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ECONOMIA E MANAGEMENT DELLE IMPRESE

Capitolo 1 “Rapporto tra impresa e ambiente competitivo”


1.1 Produzione di massa e ambiente tecnologico

Produzione di massa = un sistema di produzione basato su grandi e grandissime imprese che realizzano
produzioni ripetitive (per far sì che costino il meno possibile) di un gran numero di prodotti standard, destinati
a un consumatore medio attento più al risparmio sul costo che alla qualità (consumo di massa).
Si sviluppa a partire dal novecento ed estende la meccanizzazione, iniziata con la rivoluzione industriale,
anche alla produzione di prodotti complessi.
Sarà superata con lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione, quando sara’ possibile applicare
l’informatica alle tecnologie produttive.

L’estensione della meccanizzazione alla produzione dei prodotti avviene grazie all’opera di:

 Frederick W. Taylor = sviluppatore della organizzazione scientifica del lavoro che consisteva nella
parcellizzazione dei compiti, nello studio scientifico dei tempi e dei metodi.
 Henry Ford = applicatore della tecnica della parcellizzazione di Taylor al lavoro delle macchine nel
campo della produzione di automobili.
o Presupposto tecnologico è lo sviluppo dell’elettricità,
o La fabbrica come un insieme di sistemi organizzati di macchine specializzate collegate,
o Economie di replicazione che portano a incremento di produttività.
Idea base di Ford = sorpassare i limiti fisici delle macchine attraverso l’organizzazione (non usare una
sola macchina, ma un sistema di macchine); sviluppa un sistema di fabbricazione complesso che
consente di meccanizzare la produzione di prodotti complessi (non solo l’automobile).

La linea fordista risponde a domanda di prodotti standard e a prevedibilità dell’ambiente. Se i consumatori


cominciano a preferire varietà e variabilità, la tecnologia fordista si rivela costosa e rigida (ad un rapido
cambiamento). Se si introducono varianti crescono le scorte che generano inerzia nel cambiamento dei
programmi di produzione.

Conoscenza generativa = conoscenza che consente di generare nuove conoscenze e quindi di usare
l’intelligenza della mente e le capacità culturali nello specifico contesto per immaginare soluzioni nuove.
Conoscenza replicabile = quando i soggetti usano le loro conoscenze generative per creare codici e modelli
replicabili e utilizzabili da altri (modelli che non costa niente riprodurre ma che ogni volta che arrivano ad un
utilizzatore questo aumenta il valore prodotto e i ricavi corrispondenti in modo moltiplicativo).

Il limite fondamentale di questo nuovo metodo produttivo = macchine replicano sempre lo stesso movimento
e quindi possono compiere solo trasformazioni semplici (rischio di rendere incompiuta la meccanicizzazione
della Rivoluzione industriale).

Soluzione di Ford = parcellizzazione del lavoro meccanico utilizzando le soluzioni teorizzate da Taylor nel
campo del lavoro umano per velocizzare la produzione specializzando gli operai in modo che ognuno
compiesse un compito determinato (Ford scompone quindi il processo di produzione in tante operazioni
semplici e ripetitive tanto da poter essere svolte dalla macchina).
La linea di produzione diventa quindi una sequenza di macchine specializzate dedicate ognuna a una
funzione semplice e precisa.

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La soluzione di Ford, il processo di decomposizione della complessità (varietà e variabilità) porta alla nascita
della grande fabbrica e comporta vantaggi come l’incremento di produttività grazie all’estensione di tale
modello a tutti i processi produttivi anche complessi.

Mentre Ford punta al vantaggio di costo: la fabbrica e la standardizzazione del prodotto sono al centro;
Alfred P. Sloan (General Motors) riconosce che con qualche piccola varianti alcuni clienti potranno essere
disponibili a pagare di più (vantaggio di “falsa” differenziazione).

1.2 Rivoluzione organizzativa e crescita dimensionale nell’impresa fordista

Su questa base tecnologica nasce una forma complessa di organizzazione che inizialmente ha il compito di
coordinare le operazioni delle macchine, ma successivamente si allarga anche alle relazioni con mercato e
finanza. Questi cambiamenti comportano anche una totale mutazione dell’azienda in sé: le redini
dell’azienda passano dal fondatore-imprenditore al manager.
Manager = necessario in questa ottica perché presidia e costituisce l’organizzazione. Deve però integrare le
capacità di direzione e quelle di controllo dell’imprenditore (che non può più da solo badare al sistema per
la necessità di figure specializzate). È importante ricordare che tali competenze sono firm specific quindi
frutto del contesto, dell’esperienza, del learning by doing e della circolazione dell’informazione all’interno
dell’azienda.
Imprenditore = diventa azionista senza precisi poteri di comando attraverso l’investimento del capitale di
rischio in borsa.

L’impresa è funzione di produzione. La parcellizzazione richiede lo sviluppo di attività:


• di progettazione dei prodotti, dei cicli di lavorazione; di studio del layout; di definizione del programma
giornaliero, mensile, annuale delle macchine; di controllo delle lavorazioni del magazzino; ecc..

L’organizzazione costa: nel suo percorso di sviluppo, l’impresa del fordismo maturo cerca la crescita
dimensionale come soluzione al trade off tra vantaggi della meccanizzazione e costi dell’organizzazione.
- Cerca economie di scala con la crescita dimensionale, la specializzazione e la standardizzazione
Economia di scala = all’aumento del volume prodotto, corrisponde un abbattimento del costo del prodotto
stesso poiché il costo fisso dei macchinari e del lavoratore viene ripartito su un numero molto alto di prodotti.

Inoltre è necessario in un’ottica fordista che l’impresa sia formata da:


1. Professionalità specifiche come tecnici o ingegneri (risorse umane con conoscenze apprese grazie a
università o scuole) che con diverse competenze selezioni le informazioni utili e scelgano le soluzioni più
efficaci per progettare i cicli e i prodotti.
2. Funzioni di supporto come la logistica e gli approvvigionamenti, ricerca e sviluppo, finanza, vendite e
controllo interno affidate ai manager. La diversa qualità delle conoscenze possedute dalle risorse umane
dell’impresa alimenta la differenza tra imprese e ha importante rilievo competitivo.
N.B. Anche se le macchine sono standard ogni impresa declina il rapporto tecnologia e organizzazione in
modo diverso  la scienza manageriale (arte manageriale) si basa su conoscenze firm specific, lo stesso vale
per il rapporto con il mercato.

La conoscenza che circola ed è utile dentro ogni data impresa è quella pratica, concreta (indicata anche come
informazione per distinguerla dalla conoscenza formale, astratta) posseduta dal sapere informale degli
uomini che vi operano o che li hanno preceduti e che si matura nel contesto specifico di applicazione
(operazioni, problemi, soluzioni). Essa assume quindi connotazioni fortemente firm specific, che rendono
unica ciascuna impresa rispetto alle altre, in funzione delle diverse soluzioni produttive (tecniche),
organizzative (interne e nella rete di rapporti esterni), dimensionali.
Entro la varietà potenziale di prodotti e processi sviluppabili, ogni impresa selezionerà il suo percorso
modellando l’organizzazione su forti connotazioni firm specific. In questo percorso conta la qualità (unica)

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del contesto, le caratteristiche (uniche) delle persone, le contingenze (uniche) della sua storia e del suo
apprendimento.

Conoscenze che dipendono dal contesto quindi non replicabili in uno spazio diverso da quello in cui sono
nate se non attraverso un procedimento che richiede tempo e costi non indifferenti. La creazione di queste
conoscenze da parte dell’impresa  SUNK COST (costi che irrigidiscono l’impresa impedendole di cambiare
agilmente il percorso). Tali conoscenze non sono necessariamente replicabili nel tempo  l’impresa tende
sul piano interno a preferire la stabilità e le soluzioni conservative.

Nel suo percorso di sviluppo, l’impresa del fordismo cerca come soluzione al trade off tra vantaggi della
meccanizzazione e costi dell’organizzazione di utilizzare la crescita dimensionale:
 Crescita di tipo quantitativo (economie di scala-volumi) = generata dalla convenienza a sfruttare la
ripetitività dei grandi volumi in tutte le fasi della produzione con la massima standardizzazione
possibile di processi, componenti, prodotti e materiali e quindi con la conseguente riduzione del
costo per ogni unità prodotta ma anche della varietà e variabilità di prodotti e processi
(standardizzazione). Obiettivo = crescita orizzontale = crescita dei volumi.
 Crescita di tipo qualitativo (economie di regolazione sistemica) = originate dalla convenienza a
centralizzare l’elaborazione sia delle informazioni che delle decisioni necessarie a gestire il rapporto
tra tecnologia e organizzazione sotto un unico centro manageriale. Obiettivo = crescita delle attività
dell’impresa come estensione delle attività per espansione complementare.

1.3 Problemi aperti nel rapporto tra impresa e ambiente

Nel corso del suo sviluppo quindi l’impresa del fordismo diventa un’impresa divisionalizzata (specializzando
le divisioni per prodotto o per area).
In un primo momento l’impresa aveva il solo problema di andare sul mercato: MARKETING = GO TO MARKET.
Ma con la crescita di varietà e variabilità: MARKETING = TELL AND SELL
 Sul fronte interno. La complessità della struttura organizzativa firm specific riduce la flessibilità di
reazione dell’impresa a eventi non prevedibili
 Sul fronte esterno. La domanda non garantisce l’assorbimento dei volumi di prodotto e può generare
“guerra dei prezzi” e “dell’innovazione”.

Necessità delle imprese di rapportare ad una crescita dimensionale un ambiente stabile e prevedibile.
Soluzioni:
 Stabilito un patto con lo Stato attraverso il quale l’impresa si fa garante di occupazione, reddito e
qualità del lavoro e lo Stato garantisce investimenti pubblici e una politica estera funzionali allo
sviluppo del modello della produzione di massa.
 Governare i rapporti con i soggetti portatori di risorse (stakeholder) legandoli all’impresa in una
reciproca dipendenza.
 Maggior controllabilità del consumo attraverso il marketing al quale vengono affidati gli obiettivi di
forzare gli sbocchi sul mercato agendo sulla domanda.

Servizi necessari all’impresa per differenziarsi dal mercato e quindi per tentare di influenzare il
comportamento degli attori esterni come: marchi commerciali, rete di vendita, logistica, comunicazione,
servizio al cliente, credito al consumo, accordi con la concorrenza e gli stakeholder esterni. Gradualmente le
aziende iniziano ad investire sempre più nella promozione e regolazione della domanda per garantire la
coerenza con i programmi di produzione che devono essere varati anni prima rispetto alla vendita. Inoltre
cresce il ricorso a imprese di servizi esterne che consentono ai consumatori di utilizzare in modo efficace il
prodotto acquistato: es. per ogni automobile venduta, servono benzinai, meccanici, carrozzieri, assicuratori,
strade, garage, segnaletica, vigili urbani che regolano il traffico.

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Metamorfosi del sistema, contano sempre di più il settore del marketing, la finanza e le strategie di
diversificazione. Infatti intorno agli anni ’60-’70 = FORDISMO MATURO. Il management in un’impresa è
impegnato su fronti diversi da quelli precedenti, come il rapporto con il consumatore e le relazioni con la
concorrenza.

Fondamentale nel periodo del fordismo maturo = terziarizzazione = i servizi che accompagnano i prodotti
della manifattura pesano più della manifattura di fabbrica.

Durante il fordismo maturo quindi la fabbrica diventa sempre più potente e meccanizzata ma ad essa si
affianca un importante crescita del settore dei servizi complementari. Infatti a parità di domanda,
l’occupazione operaia in fabbrica si riduce mentre aumenta in modo esponenziale l’occupazione nei servizi.
La riduzione del numero delle persone impiegate in fabbrica e l’aumento di quello delle persone impiegate
nei servizi collegati rischia di ridurre la spinta produttivistica che le tecniche di Ford avevano impresso
all’economia  il fordismo potrebbe assumere la forma di un sistema malato nel quale non è più garantita
una buona crescita media della produttività e del reddito complessivo.

1.4 L’instabilità degli anni Settanta e Ottanta

Il declino della produzione di massa inizia negli anni Settanta, anni che segnano l’inizio di una marcata
instabilità in grado di mettere in crisi la capacità previsiva della pianificazione dell’impresa della produzione
di massa, esercitata attraverso il controllo sull’ambiente e sulle forze soggettive interne (stakeholder) ed
esterne (consumatori e concorrenti), la gestione dell’innovazione, il governo del mercato finanziario e quello
del lavoro.
Fattori scatenanti l’instabilità:
 congiunturali = fattori come la fluttuazione dei tassi di interesse che sono considerati come la
manifestazione dello sviluppo innescato dalla produzione di massa (gap domanda-offerta) e dal
ritardo con cui i prezzi riescono a regolare i mercati. Se la domanda eccede l’offerta, si genera
inflazione; se l’offerta eccede la domanda si genera disoccupazione e capacità produttiva inutilizzata.
 strutturali = fattori determinati dalla penetrazione e dalla diffusione di innovazioni nei componenti
(microelettronica), nelle macchine (automazione, informatica) e nei materiali. Queste innovazioni
di processo consentono di estendere la meccanizzazione alle operazioni di raccolta, elaborazione e
circolazione dell’informazione fino a qui delegate agli uomini a un costo unitario enormemente
superiore.

La rivoluzione tecnologica trasforma profondamente l’ambiente competitivo del ventennio precedente che
era stato caratterizzato, nella maggior parte dei settori, dalla leadership delle grandi imprese americane. I
confini degli oligopoli vengono rotti, infatti, dalla penetrazione orizzontale delle nuove tecnologie che si
sviluppano autonomamente dal controllo delle grandi corporation manageriali. Negli anni Settanta, mentre
le innovazioni di prodotto sono rallentate dalla crisi della domanda, la medesima limitazione non si produce
per le innovazioni nei componenti (microelettronica), nei materiali e nelle macchine (automazione e
informatica). La loro natura è quella di innovazioni di processo, potendo essere applicate nella stessa forma
su più settori. Con ciò l’innovazione di processo perde le connotazioni industry e/o firm specific che aveva,
quando, fortemente legata al nuovo prodotto, era controllata e regolata nelle forme e nei ritmi dalle imprese
leader di settore. Questa nuova qualità dell’innovazione si traduce in opportunità anche per imprese con
conoscenze ed esperienze limitate nel campo specifico, trasformandole in competitor in grado di rompere
gli equilibri settoriali raggiunti e rendere sterili gli strumenti di regolazione dell’interdipendenza oligopolistica
fino ad allora sperimentati.

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La competitività aumenta grazie anche ad un cambiamento dei consumi che fa emergere nuove necessità di
qualità e di differenziazione dei prodotti nel cliente. Il consumatore infatti ora vuole scegliere da una quantità
differente di prodotti. Passaggio da un’economia dei bisogni ad un’economia dei desideri.

Se l’ambiente esterno non è più regolato e regolabile, la risposta che ogni impresa può dare è quella della
flessibilità, accettando di ridurre le pretese di controllo e di programmazione e affidandosi alla propria
capacità di adattamento alle minacce e opportunità che provengono dall’ambiente. Nel frattempo,
emergeranno altri concorrenti che saranno i primi portatori della varietà e variabilità, dimostrando così di
saper rispondere alle esigenze dei consumatori anche in senso innovativo e con capacità di time to market
veloci.

La grande impresa risponde de-strutturando l’organizzazione e ridisegnandola per adattarla a un orizzonte


temporale più breve, a soluzioni meno rigide e quanto più reversibili. Decentramento produttivo e
deverticalizzazione sono le prime risposte.
Con il decentramento produttivo un numero crescente di lavorazioni sono affidate all’esterno, alimentano
un indotto nel quale fra impresa decentrante e decentrata si mantiene uno stretto legame tecnico e
organizzativo. La deverticalizzazione consente alla grande impresa di concentrarsi su segmenti e attività sulle
quali può vantare vantaggi specifici, esternalizzando attività non strategiche o per le quali non ha particolari
vocazioni. Affidandosi quindi per la fornitura a imprese con caratteri tecnici e organizzativi propri che non
dipendono totalmente per gli sbocchi e l’innovazione dall’impresa che gestisce la fase terminale del ciclo.

Grandi imprese giapponesi, organizzate in catena di fornitura, e piccole imprese, organizzate in distretti
industriali (in particolare in Italia), fino ad allora poco visibili rispetto agli attori egemoni, conquistano in breve
tempo una posizione competitiva di rilievo, l’attenzione dei manager e colgono impreparata la gran parte
degli economisti d’impresa, che fino ad allora le avevano relegate a un ruolo marginale e di arretratezza.
Le imprese giapponesi e distrettuali sono portavoce di un’altra modernità. Quella che si produce nella
diversità dei territori della periferia più lontani dai centri propulsivi dello sviluppo codificato e caratterizzati
da una geometria di relazioni costruite nella storia (unicità dei contesti) e condivise dagli attori.

Il Giappone del dopoguerra modernizza il suo apparato produttivo importando macchine, tecnologie e
soluzioni organizzative già in uso presso le grandi imprese americane. Tuttavia, la domanda interna risulta
limitata rispetto ai volumi di produzione necessari a sfruttare i vantaggi di scala della produzione di massa.
Avvengono trasformazioni del modo di produzione, particolarmente adatte (flessibili) a rispondere con
rapidità alla varietà delle esigenze manifestate dal consumo. Si passa dalla mass production alla lean
production. Il governo giapponese cercò di favorire la specializzazione sui diversi prodotti delle numerose
imprese presenti nel settore degli autoveicoli affinché potessero raggiungere più rapidamente i vantaggi di
scala. Alcune di essi, tra cui Toyota, decidono, invece, di intercettare interamente la varietà della domanda
offrendo modelli diversi fino a completare la gamma. I budget limitati a disposizione e i bassi volumi di
produzione per ogni varietà non rendono percorribili le scelte di specializzazione delle risorse e alto grado di
meccanizzazione adottate dai produttori occidentali, soprattutto statunitensi. Con tali condizionamenti,
Ohno, responsabile di produzione della Toyota, decide di sperimentare alcune soluzioni con l’intento di
rendere più flessibile il sistema produttivo e, al contempo, ridurne i costi.
Nella lean production ogni parte del sistema si lega alle altre grazie a interfacce flessibili e adattive il cui good
matching viene affidato all’intelligenza e alla responsabilizzazione degli attori coinvolti a ogni livello
dell’organizzazione (dagli operai ai manager) e che si estende a ricomprendere anche quelli che agiscono
fuori dal perimetro aziendale in senso stretto (fornitori, concessionari e clienti).

 Dalla specializzazione alla polivalenza delle macchine e degli uomini (induce a sperimentare
procedure per velocizzare le operazioni di riatrezzaggio delle macchine in modo da poter usare le
medesime linee per lavorare lotti diversi);
 Dal lavoro specializzato al lavoro in team (si organizzano squadre di lavoro nelle quali gli operai
possono assumere compiti non circoscritti a specifiche mansioni, ma fra loro intercambiabili);

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 Dal lavoratore passivo al lavoratore attivo;
 Dal fornitore passivo al fornitore attivo e integrato tecnicamente e operativamente;
 Produzione su spinta e previsione della domanda;
 Verso zero scorte (riduzione costi di magazzino);
 Riduzione costi e aumento qualità.

I distretti industriali rappresentano una forma di organizzazione della produzione alternativa alla grande
impresa. Questa forma di organizzazione ha raggiunto un elevato livello di presenza e di sviluppo in Italia,
costituendo un tratto caratteristico e qualificante dell’economia del paese.
Gli ingredienti fondamentali di un distretto industriale sono un territorio specifico, una determinata
specializzazione produttiva e una popolazione di imprese tra le quali sussiste una divisione del lavoro. Nel
distretto industriale la specializzazione produttiva che caratterizza l’area geografica a livello di prodotti finiti
include a sua volta uno spettro più o meno ampio di specializzazione di fase, interne alla filiera produttiva.
Ciò che caratterizza un distretto industriale sono le differenze (specializzazioni) e le relazioni (basate sulle
differenze) all’interno della popolazione locale di imprese, che assume quindi la forma organizzativa della
rete produttiva associata a un contesto locale.

1.5 Il nuovo rapporto tra produzione e consumo

Nel periodo che succede alla produzione di massa la complessità ambientale con cui le imprese devono
confrontarsi è aumentata in misura considerevole a causa di molteplici fattori. In particolare, mentre la
concorrenza è diventata più intensa e dinamica in tutti i settori, si è assistito a una crescente varietà e
variabilità dal lato della domanda finale, che si riflette a ritroso sulla domanda di beni intermedi. In definitiva,
l’impresa deve fare i conti con ambienti competitivi e mercati che non risultano più relativamente semplici
da decifrare e sostanzialmente stabili come nell’epoca d’oro della produzione di massa.

Inoltre, con lo sviluppo delle tecnologie di produzione e di progettazione dei prodotti (automazione flessibile)
viene offerto alle imprese possibilità inedite per rispondere all’incremento della varietà della domanda e al
cambiamento del consumatore. Un sistema di produzione basato sull’automazione è composto da macchine
in grado di realizzare un ampio spettro di operazioni specifiche, passando da una all’altra in tempi molto brevi
e a costi contenuti. In questo modo diventa possibile ottenere una grande varietà di prodotti in piccoli lotti
a basso costo. Si tratta della personalizzazione di massa o mass customization. Trionfa in questo periodo il
Marketing Strategico/Paradigma del Marketing management – Customer-driven company.

N.B. la mass customization può essere realizzata anche grazie ad altre modalità:
1. Progettazione modulare: per modularità si identifica un design specifico, intendendo per design il
progetto della struttura (architettura) e delle funzioni del prodotto. Un prodotto modulare è formato da
diverse componenti relativamente indipendenti (moduli) collegati tra loro attraverso interfacce standard. Vi
è mass customization ossia la personalizzazione a basso costo (es. computer o Ikea) poiché il prodotto
diventa un contenitore di più soluzioni, è permesso conseguire economie di scala nella progettazione dei
prodotti standard ed infine possibile dilatare l’offerta intercettando o desideri dei consumatori.
2. Flessibilità incorporata nei prodotti: i prodotti possono incorporare al loro interno un potenziale di varietà
relativamente a uno o più attributi funzionali. Si offre una varietà di soluzioni e quindi permette una
personalizzazione attraverso l’uso. Il prodotto intelligente adattabile dal consumatore
3. Personalizzazione attraverso i servizi (es. Amazon). Varietà di soluzioni personalizzate e realizzate
attraverso l’attiva partecipazione del cliente. Lo sviluppo delle ICT ha portato nuova linfa.

Il relationship marketing viene considerato il nuovo paradigma di marketing e il necessario completamento


della mass customization, orientato alla costruzione di relazioni durature con i clienti  la leva fondamentale

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per massimizzare il valore del cliente è l’interazione (dalla massa ai singoli individui in un rapporto one-to-
one).
Il marketing relazionale è orientato alla costruzione di relazioni durature con i clienti. L’impresa deve pertanto
adottare tecnologie, definire processi e strutture organizzative, sviluppare servizi che nel loro insieme
consentono di attivare e mantenere relazioni interattive con i clienti (customer relationship management,
CRM).
Importante per questo nuovo tipo di marketing è il monitoraggio del cliente a livello individuale: la
soddisfazione riguardo un prodotto crea la base sia per un processo di fidelizzazione del cliente che per un
processo di learning relatioship da parte del consumatore e dell’impresa stessa.
Da una logica unidirezionale a una logica bidirezionale, interattiva e collaborativa.

Tendenze della relationship marketing.


 La trasformazione dei contesti fisici di acquisto in contesti di esperienza  marketing di tipo
esperienziale nel contesto di acquisto attraverso la costituzione di flagship store o reti di franchising
(es. Nike). Attraverso l’esperienza si attrae il consumatore grazie ad elementi difficili da imitare e su
cui l’azienda vuole costruire la propria unicità. Importanti sono in questo contesto le comunità
virtuali di consumatori (spazi virtuali dove vengono incanalate informazioni, che i membri della
comunità condividono, che consentono di sviluppare il dialogo tra consumatore e inoltre consentono
la sperimentazione e la produzione da parte dell’azienda di una nuova conoscenza del consumatore).
 Gli spazi organizzati nell’ambito di eventi culturali.
 Gli stand all’interno di manifestazioni fieristiche.
 I siti web aziendali o collettivi.

In contesti di questo tipo sono le esperienze a fornire i valori ricercati dal consumatore: valori di tipo
sensoriale, emozionale, cognitivo e relazionale.

Questa nuova visione del marketing collegata alla fiorente crescita di innovazioni nel campo delle tecnologie
ICT (tecnologie dell'informazione e della comunicazione) da origine ad una rivoluzione nel campo dei servizi
e dell’industria manifatturiera.
Nel settore servizi si assiste ad una vera e propria rivoluzione perché quello che era considerato in precedenza
non riproducibile e non trasferibile (il tipico servizio) comincia ad essere riproducibile e trasferibile a costo
zero in tutti i casi in cui il servizio può essere tradotto in conoscenza codificata. Infatti grazie alla
digitalizzazione le informazioni sono diventate riproducibili e trasferibili, in tempo reale e a costo zero 
crescita della categoria dei servizi non più come qualcosa a supporto della grande industria ma come qualcosa
di autonomo e trainante rispetto alla grande industria.
Nella manifattura la globalizzazione e le ICT hanno invece consentito di ampliare la divisione del lavoro tra
imprese in filiere sempre più estese (che ormai diventano globali) coinvolgendo soprattutto paesi low cost
(es. BRICS Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), data una certa attività un territorio viene preferito ad altri
se è in grado di esprimere un valore differenziale rispetto agli altri  competizione trai vari sistemi locali.
Nell’era della globalizzazione infatti l’internazionalizzazione delle imprese rappresenta un modo normale di
essere.

N.B. Non tutta la manifattura e non tutti i servizi sono oggetto di questo tipo di transizione verso il nuovo,
ma una quota crescente di produzioni comincia a sfruttare le potenzialità delle ICT e dell’immateriale, dando
luogo a tre nuovi modi di lavorare e di generare valore:
1. Neo-servizi: servizi che, pur mantenendo un rapporto personalizzato e on demand con i potenziali clienti,
cercano di codificare la prestazione in modo da poterla “industrializzare”, riducendo i costi e aumentando il
bacino di uso a scala mondiale affiancandosi a un terziario tradizionale (es.call center telefonici o in rete: si
usa l’interazione a distanza per rapportarsi a una domanda più ampia e differenziata).
2. Neo-industria: una forma di manifattura che cerca di aumentare il valore immateriale del prodotto fornito
al cliente, arricchendolo di significati (es. marchi e esperienze) e accrescendo il livello di servizio e di

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personalizzazione offerto. I processi della produzione materiale vengono modularizzati in modo da
mantenere la produzione di massa dei componenti e, al tempo stesso, rendere flessibili le soluzioni di
prodotto/servizio fornite al cliente.
3. Servizi connettivi di rete: servizi che sostengono lo sviluppo dei neo-servizi e della neo-industria fornendo
sistemi di comunicazione efficaci, una logistica veloce, un quadro di garanzie e di norme di comportamento
affidabili.
L’enfasi sulle relazioni segnala il passaggio dalla massa ai singoli individui come riferimento del marketing.
Il sistema produttivo si sta così configurando come una rete di interazione continua dove ciascuno pone le
sue conoscenze e capacità al servizio dei potenziali fruitori che possono trarne vantaggio (Service-Dominant
Logic). Logica in cui lo la concezione di impresa al servizio del cliente investe sia le imprese manifatturiere
che quelle di servizio, nella misura in cui vogliono sfruttare le nuove possibilità offerte dalla rete e
dall’economia digitale. Questo nuovo paradigma produttivo ha comportato una crescita relazionale
(incremento delle relazioni che fanno capo a una determinata impresa) e non più solo dimensionale delle
imprese, e quindi una collegata crescita della rete del valore dell’impresa.

1.6 L’impresa nella rete del valore

Nel nuovo paradigma produttivo che emerge dopo il Duemila, le fonti del vantaggio competitivo delle
imprese sono localizzate sia al loro interno che al loro esterno.
Concetto che incorpora la struttura interna di un’impresa è la rete del valore. Lo schema della catena del
valore propone innanzitutto una rappresentazione della struttura interna di un’impresa (catena interna del
valore). Lo schema può però allargarsi a comprendere una più ampia sequenza esterna, la quale descrive il
flusso di generazione del valore che collega le catene dei fornitori, dell’impresa su cui è centrata l’analisi
(impresa focale), dei suoi canali distributivi e degli acquirenti-utilizzatori.

