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LA MENTE MULTICULTURALE

Oggi, la mente monoculturale appartiene alla grande maggioranza degli


umani cresciuti in uno specifico habitat culturale di significati e pratiche. La
loro mente è allenata a funzionare secondo un registro unico. Dispongono in
modo privilegiato (spesso esclusivo) delle sindromi culturali di cui si sono
appropriati nel corso della loro esperienza. È indubbio: la cultura è stata ed è
un vantaggio incommensurabile per la nostra specie. Grazie a essa gli esseri
umani si sono moltiplicati a dismisura e sparsi su tutta la Terra. Hanno
prolungato la loro esistenza e migliorato la quabtà della vita. Potremmo dire
di essere una “specie fortunata”. Eppure, da più parti emerge la
consapevolezza che così non è. Si parla sempre più spesso di “guerre di
civiltà”, “guerre di religione”, “nuovo razzismo” ecc. Gli attriti culturali,
dagli attentati alle “guerre per la democrazia e la libertà”, sono sotto gli
occhi di tutti.
La realtà è semplice e drammatica al contempo. La mente monoculturale
non è più sufficiente per governare la complessità dei rapporti interculturali
che oggi animano la scena mondiale. Tale complessità ha diverse radici.
Anzi tutto, si è assistito in questi ultimi anni a una sorta di revival etnico.' È
sufficiente un dato: nel 1950 i paesi membri delle Nazioni Unite erano 58, in
maggioranza occidentali; nel 2000 erano circa 200, per lo più appartenenti ai
paesi non occidentali. Di fatto, essa ha condotto e continua a condurre alla
riscoperta e rivalutazione delle cosiddette “identità perdute”. Il loro catalogo
cresce, muta e si sviluppa man mano che nel mondo si infittisce la rete dei
rapporti politici ed economici. Con la definizione di nuove frontiere e con la
cancellazione delle vecchie, la complessità di tale catalogo aumenta
ulteriormente. Si corre il rischio di un’eccessiva frammentazione: la cultura,
da vantaggio specie-specifico, corre il pericolo di trasformarsi in un
dispositivo autodistruttivo, fuori dal controllo degli stessi esseri umani.
Esattamente come succede per le malattie autoimmuni.
Oltre al revival etnico, gli imponenti flussi migratori di oggi impongono
nuove forme di contatto e di scambio fra molte culture entro il medesimo
40 La sfida della mente multiculturale: premesse

territorio. Da sud a nord, da est a ovest, le migrazioni hanno assunto


dimensioni gigantesche e sono difficilmente controllabili. Nel mondo, nel
2010 ci sono 214 milioni di migranti, con un incremento del 37% negli ultimi
due decenni e nel 2050 saranno 350 milioni. Di questi 214 milioni il 72% è di
età compresa fra i 20 e i 64 anni e metà sono donne (Nazioni Unite, 2010).
Nelle società a tecnologia avanzata, il 10% della popolazione è costituito in
media da immigrati. È un fenomeno che non ha precedenti nella storia umana.
In Europa, nel 2010 sugli oltre 500 milioni di abitanti vi sono oltre 32 milioni
di immigrati, pari al 6,4% della popolazione (Eurostat Pocketbooks, 2010).
Per quanto riguarda l’Italia, mentre nel 1970 gli immigrati regolari erano
144.000, nel 2005 raggiungevano quota 2.786.000 e all’inizio del 2010 sono
4.235.000 secondo FISTAT (4.919.000 secondo il Dossier Caritas/Migrantes
2010), provenienti da vari paesi.2 Nel loro insieme costituiscono ormai oltre il
7% della popolazione italiana, con valori assai diversi da regione a regione.3
Essi rappresentano oltre il 10% degli occupati regolari, sono il 3,5% degli
imprenditori e generano una quota pari all’11% del PIL. Sono il 7,5% della
popolazione scolastica. Si ritiene che nel 2015 gli immigrati in Italia saranno
oltre sette milioni.
Intrecciati con i flussi migratori, vi sono i processi sottesi alla
globalizzazione dei mercati. Oggi, i prodotti commerciali, eccetto quelli di
nicchia, non possono non essere globali, distribuiti e garantiti da un’assistenza
locale, supportati da una comunicazione efficace. Sempre più spesso si assiste
alla delocalizzazione della produzione, alla fusione di aziende, ad accordi
commerciali ecc. Siffatta prospettiva globale implica un frequente
spostamento di manager, tecnici, consulenti ecc., associato a un’ampia
distribuzione della conoscenza. Di conseguenza, si realizza una
multiculturalità commerciale, alimentata, fra l’altro, da una cultura aziendale
internazionale prodotta dalle business schools ove i giovani frequentanti
provengono da tutte le parti del mondo.
Connessa con questi fenomeni di mobilità, in modo sempre più imponente
e diffuso, è una sorta di migrazione virtuale consentita da internet, con la
comparsa del web 2.0 e dei successivi dispositivi di interazione e di
comunicazione (come Facebook, YouTube, Twitter ecc.). Insieme agli SMS,
internet è un vortice frastornante di messaggi, di scambi, di suggestioni, di
offerte ecc. Fra l’altro, l’impiego di internet risente in modo profondo della
cultura di appartenenza, dalla translitterazione dell’arabo e del greco ai vari
codici usati.
Alla luce di queste considerazioni, nel presente capitolo affrontiamo lo
studio della mente multiculturale (in particolare, biculturale). Prenderemo
avvio dai limiti della mente monoculturale ed esamineremo in che modo è
possibile una mente biculturale attraverso la condivisione di esperienze,
La mente multiculturale 41

l’esposizione alla nuova cultura e l’apprendimento culturale. Analizzeremo


poi in che modo è possibile (e, di fatto, avviene) il passaggio da una cultura a
un’altra all’interno della propria mente, focalizzando l’attenzione sulla
accessibilità delle conoscenze e sui processi di facilitazione. Dopo aver preso
in considerazione i principali ostacoli che si frappongono all’acquisizione di
una mente multiculturale, concluderemo con l’analisi dei suoi vantaggi in
termini di apertura, flessibilità, creatività, pluralità di registri, governo della
complessità, nonché efficienza ed efficacia produttiva.

PRINCIPALI LIMITI DELLA MENTE MONOCULTURALE

La mente monoculturale, essendo al singolare, porta con sé limiti inevitabili


e, spesso, insormontabili. È una visione monoculare della realtà sociale,
osservata da un solo punto di vista. È una concezione parziale e limitata delle
cose, che, tuttavia, pretende di inglobare la totalità dell’esperienza, in base
all’assunto (erroneo) che gli altri siano “eguali a me”. Siffatta parziabtà
implica il rischio che ciascuno di noi si senta il prototipo dell’umanità, l’unità
di misura con cui valutare e misurare, accettare o respingere l’esperienza
degli altri.
Etnocentrismo, fondamentalismo e proselitismo. Questa prospettiva
esclusiva, anche se è alla base dell’identità e del confronto con gli altri,
racchiude in sé il rischio àdYetnocentrismo come radicalizzazione del proprio
modo di vedere e di capire le cose. È una sorta di provincialismo spaziale e
temporale che identifica la totalità dell’esperienza con il segmento (oggi
sempre più piccolo) della propria esperienza. Come esito di questa
condizione compaiono fenomeni di incomprensione, diffidenza, distanza
psicologica, esclusione e anche rifiuto. In taluni casi questi atteggiamenti
possono essere associati a sentimenti di superiorità, in quanto manifestazione
di una consapevolezza (presunta) di supremazia morale, tecnologica, politica
ecc. È il sentimento di possedere la “verità”, mentre gli altri si trovano
nell’ignoranza o nell’errore.
In queste condizioni l’etnocentrismo può configurarsi come
fondamentalismo culturale (Stoiche, 1995). È l’esigenza di stabilire confini
netti, robusti e precisi fra le culture, nonché di giungere a una loro
discriminazione. In diversi casi conduce al proselitismo con lo scopo di
convertire gli altri al proprio sistema di credenze, valori e pratiche. Talvolta,
siffatto proselitismo non rifugge dall’impiego di forme costrittive per
esportare la propria “civiltà” e per trasformare la cultura di altri popoli, come
se valori e credenze fossero beni commerciabili. A tal fine, nel corso della
storia si è fatto (e si fa tuttora) ricorso anche alla violenza, all’abiura o ad
altre forme di ricatto sociale. Per esportare la “civiltà” e la democrazia, il
fondamentalismo non esita a impiega-
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re la guerra come metodo “ovvio” (cfr. capitolo 1). In altre circostanze, esso
conduce alla teorizzazione di una “guerra santa” contro altre culture
considerate come il male e il cancro da distruggere e da annientare anche con
il terrorismo (cfr. capitolo 6).
Diffidenza, paura e protezione. Rispetto al fondamentalismo offensivo, la
mente monoculturale può condurre, per converso, ad atteggiamenti di
diffidenza nei confronti degli immigrati. Vi è la percezione dell’altro come
ostacolo e minaccia. Come invasore da cui proteggersi e difendersi. È la paura
dello straniero in quanto straniero. Portando abitudini e stili di vita
profondamente diversi da quelli che siamo soliti seguire, rappresenta un
attacco implicito al nostro modo di pensare e procedere. In base a questo
sentimento possono innescarsi reazioni di difesa e di chiusura, di
rivendicazione della propria identità per conseguire una condizione di
“sicurezza”. Il bisogno di proteggere e tutelare il proprio spazio culturale dalla
presenza di persone e artefatti provenienti da altre culture può condurre
all’adozione di barriere psicologiche e legislative che separano e dividono.
Talvolta si costruiscono ancora muri (in senso fisico) come se la storia della
Grande Muraglia o del muro di Berlino non avesse insegnato nulla.
In entrambi i casi (proselitismo o difesa) si attiva il meccanismo della
contrapposizione fra la nostra cultura e quella degli altri. Questo “attrito
culturale” rende difficile la convivenza là dove, per ragioni varie, si trovino
persone appartenenti a culture diverse. Assieme a norme legislative che
regolamentino queste condizioni sociali, solo il passaggio da una mente
monoculturale a una multiculturale (biculturale) consente una diversa
concezione del diverso e promuove forme più avanzate di convivenza. Da una
società composta da varie parti “singolari” passiamo a una società plurale in
cui ciascuno è culturalmente poliglotta.
Il dilemma degli immigrati di seconda generazione: conversione o fedeltà?
Infine, fra i limiti della mente monoculturale, occorre fare menzione al
dilemma in cui spesso si trovano gli immigrati (soprattutto quelli di seconda
generazione) rispetto all’opzione fra restare fedeli alla cultura di origine o
accettare la nuova cultura ospitante. Fedeltà e adesione a forme diverse di vita
sono entrambe strade legittime e percorribili. Tuttavia, la scelta per Tuna o
per l’altra può essere lacerante. Diventa un problema di appartenenza. Con chi
sto? Chi mi proteggerà di più in caso di difficoltà? Dove mi trovo meglio?
Divento italiano o resto arabo? Chi tradisco? Quale sanzione e punizione
arriveranno? Non sono domande retoriche, ma attraversano la vita di ogni
adolescente figlio di immigrati, nato nel paese ospitante. A fronte di questo
aut aut i ragazzi che sono riusciti ad acquisire una mente multiculturale si
trovano avivere questa condizione in modo molto migliore rispetto ai ragaz-
La mente multiculturale 43

zi addestrati solo all’impiego di una mente monoculturale. Come ci ha detto


un ragazzo “milanese” di dieci anni: “Sono trilingue. Parlo italiano, inglese e
filippino; i miei amici italiani solo l’italiano”. La domanda è ovvia: “Di chi
sarà il futuro?”. La risposta è altrettanto ovvia.

