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Antropologia della complessità

Lezione 1
Che cosa intende il prof per antropologia della complessità? Il primo prof Comba la intendeva
come lo studio antropologico dei sistemi complessi, della sfera simbolica umani dei sistemi
complessi, in particolare quelli religiosi. Il prof intende un richiamo all’antropologia delle società
complesse, la complessità sociale ha a che fare con la questione spinosa e inaggirabile della
modernità in quanto sistema sociale complesso. Il corso è dedicato a chiarire le basi di una
antropologia critica della modernità. Antropologia dedita a studiare le società moderne nelle sue
varie declinazioni, e che affronta la modernità in modo critico. L’intenzione è superare certi
assunti dati per scontati rispetto alla modernità e ai processi di modernizzazione, una critica
culturale, ma anche una critica di una antropologia impegnata che mira a mettere in luce la
complessità della modernità e mettere in rilievo le complessità e tensioni della società moderna,
una antropologia che vuole dare il suo contributo in senso politico.
Affronteremo questo approccio antropologico della modernità sotto il pensiero di Walter
Benjamin, lui sarà la nostra guida del corso. Non era espressamente un antropologo, era un
saggista, filosofo e critico letterario, uno studioso che ha anticipato molti aspetti
dell’antropologia delle società complesse. Oltre a lui ci saranno Polaney, Walliston, Appadurai,
Comaroff.
Antropologia critica della modernità, parlarne non è così scontato. L’antropologia si è
trasformata nel tempo, l’antropologia culturale continua ad essere associata allo studio delle
società “primitive”, semplici, tradizionali e non moderne (si è dedicata tanto a quello, ma non
solo). Lo studio delle società moderne era più oggetto di studio dalla sociologia, questo è rimasto
fino agli anni 70 dove antropologia e sociologia hanno incominciato a convergere. Questo
cambiamento della disciplina ha causato un “ritorno a caso”, nel senso che nonostante tutto
l’antropologia culturale è una disciplina occidentale legata alla società moderna che è nata
assieme alla modernità, il cui compito era studiare le altre società. Negli anni 70 la disciplina
inizia a studiare anche le società complesse. Da li uno sviluppo dell’antropologia definita “at
home”, sempre di più le ricerche vengono effettuate nella propria società, nel proprio paese/città.
L’antropologia urbana ha avviato il crescente interesse per la modernità e per la complessità.
Ormai tutta l’antropologia contemporanea è in modo o nell’altro una antropologia della
modernità, eppure questa espressione non è così diffusa. Marc Augè conia il termine
“antropologia della contemporaneità”, questo implica un’ottica evoluzionista, sembra dire che lo
studio delle società semplice corrisponda a qualcosa di non contemporanea, è un paradosso
perché in realtà l’intenzione era l’esatta opposta. Il termine “antropologia della complessità”
serve per evitare derive etnocentriche.
Perché gli antropologi non hanno semplicemente sviluppato una antropologia della modernità? È
il concetto stesso di modernità ad essere stato usato con un certo scetticismo dall’antropologia
culturale, in particolare proprio dall’antropologia contemporanea che si sviluppa dagli anni 80 ad
oggi, che ha a cuore lo studio della modernità e della modernizzazione. Gli antropologi
contemporanei utilizzano poco il termine modernità, a differenza degli studiosi precedenti che lo
usavano senza problemi. Perché questa diffidenza da parte dell’antro culturale al concetto di
modernità? L’antro culturale ha in sé un’anima antimoderna e non moderna, ha un atteggiamento
e critico nei confronti della modernità fin dall’inizio della disciplina, è critica alle ideologie del
progresso. Benjamin è stato uno dei primi a mettere in discussione la retorica della modernità del
progresso mettendone in luce gli aspetti distruttivi. Questo scetticismo ebbe i suoi effetti e fu il
motore che ha spinto a studiare le società non moderne. Questo scetticismo si riflette anche in un
più specifico disagio nel concetto di modernità. Gli antropologi ci dicono che dobbiamo essere
cauti ad utilizzare questo concetto, per evitare una rappresentazione dicotomica e dualistica
dell’umanità, da una parte la società moderna e dall’altra quella non moderna. La modernità si
definisce in contrapposizione alla tradizione. Un dualismo che finisce per declinarsi in un
dualismo noi/altri, the west and the rest. L’idea di fondo è che questo concetto di modernità va
affrontato criticamente e decostruito per evitare queste rappresentazioni dicotomiche.
Perché decostruire questo concetto? Uno dei compiti dell’antropologia è quello di porsi come
critica culturale, mettere in discussione le nostre idee e in nostri assunti. Più in generale vi è il
fatto che il concetto di modernità è un termine polisemico e anche contradditorio. Cosa si intende
per modernità? Si intendono tendenzialmente due cose diverse:
- Una precisa epoca storica, l’epoca moderna
- Si fa riferimento anche ad un certo tipo di società
I due significati non coincidono ma si sovrappongono, la società moderna si è imposta da un
determinato momento storico. La modernità si presenta come qualcosa di unico ed eccezionale, e
non solo nuovo, l’antro critica deve liberarla da questo carattere di eccezionalità. La società
moderna è particolarmente complessa, divisa in istituzioni (economiche, politiche, legate alla
parentela ecc).
Come possiamo definire la modernità dal punto di vista culturale? Potremmo dire che la
modernità tende a presentarsi come la società degli individui, una società in cui emerge e si
afferma da una parte l’idea stessa di individuo e dall’altra parte l’individualismo. La modernità
tende a presentarsi come la società caratterizzata dall’emergere dell’individuo e
dell’individualismo. La modernità viene anche associata a delle dimensioni più intellettuali, ad
esempio il pieno sviluppo della razionalità, è organizzata razionalmente e sulla scienza. Questa
enfasi sul pensiero scientifico sulla razionalità e valorizzazione dell’individuo fa emergere una
delle contraddizioni del concetto di modernità, che ha a che fare con la domanda: la modernità
coincide con uno sviluppo culturale o con un allontanamento della cultura? La modernità porta a
più cultura o meno cultura? Il concetto è contraddittorio: da una parte nella prospettiva
evoluzionista la società moderna tende a percepirsi come la civiltà per eccellenza, il massimo
sviluppo della cultura, come la tappa ultima dell’evoluzione culturale. Dall’altra parte però
sappiamo che la modernità si definisce in contrapposizione alla tradizione, alle forme di vita e
culture tradizionali, la modernità è ciò che va contro alla tradizione. In senso antropologico la
cultura è in primo luogo tradizione, definendosi in opposizione alla tradizione la modernità
pretende di essersi liberata dalla cultura, l’idea di fondo è che la società moderna non è più
orientata dalla tradizione ma dalla razionalità. C’è una forte contraddizione nel senso di
modernità, pretendiamo allo stesso tempo di essere il massimo dell’evoluzione culturale e
qualcosa di non culturale. Per buona parte dell’antropologia la modernità porterebbe alla
distruzione delle altre culture, ad un impoverimento culturale, le cose però sono più complesse di
così. L’approccio più corretto della nostra disciplina è quello che è stato sviluppato da
antropologi come Hammerz e Appadurai. Il loro atteggiamento nei confronti della modernità è
che va vista come una cultura, come una meta-cultura, un insieme complesso composto da molte
culture che condividono dei tratti comuni. La modernità è una cultura come le altre, per questo
anche noi antropologi la possiamo studiare. Vedere nella modernità una cultura si lega all’altro
atteggiamento fondamentale dell’antropologia della modernità, quello della critica. Il compito
dell’antropologia culturale tradizionalmente è quello di rendere comprensibile e familiare
qualcosa che è diverso e distante da noi, in questo caso andiamo a rovesciare questa prospettiva,
il compito dell’antropologia della modernità è rendere esotico ciò che ci è familiare. Un processo
di de-familiarizzazione della nostra cultura. La modernità non ha un carattere eccezionale, ma è
una cultura come le altre dal punto di vista antropologico.
Come possiamo intendere la modernità come qualcosa di non eccezionale ma come una meta-
cultura? Possiamo ricorrere al punto di vista neomarxista, ritornare all’idea marxista di una
relazione articolata e complessa ma reale ed evidente di una struttura sociale e una sovrastruttura
culturale. In ottica marxista e neomarxista come quella di Wolf (L’Europa e i popoli senza storia)
è possibile distinguere dal punto di vista storico diversi modi di produzione (diversi modi di
organizzare il lavoro umano e la distribuzione dei bene e delle risorse, del surplus). Wolf
distingue tre grandi modi di produzione:
- Domestico: l’organizzazione del lavoro è organizzata sulla famiglia e sulla parentela. La
produzione e distribuzione segue i canali della parentela.
- Tributario: sviluppo dell’agricoltura intensiva, la divisione della società tendenzialmente
dualistica, i rapporti di rapporto e consumo sono di tipo politico e di dominio, due grandi
classi:
o Produttori
o Élite dominante
- Capitalistico: la caratteristica fondamentale a livello di produzione è la divisione di classi
sociali strettamente legate al lavoro. Una classe sociale si appropria del valore prodotto
dalla classe lavoratrice. Il principio regolatore è quello del mercato, lo scambio basato
sulla logica della domanda/offerta.
Il punto è che la modernità in quanto meta-cultura va vista come la cultura del modo di
produzione capitalista, come cultura della produzione industriale e del mercato, dello scambio di
mercato basato sulla logica domanda/offerta e della ricerca dell’interesse individuale. È la meta-
cultura della produzione industriale e del mercato. Se volgiamo comprendere la modernità da un
punto di vista antropologico allora il nostro punto di partenza sarà il capitalismo, l’antropologia
della modernità per realizzarsi deve necessariamente passare attraverso una antropologia del
capitalismo. Dobbiamo affrontare attraverso gli strumenti dell’antropologia questo modo di
produzione e le sue logiche produttive, di scambio e le sue ideologie, le dimensioni simboliche,
culturali e rituali. Se l’affrontiamo da questo punto di vista la modernità vedremo che il
capitalismo oltre ad essere una forma di organizzazioni è anche una sorta di religione. Benjamin
aveva un approccio etnografico verso la società perché ha sempre cercato di rendere esotico ciò
che ci è familiare, de-familiarizzare la cultura e la società moderna.
Per Weber il capitalismo in quanto sistema economico e di valori sarebbe emerso primariamente
nei paesi nordeuropei perché sarebbe strettamente collegato alla religione e alla teologia
calvinista, sarebbe stata secondo Weber l’etica individualista del calvinismo ad aver realizzato il
capitalismo.
Benjamin ci dice che il capitalismo può essere inteso come una religione perché oltre ad essere
un modo di produzione che risponde a dei bisogni materiali, risponde anche a dei bisogni
esistenziali, fornisce anche un insieme di rappresentazioni e valori che orientano o determinano
le nostre azioni. Il capitalismo è una meta-cultura, un sistema simbolico. È una religione
particolare perché non nasce dal calvinismo cristiano e non sostituisce il cristianesimo, non è
basato su una teologia, ma è basata sul culto e sui rituali (una sorta di religione pagana, antica
religione romana, è identitaria). Nel capitalismo il culto è continuo, e ve ne sono di due tipi:
- Lavoro
- Consumo
Chi per un motivo o per un altro viene escluso da questi due culti viene di fatto escluso dalla
comunità, come succedeva nell’antica Roma a chi non voleva praticare il culto dell’imperatore.
Nella società capitalistica gli elementi fondamentali che organizzano la vita sociale sono la
produzione (il lavoro salariato) e il consumo, chi non vi partecipa viene escluso dalla comunità,
viene emarginato, viene espulso dalla società. L’altro elemento su cui si sono soffermati i
commentatori di questo frammento è la questione della colpa, per Benjamin questo è l’unico
caso in cui il culto non conduce all’espiazione della colpa ma alla crescita della colpa. La
riflessione di Benjamin si basa sul fatto che in tedesco si usa lo stesso termine per indicare tanto
la colpa (in senso di colpa, essenzialmente religiosa e morale) e il debito. Benjamin ci sta
dicendo che il sistema capitalistico è organizzato in modo tale che invece di liberarci dai debiti,
ci porta ad indebitarci sempre di più, e questo indebitamento ci lega al sistema sempre di più. Ci
invita a guardare al capitalismo in modo differente per farci riflettere. Il capitalismo è di fatto un
sistema simbolico fatto di credenze e rituali.
Il capitalismo è qualcosa di razionale o no? Per Benjamin e l’antropologia della modernità ci
dicono che non è esattamente così, in realtà è fatto sostanzialmente di rituali e di credenze. Il
capitalismo come tutte le religioni modella e costruisce i suoi stessi fedeli. Nello studio
antropologico della modernità l’elemento fondamentale su cui dobbiamo rivolgere lo sguardo
sono le dinamiche di soggettivazione, di coproduzione e modellazioni dei soggetti attraverso i
due principali meccanismi rituali del capitalismo: lavoro e consumo.
Ovviamente il frammento di Benjamin lascia tanti punti in sospeso, tipo in che senso è una
religione? Che cos’è un sistema religioso dal punto di vista antropologico? la religione
corrisponde ad una visione del mondo corrisponde ad una certa immagine della realtà. Questa
visione del mondo, perché si sia davanti ad una religione, deve essere strettamente connessa a
una dimensione etico/morale o pratica, la religione è da sempre rito da una parte e da una parte
mito. Geertz definisce la religione come un sistema di simboli che opera stabilendo profondi e
diffusi stati d’animo per mezzo della formulazione di concetti di un ordine generale
dell’esistenza.
Il capitalismo come religione in termini antropologici, qual è la sua visione del mondo? La sua
concezione in un modo o nell’altro riconduce all’individualismo, una società composta da io, da
individui che sono separati l’uno dall’altro, ciascuno dotato dei suoi capitali, tendenzialmente in
competizione l’uno con l’altro. Questa è la visione sociale del capitalismo. Questo si lega non
solo alle dimensioni rituali (lavoro e consumo) ma ha una serie di conseguenze sul piano etico,
degli ideali e dei valori. Per l’individualismo proprietario (ognuno di noi è proprietario di se
stessi, e ha proprietà materiali, più si ha proprietà e più si è individui) la società non è altro che
l’insieme di monadi, di atomi distinti separati che si scontrano conduce a questa visione
individualistica che comporta la competizione per ottenere un vantaggio, la competizione diventa
un dovere religioso. L’altro elemento fondamentale è quello del godimento come dovere, anche
la ricerca del troppo piacere personale è strettamente legato all’individualismo proprietario.
Come dice Zizek il motto del capitalismo contemporaneo è il joy, godi, il godimento diventa una
parola d’ordine dando vita a una vita collettiva e sociale che passa costantemente dal lavoro a
consumo guidato dalla competizione generalizzata e dal godimento. Qual è l’elemento
interessante per noi? È la denaturalizzazione dei valori su cui generalmente non riflettiamo.
Vedere il capitalismo come religione è interessante perché ci dice che la competizione
generalizzata non è qualcosa di naturale o di meccanico, dal punto di vista antropologico è più
utile vederla come un valore, come una prescrizione morale e etica che deriva dalla visione del
mondo capitalista. Queste due dimensioni si collegano ad un altro aspetto del capitalismo,
ovvero quello del debito, che è forse il meccanismo fondamentale che fa procedere il sistema
stesso. Il fatto di essere indebitati ci obbliga a partecipare al culto. Secondo Benjamin il
capitalismo in quanto religione è privo di dogmi e di teologia, anche se poi fa riferimento
all’utilitarismo che fa da teologia. Forse Benjamin è andato un po’ oltre, altri studi ci dicono che
effettivamente c’è una teologia del capitalismo, un sistema filosofico e ideologico che da una
parte da senso e dall’altra legittima il modo di produzione capitalistica e il capitalismo come
religione, questo lo ritroviamo nelle economie neoclassiche.

Lezione 2
Se noi de-familiarizziamo la nostra organizzazione economico riusciamo ad osservarla
dall’esterno, riusciamo a guardarla con uno sguardo antropologico. Se osserviamo la struttura
sociale del capitalismo in questo modo notiamo che è strana, che sembra avere tratti di
eccezionalità, così come le società altre studiate dagli antropologi. La modernità arriva con una
concezione di nuovo, quando in realtà in ottica antropologica è una cultura come le altre, non è
nulla di eccezionale. La nostra cultura è nostra fino ad un certo punto, siamo già tutti parte ed
estraniati dal sistema, questa posizione eccentrica permetto uno sguardo acuto sul sistema.
Benjamin dice che la religione capitalista è una religione solo cultuale, una ortoprassi senza una
teologia, ma questo non funziona tanto perché effettivamente vi è una teologia, la scienza
economica nella sua versione egemonica (classica e neoliberale) può essere vista come teologia
del capitalismo. Molti economisti possono esser paragonati ai divulgatori delle regioni (es:
Tommaso d’Acquino). Se pensiamo alla centralità de denaro nelle nostre vite la suggestione di
Benjamin diventa molto interessante. La dimensione religiosa del capitalismo non è evidente, è
un modo diverso di osservare la realtà, meno utilizzato della prospettiva economica. Benjamin è
stato uni dei primi a trattarlo in termini di religione, prima di lui ci fu Marx, nel quali sono
spesso presenti immagini e metafore che rimandano al piano religioso o teologico. Questo non
era il tema principale di Marx, il suo era giusto un accenno. C’è un concetto marxiano che è
centrale negli scritti che è espressamente religioso: feticismo delle merci e del denaro. Marx
recupera questa espressione dall’antropologia culturale dei suoi anni, dagli antropologi
evoluzionisti. Marx riprende questo tema che rimanda al feticcio che nella prospettiva
evoluzionistica era una delle prime forme di religione, il feticismo è il culto dei feticci, statuette
umanizzate venerate come se fossero divinità.
- Feticismo delle merci: quel processo per cui in una maniera illusoria e ideologica le merci
sembrano in qualche modo prodursi da sole, sembrano avere un valore
indipendentemente dall’attività e dal valore umano
- Feticismo del denaro: la regola di base dello scambio di mercato incentrato sullo scambio
di oggetti mediato dal denaro, io lo uso per acquistare delle merci (anche la forza lavoro)
per rivenderle e farci un profitto. Il feticismo è l’illusione propria del capitalismo come
religione, è l’idea che il denaro cresca e si produca da solo. C’è l’illusione che il denaro
investito generi automaticamente altro denaro.
Il feticismo delle merci per essere compreso va messo in relazione ad un'altra dimensione
fondamentale della forma di vita capitalista che è quell’insieme di processi di reificazioni (anche
alienazione). Reificazione significa oggettificazione o cosificazione, si intende che all’interno del
sistema simbolico legato al capitalismo i rapporti sociali che sono l’essenza della vita associata e
dell’esistenza umana, vengono visti rappresentati e rielaborati come se fossero degli oggetti e
non come delle costruzioni umani, ma come qualcosa di oggettivo che va da sé e che non può
essere modificato. Una naturalizzazione dei rapporti sociali. L’altro lato della medaglia delle
reificazioni è che i soggetti all’interno del sistema simbolico del capitale le persone vengono
oggettificate, vengono ridotte a cose dal punto di vista strettamente economico, vengono ridotti a
forza lavoro, alla loro capacità di produrre ricchezze. Le persone vengono viste e trattate come
strumenti perché viene valorizzata esclusivamente o la loro forza lavoro o il fatto di essere
detentori di capitali in base alla classe sociale. Adesso questo processo di reificazione ha
raggiunto una raffinazione ulteriore come il termine “capitale umano”, l’idea che ciascuno di noi
ne sia dotato su cui deve tendenzialmente investire. Nel capitale umano ciascuno di noi ha valore
esclusivamente in riferimento al sistema di produzione. Il consumismo sistematico e pervasivo
che è proprio delle nostre società tardo capitaliste è strettamente legato al feticismo delle merci
perché le merci hanno un valore di per sé che trasmettono alle persone quando vengono
acquistate, l’idea è che le persone acquisiscono valore attraverso il bene acquistato. Ad esempio,
le code per il nuovo Iphone, fenomeni come questi spesso vengono descritti in termini che
rimandano a certe forme irrazionali di religiosità o di comportamento, l’idea di Benjamin è
quella di prendere sul serio questi spunti e immagini che vengono fuori spontaneamente che
colgono qualcosa delle forme di vita nel tardo capitalismo.
Esempio di studio: etnografia con famiglie Middle-class americane sul debito per il college
“Indebted”, l’autrice parte dalla sua esperienza personale, è un esempio di antropologia a casa,
ricerca che parte da New York per poi espandersi in altre regioni americane. Una etnografia
basata sulla raccolta di testimonianze e interviste dedicate al fenomeno del debito accumulato per
studiare dalle famiglie di classe media. Il problema è che gli studenti di classe alta non hanno
problemi a pagare le rette, mentre quelli di classe bassa sono tendenzialmente esclusi, la classe
media è vincolata ad addebitarsi per garantire una carriera ai figli. Il paradosso è che gli studenti
sono quasi costretti a seguire determinati percorsi perché portano a lavori più remunerativi che
poi andranno a pagare il debito. Anziché favorire autonomia e carriera agli studenti, il debito
conduce a qualcosa di diverso, li porta ad accettare lavori poco soddisfacenti e a rimanere
dipendenti dai genitori. Il libro è interessante per il ritorno al concetto di classe sociale che alla
fine di anni 80 e inizio anni 90 era stato abbandonato dallo studio, ora però è tornato in auge.
