Sei sulla pagina 1di 84

MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 1 - LE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI E LA MEDIAZIONE


CULTURALE

1a Lezione - Introduzione

Nell’epoca post-moderna, i processi della globalizzazione e delle migrazioni internazionali dai Paesi
del Sud a quelli del Nord del Mondo hanno avuto delle conseguenze anche in Europa, al punto che i
modelli culturali dominanti prendono come punto di riferimento l’Occidente, inteso come “faro di
tutte le culture”.
Infatti «l’Occidente si afferma come trionfo del logos sul mito, come sviluppo di una razionalità
riflessiva capace di dare ragione di sé nella sua evoluzione e soprattutto in grado di trasformare il
mondo attraverso le proprie tecniche» (Melucci, 2000, p. 80).
Tuttavia, in Europa si assiste, spesso, a processi di razzializzazione che considerano gli immigrati
come la causa di forme di disagio sociale o di modelli culturali primitivi e inferiori rispetto a quelli
del mondo occidentale; infatti, la tendenza generale è quella di associare alla figura dello straniero i
concetti di criminalità, clandestinità, responsabilità della crisi dello stato sociale.
Siffatta tesi trova sostegno in molti scrittori importanti, sviluppatori del concetto del c.d. «scontro di
civiltà», e appare opportuno attenzionare alcuni passaggi dei loro scritti.
«(…) Nei primi anni del XXI secolo, le battaglie sulle sfide razziali, bilingui e multiculturali al credo,
all’inglese e alla cultura tradizionale americana erano diventate elementi chiave del panorama politico
americano. I risultati di queste battaglie della guerra decostruzionista verranno indubbiamente a
risentire della reazione degli americani agli attacchi terroristici portati al loro territorio e alle guerre
che il loro paese combatterà all’estero» (Huntington, 2005, p. 213).
«(…) la presenza dei musulmani in Europa è tutt’altra cosa. Questa migrazione, cominciata una
cinquantina di anni fa, ha sin dall’inizio infranto o costretto ad adeguamenti e difese di retroguardia,
numerosi costumi, idee radicate e strutture statali con cui è venuta a contatto (...)» (Caldwell, 2009,
p. 21).
«(…) la religione islamica, professata da una metà circa dei nuovi arrivati, mal si combina con il
tradizionale laicismo europeo. Se le due concezioni dovessero entrare in conflitto, sarebbe arrogante
presumere che la seconda abbia più possibilità di imporsi» (Caldwell, 2009, pp. 34-35).

1
«Se crolla l’America, crolla l’Europa. Crolla l’Occidente, crolliamo noi. E non solo in senso
finanziario (…). In tutti i sensi crolliamo, cari miei. E al posto delle campane ci ritroviamo i muezzin,
al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador anzi il burkah, al posto del cognac ritroviamo il latte
di cammella» (Fallaci, 2001, pp. 82-83).
«(…) e a tal proposito, vogliamo farlo questo discorso su ciò che chiami Catastrofe-fra-le-Due-
culture? Bè se vuoi proprio saperlo, a me dà fastidio perfino parlare di due culture: metterle sullo
stesso piano come se fossero due realtà parallele, di uguale peso e di uguale misura (…)» (Fallaci,
2001, p. 85).
«Eppure, sono soprattutto le donne immigrate ad essere percepite come le principali nemiche
all’unica ed eterna emancipazione femminile, trofeo dell’Occidente, viste come “arretrate”,
“sottomesse”, “serve” o “prostitute”, “calcolatrici”, “cattive madri”» (Perocco, 2010, p. 401).
«C’è un immaginario sulla donna che migra dal Terzo mondo che è riassumibile nell’opposizione
schematica fra tradizione e modernità in cui quest’ultimo termine spetta di diritto alla donna
occidentale, moderna, lavoratrice, attiva e scolarizzata. La rappresentazione svalorizzante o
miserabilistica delle donne immigrate non ne occulta solo le strategie familiari e l’azione sociale,
impedisce anche di vedere la complessità storica e quella personale che, a partire dal periodo della
decolonizzazione, ne fa dei soggetti largamente scolarizzati (con esperienze professionali anche in
campo commerciale, amministrativo, assicurativo)» (Giove, 2003, p. 248).
Tale visione rappresenta una concezione parziale dei fenomeni migratori e, soprattutto, di quelli
femminili, poiché l’essenza di ogni immigrato, uomo o donna, non viene neanche considerata, come
dimostrano i processi di assimilazione o di integrazione degli stranieri alla cultura occidentale
dominante.
Infatti, influenzare l’alimentazione, gli odori e l’abbigliamento femminile, imporre il rispetto della
concezione della “libertà delle donne” riconduce al modello del c.d. “assimilazionismo alla francese”,
il quale pretende l’abbandono delle radici di appartenenza per la piena condivisione della cultura
dominante.
Ovviamente, dato il fallimento di tale concezione, si è fatto ricorso al c.d. “multiculturalismo
britannico”, secondo cui tutte le diverse culture possono esprimersi, mantenendo la propria
fisionomia, le quali, però, non accettano facilmente la sfida di incontrarsi, confrontarsi e riconoscere
di essere parte di una dimensione più grande.
D’altronde, Melucci (2000) sostiene che non è possibile interrompere le relazioni instaurate con altre
parti, per il solo fatto di non averle scelte direttamente, semmai occorre stabilire la forma di questo
legame e guidarne la direzione, che deve tenere conto del bisogno della ricerca di senso, del tentativo
di definizione della propria identità attraverso la presenza e l’alterità dell’altro.

2
Dunque, è necessario mettere da parte le strategie di esclusione e di intolleranza e la violenza, al fine
di costruire un dialogo e di ricercare un’interculturalità.
Quest’ultimo concetto è connesso a quello di “mediare”, il quale richiede la conoscenza delle proprie
caratteristiche, origini e tradizioni, ragion per cui, attesi i frequenti e rilevanti squilibri di potere delle
culture interessate, l’attività di mediazione non è affatto semplice, al punto da dovere ricorrere a delle
figure professionali specifiche, i c.d. mediatori culturali, capaci di permettere la comunicazione tra
culture dominanti e minoritarie, tra autoctoni ed immigrati.
Ciò posto, è evidente che l’obiettivo della mediazione culturale è quello di consentire l’incontro di
realtà differenti e creare spazi di interrelazione, tuttavia, non mancano ostacoli culturali, istituzionali
e finanziari che hanno mostrato l’esigenza che tale attività venisse delegata ai rappresentanti delle
popolazioni in questione e, più precisamente, ad alcune donne immigrate, vista le spiccate capacità
di comunicazione, mediazione e relazione riconosciute al genere femminile.
Ecco perché, con riferimento alla mediazione culturale, si parla di una professione al femminile, la
quale, ovviamente, richiede altri requisiti legati all’etnia e alla classe sociale; anche in considerazione
del fatto che bisogna distinguerne i diversi tipi, cioè quella linguistica da quella linguistico - culturale,
e che essa possa essere più o meno incisiva, a seconda del contesto territoriale e culturale in cui si
colloca.
Quest’attività non può che essere strettamente connessa al continuo aumento dei movimenti
migratori, agevolati dalla libera circolazione delle persone, i quali, specialmente quelli internazionali,
hanno aperto le frontiere dell’interculturalità e della convivenza di una moltitudine di realtà locali in
tutte le parti del mondo.
I legami culturali, dal punto di vista etnico, religioso e linguistico, costituiscono il nucleo
fondamentale che consente una coesione sociale, unitamente a tutti coloro che, nel garantire pari
opportunità e la non discriminazione, favoriscono il dialogo, lo scambio e l’interazione tra culture
diverse.
Dunque, è proprio all’interno del suddetto percorso di integrazione sociale che si colloca la figura del
mediatore, assimilabile all’immagine di un “ponte” che unisce e collega differenti culture.
Ne discende che l’attività svolta da tale soggetto è fondamentale nell’ambito delle politiche di
integrazione, tendenti a consentire, in maniera efficace, l’inclusione dei migranti in un nuovo contesto
sociale, attraverso la nascita di legami nuovi tra persone o gruppi, o il miglioramento di quelli già
esistenti; la prevenzione di eventuali conflitti e, in ogni caso, di spingere i protagonisti di tali tensioni
verso la risoluzione del problema.
Per quanto riguarda la realtà italiana, l’esigenza della mediazione si registra tra gli anni ‘80 e ‘90 del
secolo scorso, a seguito dell’aumento della popolazione straniera nelle scuole e presso i vari servizi

3
pubblici; così, vengono avviati i primi corsi di formazione, finanziati dal Fondo Sociale Europeo,
dalle Regioni o dal Ministero del Lavoro, suddivisi in livelli base e specialistico-settoriale.
In base alle esigenze da perseguire, le competenze specifiche del mediatore culturale variano, ma le
più significative sono l’intermediazione linguistica, l’accompagnamento e l’orientamento degli
immigrati, la mediazione interculturale tra immigrati, operatori, servizi e istituzioni.
Per esercitare tali funzioni, il professionista deve riconoscere il carattere relativo della propria cultura
e possedere delle abilità tali da consentirgli di confrontarsi con altre realtà, analizzando e
approfondendo i significati culturali insiti in tutti i fenomeni quotidiani; affinché il mediatore riesca
in tale compito, egli deve essere in grado di ricorrere a strumenti che gli consentano di individuare
gli ostacoli allo svolgimento delle proprie funzioni, ponendosi, quando necessario, anche in posizione
conflittuale nei confronti della società di provenienza.
Lo svolgimento dell’attività di mediazione impone il rispetto di un’etica professionale, improntata,
in primo luogo, sul segreto professionale e, contestualmente, sull’instaurazione di un rapporto di
fiducia e di confidenza con le parti coinvolte, pur garantendo sempre un’adeguata neutralità del
professionista.
Nonostante ciò, bisogna considerare le pressioni che il mediatore potrebbe subire da parte sia del
migrante sia dell’operatore, per farlo schierare a favore di uno dei due, così come la difficoltà per lo
stesso di prescindere dai propri legami culturali e dal senso di appartenenza ad una data comunità.

4
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 1 - LE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI E LA MEDIAZIONE


CULTURALE

2a Lezione - La globalizzazione e le migrazioni internazionali

La globalizzazione e le migrazioni internazionali hanno mutato radicalmente il volto dell’Europa, ove


sono entrati modelli culturali, a volte molto distanti tra loro, e nuovi concetti di identità e di
cittadinanza.
Parlando di globalizzazione si fa riferimento al complesso delle relazioni economiche e sociali che
attraversano i confini di tutti i Paesi, originando un processo di condizionamento e di interdipendenza
tale da configurare il pianeta come un unico sistema, al punto da ricondurre il fenomeno in questione
alla nozione di «mondializzazione» o di «planetarizzazione», purché ci si focalizzi sui processi e sulle
relazioni sociali e non economici.
Per descrivere tale situazione si può richiamare l’immagine di un villaggio globale, inteso come un
luogo sempre più ristretto, i cui protagonisti sono una pluralità di persone appartenenti a diverse parti
del mondo; si tratta di una conseguenza delle migrazioni internazionali, le quali impongono una
convivenza interetnica in alcune città viste come un’opportunità per trovare condizioni di vita
migliori, a fronte di situazioni percepite sempre più come inique, a causa delle disuguaglianze di
sviluppo tra il Nord e il Sud del mondo.
Infatti, l’Europa e, in generale, l’Occidente, sono diventate mete di speranza, in cui le disuguaglianze
sono meno accentuate, i diritti dei lavoratori sono più tutelati, anche se tale condizione di benessere
è stata raggiunta per mezzo della condizione di disuguaglianza, sfruttamento e miseria di altri
continenti; circostanza che rappresenta uno dei prezzi legati alla globalizzazione economica, in
quanto l’arricchimento dei Paesi più ricchi ha comportato la distruzione di quelli più poveri.
Inoltre, oggi le migrazioni internazionali sono agevolate dal miglioramento dei mezzi di trasporto, le
quali, pur essendo fortemente ostacolate politicamente e fisicamente dai Governi statunitensi ed
europei, non possono essere in alcun modo arrestate.
La chiave di lettura di tali fenomeni migratori è rinvenibile nel sistema delle interdipendenze, poiché
al forte sbilanciamento verso i Paesi ricchi, che rappresentano una piccolissima percentuale della

5
popolazione, si lega un processo di sviluppo che vede l’inserimento nel mercato economico delle
Nazioni povere, causando un sovvertimento totale delle strutture preesistenti, dato che il modo di
vivere precedente diventa impraticabile e le migrazioni appaiono come l’unica soluzione
indispensabile per la sopravvivenza o per il miglioramento dello stile di vita.
Il fenomeno in esame costituisce una forma di espropriazione della forza lavoro e dei cittadini dei
Paesi del Sud del mondo, accentuando, ancora di più, i meccanismi di disuguaglianza tra le Nazioni,
rappresentando una vera e propria condanna di quelle più povere.
Invero, una forma di divario si sta accentuando anche all’interno dei Paesi settentrionali del mondo,
in quanto l’ingresso dei lavoratori meridionali comporta un peggioramento delle complessive
condizioni di lavoro e di salario, al punto da alimentare forti ostilità, da parte dei locali, nei confronti
degli immigrati.
Detto ciò, è chiaro che le migrazioni internazionali hanno comportato enormi cambiamenti strutturali,
economici, sociali e relazionali, mettendo in crisi certi concetti dati per scontato, come quello della
cittadinanza, da sempre connesso alla comune appartenenza etnica, culturale, storica e linguistica ad
un determinato territorio, il quale, tuttavia, deve essere riconsiderato alla luce dei nuovi fenomeni
mondiali in analisi, cosicché, oggi, tale nozione giustifica la compresenza di persone, in un medesimo
luogo, provenienti da Paesi di origine differenti, ove vogliono farne parte partecipando attivamente
in termini di diritti e doveri.
Rispetto all’inizio del secolo scorso, sono notevolmente aumentati i canali, le mete e le persone che
migrano, sia per fattori di espulsione (es. la povertà, il mancato sviluppo, i conflitti etnici e sociali, le
guerre o le catastrofi naturali nel Paese d’origine) sia per fattori di attrazione in un altro Paese (es. le
aspettative di miglioramento della qualità della vita, la domanda di lavoro, la prospettiva di ascesa
sociale, economica e lavorativa).
Queste relazioni sono particolarmente complesse, in quanto dipendono dalla vicinanza geografica,
dalla situazione politico-internazionale, nonché dai rapporti tra gli Stati.
Dunque, al fine di dare una definizione di “migrante” occorre analizzare alcune categorie legate alle
condizioni della persona, quali il genere, l’età, l’etnia, la nazionalità, il colore della pelle, il dovere
migrare per forza o per libera scelta, l’avvalersi di percorsi e di ingressi illegali o regolari, le
motivazioni legate alla sopravvivenza, allo studio, al lavoro, alla famiglia, all’emancipazione sociale,
al miglioramento della qualità della vita.
L’immigrazione può definirsi come un fatto sociale totale, che attiene a tutti gli aspetti della vita,
senza tralasciare il bagaglio dell’essere emigrato, di cui si deve tenere conto quotidianamente
nell’esperienza migratoria, anche se un comune denominatore di molti immigrati è dovere
ricominciare tutto da capo, non potendo fare affidamento sulle proprie conoscenze e competenze

6
apprese nel Paese d’origine, attese le difficoltà di inserimento nel mercato di lavoro dovute al mancato
riconoscimento dei titoli di studio, ai processi di inferiorizzazione e di sottoinquadramento lavorativo
e alla comune tendenza di considerare tali individui poveri materialmente e culturalmente.
In realtà, la suddetta rappresentazione non è veritiera, poiché accanto alle migrazioni di soggetti poco
qualificati, vi sono quelle di individui altamente specializzati, che decidono di sfruttare le opportunità
offerte dal mercato internazionale e accedere nei campi in cui sono richieste le proprie competenze,
che vengono retribuite in modo più soddisfacente rispetto alle aspettative.
D’altronde, disporre di manodopera molto qualificata con costi inferiori rispetto a quelli previsti per
la popolazione autoctona rappresenta un’efficace strategia per le potenze più ricche del mondo, che
consente loro di affermare il proprio primato tecnologico e scientifico su tutte le altre; si parla di
internazionalizzazione del mercato del lavoro, la quale permette di mantenere competitivo il mercato
globale.
Considerando che il fenomeno delle migrazioni di lavoratori specializzati assume dimensioni
rilevanti sotto i profili quantitativo e qualitativo, bisogna analizzare gli effetti causati da tali
spostamenti, sia nel Paese di origine sia in quello di accoglienza.
Tra gli anni ‘50 e ‘60, per fare riferimento a questo tipo di migrazione si parla di fuga di cervelli per
sottolineare gli effetti negativi di tale fenomeno sui Paesi di appartenenza di tali soggetti, i quali
sostengono i costi per la loro formazione, senza, però, poterne beneficiare e dovendo,
conseguentemente, ricorrere a personale internazionale, anche molto costoso.
Invero, c’è chi ritiene che questa “migrazione intellettuale” abbia alcuni aspetti positivi per i Paesi di
emigrazione, visto che si potrebbero apprendere tecniche innovative nelle Nazioni di immigrazione,
utilizzabili non appena si ritorna nel Paese di origine.
In ogni caso, l’incremento della domanda di personale altamente qualificato comporta il rischio che
si verifichi “uno spreco di cervelli”, ossia professionisti o intellettuali competenti vengono adibiti allo
svolgimento di lavori inferiori rispetto alle loro conoscenze e capacità, in cui, spesso, non è necessario
possedere un titolo di studio.
Un cambiamento che si registra in tempi relativamente recenti riguarda la femminilizzazione delle
migrazioni, il quale non va sottovalutato alla luce del fatto che le donne rappresentano un’offerta di
lavoro conveniente per i Paesi occidentali nel nord del mondo, in quanto sono considerate dei soggetti
deboli, facilmente ricattabili e svantaggiate nel mercato di lavoro.
Si tratta di una circostanza legata alla tendenza comune dei Paesi di immigrazione di sentirsi liberi da
ogni controllo nella gestione della crescita delle immigrazioni e di percepire i migranti come una
minaccia ai sistemi politici, sociali ed economici nazionali, per cui essi tendono a rafforzare i propri
confini, restringere i criteri di ingresso delle migrazioni, operando una sorta di selezione dei migranti,

7
in relazione alle esigenze produttive dei mercati del lavoro ed economico.
Da tale atteggiamento discende una percezione negativa di questi ultimi soggetti, i quali vengono
spesso considerati come una minaccia al benessere o alla stabilità dell’identità nazionale, pertanto,
molti Paesi di immigrazione hanno cercato di agevolare l’integrazione degli immigrati.
In particolare, le donne migranti sono percepite come passive all’emigrazione, che si ricongiungono
ai loro mariti, con livelli bassi di istruzione e, spesso, coinvolte in traffici di prostituzione; infatti,
delle donne altamente istruite che investono tutte le loro energie nella propria carriera formativa e
professionale in altri Paesi non viene fatta menzione, nonostante la partecipazione delle stesse
all’interno del mercato del lavoro internazionale è sempre più rilevante.
Si distinguono le lavoratrici poco qualificate, principalmente impiegate nel settore agricolo, delle
pulizie, domestico, nella ristorazione, e quelle specializzate, esercenti professioni sanitarie e
dell’insegnamento; in entrambe le ipotesi, esse, rispetto agli uomini, devono sopportare una doppia
discriminazione nell’accesso e nell’esercizio dell’attività lavorativa, cioè quella di genere, che porta
a preferire gli uomini, e quella di etnia e appartenenza nazionale, che comporta una selezione in base
al colore della pelle.
Nonostante ciò, la migrazione rappresenta per molte donne una spinta emancipatoria rispetto a quei
modelli tradizionali che attribuiscono loro un ruolo esclusivo nella sfera domestica, sotto il dominio
maschile.

8
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 1 - LE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI E LA MEDIAZIONE


CULTURALE

3a Lezione - L’integrazione

Oggi, la società italiana, europea, occidentale si caratterizza per la contestuale presenza di individui
provenienti da diversi Paesi di origine, che ha implicato un tentativo di integrazione di tali soggetti,
il quale, però, non è andato a buon fine, in quanto si è fatto ricorso ai criteri dell’uguaglianza o della
differenza, rendendo necessario l’utilizzo di un modello più complesso, cioè quello
dell’interculturalità, considerato capace di cogliere le sfide dell’attuale società plurietnica.
Un primo tentativo non andato a buon fine si è fondato sul modello dell’assimilazione, le cui origini
sono rintracciabili nella Francia coloniale, la quale, nell’Ottocento, voleva annettere le colonie
africane alla madrepatria, mediante processi di colonizzazione ed acculturazione, per poi diffondere
l’idea di superiorità e di eccellenza della cultura francese, in modo da diventare il riferimento per tutta
l’umanità e potere, conseguentemente, ricorrere ai valori di eguaglianza, fratellanza, universalità,
libertà.
Così, per la Francia, il modello dell’assimilazione comportava, implicitamente, una forma di
integrazione, considerando certa la volontà dello straniero di uniformarsi al sistema dominante, senza
accettare, dunque, alcune forma di diversità.
Infatti, la concezione di fondo di siffatto meccanismo era quella dell’inferiorità delle culture di altre
società, in linea con una visione etnocentrica del mondo che ispira tutte le società che si ritengono
superiori, le quali usano la propria visione dell’universo per categorizzare e valutare tutte le altre
realtà, ritenute incapaci di relazionarsi alla pari.
È chiaro il modello dell’assimilazionismo impone l’acculturazione e l’apprendimento delle culture
altrui, comportando la cancellazione di chi è visto come “diverso”, infatti come scrive Fanon (1996),
considerando le diverse condizioni tra bianchi e neri: «il nero cessa di comportarsi come individuo
azionale. Lo scopo della sua azione sarà l’Altro, perché solo l’Altro può valorizzarlo».
In tal modo, per essere accettato lo straniero deve nascondere o, addirittura, negare le proprie
appartenenze; d’altronde, «(...) per essere assimilato, non basta che si congedi dal gruppo, bisogna

9
che entri in un altro: e qui incontra il rifiuto del colonizzatore» (Memmi, 1979, p. 104).
Ciò posto, la sottomissione non garantisce la tanto voluta assimilazione, generando sentimenti di
rabbia e frustrazione in coloro che sono stati ingannati, i quali possono ricorrere a forme di “giustizia
sociale”, che implicano l’uso della violenza.
Visto il fallimento del modello assimilazionista, affinché si possa integrare la popolazione immigrata
nella società occidentale, si è cambiato approccio, facendo ricorso a quello del multiculturalismo
britannico, il quale valorizzava le differenze per evitare conflitti, agevolando forme di convivenza tra
gli individui.
Tra gli anni ‘80 e ‘90, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, si è cercato di promuovere una società
multiculturale e multietnica, rispettando tutte le culture coesistenti in uno stesso territorio, mediante
il riconoscimento delle altrui identità, capaci di esprimere le proprie caratteristiche.
Per descrivere tale situazione si può richiamare l’immagine di un’insalatiera, contenente verdure di
colore e forma diversi, che insieme formano un sapore unico, senza, però, fondersi tra loro; pertanto,
il multiculturalismo risalta le differenze ma non agevola la fusione delle stesse.
Atteso tale limite, il modello in esame è stato oggetto di ampie discussioni tra sociologi e filosofi, che
ne hanno evidenziato gli aspetti negativi e problematici; dalla lettura dei seguenti passi è possibile
comprendere le criticità rilevate dagli stessi.
«Se il multiculturalismo è inteso come uno stato di fatto, come una dizione che semplicemente
registra l’esistenza di una molteplicità di culture, in tal caso un multiculturalismo non pone problemi
a una concezione pluralistica del mondo» (Sartori, 2000, p. 55).
Come sostenuto da Simeoni (2005) «il concetto è debole in quanto ignora la forte dimensione
gerarchica delle società attuali, annullandone tensioni, conflitti e problemi, incapace di spiegare in
modo sufficientemente dinamico il cambiamento, le trasformazioni, le negoziazioni a cui sono
sottoposte le società multiculturali», «(...) il ricorso al relativismo culturale impedisce qualunque
possibilità di valutazione delle differenti culture (...)», «(...) il rischio è quello di un’omologazione
culturale che non tiene conto delle sottoculture e che tende a produrre un’eccessiva frammentazione
di modalità di espressioni non comunicanti».
Dunque, questo modello ha una visione statica delle diverse culture, in quanto non è in grado di
percepire le trasformazioni delle singole identità quando entrano in contatto con le altre realtà.
In più, considerare le culture come delle entità separate non facilita, necessariamente, la loro
integrazione nella società, bensì può incrementare il rischio di rivendicazioni etniche per
l’offuscamento della condizione di diseguaglianza.
Ragion per cui, il multiculturalismo e il multietnismo non solo sono incapaci di risolvere i problemi
delle società attuali, ma li ampliano, poiché riconoscere pari valore alle diversità implica un possibile

10
reciproco annullamento, producendo delle separazioni e rendendo impossibile ogni forma di scambio
o di dialogo.
Detto ciò, è chiaro perché il ricorso all’interculturalità e alla mediazione interculturale rappresentano
le sole strade percorribili per consentire ad una società di riconoscere le proprie interdipendenze
dovute alle spinte della globalizzazione e delle migrazioni internazionali.
Per potere passare dal multiculturalismo all’interculturalità è indispensabile respingere il presupposto
del primo, vale a dire concepire ogni cultura come una realtà immutabile; infatti, l’idea
dell’omogeneità delle stesse viene messa in discussione, anche per il fatto che essa ignora le
sottoculture, non riconoscendo plurimi ruoli e identità in un medesimo contesto.
Quindi, l’interculturalità deve avere contezza della propria dimensione volta a riconoscere le
relazioni, gli scambi, gli scontri e la reciprocità, pertanto, il fondamento della sua esistenza è una
forma di disponibilità verso l’altro, poiché solo in tal modo si può giungere all’eliminazione di ogni
pregiudizio, dei sentimenti di paura e di estraneità.
Il rapporto con altri gruppi etnici deve rappresentare un’occasione per riscoprire un’etica e una forma
di responsabilità umana che richiede, necessariamente, di liberarsi da una visione etnocentrica del
mondo che individua una società come punto di riferimento, respingendo o sottovalutando le altre.
Quindi, si vuole che le culture interagiscano tra loro, mostrando una certa disponibilità ad aprirsi a
processi di continuità e discontinuità, pur non essendo automatico l’incontro con un’altra cultura, il
quale è sempre fortemente influenzato dalla componente emotiva.
Motivo per cui si richiede ad ogni società di fare uno sforzo per aprirsi al cambiamento, ampliando i
propri orizzonti, cogliendo le sfide poste dall’età globale, adottando una visione pluricentrica e non
etnocentrica del mondo, superando il mero relativismo culturale, eliminando ogni forma di
pregiudizio, favorendo una comunicazione ed un’educazione interculturale.
Così, affinché si possa parlare di interculturalità, occorre attraversare le culture, non solo
riconoscendosi reciprocamente, ma bisogna sapere cogliere le innovazioni e i cambiamenti sociali
che richiedono continue ridefinizioni del concetto di cultura.
È ovvio che non si tratta di un’operazione semplice, anzi la costruzione di una società interculturale
è ardua e richiede capacità complesse, come quelle di mediazione, che richiedono la disponibilità di
farsi interrogare, il riconoscimento nell’altro di un interlocutore attivo e responsabile, la revisione
continua dei ruoli, allo scopo di sfruttare quelle opportunità che superano l’individualismo e il
comunitarismo.
Infatti, l’interculturalità consente di cogliere la molteplicità dei sistemi dei segni e di passare da un
modello di riferimento a un altro, di comprendere il significato e utilizzare una pluralità di codici,
visto che la tendenza di omologare tutte le culture viene messa in crisi.