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Capitolo 2 La varietà dei contesti nazionali e settoriali
2.1 I fattori che creano la varietà delle imprese

L’impostazione microeconomica neoclassica si fonda sulla formulazione teorica che esista un unico modello
efficiente ed efficace di impresa all’interno di uno specifico contesto competitivo. La diversità, dimensionale,
nonché organizzativa, di governance e strategica non è ammessa, anzi qualora vi sia, essa costituisce
un’eccezione destinata a essere espulsa per l’operare dei meccanismi concorrenziali presenti nel mercato.
In realtà, la diversità delle imprese, all’interno di un contesto competitivo è un fattore ineliminabile e
strutturale. Proprio questa diversità contribuisce a determinare una dinamica del contesto competitivo, fatta
di innovazioni e di conseguenti “distruzioni creatrici” (Shumpeter), capaci di creare nuovi mercati e nuovi
fonti di ricchezza e di sviluppo economico.
Empiricamente è facile riconoscere, in qualsiasi momento storico e all’interno di qualsiasi settore, una
profonda varietà delle imprese.
La diversità evidenziata nelle strategie riflette, in realtà, una varietà strutturale riconducibile all’operare di
almeno tre fattori:
1) Context specific: fanno riferimento al fatto che i sentieri di sviluppo e le performance delle imprese
sono fortemente condizionati dalla fitta rete di rapporti con variabili specifiche del più ampio
contesto in cui operano, dal semplice contesto territoriale di riferimento (distretto industriale) sino
a quello più generale definito in termini di sistema-paese oppure l’ecosistema degli stakeholder.
A livello di sistema-paese, le imprese operano quindi all’interno di specifici sistemi politici-
istituzionali e normativi, nonché nell’ambito, tra l’altro, di dati sistemi finanziari e tecnologici,
generando pertanto connotati specifici di nazionalità che si riflettono sulla loro competitività.
Attraverso l’interazione con il retroterra storico, culturale, istituzionale, politico, economico e
finanziario in cui sono radicate, le imprese esprimono specificità nazionali non facilmente trasferibili,
proprio perché attivate e generate da un preciso contesto di appartenenza. Di conseguenza, in
corrispondenza di un definito sistema-paese, si possono individuare molteplicità di modelli di
impresa, relativamente plasmati dalle specificità dei contesti di riferimento, che ne definiscono le
connotazioni competitive. Per concludere la diversità dipende dal contesto nazionale.
2) Industry specific: in questo caso la diversità dipende dal settore di appartenenza dell’impresa, e
quindi si fa riferimento ad altre dimensioni concettuali tali da influenzare una varietà delle imprese
(es. low tech o high tech). I settori, inoltre, si caratterizzano per differenti livelli di concentrazione,
tali da determinare una diversa intensità della concorrenza tra le imprese ivi presenti. Le imprese
possono distinguersi per quanto riguarda la natura dell’offering, del mercato di riferimento e anche
per la natura del processo produttivo.
3) Firm specific: questo fattore fa riferimento a diverse dimensioni endogene alle imprese, come la
struttura proprietaria dell’impresa, il livello di managerialità e imprenditorialità nello stile di gestione,
la struttura organizzativa, la storia, i valori, le professionalità, sono i principali elementi che
contraddistinguono un’impresa rispetto a un’altra, influenzandone anche le modalità di azione e i
percorsi di sviluppo; pur operando nello stesso settore, le imprese sono endogenamente differenti
sulla base della loro dimensione e dei loro modelli di governance.
Ma la dimensione firm specific può derivare anche da un’altra fonte di diversità, ossia la differente
dotazione di risorse materiali e immateriali, in possesso di ciascuna impresa, e una diversità di
competenze distintive tra le imprese stesse.

Riassumendo:
• Context specific = la diversità delle imprese dipende dal contesto di provenienza delle stesse (capitalismi
nazionali).
• Industry specific = la diversità delle imprese dipende dal loro settore di appartenenza (tipologie di settore).
• Firm specific = la diversità in questo caso deriva da fattori distintivi dell’impresa stessa (varietà dimensionali
e di governance) (varietà di risorse e competenze).

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2.2 Il contesto di riferimento dell’impresa

L’impresa non è un soggetto che vive in isolamento, ma è strutturalmente collocata in un “ecosistema”


composto da numerosi attori con i quali si attivano differenti relazioni e che interagiscono tra di loro. Una
parte di questi attori costituisce quell’insieme di soggetti portatori di interessi, definiti “stakeholder”, che,
proprio per questo, influenzano le decisioni dell’impresa (clienti, dipendenti, fornitori, finanziatori, gruppi di
interesse esterni…).

Le connessioni con questi soggetti possono avere diverse caratteristiche, dal punto di vista dell’impresa, quali
le seguenti:
 Relazioni formali oppure informali, normalmente molti rapporti sono fondati su contratti scritti
mentre altri si fondano su interazioni di tipo fiduciario;
 Relazioni unilaterali oppure bilaterali, alcune prescrizioni normative previste dalle istituzioni
pubbliche hanno un carattere unilaterale mentre, in altri casi, la connessione dell’impresa con un
cliente per concordare la realizzazione di un prodotto specifico è di tipo bilaterale;
 Relazioni con conseguenze intense oppure deboli, gli esiti di determinati rapporti possono essere
particolarmente rilevanti per l’impresa (fallimento di un cliente) mentre altri possono risultare di
modesta entità o nulli;
 Relazioni cooperative oppure competitive, tra i vari soggetti possono attivarsi dinamiche relazionali
finalizzate a cooperare oppure a competere per conseguire porzioni maggiori di una risorsa scarsa;
 Relazioni da cui derivano vincoli oppure opportunità, eventuali provvedimenti governativi nazionali
possono delineare nuovi vincoli oppure nuove opportunità;

Questo insieme di relazioni contribuisce, a configurare e modellare la competitività dell’impresa, e il


paradigma teorico che tende a spiegare la competitività di un’impresa in funzione dell’ecosistema in cui è
collocata viene detto “strutturalismo”. Le caratteristiche differenziali del comportamento delle imprese
dipendono perciò dal fatto che esse si trovano storicamente modellate dal sistema sociale e istituzionale in
cui sono localizzate e radicate.
Conseguentemente, con lo strutturalismo, la diversità delle imprese in termini di strategia e di performance
viene spiegata unicamente dalle differenze riscontrabili nell’ecosistema in cui sono collocate:
 Ecosistema nazionale
 Ecosistema settoriale

2.3 La diversità dei capitalismi nazionali

L’ecosistema nazionale fa riferimento ai sistemi capitalistici nazionali in cui l’impresa è collocata, ogni
sistema capitalistico plasma e modella, con le proprie regole, la natura e la dinamica delle imprese ivi
radicate. Un sistema si caratterizza per le interazioni istituzionali tra soggetti finanziari, sindacali,
imprenditoriali e della policy pubblica.

Capitalismo anglosassone
 Il ruolo della borsa valori è molto importante, il mercato finanziario costituisce un perno
fondamentale, e in particolare la borsa valori, assolve tre principali funzioni:
I. Finanziamento, con capitale di rischio, delle imprese;
II. Monitoraggio sul loro comportamento e sulle loro prestazioni;
III. Trasferimento della proprietà d’impresa;
La borsa valori favorisce lo start-up e la crescita di nuove imprese ad alto tasso di innovazione che, in
questo modo, quotandosi presso la borsa valori, possono accedere a nuove fonti di finanziamento;

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Ci sono numerose istituzioni private e pubbliche che contribuiscono a canalizzare i capitali finanziari
a favore delle imprese quotate nelle borse valori, nonché ad assicurare un loro funzionamento
corretto e trasparente.
 La flessibilità del mercato del lavoro è molto elevata, le imprese e le istituzioni sono libere di
assumere e licenziare i propri dipendenti senza oneri e in tempi rapidi in tutti i settori dell’attività
economica. Questo per il lavoratore non rappresenta un fatto socialmente traumatico, anche perché
la flessibilità nel mercato del lavoro è talmente alta che vi si entra e vi si esce con relativa facilità. Nel
momento in cui viene data la possibilità di licenziare con maggiore facilità, un’impresa che ha
un’elevata incertezza sul suo futuro può avere minori barriere ad assumere dei dipendenti, in quanto
sa che essi non rappresentano un vincolo particolarmente incisivo e non modificabile.
 Il ruolo della concorrenza tra le imprese; il capitalismo anglosassone è stato il primo a promuovere
specifiche regole giuridiche per favorire e promuovere la concorrenza, limitando gli effetti negativi
della collusione tra imprese. La prima legge antitrust, che serve a monitorare la concorrenza tra
imprese, fu varata negli USA alla fine dell’Ottocento. Inoltre nei paesi anglosassoni esiste il
consumerismo, cioè il potere dei consumatori, ed è composto anche da organizzazioni a tutela dei
consumatori che possono intraprendere cause giudiziarie molto incisive, rafforzate da un
ordinamento giuridico che le tutela, nei riguardi di imprese che si ritiene abbiano violato normative
ambientali o di altra natura.
 Il ruolo della R&S militare, questa viene finanziata dal governo federale nel campo dell’industria per
la difesa, con ricadute possibili nell’ambito civile.

Capitalismo tedesco
 Importanza di alcuni settori manifatturieri, si tratta dei settori cosiddetti “scale intensive”, all’interno
di cui operano imprese di grandi dimensioni, capaci di essere presenti su numerosi mercati
internazionali.
 Centralità della ricerca scientifica applicata a favore di queste industrie manifatturiere, in particolare
si tratta di perseguire strategie di innovazione miranti a valorizzare le proprie competenze industriali
nell’ambito di talune nuove sfide.
 Rilevanza, negli organi decisionali delle grandi imprese, delle rappresentanze dei lavoratori. In questo
caso con la partecipazione dei lavoratori alle decisioni aziendali, si diminuisce il tasso di conflittualità
con il datore di lavoro e si contribuisce a innalzare i livelli di produttività aziendale.
 La presenza di banche “miste” (finanziatori e azionisti), si tratta di istituti capaci non solo di erogare
credito a favore delle imprese, ma anche di essere loro azionisti. Di conseguenza si instaurano
relazioni proprietarie di lungo periodo tra banca e impresa manifatturiera.

Capitalismo francese
Il capitalismo francese ha alcune proprie specificità soprattutto in relazione al ruolo “dirigista” che lo Stato
tende ad assumere nell’economia.

 Il ruolo dello Stato nel perseguimento di progetti nazionali di sviluppo industriale, esso ha promosso
importanti iniziative, tramite rilevanti investimenti pluriennali, finalizzate a favorire la creazione di
rilevanti competenze in nuovi campi manifatturiere. Attorno a questi progetti lo Stato ha instaurato
reti di grandi e medie imprese francesi.
 Il ruolo dello Stato nell’economia tramite la proprietà, parziale o totale, di molte imprese in alcuni
settori considerati strategici, tipo le utilities, i trasporti e le comunicazioni.
 Il ruolo dello Stato nel proteggere gli assetti proprietari nazionali, nel 2008 è stato costituito un fondo
che ha lo scopo di finanziare con interventi sul capitale di rischio imprese francesi, evitandone tra
l’altro l’acquisto da parte di soggetti imprenditoriali esteri. Lo Stato, inoltre, ha promosso importanti
nuclei proprietari incrociati tra banche, assicurazioni e imprese industriali francesi, per rendere
difficile lo svolgimento di scalate straniere a specifiche aziende.

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Capitalismo italiano
 Specializzazione manifatturiera nei settori tradizionali quali l’alimentare, l’abbigliamento,
l’arredamento, l’automobilismo, il tessile, l’orafo e le ceramiche.
 Una dimensione medio-piccola delle imprese, circa il 95% delle imprese complessive, infatti, impiega
meno di dieci addetti, contrariamente a molti altri capitalismi nazionali dove prevalgono dimensioni
decisamente superiori.
 Un soggetto proprietario delle imprese molto concentrato e, in genere, riconducibile a un nucleo
familiare. Ciò significa che esiste un modello prevalente di governance nel quale la proprietà è
estremamente concentrata in un solo soggetto che esercita, in modo diretto, il governo e la gestione
dell’impresa. Infine nel nostro capitalismo, anche per l’esistenza di una specifica regolamentazione
dell’attività bancaria, gli istituti di credito non hanno partecipazioni azionarie rilevanti e diffuse nelle
imprese manifatturiere.
 Un’agglomerazione di piccole e medie imprese industriali nei distretti industriali, e questa è una
peculiarità del sistema manifatturiero italiano. Queste configurazioni interorganizzative sono basate
sull’agglomerazione di numerose piccole e medie imprese ciascuna specializzata in una fase di
lavorazione ma tutte insieme compenetrate tra di loro e appartenenti a una medesima filiera
produttiva.
 Un basso livello di R&S, perseguito dalle imprese manifatturiere, al fine di favorire innovazioni
tecnologiche e di prodotto.

2.4 La diversità dei settori economici

L’ecosistema settoriale costituisce un secondo importante profilo della varietà strutturale delle imprese. A
seconda del settore cambiano molte caratteristiche del contesto competitivo tali da influenzare la condotta
strategica dell’impresa (regolamentazione, tecnologie, fabbisogni finanziari, internazionalizzazione ecc.).
I settori economici sono una suddivisione formale del sistema economico complessivo sulla base delle
caratteristiche delle attività svolte. Il termine economico “settore” viene utilizzato con diverse accezioni:
– per indicare un particolare mercato o prodotto (p.e. settore energia, settore trasporti, settore auto
ecc.)
– una particolare proprietà della produzione (p.e. settore pubblico e settore privato)
– delle grandi macrocategorie produttive (settore primario, secondario e terziario)

Secondo una tradizionale classificazione i settori produttivi sono quattro:


- settore primario, nel quale sono comprese le attività di sfruttamento delle risorse naturali come le
attività agricole, zootecniche, ittiche ed estrattive.
- settore secondario, nel quale rientrano le attività di trasformazione delle materie prime in prodotti
finiti destinati al consumo o a essere impiegati come materie prime per la realizzazione di altri
prodotti. Rientrano in questo settore le attività industriali (meccaniche, chimiche, tessili, alimentari,
etc.), quelle di produzione delle energie (p.e. elettricità o gas) e quelle delle costruzioni edilizie.
- settore terziario, cioè il settore dei servizi che comprende tutte le attività di distribuzione
commerciale dei prodotti dal produttore al consumatore, quelle alberghiere, quelle bancarie e
assicurative, quelle dello spettacolo, quelle di trasporto.
- settore quaternario (o avanzato), nel quale sono compresi i servizi come le consulenze scientifiche e
di marketing, le attività del settore informatico e della telematica e le attività di Ricerca e Sviluppo.

Poi Pavitt ha proposto una seconda tassonomia dei settori industriali sulla base delle loro caratteristiche
innovative, identificando quattro diverse categorie:
 Settori supplier-dominated (tessile); in cui la fonte dell’innovazione è prevalentemente esterna
all’impresa e dipende in buona misura dalle innovazioni generate dai fornitori.

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 Settori scale intensive (auto); si tratta di imprese caratterizzate da grandi dimensioni che
normalmente producono materie prime o prodotti di consumo durevoli, e la fonte di innovazione in
questi casi è sia esterna che interna all’impresa.
 Settori specialised suppliers (macchinari); imprese specializzate di piccola dimensione che producono
tecnologia da vendere presso altre imprese, si tratta essenzialmente di innovazioni di prodotto
generate da relazioni strategiche con taluni clienti.
 Settori science-based (informatica); si tratta di imprese high tech con un elevato livello di
investimenti in R&S, e in questi casi la fonte dell’innovazione è sia interna all’impresa sia indotta da
relazioni strutturate con laboratori di ricerca esterni.

Un’altra tassonomia settoriale rilevante, è stata proposta dall’OECD (Organisation for Economic Co-operation
and Development), essa si basa sulla diversa intensità della R&S presente nei diversi settori manifatturieri. In
base a questa tassonomia, i paesi presentano differenti specializzazioni manifatturiere.
 Settori ad alta tecnologia (high tech): aerospazio, farmaceutico…
 Settori a medio-alta tecnologia (medium high tech): motoveicoli, chimica…
 Settori a medio-bassa tecnologia (medium low tech): plastica, prodotti metallici, petroliferi…
 Settori a bassa tecnologia (low tech): tessile, calzature, pelletteria…

La green economy
La green economy non costituisce un nuovo settore economico ma esprime un diverso orientamento nella
produzione di moltissimi prodotti e servizi. La sua finalità, infatti, è data dall’obiettivo di ridurre l’impatto
ambientale.
Non ha valenze solo per il settore della produzione di energia, ma investe moltissimi settori manifatturieri.
La green economy non è un nuovo settore ma un paradigma di sviluppo e di trasformazione dell’intera
economica e dei settori che la compongono  Green Marketing.

13
Capitolo 3 La varietà dimensionale e di governance delle imprese
3.1 Definizioni dimensionali d’impresa

Esistono una serie di fattori firm specific, industry specific e context specific che determinano una varietà di
modelli, delle caratteristiche e dei percorsi di sviluppo delle imprese. La varietà dei modelli di business di
combina con la varietà dimensionale che da sempre è stata distintiva delle imprese, imponendo anche diversi
approcci e modelli di studio.
1. La grande impresa
2. La piccola impresa
3. La micro impresa e l’impresa artigiana
4. La media impresa
5. Le imprese distrettuali ed i sistemi produttivi locali

Un modo per identificare e classificare le imprese può essere quello di ricorrere a parametri di tipo
quantitativo, finalizzati a inquadrarne e delimitarne le dimensioni. I fattori maggiormente utilizzati in questo
senso sono le classi di fatturato, il numero di addetti, il valore della produzione, il valore aggiunto, la capacità
produttiva, il capitale investito. L’impiego di un criterio di tipo quantitativo come quello dimensionale
presenta dei vantaggi, innanzitutto, consente una distinzione oggettiva fra diverse imprese, senza richiedere
un’elevata conoscenza delle stesse. Dal punto di vista operativo, è di immediata applicazione e permette di
effettuare comparazioni. Questi parametri presentano anche dei svantaggi in quanto perdono di
significatività di fronte a fenomeni evolutivi, quindi il valore dei parametri dimensionali è suscettibile di
variare notevolmente a seconda delle mutevoli condizioni della domanda e dei settori produttivi in cui le
imprese operano.

Classificazione ISTAT e EUROSTAT:


- 1-9 addetti micro impresa
- 10-99 addetti piccola impresa
- 100-499 addetti media impresa
- Oltre i 500 addetti grande impresa

Classificazione Unione Europea:


- Micro impresa; con meno di 10 dipendenti e un fatturato fino a 2 milioni di euro
- Piccola impresa; 10-49 dipendenti e un fatturato tra 2-10 milioni di euro
- Media impresa; tra 50 e 249 dipendenti e un fatturato di 10-50 milioni di euro
- Grande impresa; con almeno 250 dipendenti e oltre 50 milioni di euro di fatturato

Gestione imprenditoriale:
- L’imprenditore è il proprietario e si assume il rischio
- Controllo e gestione totale
- Profitto
- Lungo periodo (vision)
- Flessibile
- Creativo

Gestione manageriale:
- C’è più struttura, c’è più metodo
- Processi pensati con le loro regole
- Metodo in regole

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Nella definizione di piccola, media e grande impresa assumono quindi rilievo connotati di carattere
qualitativo. Così la piccola impresa è sempre stata caratterizzata per la dimensione imprenditoriale della
governance, la flessibilità strategico-organizzativa, la rapidità di risposta ai cambiamenti di mercato. A sua
volta, la grande impresa è stata studiata e profilata ponendo attenzione alla gestione di tipo manageriale,
all’articolata e formalizzata struttura organizzativa, alla relativa capacità di influenza del mercato e a
strutturate procedure decisionali con tempi relativamente lunghi di reattività ai cambiamenti di mercato. La
media impresa, invece, viene generalmente trattata come un ibrido in transizione tra la piccola e la grande
dimensione.
I parametri quantitativi hanno aspetti negativi e positivi, mentre i parametri qualitativi permettono di
distinguere le imprese tenendo conto di caratteristiche tipiche, di problematiche specifiche e del particolare
ambito competitivo di riferimento: colgono meglio la pluralità e la molteplicità degli aspetti propri della
struttura e dei processi aziendali.
Questi parametri qualitativi presentano però anche degli svantaggi, il criterio richiede una conoscenza molto
approfondita delle singole aziende, produce risultati difficilmente utilizzabili a fini comparativi.

È frequente quindi l’adozione di criteri ibridi che coniugano parametri dimensionali di tipo quantitativo e
variabili di tipo qualitativo.

3.2 La grande impresa

Il modello organizzativo della grande impresa verticalmente integrata è stato considerato come il paradigma
di successo per eccellenza nell’ambito del nuovo capitalismo industriale.

1. La dimensione elevata
Secondo l’Unione Europea, si considerano grandi imprese quelle con almeno 250 addetti e un
fatturato di almeno 50 milioni, l’ISTAT invece considera grandi imprese quelle che contano almeno
500 addetti. Sul piano dimensionale conta ancora di più l’elevata quota di mercato generalmente
detenuta dalle imprese nel settore di appartenenza. Si tratta di un parametro meno preciso di quello
degli addetti, data la difficoltà a delimitare l’area di mercato di riferimento, ed è il rapporto tra il
fatturato dell’azienda e il fatturato di tutte le altre imprese operanti nella stessa area di mercato.
La quota di mercato può essere espressa in volumi oppure in valore.

2. L’apporto dei manager nelle attività di governo


Nelle grandi imprese, il controllo è generalmente nelle mani della direzione, cioè del consiglio di
amministrazione integrato con i principali dirigenti. I manager sono le persone che hanno un
rapporto di lavoro dipendete dall’impresa. Naturalmente l’apporto di manager dipende dalla
tipologia di grande impresa, ovvero dal rapporto tra proprietà e direttori. Possiamo al riguardo
distinguere tre tipologie:
1) Imprese governate da proprietari e manager (imprese familiari)
2) Imprese con proprietà assenteiste (public company)
3) Imprese con proprietà organizzata e gestita da manager

Vengono definite familiari le imprese nelle quali il capitale sociale e le decisioni fondamentali di
gestione sono controllati da una o poche famiglie collegate tra di loro da vincoli di parentela o da
solide alleanze. In essa la proprietà è organizzata e imprenditiva e svolge un ruolo determinante nel
governo, la proprietà quindi viene detta anche “presenzialista”, svolgendo un ruolo imprenditoriale
centrale, e in questi casi viene a crearsi un dualismo tra proprietà e management. A livello di grandi
imprese costituiscono il cosiddetto capitalismo familiare.
Le public company sono strutture societarie caratterizzate dal fatto che la proprietà azionaria è
frammentata in un numero elevato di azionisti, si parla di proprietà assenteista e di imprese
totalmente gestite da manager. In queste imprese si ha la massima separazione tra proprietà e

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direzione. Mancano veri e propri azionisti di maggioranza o comunque in grado di condizionare l’esito
delle decisioni dell’assemblea degli azionisti nella nomina degli amministratori, conseguentemente,
i manager decidono l’indirizzo aziendale.
Le imprese con proprietà organizzata e guidate da manager sono imprese in cui si ha una
frammentazione del capitale azionario, ma quote rilevanti di queste sono gestite da istituzioni
finanziarie dotate di capacità di gestione della partecipazione, quindi sono in grado di condizionare il
comportamento dei manager.

3. La capacità di organizzazione autonoma di taluni fattori della produzione


Le grandi imprese si differenziano dalle imprese minori anche sul piano dei fattori di produzione. Esse
rivelano un’elevata capacità autonoma di organizzazione dei fattori produttivi, appunto in virtù della
loro dimensione operativa. Tale abilità è leggibile nell’attività di R&S, nella formazione, nella
disponibilità e nell’acquisizione di risorse finanziarie.

4. Il potere di condizionamento nei confronti di soggetti esterni


Le grandi imprese sono ben note per il loro potere di condizionamento esterno, ovvero di
orientamento dell’azione di soggetti esterni. Tale potere si estrinseca prima di tutto nei confronti
degli utilizzatori del prodotto. Il condizionamento deriva dal fatto che la grande impresa ha la
capacità di acquisire ed elaborare informazioni sul comportamento del consumatore. Le grandi
imprese possono esprimere un forte potere di mercato anche nei confronti di fornitori di materiale
e capitale a seguito del loro elevato volume di attività, e infine possono condizionare anche la
pubblica amministrazione attraverso la gestione dell’offerta occupazionale.

5. La frequente strutturazione a gruppo


La grande impresa nel passato aveva una struttura organizzativa gerarchicamente molto accentrata,
ora invece con questa struttura a gruppo le imprese sono collegate tra di loro attraverso una rete e
che sono appartenenti alla stessa proprietà, in questo caso ci sono a capo delle unità manager
responsabili della relativa gestione, e si viene ad accrescere la creatività, l’innovazione, la flessibilità
strategica….

Vantaggi della grande impresa


Il successo della formula organizzativa della grande impresa è stato spiegato dalla presenza di alcuni fattori
critici, quali:
 La possibilità di conseguire economie di scala (più produco più ho convenienza nel produrre) a livello
di impianto e d’impresa, che ha reso conveniente realizzare una spiccata divisione del lavoro.
 La gestione integrata di più attività, come la R&S, i sistemi informativi, l’amministrazione ottenendo
rilevanti vantaggi di costo.  innovazione
 La convenienza ad aumentare il grado di specializzazione, investendo in risorse umane assegnate a
specifiche funzioni.
 La riduzione dei rischi e dell’incertezza legati alle transizioni di mercato, sostituite con il ricorso a un
mercato interno realizzato con l’internalizzazione.
 La possibilità di influenzare il funzionamento del mercato, nell’ipotesi della detenzione di un’elevata
quota di esso, e di realizzare le premesse assunte alla base dei processi di pianificazione.

Limiti della grande impresa


Fino alla fine degli anni ‘60, il successo della grande impresa, decretato dai fattori sopraelencati, ha gettato
luce negativa sulle imprese di minori dimensioni. Infatti queste erano interpretate o come fenomeni
transitori all’interno di un processo di crescita o come forme deboli, prive di ruolo autonomo e totalmente
dipendenti da imprese committenti di dimensione maggiore.
Negli anni ‘70, tuttavia, le potenzialità del modello organizzativo integrato, centralizzato e gerarchizzato
hanno cominciato a essere lette in chiave più critica; le rigidità strategiche e organizzative (=poche

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flessibilità), le difficoltà di coordinamento (=la rapidità di risposta) e la crisi di autosufficienza di fronte alla
crescente complessità ambientale, hanno fatto sì che la portata del successo della grande impresa venisse
ridimensionata e interpretata più realisticamente. Successivamente, è maturata la consapevolezza che i
vantaggi del modello della grande impresa, derivanti da una forte integrazione, venivano in pratica annullati
dai maggiori costi che questa stessa generava nel mutato contesto ambientale. Si è così pervenuti a
conoscere che la grande impresa nella sua tradizionale configurazione non potesse essere più considerata il
modello di riferimento cui dovessero tendere tutte le organizzazioni economiche.

3.3 La piccola impresa

Secondo l’Unione Europea sono imprese di piccole dimensioni quelle con un numero di dipendenti tra e 10
e 49 (99 sulla slide) e un fatturato che oscilla tra i 2 e i 10 milioni.

Parametri qualitativi
1. L’assetto istituzionale di matrice imprenditoriale
Molte delle piccole e medie imprese italiane sono nate per intuizione dell’imprenditore-fondatore
che spesso, assieme ad altri membri della famiglia, conferisce e controlla il capitale di rischio e
partecipa direttamente alla gestione aziendale in posizione di vertice, compiendo le scelte gestionali
strategiche e, in parte, anche quelle operative: quindi c’è una sostanziale coincidenza fra controllo
proprietario e gestione dell’impresa. L’eventuale azionariato è piuttosto ristretto e stabile nel tempo,
e ciò da un lato impedisce l’ingerenza di attori con interessi istituzionali divergenti da quelli esistenti,
e dall’altro agevola la realizzazione di strategie di lungo periodo.