IN CHE MODO È POSSIBILE ACQUISIRE


UNA MENTE BICULTURALE

La mente multiculturale non ha nulla da condividere con il multiculturalismo


in termini sia teorici sia operativi.4 È una dimensione concreta (non teorica)
che si declina, anzitutto, come mente biculturale, ossia l’appropriazione
radicale di due culture distinte e, spesso, distanti. Gli individui biculturali
sono coloro in grado di affermare: “Sono ispanico e americano” (non
“ispano-americano”, con il trattino).5 In effetti, il primo passo per giungere a
una mente multiculturale consiste nell’impossessarsi di due culture diverse e
di riuscire a vivere in modo soddisfacente in conformità alla loro
configurazione globale (sindromi culturali) e specifica (variabili intermedie).
In che modo ciò avvenga lo vedremo più avanti. L’espressione mente
biculturale significa altresì la possibilità di appropriarsi di un’altra cultura
qualsiasi oggi esistente sulla Terra. In questa prospettiva la biculturalità si
traduce nella possibilità non solo di arricchire la propria mente con una
gamma anche estesa di conoscenze sulle culture in generale, ma soprattutto
di vivere in modo conforme alla nuova cultura.
Iniziamo ora a esaminare in che modo siano state avviate la scoperta e
l’osservazione di individui biculturali e quali siano stati i modelli teorici
proposti per “spiegare” l’origine e lo sviluppo della mente biculturale. Siamo
in presenza di una mole di conoscenze che costituiscono un contributo
importante per aumentare la comprensione del funzionamento (in parte
ancora misterioso) della mente umana. Lo studio psicologico dei processi
sottesi all’acquisizione della mente biculturale è alquanto recente. Oggi tale
costrutto psicologico risulta robusto e incontrovertibile, poiché gode di
un’elevata attendibilità e validità teorica ed empirica, come risulta da
un’accurata meta- analisi (Huynh, Howell, Benet-Martinez, 2009).
Le prime ricerche risalgono agli anni Duemila e prendono le mosse
dall’approccio del situazionismo dinamico, sostenuto da un gruppo di
studiosi cinesi e americani (fra gli altri, Hong, 2009; Hong, Chiù, 2001;
Morris, Fu, 2001). Questo approccio assume che la cultura non sia una realtà
monolitica, né una struttura pienamente inconsapevole, ma sia una rete
flessibile di conoscenze, categorie, valori e pratiche (sindromi culturali). A
livello soggettivo, la cultura non è interiorizzata come un blocco omogeneo e
compatto, in
44 La sfida della mente multiculturale: premesse

grado di influenzare e regolare in ogni istante e in modo uniforme i processi


cognitivi, emotivi e sociali degli individui. Piuttosto, la cultura è una
costellazione dinamica di modelli mentali che sono prodotti, condivisi e
modificati all’interno di una comunità di partecipanti. Essi sono applicati in
modo selettivo alle diverse situazioni, avendo a disposizione un certo numero
di gradi di libertà che consentono la loro modulazione.

Le sindromi culturali
La prospettiva qui delineata ha assunto in tempi recenti un forte impulso con
la concezione della cultura come collezione (non “sistema”) di sindromi
culturali, ciascuna delle quali consiste in una configurazione
dominiogenerale, flessibile e malleabile, resistente e robusta di “segnali”
(“sintomi”: credenze e valori, atteggiamenti ed emozioni). Tali sindromi
generano una rete di significati, di attese e di pratiche che caratterizzano una
data cultura. Quando un certo aspetto di una sindrome culturale è attivato,
assai probabilmente anche gli altri elementi diventano accessibili nella
memoria di lavoro. Individualismo vs. collettivismo, indipendenza vs.
interdipendenza, pensiero analitico (Aristotele) vs. pensiero olistico
(Confucio), onore e successo, distanza del potere sono altrettanti esempi di
sindromi culturali che esamineremo in questo volume.
La prospettiva della cultura come rete di sindromi culturali, proposta da
Dapna Oyserman (2007; Oyserman, Sorensen, 2009), offre diversi vantaggi.
Anzitutto, esse sono trasversali e dominio-generali, presenti nelle diverse
culture. Un esempio per tutti. Individualismo e collettivismo costituiscono
sindromi fra loro antitetiche e finora, in modo piuttosto stereotipato, erano
assegnate come poli opposti a macroaree culturali ritenute fra loro
inconciliabili come se fossero due blocchi opposti e monolitici al loro interno:
l’in- dividualismo a Occidente e il collettivismo a Oriente (Markus, Kitayama,
1991; Triandis, 1995).
In realtà, da un’accurata meta-analisi condotta da Oyserman e
collaboratori (Oyserman, Coon, Kemmelmeier, 2002) è emerso che tali
sindromi sono attive sia nelle culture occidentali sia in quelle orientali, anche
se con una diffusione e un’intensità diverse. Individualismo e collettivismo
sono orientamenti e stili di vita opposti, presenti non solo fra le culture ma
anche entro ogni cultura ed entro ogni individuo in situazioni differenti e in
fasi diverse della vita. Questa condizione implica non solo il superamento di
ogni prospettiva essenzialista e oggettivistica della cultura, ma pone altresì in
evidenza che, quando una data sindrome culturale è attivata, essa implica il
medesimo tipo di risposta e di comportamento, in modo indipendente dalla
cultura di riferimento. Gli occidentali manifestano una condotta indi-
La mente multiculturale 45

vidualistica o collettivistica a seconda della sindrome culturale favorita in


una data circostanza. La stessa condizione vale per gli orientali.
Di conseguenza, la cultura va considerata come una realtà situata, poiché,
di volta in volta, i processi culturali in atto non si svolgono in modo
automatico né sono provocati da cause generali e fisse, bensì sono attivati in
relazione a una situazione specifica e contingente. Siffatta situazionalità,
valida anche per la mente umana in generale (cfr. capitolo 4), è la conferma
del carattere di contingenza radicale della cultura, già esaminato. Variazioni
modeste e apparentemente accidentali in una data circostanza sono in grado
di cambiare il significato e il senso dell’esperienza culturale in corso. È
sufficiente modificare la lingua dello stesso testo (inglese o cinese),6 il
pronome personale della prima persona al singolare o al plurale (io o noi),7
fornire risposte a se stessi o agli altri per attivare contenuti e processi
culturali assai differenti.

L’apprendimento culturale
Il situazionismo dinamico e la prospettiva delle sindromi culturali prevedono
che in qualsiasi circostanza la cultura sia appresa di continuo dai partecipanti.
L’apprendimento culturale è intrinseco alla nostra condizione di vita, poiché
da ogni cosa che facciamo possiamo trarre informazioni utili per azioni
successive assimilabili alla medesima classe. Esso è la sintesi della nostra
esperienza, intesa come l’enciclopedia delle conoscenze esplicite e implicite
(tacite), acquisite mediante il coinvolgimento personale nelle azioni e
interazioni con altri, accumulate nel corso del tempo.8
L’apprendimento latente. Siamo nella condizione di imparare sempre, in
qualsiasi situazione, in modo consapevole (esplicito e formale) o
inconsapevole (implicito e informale). È un “apprendimento situato”,
associato a determinate circostanze (contesti) che pongono in modo
inevitabile vincoli e opportunità. Se la nostra vita è esperienza (e quindi
apprendimento continuo), ne consegue che ciò che impariamo in modo
accidentale è molto di più di quello che impariamo in modo volontario. Tale
apprendimento continuo, pur non essendo esclusivo della nostra specie, ha
ricevuto un’accelerazione esponenziale negli esseri umani. Si fonda
direttamente sull’esperienza, intesa come consapevolezza di “tutto ciò che
accade” (per parafrasare una nota proposizione di Wittgenstein). Già John
Locke (1690) aveva posto in evidenza che tutta la nostra conoscenza è
fondata sull’esperienza ed essa è la fonte di tutto ciò che conosciamo.
Impariamo dai successi e, soprattutto, dagli insuccessi (errori). Non è in
gioco solo il galileiano “provando e riprovando”. Neppure il procedimento
cieco e casuale, “per tentativi ed errori”. Piuttosto, l’acquisizione di
conoscenze e competenze attraverso la scelta e l’attribuzione
46 La sfida della mente multiculturale: premesse

di priorità a certe condizioni piuttosto che ad altre. Pur essendo un


apprendimento perenne, esso è selettivo per la conferma di acquisizioni
precedenti (conservazione) o per l’opzione verso alternative diverse
(innovazione).
L’apprendimento contingente comporta ampie zone di apprendimento
latente, fondato sull’attivazione dell’organismo (embodied learning). È un
fenomeno esaminato in modo sistematico già da Edward Tolman (1932). Egli
ha osservato che, nel percorrere un labirinto, i topi ne apprendono la mappa e
la via di uscita anche senza bisogno di alcun rinforzo, grazie al ricordo delle
attività motorie compiute nella ripetizione dei percorsi. La semplice
esposizione all’ambiente, la sua osservazione ed esplorazione, l’esecuzione di
una serie di azioni e movimenti (che, al limite, possono essere anche casuali)
costituiscono premesse rilevanti per l’apprendimento latente. Esso emerge in
modo esplicito e robusto quando ve ne fosse il bisogno.
Apprendimento individuale e apprendimento sociale. L’apprendimento
culturale va inteso come una modificazione relativamente duratura (sia pure
soggetta al cambiamento nel tempo) del comportamento a seguito di
un’esperienza, di solito ripetuta più volte nel tempo. Fra le varie forme di
apprendimento, è utile distinguere tra quello individuale (capacità di acquisire
nuove informazioni a seguito di un’esperienza personale) e quello sociale
(capacità di acquisire nuove conoscenze e pratiche grazie all’interazione con i
consimili). In generale, nelle fasi culturali stabili l’apprendimento sociale
risulta più vantaggioso di quello individuale, poiché il primo risulta più
affidabile e il secondo più soggetto a errori (Boyd, Richerson, 2005). Al
contrario, in periodi e ambienti culturali variabili, dove l’apprendimento
sociale perde attendibilità, si ha una maggiore rilevanza dell’apprendimento
individuale per trovare soluzioni più adatte ai cambiamenti dell’ambiente.
L’apprendimento sociale, che ha la funzione di accelerare e rendere più
attendibile l’apprendimento individuale, presenta una forte rilevanza per
favorire l’appropriazione della cultura nativa e, per i novizi biculturali, di
quella nuova.
L’apprendimento culturale, quindi, di natura esperienziale, è dominio-
specifico, poiché è strettamente collegato al contesto. Non avviene nel vuoto
ma sempre all’interno di una rete di rapporti in cui sono inseriti i vari oggetti
dell’apprendimento. Qualsiasi conoscenza appresa è collocata dentro una
matrice contestuale che le attribuisce senso e ne consente la comprensione.
Viceversa, senza contesto non è possibile nessuna forma di apprendimento. Di
conseguenza, l’apprendimento culturale, anzitutto, è apprendimento di
specifiche sindromi culturali che comportano l’acquisizione di determinate
impostazioni mentali.
Apprendimento e mente biculturale. Tenendo conto di queste premesse, la
comprensione della mente biculturale parte dallo studio di soggetti che vivono
in ambienti dove sono compresenti due culture fra loro anche mol-
La mente multiculturale 47