Benjamin si rifà alla teoria di Weber, che dice che il capitalismo emerge per certi versi dalla
religione protestante, Benjamin dice che in realtà il capitalismo ha sostituito la religione
cristiana. Benjamin accenna a questo aspetto perché Weber nel suo saggio dava particolare
rilievo alla capacità dio sacrificio di calcolo razionale del calvinismo, il capitalismo nasce nelle
società calviniste perché caratterizzate da uno spirito di sacrificio, Benjamin però dice che non è
lo spirito di sacrificio bensì il consumo e la ricerca come dovere etico/morale del godimento, in
questo senso il capitalismo ha sostituito il cristianesimo. Geertz sostiene che l’apparato
simbolico crea degli stati d’animo durevoli, quello che dice Geertz è che i rituali in quanto
sistemi di simboli modellano e trasformano i fedeli creando in loro durevoli stati d’animo, le
religioni in quanto apparati simbolici e rituali creano i loro stessi fedeli. Questo è vero anche per
la religione capitalistica. Qual è la soggettività che viene modellata dal duplice culto della
religione capitalista? È quella dell’homo economicus. Mauss sosteneva che l’homo economicus
non è qualcosa di originario ma è qualcosa che sta davanti a noi, creato dalla società capitalista.
Per homo economicus si intende il modello antropologico in cui si racconta il soggetto come
attore individuale e fortemente individualista, che agisce esclusivamente in vista del massimo
interesse, viene rappresentato come l’attore razionale per eccellenza. Possiamo trarre da
Benjamin e Mauss che l’homo economicus sia un modello trasmesso attraverso il duplice culto
dell’attività economica sotto forma di lavoro e di consumo, partecipando senza tregua e senza
sosta a questo duplice culto noi veniamo completamente modellati e trasformati in homo
economicus, al punto che questo modello ci sembra qualcosa di assolutamente naturale e
scontato.
La questione dell’homo economicus, dell’attore individuale che agisce per il raggiungimento per
proprio benessere, è presente anche nel libro di Polanyi la “Grande trasformazione”. Il suo tema
di fondo è quello della grande trasformazione, è una ricostruzione storica e dell’affermarsi del
capitalismo e dell’imporsi della produzione industriale in Inghilterra nel XVIII secolo. Polanyi
sostiene che in tutte le società sono presenti tre forme di distribuzione dei beni:
- Reciprocità
- Redistribuzione
- Scambio
Tutte queste forme sono incastonate e controllate dai rapporti sociali in tutte le società. Secondo
Polanyi la prima grande trasformazione avviene a cavallo tra il XVIII e XIX secolo quando lo
scambio di mercato di disincastona dalle dinamiche sociali che lo tenevano sotto controllo e
prende il sopravvento, si passa a società di mercato organizzate dallo scambio di mercato che
prende il sopravvento, che colonizza la società, dà vita alle merci fittizi, che sono la terra (intesa
come quella da coltivare), il lavoro (una merce che viene scambiato come tutte le altre merci
sulla base della domanda e dell’offerta), il denaro (diventa una merce che viene comprato dando
l’illusione di aumentare spontaneamente). Le conseguenze di questa grande trasformazione è
l’affermarsi dell’individualismo, dell’immagine dell’individuo come homo economicus, il
mercato diventa il principio regolatore della vita sociale.
Il sistema-mondo
Polanyi si concentra sulla culla del capitalismo, la logica dello scambio di mercato che controlla
la produzione e la distribuzione, il lavoro salariato è l’elemento fondamentale, la merce che viene
venduta all’interno del mercato del lavoro. L’idea di un mercato del lavoro, di soggetti che
vendono la loro forza lavoro sul mercato è qualcosa di eccezionale, proprio della modernità
capitalista. Il mercato si espande nel resto della società, la colonizza. L’altro lato di questo
processo proprio della modernità in quanto meta-cultura, il fatto che la logica del mercato
mediata dal denaro si liberi dai vincoli della società tradizionale significa due cose: che entra
nella società (il mercato capitalista). Il punto è che nello stesso momento in cui il mercato entra
nella società e diventa dominante esso si espande anche nel mondo. Questo significa che il
capitalismo fin dall’inizio, che risalgono prima alla rivoluzione industriale nel XV/XVI secolo,
nasce fin da allora come globale. La globalizzazione è caratteristica del nostro tempo, ma è
presente fin dagli esordi del capitalismo, che nasce globale e globalizzato perché la sua logica è
quella dell’appropriazione che fa si che il sistema sia in costante bisogno di nuove risorse, che
non possono essere completamente soddisfatte in quelle regioni in cui nasce. Questo bisogno
porta all’espansione e alla creazione di nuovi mercati. Dall’origine vengono costituiti nuovi
mercati grazie all’espansione, che si è costituita sottoforma di conquista da parte delle realtà
europee, sottoforma di colonizzazione. Il colonialismo e gli imperi coloniali sono il meccanismo
attraverso cui il capitalismo e la logica del mercato si sono diffuse nel globo nel corso dei secoli,
in particolare con una accelerazione nel XIX secolo con la rivoluzione industriale. Ovviamente
l’espansione coloniale europea rappresenta ala vera accumulazione originaria, attraverso la
conquista dei territori e la sottomissione delle popolazioni si è arrivati alle risorse che sono state
poi utilizzate per far sviluppare le tecnologie in Europa. La modernità è una meta-cultura che si è
diffusa nel mondo, mentre la maggior parte delle culture non si espandono, la cultura del
capitalismo ha la tendenza a diffondersi. La modernità è la meta-cultura che si diffonde e che ha
prodotto tutta una serie di tensioni e conflitti politici, economici e culturali. Questa meta-cultura
continua ad andare a scontrarsi con le varie forme di vita e culturali locali. Questa teoria
dell’espansione della meta-cultura non è qualcosa di novo, ma generalmente nelle teorie storiche
e sociologiche dominanti questa idea è stata letta e analizzata attraverso una qualche forma di
quella che possiamo definire teoria della modernizzazione, che cerca di spiegare le cause delle
modernità. Con ciò ci si riferisce a tutte quelle letture della modernità che dipingono come una
sorta di progresso ed evoluzione unilineare strettamente collegata all’evoluzione del mercato e
dello stato moderno. Uno stato è moderno quando vi è un mercato capitalista e istituzioni
politiche. In sostanza le teorie della modernizzazione sostengono che la modernità è un progresso
legato all’emergere dello stato moderno. I teorici cercavano di rispondere ad una domanda:
perché i paesi del Sud globale, nonostante siano inseriti nei sistemi globali, non si sviluppano?
L’antropologia ha avuto un ruolo importante nel rispondere a questa domanda perché gli
antropologi hanno concentrato per lo più le loro ricerche in questi paesi. I teorici della
modernizzazione (sociologi ed economisti) hanno provato a rispondere a questa domanda tirando
in ballo tutta una serie di spiegazioni culturaliste, che fanno riferimenti a questioni e fattori
culturali, si è detto che i paesi in via di sviluppo sarebbero tali per questioni culturali, hanno una
cultura arcaica, perché sono arretrati culturalmente. Foster prende come esempio una comunità
messicana nella quale si pensa che le risorse non siano limitati, c’è una immagine dei beni
limitati. Secondo Foster questo non porta all’imprenditorialità e quindi all’arretratezza. La cosa
ironica è che in un’epoca come la nostra i contadini della comunità avevano ragione, le risorse
non sono illimitate. Queste teorie della modernizzazione rendono bene qual è l’idea di base della
modernizzazione, che rovescia il rapporto di causa/effetto tra modernità e capitalismo. La tesi
esposta fino ad ora con Marx ecc, secondo cui la modernità è una conseguenza dello sviluppo del
modo di produzione capitalistico, mentre i teorici della modernizzazione sostengono che la
modernità culturale è determinante rispetto allo sviluppo della modernità stessa. A questa teoria
della modernizzazione che si è imposta negli anni 50, negli anni 70 ha iniziato a contrapporsi una
teoria speculare a stampo marxista, la teoria dello sviluppo del sottosviluppo. Questa teoria si è
imposta in antropologia, la teoria del sistema-mondo legata alla teoria di Franck dello sviluppo
del sottosviluppo.
Teoria dello sviluppo del sottosviluppo: Wallerstain ci dice che fin dai suoi inizi il capitalismo si
è espanso, è diventato globale, espandendosi ha dato via ad una economia/sistema mondo
capitalista basato su una relazione dialettica tra centri e periferie. Questi centri solo tali perché
hanno dominato e si sono appropriati delle ricchezze delle periferie (i paesi del Sud globale) e
delle semi-periferie. I centri e le periferie sono collegati fra loro storicamente da una relazione di
scambio squilibrato basato sullo sfruttamento delle periferie dai centri. Questi centri continua ad
appropriarsi delle materie prime delle periferie del sistema-mondo. I teorici ci stanno dicendo
che l’arricchimento dei centri dipende dalla povertà delle periferie. Il sottosviluppo, quindi, non
dipende dalla presunta arretratezza culturale, ma dipende essenzialmente dallo sviluppo dei
centri. Ad esempio, Mintz ricostruisce le dinamiche fondamentali dello sviluppo e del
sottosviluppo con l’esempio delle economie di piantagioni dello zucchero. Geertz si è occupato
anche di queste tematiche studiando quella che lui chiama “l’involuzione agricola” in Indonesia.
Era una agricoltura molto florea che con la colonizzazione è stata stravolta e sostituita da
piantagioni singole che ha portato a situazioni di povertà. La teoria di Wallerstain ci dice che il
capitalismo nasce globale dando vita ad un vero e proprio sistema caratterizzato da questi
rapporti di potere, da centri dominanti che devono il loro benessere allo sfruttamento del Sud
globale, Wallestain ci dice che dobbiamo vedere il mondo moderno come un sistema. Wolf in
“l’Europa e i popoli senza storia” sostiene che uno dei grandi problemi dell’antropologia classica
è che ha sempre visto il mondo come “palle da biliardo”, come tante società chiuse su di sé e che
al massimo si scontrano l’una con le altre; invece, secondo Wolf dobbiamo abbandonare la
visione a “palle da biliardo” per guardare a relazioni di forza e resistenza.
Lezione 3
Diamond in “Armi, acciaio e malattie” si inserisce nel neo-evoluzionismo americano, è un po’ un
determinismo tecnologico e ambientale.
Il sistema-mondo si è costituito storicamente dall’epoca delle grandi conquiste e con maggior
enfasi dal XVI/XVII secolo, questo è l’affermarsi del capitalismo moderno. La differenza tra
Wallerstein e Wolf è che Wolf da antropologo e marxista è più attento alle dimensioni sociali, lui
vuole attirare l’attenzione sul fatto che la storia globale è la storia delle varie popolazioni che
sono state toccate da queste espansioni, stravolti dalle dinamiche di espansione, la sua idea è
duplice:
- Dobbiamo abbandonare la visione a “palle da biliardo”, Wolf (antropologo) sottolinea
anche il ruolo attivo delle popolazioni non occidentali all’interno di queste dinamiche,
non sono state vittime passive, ma hanno giocato un ruolo attivo. Ad esempio, i Kwakiutl
e il potlatch, un sistema di scambi di dono competitivo descritto da Boas e ripreso Mauss.
Il potlatch è stato presentato spesso come una antitesi del pensiero moderno, una forma
pratica che non segue le regole della razionalità economica, della ricerca della ricchezza,
è stato presentato come un sistema economico diverso, come quelle dinamiche di
distruzione secondo George Bataille, la sua lettura può essere un po’ estrema, ma come
sottolinea Wolf, ricerche successive hanno mostrato chiaramente come il potlatch come
sistema di scambio competitivo inteso come distruttivo fu dovuto all’incontro fra i
mercanti di pellicce e le popolazioni native. Da sempre il potlatch si è relazionata con
altre popolazioni. Altro esempio è quello dei Kachin dell’attuale Birmania presentato da
Lich, che descrive l’organizzazione politica, economica e parentale della popolazione
Kachin, egli ritrova presso questa popolazione la presenza di due sistemi politici diversi
presenti nei vari villaggi anche quando lui stava facendo ricerca:
o Il sistema Gumsa: organizzazione presente nella maggior parte dei villaggi, era
una organizzazione gerarchica e aristocratica, al vertice si trovavano delle
famiglie legate dal vincolo matrimoniale che costituivano l’élite e dominavano gli
altri abitanti dell’area, gli altri membri lavoravano per accrescere il potere e le
ricchezze dei capi.
o Il sistema Gumlao: era tendenzialmente repubblicana e democratica, villaggi che
avevano rovesciato il potere delle élite nei quali il sistema politico era gestito in
maniera paritaria dai rappresentanti dei vari lignaggi. Gumlao significa “ribelli”.
Ancora una volta dal punto di vista storico è più complicata di così, ricerche avvenuto dopo
quelle di Lich hanno dimostrato che l’organizzazione politica dei Kachin fosse condizionata
dalla coltivazione in larga scala dell’oppio, una coltivazione gestita dalle popolazioni dell’area
che coltivavano l’oppio per poi venderlo ai commercianti britannici e americani, che poi lo
vendevano per porcellana e thè in Cina, dando avvio ad una e vera propria epidemia. Il punto è
che in relatà le ricerche storiche ci dicono che i capi erano tali perché controllavano e gestivano
il commercio di oppio, Wolf aggiunge che i territori erano tutti Gumsa, alcuni grazie alla
ricchezza, i Gumlao, erano tali perché grazie alle ricchezze e riuscivano a rendersi indipendenti
dai capi Gumsa e provavano a rovesciarli.
L’esempio dei Kwakiutl e dei Kachin letti alla prospettiva di Wolf ci ricorda che i popoli non
occidentali, visti come popoli senza storia, non lo sono assolutamente, da secoli sono inseriti
all’interno delle dinamiche di scambio globale, Wolf ci ricorda che questi popoli subalterni sono
sicuramente delle vittime dell’espansione del modo di produzione capitalista, che si è tradotta
nella maggior parte dei casi in genocidi ed etnocidi, e più in generale, al di là di questi esempi,
nella maggior parte dei casi le dinamiche di espansione si sono tradotte in distruzione e
impoverimento economico, ambientale, sociale e culturale. Vittime dell’espansione ma
comunque agenti attivi e non passivi per due motivi:
- Si è assistito a dei processi di resistenza politica e culturale verso l’espansione del
sistema-mondo
- Sono stati agenti attivi nel senso che hanno contribuito loro stessi alle dinamiche del
sistema-mondo, come l’esempio di Kachin
Questa dialettica di essere travolti dall’esterno e dall’altra di adattamento e resilienza culturale,
vittime e agenti, si manifesta spesso all’interno di tutte quelle rappresentazioni proprie di queste
popolazioni non occidentali nel folklore: storie e leggende che non hanno a che fare per forza
con la religione, ma che sono piuttosto delle narrazioni allegoriche popolate da varie figure. Un
esempio è quello proposto da Washtell che ha fatto ricerca in Bolivia, nel suo libro “Dei e
vampiri” dedica una parte alla descrizione e all’analisi di una figura del folklore delle
popolazioni locali, questa figura è quella del kharisiri in Bolivia che essenzialmente vuol dire lo
squartatore/assassino, questa figura è una sorta di vampiro che succhiava il sangue e il grasso
dalle sue vittime. Nella letteratura è descritto come un uomo bianco dotato di poteri magici. Egli
incarna l’altro. Il significato è una rappresentazione indigena delle dinamiche di distruzione che
hanno sfruttato i territori americani, è l’allegoria dell’uomo bianco che ha utilizzato questi
territori per estrarne le ricchezze.
In un altro libro si vedono diverse somiglianze con quello di Washtell, ma che ha avuto un
successo maggiore, il libro di Taussing “The devil and commodity fetishism”, si trova anche in
italiano. Il libro non è una vera e propria etnografia, ma ha anche una forte ambizione e
dimensione teorica di ispirazione neomarxista. La sua tematica/ambizione è sviluppare la teoria e
l’analisi del feticismo delle merci e di quel processo culturale che è strettamente legato al
feticismo delle merci, ovvero quello delle dinamiche di reificazione. Il feticismo delle merci
significa che le merci hanno un valore relazionale, i rapporti sociali vengono reificati in cose, le
merci sembrano assumere una agency, una capacità di azione autonoma, nella società
capitalistica è come se fossero le merci (il denaro) ad agire, a determinare le nostre esistenze.
Taussing affronta il feticismo delle merci grazie allo studio comparativo delle etnografie
effettuate in Colombia e Bolivia di un vero e proprio feticcio, egli studia due feticci presenti
presso queste due realtà composte da braccianti in Colombia e minatori in Bolivia. Il feticcio è il
Tio (zio) rappresentato da queste statue che venivano poste all’ingresso delle miniere, il Tio è
una raffigurazione, rimodellata attraverso la lente culturale locale, del diavolo. È il diavolo e allo
stesso tempo il padrone, proprietario e custodie delle miniere. I minatori per produrre di più e
trovare più oro prima di iniziare il lavoro dovevano sempre offrire dei piccoli sacrifici al Tio per
essere sicuri di sopravvivere e ottenere delle ricchezze, in Colombia i contadini che lavoravano
come braccianti stipulavano un patto con il diavolo per lavorare più velocemente per lavorare di
più ed essere pagati di più. Taussig ci dice che questa figura del diavolo è una allegoria delle
logiche stesse della produzione capitalista (agricola o mineraria) a cui bisogna tributare un culto
di qualche tipo. Da una parte è una allegoria e dall’altra funziona un po’ come mediatore
simbolico che media e fa da interprete figurativo tra due modi di produzione, quello contadino
(domestico e parentale) e quello capitalista, le comunità indigene sono divise da questi due modi
di produzione. Queste figure allegoriche funzionano come mediatori simbolici, permettono a
queste popolazioni di pensare a queste dinamiche storiche e metterne in luce le contraddizioni e
denunciarne gli aspetti più negativi e distruttivi.
Il sistema-mondo è un sistema storico, quando nasce l’economia capitalista? Prima del sistema
mondo capitalistico secondo Wallerstein erano già presenti delle economie-mondo, i grandi
imperi erano un sistema-mondo differenti fra loro, erano basati nella suddivisione dei centri e
delle periferie, le caratteristiche del sistema mondo moderno e capitalistico sono due secondo
Wallerstein:
- Una strutturale: il fatto che è il primo esempio di sistema mondo non basato solo da
relazioni politiche (non è un impero) ma è più precisamente una economia-mondo, basato
sulle relazioni economiche
- La sua maggiore capacità di espansione
L’altro aspetto tenuto in considerazione quando diciamo che il sistema mondo ha carattere
storico è che si è trasformato in relazione al suo motore, il sistema di produzione capitalista, che
nei secoli ha assunto diverse configurazioni, allo stesso tempo anche il sistema-mondo si è
trasformato nel tempo. Wallerstein ha periodizzato le varie fasi del sistema-mondo, rielaborato
da Friedman, che era un suo allievo diretto, che ha delineato uno schema dello sviluppo e delle
trasformazioni del sistema mondo. Per Wallerstein tutti i sistemi mondo passano attraverso fasi
simili, secondo Friedman in realtà queste diverse fasi si riprodurranno nel corso dei secoli.
Fasi del sistema mondo
- Espansione commerciale militare: colonizzazione imposta con la forza, è la fase delle
dinamiche imperiali, dell’espansione militare, legate all’espansione del commercio
globale. Le colonie forniscono forza lavoro a basso prezzo a gratuità (schiavitù) ma sono
anche consumatori.
- Centro come fabbrica del mondo: i paesi nordeuropei e gli usa diventano la fabbrica del
mondo, il luogo principale di produzione. Si appropriano delle materie prime, le lavorano
e poi le rivendono alle periferie. Questo è uno scambio ineguale che porta ad un
indebitamento che li posiziona in una posizione di subalternità. il nord compra le materie
prime a prezzi più bassi rispetto al costo dei prodotti realizzati e poi venduti. I centri del
sistema mondo hanno mantenuto per lungo tempo il ruolo di fabbriche.
- Accumulazione e sviluppo del centro: Questo ruolo centrale fa sì che questi paesi si
sviluppano sempre di più generando una situazione di benessere diffuso che per noi
occidentali corrisponde alla modernizzazione e alla modernità pagata dai paesi sfruttati.
Questo ha portato anche all’aumento del costo della forza lavoro nei paesi del sud globale
quando rivendicano condizioni migliori. Qui ci ritroviamo verso gli anni 60 e 70 del 900,
questo conduce ad una serie di processi:
o Delocalizzazioni produttive: la produzione viene spostata nelle periferie e semi-
periferie del sistema-mondo. Questo si traduce in dinamiche anche drammatiche
dei centri del sistema-mondo
o Processi di deindustrializzazione e finanziarizzazione: la deindustrializzazione dei
centri e il crescente dominio della finanza
Friedman ci dice che queste dinamiche e fasi di crisi portano poi all’emergere di nuovi centri, il
sistema-mondo è dinamico, già adesso i centri non si trovano solo più al nord, l’esempio più
lampante è quello della Cina.