2. L’accentramento dei processi decisionali


Nelle piccole imprese i processi decisionali sono molto accentrati, in genere nelle mani
dell’imprenditore fondatore che, anche qualora esista una separazione fra i conferenti del capitale e
i manager, esercita uno stretto controllo sull’operato dei secondi, spesso adottando un modello
decisionale di tipo paternalistico e autoritario con deleghe ridotte; tale situazione assicura una
maggiore convergenza fra concezione e realizzazione delle strategie.

3. L’operare in reti di relazioni interaziendali


Le piccole imprese operano spesso in rete e in aree geografiche concentrate, venendo talvolta a
configurare delle costellazioni di aziende legate da rapporti di diverso genere e convergenti verso
una business idea condivisa. Si caratterizzano per modelli di business aperti e basati su forti
interdipendenze di mercato.

4. La semplicità della struttura organizzativa


Le strutture organizzative delle piccole imprese sono semplici, costruite su un ridotto numero di livelli
e con organi di staff assenti o relativamente poco sviluppati. I gradi di formalizzazione sono ridotti,
poche sono le aree funzionali, scarsa è la specializzazione. Ciò velocizza notevolmente i processi
decisionali, che presentano in genere uno spiccato carattere pragmatico.

5. L’entità limitata del patrimonio


Le piccole imprese, nella maggior parte dei casi, sono caratterizzate da risorse finanziarie limitate e
da sottocapitalizzazione. Incidono in tal senso la volontà di limitare i portatori di capitale, onde
mantenere il controllo dell’impresa a livello familiare, e la difficoltà di raggiungere il mercato del
capitale di rischio. La gestione economico-finanziaria è comunque improntata alla prudenza, a causa
dell’accesso limitato al credito e del mancato ricorso a strumenti finanziari sofisticati.

6. Limiti nelle opzioni strategiche

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Le piccole imprese presentano un’elevata specializzazione anche se il problema è che lo sviluppo è
legato solo alle competenze dell’imprenditore, poi hanno un’alta flessibilità in quanto sono in grado
di produrre anche piccole quantità di prodotti e infine presentano una limitata estensione verticale.
Esse operano soprattutto nei settori a bassa tecnologia, che consentono la specializzazione in fasi ad
alto valore aggiunto, in cui il gioco competitivo è basato non tanto sui prezzi ma sulla soddisfazione
del cliente.

Limiti della piccola impresa


Se la piccola impresa presenta dei vantaggi soprattutto in termini di flessibilità organizzativa e produttiva,
legame stretto con il tessuto locale, partecipazione e motivazione del personale, contatto diretto con la
clientela e profonda conoscenza del mercato di riferimento, essa presenta anche numerose problematiche.
Tra le principali vi sono quelle legate alla presenza di numerosi componenti della famiglia nel vertice
gestionale e/o nel gruppo degli azionisti, e questo può generare una commistione fra vicende familiari e
interessi strettamente aziendali.
Un altro problema di non poca rilevanza è il momento della successione ai vertici aziendali, se il pressoché
totale coinvolgimento nella gestione dell’imprenditore fondatore o di un team imprenditoriale ristretto
assicura una maggiore rapidità di azione e la convergenza fra concezione e realizzazione della strategia, lo
stesso può generare traumi nella fase di “passaggio del testimone”. Il momento di passaggio dagli
imprenditori originari, pur costituendo un momento di pericolo e forte incertezza, può rappresentare, se ben
sfruttato, un’opportunità di modifica e di innovazione nella gestione. Il ricambio generazionale può essere
infatti anche l’occasione per il passaggio a modalità di guida meno familiari e maggiormente manageriali.
L’accentramento decisionale causa uno sviluppo delle attività svolte all’interno dell’impresa,
tendenzialmente influenzato dalle attitudini e dalle competenze specifiche dell’imprenditore piuttosto che
dalle reali necessità di crescita aziendale, la cui armonia può risultare pregiudicata a causa del rilievo
attribuito a specifiche attività e competenze a scapito di altre.
Il compimento da parte dell’imprenditore fondatore, delle scelte gestionali strategiche e, in parte, anche di
quelle operative, cosi come il controllo diretto su molte delle attività aziendali, genera il pericolo di un
impoverimento del patrimonio umano, in quanto il ruolo dei collaboratori risulta spesso sminuito dalla logica
gerarchica accentrata.
La semplicità della struttura organizzativa e lo spiccato pragmatismo delle piccole imprese si rivelano punti
deboli nel momento in cui l’azienda si trova a dover considerare rilevanti alternative strategiche o quando
essa attraversa una fase di crescita dimensionale più spiccata.
La chiusura della compagine azionaria causa una cronica sottocapitalizzazione delle piccole imprese e rende
più difficile lo sfruttamento di opportunità di crescita dimensionale, in generale, la limitatezza delle risorse
costituisce un vincolo allo sviluppo. Dal punto di vista strettamente finanziario, la limitatezza delle risorse
rende le piccole imprese impossibilitate a usufruire di vantaggi di scala nei rapporti con gli intermediari o nei
mercati finanziari, il che si ripercuote sul costo del finanziamento, più elevato rispetto a quello praticato alle
imprese di grande dimensione.
Le problematiche legate alle caratteristiche strutturali tipiche delle piccole imprese hanno evidenti ricadute
sulla strategia. In primo luogo, risulta immediata la tendenza verso un atteggiamento competitivo reattivo
invece che anticipativo, cosa che confina le piccole imprese in nicchie di mercato sempre più ristrette e
affollate, in cui è necessaria l’adozione di agguerrite strategie di prezzo per poter sopravvivere, ma che a
lungo termine si rivelano destabilizzanti o distruttive. In secondo luogo, operando in settori tradizionali del
made in Italy, sono particolarmente soggette alla concorrenza internazionale e, in misura crescente, alla
concorrenza dei paesi a basso costo di manodopera.

Riassumendo caratteristiche e limiti:


 Assetti istituzionali ove vi è coincidenza tra controllo e management  Commistione tra esigenze
famigliari (ad esempio spazi gestionali per i famigliari) ed interessi aziendali
 Processi decisionali fortemente centralizzati in un piccolo nucleo  Rischio del ricambio
generazionale

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 Coinvolgimento in reti di relazioni interaziendali  Forti interdipendenze
 Flessibilità e specializzazione  Sviluppo legato solo alle competenze dell’imprenditore
 Strutture organizzative semplici e veloci  Rischio impoverimento e basso coinvolgimento di tutto il
capitale umano; limiti alle carriere; rischi nel momento dello sviluppo
 Risorse finanziarie limitate e orientamento alla prudenza  Limiti nelle opportunità di crescita
 Opzioni strategiche soprattutto nei settori ad elevata specializzazione dove è importante la
soddisfazione del cliente più del prezzo  Rischio di rimanere in nicchie

3.4 La micro impresa e l’impresa artigiana

L’Eurostat definisce “micro impresa” quella con non più di 9 addetti, e in questa fascia ricadono anche le
aziende artigiane fino a 9 addetti. Mentre la tipologia micro è definita dal numero degli addetti, le imprese
artigiane sono definite dalle caratteristiche dell’organizzazione del processo produttivo: l’apporto diretto del
lavoro manuale dell’imprenditore, la produzione dei processi produttivi non standardizzati e meno di 20
addetti. La normativa sulle imprese artigiane esclude le attività agricole, quelle di intermediazione e di servizi
commerciali.
Dal punto di vista qualitativo la piccola impresa ha queste caratteristiche:
- Coincidenza tra proprietà e controllo (di solito). Questo porta a un grande difetto se l’imprenditore
non è “illuminato” perché vengono mescolati interessi di famiglia con quelli dell’impresa.
- Poiché non possono controllare tutti i fattori di produzione dipendono molto dall’esterno e quindi
fanno parte di reti. Se la piccola impresa entra in una rete di valore guadagna maggiore prestigio.
Essere molto dipendente da un distributore per andare dal mercato paese e questo distributore
perde quota mercato e fallisce, perde anche di credibilità.
- Flessibilità e specializzazione. Deve dare un senso nel ruolo del mercato. Quindi il settore di
specializzazione e il suo “plus”, dato da competenze che la contraddistinguono. Quando questa
competenza distintiva e questa capacità coincide con l’imprenditore, questo è un problema. Senza
imprenditore l’azienda crollerebbe e quindi bisogna diffondere il know-how dell’azienda.
- Strutture organizzativi semplici e veloci. Si decide in fretta.
- Per chi lavora in una piccola azienda ci possono essere dei momenti di frustrazione. Se la piccola
azienda ha promosso delle procedure per promuovere e far crescere l’impresa, lavorare in una
piccola azienda può portare a più gioie.
- Essere piccola e voler rimanere piccola ti chiude in una nicchia. Spesso c’è la strategia di non voler
crescere per mantenere lo status quo delle cose.

3.5 La media impresa

La media impresa è stata per anni una categoria economico-produttiva trascurata da studi e indagini
specifiche. Definita secondo l’UE, come impresa con un numero di addetti compreso tra i 50 e i 250 e con un
fatturato tra i 7 e i 40 milioni di euro. Essa è stata ricompresa nella categoria della piccola impresa, non
essendole riconosciuta la dignità di “grande impresa”. La media impresa, perlomeno in Italia, ha registrato
un significativo tasso di sviluppo, essa esporta sistematicamente e con determinazione, genera occupazione,
e il suo fatturato e i suoi utili vantano una crescita continua. A dimostrazione di questo, l’Isco ha sottolineato
che, anche in anni economicamente incerti, sono state le medie imprese a sostenere di più gli investimenti
rispetto alle piccole e grandi imprese, riuscendo a portare avanti un processo di rafforzamento strutturale e
produttivo.
L’attività prevalente delle medie imprese concerne i settori tipici del made in Italy che rappresentano circa i
3/5 del fatturato e delle esportazioni.

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Definizione quantitativa: Varietà di elementi che la pongono come ibrido tra piccola e grande ma con sua
autonoma specificità.
- Per UE addetti tra 50 e 250 e fatturato tra 7 e 40 milioni di euro
- Per Eurostat tra 100 e 500 unità
- Per Mediobanca: 50 ed il 499 addetti, un fatturato tra i 16 ed i 60 milioni (sul libro tra i 15 e i 330
milioni)

Connotati qualitativi e percorsi di sviluppo della media impresa


I dati rilevanti con riferimento alle medie imprese italiane hanno messo in evidenza l’inequivocabile
significato economico di questa categoria di imprese cui si fa riferimento con il concetto di “quarto
capitalismo” (si fa riferimento alle imprese della fascia dimensionale intermedia, né grandi né piccole,
generalmente distinte da una presenza internazionale e parzialmente riconducibili a sistemi produttivi locali.
Il quarto capitalismo – che segue il primo capitalismo fatto dalla grande impresa italiana privata con origine
negli anni Trenta come la Fiat di Agnelli, il secondo capitalismo negli anni Cinquanta e Sessanta è quello della
grande impresa pubblica poi oggetto di privatizzazioni, il terzo capitalismo delle piccole imprese e dei distretti
degli anni Settanta – comprende la fascia dimensionale intermedia tra le piccole imprese e i grandi gruppi).
Ciò ha portato gli studiosi ad analizzare le medie imprese nel loro profilo strutturale e processuale, cercando
di cogliere i connotati qualificanti i modelli di business di tali imprese che portano a configurare le stesse
come organizzazioni con una propria identità concettuale, organizzativa ed economica.
Il 70% di queste imprese è a proprietà concentrata e familiari, e si tratta di imprese con produzioni
specializzate, differenziate nella fascia medio-alta, incentrate sul valore della qualità, del brand, del design,
del servizio al cliente; esse occupano posizioni di mercato di nicchia rilevanti a livello internazionale con
relazioni strette con i clienti che riconoscono generalmente un plus di prezzo per la qualità percepita; sono
imprese che si avvalgono di dense reti di relazioni di business strategiche a monte e a valle; e i capitali
finanziari provengono dai soci e dalle banche.
Gli studi sottolineano che le medie imprese italiane presentino, rispetto alle piccole imprese, un team di
vertice allargato, un nucleo familiare proprietario affiancato da una dirigenza manageriale, un ambito
competitivo multidimensionale, forti legami con il territorio, strutture organizzative semplici ma specializzate
e abbastanza formalizzate, orientamento all’innovazione sia del prodotto che di processo e all’export.
La media impresa è vista come un modello di riferimento per tutte le altre, in questi termini si richiamano le
“medie imprese eccellenti”, a fronte di questi casi, molte medie imprese incontrano difficoltà e vivono con
numerosi ostacoli la loro affermazione sul mercato. Il passaggio dalla piccola alla media dimensione comporta
difficoltà di gestione e di irrigidimento organizzativo, rischi di diversificazione non controllata e insufficienza
finanziaria.

La natura strutturalmente ibrida della media impresa fa sì che essa si confronti con una pluralità di dualismi
di natura strategica e organizzativa che richiedono approcci e modalità gestionali differenziati e talvolta
divergenti che pongono di fronte scelte e percorsi di sviluppo a volte tra loro non compatibili.
 È spesso grande nel comparto industriale di riferimento e piccola nel più generale settore di
appartenenza; ciò porta a sviluppare caratteristiche di eccellenza e strategie aggressive volte ad
affermare e sviluppare il posizionamento strategico, giocando ruoli di traino nel comparto specifico,
e nel contempo a realizzare strategie imitative alla ricerca di modelli da copiare, e dunque traino di
imprese più grandi nel settore. Le imprese devono trarre vantaggio da questa doppia posizione, non
sottovalutare il loro potere di influenza e di guida nel contesto specifico, ma anche non
sopravvalutare la loro posizione di leadership.
 Coniuga stili di governo manageriale e stili di governo imprenditoriali; nella media impresa si assiste
a una convivenza di cultura imprenditoriale e manageriale, questi stili di direzione non sono sempre
convergenti ma anzi talvolta si trovano in conflittualità. Queste componenti più che essere in netta
contrapposizione richiedono una dialettica che, se opportunamente gestita, può essere fertile e
tradursi in soluzioni che beneficiano sia delle visioni e dei comportamenti creativo-intuitivi tipici
dell’elemento imprenditoriale sia quelli maggiormente razionalizzati e pianificati propri delle
componente professionale.

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 Combina orientamento al prodotto e orientamento al cliente; se è vero che in molte medie imprese
prevale la centralità del prodotto o del processo produttivo è anche vero che in esse è crescente la
consapevolezza della necessità di orientare e coordinare tutti i processi aziendali per comprendere,
generare e trasferire valore al cliente. La convivenza tra i due orientamenti non è facile, quindi
occorre sviluppare modelli organizzativi che favoriscano i processi ove tali diverse culture e
competenze possono trovare combinazione e generare sinergie.
 Unisce orientamento allo sviluppo e orientamento alla razionalizzazione; quale piccola impresa
cresciuta, la media impresa incorpora una cultura orientata alla creatività, all’adattamento, allo
sviluppo e al problem solving, ciò presuppone la realizzazione di strategie di differenziazione. Invece
come grande impresa incompiuta essa sviluppa necessariamente un forte orientamento all’efficienza
e sente la necessità di promuove processi di razionalizzazione che conducono a vantaggi di costo, e
ciò chiede una strategia di standardizzazione, omogeneizzazione di prodotti e processi.
 Agisce tra rete locale e globale; la media impresa vive la tensione di coniugare radici locali, origine
del suo successo e fonti di grandi opportunità (ma anche limiti) con l’accesso e lo sviluppo di reti
globali, necessario per affermare e sviluppare un posizionamento su scala internazionale e, spesso,
per la stessa sopravvivenza. La gestione di reti locali e globali è una sfida a cui molte imprese del
made in Italy stanno rispondendo attivando formule di internazionalizzazione originali che fanno leva
sui benefici del radicamento.
 È impresa rete e in reti di imprese; la media imprese viene a configurarsi come nodo di una rete di
imprese rispetto alle quali può talvolta assumere un ruolo di guida. Oltre a operare in reti di imprese,
essa cresce anche attraverso processi di sviluppo interno che conducono a modelli strutturali che
non possono essere configurati e gestiti secondo modalità e approcci propri della piccola impresa né
della grande.
 Implementa imprenditorialità individuale e collettiva; nel suo agire imprenditoriale la media impresa,
essendo dotata di proprie risorse e capacità, persegue interessi di carattere individuale legati a
determinati percorsi di sviluppo e crescita. Nel contempo, attraverso le interazioni e le
interdipendenze in cui è coinvolta, essa partecipa alla riproduzione e alla difesa di interesse di natura
collettiva.

Molte medie imprese non aspirano a diventare grandi, anzi molto spesso viene consapevolmente evitato da
quelle aziende che pur vogliono ampliare il loro raggio di azione. La causa di questo è la pericolosità percepita
nel modello di grande impresa in relazione alla rigidità dei costi, alla perdita di immediatezza della gestione
e al carattere burocratico della struttura. Ci si domandava tuttavia come sia possibile entrare nei mercati
mondiali senza una parallela crescita dimensionale, risposta a questo quesito è quella di realizzare nuovi
modelli organizzativi e di sviluppare competenze nella motivazione e nella guida dei dipendenti.
La rigidità della struttura è considerata un ostacolo a un adeguato e soddisfacente servizio del mercato, e la
snellezza organizzativa è considerata un requisito vitale nel perseguimento dell’efficienza gestionale e
dell’efficacia operativa; a ciò si deve aggiungere che i requisiti di “grandezza” e “importanza economica”
possono rendere la media impresa un soggetto in grado di generare fenomeni di rilevanza sociale, che non
sempre la media impresa è pronta ad assumersi oltre determinati livelli.
Le soluzioni finora adottate dalle medie imprese sono la delega al mercato e l’organizzazione di gruppo,
entrambe si basano sulla specializzazione delle imprese, ciascuna delle quali si occupa di una determinata
aria di affari, in tal modo da garantire la massima dedizione al cliente e una rapida risposta alle esigenze del
mercato. Le due soluzioni però differiscono nel grado di ottimizzazione nell’uso delle risorse disponibili:
nell’ipotesi di delega al mercato, la specializzazione delle funzioni si realizza fra imprese diverse, la delega ai
fornitori rende più problematico il coordinamento di azioni a lungo termine e di vasta portata; invece
nell’altra soluzione, la suddivisione delle attività è effettuata tra imprese dello stesso gruppo, e risulta più
agevole costruire una strategia unitaria di utilizzo delle risorse, ed è possibile in questi casi una
specializzazione non solo per attività produttive, ma anche per livelli.

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La media imprese manifatturiera italiana “virtuosa” per il rinnovamento e il rafforzamento dell’industria
italiana nel contesto globale ha capito che la difesa del manufacturing “in sé” non è più sufficiente per essere
competitivi ma che ad esso occorre associare processi, competenze, servizi distintivi in un modello di
business innovativo e coerente.

3.6 I sistemi produttivi locali e le imprese distrettuali

I distretti industriali in Italia


La tipologia e l’estensione dei principi organizzativi che determinano la fisionomia di un sistema produttivo,
ovvero di un insieme di attività per la produzione di beni legate da un rapporto di input-output, può spaziare
da quella classica per eccellenza, costituita da quella grande impresa verticalmente integrata, con un solo
soggetto economico, a forme più o meno spinte di divisione del lavoro fra più soggetti economici distinti,
come le reti di imprese.
Fra le tipologie esistenti di sistemi di produzione, quella che caratterizza maggiormente l’industria italiana è
fondata su un’ampia divisione del lavoro fra imprese specializzate (scomposizione del processo produttivo);
su una vasta diffusione di molteplici competenze imprenditoriali e professionali; sul mantenimento di mix
complessi di concorrenza e cooperazione fra le imprese stesse; sulla concentrazione territoriale, sul
mantenimento di un elevato grado di interazione fra industria e comunità locale (atmosfera industriale = nel
distretto si condividono valori socio-culturali).
Le imprese appartenenti ai sistemi produttivi che hanno i requisiti sopraelencati vengono considerate come
facenti parte di un distretto industriale (comunità di imprese concentrate in un’area spazialmente definita e
caratterizzate da forte omogeneità di carattere socioculturale).
Diverso è il caso delle aree specializzate o dei sistemi produttivi locali, in questi casi si ha una struttura del
sistema locale di tipo orizzontale in quanto tutte le imprese sono specializzate in lavorazioni simili e sono
concorrenti sul medesimo mercato realizzando lo stesso prodotto. In esse, tuttavia, mancano alcuni tratti
distintivi tipici dei distretti industriali, ovvero la componente socio-culturale e la consistenza di fenomeni di
interconnessione tecnologico-produttiva fra le imprese.
L’area sistema invece è una forma più evoluta di sistema di piccole e medie imprese dove si realizza
un’accentuata divisione del lavoro e forme condivise di coordinamento e cooperazione. Il distretto invece è
considerato una categoria di ordine superiore che si identifica in un’area geografica e può contenere più aree
sistema. I principali elementi distintivi di un distretto possono essere identificati nella realizzazione di
economie esterne e nella presenza del fattore “atmosfera industriale”.
Dal primo punto di vista (economie esterne) nel distretto si osservano una divisione del lavoro e processi di
scambio tra un gran numero di piccole imprese specializzate in fasi diverse del ciclo produttivo. Tale divisione
del lavoro consente di raggiungere elevati livelli di efficienza produttiva paragonabili a quelli della grande
impresa verticalmente integrata: quelle che per quest’ultima sono economie interne diventano esterne alle
singole unità locali, ma interne al sistema produttivo locale. A ciò si deve aggiungere che attorno al processo
produttivo principale si crea una fitta rete di rapporti con le altre industrie a monte e a valle: quella per
l’approvvigionamento di materie prime, quella che cura la distribuzione del prodotto finale, quella che
fornisce i beni strumentali, e quest’ultime hanno spesso esercitato un ruolo trainante nello sviluppo dei
sistemi produttivi locali.
Per quanto attiene il secondo elemento, l’atmosfera industriale, essa si sostanzia nell’accumulazione di
capacità professionali specializzate per lo svolgimento di determinate attività produttive e nella rapida
circolazione di informazioni e idee innovative all’interno del distretto, resa possibile dalla compresenza di
tanti soggetti coinvolti nello stesso processo produttivo.

Il modello della specializzazione flessibile


I distretti hanno origine dal decentramento produttivo in momenti di complessità. Ne è derivata una
“specializzazione flessibile” che secondo taluni ha salvaguardato lo sviluppo economico italiano nel momento
della crisi della grande impresa. Oggi, con la riorganizzazione della grande impresa e la globalizzazione, il
modello della specializzazione flessibile pare avere molti limiti.

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Processi in atto:
- L’emergere di imprese-guida
- Ri-accorpamento di attività
- Proiezione extra-distrettuale di attività produttive soprattutto in Paesi a basso costo del lavoro
- Ricerca di fornitori eccellenti su scala globale
- Maggior presidio del mercato di sbocco e selezione di attori commerciali
- Maggior presidio di attività di produzione componenti con relazioni strette con fornitori chiave
- Limitato uso del potenziale della digitalizzazione

La competitività delle imprese nei distretti industriali


Una caratteristica distintiva dei distretti industriali italiani è stata sempre la capacità di adattamento al
mutare delle condizioni di contesto. Le imprese sono sempre state capaci di adeguare rapidamente l’offerta
alle variazioni di domanda, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Ciò in virtù di due proprietà che
derivano dall’apparato produttivo, l’elasticità e la flessibilità.
L’elasticità si identifica con la possibilità di ridurre il volume della produzione, senza che ciò provochi un
incremento del costo unitario del prodotto tale da ridurne la competitività. La flessibilità, raggiunta in virtù
della divisione della produzione fra più soggetti autonomi, e questa è una realtà che ha duplice valenza: in
un’accezione statica, essa esprime l’attitudine a ottenere, dalla medesima struttura tecnico-organizzativa,
prodotti e processi qualitativamente differenti; invece in una prospettiva dinamica, una struttura produttiva
flessibile consente di innovare i prodotti nel tempo, in base alle mutevoli esigenze della domanda.
Mentre negli anni “60/”70 il vantaggio di costo ha rappresentato l’arma vincente per i nostri distretti
industriali. A partire dagli anni “90, l’innovazione di prodotto è stata la nuova frontiera su cui i distretti
industriali hanno iniziato a misurare la loro capacità competitiva al fine di offrire sia i prodotti migliori sia
quelli diversi. In questi anni si è anche assistito all’emergere, nei contesti distrettuali, di impresa di media e
media-grande dimensione che hanno iniziato a operare da traino e da guida per molte altre imprese di minore
dimensione del distretto. Con questo si è innescato un processo che ha portato a un’evoluzione, da un
modello di capitalismo distrettuale distretto-centrico a un modello impresa-centrico. Il nuovo scenario
competitivo, impone la capacità di singole imprese, di reti, di gruppi, di relazionarsi sinergicamente tra loro
per affrontare il nuove contesto competitivo. In esso i sistemi locali di piccole imprese vivono una fase di
transizione difficile, devono passare da un modello competitivo basato sui costi a uno fondato
sull’innovazione; devono aprirsi all’esterno e integrarsi nei mercati globali; devono presidiare le competenze
e le capacità manifatturiere.
Si tratta di un percorso di sviluppo non facile in quanto molte sono le situazioni preesistenti da superare: i
distretti hanno costruito il loro successo su un’innovazione tecnologica incrementale, che deriva da piccoli e
continui miglioramenti dei processi produttivi, che ne innalzano l’efficienza e la prestazione. Tali
miglioramenti sono riconducibili all’esperienza diretta, questo tipo di innovazione però ora non è più
sufficiente, ora e in prospettiva va prevalendo il peso dell’innovazione che si avvale di conoscenza esogena,
e su questo fronte il distretto è carente, perché le imprese hanno relazioni essenzialmente all’interno
dell’area. Altro limite competitivo riguarda il tipo di conoscenze utilizzate, finora i distretti hanno valorizzato

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soprattutto competenze di produzione e di esportazione indiretta. In prospettiva, conseguentemente
all’estensione della globalizzazione, servono competenze più avanzate, onde per affrontare i mercati
internazionali, ove sono richiesti spesso anche investimenti diretti esteri. Inoltre, le piccole e medie imprese
italiane delle aree distrettuali operano in gran parte nei settori produttivi più tradizionali, e in questi si ha la
forte concorrenza dei paesi emergenti, che possono avvalersi di costi di manodopera enormemente più bassi.

In definitiva occorre puntare all’intelligenza terziaria, accumulata non nelle macchine ma nelle persone e nei
processi per innovare continuamente.

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Capitolo 4 La varietà delle imprese: la resource-based theory

4.1 L’evoluzione delle logiche d’impresa

In una visione elementare e ormai da tempo superata, l’impresa è descritta come un’organizzazione di natura
sostanzialmente meccanica, caratterizzata da una serie di attività e di flussi aventi finalità prevalentemente
produttive. Allorché a questa descrizione dell’impresa venga associata una prospettiva funzionale, la maggior
parte di queste attività e dei relativi flussi sono riferiti alle singole funzioni che li gestiscono e alla loro
responsabilità.
In realtà una simile descrizione dell’impresa, oltre a essere elementare, è molto limitata per almeno due
ragioni. Anzitutto in quanto essa considera solo una delle tante dimensioni e delle attività nelle quali si può
articolare un’impresa, e della quale è bene proporre una descrizione più ampia; in secondo luogo, questa
descrizione ne evidenzia la suddivisione in funzioni aziendali, invece di lasciare spazio a una prospettiva più
ampia, complessiva e organica.
L’impresa moderna, invece, deve essere intesa come un sistema articolato, complesso e,
contemporaneamente, unitario e sistematico.
L’articolazione e la conseguente complessità derivano da numerosi fattori interni alle imprese e relativi
all’ambiente di riferimento.
L’unitarietà dell’impresa è diretta conseguenza delle sue finalità, irraggiungibili se non adottando una logica
unitaria che consenta di convogliare le diverse forze e attività presenti in impresa, e che non raramente
manifestano direzioni centrifughe come spesso accade in ogni organizzazione complessa, verso un fine
comune. Certo è, comunque, che se l’impresa non è analizzata e condotta con prospettiva unitaria,
qualsivoglia sia la finalità che viene perseguita, essa non verrà raggiunta.
La dimensione sistematica, infine, deriva dalle interconnessioni che determinano i comportamenti delle
imprese. Queste interconnessione si manifestano sia al suo interno (e di conseguenza vanno comprese e
governate), sia nei rapporti con l’ambiente esterno e, in particolare, con i mercati di riferimento, e in questo
caso è impossibile governare le interconnessioni esterne.
Di seguito ripercorrendo le diverse concezioni dell’impresa si giunge alla sua descrizione più corretta, cioè un
sistema unitario composto da un insieme di risorse e di competenze.
Ogni impresa è diversa dalle altre proprio in funzione di come si combinano tra loro le risorse e le
competenze. La diversa combinazione di questi fattori è in grado di giustificare la capacità dell’impresa di
ottenere un vantaggio competitivo e migliori performance economiche e finanziarie.

