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Testi
● Rhazzali, M.K., L’Islam in carcere. L’esperienza religiosa dei giovani musulmani nelle prigioni
italiane, FrancoAngeli, Milano 2010
● Rhazzali, M.K., Comunicazione interculturale e sfera pubblica. Diversità e mediazione nelle
istituzioni. Roma: Carocci, 2015.
● Allievi, C., Renzo, G., Rhazzali M.K. (a cura di), I musulmani nelle società europee.
Appartenenza, interazioni, conflitti. Milano: Guerini e Associati, 2017
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Programma
PRIMA DI PARTIRE
Cosa ci porta a definire l’altro? Come e perché vediamo la diversità? Come la rappresentiamo? Cosa
può portarci ad averne paura?
Già a partire dai libri di testo scolastici si evidenziano delle rappresentazioni problematiche della
diversità: lo straniero che non parla bene l’italiano, chiedere a una bambina se è “nera o solo sporca”.
Avviene lo stesso nelle pubblicità: per Trenitalia, le persone con tratti non caucasici si trovano in
quarta classe e le altre occupano la business.
Perchè in una situazione come quella odierna, caratterizzata da un’alta presenza di diversità, ci
troviamo ancora intrappolati in questi schemi? Perchè si fa fatica a dare una rappresentazione
diversa?
- si torna anche inconsapevolmente a degli stereotipi come reazione alla complessità della
società, in un senso di sicurezza
- le rappresentazioni diffuse vengono dipinte de chi non appartiene a minoranze
- casi specifici non influenzano la percezione della categoria generale
- “l’altro” rimane strutturato come estraneo per dei meccanismi psicologici
Un codice sociale implicito è quello binario: noi e loro. Questo codice influenza la rappresentazione
dell’altro e specularmente la costruzione della propria identità: la nostra identità è legata all’identità
dello straniero, che costituisce l’altra faccia della medaglia (io sono ciò che l’altro non è). Creiamo così
delle immagini che poi non rielaboriamo, ma ci limitiamo ad usare come scorciatoie per interpretare
la realtà, applicandole senza pensarci.
importante in questi processi è il linguaggio, la narrazione: appartengo ad una comunità perché ne
condivido il linguaggio, le norme e tradizioni e non appartengo ad un’altra perchè non ne condivido
le stesse cose, qualcosa mi distingue. Finché non c’è uno spazio di narrazione, un linguaggio adatto a
disposizione, non si può entrare a far parte di quella comunità.
Diverse culture hanno diverse tendenze nella rappresentazione dell’altro, e quindi dello straniero,
che pu essere positiva, di apertura, o negativa, di ostilità (Esempio: la cultura cattolica rappresenta lo
straniero come colui che ancora dobbiamo conoscere, in un senso di continuità con l’altro; nella
cultura islamica, ha importanza la liberazione di chi era schiavo e l’idea della pietà verso l’altro in
un’ottica di uguaglianza e ospitalità). Queste tendenze rappresentative stesse possono entrare in
conflitto fra loro e cambiare nel tempo.
L’alterizzazione è il processo con cui si identifica un “altro”, che è diverso e quindi marginalizzato.
Questo processo di costruzione dell’altro è un bisogno psicologico, ma anche sociale.
Nell’immaginario italiano si ha difficoltà con la rappresentazione del migrante più che dello straniero:
il migrante è straiero e inoltre è visto come povero.
Oggi, il migrante rappresenta l’altro per eccellenza: ha una provenienza, un aspetto, una cultura, una
religione diversa e viene collocato quindi ai gradini più bassi della scala sociale, soprattutto quando
incarna in sé diversità multiple. Il meccanismo di marginalizzazione salta però nel momento in cui chi
classifichiamo come migrante è, ad esempio, una persona ricca proveniente dagli emirati arabi.
La paura di essere stigmatizzati come non conformi, ufficialmente propagata e coltivata nella
società disciplinare, è stata sostituita, nella società delle prestazione, dalla paura di rivelarsi
inadeguati. Gli individui formalmente emancipati si ritrovano sostanzialmente incapaci di
affrontare le prove e i tormenti di una vita completamente individualizzata (Z. Bauman)
Per identificarci nella società odierna è rimasto il consumo: vi è una crisi di identità, che risultano
represse, ed escludere l’altro serve a preservare la nostra sicurezza.
Per gli esclusi che sospettano di essere ormai relegati tra gli ultimi, scoprire che sotto di loro
c’è qualcun altro è una sorta di evento salvifico, che restituisce loro dignità umana e salva
quel poco che rimane della loro autostima (Z. Bauman)
L’azione mediatica del movimento della Lega (ex Nord) è emblematico in questo caso: la narrazione
continua a relegare l’altro in posizione subordinata, a dipingerlo come pericoloso, minaccioso
fabbricando consensi attraverso la paura di perdere la propria identità, il proprio lavoro etc.