11
A tal fine, si può pensare all’interculturalità solo se nelle società si innestano condizioni di maggiore
parità tra autoctoni ed immigrati e, di conseguenza, se le strutture di socializzazione, come la scuola,
trasmettono i suddetti valori, ripensando alla formazione in un’ottica tale da consentire lo scambio
tra le culture, superando i confini nazionali, comunitari ed etnici.
In conclusione, adottare una prospettiva interculturale significa riscoprire la dimensione umana, il
sistema delle interdipendenze e delle connessioni, sapere fare comparazioni a livello internazionale,
essere in grado di comprendere contesti differenti dando loro l’adeguata importanza; ciò, al fine di
creare un equilibrio idoneo a dare dignità alle culture e di consentirne le relazioni reciproche,
raggiungibile attraverso il confronto, la negoziazione, la mediazione e la ricerca di un compromesso.
Quanto sinora detto richiede un’attuazione concreta, altrimenti l’interculturalità è destinata a rimanere
solo un principio teorico, tantoché è necessario, ad esempio, che vengano adottate delle politiche
immigratorie di inclusione attiva, in considerazione del fatto che l’immigrato si trova in una posizione
più debole rispetto ai cittadini di un Paese, dal punto di vista sia sociale sia giuridico.
Ciò comporta che un’efficace promozione dell’interculturalità deve essere capace di individuare le
disuguaglianze e valorizzare le differenze, in quanto solo il tentativo di ridurre le asimmetrie rende
possibile superare una società multiculturale.
Pertanto, l’interculturalità si affianca alla mediazione interculturale, quando quest’ultima riesce a
mettere in discussione le asimmetrie di potere, le barriere dei servizi, le disuguaglianze tra autoctoni
ed immigrati, la quale diviene uno strumento indispensabile per potere cambiare le procedure, i
regolamenti verso un’apertura sociale e culturale.

12
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 1 - LE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI E LA MEDIAZIONE


CULTURALE

4a Lezione - L’immigrazione e la mediazione culturale in Italia

L’Italia ospita molti cittadini immigrati provenienti sia da Paesi europei sia dagli altri continenti, i
quali vengono tendenzialmente distinti in buoni e cattivi, considerato che la popolazione nazionale
attribuisce loro una posizione subordinata sotto il profilo economico, lavorativo, sociale e giuridico.
Basti pensare alle discriminazioni giuridiche e di fatto alle quali sono assoggettati gli immigrati, ad
esempio per potere accedere ai benefici economici e sociali occorre possedere il requisito della
residenza, privilegiando, così, la popolazione autoctona, piuttosto che considerare l’effettivo bisogno.
Tuttavia, negli ultimi decenni, in Italia, si sono registrati flussi immigratori aventi carattere strutturale
e stabile, al punto che lo straniero non può più essere visto come sola forza lavoro, bensì quale
individuo portatore di certi bisogni e desideroso di una forma di riconoscimento e della cittadinanza
sociale.
Anche se, in questo modo, tali necessità vengono interpretate come problemi degli immigrati, i quali
sono considerati fonti di disagio sociale e di allarmismi, al punto, pure per il contributo negativo dei
mass media, da generare pregiudizi o, addirittura, sentimenti di xenofobia e razzismo.
Dunque, il rischio che si corre è quello di considerare gli stranieri come un insieme omogeneo, al
quale vengono date risposte speciali, diverse da quelle rivolte alla popolazione locale; ad esempio, il
problema di salute degli immigrati viene visto in un’ottica di emergenza e non di prevenzione.
Ciò posto, attesa la trasformazione della società italiana in una plurietnica, questo atteggiamento è
inidoneo a soddisfare adeguatamente i bisogni complessi della popolazione immigrata, né si
preoccupa, in alcun modo, di prevenire ed evitare i rischi e i conflitti sociali.
Sicuramente, una via migliore da seguire che permette di creare spazi di scambio culturale è quella
della mediazione culturale, se capace di promuovere l’integrazione della popolazione immigrata e
l’interculturalità.
Con l’integrazione si vuole includere la popolazione immigrata all’interno della cultura dominante,
mediante il riconoscimento di diritti e doveri di cittadinanza, invece, l’interculturalità è qualcosa di

13
più, poiché implica la capacità di inserirsi e relazionarsi con plurime interpretazioni e visioni del
mondo, cercando un punto di incontro.
Pertanto, tale aspetto non richiede semplicemente di tollerare le diversità, per cui comporta dei
conflitti o ostacoli istituzionali; così, non è facile adottare uno sguardo interculturale, soprattutto in
Italia, vista la mancata accettazione della trasformazione in società plurietnica e data l’assenza di
programmi interculturali nelle scuole o di insegnamenti di lingue diverse da quella italiana.
Considerando tale situazione generale, non è tanto difficile immaginare la possibilità che si
verifichino dei conflitti, dovuti alla continua subordinazione, giuridica e sociale, della popolazione
straniera rispetto a quella autoctona, per la mancanza di risposte interculturali ai bisogni delle pluralità
etniche presenti nel territorio repubblicano.
Ed è proprio in questo contesto che si inserisce la figura del mediatore culturale, la cui funzione deve
essere, principalmente, quella di agevolare il riconoscimento della popolazione immigrata, mediante
l’esplicitazione delle differenze in un ambito spaziale il più possibile paritario, evidenziando come
ne discenda un arricchimento reciproco, da considerare un valore perseguibile.
Pertanto, è indispensabile dare l’avvio ad un reale processo di integrazione che preveda pari
opportunità e impedisca la discriminazione, ma sono, altresì, fondamentali delle politiche istituzionali
di mediazione, nella scuola, nella sanità, nei servizi sociali, idonee a consentire a tali realtà di
riorganizzare le loro strutture, considerando le differenze culturali, linguistiche, religiose, sociali, del
livello di istruzione, delle caratteristiche dei potenziali fruitori.
Infatti, agire in senso opposto comporterebbe il rischio di produrre fraintendimenti, difficoltà
comunicative, tensioni alimentate dalla sensazione di subire ingiustizie ed essere esclusi dal contesto
sociale; cosicché il mediatore linguistico e culturale assume un ruolo strategico nella promozione di
rapporti paritari tra autoctoni ed immigrati e nell’agevolare comunicazioni e società sempre più
interculturali.
D’altronde, quando si parla di mediazione di pensa, immediatamente, alla capacità di comprendere
una situazione di conflitto, in modo da cogliere tutti i significati impliciti e nascosti, per poi farli
capire anche alle due parti contrapposte, sostenitrici di concezioni diverse circa la visione del mondo.
Per cui, il mediatore deve essere capace di assumere un atteggiamento imparziale rispetto ai
protagonisti del dibattito, cercando di filtrare tutte le motivazioni, convinzioni ed emozioni oggetto
dello scontro, al fine di porre fine alle controversie, che possono riguardare qualsiasi contesto:
economico, civile, penale, linguistico, sociale, culturale.
La mediazione è «(...) un processo attraverso il quale due o più parti si rivolgono liberamente a un
terzo neutrale, il mediatore, per ridurre gli effetti indesiderabili di un grave conflitto. La mediazione
mira a ristabilire il dialogo tra le parti per poter raggiungere un obiettivo concreto: la realizzazione di

14
un progetto delle relazioni che risulti il più possibile soddisfacente per tutti» (Favaro & Fumagalli,
2004, pp. 27-28).
Dunque, in base al tipo di conflitto da gestire, si distinguono diversi mediatori, ma in tutti i casi tali
professionisti cercano di rendere facilmente comprensibili le ragioni dell’altro, in modo da giungere
ad un’intesa comune, mediante forme di negoziazione tra soggetti antagonisti, trasformando una
situazione di tensione in una di equilibrio, rimanendo sempre imparziali.
Oltre all’importante funzione di risoluzione di posizioni controversie, il mediatore può essere
considerato come un ponte, che scavalca ogni barriera e confine per agevolare le relazioni tra entità
culturali diverse, le quali, non conoscendosi, potrebbero non riuscire a dialogare tra loro entrando in
conflitto.
Quindi, se si considerano le relazioni interetniche, il professionista competente è il mediatore
culturale, che, ad esempio, consente la comunicazione tra il paziente immigrato e l’operatore
autoctono.
Tuttavia, tali contatti tra etnie diverse difficilmente avvengono in modo paritario, perché sono
connesse alle relazioni sociali ed economiche disuguali, che dipendono dalle condizioni geopolitiche
dei Pesi di appartenenza; così come, nonostante il fenomeno della globalizzazione, è quasi
impossibile che nella quotidianità si verifichino scambi relazionali tra la popolazione locale e quella
straniera.
Infatti, è possibile percepire una sorta di separazione invisibile, basata sul colore della pelle,
sull’appartenenza a una data Nazione, ai valori e alle culture di origine, pertanto, tali fattori diventano
dei criteri di differenziazione e disuguaglianza, tali da ostacolare, se non addirittura impedire,
qualsiasi forma effettiva di mescolamento e di contaminazione.
A tali elementi si aggiunga anche la diffusa tendenza delle diverse etnie di rafforzarsi separatamente
e di proporre visioni del mondo tali da collidere con quelle altrui, al punto da pretendere l’esclusione
dell’altra parte.
Alla luce di quanto detto, la mediazione per essere efficace deve essere interculturale e, quindi,
concentrarsi sulle differenti realtà presenti in un dato territorio, atteso che una società interculturale
deve essere necessariamente interdipendente, influenzata, contaminata e messa in crisi dalla presenza
di un soggetto diverso.
Questo tipo di mediazione trova il suo spazio nei servizi e, pertanto, entra in contatto con le
dimensioni e i limiti delle strutture organizzative, delle normative, delle prassi, infatti, instaurare dei
rapporti in tale ambito non è facile, a causa di vari ostacoli aventi natura linguistica e culturale, legati
alle consuetudini e alle diversità, accentuati dalla circostanza che i servizi o le funzioni degli operatori
sono completamente sconosciute.

15
Così, questi ultimi soggetti devono aiutare gli utenti che accedono ai servizi, rendendoli partecipi e
consapevoli delle loro risorse e della propria capacità di autodeterminazione; a tal fine, essi devono
essere in grado di fare delle differenziazioni rispetto al genere, all’età, ai bisogni dei singoli individui
e, pertanto, devono conoscere almeno superficialmente i codici linguistici e culturali delle varie etnie,
altrimenti il ricorso al solo modello dell’eguaglianza di trattamento potrebbe essere interpretato come
volontà di ignorare le particolarità etniche caratterizzanti la società.
Al contempo, riprodurre fedelmente tutte le differenze può causare dei rischi, oltre ad essere molto
complesso, in quanto ciò comporterebbe che tutti i servizi si dotassero di personale plurietnico per
garantire il diritto alla diversità; ecco perché il ricorso ai mediatori culturali si rivela utile
all’occorrenza, per potere ristabilire una dimensione di equilibrio tra autoctoni ed immigrati.
Quindi, la mediazione interculturale necessita di un esperto, in posizione neutrale che ha contatti con
i due mondi considerati, pur avendo delle proprie radici culturali definite e lontane dal Paese di
accoglienza, per cui non può che essere un immigrato, il quale deve fornire una diversa visione del
mondo.
Per fare ciò, il mediatore deve essere capace di tradurre e cogliere stratificazioni, intrecci e
complessità, per esplorare la realtà e analizzare i progetti di vita che orientano pensieri ed azioni, i
quali si arricchiscono grazie alle relazioni con gli altri e alle diversità che si incontrano nel percorso,
in modo da dare voce ad una parte e renderla comprensibile all’altra.

16
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 1 - LE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI E LA MEDIAZIONE


CULTURALE

5a Lezione - La mediazione in Europa

In Europa, il mediatore interculturale non è una figura conosciuta e accettata in tutti i Paesi, infatti,
alcune legislazioni ignorano tale professione, la quale non trova uno spazio adeguato nei servizi,
soprattutto in quelli educativi.
Invero, a mezzo di plurime domande di aiuto delle comunità immigrate, sono nate molte associazioni
che le hanno ascoltate, rendendo possibile delle importanti e significative esperienze di mediazione
all’interno delle scuole e dei centri accoglienza.
Oltre alla Gran Bretagna, il primo Stato europeo che accoglie la figura in esame è la Francia, in
particolare, in un primo momento, la forma di mediazione conosciuta da questo paese trova spazio in
ambito penale e, successivamente, anche in quello sociale e nel contesto familiare. Un tratto
particolare che caratterizza l’esperienza francese è il ruolo femminile, in quanto le prime figure di
mediazione trovano espressione con le c.d. “donne ponte” tra culture, appartenenti alle comunità
immigrate, che sono riuscite ad ottenere una discreta fama a livello di opinione pubblica.
L’origine di tale figura risale agli anni ‘80 del secolo scorso, a seguito del fallimento delle politiche
di assimilazionismo, analizzate nelle lezioni precedenti, per cercare di contrastare gli immigrati di
seconda generazione che iniziavano a dar vita a reti dominate dalla delinquenza e a movimenti di
rivolta, optando per una forma di integrazione alternativa alle vie della violenza e del crimine.
Così, le suddette donne iniziavano ad associarsi per entrare nelle varie istituzioni, ponendosi come
mediatrici delle loro comunità, le quali, però, non avevano un’adeguata istruzione, infatti, solo negli
anni ‘90 si iniziava a provvedere anche alla formazione delle nuove volontarie, inoltre, con il cambio
generazionale, entravano nelle varie associazioni le ragazze scolarizzate nel sistema scolastico
francese.
Oltre a svolgere attività nei diversi settori della mediazione, queste donne mediatrici si inseriscono
nelle istituzioni, nelle scuole, negli ospedali e nei centri per accoglienza, diventando non semplici
intermediarie, bensì dei veri e propri punti di riferimento per le istituzioni locali e per tutti coloro che

17
si occupano dell’integrazione degli immigrati in Francia.
Quindi, da tale breve analisi del modello francese, si può cogliere come le esperienze di mediazione
in tale Paese dipendono in massima parte dalla buona volontà di molti cittadini.
Spostando lo sguardo verso la Germania, invece, ci si accorge come l’istituto oggetto di studio non
abbia avuto grande successo e, addirittura, tale ruolo viene attribuito a coloro che già sono occupati
nello svolgimento di attività di insegnamento della lingua e della cultura d’origine.
Questo atteggiamento tedesco è legato alla convinzione che, al fine di favorire l’integrazione, la
mediazione rappresenta un rallentamento per lo sviluppo di competenze interrelazionali in entrambe
le parti e, addirittura, a lungo termine, tale figura ponte può impedire l’inclusione sociale degli
immigrati e dei loro discendenti.
Ragion per cui, si è registrata la tendenza di ridurre, se non di eliminare, la mediazione, in modo da
incoraggiare gli individui, sia nativi sia immigrati, a investire sulle proprie capacità e abilità
interculturali; ne discende che, la figura del mediatore interculturale non esiste a livello ufficiale,
anche se molti soggetti che operano nei servizi provengono da altri Paesi.
Dunque, come già accennato, si riconosce una certa importanza all’attività assegnata ai maestri e
professori di origine immigrata nelle scuole, i quali si dedicano all’insegnamento della lingua e della
cultura del paese d’origine, cosicché la figura del mediatore viene ricondotta a quella del facilitatore
linguistico.
A differenza della testimonianza tedesca, in Inghilterra, già all’inizio degli anni ‘70, quindi in anticipo
rispetto alla situazione europea, la mediazione trova spazio in ambito penale e familiare, sotto
l’influenza dell’America; invece, essa non riesce ad inserirsi facilmente nel contesto scolastico,
poiché, nell’occuparsi della scolarizzazione dei figli degli immigrati, le istituzioni prediligevano un
atteggiamento improntato alla parità di trattamento.
Invero, per molti insegnanti non era un compito semplice gestire la presenza di più etnie in una stessa
classe, anche per i frequenti attacchi razzisti contro i bambini immigrati, non solo nella realtà
quotidiana, ma anche da parte delle stesse istituzioni.
Oggi, invece, nelle scuole inglesi, pur non esistendo formalmente la figura del mediatore culturale, si
persegue l’obiettivo di garantire pari opportunità, infatti, si riconosce maggiore importanza alla lotta
al razzismo, piuttosto che alle interazioni tra diverse culture e comunità.
In realtà, nel corso degli anni, si è fatto ricorso a delle figure aventi una funzione di collegamento tra
l’istituzione educativa e i ragazzi delle etnie minoritarie; in particolare, le scuole richiedevano un
insegnante supplementare o di sostegno per l’insegnamento dell’inglese, così negli anni ‘80 si
finanziava la figura del Multicultural Adviser, cioè un Consigliere Multiculturale responsabile
dell’educazione multiculturale negli istituti educativi del territorio inglese.

18
Analogamente, in alcune zone venivano assunte figure denominate Home/School liaison Officers
(HSLO), o Home Maison Teacher, impiegati soprattutto nelle scuole elementari e in quelle aree che
presentavano particolari necessità, in modo da favorire le relazioni con le famiglie delle minoranze
etniche.
Questa appena descritta è la situazione inglese nei primi anni ‘90, oggi, invece, tali figure sono
presenti solamente in Irlanda, ove, però, non si parla di un mediatore interculturale, bensì di un
insegnante di sostegno per quelle scuole esposte a un elevato rischio di abbandono e fallimento.
Tuttavia, pur non essendo considerato tale, il suddetto professionista, nelle zone che presentano forti
livelli di immigrazione, assume le caratteristiche tipiche della figura del mediatore.
Si tratta, dunque, di uno schema visto favorevolmente, in quanto prevede un approccio integrato tra
scuola, famiglia e territorio, tendente a promuovere l’interesse dei bambini alla vita scolastica.
Inoltre, guardando la situazione attuale, va considerato che il corpo insegnante è formato da molti
immigrati di varie origini, soprattutto nelle aree in cui le minoranze etniche sono particolarmente
numerose; d’altronde, l’accesso all’insegnamento di tali docenti viene favorito, poiché, in tal modo,
la cultura minoritaria presente in una scuola non sia rappresentata solamente da una figura di sostegno
che assiste il maestro o professore, bensì da egli stesso.
Ciò posto, considerando il contesto europeo nel suo insieme, l’integrazione di bambini stranieri nei
vari paesi non è concepita sempre nello stesso modo, ma dipende dalle politiche di integrazione
sociale e dalla problematica legata agli immigrati.
Ad esempio, alcuni Stati considerano i bambini immigrati come soggetti che necessitano di aiuti
speciali, considerandoli come portatori di un handicap, per la mancata conoscenza della lingua,
prevedendo, così, in ambito scolastico, istituti di istruzione e classi appositi.
Sul punto della scelta di classi miste o separate, non si registra una risposta unanime da parte di tutti
i Paesi europei, che si differenziano tra loro per ritenere più efficace e meno traumatica, sui piani
emotivo e psicologico, una scelta piuttosto che l’altra.
Per alcuni Paesi, tra cui l’Italia, le classi miste rappresentano la soluzione maggiormente democratica,
ritenendo inconcepibile la possibilità di formare delle classi separate, in quanto significherebbe ledere
il diritto del bambino di vivere e relazionarsi con gli altri studenti della sua età; al contrario, nell’ottica
di quegli Stati che prediligono le classi speciali, non è pensabile lasciare un bambino che non conosce
la lingua in una classe estranea.
Invero, è proprio in quest’ultimo contesto che dovrebbe fare ingresso la figura di un insegnante di
sostegno o di un mediatore che aiutano il minore a non sentirsi un estraneo in un contesto multietnico.
Merita un accenno la legislazione relativa alla mediazione presente in Norvegia, ove, nel 1991, è stata
emanata un’apposita legge, grazie alla quale hanno visto la luce dei servizi di mediazione dei conflitti

19
e dei Consigli di mediazione, coordinati da un mediatore, a cui tutti i volontari possono accedere, a
condizione di essere maggiorenni e non riportare condanne penali.
Scendendo al sud dell’Europa, la mediazione è presente a livello socio-culturale in Portogallo e in
Italia, mentre in Spagna trova riconoscimento in tempi più recenti, dunque, il profilo del mediatore
culturale è ancora indefinito; anche se, proprio in questo paese, tale attività è stata svolta per anni in
diverse scuole, per la presenza delle popolazioni gitane residenti e semi-residenti, in quanto,
trattandosi di una minoranza che presenta una cultura molto diversa, si è reso necessario cercare dei
contatti più profondi con le famiglie, a causa di incomprensioni riguardanti le tradizioni.
Dunque, l’esistenza di queste popolazioni ha reso la pratica della mediazione abbastanza frequente,
prescindendo da normative, studi, tecniche e metodologie, in quanto questa figura, volta a realizzare
una forma di dialogo tra le culture è nata, prevalentemente, per rispondere a qualche necessità.
Invece, in Grecia, il sistema scolastico è fortemente caratterizzato da una visione etnocentrica e, di
conseguenza, gli insegnanti non hanno una formazione adeguata per potere pensare a dei programmi
che prendono in considerazione la presenza straniera, infatti, in questo Paese, la maggior parte dei
bambini immigrati viene inserita in classi c.d. “di ricezione”, nelle quali i docenti insegnano il greco,
pur non essendo il più delle volte in grado di fare apprendere una lingua secondaria.

20
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 1 - LE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI E LA MEDIAZIONE


CULTURALE

Bibliografia

 Caldwell, C. (2009). L’ultima rivoluzione dell’Europa. L’immigrazione, l’Islam e l’Occidente.