Che cosa ci dice tutto questo discorso? Ci dice che da molti punti di vista la globalizzazione non
è un fenomeno nuovo, questo fenomeno e le sue dinamiche, i flussi globali di denaro, merce e
persone che sembrano essere l’emblema della nostra contemporaneità non sono del tutto nuove,
ma hanno una storia piuttosto lunga, la globalizzazione ha una storia, così come i suoi effetti
sono presenti da lungo tempo. Riconoscere ciò non significa negarne le specificità, quello che
caratterizza la globalizzazione in senso stretto non è la dinamica espansiva ma l’accelerazione di
queste dinamiche. David Harvey dice che quello che caratterizza la globalizzazione è la
compressione spazio-temporale, una velocità sempre più importante nella comunicazione e nello
spostamento. Ci sono anche altri elementi da tener presente, alcuni studiosi hanno affermato che
il mutamento tecnologico più importante non è stato quello dell’informatica ma l’invenzione dei
container e delle navi porta container. Lo spostamento delle fabbriche locali sono state possibile
proprio da queste invenzioni che sembrano banali ma non lo sono, hanno permesso una maggior
quantità di merci trasportate.
È in questa grande cornice che possiamo comprendere molti fenomeni e dei problemi sociali e
culturali che sono propri della nostra epoca, all’interno di questa cornice strutturale che possiamo
comprendere il razzismo, le migrazioni, ibridazione culturale, modernità alternative. Il razzismo,
per esempio, così per come lo conosciamo nasce in quanto tale come razzismo biologico, basato
sulle classificazioni razziali, sull’invenzione delle razze, è un fenomeno moderno, questo serviva
a gerarchizzare le popolazioni, è sorta come ideologia per legittimare e giustificare l’espansione
coloniale e poi il dominio economico nelle periferie dai centri. All’interno della cornice del
sistema-mondo globale possiamo anche comprendere i grandi flussi migratori transnazionali,
sono essenzialmente movimenti di persone dalle periferie verso il centro. Nascono anche
modernità altre rispetto a quelle eurocentriche, tipo quella cinese, dove vi è sì la modernità che
conosciamo ma con elementi culturali diversi. È una modernità dove i processi sono avvenuti in
circa 50 anni, rispetto a quella occidentale dove ci sono voluti secoli.
Come fare ricerca nel e sul sistema-mondo?
Marcus ci dice che si può effettuare una etnografia multi-situata, non più concentrandosi in un
luogo ma andare in più luoghi, bisogna seguire di persona i flussi globali del sistema-mondo di
merci e persone. Tsing scrive “Friction” e “The Mushroom of the End of the World”,
quest‘ultimo basa la ricerca sul fungo matsutake, che nasce in foreste rovinate, in zone degradate
dall’intervento dell’uomo, si concentra su questo perché voleva focalizzarsi sulle catene di
approvvigionamento delle materie nel capitalismo, questo fungo non è prodotto direttamente
dall’uomo, ma in parte lo è perché cresce in luoghi contaminati dell’uomo. Il fungo stesso è una
allegoria perché ci ricorda che anche negli ambienti degradati rimane una possibilità di crescita e
miglioramento.

Lezione 4
Cultura e ideologia
Le dimensioni più espressive e teologiche del capitalismo come religione. L’ipotesi di Benjamin
secondo cui la religione capitalista sarebbe priva di teologia è quella meno convincente.
Che cos’è il capitalismo? Come possiamo definire il sistema di produzione capitalista? La sua
essenza in questo caso non è come religione (Benjamin) ma come capitalismo in senso strutturale
e infrastrutturale. Quali sono i rapporti basici? I rapporti di produzione, a questo livello
nell’ottica marxista sono le fondamenta (l’infrastruttura). Vengono distinte due classi:
- Classe dominante: che detiene i mezzi di produzione, le risorse, i capitali, tecnologia.
- L’insieme delle classi che devono vendere la loro forza lavoro: il lavoro e la forza lavoro
si presentano come una merce, con un suo valore e un suo prezzo determinato dal costo
di produzione. È una merce fittizia, secondo Polaneyi, una merce offerta sul mercato del
lavoro, un mercato che viene regolato esclusivamente, in teoria, dalla legge della
domanda e dell’offerta.
Di fatto non è così perché intervengono le regolazioni istituzionali e statali. Questo elemento si
lega direttamente alla questione della lotta di classe, si riferisce al fatto che le due grandi classi
hanno interessi opposti, sono portatrici di interessi opposti, la classe dominante vuole pagare
sempre meno mentre la classe lavoratrice vuol ottenere di più dalla sua forza lavoro. Queste
tensioni e contraddizioni sono un po’ il cuore del sistema.
Il punto centrale di questa lettura di classe dei rapporti sociali è che la ricchezza e il benessere di
una determinata parte della società è la relativa deprivazione di un’altra parte della società sono
strettamente connesse l’una all’altra, e in realtà sono dipendenti l’una all’altra, l’arricchimento
degli uni dipende dalla povertà degli altri. Se una parte della società di appropria di una grande
quantità di beni ne rimane molto bene per la parte di più ampia della società. Si è diffuso nel
corso degli ultimi decenni una visione della ricchezza, della povertà e del benessere
tendenzialmente individualistica (neoliberale) e non strutturale e che riconduce le disuguaglianze
a questioni prettamente personali, che si riconducono a capacità personali che riconducono alla
questione del capitale umano. Le persone sono povere perché mancano del “capitale umane” che
serve per andare avanti nella società. La teoria del sistema-mondo con la sua teorizzazione del
centro e della periferia è una proiezione sul mondo di questo scontro fra le due classi.
I rapporti “espressivi” (Benjamin) sono i rapporti che legano la struttura e la sovrastruttura, i
rapporti simbolici e culturali. Per spiegare questi rapporti possiamo partire dal resoconto
etnografico di Evans-Pritchard riportato in “Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande”. Egli
prova a dare un’interpretazione del pensiero degli Azande rispetto alle dimensioni occulte e
mistiche dell’esistenza, in modo particolare rispetto alla stregoneria. Pritchard ci racconto che
per gli Azande non esistono fatalità puramente casuali, non esistono le disgrazie e morti naturali
o accidentali, gli Azande ritenevano che bene o male tutte le disgrazie, come malattie croniche o
una morte violenta o tranquilla, fossero dovute direttamente o indirettamente alla stregoneria, più
esattamente erano riconducibili ad una forza occulta che era posseduto da alcune persone, senza
che lo sapessero, che erano chiamati Mangu. Quando una persona moriva o si ammalava in
modo grado non venivano messi in atto da lui stesso e dai suoi famigliari tutta una serie di
pratiche legate agli oracoli per capire da chi fosse stato colpito attraverso il mango, per capire lo
stregone che gli avesse fatto del male. Questi oracoli erano molto complessi e poi riconducevono
al ruolo dei contro stregoni che erano dotati di poteri occulti che utilizzavano per colpire a loro
volte gli stregoni con delle disgrazie. Alla fine, quando succedeva qualche avvenimento
drammatico una parte del villaggio riteneva che la persona fosse stata colpita attraverso il
Mangu, mentre l’altra parte riteneva che quella stessa persona fosse lo stregone colpito dalla
magia del contro stregone. Pritchard ci dice che tutta la vita quotidiana era influenzata da queste
rappresentazioni e dalla credenza nella stregoneria, egli da buon funzionalista cerca di
comprendere e spiegarci qual è la funzione di questa rappresentazione e della funzione della
stregoneria, che è duplice:
- Una funzione cognitiva esistenziale: cognitiva perché è un modo per comprendere gli
avvenimenti drammatici tipo malattie e incidenti. Esistenziale per riuscire a trovare una
causa ultima al dramma di perdere una persona. La stregoneria dava la possibilità agli
Azande di poter fare comunque qualcosa per vendicare la vita del compagno.
- Una funzione sociale: le accuse di stregoneria e i discorsi stregoneschi seguono un po’ e
finiscono per illustrare la mappa dei conflitti presenti nel villaggio. Si dava colpa a chi
era il nemico della persona colpita dalla disgrazia.
C’era anche una sorta di controllo e disciplinamento sociale, si comportavano bene per non
essere accusati di stregoneria. Evans-Pritchard presenta il pensiero Azande anche sottolineando
un altro aspetto, la sua descrizione serve per smentire quelle teorie molto diffuse che vedono
nella stregoneria l’espressione di una qualche forma di irrazionalità, Lévy-Bruhl “la teoria della
mentalità prelogica”, filoso e antropologo francese che sosteneva che la credenza nella magia e
stregoneria era espressione di irrazionalità della mentalità primitiva. Pritchard mira a dimostrare
che il pensiero Azande non è irrazionale ma che è perfettamente logico e razionale, il pensiero
parte da premesse fondamentali diverse rispetto a quello occidentale moderno, e segue una logica
leggermente diversa. Questo è un esempio di sistema chiuso, è fin troppo logico, perché ogni
volta che emerge una contraddizione non viene presa in considerazione, è chiuso perché questo
genere di pensiero non si confronta con la dimensione empirica.
Secondo Graeber questo lavoro su oracoli e stregoneria è il miglior esempio di etnografia
dell’ideologia.
Che cosa si intende per ideologia? È un termine polisemico che ha in sé diversi significati, il
termine ha assunto significati diversi in relazione al suo successo e diffusione. Marx ed Engles
l’hanno utilizzata più di una volta nei loro lavori, ma non hanno dato una definizione al termine.
Cosa possiamo intendere come ideologia? Come Marx possiamo riferirci ad un discorso astratto,
nel senso di speculazioni la cui caratteristica è di essere distaccate dalla realtà empirica. Legata a
questa accezione vi è quella forse più diffusa, l’ideologia non è solo il discorso astratto ma una
rappresentazione sbagliata della realtà, una rappresentazione falsa e falsante della realtà e in
particolare della realtà sociale, una rappresentazione sbagliata che induce a sbagliare. Ad
esempio, quando accusiamo gli altri di essere ideologici. Come terza definizione, come ideologia
ci si riferisce specificatamente a quei discorsi e rappresentazioni che hanno una funzione sociale
specifica, quella di legittimare le diseguaglianze e legittimare i rapporti di dominio. L’ideologia
in questi tre significati non è qualcosa di positivo che serve a legittimare gli interessi di
determinate persone. Da un punto di vista antropologico queste eccezioni valutative del termine
non sono molto utili, nel discorso antropologico può essere utilizzata in due significati diversi,
entrambi non valutativi:
- Qualsiasi discorso politicamente connotato della realtà sociale*
- L’ideologia come sinonimo di sovrastruttura, quella che possiamo definire cultura in
senso stretto in antropologia. Ideologia è sinonimo di cultura in questa sua eccezione.
L’antropologia ha già un termine per riferirsi alle dimensioni simboliche, ovvero cultura. Noi
faremo riferimento alla quarta* definizione, in ogni società esistono delle diseguaglianze tra i
membri della società stessa rispetto all’accesso alle risorse economiche, così come esistono delle
disuguaglianze al controllo dell’energia del controllo sociale che è il potere. Queste
diseguaglianze si manifestano attraverso le ideologie o secondo Bourdieu “sociodice”. Queste
rappresentazioni ideologiche sono legate alla definizione tre che è quella di legittimazione perché
il termine ideologia si è diffuso nel pensiero politico e filosofico come tentativo per rispondere
ad una domanda chiave: Perché se in ogni società esistono delle diseguaglianze, quindi gruppi
dominanti e gruppi subalterni, perché i subalterni accettano questa diseguaglianza e questi
rapporti squilibrati di potere e di domino? Il concetto di ideologia si è diffuso proprio per
rispondere a questa domanda. Una prima risposta a questa accettazione è che comunque in un
modo o nell’altro c’è un interesse per i subalterni ad accettare queste disuguaglianze e questi
rapporti di potere. Una seconda risposta è in una certa misura i subalterni accettano il dominio
perché fanno in parte propri e assimilano i discorsi ideologici dei gruppi dominanti. Secondo
Marx le idee dominanti sono le idee della classe dominante, ma perché? Per rispondere torna
utile il concetto di egemonia di Gramsci che lo ha formulato per dare una risposta alla domanda
precedente. Il concetto di egemonia è complesso, ma con egemonia Gramsci intende che il potere
può assumere diverse tipologie. Il potere esclusivamente basato sulla forza e sulla violenza non
può normalmente durare a lungo. Quando ci troviamo di fronte ad un potere duraturo vuol dire
che non è basato sulla violenza. L’egemonia è un potere assoluto e totale, per Gramsci è il
controllo della vita sociale, i gruppi dominanti detengono l’egemonia nel momento in cui
riescono a controllare tutta la sociale della società e guidarla e gestirla, c’è una situazione di
egemonia quando il gruppo dominante controlla totalmente la vita sociale e guida i gruppi
subalterni per perseguire i propri interessi materiali e per mantenere il potere. Però c’è anche un
aspetto positivo di questo potere egemonico, per mantenere l’egemonia i gruppi dominanti
devono almeno in una certa misura rispondere ad alcuni dei bisogni dei gruppi subalterni,
l’egemonia non viene mantenuta se il gruppo dominante almeno in parte non rispondono alle
esigenze dei gruppi subalterni.
L’altro elemento, anche più importante dal punto di vista antropologico, dell’egemonia non ha
tanto a che fare con il controllo sociale, ma nel senso più stretto è quello di egemonia culturale.
Gremisci differenzia i due tipi:
- Egemonia in senso lato: il ruolo di guida dei gruppi dominanti
- Egemonia culturale: i gruppi dominanti controllano e modellano la cultura e il sistema
culturale della società stessa
Egemonia culturale fa riferimento a una rappresentazione particolare della sfera culturale, che
noi antropologici definiamo simbolica, quest’ultima viene vista da Gramsci come un campo di
battaglia, la vita simbolica è composta da diverse dimensioni: le visioni del mondo, la
dimensione morale, la cultura espressiva (arte, letteratura, cinema ecc). la sfera culturale in senso
lato è un campo di battaglia in cui sono presenti e in competizione fra loro concezioni diverse. La
battaglia è essenziale in modo particolare rispetto al sistema di valore alla concezione del mondo
sociale, qui sono in lotta ideologie diverse, rappresentazioni diverse della realtà sociale
politicamente connotata. Questa battaglia è continua ma quando una determinata parte della
società vince almeno temporaneamente questa lotta per l’egemonia culturale conquista il potere
non solo basato sulla forza ma anche legittimato, perché quando questa lotta all’interno del
campo simbolico della sfera culturale viene vinta, l’ideologia di quelli che ha vinto diventa la
cultura tout court, per Gramsci diventa “senso comune” e quindi tutti i membri della società
finiscono per condividere questa stessa visione della realtà sociale, il suo potere diventa naturale.
Come funziona l’egemonia culturale una volta che la si è ottenuta? Grazie all’operato di
istituzioni e strutture che grazie ad Althusser possiamo definire con apparati ideologici di Stato.
Così come in ogni stato moderno sono presenti apparati di controllo e repressivi, sono presenti
anche apparati non repressivi, quelli ideologici la cui funzione è quella di trasmettere e
diffondere l’ideologia dominante, ad esempio la famiglia, la religione e soprattutto la scuola, ma
lo sono anche i mass media. Non solo tramettono ideologia, ma sono dei campi di lotta tra
ideologia diverse secondo Gramsci.
Il nesso tra ideologia e cultura, dal punto di vista di Althusser l’ideologia corrisponde in tutto e
per tutto a quello che in termini marxisti vinee definita la sovrastruttura e in termini
antropologici definita in cultura, per lui tutta la cultura e i sistemi simbolici sono ideologici nel
senso che la funzione della cultura è quella di mantenere l’ordine e i rapporti sociali, di
legittimare le diseguaglianze che caratterizzano il modo di produzione capitalista. La cultura è
ideologia per Althusser. La sua suggestione ha avuto un certo seguito anche susseguivamente in
modo particolare presso la corrente di studi che si è imposta negli anni 80 nell’area anglosassone,
i Cultural Studies (Williams). Esempio etnografico:
Howe e i disoccupati a Belfast: i disoccupati di lungo periodo. Uno dei temi affrontati è la
questione della “deservingness”, si intende il diritto a ottenere qualcosa. Howe ci dice che a
Belfast negli anni 80 era caratterizzata da una certa crisi economica e un alto tasso di
disoccupazione. Ci dice che era molto diffuso un discorso tendenzialmente colpevolizzante e
moralizzante nei confronti delle persone senza lavoro, venivano accusato dalla gente di essersi
meritati la loro condizione di disoccupazione, non avevano fatto abbastanza per trovare un
lavoro. A Belfast così come altrove nel mondo anglosassone si distingue tra:
- deserving poor: che meritano aiuto e sussidi
- undeserving poor: quelli che non si impegnano abbastanza a trovare un altro lavoro
il punto su cui si sofferma Howe è che anche i disoccupati che lui aveva conosciuto accettavano
questo genere di discorsi e facevano propri questi discorsi, la distinzione fra le due categorie,
nache loro condannavano quelli che non si impegnavano abbastanza, in maniera un
po’paradossale finivano di far proprio un discorso che li colpevolizzavano della loro situazione.
Ma perché la accettavano:
- il discorso è parte del senso comune, è diventato egemonico, condiviso da tutti membri
della società locale, anche dai disoccupati
- Lo facevano proprio perché utilizzavano queste categorie per distinguersi dagli altri
disoccupati, utilizzavano il discorso a proprio vantaggio
Il discorso sulla meritocrazia, un termine utilizzato ovunque in termini positivi. La meritocrazia è
semplicemente la categoria più generale nella quale rientrano le categorie di Howe rintracciate a
Belfast. È un discorso assolutamente egemonico, il termine viene utilizzato per denunciare cose
diverse, ma ormai tutti fanno riferimento al discorso meritocratico, per questo è egemonico. È un
discorso così usato da essere diventato di senso comune, quasi non lo mettiamo più in
discussione. Questo discorso ci permette di sottolineare un altro aspetto dei discorsi ideologici,
l’ideologia non è tanto un discorso falso, è piuttosto una rappresentazione parziale della realtà in
un duplice senso secondo Howel:
- Prende in considerazione solo alcuni aspetti della realtà sociale
- Ed è parziale perché è di parte, possono favorire o contestare l’organizzazione della
struttura sociale e delle disuguaglianze.
La cultura è il campo di battaglia per Gramsci, nella realtà sociale esistono sempre delle
rappresentazioni sociali (ideologie) che combattono fra loro, solo l’espressione diretta delle
diverse posizioni sociali presenti in una determinata società. La visione di Althusser ha dei limiti
perché è troppo funzionalista dell’ideologia della cultura e della realtà sociale.
Boudieu: teoria della pratica.
Habitus: disposizioni coltivate e strutture interiorizzate.
Doxa: vediamo il mondo sociale attraverso lenti sociali.
Da qui naturalizzazione e reificazione: socializzazione e abitudine.
Fassin “la vita: istruzione per l’uso critico” si oppone sovente due forme di pensiero critico:
- Marx e Horkaimer: noi siamo prigionieri della nostra ideologia, il lavoro critico dunque
consiste nell’emanciparci attraverso lo svelamento di questa alienazione
- Nietsche e Vittestain: noi siamo prigionieri di una visione delle cose che ce le fa
falsamente apparire come evidenti, il lavoro critico consiste nel renderci coscienti del
carattere arbitrario e contingente dei nostri valori, norme e rappresentazioni
Egli dice che esistono due forme di pensiero critico che sono legate a due concezioni diverse di
ideologia:
- Ideologia come un discorso falso e falsante (parziale) che copre la realtà
- Idea che noi saremmo prigionieri che ci fa apparire la realtà sociale come qualcosa di
evidente e scontato
Queste due concezioni di pensiero critico, che contrasta le rappresentazioni ideologiche, possono
essere separate? Sono opposte come dice Fassin? L’idea propria di un approccio antropologico
all’ideologia è che in realtà le due cose sono strettamente unite tra di loro, noi tendenzialmente
accettiamo i discorsi che poi diventano senso comune perché siamo già precedentemente
influenzarti dalle norme sociali che ce le fanno sembrare evidenti, e dall’altra parte un
determinato discorso parziale diventa egemonico e quindi si fonde con quell’altra concezione
della realtà come evidente. Queste due concezioni sono strettamente collegate.
Determinati discorsi e rappresentazioni ideologiche tendiamo ad accettarle perché sono
strettamente legate a quella visione della realtà che ce le fa apparire come evidente, questa è la
visione della realtà del senso comune. Determinati discorsi diventano predominati e finiscono
per legittimare più efficacemente l’organizzazione sociale perché rispecchiano il seno comune,
dall’altra parte, riprendendo Gramsci, nel momento in cui determinati discorsi diventato
egemonici e quindi ci appaiono come indiscutibili. Ad esempio, l’idea del mercato del lavoro,
qualcosa di fondamento radicato nel nostro senso comune (delle società capitaliste), tutti i
discorsi che si rifanno a questa concezione verranno accettati più facilmente, dall’altra parte
questa idea del mercato del lavoro come qualcosa di scontato non è così evidente e non è
qualcosa di naturale, e a sua volta un discorso ideologico legato a dei rapporti sociali reali è
diventato egemonico fino a diventare parte del senso comune. L’idea fondamentale è che i
discorsi ideologici nel momento in cui diventano egemonici si trasformano in senso comune, e
quindi noi tendiamo a vedere tutta l realtà sociale attraverso le lenti di quei discorsi ideologici.