Questi dispositivi morali (l’altro che viene dipinto come criminale, come inferiore etc) vengono poi
usati in caso di conflitto, di contrasto fra il “nostro” gruppo e “l’altro” portando anche alla violenza. È
necessario capire quanto siamo legati a questi meccanismi, quanto siamo influenzati dagli stereotipi
presenti e dalle dinamiche, dai dispositivi di identificazione ed esclusione già testati.
Per comporre la nostra identità non ci limitiamo però a differenziarci dall’altro: dobbiamo anche
identificarci in un gruppo. Se quindi creiamo distanze in base alle differenze generali e originali che ci
distinguono dall’altro (provenienza, lingua, colore della pelle etc), allo stesso tempo cerchiamo di
sviluppare un senso di collettività attraverso i nostri dati particolari, che non ci distinguono da altre
categorie ma da ogni altra persona, anche nostra simile.
Questi dati particolari sono particolarmente rilevanti non nella sfera pubblica ma in quella privata:
nelle relazioni intime fra amici e partner, ad esempio. Si verifica quindi uno squilibrio fra sfera
collettiva (in cui ci si distingue dal “diverso” in base a categorie ampie) e quella privata (in cui tali
categorie sono sovrastate dalle nostre caratteristiche individuali). Ecco perché accade, ad esempio, di
pensare che “gli immigrati sono dei nullafacenti e approfittatori” riconoscendo allo stesso tempo la
laboriosità e gentilezza della badante di un familiare.
Dato che il tratto distintivo del capitalismo è l’innovazione, diventa fondamentale chiedersi: chi è
capace di innovare? Chi ha un potere politico e delle risorse materiali e chi sa esercitare una certa
forza persuasiva: in entrambi casi, uomini eccezionali. Secondo Sombart, a livello personale
Hanno natura di imprenditore quegli individui con particolari doti di intelletto e di volontà,
che, quando compaiono come fondatori di un'impresa capitalistica, possiedono uno spiccato
senso per i valori materiali, per l’affermazione dell’uomo nelle opere terrene, sono pratici ed
energici, alieni sia alla contemplazione del religioso che a quella dell’artista [...] che ad ogni
comodità epicurea.
Possono quindi avere successo le persone che non sono trattenute da vincoli sentimentali, emotivi
ma sanno scartare tali influenze. Queste sono qualità sociali, non naturali: vengono acquisite
attraverso la socializzazione, l’educazione.
Ma come ha fatto lo straniero, partendo da una …
Lasciare il proprio paese, secondo Sombart, comporta l’acquisizione delle qualità necessarie a
diventare un buon imprenditore: il distacco dall’emotività, da ciò che non è razionale. Emigrare
corrisponde all’azione capitalistica della rottura di tutte le vecchie abitudini e relazioni dell’individuo,
la sospensione e rottura dei rapporti familiari.
Il parentado, il paese, il popolo, lo stato nel quale era racchiusa la sua esistenza hanno
cessato di essere per lui una realtà.
Gli individui che decidono di migrare sono le nature più attive, più volitive, più audaci, più
fredde, più calcolatrici e meno sentimentali, indipendentemente dal fatto che la decisione di
emigrare nasca da oppressione religiosa o politica o da desiderio di guadagno.
Per migrare, queste persone rischiano tutto, abbandonano tutto ciò che conoscono e mettono in
gioco la propria stessa vita. Tutte queste qualità sono da valorizzare nel contesto capitalista in cui
viviamo; tuttavia, spesso vengono attuate politiche di esclusione e marginalizzazione.
Nel 1999 viene messa in atto una nuova legge sulla migrazione, ma fino a quella data il migrante era
trattato come straniero attraverso il cosiddetto rapporto di reciprocità: fra gli stati, nei loro rapporti
bilaterali, vengono stretti determinati accordi e in Italia ciò non prevedeva per i migranti la possibilità
di impegnarsi nell’imprenditoria ma solo di svolgere lavori subordinati. Per poter entrare
nell’imprenditoria andava presentata apposita richiesta al ministero, con tempi di attesa lunghissima
per l’ottenimento di un nulla osta.
Moltissime persone di origine cinese premono per la modifica della legislazione fino alla
formulazione della nuova legge: con questa, il migrante ottiene una equiparazione dei diritti sociali
ed economici (non ancora politici, che inizialmente erano previsti almeno a livello amministrativo) ai
cittadini italiani. Se fosse rimasto anche l'aspetto politico, a livello locale oggi ci sarebbe maggiore
attenzione verso le necessità e la rappresentazione delle minoranze straniere.