4.2 Le risorse dell’impresa

Concretamente l’attenzione sulle risorse significa, esaltare il ruolo centrale dell’impresa, e in buona misura,
la sua autonomia e libertà d’azione. Rispetto alle prospettive tradizionali che sottolineano la dipendenza
dell’impresa dai fattori esogeni d’ambiente e di settore, l’attenzione posta sulle risorse dell’impresa ne ampia
il ruolo attivo e le consente di formulare strategie non solo reattive, cioè di reazione e adeguamento ai
contesti esterni, ma anche strategie attive e proattive, ovvero di ridefinizione originale dei contesti
competitivi in cui l’impresa opera.
Non a caso le risorse sono considerate come elemento determinante le strategie di diversificazione e
vengono considerate quali barriere all’entrata e/o alla mobilità all’interno del settore. Rispetto alle barriere
all’entrata di nuovi concorrenti, le barriere costituite dalle risorse si applicano non solo al confronto tra
concorrenti presenti nel settore e potenziali entranti, ma anche nella comparazione della possibilità
d’ingresso nel settore tra i potenziali entranti.
Vengono poste in evidenza principalmente quattro risorse:
1. La capacità degli impianti: va intesa non solo da un punto di vista quantitativo quale potenzialità
produttiva, ma anche per le caratteristiche di elasticità e di flessibilità dei processi produttivi e per la
possibilità che gli impianti garantiscano elevati livelli di qualità costanti nel tempo.

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2. La fedeltà dei clienti: in questo caso il riferimento più evidente è nei confronti delle politiche di marketing
delle imprese, in tema di posizionamento concorrenziale, e alle politiche di mercato incentrate sulla
conquista e sulla fidelizzazione della clientela.
3. L’esperienza produttiva: essa non va apprezzata esclusivamente come fonte generatrice di significativi
risparmi di costi, ma soprattutto, per le possibilità che da essa derivano di una più ampia visione delle
alternative percorribili.
4. Leadership tecnologica: il fatto che l’impresa si trovi in questa posizione significa che i suoi saperi e il know
how da essi derivante la collocano sulla frontiera delle conoscenze e delle applicazioni e determina una
posizione di vantaggio competitiva.

Risorse materiali e immateriali, di conoscenza e di fiducia


Grant, ad esempio, individua sei categorie di risorse:
1. Risorse finanziare
2. Risorse fisiche, connesse alla disponibilità di impianti, materiali, ecc.
3. Risorse umane
4. Risorse tecnologiche, misurabili con la numerosità dei brevetti disponibili.
5. Risorse di reputazione, quali la notorietà, le associazioni di valori di marca, l’immagine, la fiducia e la
fedeltà di marca ecc.
6. Risorse organizzative, quali i valori di fondo, la cultura, gli stili di management ecc.

Secondo una prospettiva di carattere più generale le risorse dell’impresa sono suddivisibili in due grandi
categorie in relazione alla loro materialità. Si distingue, allora, tra risorse materiali (tangibili) e risorse
immateriali (intangibili).
Fanno capo alle risorse materiali, quelle che hanno un riscontro
quantitativo nella situazione patrimoniale dell’impresa (gli impianti, gli
immobili, le materie utilizzate dall’impresa per attuare i processi produttivi
ecc.).
Le risorse tangibili sono spesso una condizione necessaria, ma non
sufficiente, perché l’impresa operi con successo nei mercati. Sono una
condizione necessaria in quanto, nella maggior parte dei casi, l’impresa deve
dotarsi di queste risorse. Sono una condizione non sufficiente perché si
tratta di risorse spesso facilmente imitabili e riproducibili. Per questo
motivo, non distinguono l’impresa dai concorrenti e non le consentono di
ottenere un vantaggio competitivo.

Le risorse immateriali riguardano fattori caratterizzati da intangibilità quali la conoscenza del mercato, la
capacità di interpretazione delle esigenze dei clienti, le relazioni con il mercato finanziario e/o con gli
intermediari commerciali, i rapporti con i fornitori ecc. Queste risorse non possono essere tradotte in termini
patrimoniali e quindi non hanno un riscontro quantitativo. Le risorse intangibili consentono all’impresa di
ottenere un significativo vantaggio competitivo perché sono molto difficilmente imitabili (spesso del tutto
inimitabili) e non riproducibili da parte dei concorrenti.

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L’aggregazione più comune delle risorse immateriali le riconduce alle risorse
di fiducia e di conoscenza; le risorse di fiducia riguardano un insieme di
schemi cognitivi attraverso cui determinati soggetti danno una
rappresentazione dell’impresa sufficientemente definita e stabile nel tempo,
quindi riguardano le relazioni che l’impresa instaura con l’ambiente verso i
diversi mercati di riferimento e connotano la qualità e l’intensità dei legami
impresa-ambiente; le risorse di conoscenza invece è quell’insieme di schemi
cognitivi sufficientemente stabili e diffusi all’interno di un’impresa (sapere,
competenze). La fiducia produce relazioni e dalla conoscenza si originano
capacità che, a loro volta, generano delle competenze. Si tratta di risorse del
tutto inimitabili e non riproducibili da parte dei concorrenti. Consentono,
quindi, all’impresa di dotarsi di un vantaggio sui competitors.

Imitabilità e non riproducibilità delle risorse intangibili


Ciò che rende le risorse intangibili di grande valore è la loro difficile imitabilità e riproducibilità da parte dei
concorrenti, in quanto si tratta di risorse del tutto esclusive e, spesso non imitabili da nessuno. Di norma la
non imitabilità delle risorse immateriali viene commentata nella prospettiva della generazione di un
vantaggio competitivo a favore dell’impresa che le possiede, e questo è molto vero in quanto esse generano
barriere all’entrata e/o alla mobilità.
Alcune risorse immateriali sono fortemente connesse alle persone che le posseggono (conoscenza) e/o
meccanismi anche informali di gestione dell’impresa (cultura, conoscenze tacite).

Appropriabilità e valore delle risorse


Di grande interesse è l’interrogativo che riguarda la collocazione spaziale e temporale delle risorse e come
sia possibile svilupparle e appropriarsene.
Per affrontare questo argomento è necessario introdurre e sviluppare il concetto di relazione di business e,
più nello specifico, il rapporto esistente tra relazioni e risorse. Le relazioni che l’impresa intrattiene con gli
attori presenti nell’ambiente sono finalizzate a far sì che l’impresa possa trasmettere e trasferire le proprie
risorse di valore e, parallelamente, possa acquisire le risorse che si trovano all’esterno e che possono esserle
messe a disposizione dagli attori esterni. Si viene così a generare un circolo virtuoso per cui l’impresa
trasferisce le sue risorse ai mercati e, parallelamente, cerca di ottenere maggiori e/o nuove risorse, così
facendo, le risorse, tramite le relazioni, generano nuove risorse. Tutto ciò che è materiale e tangibile è
“trasportabile” a costi più o meno elevati, mentre l’immateriale si può trasferire solo se è inglobato nelle
relazioni.
Riassumendo il valore di una risorsa è dato da: unicità, distintività, non imitabilità, non trasferibilità e
appropriabilità.

Risorse, relazioni e confini dell’impresa


La definizione dei confini è strettamente legata al concetto di concorrenza, di capacità di acquisizione di un
vantaggio competitivo, di dimensioni dei mercati di riferimento e del valore che l’impresa può acquisire dal
territorio competitivo ove decidesse di operare e delle risorse e del valore che intende trasferire ai clienti.
Decidere più o meno esplicitamente quali siano i confini significa comprendere quali possano essere le risorse
su cui fare leva tanto in termini di trasferibilità e di acquisibilità delle risorse tramite le relazioni, quanto in
merito alla comprensione del valore delle risorse sia in uscita che in ingresso. Si tratta di comprendere quali
risorse trasferibili dall’impresa al mercato siano apprezzate dai clienti e quali risorse presenti nell’ambiente
siano utili all’impresa. Le risorse e le relazioni che le includono consentono di definire i confini di un’impresa.
Tradizionalmente i confini dell’impresa sono definiti considerando le capacità di controllo gerarchico che
l’impresa è in grado di esercitare sulle risorse, il controllo può essere di tre tipi:
1) Il controllo proprietario, esso definisce i confini interni, cioè le risorse di diverso tipo e natura di proprietà
dell’impresa, nel senso che essa le ha acquisite nel tempo e fanno parte del proprio patrimonio. Il concetto
di proprietà, però, si applica con maggiore facilità a ciò che è materiale e alle risorse immateriali

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giuridicamente difendibili e sulle quali possono essere esercitate azioni di difesa legale. Tuttavia buona parte
di ciò che è veramente immateriale nell’impresa non può essere ricondotto a un controllo di tipo proprietario.
2) Il controllo di tipo contrattuale, esso consente di definire i confini esterni, cioè il grado di controllo che
l’impresa esercita sull’ambiente. Il controllo di questo tipo può essere il frutto di accordi formali, e anche in
questo caso la natura contrattuale conferisce a questo tipo di controllo una maggiore efficacia sulle risorse
materiale e, più limitatamente, su quelle immateriali.
3) Più sfumati sono i confini definiti dal terzo livello di controllo, cioè i confini di influenza. In quest’ultima
fattispecie i confini si spingono fino a dove l’impresa può esercitare la sua influenza, e quanto più ci
allontaniamo dalla capacità dell’impresa di influenzare l’ambiente, tanto più i confini si sfumano.
I confini di influenza sono, molto meno definibili con chiarezza e oggettività, inoltre si tratta di confini che,
per la natura volatile delle risorse che li caratterizzano, sono spesso molto più dinamici e variabili di quanto
lo siano i confini proprietari e contrattuali. Mentre le risorse presenti entro i confini proprietari e contrattuali
non comportano la necessità di particolari interpretazioni, ciò che si colloca nella dimensione di influenza,
della immaterialità e della volatilità deve necessariamente essere interpretato anche ricorrendo alle doti
d’intuito e di creatività di coloro che le prendono in considerazione. Se queste doti venissero a mancare
sarebbe ben difficile che l’impresa possa essere in grado di trasferire e/o di acquisire quel tipo di risorse
immateriali e, di conseguenza, la sua capacità di ottenere un vantaggio competitivo sicuramente rilevante
verrebbe compromessa. È interessante riflettere sulla sovrapposizione e sulle differenziazioni tra confini
proprietari, contrattuali e d’influenza. Le prime due tipologie di controllo che definiscono i confini
dovrebbero consentire elevati livelli di controllo e, di conseguenza, di influenza, considerando che il controllo
è un sottoinsieme dell’influenza. Se una qualsiasi risorsa è di proprietà, il proprietario dovrebbe poter
esercitare la massima influenza su di essa e, anche se in misura relativamente minore, lo stesso discorso
dovrebbe valere anche per il controllo di tipo contrattuale. Fintanto che si parla di risorse materiali è
indiscutibile che il controllo di tipo proprietario e contrattuale consentono di esercitare il massimo livello di
influenza. Ma quando si parla di risorse immateriali il livello di influenza non è in relazione diretta con la
tipologia di controllo, per cui una risorsa immateriale di proprietà o di tipo contrattuale non è
necessariamente influenzabile dall’impresa. È comunque necessario che queste risorse siano attivamente
“gestite” dall’impresa, cioè che su di esse si eserciti un’azione di management, che si attivino forme di
coinvolgimento per cui le loro conoscenze e capacità siano messe a disposizione dell’impresa. Solo quando
scatta questo meccanismo, si può affermare che quelle specifiche risorse rientrano nella sfera di influenza
dell’impresa. I “confini d’influenza” in realtà possono anche essere assai distinti dai “confini proprietari”,
ovvero quelli dettati da una qualsivoglia formula contrattuale. In altri termini, la proprietà non si traduce
automaticamente in controllo e, viceversa, il controllo non è esercitabile solo in virtù della proprietà, o meglio
del possesso delle risorse che si intendono controllare. E la ragione della non sovrapponibilità è legata alla
tipologia di risorse alle quali si fa riferimento quando si considera il rapporto tra controllo e confini
dell’impresa.

Risorse esterne all’impresa e ruolo delle relazioni


Nella realtà, le risorse necessarie all’impresa per la maggior parte dei casi sono collocate al di fuori di essa.
Anzi si può affermare che le risorse esterne sono le più preziose in quanto non facilmente mobilitabili e,
quindi, più raramente disponibili. E se non sono facilmente disponibili all’impresa, altrettanto non lo sono
per i suoi concorrenti. Ciò significa che chi se ne appropria più velocemente e alle migliori condizioni, acquisirà
un vantaggio competitivo difficilmente imitabile. In condizioni di difficoltà dell’impresa, il set di risorse
proprietarie tende a impoverirsi anche per effetto delle minori disponibilità finanziarie e di investimento.
Inoltre, le risorse di tipo proprietario presentano caratteristiche di maggiore rigidità, rispetto alle risorse
acquisibili per tramite delle relazioni. Le risorse interne, infatti, sono il frutto di scelte e di decisioni del
passato sui mercati da presidiare e sulle tecnologie da sviluppare e non è affatto detto che tali scelte siano
ancora valide e/o che le risorse interne possedute siano facilmente adattabili alle nuove condizioni di
contesto. Se a quanto ora scritto si aggiungono le componenti di imprevedibilità sempre connesse a situazioni
di difficoltà delle imprese, si deduce facilmente che il set di risorse interne disponibili può avere un valore
molto limitato o rappresentare un vincolo difficilmente superabile sulla via dell’adattamento delle risorse
dell’impresa alle condizioni dei mercati e dell’ambiente in continuo cambiamento. Al contrario le risorse

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ottenibili attraverso le relazioni sono assai più numerose e varie di quelle interne e le loro diverse
combinazioni possibili le rendono pressoché infinite. Lo specifico set di risorse di diversa natura necessarie
per l’impresa sono diffuse nel contesto ambientale in cui l’impresa opera e sono possedute da altri attori.
Spetta quindi all’impresa individuare le risorse che le sono necessarie e gli attori da quali attrarle. Tutto ciò
comporta un’attenta attività di individuazione, selezione e azione atta ad avvicinare opportunamente gli
attori e le risorse a sé stessa. Si tratta di un processo fondamentale per garantire la sopravvivenza e il successo
dell’impresa.
Questa attività si sviluppa in tre fasi distinte, ancorché tra loro strettamente interconnesse.
1. Individuazione delle risorse (e delle relazioni), l’impresa deve individuare le risorse che le sono più
necessarie e per tramite di quali relazioni possono essere mobilitate e rese disponibili. Si tratta cioè di capire
se le relazioni in essere sono sufficienti all’acquisizione delle risorse necessarie, se sono gestite correttamente
in conformità con l’importanza delle risorse che esse potrebbero veicolare o se sia necessario attivare nuove
e quali relazioni.
2. Attrazione delle risorse, questo può avvenire tramite una sapiente gestione delle relazioni in modo tale
che questa possa mobilitare le risorse, spostandole dal partner all’impresa, consentendo quindi a
quest’ultima di attrarne in misura conveniente.
3. Inserimento e condivisione delle risorse, una volta che le risorse sono state attratte e entrano a far parte
della disponibilità dell’impresa, l’attenzione si sposta dalla fase dell’inserimento a quella della condivisione
con le altre risorse presenti in impresa. Questa fase è delicata almeno per due motivi, il primo è che una
risorsa non inserita in impresa può essere in competizione con altre risorse già presenti; e il secondo motivo
che rende l’inserimento una fase delicata è la possibilità che vi siano dei “passaggi di consegna” che possano
incidere negativamente sulla relazione e quindi sulle risorse trasferite.

Tra risorse e relazioni esiste dunque un legame continuativo e inscindibile. Le relazioni consentono di
trasferire e ottenere le risorse. Il trasferimento delle risorse dell’impresa ai mercati genera valore per il
cliente che, a sua volta, genera valore per l’impresa. Ma, a loro volta, le relazioni in essere, le modalità con
cui vengono gestite e il patrimonio di relazioni al quale può accedere un’impresa sono una risorsa intangibile
per eccellenza dell’impresa stessa. La logica transazionale considera i confini dell’impresa quasi
esclusivamente riferendosi all’interpretazione data dai diritti e doveri della proprietà, si sa chi è il proprietario
di una determinata risorsa e se, e in quale misura, intende condividerla con altri. La prospettiva relazionale
rende il concetto ben più problematico in quanto una relazione, non può mai essere ricondotta a una
dimensione proprietaria. La relazione esiste in sé ma nessuno dei due attori può vantarne la proprietà, essa,
semmai, è sempre condivisa, ma mai in una condizione proprietaria e di esclusività. Il superamento della
dipendenza degli effetti della relazione a una condizione proprietaria consente di riflettere brevemente sul
significato di proprietà. Uno degli attori può possedere qualcosa anche se non ne ha la proprietà da un punto
di vista legale: infatti un partner può ottenere dei benefici derivanti da una relazione indipendentemente dal
grado di proprietà e di controllo proprietario che esso può esercitare sulla relazione. Si può sostenere allora
che il valore del possesso è superiore al valore della proprietà. La proprietà ha un valore statico di natura
patrimoniale e costituisce più una garanzia che una forma generatrice di reddito. Il possesso, invece, produce
un valore immediato di reddito, naturalmente se viene adeguatamente utilizzato, e, soprattutto, è fattore di
potenzialità e sviluppo, pone minori limiti e può più facilmente essere condiviso, scambiato e accrescere in
termini di utilizzo autonomo o condiviso con altri.
Inoltre bisogna considerare il fatto che le relazioni e le reti sono strutturalmente molto dinamiche, e questo
risente del livello di dinamismo degli attori e del mercato. Poiché la rete è costituita da un insieme
interconnesso di relazioni, anch’essa gode delle stesse caratteristiche delle relazioni da un punto di vista del
dinamismo. La principale conseguenza dell’interazione in realtà è generatrice di un’ulteriore risorsa, di ordine
superiore, cioè la fiducia e la reciproca volontà di cooperazione e di reciproco e continuativo adattamento.
Le relazioni ricoprono quindi un ruolo fondamentale per la generazione di un circolo virtuoso che si
autoalimenta e che produce un continuo incremento del valore sotto la forma di un reddito d’impresa di
lungo periodo; inoltre rappresentano una fonte essenziale della continua rigenerazione del vantaggio
competitivo, attraverso il rinnovamento e la ricombinazione delle risorse a disposizione dell’impresa.

29
4.3 L’impresa come nucleo di competenze

Le risorse esistono, ma affinché possano generare valore per l’impresa e essere fonte di un duraturo e
difendibile vantaggio competitivo concorrenziale, vanno gestite opportunamente. Si può anche affermare
che un’impresa che possiede le risorse e/o può ottenerle dall’ambiente e non è in grado di gestirle in modo
opportuno, genera una situazione molto negativa, di disattenzione e di spreco.
La capacità di gestire e sfruttare validamente le risorse dell’impresa ne genera le “competenze”, la
comprensione dell’esistenza di differenziali di competenza consente di individuare le ragioni per cui due o
più imprese, possano ottenere risultati anche molto differenti, anche se sono assai simili tra di loro sia per
obbiettivi e risorse possedute.
Il legame tra risorse e competenze è molto stretto, quest’ultime si collocano su un livello molto elevato, tanto
in termini di aggregazione quanto al fatto che la possibilità che vengano imitate dai concorrenti è ancor più
difficile. Per questo motivo, le competenze possono assumere un connotato distintivo di un’impresa,
qualcosa cioè che è di suo esclusivo possesso e ne rappresenta la centralità dei comportamenti e delle
strategie ed è in grado di spiegare i differenziali di performance.
Il passaggio dalle risorse alle competenze non è stato, però, né immediato né diretto. In mezzo, sia
temporalmente sia concettualmente, si situano le cosiddette dynamic capabilities. Queste capacità
dinamiche delle imprese riconoscono la mutevolezza dell’ambiente, consentendo alle risorse dell’impresa di
adeguarsi dinamicamente all’evolversi delle caratteristiche determinanti l’ambiente di riferimento
dell’impresa. Esse, permettono alle risorse di non venir depauperate non tanto per la loro inadeguatezza in
termini assoluti, quanto per il fatto che non sono più idonee a confrontarsi con un ambiente che nel
frattempo si è modificato. In conclusione, quanto più un’impresa riesce ad adeguare il proprio patrimonio di
risorse alle esigenze che si si manifestano, tanto più l’impresa è in grado di sostenere il suo vantaggio
competitivo. Il patrimonio di risorse di cui dispone un’impresa non è in grado, da solo, di garantirne il successo
sul mercato. Le risorse, infatti, vanno gestite opportunamente e devono essere continuamente rinforzate ed
indirizzate. La capacità di gestire in modo adeguato le risorse genera le competenze dell’impresa.

Esistono tre tipologie di competenze:


1. Competenze standard, esse rappresentano una caratteristica minimale (competenze soglia) che giustifica
l’esistenza dell’impresa e una condizione necessaria ma non sufficiente per generare un vantaggio
competitivo. Sono competenze base per stare nel mercato, per operare nel business di riferimento. Sono un
patrimonio comune di qualsiasi impresa operante in un determinato business. Non averle significa non
sopravvivere
2. Competenze abilitanti, si tratta di competenze che garantiscono determinate performance nel breve e nel
medio periodo, riguardano le condizioni necessarie e sufficienti che ti consentono di competere nei contesti
di business attuali e in quelli non caratterizzati da dinamiche evolutive intense.
3. Competenze distintive, in questa caso siamo nel campo della pressoché assoluta esclusività (le imprese
pur operando allo stesso contesto possiedono competenze diverse ed esclusive) e della eccezionalità (non
tutte le imprese sono in grado di avere competenze distintive e non tutti i manager e imprenditori sono in
grado di individuarle, svilupparle e gestirle) e garantiscono il vantaggio competitivo.

Le tre tipologie di competenze si configurano sia in modo


specialistico sia, parallelamente, in modo trasversale, nel senso che
riguardano una pluralità di attività e di funzioni dell’impresa. Mentre
le competenze standard e abilitanti sono comunemente diffuse
all’interno del settore, le competenze distintive sono rare e firm
specific. In questo caso la distintività è strettamente legata
all’esclusività, nel senso che una determinata competenza
appartiene a un determinato competitor e solo a esso o in termini
assoluti (nessun altro la possiede) o in termini relativi (quel
concorrente possiede una determinata competenza a livello decisamente superiore a quello degli altri
concorrenti).

30
Taluni parlano di “competenze distintive”, ossia di competenze nelle quali l’impresa si distingue e sa far
meglio dei concorrenti. Altri introducono il concetto di core competence intendendo spesso con tale concetto
quello di core technologies: capacità di miniaturizzazione, di potenza, scienza dei materiali che portano a
prodotti con determinate caratteristiche: infrangibilità, velocità di elaborazione, piccola dimensione etc.
Esempi di imprese che hanno fondato il loro successo su una corretta articolazione delle competenze sono
numerosi. Canon, ad esempio, ha fatto leva sulle competenze nel campo delle componenti ottiche per
competere con successo in settori molto diversi, quali quello delle fotocopiatrici, delle stampanti laser, degli
scanner e delle apparecchiature fotografiche. 3M ha utilizzato le competenze sviluppate nella tecnologia ei
nastri adesivi (Scotch) diffondendole in altri contesti di mercato quali i blocchetti per appunti (Post-it), le
pellicole fotografiche, i prodotti per la cucina (Scotch Brite) ecc.

Ma le core competences possono anche non essere strettamente legate alle core technologies ma riferirsi a
capacità di processo: Esse possono connettersi a capacità più eterogenee che sfociano nel complesso delle
abilità accumulate dall’impresa attraverso articolati ed originali processi collettivi di apprendimento. Possono
fare riferimento alla capacità dell’impresa di sapere organizzarsi, di saper gestire non solo il prodotto ma
tutte le aree organizzative, i rapporti con i fornitori, con i clienti (es. ZARA).

Quanto più le capacità e le competenze di un’impresa sono incorporate nelle routines organizzative e sono
connesse al sistema organizzativo nel suo insieme, alla sua reputazione, alla sua storia tanto più esse sono
poco trasferibili ed imitabili e tanto più aumenta la capacità dell’impresa di realizzare risultati superiori alla
media Quanto più la capacità organizzativa si “eleva” rispetto alle capacità dei singoli membri e acquisisce
una sua dimensione collettiva tanto minore è il rischio di perdere tale capacità. Se, invece essa si identifica
con l’esperienza dei singoli dipendenti e quanto più tali dipendenti possono e vogliono far leva sul loro potere
contrattuale tanto più rischiosa è la perdita di tali capacità.

Consentono la realizzazione del vantaggio competitivo se sono:


- scarse (non facilmente ad ampiamente disponibili)
- rilevanti (presenti in quantità significative e legate a fattori critici di successo)

Consentono il mantenimento del vantaggio competitivo se sono:


- durevoli (reputazione)
- poco trasferibili (immobilizzazione geografica; insite in gruppo; firm specific)
- poco replicabili (se fondate su routines)

La necessità dell’impresa di dotarsi e di riconoscere le proprie competenze distintive è strettamente legata


al dinamismo tecnologico e alla continua evoluzione delle esigenze dei clienti. In un ambiente stabile, può
essere sufficiente perfezionare le proprie abilità, facendo leva sulle competenze standard e su quelle
abilitanti, ma cosi l’impresa non otterrà risultati di particolare rilievo; invece in presenza di elementi di
particolare incertezza, dinamismo e complessità ambientale il governo dell’impresa non può garantire
risultati positivi (neppure ai minimi livelli) se non ci si dota di qualcosa in più e di diverso dai concorrenti.
Questa eccellenza sta nella capacità di coordinamento, integrazione e di ottimale utilizzazione e sfruttamento
delle risorse possedute dall’impresa. Non tutte le risorse sono di difficile coordinamento e integrazione, ben
diverso è il discorso se si considerano le risorse immateriali. Coordinare e integrare questo tipo di risorse è
sicuramente una capacità di livello superiore, e rappresenta quel qualcosa in più che fa la differenza tra i
concorrenti.
Non è più sufficiente agire sulle combinazioni prezzo/performance, in quanto il prezzo non può garantire un
vantaggio per via delle progressive capacità imitative delle imprese operanti in paesi a basso costo, mentre
le performance tecniche vengono continuamente migliorate e superate dai concorrenti tradizionali.
Parallelamente, sul lato della domanda, le richieste sempre più articolate ed esigenti dei clienti e dei
consumatori e i comportamenti competitivi degli intermediari commerciali, rendono i settori e i mercati
molto più instabili del passato. Per poter competere in una pluralità di mercati aventi caratteristiche e

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dinamiche differenti, le imprese devono dotarsi di competenze superiori, trasversali a diversi mercati,
durevoli e non imitabili. Nel lungo periodo la capacità e il vantaggio competitivo di un’impresa sono contenuti
nella capacità di sviluppare competenze distintive più velocemente e a costi più contenuti di quanto siano in
grado di fare i concorrenti. Benché la teoria delle competenze distintive sia nata a sostegno delle strategie di
diversificazione, essa risulta del tutto accettabile in ogni contesto strategico d’impresa.
Le competenze distintive sono caratterizzate dalla compresenza di tre requisiti fondamentali:
1. Devono consentire all’impresa, di accedere e operare in mercati anche molto diversi tra di loro;
2. Devono incidere in modo significativo sugli attributi di differenziazione percepita dell’offerta;
3. Devono essere difficilmente imitabili da parte dei concorrenti e per questo motivo devono rappresentare
una barriera all’entrata di concorrenti potenziali e barriere alla mobilità all’interno del settore.

Un’ulteriore fondamentale caratteristica delle competenze distintive è la loro non deperibilità.