Il concetto di egemonia fa ormai parte del dizionario antropologico, ma sono anche emerse
posizioni che si oppongono all’idea di egemonia culturale e sociale, ovvero all’idea gramsciana
secondo cui attraverso il controllo della sfera culturale e sociale i gruppi dominanti assumano
una posizione di guida e leadership dei gruppi subalterni, questa concezione è stata criticata da
molti, come Graeber e Scott “il dominio e l’arte della resistenza”, la sua posizione è una critica
alla egemonia culturale, Scott dice che non è vero che le idee dominanti sono in ogni epoca le
idee delle classi dominanti, Scott dice che normalmente non è vero che i dominanti controllano la
cultura nella sua totalità e non è vero che le loro rappresentazioni finiscono per essere accettate
dai gruppi subalterni, nella maggior parte dei casi nella società gerarchiche dice Scott che i
gruppi dominanti e subalterni hanno due visioni del mondo diverse, due culture diverse, ma è
vero però che i gruppi subalterni fanno finta di accettare i valori e le rappresentazioni dei gruppi
dominanti per necessità. Scott sottolinea che il dominio è accettato per costrizione nel senso della
necessità, lo fanno per poter sopravvivere, ma non le accettano dal punto di vista ideologico.
Questa posizione è analoga a due sociologi (Abercrombie e Turner) secondo cui le ideologie e i
discorsi politicamente connotati non hanno una funzione di controllo sociale o egemonico, ma
sono solo discorsi identitari, per costituirsi dal punto di vista culturale come un gruppo a sé
stante, e questo vale anche per i gruppi subalterni.
Ci ritroviamo in una vera a propria crisi di egemonia, il sistema culturale è di nuovo un campo di
battaglia relativamente aperto. Vi sono discorsi egemonici, ma anche contro egemonici, Gramsci
sottolinea che la dove vi è egemonia vi è sempre anche qualche forma di contro egemonia.
Ma perché allora gli Azande? Noi vediamo il mondo, la realtà sociale, attraverso i filtri della
nostra cultura che è un “campo di battaglia”. Dal loro punto di vista che leggevano la realtà
attraverso la loro cultura, questa è assolutamente reale e non faranno altro che trovare conferma
che la stregoneria esiste e che il Mangu è reale. Questo vale per tutti. Anche noi vediamo la
realtà sociale attraverso la lente della nostra cultura.

Lezione 5
La teologia del tardo capitalismo
Neoliberismo e neoliberalismo in quanto ideologia che può essere vista come la vera e propria
teologia dogmatica e dottrinaria del tardo capitalismo contemporaneo. Benjamin sostiene che il
capitalismo non ha una vera e propria dottrina, ma in realtà ci sono delle realtà teologiche che
vanno prese in considerazione.
Ricerca etnografica “Flexible Bodies” di Martin pubblicata nel 94, continua ad essere un lavoro
molto importante e anche originale e innovativo perché l’autrice è stata pionieristica e audace
nello sviluppare la ricerca ed elaborare le sue riflessioni che rientrano in quella che abbiamo
definito una antropologia critica della modernità. Il suo lavoro ha contribuito anche
all’affermarsi di questa linea di ricerca critica della modernità. Questa ricerca si occupa di andare
a rintracciare e indagare quelli che abbiamo definito i possibili rapporti espressivi, non
necessariamente causali, che hanno a che fare con la dimensione simbolica e del significato tra la
struttura e sovrastruttura. Si concentra sulle rappresentazioni e immagini (prodotti
dell’immaginario sociale e collettivo) riguardo il corpo e alla salute (malattia) negli USA tra gli
anni 80 e 90. Il focus è sul sistema immunitario, su come all’interno della cultura e della società
statunitense viene pensato e rappresentato e immaginato il sistema immunitario e il suo ruolo
rispetto alla salute e alla malattia. In una certa misura questo specifico argomento è qualcosa che
è emerso quasi da sé e senza volerlo. L’etnografo deve essere flessibile quando sul campo, per
Martin è andata così, la ricerca inizia nell’88 a Baltimora ed era concentrata sulla questione
dell’AIDS e sulla sofferenza dei malati. A partire da questa indagine emerge il tema più vasto
che è l’indagine sulle concezioni culturali, collettive del corpo, salute e sistema immunitario, due
punti essenziali;
- Martin mostra che c’è una relazione espressiva di tipo metaforica tra le idee e
rappresentazioni culturali della salute e del corpo e il sistema socioeconomico
- Proprio per via di questa relazione complessa queste rappresentazioni cambiano e sono
cambiate nel corso del tempo anche nel giro di pochi decenni, si vede in modo particolare
per il sistema immunitario
Martin ci dice che fino alla fine degli anni 50 nei discorsi quotidiani e nella cultura condivisa il
sistema immunitario non era al centro dell’attenzione. In questi anni invece a prevalere era
l’immagine del corpo come una sorta di fortezza assediato dai nemici (virus, batteri). Le cose
cambiano, parzialmente, a partire dagli anni 60/70 dove si diffonde un discorso incentrato sul
sistema immunitario e in modo particolare sul ruolo centrale degli anticorpi. Questa visione
rimane prevalente anche fino a quando Martin inizia la sua ricerca, soprattutto nei discorsi
mediatici e medici di tipo generale. Ella riscontra che a partire dalla fine degli anni 80 inizia a
diffondersi una rappresentazione diversa del sistema immunitario, del corpo e della saluta,
incentrata sulla capacità dell’individuo, del suo corpo e del suo sistema immunitario di adattarsi
ed essere flessibile per poter rispondere velocemente agli stimoli e ai pericoli provenienti dagli
agenti patogeni, parartelo a questo diventa sempre più importante l’idea di salute come
responsabilità personale che dipende da noi, dalle nostre scelte e azioni. Si passa dunque da una
visione “patriottica” e gerarchica ad una visione sistemica e flessibile del corpo. Per Martin
questo non è casuale perché direttamente collegata ai rapporti economici e sociali legati alle
rivoluzioni tardo capitaliste e neoliberiste.
“Bipolar expedition” di Martin mira ad indagare e analizzare da un punto di vista antropologico
un problema di carattere psicologico, il disturbo bipolare. Qui cerca di definire le relazioni
espressive le rappresentazioni della salute mentale con le trasformazioni della struttura
economica e sociale. Questa ricerca si avvicinano alle riflessioni di Mark Fisher. Fisher sostiene
che il disturbo bipolare, alternanza di fasi di euforia e depressione profonda, è il disturbo proprio
e tipico del tardo capitalismo contemporaneo. Corrisponde alle fasi di euforie del mercato e alle
sue fasi di depressione. Egli aggiunge che questa relazione andrebbe indagata in modo più
articolato, come ha provato a fare Martin. I suoi libri e le riflessioni di Fisher possono essere visti
come degli esempi di ricerche antropologiche rispetto al tardo capitalismo e al neoliberismo, che
è l’ideologia di questa fase del tardo capitalismo. Ricerche che negli ultimi anni sono diventate
sempre più numerose e importanti. Si stanno moltiplicando le ricerche sul neoliberismo e le
possiamo dividere su due grandi linee sul piano teorico ed epistemologico:
- Sistema economico: indagano il neoliberismo come l’attuale configurazione e sistema
economico di scambio e di produzione, quindi con una attenzione per le dimensioni
strutturali, produttive e di scambio
- Sistema ideologico-disciplinare: indagano il neoliberismo come sistema ideologico
disciplinare, delle rappresentazioni dotate di una funzione ideologica e una dimensione
disciplinare nel senso foucaultiano del termine, discorsi che hanno un effetto concreto
sulla realtà
Si focalizza sull’impatto delle logiche neoliberiste sulle comunità locali da una parte e dall’altro
sulle dimensioni più simboliche e disciplinari possono essere distinte solo sul piano teorico,
queste due componenti del neoliberismo sono due facce della stessa medaglia e non sono di fatto
separabili.
Perché questa crescita di ricerca antropologiche dedicate al neoliberismo? Questo è dovuto al
fatto che il neoliberismo come sistema ideologico è effettivamente il tratto distintivo e
caratterizzante dell’epoca contemporanea, per comprendere la realtà contemporanea non è
possibile non prendere in considerazione il neoliberismo e le sue sfaccettature perché di fatto la
fase attuale dello sviluppo storico capitalista è fortemente condizionato da questo sistema
economico e ideologico. Sistema economico che è egemonico e si presenta come “la nuova
ragione del mondo” (Dardot e Laval). Il neoliberismo presenta sé stesso come la quintessenza
della razionalità strumentale e in generale. In certa misura è riuscito a conquistare l’egemonia
culturale fino a trasformarsi in senso comune, la sua egemonia non è esattamente totale. Molti
aspetti del suo discorso sono ormai parte della prevalente predominante della concezione del
mondo e della realtà, volenti o dolenti finiamo per rappresentarci la realtà sociale ed economica
attraverso almeno parzialmente le categorie e i concetti chiavi del discorso neoliberista.
Cosa si intende per neoliberismo o neoliberalismo? Il termine è stato coniato in ambienti
nordeuropei ed anglosassoni, in modo particolare negli USA negli anni 50.
Neoliberismo: il liberismo è una dottrina economica, nasce con il libero scambismo di merci.
Neoliberalismo: liberalismo fa riferimento a discorsi di carattere politico incentrati sul rispetto
delle libertà individuali.
Negli USA si usa solo neoliberalism. Noi utilizzeremo il termine neoliberismo perché è sul piano
economico che ci concentreremo. Cosa si intende per neoliberismo? È una dottrina economica
che guida e determina la maggior parte delle scelte politico economiche contemporanee, si
caratterizza per alcuni aspetti:
- Dal punto di vista ideologico il neoliberismo si presenta come l’esaltazione del mercato,
della logica del mercato e del libero scambio. Vi è un’enfasi sul mercato, l’azienda
diventa nel discorso ideologico neoliberista il modello di riferimento dell’azione
economico, c’è anche una esaltazione della flessibilità lavorativa, delle aziende e dei
lavoratori, la capacità di adattamento degli attori in un conteso che è in continuo
mutamento. Qua ritroviamo il nesso tra il lavoro di Martin e il neoliberismo.
- Dal punto di vista politico economico: il neoliberismo si manifesta sottoforma di
terziarizzazione, ovvero essenzialmente come il passaggio dal predominio dal punto di
vista economico delle grandi aziende che diventano sempre più piccole perché gran parte
della produzione viene esternalizzata, quello che caratterizza l’attuale fase del tardo
capitalismo è la netta prevalenza dei settori terziari rispetto a quelli secondari
dell’economia, ovviamente nei centri del sistema-mondo. Un secondo elemento è la
finanziarizzazione dell’economia contemporanea. Il capitalismo contemporaneo è sempre
più regolato e dominato dal sistema finanziario. Un terzo elemento è l’austerity, un
elemento più politico, tutte quelle politiche economiche prevalenti nei centri del sistema-
mondo che prevedono un forte taglio della spesa pubblica, una riduzione dell’intervento
statale nell’economia e una rimodulazione dei sistemi di sicurezza sociale in relazione
alla questione del debito sovrano, l’indebitamento statale rispetto agli attori finanziari.
Che cosa fanno gli antropologi che studiano il neoliberismo? Da una parte studiano come le
diverse possibili configurazioni che questo discorso ideologico ha assunto nei diversi sociali nei
diversi paesi, sottolineando anche la diversità culturale del neoliberismo reale. Dall’altra parte gli
antropologi sono interessati alle persone, per i soggetti reali e le collettività. Di fatto gli
antropologi che studiano il neoliberismo si sono concentrati sulle conseguenze e sull’impatto del
neoliberismo dal punto di vista ideologico ed economico sulla vita delle persone e delle
collettività mettendone in luce i possibili esiti di questa dottrina che mira ad essere egemonica.
Harvey ricostruisce la storia del neoliberismo attraverso un approccio multidisciplinare. Il
neoliberismo può essere visto soprattutto come un allentamento/diminuzione della regolazione
sociale del mercato. A partire dal secolo scorso si distinguono diverse fasi rispetto alla
produzione e al ruolo dello stato nella regolazione dell’economia. Harvey ci dice che dal
dopoguerra fino agli anni 70 nei centri del sistema-mondo a prevalere è una economia incentrata
sulla produzione industriale di massa. In questo periodo i centri del sistema-mondo sono anche i
centri industriali. La merce di questa fase sono l’automobile e gli elettrodomestici. Questo
periodo corrispondo al pieno dominio dei centri del sistema-mondo all’interno dell’economia
mondo capitalista, un forte sviluppo e un accumulo di ricchezza da parte degli abitanti dei centri.
La ridistribuzione legata al surplus attraverso la messa in atto di politiche economiche che
possiamo definire keynesiane, che prevedono un forte intervento da parte dello stato
nell’economia anche per regolarla, incentrate su un forte investimento pubblico, si vede uno
sviluppo sistematico di un forte welfare state, un forte sistema pubblico di protezione sociale ed
economica dei cittadini. Questo periodo è stato definito come il periodo dei “trenta gloriosi”. A
partire dagli anni 70 questo sistema di produzione e regolazione inizia ad andare in crisi, c’è un
blocco legato a fattori economici come l’inflazione, la sovrapproduzione, costi maggiori e
delocalizzazioni. Il sistema di regolazione tendenzialmente fordista e keynesiano va in crisi e si
inceppa, dal punto di vista ideologico succede che una corrente della scienza economica che era
stata minoritaria, quella neoliberista, riemerge dalla marginalità con i suoi studiosi che iniziano a
diffondere la propria visione dell’economia e del sistema economico, una visione in cui il
mercato inteso come il libero scambio diventa la norma ideale del comportamento pubblico e
statuale. In relazione alla crisi degli anni 70 inizia a diffondersi il discorso e le dottrine
neoliberiste, taglio della spesa pubblica e riduzione della tassazione per le fasce più alte del
sistema-mondo.
Gallino mette in luce che questa scuola di pensiero economica che si rifà alle dottrine
economiche neoclassiche è stata per molto tempo minoritaria, ad essere prevalente era una
eccezione dell’economia keynesiana incentrata sul ruolo dello stato nella regolazione dei
mercati. Negli ani 80 la lotta dell’egemonia cambia disegno non semplicemente per una
questione esclusivamente dottrinale, ma cambia disegno perché effettivamente tra anni 70 e 80 il
sistema keynesiano va in crisi, ed è proprio che a questa crisi si riagganciano i teorici del
neoliberismo offrendole come soluzioni ai problemi economici, ottenendo riscontro e successo
dal punto di vista ideologico. Questo comporta un ritorno al centro della scena di quel modello
antropologico che va sotto il nome di homo economicus, l’idea di essere umano di soggetto
individuale e separato dagli altri che agisce esclusivamente nell’interesse e nella ricerca
dell’utile. In questo si richiama l’idea dell’economia neoclassica che lo avevano come punto di
riferimento. Viene ripreso questo modello con una particolare declinazione, al centro della scena
neoliberista non si pone solamente l’attore razionale, o l’homo economicus, qui viene
rappresentato e descritto come l’imprenditore di sé stesso, è questo il modello antropologico al
centro del discorso neoliberista, il neo-soggetto liberista. L’idea fondamentale è che dal punto di
vista neoliberista il soggetto individuale è essenzialmente da una parte come un imprenditore,
ciascuno di noi è un imprenditore, persona dotata di capitali che li deve investire all’interno di un
mercato per ottenere un guadagno. Le persone devono investire il proprio capitale umano per
convertirlo in capitale economico. In parallelo però l’immagine dell’imprenditore si fonde con
l’idea dell’azienda, nell’ottica neoliberista ciascun individuo non è solo un imprenditore, ma
anche l’azienda di questo imprenditore, tutto deve essere visto e considerato come se fosse
un’azienda, l’individuo, l’organizzazione e anche i sistemi politici, stati e governi vengono
rappresentati come se fossero aziende, che devono produrre beni materiali e immateriali
nell’ottica del massimo vantaggio e interesse. Qua emerge una specifica antropologia, ogni
ideologia comprende in sé una specifica antropologia, una specifica visione del soggetto umano,
in queto caso come imprenditore di sé e azienda. La Thatcher ha espresso al meglio questa
visione quando diceva “non esiste la società, esistono solo gli individui”. Lei ha messo in atto le
politiche neoliberiste in Inghilterra con conseguenze enormi, negli Usa furono messe in atto da
Regan. Secondo la Thatcher le dimensioni collettive sono secondarie rispetto agli individui intesi
come homo economicus. Questa concezione è agli antipodi rispetto a quella propriamente
antropologica, è l’esatto opposto, è una concezione individualista che mette in secondo piano le
dimensioni sociali e collettive che sono al centro dell’antropologia. Negli anni 80 l’antropologia
è stata influenzata da queste rappresentazioni ideologiche. Qua abbiamo a che fare con un
modello antropologico che è possibile ricollegare a Geertz che ci diceva che i modelli culturali
sono sempre tendenzialmente di e modelli per: qualsiasi rappresentazione culturale è un modello
di, che descrive, e un modello per, utile a trasformare le cose. Il modello neoliberista del modello
homo economica si impone anche come riferimento per modellare e costruire le società, qua
emerge la dimensione foucaultiana, il neoliberismo mira anche a trasformare i soggetti per
adattarli al modello ideale, il fine del neoliberismo è trasformare i soggetti in imprenditori di sé,
è questo si vede nella corrente dell’ordo-liberismo. Due grandi correnti:
- Neoliberismo: prevalente in USA, è liberista in senso stretto, punta a una totale
deregolamentazione dei mercati e un totale rifiuto dell’intervento statale nell’economia
- Ordo-liberismo: prevalente in Europa, prevede l’intervento dello stato nell’attività
economica, questa può sembrare una contraddizione, ma la scuola neoliberista prevede
un intervento da parte dello stato solo per costruire le condizioni ideali per uno scambio
di mercato e per modellare le soggettività. Il modello neoliberista è un modello che deve
essere realizzato anche grazie agli apparati statuali.
La Thatcher disse che “le riforme economiche e politiche sono soltanto il mezzo, il fine è
cambiare l’anima delle persone”. Le forme economiche erano qualcosa di temporaneo, il vero
scopo era modellare le soggettività per avvicinarle al modello neoliberista dell’imprenditore di sé
o del soggetto come azienda. Gli studiosi che si sono occupati di neoliberismo divergono rispetto
un punto abbastanza importante, Harvey legge il neoliberismo nei termini di una deregolazione
progressiva a favore dell’emergere del libero mercato. Dardot e Laval dicono che non è
esattamente così perché non è la logica di mercato ad essere al centro del discorso neoliberista,
l’elemento centrale è quello dell’azienda. Per Harvey tutta la società viene vista come un grande
mercato basato sulla logica della domanda e dell’offerta, mentre Dardot e Laval ci dicono che
tutte le realtà sociali vengono viste come aziende, scuole, governi, persone ecc. che devono
essere regolati attraverso regole aziendali, innovazione e competizione. La differenza è che dal
punto di vista di una singola azienda il mercato non è in sé importante, vuole solo ottenere il
massimo vantaggio, l’azienda punta al monopolio per guadagnare il più possibile.
Come si è diffusa e imposta l’ideologia neoliberista? I conservatori britannici e i repubblicani in
Usa che hanno usato le visioni neoliberali come criteri di riferimento per le loro politiche
economiche, ma dal punto di vista antropologico vanno prese in considerazione motivazioni più
sociali. Il primo motivo ha a che fare con la crisi economica iniziata negli anni 70 nei centri del
sistema-mondo. Da un punto di vista più culturale potremmo dire che il neoliberismo con la sua
enfasi sull’azione individuale e sulle capacità imprenditoriali si son presentate come i campioni
di una sempre maggiore libertà e di progresso economico, si sono presentate come elemento di
emancipazione individuale. Il neoliberismo ha avuto una certa presa perché si è presentato come
il rifiuto dell’alienazione lavorativa propria del sistema fordista, e della burocrazia. Boltanski e
Chiapello nel “Nuovo spirito del capitalismo” sottolineano questo aspetto, le politiche
neoliberista hanno avuto successo perché si sono presentati come più libere. La messa in atto
delle dottrine neoliberiste hanno avuto nel corso degli anni un enorme impatto sulla vita sociale e
collettiva dei centri e delle semi-periferie del sistema-mondo, l’enfasi sul mercato, sulla
competizione e sulla flessibilità si è tradotta in conseguenze negative sul mondo del lavoro,
emerge la precarietà lavorativa, la delocalizzazione, vi è una crescita del sistema finanziario e
anche una riduzione del welfare. Qua si vede una delle caratteristiche di tutti i discorsi
ideologici, ovvero il fatto che le ideologie che sono rappresentazione politicamente connotate
non sono mai del tutto false, ma sono essenzialmente “parziali”. Questo lo si vede anche per le
dottrine neoliberiste, che non sono del tutto false, denunciavano alcune criticità del sistema
fordista keynesiano, per questo hanno avuto successo, ma sono parziali perché prendono in
considerazione solo alcuni aspetti dell’economia neoliberista (quelle positive) escludendone altri
(quelli negativi). Su quest’ultime si è concentrato lo sguardo dell’antropologia.
Karen Ho “Liquidated” del 2009, una ricerca etnografica presso le banche d’affari a Wall Street.
Quello che si chiede Ho è “come ha fatto il discorso neoliberista a diventare in gran parte
egemonico?”, il ruolo delle retoriche meritocratiche, le aziende azionistiche reclutano i
dipendenti dalle università d’élite che si presentano come gli unici attori competenti per poter
avere successo negli affari, così facendo impongono un modello basato sulla precarietà
lavorativa, sono le banche di Wall Street ad aver imposto la precarietà a tutte le aziende
americane e anche a sé stesse. Le banche d’affari sono uno dei principali apparati ideologici che
hanno diffuso il neoliberismo come dottrina e pratica nella società contemporanea. Il
neoliberismo è veramente egemonico?