Il migrante è un estraneo, si trova ai margini: non condivide quindi le stesse norme e vincoli della
società in cui si trova, vive una situazione di sospensione dell’affettività e parzialmente anche della
morale. Il nuovo mondo diventa quindi solo mezzo per un fine, e più è estrema l’estraneità più l’unico
aspetto rilevante diventa il guadagno. La relazione che si instaura fra la persona migrante e la nuova
società ospitante è quindi una strumentalizzazione reciproca, unica possibilità per ridurre la
situazione di estraneità (es. sfruttamento della manodopera, uso eccessivo di sanatorie, mala
gestione dei flussi migratori). Non sono presenti leggi organiche e adeguatamente finanziate, perciò
la situazione resta problematica e instabile.
Allo straniero non è consentito vivere e godersi il presente: ogni azione è spinta dal bisogno, dalla
“fame del futuro” che spinge ad applicare un costante razionalismo escludendo dalle proprie
considerazioni elementi affettivi, sentimentali, emotivi. Si rischia così una scissione interna: la propria
identità nella società di provenienza, la normalità, è molto distante dall’identità rivestita nella nuova
società, fredda e distaccata, calcolatrice.
Si può parlare di doppia assenza: la migrazione comporta sia un aspetto di emigrazione sia uno di
immigrazione, e di conseguenza una relazione complessa con il paese di partenza e il paese di arrivo.
Condizione del razionalismo economico è quindi l’estraneità: il capitalismo richiede allora un certo
livello di degradazione comunitaria. Necessaria è l’indifferenza fra gli uni e gli altri, e di conseguenza
anche una degradazione morale.
Simmel è interessato agli spazi e alla relazione fra questi e lo straniero, piuttosto che alle differenze di
cui è portatore, caratteristiche oggettive, identitarie, ontologiche. Lo straniero instaura infatti
rapporti particolari con i membri di un gruppo, relazioni specifiche che danno vita ad un sistema che
contiene l’ambivalenza noi-loro, vicino-lontano.
Per Simmel, lo “straniero” ha due possibili accezioni:
- elemento del gruppo: ha un piede dentro e un piede fuori, oggi viene e domani può
rimanere o ripartire, non appartiene fin dall’inizio ad un certo spazio e potrebbe lasciarlo
- assolutamente estraneo al gruppo: quasi non umano e quindi funzionale alla violenza
Lo straniero condivide quindi un certo spazio ma non vi appartiene: è al di fuori, oltre, ha con lo
spazio e i suoi membri una relazione di estraneità. Lo straniero è distante ma vicino, include in sè una
unità in quanto appartenenza al genere umano ma anche una differenza. Possono stabilirsi delle
relazioni di estrema vicinanza, di intimità, confidenza, amicizia, ma è difficile essere titolari di un
bene, di un territorio. La comunità è costruita condividendo particolarità attraverso i rapporti
personali, perché nelle generalità lo straniero è diverso, lontano.
La categoria della persona ebrea è importante dal punto di vista storico e politico e guida la
riflessione di diversi sociologi, fra cui Simmel stesso. Lo straniero è imparziale, non è legato
sentimentalmente al luogo o alle azioni e quindi può diventare arbitro di controversie.
UOMO MARGINALE E COSMOPOLITA (PARK?)
Occorre distinguere tre diverse dimensioni di analisi del fenomeno: normativa, descrittiva e
interpretativa. Seguendo tali dimensioni può essere svolta un'analisi precisa e approfondita.
Esempio: Italia
Discorsi dei media: si parla di accoglienza partendo da diverse posizioni ma si fa quasi sempre
riferimento ad un modello assimilazionista, parlando di integrazione piuttosto che di inclusione, di
adattamento alle norme, ai costumi attuali. Si parte dal presupposto che esiste già un modello di vita
da replicare, e che la società dal punto di vista politico e sociale abbia il ruolo di portare lo straniero a
rispecchiare questo modello. Sono anche frequenti discorsi di stampo emergenziale, allarmista
descrivendo sempre i flussi migratori come crisi.
Dal punto di vista normativo, è diffusa una linea di intolleranza verso la diversità e ci si trova in un
contesto di “non modello”: a differenza di Francia e Germania, non è stato adottato un modello
politico preciso ed esplicito nella gestione delle migrazioni ma si prendono decisioni in modo
emergenziale e di aggiustamenti continui e localizzati (es. sanatorie, mancanza di leggi organiche
sulla migrazione). Questo perché non c’è un legame fra la politica e concetti teorici relativi alla
migrazione (ciò che avviene invece per le politiche di stato socialo, in cui il riferimento teorico è il
modello keynesiano di welfare state). Vi è però un modello implicito: il non modello, il modello
localistico per cui la diversità è già presente all’interno del contesto italiano al di là dei processi
migratori (vesi Alto adige e Sudtirol, regioni del nord rispetto a regioni del sud etc), che non è stato
scelto consapevolmente ma sperimentato periodicamente in vari contesti geografici (es. processo di
regionalizzazione, ovvero gestione localistica della diversità, fino al federalismo finanziario e
all’autonomia amministrativa delle regioni a statuto speciale).