Milano: Garzanti.
 Fallaci, O. (2001). La rabbia e l’orgoglio. Milano: Rizzoli.
 Fanon, F. (1996). Pelle nera maschere bianche: il nero e l’altro. Milano: Marco Tropea Editore.
 Favaro, G., & Fumagalli, M. (2004). Capirsi Diversi. Idee e pratiche di mediazione
interculturale, Roma: Carocci.
 Giove, N. (2003), L’immigrazione femminile in Italia, in Basso, P., Perocco, F. (Eds.), Gli
immigrati in Europa. Diseguaglianze, razzismo, lotte, Milano: Franco Angeli.
 Huntington, S. P. (2005). La nuova America: le sfide della società multiculturale. Milano:
Garzanti.
 Melucci, A. (2000). Culture in gioco. Differenze per convivere. Milano: Il Saggiatore.
 Memmi, A. (1979). Ritratto del colonizzato e del colonizzatore, Napoli: Liguori editore.
 Perocco, F. (2010), L’Italia, avanguardia del razzismo europeo, in Basso P. (Ed.), Razzismo di
Stato. Stati Uniti, Europa, Italia, Milano: Franco Angeli.
 Sartori, G. (2000). Pluralismo multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica.
Milano: Biblioteca Universale Rizzoli.
 Simeoni, M. (2005). La cittadinanza interculturale. Consenso e confronto. Roma: Armando
Editore.

21
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 2 - LA MEDIAZIONE

1a Lezione - La mediazione

Da tempi relativamente recenti, nella società occidentale si è andato sempre più affermando il
concetto della mediazione, che rappresenta, al contempo, un principio a cui ispirarsi e una pratica da
seguire.
Riflettendo sul termine “mediare”, si richiamano alla mente una moltitudine di significati, che, però,
presentano un comune denominatore, in quanto tutti riconducono, senza dubbio, ad un’idea di
armonia, di conciliazione e risoluzione dei conflitti e delle controversie; si tratta di un carattere
appartenente, più che alla nostra cultura individualista, all’eredità culturale e religiosa del mondo
orientale, riconducibile al confucianesimo.
La mediazione come pratica trova spazio nel nostro contesto sociale da poco tempo, tantoché incontra
delle difficoltà nell’affermarsi pienamente, anche per gli svariati modi in cui essa viene concepita.
Ad esempio, secondo alcuni, la mediazione va intesa come una filosofia, le cui origini vanno ricercate
negli Stati Uniti, ove, intorno agli anni Sessanta, si inserisce in un contesto che necessita dare risposte
ai disordini sociali del periodo, in cui si cerca una strada per riformare il settore penale; solo,
successivamente, attraverso le pratiche inglesi e francesi, compare per la prima volta in ambito
europeo.
Come già detto, in questo scenario, la mediazione viene vista come una pratica a cui fare riferimento,
però appare opportuno tracciare i confini della stessa.
Inizialmente, l’istituto oggetto di analisi è concepito come uno strumento utilizzabile nell’ambito del
penale, affinché si potessero trovare delle soluzioni di giustizia non eccessivamente severe, in modo
tale da potere restituire dignità all’uomo, in quanto essere relazionale.
In un secondo momento, il campo di applicazione della mediazione si allarga, inserendosi, prima,
nell’ambito familiare e, dopo, in quello sanitario e in quello scolastico, rimanendo, comunque,
ancorata alla sua principale, se non unica, funzione che è quella di risolvere e dirimere ogni tipo di
conflitto, al punto che il mediatore, nello svolgere i suoi molteplici compiti, deve cercare di fare il
possibile, al fine di prevenire probabili fraintendimenti che possono degenerare in vere e proprie
tensioni tra i soggetti coinvolti.

22
Nel contesto familiare, la pratica di mediazione si traduce nello spegnere quei conflitti aventi natura
generazionale o affettiva, cercando, dunque, di agevolare le relazioni tra i componenti della famiglia,
dando, il più delle volte, voce a coloro che ne hanno meno (es. i figli in caso di divorzio o separazione
dei genitori) e riaffermando i ruoli, i diritti e i doveri di ciascun componente del nucleo familiare.
Oltre alla funzione importante svolta dalla mediazione in tale contesto, essa è rilevante anche nel
campo sanitario, in considerazione della necessità degli immigrati di poter accedere ai servizi, la quale
ha reso la figura del mediatore importante nei diversi paesi europei.
D’altronde, la cura medica determina una serie di conflitti culturali per cui la mediazione, per esempio
negli ospedali, è imprescindibile affinché un individuo ricoverato si senta a proprio agio, per rendere
proficua la relazione medico-paziente e per fare in modo che siano rispettati i valori che una cultura
persegue rispetto alla cura; ragion per cui, modelli diversi di cura di sé devono essere compresi e
riconosciuti.
È soprattutto in ambito sanitario che si riconosce un forte peso alla figura della mediatrice, rispetto a
quella del mediatore maschio, per il semplice fatto che le donne si recano con maggiore frequenza
negli ospedali per poter partorire e le cure legate al parto hanno diverse implicazioni culturali, le quali
non possono essere ignorate, bensì vanno comprese e accettate.
Ad esempio, il parto di una donna musulmana deve avvenire, necessariamente, in presenza di
un’equipe di medici donne, nel rispetto di determinate condizioni.
In considerazione di tale situazione, facendo riferimento all’accezione della cura, il filosofo Jean-
François Six, presidente del Centre National de la Mediation di Parigi, distingue la mediazione
maschile (la c.d. mediation homme) da quella femminile (la c.d. mediation femme).
Nel primo caso, essa assume una connotazione fortemente istituzionale, in quanto è concepita come
uno strumento di lotta, che tende a contrastare l’esclusione sociale di quella parte di cittadini più
vulnerabili, dunque, se viene intesa in quest’accezione, la mediazione si preoccupa di far rispettare le
regole e di incentivare l’utilizzo dei servizi e delle risorse in maniera adeguata.
Se, invece, si fa riferimento alla mediazione al femminile, il filosofo la considera come uno strumento
con cui si possono mettere in relazione, avvicinare, individuare e fare riconoscere i punti di vista
diversi, in maniera tale da stabilire e rivedere i legami tra qualsiasi individuo, locale e straniero.
Invero, nella pratica, le suddette posizioni non sono facilmente distinguibili, anche se si registra una
preponderante presenza di mediatrici all’interno di alcuni servizi, quali la scuola e gli ospedali, ossia
quei luoghi in cui avvicinare gli individui, creare delle relazioni e fare in modo che esse siano durature
è prevalente.
A proposito della scuola, l’istituto della mediazione, volto a dirimere ogni forma di conflitto, ha fatto
ingresso in tale campo da non molto; in questo contesto, il concetto di mediare si caratterizza per

23
assumere una valenza educativa, come principio praticabile all’interno dell’attività didattica.
Analizzando gli studi e i progetti più recenti, alla mediazione dei conflitti viene assegnata una
funzione di prevenzione delle forme di violenza, mediante la capacità di accoglimento dell’altro,
accettandone le differenze e il suo essere “lontano”.
Sempre Six (1990), nel fornire una definizione di mediazione, utilizza quattro aggettivi che ne
mostrano le caratteristiche importanti, vale a dire essa è creatrice, rinnovatrice, preventiva e curativa.
Più specificatamente, la mediazione, tra i suoi obiettivi, persegue quello di suscitare tra persone o
gruppi dei legami nuovi, prima inesistenti, dai quali possono trarre beneficio entrambe le parti
chiamate in causa (creatrice); essa permette di migliorare le relazioni già instaurate tra i partecipanti
alla mediazione, che si erano deteriorate o allentate prima del conflitto (rinnovatrice); essa anticipa e
prevede il conflitto che può sorgere tra persone o all’interno di un gruppo (preventiva); infine, essa
prevede l’intervento di un mediatore tutte le volte in cui sono già sorte delle controversie, in modo
che il professionista si adoperi affinché possa porvi fine, fornendo assistenza e aiuto a persone e a
gruppi, per trovare le opportune soluzioni che consentono l’uscita dal conflitto.
Le quattro forme di mediazione appena enunciate tendono tutte a dare vita ad una comunicazione,
grazie all’intervento di un soggetto terzo, ossia il mediatore, che si inserisce all’interno di una data
relazione, a condizione, però, che le parti lo scelgano liberamente, poiché la mediazione non può
essere mai obbligatoria, semmai solo proposta.
In ogni caso, è un’attività che si svolge in una condizione di “non potere”, in quanto il mediatore non
è detentore di alcun tipo di potere, poiché egli non rappresenta un arbitro o una figura in grado di
imporre qualcosa, infatti, sono solo le due parti che rimangono i soli e unici protagonisti della
mediazione.
Tra l’altro, va sottolineato come la mediazione non sia un campo in cui una parte esce vincitrice e
l’altra perdente, al contrario essa è connotata dalla c.d. win-win situation, cioè entrambi i soggetti
possono considerarsi vittoriosi, circostanza che rappresenta l’obiettivo a cui tende tale attività,
tendente, appunto, ad agevolare le relazioni personali tra singoli individui o di gruppi.
A questo punto, all’interno di questo panorama, occorre mostrare come viene intesa la mediazione
interculturale dalla ricercatrice Margalit-Cohen, la quale, soffermandosi sul concetto di mediazione
creatrice, evidenzia come non sia corretto parlare di conflitto, ma piuttosto di bisogna fare riferimento
ad una forma di incomunicabilità, alla quale si collega il ruolo innovatore dell’istituto in questione.
Infatti, quando si verifica una siffatta situazione, l’unica strada da percorrere è quella di creare, trovare
o anche semplicemente di riscoprire nuovi modi di comunicazione, i quali non occorre che siano
esclusivamente verbali, in quanto essi possono avvalersi anche della pedagogia del gesto e della
corporeità.

24
È certo che nel momento in cui due culture differenti si incontrano ed entrano in contatto sorge una
qualche forma di conflitto, il quale si origina, principalmente, quando si vuole giudicare la diversità
delle storie raccontate da sistemi differenti.
Infatti, il ruolo del mediatore consiste proprio nel prevedere la nascita di una controversia, in modo
tale da consentire alle parti di scoprire quali sono le soluzioni da potere adottare che rappresentano
un punto di incontro tra le stesse.
Dunque, in una scuola pluriculturale, tale genere di conflitto può presentarsi più volte, soprattutto
nelle fasi iniziali in cui il bambino entra in contatto con delle storie, spesso, molto distanti dalla sua;
anche perché, talvolta, la volontà di fare incontrare realtà diverse non è affatto presente all’interno
delle classi, cosicché il ruolo del mediatore diventa proprio quello di fare in modo che le parti abbiano
il desiderio di incontrarsi.
Secondo Amatucci (2001), facendo sempre riferimento alla mediazione interculturale scolastica, “ la
scuola è come se fosse una terra di frontiera, un luogo di incontro delle alterità in cui i conflitti ci
sono e vanno prima riconosciuti, e poi mediati”; così, attraverso tale metafora della terra di frontiera,
si evoca l’idea di un terreno in cui gli incontri possono essere molteplici ma anche minati
dall’incomprensione, i quali possono lasciare solo qualche leggero segno nell’esperienza delle
persone o entrare a farne parte pienamente, cariche di significato interculturale.

25
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 2 - LA MEDIAZIONE

2a Lezione - La mediazione culturale in Italia

In Italia, tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta nasce la figura del mediatore
culturale, inteso come mediatore linguistico, traduttore, interprete e facilitatore linguistico nella
comunicazione tra pazienti, utenti stranieri, medici e operatori all’interno dei servizi, al fine di
eliminare le barriere linguistiche, che ostacolano l’accesso e l’utilizzo dei servizi, e di fornire
soluzione ai problemi riguardanti la popolazione immigrata, visto che l’Italia è ormai diventata una
terra di immigrazione e una società plurietnica.
Dunque, si cerca di dare dei riconoscimenti per l’esercizio della cittadinanza alla popolazione
immigrata, però le politiche migratorie e i mass media tendono a diffondere un’immagine stereotipata
e negativa di tale componente straniera, al punto da generare una sorta di separazione della stessa
rispetto agli autoctoni.
Infatti, «la discriminazione è sistematica e interessa tutte le sfere della vita sociale degli immigrati
(materiale e spirituale, individuale e collettiva) e ciò li pone strutturalmente in una situazione di
inferiorità sociale» (Basso, 2010, p. 418).
Così, tra gli anni Novanta e il Duemila, inizia una fase di sperimentazione della mediazione, concepita
come una pratica nuova volta ad agevolare l’inclusione dei “nuovi cittadini”, anche se si notano subito
i limiti della sola mediazione linguistica, rendendo necessaria quella culturale.
Con la legge n. 40 del 6 marzo 1998 e con il decreto legislativo n. 286 del 25 luglio 1998, c.d. Testo
Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione, sono riconosciuti ufficialmente,
per la prima volta, il ruolo e i compiti dei mediatori, in modo da favorire le misure di integrazione
sociale.
Essi fissano «i criteri per il riconoscimento dei titoli di studio e degli studi effettuati nei Paesi di
provenienza ai fini dell’inserimento scolastico, nonché dei criteri e delle modalità di comunicazione
con le famiglie degli alunni stranieri, anche con l’ausilio di mediatori culturali qualificati»; prevedono
«la realizzazione di convenzioni con associazioni regolarmente iscritte nel registro di cui al comma
2 per l’impiego all’interno delle proprie strutture di stranieri, titolari di carta di soggiorno o di

26
permesso di soggiorno di durata non inferiore a due anni, in qualità di mediatori interculturali al fine
di agevolare i rapporti tra le singole amministrazioni e gli stranieri appartenenti ai diversi gruppi
etnici, nazionali, linguistici e religiosi».
Nonostante tali previsioni, in Italia si configurano dei percorsi eterogenei relativi alla definizione e
alla formazione del mediatore interculturale, inoltre, il riconoscimento formale di tale figura viene,
principalmente, promosso dalle associazioni sensibili alle problematiche degli immigrati, ed è
possibile farvi ricorso, grazie alle convenzioni, presso le Questure, gli ospedali, le Amministrazioni
comunali, i centri di prima accoglienza, le scuole.
Già negli anni Duemila, la mediazione rappresenta una prassi consolidata all’interno dei servizi,
anche se le difficili condizioni di lavoro dei mediatori, dovute all’utilizzo di contratti a chiamata o di
collaborazione e alla bassa e incerta retribuzione, spingono gli stessi ad avanzare richieste di
riconoscimento professionale, prima di tutto a livello regionale e poi in ambito nazionale.
Ad esempio, un riconoscimento parziale è avvenuto in Friuli Venezia Giulia e in Valle d’Aosta, ove
si è adottato un Elenco Regionale dei mediatori culturali, il quale, però, non costituisce un vero e
proprio Albo regionale o nazionale dei mediatori culturali; ciò al fine, mediante l’iscrizione formale
in essi, di tutelare una formazione altamente qualificata di tale figura professionale, di promuovere il
ricorso ad essi come prassi all’interno dei servizi, di dare una maggiore visibilità alla suddetta
professione.
Nel 2009, con la stesura del documento 09/030/CR/C9 della Conferenza delle Regioni e delle
Province Autonome, in merito al riconoscimento della figura professionale del mediatore
interculturale, egli viene definito come «un operatore sociale che facilita la comunicazione tra
individuo, famiglia e comunità nell’ambito delle azioni volte a promuovere e facilitare l’integrazione
sociale dei cittadini immigrati», che favorisce «la rimozione delle barriere linguistiche e culturali, la
valorizzazione e la promozione della cultura di provenienza, la promozione della cultura di
accoglienza, l’integrazione socio-economica e la fruizione dei diritti e l’osservanza dei doveri di
cittadinanza».
Dunque, sicuramente, nel corso del tempo l’importanza della figura del mediatore culturale è
aumentata, ma il ricorso ad essa è ancora molto discrezionale, sia a livello nazionale sia regionale,
considerando anche la sua prevalenza nel settore del privato sociale in collaborazione con gli enti
pubblici, a mezzo di delibere e convenzioni, infatti, la quasi totalità dei mediatori culturali dipende
da enti, associazioni e cooperative, mentre una bassissima percentuale degli stessi lavora in proprio.
Questo discorso, però, non riguarda tutti i tipi di mediazione, in quanto negli ambiti penale e familiare
si è inserita in tempi ancora più recenti ed è necessario lavorare maggiormente per riuscire a
promuovere e a delineare la figura del mediatore.

27
Invece, per quanto riguarda la mediazione culturale, già nel 1989, vengono organizzati i primi corsi
di formazione, prima, a Milano e, in seguito, a Torino e Bologna.
In tale contesto, si tratta di un processo che ha portato alla nascita di agenzie di mediatori e mediatrici
culturali, alcune formate da soli migranti altre aventi composizione mista, spesso sotto l’influenza di
associazioni già esistenti, come le ONG (es. CIES di Roma, COSPE di Bologna e Firenze, centro
COME di Milano, il CISS di Palermo), o quelle di donne, o ancora di volontariato, oppure in
conclusione di corsi di formazione per tale categoria professionale.
Tale diversa importanza riconosciuta ai mediatori in relazione al contesto in cui svolgono la propria
attività è dimostrata anche dalla stessa normativa italiana, la quale si occupa di istituzionalizzare i
mediatori culturali, come già visto, con la legge sull’immigrazione (n. 40/1998) e con l’art. 38 T.U.
sull’immigrazione (D. Lgs. n. 286/1998), i quali vengono riconosciuti come presenza necessaria nella
gestione del rapporto fra la società locale e gli immigrati.
In particolare, l’articolo citato del Testo Unico, il quale è intitolato “Istruzione degli stranieri.
Educazione interculturale”, prevede che i mediatori culturali sono riconosciuti come figura volta,
principalmente, a prestare assistenza nelle comunicazioni intrattenute con le famiglie degli alunni
stranieri.
In materia di disciplina dell’immigrazione e delle condizioni dello straniero, il comma quinto del
Decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del 31 agosto 1999, considera i mediatori culturali
come personale qualificato, a cui la scuola deve ricorrere, se possibile, per la comunicazione tra
istituzione e famiglia.
Un ulteriore riferimento normativo è rinvenibile nella Legge quadro n. 328 del 2000, relativa alla
realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, la quale si pone sullo stesso piano di
quelle precedente del 1997, n. 285, riguardante l’educazione interculturale e la riforma dei servizi
sociali.
Invece, non si pone sulla medesima linea la Legge n. 189 del 2002, che modifica la normativa in
materia di immigrazione e di asilo, anche se non abroga né amplia la legislazione precedente riguardo
alla figura del mediatore, pur restringendo le disposizioni della Legge n. 40/1998.
Ciò posto, alla luce degli interventi legislativi che si sono succeduti nel tempo, si può affermare che
la mediazione sia vista, per un verso, come strumento per l’integrazione sociale e, per l’altro, quale
misura scolastica (di cui si parlerà più dettagliatamente nell’unità didattica successiva).
Tale scissione della figura del mediatore, vista la mancanza di una definizione condivisa da tutti,
comporta l’utilizzo dell’aggettivo “interculturale” per fare riferimento alla mediazione sociale,
mentre si parla di mediatore “culturale” quando egli viene considerato un ponte tra le istituzioni e gli
stranieri.

28
Del resto, come sostenuto da Demetrio e Favaro (1997), tale fondamentale ambiguità che aleggia
sulla definizione del ruolo e della figura socio-professionale del mediatore genera confusione circa la
differenza tra mediatore culturale e interculturale, in quanto tali termini sono usati apparentemente
come sinonimi, ma in realtà presentano sfumature che riconducono a due approcci e filosofie diversi.
A proposito dell’ambito scolastico, i mediatori culturali sono considerati come una figura esperta, il
cui intervento è, spesso, necessario per permettere di intrattenere relazioni con i genitori, invece, non
è contemplata la loro presenza all’interno delle classi, al fine di consentire l’inserimento degli alunni
stranieri.
Inoltre, si ritiene automatico l’inserimento di queste figure professionali presso tutti gli Enti locali,
così come la previsione di una formazione specifica e di una definizione chiara e univoca della loro
identità giuridico - professionale.
Invero, oltre a non esistere tale definizione, il termine “mediatore culturale” non viene utilizzato allo
stesso modo all’interno della realtà italiana e anche i percorsi formativi appositi presentano
un’impronta locale (regionale, provinciale o addirittura comunale).
Invece, quelli interculturali sono coloro che operano nell’ambito dell’integrazione sociale, il cui ruolo
è regolato da convenzioni fra Enti locali e associazioni attive nel campo dell’immigrazione.
Anche di tale categoria di mediatori manca una definizione, ad eccezione della previsione che essi
devono essere “cittadini stranieri titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata
non inferiore a due anni”.

29
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 2 - LA MEDIAZIONE

3a Lezione - Le mediatrici culturali

In Italia, il fenomeno delle migrazioni ha comportato l’ingresso di una percentuale maggiore del
genere femminile rispetto a quello maschile, tantoché più della metà degli stranieri presenti sul
territorio nazionale è composto da donne.
Tra gli anni ‘60 e gli anni ‘80, le c.d. pioniere della migrazione femminile in Italia, provenienti da
Eritrea, Etiopia, Somalia, Capoverde, Filippine, America Latina, sono giunte per canali regolari,
hanno trovato un lavoro ma non sono state prese in considerazione negli studi e nelle statistiche sulle
migrazioni fino agli anni Novanta.
Infatti, nonostante l’aumento delle donne immigrate lavoratrici, si attenzionava lo stereotipo della
“donna serva” o “prostituta, oppure “che segue il marito”, piuttosto che soffermarsi sul loro ruolo di
protagoniste nella migrazione.
Invece, recentemente, le analisi del fenomeno migratorio, in Italia, si è focalizzata sulla dimensione
di genere, tenendo conto sia delle donne ricongiunte ai loro familiari sia di quelle che fungono da
“apripista” nella migrazione; si tratta principalmente di cittadine dell’Est Europa e dell’America
Latina, le quali sono per lo più impiegate nel settore domestico e di cura.
Invero, la tendenza comune della popolazione italiana e dei media è quella di ritenere che le donne
immigrate siano quasi esclusivamente colf e badanti, alla luce della crescente preoccupazione per
l’invecchiamento della popolazione autoctona, della riduzione dei servizi e dell’aumento della
domanda di cura.
Ovviamente, si tratta di stereotipi aventi un’accezione negativa, in quanto essi mostrano soprattutto
le donne dell’Est Europa come fredde e calcolatrici, senza considerare che esse possiedono, spesso,
titoli di studio medio - alto e un’elevata esperienza professionale nel Paese d’origine, alla quale non
viene data alcuna rilevanza, anzi viene declassata, a causa del mancato riconoscimento, parziale o
totale, del titolo di studio, attraverso il sottoinquadramento lavorativo, legato alla tipologia di
permesso di soggiorno, alla discriminazione di genere e all’appartenenza etnica e nazionale.
Come affermato da una sociologa «non è, infatti, una questione di genere se le immigrate dal

30
Marocco, ad esempio, non sono selezionate per il lavoro domestico e di cura, se le filippine sono
preferite per il lavoro domestico e non per quello di cura, se le donne emigrate dai paesi dell’est sono
ricercate e selezionate alla fonte per essere destinate al lavoro di cura degli anziani. Il colore della
pelle, l’origine europea, la religione cattolica sono fattori di stratificazione importanti anche se non
le preservano del tutto da sottili discriminazioni e razzializzazioni, che le accomunano a tutti gli
immigrati» (Chiaretti, 2007, p. 9).
Si tratta di fattori che hanno delle conseguenze anche sulla possibilità delle donne immigrate di
integrarsi nella società dominante, esponendole al rischio di una doppia discriminazione: di genere
ed etnica, a prescindere dalle circostanze che esse siano altamente specializzate, come il personale di
cura ospedaliero o le mediatrici culturali.
Eppure, le donne immigrate rivestono un ruolo importante nella società italiana, sia perché si
inseriscono nel mercato di lavoro di cura, sia per il loro contributo ad innalzare, per la loro età più
giovane e per il tasso di fecondità più elevato, la percentuale della popolazione attiva in Italia.
Tuttavia, nonostante ciò, attraverso i mass media, la politica e il mercato, la distanza economica e
sociale tra le donne autoctone e quelle immigrate aumenta, insieme all’incremento degli stereotipi
che vedono la figura femminile straniera come estremamente distante ai valori occidentali, i quali
pensano ad una donna libera, svestita, emancipata, di successo.
Queste relazioni asimmetriche legate alla nazionalità del genere femminile dipendono dalla
riproduzione, nella società, di una scala gerarchizzata tendenzialmente razzista, volta a preferire,
collocandole su un piano superiore, le donne bianche dell’Europa occidentale, in un livello inferiore
quelle bianche dell’Europa dell’Est, e in gradini sempre più bassi vengono posizionate le donne con
un colore della pelle più scuro, fino ad arrivare a quelle provenienti dall’“Africa nera”.
Tale imponente presenza del genere femminile di origine straniera ha implicazioni sull’istituto della
mediazione culturale, in Italia, in quanto questa professione è, prevalentemente, svolta da donne, la
quale assume, quasi, una connotazione di genere, anche per il fatto che la componente cognitiva ed
affettiva del “prendersi cura” è strettamente a qualità tipiche della realtà femminile.
Così, le donne immigrate sono, innanzitutto, mediatrici tra la cultura, i valori, la lingua, le tradizioni
del Paese di origine e quelle dello Stato di accoglienza, alle quali spetta la risoluzione di conflitti che
possono sorgere sia nella sfera privata sia in quella pubblica.
È chiaro che non tutte le donne immigrate scelgono o riescono a diventare mediatrici culturali, poiché
esse hanno origini e riferimenti culturali differenti, così come un’esperienza migratoria e una storia
personale unica, infatti, per ottenere questo status e, conseguentemente, essere idonei allo
svolgimento di questa professione, che in alcuni aspetti consente una maggiore visibilità pubblica, è
necessario avere delle competenze specifiche che richiedono la conoscenza linguistica e dei diritti e