to distanti. Prendendo in considerazione studenti cinesi che frequentavano


università americane a Hong Kong, Hong e i suoi collaboratori (Hong, 2009;
Wong, Hong, 2005) hanno verificato empiricamente che tali soggetti si erano
appropriati delle sindromi culturali sia cinesi (collettivistiche) sia americane
(individualistiche). In particolare, sono stati considerati come “bicultu- rali”
gli individui esposti per un periodo sufficientemente lungo a due culture e
che si sono appropriati delle sindromi culturali di entrambe. Siffatta
appropriazione segue i percorsi di apprendimento culturale sopra delineati.
Lo scambio quotidiano di esperienze sia con cinesi sia con americani,
l’interazione pratica con modelli (esperti) delTuna o dell’altra cultura in
contesti distinti, il sistema costante di feedback (correzione) rispetto a
eventuali scostamenti dai comportamenti attesi conducono nel tempo all
apprendimento culturale delle sindromi culturali di entrambe le culture. In
questa situazione l’apprendimento sociale è duplice.
Come è necessario per il bilinguismo, la condizione essenziale è che i
percorsi di apprendimento avvengano in contesti univoci, costanti e coerenti.
I modelli cinesi rimangono invariati in ogni situazione che faccia riferimento
alla cultura cinese. Lo stesso succede per i modelli americani. Siffatta
univocità è netta, discreta, senza ambiguità. Un’immersione totale che
consente al novizio di discriminare, di volta in volta, le due culture in modo
preciso e puntuale. Nel tempo, con l’esposizione regolare a entrambe le
culture, con l’accumulo progressivo degli apprendimenti nell’ima e nell’altra
cultura, il novizio è in grado di fare “esperienza” di entrambe e di diventare
“esperto” in entrambe. L’esposizione costante e la pratica attiva costituiscono
condizioni essenziali per poter arrivare al possesso di ima mente biculturale,
poiché forniscono la disponibilità delle conoscenze concernenti entrambe le
culture. Senza siffatta disponibilità, radicata nel corpo attraverso azioni,
movimenti, sensazioni e, non da ultimo, l’alimentazione, non sarebbe
possibile il perseguimento di una mente biculturale.
Di conseguenza, una volta raggiunto un certo livello di appropriazione
delle relative sindromi biculturali, l’individuo biculturale, quando si trova in
contesti cinesi, presenta una personalità interdipendente e assume condotte
peculiari della cultura cinese, all’insegna dell’armonia e cooperazione, pietà
filiale e forte senso della famiglia, modestia e umiltà, conformità e
dipendenza verso il gruppo di appartenenza, nonché una forte attenzione alle
aspettative altrui (senso degli obblighi sociali). Per converso, quando si trova
in contesti americani, il novizio mostra una personalità indipendente e
manifesta comportamenti tipici della cultura americana, seguendo standard di
autonomia e indipendenza, consapevolezza della propria unicità e distintività,
edonismo e ricerca del vantaggio soggettivo, distanza emotiva dagli altri,
successo personale e affermazione di sé, autoefficacia e autostima, pronto
alla competizione con gli altri.
48 La sfida della mente multiculturale: premesse

Una volta che il novizio si è appropriato delle sindromi culturali della


nuova cultura, egli mantiene le conoscenze, le credenze, gli atteggiamenti e le
pratiche della cultura nativa. Questa doppia identità culturale non solo può
coesistere nello stesso individuo senza particolari problemi, ma soprattutto gli
consente di conseguire un numero rilevante di vantaggi sul piano personale e
sociale. Questa doppia identità consente all’individuo biculturale di governare
dentro di sé le eventuali contraddizioni fra le culture di cui è portatore. Egli ha
trovato il modo di conciliare al suo interno le varie forme di attrito e di
conflitto culturale. È evidente che tale vantaggio può essere da lui esportato
all’esterno, contribuendo a ridurre eventuali situazioni di contrasto
interculturale nei gruppi in cui si trova a interagire. Diventato biculturale, egli
è in grado di canalizzare le informazioni e le conoscenze attraverso la lente
bifocale delle due culture e la sua competenza interpretativa degli eventi può
essere orientata verso l’una o l’altra cultura dalla presenza di indizi culturali
presenti nel contesto immediato. In che modo avvenga il passaggio da una
cultura a un’altra sarà esaminato nel prossimo paragrafo.
Ciò che qui preme sottolineare è la profondità degli apprendimenti bi-
culturali effettuati dagli studenti cinesi che frequentano in modo regolare le
università statunitensi. Oggi esistono evidenze sperimentali in grado di
documentare che la mente biculturale si fonda su un cervello biculturale
dinamico. Siffatta evidenza conferma che la mente biculturale non è solo un
costrutto psicologico, ma è un processo supportato da “fatti cerebrali”, ossia
da strutture e processi nervosi del cervello (Smith, Kosslyn, 2009).9
Facendo ricorso alla fMRi,10 Sik Hung Ng e collaboratori (Ng, Han, Mao et
al., 2010) hanno esteso i risultati neuropsicologici ottenuti da Ying Zhu e
collaboratori (Zhu, Zhang, Fan et al., 2007)“ e hanno indagato in che modo
studenti biculturali (cinesi e americani) rappresentassero a livello cerebrale il
concetto di sé, quello di parenti significativi (come la madre), quello di
persone non identificate (nip) e quello di carattere tipografico (elemento di
controllo). Quando i partecipanti sono attivati in funzione della cultura cinese
(orientale) grazie al meccanismo della facilitazione, essi non presentano
nessuna differenza di elaborazione cerebrale nella corteccia prefrontale
ventromediale (vmpfc) fra sé, madre e nip. Al contrario, quando agiscono e
pensano secondo la cultura americana (occidentale), come illustra la figura
2.1, emergono differenze significative fra sé, madre e nip. Tali differenze
sono registrate anche a livello comportamentale.
In base ai dati di questa ricerca la distinzione fra l’inclusività del sé
(tendenza a includere gli altri nel concetto di sé, caratteristica delle culture
orientali) e la differenziazione sé-altri (autonomia del sé e separatezza rispetto
agli altri, tipica delle culture occidentali) possono essere rappresentati dallo
stesso individuo biculturale a livello cerebrale (VMPFC) attivando circuiti
nervosi specifici
La mente multiculturale 49

e distinti. Tali evidenze neuropsicologiche confermano che il cervello “è


biologicamente predisposto ad acquisire la cultura”, poiché “dopo tutto, la
cultura è immagazzinata nel cervello” (Ames, Fiske, 2010, p. 72). Quando un
individuo si impegna con le pratiche di una data cultura e agisce in modo
conforme, anche il cervello si modifica di conseguenza (Kitayama, Tompson,
2010).12
□ Facilitazione culturale occidentale
Sé meno NIP Sé meno madre

Figura 2.1 (a) Attivazione delie aree


cerebrali associate al confronto
fra sé vs. persona non identificata (nip)
e fra sé vs. madre dopo un'attività
occidentale di facilitazione.
(b) Risultati dei parametri dell'intensità
del segnale bold nella corteccia
prefrontale ventromediale. La barra
bianca indica il sé, quella nera
la persona non identificata (Ng, Han,
Mao et al., 2010).
Cultura Cultura
cinese occidentale
Facilitazione

Credenze e teoria della mente


L’apprendimento culturale, eminentemente sociale, richiede la capacità non
solo di essere protagonisti attivi, ma altresì di riuscire a interagire con gli altri
in modo intelligente e competente. Nella trama delle relazioni interpersonali
occorre interpretare in maniera attendibile e perspicace le intenzioni, i
desideri e le finalità sottese alle azioni, ai messaggi verbali e non verbali
degli altri. È la capacità di “leggere” la mente altrui (mindreading). Come
sappiamo bene, la mente degli altri è opaca (non osservabile diret-
50 La sfida della mente multiculturale: premesse

tamente). Tuttavia, siamo capaci di fare le opportune inferenze sulla loro


mente prestando attenzione agli indizi osservabili, di attribuire loro pensieri,
credenze, desideri e intenzioni, di prevedere e trovare spiegazioni alle loro
azioni. Questo ambito è stato oggetto di studio sistematico in questi ultimi
decenni e ha dato luogo alla teoria della mente (tom) degli altri. Nello studio
del funzionamento mentale degli scimpanzé, oltre trentanni fa David Premack
e David Woodruff (1978) si chiesero se essi avessero una “teoria della
mente”, intesa come capacità di capire che gli stati mentali possono essere la
causa del comportamento degli altri e in tal modo di fare le opportune
previsioni.
Da allora le domande poste da questi primatologi e i temi da loro
affrontati si sono estesi anche alla specie umana, poiché ci si è
immediatamente accorti della funzione centrale da essi svolta nello sviluppo
mentale del bambino, come pure nell’attivazione e governo dei rapporti
interpersonali. La TOM corrisponde alla concezione tradizionale di saper
assumere la prospettiva degli altri e di “sapersi mettere nei panni altrui”. In
effetti, rapprendimen- to culturale e la successiva elaborazione di una mente
biculturale implicano lo sviluppo e l’impiego sistematico della TOM come
requisito necessario per comprendere il comportamento degli altri e per avere
con loro un flusso scorrevole e armonioso di scambi interpersonali (Anolli,
2006b). Tale competenza compare assai precocemente nello sviluppo mentale
del bambino, anticipata dal gioco di finzione e dal riconoscimento di sé allo
specchio. Essa è stata spiegata come la manifestazione di uno specifico
modulo mentale (Baron-Cohen, 1995),13 lo sviluppo di una “teoria della
teoria” (Meltzoff, Prinz, 2002)'4 o l’acquisizione mediante la simulazione
(Tomasello, 1999, 2009). Quest’ultima spiegazione, euristicamente più
feconda ed empiricamente dimostrata, assume che il bambino apprenda la
TOM simulando la condotta degli altri. Attraverso la simulazione mentale (cfr.
capitolo 4), prendendo gli altri come modelli, egli è in grado di riprodurre le
loro azioni, di imitarle e di anticiparle.
La radice ultima dellapprendimento culturale e dell’acquisizione della bi-
culturalità è la mente simulativa, esclusiva della nostra specie. Essa consente
di elaborare modelli mentali in cui i rapporti sono strutturati ed evolvono nel
tempo in modo simile a quelli dei fenomeni considerati. Fra modello mentaTe
e fenomeno reale esiste, quindi, una struttura equivalente e dinamica di
rapporti (il modello funziona in modo corrispondente al fenomeno
considerato; Anolli, Mantovani, 2011 ). È una mente situata, costantemente
immersa in un contesto immediato (Mesquita, Barrett, Smith, 2010),
impegnata non solo nell’elaborare, archiviare e connettere idee e pensieri, ma
soprattutto come guida di controllo per le azioni, momento per momento,
trasformando i dati fruibili in specificazioni circa ciò che è “corretto fare qui e
ora”. È una mente
La mente multiculturale 51