Dal punto di vista descrittivo: la società italiana è multiculturale, anche se non multiculturalista (per
questo servirebbe una declinazione politica e ideologica, come in altri stati). Sono quindi presenti più
persone, più culture, più riferimenti che vengono vissuti e prodotti nel contesto italiano.
Dal punto di vista interpretativo, viene analizzata la sovrapposizione e/o i contrasti fra la dimensione
normativa e la vita quotidiana da un punto di vista anche personale, opinionista.
Le migrazioni secondo Park possono essere studiate in due modi:
- studio degli effetti macro: relativi alla società
- studio degli effetti micro: aspetti soggettivi
EMANCIPAZIONE E COSMOPOLITISMO
Park lega l’emancipazione dal vecchio ordine sociale, dalle tradizioni al concetto di cosmopolitismo:
l’individuo emancipato diventa cosmopolita, impara a guardare il mondo attraverso il distacco
caratteristico dello straniero. La persona che migra guarda quindi il mondo con distacco e al tempo
stesso ha una nuova prospettiva cognitiva e politica anche rispetto alla propria società di origine (in
ciò, Park riprende Simmel). Secondo Park, questa dinamica produce un'illuminazione nella persona
che non è più vincolata a legami (intersoggettivi) con la comunità e con le tradizioni, con il non detto
e il dato per scontato che caratterizzano una cultura specifica e quindi deve compiere degli sforzi
cognitivi ulteriori.
Oggi non è però comunque presente una cultura monolitica a cui affidarsi, tutte le culture subiscono
determinate influenze e quindi lo straniero è solo il primo a slegarsi da determinate convenzioni. Il
cambiamento, la rottura sta avvenendo all’interno di ogni società: la migrazione produce un’assenza
di legami della persona nel nuovo contesto producendo un processo di secolarizzazione (dal punto di
vista religioso ma non solo) e di conseguenza l’individualizzazione di tutti i soggetti, una sensazione
diffusa di estraneità in cui tutto ciò che accade non ha per forza un significato preciso, che deve
quindi essere costruito. Le tradizioni, in questo contesto, non hanno quindi più la funzione di
spiegare e dare significato a ciò che accade, è l’opinione pubblica insieme alla filosofia ad acquisire
autorità nella costruzione di significati.
La mobilità e le migrazioni dei popoli … hanno allentato i legami locali, distrutto le culture …
l’organizzazione razionale che chiamiamo civiltà. (Park)
Si evince un’attribuzione positiva da parte di Park a questo nuovo ordine sociale: il modello del
melting pot e in particolare i processi di assimilazione e amalgamazione che prevede sono visti in
modo positivo. Tale posizione viene criticata da Cotesta in quanto semplicista: negli stessi USA si
verifica un problema di subordinazione, di divisione in classi e ceti legata al colore della pelle
nonostante secoli di convivenza, perché c’è un meccanismo di costruzione dell’identità di gruppo e in
particolare del “nemico” che non può essere ignorato. Assimilazione, incorporazione non avvengono
socialmente, sono dinamiche politiche; l’amalgamazione non porta ad una nuova società, è un
processo di adattamento che mantiene la separazione fra gruppi, ricrea distanze economiche e
culturali legate all’idea di cittadinanza. Ecco come le persone di colore negli USA vengono ancora
discriminate e talvolta uccise solo a causa della propria pelle: la separazione esiste ancora ed è
alimentata da attori e figure che ricreano continuamente distanze fra gruppi sociali, non si annullerà
automaticamente a causa della mescolanza fra razze e culture.
Interessante è l'analisi della figura dell’ebreo, che conservano la propria tradizione e di conseguenza
un certo livello di indipendenza culturale e politica, anche se a causa della propria relegazione
all’interno di ghetti. Il rapporto fra la comunità ebraica e la società ampia è simbiotico, ovvero di
dipendenza attraverso una interazione limitata all’emarginazione e all’esclusione (precisazione di
Cotesta, Park parlava solo di mancanza di interazioni).
Cosa ha implicato la liberazione degli ebrei dal ghetto? Lo sviluppo di una doppia cultura
Un ibrido culturale, un uomo … ora cerca di trovare un posto
L’ebreo è il primo cosmopolita, cittadino del mondo
l’ebreo è un uomo al margine … per eccellenza lo straniero
certamente la sua preminenza … in breve il cosmopolita
La figura dell’immigrato combina in sé i tratti dell’ebreo e dello straniero. Poiché in crisi permanente
con il mondo da cui proviene e quello in cui arriva è cosmopolita, vive in due mondi di cui è straniero.