31
doveri non solo del Paese di origine ma anche di quello di accoglienza.
Dunque, è richiesta una sorta di doppia presenza che pretende la capacità di inserimento, ossia sapere
collocare il proprio punto di vista all’interno di una cornice completamente differente rispetto a quella
di origine sotto vari profili, quali la scuola, il tribunale, la questura, la sanità e tutti gli altri contesti
in cui la mediazione culturale si colloca.
Oltre al fatto che, per potere accedere alla professione di mediatrice culturale, vengono richieste
particolari abilità, concernenti le capacità di comunicare, di tradurre, di consentire un dialogo
partendo dalle diversità degli interlocutori, di sapere entrare in relazione; a ciò si aggiunge che
bisogna essere disposti ad accettare condizioni di lavoro flessibili, “a chiamata”, senza alcuna
garanzia di retribuzione, in quanto non sempre tale situazione è conciliabile con i tempi legati
all’organizzazione familiare.
Probabilmente, sono proprio i fattori appena analizzati che hanno determinato l’accesso alla
mediazione culturale, in Italia, soprattutto di donne straniere, bilingue, altamente scolarizzate,
abituate ad attraversare i confini tra le culture, i servizi, gli spazi comuni dell’aggregazione e
dell’incontro.
A riguardo, bisogna anche considerare che le donne rispetto agli uomini sono maggiormente disposte
a sbilanciarsi, a comunicare, a relazionarsi, a mediare, ad orientare, a costruire possibilità, a mettersi
in gioco, infatti è, soprattutto, il genere femminile che ricopre nella mediazione una funzione
prevalentemente psico-sociale di accompagnamento, sostegno e aiuto, ove il senso di identificazione
e di empatia sono fortemente presenti nelle problematiche, nell’esperienza migratoria e nell’essere
donna.
D’altronde, un tratto implicito nella mediazione è l’emotività, poiché esercitando tale attività, è
inevitabile rievocare le proprie personali esperienze vissute in quanto donna immigrata, però, al
contempo, essere mediatrice culturale implica automaticamente uno status che consente di ottenere
un riconoscimento dalla società e dalla comunità del Paese d’origine e di quello di accoglienza, ossia
essere viste come coloro che, rispetto ad altre, sono riuscite ad integrarsi del tutto.
In realtà, anche il processo delineato è fortemente condizionato dall’appartenenza etnica, dalla
percezione di vicinanza o distanza culturale con la società e la cultura del Paese di accoglienza e,
altresì, dalla possibilità o meno di essere riconosciute per il titolo di studio, l’esperienza professionale
o le proprie capacità.
Dunque, alla luce di quanto sinora detto, è palese come il percorso per accedere alla professione di
mediatrice culturale presenta moltissimi ostacoli, connessi ai processi di razzializzazione,
gerarchizzazione della popolazione immigrata e di inferiorizzazione rispetto alla popolazione
autoctona, e svariati limiti legati ai condizionamenti sociali e alla capacità di affermazione

32
individuale.
Ovviamente, nel quadro delineato, ricco di difficoltà, si aggiungono quelle legate al fatto di essere
donna, straniera e lavoratrice.
In Italia, una delle Regioni più interessate all’emigrazione nel primo e nel secondo dopoguerra è stata
il Friuli Venezia Giulia, sia verso altre zone interne alla Repubblica, quali la Lombardia, sia verso la
Svizzera, l’Egitto, gli Stati Uniti, il Canada, il Brasile e l’Argentina.
Al contrario, oggi il Friuli Venezia Giulia è una delle Regioni d’Italia più esposte alle migrazioni
provenienti dall’Est Europa, poiché rappresenta un territorio di confine, di transito e di stabilimento
per molti stranieri, per la vicinanza geografica con l’Europa centrale e orientale e, altresì, per la
richiesta di manodopera presso l’industria.
In tale Regione, la figura del mediatore culturale ottiene riconoscimento, per la prima volta, con la
Legge regionale del 9 agosto 2005, n. 18, recante norme per l’occupazione, la tutela e la qualità del
lavoro, e con quella del 4 marzo del 2005, n. 5, contenente norme per l’accoglienza e l’integrazione
sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati, che stabiliscono che « le Province
individuano i Centri per l’impiego presso i quali istituire servizi di mediazione culturale per i
destinatari della presente legge, tramite i mediatori culturali iscritti all’Elenco di cui all’articolo 25,
comma 6, e in possesso della specializzazione in materia di lavoro».
Infatti, è istituito l’Elenco regionale dei mediatori culturali, presso la direzione centrale competente
in materia immigrazione, la cui iscrizione è subordinata al possesso di specifica professionalità in
materia di mediazione culturale, attestata a seguito della frequenza di corsi di formazione specifici,
ovvero conseguita mediante esperienze formative e lavorative.

33
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 2 - LA MEDIAZIONE

4a Lezione - La mediazione in Europa

Il mediatore e la sua formazione sono oggetto di progetti, in larga parte circoscritti alle realtà italiane,
infatti, solo in pochi hanno un ampio raggio, così in tempi recenti sono stati avviati dei finanziamenti
in tale ambito.
Dall’analisi del progetto CHIP emerge l’attenzione particolare che è stata rivolta al ruolo del
mediatore nei paesi partecipanti, nella cui relazione finale si sottolinea la difficoltà incontrata dalla
mediazione nell’entrare nelle scuole, pur essendo una pratica diffusa in tutti i Paesi dell’Unione.
Tra gli Stati che hanno preso parte al CHIP, solamente in Italia e in Belgio essa è stata utilizzata
abbondantemente, nei limiti delle risorse disponibili.
In particolare, in Belgio, la mediazione è stata introdotta come risposta al problema legato al forte
aumento dell’abbandono scolastico verificatosi all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, anche
se tale esperienza non ha portato ad alcun esito positivo per svariati motivi, tra cui l’ambiguità della
figura del mediatore, in quanto, in alcune circostanze, è visto come un semplice facilitatore
linguistico, che non entra a far parte della squadra educativa.
La situazione italiana si presenta diversamente per la forte crescita del fenomeno dell’immigrazione
rispetto agli altri paesi europei, infatti, mentre in un primo momento la Repubblica era un Paese di
emigrazione, da qualche decennio è diventata meta di immigrati, cosicché le normative e le misure
adottate stanno superando i risultati raggiunti da Germania, Francia e Inghilterra.
Uno dei partner italiani presente nei progetti sulla mediazione è il Centro di Udine “Risorse Umane
Europa” (c.d. RUE), il quale si impegna a favorire l’integrazione degli immigrati nella società italiana
e, in particolar modo, nella zona del nord-est, ove la numerosa presenza di immigrati e la vicinanza
con il confine della ex Jugoslavia hanno comportato notevoli problematiche all’integrazione.
Così, per fronteggiare le criticità della mediazione, l’associazione RUE si è impegnata in progetti
europei volti a fornire una definizione del mediatore interculturale (progetto Comenius “Intermedia -
Mediatori Interculturali”, nel quale essa è partner con insegnanti e formatori portoghesi e tedeschi) e
del mediatore culturale europeo (progetto Leonardo da Vinci “MCE - Mediatore Culturale Europeo”,

34
nel quale la RUE è partner insieme a università, centri interculturali, centri etno-psichiatrici italiani,
norvegesi e francesi).
L’obiettivo perseguito a mezzo di tali progetti riguarda la formazione della figura del mediatore
culturale, mediante l’utilizzo di strumenti metodologici e cognitivi adeguati; per di più, essi non
considerano il mediatore come una figura da collocare all’interno della scuola, poiché la mediazione,
in quanto relazione, necessita sia di un ampio panorama entro cui muoversi, sia di protagonisti non
ancorati alla relazione insegnante-bambino, tantoché gli operatori socio-sanitari, le famiglie, le
comunità, la scuola e, in generale, gli educatori sono tutti attori chiamati in causa.
Ormai, da qualche decennio, la Comunità Europea sta promuovendo, in diversi progetti, l’importanza
del lavoro di rete a livello transnazionale, infatti, oltre ai due appena analizzati ne vanno menzionati
anche altri.
Con ELECTRA – e Learning for Intercultural Teaching Competences, si prevede la formazione a
distanza, mediante strumenti multimediali, di alcuni insegnanti laureati selezionati tra i vari Paesi
partecipanti al progetto, vale a dire l’Università di Joensuu per la Finlandia, la Manchester University
per la Gran Bretagna e l’Università di Koblenz-Landau per la Germania.
Il suddetto corso prevede la partecipazione di venticinque persone per ogni paese, ai quali viene
riconosciuta la possibilità di seguire le lezioni on-line (WebCt - designed - programme), aventi ad
oggetto tematiche riguardanti l’intercultura; inoltre, con il superamento di esami e calcolando le ore
di studio via web, gli insegnanti scelti ricevono dei crediti pari a quindici unità.
È, altresì, istituito un forum di discussione a cui si deve obbligatoriamente accedere per potere
discutere di tematiche proposte dai curatori del programma, rappresentando, dunque, una piattaforma
ove potere scambiare le esperienze personali e un luogo di confronto utilizzabile anche dopo la
conclusione del corso.
La formazione degli insegnanti in una visione europea rappresenta uno degli obiettivi perseguiti dai
programmi Socrates; d’altronde, uno scopo che la Comunità vuole raggiungere è proprio quello di
creare reti di informazione per il personale docente, al fine di condividere e scambiare opinioni ed
esperienze.
Un’altra importante rete a livello internazionale è quella realizzata con il progetto DIECEC
(Developing Intercultural Education through Co-operation between European Cities), il quale
riunisce diciannove città europee di dodici Stati diversi, per lavorare insieme in modo da favorire
l’intercultura e l’inserimento dei bambini immigrati nelle scuole.
Esso, dopo alcuni anni di prova, viene avviato nel 1997 e dura tre anni, successivamente, i fondi
stanziati a tal fine sono stati trasferiti ai programmi Socrates, a cui i paesi membri hanno partecipato
grazie a delle calendarizzazioni tematiche.

35
Il progetto appena studiato si è tradotto in un’esperienza positiva che, pur essendo cambiati la rete e
i suoi promotori, rimane una forma di cooperazione tra alcune delle città presenti nel DIECEC e trova
realizzazione in altri progetti transnazionali a livello europeo.
Il lavoro di rete acquista un’importanza fondamentale, in quanto tale progetto ha consentito lo
scambio di esperienze e informazioni tra i partners, facilitando i gemellaggi e la ricerca, mediante
l’approccio del “multi-level”, (in italiano significa approccio integrato), secondo cui, al fine del
raggiungimento dell’obiettivo dell’integrazione dello straniero, non sono importanti solamente la
pedagogia interculturale o qualche singola misura inserita nei programmi scolastici, come le ore di
insegnamento della lingua del paese di accoglienza.
Infatti, l’approccio in questione è chiamato multi-livello proprio perché considera importanti tutti gli
aiuti provenienti da qualsiasi ambito, ossia il contesto scolastico, quello familiare, la collaborazione
tra la scuola e i diversi enti del territorio, pubblici, privati o di volontariato.
Il DIECEC non si limita a considerare la mediazione facendo riferimento ad un singolo professionista
che accompagna il bambino nei primi momenti dell’inserimento scolastico, bensì l’idea di mediatore,
perseguita con tale progetto, è molto più ampia, visto che si considera mediazione tutto ciò che si
colloca tra il bambino e la società, dalla famiglia al servizio, coinvolgendo, quindi, tutta la comunità.
Pertanto, nell’ambito del DIECEC, facendo riferimento alla singola mediatrice si parla di scaffolding,
per indicare, appunto, l’aiuto che la professionista può dare ad un’altra persona, cioè il bambino, e in
questo caso, si tratta di un sostegno per l’integrazione, che, però, nel contesto di questo progetto non
è più solamente un inserimento scolastico.
Infatti, il bambino viene collocato all’interno del triangolo scuola – comunità – famiglia, così quando
è previsto l’intervento del mediatore, egli deve aiutare il funzionamento di tale rapporto trilaterale,
gestendone i contatti e i possibili conflitti, a prescindere che lavori nella scuola o nei servizi extra
scolastici.
Aderire alla rete DIECEC, da parte delle città, si traduce, innanzitutto, nell’individuazione di un piano
d’intervento a medio e lungo termine che tenga conto delle esigenze della popolazione immigrata
dell’area.
Pertanto, in questa progettazione acquistano fondamentale importanza gli indicatori scelti dalla rete,
in quanto essi permettono di confrontare i risultati che sono punti chiave, quali il tasso di abbandono
scolastico, i progressi fatti nell’alfabetizzazione o la formazione degli insegnanti.
Sul punto, occorre ricordare che basandosi su un approccio integrato, la progettazione, così come il
monitoraggio e la valutazione, devono basarsi non solo sui risultati dei bambini, ma anche sui successi
o fallimenti registrati dalla scuola, per esempio nel realizzare reti di collaborazione con le varie
agenzie presenti sul territorio.

36
Ciò posto, il DIECEC pretende che l’azione di monitoraggio e la conseguente misurazione si basino
su dati empirici ricavati all’interno di alcune aree prestabilite, cioè gli alunni, singolarmente e
collettivamente, per quanto riguarda le competenze linguistiche e sociali e le abilità e capacità
pratiche; gli insegnanti e l’insegnamento, a proposito della conoscenza e valorizzazione del
patrimonio della cultura del Paese di appartenenza degli studenti, dell’assistenza nell’apprendimento
della lingua seconda e di quella di origine, della conoscenza delle teorie e delle pratiche
dell’acquisizione linguistica e, infine, della formazione e dei corsi di aggiornamento in ottica
interculturale.
Un’altra area analizzata è quella relativa al ruolo dei genitori, soffermandosi, in particolare, sul
coinvolgimento attivo degli stessi nell’attività scolastica dei propri figli, sull’instaurazione dei
contatti iniziali con tali soggetti da parte della scuola e delle associazioni e sull’opportunità
riconosciuta agli stessi genitori di seguire corsi di lingua seconda.
Infine, viene preso in considerazione anche il contesto scolastico, al fine di verificare l’apertura delle
scuole all’interno del territorio considerato, attraverso progetti che coinvolgono le istituzioni o le
associazioni, e di monitorare i programmi in un’ottica interculturale.
Inoltre, sono previste delle linee guida, concordate dalla rete, inerenti particolari tematiche, come
quella della lingua, infatti, il DIECEC considera fondamentale un’approfondita conoscenza della
lingua madre, cosicché si adopera affinché i suoi partners lavorino in questo senso garantendo, dove
è possibile, un sostegno.

37
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 2 - LA MEDIAZIONE

5a Lezione - Il lavoro, la cittadinanza sociale e l’interculturalità nella mediazione culturale

Nelle lezioni precedenti ci siamo soffermati sull’analisi della mediazione ma adesso occorre tenere
in considerazione altri fattori sui quali l’istituto in esame ha delle importanti conseguenze; vale a dire
il lavoro, la cittadinanza sociale, l’interculturalità.
Si tratta di aspetti che, essendo strettamente connessi alla mediazione, dovrebbero sempre essere
considerati nei progetti e nelle politiche che mirano all’integrazione della popolazione immigrata, in
quanto permettono di ridurre le disuguaglianze strutturali presenti nella società plurietnica.
Per cogliere questi legami è opportuno procedere allo studio di casi ed esperienze concrete, così qui
di seguito si procederà al suddetto approfondimento soffermandosi su alcune interviste effettuate alle
mediatrici e ai mediatori culturali e agli operatori dei servizi a proposito del ruolo e delle funzioni dei
primi.
Una mediatrice albanese afferma di svolgere la propria professione all’interno delle scuole e degli
uffici di collocamento e nel settore sanitario, evidenziando l’importanza di essere costantemente
disponibili e reperibili; infatti, un rischio a cui si va incontro è che il tempo dedicato ad attività diverse
dal lavoro venga a mancare, in quanto le persone ricercano il mediatore anche dopo l’orario di
intervento.
Essendo una professione retribuita ad ore comporta una situazione di notevole incertezza economica,
inoltre, è un lavoro che richiede una dedizione completa, non permettendo di prendersi mai un
momento di pausa, anche in considerazione dell’importanza dell’aggiornamento formativo continuo;
pertanto l’intervistata definisce la mediazione come un lavoro in cui “si viene spremuti al massimo”,
che richiede, pertanto, grande capacità di affrontare ogni difficoltà.
Secondo la mediatrice, la cittadinanza viene intesa come consapevolezza dei propri diritti e doveri e
dovrebbe essere conferita in base ad un sistema meritocratico, basato sull’adozione del “permesso di
soggiorno a punti”, e i protagonisti della stessa sono i minori stranieri non accompagnati e gli
immigrati adulti.
Inoltre, la “cittadinanza integrata” viene ritenuta un requisito importante per lo svolgimento della

38
professione di mediatore culturale, poiché la mediazione può fornire un utile contributo nel “dare
cittadinanza agli immigrati”, facendo in modo che gli stranieri diventino consapevoli dei codici civici
e culturali del Paese di accoglienza.
Ne discende che, per potere avere una forma di interculturalità, occorre promuovere il dialogo e
l’integrazione degli immigrati, mediante l’offerta di servizi rivolti agli stessi su parte del territorio.
Un esempio di integrazione andata a buon fine è quella dell’associazione “La Tela”, nella quale fanno
parte donne italiane e straniere.
A proposito dell’interculturalità, la mediatrice ritiene che essa sia più facilmente raggiungibile nel
contesto scolastico, ad esempio nel momento in cui un alunno straniero diventa parte della classe; in
ogni caso, con tale concetto si intende l’interazione tra culture diverse, lo sviluppo di un senso di
curiosità per la diversità, la possibilità di comunicare tra tante persone appartenenti a molteplici
contesti.
Ecco perché l’interculturalità dovrebbe essere prevista nella formazione degli insegnanti nelle scuole,
in più la promozione della stessa potrebbe essere facilitata mediante la ricerca di forme di
collaborazione con le associazioni specifiche che si occupano di questo.
Dunque, alla luce di quanto detto, il valore aggiunto della mediazione dipenderebbe dai processi di
integrazione dei connazionali; dalla rimozione delle barriere culturali; dall’ausilio nel dialogo e nella
comunicazione in diversi contesti; dalla possibilità riconosciuta agli immigrati di esprimere il loro
mondo; dal potere considerare quest’attività come un forte valore etico, una sorta di missione; dal
rappresentare una strategia per l’incontro, una forma di apertura al mondo e un modo per prevenire i
sentimenti di odio nei confronti del diverso e del razzismo.
Un’altra intervista viene effettuata ad una mediatrice Filippina che esercita il suo lavoro in più ambiti
(la scuola, la sanità e il sociale), la quale sostiene che si tratti di una professione che richiede
un’elevata mobilità, disponibilità, aggiornamento continuo e l’eventuale “partecipazione per
progetto”.
Però, la mediatrice non condivide il fatto che il tempo dedicato alla mediazione venga segnato dagli
operatori in modo minuzioso, senza tener conto della fatica professionale legata al lavoro a chiamata.
La cittadinanza sociale viene intesa come il sentirsi parte di una società, mediante la conoscenza dei
propri diritti e delle pratiche legate all’essere stranieri, come i requisiti per il ricongiungimento
familiare, dunque, comporta l’adozione di comportamenti accettabili nel Paese di accoglienza.
Invece, interculturalità significa osservare diverse lingue, culture, tradizioni, colori, essere
consapevoli delle usanze altrui, purché sia possibile uno scambio reciproco.
Dunque, secondo l’intervistata, il valore aggiunto della mediazione è dato dalla possibilità, attraverso
la conoscenza delle culture, di ridurre i pregiudizi, facilitando l’incontro tra persone diverse,

39
permettendo allo straniero di potersi spiegare e, quindi, consentendo una maggiore comprensione,
uno scambio che arricchisce i soggetti coinvolti reciprocamente e l’apertura mentale degli stessi.
A questo punto, occorre passare all’analisi delle interviste fatte agli operatori dei servizi, portatori,
ovviamente, di un punto di vista diverso rispetto a quello dei mediatori culturali.
Un assistente sociale del Settore “Materno infantile e disabilità” ritiene che l’attività svolta dal
mediatore sia utile per facilitare l’accompagnamento al lavoro, anche fornendo assistenza nella
redazione di un curriculum, e l’inserimento lavorativo degli immigrati.
La cittadinanza sociale viene considerata utile per consentire agli immigrati di conoscere l’offerta dei
servizi sul territorio, invece, la promozione dell’interculturalità viene rimessa alle sole capacità del
mediatore, la cui attività di mediazione viene ritenuta utile per capire gli aspetti culturali, il modo di
comportarsi degli utenti stranieri e per eliminare i pregiudizi.
È stata intervistata anche un’insegnante di una scuola primaria di Udine, la quale considera la
mediazione efficace per i processi di accoglienza e di inserimento scolastico degli alunni immigrati
e, pertanto, deve essere in linea con il ruolo del docente all’interno della classe. Infatti, il lavoro del
mediatore è importante, in quanto il professore non può conoscere tutte le culture degli alunni, anche
se la presenza dello stesso è legata molto ai fondi economici messi a disposizione.
Dal punto di vista dell’insegnante, la cittadinanza sociale permette l’integrazione scolastica e sul
territorio, un riconoscimento e una partecipazione nella società visibile nelle feste locali, inoltre, è
proprio la mediazione culturale che favorisce gli aspetti di cittadinanza degli alunni stranieri, dando
loro mezzi per sentirsi parte della classe e della società di accoglienza.
L’interculturalità consiste nella presentazione di culture diverse, rappresentando una forma di
arricchimento nella formazione degli alunni italiani e stranieri, che, al contempo, incrementa le
conoscenze degli insegnanti nel sapersi approcciare con gli studenti immigrati, cogliendone le
diversità culturali.
Pertanto, il valore aggiunto della mediazione è legato al fatto che essa permette la scoperta di cose
nuove, il contatto con altre culture e, quindi, un arricchimento.
In definitiva i tre tratti fondamentali che caratterizzano la professione del mediatore culturale sono il
lavoro, la cittadinanza sociale e l’interculturalità.
Infatti, non è un caso che la professione del mediatore culturale sia, la maggior parte delle volte,
vincolata ad un “contratto a chiamata”, ad una retribuzione oraria e “legata al bisogno”, cioè ad una
serie di condizioni lavorative che conferiscono una visione strumentale dell’immigrazione e che
possono limitare la portata dello strumento della mediazione culturale stessa all’interno dei servizi.
Per quanto riguarda il secondo elemento, il mediatore culturale, con la sua capacità di mediare,
rappresentare e negoziare, agevola l’accesso da parte dei migranti alla cittadinanza sociale quotidiana,

40
così come facilita il riconoscimento delle asimmetrie strutturali che costituirebbero un ostacolo alle
capacità di autodeterminazione sia degli immigrati sia del mediatore culturale stesso.
Invero, i mediatori culturali si pongono su un livello sociale più alto, rappresentando un modello di
integrazione ben riuscita rispetto alla popolazione immigrata, ma, nonostante ciò, dalle interviste
condotte alle mediatrici culturali emergono, in certi casi, delle tensioni e divergenze di posizione per
quanto riguarda il genere, la cultura e l’etnicità.
Sicuramente, l’identità civica e, quindi, la conoscenza e la padronanza dei diritti e dei doveri della
società in cui si vive può permettere una maggiore coesione sociale tra cittadini autoctoni ed
immigrati, ma, al contempo, deve prendere in considerazione le disuguaglianze, in termini di
opportunità che devono essere, quando possibile, ridotte.
Una di queste disparità riguarda, per esempio, il mancato riconoscimento del titolo di studio degli
immigrati e delle immigrate, nonché la tendenza che agli stranieri vengano assegnate attività
lavorative meno qualificate, con un contratto lavorativo flessibile e con una retribuzione inferiore
rispetto a quella della popolazione autoctona.
Infine, il mediatore culturale è portatore del valore dell’interculturalità, poiché egli deve facilitare gli
spazi di incontro per la diversità, ragion per cui la sua presenza in una società plurietnica è sempre
più fondamentale, in quanto consente anche di ridurre le incomprensioni e le controversie legate al
persistere delle disuguaglianze di genere, etnia e classe sociale.