Lezione 6
L’ideologia neoliberista ha conquistato l battagli all’interno della scena pubblica con degli effetti
sul piano economico, prevalendo sul sistema economico fordista keynesiano che poneva al
centro la produzione industriale, il simbolo è la grande fabbrica per la produzione di massa,
sistema basata sull’operaio massa, operai non specializzati, e anche fortemente legata ad una
stabilità del posto di lavoro. Questo sistema si inizia a bloccare e subentra quello neoliberista.
Uno degli elementi cruciali è che questo cambio di paradigma ha comportato per un breve
periodo una ripresa economica, dall’altra parte però hanno avuto un impatto negativo
sull’esperienza lavorativa. La precarietà è diventata una caratteristica principale del neoliberismo
assieme alla finanziarizzazione. Questo è un elemento importante dal punto di vista
antropologico per via dell’importanza del lavoro nelle società contemporanee, su questo aspetti
si sono concentrati gli aspetti. Sennet “L’uomo flessibile” indaga le conseguenze del
neoliberismo sulla vita quotidiana delle persone. Precarizzazione e flessibilità che riguarda più in
generale il sistema economico e produttivo, il sistema di scambio sembra caratterizzarsi per una
accentuata flessibilità e dinamicità. Anche le produzioni e gli scambi sono diventati molto più
flessibili.
Ho si concentra su un aspetto particolare, sul ruolo delle banche d’affari di Wall Street
all’interno dell’economia americana. Queste banche si occupano dei capitali delle altre aziende,
sono banche che operano come manager per le altre aziende. Ho ci dice che queste banche
rappresentano uno dei principali ideologici attraverso cui alcuni aspetti del neoliberismo si sono
diffusi nell’economia statunitense, in particolare la flessibilità e precarietà.
Ho si basa sul fatto che queste banche d’affari nel corso degli anni si sono costruite un capitale
simbolico (una fama) molto incisivo, loro reclutano solo dalle università d’élite e operano in
modo particolare, i giovani che vengono reclutati ottengono stipendi molto elevati anche se la
loro posizione è molto precaria, alla prima difficoltà vengono licenziati. Si è creato un habitus tra
questi manager che valorizza in maniera estrema la precarietà e la flessibilità, come se fossero
queste a garantire il successo delle banche e delle aziende. A questo si aggiunge anche il discorso
sulla meritocrazia, questi manager si presentano come i più competenti e migliori per gestire le
aziende e l’economia americana, la conseguenza di ciò è una crescita esponenziale di tutta
l’economia dell’insicurezza e della flessibilità. Bauman “società liquida” una società sempre più
liquida e instabile segnata dall’incertezza.
Per diversi anni questo modello basato sulla crescita della precarietà e flessibilità lavorativa era
un po’ dato per scontato, negli ultimi anni le cose sono cambiate. La domanda che bisogna porsi
è: il neoliberismo è veramente egemonico? L’egemonia per definizione è sempre una questione
di gradi per Gramsci, è sempre relativa e mai totalizzante della sfera culturale/simbolica. Diversi
studiosi hanno contestato l’idea stessa di una egemonia neoliberista, Friedman sottolinea da anni
che quello che caratterizza la società e la cultura a livello globale, nei centri del sistema-mondo,
è una separazione netta dal punto di vista ideologico e culturale tra le classi alte/benestanti (le
élite di governo e tecnocratiche) e le classi medie e popolari. In maniera non dissimile da quella
di Scott, Friedman sostiene una tesi analoga: non si può parlare di una egemonia neoliberista
sulle classi subalterne. Friedman e gli altri che la pensano così ci dicono che l’ideologia
neoliberista non ha una funzione di controllo sociale, ma una sorte di discorso identitario proprio
delle élite, rappresenta la loro ideologia, serve a tenere unite queste persone che condividono le
stesse idee sullo sviluppo economico. Per il prof quello che caratterizza la realtà contemporanea
è una egemonia dei discorsi neoliberisti che sono diventati predominanti nel nostro scenario
simbolico, non solo nei centri ma anche nelle periferie del sistema-mondo, secondo lui si può
parlare di ideologia intesa in modo Gramsciano tenendo sempre conto che c’è sempre un “campo
di battaglia” e che l’egemonia è sempre parziale e mai totale.
A partire dalla crisi finanziaria del 2008 dei subprime quella a cui assistiamo è una vera e propria
crisi dell’egemonia neoliberista, assistiamo ad una messa in discussione di certi assunti dei
discorsi neoliberisti, soprattutto da parte dei soggetti che hanno subito maggiormente gli effetti e
le conseguenze delle politiche neoliberiste, anche se non propriamente articolati. Questi discorsi
contro-egemonici si sono cresciuti anche con la pandemia. È importante sottolineare che non vi è
un unico neoliberismo, una unica dottrina neoliberista. Questo è ciò che affascina anche gli
antropologi, il neoliberismo ha molte manifestazioni: per il neoliberismo più puro il mercato già
di per se regola tutti gli scambi e la vita sociale e l’essenza delle politiche neolibereiste è che
nessuno deve intralciare le logiche di mercato, la posizione ordo-liberista è più raffinata, è una
posizione costruttivista, la sua idea di fondo è che il mercato e il suo attore principale (homo
ecomomicus) sono dei modelli ideali, ma questo non è qualcosa di già esistente, ma va costruito
e implementato attraverso l’intervento politico. L’altro elemento è che in entrambe le sue forme,
come ci dice Ahiwa Ong, la caratteristica delle logiche del neoliberismo è quella dell’eccezione,
con questo si intende il fatto che le dottrine, i discorsi e le politiche neoliberiste si caratterizzano
dal fatto di sapersi adattare e inserire in contesti economici, sociali e politici molto diversi fra di
loro. A differenza di Ho e Sennet, Ong ha concentrato il suo sguardo antropologico non sulla
realtà americana, ma osservando presso delle realtà altre, non occidentali ed eurocentrate, ma nel
sudest asiatico. Questi paesi sono le realtà in cui le dottrine neoliberiste sono state messe in
pratica con la maggior evidenza, ed alcuni elementi hanno avuto un maggior riscontro, hanno
avuto una grande crescita nello sviluppo economico e degli investimenti. Questa ideologia
continua ad avere una certa presa per via dei suoi adattamenti culturali.
La crisi economica ha portato ad una messa in discussione del neoliberismo, perché nell’ottica di
Gramsci l’egemonia è un controllo della sfera culturale/simbolica, ma altrettanto importante
nella sua ottica i gruppi egemonici devono avere una capacità di guida della realtà sociale e
almeno in parte devono rispondere ai bisogni e necessità dei gruppi dominati. Altrimenti
l’egemonia non regge. Tutte le crisi che sono succedute negli ultimi decenni hanno comportato
una messa in discussione dell’egemonia delle logiche neoliberali perché quello che dovevano
garantire (la crescita economica) non è più avvenuto. È avvenuto in parte perché come dice
Gallino è vero che testimoniamo la messa in discussione di alcune politiche ma poi continuiamo
a vedere la riproposizione di politiche analoghe a quelle neoliberiste come quelle dell’austerity e
flessibilità contrattuale. A livello culturale assistiamo ad un allontanamento delle logiche
neoliberali, ma poi effettivamente a livello politico questo cambiamento non si vede. Al di là di
tutto moltissimi tratti delle rappresentazioni neoliberiste sono ormai una parte assodata del senso
comune, come l’individualismo, il soggetto come imprenditore di sé, i discorsi meritocratici che
presentano la mobilità e la stratificazione sociale come una questione di merito, la flessibilità
lavorativa. Ci siamo abituati e finiamo per dare scontato l’instabilità e flessibilità lavorativa.
Per continuare ad utilizzare nostra metafora religiosa sappiamo che uno dei più grandi processi
che hanno a che fare con la religione è quella del sincretismo, al fatto che i sistemi religiosi
continuano a mescolarsi ed emergono di nuove, come nelle realtà coloniali e postcoloniali.
Qualcosa del genere avviene anche a livello economico, il fatto che il capitalismo è mutevole e
assume forme diverse non ha a che fare soltanto con quella che possiamo definire la diversità
culturale, che si adatta ai vari contesti, ma anche che di per se è un sistema ideologico/economico
complesso con diverse dimensioni che sono strettamente legate ma che non si presentano sempre
tutte assieme, le dottrine neoliberali sono articolate e complesse, e anche questo spiega il loro
relativo successo e la loro presa egemonica. Possiamo parlare di una natura bicefala delle
dottrine neoliberiste. Wacquant ha maggiormente sottolineato questi aspetti che lui chiama
“neoliberismo reale”, lui un sociologo antropologo francese che da anni vive negli Usa. Egli e
altri studiosi come Fassin affermano che una delle caratteristiche del neoliberismo reale, al di là
delle dimensioni economiche, è la crescita/affermarsi in tutte le realtà di politiche basate sul
concetto della “tolleranza zero”, politiche repressive e punitive (di massa) nei confronti della
microcriminalità di strada. Questa secondo Wacquant è una caratteristica essenziale del
neoliberismo che spiega in larga misura il suo successo. Quello che vediamo nel momento in cui
l’ideologia neoliberista è diventata egemonica si assiste all’aumento delle dinamiche di
carcerazione, aumenta in modo esponenziale il numero di incarcerati, che ha raggiunto cifre
enormi e ha visto coinvolte i membri delle minoranze della società americana. Incarcerazione di
massa giustificata con la teoria della “tolleranza zero”. Three strikes and you are out, dopo la
terza condanna a prescindere dal reato commesso ti viene assegnato l’ergastolo. Come si
collegano queste retoriche della sicurezza e della tolleranza zero con il neoliberismo? A prima
vista sembrano due cose distinte, ma secondo Wacquant sono i due lati della stessa medaglia.
Anche il sistema carcerario e giudiziario è una impresa che viene gestita almeno in parte
attraverso la logica del mercato, Wacquant accenna che l’aumento tasso di incarcerazione è
dovuta del fatto che bisogna far guadagnare queste aziende carcerarie. La connessione con il
neoliberismo è un po’ più ampia: Wacquant è allievo di Bourdie, il quale si è occupato anche di
indagare il neoliberismo da una prospettiva sociologica e antropologica, il suo focus era
l’organizzazione dello stato francese. Lui sostiene che lo stato moderno ha due mani:
- Mano destra dello stato: quella legata al controllo, alla repressione, al sistema giudiziario
e penitenziario, quello che ha a che fare con la legge
- Mano sinistra dello stato: quella del welfare state, delle reti di sicurezza pubblica
Queste due dimensioni dello stato moderno si sono sviluppate in contemporanea, ma una delle
caratteristiche del neoliberismo è che la mano sinistra dello stato è stata messa in discussione e si
cerca di limitarne l’uso. Lo stato minimo è una delle caratteristiche del neoliberismo, non una
totale scomparsa dello stato perché lo stato minimo si traduce in una riduzione dell’intervento
della mano sinistra dello stato e non della mano destra. Lo stato minimo è uno stato ridotto
all’uso della mano destra, alle politiche punitive, repressive e di sicurezza. Perché è avvenuto
ciò? In un modo o nell’altro devono giustificare e legittimare la loro esistenza. Gli aspetti della
mano sinistra sono una componente essenziale che ha permesso la legittimità dello stato, ma se
questa viene sempre più ridotta e meno utilizzata, allora come legittimare la presenza di alcuni
apparati? Per Wacquant lo si fa accentuando l’uso della mano destra. Qua la questione ha a che
fare con la rappresentazione del mondo ultra-individualista che è propria della cultura tardo
capitalista di cui parlava la Thatcher. Questa visione è molto radicata e diffusa. Come si traduce
questo nelle politiche repressive? Se esistono solo gli individui e contano solo loro allora
qualsiasi infrazione e reato è visto come una responsabilità personale, non vengono più presi in
considerazione gli aspetti sociali ed economici nei quali avvengono i crimini. Tutto viene
ricondotto a una questione di devianza e scelta e quindi responsabilità individuale. Proprio come
siamo noi i responsabili del nostro successo e della nostra eventuale mobilità sociale, allo stesso
modo vengono viste e rappresentate le azioni irregolari. Qua si inseriscono le politiche
repressive, l’azione deviante va punita con il carcere perché è una questione individuale. Fassin
“La passione di punire” ne parla. Un altro elemento più complesso che viene enfatizzato con
Wacquant che ha a che fare con la realtà americana ha a che fare con il ruolo del sistema
carcerario all’interno della società. Foucault in “sorvegliare e punire” dimostra che il carcere
moderno nasce essenzialmente insieme con il capitalismo e in modo particolare con il
capitalismo industriale, l’industria, la fabbrica e il carcere nascono assieme e sono collegate. Per
lui il carcere è un dispositivo disciplinare che serviva per tenere sotto controllo quei membri
delle classi subalterne e lavoratrici che si rifiutavano di essere inserite nel meccanismo
produttivo industriale. Il carcere come punizione di chi noi vuole conformarsi. Wacquant
riprende le considerazioni di Foucault mentre studia la realtà americana, ma ci sono delle
differenze: il carcere non è più un sistema disciplinare ma è un meccanismo di espulsione e per
tenere separata e sotto controllo tutta una parte di popolazione (minoranze) che nella solitamente
nella società capitalista americana è esclusa dalle dinamiche produttive della società. Esclusi da
quello che è uno dei due rituali fondamentali del capitalismo come religione, ovvero il lavoro
(l’altro è il consumo). Secondo Wacquant l’incarcerazione di massa e la sua crescita
esponenziale è uno dei mezzi attraverso cui queste persone, che non sono più viste come membri
della comunità religiosa, vengono escluse.
C’è un altro elemento della teologia neoliberista che ci riguarda più da vicino, Muehlebach ha
fatto ricerca a Milano e Sesto San Giovanni sul volontariato tra il 2005 e 2008, ha scritto il libro
“La morale neoliberista”. L’idea del neoliberismo morale si intende l’idea connessa
all’espressione “big society”. La retorica della Thatcher viene abbandonata e all’interno dei
Tories si è diffusa l’idea della “big society”, l’idea che questa grande società dovrebbe sostituire
lo stato nella sua funzione di garantire l’aiuto e il sostegno pubblico alle persone e alle fasce in
difficoltà. La mano sinistra il cui uso viene ridotto, ma continuano ad esserci tante persone che
vivono nella marginalizzazione e in difficoltà, l’idea del neoliberismo morale è che di questi non
deve più essere la mano sinistra ad occuparsene ma la “big society” ovvero noi persone che
fanno parte della società. La ricerca si è incentrata sul volontariato, la cittadinanza attiva che si
prende cura delle persone. Nel milanese in quegli anni si è diffusa l’idea di cittadinanza attiva
(persona che si attiva per prendersi cura delle persone in difficoltà”, e questa è parte per la
Muehlebach dell’ideologia neoliberista. Lei mostra che effettivamente quello che ci appare come
qualcosa di positivo (il volontariato) ha però alcuni elementi che non sono altrettanto positivi,
perché da una parte questa crescita del volontariato rischia di legittimare le diseguaglianze. La
crescita del volontariato mostra uno spostamento dall’ideale della solidarietà tra cittadini a un
ritorno della carità.

Lezione 7
Il liberismo classico è il liberalismo e afferma che il mercato già di per se è un entità esistente
che viene soffocato dall’intervento statale che bisogna ridurre e il mercato quasi come forza
naturale emergerà d se e porterà benessere a tutti quanti (queste sono le posizioni classiche),
invece il neoliberismo ha una visione più costruttivista, il mercato è un ideale regolativo che va
costruito, la competizione va alimentata e le soggettività vanno modellate per far si che si
conformino all’homo economicus. Al centro delle politiche neoliberiste c’è il monetarismo, uno
dei cardini delle politiche neoliberiste è l’inflazione.
Consumi rituali
Il capitalismo come religione ci dice Benjamin risponde a dei bisogni esistenziali, egli dice che
può essere considerata una religione perché risponde a quei bisogni che orientano le nostre azioni
e i nostri comportamenti, ci fornisce una serie di norme e di valori che orienta il nostro esserci
nel mondo legata ad una particolare visione del mondo, al centro della cosmologia capitalista si
pone una visione individualistica della realtà sociale, al centro vi è l’attore razionale che agisce
per il massimo interesse (homo economicus). Questo si vede nelle dottrine neoliberiste che fanno
del soggetto l’imprenditore di sé. Sono le dottrine che influenzano le scelte politiche ed
economiche contemporanee, da una parte vi è la dimensione discorsiva (la visione del mondo e
dottrina) e dall’altra vi è il culto (dimensione della pratica rituale) che secondo Benjamin è
l’aspetto fondamentale del capitalismo come religione. Per Benjamin il consumo e il lavoro sono
strettamente legati al debito, il consumo porta al debito che viene ripagato attraverso il lavoro.
Se abbiamo a che fare con delle dimensioni rituali possiamo pensare che questi due ambiti
possono essere stati studiati dall’antropologia culturale. Per molto tempo la nostra disciplina ha
dedicato ben poche ricerche al tema del lavoro e del consumo all’interno delle società capitaliste,
sia perché lo studio antropologico delle società moderne ha una storia relativamente breve, e sia
anche perché più in generale le ricerche scarseggiano per quanto riguarda il lavoro e il consumo.
Nell’ultimo periodo però stanno aumentando con uno squilibrio, ve ne sono di più sull’aspetto
del consumo rispetto a quello del mondo del lavoro e della produzione. Tendenzialmente il
lavoro moderno e mercificato (quello salariato) e il consumo in una società di mercato
tendenzialmente fino agli anni 70/80 del secolo scorso non erano considerate un oggetto di studio
dalla disciplina perché principalmente l’antropologia era impegnata a studiare le società altre, i
modi di produzione altri, non capitaliste. Ad esempio, il tema classico della antropologia
economica è quello del dono e della logica del dono studiata in primo luogo da Mauss. La
questione di questa esclusione del lavoro e consumo moderno dall’antropologia non ha a che fare
esclusivamente con la divisione del lavoro intellettuale (divisione tra sociologia e antropologia
culturale), ma anche con la questione della alienazione, il lavoro e le relazioni di produzione
capitaliste e di scambio moderne sono state spesse viste dagli antropologi come l’espressione
massima di tutte quelle dinamiche di alienazione e di anche impoverimento culturale e perdita di
cultura delle tradizioni che sarebbe proprie del mondo moderno, gli antropologi non studiavano
queste tematiche perché non le consideravano come degne, erano viste in modo negativo, fittizio,
artificioso e non culturale, ma come qualcosa di alienato e alienante. Dietro alla pratica
antropologica si situa una visione particolare della questione dei lati negativi della modernità e
della alienazione, buona parte dell’antropologia culturale è nata anche come una sorta di reazione
rispetto a quelli che erano considerati i lati oscuri della modernità e del capitalismo, lo studio
delle società altre e delle loro forme politiche ed economiche è emerso a fine 800 anche come
espressione di disagio da parte degli intellettuali verso le caratteristiche della società di massa
capitalista, vista come qualcosa di alienante e fittizio, di non genuino. Lo studio di queste realtà
altre era per ricercare altre società rispetto a quella capitalista. Alla base vi è anche una sorta di
nostalgia nei confronti di una qualche forma di comunità/umanità perduta con il passaggio alla
modernità. Un concetto che riassume un po’ anche la visione implicita in questo atteggiamento
dell’antropologia è il concetto di alienazione, che ha tanti significati: rimanda alla perdita di sé,
di perdere il senno della ragione che è la quintessenza della persona, di impazzire. È un termine
di origine marxista, fa riferimento ad una perdita più profonda, è la perdita di quello che ci è più
proprio, la perdita della nostra stessa essenza umana, Marx l’ha usata in questa eccezione. Il
capitalismo sarebbe un sistema alienante, aumenta l’alienazione. L’idea è che in questo sistema
capitalista la natura dell’uomo, la sua essenza, venga stravolta, deformata, cancellata e in qualche
modo perduta.
Qua emerge un problema dal punto di vista antropologico, questa idea di alienazione era
condivisa da buona parte degli esponenti della disciplina. Dal punto di vista antropologico il
concetto di alienazione è essenzialmente contraddittorio. Graeber in “Rivoluzione: istruzione per
l’uso” dice che ha fare problema è il fatto che l’idea di alienazione rimandi e implica quasi
necessariamente l’idea di una qualche essenza dell’uomo. Nella posizione del giovane Marx il
lavoro di fabbrica porta ad una deformazione della natura umana. Il problema è il fatto che dal
punto di vista antropologico non si può propriamente parlare di una natura umana, non si può
parlare di una natura umana universale ed esterne dai rapporti sociale e dalle dimensioni
culturali. Per l’antropologia il concetto di natura umana è complicata, bisognerebbe parlare di
“condizione umana”, non c’è una essenza dell’uomo al di fuori delle concrete manifestazioni
storiche, sociali e culturali. Se così è, come si può parlare di alienazione? Graeber qui ci da una
mano, ad esempio potremmo dire che l’alienazione non andrebbe considerata come una perdita
della natura umana, ma l’alienazione nella società capitalista avrebbe a che fare con lo
stravolgimento e la perdita come qualcosa di fondamentale per l’essere umano, ovvero i rapporti
sociali e della dimensione culturale. L’alienazione come sinonimo di impoverimento sociale e
culturale. Davvero il capitalismo nelle sue varie manifestazioni comporta quasi automaticamente
questo impoverimento? Davvero porta anomia?