Tale distacco lo rende un individuo aperto, lontano da vincoli a differenza degli abitanti locali e allo
stesso tempo, come lo straniero, è un individuo metropolitano (vedi cit inizio lezione e concetto di
marginalità): le migrazioni sono verso le città, dove ci si inserisce più facilmente alla pari delle
persone locali e quindi la storia delle città, delle metropoli è la storia delle migrazioni.
L’immigrato rimane straniero in entrambi i mondi per mancanza di assimilazione e amalgamazione,
mancanza che secondo Park verrà riempita nel corso del tempo. Ulteriore mancanza di Park è
l’osservazione del gruppo poiché si concentra sulle migrazioni degli individui senza affrontare gli
aspetti di costruzione identitaria per cui i migranti tra loro creano delle comunità.
Elias identifica una zona rurale (Winston Parva) abitata esclusivamente da membri della classe
operaia, in cui non sono quindi presenti differenze significative all’interno della popolazione che può
allora categorizzare escludendo altri fattori. Elias osserva che, nonostante l’appartenenza alla stessa
cultura, religione e classe sociale, nella popolazione si verifica comunque una frattura che dipende
dalla durata della residenza. In particolare gli abitanti della zona 2, che abitano lì da 2-3 generazioni,
si sentono superiori e gli abitanti della zona 3, trasferitisi da alcuni anni con il crescere dell’industria
bellica, sembrano accettare la propria inferiorità.
Su cosa si fonda questo sentimento di superiorità e specularmente di inferiorità? La durata della
residenza è una spiegazione sufficiente? Qual è la domanda a cui rispondere? Deve essere una
domanda direttrice, ovvero guidarci nella ricerca; deve poter essere articolata in sotto-domande;
deve avere dei rimandi a degli aspetti teorici.
Elias affronta attraverso la dimensione temporale altri fattori e raccoglie una serie di dati di tipo
qualitativo (interviste, analisi di documenti, osservazione) riguardo ciò che gli abitanti dicono, fanno e
dicono di fare. Da questa osservazione emerge che fra gli abitanti della zona 2 c’è una struttura
sociale molto coesa, mentre fra gli abitanti della zona 3 ci sono rapporti prevalentemente formali,
relazioni frammentarie. Fra gli abitanti di una e dell’altra zona non ci sono rapporti particolari (se non
in casi individuali, perciò il problema non è individuale ma collettivo) e gli abitanti della zona 3 non
occupano posizioni socialmente rilevanti, che comportino cioè visibilità o potere nella vita pubblica
del paesino. (amministrazione, associazioni etc).
La spiegazione della situazione è quindi sì legata al tempo di residenza ma non dipende direttamente
da essa: la spiegazione è da ricercare nella configurazione delle relazioni sociali, che determinano la
società (rimando alla psicologia della Gestalt). Fondamentale è il concetto di “carisma di gruppo”
ripreso da Weber con una integrazione: l’attribuzione di un certo carisma ad un gruppo comporta allo
stesso tempo un effetto contrario, di “disonore”, sul gruppo opposto. In questo processo simbolico, la
valorizzazione della propria identità (da parte degli abitanti della zona 2) comporta la svalorizzazione
dell’identità dell’altro (abitanti della zona 3), che non riguarda individui particolari (che possono
invece in determinati casi svincolarsi da tale immagine) ma il gruppo nella sua interezza. Accanto al
carisma di gruppo è necessaria questa configurazione per portare ad una situazione come quella
osservata.
nell’interpretazione della situazione è importante la presenza di stereotipi nella costruzione della
realtà e delle identità. Gli stereotipi riprendono le caratteristiche positive degli abitanti della zona 2 e
quelle negative della zona 3, e queste definizioni negative vengono diffuse e interiorizzate dagli
abitanti della stessa zona 3. La situazione potrebbe essere rovesciata dagli abitanti della zona 2 che
hanno il potere di creare nuove definizioni, ma ciò non avviene perchè il codice morale che dipinge
come inferiori gli abitanti della zona 3 viene condiviso con tutti i propri vicini: non ci si contraddice
quindi a vicenda e la situazione resta invariata.
ai nostri giorni queste differenze tra gruppi … gli individui possono spostarsi … quello che li ha visti
nascere … e gruppi di vecchi residenti.
Resiste quindi anche nella società il meccanismo che contrappone insider e outsider, locali e stranieri,
membri di un gruppo e persone considerate esterne ad esso. Molti gruppi mantengono una precisa
configurazione sociale anche in seguito a cambiamenti significativi: a persistere non sono le singole
relazioni ma le configurazioni sociali più ampie che strutturano quella società e la relativa esclusione.
Per comprendere la struttura disuguaglianza occorre quindi utilizzare un approccio concentrato sia
sull’interazione fra gruppi sia sulla configurazione delle relazioni.
COS’È LA CULTURA?