radicata nel corpo, poiché funziona facendo costante riferimento alle


informazioni provenienti dalle modalità sensoriali, dai movimenti e dalle
azioni, nonché dai circuiti nervosi connessi con le emozioni, gli affetti, i
bisogni ecc. (Barsalou, 2008). Di conseguenza, la mente simulativa (e
culturale) è vincolata dal funzionamento del cervello e del corpo che, a sua
volta, influenza in un gioco costante di interdipendenza (Anolli, 2006a).
Il conseguimento della tom da parte del bambino è accertata con un test,
ormai diventato classico, che consiste nel verificare se egli ha acquisito la
consapevolezza che un altro possa avere “false credenze” (quando nella
mente dell’altro vi è una rappresentazione sbagliata della situazione). A
questo riguardo sono stati sviluppati diversi compiti.15 La prospettiva della
simulazione ha trovato un preciso riscontro empirico a livello
neuropsicologico. Facendo ricorso alla pet,16 Rebecca Saxe e collaboratori
(Saxe, Powell, 2006), Jean Decety e collaboratori (Decety, Lamm, 2007)
hanno osservato che i compiti previsti dalla tom (false credenze) sono
associati all’attivazione della corteccia prefrontale mediana (mPCF), del
solco temporale superiore posteriore (psTs) e della giunzione temporo-
parietale destra (tpj). Anche le ricerche neuropsicologiche sui neuroni
specchio (cfr. capitolo 4) hanno posto in evidenza che essi sono
sistematicamente coinvolti nei processi di simulazione mentale, nella
comprensione delle intenzioni degli altri, nonché nell’attribuzione di scopi
alle loro azioni (Iacoboni, Molnar-Szakacs, Gallese et al., 2005). Sono altresì
alla base dei processi di simulazione mentale (Gallese, 2008,2010) e
dell’imitazione come forma privilegiata di apprendimento sociale (Vogt,
Buccino, Wohlschlàger et al., 2007).
La TOM consente, quindi, non solo di evitare il rischio di una prospettiva
turistica e museografica nei confronti della nuova cultura,17 ma costituisce un
dispositivo centrale per acquisire una mente biculturale. Basandosi sul
meccanismo della somiglianza e sui processi di imitazione, un ragazzo
(perché no?, un adulto) diventa in grado di impadronirsi in modo progressivo
delle sindromi culturali e stili di vita della nuova cultura. Senza TOM vi
sarebbe solo una ripetizione meccanica dei comportamenti altrui, senza
alcuna comprensione delle intenzioni e degli scopi a essi sottesi (cfr. capitolo
11). Con la TOM il novizio biculturale diventa capace di entrare nella
ragnatela dei significati e nella rete fitta e apparentemente caotica dei
rapporti interpersonali all’interno del proprio gruppo e con le persone di altri
gruppi culturali.

Mente biculturale e mente creola


La mente biculturale, di per sé, non è una mente creola. Non è l’esito di un
progressivo processo di contaminazione con aspetti, tratti e qualità
provenienti da altre culture (Remotti, 2008). Per creolizzazione culturale (o
ibri-
52 La sfida della mente multiculturale: premesse

dazione) si intende questo processo di mescolanza di aspetti e forme di vita


provenienti da culture diverse. Da questo punto di vista non esiste una cultura
pura e vergine, incontaminata e protetta da un isolamento totale. Anche
presso le popolazioni non alfabetizzate sono assai probabili scambi fra gruppi
umani limitrofi, poiché molti di loro, in quanto cacciatori e raccoglitori, sono
nomadi.
La creolizzazione, quindi, è una sorta di innesto culturale che favorisce la
germinazione di nuove e diverse espressioni di cultura. Non si tratta di una
traduzione da una lingua o da una cultura a un’altra alla ricerca di
corrispondenze. Non è neppure biculturalità, nella quale, di solito, le culture
componenti mantengono la loro distinzione e autonomia. La mente
biculturale, infatti, prevede il passaggio da una cultura a un’altra in funzione
del contesto immediato (cfr. più avanti). Per converso, la mente creola è una
mescolanza di forme che solo in parte mantengono una configurazione simile
a quella originaria anche dopo l’azione di fusione.18 La creolizzazione è
inevitabile, poiché non si può imbalsamare la cultura e fissarla per sempre nel
tempo e nello spazio. L’evoluzione culturale rappresenta un processo
inarrestabile che allo stesso tempo congiunge produzione e riproduzione di
modelli di comportamento e scambio interpersonale. Occorre, quindi, ribadire
il valore dell’ibridazione culturale, poiché siamo tutti culturalmente
contaminati. In modo altrettanto forte occorre sottolineare la forza della
mente biculturale come nuovo orizzonte e come sfida per le società di
domani.
Non vi è ombra di dubbio. Quanto più una cultura è in grado di gestire
differenze attraverso la mente multiculturale o la mente creola, tanto più è
robusta e vitale, aperta alle sfide del presente e del futuro. Al contrario, una
cultura “pura” (qualora potesse esistere) sarebbe molto debole e perdente,
destinata a implodere e a morire, in quanto chiusa in se stessa e priva di
stimoli. In linea di massima, la differenza è generatrice, mentre l’uniformità è
sterilità e ripetitività. Mente biculturale e mente creola costituiscono oggi una
forte esigenza (si potrebbe dire una necessità) per le società del quadrante
settentrionale e occidentale della Terra, ove i flussi migratori sono molto
consistenti e continui. In queste società occorre che gli individui, soprattutto i
ragazzi (gli adulti di domani) sappiano “attrezzarsi” e mettano nella “scatola
dei loro arnesi” mentali la capacità di disporre di una mente biculturale. In
effetti, mente biculturale e mente creola sono forme evidenti di evoluzione
culturale al fine di evitare le inevitabili condizioni di attrito e, talvolta, di
conflitto fra le diverse culture (cfr. capitolo 1). Esiste, tuttavia, una differenza
rilevante fra mente biculturale e mente creola. Mentre quest’ultima impiega,
di norma, due o più generazioni per assumere una data configurazione,19
poiché riguarda una data comunità nel suo insieme, la mente biculturale può
essere elaborata in un periodo relativamente breve nell’arco di vita dello
stesso in-
La mente multiculturale 53

dividuo. Infatti, sono sufficienti alcuni anni di esposizione costante e di


pratica attiva della nuova cultura, affinché il novizio biculturale sia in grado
di impadronirsi delle sue sindromi culturali e forme di vita.
Questa condizione risulta tanto più robusta quanto più il novizio è
piccolo. Rispetto alla mente creola, quella biculturale appare una soluzione
più economica, efficiente ed efficace, più flessibile e dinamica, poiché non
richiede che una comunità nel suo insieme assuma nuove configurazioni
culturali. Infine, la mente creola prevede nel tempo la sostituzione di una
cultura (quella di origine) con una nuova cultura come contaminazione fra la
cultura di partenza e un’altra cultura ospite (come quella dei colonizzatori).
Per converso, la mente biculturale non esige questo processo, ma contempla
la presenza di due configurazioni culturali diverse nella vita dello stesso
individuo, in grado di alternare fra luna e l’altra in base agli indizi del
contesto immediato.

IN CHE MODO AVVIENE IL PASSAGGIO


DA UNA CULTURA A UN’ALTRA

Il cambio di cultura
Gli studi avviati in Cina sui soggetti biculturali sono stati estesi anche per
altre situazioni di biculturalità. È probabile che tale processo sia presente in
aree di confine fra una nazione e un’altra, nonché negli individui immigrati
stanziali (soprattutto in quelli di seconda generazione) entro una nuova
cultura. In particolare, adolescenti messicani americani che frequentano
scuole pubbliche nella vita familiare e domestica si comportano come
messicani, parlando spagnolo e seguendo le norme di condotta messicane,
mentre a scuola si comportano da americani, parlando inglese e usando
standard americani per interagire e comunicare con gli altri (Padilla, 2006).
Parimenti, bambini greci che vivono in Olanda e che parlano perfettamente il
greco e l’olandese manifestano una diversa attribuzione causale e un diverso
livello di autostima in funzione degli indizi contestuali di facilitazione
(Verkuyten, Pouliasi, 2002).
La presenza di individui biculturali pone in modo immediato la domanda
in che modo essi siano in grado di passare da una cultura a un’altra. In
funzione dei loro contesti di apprendimento, nel tempo costoro hanno
elaborato una mente in grado di funzionare perfettamente da cinese quando si
trovano con cinesi, e da americana quando hanno a che fare con americani.
Gli individui biculturali sono in grado di adattare in modo attivo e dinamico
la loro identità in funzione delle diverse situazioni in modo da sintonizzarsi
con le altre persone in quella data circostanza. A questo riguardo possiamo
parlare di identità biculturale. intesa come identità sia nativa (ver esemnio.
isnanical e locale (oer
54 La sfida della mente multiculturale: premesse
esempio, americana) in riferimento alla nuova cultura ospite (Chen, Benet-
Mar- tinez, Bond, 2008). È la consapevolezza di una doppia identità, già
menzionata. Abbastanza spesso e in modo spontaneo gli individui biculturali
dichiarano: “Sono cinese e italiano”. Per valutare la consistenza di questo
costrutto psicologico, Verònica Benet-Martinez e collaboratori (Benet-
Martinez, Leu, Lee et al., 2002) hanno elaborato il test Bicultural Identity
Integration (BII), in grado di cogliere il livello di integrazione o di attrito fra le
due culture componenti.
Rispetto al governo della doppia identità le persone biculturali possono
seguire differenti strategie. Possono adottare, anzitutto, la strategia
dell’integrazione, che conduce a una fusione delle culture componenti a
costituire un’identità unitaria biculturale. In questa condizione,
"aggiungendo” la nuova identità a quella nativa, gli individui biculturali
riescono a interagire nei differenti contesti di riferimento (Nguyen, Benet-
Martinez, 2007). La testimonianza di una giovane indiana aiuta a capire
questo processo:

Il fatto di essere biculturale mi fa sentire speciale e confusa. Speciale


poiché la nuova cultura si aggiunge alla mia identità. Sono contenta
della cultura indiana che sento ricca per tradizione, moralità e bellezza.
Confusa perché [... ] la mia cultura ha una visione molto diversa su
cose come la seduzione e il matrimonio. Mi sembra di dover scegliere
luna o l’altra (ragazza di 19 anni biculturale, indiana e americana;
Benet-Martinez, Haritatos, 2005, p. 1016)

Tuttavia, tale strategia non è esente da rischi, poiché la fusione può


condurre alla percezione di forme di conflitto e di contrasto fra le due culture
componenti, con un conseguente stato di stress (cfr. più avanti; Benet-
Martinez, Haritatos, 2005).
La seconda strategia impiegata per gestire l’identità biculturale è il
modello dell ’alternanza, che implica il cambio da un’identità culturale a
un’altra in funzione degli indizi forniti dal contesto immediato in condizioni
naturali o di laboratorio (cfr. più avanti; Hong, Roisman, Chen, 2006). Questa
soluzione è resa in modo efficace dalla testimonianza di un informatore
multiculturale:

Penso a me stesso non come un essere culturale unico, ma come a una


comunione di differenti esseri culturali. Grazie al fatto che ho speso
molto tempo in diversi ambienti culturali, ho sviluppato differenti
identità culturali che divergono e convergono secondo le esigenze della
situazione. (Sparrow, 2000, p. 190)

Approfondiamo qui la strategia dell’alternanza, declinata come passaggio


da una cornice culturale a un’altra {culturalfrante switching). È la più
frequente fra gli esperti biculturali, per i quali è sufficiente il contesto di
riferimento per indicare loro quali percorsi culturali seguire. La mente
biculturale, al pari 4i nuplla monncnltnrale. è situata e contingente (cfr. capitolo
4), radicata nel
La mente multiculturale 55

corpo, fondata saldamente sull’esperienza. Di conseguenza, la mente


biculturale è governata dalla presenza di indizi forniti dal contesto che, di
volta in volta, costituisce la cornice di una data esperienza. In base a tali
indizi, fra loro coerenti, i soggetti sono in grado di scegliere quale percorso
culturale seguire, dimostrando così di adattarsi attivamente alle aspettative
sociali e relazionali in corso. Essi si comportano come cinesi in presenza di
indizi contestuali cinesi, e come americani in presenza di indizi contestuali
americani.
In tal modo, di volta in volta, dimostrano una robusta sintonia con la
situazione contingente, poiché sono in grado di rispettare i modelli culturali,
di agire secondo le sindromi culturali in essere, nonché di partecipare in
modo attivo alla costruzione dei percorsi di senso nelle interazioni con le
altre persone. A diversità dalla traduzione, i soggetti biculturali non hanno
bisogno di “tradurre” una cultura in un’altra. Sarebbe un’operazione faticosa
e dispendiosa. In modo più semplice, essi hanno a disposizione due strade e,
quando ne imboccano una (per esempio, quella americana), la seguono in
modo preferenziale senza avvertire il bisogno di fare confronti con l’altra
(cinese in questo caso) o di pensarvi. Essi si comportano come tutte le
persone che stanno percorrendo quella strada. Come se fosse l’unica. In quel
momento pensano, sentono e agiscono come se avessero a disposizione solo
una mente monoculturale (americana, attivata in quella data situazione). Si
ha la medesima condizione quando imboccano l’altra strada (quella cinese).20

Variabili remote e variabili prossime


Le sindromi culturali sono configurazioni dominio-generali, assai ampie, in
grado di coprire un numero esteso di fenomeni. Hanno un livello alto di
astrattezza e costituiscono variabili remote, poco fruibili in modo diretto
dalle persone. In queste condizioni diventa difficile il passaggio da una
cultura a un’altra. Occorre che gli individui biculturali possano fare
riferimento a costrutti dominio-specifici a livello intermedio, più agevoli da
governare sul piano mentale e comportamentale. Tali costrutti possono essere
tradotti in azioni circoscritte (Kashima, 2009).
In effetti, le sindromi culturali (individualismo e collettivismo, onore,
potere ecc.) vanno scomposte in una gamma di variabili più prossime ai
comportamenti. Per esempio, Tindividualismo è articolato in varie
componenti (indipendenza personale, autostima, ottimismo, libertà di scelta e
di decisione, preferenza per una comunicazione esplicita e diretta, tendenza a
valutare gli altri in termini di disposizioni e tratti di personalità, attribuzione
delle responsabilità e del biasimo all’individuo in caso di insuccesso ecc.). A
sua volta, il collettivismo può essere disaggregato in una serie di elementi
prossimali (armonia, la forte preferenza per i rapporti con i familiari e i cono-
56 La sfida della mente multiculturale: premesse

scenti, prevenzione dei conflitti, rispetto, salvare la faccia, separazione netta


fra ingroup e outgroup, presa collettiva di decisione, valutazione del
comportamento altrui in funzione della situazione e del contesto, attribuzione
delle responsabilità e del biasimo al gruppo in caso di fallimento ecc.). Di
solito, rispetto alle sindromi culturali dominio-generali, le variabili prossime
dominio-specifiche fanno riferimento in modo concreto ai valori, al concetto
di sé, alla relazionalità e ai processi di conoscenza. Esse sono strettamente
legate al contesto e suggeriscono, di volta in volta, la condotta più pertinente
ed efficace in riferimento a una situazione contingente. In quanto tali, possono
essere più agevolmente indotte mediante il processo della facilitazione.

Il processo di facilitazione
Il passaggio da una cultura a un’altra è consentito dalla presenza di variabili
prossime ed è promosso dal processo di facilitazione (priming). L’attivazione
delle variabili prossime e, successivamente, di quelle remote è favorita dalla
presenza di indizi specifici legati a una cultura (per esempio, greca) piuttosto
che all’altra (per esempio, olandese). Tali indizi sono in grado di orientare le
risorse psicologiche disponibili degli esperti biculturali a muoversi secondo
certi modelli culturali piuttosto che secondo altri. La transizione da ima
cultura a un’altra è governata, quindi, dall’accessibilità mentale delle
sindromi culturali per capire e interpretare una certa situazione e per
comportarsi, di conseguenza, in modo coerente e appropriato. In generale,
quanto più una categoria culturale è facilmente accessibile, tanto più essa
serve a rendere intelligibile un evento. A sua volta, il grado di accessibilità è
dato dalla frequenza di uso di un certo modello o schema mentale, dalla
facilità del suo reperimento nei magazzini della memoria a lungo termine,
nonché da fattori di facilitazione. In situazioni naturali gli individui biculturali
trovano in modo immediato e in quantità ingente gli indizi opportuni
dell’ambiente (lingua, abbigliamento, colori, odori ecc.). In laboratorio, per
studiare i processi e i meccanismi sottesi al cambio di cultura, i partecipanti
ricevono una sequenza rapida di stimoli nei quali sono presentati indizi
specifici di una data cultura (per la cultura cinese il Dragone, la Grande
Muraglia, un racconto classico ecc.). Tali indizi costituiscono simboli
pregnanti della cultura di riferimento, densi di significato e, in quanto tali,
suoi potenti attivatori.
Il processo di facilitazione può seguire un percorso di induzione delle
sindromi culturali facendo ricorso a conoscenze sia semantiche sia
procedurali (mind-set, Oyserman, Sorensen, 2009). Nel primo caso la
facilitazione consiste nel richiamare alla mente rappresentazioni concettuali
specifiche concernenti significati, valori o ideali che costituiscono cornici
interpretative nell’elaborare le informazioni successive. Tale procedimento si
fonda
La mente multiculturale 57

suU’enciclopedia delle conoscenze dichiarative a disposizione dei soggetti


biculturali. Nel secondo caso la facilitazione serve ad attivare le conoscenze
procedurali, spesso tacite, su come raggiungere un certo traguardo, quali
strategie adottare nelTesaminare una configurazione complessa (se
focalizzarsi sulla figura o se porre l’attenzione sul contesto), quali
procedimenti seguire per stabilire collegamenti e connessioni ecc. In questo
tipo di compito spesso si fa ricorso alla rappresentazione sui modi con cui i
partecipanti, di solito, svolgono certe attività.
Utilizzando entrambi i procedimenti, l’obiettivo è di evocare nei soggetti
modelli culturali latenti, di richiamare alla loro mente una data sindrome
culturale, di orientare le loro risorse psicologiche verso una data direzione
piuttosto che verso un’altra. Come esito di questa situazione gli esperti
biculturali, pur avendo a disposizione la configurazione di entrambe le
culture, tendono a rispondere secondo i parametri della cultura oggetto di
facilitazione rispetto all’altra.21 La fase di facilitazione è finalizzata a indurre
nei partecipanti la predisposizione mentale verso una data cultura rispetto
all’altra. È un esempio concreto del funzionamento della mente situata,
fondata sull’esperienza, radicata nell’organismo in quanto attivata dalla
presenza di indizi sensoriali, percettivi, motori, immaginativi ed emotivi (cfr.
capitolo 4; Barsalou, 2008). Per raggiungere questo traguardo, sono oggi
disponibili diversi compiti di facilitazione per la fase di induzione.22

OSTACOLI PER L’ACQUISIZIONE DELLA MENTE BICTJLTURALE

Non tutti gli individui sono pronti a impossessarsi di una mente biculturale.
Alcuni oppongono resistenza a tale processo, pur trovandosi nelle condizioni
per conseguire il traguardo della biculturalità. Le persone che percepiscono le
due culture di riferimento (quella nativa e quella ospite) come fra loro
incompatibili e in profondo conflitto tendono a rifiutare l’appropriazione
della nuova cultura (Benet-Martinez, Leu, Lee et al., 2002). È un fenomeno
che si riscontra con una certa frequenza negli immigrati, quando optano per 0
processo di acculturazione della separazione, con il respingimento della
cultura ospite a favore di quella nativa e con la scelta dell’isolamento
culturale (Berry, Sam, 1997).
Parimenti, gli individui che hanno una concezione essenzialista della
cultura come entità oggettiva trovano difficoltoso impossessarsi di una mente
biculturale, poiché assumono che i confini culturali siano barriere
invalicabili. Per costoro fra una cultura e l’altra vi è una separazione
impermeabile che impedisce ogni forma di scambio e di incontro. Questo
senso di impermeabilità talvolta si associa con un sentimento di superiorità
nei confronti
58 La sfida della mente multiculturale: premesse

dell’altra cultura, oppure, al contrario, con l’emozione della paura di essere


sottomessi ed espropriati della propria identità personale e culturale. In altri
casi, il profondo senso di lealtà nei riguardi della cultura nativa, talvolta
associato con minacce più o meno esplicite provenienti da altri individui di
tale cultura, impedisce ogni passo nei confronti di una nuova cultura.
L’eventuale transizione a forme culturali diverse sarebbe considerata un
tradimento e una rinnegazione con le conseguenti sanzioni e punizioni (non
escluso l’omicidio come, purtroppo, testimoniano le cronache).
In queste situazioni e in altre ancora l’elaborazione di una mente bicultu-
rale rimane preclusa, pur esistendo le premesse materiali (non quelle
psicologiche) per potersi realizzare. In effetti, al momento attuale la
disponibilità di una mente biculturale riguarda una netta minoranza
dell’umanità. Gli esperti biculturali si trovano, infatti, in regioni di confine o
nelle condizioni di immigrazione, dove l’esposizione alla cultura nuova è
frequente e sistematica.

VANTAGGI DELLA MENTE BICULTURALE

La mente multiculturale (biculturale) modifica profondamente la struttura,


l’organizzazione e il funzionamento della mente stessa. Presenta enormi
vantaggi e oggi appare come il più potente dispositivo a servizio della nostra
specie per affrontare le complessità della convivenza fra esseri umani
provenienti da culture diverse.