Queste discussioni sono discussioni che vanno avanti da due secoli nelle scienze sociali. tra i
primi a essersi fatto questa domanda troviamo Durkheim che dice che effettivamente alcuni
aspetti della modernità portano con anomia ma la società moderna è caratterizzata anche da una
solidarietà organica che sostituisce quella meccanica delle società tradizionali. Il consumo nella
società moderna, il consumo di massa, nella posizione della maggior parte dell’antropologia è
sinonimo e il simbolo stesso di cultura e delle tradizioni. Il consumo moderno era visto come o
qualcosa di utilitaristico, privo di carattere simbolico, o come qualcosa di imposto dai
meccanismi stessi della produzione capitalista, il consumo di massa era la manifestazione di
quella cultura spuria che caratterizzerebbe la società contemporanea.
Horkheimer e Adorno (scuola di Francoforte) nel libro “La dialettica dell’illuminismo” (1847)
presentano una tesi che riguarda l’industria culturale, secondo loro a caratterizzare il capitalismo
del 900 è il fatto che la produzione industriale non riguarderebbe più la produzione di beni di
consumo materiale, ma anche dell’industriale, c’è una produzione di beni di consumo
immateriale che hanno a che fare con la cultura, industria dell’intrattenimento dei grandi mass
media. A caratterizzare la società contemporanea non è più una cultura organica e genuina
prodotta dalle persone nella loro quotidianità, ma una cultura costruita dall’alto attraverso delle
tecniche industriali di massa e imposta in serie con degli effetti negativi di cancellazione della
vera cultura e di omologazione. Le persone si trasformano da attori culturali a consumatori
passivi che vengono condizionati dal punto di vista ideologico. Gli antropologi condividendo
questa visione hanno allontanato la loro ricerca da questa società per studiare le società altre
ancora non “inzozzate dal fango del capitalismo” come diceva Levi-Strauss in “Tristi tropici”. Ci
sono delle eccezioni ovviamente, Powdermaker in “Hollywood: The dream factory” (1950), fa
una ricerca etnografica a Hollywood, le sue tesi rispecchiano le posizioni di Horkeimer e
Adorno, il succo della sua ricerca è che il cinema è una industria dei sogni, un apparato
ideologico, uno strumento ideologico di un totalitarismo soft.
L’antropologia si è occupata di consumo solo quando si trattava di arcaico e tradizionale, ovvero
di qualcosa di genuino e non alienante. Questo ha fatto si che una parte dell’umanità non fosse
stata studiata dallo sguardo antropologico arrivandoci in ritardo. Dobbiamo chiederci: questa
avversione nei confronti di questi aspetti della modernità, del consumo di massa e culturale, è
una posizione corretta e comprensibile? L’ipotesi del prof è che non lo è. Lui dice che dal punto
di vista antropologico non è corretta, è problematico. Il concetto di alienazione dal punto di vista
antropologico rimane problematico. Se il grande problema della cultura moderna è il feticismo
delle merci, ad esso corrisponde il feticismo delle vacche dei Nuer. La loro cultura feticizzava i
bovini, e questo atteggiamento era presente anche in altre società. Certe dinamiche che hanno a
che fare con i meccanismi di reificazioni delle relazioni sociali e di feticizzazioni degli oggetti e
delle cose non sono esclusive del capitalismo, ma si ritrovano in molte altre società. Questo
significa che se vogliamo fare una antropologia della modernità capitalistica dobbiamo farla con
lo stesso atteggiamento di Evans-Pritchard nei confronti dei soggetti di studio tradizionali. Anche
nello studiare la modernità capitalista dobbiamo praticare le epochè, sospendere il giudizio per
studiare determinate dinamiche nella maniera più oggettiva e obiettiva possibile senza farci
influenzare dalle nostre opinioni politiche o le nostre avversioni nei confronti del consumo di
massa. L’atteggiamento snobistico assunto da Horkheimer e Adorno non è corretto dal punto di
vista antropologico. L’atteggiamento corretto è partito dagli anni 90 in poi, qui nasce
l’antropologia del consumo. Questa antropologia ha tra i suoi maggiori rappresentati Miller con
il suo libro “Teoria dello shopping”. A livello teorico vi è un intreccio tra persone e cose (Mauss,
Latour), quello che ha orientato le ricerche è la questione dell’intreccio tra le persone e le cose, il
fatto che, come dice Mauss, nelle economie arcaiche del dono si riscontra una fusione tra le
persone e le cose, in modo particolare i doni, gli oggetti scambiati ritualmente, assumono essi
stessi lo status di persona. Questa rappresenta una delle varie tematiche presenti nel saggio sul
dono di Mauss, il punto di partenza dell’antropologia economica, questo saggio continua a
ispirare anche l’antropologia dei consumi, che si occupa dell’altro lato di quella dicotomia
delineata da Mauss: la dicotomia tra dono e merci. Le due economie sono completamente
diverse, l’economia del dono è basata sulla reciprocità per rafforzare i rapporti sociali, mentre lo
scambio di mercato si basa sulla legge dell’interesse e lo scopo è ottenere il massimo vantaggio.
L’antropologia classica si è concentrata sul dono, quella dei consumi si è occupata (è emersa)
delle merci.
L’antropologia del consumo fa notare che di fatto i doni e le merci per quanto diversi hanno però
qualcosa in comune: la circolazione. L’idea stessa di scambio che le accomuna. Appadurai in
“The social life of things” ha messo in rilievo questo aspetto, la sua tesi è che i doni e le merci
non sono due cose diverse, ciò che li accomuna è la circolazione, egli aggiunge che in realtà il
valore delle cose, che siano merci o doni, emerge dallo scambio, è lo scambio a dare valore.
Partendo da questa idea Appadurai ha raffinato la sua idea della “biografia culturale delle cose”
secondo cui anche gli oggetti e le cose hanno una storia personale perché nel corso della
circolazione possono anche cambiare di status, di posizione e quindi di significato. Non
possiamo dire che una merce non è un dono e viceversa perché cambiano gli status. Merci e doni
sono diversi dice Mauss, hanno significati e funzioni diverse, ma non dobbiamo dimenticare dice
Appadurai che non sono cose diverse. Anche le merci possono essere alienabili secondo
Appadurai, e sono dotati di uno “spirito”, hanno un significato simbolico e possono essere
indagate anche da questo punto di vista.
Douglas ha proposto di vedere nelle merci un vero e proprio linguaggio, un sistema di segni, un
linguaggio che esprime specifiche visioni del mondo e di status sociale. Compriamo o
consumiamo determinate cose per riaffermare il nostro status sociale. Boudieu ha proposto di
leggere i consumi di beni materiali e immateriali come espressione di habitus dei soggetti che
secondo lui sono strettamente collegata alla posizione sociale. Secondo lui i nostri gusti non
espressione di habitus dei soggetti di classe ma l’aspetto decisivo è l’incrocio tra capitale
economico e culturale. Le classi alte praticano determinate forme di consumo per distinguersi e
marcare il proprio status per marcare la differenza con le classi subalterne.
Miller è l’autore che maggiormente ha teorizzato lo studio dei beni da un punto di vista
antropologico, ha sottolineato che così come gli studi della parentela erano l’oggetto studio
fondamentale dell’antropologia classica, l’antropologia della contemporaneità deve rivolgersi
allo studio dei consumi e delle merci. Partendo da questa considerazione ha sospeso il giudizio e
ha fatto una ricerca etnografica dedicata a questi temi. Miller ha condotto una ricerca di terreno
in un quartiere di Londra concentrandosi sulle pratiche di consumo al fare la spesa (teoria dello
shopping). Egli dimostra che il fare la spesa da una parte non può essere vista esclusivamente in
modo utilitaristico, dall’altra parte non è una attività esclusivamente edonistica, guidata dal
piacere. Secondo Miller il fare la spesa può essere vista come un rituale sacrificale. È un
sacrificio in senso tecnico del termine, Mauss sostiene che il rituale del sacrificio ha delle
caratteristiche:
- Consumo, la vittima sacrificale viene alla fine consumata
- È un mezzo simbolico per comunicare con il trascendente, con il sacro
- Si basa sul dono
Secondo Miller questa logica la ritroviamo nell’attività del fare la spesa, quando andiamo a fare
la spesa compiamo un rituale sacrificale per metterci in relazione con quello che è il trascendente
della nostra vita quotidiana, le relazioni famigliari e domestiche.

Lezione 8
Frammenti urbani
Benjamin non era un antropologo ma ha anticipato lo studio della antropologia critica della
modernità.
Antropologia urbana, della città. Effettivamente c’è una sovrapposizione tra l’antropologia della
modernità e l’antropologia urbana, anche se i due ambiti possono essere distinti, di fatto nella
storia della disciplina sono risultati sovrapposti. L’antropologia della complessità si è configurata
innanzitutto come uno studio antropologico della città, degli spazi urbani e dello stile di vita
cittadino. Questo perché possiamo vedere nelle grandi città un simbolo della società moderna. La
modernità ha tante dimensioni, quella concreta è la metropoli. La modernizzazione è stata spesso
vista come urbanizzazione, la crescita delle città sia dal punto di vista demografico che
urbanistico. Alle origini del capitalismo con l’enorme crescita delle città come Londra e
Manchester è aumentata la popolazione, la modernità si rappresenta con la città e lo stile di vita
urbano. Dobbiamo sempre ricordarci che in realtà la modernità non è unica, non rappresenta una
realtà uniforme, non vi è un'unica realtà moderna. Questo significa anche che a modernità
diverse corrispondono città, spazi urbani e stili di vita urbani differenti. Per quanto si faccia
riferimento a delle forze a delle dinamiche comuni quando si parla di modernità che conducono a
risultati tendenzialmente simile, questo rimane sempre uno spazio plurale, la modernità non porta
ad un’omologazione culturale, non lo fa neanche in riferimento alla città. Rimane sempre una
qualche diversità e differenza da studiare. Quando parliamo dell’occidente come espressione
massima della modernità si tende a pensare alle grandi città europee, americane ed asiatiche, ma
non dobbiamo dimenticarci che queste grandi metropoli non rappresentano l’unica forma di
esperienza urbana, permangono sempre delle differenze. Ad esempio, la realtà italiana dal punto
di vista urbanistico è caratterizzata dalla presenza di città piccole, il panorama urbanistico
italiano è fatto da città di provincia, le grandi città sono una eccezione. Questo dipende da tanti
motivi, soprattutto storici, ma questa continua e persistenze presenza delle città piccole è
strettamente correlata con le caratteristiche del capitalismo italiano composto per la maggiore da
aziende familiari e piccole-medie imprese. Il capitalismo italiano è un capitalismo di provincia
che ha trovato una sua etichetta con la produzione della “Terza Italia”. Non ci sono dunque solo
le metropoli.
Lo sguardo antropologico quando si è rivolto alle realtà urbane si è concentrato soprattutto sulle
metropoli, trascurando un po’ colpevolmente le altre realtà. L’antropologia urbana inizia in
ritardo rispetto alle altre discipline come la sociologia, inizia non prima degli anni 70. Inizia tardi
perché lo studio antropologico degli spazi urbani è visata come artificiale, la realtà urbana è vista
come artificiale. C’è una stretta relazione tra la metropoli e la cultura di massa, l’antropologia si
è rifiutata a lungo nello studiare la cultura di massa e capitalista, di conseguenza questo ha
portato anche ad un rifiuto della città. Un rifiuto non dal punto di vista politico/ideologico,
semplicemente agli occhi degli esponenti dell’antropologia quello che caratterizzerebbe la
coltura moderna è la sua artificiosità, la città in quanto sua espressione maggiore anche ‘essa è
vista come qualcosa di artificiale e fittizia, qualcosa che non è degno dello studio della
disciplina. La cultura moderna e urbana appariva come qualcosa che non meritava di essere
studiata perché apparentemente priva delle dimensioni simboliche che invece caratterizzano le
società tradizionali. Questo ovviamente non vale per tutti gli antropologi, però generalmente
questa era l’idea più diffusa. A partire dagli anni 70 del secolo scorso inizia ad emergere uno
studio antropologico delle città, emerge una antropologia urbana, una antropologia at home. Nel
giro di pochi anni c’è stato un cambiamento all’interno della disciplina antropologica, adesso
come adesso la maggior parte delle ricerche antropologiche possono essere ricondotte
all’antropologia urbana. Gli antropologi sono stati costretti in certa misura a studiare le realtà
urbane e metropolitane. Nel momento in cui emerge l’antropologia urbana questa ha dovuto
attingere ad altre tradizioni teoriche, come ad esempio la Scuola di Chicago. Questa era una
scuola sociologica, i suoi maggiori esponenti erano degli etnografi urbani. Park, il teorico della
scuola, decide di applicare allo studio sociologico i metodi dell’antropologia culturale come
l’osservazione partecipante e l’etnografia. La cosa interessante da tenere a mente è che
evidentemente se facciamo attenzione al tempo storico, l’etnografia urbana nasce in
contemporanea con l’etnografia classica. Negli ultimi anni l’antropologia urbana più attenta ha
preso ispirazioni ad altre tradizioni intellettuali, in modo particolare si nota un interesse negli
studi nella corrente di pensiero che comprende anche Benjamin, questa linea è quella di quei
pensatori della modernità che comprende Simmel, Kracauer e Benjamin.
Hannerz in “Esplorare la città” ha dato vita ad un dibattito a partire dalle sue dichiarazioni.
Questo dibattito è la questione della differenza e della distinzione della antropologia della città e
antropologia nella città. Egli sostiene che la maggior parte delle ricerche antropologiche urbane
almeno fino alla fine degli anni 70 presentano una particolarità, si tratta non di vere e proprie
antropologie della città ma semplicemente di etnografie nella città, lui sostiene che gli
antropologi dovrebbero ambire a costruire una teoria su cosa è la città, dovrebbero studiare
fenomeni culturali specificatamente urbani, e a partire da queste ricerche etnografiche dedicati
alla cultura urbana costruire dei lavori comparativi e teorici per dare una definizione
antropologica della città, della metropoli e dello stile di vita urbano. Bisogna capire cosa è la
città dal punto di vista antropologico. quelli fatti fino ad ora per lui sono semplici ricerche
effettuate in città e niente di più. Questo problema è stato ripreso più avanti da Sobrero in
“Antropologia della città” che sulla linea di Hannerz denuncia lo stesso problema. Il fatto è che
l’antropologia urbana nasce come ricerca etnografica all’interno degli spazi urbani, ma
ovviamente il problema è duplice: la ricerca etnografica condotta generalmente da un singolo e
da un metodo di ricerca particolare che è sempre localizzato, l’etnografia si concentra
necessariamente su gruppi ristretti di persone e su spazi sociali ristretti. Come si fa a fare ricerca
etnografica in una città se questa riguarda numeri ristretti di persone? La soluzione è quella di
concentrare la ricerca etnografia in determinati spazi della città. Quartieri, luoghi simbolici e
gruppi sono stati oggetto di ricerca, la maggior parte delle ricerche si sono delineate come lo
studio di determinati quartieri della città. Il problema poi diventa quello delle rappresentazioni,
come può uno sguardo antropologico dare una visione di insieme, come dare una visione di
insieme partendo da realtà più piccole si chiede Hannerz. Il problema, quindi, è quello
dell’estensibilità dei risultati delle ricerche condotte sul campo, diventa significativo il problema
che se si tiene in considerazione il fatto che anche qui l’antropologia urbana si è concentrata
soprattutto su determinati quartieri e zone della città, su determinati gruppi dello spazio urbano.
La maggior parte delle ricerche si sono concentrate sui quartieri poveri, sulle classi subalterne,
sulle minoranze etniche e immigrate dando vita e alimentando quello che Sobrero definisce
“ghetto approach”. È evidente il fatto che gli antropologi si sono concentrati su queste realtà
perché effettivamente queste realtà urbane sono caratterizzate da una certa differenza sociale e
culturale rispetto alla città nel suo complesso. Anche all’interno dello spazio urbano gli
antropologi sono andati a studiare quella differenza culturale che è il tema classico della
disciplina, ma secondo Hannerz e Sobrero attraverso questo interesse alla fine il problema è che
si è delineata solo una antropologia nella città e non della città.
È davvero così? La questione sollevata da Hannerz è ancora reale? Ha ancora distinguere le due
cose? Nel processo di sviluppo dell’antropologia urbana in buona sostanza la questione di
Hannerz ha perso sostanza. Questo non perché sia stata superata, ma perché come dice
Benjamin, in realtà studiare determinati gruppi della città produce sì una descrizione di queste
realtà circoscritte, ma può dirci anche qualcosa di significativo rispetto all’esperienza urbana nel
suo complesso. Ad esempio, la ricerca di Bourgois condotta all’interno del quartiere portoricano
di Harlem, una ricerca problematica su più punti di vista, è dedicata ad una indagine etnografica
basata sull’osservazione e sul dialogo tra e sugli spacciatori di crack. Va a studiare le cause della
diffusione del crack e per comprendere le cause e i significati dello spaccio, si è concentrato sul
loro sistema valoriale. Il tema della sua ricerca è lo spaccio e il consumo di droga, le dinamiche
di devianza, è un esempio di etnografia nella città. Il suo libro è l’esempio migliore del “ghetto
approach”. La sua ricerca è quella che in sociologia viene chiamata la “Teoria della tensione”
che sostiene che le persone dedite ad attività devianti e criminali non sono devianti nel senso che
hanno valori diversi da quelle della maggioranza, dai non devianti, ma alle persone in sostanza
mancano dei mezzi e delle opportunità lecite per ottenere gli stessi valori dei non devianti.
Wacquant in “Reietti urbani” elabora una teoria rispetto alle trasformazioni del ghetto, delle
realtà dei ghetti americani. Secondo lui la progressiva riduzione del lavoro di fabbrica e del
lavoro stabile all’interno delle zone centrali delle città americane ha fatto si che ci sia stata una
trasformazione per cui si sarebbe passati dalla realtà dei ghetti a quelli che lui chiama i super
ghetti. La differenza è che i ghetti tradizionali fino alla fine degli anni 70 erano delle comunità
emarginate, escluse in base alla razza, ma tendenzialmente unite e coese caratterizzate da una
certa stabilità economica, non benestanti ma stabili. La progressiva precarizzazione
dell’economia americana ha portato all’emergere dei super ghetti, realtà segnate da tensioni nelle
quali è presente la criminalità.
Desmond con “Sfrattati” vince il premio Pulitzer, il libro è dedicato alla situazione degli sfratti a
Milwakee. Egli trova che gli sfratti sono una conseguenza della precarietà e povertà, in alcuni
casi anche una povertà relazionale. Son frutto di una situazione di esclusione sociale. Desmond
tratta l’etnografia relazionale che non si concentra sui luoghi ma sulle relazioni, bisogna
osservare le relazioni che le persone instaurano tra di loro.
La questione di Hannertz è stata superata anche grazie a queste etnografie, rimane però la
questione della rappresentatività. Come la si supera? Attraverso due strade:
- Approccio metonimico
- Approccio a mosaico

Lezione 9
“Modernità in polvere” di Appadurai: Disgiunture globali e immaginazione sociale.
L’antropologia critica della modernità ha una storia complessa e travagliata, ha molte anime al
suo interno (antropologia urbana ecc.), è difficile trovare un punto di partenza di questo ambito
di studi. Per Hannerz inizia negli anni 20 con la scuola di Chicago con l’antropologia urbana,
quindi in concomitanza con l’antropologia classica, altri dicono che l’antropologia urbana in
senso stretto inizia in realtà negli anni 70. L’antropologia critica della modernità, capace di
assumere allo stesso tempo uno sguardo etnografico e critico, inizia negli anni 90. Nell’emergere
di questo ambito di studi Appadurai con “Modernità” in polvere ha giocato un ruolo
fondamentale, è stato un pioniere di questa corrente di studio. Fino ad allora l’antropologia
critica della modernità non si era ancora consolidata in un vero e proprio ambito di ricerca, era
molto frammentario come percorso di studio. Da una parte, dagli anni 70 iniziano a emergere gli
studi di antropologia urbana soprattutto declinati come una antropologia at home che studiavano
le città nella loro complessità nei centri del sistema-mondo. Contemporaneamente continuano le
ricerche classiche, che a partire dagli anni 60 iniziano ad occuparsi di un tema in particolare, le
trasformazioni sociali ed economiche e i cambiamenti culturali connessi alla modernizzazione e
alle contraddizioni dei processi di modernizzazione nei paesi del sud del mondo. A partire dagli
anni 90 queste due linee di ricerca iniziano a coagularsi e a dialogare maggiormente tra di loro,
intensificando così le ricerche sullo studio antropologico della modernità. Dagli anni 90
aumentano le ricerche etnografiche e comparative su questioni e temi come il tardo capitalismo,
la globalizzazione, le migrazioni. Questi tre temi sono quelli su cui si sono maggiormente
concentrate le ricerche, e gli ultimi dui sono al centro delle riflessioni e delle analisi di
Appadurai. In contemporanea all’affermarsi all’interno della disciplina questi temi (affermazione
difficile perché considerate poco antropologiche) si delineano anche le prime riflessioni teoriche
e metodologiche. Queste riflessioni metodologiche su come fare ricerca sul tardo capitalismo e il
resto sono state elaborate in modo particolare da Wolf, Hannerz, Fox e Marcus (ricerca
multisituata).