Tradizioni, riti, linguaggio, tradizioni, modi di fare le cose, di parlare, di vedere il mondo, valori,
credenze
La parola “cultura” appartiene alla storia occidentale e non ha equivalenti in altri contesti, dove
pratiche, ideali etc non sono ricondotti a concetti simili.
Il significato del termine è stato definito negli anni 30, in un periodo di forti contatti con altre culture,
attraverso le scienze sociali occidentali e in particolare l’antropologia.
Tedeschi multiculturali
diversità dei costumi
colonial studies
da antropologia a sociologia
definizioni vedi slides
150 definizioni di cultura nelle scienze sociali
associare significati ai comportamenti, prospettiva interpretativa vs performativa
Si pone quindi sempre più il problema della validità dei suoi modelli culturali: mano a mano si
compara ciò che è più o meno valido all’interno di un certo modello. Ci si può trovare in un contesto
simile, che presenta un modello vicino a quello della cultura di partenza su cui ci si può quindi
continuare a basare.
Ad esempio, fra i diversi stati dell’Europa meridionale e dell’Africa settentrionale ci sono sempre stati
molti scambi attraverso il Mediterraneo: le reciproche influenze culturali si trasmettono quindi da
secoli, e i modelli culturali risultano quindi simili fra loro ancor prima dell’inizio dell’era moderna
caratterizzata dalla globalizzazione. Anzi, le differenze culturali si stanno acuendo proprio negli ultimi
modelli, in base all’idea di Europa che si sta sviluppando e ai paesi più nordici che influenzano quindi
i modelli culturali di stati come Francia, Spagna, Italia e Grecia distanziandoli da quelli di Algeria,
Tunisia e Marocco.
Essendo però un attore sociale, è necessario comunque instaurare dei legami con il mondo “nuovo”
(al di là di eventuali relazioni con altre persone della propria provenienza) per costruire un'immagine
appropriata della realtà.
Lo straniero inizia quindi a vivere una crisi cognitive, a non avere più dei dispositivi appropriati con
cui interpretare la realtà in modo automatico, un dato per scontato adatto al contesto in cui si vive: il
sapere implicito precedentemente posseduto non è sufficiente, occorre liberarsi di alcuni schemi e
crearne di nuovi. Si è fragili sul piano psicologico perché occorre imparare nuovi schemi, riorganizzare
ciò che sapevamo, interpretare ogni contesto in una nuova percezione della realtà.
Schütz propone una particolare interpretazione particolare dell’oggettività della conoscenza, quasi
opposta all’idea di Sombart e di Park: non è legata alla libertà dagli schemi, al distacco, alla mancanza
di emotività, anzi dipende proprio dal contesto in cui ci caliamo e dai nostri legami con esso, dal
coinvolgimento con la cultura di partenza così come con quella di nuovo inserimento.
Notiamo un distanziamento fra le rappresentazioni che possediamo e il contesto in cui dovremmo
applicarle; entrando a far parte di nuovi gruppi sociali possiamo acquisire nuovi schemi, conoscere
rappresentazioni diverse che non concordano a quelle a cui siamo abituati. Occorre quindi
comprendere la situazione in cui ci troviamo e mettere in relazione i diversi dispositivi in nostro
possesso, poiché padroneggiare poco i nuovi schemi, o affidarci a quelli vecchi, potrebbe portare ad
una percezione distorta della realtà. Il processo di socializzazione ci aiuta ad impossessarci di nuovi
schemi e abitudini: condividendo questa stabilità con altre persone iniziamo a padroneggiarli
abbastanza da interiorizzarli e utilizzarli nel modo corretto.
Finchè non si raggiunge una sufficiente padronanza di questi nuovi schemi, finchè non si costruisce
un modello di interpretazione che includa il nuovo modello culturale (traguardo che le istituzioni
chiamano “integrazione”), la percezione e l’interpretazione della nuova realtà rimangono grossolane
e sono frequenti conseguenze negative sulle relazioni instaurate con le altre persone
cit
Lo straniero è quindi spesso percepito dal gruppo come una persona non incerta, ma poco affidabile;
come incapace di (o non intenzionata a) aderire al modello culturale locale. Il modello presentato allo
straniero gli sembra quindi poco utile, poco maneggevole e rappresenta una difficoltà da affrontare,
un labirinto in cui orientarsi e non un utile strumento, un rifugio per destreggiarsi fra relazioni sociali,
personali e interpretazione della realtà.
Queste ultime prospettive presentano delle criticità in quanto possono non essere adatte a
descrivere e interpretare la figura dello straniero all’interno della società odierna complessa.
Schutz mette quindi in secondo piano la pluralità delle relazioni, la complessità di significato. Solo
successivamente ...
Elias riesce invece a mostrare il modo in cui le identità si strutturano nel tempo e non è solo la
provenienza geografica o l’appartenenza ad una determinata cultura a determinare le nostre
interazioni e la relazione con la società più ampia. Anzi, da questo punto di vista Elias arriva
erroneamente ad escludere in toto l’influenza della cultura nei processi di socializzazione.