Apertura mentale e flessibilità


La mente biculturale non è una mente scissa, frammentata e dispersa nel
labirinto dei modelli delle varie culture. Piuttosto, è una mente versatile, di
volta in volta capace di declinarsi efficacemente in riferimento a uno
specifico ambiente culturale. È una mente adattabile, poiché in grado di
adattarsi attivamente a nuovi ambienti e a condizioni differenti. Ha in suo
possesso più di un repertorio di criteri culturali per capire e interpretare le
situazioni più diverse. Parallelamente, la mente biculturale diventa una mente
aperta e complessa, capace di far fronte alla gamma di sindromi, stili, modelli
di vita che le diverse culture hanno elaborato e continuano a elaborare.
Rappresenta così una delle testimonianze più vive ed efficaci della creatività
della specie umana, dimostrando che gli individui, se opportunamente esposti,
sono in grado di impossessarsi non solo di schemi e percorsi esistenziali tipici
della propria comunità, ma anche di quelli di altre culture.
È altresì una ment e flessibile, poiché gli esperti biculturali non solo
posseggono due differenti mondi culturali nella loro testa, ma sono altresì in
grado
La mente multiculturale 59

di integrarli e di governarli grazie al dispositivo del cambio di cultura (Hong,


Benet-Martinez, Chiù et al., 2003). Rispetto alla mente dei soggetti
monoculturali, quella degli individui biculturali possiede un numero
maggiore di “nodi” categoriali, così che essi dispongono di una rete mentale
più ampia e comprensiva Siffatta capacità di adottare nuove sindromi
culturali, pur mantenendo quelle della cultura nativa, consente loro di
sviluppare una “complessità di integrazione” che aumenta in modo rilevante
i loro gradi di libertà e il loro potenziale di adattabilità mentale, nonché
arricchisce di molto la loro “cassetta degli attrezzi culturali” (Tadmor,
Tetlock, 2006). Inoltre, la negoziazione fra le due culture non costituisce
un’esperienza stressante; appare stressante solo per coloro che sono meno
orientati a sperimentare tale negoziazione (Benet- Martinez, Lee, Leu, 2006).
Appropriandosi di una nuova e diversa cultura, la mente multiculturale è
una mente estesa (Menary, 2010; Rowlands, 2010). Allarga ed espande i
propri orizzonti, poiché è in grado di includere sindromi e paradigmi
culturali differenti. Anziché subire in modo passivo il vortice dei
cambiamenti interculturali in atto in un’ottica difensiva di protezione,
l’esperto biculturale ha un atteggiamento proattivo e sa cogliere le
opportunità offerte dai nuovi scenari multiculturali. Ha la consapevolezza
che oggi per vivere in modo consapevole e con successo i nuovi habitat
umani, occorre riuscire a declinarsi secondo l’autonomia occidentale e
l’armonia orientale, l’orgoglio dell’onore e il distacco dell’indifferenza, la
loquacità caraibica e il silenzio giapponese. L’esperto biculturale sa che
occorre uscire fuori dal ghetto e affrontare a viso aperto le nuove sfide che la
convivenza di culture diverse nello stesso ambiente ci impone in modo
inevitabile.
Parimenti, è una mente creativa, poiché dispone degli elementi da
combinare insieme in modo originale, da integrare congiuntamente per
individuare soluzioni innovative, nonché da suggerire percorsi divergenti e
insoliti rispetto agli standard di entrambe le culture componenti. Per
esempio, gli esperti biculturali sono maggiormente in grado di identificare un
numero più esteso e versatile di argomenti per vendere polizze di
assicurazione (Hong, Wan, No et al., 2007). La mente biculturale
(multiculturale), quindi, è una mente al plurale. Sa parlare in molti modi e sa
efficacemente interagire con persone provenienti da culture differenti. Sa che
non vi è un unico modello per vivere ma che vi sono molti modi diversi a
seconda di vincoli e opportunità dell’ambiente fisico e sociale. La mente
multiculturale è una mente interculturale, poiché è in grado di stabilire le
opportune connessioni e relazioni fra culture differenti e dispone di un
maggior numero di strumenti culturali per adattarsi attivamente alla realtà in
diverse nicchie ecologiche.
La mente multiculturale, tuttavia, non è globale. Non è un appiattimento
etnico, né un’omogeneizzazione, poiché è rispettosa dell’importanza delle
60 La sfida della mente multiculturale: premesse

varie culture. Per la mente multiculturale i flussi migratori non costituiscono,


quindi, una minaccia ma un’opportunità per esplorare altre traiettorie di vita e
aumentare i gradi di libertà, che permettano di declinare più ampiamente la
propria esistenza. Si esce fuori dall’orizzonte provinciale della propria cultura
per scoprire che le difficoltà della vita possono essere trattate in modo
diverso. Ci si rende conto che il proprio punto di vista è parziale e che
esistono altri punti di vista per spiegare e affrontare le medesime difficoltà.
Avendo a disposizione più di un punto di vista, aumenta la comprensione dei
fenomeni, grazie al confronto tra una prospettiva e l’altra.
Di conseguenza, anche la qualità della vita migliora, poiché può riferirsi a
diversi modi di vivere e far fronte all’ambiente. In questo modo, la mente ha a
sua disposizione una gamma di differenti modelli per capire e gestire le
emozioni (proprie e altrui), per regolare le relazioni interpersonali, per
definire il bene e il male. Se una persona, per esempio, riesce a capire per
quali ragioni gli Eschimesi Utku non si arrabbiano mai, ha l’opportunità di
gestire meglio la propria collera.
John Rawls (1993) ha ipotizzato una convivenza per intersezione sulla
base di comuni denominatori fra le culture in gioco. Will Kymlicka (1995) ha
parlato di “cittadinanza multiculturale” come forma di riconoscimento delle
minoranze in condizioni di pari dignità. In realtà, non vi è solo un problema di
integrazione fra maggioranza e minoranze. La convivenza spesso consiste
nella coabitazione e rimanda, implicitamente, all’idea di comunità separate.
Condividere lo stesso ambiente, ma ciascuno al proprio posto. Così si rischia
di vivere “separati in casa”.
Se ribaltiamo la prospettiva, ci accorgiamo che anche la maggioranza ha
modo di apprendere qualcosa dalle minoranze. Il confronto con l’altro non è
necessariamente pericoloso. Può essere l’occasione per un arricchimento
reciproco o, quanto meno, per migliorare la comprensione di sé. Questo
confronto può diventare un moltiplicatore dei propri gradi di libertà
nell’ottimizzare le potenzialità della propria esistenza. Per certi versi, non è
paradossale sostenere che oggi le minoranze culturali sarebbero in una
condizione più di vantaggio che di svantaggio, qualora avessero le possibilità
di ottimizzare il valore intrinseco della loro posizione. Di per sé, possono
acquisire una mente biculturale più facilmente della maggioranza.

Competenza comunicativa e relazionale


L’apertura mentale generata dalla mente biculturale conduce a una più
potente ed efficace competenza comunicativa a livello sia verbale sia non
verbale. Impadronirsi di modelli di diverse culture implica anche
l’appropriazione di diversi sistemi di significazione e segnalazione (cfr.
capitoli 7 e 8). Chi pos-
La mente multiculturale 61

siede una mente biculturale sa che vi sono differenti modi per elaborare i
significati, per costruire i percorsi di senso da attribuire al flusso delle
esperienze, per conversare e definire le relazioni interpersonali (Anolli,
2006b).
Parimenti, la mente multiculturale ha a sua disposizione diverse griglie
per valutare le situazioni rilevanti sul piano affettivo, attivare le varie
esperienze emotive, manifestare e regolare le emozioni. Essa dispone di una
ricca molteplicità di fuochi e stili emotivi per rispondere in modo affettivo
alle situazioni della vita quotidiana, nonché per esprimerle in modo efficace e
pertinente. Gli esperti biculturali, inoltre, appaiono assai più competenti e più
rapidi nel riconoscere le emozioni degli altri rispetto a quelli monoculturali
(Elfenbein, 2006). Sono altresì più abili nel cogliere e interpretare il
significato delle diverse situazioni emotive. Di conseguenza, la mente
multiculturale è emotivamente versatile, poiché riesce a declinare la condotta
emotiva appropriata ai differenti contesti. Le emozioni non esistono in senso
assoluto ma costituiscono esperienze affettive che variano profondamente di
cultura in cultura (Anolli, 2002b). Saper essere in sintonia emotiva significa
essere capaci di mettere l’altro a proprio agio e accogliere la sua sensibilità
emotiva. Risultati analoghi sono perseguiti dagli esperti biculturali anche per
ciò che riguarda il sistema delle credenze, la gerarchia dei valori, il senso di
giustizia, la concezione della leadership, la natura delle organizzazioni e dei
gruppi umani ecc. (Anolli, 2004).

Mente biculturale e psicologia della frontiera


La realtà della mente biculturale rinvia alla frontiera come luogo in cui due
identità diverse si “fanno fronte”. La frontiera è uno spazio neutro che, nel
momento stesso in cui separa, unisce (Fabietti, 1999). È la soglia attraverso
la quale, se si desidera, si può entrare in contatto con l’altro. Alla frontiera,
infatti, “termina” l’identità di una cultura e, al contempo, inizia quella di
un’altra cultura. Per definizione, la frontiera è generata dalla contiguità
psicologica fra due o più identità culturali diverse. Di conseguenza, essa è
scambio, passaggio, apertura (da “fronte” come “apertura di un varco”),
anche se possiede un certo grado di selettività. In quanto tale si oppone a
confine inteso come chiusura e contenimento (cfr. capitolo 1).
La mente biculturale è lo spazio psicologico della frontiera dove si
incontrano i modelli di due culture differenti, implicando la possibilità
concreta di legittimità e convivenza di due prospettive differenti di intendere
il mondo. Significa, altresì, una situazione di scambio, dove diventano più
probabili e facili i processi di importazione ed esportazione di modelli
culturali di vita. Per questo motivo, la mente multiculturale, in quanto
frontiera, non è statica ma dinamica e mobile. È in continuo divenire, poiché
le frontiere culturali hanno una natura contingente e sono in continuo
movimento.
62 La sfida della mente multiculturale: premesse