Come dimostra il saggio di Marcus e il lavoro di Hannerz, a partire dagli anni 90 inizia a
delinearsi un nuovo grande tema di ricerca antropologica, quello della globalizzazione. Nel giro
di pochi anni si passa da una antropologia legata al tradizionale esplode l’interesse per la
globalizzazione. Questo accade nel giro di pochissimi anni, si passa da un disinteresse quasi
totale all’emergere di una antropologia della globalizzazione. Una delle cose di cui hanno
maggiormente discusso gli studiosi sono le caratteristiche peculiari esclusive della
globalizzazione, di cosa stiamo parlando? La globalizzazione è veramente un fenomeno nuovo o
ha una storia più lunga alle spalle? La maggior parte delle discussioni su questo fenomeno
tendono a descriverlo come qualcosa del tutto nuovo, la globalizzazione sarebbe la quintessenza
della nostra epoca contemporanea e avrebbe delle caratteristiche uniche che lo distinguono dagli
altri. Alcuni antropologi hanno messo in luce che in realtà le cose non stanno esattamente così.
Molti si sono ispirati alla teoria del sistema-mondo di Wallerstein, e così facendo hanno
evidenziato che effettivamente la globalizzazione non è esattamente qualcosa di completamente
nuovo perché da diversi punti di vista la globalizzazione non è altro che la fase più attuale di
quelle dinamiche di espansione che hanno sempre caratterizzato la storia del capitalismo. Il
capitalismo ha sempre avuto delle ambizioni globali, ad espandersi e costruire connessioni
transazionali tra i diversi paesi e tra i centri e le periferie. In termini meta-culturali le dinamiche
della globalizzazione sono sempre state globalizzanti. Sostenere che le globalizzazioni abbia una
storia che risale in realtà all’emergere del capitalismo non vuol dire negare il fatto che la
globalizzazione contemporanee ha caratteristiche diverse dal passato. Quello che
contraddistingue la globalizzazione attuale è in primo luogo è che quello che era l’ambizione
globale del capitalismo è diventata una realtà, soprattutto per via dell’accelerazione e delle
connessioni transazionali e dei flussi globali, quello che Harvey definisce “una compressione
spazio temporale”. Il sistema mondo moderno dal XVII sino al XX secolo non è mai stato
veramente globale, i viaggi erano lunghissimi, mentre lo sviluppo accelerato dei mezzi di
comunicazione e trasporto ha permesso di accelerare i flussi di scambio, che sono quasi sempre
di più istantanei. Una cosa su cui rispetto alla quale gli antropologi mettono sempre in guardia è
che dovremmo evitare una sorta di determinismo tecnologico, le tecnologie sono state
fondamentali ma non spiega l’interno fenomeno.
La compressione spazio-temporale si lega anche a determinate trasformazioni economiche, le
varie fasi dello sviluppo del sistema mondo. Nell’epoca contemporanea le periferie assumono un
nuovo ruolo. Tradizionalmente nelle fasi classiche dell’economia mondo i paesi dominanti erano
le fabbriche del mondo mentre le periferie fornivano le materie prime. Questo è cambiato dagli
anni 70 del secolo scorso, le periferie sempre di più sono diventate dei siti di produzione
industriale. Effettivamente la globalizzazione da una parte ha una lunga storia e può essere vista
la fase più recente di un percorso molto più lungo, dall’altra parte ha caratteristiche nuove,
questo cosa significa dal punto di vista sociale e culturale? Gli antropologi iniziano a chiedersi
che cosa significa tutta questa accelerazione nei flussi di beni per il soggetto della disciplina, la
cultura? Da una parte alcuni antropologici hanno denunciato la pericolosità di questo fenomeno
che avrebbe portato all’omologazione culturale. Tra queste voci vi è quella nota nostalgica per
l’antropologia classica e tradizionale. Dall’altra altri studiosi hanno sottolineato l’altra faccia dei
processi di scambio, questi avrebbero aumentato i conflitti le frizioni tra i vari paesi. Il lavoro di
Appadurai si inserisce proprio all’interno di questo dibattito portando un contributo innovativo.
Il suo testo è una raccolta di saggi e articoli pubblicati prima del 1996 (data di uscita del libro). Il
suo è un contributo analitico e concettuale, il testo non è un lavoro antropologico classico, non è
un lavoro etnografico. È una cassetta degli attrezzi concettuali, egli fornisce strumenti nuovi per
poter concepire in modo antropologico la modernità, il tardo capitalismo e la modernizzazione.
Appadurai fin dal titolo mette al centro la modernità globale. Il titolo inglese è Modernity at
large ed è stato tradotto con Modernità in polvere questa differenza ha anche a che fare con la
complessità che voleva dare Appadurai. At large significa: in generale o allo stato brado, alla
macchia. Egli vuole sottolineare il carattere estremo della modernità attuale. Allo stesso tempo
quello che lui sottolinea nel libro è che questa modernità radicale e intensifica che è propria della
nostra contemporaneità si manifesta in diverse modalità nelle diverse regioni del mondo e nei
diversi paesi. La modernità at large è comunque una ma è allo stesso tempo molteplice questo
per via del suo carattere distintivo, ovvero che è un qualcosa che ha la tendenza alla diffusione, p
una meta-cultura che si caratterizza per la sua espansione. Nell’espandersi si trasforma in base
alle diverse regioni e culture. La traduzione italiana vuole sottolineare quest’ultimo aspetto, si
vuole sottolineare il fatto che la diffusione della modernità si traduce in una frantumazione delle
modernità. Si frantuma in tanti pezzi durante la sua diffusione per poi riformarsi nei luoghi in cui
finisce per posarsi. Il libro include entrambe le prospettive.
Appadurai parte dalla sua esperienza, dalla sua biografia e lo usa come materiale etnografico, ma
il libro vuole soprattutto fornire una serie di strumenti concettuali che siano allo stesso tempo
antropologici e utili per analizzare in modo antropologico la tarda modernità. Due sono i concetti
chiave del libro:
- Ruolo sociale dell’immaginazione: egli sostiene che è la modernità globale si caratterizza
per un ruolo sempre più importante e fondamentale dell’immaginazione
sociale/collettiva. Mentre nel passato l’immaginazione si declinava come fantasia, invece
la modernità è quell’epoca in cui l’immaginazione collettiva diventa un fattore
fondamentale della vita sociale e delle trasformazioni sociali. se vogliamo comprendere
le trasformazioni della modernità il fattore decisivo è quello dell’immaginazione
collettiva.
- Panorami globali
Appadurai per parlare di modernizzazione si rifà anche lui alla teoria del sistema mondo, ma lo
fa in modo abbastanza critico cercando di superare certe rigidità della teoria, inoltre anche se si
rifà a questa teoria egli enfatizza non tanto la dimensiona economica bensì la dimensione politica
del sistema mondo globale. Al centro della teoria del sistema mondo classico si pone al centro la
struttura economica, mentre Appadurai si concentra sugli aspetti politici, sul destino dello stato
nazione nell’epoca della globalizzazione. Il libro tratta la crisi dello stato nazionale propria della
globalizzazione dovuta secondo Appadurai dalla perdita di potere dello stato nazione di fronte
all’egemonia della finanza e delle aziende transnazionali, e anche dall’emergere dei movimenti
politici “etnici” che si impongono agli stati nazionali in nome di rivendicazioni su base etnica.
Egli riprende la teoria del sistema mondo ma in modo critico perché pur accettando lo schema di
Wallerstein dice che è troppo rigido, rigido perché parlare di centri e periferie da una
impressione sbagliata perché dal suo punto di vista i paesi e le culture non occidentali non sono
delle entità passivi, delle semplici vittime della modernità, ma sono in realtà attive nelle
dinamiche della modernizzazione, sia a livello politico che economico e culturale. Da sempre le
periferie reagiscono alle dinamiche di potere e dei flussi culturali che arrivano dal centro. È
questa dinamica reazionaria a spiegare le tensioni e le logiche della trasformazione, la modernità
non corrisponde ad una omologazione culturale globale, le dinamiche moderne non portano alla
cancellazione delle differenze culturale, non lo fa perché le culture periferiche reagiscono in
prima istanza alle influenze provenienti dai centri. Appadurai dice che la modernità trasforma le
realtà locali, trasforma anche radicalmente le periferie e i centri del sistema mondo, ma questo
cambiamento non equivale ad una omologazione culturale. Questo cambiamento porta
all’ibridazione culturale o creolizzazione culturale. Queste nuove forme culturali creole sono
caratterizzate da una accentuata diversità culturale. Le identità collettive all’interno delle
dinamiche della globalizzazione vengono intensificate da questi flussi, emergono con maggior
forza perché le realtà locali reagiscono quasi automaticamente ai flussi culturali provenienti dai
centri. Questo li nota soprattutto nelle periferie ma anche nei centri e nelle semi periferie. Per
studiare questi elementi Appadurai elabora i due concetti di prima. Lui sostiene che i tratti
distintivi della modernità radicale sono di immaginazione sociale, gli altri tratti sono le
migrazioni di massa e i mass media elettronici, queste tre caratteristiche si alimentano tra di loro.
Lui insiste sul fatto che i mass media elettronici alimentano e rafforzano l’immaginazione
sociale, l’immaginazione collettiva è diventata importante perché sempre più alimentata dai mass
media. Questa da vita a quelli che lui chiama i “mondi immaginati”, come le persone si
immaginano la loro vita, schemi su cui le persone proiettano desideri e aspettative. Sono delle
utopie proprie dell’immaginazione collettiva alimentate innanzitutto dai mass media elettronici.
Questi mondi immaginati però non sono delle semplici fantasie perché effettivamente
contribuiscono alle trasformazioni e al cambiamento sociale, ad esempio influenzano l’attività
politica si vede soprattutto nei movimenti migratori perché sostiene Appadurai che si sono
intensificate perché sono alimentate da queste immagini di benessere, di vita alternativa che
vanno a comporre i mondi immaginari. Queste dinamiche sono parte dei flussi culturali globali
che Appadurai definisce scapes, panorami in cui rientrano anche le immigrazioni e i media,
questi panorami sono 5:
- Etnorami: i flussi delle persone in movimento
- Mediorami: i flussi collegati ai mass media tecnologici
- Finanziorami: i flussi collegati dei capitali finanziari
- Tecnorami: i flussi internazionali delle tecnologie
- Ideorami: i flussi culturali e ideologici, i flussi che hanno a che fare con lo scambio e la
diffusione di ideologie politiche e divisioni del mondo
Questo strumento concettuale dei panorami ha avuto un certo successo, in modo particolare i
concetti di etnorami e mediorami. Quella di Appadurai è una concettualizzazione parziale, lui
stesso dice che se ne potrebbero identificare altri. Tra i panorami manca però il flusso principale
della globalizzazione che è il movimento delle merci. Appadurai ha detto che queste rientrino nei
flussi dei tecnorami. Perché se gli etnorami e gli altri sono dei flussi, degli scambi e delle
connessioni transazionali, perché Appadurai li chiama scapes? Perché a lui interessa non tanto
gli scambi e i flussi di per sé, non le dinamiche interne dei flussi, ma come questi flussi e
connessioni vengono viste e percepite dagli attori sociali. Dal punto di vista di un attore esso si
vede scorrere davanti questi flussi, per questo parla di panorami, io attore rimango fermo e
guardo questi flussi muoversi davanti a me, sono dei panorami, lui non sta pensando tanto ai
panorami naturalistici, ma fa riferimento agli stereoscopi. Gli etnorami sono in prima battuta
composti dal movimento delle persone, movimenti transnazionali o mobilità interna. I mediorami
sono composti dalle immagini prodotte e diffuse dai mass media in movimento, gli ideorami
sono i panorami composti e animati dai flussi delle ideologie diffuse dalla modernità. I 5
panorami sono strettamente legati, si influenzano a vicenda, egli parla di disgiunture globali,
legati ma anche separati nettamente perché hanno forze e cause diverse fra loro. Appadurai
sostiene che è evidente che c’è una correlazione causale tra i finanziorami e gli etnorami,
l’estrazione fatta nel sud globale portano ai flussi migratori. Egli si allontana da certe versioni del
marxismo è per la sua enfasi rispetto alla dimensione dell’immaginazione sociale, che dal suo
punto di vista è un rifiutare certe spiegazioni meccanicistiche del cambiamento sociale, per lui il
cambiamento sociale non sono l’effetto diretto dei cambiamenti della sovrastruttura economica
che poi si rifletterebbero in quella culturale e ideologica, ma i cambiamenti sociali sono sempre
guidati dal filtro dell’immaginazione sociale, che da una parte produce il cambiamento e per
Appadurai è l’essenza delle identità collettive. Lui afferma che i gruppi sociali e soprattutto la
loro identità sono frutto dell’immaginazione sociale, noi ci immaginiamo di essere membri di
una determinata collettività.
Per Appadurai possiamo parlare di:
- Vicinato: dimensione empirica e concreta delle relazioni sociali fra le persone, non ha
una connotazione spaziale, sono persone più o meno legate intensamente tra di loro. Il
vicinato spesso da vita alla località, ovvero il senso di appartenenza.
- Località: Senso di appartenenza della dimensione immaginativa, corrisponde al sentirsi
parte di un vicinato, o membro di un determinato vicinato, questo diventa il collante della
dimensione del vicinato.
La località è sempre qualcosa da costruirsi tramite i processi di socializzazione primari e
secondari, i rituali. Appadurai sul ruolo delle immaginazioni sul costruire la località è influenzato
da Anderson e il suo libro “Comunità immaginate”, la sua tesi è che gli stati nazionali sono delle
comunità immaginate, i membri non si conoscono tutti tra di loro, ma si immaginano di essere
membri della comunità nazionale, questa immaginazione dice Anderson ha a che fare con il
capitalismo a stampa, cioè la diffusione delle lingue nazionali grazie alla stampa, della lettura dei
giornali e dell’istruzione di massa che ha diffuso una lingua uguale all’interno della nazione. Una
delle tesi di Appadurai è che effettivamente una buona parte delle trasformazioni globali sia
dovuta dal fatto che i media nazionali hanno perso di importanza rispetto ai media elettronici, e
questo ha avuto un impatto sulla politica e sulle comunità. Questo comporta forse al superamento
dello stato nazione e all’emergere di nuove identità collettive. Lo stato nazione è in crisi sia per
la perdita di sovranità, ma anche dal punto di vista della nazione perché le identità collettive e il
senso di località hanno più possibilità di diffondersi con i media tecnologici, egli dice che la
produzione della località a partire dal vicinato è il compito chiave delle stesse collettività e della
politica, ma con la globalizzazione la produzione della località a cui siamo abituati viene messa
in discussione.

Lezione 10
Comaroff, Teoria dal sud del mondo
Appadurai con Hannertz sono stati pionieri sulle ricerche antropologiche sulla globalizzazione,
ad entrambi è stata rimproverata una carenza di ricerca sul campo e di esempi etnografici, loro
offrono piste di indagine. Una cosa che si può notare è che a partire dagli anni 90 si nota una
sorta di “salto” argomentativo nel discorso antropologico, una rottura antropologica perché
leggendo questi autori si ha una impressione strana, ovvero che ci sia stato un salto dalle ricerche
predominanti (incentrate su realtà locali, ricerche classiche) a ricerche globali. L’impressione è
che da un giorno all’altro l’antropologia abbia cambiato campo di ricerca, dal locale al globale.
Ovviamente si tratta di una impressione, le ricerche classiche e locali continuano, ma ad esse si
aggiungono quelle globali. A partire dagli anni 90 sono emerse ricerche transnazionali su
soggetti globali, soprattutto quelle at home e nei centri euro-americani.
I coniugi Comaroff cercano di elaborare una teoria del sud del mondo e rispetto ad Appadurai
cercano poi di metterla i pratica, ma soprattutto i Comaroff rispetto alle ricerche globali seguono
un percorso relativamente diverso perché sostengono che l’antropologia deve in qualche misura
rimanere fedele a se stessa, e questo significa che per comprendere la tarda modernità e la
globalizzazione lo sguardo antropologico è fondamentale soprattutto se rimane fedele a se stesa,
loro affermano che se volgiamo apprendere le dinamiche della modernità dobbiamo partire dai
contesti di studio e ai temi di ricerca più classici, partendo dagli oggetti di studio classici (i
rituali, le credenze tradizionali) possiamo avere una visione più chiara del nostro presente e della
nostra realtà. Loro sostengono che per comprendere il mondo contemporaneo il punto di
osservazione migliore sono le periferie del sistema mondo, è guardando la globalizzazione
partendo da qua che possiamo avere una visione di insieme e più precisa della realtà globale. Le
dinamiche e le caratteristiche della contemporaneità e della globalizzazione possono essere
studiate meglio osservandole a partire da quelle realtà dove l’antropologia si è soffermata più a
lungo secondo i Comaroff, ma secondo lui non è solo una questione di punti di osservazione, ma
l’antropologia deve rimanere fedele a sé stessa. Loro dicono che nel sud le dinamiche del
presente globale si mostrano più nettamente. Loro sono sudafricani ma hanno studiato in
Inghilterra, il loro campo di studio principale è stato il continente africano.
La tesi del libro è una “idea semplice”: l’Euroamerica “sta diventando” come l’Africa, a causa
del capitalismo sregolato della fase neoliberista. La tesi si basa anche su un altro presupposto,
ovvero si basa su una rielaborazione del sistema-mondo, anche per loro la teoria di Wallerstein è
un punto di riferimento. Così come Appadurai e Wolf, anche loro però mettono in discussione
determinati aspetti di questa teoria, dicono chiaramente che l’idea della modernità in quanto meta
cultura del capitalismo sia stata esportata dai centri del sistema mondo alle periferie non è
corretta, ma questa è nata nei rapporti tra centro e periferia e queste ultime ne sono (state) il
luogo dove la modernità è stata primariamente messa alla prova, prima di consolidarsi nei centri
è stata testata nelle periferie. La loro posizione è simile a quella di Tsing, dove ad esempio
l’economia industriale è stata testata nelle piantagioni delle colonie americane.
L’altra tesi è che l’attuale fase ideologica del capitalismo legata all’egemonia delle politiche
neoliberiste, secondo i Comaroff l’attuale neoliberismo da certi punti di vista è una versione più
pura del capitalismo, la versione nuda e cruda del capitalismo, una versione sregolata, visione
che è sempre stata dominante in buona parte dei paesi del sud del mondo, il capitalismo
sudafricano è sempre stato sregolato e deregolato. Il loro libro è una sorta di manifesto, di
rivendicazione dell’antropologia intesa come giro lungo, dello studiare l’altro anche come giro
lungo per tornare a comprendere le realtà del nord. Guardare quanto succede nel Sud ci permette
meglio di comprendere meglio la modernità neoliberista. Lo guardo proveniente dai margini ci
fornisce prospettive importanti per comprendere il mondo. Teoria dal Sud si riferisce anche e
soprattutto al dialogo e al sapere prodotto dai soggetti locali. Anche in questo senso i Comaroff
si rifanno a Gramsci, secondo cui tutti in un modo o nell’altro sono dei filosofi, tutti elaboriamo
delle teorie sociali, delle visioni e concezioni che però nella maggior parte dei casi rimangono
implicite. Da questo punto di vista si potrebbe dire che un compito dell’etnografia è far emergere
queste teorie implicite che in realtà sono proprie di tutti i soggetti.
Il primo oggetto indagato è il tema del soggetto, della concezione locale della persona, come le
culture locali pensano l’essere umano, un tema classico dell’antropologia. I Comaroff affrontano
questo tema sulla base di una domanda posta loro da colleghi filosofi: “la nozione di soggetto
autonomo e individuo è un’invenzione occidentale?” questo è un tema che rientra
nell’antropologia della persona, dove l’etnografia ci presenta delle rappresentazioni di persona
diverse, esistono diverse concezioni culturali di soggetto: ad esempio Dumont contrappone
l’individuo alla persona sociocentrica, egli sostiene che l’idea di individuo era una concezione
inventata dall’occidente. Un altro esempio è quella di Strathern (melanesia, Nuova Guinea e
Nuova Caledonia) che sostiene che la concezione di soggetto e di persona è presente una
concezione dividuale di persone, abbiamo a che fare con la concezione di dividuo, l’essere
umano è percepito nelle relazioni sociali. I Comaroff invece con la nozione di Tswana sfidano le
dicotomie, sostengono che non si può parlare di relazioni tradizionale, ma sostengono le
rappresentazioni del soggetto Tswana vanno oltre le dicotomie elaborate d a Dumont perché la
persona esiste come qualcosa di sociale e relazionale, la persona è tale perché attraversata da
relazioni sociali, familiari, parentela e lignaggi. L’idea di fondo degli Twasna è che la persona è
un soggetto perché deve costruirsi da sé, un lavoro su di sé, che è un lavoro di continua
generazione di relazioni, il soggetto si costruisce tramite itirela: il lavoro su di sé. Da un lato
quindi abbiamo la valorizzazione dei rapporti sociali, e dall’altra la cura di sé e soggetto come
imprenditore di sé. La persona Tswana è vista come un imprenditore di sé, questa concezione
sfida una ulteriore dicotomia, è una concezione sociocentrica o post-moderna di persona? In
questa concezione sono presenti entrambi gli elementi.
