’innanzi alla Corte, l’ufficio del P.M., le misure volte a dare
certezza all’esecuzione delle sentenze di condanna.
Il nuovo impianto codicistico si caratterizza, altresì, per l’innovativa tendenza della digitalizzazione
degli atti e dell’informatizzazione delle attività, ragion per cui è previsto che i giudizi instaurati

102
innanzi alla Corte dei Conti siano svolti mediante l’utilizzo di tecnologie informatiche e, parimenti,
gli atti processuali e i provvedimenti del Giudice, delle parti e dei loro difensori devono rivestire la
forma di documenti informatici.

103
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 4 - I PUBBLICI DIPENDENTI

6a Lezione - La responsabilità civile verso i terzi

1. La responsabilità civile verso terzi

Dopo esserci soffermati sulla responsabilità patrimoniale del dipendente pubblico nei confronti dello
Stato e dell’Amministrazione Pubblica e su quella dell’agente contabile, occorre analizzare un ultimo
aspetto di tale istituto, ossia quella civile verso terzi.
Il dipendente di una P.A., nell’esercizio delle proprie funzioni, può astrattamente incorrere in cinque
fondamentali responsabilità, una di queste è quella civile, la quale si configura nei casi in cui si
arrecano danni a terzi, intranei o estranei all’Amministrazione, o a essa stessa, dai quali discende il
dovere di risarcire il danno arrecato per la lesione della sfera giuridica di un altro soggetto.
Il regime normativo di tale tipo di responsabilità è rinvenibile nella disciplina legislativa di settore,
in forza dell’espresso richiamo contenuto nell’art.55, co.1, D.Lgs. n.165/2001.
La giurisprudenza e la dottrina hanno provveduto ad operare delle classificazioni all’interno del genus
“responsabilità civile”, prevedendo, innanzitutto, che essa possa avere natura extracontrattuale,
contrattuale e precontrattuale.
Nel primo caso si parla spesso di responsabilità aquiliana per indicare la produzione, dolosa
o colposa, di un danno ingiusto ad altri, non derivante dalla violazione di una preesistente
obbligazione, bensì causato dalla mera inosservanza del generale dovere del neminem laedere, che
comporta il risarcimento del danno ex artt. 2043 ss. c.c.
Al contrario, la responsabilità contrattuale sussiste in tutte le ipotesi di inadempimento di un
preesistente obbligo specifico nei confronti del creditore, dal quale discende l’applicazione delle
regole dettate dagli artt. 1218 ss. c.c.
Quando sussiste tale forma di responsabilità, il soggetto chiamato a rispondere è la sola Pubblica
Amministrazione e non anche il dipendente pubblico, il quale, però, a sua volta potrebbe dovere
rifondere il terzo per il danno arrecatogli a titolo extracontrattuale.
Analogamente, quella precontrattuale è imputabile alla sola Amministrazione contraente e si
configura nei casi di violazione del dovere di non ledere l’altrui libertà negoziale, ovvero delle norme
104
che regolano la fase delle c.d. trattative negoziali, quando l’inosservanza delle stesse causa un danno
alla controparte impegnatasi nella negoziazione invano, alla quale spetta il risarcimento in forza degli
artt. 1337 e 1338 c.c.
A differenza di quanto accade nei casi in cui l’illecito civile è posto in essere da comuni soggetti
privati, se l’autore di esso, e, in particolare, di quello extracontrattuale è una Pubblica
Amministrazione, la principale caratteristica è data, dal meccanismo della c.d. solidarietà passiva.
Infatti, con l’entrata in vigore della Costituzione, l’art. 28, prima, e il D.P.R. n. 3/1957 agli artt. 22
ss., dopo, hanno individuato una responsabilità solidale dell’Amministrazione e del funzionario nelle
ipotesi in cui si arreca un danno al cittadino, il quale può decidere liberamente di escutere l’una o
l’altro.
Tale corresponsabilità tra datore di lavoro e lavoratore trova spazio anche in ambito privato nell’art.
2049 c.c., anche se la finalità perseguita non è la stessa.
Infatti, il coinvolgimento “pecuniario” della Pubblica Amministrazione, in caso di danni arrecati a
terzi da propri dipendenti, è legato al fatto che essa agisce attraverso i propri organi nei quali si
immedesima e, pertanto, il relativo operato è riconducibile all’ente in forza di tale rapporto organico.
Invece, la scelta di ritenere anche il singolo lavoratore responsabile in tale ipotesi persegue uno scopo
preventivo, ossia spingere lo stesso ad una puntuale e diligente osservanza dei propri doveri
minacciandolo, altrimenti, di dovere rispondere economicamente in prima persona dei danni arrecati
nell’espletamento delle proprie funzioni istituzionali.
La suddetta disposizione costituzionale pone a carico dello Stato e dei pubblici impiegati tutte le
conseguenze relative a quegli atti che ingenerano, in forza delle norme comuni, la responsabilità
dell’agente.
Va rilevato che anche la responsabilità dello Stato, e non solo quella del suo dipendente, è diretta,
infatti entrambi sono posti sul medesimo piano nei confronti del soggetto civilmente danneggiato,
motivo per cui la Corte Costituzionale parla di responsabilità concorrente.
Però, l’Amministrazione non può essere chiamata a rispondere del danno quando esso deriva da un
comportamento posto in essere dai funzionari impiegati, in un contesto estraneo all’attività
amministrativa, come nel caso di atti personali compiuti dagli agenti, di atti viziati da incompetenza
assoluta o di comportamenti dolosi con i quali si verifica una violazione delle norme penali.
Al contrario, negli altri casi la Pubblica Amministrazione è responsabile, poiché l’operato dei suoi
agenti, nell’esercizio delle funzioni ad essi affidati, si considera proveniente da essa stessa.
Il dettato costituzionale summenzionato ha natura precettiva e, pertanto, è stato recepito dalle norme
del Testo Unico impiegati civili dello Stato.
Esso, infatti, prescrive che se l’impiegato, esercitando le attribuzioni ad esso conferite dalla legge o