41
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 2 - LA MEDIAZIONE

Bibliografia

 Basso, P. (2010). Razzismo di Stato. Stati Uniti, Europa, Italia. Milano: Franco Angeli.
 Bouchard, M., & Mierolo, G. (2000). Prospettive di mediazione. Torino: Edizioni Grippo
Abele.
 Chiaretti, G. (2007). La catena globale del lavoro di cura, in Corradi L, Perocco F (Eds.),
Sociologia e globalizzazione, Milano: Mimesis Edizione.
 Cohen-Emerique, M., & Camilleri, C. (1989). Chocs de culture: concepts et enjeux pratiques
de l’interculturel. Parigi: L’Harmattan.
 Demetrio, D., & Favaro, G. (1997). Bambini stranieri a scuola, accoglienza e didattica
interculturale nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare. Firenze: La Nuova Italia.
 Favaro, G. (2001). Parole a più voci. Milano: Franco Angeli.
 Mazzucato, C. (1998). La mediazione nel sistema penale minorile in Barbero Avanzini, B.
Minori, giustizia penale e intervento sociale. Milano: Franco Angeli.
 Six, J.F. (1990). Le temps des médiateurs. Parigi: Editions du Seuil.
 Verrocchio, A., & Tessitori, P. (2009). Il lavoro femminile tra vecchie e nuove migrazioni. Il
caso del Friuli Venezia Giulia, Roma: Ediesse.

42
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 3 - IL MEDIATORE CULTURALE

1a Lezione - La professione del mediatore culturale

Per potere cogliere l’essenza della professione di “mediatore culturale o interculturale” è


indispensabile soffermarsi su alcuni concetti che la caratterizzano, cioè la mediazione, il conflitto, la
vicinanza, la lontananza, l’identità, la cultura, le frontiere, il cambiamento.
Innanzitutto, la mediazione presuppone sempre malintesi cognitivi, incomprensioni, difficoltà
comunicative e relazionali, diverbi, forze contrapposte, per cui essa si colloca in uno spazio, ove il
rischio di un conflitto è costante e, pertanto, la stessa ha il compito di inserire in tale contesto spiragli
di riflessività e di emozioni, carpiti dai messaggi di chi li esprime.
È ovvio che se due o più persone, gruppi, comunità sono capaci di comunicare tra loro pacificamente
in una posizione paritaria, l’esistenza della mediazione non avrebbe senso e sarebbe inutile, ragion
per cui, tale strumento esprime tutte le sue potenzialità nei casi in cui le relazioni di potere sono
asimmetriche e presentano non solo differenze ma anche disuguaglianze.
Un esempio di siffatti rapporti è rinvenibile nelle situazioni che coinvolgono operatori autoctoni ed
utenti immigrati, i quali possono esprimere culture più o meno distanti, diseguali e fondate su diverse
scale di valori, in quanto non è sempre facile esplicitare i contenuti dei codici culturali, che spesso
vengono dati per scontato.
Perciò, un aspetto molto importante della mediazione è avere cognizione della propria posizione, di
vicinanza o di lontananza, rispetto ad un certo modo di pensare, alle abitudini, ai codici linguistici e
culturali e, al contempo, possedere le giuste capacità che consentono di riconoscere come si è
costruito una certa identità e un proprio punto di vista, che determinano delle scelte, degli
atteggiamenti, il perseguimento di modelli ideali.
Operando diversamente, il rischio che si corre è che il mediatore persegua i propri desideri, sperando
in una forma di miglioramento che può essere irrealizzabile e molto distante dalla realtà.
Dunque, affinché si possa mediare correttamente, è necessario non discostarsi dal mondo reale,
concentrandosi sulla dimensione del conflitto, in quanto l’obiettivo perseguito dal professionista deve
essere quello di considerare qualsiasi riferimento culturale (es. esperienze, valori, codici cognitivi e
comportamentali) delle parti contrapposte per renderli leggibili e comprensibili tra loro, pur non

43
mutandone l’essenza, quindi tale attività deve consistere in una sorta di traduzione tesa
all’apprendimento reciproco.
Al fine di svolgere tale compito, il mediatore culturale o interculturale non può che avere una doppia
competenza linguistica, poiché deve conoscere la lingua sia del Paese di origine sia di quello di
accoglienza, in modo da potere rendere comprensibili ed espliciti i modelli, le caratteristiche e gli
elementi legati al sistema della propria appartenenza culturale e, al contempo, alle istituzioni in cui
la mediazione linguistica e/o culturale si inserisce.
Ciò posto, il mediatore deve essere necessariamente un professionista proveniente da un Paese
straniero, con una propria e diversa cultura, che ha vissuto ed elaborato personalmente l’esperienza
della migrazione, in considerazione del ruolo riconosciutogli nell’ambito dei processi di inserimento
della popolazione immigrata, in quanto deve facilitare l’accesso ai servizi, alla scuola, al servizio
sociale, alla sanità, alle questure, ai centri per l’impiego, e deve, altresì, svolgere funzioni di supporto
e di accompagnamento all’acquisizione dei diritti di cittadinanza.
Nonostante l’importanza e la delicatezza del ruolo svolto, il profilo professionale del mediatore non
è sempre facilmente definibile, sia perché le Regioni hanno accolto questa figura in modo
differenziato sia perché la moltitudine delle istituzioni ha comportato la richiesta di conoscenze e
competenze specifiche, spesso altamente differenziate.
Ad esempio, in ambito scolastico il mediatore deve essere in grado di promuovere l’educazione
interculturale, nei tribunali sono richieste abilità linguistiche, nella sanità quelle mediche.
Comunque, in qualsiasi contesto, tale figura rappresenta un ponte che permette la comprensione e la
comunicazione, in termini linguistici e culturali, tra l’utente straniero e l’operatore del servizio,
ponendosi come un soggetto terzo e imparziale.
Però, attesa la varietà delle esperienze professionali, si ricorre a numerose denominazioni per fare
riferimento a questa figura, cosicché il mediatore linguistico è una sorta di traduttore e interprete che
deve possedere solo competenze linguistiche per rendere possibile la comunicazione tra due
interlocutori; il mediatore culturale o interculturale valorizza la cultura di coloro che provengono dal
suo stesso Paese di origine, in modo da creare uno spazio per la conoscenza e lo scambio culturale ed
eliminare, o quantomeno, ridurre le asimmetrie strutturali presenti; il mediatore linguistico - culturale
rappresenta una sintesi delle due figure appena esaminate, infatti, si occupa sia degli aspetti linguistici
sia di quelli culturali; infine, le mediatrici culturali, quando tale ruolo viene affidato alle donne, vista
l’importanza del personale femminile in alcuni settori specifici, quali il reparto di ginecologia ed
ostetricia dell’ospedale, il consultorio familiare, i centri antiviolenza.
In Italia si è fatto spesso ricorso, per svariati motivi, alla figura del mediatore culturale, cosicché la
relativa formazione è stata promossa all’interno di enti sia privati sia pubblici, istituendo, in ogni

44
caso, dei corsi che prevedono dei tirocini formativi, preceduti dallo studio dei processi migratori,
della normativa italiana in materia di immigrazione, delle migrazioni femminili, della lingua del Paese
di origine e di quella italiana, dei tratti distintivi della professione di mediatore culturale e dei metodi
da seguire, dei servizi al cui interno viene svolta tale attività.
La difficoltà di definire la figura del mediatore è legata a vari fattori, tra cui la diversa durata dei
corsi, che va da un minimo di ottanta ore a un massimo di novecento ore, con una media di circa
trecento ore, i quali sono principalmente promossi dal Fondo Sociale Europeo o da fondi regionali,
creando, così, percorsi eterogenei di formazione dei mediatori.
In siffatta maniera, però, si è delineata una figura professionale del mediatore che presenta plurime
sfaccettature, richiedendo profili e standard diversi, per cui sarebbe preferibile una formazione
omogenea in tutto il territorio italiano; anche se, quest’ultimo, poiché lavora in dei contesti che sono
in continua evoluzione (si pensi alle normative sull’immigrazione) deve sotto la propria responsabilità
provvedere ad aggiornarsi continuamente.
Recentemente, considerando la complessità della professione in esame, le università italiane hanno
previsto dei corsi di laurea o dei master di mediazione linguistica e culturale, in modo da promuovere
una formazione accademica e di alto livello del mediatore culturale, tra l’altro consentendo agli
studenti italiani di potervi accedere, non prevedendo come requisito per l’esercizio di tale attività
essere straniero ed immigrato.
Invero, tale circostanza è considerata come un limite, poiché si ritiene che due condizioni necessarie
per svolgere questa professione siano un’approfondita conoscenza della lingua e della cultura
d’origine, che devono essere diverse da quella italiana, e delle difficoltà insite nei processi di
inserimento degli immigrati.
Quella di mediatore culturale è una professione che richiede competenze complesse e specifiche,
come quella linguistica, comunicativa, relazionale, di mediazione, giuridica, interculturale.
Più specificatamente, occorre avere piena padronanza del lessico, della sintassi e della semantica di
due lingue, in modo da potere comprendere e tradurre il significato, scegliendo determinate parole;
sapere cogliere gli aspetti del linguaggio verbale e non verbale, per costruire un messaggio di senso
compiuto comprensibile da parte di chi ascolta e per interpretare quello altrui; avere capacità di
ascolto e di osservazione, in modo da comprendere le situazioni di disagio, senza, però,
immedesimarsi nelle stesse né giudicare, avendo sempre rispetto per l’altro, accettandolo; essere in
grado di mediare, trovando un punto di incontro, favorendo la ricerca di compromessi e trasformando
il conflitto in un’occasione di crescita, a vantaggio di entrambe le parti, le quali riescono a relazionarsi
grazie all’intervento di un ulteriore soggetto che riesce a creare uno spazio tra essi; possedere una
buona conoscenza delle normative sull’immigrazione e del servizio di riferimento in cui viene svolta

45
la mediazione (es. la legislazione scolastica, sociale, sanitaria, lavorativa, ecc.); essere abili nel
riconoscere e mettere in discussione i propri codici simbolici, culturali e di comportamento, così come
gli stereotipi e i pregiudizi, prendendo dei punti di riferimento culturale diversi da quelli di
appartenenza, al fine di mostrare i differenti significati e gli aspetti comuni nelle situazioni che
coinvolgono persone con culture diverse.
Inoltre, il mediatore deve sapere esercitare una funzione di orientamento e accompagnamento sociale,
in quanto nella scuola e nei servizi sociali devono dare informazioni, orientare e costruire percorsi
per la promozione della cittadinanza attiva.
Vista la particolare delicatezza e importanza della funzione del mediatore culturale, nello
svolgimento della propria professione, tale figura deve necessariamente prendere come riferimento
dei valori e dei principi etici inviolabili, i quali, pur in mancanza di un codice deontologico nazionale,
costituiscono delle vere e proprie linee guida, che devono informare l’attività svolta dallo stesso, al
fine di consentire che tale funzione possa esplicare la propria efficacia, apportando dei benefici a tutti
coloro che necessitano di siffatto aiuto.

46
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 3 - IL MEDIATORE CULTURALE

2a Lezione - L’attività del mediatore culturale

Come già detto a conclusione della lezione precedente, il mediatore culturale, nell’esercizio della
propria attività, deve rispettare alcuni principi e valori etici, che costituiscono delle vere e proprie
linee guida da seguire.
In particolare, il mediatore deve valorizzare entrambe le parti nello svolgimento della sua professione
(il valore del rispetto delle persone); deve prendere in considerazione le aspettative, i desideri, le
capacità di azione delle persone che segue, trasmettendo tali informazioni all’operatore del servizio
in cui svolge la mediazione e, contestualmente, deve tener conto di quest’ultimo e delle sue scelte di
intervento (il valore e il principio dell’autodeterminazione delle persone); non deve omettere o
aggiungere contenuti del discorso che non appartengono alle parti (il valore dell’imparzialità nella
comunicazione-relazione); deve ritenere possibile la comunicazione e lo scambio reciproco tra due
culture (il valore dell’interculturalità); deve avere chiaro il contesto in cui potere lavorare e fermarsi
qualora gli vengano richieste competenze non inerenti alla professione esercitata (il valore del
riconoscimento delle proprie risorse e dei propri limiti); deve accettare la persona rispettando i relativi
ritmi di maturazione e crescita, senza giudicare o colpevolizzare le parti (il principio dell’accettazione
e di non giudizio delle persone); non deve diffondere informazioni conosciute nell’esercizio della
professione, né utilizzarle per scopi economici o personali (il principio di riservatezza e il segreto
professionale).
Con riferimento ai differenti tipi di intervento del mediatore culturale è possibile individuare le aree
in cui agisce, ossia quella sanitaria, sociale, scolastica, giuridica - controllo sociale e lavorativa.
Nell’ambito del primo contesto di azione, il mediatore si inserisce all’interno di svariate strutture,
quali ospedali, consultori familiari, ASL, il Dipartimento delle dipendenze, ove si occupa di
rimuovere le barriere di accesso ai servizi sanitari (es. la scarsa conoscenza dei servizi e del territorio,
il sentimento generale di sfiducia e, in particolare, nelle istituzioni, le difficoltà linguistiche e la
percezione di estraneità); di promuovere l’accoglienza dell’utenza straniera; di facilitare la
comunicazione interculturale tra pazienti stranieri ed operatori sanitari; di favorire la conoscenza

47
degli aspetti culturali dei malati immigrati nella concezione della salute/malattia e nelle cure sanitarie;
di fornire assistenza all’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale; di produrre materiale informativo
multilingue; di intervenire nella progettualità per promuovere l’interculturalità.
L’area sociale vede intervenire il mediatore culturale nell’ambito del Servizio sociale del Comune
mediante la rimozione delle barriere di accesso ad esso (es. le incomprensioni rispetto al ruolo dei
servizi sociali, oltre a quelle appena indicate a proposito dei servizi sanitari), l’agevolazione di
processi di accoglienza e dell’espressione dei bisogni dell’utenza immigrata; l’aiuto per favorire la
comprensione da parte degli utenti immigrati circa il ruolo e le funzioni degli operatori; il sostegno
nella comunicazione interculturale tra utenti immigrati ed operatori nei servizi; un intervento volto a
promuovere i processi di orientamento negli interventi e nei servizi, di sostegno e di
accompagnamento sociale; la promozione dell’autodeterminazione e dei diritti di cittadinanza e
sociali dell’utenza immigrata; infine, con l’intervento nella progettualità per promuovere l’ottica
dell’interculturalità.
In ambito scolastico, il mediatore culturale lavora nella scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di
primo e secondo grado, nelle quali si preoccupa di favorire l’inserimento scolastico degli alunni
stranieri; di fornire sostegno linguistico e scolastico a questi ultimi; di promuovere la comunicazione
interculturale tra insegnanti, alunni stranieri e le loro famiglie; di promuovere un’educazione
interculturale tra alunni stranieri ed autoctoni; di istruire gli insegnanti circa l’educazione
interculturale in ambito scolastico.
Per quanto riguarda l’area giuridica e di controllo sociale, il professionista in questione collabora
presso lo sportello per immigrati, la Questura, la Prefettura, il carcere, il Tribunale, l’Ufficio
esecuzione penale esterna e gli Uffici del servizio sociale per i minorenni, nei quali si occupa di
traduzione e interpretariato; di produzione di materiale informativo multilingue; di fornire
informazioni e promuovere i diritti e i doveri di cittadinanza degli immigrati.
Infine, a proposito dell’intervento del mediatore culturale in ambito lavorativo, egli si inserisce nei
Centri per l’impiego, presso i quali svolge attività di orientamento e accompagnamento alla
formazione e al lavoro dei cittadini immigrati; di produzione di materiale multilingue; di consulenza
agli operatori di sportello; di promozione dell’Advocacy dei lavoratori immigrati.
Nonostante i molteplici e differenti ambiti e campi di azione del mediatore culturale, egli persegue,
in ogni caso, uno specifico obiettivo professionale, ossia quello di promuovere la comunicazione
interculturale, riconoscendo all’utente immigrato e, più in generale, alla componente minoritaria, la
possibilità di esprimersi all’interno di una società dominante, caratterizzata da forti e consistenti
disparità e asimmetrie tra culture.
Si tratta di una disuguaglianza di fatto, connessa alla circostanza di essere immigrati e, quindi, alla

48
conseguente difficoltà di conoscere pienamente le leggi, i servizi e i processi di integrazione nella
cultura dominante, ma, al contempo, anche di una disuguaglianza giuridica, la quale si traduce per gli
stranieri in una situazione di maggiore svantaggio sociale ed economico.
Un aspetto comune che caratterizza la società dominante è la considerazione degli immigrati come
un nucleo omogeneo ma differente rispetto alla popolazione locale, oppure suddividere gli stranieri
in categorie prestabilite (es. in Italia: marocchini, neri, cinesi, stranieri, extracomunitari, clandestini,
ecc.).
È necessario che il mediatore culturale sia, in primo luogo, un immigrato, che abbia provato
personalmente l’esperienza della migrazione, la quale può anche essere stata accompagnata da pesanti
processi di svalorizzazione sociale, inferiorizzazione, discriminazione, episodi di razzismo, che
richiedono un’adeguata elaborazione.
Invero, dal punto di vista sociale, la condizione di immigrato ha delle ripercussioni negative sulla
professione, però, lo status di mediatore culturale conferisce una certa importanza che colloca il
professionista su un livello più alto rispetto al semplice straniero, anche se generalmente il potere
contrattuale di questo all’interno dei servizi è piuttosto scarso, a causa dell’elevata diffusione di
contratti atipici o a chiamata, o collaborazioni a progetto.
Infatti, è rimessa all’operatore la scelta di avvalersi o meno del mediatore culturale, in quanto si tratta
di una figura professionale, solitamente, esterna al servizio; nonostante si ritenga che la presenza del
mediatore culturale non dovrebbe essere saltuaria, connessa a situazioni di emergenza, bensì andrebbe
considerata come risorsa che porta gli operatori a riflettere sui propri approcci verso gli utenti
immigrati e che permette una partecipazione attiva nelle diverse fasi degli interventi e nella
progettualità all’interno dei servizi.
Ciò posto, si può facilmente cogliere l’importanza di garantire una formazione omogenea, di costruire
un codice deontologico dei mediatori culturali, di istituire di un albo professionale di tale categoria,
in modo tale che venga data la giusta e adeguata visibilità e che venga riconosciuto un più ampio
raggio di azione e un maggiore riconoscimento sociale e formale a questa professione.
Nello svolgimento della propria attività, il mediatore culturale si trova continuamente in una
situazione dominata dal conflitto e dall’emotività, che richiede notevoli capacità per potere gestire le
problematiche che si presentano, per valutare e autovalutarsi nel sistema delle rappresentazioni e nelle
modalità di approccio.
Inoltre, la delicatezza dei contesti in cui si inserisce impone al mediatore di mostrare una certa
empatia, mantenendo, al contempo, un certo distacco dalle diverse situazioni, oltre a richiedere una
particolare abilità nel contemperare i bisogni dell’utenza immigrata con il mandato istituzionale del
servizio in cui la mediazione si inserisce.

49
Ponendosi come un soggetto terzo, il mediatore culturale rischia di facilitare uno sbilanciamento tra
le richieste degli immigrati volte a ottenere dei vantaggi con le esigenze di integrazione e di controllo
sociale che devono essere soddisfatte dai servizi.
Dunque, al mediatore è affidato l’arduo compito di non farsi trascinare da queste forze contrapposte
e contrarie ma cercare di creare una relazione il più possibile paritaria tra i protagonisti del confronto.
Tuttavia, tale compito presenta notevoli rischi, considerando che anche il futuro della professione del
mediatore culturale dipende, in massima parte, sia dalle risorse finanziarie e dalle richieste
istituzionali, sia dalla stessa presenza dell’utenza immigrata; dunque, egli deve riuscire a non
immedesimarsi nella situazione dei propri connazionali e a non difendere la propria professionalità
di mediatore con un preciso mandato istituzionale.
Un altro rischio in cui può incorrere il mediatore è quello di non essere riconosciuto nel suo ruolo,
perchè considerato un traditore sia dagli utenti immigrati sia dagli operatori del servizio, oppure, al
contrario, di considerarsi il protagonista del dibattito, incentrando su di sé la relazione, facendo sentire
estranei ed esclusi dalla comunicazione i soggetti coinvolti, creando un sentimento di distacco e
sfiducia tra le parti.

50
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 3 - IL MEDIATORE CULTURALE

3a Lezione - Il processo di acculturazione

Ricollegandoci alla lezione precedente, si è già detto che il mediatore culturale, nell’esercizio della
propria attività, deve riuscire a non farsi coinvolgere dalle parti antagoniste, sposando gli interessi di
una piuttosto che quelli dell’altra, bensì, egli è tenuto ad agevolare una loro relazione su un piano di
parità, senza mostrare alcuna preferenza per uno dei soggetti coinvolti, riconoscendo maggiore
importanza e valore ai relativi interessi.
Invero, non si tratta di un compito semplice, poiché il mediatore potrebbe immedesimarsi nella
posizione, sicuramente più delicata, dell’utente straniero, il quale ha dovuto affrontare difficoltà e
sofferenze per potersi inserire e integrare nella società di accoglienza, anche in considerazione di un
possibile sentimento di rabbia e frustrazione causato dalla posizione di asimmetria percepita
all’interno del servizio in cui svolge la propria attività, dallo scarso riconoscimento della professione,
dal pregiudizio degli operatori dei servizi, dalle condizioni di scarso potere contrattuale e di incertezza
nella stabilità lavorativa, o ancora dalla percezione di scarso cambiamento da parte della società,
nonostante gli sforzi nella professione.
Analogamente, il mediatore potrebbe assumere un comportamento del tutto distaccato rispetto
all’utente immigrato, cercando di favorire gli interessi del servizio e della società di accoglienza,
dovuto ad una considerazione negativa degli stranieri, ritenuti, quasi, incapaci di partecipare
attivamente ed efficacemente nel processo teso ad una piena e completa integrazione nel Paese di
accoglienza.
Dunque, in tale seconda ipotesi, il mediatore rischia di esaltare le procedure e le regole del servizio
in cui opera la mediazione o di esprimere una sorta di giudizio sfavorevole dell’utente straniero, che
si traduce in una forma di chiusura o di messa alla prova nei confronti di quest’ultimo.
Ciò posto, appare evidente che un’eccessiva immedesimazione nelle parti, a prescindere da quale
delle due in particolare, impedisce al mediatore di comprendere i diversi punti di vista e,
conseguentemente, di potere mediare tra essi, ponendosi in assoluto contrasto con la stessa funzione
che egli deve esercitare.