Nel gioco di scambi all’interno della grande famiglia delle culture, le


frontiere costituiscono l’esito momentaneo di una doppia azione di pressione
e resistenza. Questa condizione dinamica spiega perché in certi periodi storici
alcune forme culturali sono in fase di espansione e affermazione, mentre in
altri vanno incontro a fenomeni di riduzione e involuzione. Ma così si spiega
anche perché si sono verificati il tramonto e il collasso di enormi imperi
culturali (dall’impero romano a quello ottomano) che sembravano stabili e
apparentemente eterni. Il successo del passato non è una garanzia per il
presente, né tanto meno per il futuro. Come per ciascun individuo, ogni
cultura deve affermare tutti i giorni il proprio spazio di esistenza e la propria
azione di influenza.
Su queste premesse si fonda il vigore della mente multiculturale, la
risposta più efficace alle sfide culturali di cui si parla ogni giorno anche in
televisione o sui giornali. Né l’economia, né la scienza, né la politica, né le
religioni possono sottrarsi a tali sfide. I protagonisti del xxi secolo dovranno
saper pensare, sentire e agire in termini multiculturali o finiranno per
emarginarsi da soli È un nuovo gradino dell’evoluzione della nostra specie,
che ci permetterà di raggiungere un livello di maggiore benessere al fine di
poter ottimizzare le risorse e far fronte alle difficoltà ambientali. La mente
multiculturale vive nello scambio e nell’interazione, non in condizioni di
isolamento, presupponendo quindi il superamento del separatismo culturale.
Nello stesso tempo, non impone l’omologazione né l’integrazione. Non
genera confusione e sovrapposizioni culturali. Essa comporta nuove forme di
convivenza come capacità consapevole di stare e vivere con gli altri in modo
reciprocamente soddisfacente. Per la mente multiculturale vale il principio
dell’universalità senza l’uniformità fra gli esseri umani.
Come specie unica (e relativamente giovane) l’uomo ha fra i suoi
“attrezzi” dispositivi di funzionamento generali (dalla percezione alle
emozioni), ma i contenuti e i modi di funzionamento sono profondamente
diversi da cultura a cultura. Fermarsi ai dispositivi generali rischia di limitare
la comprensione dei gruppi culturali ad aspetti superficiali. Di conseguenza,
la mente multiculturale assume il confronto e la partecipazione culturale
come premesse per la propria definizione. Non è una posizione assolutista,
che si ritiene depositaria di ima verità oggettiva. Non è nemmeno una
prospettiva relativista, per la quale tutto può essere affermato, tutto è vero (o
niente è vero) e per la quale la verità è un concetto depotenziato.
La mente multiculturale è pluralista e riflessiva, capace di proporre e
declinare il proprio punto di vista tenendo presenti i vincoli e le opportunità
dell’ambiente fisico e sociale (concetto di nicchia). È la responsabilità di
intendere la propria identità culturale com e partecipazione (“essere parte di”)
in una prospettiva generale di pari dignità. Solo così è possibile creare uno
spazio comune (interculturale) in cui ognuno può veder riconosciuta la pro-
La mente multiculturale 63

pria identità culturale, in quanto realtà legittima anche se non assoluta. È


allora possibile relativizzare l’identità senza assolutizzare le differenze
culturali.
La specie umana si configura come un’unica specie biologica con molte
menti culturali. Questo è il binomio che attribuisce forza agli esseri umani.
La specie umana, sfrangiandosi in molte menti diverse, ha evitato il rischio
del determinismo biologico. Nello stesso tempo, coniugando le informazioni
genetiche con le condizioni ambientali, ha moltiplicato i fattori di successo
biologico e psicologico. La mente multiculturale rappresenta un nuovo passo
in questa direzione evolutiva della nostra specie, per far fronte alle sfide di
oggi e, soprattutto, a quelle di domani.

Convivenza, tolleranza e intolleranza


La mente multiculturale è una mente tollerante nelle relazioni con persone di
culture diverse. Sa prendere le distanze dalla propria cultura di origine, non
per diminuirne Fimportanza né tanto meno per rinnegarla, bensì per cogliere
gli inevitabili limiti che ogni cultura porta con sé. “Tolleranza” è un concetto
con significati diversi (Walzer, 1997). In primo luogo, può essere concepita
come accettazione rassegnata della diversità per amor di pace, oppure come
benevola noncuranza e indifferenza nei confronti del diverso. In questo senso
significa sopportazione. In secondo luogo, la tolleranza può essere intesa
stoicamente come capacità di riconoscere che gb altri hanno diritti che
esercitano in modi diversi da come noi li applichiamo. In terzo luogo, la
tolleranza consiste nella predisposizione all’apertura verso gli altri, nel
rispetto dei loro stili di vita e nella disponibilità a imparare da loro. Permette
l’esistenza di credenze, valori e norme diversi che possono essere non
sanzionati.
La mente multiculturale è tollerante secondo questo terzo significato,
poiché indica la disponibilità dei soggetti ad accettare la diversità come
risorsa. Rappresenta così una premessa importante per il superamento della
precarietà del modus vivendi, poiché si allinea in modo costante e dinamico
alle esigenze e aspettative delle parti in causa. La mente multiculturale
costituisce un fattore importante per la comprensione e il governo delle
diversità all’interno del principio della pari dignità. In quanto biologicamente
incompleti, gli esseri umani hanno trovato nella cultura il mezzo per
completarsi, riuscendo a valorizzare le condizioni del loro ambiente. Al di là
di somiglianze generali, appaiono tutti differenti.
Per la mente multiculturale la tolleranza si declina attraverso il principio
della convivenza, la cui importanza è stata sottolineata da molti studiosi, fra
cui anche Karl Popper (1984). Non siamo in presenza di una forma di
convivenza coercitiva e costrittiva. Né tanto meno sono attivi processi di
fanatismo e proselitismo. Piuttosto, siamo di fronte a una modalità
pragmatica di con-
64 La sfida della mente multiculturale: premesse

vivenza, poiché mantiene dentro di sé aspetti contingenti e storici. Convivere


significa rendere la vita reciprocamente accettabile e soddisfacente, stabilire
reali condizioni di comprensione e relazione fra soggetti di culture diverse.
Significa sapersi collegare con gli altri e verificare la possibilità di creare uno
stesso percorso di senso. Siffatta condizione si fonda sul riconoscimento
reciproco come premessa fondamentale per stabilire la propria identità, sul
rispetto inteso come considerazione dell’altro, del suo spazio di vita e della
legittimità del suo punto di vista.
Seguendo il principio di convivenza, la mente multiculturale sa prendere
in opportuna considerazione le differenze senza banalizzarle né assolu-
tizzarle. Apprezza le identità senza esasperarle né negarle (Anolli, 2006a). La
condizione della convivenza e tolleranza trova il suo fondamento ultimo
nell’appartenenza alla medesima specie biologica. La consapevolezza
riflessiva di far parte dello stesso gruppo biologico costituisce un ancoraggio
necessario, ancorché non sufficiente, per individuare forme condivise di
convivenza e tolleranza. Già per Franqois-Marie Arouet detto Voltaire (1763),
la tolleranza è “una conseguenza necessaria della nostra condizione umana.
Siamo tutti figli della fragilità: fallibili e inclini all’errore” (p. 132). Se si
coartano i contribuiti dei consimili da cui si dipende, si finisce per coartare
anche se stessi. Solo tale consapevolezza ci aiuta a monitorare il pianeta
Terra, nella certezza che occorre salvaguardarlo per salvaguardare la nostra
specie.
Ma tale impostazione non implica la disposizione ad accettare ogni cosa in
nóme della tolleranza. Questa cessa di essere tale di fronte a chi è
intollerante;'Occorre far fronte al paradosso della tolleranza, quando il
tollerante si trova dinanzi a un interlocutore intollerante. L’intolleranza
consiste nella mancanza di rispetto e di riconoscimento dell’altro, come se
non esistesse. Come se non avesse nessuna dignità. È una forma di costrizione
della libertà altrui, che può fare ricorso anche a forme di aggressività e di
violenza, tortura compresa. In queste condizioni gli individui manifestano una
tipica risposta, nota come reattanza psicologica (cfr. capitolo 14; Brehm,
1966). Essi proveranno una reazione emotiva per recuperare il proprio spazio
nell’interazione sodale e i propri gradi di scelta, per ribadire la propria unicità.
In questo caso vale il principio dell’intolleranza dell’intolleranza, già
avanzato da Voltaire (1763), alla base della convivenza umanamente degna,
poiché l’intolleranza, al pari di ogni forma di aggressività, va contenuta e
circoscritta. Tale principio prevede che il proprio spazio di vita sia negoziato
con quello degli altri. Esso costituisce altresì il fondamento del pluralismo
morale (cfr. capitolo 16).
Coloro che ragionano secondo una mente monoculturale tendono a
ritenere intollerante il comportamento di chi cerca di influenzare e dirigere il
comportamento altrui. Si entra così in una spirale senza fine. Al contrario, se
una persona ha una mente biculturale, si rende conto della parzialità del pun-
La mente multiculturale 65

to di vista della cultura A e di quello della cultura B. Il rischio di una presunta


superiorità di un punto di vista sull’altro si riduce, quindi, in modo sensibile,
poiché il confronto smussa (o, addirittura, azzera) i dogmatismi. È ovvio. Il
principio dell’intolleranza dell’intolleranza non può essere sancito per legge
una volta per tutte e per ogni circostanza. È contingente, esito di un processo
di negoziazione fra le parti in gioco. È un compromesso inevitabile e
costituisce una delle manifestazioni più importanti della capacità di
convivere. Forse, mai come in questo caso l’accordo sulle regole e su come
stare insieme è molto più importante e soddisfacente delle cose da fare (cfr.
capitolo 7; Bruner, 1983). Per questo motivo tale principio è variabile da
gruppo a gruppo (a partire dalla coppia matrimoniale), è momentaneo ed è
rinegoziabile di volta in volta in funzione di possibili variazioni delle
condizioni ambientali.
Il dialogo culturale, da più parti invocato, rischia di restare un auspicio e
una velleità, se è fatto da soggetti chiusi nella loro mente,monoculturale e
propensi a difendere il loro punto di vista. Oppure rischia di dover rinunciare
alla propria posizione culturale che rimanda al senso di appartenenza. Per la
mente multiculturale il dialogo costituisce un’esperienza percorribile ed
efficace, senza rinunciare alla propria identità. L’esito del dialogo non è
l’uniformità ma la capacità di reciproca prevedibilità.

Fedeltà, conversione e tradimento


La mente biculturale sembra rappresentare una soluzione valida per far
fronte e governare una serie di possibili conflitti che oggi caratterizzano la
pluralità etnica di molte società occidentali, soprattutto in riferimento agli
immigrati. I termini del problema sono dati, da un lato, dall’esigenza di
fedeltà alla cultura nativa; dall’altro, la prospettiva di adesione alla cultura
ospite e, dall’altro ancora, al possibile sentimento di tradimento nel caso in
cui essi si sentano nella condizione di dover optare fra l u n a o l’altra cultura.
Partiamo dalla fedeltà. L’appartenenza a una data cultura implica un
atteggiamento di lealtà nella condivisione delle sue credenze, valori e
pratiche. Questo vincolo presuppone forme di adesione e sentimenti di
appartenenza che persistono anche fuori dai confini della propria cultura.
Tale condizione può comportare un atteggiamento dogmatico e
fondamentalista qualora gli individui assumano una concezione essenzialista
della propria cultura. In effetti, fra gli studenti cinesi che frequentano le
università americane di Hong Kong, quelli dogmatici trovano forti difficoltà
ad acquisire una mente biculturale, a parità di condizioni con altri studenti
che non hanno questo orientamento culturale (Hong, 2009).
All’opposto, abbiamo la conversione come accettazione e adesione alle
forme di pensiero e di vita di una nuova cultura. Come illustra la radice eti-
66 La sfida della mente multiculturale: premesse