105
dai regolamenti, provoca ad altri soggetti un danno ingiusto è personalmente obbligato a rifondere il
danneggiato.
L’azione di risarcimento può essere esperita contestualmente nei confronti del pubblico dipendente e
dell’Amministrazione qualora, in base alle norme e i principi vigenti, sussiste anche la responsabilità
dello Stato.
Per quanto riguarda il concetto di danno ingiusto, il testo della legge precisa che esso è conseguenza
delle violazioni dei diritti dei terzi commesse dall’impiegato con dolo o colpa grave.
Naturalmente la responsabilità dell’impiegato sussiste non solo a seguito del compimento di atti o di
operazioni, ma anche in caso di omissione o ritardo nel compimento degli stessi quando sono
obbligatori per legge.
Va, però, precisato che in virtù dell’art. 23 del Testo Unico impiegati civili dello Stato non esiste
perfetta coincidenza fra i casi di responsabilità dell’impiegato e quelli di responsabilità della Pubblica
Amministrazione, in quanto il dipendente è obbligato a risarcire i terzi per i danni ad essi arrecati solo
se ha agito con dolo o colpa grave.
Invece, nei casi di colpa lieve o lievissima, dei danni perpetrati nei confronti di altri soggetti risponde
soltanto l’Amministrazione; in tal modo si soddisfa un’esigenza ben precisa, ossia quella di garantire
all’impiegato un certo grado di sicurezza, poiché la preoccupazione di essere responsabile e dovere
rispondere verso terzi anche per una live negligenza potrebbe causare una grave paralisi dell’attività
amministrativa.
Viceversa, non può sussistere alcuna responsabilità dell’Amministrazione qualora il fatto dannoso sia
conseguenza di comportamenti posti in essere dolosamente per il raggiungimento di un fine illecito
ed estraneo agli obiettivi istituzionalmente perseguiti dalla stessa Pubblica Amministrazione, ragion
per cui in tale fattispecie l’unico responsabile verso i terzi è l’impiegato.
Ciò posto, ad eccezione dei casi appena indicati, l’azione di risarcimento del terzo danneggiato può
essere esercitata congiuntamente o separatamente nei confronti dell’Amministrazione e del
dipendente, anche se il grado di intensità della responsabilità non è il medesimo.
Infatti, atteso che l’obbligazione personale risarcitoria dell’impiegato sussiste solo nei casi in cui lo
stesso abbia provocato un danno ingiusto ovvero derivante da qualsiasi violazione dei diritti dei terzi
a seguito di un’azione commessa con dolo o colpa grave, appare spesso più agevole per il terzo
danneggiato esperire l’azione nei confronti della Pubblica Amministrazione piuttosto che
dell’impiegato responsabile, sia per una garanzia di maggiore solvibilità sia per il minor grado di
colpa caratterizzante questo tipo di responsabilità (colpa lieve).
Tuttavia, la Pubblica Amministrazione può, in un secondo momento, rivalersi nei confronti del
proprio dipendente mediante l’azione di responsabilità di rivalsa esercitata dal Procuratore regionale