I Comaroff sostengono che queste nozioni di persona si possono trovare anche altrove in Africa,
uno degli elementi che ritornano è che il lavoro su di sé del soggetto aveva diverse dimensioni,
da una parte sottomettere altri soggetti ma anche una costruzione per difendersi da altri soggetti,
una difesa dagli attacchi magici e stregoneschi. L’autocostruzione era anche difesa da altri. Gli
attacchi stregoneschi si manifestano attraverso la zombificazione, i soggetti colpiti da stregoneria
vengono trasformati in zombi, le persone perdono autonomia e libertà e vengono utilizzati dagli
stregoni per i loro interessi. Loro ci dicono che la questione degli zombi non è una credenza
tradizionale del passato, non è scomparsa con la modernità. Quella degli zombi è una credenza
molto diffusa in Africa che trova riscontro a livello mediatico e giuridico. L’aspetto
fondamentale è che gli zombi in questo contesto sono persone catturate dagli stregoni che gli
zombificano o per venderli o per sfruttarli. Quello che ne deriva sono delle vere e proprie cacce
agli stregoni e alle streghe. Questa caccia è un fenomeno di blaming, di colpevolizzazione di
persone che sono accusate di essere degli stregoni, che sono spesso persona anziane, persone che
hanno avuto successo economico, stranieri e immigrati. Questa caccia è una reazione irrazionale
e violenta alla mancanza di lavoro e alla povertà.
La credenza nella stregoneria è un modo per comprendere le diseguaglianze e l’arricchimento
(occult economy). L’aspetto che sottolineano è che nei contesti di povertà l’arricchimento di uno
corrisponde alla privazione di qualcun altro, la caccia alle streghe è una sorta di invidia per
colore che stanno meglio. Queste persone stanno meglio perché hanno trasformato le persone in
zombi e le hanno sfruttate per arricchirsi. Questa occult economy è legata al cosiddetto “casino
capitalism”. È una forma di ibridazione culturale. La figura dello zombi è interessante perché è
una metafora dell’alienazione capitalista e post-capitalista, lo zombi è sempre esistita anche nel
nostro immaginario, è una rappresentazione allegorica dell’alienazione.
Quello che descrivono i Comaroff è una situazione segnata da disagio, povertà e violenza. Nel
loro libro “Nazioni con e senza confini” loro riflettono sulla xenofobia. Qua loro riprendono
Schimitt, secondo il quale la politica si definisce tra la definizione tra amico e nemico, la politica
è essenzialmente guerra, su questa concezione nascono gli stati moderni. I Comaroff mettono in
relazione il pensiero di Schmitt e i Nuer, cosa c’entrano assieme? Il sistema acefalo dei Neur si
basa sulla contrapposizione amico/nemico. In Sudafrica avvengono spesso episodi di violenza
collettiva verso gli immigrati guidati da un forte sentimento xenofobo. Secondo i Comaroff
questi episodi di violenza dipendono da certe dinamiche economiche, dopo la fine dell’apartheid
c’è stato un brusco passaggio a delle politiche neoliberiste che hanno creato ulteriori
diseguaglianze e una generale disillusione. Arricchimento per pochi e forte disillusione verso
promesse mancate. Loro ci dicono che determinati fenomeni si vedono sempre di più all’opera
nei centri del sistema-mondo, dove aumentano le dinamiche xenofobe, in maniera non diversa da
quella presente da più tempo in Sudafrica. Dopo la parentesi del capitalismo regolato e della
modernità progressiva, anche da noi arriva il lato oscuro della modernità come il populismo, la
xenofobia e le paure irrazionali. Ma è tutto negativo? No, ad esempio le elezioni in Botswana ci
fanno vedere che alle venature populiste c’è la possibilità di partecipazione democratica.

Lezione 11
Ai margini del lavoro: Antropologia del lavoro e del non lavoro
Il libro è una etnografia della disoccupazione e della perdita del lavoro a Torino svolta tra il 2014
e il 2016. È stato un alternarsi di lavoro sul campo e di lavoro in “ufficio”. È un lavoro di
descrizione incentrato su storie e testimonianze dell’esperienza della perdita del lavoro e della
disoccupazione prolungata. Non ci sono altre ricerche etnografiche e antropologiche in Italia
dedicate al fenomeno della disoccupazione, il libro rientra all’interno dell’ambito più ampio
dell’antropologia del (la assenza del) lavoro. Questa antropologia si è sviluppata molto negli
ultimi anni non solo Italia. Il fenomeno della disoccupazione è drammatico sotto molti punti di
vista, è un fenomeno centrale nella nostra epoca contemporanea eppure, è stato poco indagato. Il
prof si è chiesto se il libro in una era post pandemica sia ancora attuale, e la sua risposta è stata
sì, questa pandemia e le sue conseguenze non hanno fatto che accelerare i processi e le
dinamiche che erano già in atto che sono state analizzate nel libro.
Tutte le etnografie ambiscono a fornire anche dei concetti più ampi e soprattutto porsi come
punti di partenza per riflessioni più ampie, in questo caso sul fenomeno della mancanza del
lavoro in epoca neoliberista. Questa etnografia è stata un dialogo fra i contributi teorici di alcuni
autori (Burdieou, Marx, Newman, Howe, Spyridakis, Paugam) e le persone che il prof ha
incontrato sul campo. Le etnografie sono sempre un dialogo fra gli autori di riferimento e gli
interlocutori incontrati sul campo. È basata su storie di vite di persone incontrate sul campo tutte
disoccupate che hanno raccontato la loro esperienza di impoverimento economico, dei loro lavori
precedenti e della speranza di trovarne uno nuovo. Capello si è concentrato su uno specifico tipo
di disoccupazione che si può distinguere tra:
- Disoccupazione giovanile: ha a che fare ad entrare nel mondo del lavoro
- Disoccupazione delle persone adulte (quella di cui si è occupato Capello); dai 40 ai 65
anni di età, si è concentrato su persone che avevano sempre lavorato e che hanno perso il
loro lavoro.
Il dramma sociale è uno dei concetti chiave del libro, altri sono la liminalità e la squalificazione
sociale. Questi tre elementi sono strettamente intrecciati e fuse fra di loro e lo scopo del volume è
quello di mostrare questo intreccio all’interno della vita delle persone incontrate sul campo.
La ricerca si focalizza sulla esperienza della perdita e della marginalità come chiave per leggere
la più ampia realtà dell’economia de della società di Torino. La ricerca è nata da una indagine
esplorativa a Mirafiori su famiglie e reti durante la crisi economica del 2008. Dopo aver
incontrato una associazione di disoccupati, Capello ha spostato la ricerca sulla difficoltà di
trovare lavoro e sulla transizione economica. I disoccupati nella maggior parte avevano una
caratteristica, erano persone assolutamente normali, operai, magazzinieri, manovali, impiegati,
baristi che avevano una vita normale e che ad un certo punto si sono ritrovati in una situazione di
difficoltà e marginalità a causa della perdita del lavoro. Questa esperienza di normalità
intrecciata a quella della perdita del lavoro e del reddito è parsa a Capello una chiave per
interpretare la più ampia realtà della società torinese, la situazione di disoccupazione è anche una
allegoria per comprendere la Torino di oggi.
Capello si è reso conto che il tema meritava di essere studiato e poteva funzionare per studiare la
Torino di oggi. La ricerca è stata alternata da momenti di campo e no perché il tema di ricerca
non è affatto facile, le difficoltà erano dovute al fatto che i disoccupati in sé non sono un gruppo
specifico definito da confini ben definiti e presenti in una determinata località. La ricerca è stata
multisituata per incontrare più persone possibili. Non è facile parlare della perdita del proprio
lavoro, che è un dramma e anche un lutto e non tutti hanno voglia di parlare con il ricercatore del
loro dramma, ma nonostante le difficoltà Capello è riuscito a costruire un lavoro dialogico,
dialogico perché nella ricerca l’ascolto e il dialogo prevale sulla osservazione partecipante.
Capello ha soprattutto conosciuto le persone e ascoltarle per raccogliere testimonianze spesso
difficili e drammatiche. Queste testimonianze non sono semplicemente un materiale che poi ha
rielaborato mettendolo in relazioni ai teorici, ma hanno anche fornito non solo materiale da
interpretare, ma anche delle chiavi interpretative, sono stati loro ad indirizzare l’autore verso una
specifica lettura e interpretazione del fenomeno della perdita e della mancanza del lavoro.
L’etnografia è un case study che rientra nella antropologia della disoccupazione. Questa
antropologia è nata con le ricerche di Newman e Howe e ha trovato una sintesi nel libro
“Anthropology of unemployement”. Il tema della disoccupazione è un tema abbastanza classico
nelle scienze sociali, tipo nelle scienze economiche e nella sociologia economica e del lavoro. A
questi approcci classici cosa possono aggiungere l’antropologia e l’etnografia? L’antropologia si
distingue per il suo approccio etnografico e qualitativo e non quantitativo, e quando parliamo di
disoccupazione e si far ricerca sul mondo del lavoro sono soprattutto gli approcci quantitativi e
statistici a essere predominanti su tutti i livelli. Una attenzione sola per i numeri e le percentuali
rischia di lasciare indietro altri aspetti, vanno perduti gli aspetti umani e le persone con le loro
esperienze. Si perde di vista l’esperienza sociale, tutto quello che interessa all’antropologia.
L’antropologia della disoccupazione invece parte proprio dalle esperienze delle persone e dei
lavoratori, ed è capace di dare una lettura diversa del fenomeno. L’essenza di questo approccio
etnografico è che mentre le teorie economiche e sociologiche predominanti (gli aspetti
quantitativi) per lo più hanno indagato le cause della disoccupazione; invece, il campo
antropologico cerca di comprendere la dimensione culturale del fenomeno della disoccupazione,
comprendere il significato sociale e collettivo di questo fenomeno. Con il significato vediamo il
piano del valore e come viene vissuta dai singoli soggetti che interpretano la loro realtà facendo
riferimento al sistema simbolico collettivo. La disoccupazione e il lavoro sono inseparabili, la
disoccupazione è un qualcosa che si definisce spesso in negativo, la si definisce in quanto
mancanza di lavoro, della perdita di un lavoro. Questo per noi significa che dobbiamo anche
studiare qual è il significato di essere non disoccupati e come viene vissuta nell’era tardo
capitalista. Questo ramo dell’antropologia è nato come studio degli effetti della
deindustrializzazione nelle società post-industriali. Ovviamente la materia studia le dimensioni
simboliche di questo fenomeno con attenzione particolare all’identità e allo status e alla
mancanza di essi.
La questione della perdita dello status di lavoratore si lega alla questione dell’invisibilità dei
disoccupati, spesso si parla della disoccupazione come fenomeno e molto meno degli individui
disoccupati. I disoccupati sono tendenzialmente invisibili perché non rientrano nelle categorie
sociali normali, essi sono anomali non perché lo è il fenomeno, ma lo sono perché non rientrano
nelle categorie riconosciute. Questo si lega ad un'altra forma discorsiva, ovvero quella della
colpevolizzazione. Il discorso dominante tende ai disoccupati stessi la colpa della loro situazione,
questo è il discorso neoliberista, chi non trova lavoro è perché non si impegna abbastanza o
perché non ha un capitale umana abbastanza elevato o perché non si sacrifica. Questo discorso
riconduce tutto ad una difficoltà personale, e questo finisce per legittimare il sistema stesso. Lo
scopo del libro è quello di opporsi a questo discorso e di “stimolare l’immaginazione
sociologica” (Mills), ciò significa cercare di dimostrare le dimensioni sociali dei problemi
personali. La disoccupazione è un problema sociale legato alle trasformazioni produttive e alle
pratiche del neoliberismo. Lo sguardo neoliberista vede la disoccupazione come problema
personale, e ha una relazione complessa con il fenomeno perché anche se non causa direttamente
il numero di disoccupati, lo fanno le politiche neoliberiste che aumentano l’instabilità e la
precarietà.
Le storie raccolte durante la ricerca non sono solo un materiale grezzo, ma le persone hanno
fornito le chiavi interpretative, ad esempio quando Giuliano dice che la disoccupazione è un
“dramma sociale”. Turner elabora il concetto di dramma sociale presente nelle società africane
che aveva studiato, per lui il dramma sociale sono quei momenti di crisi e drammatici che fanno
emergere le contraddizioni già da sempre presenti nel sistema sociale. La disoccupazione è una
dramma sociale anche in questi termini, mostra le contraddizioni del sistema economico tardo
capitalista e nella realtà torinese. È una questione di transizione. Torino è stata a lungo la città
della FIAT, è sempre stata la città fabbrica, è stata la città industriale e fordista per eccellenza.
Ora non è più così, Torino è cambiata in molte direzioni diverse, ma questa evoluzione è da
considerare una trasformazione positiva o un declino?
L’altro concetto chiave è la questione della liminalità che accomuna Torino e i disoccupati, la
condizione liminale è quella centrale dei riti di passaggio. I disoccupati sono esseri liminali, sono
paragonabili agli iniziandi all’interno dei riti di passaggio, e questa loro condizione li accomuna
tra loro e a Torino. Come gli operai erano il simbolo della Torino fordista, ora i disoccupati sono
i simboli della Torino neoliberista. Torino è in una situazione liminale, non è più e non è ancora,
è bloccata in un limbo post-industriale, è prima di identità. Non è più la città fordista con una
economia incentrata sulla grande fabbrica e alla produzione di massa. Già dagli anni 90 il
sistema fordista si ferma e ha inizio la deindustrializzazione che non è totale, ma comunque
l’industria viene ridimensionata notevolmente.

Lezione 12
Dagli anni 60/70 Torino diventa la città fordista, ma già dagli anni 90 inizia la
deindustrializzazione. Capello ricostruisce la storia della città dal punto di vista degli
interlocutori, che ricordavano con nostalgia, questa è una visione parziale perché il sistema
keynesiano era comunque segnato da tensioni tra capitale e lavoro, negli anni 60/70/80 questa
tensione è stata anche forte, come ad esempio attraverso gli scioperi e la marcia del 40k. Questo
periodo (60-90) era segnato da una certa stabilità e offriva lavoro ai ceti bassi e la classe operaia.
La stabilità lavorativa era il fattore nostalgico più forte riscontrato negli interlocutori. Dagli anni
90 il sistema keynesiana va in crisi, l’industria inizia a delocalizzarsi e inizia una fase di Torino
post-industriale. La città non è più la città fabbrica, e quindi che cos’è? Non sappiamo che cos’è
la Torino attuale, è priva di una identità perché risulta bloccata in una fase di transizione, è in una
fase di liminalità. Turner ci ricorda che i cambiamenti implicano sempre tre fasi:
- Prima
- Durante
- Dopo
Torino è attualmente in una fase di transizione che dura da trenta anni, è bloccata. Una buona
parte della mancanza di identità e le difficolta presenti in città sono dovute da questa condizione
di liminalità, ma non solo: altrettanto importante è che il fatto che il cambiamento economico
post-fordista è stato gestito e guidato attraverso una ottica neoliberista (ordo liberiste). C’è stato
un passaggio dalla città fabbrica alla città azienda. Il neoliberismo corrisponde ad una
aziendalizzazione del mondo e della realtà, sia gli individui che la politica e la cosa pubblica.
Questo è un fenomeno che riguarda molte altre città italiane e non solo, una delle tante
conseguenze è stato quella di rilanciare la città partendo dalla riqualificazione urbana del centro e
l’abbandono delle periferie. La liminalità dipende anche da come questa transizione viene
gestita, essa è strettamente collegata all’incertezza neoliberista. Essere bloccati in questo limbo
significa anche una lunga e prolungata fine, una destrutturazione di tutti quei mondi operai che
erano legati al mondo industriale, la fine delle tradizioni operaie. Spesso gli interlocutori
utilizzavano delle espressioni che facevano riferimento alla “fine del mondo”. C’è un ethos
nostalgico e un senso di perdita. Le olimpiadi del 2006 sono state anche viste come un rito di
riaggregazione, ma è stato un tentativo fallito per superare la fase di transizione. Nel 2016 hanno
rappresentato dal punto di vista politico una grande svolta con la vittoria del M5S e di Chiara
Appendino, anche queste elezioni possono essere viste come un tentativo di rito di
riaggregazione, però anche questa volta la liminalità di Torino non è stata superata. Queste
considerazioni sulla liminalità non riguardano esclusivamente Torino, ma anche tutta la nostra
contemporaneità. C’è un rapporto metonimico tra la città e i disoccupati, anche loro sono delle
figure liminali nel senso che sono figure viste in negativo, sono in una fase di transizione e
soggetti di una serie di ordalie come avviene nei riti di passaggio. L’idea di disoccupazione come
condizione di liminalità Capello l’ha ripreso dalle teorie di Newman. I disoccupati sono liminali
perché sono “gettato” in un rito di passaggio: da una condizione di lavoro ad una condizione di
mancanza del lavoro, il primo elemento che avvicina i disoccupati agli iniziandi è che non sono
più ma non sono ancora, sono in attesa di trovare una nuova occupazione per uscire da questa
fase di crisi economica, sono sostanzialmente privi di status. Nei riti di passaggio il rito di
riaggregazione avviene tendenzialmente sempre, in questo caso la sospensione e la fase liminale
può durare in realtà per sempre. L’attesa si prolunga a data indefinita e nel caso dei disoccupati
l’ultimo passaggio può non avvenire mai. Un altro aspetto è quello dell’invisibilità: nella fase
liminale gli iniziandi sono invisibili dal punto di vista simbolico, sono privi di uno status sociale
o visti in negativo, per i disoccupi questo aspetto grava sulla perdita del lavoro, sono definiti
negativamente in merito alla mancanza del lavoro. Questa condizione di liminalità è estenuante e
dipende da fattori strutturali e non dalle azioni delle persone, si sono ritrovate disoccupate a
causa delle crisi che hanno comportato la chiusura di aziende e ai loro fallimenti. Gli
interlocutori avevano perso il lavoro a causa della crisi economica globali e a causa di fallimenti
aziendali. La crisi economica globale ha avuto un impatto molto forte sul mondo del lavoro
torinese perché è andata a radicalizzare quelle tendenze alla deindustrializzazione, avendo
coinvolto tutti i settori dell’economia ha ridotto anche la possibilità di occupazione in altri ambiti
economici.
La condizione liminale degli interlocutori è soggettiva, questo è importante perché quando
parliamo di disoccupazione i numeri sono delle persone, al di là delle statistiche esistono persone
con storie reali tutte diverse fra loro. Una delle interlocutrici ha detto “è il sistema che ci esclude,
siamo dei rifiuti della società”. Questa questione ha a che fare con i meccanismi di espulsione di
forza lavoro eccedente. Al di là dei percorsi individuali notiamo delle dinamiche di espulsioni
che sono proprie dell’attuale fase tardo-capitalista. Queste espulsioni che sono parte dei
meccanismi produttivi come vanno visti dal punto di vista sociale? Ci sono due immagini:
- Baumann: una delle conseguenze della società liquida/post-fordista che è sempre più
caratterizzata dalla precarietà e dall’egemonia finanziaria crea “vite di scarto”, l’idea di
Bauman è che le trasformazioni economiche e tecnologiche espellono i lavoratori
manuali e rimpiazzati con la tecnologia.
- La disoccupazione non è qualcosa di eccezionale, ma è un elemento cardine del mercato
del lavoro capitalista, il capitalismo si basa sul mercato del lavoro, questo viene venduto
e acquistato sulla base della domanda e dell’offerta. Il mercato del lavoro capitalista si è
sempre basato sulla disoccupazione, ci sono sempre dei lavoratori che in un modo o
nell’altro che fanno si che i salari siano tenuti ad un livello preciso.
Il punto è che i disoccupati sono espulsi dal mondo del lavoro, ma non sono esclusi dal mercato
del lavoro, finisco a far parte di quell’esercito di riserva di cui parlava Marx. Sono vite di scarto
ma sono anche parte dell’esercito di riserva che mantiene i salari bassi. La condizione di
liminalità degli interlocutori si ritrovavano in bilico fra questi due aspetti. Cosa succede a queste
persone che hanno subito questa esperienza della mancanza del lavoro e dell’espulsione? Questa
esperienza può essere definita come una doppia caduta: economica e sociale. La prima caduta, la
prima conseguenza della mancanza del lavoro è quella economica, la perdita di reddito e il
rischio di impoverimento. Questo era più accentuato quando il disoccupato era l’unica fonte di
reddito per la famiglia.
In realtà la disoccupazione può essere definita come la scoperta della povertà, trovarsi senza
lavoro e senza un redito mettono in crisi l’illusione di appartenere alla “classe media”. La perdita
del lavoro infrange l’illusione di vivere una situazione normale. La disoccupazione in senso
stretto e prolungata è direttamente legata alle classi subalterne, per le classi più alte è meno forte
e prolungata. La perdita del lavoro porta ad una consapevolezza della fragilità del proprio status
sociale. L’impoverimento è solo uno degli effetti della disoccupazione: tra gli interlocutori di
Capello non c’era una marginalità estrema e davano per scontata la perdita di reddito. Il lavoro
ha come funzione primaria quella del reddito ma anche funzioni latenti, quelle a cui spesso non
pensiamo e che riemergono nei momenti di crisi, queste funzioni latenti sono:
- la strutturazione del tempo: Con la perdita del lavoro il tempo va in crisi e con esso la
vita.
- relazioni sociali: il fatto di andare a lavorare è il mezzo principale con cui le persone
realizzano rapporti extra familiari, i colleghi diventano amici, così come possono
diventarlo i clienti.
- il lavoro fornisce una identità e uno status: squalificazione sociale
la disoccupazione è una condizione liminale perché comporta la sospensione della normalità,
dello status sociale e l’attesa indefinita.
Paugam definisce tre tipi di povertà:
- Integrata: si è poveri ma si è comunque integrati in una realtà sociale
- Marginale: presente nei paesi dove la disoccupazione è bassa, ma ci sono forme di
esclusione sociale che colpiscono determinati gruppi sociali
- Squalificante: quella presente nei paesi occidentali, si perde sia il reddito e sia il
riconoscimento della società

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