Contrariamente a quanto accade a qualsiasi risorsa materiale e a molti fattori produttivi che con l’utilizzo si
deteriorano e perdono di conseguenza valore, le core competencies (competenze distintive) si rafforzano
continuamente quanto più spesso vengono attivate. Il continuo incremento di efficacia e di validità delle
competenze distintive dipende principalmente da quanto esse sono applicate e condivise all’interno
dell’impresa; e su queste l’impresa basa la ricerca della propria posizione di vantaggio. In altre parole, quanto
più un’impresa esercita le proprie competenze distintive, tanto meno è raggiungibile dai concorrenti. Il
passaggio successivo all’identificazione delle core competencies riguarda la definizione delle caratteristiche
dei core products. Le competenze distintive, infatti, non devono rimanere a uno stato di astrazione ma
devono essere calate e incorporate nella fisicità dei prodotti. Si tratta, preferibilmente, di prodotti intermedi
che si collocano negli snodi critici della catena del valore ove si determinano le caratteristiche dei prodotti
finali da essi derivanti. Poi ci sono anche le attività non core, molto spesso nelle imprese, si sedimentano
attività che potevano essere importanti in passato ma che progressivamente perdono di rilevanza.
Frequentemente, però l’organizzazione non interviene prontamente per limitare l’uso o per eliminarle del
tutto e questo genera l’esistenza di sovrastrutture inutili e costose, non solo sul piano dei costi che esse
generano direttamente, ma anche e soprattutto perché sono un ostacolo al cambiamento.
Eliminare tutto ciò che non è core, fino a un ragionevole limite, può infatti consentire all’impresa di ottenere
significativi risparmi di costi, di liberare risorse di diverso tipo, indirizzandole al presidio e allo sviluppo delle
competenze veramente determinanti l’essere impresa e alla formulazione delle strategie più idonee.

32
Capitolo 5 Sviluppo delle imprese: strategie, modelli e strumenti per la crescita
5.1 Crescita e sviluppo

Obbiettivo dell’impresa è la crescita attraverso l’incremento del valore del capitale economico, che deriva da
una serie di flussi di cassa riconducibili alla combinazione di ricavi, costi, investimenti. Nell’attuale contesto
competitivo, le azioni principali dell’impresa rispondono alla necessità di:
1. Realizzare investimenti per intercettare e occupare nuovi spazi di mercato affrontando così la concorrenza
e accrescendo il potere contrattuale nei confronti di fornitori e clienti:
2. Aumentare l’efficienza dei processi produttivi e distributivi, rafforzando e consolidando le competenze
distintive;
3. Sviluppare relazioni forti con clienti, fornitori, partner di produzione, a cui sono connessi vantaggi
conoscitivi e competitivi.

Tali azioni si manifestano a volte con la crescita dimensionale e a volte con un miglioramento della gestione
senza un aumento o una variazione della dimensione aziendale. La crescita implica lo sviluppo, ma questi
sono due termini con diverso significato. Mentre un processo di crescita dimensionale, implica lo sviluppo
aziendale, viceversa, un processo di sviluppo non comporta necessariamente una crescita di tipo
quantitativo. Lo sviluppo riguarda un cambiamento dei rapporti impresa-ambiente.
Le imprese possono crescere secondo tre modalità:
1. Crescita quantitativa, si realizza per linee interne;
2. Crescita relazionale, essa consiste nell’ampliamento della rete del valore dell’impresa con il
coinvolgimento di diversi attori e lo sviluppo di interazioni con altre organizzazioni del mercato, al
fine della costruzione e del rafforzamento del vantaggio competitivo dell’impresa;
3. Crescita qualitativa, è rappresentata dal potenziamento delle competenze aziendali esistenti e dallo
sviluppo di nuove competenze, e questa tipologia rende dinamico il patrimonio delle competenze.

Lo sviluppo qualitativo e relazionale d’impresa non implicano, quindi, necessariamente una crescita
dimensionale in termini quantitativi. Si tratta di forme di sviluppo che caratterizzano soprattutto le piccole e
medie imprese, per le quali l’investimento diretto nella crescita dimensionale è oneroso e rischioso. Invece
queste due forme di crescita non risultano idonee per le grandi imprese che risultano eccessivamente
ingessate e burocratizzate per rispondere rapidamente e in modo flessibile ai cambiamenti dell’ambiente
esterno. Negli attuali contesti competitivi, le grandi imprese si deverticalizzano e si destrutturano, con ampio
ricorso all’outsourcing, dando vita ad assetti intra e interorganizzativi di tipo reticolare.
Negli studi che riguardano lo sviluppo dell’impresa minore si identificano due approcci. Il primo, considera la
piccola e media impresa come un’organizzazione di transizione destinata a diventare grande oppure a sparire
dal mercato, poiché la crescita dimensionale è considerata un percorso necessario e inevitabile se si vuole
rimanere sul mercato. Il secondo filone di studi riconosce, invece, la stabilità della piccola dimensione e
riconosce che ogni organizzazione può raggiungere il suo equilibrio economico indipendentemente dalla
dimensione. Per riassumere, secondo gli studiosi del primo approccio vi è una diretta corrispondenza tra
sviluppo e crescita dimensionale, mentre per quelli del secondo approccio lo sviluppo è concepito come un
processo di crescita qualitativa che si basa su un cambiamento delle relazioni tra impresa e mercato.
Saturata la capacità produttiva dei propri impianti, un’impresa può ricorrere all’esterno per fare produrre
l’eccedenza richiesta dai suoi clienti. Poiché l’assetto organizzativo e la struttura/capacità manageriale
costituiscono un limite alla crescita dimensionale l’impresa può crescere “per linee esterne”.

Tra gli studi sui percorsi di crescita dell’impresa troviamo il modello di Greiner (1972), questo è un modello
biologico che evidenzia cinque stadi di sviluppo delle imprese – creatività, autorità, delega, coordinamento,
collaborazione – sottolineando che, in ogni stadio, si pongono le premesse di mutamenti organizzativi che si
devono produrre negli stadi successivi. Il passaggio da uno stadio all’altro è determinato da una situazione di
crisi che impone un cambiamento manageriale. Il fattore principale del cambiamento organizzativo è

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l’aumento della dimensione, mentre le imprese che permangono nella stessa dimensione possono
conservare le stesse logiche manageriali per prolungati periodi di tempo. In ogni stadio del ciclo vi è una
prima fase di sviluppo evolutivo che non richiede cambiamenti nelle logiche manageriali e una seconda fase
in cui viene meno la validità di tali logiche e si impongono nuove regole organizzative per evitare il declino o
lo sviluppo frenato.

Il modello di Greiner

Le fasi sono le seguenti:


1) La crescita tramite creatività dell’imprenditore fondatore, caratterizzata da molta informalità nella
gestione, che con il passare del tempo risulta inadeguata e chiede una nuova forma di leadership (crisi di
leadership).
2) La crescita tramite autorità che prevede la razionalizzazione delle funzioni chiave e l’accentramento dei
poteri decisionali ma che conduce a una crisi di autonomia da parte dei collaboratori.
3) La crescita tramite delega che fa perno sulle strutture decentralizzate e una diminuzione del potere dei
vertici che sfocia in una crisi di controllo.
4) La crescita mediante coordinamento che si rende necessaria per l’autonomia decisionale diffusa
nell’organizzazione e che porta a una crisi di burocrazia.
5) La crescita mediante collaborazione che prevede strutture più flessibili e modalità gestionali basate sulla
valorizzazione dei rapporti interpersonali e il mutuo adattamento.

Il modello di Greiner e altri modelli di sviluppo a stadi sono stati criticati da molti in quanto si è osservato che
molte imprese minori, oltre a decidere di non crescere, possano intraprendere percorsi di crescita non lineari
e discontinui, utilizzando varie strategie alternative.

5.2 Il concetto di strategia e le decisioni strategiche

Precisato il concetto dimensionale in chiave competitiva, possiamo ora entrare nel merito delle scelte
strategiche attraverso le quali il management persegue lo sviluppo

Il concetto di strategia e il processo strategico


Il termine “strategia” può essere riferito a un momento progettuale oppure a un risultato. In un’ottica
progettuale, la strategia si configura come un’intenzione, un risultato futuro desiderato. In un’ottica di
risultato, la strategia riflette le azioni intraprese per raggiungere il risultato voluto. In una visione integrata
delle due prospettive, la strategia riguarda la determinazione delle finalità e degli obbiettivi di lungo periodo
dell’impresa (ottica progettuale) e l’attuazione delle linee di condotta e l’allocazione delle risorse necessarie
per il perseguimento degli obbiettivi prefissati.

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Al concetto di strategia vengono ricondotti quelli di strategic thinking, ovvero l’attenzione a un pensiero
creativo, intuitivo e innovativo che si traduce in attività d’impresa, e di strategic planning, ovvero un
momento di pianificazione, un approccio decisionale di tipo razionale che presuppone un momento analitico
e un successivo momento implementativo (strategic implementation).
In particolare, secondo gli autori, il processo che dà luogo al risultato strategico è assai complesso. La
strategia intenzionale è spesso solo l’innesco del processo, e può essere il frutto sia di analisi strategiche
formali sia di intuizioni dell’imprenditore (valutazioni informali). In fase di realizzazione non tutte le iniziative
prospettate vengono sempre deliberate, una parte può essere rimossa o del tutto abbandonata. Le stesse
azioni deliberate non necessariamente coincidono con la strategia – risultato. Varie ragioni interne ed esterne
all’impresa possono indurre, anche nel proseguo del processo realizzativo, a non concludere parte delle
azioni deliberate. In tal senso concorrono in misura significativa le cosiddette emergenze, vale a dire i fattori
nuovi, non previsti, ma interessanti, che inducono a modificare in misura più o meno rilevante le azioni
intraprese.

Stadi e componenti della strategia

Lo schema strategico proposto da Mintzberg e Waters dimostra che la strategia realizzata deriva da due
componenti fondamentali: la strategia deliberata e la strategia emergente.
La strategia deliberata è connessa essenzialmente alle funzioni aziendali di direzione e di controllo, quindi
definita formalmente in un documento di piano; invece la strategia emergente non deriva da un processo
formale di pianificazione ma nasce dall’apprendimento strategico, dall’esperienza e dall’intuizione nella
lettura del cambiamento.

Visione, missione e business idea


Alla nascita e allo sviluppo di ogni impresa si ritrovano i concetti di visione, missione e business idea.
 Visione
La visione è ciò che l’impresa potrebbe/dovrebbe diventare entro un determinato periodo di tempo futuro,
ovvero un’idea del futuro atteso, un punto di arrivo condiviso e raggiungibile verso il quale devono
convergere tutti gli obbiettivi e tutte le attività aziendali.
Alcuni parlano di motivazione strategica (strategic intent), l’aspirazione di lungo termine dell’impresa come
motivazione delle risorse umane.
Essa può essere definita anche come l’ideologia al cuore dell’impresa, non si modifica e si compone di due
parti: core values (valori base), che sono i principi guida secondo i quali l’impresa porta avanti la sua azione
non in quanto essi sono efficaci dal punto di vista del mercato, benché perché vengono riconosciuti come
principi sani e rilevanti; e poi ci sono i core purpose (obbiettivo base), e rappresenta la ragione per cui esiste
l’impresa e riflette le motivazioni realistiche che portano le persone a lavorare per l’azienda.
La visione si compone di:
•Valori base (core values – p.e. servizio eccellente, tecnologia più avanzata; creatività, responsabilità sociale)
•Obiettivo di base (core purpose – la ragione per cui esiste l’impresa: fare ricerche di mercato, produrre
materiali ecc.)
•Obiettivi visionari (visionary goals – possono tradursi in:

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•Il raggiungimento di determinati target: p.e. Ford voleva “democratizzare” l’uso dell’auto)
•Diventare come un’impresa “tipo” di un’altra industria: p.e. diventare la Nike delle biciclette
•Diventare il numero 1 in un settore
 Missione
Dalla visione scaturisce la missione dell’impresa. La missione esprime l’attività fondamentale, ovvero ciò che
l’impresa fa o si propone di fare. Il concetto di missione ruota intorno a tre elementi.
1. L’ampiezza dell’offerta o del portafoglio prodotti/servizi  quale bisogno soddisfa
2. L’ampiezza del mercato di riferimento anche dal punto di vista geografico → quale è il mercato di
riferimento
3. Le competenze distintive su cui l’impresa costruisce il posizionamento nel lungo termine→ elementi che
differenziano le imprese tra di loro e su cui costruiscono il loro posizionamento nel lungo periodo

Cosa molto importane è che la missione si caratterizzi per un forte orientamento al mercato piuttosto che al
prodotto. In questi termini, occorre che (i) la missione sia incentrata sui bisogni che l’impresa vuole
soddisfare; (ii) deve essere significativa, specifica e motivante; (iii) deve esaltare i punti di forza distintivi
dell’impresa sul mercato e (iv) non deve essere espressa in termini di vendita e profitti.

 Business idea
La business idea (o idea imprenditoriale), che richiama i fattori imprenditoriali sottostanti l’origine di
un’impresa, è una componente strategica di origine soggettiva. Essa definisce la natura dell’attività
economica produttiva verso cui convoglieranno le energie personali e i capitali dell’imprenditore.
Gli elementi costitutivi la business idea sono: il segmento di mercato cui l’impresa si rivolge, il prodotto
offerto e la struttura organizzativa (composta di sistemi manageriali e di controllo). Solo se tra questi
elementi vi è una forte corrispondenza, la business idea ha i presupposti per essere di successo.
Pur presentando caratteri di istintività, una business idea può essere “imitativa” o “innovativa”. La business
idea imitativa scaturisce da opportunità già presenti sul mercato, anche se essa richiede comunque capacità,
poiché la creazione di un’impresa, generando un sistema nuovo e originale di risorse e relazioni, è
fisiologicamente innovativa; la business idea innovativa invece genera nuovi mercati, essa coincide con una
riconosciuta opportunità di profitto che deriva dall’innovazione tecnologica o dalla percezione di bisogni
nuovi e insoddisfatti cui provvedere con tecnologie nuove o consolidate.
I tre elementi principali sono: segmento di mercato (target di riferimento), prodotto/offerta, struttura
organizzativa (modo di realizzare ed erogare l’offerta). Occorre consonanza tra questi elementi che sono alla
base dell’avvio dell’impresa. La business idea è anche un prodotto storico, frutto di un processo di
apprendimento e come tale unica.
La dissonanza tra i tre elementi principali e tra diverse sottocomponenti di uno stesso elemento possono
essere causa di business idea sterili, una dissonanza molto comune è quando parti diverse della struttura
interna dell’impresa non riescono a coordinarsi e armonizzarsi e non riescono dunque a offrire un disegno
coerente della business idea. Infine, i forti cambiamenti presenti sul mercato impongono anche revisioni della
business idea, l’impresa dovrà immediatamente reagire intervenendo sui tre elementi per riportarli in
equilibrio tra di loro.

I livelli di gestione dell’impresa


All’interno dell’impresa si distinguono tre livelli gestionali:
1) La gestione strategica, ha per oggetto le decisioni che vincolano l’impresa nel medio – lungo termine e
che vertono primariamente sulle definizioni dei rapporti con l’ambiente esterno;
2) La gestione direzionale, è dove le decisioni prese nel primo livello, prima di diventare esecutive vengono
sviluppate, e questa tipologia di gestione comprende la programmazione, l’organizzazione e il controllo;
3) La gestione operativa, con questa si traducono materialmente le attività definite a livello strategico e
direzionale.

Le decisioni strategiche a loro volta riguardano tre livelli strategici:


a. Le strategie complessive (o di corporate), e riguardano l’attività complessiva dell’impresa;

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b. Le strategie di business (o competitive), che riguardano l’attività di singole unità di business o divisioni, e
qua troviamo le ASA o SBA dove la business strategy è riferita a specifiche aree strategiche d’affari; e le SBU,
dove ogni strategia è indirizzata a una specifica combinazione di prodotto/mercato di cui è responsabile una
specifica unità di business strategica.
c. Le strategie funzionali, specifiche di singole aree funzionali (produzione, finanza, marketing ecc).

Le strategie di corporate che conducono allo sviluppo dell’impresa sono di diverso tipo:
- integrazione orizzontale, che si realizza quando l’impresa decide di estendere la propria attività nello
stesso settore;
- integrazione verticale, consiste nell’estensione di attività in fasi della filiera produttiva poste a monte
o a valle dell’impresa;
- la diversificazione produttiva, che si estrinseca con l’estensione in nuove ASA che comportano nuove
competenze manageriali e/o di marketing. Vi sono anche strategie di corporate non finalizzate allo
sviluppo bensì al risanamento e alla ristrutturazione dell’impresa.

Queste strategie di corporate possono essere realizzate con differenti modalità:


 La crescita per vie interne, che consiste nella realizzazione di nuove attività;
 La crescita per vie esogena, ovvero attraverso l’acquisizione di aziende o rami di aziende già esistenti
o attraverso la fusione con altre imprese;
 La modalità contrattuale, consiste nella costituzione di alleanze o forme di cooperazione con altre
impresa;
 Interventi di corporate restructuring che da generalmente luogo a un ridimensionamento delle
attività complessive dell’impresa.

5.3 Gli strumenti per la crescita

Le economie al servizio della crescita e dello sviluppo dell’impresa


Alla base delle strategie di crescita e di sviluppo delle imprese, vi sono alcuni fattori che si configurano come
differenziali economici della competitività aziendale.
La letteratura economico-manageriale ha identificato diverse possibili fonti di riduzione del costo medio
totale nelle singole imprese, riconducibili essenzialmente alle seguenti:
- Economie di scala
- Economie di gamma
- Economie di esperienza
- Economia di elasticità e di adattabilità produttiva
- Economie di rete
- Economie di potere di mercato
- Economie di localizzazione
- Economie di agglomerazione

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Tutte queste forme di economie costituiscono possibili strategie per contenere i costi medi totali di
un’impresa. Ogni impresa può assumere una decisione fondata sulla presenza e sullo sfruttamento di una o
più di queste diverse forme di economie. In effetti, molte di esse non sono affatto alternative tra loro ma
possono essere congiuntamente perseguite.

Le economie di scala
Le economie di scala consistono nella riduzione del costo medio totale per effetto dell’aumento della scala
dimensionale degli impianti. Pertanto, le economie di scala realizzano un vantaggio di costo a favore
dell’impresa con maggiori dimensioni rispetto a un’altra di dimensioni minori.
Le economie di scala sono concettualmente legate al lungo periodo, ossia quando l’impresa si trova nelle
circostanze di dover scegliere un determinato impianto produttivo da cui deriva specificatamente una data
capacità produttiva. Al contrario, una volta assunta tale decisione di investimento, l’impresa si troverà a
svolgere la propria attività nel breve periodo, in quanto non potrà più modificare la capacità produttiva
dell’impianto ma solamente variare la quantità del bene prodotto agendo su altri fattori quali materie prime
e forza lavoro.

Le economie di gamma
Le economie di gamma, chiamate anche economies of scope, consistono nella riduzione del costo medio
totale per effetto della produzione congiunta, nella stessa impresa, di due o più bene, comparativamente alla
loro produzione disgiunta in differenti imprese. Sul piano analitico, indicando con y1 e y2 due differenti
prodotti, ne deriva che: c (y1,y2) < c (y1,0)+ (0,y2)

Dalle economie di scopo derivano efficienti strategie di differenziazione dei prodotti o di diversificazione
correlata dal lato dell’offerta.
Sebbene queste economie presentino analogie e motivazioni simili alle economie di scala, se ne differenziano
in quanto mentre le economie di scala si riferiscono ai risparmi di costo realizzati dall’incremento del volume
di produzione del singolo output, le economie di scopo sono risparmi di costo ottenuti da un incremento
della varietà dei prodotti.

Le economie di esperienza
Le economie di esperienza consistono nella riduzione del costo medio totale per effetto dell’apprendimento
che si realizza nei metodi e nei processi di produzione economica di un determinato prodotto.
Con le economie di esperienza, la competitività in termini di costo deriva dalla natura ripetitiva e ripetuta nel
corso del tempo delle attività. Tutte le imprese, a prescindere dalla scala di produzione adottata, beneficiano
delle economie di esperienza per effetto della produzione cumulata, nel corso del tempo, che realizzano. Per
questa ragione, esse fanno parte dei vantaggi assoluti di costo, ossia di una competitività di costo a
prescindere dal livello della produzione realizzata.

Le economie di elasticità e di adattabilità produttiva


La comparazione economica tra due differenti impianti può non fondarsi strettamente sulla loro dimensione
efficiente, ossia sul livello delle economie di scala, ma sulla diversa reattività dei loro costi medi totali a fronte
di una variabilità periodica della domanda dei loro prodotti.
Per elasticità si intende la possibilità di una sottoutilizzazione dell’impianto, senza che il costo medio del
prodotto aumenti in misura tale, da non essere più competitivo.
Di fronte alla variabilità della domanda, può così essere preferibile dotarsi dell’impianto che possiede una
maggiore elasticità. In questo senso, l’impresa che si dota dell’impianto più elastico è in grado di ottenere
economie (dette appunto elasticità). Questo perché le oscillazioni della domanda sono meglio assorbite e
comportano minori costi medi totali.
Il concetto di elasticità produttiva non deve essere confuso con quello di adattabilità produttiva, in quanto
quest’ultimo confronta due impianti con dimensione produttive differenti. Anche in questo caso, la variabilità
della domanda può far sì che l’impianto con una dimensione produttiva inferiore sia da preferire rispetto a
un impianto con dimensione produttiva superiore, proprio in virtù delle sue oscillazioni.

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Il perché un impianto presenta grandi differenze di elasticità o adattabilità produttiva dipende dalla
possibilità di modificare il mix impiegato di fattori produttivi per realizzare un determinato prodotto. La
variabilità periodica della domanda dei prodotti può pertanto spingere un’impresa ad adottare impianti
elastici o adattabili.

Le economie di rete
Le economie di rete consistono nella riduzione del costo medio totale per un’impresa per effetto
dell’adozione, da parte sua, di un determinato input (per esempio una determinata tecnologia) che beneficia
di un’ampia diffusione sul mercato.
In altri termini, si hanno economie di rete, o network externality, quando il valore economico di un
determinato bene o servizio acquistato da un soggetto è tanto più grande quanto maggiore è il numero delle
unità vendute sul mercato.
Le economie di rete non vanno confuse con le economie di scala. Il produttore di telefoni, beneficerà della
crescita della domanda di mercato di tali beni, e quindi sfrutterà le relative economie di scala. Ma l’acquirente
di un apparecchio telefonico beneficerà delle economie di rete, dipendenti dal fatto che vi è una generalizzata
adozione, da parte di molti soggetti, di questo bene, non dovendo più ricorrere a forme alternative di
comunicazione maggiormente onerose.
Le economie di rete si hanno per effetto della riduzione del costo medio totale in seguito all’adozione
generalizzata di un determinato input da parte di una molteplicità di interlocutori. Le economie di rete
possono pertanto considerarsi economie di scala dal lato della domanda: più un bene o un servizio è stato
venduto e, quindi, adottato da una molteplicità di imprese clienti, più viene domandato da altre imprese che
sino allora ne sono state prive.
Efficaci strategie di marketing da parte delle imprese produttrici in grado di influenzare le aspettative dei
clienti effettivi e potenziali hanno dimostrato nella storia che non sempre la tecnologia migliore riesce ad
alimentare network più ampi rispetto ad una inferiore.
Politiche di pricing molto aggressive, nonché politiche di comunicazione possono indirizzare i volumi di
acquisto a favore di un determinato produttore. Una volta acquistato il mercato rilevante, l’impresa leader
sa che esistono forti switching cost a carico degli utilizzatori a passare da uno standard all’altro, con effetti
lock – in molto rilevanti. Per quest’ultimi, infatti, cambiare una tecnologia, con i relativi costi e tempi di
apprendimento all’uso, nonché alla comparazione tra i benefici attesi e tempi di apprendimento all’uso,
nonché alla comparazione tra i benefici attesi in relazione all’adesione al nuovo network good rispetto al
network good che si lascia.
In questo senso, un bene che conquista rapidamente quote di mercato rispetto ai competitors possiede
maggiori opportunità di sopravvivenza poiché gode di un vantaggio di selezione, ovvero i nuovi futuri
adottanti sono spinti a far proprio il bene più diffuso o che presumono sarà il più diffuso.
Per i produttori di un network good che gode di un’ampia base di utenti, gli switching cost permettono il
mantenimento dei propri clienti nel proprio network e ne rendono problematica l’uscita (lock – in) al fine di
adottare prodotti o tecnologie alternative, realizzate da un concorrente.
Le economie di rete sono particolarmente evidenti nei settori dell’informatica e delle telecomunicazioni dai
sistemi operativi al fax alla posta elettronica sino ad arrivare ai video game.
In definitiva le economia di rete per gli utilizzatori determinano economie di scala per i produttori.

Le economie di potere di mercato


Il potere di mercato può essere definito, come “a firm’s ability to influence the actions of others in a
productmarket”. Pertanto, il potere di mercato si manifesta in tutte le situazioni nelle quali un’impresa può
esercitare un suo grado di influenza su altri soggetti economici che interagiscono con essa (fornitori, clienti,
concorrenti, istituzioni pubbliche ecc.).
Di conseguenza, il potere di mercato può avere due ordini di implicazioni competitive. Da un lato, esso può
agire sui costi medi totali dell’impresa, con una loro riduzione, grazie ad esempio ai minori costi di acquisto
di materie prime presso i fornitori oppure a una regolamentazione pubblica favorevole di cui l’impresa
beneficia. Dall’altro lato, il potere di mercato può invece avere implicazioni sui ricavi dell’impresa, grazie ad
esempio ai maggiori prezzi che riesce a praticare per la vendita dei propri prodotti rispetto a quelli dei

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concorrenti, oppure alla possibilità di istituire barriere strategiche all’entrata nei confronti dei potenziali
entranti. Le determinanti delle economie di potere di mercato sono da ricondurre essenzialmente a due
impostazioni teoriche: la concentrazione della struttura del mercato e le asimmetrie informative nelle
relazioni con fornitori e clienti. La concentrazione della struttura di mercato determina l’esistenza di posizioni
dominanti detenute da alcune imprese sino a configurare l’esistenza di mercati monopolistici o oligopolistici.
La concentrazione dipende dalla numerosità e dalla dimensione relativa delle imprese che compongono una
determinata struttura di mercato. Come conseguenza finale dell’esistenza delle economie di potere di
mercato si ha la possibilità di conseguire extraprofitti da parte delle imprese.

Le economie di localizzazione
Le economie di localizzazione consistono nella riduzione del costo medio totale, conseguito da un’impresa,
per effetto della sua localizzazione (o della localizzazione di alcune sue parti, quali taluni stabilimenti
manifatturieri o talune sue consociate commerciali o specifiche unità organizzative di Ricerca & Sviluppo) in
una determinata area geografica.
Queste economie di localizzazione dipendono quindi dal contesto localizzativo che, con le sue caratteristiche
e la sua dotazione di fattori, può risultare funzionale rispetto a talune esigenze di un’impresa, limitandone i
suoi costi medi totali.
In effetti, un’impresa si trova a operare, in astratto, su diversi mercati per approvvigionarsi di differenti input.
Ogni area geografica ha una sua specifica dotazione di fattori e quindi questi differenti mercati possono
mostrare diversi livelli di efficienza e concorrenzialità, influenzando il costo medio totale di un’impresa.

Le economie esterne di agglomerazione


Le economie esterne di agglomerazione sono un sottoinsieme particolare delle più estese economie di
localizzazione. Esse sono strettamente connesse alla competitività delle imprese localizzate nei distretti
industriali.
I distretti industriali sono particolari configurazioni economiche, sociali e istituzionali, fondate sulle piccole
imprese, ciascuna specializzata in una fase di lavorazione, operanti all’interno di una filiera manifatturiera e
nell’ambito di un’area geografica ristretta, ma tutte insieme orientate alla realizzazione manifatturiera e alla
commercializzazione di un prodotto finito. Le fonti della competitività di un distretto industriale sono le
economie esterne di agglomerazione, esse derivano dal fatto che tutte le imprese, perseguendo la propria
specializzazione in una determinata area, contribuiscono a ridurre il costo medio totale di ciascuna di esse.
In un distretto industriali operano numerose piccole imprese, ciascuna specializzata in una fase di
lavorazione, nell’ambito della filiera, ma tutte insieme orientate alla realizzazione manifatturiera e alla
commercializzazione di un prodotto finito.
È, pertanto, la specializzazione manifatturiera dell’area, nonché la presenza di un consistente numero di
piccole imprese, la determinante dell’esistenza di queste economie esterne di agglomerazione.

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Capitolo 6 L’analisi per le scelte strategiche
6.1 I contenuti dell’analisi strategica
La pianificazione strategica è il processo formale di definizione delle scelte strategiche.