51
Infatti, anche se per fare riferimento a tale figura si usano una pluralità di espressioni (es. mediatore
culturale, médiateur, mediatore linguistico, tutor interculturale, facilitatore, mediator, ponte, parents
relais) e, nonostante le diverse situazioni, nelle quali è necessaria la mediazione tra la società di
accoglienza e chi vuole entrare a farne parte, comportano che tale attività venga intesa in maniera
differente, il mediatore rappresenta sempre una sorta di passepartout, in grado, in ogni singolo caso
concreto, di permettere qualsiasi forma di comunicazione e accoglimento, di gestire le differenze con
contestuale riduzione dei conflitti, di esplicitare il senso delle norme e delle regole, di garantire
l’accesso e l’uso dei servizi e il godimento dei diritti ai nuovi cittadini, sempre tenendo in
considerazione le diverse culture coinvolte.
Dunque, a sostegno della necessità che il mediatore sia un professionista terzo e imparziale che non
si lascia coinvolgere dalle situazioni che gli si presentano nello svolgimento della sua attività, è la
circostanza che egli viene considerato una figura “ponte”, il cui compito è proprio quello di creare
legami tra soggetti diversi, ma, affinché riesca a perseguire tale scopo, deve spesso porre rimedio agli
episodi di conflitto, attenuando le tensioni e assottigliando le dissonanze.
D’altronde, anche in considerazione del fatto che la figura del mediatore culturale nasce in Italia, così
come in Europa, con la seconda fase del ciclo migratorio, che ha comportato la necessità di inserire
non semplicemente i singoli ma interi nuclei familiari, tale professionista, per consentire la nascita di
una nuova relazione, deve riuscire a sviluppare in entrambe le parti la capacità di ascoltare, di aprirsi
a nuove vedute, di scegliere sempre le modalità più adeguate per comunicare, individuando anche i
temi e gli argomenti più appropriati.
Pertanto, l’obiettivo del mediatore non deve essere quello di costruire un nuovo e unico sistema di
valori, bensì quello di dare vita a uno spazio che li contenga, consentendo la coesistenza di quelli
originati dalle diverse culture di provenienza e quelli prodotti a seguito dell’incontro delle stesse.
A questo punto, occorre soffermarsi sui fenomeni che si verificano nel momento in cui due gruppi di
individui entrano in contatto tra loro, provocando un mutamento dei modelli culturali, quindi, sul
processo di acculturazione, ossia di apprendimento reciproco che coinvolge più parti.
Nell’ambito di tale procedura, l’intervento di mediazione si può scomporre in quattro livelli:
orientativo – informativo, linguistico – comunicativo, psico - sociale e relazionale, culturale.
Il primo rappresenta il momento iniziale in cui entra in azione il mediatore, in quanto si colloca nella
preliminare fase di incontro e di accoglienza, nella quale la distanza culturale è massima e le difficoltà
linguistiche sono notevoli, per cui occorre che il professionista, da un lato, informi, traduca, avvicini
al servizio rendendolo comprensibile e accessibile, e, dall’altro lato, che specifichi le particolarità
culturali e, soprattutto, le differenze, in modo da preparare anche gli operatori.
Nel secondo piano, la comunicazione richiede una vera e propria traduzione, per consentire di

52
comprendere quanto viene detto, dunque, il mediatore con tale compito deve essere in grado di
prevenire possibili conflitti e tensioni, di chiarire ciò che è implicito, rendendo manifeste le domande
silenziose e taciute; addirittura, in questa fase, egli può assumere le vesti di traduttore, nei soli casi di
sua mancanza, poiché tale funzione rientra nelle mansioni del mediatore solo in determinate
condizioni.
Semmai, quest’ultimo è tenuto a scomporre in ogni loro parte i significati, al fine di rendere
comprensibile ciò che le due culture tentano di dirsi, mediando, appunto, termini e situazioni, andando
oltre la semplice traduzione letterale, la quale, pur avendo un’importanza fondamentale, va sempre
guardata con gli occhi delle parti che entrano in contatto.
Il terzo livello comporta uno spostamento dell’attenzione sulle relazioni e, in particolare, sull’analisi
dei bisogni e delle domande, per capire quali sono le reali necessità delle due parti, pertanto, il
mediatore deve guardare la relazione che lui stesso aiuta a sviluppare, fornendo l’aiuto richiesto,
anche a livello emotivo, in modo da trasformare le situazioni di ansia in qualcosa di positivo,
riorganizzando, quando necessario, il servizio, rendendolo più vivibile per entrambe le parti, evitando
tutte le situazioni che possono provocare frustrazione e conflitto.
Infine, l’ultimo livello si concentra sull’incontro tra culture diverse, concepite come un complesso di
valori che il mediatore deve conoscere in modo approfondito, in considerazione del fatto che, qualora
due culture siano molto distanti tra loro, vi sono dei comportamenti e delle usanze inspiegabili,
rendendo necessaria la presenza di una persona che aiuti le due parti a comprendere i significati di
determinati gesti e atteggiamenti, in modo da facilitare l’incontro, prevenendo eventuali
incomprensioni e risolvendo tensioni legate al proprio bagaglio culturale.
Invero, il mediatore dovrebbe essere un esperto di pedagogia interculturale, in modo tale che, con le
sue specifiche competenze e conoscenze, riesca a rendere l’incontro tra due culture più ampio, non
limitandosi a chiarire ed esternare in termini facilmente comprensibili ciò che esse hanno da dirsi.
Alla luce di quanto sinora analizzato emerge, chiaramente, che il ruolo del mediatore non si limita a
facilitare la comunicazione e il dialogo tra diverse realtà culturali, bensì, a questo spetta il
fondamentale compito di stemperare qualsiasi possibile conflitto, ragion per cui, per riuscire a
svolgere tale funzione in modo adeguato, tale professionista è tenuto e sviluppare delle capacità di
decentramento e di assumere punti di vista altrui.
Su questo punto, può essere utile soffermarsi sul contributo fornito da Anolli (1998), il quale definisce
la cultura come “una griglia interpretativa della realtà”, che consente all’individuo che la possiede di
comprendere tacitamente le cose che lo circondano.
Dunque, la cultura potrebbe diventare un paio di occhiali che, se indossati, permettono di guardare il
mondo, cogliendone i valori, le norme morali, i significati, le credenze e le pratiche idonee per agire

53
e pensare; così, attraverso tali lenti, è possibile guardare l’essenza e il nucleo fondamentale delle
culture, o meglio, tutte le conoscenze schematiche, strutturate secondo una rigida organizzazione
dimensionale e gerarchica, attorno a eventi centrali, che mostrano quali sono le linee guida da seguire
nei propri comportamenti e nella lettura delle situazioni.
Un esempio molto semplice che mostra come sia necessario l’ausilio di un mediatore è rinvenibile in
una situazione in cui due persone, appartenenti a culture molto distanti tra loro, possono interpretare
in maniera completamente diversa un gesto banale e quotidiano, come lo può essere l’accavallare una
gamba sull’altra quando si parla seduti uno di fronte all’altro.
Infatti, per la gran parte della cultura orientale, la quale conferisce particolare importanza ai
movimenti del corpo, questa posizione delle gambe, che comporta un piede puntato verso
l’interlocutore che si ha davanti, è un segno di profonda maleducazione e di non rispetto per l’altro.
Quindi, in una situazione del genere, occorre che un soggetto terzo spieghi il significato di tale gesto
ad una delle parti, altrimenti non è possibile evitare situazioni di conflitto, creando una vera e propria
impasse culturale.

54
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 3 - IL MEDIATORE CULTURALE

4a Lezione - Il mediatore e i suoi campi di azione

Nella lezione precedente sono stati analizzati i quattro livelli in cui un mediatore interculturale deve
agire, adesso, invece, occorre soffermarsi sui differenti campi di azione nei quali questa figura deve
scendere in gioco.
Come già detto, il mediatore non è un professionista che interviene solamente nel momento in cui si
verifica una situazione di tensione e di conflitto, a causa dell’incapacità delle parti coinvolte in una
relazione appartenenti a culture diverse, di dialogare e comunicare tra loro senza che si fraintendano
a vicenda; così come, egli non è definibile semplicemente come colui che accompagna e assiste il
bambino straniero nel suo inserimento nel paese di accoglienza.
In realtà, la figura oggetto di studio presenta tratti molto complessi, dovuti anche al suo carattere di
novità, alla quale sono assegnati svariati compiti in una moltitudine di campi di azione.
Più specificatamente, tra i contesti in cui interviene il mediatore se ne possono individuare quattro,
attraverso i quali si rende possibile delineare e definire tale figura professionale, chiarendone
l’essenza.
La maggior parte della letteratura sul tema ritiene che i fronti su cui la mediazione lavora riguardano
i soggetti coinvolti in queste relazioni tra popolazioni locali e straniere, e in particolare si tratta dei
bambini immigrati, delle famiglie immigrate, degli insegnanti e degli operatori e dei bambini
autoctoni.
Per quanto riguarda i primi, il mediatore è tenuto ad assistere il bambino straniero nella fase iniziale
di accoglienza e di inserimento, innanzitutto, aiutandolo a ricostruire la biografia e la storia scolastica
precedente e, soprattutto, se ci si pone dal punto di vista del minore, deve rappresentare una figura di
ponte e di accompagnamento che mette in collegamento le due diverse culture.
Sempre con riferimento a tale soggetto, il mediatore deve anche esaltare il prestigio della cultura e
della lingua del nuovo arrivato, ad esempio programmando e organizzando attività didattiche con i
colleghi docenti.
Infine, come già detto nella lezione precedente quando si è analizzato il livello psico-sociale

55
dell’attività di mediazione, il professionista deve svolgere l’ulteriore funzione di sostenere il
bambino, considerando tutte le sue ansie, dovute al suo inserimento nelle classi di un paese straniero.
Al contempo, la scolarizzazione del proprio figlio, soprattutto in una situazione di nuova migrazione,
costituisce un momento importante della vita familiare, a prescindere dal contesto culturale di
riferimento.
Tuttavia, si tratta di un passo che per molte famiglie immigrate rappresenta un primo contatto con le
istituzioni e con l’inserimento nella società d’accoglienza, che richiede l’intervento del mediatore, il
cui compito fondamentale, in tal caso, è appunto quello di mediare tra la scuola, la società, le famiglie
e i suoi bambini.
Infatti, occorre, in molti casi, che l’accesso ai servizi venga seguito, poiché si presentano plurimi
ostacoli, come quelli connessi alla lingua, i quali sono superabili grazie all’intervento attivo di
soggetti terzi.
Inoltre, possedere corrette e complete informazioni relative al sistema scolastico del paese di
accoglienza è molto importante, in quanto aiuta a prevenire possibili fraintendimenti culturali degli
utenti stranieri che richiedono di accedere al servizio.
D’altronde, come sostenuto da Anna Belpiede (2002), è importante che la strada della mediazione
passi attraverso il contesto familiare, in modo tale che anche le varie famiglie vengano stimolate a
“venir fuori”, senza che esse si fossilizzino su modelli tradizionali di trasmissione della loro cultura,
affinché possa avvenire il riconoscimento delle loro comunità, unitamente alle proprie tradizioni e,
più in generale, della cultura di origine da parte della società di accoglienza.
Dunque, il mediatore deve aiutare i genitori nel loro primo approccio con la scuola; ciò comporta,
conseguentemente, che anche gli insegnanti hanno un forte bisogno di un intervento del medesimo
tipo, per potere fronteggiare le iniziali difficoltà comunicative, soprattutto legate all’accoglienza e
all’inserimento.
Del resto, “(...) ignorare la sofferenza dell’adulto significa non riconoscere le dinamiche di fallimento
che egli avverte rispetto alla funzione docente (...)” (Sidoli, 2002, p. 32).
Per di più, il fatto che il mediatore conosce bene la situazione del paese d’origine dei bambini, gli
consente di spiegarne la cultura, prevenendo, anche in questo caso, possibili fraintendimenti e
incomprensioni.
In siffatta maniera, venendo a conoscenza dei modelli educativi e scolastici seguiti nei paesi di
immigrazione, il docente è molto aiutato nell’approccio sia con i bambini sia con i loro genitori.
Ad esempio, in alcune culture il rapporto tra l’insegnante e l’allievo è connotato dalla prossimità
relazionale, in altre, invece, esso prevede il distacco affettivo, pertanto, la comunicazione è connotata
dall’incertezza quando i codici di valori differiscono tra loro e, considerato che le incomprensioni e i

56
fraintendimenti avvengono anche tra coloro che appartengono alla medesima cultura, il rischio è
ancora più elevato nelle situazioni connotate da differenze significative.
Per cui, in tali situazioni, l’insegnante deve diventare un modello, rispettando i tempi dell’altro,
mostrando una certa flessibilità nell’assumere un dato punto di vista, analizzandone la sua reale
portata comunicativa.
Un’ulteriore funzione che spetta al mediatore è quella di collaborare con i docenti nella
programmazione delle attività interculturali e nell’insegnamento della lingua.
Infine, è importante che le culture e le lingue di origine dei bambini immigrati vengano presentate a
tutta la classe, in quanto, per potere assumere un punto di vista diverso dal proprio è necessario
conoscere altre realtà; tra l’altro, il mediatore, con le sue abilità e competenze specifiche riesce a
suscitare maggiore interesse per la lingua e la cultura del minore straniero, riuscendo a conferirle un
elevato prestigio.
Così, la spiegazione di una cultura, attraverso la traduzione di alcune parole o anche con la sola
narrazione interculturale e il gioco, facilita i bambini autoctoni nel comprendere chi hanno di fronte
e come fare a relazionarsi con la diversità, preparandosi ad accoglierla senza cadere in incomprensioni
e conflitti.
Vista l’importanza del ruolo svolto dal mediatore, viene spontaneo interrogarsi sulle caratteristiche
che un mediatore deve possedere e quale formazione avere.
Sicuramente, non è sufficiente la sola conoscenza della lingua del bambino immigrato, bensì occorre
comprenderne la sua cultura, in quanto l’equivalenza “lingua = cultura = identità” non trova
accoglimento.
Ecco perché, come già detto nelle lezioni precedenti, il mediatore dovrebbe aver vissuto un percorso
di migrazione e conoscere la lingua e la cultura del Paese di provenienza dei bambini, oltre quelle
dello Stato di accoglienza, altrimenti non si potrebbe parlare di una figura considerata come un “ponte
tra culture”.
Però, va precisato che la nazionalità del mediatore non deve necessariamente essere la stessa dello
straniero o del Paese di accoglienza, ma ciò che rileva è la conoscenza della cultura di entrambi i
paesi e avere una certa familiarità con la situazione psicologica legata al dovere migrare.
Infatti, si rivela di fondamentale importanza per il mediatore rielaborare la propria esperienza
migratoria, dato che solo in tal modo egli è in grado di capire i punti di contatto delle culture e quali
sono i passaggi difficili, cosicché il suo vissuto gli permette di interpretare la domanda e fornirle una
risposta, volta a favorire l’incontro tra le culture.
Secondo Demetrio, Castiglioni & Cantù (1996) occorre utilizzare l’approccio autobiografico, cioè
ristabilire il “senso” della propria immagine professionale, ponendolo in relazione con la propria

57
cultura psico-sociale e cognitiva d’origine.
Dunque, gli autori ritengono che per comprendere il passato altrui, il mediatore deve ricorrere alla
propria esperienza, in modo tale da rivisitare sistematicamente il proprio percorso esistenziale; così,
utilizzare questo metodo significherebbe sperimentare personalmente i meccanismi del dialogo
interculturale, cioè una forma di autorappresentazione, un modo per parlare del proprio passato, delle
proprie origini e dei propri ricordi.
Detto ciò, si può affermare che il mediatore deve per prima cosa interpretare la sua cultura, in
considerazione dei comportamenti e delle visioni personali della realtà, dunque, egli è, innanzitutto,
mediatore di se stesso e poi degli altri.
In tempi recenti, un contributo alla formazione del mediatore è rinvenibile in ambito universitario,
ove vengono introdotti corsi di laurea adeguati e inserite discipline accademiche, come la pedagogia
interculturale, l’antropologia culturale ed etnica, la mediazione.
Nonostante il mediatore debba essere un tecnico competente della comunicazione interculturale, nella
realtà, in molte situazioni, si è molto distanti dalla figura di un professionista, dotato di un adeguato
livello di istruzione, con un percorso pedagogico alle spalle e competenze in determinate discipline,
poiché, spesso i mediatori provengono semplicemente dalla comunità dei bambini, senza neanche
rendersi conto di assolvere questa funzione.
A volte, infatti, chi conosce meglio la lingua del Paese di immigrazione, si ritrova ad aiutare maestre,
bambini e famiglie nei primi momenti di contatto tra due culture diverse, anche se, ovviamente, il
sostegno può essere più efficace se fornito da un mediatore preparato.
Indubbiamente, la mancanza di un profilo professionale del mediatore con la normativa di
riferimento, in molti paesi europei, rende questa figura ancora molto vaga, anche se si assiste ad
un’apertura in tal senso in vari Stati, compiendo notevoli progressi nell’area della mediazione
culturale.

58
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 3 - IL MEDIATORE CULTURALE

5a Lezione - Il mediatore culturale e il sistema scolastico

Il ruolo del mediatore interculturale è ancora oggetto di discussioni all’interno della società italiana,
la cui definizione non è unica per la versatilità delle sue capacità e l’eterogeneità dei relativi ambiti
lavorativi in cui è necessaria la sua presenza, comportando alcune difficoltà nella descrizione delle
sue competenze e capacità.
Non è raro che il compito del mediatore venga confuso con quello dell’interprete, riconoscendogli,
quindi, una funzione esclusivamente linguistica, non considerando una caratteristica fondamentale
esclusiva della mediazione rilevante sul piano sociale, cioè favorire le relazioni tra due parti.
Uno degli ambiti, di cui si è accennato nelle lezioni precedenti, in cui il mediatore viene chiamato a
operare è il settore educativo e, principalmente, nella scuola primaria; infatti, prendendo in
considerazione il sistema scolastico italiano, l’esigenza di personale specializzato negli istituti è
legato all’elevatissimo numero di alunni stranieri, i quali sono aumentati esponenzialmente nel corso
degli ultimi decenni.
Inoltre, l’inserimento degli studenti immigrati nelle scuole italiane non avviene con le medesime
modalità; ad esempio, ci sono differenze fra un bambino figlio di stranieri, ma nato in Italia, ove può
avere anche frequentato l’asilo, ed un minore che arriva nel territorio repubblicano da un Paese estero
e viene inserito nella scuola ad anno scolastico già iniziato.
Oltre a questo aspetto, bisogna considerare ulteriori fattori, quali la specifica cultura da cui il bambino
proviene, i motivi che hanno spinto la famiglia a migrare, il tipo di inserimento di quest’ultima nel
contesto sociale, e così via.
Dunque, l’attività che il mediatore è chiamato a svolgere è complessa e diversificata e si muove in
due differenti direzioni, cioè dal bambino alla scuola e viceversa.
Percorrendo il primo binario, il mediatore incontra alcune necessità nei confronti degli studenti
stranieri, quali la conoscenza della lingua e della cultura di origine del bambino, il dovere costruire
un canale di comunicazione attivo, la definizione delle giuste modalità di insegnamento della lingua
italiana, senza però prendere il posto degli insegnanti; invece, rispetto alla famiglia del minore, egli

59
deve dare chiare informazioni sul sistema educativo italiano, orientandoli verso il nuovo panorama
culturale.
Sul percorso inverso, il mediatore deve fornire agli insegnanti degli strumenti adeguati alla
risoluzione di ipotetiche difficoltà comunicative nei primi momenti dell’inserimento e, pertanto, è
tenuto a reperire informazioni riguardanti la storia e la crescita del bambino.
Contestualmente, al mediatore spetta un ruolo importante anche nei confronti degli studenti italiani
compagni di classe di quello straniero, i quali devono essere messi nelle condizioni di comprendere
una cultura diversa dalla loro.
Ciò posto, è evidente la complessità del compito della figura in esame in ambito educativo, il quale
gli impone di attenersi fedelmente a tutti gli aspetti sopra elencati in modo da consentire l’inserimento
di un alunno straniero nel sistema scolastico italiano.
Vista la delicatezza dell’operazione, il Ministero dell’Istruzione, coadiuvato dalle scuole, ha sempre
prestato attenzione a queste problematiche, occupandosi della formazione del personale docente e
dirigente mediante la predisposizione di specifici corsi sull’educazione interculturale; sul piano
dell’organizzazione scolastica, creando all’interno del collegio docenti delle commissioni dedicate
all’intercultura e all’accoglienza e prevedendo la predisposizione di documentazioni plurilingue; a
livello didattico, utilizzando materiale formativo apposito e allestendo laboratori linguistici.
A partire dagli anni Novanta, la figura professionale del mediatore interculturale si è inserita sempre
più nel sistema scolastico, nonostante l’incertezza della definizione normativa di tale ruolo, infatti, si
adottano vari testi normativi riguardanti proprio la mediazione in ambito scolastico, che analizziamo
brevemente qui di seguito.
Innanzitutto, con la Risoluzione Europea (89/C-153/02) del Consiglio e dei Ministri dell’istruzione
riuniti in sede di Consiglio, del 22 maggio 1989, ci si è occupati della scolarizzazione dei figli degli
zingari e dei girovaghi, prevedendo la formazione e l’impiego di insegnanti aventi tali origini, nei
casi in cui ciò sia possibile, prevedendo, dunque, un mediatore appartenente alla stessa cultura, pur
non essendo chiaro se tale figura dovesse essere interna alla scuola o un esperto esterno.
Con la Circolare Ministeriale n. 301/89 si riconosce notevole importanza didattica al clima relazionale
presente nelle classi e, in generale, nella scuola, in quanto gli alunni appartenenti ad altre etnie, specie
se di recente immigrazione, devono trovare stimoli comunicativi dall’intervento di coetanei stranieri,
che iniziano ad avere dimestichezza con la lingua italiana, e dalla partecipazione di adulti capaci di
comunicare sia nella lingua della Repubblica sia nell’altra lingua.
Con la successiva Circolare Ministeriale n. 205/90, si riconosce che il compito della scuola,
nell’ambito dell’educazione interculturale, è quello di mediare fra le diverse culture, la quale non
deve ridurre gli apporti culturali differenti, bensì deve promuovere un continuo e produttivo confronto

60
fra diversi modelli.
Ciò perché si ritiene che l’educazione interculturale avvalori il significato di democrazia, in quanto
la diversità culturale viene vista come una risorsa positiva per i complessi processi di crescita della
società e delle persone, poiché il riconoscimento dell’identità culturale degli individui, nella
quotidiana ricerca di dialogo, di comprensione e di collaborazione, deve avvenire in una prospettiva
di reciproco arricchimento.
Si prevede, altresì, l’intervento di esperti per favorire la relazione tra la scuola e la famiglia; infine,
grazie all’intervento degli enti locali e la collaborazione delle comunità e delle famiglie, in alcune
sedi scolastiche vengono impiegati mediatori madrelingua, in modo da sostenere l’inserimento e
attuare le iniziative volte alla valorizzazione della lingua e della cultura di origine.
Nel 1998 viene emanata la Legge n. 40, il cui art. 36 introduce dei criteri per il riconoscimento dei
titoli di studio e degli studi effettuati nei Paesi di provenienza, per consentire l’inserimento scolastico,
nonché dei criteri e delle modalità di comunicazione con le famiglie degli alunni stranieri, anche con
l’ausilio di mediatori culturali qualificati.
Il seguente art. 40 della medesima fonte legislativa prevede delle misure di integrazione sociale,
stabilendo che “Lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni, nell’ambito delle proprie competenze,
anche in collaborazione con le associazioni di stranieri e con le organizzazioni stabilmente operanti
in loro favore, nonché in collaborazione con le autorità o con enti pubblici e privati dei Paesi di
origine, favoriscono: (...) la realizzazione di convenzioni con associazioni regolarmente iscritte nel
registro di cui al comma 2 per l’impiego all’interno delle proprie strutture di stranieri, titolari di carta
di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a due anni, in qualità di mediatori
interculturali al fine di agevolare i rapporti tra le singole amministrazioni e gli stranieri appartenenti
ai diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici e religiosi (...)”.
L’art. 46 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 394/99 prevede che “il collegio docenti
formula proposte in ordine ai criteri e alle modalità per la comunicazione tra scuola e famiglia degli
alunni stranieri. Ove necessario, anche attraverso intese con l’ente locale, l’istituzione scolastica si
avvale dell’opera di mediatori culturali qualificati”; “il consiglio di istituto promuove intese con
associazioni straniere (...) allo scopo di stipulare convenzioni e accordi per attivare progetti di
accoglienza, iniziative di educazione interculturale, azioni a tutela della cultura e della lingua di
origine e lo studio delle lingue straniere più diffuse a livello internazionale.
Il Decreto Ministeriale n. 202/2000, all’art. 5 si occupa della formazione finalizzata, prevedendo che
gli interventi relativi agli istituti contrattuali comprendono per gli insegnanti la realizzazione degli
interventi di formazione volti a sostenere i progetti delle scuole collocate in aree a rischio; la
formazione a supporto delle scuole a forte processo immigratorio, prevedendo la disseminazione del

61
materiale di pronto intervento, l’estensione di corsi universitari per la didattica dell’italiano come L2,
l’avvio di un progetto di formazione di mediatori linguistici e di preparazione per la tutela della lingua
di origine.
Infine, anche le legislazioni regionali si sono occupate del tema in analisi, infatti tali enti locali, sulla
base delle normative sopra citate, hanno prodotto una grande quantità di leggi; ad esempio, una legge
regionale del Piemonte ha permesso di finanziare percorsi di utilizzo di mediatori a livello scolastico.
Tutte queste norme appena elencate non consentono di delineare in un solo modo il ruolo del
mediatore interlinguistico e interculturale, in quanto si riferiscono esclusivamente all’ambito
educazionale; infatti, se ci si sposta ad analizzare le altre aree (es. sanitaria, giudiziaria) il numero di
disposizioni aumenta notevolmente.
Sicuramente, però, il profilo normativo di tale figura professionale è più chiaro e definito, al punto da
potere individuare con maggiore certezza le competenze richieste all’interno del settore scolastico,
ove il mediatore assume il ruolo di operatore socio educativo, che affianca gli insegnanti
nell’educazione e nell’istruzione degli alunni stranieri, occupandosi, in primo luogo, dell’accoglienza
e dell’inserimento degli stessi.