106
presso la Corte dei Conti.
A favore dell’impiegato, l’art. 29 del regolamento contabile ne esclude la responsabilità verso terzi
quando egli agisce per legittima difesa di sé o di altri, se è stato costretto all’azione o omissione
dannosa mediante la violenza fisica esercitata sulla persona o per salvare sé o altri dal pericolo attuale
di un danno grave non volontariamente causato né in alcun modo evitabile; in tali casi spetta
all’Amministrazione a cui l’impiegato appartiene indennizzare il terzo.
Però, affinché possa operare la suddetta esclusione della responsabilità, è necessario che l’impiegato,
al verificarsi di una di queste fattispecie, informi tempestivamente i superiori, i quali devono averne
conoscenza prima della citazione in giudizio del proprio dipendente da parte del danneggiato al fine
di ottenere il risarcimento, o della notifica della diffida a recedere dall’illegittimo comportamento
omissivo.
La Legge n. 124/2015 di riforma della P.A., per quanto riguarda il tema della responsabilità dei
pubblici dipendenti, prevede l’introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare di questi
ultimi finalizzate a rendere celere, concreto e certo, nei tempi di espletamento e di conclusione,
l’esercizio dell’azione disciplinare.
Con tale intervento, il legislatore ha voluto, altresì, conferire sempre più importanza al principio di
separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione, e al conseguente regime di responsabilità
dei dirigenti, attraverso l’esclusiva imputabilità agli stessi della responsabilità amministrativo-
contabile per l’attività gestionale.
Anche se proprio in relazione alle figure dirigenziali è opportuno provvedere ad una revisione delle
discipline delle varie forme di responsabilità (dirigenziale, amministrativo-contabile e disciplinare),
ridefinendo i rapporti tra le stesse.

107
MODULO 8 - ELEMENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DEL LAVORO

UNITÀ DIDATTICA 4 - I PUBBLICI DIPENDENTI

BIBLIOGRAFIA

− Carinci, F., De Luca Tamajo, R., Tosi, P., Treu, T. (2015). Diritto del lavoro. Volume 1: il
diritto sindacale. Torino: Utet Giuridica.
− Carinci, F., De Luca Tamajo, R., Tosi, P., Treu, T. (2016). Diritto del lavoro. Volume 2: il
rapporto di lavoro subordinato. Torino: Utet Giuridica.
− Del Giudice, F., Izzo, F., Solombrino, M. (2018). Manuale di diritto del lavoro. Napoli:
Edizioni Giuridiche Simone.

108

Potrebbero piacerti anche