Pianificazione e analisi strategica


Ogni approccio alla pianificazione strategica privilegia determinate analisi conoscitive. Il primo approccio alla
pianificazione strategia, il long range planning, pone l’attenzione sui vincoli endogeni che risultano critici per
lo sviluppo dell’azienda (fonti di finanziamento, risorse manageriali e tecnologiche ecc.), e in questo modello
viene posta in secondo piano o addirittura rimossa l’analisi dell’ambiente esterno.
La valutazione dei fattori ambientali trova invece una forte attenzione nell’approccio dello strategic planning,
incentrato sull’analisi ambientale per il riposizionamento strategico, perciò l’attenzione del top management
viene spostata dai vincoli endogeni alle variabili esogene ritenute più cruciali.
Con la crescita della complessità dell’ambiente, si sono dimostrate insufficienti pure le tecniche sofisticate
per il trattamento delle variabili ambientali, anche a causa della frammentazione del processo strategico nel
momento della formulazione della strategia (lo strategic planning process) e in quello della sua
implementazione. Il raccordo tra l’impresa e l’ambiente viene recuperato nell’approccio dello strategic
management, volto all’individuazione di questioni ambientali importanti e all’elaborazione di adatti
strumenti operativi per accrescere la capacità adattiva dell’impresa alle criticità ambientali.
La connotazione contingentistica dello strategic management però ha sacrificato la progettualità sistematica
e di medio – lungo termine richiesta dalla pianificazione strategica, che viene privilegiata nel successivo
orientamento dello strategic thinking. Qui l’analisi strategica riflette il passaggio da un’ottica di compressione
della complessità, o di adattamento alla stessa, a una logica costruttiva, intesa a captare nella
varietà/variabilità ambientale i segnali di nuove opportunità di sviluppo.
A seconda delle conoscenze richieste per il governo delle imprese, e perciò in relazione all’approccio di
pianificazione, cambia dunque il mix di analisi richieste per la scelta delle decisioni fondamentali. Possiamo
infatti definire l’analisi strategica come il processo mediante il quale viene acquisita ed elaborata conoscenza
utile per la formulazione delle scelte strategiche, all’interno e all’esterno delle imprese, utilizzando quegli
strumenti proposti nel tempo dai diversi approcci alla pianificazione aziendale. Lo stesso mix cambia anche a
seconda del livello di analisi, e si distingue anche sul piano esecutivo, dato che ogni singolo strumento di
analisi può essere applicato totalmente o parzialmente, con un diverso grado di approfondimento, a
differente raggio di estensione della realtà da comprendere, e così via.

Schema di processo strategico


Il comportamento strategico leggibile nella storia di un’impresa è il risultato della realizzazione di un disegno
posto in atto dal soggetto imprenditoriale. È infatti utile distinguere il processo strategico, cioè “il cammino
evolutivo che un’impresa ha percorso nel tempo”, dalla strategia aziendale, ovvero da “una possibile via di
evoluzione dell’impresa”. I due aspetti del processo strategico sono però strettamente interdipendenti anche
sul piano progettuale, nel senso che l’elaborazione di una strategia trova spesso l’innesco nella posizione di
mercato e nella rivisitazione di strategie/politiche in corso.

Le variabili che concorrono a definire una strategia d’impresa possono essere visualizzate secondo uno
schema logico. Si muove dall’analisi preliminare dell’aziendale per verificare la posizione competitiva, onde
rilevare le aree di problemi e i differenziali competitivi rispetto alle concorrenti, poi è la fase
dell’identificazione delle cosiddette asimmetrie circa la redditività, la quota di mercato, la crescita ecc. Per
rilevare la situazione serve perciò una diagnosi aziendale che consente di orientare l’analisi strategica.
Per il superamento di queste asimmetrie, l’impresa svolge prima di tutto un’analisi ambientale esogena onde
cogliere i fattori più rilevanti. Consiste nell’identificazione dei fattori critici della dinamica ambientale che si
riflettono sulle prospettive di sopravvivenza e sviluppo delle imprese.
Segue l’analisi endogena, che consiste nell’identificazione dei punti di forza e debolezza dell’impresa, con i
quali valutare in che misura le alternative strategiche potenziali possono diventare fattibili. Si tratta, in breve,

41
di confrontare la dotazione di risorse e competenze aziendali attuali e potenziali con le condizioni necessarie
per sfruttare le opportunità o per fronteggiare le minacce.
In seguito la definizione delle alternative strategiche e poi la scelta delle opzioni strategiche (business plan)
che passa attraverso il filtro della valutazione culturale e intersoggettiva del management e del grado di
accettabilità da parte di taluni stakeholder. In sostanza si fa una valutazione del brand identity e come lo si
identifica. La strategia che viene scelta dal vertice imprenditoriale dipende infatti da una negoziazione che si
svolge sia all’interno che all’esterno dell’impresa. In altre parole, l’orientamento strategico definito dal
soggetto imprenditoriale e il perseguimento dei fini risentono in primo luogo dei vincoli posti dall’impresa e
in secondo luogo dall’influenza di soggetti interni ed esterni che, in relazione al loro potere contrattuale, sono
in grado di negoziare le condizioni del proprio consenso al processo aziendale. Infine gli ultimi step sono:
valutazione di fattibilità, implementazione e realizzazione, percorso strategico, controllo strategico.

Le scelte strategiche vanno poi valutate in base ai ritorni in termini di reddito, quota di mercato ecc. Serve
quindi un piano economico – finanziario, il quale costituisce il riferimento – guida per il management. Dal
confronto fra gli obbiettivi da perseguire e i risultati realizzati si traggono utili indicazioni per il controllo
dell’attività dell’impresa e perciò dello stesso management, nonché le informazioni per l’attivazione di
meccanismi di feedback per apportare eventuali modifiche alle azioni intraprese.

6.2 Diagnosi strategica

Benché una strategia aziendale consista in un insieme di atti proiettati nel futuro, l’iter analitico per la
formulazione delle scelte strategiche deve muovere dalla situazione storica, e in particolare dalla
performance aziendale, che viene qualificata secondo la dimensione economica e competitiva.

Performance economica. Il valore del capitale


La ricchezza creata dall’impresa in un certo periodo di tempo può essere misurata attraverso il capitale netto,
questo può essere determinato con la somma algebrica delle seguenti componenti: conferimenti dei soci
(capitale sociale), utili e perdite dei vari esercizi gestionali e accumulati nelle riserve, prelievi effettuati dai
proprietari (i dividendi nel caso della SPA). Esso deriva altresì dal totale delle attività nette meno i debiti. Il
capitale netto, comparato con il capitale sociale, indica se le risorse investite inizialmente sono aumentate o
hanno subito una decurtazione. Questo parametro presenta però dei limiti ai fini della valutazione della
creazione di valore. In altre parole, il patrimonio netto registra la storia della generazione di ricchezza ma
non tiene conto delle potenzialità economiche e competitive dell’impresa. Per qualificare la performance
complessiva occorre valutare i redditi che l’impresa sarà in grado di produrre in futuro. Va in questa direzione

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la categoria del capitale economico, dato dalla somma attualizzata dei flussi futuri al netto del valore attuale
dei flussi pagati ai finanziatori (interessi passivi e rimborsi), cioè la differenza tra valore dell’impresa e valore
del debito. Questa grandezza esprime meglio la capacità reddituale dell’impresa.

La performance competitiva. Le matrici di posizionamento


La performance competitiva di un’impresa o di una business unit viene generalmente esaminata secondo
due fondamentali dimensioni: l’attrattività del settore e il successo di mercato. La prima dimensione
rappresenta la potenziale redditività producibile nel settore/mercato; la seconda indica la capacità aziendale
di andare a captare parte di detto potenziale in contrapposizione ad altre forze economiche. Per visualizzare
la posizione competitiva vengono utilizzate le cosiddette matrici portafoglio, strumenti introdotti da società
di consulenza.
Il primo strumento proposto è quello del Boston Consulting Group (matrice BCG). Esso viene rappresentato
con una matrice definita da due variabili: il tasso di sviluppo del settore, che è un indicatore esterno di
attrattività; e la quota di mercato relativa (rapporto tra il valore dell’offerta collocata dall’azienda e il valore
della quantità immessa dal maggiore o dai maggiori concorrenti nella medesima area di mercato), che è un
indicatore interno/esterno di competitività. Questa matrice però presenta dei limiti, in quanto si valuta la
competitività secondo un criterio sostanzialmente finanziario, e più esattamente in base alla capacità
aziendale di generare flussi netti di liquidità, è quindi più adatta per l’analisi del posizionamento dei prodotti.

Per superare tali limiti, sono state proposte altre versioni, tra queste trova un diffuso impiego la matrice
multicriterio, quella della General Electric (matrice GE). Rispetto alla prima, questa matrice è basata su
un’analisi più complessa, nonché più aperta, nel senso che lascia all’analista il compito di definire i criteri che
appaiono più consoni per misurare i due assi della matrice.

Un’alternativa alle analisi portafoglio può essere data da una semplice matrice a quattro sezioni o matrice
della performance relativa costruita su due variabili: la redditività e la competitività della business unit
dell’azienda. I valori delle due variabili vanno calcolati in termini relativi, cioè in relazione al settore, ai
concorrenti o al tempo. Il parametro della redditività può essere espresso dal reddito operativo, dalla
redditività delle vendite o dalla contribuzione. Per misurare la competitività, il parametro principale è
senz’altro costituito dalla quota di mercato. La dimensione relativa può essere costruita rispetto al settore, a
concorrenti, all’impresa stessa (trend di competitività e redditività).
La redditività può essere espressa da valori economici (Roi, Roe, ecc.). La competitività può essere
rappresentata dall’andamento delle vendite

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La comparazione del business. Il benchmarking
Si tratta di una metodologia orientata all’analisi delle esperienze di successo di altre organizzazioni e alla loro
trasposizione in una specifica realtà aziendale. Si distinguono diversi livelli di analisi: interno, competitivo,
non competitivo.

Il benchmarking interno, è teso a confrontare e migliorare prassi e prestazioni di unità organizzative


(divisioni, funzioni, sedi territoriali) che fanno parte della medesima struttura.
Il benchmarking competitivo, consiste nel confronto con le prassi delle migliori aziende appartenenti al
proprio settore. Esso si propone di comprendere i fattori determinanti del vantaggio acquisito dai
concorrenti. La difficoltà principale, in questo caso, consiste nel reperire informazioni sulle aziende
concorrenti, che ovviamente sono restie a fornire gli elementi necessari per svolgere un efficace processo di
valutazione.
Il benchmarking non competitivo è finalizzato a confrontare le migliori prassi e performance di determinate
funzioni o processi, anche se riferiti ad aziende non appartenenti al medesimo settore e/o mercato. Si tratta
del tipo di benchmarking che ha le maggiori potenzialità per conseguire miglioramenti.
Dal punto di vista operativo, per lo svolgimento del benchmarking si procede secondo questi passaggi logici:
1. Definizione dei fattori da rilevare nelle unità di confronto che si ritengono importanti per la comparazione;
2. Confronto tra la propria organizzazione e quella dei soggetti scelti come riferimento relativamente ai fattori
rilevati;
3. Individuazione di comportamenti e strategie dei soggetti che si rivelano vincenti;
4. Focalizzazione e discussione delle problematiche connesse al divario e al relativo superamento.

6.3 Delimitazione dell’ambiente operativo

Settore e mercato. La segmentazione


L’analisi dell’ambiente esterno volta all’identificazione dei fattori più rilevanti in ordine alla formulazione
della strategia aziendale impone la definizione di confini. Il primo riferimento in tal senso è costituito dal
settore di appartenenza dell’impresa, in cui acquisire informazioni su concorrenti, clienti, fornitori ecc.
Il settore può essere inteso come l’insieme delle imprese con produzioni simili o sostituibili. Di fatto, è assai
difficile stabilirne i confini, e per questo, spesso, il contesto settoriale appare definito troppo genericamente.
Ai fini dell’analisi strategica risulta utile privilegiare il versante del mercato, dato che un settore può anche
essere inteso come l’insieme di imprese che si rivolgono allo stesso mercato. Settore e mercato sono due
concetti complementari, ma che vanno distinti. Mentre il settore viene individuato per la similarità
dell’offerta, il mercato è dato da un insieme di consumatori che esprimono la domanda di prodotti specifici.
Anche il mercato si presenta come una realtà economica in genere troppo ampia ed eterogenea. Perciò,
quando ci si propone di rapportarsi a clienti e concorrenti bisogna considerare aree di mercato circoscritte e
relativamente omogenee, da qui deriva il processo della segmentazione, che consiste nella disaggregazione
dei mercati in aree relativamente più omogenee quanto a caratteristiche della domanda espressa.

La segmentazione del mercato


Per la formulazione della strategia
aziendale serve definire
preliminarmente l’ampiezza del
mercato da prendere in
riferimento. Ci sono due fasi di
segmentazione: la delimitazione
del macrosettore e
l’identificazione delle aree
elementari di affari.
La prima fase verte
sull’identificazione del

44
macrosettore da assumere come riferimento base per l’analisi. Esso sarà definito in modo più o meno ampio
in funzione delle caratteristiche dell’impresa (risorse possedute, tecnologie disponibili, capacità sviluppate
ecc.), delle finalità perseguite, dei processi di selezione già operati in fasi precedenti del processo decisionale.
In molti casi esso viene definito semplicemente in funzione della classe di prodotto. Talvolta all’indicazione
del prodotto si aggiunge il gruppo di clienti a cui è diretto o il tipo di uso a cui il bene è destinato.
La seconda fase dell’analisi è diretta a disaggregare il macrosettore in aree strategiche d’affari.

L’area business. Lo schema tridimensionale (Modello di Abell)


Per una segmentazione efficace del mercato è stato proposto uno schema che consente di ritagliare segmenti
omogenei di mercato o aree strategiche d’affari (ASA), sulla base di tre assi:
- gruppi di clienti,
- funzioni svolte dall’offerta,
- tecnologie produttive.
Per una definizione ancora più esaustiva, lo schema potrebbe essere integrato da un quarto asse per indicare
l’area geografica del mercato.

6.4 Attrattività del contesto competitivo

Con riferimento a un definito contesto competitivo – settore/mercato o ASA – ai fini dell’analisi strategica
interessa valutare l’attrattività in termini di reddito che un’impresa può trarne. Questo risultato dipende da
due ordini di fattori: da un lato la redditività potenziale del contesto in riferimento e dall’altro la struttura
concorrenziale che vi insiste, che è data dai rapporti competitivi che si instaurano tra i diversi soggetti che si
contendono il reddito potenziale.

Variabili microambientali. La tecnica degli scenari


Con il termine microambiente o ambiente generale si intende u mix di fattori che in qualche maniera possono
influire sulla vita dell’azienda, identificabili sia a livello nazionale sia a livello globale.
Gli scenari sono delle situazioni future che hanno un’elevata probabilità di manifestarsi. La tecnica degli
scenari consiste nella rilevazione di segnali di cambiamenti significativi e consente all’impresa di accrescere
la flessibilità di gestione del rapporto con l’ambiente esterno e la conseguente ridefinizione del business
model. È utile al management non tanto per i risultati previsivi quanto perché consente la simulazione di
risposte a possibili esiti.

La redditività potenziale. Il ciclo di vita


Il ciclo di vita indica l’evoluzione delle vendite complessive delle imprese di un settore in funzione del tempo.
Serve per valutare il trend di crescita del settore e quindi, indirettamente, la redditività potenziale dello
stesso.
Un esempio:

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La domanda specifica. Tecniche di stima
Nella definizione delle decisioni strategiche è di fondamentale rilevanza la stima della domanda, che,
possiamo intendere in termini di quantità di un bene (prodotto o servizio) acquistata o acquistabile
dall’insieme di utilizzatori presenti in un definito mercato in un certo arco di tempo.
Accezioni di domanda: all’analista serve conoscere la domanda rivolta alla specifica impresa, e per arrivare a
questo obbiettivo è utile tenere presenti le seguenti accezioni di domanda:
• Domanda potenziale, essa corrisponde alla quantità massima vendibile di un certo bene in un dato mercato
in un definito periodo di tempo quando tutte le aziende che vi operano hanno raggiunto lo sviluppo dei loro
programmi di marketing;
• Domanda primaria, è il totale delle vendite di un certo bene in un dato mercato in un definito periodo di
tempo;
• Domanda specifica, quest’ultima è la quantità venduta di un certo bene da una specifica impresa in un dato
mercato in un definito periodo.

Approcci di stima:
Per un’impresa che ha un peso abbastanza rilevante sul mercato di riferimento si può prevedere una
procedura articolata in due momenti: stima della domanda primaria (o di mercato) e scelta della quota di
mercato presunta per il mercato in esame, tenendo conto del peso della concorrenza diretta. Questo è il
cosiddetto metodo top – down, che consiste appunto nell’applicazione della quota di mercato alla domanda
potenziale. Quando il nuovo business dà luogo a un’offerta molto differenziata, il confronto con la
concorrenza viene a perdere significato, e allora la domanda specifica può essere allora stimata con una
variante del metodo top – down. Nei casi in cui l’impresa abbia un peso poco significativo sul mercato in cui
intende operare, come si riscontra per molte start up, si cerca di pervenire subito alla stima della domanda
specifica, senza la propedeutica stima della domanda primaria ed escludendo altresì l’analisi della
concorrenza diretta. Questo appena descritto è il metodo bottom – up, con cui si tenta di stimare la domanda
specifica in funzione delle risorse aziendali, cioè la capacità produttiva o commerciale.

Quota di mercato (QM)

Può essere espressa in volumi (quantità vendute) o volumi (fatturato). È analizzata a due livelli:
- n. degli acquisti da parte dei distributori  livello retail
- n. degli acquisti da parte dei consumatori finali  livello consumer

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La misura della domanda effettiva di mercato
Quota di mercato relativa (QM rel.)

Consente di valutare la posizione competitiva dell’azienda rispetto al mercato e ai competitors. Il maggior


concorrente è l’impresa leader oppure, se l’impresa in questione è leader, il primo inseguitore.

Tasso di penetrazione del mercato

La struttura concorrenziale. Schema delle forze competitive (Schema di Porter)


La concorrenza in un settore o in un’ASA risulta da più forze che scaturiscono dalla struttura del comparto,
cioè dall’insieme delle caratteristiche tecniche ed economiche dello stesso.

Determinanti della concorrenza diretta


- differenziazione dell’offerta
- identità del brand
- rapporto tra costi fissi e valore aggiunto

Determinanti del potere dei fornitori


- numero fornitori
- esclusività della fornitura
- servizi forniti

Determinanti del potere dei clienti


- volume del fatturato per cliente
- prodotti sostitutivi
- impatto su qualità/prezzo

Barriere all’entrata: le determinanti della minaccia dei potenziali entranti dipendono soprattutto dalle
barriere esistenti
- economie di scala
- fabbisogno di capitale
- vantaggi di costo assoluti

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Determinanti della minaccia di sostituzione: possono ridurre il potenziale profitto dell’impresa, il loro effetto
dipende anche dalla capacità/possibilità delle aziende del settore di differenziare l’offerta
- propensione del cliente alla sostituzione
- fedeltà del cliente alla marca
- innovazioni radicali di prodotto

6.5 L’analisi della concorrenza

I principali strumenti per l’analisi dell’ambiente competitivo vertono generalmente sull’identificazione dei
raggruppamenti strategici e sull’analisi dei concorrenti, a questi possiamo aggiungere la valutazione delle reti
di collaborazione tra imprese.

L’identificazione dei concorrenti. I raggruppamenti strategici


Per l’analisi della struttura interna di un contesto è utile qualificare le imprese in relazione alla loro strategia,
ossia costruire una mappa dei raggruppamenti strategici. I raggruppamenti specifici sono insiemi di aziende
accomunate da strategie simili e sono rappresentabili appunto in mappe strategiche.
In altri termini, il concetto di mercato cui riferire l’analisi competitiva, anziché interpretabile in termini di
settori, dovrebbe essere interpretato come gruppo strategico cui riferire l’impresa. Il gruppo strategico è un
livello intermedio tra il settore e impresa ed è identificabile come l’insieme delle imprese che seguono
strategie simili lungo le stesse dimensioni strategiche all’interno di uno stesso settore.

L’analisi dei concorrenti. Schema di profilazione


L’analisi dei concorrenti è indubbiamente fondamentale per la formulazione e la scelta della strategia, ogni
impresa svolge questo tipo di analisi, sui propri concorrenti diretti, anche se questi sono solitamente pochi.
L’impresa considera concorrenti diretti quelli che operano nello stesso mercato, offrono prodotti simili e si
rivolgono alla medesima tipologia di clienti.

I fattori critici di successo. Una griglia di rilevazione


Lo schema delle forze competitive ci consente di valutare la redditività potenziale di un settore o di un
segmento. Circa la definizione delle modalità con cui l’impresa può captare parte di tale potenziale, serve
acquisire informazioni anche sui fattori specifici che l’impresa deve presidiare per essere competitiva, in base
ai quali poter appunto valutare le fonti di competitività. I fattori specifici sono quindi fattori caratteristici di
uno specifico settore dai quali dipendono competitività e successo aziendale.
Le informazioni per focalizzare i fattori critici di successo si ricercano principalmente nella domanda e nella
concorrenza.

6.6 Valutazione delle risorse e delle competenze aziendali

Il sistema di risorse e competenze


Il successo di una strategia di sviluppo risulta ben riconducibile all’identità dell’impresa, che deriva dalla sua
cultura, dal proprio patrimonio di conoscenze, dalla vision del management. Dunque, anche a prescindere
dalla specifica impostazione seguita nella formulazione/implementazione della strategia, resta il fatto che la
valutazione dell’ambiente interno costituisce un fondamentale passaggio nel percorso strategico. Dalla
quantità e qualità delle risorse disponibili dipendono infatti la possibilità di cogliere le opportunità di sviluppo
e la sostenibilità del vantaggio competitivo. L’approccio fondato primariamente su ciò che l’impresa è capace
di fare piuttosto che sui bisogni da soddisfare si ispira alla cosiddetta resource – based theory. Secondo
questa prospettiva, la logica della strategia non è l’allocazione delle risorse intesa come mero adattamento
alle opportunità esterne, ma quella di far leva sulle risorse e competenze attuali e potenziali per creare
vantaggi sostenibili e occasioni di crescita. Con l’espressione “risorse e competenze” si fa riferimento

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all’insieme delle singole risorse e delle competenze espresse dall’organizzazione aziendale. Ed è questo
insieme di componenti a dar luogo all’identità di un’impresa e alla capacità di un management di realizzare
un percorso competitivo.

Risorse
 Risorse finanziarie (p.e. valutazione del merito creditizio)
 Risorse fisiche (p.e. flessibilità di impianti e macchinari)
 Risorse tecnologiche (p.e. numero e rilevanza dei brevetti)
 Reputazione (p.e. valore della marca)
 Risorse umane (p.e. qualificazioni tecniche)

6.7 Sintesi delle interdipendenze tra impresa e ambiente. La swot analysis

L’attività di governo dell’impresa si sviluppa in continui adattamenti del rapporto tra impresa e ambiente a
causa sia dei mutamenti che si verificano all’esterno sia di quelli endogeni. Di qui l’utilità della composizione
di un quadro di sintesi dei fenomeni importanti esterni da valutare in relazione alle caratteristiche delle
risorse aziendali, e tale apporto è fornito dalla swot analysis, questo è uno strumento che consente di
individuare, esplicitare, comprendere e condividere i fattori positivi e negativi nel presente e nel futuro di un
prodotto, di un processo e più in generale di qualsiasi situazione aziendale. È espressa da una griglia in cui
vengono classificati i punti di forza, ovvero i fattori positivi del presente, poi ci sono i punti di debolezza, ossia
i fattori negativi del presente, e poi ci sono le opportunità, che sono considerati come fattori positivi del
futuro, e le minacce, considerate come fattori negativi del futuro. Gli ultimi due elementi sono provenienti
dall’ambiente esterno, a differenze dei primi due che derivano da quello interno. Il confronto fra i quattro
blocchi di informazioni può consentire al management sia di minimizzare l’impatto delle minacce ambientali
sui punti di debolezza dell’impresa, e viceversa, di valorizzare le opportunità esterne facendo leva sui punti
di forza.

• Punti di forza: sono aspetti che rendono particolarmente competitiva l’impresa. Si tratta delle dimensioni
che alimentano il vantaggio competitivo in un particolare ambito e con riferimento ai concorrenti.
• Punti di debolezza: si tratta delle dimensioni che rendono l’offerta dell’impresa vulnerabile all’azione dei
concorrenti e che quindi rappresentano aree di criticità dell’impresa, riducono il successo dell’impresa, in
quanto non consentono di sfruttare le opportunità e far fronte alle minacce.
• Opportunità: rappresentano gli aspetti che rendono particolarmente attrattivo il settore e quindi, si
sostanziano in fattori esterni all’impresa che spingono verso un maggior coinvolgimento nel business, sono
condizioni decifrabili nell’ambiente esterno di carattere positivo per lo sviluppo dell’impresa, attuale o
prospettico.
• Minacce: riguardano elementi che rappresentano delle criticità del settore e possono minare la
competitività di tutte le imprese in esso operanti, quindi possono ostacolare il successo aziendale.

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Capitolo 7 Le strategie corporate: principali tipologie
7.1 Le strategie corporate
Le strategie corporate riguardano lo sviluppo del campo di azione dell’impresa attraverso la scelta, in chiave
tecnologico – produttiva, dei mercati e delle attività in cui operare.
Le alternative di fondo per sviluppare una strategia di corporate sono:
1. Lo sviluppo monosettoriale: l’impresa decide di crescere nel settore in cui opera sfruttando le competenze
acquisite.
2. La diversificazione: l’impresa decide di sviluppare i nuovi prodotti/mercati esponendosi in altri settori più
o meno affini a quelli in cui già opera.

L’obiettivo di queste strategie è l’ottimizzazione dell’uso delle risorse aziendali e l’acquisizione di una
crescente forza nei confronti di clienti, fornitori, concorrenti, distributori ecc.
La strategia di sviluppo monosettoriale si persegue secondo due alternative strategiche:
1. integrazione orizzontale
2. integrazione verticale

L’integrazione orizzontale: definizione, obbiettivi e vantaggi


L’integrazione orizzontale si ha quando l’impresa espande la propria attività a prodotti, processi e know how
affini alla filiera tecnologico – produttiva già esistente. Questa riguarda anche tipi differenti di produzione,
ma caratterizzati da medesimi cicli produttivi, da fasi comuni di lavorazione, da stesse tecnologie produttive
(know how).
Affinità tecnologiche: stessa concezione dei cicli di lavorazione, fasi comuni di lavorazione, tecnologie simili.
Affinità di mercato (stesse politiche di distribuzione, promozione).
Esempio: azienda di lavatrici acquista un’impresa che produce frigoriferi, oppure crea nuove unità produttive
che producono lavastoviglie

Obbiettivi e basi economiche: l’obiettivo è quello di aumentare la quota di mercato relativa detenuta
dall’impresa, rafforzando così la propria posizione e il proprio potere di mercato.
Da un punto di vista prettamente economico, due sono i principali vantaggi di costo raggiungibili mediante
l’integrazione orizzontale: le economie di scala, i costi medi si riducono perché taluni costi fissi vengono
ripartiti su un maggiore volume di produzione; e le economie di espansione, esse derivano invece da minori
costi che sostiene un’impresa per aumentare la capacità produttiva esistente rispetto a un’impresa che
realizza lo stesso aumento attraverso l’installazione ex novo di capacità produttiva.

I vantaggi dell’integrazione orizzontale:


• Tempi di attuazione brevi, grazie a una conoscenza già acquisita delle dinamiche di mercato;
• Lo sfruttamento di tutte le risorse disponibili, perché l’integrazione orizzontale non necessita l’acquisizione
di competenze completamente nuove e estranee a quelle già possedute;
• La maggior conoscenza dei rischi da parte degli organi imprenditoriali, perché è un business già conosciuto.

L’integrazione orizzontale è vantaggiosa nei seguenti casi:


- quando l’impresa vuole preservare la posizione competitiva acquisita, rendendo più difficile
l’ingresso nel settore di nuovi potenziali concorrenti (Nokia, Ericsson…);
- quando l’azienda si vuole difendere da eventuali andamenti sfavorevoli del mercato, ad esempio
quando il mercato è pieno o saturo, una delle poche modalità per l’impresa di incrementare le
vendite è quello di assorbire imprese operanti nello stesso settore;
- quando lo scopo è sfruttare considerevoli potenziali di domanda non soddisfatta, come quando la
domanda è in forte espansione, l’integrazione orizzontale costituisce una modalità per accrescere

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velocemente la quota di mercato relativa detenuta dall’impresa, rafforzando così la propria
posizione.