mologica (dal latino cum vertere = “volgere con”), la conversione è un


mutamento profondo rispetto al sistema di credenze, di atteggiamenti, di
pratiche fino ad allora seguito per passare a un nuovo sistema
qualitativamente diverso. Come suggerisce l’etimo latino, la conversione è
spesso il risultato dell’azione di persuasione da parte di uno o più testimoni
della nuova cultura e avviene assieme a qualcun altro. La conversione, pur
essendo legittima, è un’operazione complessa e a rischio, poiché il convertito,
con la sostituzione di un sistema di credenze con un altro, ha il compito non
facile di dimostrare che il suo “rivolgimento” (metànoia) è reale, attendibile e
robusto. Per questa ragione chi si converte è messo spesso alla prova da parte
degli individui della nuova cultura. In taluni contesti religiosi questa verifica
può giungere persino all’abiura della fede precedente, con forme più o meno
paradossali.23 In quanto adepto, egli rimane spesso in uno spazio equivoco, di
rango inferiore rispetto ai fedeli nativi, poiché la sua conversione è
continuamente oggetto di verifica.
Inoltre, la conversione comporta il rischio della psicologia del tradimento.
Chi si converte, può essere valutato come un traditore e un rinnegatore. È un
apostata. Uno che ripudia la fede precedente e che se ne “distacca”
(dall’etimo greco apostasia = “distacco”). Il tradimento è la rottura di un
patto di fedeltà e di fiducia stipulato in precedenza con altri in modo esplicito
o implicito. È la manifestazione di un rifiuto nei confronti della comunità
precedente di appartenenza. È la scelta per una fede (non necessariamente
religiosa) e per un sistema di credenze ritenuto più idoneo a favorire una
migliore espressione di sé. Nell’ambito dell’immigrazione non è raro
riscontrare la presenza di persone, che, essendosi convertite, manifestano un
atteggiamento di superiorità e, talvolta, anche un sentimento di disprezzo
rispetto a coloro che sono rimasti fedeli alla cultura nativa, percepiti come
arretrati.
I problemi qui menzionati riguardano non solo le religioni ma anche le
culture e sono spesso vissuti in modo drammatico dagli adolescenti di
seconda generazione. Per loro si pone in modo inevitabile il dilemma circa
quale cultura sia predominante: se quella materna o quella del paese di
immigrazione. L’acquisizione di una mente biculturale consente di superare
tale situazione incresciosa e psicologicamente delicata, poiché è sottesa alla
definizione della propria identità.
La mente biculturale è di ordine superiore rispetto alla mente
monoculturale. Essa consente le opportune transizioni da una cultura a
un’altra, offrendo la possibilità di mantenere la fedeltà a entrambe, senza
necessità di fare ricorso alla conversione e senza andare incontro ai rischi
psicologici connessi con il tradimento. Essa promuove una situazione di
multiappartenenza culturale e di doppia lealtà, che pone gli esperti biculturali
nella condizione di trovarsi a loro agio con una cultura o con l’altra.
La mente multiculturale 67

Manager biculturali e benefici per le società multinazionali


La disponibilità di una mente biculturale offre altresì estesi e grandi vantaggi
per i manager delle aziende multinazionali, che devono operare in mercati
molto diversi fra loro sia nel rispetto della logica globale (economia di scala,
aumento del numero dei mercati, incremento dei profitti ecc.) sia nella
considerazione delle opportunità e vincoli locali (gusto, stile, tradizioni,
valori, condizioni climatiche ecc.). In siffatta situazione per le società
multinazionali sono indispensabili manager che riescano a stabilire e
mantenere un legame forte ed efficace fra la cultura della sede centrale e
quella del singolo mercato di destinazione.
I manager biculturali costituiscono potenti leve per promuovere un
effettivo successo della società nel paese ospite, poiché hanno una differente
concezione dei gruppi di lavoro e favoriscono il decremento alla vulnerabilità
dell’elètto dell’informazione comune (rischio di parlare solo di conoscenze
omogenee e ridondanti; Gigone, Hastie, 1993). In quanto biculturali, essi
sono in grado di introdurre conoscenze diverse e contingenti. Nello stesso
tempo essi promuovono il livello di connessioni e di scambi nei gruppi di
lavoro e incrementano il livello di fiducia, poiché contribuiscono in modo
rilevante a creare un clima aziendale positivo e favorevole, aderente alle
esigenze del paese ospite e, al contempo, al confronto fra le linee guida della
direzione generale e le aspettative del mercato regionale in oggetto
(Friedman, Liu, 2009). Come esito di questa condizione, si osserva un
incremento generale della produttività (Schwartz, Montgomery, Briones,
2006). Parimenti, nella presa di decisione gli individui biculturali appaiono
meno sensibili ai pregiudizi, alle credenze, alle attese e alle tradizioni locali.
Sono meno soggetti alla distorsione della conferma (ricerca di informazioni
che confermino le proprie scelte a priori) o all ’effetto àncora (polarizzazione
decisionale; la scelta fondata su informazioni evidenti e specifiche ma
relativamente spostate verso un estremo rispetto alla massa dei dati della
tendenza centrale). In particolare, gli esperti biculturali sono inclini a
considerare diversi punti di vista e valutare l’importanza di informazioni
divergenti e contingenti (Benet-Martinez, Lee, Leu, 2006).
Anche nella leadership i manager biculturali costituiscono figure
importanti di riferimento, poiché sanno adottare una leadership situazionale
meglio di quelli monoculturali, evitando il ricorso a stili di comando solo
partecipativi (tipici delle culture con una bassa distanza del potere: USA,
Europa occidentale), solo direttivi (caratteristici delle culture con un’elevata
distanza del potere: Europa orientale. Medio Oriente, Asia del Sud) o solo
paternalistici (peculiari delle culture ove dominano le sindromi culturali
dell’armonia e dell’interdipendenza: Cina, Corea; Smith, Peterson, Schwartz,
2002). Questo stile di leadership contingente costituisce ima premessa
rilevante ed efficace per affrontare, gestire
68 La sfida della mente multiculturale: premesse
e, possibilmente, risolvere i conflitti. Anche in questo ambito i manager
bicultu- rali sono in grado di alternare, di volta in volta, un approccio diretto
ed esplicito (caratteristico delle società statunitensi) con uno indiretto e
implicito (caratteristico delle culture orientali in generale; Kim, Benet-
Martinez, Ozer, 2010).
Nell’assegnazione delle responsabilità in caso di insuccesso essi hanno
maggiori probabilità di evitare l’errore fondamentale di attribuzione (cfr.
capitoli 6 e 14) sia nella ricerca dei fattori individuali (disposizioni di
personalità; tipica delle culture individualistiche), sia nella considerazione
degli aspetti contestuali (specifica delle culture collettivistiche; Friedman,
Liu, 2009). In particolare, i manager biculturali dimostrano di saper adottare
strategie differenti nella gestione dei conflitti, integrando i modelli della
cultura cinese (armonia) con quelli delle culture occidentali (competizione e
successo). Il costrutto culturale dell’armonia (he in cinese) implica la capacità
di “essere in buoni rapporti con gli altri”, sia evitando ogni forma di contrasto
e di rottura delle relazioni interpersonali, sia promuovendo una condizione
sempre più forte di connettività e di legami nel proprio gruppo (Leung, Brew,
2009). Per esempio, dal confronto fra le linee di gestione dei conflitti da parte
di manager cinesi e manager australiani è emerso che i primi sono meno
propensi alla controversia ancorché costruttiva, mentre i secondi optano per
modalità esplicite, aperte e oneste di conflitto (Leung, Brew, Zhang et al.,
2010).

Mente biculturale e nazioni muitietniche


La prospettiva della mente biculturale rappresenta un grande vantaggio per le
nazioni a forte immigrazione e globalizzazione. I diversi percorsi
interculturali finora intrapresi dalle singole politiche nazionali risultano poco
soddisfacenti ed efficaci, poiché ciascuno di essi appare limitato e parziale e
non sembra in grado di affrontare il complesso problema della convivenza
multiculturale in modo efficace e vantaggioso. Le attuali politiche concernenti
le immigrazioni adottano in modo più o meno esplicito la concezione delle
culture come entità monolitiche e discrete, al pari delle tessere di un mosaico,
vincolate dalle condizioni sociali a dover interagire fra loro in varie forme:
dall’incontro (integrazione e scambio) allo scontro (conflitto e attrito,
esclusione ed emarginazione), alla subordinazione (assimilazione,
omologazione e discriminazione). In realtà, le culture non si identificano con
la popolazione di una nazione, né con l’etichetta di un popolo.
Questa prospettiva obsoleta risulta fallimentare fin dall’inizio, data la
complessità, la poliedricità e l’inafferrabilità di ogni cultura. A fronte di tale
insuccesso spesso le politiche nazionali seguono logiche protettive, al fine di
difendersi dagli immigrati percepiti come una minaccia invadente a livello
simbolico (valori, credenze, tradizioni ecc.) e materiale (economia, territo-
La mente multiculturale 69

rio, risorse ecc.). Questo sentimento è spesso diffuso nella popolazione e in


diversi casi è alimentato dai mezzi di comunicazione di massa. La presenza
di tale sentimento nella popolazione ospite spesso è strumentalizzato da
alcune forze politiche per ottenere consenso. Il ricorso alla psicologia della
paura con varie forme di appelli è particolarmente presente nei movimenti
xenofobi che oggi attraversano diversi paesi occidentali.
In realtà, ogni cultura non è un blocco monolitico da contrapporre a un
altro. La logica della sopraffazione è, per definizione, perdente, poiché, come
ha affermato Gandhi, nessuna cultura può sopravvivere se pretende di
escludere le altre. La temuta minaccia di un’ipotetica invasione e
sopraffazione da parte di altre culture è caratteristica di chi ha una prospettiva
provinciale, collegata più con la situazione contingente che con una visione
strategica. Le politiche di contenimento e di regolazione dei flussi migratori
(peraltro indispensabili) non sono sufficienti.
Se il disegno politico è quello di costruire la società del domani e di
pensare alle generazioni future, allora la presenza degli immigrati va intesa
come una risorsa, non come una minaccia per configurare una società al
plurale, ove vi sia spazio per molte culture in un quadro di convivenza
soddisfacente. La mente biculturale appare come una strada importante per
impostare la società di domani, poiché promuove un miglior adattamento
sociale, una produttività più elevata, una riduzione dei conflitti. Al riguardo,
è legittimo attendersi che gli opinion leader, i politici, i giornalisti, gli
insegnanti ecc. si orientino in tal senso, anziché incoraggiare soluzioni
focalizzate sull’assimilazione e omologazione (van Oudenhoven, Ward,
Masgoret, 2006).
L’acquisizione di una mente biculturale da parte degli immigrati
(soprattutto di quelli di seconda generazione) e, perché no?, da parte di
individui della cultura ospite offre migliori garanzie di scambio che non una
politica dirigistica che operi dall’esterno in manièra ortopedica. Sono
essenziali un’attenta politica demografica (come fa una cultura a
sopravvivere se non ha più testimoni?) e l’investimento su nuovi sistemi
educativi in grado di favorire l’acquisizione di conoscenze sulla cultura altrui
mediante apposite esperienze. In effetti, gli esperti biculturali posseggono
competenze (bilinguismo, cambio di quadro culturale, sensibilità
interculturale) che appaiono fondamentali per il successo nel mondo
globalizzato di oggi. Essi sono i mediatori culturali ideali per negoziare le
identità culturali all’interno dei giochi di potere fra le forze in campo, nonché
per regolare i conflitti e le incomprensioni interculturali nei gruppi, nelle
comunità e nelle nazioni, poiché sono già riusciti a governare le differenze
culturali dentro se stessi e con gli altri (Nguyen, Benet-Martinez, 2007).
Oggi, vi è un bisogno urgente di approfondire le opportunità per sviluppare
nelle nuove generazioni una mente biculturale come premessa per ridisegnare
l’architettura delle società dei prossimi decenni.

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