62
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 3 - IL MEDIATORE CULTURALE

BIBLIOGRAFIA

 Anolli, L. (1998). Fondamenti di psicologia. Bologna: Il Mulino.


 Belpiede, A. (2002). Farcela nella società senza staccarsi dalle proprie radici? in “Animazione
Sociale” 3. Torino: Gruppo Abele.
 Demetrio, D., Castiglioni, M., Cantù, S. (1996). Insegnanti mediatori interculturali: esperienze
di formazione con la metodologia autobiografica in Sirna, C. (Ed.). Docenti e formazione
interculturale. Torino: Il segnalibro.
 Sidoli, R. (2002). Star bene a Babele. Brescia: La Scuola.

63
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 4 - ETICA E DEONTOLOGIA DEL MEDIATORE CULTURALE

1a Lezione - L’etica

In tempi recenti, il tema dell’etica professionale è diventato sempre più importante nell’ambito della
traduzione e dell’interpretariato, soprattutto nella mediazione linguistica, la quale consiste nel
compito di agevolare la comunicazione tra un rappresentante di un’istituzione, pubblica o privata,
che offre servizi basilari ai cittadini (ospedali, scuole, forze dell’ordine, tribunali, centri di impiego,
servizi sociali, ecc.) e i cittadini stessi, i quali non parlano la lingua italiana.
Invece, se si vuole estendere tale tematica anche alla mediazione culturale occorre soffermarsi su una
serie di riflessioni deontologiche più complesse, riguardanti la natura dello scambio fra le parti
interagenti, che richiede una specifica competenza psico-sociale.
In ogni caso, l’etica professionale, o meglio la deontologia, svolge un ruolo tanto importante quanto
complesso, poiché entrano in gioco una serie di aspetti che si intrecciano con altri settori della vita
umana e con altre discipline.
Ad esempio, in relazione alla nostra analisi, la mediazione linguistica e, quindi, anche quella
interculturale entra in stretto contatto, a volte, addirittura, in conflitto, con le deontologie delle altre
professioni, quali quella sanitaria, giuridica, scolastica e dei servizi sociali, in quanto si tratta di ambiti
professionali che presentano programmi propri, direttive e obiettivi specifici, i quali si possono
discostare dalle regole deontologiche relative all’attività di mediazione.
Sicuramente, alla base della deontologia del mediatore culturale e linguistico ci sono alcuni valori,
quali la precisione, l’imparzialità e la riservatezza; anche se, invero, si tratta di una figura dai confini
non proprio nitidi e definiti, con un ruolo più o meno ampio, a seconda del punto di vista preso in
considerazione, ma è certo che una funzione fondamentale sia quella di colmare un divario linguistico
tra l’istituzione e l’utente straniero, in modo da agevolarne la comunicazione ed evitare il possibile
insorgere di conflitti e fraintendimenti.
In merito all’approccio utilizzato dal mediatore, le scuole di pensiero, nella letteratura internazionale,
fanno una distinzione tra quello mediato e quello diretto, poiché il primo ha una connotazione più
ampia e un campo d’azione più esteso e maggiormente attivo in relazione all’iniziativa personale del
professionista, invece, il secondo mostra un atteggiamento più prudente dello stesso rispetto alla

64
traduzione e al proprio coinvolgimento.
Questa differenziazione comporta un cambiamento del paradigma negli studi umanistici, ove si
richiede che “l’interprete” svolga il suo ruolo in maniera neutrale (es. l’antropologo deve limitarsi ad
essere un mero osservatore), in modo da avere un impatto modesto sull’evento comunicativo.
Si tratta di una nuova visione che ha anche determinato la nascita di alcune metafore in letteratura,
proprio per mostrare la maggiore soggettività (c.d. agency) e partecipazione dell’interprete; infatti,
mentre nel passato si parlava di tale figura in termini di ‘lastra di vetro’, adesso si ricorre a espressioni
dotate di un significato opposto, quali il ‘ponte’, il ‘costruttore’, il ‘coordinatore di conversazione’,
che mostrano come il mediatore non sia più ‘invisibile’ ma ‘visibile’.
L’obiettivo di questo studio è mostrare il legame fra l’etica professionale della mediazione e l’etica
filosofica occidentale, così come quello di illustrare in che modo la deontologia di tale professione
rispecchia i principi fondamentali della filosofia morale, pertanto, qui di seguito occorre soffermarsi
brevemente sullo sviluppo della nozione di ‘etica’, con i relativi concetti di ‘bene’ e ‘morale’ nella
filosofia.
A questo punto, preliminarmente è opportuno specificare che la filosofia occidentale pone in una
posizione centrale la Ragione, la Razionalità e la Logica, ossia processi cognitivi di natura
individualista, ove la società si tende ad identificare come un aggregato o un gruppo di individui
autonomi con diritti fortemente personali, a differenza di quella orientale che privilegia la costruzione
di relazioni.
Sin dai tempi dell’antica Grecia, l’etica ha costituito un tema centrale, alla quale, insieme alle nozioni
ad essa connesse, ossia la moralità e il bene, vi si ricorre non nel senso laico di una prescrizione etica
da parte della società o di un’istituzione religiosa, bensì ci si interroga sulla questione di ‘ciò che è
sbagliato e ciò che è giusto’ (si pensi alla domanda di Socrate ‘come si dovrebbe vivere?’ e a quella
di Kant ‘qual è il mio dovere?’).
Il termine ‘etica’ deriva dal termine greco ethos, che significa “abitudini e costumi”, e indica un
codice di comportamento pratico accettato e condiviso da una data comunità; infatti, sul piano
normativo, le regole etiche mirano ad aiutare la convivenza degli individui all’interno di un gruppo,
causando il minor danno e il maggior benessere possibile, regolandone il comportamento nella
comunità.
Pertanto, l’etica è caratterizzata, da un lato, da una dimensione individuale e privata e, dall’altro, da
una collettiva e pubblica; più specificatamente, essa prescrive come un individuo deve comportarsi
in ogni situazione che si verifica nel corso della vita, essendo membro di una comunità civile e di una
professionale.
Parlando di etica, si fa riferimento sia alla metaetica, cioè alla definizione di ciò che è ‘il bene’, sia

65
all’etica normativa, ossia alle regole che devono ispirare le decisioni relative alle azioni degli
individui.
Ciò posto, l’etica studia come un individuo deve agire, il quale è tenuto a ricercare una condotta che
porta al maggior benessere e ad una vita soddisfacente, in senso platonico, per cui essa mira a
formulare un sistema in grado di determinare ciò che è buono e ciò che è male.
Quindi, la filosofia etica inizia a svilupparsi nel momento in cui ci si chiede cosa costituisce ‘il bene’,
inteso, in senso ampio, come codice di comportamento.
Gli antichi greci ripongono la loro attenzione intorno alla macro categoria dell’etica della virtù; ad
esempio, per Socrate l’educazione e la filosofia tendono alla ricerca e all’amore del bene stesso, che
viene, spesso, associato alla virtù, la quale è considerata come causa del benessere, insieme alla
conoscenza; anche secondo Platone lo scopo sottostante l’agire umano è la ricerca del bene, per cui
un eventuale comportamento scorretto si ritiene dovuto a un errore o all’ignoranza, ma non a un
intento volontario; infine, per Aristotele, il bene riguarda l’autore di un’azione, piuttosto che essa
stessa, per cui il volere essere buono dipende da una scelta deliberata e personale.
Anche Tommaso D’Aquino, nel combinare la teoria etica aristotelica e quella cristiana, afferma che
la distinzione tra giusto e sbagliato è connessa alla natura dell’essere umano, della quale il bene o
l’etica ne costituisce parte integrante.
La filosofia deontologica, incentrata sul concetto di obbligo o dovere, ha una fortissima incidenza sul
corso di quella morale, creando un sistema etico articolato; nel cui contesto si colloca Kant, che spinge
verso la percezione dell’individuo come membro delle società occidentali moderne e in direzione di
un senso più ampio di responsabilità individuale.
Le teorie deontologiche non sono consequenzialiste, per cui, per descrivere l’azione giusta, ricorrono
a ragioni specifiche che danno conto all’intenzione dell’agente e non alla valutazione delle
conseguenze dell’azione morale.
Secondo Kant, l’Uomo è un essere razionale, i cui obblighi discendono dalla stessa ragione, pertanto,
affinché un’azione possa dirsi buona o moralmente giusta deve essere compiuta nel rispetto del senso
del dovere e della volontà di chi la compie.
Atteso lo stretto legame con le azioni e il modo di pensare quotidiano di ogni individuo, l’etica diventa
molto più concreta quando si applicano le sue generiche leggi a casi specifici, ossia nel momento in
cui viene detto cosa si può e si deve fare e cosa no; si tratta del punto di connessione fra la filosofia,
la religione, la politica e la vita quotidiana con i bisogni basilari psicologici umani.
Sicuramente, gli aspetti più delicati dell’applicazione dell’etica riguardano la vita e la morte, (es.
l’aborto e l’eutanasia) e i diritti egualitari o civili (es. il diritto di voto delle donne), i quali richiedono
un distacco dal contesto privato per accedere a quello sociale della politica e del Governo (es. la legge

66
comunitaria o l’attività legislativa).
Tali ambiti sono oggetto di decisioni quotidiane prese nell’esercizio di alcune professioni, come
quelle relative al campo medico e giuridico, le quali devono essere, in un certo senso, protette da sé
stesse, poiché esse possono fornire il maggior beneficio ma, al contempo, creare i danni più gravi e
irreparabili ai cittadini con cui entrano in contatto; anche in considerazione del fatto che esse, rispetto
agli altri lavori, entrano più frequentemente in contatto con l’attività della mediazione.
Ad esempio, nella professione medica il valore etico fondamentale è quello di praticare al meglio le
proprie abilità, nell’interesse esclusivo del paziente, evitando di arrecargli un danno, il quale si collega
all’aspetto dell’informazione, che viene spesso rilevato come problematico dai mediatori, in quanto
è strettamente connesso a norme culturali importanti, che variano fra le diverse realtà sociali.
Invero, alcune leggi dell’etica rispecchiano valori essenziali che hanno una valenza generale, per cui
riguardano sia la deontologia della mediazione sia quella medica, come la beneficienza (l’azione non
deve essere guidata da un interesse personale), l’assenza del male (non danneggiare gli altri),
l’autonomia (il diritto di rifiutare il servizio prestato), la giustizia (sentimento che deve ispirare
l’attività svolta), la dignità del professionista e dello straniero e, infine, l’onestà (es. il rispetto del
consenso informato).

67
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 4 - ETICA E DEONTOLOGIA DEL MEDIATORE CULTURALE

2a Lezione - L’etica e la mediazione

Dalla filosofia etica è possibile estrapolare due livelli generali: uno che riguarda un’area ampia che
comprende il desiderio, in forza dell’idea platonica che la natura umana tende a ricercare il bene
(l’etica della virtù), e uno che riguarda il dovere di essere un soggetto attivo e garante del benessere
dei suoi concittadini, per esempio fornendo l’accesso ai servizi basilari, come la salute e la legge
(etica deontologica).
In relazione alla professione del mediatore, in base al primo livello egli è tenuto ad agevolare
l’accesso ai servizi di base di tutti i cittadini, in connessione con lo scopo della sua attività, ossia
quella di promuovere l’integrazione e la collaborazione tra la popolazione autoctona e quella
immigrata, anche in considerazione della non conoscenza della lingua parlata dalle rispettive parti, in
quanto il presupposto è che la natura umana sia buona, socievole e responsabile nei confronti degli
altri consociati, al fine di vivere in una collettività pacifica.
Invece, il secondo livello di etica ha delle implicazioni nel contesto della mediazione linguistica e
culturale, il quale può essere descritto come una forma di imposizione a tendere verso il bene, ossia
svolgere il compito previsto dal ruolo professionale con accuratezza, infatti, costituisce un dovere
specifico, per esempio, rendere una traduzione precisa e fedele.
Come già accennato nella lezione precedente, nella filosofia morale il bene è dato da tutto ciò che è
positivo per le persone e che aumenta il benessere dell’individuo, sia come singolo sia come parte di
una comunità; pertanto, se si trasferisce questa nozione alla disciplina e alla professione oggetto di
analisi di questo modulo, si rintracciano i tre principi fondamentali dell’etica della mediazione, vale
a dire l’accuratezza, l’imparzialità e la riservatezza e, con particolare riguardo alla mediazione
linguistica, il carattere essenziale è la completezza della comunicazione, che rappresenta proprio la
natura e la definizione del processo di traduzione stesso.
Riguardo alla professione di mediatore, l’accuratezza rappresenta il nucleo o la natura del bene,
poiché egli ha il dovere, la responsabilità e il compito di agire al meglio delle proprie possibilità,
assicurando la qualità del servizio fornito, per di più, nel caso dell’interprete, l’atto cognitivo non è

68
oggetto di alcun controllo immediato, per cui il rispetto di tale principio dipende dalla coscienza e dal
senso del dovere professionale dell’interprete.
Infatti, l’applicazione dei concetti della ragione, della razionalità e della logica alla mediazione
linguistica ha delle conseguenze sul processo di trasferimento testuale, basato sulla lingua della
traduzione e, ancora, connesso all’etica fondamentale dell’accuratezza.
Un’altra macro area è quella dell’egualitarismo e dei diritti, la quale contribuisce a formare il nucleo
della professione della mediazione linguistica, sin dal momento in cui un servizio rivolto alla
comunità viene inserito nella stessa.
D’altronde, l’essenza e la ragion d’essere della mediazione è il consentire e agevolare l’accesso ai
servizi civili fondamentali (es. salute, giustizia, educazione, impiego, servizi relativi al benessere
ecc.) a tutti i membri della società, sia autoctoni sia stranieri, includendo, quindi, anche coloro che
non parlano la lingua maggioritaria del Paese di accoglienza.
L’evoluzione della deontologia della mediazione avviene secondo le forme di un processo
professionale di gruppo e, pertanto, i relativi principi si differenziano tra le società collettive e quelle
individualiste; si tratta di due tipologie etiche che, in realtà, sono fondamentali per la creazione delle
deontologie di ogni professione.
Ciò posto, a questo punto occorre individuare la connessione tra le grandi tematiche, aventi una
connotazione morale, nella filosofia occidentale e nell’etica della mediazione culturale.
Alcuni precetti centrali per la filosofia morale e i dogmi basilari del codice dell’etica della
mediazione, e in particolare di quella linguistica, presentano un comune denominatore, ossia
l’accuratezza, la precisione, l’imparzialità e la riservatezza; essi sono dei concetti che forniscono una
sorta di definizione della professione di mediatore, in generale, e del processo stesso di traduzione
orale e scritto, in particolare.
Innanzitutto, per quanto riguarda la natura del bene, in filosofia ci si interroga se esso sia un qualcosa
di intrinseco e naturale per gli esseri umani, come sostenuto da Platone e Aristotele, espressione di
un interesse personale che conduce alla felicità; invece, nell’ambito della mediazione, fa parte della
natura di tale attività la precisione, pertanto ci si interroga sulla possibilità che tale meticolosità possa
essere totale e se il desiderio di essere diligenti sia una tendenza naturale, proveniente dall’essenza
stessa della professione in questione.
Però, in filosofia, l’idea di dovere fare del bene rappresenta un’entità sovraordinata, proveniente dal
di fuori della coscienza umana, che si rivolge e governa tutti gli esseri umani, invece, a proposito
della mediazione si può individuare un codice etico-deontologico universale, che funziona come se
fosse una legge.
Una questione importante è cosa bisogna prendere in considerazione per potere affermare o meno se

69
il bene sussiste, o meglio se occorre fare riferimento all’azione compiuta (fare del bene) o al solo
pensiero (essere buono).
Invero, si tratta di un quesito che si colloca al di fuori del regno della deontologia, poiché non ha
senso effettuare una distinzione, come invece hanno fatto Lutero e Kant, tra l’azione e l’intenzione,
per il fatto che ciò che conta realmente è solo l’azione, con il relativo risultato, la quale determina,
tra l’altro, la qualità e la resa efficace e responsabile del servizio; in ogni caso, l’idea del bene è legata
al valore dell’attività svolta.
D’altronde, il mediatore assume su di sé una responsabilità, ossia il dovere di offrire una prestazione
qualitativamente sufficiente e accurata; semmai ci si chiede se si possa configurare una forma di
responsabilità privata individuale o professionale collettiva.
Fare il bene potrebbe significare causare il danno minore, ad esempio, in assenza di una traduzione
corrispondente a livello terminologico, pragmatico o culturale, può apparire opportuno colmare le
lacune concettuali nei limiti delle possibilità del mediatore, mediante parafrasi, spiegazioni, coniando
nuove espressioni.
Ovviamente, in modo analogo ai professionisti medici e legali, anche i mediatori possono arrecare
danni alla vita delle persone, ad esempio con una traduzione sbagliata, invece, ci si chiede come questi
ultimi devono comportarsi quando, pur svolgendo la propria attività correttamente, l’interprete si
rende conto di danneggiare un soggetto terzo, cioè se tale circostanza vada considerata come una
violazione del codice etico.
In filosofia si ritiene sussistere una stretta connessione tra i mezzi utilizzati e i fini perseguiti e,
conseguentemente, ci si domanda se il ricorso a strumenti non buoni possa giustificare un risultato
finale buono; quesito che nel contesto della mediazione non viene neanche preso in considerazione,
in quanto ci si limita a osservare se lo scopo prefissato sia stato raggiunto, a prescindere dall’eventuale
mezzo negativo impiegato, quale un professionista incompetente o inesperto.
Sotto il profilo della responsabilità, essa, in filosofia, potrebbe coincidere con il fatto di essere buono,
inteso quasi come una sorta di dovere civico nei confronti della società, invece, un mediatore culturale
può soddisfare tale requisito quando pone in essere, ad esempio, una traduzione accurata, purché
sussistano due condizioni.
La prima prevede che il professionista abbia ricevuto una formazione (diventando, così, una
responsabilità comune e collettiva), e che disponga degli strumenti e i mezzi per potere diffondere il
bene (idonei per rendere una traduzione accurata, per esempio un ambiente acustico idoneo); la
seconda richiede che sia possibile effettuare una traduzione accurata e che vi sia una sufficiente
corrispondenza linguistica e concettuale tra il testo oggetto dell’attività e quello che è il risultato della
stessa.

70
Dunque, ne discende la responsabilità di essere adeguatamente informato e competente, mediante un
percorso formativo, anche da autodidatta, che rende precisi e attenti, in quanto è proprio attraverso la
formazione che si diffonde la competenza e la qualità.
Come già detto, l’obiettivo perseguito dall’etica è il perseguimento del bene che, nell’ambito della
mediazione, si traduce nel dovere di rendere un’accurata prestazione, come una corretta traduzione,
che permette di giungere ad una forma di comunicazione efficace, rispettando le informazioni rese da
entrambi gli interlocutori.
Tuttavia, può accadere che si verifichi un conflitto di interessi che costringe l’interprete a verificare
se tale situazione comporti la violazione di una regola e, a tal fine, deve prendere in considerazione
l’esito dell’azione, ossia attenzionare se essa produrrebbe maggiori vantaggi o arrecherebbe più
danni.
Così, prima di compiere un’azione il filosofo Ross suggerisce di valutare dei parametri, i quali
possono trovare applicazione nell’ambito della professione; essi sono la beneficenza, cioè fornire un
aiuto ad altre persone affinché esse possano riuscire a comunicare in modo efficace e comprendere
un enunciato; la non malvagità, per evitare di danneggiare soggetti terzi; la giustizia, garantendo
l’accesso ai servizi pubblici; e, infine, l’auto-miglioramento, in modo da essere competente attraverso
la formazione e l’autoapprendimento.
La mediazione è un’attività che coinvolge soggetti stranieri, i quali non parlano né capiscono la lingua
del Paese di accoglienza, per cui esercitare tale professione garantisce uguaglianza di fronte alla legge
e l’accesso ai servizi pubblici.
Quest’ultimo aspetto potrebbe essere incluso tra i diritti umani fondamentali, ma in pratica ciò
dipende dalla politica e dai desideri della comunità, infatti si tratta di un aspetto profondamente
culturale, fonte di dispute internazionali.

71
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 4 - ETICA E DEONTOLOGIA DEL MEDIATORE CULTURALE

3a Lezione - Il codice etico e deontologico

Come già detto nelle lezioni precedenti, l’etica è un ramo della filosofia che studia l’axiologia, ossia
l’aspetto normativo del comportamento, e attiene agli ambiti del carattere, del comportamento, della
consuetudine e del costume.
Dunque, il fondamento dell’etica è proprio quello di assegnare agli atteggiamenti umani un certo
status deontologico, vale a dire distinguerli in buoni, giusti e moralmente leciti, in contrapposizione
a comportamenti cattivi, ingiusti e moralmente inappropriati.
Pertanto, si potrebbe logicamente ritenere sussistente una condotta etica quando tutte le pratiche poste
in essere sono socialmente corrette e universalmente valide; tuttavia, gli aspetti normativi e
deontologici accettati da una società possono non essere accolti in altre.
Ciò posto, l’etica legittima tutte le azioni e le consuetudini di una data comunità, contestualizzando
comportamenti giusti e appropriati nelle situazioni di vita quotidiana; cosicché in quei contesti sociali
ove viene posta in essere una pratica etica si afferma anche il concetto di responsabilità, il quale
attiene al processo positivo di impegno a tenere condotte congrue e corrette.
Nell’esercizio di un mestiere, un atteggiamento responsabile è parte caratterizzante dell’operatore che
svolge una determinata attività, il quale dipende da plurimi aspetti, come la tecnica, ossia i presupposti
scientifici del lavoro compiuto e delle funzioni proprie della professione; la normativa, cioè tutte le
leggi che disciplinano l’attività; la deontologia e i valori etici condivisi, derivanti dalla coscienza
personale.
L’elemento maggiormente rilevante, nell’ambito di una professione, è la collocazione dei principi
etici e dei valori considerati corretti e spontanei all’interno della società di appartenenza, poiché ad
essi si collega un senso di responsabilità, cosicché danno vita ad un codice deontologico proprio di
ogni attività lavorativa.
Infatti, ogni professione ha, anche se con determinazioni normative diverse, un codice deontologico,
nel quale si rinvengono importanti informazioni circa il corretto espletamento di una determinata
funzione da parte dell’operatore.