Si sottolinea quindi come delle fratture culturali sono legate alla durata della residenza in un certo
luogo, e come l’inclusione ed esclusione in determinati gruppi sociali e identità sia costruita nel
tempo, non legata ad aspetti identitari.
L’uso del termine “pluralismo” rimanda ad un principio, una ideologia, ad una teorizzazione; il
termine “pluralità” suggerisce invece un significato descrittivo della società e della fenomenologia
sociale, mentre “pluralizzazione” indica un processo che può essere sociale, culturale, economico etc.
Non è quindi detto che una società che riconosce il principio del pluralismo sia allo stesso tempo una
società caratterizzata dal pluralità (culturali, religiose etc) o viceversa; in alcuni casi l’idea di
pluralismo viene applicato ad alcune comunità o religioni ma non ad altre. I processi di
pluralizzazione si verificano in ogni società contemporanea, ma questo non le rende società
caratterizzate da pluralità nè le porta necessariamente a riconoscere principi di pluralismo.
vedi slide
Qual è il problema? Che la società complessa è composta da più gruppi e presenta quindi una
pluralità di codici e modelli culturali non sempre collegati fra loro.
slide
Questi modelli generali non sono però sempre sufficienti per comprendere ogni episodio della vita
sociale: abbiamo bisogno, anche per questioni pratiche, di affidarci ad altri gruppi sociali e ai relativi
modelli culturali specifici.
In alcuni casi si crea un conflitto fra persone legato all’utilizzo di diversi codici da parte loro, e tale
situazione è frequente nel caso di persone appena inserite in una nuova cultura.
I primi teorizzatori di questo modello sono piuttosto ottimisti: nota che ci possono essere
incongruenze e divergenze in questo tipo di sistema. I codici e medium attraverso cui si concretizzano
le varie dimensioni sono infatti diversi e possono quindi entrare in conflitto, non operare in modo
armonico (ad esempio il denaro può contrastare l’amore, la verità può essere sconnessa dalla
politica, l’economia capitalista può mettere in crisi determinati legami affettivi etc).
Esiste forse un codice univoco che può poi essere declinato in queste dimensioni? Il linguaggio è ciò
che attraversa tutti questi aspetti, una struttura simbolica che tiene insieme codici diversi. Questa
struttura contiene esperienze, storie, miti espresse attraverso il linguaggio che influenzano la nostra
visione del mondo.
Non tutte le persone hanno lo stesso rapporto con tutti i tipi di codice: come gi stranieri, anche gli
altri hanno competenza diversa nell'uso di diversi codici, soprattutto se hanno iniziato di recente ad
entrare a far parte di un determinato gruppo sociale. Si può ad esempio avere dimestichezza con le
regole e i principi dell’economia, ma non capire nulla di sistemi politici e dinamiche di partito: ciò non
compromette necessariamente il mio successo lavorativo all’interno di un’azienda.
Si può parlare di “province finite di significato”: i codici culturali costituiscono diversi mondi, e i
relativi miti costituiscono determinati significati. Ogni persona sente di appartenere ad una provincia
di significato piuttosto che ad un’altra, mai a tutte; queste diverse appartenenze creano quindi
rapporti di vicinanza e lontananza fra persone.
Se abbiamo tutti difficoltà con alcuni codici, qual'è la differenza dello straniero? La differenza è che
non si condivide il mito fondativo della cultura a cui si cerca di appartenere. Se questo mito fondativo
prevede la presenza di nuove persone oppure no è un fattore fondamentale nel processo di
socializzazione dello straniero all’interno della nuova cultura, poiché determina il grado di
condivisione del proprio codice culturale.
All’interno di una società complessa non tutti condividono questi miti fondativi, ma lo straniero si
trova comunque in svantaggio da questo punto di vista.
Origine romana; unificazione; cristianesimo; in alcune regioni il periodo borbonico; resistenza; l’arte
Come viene categorizzato il buon italiano? In che modo deve aderire a tali miti di fondazione?
Occorre condividere memorie e simboli: nome, bandiera, codici, lingue… Lo straniero può
condividere alcuni di questi codici ma non i miti originari: può condividere presente e futuro ma non
il passato, l’esperienza storica non più in corso.
La condizione dello straniero dipende sia dalla sua volontà di condividere il mito originario della
comunità di inserimento, sia nella disposizione da parte della comunità ad accogliere nuovi membri.
Nel mito fondativo dell’Italia non è previsto l’ingresso dello straniero nella società, almeno non alla
pari degli italiani.