Gli svantaggi dell’integrazione orizzontale:


• C’è un maggiore rischio di mercato in quanto, concentrandosi sullo stesso mercato, l’azienda si espone
completamente all’andamento di quest’ultimo e, nel caso di riduzione significativa della domanda, l’azienda
non avrebbe alternative produttive tramite le quali compensare le perdite conseguite;
• L’aumento della dimensione aziendale, può comportare sia difficoltà nel controllare il processo di crescita
sia un aumento delle attività burocratiche.

L’integrazione verticale: definizione, forme, obbiettivi e vantaggi


L’integrazione verticale è un’altra opzione strategica di sviluppo monosettoriale. Tale strategia consiste in un
processo di internalizzazione sequenziale o verticale delle fasi della filiera tecnologico – produttiva
immediatamente collegate a quelle in cui già opera l’impresa.
Il livello di integrazione può essere massimo quando l’azienda in questione può decidere di realizzare al
proprio interno tutte le fasi della filiera, viceversa, il livello di integrazione verticale sarà minimo quando
l’azienda decide di realizzare solo una delle attività della filiera tecnologico – produttiva. I processi di
integrazione verticale possono riguardare anche le imprese di piccole dimensione, cosi possono perseguire
obbiettivi di crescita dimensionale.

Le forme di integrazione verticale


La strategia di integrazione verticale può assumere due forme a seconda che le fasi internalizzate della filiera
tecnologico – produttiva siano precedenti rispetto a quelle già svolte dall’impresa (integrazione a monte o
ascendente), o successive (integrazione a valle o discendente). Con l’integrazione verticale a monte l’azienda
inserisce nella sua filiera produzioni di base o intermedie rispetto all’attività svolta, quindi rivolte verso il
mercato di fornitura; invece nell’integrazione verticale a valle l’azienda inserisce nella sua filiera fasi più vicine
alla fabbricazione di prodotti finali, quindi verso il mercato di sbocco. Mediante l’integrazione verticale a
monte, l’azienda intende ridurre i costi di approvvigionamento, con un conseguente aumento del profitto,
assicurarsi continuità e qualità delle forniture e controllare la fonte principale di approvvigionamento.
Integrando a valle, invece, l’azienda intende incrementare il margine di contribuzione e,
contemporaneamente, stabilire i rapporti più diretti con il cliente.

Obbiettivi e basi economiche dell’integrazione verticale


• Accrescimento del valore aggiunto realizzato dall’impresa, esso è dato dalla differenza tra il valore dei
prodotti finiti e il costo delle materie prime necessarie per realizzare la produzione;
• Aumento del potere di mercato nei confronti dei concorrenti perché l’impresa aumenta la propria
dimensione e, di conseguenza, il proprio potere di mercato;
• Maggiore controllo dell’intera filiera tecnologico – produttiva perché internalizzando le singole attività
l’impresa riduce la sua dipendenza dall’esterno;
• Creazione di barriere all’entrata nel mercato, perché l’integrazione verticale accresce il potere di mercato
delle imprese esistenti a discapito delle imprese che potenzialmente vorrebbero entrare a competere in
questi mercati;
• Creazione di barriere all’entrata nel mercato, aumento della forza contrattuale

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In quali situazioni conviene attuare l’integrazione verticale:
• Quando l’impresa spenderebbe meno producendo internamente il prodotto di cui necessita piuttosto che
acquistarlo sul mercato
• Quando si è in presenza di un forte potere di mercato dei fornitori o dei clienti dell’azienda (Esempio:
quando ci sono pochi fornitori dell’impresa questi potrebbero imporre dei prezzi più alti)
• Quando la domanda presenta tassi di crescita certi e stabili nel tempo

Limiti dell’integrazione verticale


• Aumento dei costi fissi dell’azienda. Infatti l’impresa sta sostituendo rapporti di mercato (transazioni)
tipicamente flessibili, con attività di produzione diretta (interna) di quegli stessi prodotti oggetto di
transazione. Questo aumento la rigidità aziendale e l’esposizione al rischio di mercato;
• Rischio di “blocco dell’apprendimento”, in quanto l’impresa internalizzando più fasi della filiera tecnologico
– produttiva può rischiare di non specializzarsi in nessuna attività, cioè di non essere innovativa, originale e
competitiva in alcune fasi della filiera;
• Aumento delle barriere all’uscita, limiti alla flessibilità dovuti a un irrigidimento della struttura e delle
procedure conseguenti all’internalizzazione di nuovi processi e attività.

La diversificazione produttiva: definizione, forme, obbiettivi e vantaggi


La strategia corporate di diversificazione si realizza quando un’impresa decide di sviluppare nuove produzioni
in mercati nuovi anziché rafforzare la propria posizione nel settore in cui già opera.
La strategia di diversificazione differisce dalla strategia di differenziazione, in quanto la prima è una strategia
corporate che concerne la scelta di ambiti di business differenti ove competere; la seconda è una strategia di
business che riguarda le modalità di posizionamento competitivo di un’impresa nel proprio mercato specifico

Si possono identificare tre forme di diversificazione in funzione di due variabili: la tecnologia utilizzata e i tipi
di clienti serviti.
 La diversificazione orizzontale si realizza quando le nuove produzioni sono destinate al segmento di
clientela già servito, mentre lo sviluppo dei nuovi prodotti può essere effettuato mantenendo le
tecnologie preesistenti oppure mediante tecnologie differenti. È la forma di diversificazione
considerata meno rischiosa per l'impresa. Spesso consiste in una esplorazione del mercato ai fini di
una espansione più forte da compiere in un momento successivo.
 La diversificazione correlata (o laterale) che avviene quando l’azienda entra in nuovi mercati
sfruttando sinergie di ricerca, progettazione, sviluppo del prodotto, gestione della produzione e del
rapporto con il mercato. Rispetto alla diversificazione orizzontale, la diversificazione correlata
richiede un impegno gestionale maggiore in quanto sono minori le affinità sfruttabili dall’impresa
 La diversificazione conglomerale, consiste in un’estensione dell’attività intrapresa verso produzioni
completamente nuove, rivolte a una clientela completamente diversa. Le nuove produzioni non sono
gestibili con l’esperienza acquisite e sono realizzate con tecnologie, competenze di marketing e di
ricerca completamente nuove e senza alcuna affinità con le conoscenze già possedute dall’impresa.
È la strategia di diversificazione che presenta i più alti rischi di gestione (in quanto l’azienda non può
sfruttare nessuna delle competenze acquisite) e i rischi di mercato più bassi (diversificazione del
rischio).

Vantaggi della diversificazione


I principali obbiettivi per cui un’azienda prende in considerazione la scelta della strategia di diversificazione
sono:
 la crescita aziendale,
 l’aumento della redditività (trasferendo risorse da mercati meno attraenti a mercati più attraenti),
 la riduzione del costo di mercato (compensando andamenti sfavorevoli in certi mercati serviti con
quelli favorevoli di altri),

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 sfruttare opportunità di mercati promettenti,
 non continuare ad investire in mercati in crisi,
 sfruttare le competenze acquisite e non più adatte, in altri settori,
 sfruttare le competenze non pienamente sfruttate.

L’obbiettivo della crescita è perseguito principalmente da aziende operanti in settori in fase di declino,
l’aumento della redditività è legato alla possibilità che le aziende diversificate possano trasferire le risorse
da settori meno attraenti a quelli più attraenti, e infine permette di ridurre i rischi di mercato grazie alla
possibilità di compensare andamenti sfavorevoli in certi mercati serviti con quelli favorevoli di altri. Altri
obbiettivi che spingono l’impresa verso la strategia di diversificazione sono riconducibili principalmente
alla presenza di incentivi di natura esterna e interna all’impresa. Gli incentivi di natura esterna possono
essere sia di carattere difensivo e offensivo, quelli di tipo offensivo consentono di cogliere opportunità
interessanti per l’azienda, invece quelli di tipo difensivo aiutano l’impresa a sopravvivere alle minacce di
mercato causate da una sensibile flessione della domanda verso i principali prodotti dell’azienda. Anche
gli incentivi di natura interna possono essere di tipo difensivo, e in questo caso l’azienda si rende conto
che le risorse possedute non sono più adatte al mercato di riferimento e rivolge le proprie competenze
ad altri settori; o di tipo offensivo, sono legati alla volontà dell’azienda di sfruttare appieno le proprie
risorse fondamentali.

In quali situazioni conviene attuare la stategia di diversificazione


• Quando l’azienda si trova ormai impossibilitata a espandersi nel settore dove già opera in quanto obsoleto,
in crisi, caratterizzato da una domanda costantemente decrescente;
• Quando l’impresa possiede risorse in eccesso che non desidera reinvestire nelle attività che presiede e,
contemporaneamente, intravedendo promettenti evoluzioni di altre attività (Microsoft acquisendo Yahoo);
• Quando l’impresa vuole accrescere non solo il suo volume di affari, ma anche la sua immagine e reputazione
(Fiat ha lanciato una linea di abbigliamento con il suo marchio).

I limiti della diversificazione


• La sua realizzazione richiede all’azienda tempi lunghi legati alla minore conoscenza dei nuovi settori in cui
l’impresa decide di espandersi rispetto alle produzioni tradizionali;
• La scarsa familiarità nei confronti delle nuove attività determina una minore possibilità di valutazione dei
rischi gestionali da parte degli organi imprenditoriali.

7.2 Le modalità di implementazione delle strategie corporate

Le principali opzioni per la realizzazione delle strategie corporate sono.


 Crescita interna
 Fusione/acquisizione
 Accordi di collaborazione
 Costituzione di imprese spin-off
 Processi di corporate restructuring

La crescita interna
In questo caso per l’impresa si prospetta un percorso di crescita dimensionale dovuto alla creazione di nuovi
impianti e nuove unità operative, facendo ricorso a risorse già presenti all’interno dell’impresa (es. Barilla nel
2007 avvia il secondo impianto produttivo negli Stati Uniti per soddisfare la maggiore domanda locale di
pasta).
La scelta di questa opzione può essere motivata da due ordini di fattori: il primo concerne l’ambiente esterno,
e in particolare l’emergere di opportunità di business che inducono l’impresa a potenziare l’offerta esistente
o ad avviare produzioni in nuovi mercati caratterizzati da crescita dei volumi di vendita o da grandi

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potenzialità future, il secondo fattore concerne l’esistenza di risorse interne all’impresa, le quali possono
essere solo parzialmente sfruttate.
La crescita dimensionale interna, pur presentando dei vantaggi sul piano del controllo e della gestione delle
interdipendenze tra attività nuove e consolidate, può talvolta essere soggetta a difficoltà e barriere che ne
possono pregiudicare la realizzazione e il raggiungimento degli obbiettivi finali. In primo luogo, la crescita
dimensionale può essere condizionata dall’esistenza di capacità manageriali limitate, specie quando c’è un
iter accelerato. In secondo luogo, l’impresa che attua un processo di crescita dimensionale può incontrare
ostacoli difficilmente superabili nel mercato in cui decide di operare, per effetto di vincoli esistenti nel
sistema distributivo, di barriere erette dalle imprese concorrenti sul piano delle economie di scala, delle
tecnologie utilizzate e delle politiche di marketing. Nel caso in cui il mercato sia caratterizzato da maggiore
incertezza sul piano delle dinamiche competitive e dei comportamenti della domanda, le nuove attività
operative possono rappresentare dei fattori di rigidità, che permettono una minore capacità di adattamento
alle nuove condizioni di contesto.

Le fusioni e le acquisizioni
L’impresa può realizzare i propri obbiettivi strategici anche tramite processi di crescita esterna.
Per acquisizione si intende “quella operazione attraverso la quale una impresa acquista, dietro corrispettivo,
la proprietà di una quota totalitaria o di maggioranza di un’altra impresa” (acquisizioni ostili o amichevoli),
mentre in caso di fusione le imprese coinvolte “perdono la propria identità giuridica ed economica per
confluire in un’unica struttura organizzativa”, e si assiste a fusione per incorporazione dove l’impresa
acquisita perde la propria identità per essere incorporata nell’impresa acquirente, e alla fusione in senso
proprio quando le due imprese perdono la propria identità per dare vita a una nuova impresa.
È opportuno distinguere in modo netto le operazioni di fusione da quelle di acquisizione, sul piano
organizzativo la fusione è infatti un’operazione particolarmente complessa e difficile da attuare in quanto è
caratterizzata da un maggior grado di integrazione rispetto alle operazioni di acquisizione. Le imprese
coinvolte decidono di dar vita a una realtà aziendale che è il frutto dell’unificazione concordata di strategie,
strutture e processi di gestione e controllo delle attività aziendali.

Le motivazioni delle operazioni di acquisizione


• Riduzione dei costi in ambito operativo, derivanti dalle maggiori economie di scala e di scopo ottenibili
dall’integrazione delle attività dell’impresa acquirente e dell’impresa acquisita (es. Piaggio e Aprilia);
• Volontà di controllare maggiori quote di mercato, grazie all’acquisizione di concorrenti locali e
internazionali (es. IBM e AC);
• Potenziare l’offerta di prodotti/servizi, grazie all’integrazione dell’impresa acquisita (es. SCM);
• Accesso a nuove competenze, in alternativa a investimenti in strutture interne;
• Inserirsi rapidamente in settori emergenti, specie nelle situazioni in cui l’impresa acquisita operi in un
settore contiguo e caratterizzato da confini mutevoli (es. E-Bay e Skype).

Le modalità di realizzazione delle operazioni di acquisizione


L’acquisizione di un’impresa può avvenire secondo dinamiche molto differenti, in questo caso distinguiamo
tra acquisizioni ostili (hostile acquisitions) e amichevoli (friendly acquisitions). Nel primo caso l’operazione è
condotta in un contesto caratterizzato da una notevole conflittualità tra il vertice dell’impresa acquirente e
il management dell’impresa oggetto dell’acquisizione. Nel secondo caso emerge invece un clima più
cooperativo tra i vertici delle due aziende, i quali si rendono disponibili a riconoscere le aspettative della
controparte e a compiere ogni sforzo per garantire il massimo livello di consenso verso l’operazione.
Un’operazione di acquisizione è un processo molto complesso da gestire e non sempre le imprese coinvolte
riescono a ottenere i risultati auspicati. L’attività di pianificazione rappresenta uno strumento indispensabile
per supportare il management e ridurre al minimo i rischi derivanti dall’adozione di decisioni basate su
informazioni errate o insufficienti.

Gli accordi di collaborazione

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È un tipo di crescita attraverso forme di accordo con soggetti esterni. Ormai è ampiamente verificato che da
parte delle imprese c’è una tendenza a sviluppare forme di collaborazione più o meno intense. Le imprese
sono propense a partecipare a reti di cooperazione e scambio aventi come oggetto risorse di tipo sia tangibile
che intangibile. Infatti l’impresa è sottoposta a crescenti pressioni sia sul lato del mercato di riferimento, sia
su quello del cambiamento tecnologico. Le principali conseguenze di queste dinamiche è che la singola
impresa non è più, in molti settori, in grado di sviluppare e controllare in modo autonomo, attraverso la
gerarchia, attività, risorse e competenze soprattutto in ambito tecnologico, per poter competere offrendo
prodotti e servizi competitivi è quindi necessario coinvolgere altri soggetti. Il rapporto con il mercato si può
concretizzare in processi di scambio, o nella realizzazione di accordi. La scelta di concludere accordi è
motivata dalla necessità di avere accesso a competenze specifiche, e di poter esercitare un certo grado di
controllo nel rapporto di collaborazione.

Le tipologie di accordi
Le imprese possono attivare un’ampia varietà di accordi di collaborazione, i quali sono classificabili sulla base
di criteri distinti:
 la tipologia di partner: accordi verticali, ossia collaborazioni con imprese impegnate in stadi adiacenti
rispetto all’attività specifica realizzata dall’impresa stessa (con clienti o fornitori), accordi orizzontali
(tra imprese concorrenti), accordi trasversali (tra imprese in settori differenti, centri di ricerca e
università),
 la configurazione proprietaria: le imprese possono concordare di svolgere attività in modo
congiunto, e per perseguire i loro obbiettivi decidono di costituire una equity joint venture, ossia una
nuova società indipendente in cui i partner detengono quote. Una tipologia distinta di accordo,
definita come accordo equity, è quella che comporta il controllo dell’impresa partner senza che vi sia
la creazione di una nuova società, in questa situazione l’impresa conclude un accordo di
collaborazione con un partner esterno e consolida il suo nuovo rapporto con l’acquisizione di una
quota di minoranza
 il grado di rilevanza dell’accordo: semplici transazioni spot o alleanze strategiche, sono accordi
tramite cui le imprese partner mirano al rafforzamento delle proprie risorse per ottenere profitti nel
lungo periodo.

Le motivazioni
I fattori che possono indurre le imprese ad avviare accordi di collaborazione sono molteplici.
 Perseguimento di maggiore efficienza (economie di scala nella fornitura, produzione, marketing);
 Complementarietà di risorse;
 Accesso a conoscenze innovative;
 Accesso a nuovi mercati/segmenti;
 Creazione di barriere alla concorrenza.

I processi di spin–off
Per imprese spin–off, possono essere definite in termini generali come nuove imprese in cui è coinvolto
personale in precedenza impiegato all’interno di un’altra organizzazione (processi di “gemmazione” di
imprese).
In alcuni casi la nuova impresa viene costituita con il consenso e il sostegno attivo dell’impresa madre; mentre
in altri casi un dipendente o un team di dipendenti decide in modo autonomo di realizzare una nuova impresa
attiva nello stesso settore o in un settore differente, senza alcun supporto e talvolta in conflitto con l’azienda
di provenienza. La nuova impresa può essere accompagnata da varie misure di sostegno da parte dell’impresa
madre. Quest’ultima può fornire servizi di consulenza su vari aspetti inerenti la creazione e la gestione della
nuova iniziativa imprenditoriale; il supporto può riguardare anche il trasferimento di know how in ambito
tecnico, organizzativo e commerciale; un’ulteriore contributo può riguardare lo sviluppo di relazioni e di
modalità di networking con operatori attivi nel mercato di riferimento; infine l’impresa può impegnarsi nel
sostegno finanziario dell’impresa spin–off.

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Gli obbiettivi perseguiti da un’impresa nel sostenere la costituzione e il processo di crescita di un’azienda spin
– off possono essere ricondotti sostanzialmente a due categorie:
 l’innovazione e lo sviluppo: strategia offensiva a per valorizzare competenze interne e generare
innovazioni; in alcuni casi si tratta di progetti non legati ai core product dell’azienda (Xerox), in altri
l’opzione spin-off è ritenuta la soluzione organizzativa più idonea;
 la ristrutturazione: strategia difensiva in cui l’impresa spin-off è una componente del processo di
ristrutturazione; in alcuni casi nel quadro di processi di outsourcing, in altri con lo scopo di creare
sbocchi occupazionali

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Capitolo 9 Le strategie di business
9.1 Le basi delle strategie di business e il vantaggio competitivo

Il triangolo clienti – concorrenza – competenze distintive


Con la strategia di corporate l’impresa definisce in quali e quanti settori o ambiti di business operare e,
dunque, fino a che punto diversificare le proprie attività, internazionalizzarsi o, anche ridimensionarsi. Le
strategie di business, o strategie competitive, sono, invece, le strategie formulate con riferimento ai singoli
ambiti di business in cui l’impresa opera. In altre parole, la strategia di business consiste nell’insieme
integrato di decisioni e azioni volte a costruire un vantaggio competitivo duraturo e difendibile in uno
specifico ambito di business. Una strategia di business di successo si lega alla capacità dell’impresa di erogare
un’offerta il cui valore è percepito dai clienti essere superiore al valore dell’offerta erogato dai concorrenti e
in linea o addirittura superiore alle loro aspettative. Le strategie di business vengono quindi definite,
implementate e mantenute relativamente a tre elementi che sono tra loro strettamente correlati: i clienti e
il mercato, i concorrenti e l’impresa e le sue competenze distintive, tali tre elementi sono ricondotti al
cosiddetto “triangolo strategico”. Infatti, per formulare una strategia di business occorre innanzitutto
considerare le aspettative del cliente/mercato di riferimento, poi formulare ed erogare un’offerta in linea
con le aspettative del cliente/mercato identificando e valorizzando le competenze distintive dell’impresa, e
poi occorre differenziare l’offerta agli occhi del cliente dalle altre offerte presenti sul mercato (concorrenza).
In sostanza, ogni strategia di business deve caratterizzarsi per la forte sinergia e coerenza tra i tre elementi
del triangolo strategico nelle loro varie declinazioni. Il compito dello stratega è quello di identificare e
sfruttare i punti di forza dell’impresa per ottenere un vantaggio differenziale rispetto alla concorrenza, ma,
nello stesso tempo, lo stratega deve assicurarsi che la sua azione sia tale da armonizzare adeguatamente i
propri punti di forza con le aspettative di un segmento di mercato ben definito. In sintesi, una strategia di
successo è quella che assicura, rispetto alla concorrenza, una migliore rispondenza tra i punti di forza
dell’azienda e i bisogni della clientela.

Il vantaggio competitivo
Le strategie di business mirano a creare alla ricerca di un posizionamento differenziale competitivo (vantaggio
competitivo) duraturo e difendibile. È quindi obbiettivo della strategia competitiva dare all’offerta
dell’impresa un posizionamento che sia percepito differenziale e di maggiore valore agli occhi del cliente
rispetto alla concorrenza, facendo leva su competenze e capacità che quanto più sono distintive tanto più
consentono di affermare e mantenere tale posizionamento nel tempo.
Porter ricorda, tuttavia, la necessità di non confondere l’efficacia operativa con la strategia di business.
L’efficacia operativa consiste nello svolgere attività simili a quelle che svolgono i concorrenti ma meglio degli
stessi, diversamente, la strategia di business mira ad acquisire un vantaggio competitivo conservando e
rafforzando gli elementi distintivi dell’impresa al fine di raggiungere una posizione unica, duratura e
difendibile nel tempo. Essa mira a svolgere attività diverse a quelle dei concorrenti o a saper svolgere attività
simili ma in modo diverso dai rivali. La strategia di business mira a rendere l’impresa in qualche modo
differente nel creare ed erogare un’offerta percepita di valore superiore sul mercato, con la conseguenza di
raggiungere un posizionamento che viene percepito come “unico”.

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Per identificare le strategie competitive di business occorre identificare l’approccio strategico su due
dimensioni: il tipo di vantaggio competitivo da perseguire (vantaggio competitivo interno o esterno);
l’ampiezza di mercato cui riferirsi (totalità del mercato o uno o pochi segmenti).

9.2 Le strategie di base

Ci sono tre tipi di vantaggio competitivo: la leadership di costo, la differenziazione e la focalizzazione. Le


prime due strategie hanno lo scopo di far acquisire un vantaggio competitivo in un’ampia gamma dei
segmenti che definiscono l’ambito di business; le strategie di focalizzazione mirano al vantaggio (di costo o
di differenziazione) in un segmento specifico.

Leadership di costo
Con la leadership di costo, l’impresa dispone di un vantaggio competitivo in quanto, in una determinata area
strategica d’affari, riesce a operare a condizioni di costo tali da poter applicare prezzi inferiori a quelli della
concorrenza rispetto a un’offerta simile a quella dei concorrenti.
Il vantaggio di costo rappresenta una difesa efficace contro le forze concorrenziali: innanzitutto, l’impresa
può resistere meglio a un’eventuale guerra dei prezzi innescata dai concorrenti e può riuscire a realizzare un
profitto anche a un livello di prezzo che per la concorrenza è il minimo applicabile; in secondo luogo, i bassi
costi difendono l’impresa dagli aumenti imposti dai fornitori che detengono un elevato potere contrattuale;
in terzo luogo, i bassi costi rappresentano anche una barriera contro l’entrata di eventuali nuovi concorrenti
e una buona protezione nei confronti dei prodotti sostitutivi.
Le fonti tradizionali:
 economie dimensionali, cioè i bassi costi medi unitari connessi a elevate scale operative o gestionali;
 economie di apprendimento e di esperienza;
 tecnologie di produzione, che consentono di minimizzare l’impiego di fattori a parità di risultati;
 disponibilità di privilegi,
 velocità di adattamento

Un esempio è Ibis.

Differenziazione
Con la strategia di differenziazione l’impresa dispone di un vantaggio competitivo da differenziazione
l’impresa che, in una determinata area d’affari, è in grado di realizzare un’offerta con una o più caratteristiche
di unicità o superiorità secondo il cliente, che è quindi disposto a pagare per essa un premium price.
La differenziazione dà luogo a un vantaggio competitivo solo se i costi che l’impresa deve sostenere al fine di
realizzare le caratteristiche di esclusività risultano congruamente inferiori al valore che il mercato assegna a
dette caratteristiche, da qui la necessità per l’impresa, di minimizzare i costi relativi alle attività non rilevanti
ai fini della differenziazione ricercata, compensando in questo modo i maggiori oneri che la differenziazione
comporta in altre attività. La differenziazione difende l’impresa dalle forze concorrenziali, il primo caso è
quello dei rivali diretti, in quanto essa riduce la sostituibilità del prodotto, accresce la fedeltà della clientela,
diminuisce la sensibilità al prezzo e migliora di conseguenza la redditività. La redditività più elevata accresce
la capacità dell’impresa di fronteggiare gli aumenti imposti da eventuali fornitori dotati di alto potere
contrattuale e la maggiore fedeltà della clientela ostacola l’ingresso di nuovi concorrenti. Le caratteristiche
distintive del prodotto e la fedeltà della clientela costituiscono una difesa contro i prodotti sostitutivi.
Le fonti tradizionali:
 capacità nei processi di design e di engineering, cioè di produzione e innovazione tecnologica del
prodotto
 attività di promozione del prodotto,
 attività di R&S,
 marchio affermato.

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Un esempio sono i brand di lusso per i quali la strategia di riduzione dei costi è inesistente; è l'intangibile che
si costruisce intorno al brand che diventa elemento di differenziazione.

Focalizzazione
Con la strategia di focalizzazione, l’impresa ricerca il vantaggio competitivo, di costo o di differenziazione, in
uno specifico segmento di mercato. Ciò può tradursi in vari comportamenti concreti: servire una specifica
categoria di clienti, concentrarsi su uno o pochi prodotti, distribuire i prodotti su un’area molto limitata e così
via.
Le strategie di focalizzazione possono abbracciare più di un solo segmento e diversi segmenti con forti
interrelazioni. Le strategie di nicchia sono strategie di focalizzazione con differenziazione. La nicchia si
diversifica dal segmento per una dimensione limitata del target e per un elevato livello di specializzazione.

9.3 Le fonti del vantaggio competitivo e la catena del valore


L’insieme delle decisioni e delle azioni conseguenti che vengono avviate da un’impresa al fine di realizzare e
mantenere un effettivo vantaggio sui concorrenti prende il nome di gestione del vantaggio competitivo. La
gestione del vantaggio competitivo è l’insieme delle azioni e decisioni conseguenti che vengono avviate da
un’impresa al fine di realizzare e mantenere un effettivo vantaggio sui concorrenti. La gestione del vantaggio
competitivo dipende dalla disponibilità da parte dell’impresa di risorse e competenze specifiche e superiori
alla concorrenza, capaci da generare leadership di costo e/o differenziazione.
Per potere individuare le fonti di un vantaggio competitivo uno strumento utile può essere quello della catena
del valore.

Essa disaggrega un’azienda nelle sue attività strategicamente rilevanti al fine di comprendere l’andamento
dei costi (e dunque dove si può intervenire per la loro riduzione) e le fonti esistenti e potenziali di
differenziazione. È rappresentabile come un sistema interdipendente di attività generatrici di valore,

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connesse da legami, in pratica, spiega come le diverse attività e interazioni tra di loro contribuiscono al
raggiungimento del vantaggio competitivo.
Le attività che costituiscono la catena del valore vengono distinte in due gruppi:
1. Attività primarie (o fondamentali): sono quelle che consentono di creare fisicamente il prodotto,
venderlo e consegnarlo al cliente, e sono compresi anche i servizi di assistenza.
• Logistica in entrata, consiste nella gestione dei flussi in entrata;
• Operations, è la gestione delle attività produttive;
• Marketing e vendite, che rappresenta la commercializzazione del prodotto;
• Logistica in uscita, consiste nella gestione dei flussi in uscita;
• Servizi, comprende i servizi successivi alla vendita.
2. Attività di supporto: sono quel tipo di attività che aumentano l’efficienza e l’efficacia delle attività
primarie, ossia forniscono a loro un supporto.
• Approvvigionamento, consiste nella gestione degli acquisti;
• Attività infrastrutturali, ossia gestione amministrativa e di controllo (struttura organizzativa);
• Gestione risorse umane;
• Sviluppo tecnologico.