72
Per quanto riguarda la mediazione culturale, anche chi riveste il ruolo di mediatore deve rispettare un
rigoroso codice deontologico nell’esercizio della sua professione, in quanto una caratteristica sottesa
a questa figura è la neutralità, in quanto egli deve porsi nella giusta distanza tra tutte le parti coinvolte
nella relazione, mantenendo un appropriato distacco emozionale e rispettando l’aspetto del
decentramento culturale.
D’altronde, ciò che ci si aspetta dal mediatore è la creazione di un clima di fiducia e di confidenza tra
le parti in causa e, di conseguenza, di un rapporto caratterizzato dalla completa trasparenza delle
informazioni, in modo da garantire che tutte le comunicazioni non vengano distorte da correttivi di
tipo emozionale o da motivazioni ingiustificate, quali i pregiudizi.
Collocandosi all’interno del lavoro dei servizi pubblici, il mediatore deve rispettare delle regole
implicite alla professione svolta, infatti, egli è tenuto ad accordarsi con l’utente per l’intervento della
mediazione; a presentarsi come mediatore coadiuvato da un operatore; a chiarire all’utente che ogni
forma di comunicazione viene tradotta nel rispetto delle regole di traslitterazione tipiche della
mediazione culturale; a specificare di non avere alcun potere decisionale; a richiedere il rinvio del
servizio di mediazione qualora uno o entrambi gli utenti esprimano confusione sul ruolo del
mediatore; a domandare l’esonero dal servizio qualora l’opera di mediazione comporti gravi dilemmi
deontologici.
In particolare, il codice deontologico della mediazione culturale attiene a regole di carattere
specificamente professionale, i cui punti fondamentali da rispettare verranno indicati qui di seguito.
Però, preliminarmente, occorre specificare che queste norme si pongono come obiettivo la
promozione di un senso di fiducia presso il pubblico, nel processo di mediazione, e fornire delle linee
di condotta al mediatore culturale.
Come le altre forme di risoluzione dei conflitti, la mediazione culturale deve essere realizzata sulla
base di un rapporto di stima e di affidamento, il quale può nascere se le parti in lite comprendono il
processo in atto.
Pertanto, all’inizio dello svolgimento della propria attività, il mediatore deve informare tutti i soggetti
coinvolti circa la natura del processo di mediazione, o meglio deve chiarire che la riuscita dello stesso
dipende dalla volontarietà delle parti nel raggiungere accordi, in quanto il professionista può
solamente agevolare in modo imparziale le trattative di negoziazione, ma egli non ha il potere di
imporre o forzare le stesse al raggiungimento di intese.
Per cui, il ruolo del mediatore si traduce in una forma di assistenza delle parti nella valutazione dei
benefici, dei rischi e dei costi della mediazione e di eventuali metodi alternativi, di cui possono
usufruire per la soluzione dei loro problemi.
Il mediatore culturale non deve prolungare il processo senza che vi siano concrete necessità, qualora

73
diventi evidente che il caso sia inadatto alla mediazione familiare, o se una o più parti rifiutino o siano
incapaci di partecipare al processo di mediazione in modo significativo; così come, se la fattispecie
da risolvere ecceda la sua competenza, il professionista deve declinare l’incarico, ritirarsi o richiedere
assistenza tecnica specializzata.
Una regola generale che deve ispirare l’attività del mediatore è la confidenzialità, per cui tutti gli
incontri di mediazione culturale hanno natura amichevole e informale, infatti, né il professionista né
la struttura, pubblica o privata, presso cui opera possono imporre una relazione peritale o irrogare una
sanzione penalizzante per le parti.
Da tale principio discende che il mediatore culturale deve osservare l’obbligo del segreto durante lo
svolgimento del processo di mediazione, nel rispetto delle disposizioni di legge in materia, dunque,
egli non può esternare i contenuti delle negoziazioni in atto.
Pertanto, qualsiasi informazione conosciuta dai mediatori nell’esercizio delle proprie funzioni deve
essere considerata riservata e confidenziale, così può essere resa nota solo con il consenso scritto di
tutte le parti coinvolte nel processo di mediazione; ragion per cui, le ricerche e gli accertamenti diretti
alla valutazione delle attività o della performance di tali figure professionali devono proteggere la
riservatezza di tali dati.
Peraltro, le parti della mediazione hanno il diritto, durante e dopo tale attività, di rifiutare la
pubblicizzazione e di proibire di manifestare all’esterno le comunicazioni fatte durante il
procedimento, a prescindere dal fatto che la controversia si sia conclusa positivamente o meno.
Inoltre, per ragioni legate alla privacy di tutti i soggetti coinvolti, il mediatore culturale è tenuto a
mantenere le informazioni confidenziali nel proprio archivio e deve rendere anonimi tutti quei dati
che consentono di identificare un determinato soggetto, quando i materiali vengono utilizzati per
ricerche, per la formazione professionale o per la redazione di elenchi statistici.
Altri valori fondamentali e imprescindibili sono l’integrità e l’imparzialità, in virtù dei quali il
mediatore culturale non può accettare alcun impegno, portare a termine un servizio o intraprendere
un’azione che potrebbero comportare una lesione di tali criteri.
Si tratta di precetti che impongono al mediatore di mantenere una posizione di soggetto terzo e
neutrale, rispetto alle parti coinvolte nel procedimento, mentre stimola la discussione delle questioni
che hanno reso necessaria la sua stessa attività; conseguentemente, se il professionista ritiene di non
essere in grado di garantire la propria imparzialità, egli deve ritirarsi dalla mediazione.
Inoltre, il rispetto dei valori sopra enunciati pone a capo del mediatore culturale il divieto di accettare
regali, richieste, favori, prestiti o altri beni di valore dalle parti o dagli avvocati delle stesse, né
tantomeno da nessun’altra persona coinvolta, direttamente o indirettamente, in passato o nel presente,
nel processo di mediazione.

74
E ancora, un altro principio da rispettare è quello dell’autodeterminazione delle parti, che garantisce
alle stesse di prendere le proprie decisioni in modo volontario e consapevole, pertanto, il mediatore
culturale deve assisterle, in modo da agevolare il raggiungimento di un accordo.
Dunque, il professionista, anche in forza del criterio dell’imparzialità, non può costringere una parte
verso la conclusione di un patto e, parimenti, non deve prendere decisioni sostanziali per nessun
soggetto coinvolto nel processo di mediazione.
Logicamente, ne discende, per il mediatore, un obbligo di astensione dall’interpretare
intenzionalmente o consapevolmente, a favore di una delle due parti, il materiale, i fatti o le
circostanze nel corso della conduzione della propria attività; al contrario, egli deve promuovere un
processo equilibrato, incoraggiando le parti stesse ad assumere un comportamento aconflittuale, in
modo tale che il potere decisionale sia distribuito equamente tra gli interlocutori.
Il mediatore culturale deve, altresì, incentivare un’analisi degli interessi di cui tutti coloro che
prendono parte al processo di mediazione sono portatori, così come di quelli che possono subire delle
conseguenze per gli accordi attuali raggiunti o potenzialmente accessibili, riconducibili a soggetti non
rappresentati al tavolo delle trattative, come minori, genitori delle parti, datori di lavoro.
Perciò, è necessario che il mediatore culturale riesca a promuovere un clima di rispetto reciproco tra
le parti durante tutto il processo di mediazione.
Infine, il professionista deve avvertire tutti i partecipanti dell’importanza della comprensione
delle conseguenze legali di un accordo proposto, per cui deve suggerire loro l’opportunità di
farsi assistere, a tal fine, da un avvocato.

75
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 4 - ETICA E DEONTOLOGIA DEL MEDIATORE CULTURALE

4a Lezione - La responsabilità del mediatore e le sue implicazioni deontologiche

Il termine “responsabilità” ha un duplice significato, in quanto, in senso negativo, esso indica il


dovere rispondere innanzi all’Autorità per una condotta riprovevole posta in essere, invece, in senso
positivo, esprime l’impegno a mantenere un comportamento congruo e corretto.
Collegando questo tema all’esercizio professionale, si può osservare che il significato delle parole
“professione” e “responsabilità” è simile, in quanto la prima deriva dal latino professio, che a sua
volta origina dal verbo profiteor, che significa “confessare ad alta voce o pubblicamente, proclamare,
promettere”, invece, la seconda è riconducibile al verbo rispondere, proveniente dal latino spondeo,
che vuol dire “assumere un impegno solenne a carattere religioso”.
Pertanto, la professione e la responsabilità rappresentano due tratti essenziali e strutturali dell’identità
dell’operatore, che vanno interpretati inevitabilmente come una dichiarazione di assunzione di
impegno nei confronti della persona.
Nell’ambito dell’esercizio della professione, il termine responsabilità assume una connotazione
positiva, ma occorre indicare quali sono i principi che devono essere rispettati, al fine di raggiungere
l’obiettivo dell’essere, appunto, responsabili nella condotta professionale.
A riguardo, i quattro punti da tenere sempre in considerazione nell’espletamento della propria attività
lavorativa sono i presupposti scientifici delle pratiche e delle funzioni attinenti la professione svolta;
le disposizioni legislative che disciplinano la funzione esercitata; le regole della codificazione
deontologica; e, infine, i valori etici condivisi e le indicazioni che derivano dalla coscienza personale.
Chiariti quali sono gli aspetti fondamentali da rispettare, affinché si possa integrare una professione
responsabile, è possibile riassumerli in quattro grandi concetti, vale a dire tecnica, normativa,
deontologia ed etica.
Nella lezione precedente abbiamo analizzato i codici deontologici di varie professioni e quelli
riguardanti vari ambiti della mediazione, ma, in ogni caso, emerge che sia sul piano nazionale sia su
quello sovranazionale possono facilmente individuarsi con precisione i criteri basilari per la condotta
etica del mediatore.

76
Infatti, in qualsiasi codice etico riguardante la figura del mediatore viene esplicitata la circostanza che
ad egli spetta una vera e propria missione di diffusione della cultura della mediazione, attraverso il
proprio impegno personale e professionale.
Ragion per cui, il mediatore, essendo consapevole dell’importanza del servizio che offre alla
collettività, deve prestare la stessa cura e attenzione nello svolgimento della propria funzione, senza
considerare la tipologia dell’attività da espletare e l’importo della mediazione.
Infine, un tratto comune ad ogni codice etico è la previsione della necessaria elevata qualità del
servizio offerto dal mediatore, raggiungibile attraverso il rispetto dell’obbligo di formazione
continua, sia teorica che pratica, anche mediante lo scambio ed il confronto con professionisti del
settore, sia in Italia sia all’estero.
Dunque, in definitiva è chiaro come il mediatore debba essere una figura professionale con una grande
preparazione, di elevata qualità, con un alto rigore morale, regolato dall’etica e dalla deontologia
professionale.
Al fine di integrare tutti questi caratteri dettati dalla professione di mediatore culturale, egli deve
mantenere un alto livello di competenza, conseguentemente, non deve svolgere tutte quelle attività
che sono estranee alle proprie conoscenze e abilità inerenti il lavoro da compiere; pertanto, tale figura
non può compiere attività legali, né terapeutiche, né di consulenza familiare, né di consulenza tecnica
di parte o d’ufficio in relazione ai casi concreti allo stesso sottoposti, in qualità di mediatore familiare
in passato o nel presente.
Tutte le regole generali e particolari analizzate, non solo in questa lezione ma altresì in quelle
precedenti, possono trovare applicazione nei confronti di qualsiasi mediatore, anche familiare, per
ragioni ovviamente legate alla sua professionalità; ragion per cui non può essere in alcun modo
previsto uno standard etico della stessa categoria professionale o di altre concorrenti volto a sostituire,
eliminare, o rendere inapplicabili tali disposizioni, salvo esso sia imposto da una fonte legislativa.
Dalla breve premessa fatta in precedenza, risulta chiaramente come il profilo della responsabilità del
mediatore sia connesso alle tematiche, ampiamente affrontate, dell’etica e della deontologia.
Come già detto, parlando di responsabilità si fa riferimento sia a un aspetto positivo, quale svolgere
la professione in maniera diligente e, quindi, nel rispetto delle regole, dei principi e dei criteri già
analizzati, ma, tuttavia, si può intendere in senso negativo, come conseguenza di una condotta
considerata antigiuridica dall’ordinamento, rispetto alla quale si deve rispondere innanzi all’Autorità
competente.
Infatti, proprio a proposito di tale secondo aspetto, occorre che ogni mediatore sia incensurato, e in
ogni caso il professionista è pienamente responsabile di fronte al tribunale competente riguardo le
proprie qualifiche, il suo operato e le disposizioni legali vigenti, tra cui quelle previste in materia di

77
famiglia, separazione personale dei coniugi e divorzio; ciò posto, tutti i mediatori, ma soprattutto
quello familiare, per le particolari questioni che deve affrontare e risolvere, deve conoscere ed
osservare le regole procedurali vigenti.
La responsabilità del mediatore si muove su molteplici fronti, in quanto la valutazione della liceità
della sua condotta non deve riguardare solamente i soggetti con cui entra in contatto e che assiste ma,
altresì, gli altri professionisti che si addentrano nello stesso ambito lavorativo.
Pertanto, in merito alle relazioni con gli altri mediatori, ognuno è tenuto ad astenersi dal mediare
controversie familiari ancora affidate a un altro collega o a un centro di mediazione, senza prima
preoccuparsi di consultare tutti coloro che gestiscono questa fattispecie.
Da tale previsione discende un principio di cooperazione con gli altri professionisti, poiché ogni
mediatore deve rispettare le relazioni tra il processo di mediazione e le altre discipline professionali,
comprese quelle del diritto, della contabilità commerciale e fiscale, delle scienze sociali e della salute
mentale; pertanto, egli dovrebbe promuovere una forma di collaborazione tra mediatori, servizi
sociali e altri professionisti.
Sempre ritornando alla questione della responsabilità, è opportuno evidenziare che, al fine di
configurare una condotta, o meglio una professione, responsabile bisogna rispettare tutti i precetti
imposti dall’ordinamento, dalla deontologia e dall’etica, ma, nel caso in cui essi vengano disattesi si
passa ad un aspetto patologico che configura una responsabilità in capo a colui che non si attiene a
tali precetti.
Dunque, affinché non ci si sposti sul piano negativo, il mediatore culturale deve rispettare alcune
regole legate allo svolgimento della propria attività.
Per cui, la suddetta figura deve interpretare fedelmente e al meglio delle sue capacità quanto detto
dalle parti, senza potere aggiungere né omettere nulla, in considerazione del fatto che egli non è dotato
di alcun potere impositivo o decisionale nei confronti dei soggetti coinvolti nel procedimento di
mediazione; deve accettare l’incarico solo se è capace di eseguirlo in maniera efficiente e nel rispetto
di alti standard qualitativi, a tal fine il professionista è tenuto ad arricchire costantemente le proprie
conoscenze e competenze.
E ancora, il mediatore deve rispettare il fondamentale principio dell’imparzialità, anche quando si
adopera per trasmettere il messaggio di una parte all’altra; inoltre, egli deve rispettare il segreto
professionale e, conseguentemente, non può trarre vantaggio dalle informazioni ottenute
nell’esercizio della sua attività di mediazione.
L’operatore non può richiedere altra ricompensa, oltre a quella pattuita con il committente; deve
sempre tutelare gli standard professionali, curare il proprio aggiornamento e stimolare uno spirito di
collaborazione tra colleghi, mantenendo costantemente nei confronti degli stessi un atteggiamento di

78
lealtà.
Sempre per ragioni che mirano a garantire la qualità dell’attività svolta, il mediatore non può essere
chiamato ad esercitare funzioni diverse da quelle legate alla sua professione, nel corso dello
svolgimento di un incarico di mediazione assegnatogli, il quale deve sempre essere espletato nel
rispetto delle norme vigenti sul territorio italiano.
Detto ciò, in conclusione, si può affermare che, nell’ambito dell’opera di mediazione, tutti i punti
contenuti dal codice deontologico devono essere rispettati con un atteggiamento di completa
professionalità, mantenendo un senso di responsabilità nei servizi che vengono offerti.
Pertanto, occorre che il comportamento del mediatore risponda alla precisa volontà di perseguire
l’impegno preso, nel totale rispetto delle norme deontologiche e di quelle morali, non potendo
permettere che eventuali sfere di carattere emotivo possano intralciare l’opera di mediazione e senza
che queste ultime intacchino la professionalità insita nel ruolo svolto.
Dunque, il senso che il mediatore deve dare al suo lavoro risiede nella prospettiva dell’equilibrio,
poiché la costanza nell’impegno e il rigore morale devono connettersi ad un assetto personale
bilanciato, in modo tale da mantenere una giusta misura nei comportamenti che non consenta di dare
spazio a interferenze di carattere strettamente personale o, addirittura, a giudizi di valore, i quali
pretendono di fare ingresso nel rapporto di mediazione, inclinandone i contenuti.

79
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 4 - ETICA E DEONTOLOGIA DEL MEDIATORE CULTURALE

5a Lezione - Le interazioni tra codici deontologici

Come già accennato nelle lezioni precedenti, a prescindere dal suo ambito di applicazione, l’attività
di mediazione si caratterizza sempre per perseguire il medesimo scopo di fondo, cioè quello della
comunicazione, nel rispetto del principio dell’imparzialità e richiedendo un’ottima formazione del
professionista, il quale deve mostrare una buona padronanza del linguaggio e, in generale, un’ampia
cultura.
Invero, le tecniche e, quindi, le competenze e le conoscenze richieste al mediatore sono diverse in
relazione al campo di azione; ad esempio, chi svolge la propria attività in ambito civile e commerciale
deve avere una preparazione in giurisprudenza e, certe volte, anche in psicologia, mentre il contesto
dell’interculturalità impone ai professionisti che vi operano di possedere una particolare
dimestichezza con tutte le istituzioni pubbliche e private sia del Paese di origine sia di quello di
accoglienza, oltre a dovere essere aggiornati sulle rispettive questioni politiche e sociali.
Analogamente, gli impiegati delle Organizzazioni non governative (ONG) devono conoscere, in
maniera dettagliata e approfondita, le istituzioni e le relazioni internazionali, le dinamiche legate
all’opinione pubblica, i canali di informazione, oltre a dovere possedere una formazione creativa
nell’ambito della scrittura e grafica, poiché gli viene chiesto di produrre materiale per il variegato
pubblico a cui si rivolgono.
In particolare, i mediatori linguistici, gli interpreti e i traduttori, devono possedere, quanto meno
superficialmente, tutte le conoscenze richieste agli altri professionisti, ma non solo, visto che la
traduzione può riguardare qualsiasi disciplina della vita umana; inoltre, essi devono essere disponibili
ad approfondire, in modo dettagliato, le conoscenze specifiche che gli vengono richieste ogni volta
che ricevono un incarico in un’area piuttosto che in un’altra, dunque, si tratta di una formazione
tecnica molto specifica, che supera le sole competenze linguistiche.
Visti i diversi ambiti della mediazione, essi vengono inquadrati separatamente da normative
principalmente europee; si pensi alla norma di qualità UNI-EN15038:2006 per i servizi di traduzione,
alla Direttiva 52/2008/CE sulla mediazione per la risoluzione alternativa delle controversie, alla

80
Decisione 1983/2006/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio in materia di mediazione
interculturale.
Anche se, in realtà, negli ultimi anni, in Italia e in altri paesi europei, stanno trovando spazio le
normative nazionali e i codici deontologici e gli statuti delle istituzioni che svolgono tali servizi.
Un esempio è fornito dal Codice Deontologico del Mediatore Civile e Commerciale presentato il 23
febbraio 2012 alla Corte d’Appello di Roma, durante il convegno “Trasparenza e deontologia
professionale dell’avvocato e del consulente tecnico in mediazione”, il quale può essere paragonato
a quello delle altre professioni.
Infatti, in esso viene esplicitato come “(...) ad oggi l’attività del mediatore è, nella maggior parte dei
casi, un’occupazione aggiuntiva – spesso residuale – rispetto a quella abituale”; d’altronde, sono le
stesse statistiche del Ministero di Giustizia che indicano come più della metà dei mediatori svolge la
professione di avvocato, una minima parte quella di commercialista e tutti gli altri sono impegnati in
altre professioni.
Questa riflessione permette di trarre alcuni spunti interessanti a proposito degli argomenti in esame;
un primo punto riguarda l’opportunità di rivedere il codice etico del mediatore, in modo da prendere
in considerazione anche l’esperienza di diverse professioni da cui provengono oggi i mediatori.
In più, oltre ciò, va rilevata la circostanza che la competenza specifica richiesta che permette di
individuare sia “il come mediare”, ossia i metodi da utilizzare, sia “il cosa mediare”, cioè l’oggetto
di tale attività, si accompagna alla capacità del mediatore di stabilire un rapporto di fiducia con le
parti in lite, che rappresenta il punto cruciale del successo dell’attività posta in essere, la quale
considera tale aspetto come un presupposto assolutamente necessario.
Dunque, se si vuole un attimo allargare lo sguardo verso altre professioni, occorre subito ricordare il
codice deontologico dei medici, nel quale vengono citati i diritti fondamentali e viene fatta espressa
menzione del rispetto della persona, oltre a introdurre il concetto di formazione permanente; dunque,
alla luce di tutto quanto detto in questa lezione, così come in quelle precedenti, le connessioni con la
professione del mediatore sono palesi e la condivisione dei principi posti a fondamento di tale
professione è lampante.
E ancora, se si prende in considerazione il codice deontologico degli psicologi è possibile rinvenire
un altro criterio già analizzato, in quanto esso contiene un riferimento all’autodeterminazione, vale a
dire ad un concetto fatto proprio dalla stessa mediazione, in quanto strettamente legato al rispetto
delle differenti culture e, al contempo, indispensabile per garantire tale diversità, in linea con una
visione non più etnocentrica della società.
Un altro tratto essenziale della mediazione è rintracciabile nel codice deontologico forense, nel quale
si conferisce un ruolo importante al valore della fiducia che, come più volte evidenziato in questo

81
modulo, si pone alla base del rapporto tra il mediatore e tutte le parti coinvolte nella relativa attività.
Parimenti, è molto incisivo e assolutamente valido per i mediatori il riferimento alla condotta
personale, oltre che a quella professionale, contenuta nel codice deontologico dei dottori
commercialisti e degli esperti contabili.
E ancora, merita un breve richiamo anche il codice deontologico dei geometri per l’interessante
disposizione contenuta, relativa ai concetti di “scienza”, “coscienza” e “diligenza”.
Infine, a proposito del requisito dell’imparzialità, che rappresenta senza dubbio un aspetto
caratterizzante e peculiare della professione del mediatore, il quale è, addirittura, obbligato a
rinunciare all’incarico se non è in grado di garantirne il rispetto, si richiama il codice deontologico
dei magistrati, il quale prevede espressamente “nell’esercizio delle funzioni opera per rendere
effettivo il valore dell’imparzialità (…)”, proseguendo poi “assicura inoltre che nell’esercizio delle
funzioni la sua immagine di imparzialità sia sempre pienamente garantita.”
Però, su tale questione, occorre rilevare una sostanziale differenza nell’approccio professionale tra
magistrati e mediatori, in quanto i primi assumono una posizione di equidistanza rispetto alle parti
del processo giudiziario, a differenza dei secondi che si pongono in un rapporto amichevole e
confidenziale con tutti i soggetti coinvolti nell’attività di mediazione, mantenendo, comunque, una
posizione di neutralità.
Invero, questi accostamenti tra le varie professioni possono essere facilmente estesi all’interno di tutti
gli ambiti della mediazione, in quanto dal confronto dei diversi codici deontologici delle associazioni
per interpreti e traduttori, emerge che tutte riconoscono un certo spazio ai principi già elencati.
D’altronde, il rapporto di fiducia rappresenta una costante di tutti i codici deontologici, così come il
dovere di formazione permanente o di aggiornamento professionale, i doveri di competenza e di
diligenza, il dovere di riservatezza e segretezza.
Il codice dell’AIIC definisce il dovere di probità e decoro con l’espressione “codice d’onore”, mentre
quello di UNITALIA specifica che tale dovere comporta il divieto di esprimere opinioni politiche o
personali e di rilasciare dichiarazioni pubbliche circa la propria ideologia politica.
Un altro dovere previsto dai codici deontologici relativi alla professione del mediatore è quello di
colleganza, in forza del quale i membri delle associazioni non possono ledere la reputazione dei
colleghi e devono assumere un atteggiamento di lealtà e cordialità che rende sereno e corretto lo
svolgimento dell’attività professionale.
In particolare, l’articolo 21 del codice dell’AITI prevede che “(...) nell’ambito di un lavoro di gruppo
o in equipe, il traduttore e l’interprete rispettano scrupolosamente gli interessi dei colleghi e si
impegnano a preservare i rapporti che questi ultimi intrattengono col committente”.
Sono definiti in maniera molto dettagliata anche i doveri legati alle condizioni di lavoro che

82
l’interprete o il traduttore devono far valere, in modo tale da riuscire a garantire la qualità della
prestazione, visto il divieto di “ledere la dignità della professione”.
Ad esempio, l’AIIC, essendo un’associazione per interpreti di conferenza, chiarisce meglio quali sono
le condizioni di lavoro da esigere in tale ambito e prevede che l’interprete debba lavorare in condizioni
comode, tali da consentirgli di vedere l’oratore e la sala, di non svolgere la propria attività da solo, di
non accettare di fare simultanea senza cabina, salvo in alcune situazioni eccezionali, di ottenere in
anticipo tutti i discorsi e in alcuni casi perfino una riunione preventiva, e di non svolgere alcun’altra
funzione durante la conferenza se non quella di interprete.
Tutte queste previsioni si pongono in linea con l’obiettivo stesso che costituisce il fondamento della
mediazione, cioè favorire la comunicazione tra soggetti appartenenti a culture diverse e che, pertanto,
non parlano la stessa lingua.
Sempre in quest’ottica si pone l’articolo 10 del Codice dell’AITI, nel prevedere che “il traduttore
lavora soltanto verso la lingua madre, la lingua di cultura o quella in cui ha una competenza
equivalente comprovata”; ciò anche in relazione alle specifiche competenze e conoscenze richieste al
mediatore per potere accedere e svolgere tale professione.
Con il richiamo a questi codici, si è voluto procedere ad un’analisi generale in relazione ai vari settori
e sotto il profilo internazionale, in modo da avere una visione più ampia e completa della professione
del mediatore, in tutte le sue sfaccettature.

83
MODULO 9 - ETICA E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE

UNITÀ DIDATTICA 4 - ETICA E DEONTOLOGIA DEL MEDIATORE CULTURALE

Bibliografia

 Andolfi, M. (2005). La mediazione culturale. Tra l’estraneo e il familiare. Milano: Franco


Angeli.
 Bouchard, M., & Mierolo, G. (2000). Prospettive di mediazione. Torino: Edizioni Grippo
Abele.
 Favaro, G., & Luatti, L. (2004). L’intercultura dalla A alla Z. Milano: Franco Angeli.

84

Potrebbero piacerti anche