La situazione tedesca oggi è diversa: in seguito alla storia tragica della seconda guerra mondiale,
innescata anche dall’idea identitaria della razza ariana, tale immagine è stata rielaborata e il risultato
è stato un codice a cui possono aderire altre persone, straniere (dinamica concretizzata nella riforma
della cittadinanza degli anni ‘90).
pluralità all’interno della cultura indiana e americana: credibile ma anche profondo? conferma
stereotipi? come viene gestita la comicità?
L’elevata complessità sociale è legata alla produzione e strutturazione di pluralità culturale in queste
società: coesistono quindi diversi sistemi simbolici e miti costitutivi, scarsamente correlati fra loro.
L’individuo tende ad affidarsi alla propria esperienza, più che alla tradizione o alle autorità, per
orientarsi in questa pluralità di opzioni in un atteggiamento riflessivo.
La realtà, nella sua complessità, porta quindi ad una grande libertà ma anche ad una forte incertezza;
ci sollecita a livelli altissimi e comporta uno stress psicologico non indifferente. Nel compiere
decisioni fra tante opzioni accade quindi spesso di appoggiarsi a qualcosa che ci pare solido,
affidabile; in molti casi, questo pilastro risulta essere la religione. Le religioni in molte società hanno
quindi un ruolo fondamentale nella gestione della complessità, anche se formalmente vi aderiscono
sempre meno persone: la persona può infatti affidarsi ad un credo specifico a livello personale, anche
non partecipando ai relativi riti istituzionali. anche le istituzioni continuano però a resistere
(soprattutto in occidente) grazie al loro stretto legame con l’organizzazione degli stati stessi, ad
accordi passati, al ruolo nella costituzione di equilibri politici e sociali, alla forte presenza all’interno
del terzo settore, servizi alla persona e simili.
Cotesta propone di applicare il modello di Merton al rapporto fra individui e gruppi in una società.
Due persone o due gruppi, quando in contatto fra loro, possono assumere atteggiamenti di
indifferenza reciproca, di attenzione reciproca, di interesse e volontà di essere integrato o di integrare
o di disinteresse e mancata volontà di fare lo stesso.
Questi meccanismi portano alla condivisione di determinati codici culturali: la diversità non è quindi
legata ad una caratteristica in sé ma alla condivisione di questi odici con chi condivide l’appartenenza
alla stessa categoria: non mi comporto in un certo modo perché “sono” italiano, ma perché mi
identifico come tale e attraverso questo sentimento di appartenenza ne condivido e riproduco quindi
la relativa identità culturale, legata ad un determinato territorio.
Quali modelli si sono sviluppati, quali sono stati declinati nel processo politico di relazione fra
culture?
- Melting pot: ideale di fusione di tutti i gruppi in una cultura “superiore” che va al di là di ogni
specificità. Tale modello non ha avuto esiti positivi poiché tendono a prevalere modelli coloniali e
vengono quindi espulse da questa idea determinate culture
- Chiusura difensiva: legata al conflutto fra culture, distingue queste ultime e ne riconosce solo
alcune fino alla nascita di fondamentalismi e conflitti etnici
In una società complessa, come avviene la condivisione del mito fondativo con lo “straniero”?
Questo dipende dal rapporto dello straniero con la complessità della società, con i diversi miti
presenti a seconda delle varie dimensioni presenti (vedi modello multifunzionale). Lo straniero può
ad esempio condividere alcuni miti in base al gruppo professionale a cui appartiene, anche
provenendo da un contesto culturale diverso (vedi appunti precedenti).
Il processo di anticipazione avviene anche attraverso la tecnologia, che facilita quindi i processi di
ingresso nella “nuova” società. Anche prima dell’apprendimento di una eventuale nuova lingua si
possono acquisire informazioni sull’organizzazione sociale, sulla presenza di contesti facilitatori (ad
esempio associazioni vicine alla mia regione di provenienza, gruppi di immigrati con la mia stessa
provenienza etc). L’individuo, ancora prima di spostarsi, inizia a relazionarsi con la frammentazione
della propria identità.
Ciò risulta pretenzioso, soprattutto nel momento in cui non sono presenti adeguate risorse che
permettano effettivamente alla persona di acquisire tali competenze. Tali processi richiedono inoltre
un tempo non indifferente, durante il quale lo straniero (visto come tale) tende quindi a organizzarsi
con altri stranieri in gruppi definibili come comunità etniche.
Tale comunitarismo viene spesso visto come pericoloso, perché crea una subcultura che ostacola
quindi l’assimilazione alla cultura locale e l’aderenza ai suoi miti e norme. Al contrario, queste
comunità svolgono spesso un ruolo facilitatore per l’inserimento della persona nella nuova società, in
mancanza di figure pubbliche che svolgano tale ruolo sociale e di politiche pubbliche che configurino
luoghi e occasioni di inserimento sociale.
L’identità personale è legata all’identità culturale, patrimonio che continua ad orientarmi: migrando
non viene annullata quella componente della mia identità.