Per concludere, la catena del valore è quindi uno strumento utile per fare un’analisi sistematica delle attività
che svolge un’azienda, per rilevare come esse interagiscono tra di loro e, quindi, per individuare le fonti di
vantaggio competitivo.

L’importanza dei segnali di valore. Valore atteso e valore percepito dal cliente
Il premium price, che il mercato assegna alle caratteristiche differenziali, dipende sia dal valore reale sia dal
valore percepito. È importante lavorare sul valore reale dell’offerta ma anche sul valore percepito attraverso
efficaci segnali di valore come la notorietà dell’impresa, l’immagine del prodotto, la pubblicità, le modalità di
comportamento della forza di vendita ecc.
Occorre innalzare continue barriere all’imitazione.

9.4 Le nuove fonti del vantaggio competitivo

A fianco delle fonti tradizionali del vantaggio competitivo si riscontra, soprattutto nelle imprese più
innovative e aperte al cambiamento ambientale, il ricorso a nuove fonti del vantaggio competitivo tra le quali
assumono sempre più rilevanza le seguenti:
 Il riconoscimento della centralità del cliente e l’orientamento alla customer satisfaction
(soddisfazione del cliente).
 La capacità di riformulazione del business;
 L’innesco e la partecipazione a efficaci reti del valore;
 L’uso delle tecnologie digitali;
 La messa a punto di nuovi modelli di business.

La centralità del cliente e della customer satisfaction


Fino agli anni ’80 prevaleva l’interesse alla qualità del prodotto e dei processi produttivi e la sensibilità nei
confronti del cliente si esprimeva soprattutto in relazione alla qualità tecnica e estrinseca dei prodotti offerti.
Con gli anni ’90, con l’intensificarsi della concorrenza, con l’accelerazione degli sviluppi tecnologici e
applicativi e la maggiore sofisticazione e varietà delle esigenze dei consumatori, l’orientamento strategico
delle aziende muta profondamente. Le imprese comprendono che è obbiettivo strategico non soltanto la
qualità tecnica dei prodotti o realizzare produzioni a zero difetti quanto, più in generale, raggiungere una
piena soddisfazione del cliente.
Il cliente e la sua soddisfazione divengono il punto di riferimento dell’azione dell’impresa, l’innesco di tutti i
suoi processi di business, oltre che la destinazione dei risultati di tali processi.

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Il cliente è soddisfatto se il valore che percepisce di ricevere dall’offerta dell’azione è uguale o superiore al
valore atteso. Nelle imprese si sviluppano quindi programmi volti a misurare, monitorare e analizzare la
soddisfazione del cliente e a riorganizzare l’azienda secondo i principi della customer satisfaction.
La soddisfazione (o non soddisfazione) scaturisce dunque dal confronto tra benefici e sacrifici attesi e benefici
e sacrifici percepiti.
La filosofia di gestione basata sulla customer satisfaction non impone di tener conto solo del cliente esterno,
ma ritiene essenziale la soddisfazione dei clienti interni, ovvero del personale aziendale, poiché
l’insoddisfazione di quest’ultimo ha un impatto devastante sulla qualità del servizio erogato sul mercato.
La customer satisfaction va oltre la semplice valutazione di qualità percepita dal cliente, ma dipende dal
valore atteso e da quello che il cliente percepisce di ricevere. Il concetto di valore richiama il rapporto tra
benefici e sacrifici, attesi e percepiti dal cliente. La soddisfazione (o non soddisfazione) scaturisce dal
confronto tra benefici e sacrifici attesi e gli stessi ma percepiti.
Alcuni economisti fanno risalire il valore percepito dal cliente al rapporto tra qualità e prezzo, dove la qualità
richiama attributi legati al prodotto, al servizio e alla promozione.

Quest’ultimo modello è piuttosto semplice, altri modelli più complessi sono stati sviluppati, in particolare, il
modello di Menon dove i benefici sono categorizzati in “core” e “aggiuntivi”. I benefici core fanno riferimento
alle caratteristiche fondamentali del sistema di offerta, caratteristiche che rispondo a richieste basilari, i
benefici aggiuntivi, invece, sono attributi che servono a differenziare l’offerta, essi fungono, dunque, da
attrattori per potenziali clienti. Per quanto concerne i sacrifici, essi richiamano i costi monetari per l’acquisto
e tutti i costi di gestione della relazione con l’impresa vendite.
In conclusione, le imprese cercano di acquisire e mantenere il vantaggio competitivo agendo sui termini del
rapporto benefici/sacrifici generando per il cliente o una riduzione dei sacrifici percepiti o un aumento dei
benefici percepiti.

La capacità di riformulazione del business


Dinanzi a un contesto dominato da una concorrenza molto aggressiva, taluni autori suggeriscono che l’unico
modo di battere la concorrenza è smettere di cercare di combattere contro di essa, creando nuovi spazi di
mercato incontestato, i cosiddetti oceani blu (Kim e Mauborgne). Negli oceani blu, perlomeno per un periodo
di tempo sostenibile, la concorrenza è quasi irrilevante in quanto le regole del gioco sono ancora da inventare,
a differenza degli oceani rossi dove i confini del business sono definiti e accettati da tutti e le regole del gioco
competitivo sono note. Le strategie “oceano blu” sono auspicate e intraprese dalle imprese di media
dimensione che vogliono svilupparsi sul mercato.
Investendo nel campo della ricerca, della progettazione e dell’innovazione, le medie imprese cercano di
accrescere il loro tasso di creatività, originalità, perfezione tecnica e prestazione dei prodotti; inoltre, agendo
sull’immagine di marca e sui valori immateriali e simbolici richiamati dai modelli con design e prestazioni
originali, esse cercano di generare nuovi spazi di mercato maggiormente difendibili dalla concorrenza.
Un esempio è Morellato.

L’innesco e la partecipazione a reti di valore


L’innesco e la partecipazione a reti di relazioni che alimentano la circolazione di conoscenze e processi di
apprendimento è oggi elemento cruciale per acquisire posizioni competitive vantaggiose sul mercato. Poiché

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ogni impresa non è in grado di controllare e gestire tutte le risorse, le attività e i processi necessari alla
generazione e all’erogazione del valore per il cliente finale, ogni impresa dipende da una molteplicità di
relazioni con fornitori, intermediari, clienti e altri attori del mercato per sviluppare e promuovere il proprio
business. Si osserva che le imprese tendono sempre più a concentrare i propri investimenti diretti nello
sviluppo delle competenze chiave mentre ricorrono a una rete eterogenea di altri attori, per lo svolgimento
di attività e la gestione di risorse complementari, comunque altrettanto importanti per il successo aziendale.
Sapere operare in rete e anche creare e coordinare reti di relazioni efficaci e efficienti con partner dotati di
know how e competenze specialistiche e complementari è oggi fonte di vantaggio competitivo. Attraverso le
reti si condividono costi e rischi, si realizzano processi di apprendimento, grazie all’acquisizione,
valorizzazione e sviluppo di know how e risorse intangibili, si accelerano i processi innovativi e di time to
market, si presidiano ampi spazi di mercato e si rafforza il presidio del cliente.
Si osserva che le imprese operano in supply chain (catena di fornitura) o, in senso più esteso, value chain
(catena del valore) che si caratterizzano per:
1. La centralità del cliente finale, percepito come il punto di riferimento per tutti gli attori e processi che
formano la supply chain;
2. La generazione del valore in termini interattivi, in quanto il valore che si genera è “co – generato”
dall’interazione che ha luogo tra i diversi attori;
3. L’integrazione e l’interdipendenza tra gli attori della supply chain che, per effetto delle interazioni
continue, rafforzano le relazioni reciproche che divengono anche sempre più interdipendenti.

L’uso delle tecnologie digitali


L’uso delle tecnologie digitali diviene sempre più elemento decisivo per incentivare e facilitare l’innovazione,
non solo dei prodotti ma anche dei processi inter e intraorganizzativi. Le tecnologie digitali impattano
sull’efficienza e sull’efficacia dei processi produttivi, commerciali, logistici e di marketing.
L’adozione e il buon uso delle tecnologie digitali, quindi, aprono nuove opportunità competitive alle aziende
sia sul piano della crescita di competitività sui costi, sia sul piano della maggiore differenziazione e
dell’ampliamento dei mercati.
L’investimento nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione consente di creare e condividere
idee, dando origine a nuovi contenuti, imprese e mercati. Esso consente interconnessioni che supportano
l’efficienza, la produttività e la crescita.

Nuovi modelli di business per nuove strategie competitive


Ogni impresa ha un proprio modello di business che risponde a due principali funzioni: la creazione di valore
e la cattura di (porzioni) valore. Un modello di business model originale e distintivo può essere per la singola
impresa una delle più importanti fonti di vantaggio competitivo, superiore a una migliore idea, prodotto o
tecnologia.
Il modello di business scaturisce dalla combinazione coerente ed efficace di una serie di elementi:
 la value proposition (valore creato per i clienti attraverso l’offerta),
 il mercato target (a chi offro),
 la struttura della value chain (concorre alla creazione e erogazione del valore),
 il modello di revenue (come fisso i prezzi, ossia un meccanismo sottostante la redditività),
 la strategia competitiva dell’impresa.

Tanto più l’impresa riesce a passare da un business model indifferenziato a un business model articolato, che
fa leva su:
 una segmentazione creativa
 una differenziazione spinta dell’offerta basata su una combinazione di elementi tangibili e intangibili
 reti di relazioni di valore volte a creare innovazione

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In conclusione, un modello di business coerente, originale e creativo, associato a una strategia di business
altrettanto originale e creativa, consente all’impresa un vantaggio competitivo duraturo e difendibile nel
tempo.

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Capitolo 19 La gestione dei processi di marketing
19.1 Il ruolo delle attività di marketing nei processi aziendali

Il contesto in cui si sviluppa il marketing


Per le imprese, la gestione del rapporto con il mercato di sbocco ha manifestato negli ultimi quarant’anni una
crescente complessità. Tale complessità è determinata da un lato dalla maggiore varietà e variabilità delle
aspettative degli acquirenti, dall’altro dalla crescita della pressione competitiva da parte dei concorrenti.
Ci sono due prospettive per i processi di marketing:
1. Insieme di attività volte a comprendere e soddisfare i bisogni dei clienti mediante politiche di prezzo,
distribuzione, comunicazione e commercializzazione (impostazione tradizionale).
2. Insieme di attività volte a creare, mantenere e sviluppare rapporti con la clientela ed i vari
stakeholder aziendali (marketing relazionale totale).

Il marketing è definito recentemente dall’AMA una funzione organizzativa ed un insieme di processi volti a
creare, comunicare e trasmettere un valore ai clienti, ed a gestire i rapporti con essi in modo che diano
benefici all’impresa ed ai suoi portatori di interesse.

Il ruolo della funzione di marketing


Per fronteggiare e gestire questa complessità, le imprese hanno dovuto dotarsi di professionalità specifiche
e destinare risorse rilevanti. Il ruolo della funzione di marketing è quello di:
 creare le basi conoscitive per la formulazione di efficaci strategie competitive e per la creazione di
valore differenziale per i clienti,
 porre in atto nei confronti degli acquirenti, dei concorrenti e del trade, azioni rivolte ad orientare i
comportamenti, le preferenze, le relazioni con l’impresa.

Possiamo definire la funzione di marketing come la funzione che orienta e regola i rapporti di scambio con i
mercati di sbocco, al fine di contribuire conseguimento degli obbiettivi di sviluppo e redditività a medio
termine dell’impresa. Questo compito viene svolto mediante attività di analisi, pianificazione e
coordinamento dirette alla formulazione e gestione di politiche rivolte a offrire prestazioni che presentino
un beneficio differenziale percepito rispetto alle prestazioni offerte dai concorrenti, e/o mediante la
creazione e gestione di relazioni con attori esterni dirette a rafforzare le capacità competitive.

Il marketing può essere inteso come funzione di confine, di interfaccia, tra l’impresa e il suo mercato di
sbocco, il suo compito primario è di gestire i flussi informativi tra l’impresa e il mercato, da un lato acquisendo
le conoscenze necessarie per impostare le strategie e le politiche da adottare e per monitorare i risultati,
dall’altro facendo conoscere il marchio e i prodotti dell’impresa e contribuendo a farne percepire una certa
immagine. L’azienda quindi svolge un insieme di attività (processi) volti a creare valore per il cliente, mediante
tecniche e metodi.
Il marketing però può essere inteso anche come filosofia organizzativa market-driven.

L’orientamento strategico della funzione di marketing


La finalità perseguita dalla funzione di marketing deve essere di contribuire al conseguimento degli obbiettivi
di sviluppo e redditività a medio termine dell’impresa, quindi deve orientare le sue azioni al conseguimento
da parte dell’impresa di un vantaggio competitivo significativo e difendibile rispetto ai concorrenti, che
rappresenta la base per la sopravvivenza, lo sviluppo e la redditività nel tempo. L’acquisizione di un vantaggio
competitivo comprende rapporti di scambio con gli acquirenti che garantiscano loro un beneficio superiore
rispetto a quello offerto dai concorrenti, la funzioni marketing deve, dunque, porre in atto politiche che
facciano percepire correttamente i vantaggi dell’offerta proposta. Inoltre, perché si acquisisca un vantaggio
competitivo occorre anche, però, che tale offerta si basi sul possesso di capacità distintive, cioè su

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competenze, risorse, relazioni, forme di integrazione che consentano una gestione più efficace e/o efficiente
di processi che assumono particolare criticità nelle fasi di progettazione, produzione, comunicazione,
consegna del valore ai clienti. Queste capacità possono essere frutto di competenze e risorse direttamente
controllate dall’impresa o possono essere esterne, attivate mediante relazioni cooperative con altri attori.

Le tipologie di rapporti di scambio da gestire


I rapporti di scambio che l’impresa sviluppa con i clienti possono assumere varie forme ed essere diretti a
finalità diversificate. Possono essere semplici transazioni, occasionali e ripetute: in questo caso lo scambio
avviene tra un prodotto e una somma di denaro, e si basa sulle preferenze e valutazioni di convenienza. In
alternativa, la forma di scambio si può configurare come relazione a lungo termine: le transazioni vengono
effettuate non solo sulla base della valutazione di interessi contingenti, ma in funzione di considerazioni di
più lungo periodo, supportate da una più ampia conoscenza tra i contraenti. Il rapporto tra acquirente e
venditore può assumere la configurazione di una partnership: in questo caso il rapporto è personalizzato,
implica il coinvolgimento di entrambi i soggetti nella progettazione e/o realizzazione della prestazione
fornita, si fonda su intensi scambi di informazioni e conoscenze, infine richiede reciproco adattamento,
fiducia, obbiettivi condivisi.

Differenze tra transazioni e relazioni cooperative


Rapporto impersonale VS Rapporto personalizzato
Prospettiva di breve termine VS medio-lungo termine
Ottica competitiva VS cooperativa

I diversi approcci al marketing


A seconda degli obbiettivi e della natura del rapporto di scambio, cambiano l’approccio e le metodologie che
la funzione di marketing deve adottare. Occorre, quindi, coerenza tra il contesto in cui si opera, il ruolo
assegnato al marketing e le logiche di comportamento da adottare. Operando una forte semplificazione, le
diverse metodologie di approccio possono essere ricondotte a due principali scuole di pensiero: una, più
tradizionale, focalizzata sulla gestione delle transazioni; e l’altra che fa riferimento agli studi di marketing
relazionale.

In base all’approccio più tradizionale, i processi gestiti dalla funzione marketing possono essere divisi in tre
aree di attività:
1. Le attività di marketing information, rivolte ad acquisire e analizzare le informazioni necessarie per
focalizzare le possibili alternative di comportamento, ridurre il rischio di decisioni errate e valutare i risultati
raggiunti.
2. Le attività di marketing strategico, riferite ai processi decisionali rivolti alla formulazione delle decisioni
strategiche.
3. Le attività di marketing operativo, volte alla predisposizione e attuazione dei programmi annuali riferiti
alle politiche del marketing mix (prodotto, comunicazione, produzione, prezzo).

Queste attività vanno gestite in modo sequenziale e coordinato fra loro, ma occorre che i processi di
marketing risultino integrati anche con gli altri processi aziendali. Occorre che tutte le attività dell’impresa
siano orientate in modo coerente con gli obbiettivi di differenziazione, soddisfazione dei consumatori e
acquisizione dei vantaggi competitivi perseguiti dal marketing.

Il marketing può contribuire a generare varie risorse:


• Risorse conoscitive: il marketing può potenziare la capacità di apprendimento dell’impresa mediante la
condivisione di valori.
• Risorse di immagine: una marca è la promessa di un insieme di attributi che il consumatore compra.
• Risorse relazionali: le relazioni che l’impresa instaura con i clienti e con le altre imprese contribuiscono ad
accrescere le capacità di cambiamento dell’impresa, sia in quanto fonte di nuove conoscenze, sia perché
consentono di mobilitare ulteriori risorse e competenze oltre a quelle direttamente controllate dall’impresa.

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19.2 Le tre aree di intervento del marketing

Il marketing information
Un’impresa orientata al mercato imposta le proprie strategie e politiche sulla base di un costante e
approfondito monitoraggio dell’ambiente esterno. Le attività di marketing information rappresentano una
componente fondamentale dei processi di marketing.
Il marketing information dovrebbe rispondere agli obbiettivi di:
 Cogliere e valutare le minacce e opportunità determinate dalle dinamiche della domanda,
dell’ambiente competitivo, della tecnologia, dell’ambiente generale;
 Acquisire stimoli, indicazioni e conoscenze per lo sviluppo di processi innovativi;
 Aiutare a identificare e valutare l’efficacia delle ipotesi alternative da considerare nella formulazione
delle strategie e delle politiche operative di marketing;
 Ridurre i rischi connessi alle principali decisioni da prendere;
 Quantificare in modo attendibile gli obbiettivi dei processi di pianificazione;
 Permettere di controllare i risultati raggiunti e individuare i problemi da affrontare.

Le informazioni da acquisire
Possono essere oggetto di analisi i seguenti elementi:
• L’ambiente generale – sociale, con la formulazione di scenari che ne aiutino a comprendere le dinamiche
evolutive.
• L’ambiente competitivo, per valutarne la struttura, la forza contrattuale delle diverse forze che in esse
operano, i fattori critici di successo, le tendenze, le attrattività.
• Le caratteristiche, i risultati, i comportamenti e le strategie degli attori che in esso operano.
• I clienti e i consumatori attuali e potenziali, si tratta di capire i fattori di attrattività che i diversi segmenti
di clienti possono presentare per l’impresa, la configurazione che devono avere le prestazioni offerte per
poterli soddisfare, le modalità con le quali è possibile influenzarne le scelte.
• L’ambiente interno, queste sono analisi funzionali a valutare i risultati raggiunti, i punti di forza e debolezza
rispetto ai concorrenti, le aspirazioni da soddisfare, i problemi da affrontare, le possibilità di adattamento
alle dinamiche ambientali.

Le fonti informative
Le fonti informative utilizzabili sono varie.
 Le rilevazioni interne effettuate dall’azienda per rispondere anche a obbiettivi di altre funzioni
aziendali.
 I contatti con i clienti, fornitori, concorrenti e intermediari commerciali.
 Le notizie di stampa e le informazioni reperibili su internet.
 Gli studi e le ricerche di enti (Banche d’Italia, associazioni di categoria) e società specializzate
acquisibili a pagamento o gratuitamente.
 Specifiche ricerche qualitative o quantitative appositamente commissionate ad agenzie specializzate.

Le tendenze evolutive
Negli ultimi anni si sono manifestate alcune tendenze evolutive nell’attività di marketing informativo.
 Lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che consentono la
raccolta continuativa e in tempo reale di un grande numero di informazioni sui consumatori e offrono
la possibilità di sviluppare conoscenze più approfondite e tempestive delle tecniche di indagine
tradizionale sulle dinamiche del mercato.
 La crescente criticità, nei processi decisionali, della variabile tempo per il successo. La necessità di
accorciare i tempi dei processi innovativi e delle risposte ai mutamenti di mercato diviene sempre

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più un ostacolo all’effettuazione del complesso di ricerche necessarie per ridurre il rischio
decisionale.
 La convergenza settoriale.
 L’evoluzione rapida del mondo del consumo: le contraddizioni della post modernità: tra fast e slow
living, tra ricerca di autenticità ed esperienze taroccate, tra proiezioni verso il futuro e vintage vs una
frammentazione dei consumi e l’esigenza di una segmentazione fine dei mercati

Interrogativi di base da porsi nell’elaborazione della strategia di marketing


1. A chi indirizzare l’offerta? Selezione del target – individuazione di segmenti omogenei al proprio
interno sulla base di criteri descrittivi (es. età), comportamentali (modalità d’uso), o dei benefici
ricercati.
2. Perché i consumatori dovrebbero preferire il nostro prodotto? Focus su aspettative, percezioni del
nostro prodotto e di quello dei concorrenti – per poi elaborare la proposta di valore, il concept del
prodotto (caratteristiche fisiche, design, servizi) ed il posizionamento del brand (nella mente dei
consumatori). Definizione della Value proposition.
3. Cosa dovremmo conoscere e saper fare meglio dei concorrenti? Individuazione delle risorse attivabili
all’interno e tramite relazioni con soggetti esterni

Il marketing strategico
L’obiettivo è quello di delineare la strategia competitiva e la strategia di marketing (obiettivi, segmentazione,
scelta del target group, posizionamento).
Secondo l’approccio tradizionale, le strategie di marketing sono generalmente formulate assumendo come
unità di riferimento il brand o il prodotto, invece, secondo l’approccio relazionale, assume come unità base
di riferimento le relazioni con i singoli clienti.

Il marketing operativo
Alla formulazione delle strategie segue le predisposizioni dei piani operativi. Poiché le attività da svolgere
sono molteplici e diversificate, per poterle programmare in modo sistematico sono stati elaborati dei modelli
di classificazione di tali politiche. L’approccio tradizionale organizza le politiche operative in quattro tipologie.
4P:
 Politiche del prodotto: attributi del prodotto, servizi associati, quantità e varietà dei modelli, marca,
packaging.
 Politiche di comunicazione: pubblicità, promozione, comunicazione tramite forza vendita,
sponsorizzazioni, pubbliche relazioni (ruolo del web).
 Politiche di distribuzione: scelta del canale (diretto, breve, lungo), ampiezza della distribuzione
(intensiva, selettiva, esclusiva), rapporti con gli intermediari (GDO).
 Politiche di prezzo: possibili obiettivi sono la redditività attesa, la quota di mercato attesa, il
posizionamento del marchio; variabili chiave sono la domanda, la concorrenza, la struttura dei costi.

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Sulla base della loro denominazione in lingua inglese, il modello è comunemente conosciuto come il modello
delle quattro “P” del marketing mix. Va precisato che esso risponde solo a esigenze funzionali, cioè può essere
modificato in base alle specifiche problematiche che si incontrano nel contesto in cui si opera. Le politiche
del marketing mix devono essere conseguenti alle scelte strategiche relative al target e al posizionamento e
devono essere coerenti tra di loro. Ogni politica del marketing mix risponde a un duplice scopo: da un lato
svolge specifiche funzioni nei processi di ideazione, comunicazione e trasferimento del valore; dall’altro
contribuisce a influenzare la percezione dei consumatori del valore loro offerto.

Strategie basate sul brand o sul prodotto (gestione delle transazioni)


Il marketing, sulla base dello studio del mercato, deve definire la value proposition, il concept del prodotto e
il posizionamento del brand. La value proposition indica come il prodotto, le modalità di offerta e i servizi
annessi creano valore per il consumatore, cioè contribuiscono a risolvere i suoi problemi e a fargli conseguire
obbiettivi di suo interesse in modo più efficace e efficiente delle marche concorrenti.
Il posizionamento del brand precisa come si vuole che esso sia percepito e memorizzato dai consumatori in
rapporto ai concorrenti, cioè come esso si colloca nella mente dei consumatori con riferimento alle
alternative di scelta percepite per soddisfare un bisogno o un desiderio.

Strategie basate sui clienti (marketing relazionale)


Il marketing relazionale imposta la strategia dell’impresa sullo sviluppo di relazioni di medio – lungo termine
con singoli clienti o con gruppi di clienti, che possono determinare forme più o meno intense di
collaborazione e di personalizzazione dell’offerta. L’oggetto di scambio tende a essere definito
congiuntamente tra gli attori dello scambio: non è, quindi, un bene predefinito che viene trasferito dal
venditore all’acquirente, ma è il risultato dell’interazione tra conoscenze, esperienze ed esigenze differenti
dei due attori, che trovano un punto di incontro e di sintesi nella prestazione alle fine fornita. L’ottica adottata
non è di consegnare un prodotto a fronte di un corrispettivo in denaro, ma di aiutare il cliente a trovare
soluzioni che gli consentano di raggiungere in modo più efficace/efficiente le sue finalità.
Gli obbiettivi del marketing assumono come riferimento i singoli clienti, e le finalità da perseguire in ogni
rapporto possono essere fortemente diversificate e variare da obbiettivi di redditività a obbiettivi di
apprendimento, innovazione, immagine, accesso a nuovi clienti.
Si va verso una pluralità di approcci del marketing:
- business marketing
- service marketing
- trade marketing
La centralità è nelle relazioni di scambio e nei “mercati addomesticati”. La dimensione relazionale dello
scambio e il marketing sono viste come attività di gestione di una rete di relazioni.

19.3 I processi evolutivi del marketing

Il ruolo della funzione di marketing ha subito un’evoluzione nel tempo determinata dai mutamenti
intervenuti nell’ambiente – mercato, nella tecnologia, nella struttura organizzativa delle imprese e nelle loro
strategie competitive. Solo nel corso degli anni Sessanta si giunge a una sistemazione dei concetti e delle
tecniche su cui si fonda il marketing management e il marketing diviene una disciplina di studio con contenuti
propri e una strumentazione concettuale originale. Negli anni settanta, comincia a diffondersi nelle imprese
di beni di largo consumo un orientamento al mercato, ovvero un approccio all’elaborazione della strategia
competitiva che prende avvio dall’analisi delle variabili esterne, soprattutto dallo studio dei bisogni e desideri
dei consumatori, e si pone l’obbiettivo di acquisire vantaggi competitivi mediante la differenziazione dei
prodotti e la soddisfazione dei consumatori.
I suoi compiti, in precedenza circoscritti alle attività strettamente connesse alla vendita, si ampliano e
includono l’analisi di mercato, la scelta dei target a cui rivolgere il prodotto e del posizionamento della marca,
la gestione di tutte le leve del marketing mix. Viene inoltre ad assumere un ruolo di integrazione e

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coordinamento di tutte le attività che possono influenzare l’immagine di marca e la soddisfazione dei
consumatori.
Negli anni ottanta questo scenario cambia, soprattutto per i mutamenti nelle tecnologie di produzione
conseguenti allo sviluppo dell’elettronica. Con riferimento ai mercati di sbocco, cresce la frammentazione
sociale e, quindi, la varietà della domanda, aumenta l’importanza del significato simbolico dei prodotti, i
mercati si globalizzano. In questo contesto il successo competitivo delle imprese non dipende più solo o
principalmente dal marketing, ma anche dalla capacità di ristrutturare i processi produttivi, di adottare nuovi
modelli organizzativi. Sorge la necessità di passare da un approccio settoriale all’elaborazione delle politiche
di mercato a un approccio strategico, che consideri in un’ottica integrata tutte le potenzialità espresse dalle
diverse funzioni aziendali.
Un’altra importante area di specializzazione è costituita dal trade marketing, rivolto ad analizzare le strategie
di marketing da applicare nei confronti degli intermediari commerciali, considerati alla stregua di clienti. Nel
corso degli anni ottanta si sviluppa l’elaborazione di paradigmi alternativi a quello dominante, il quale
presentava dei limiti interpretativi quando veniva applicato a contesti differenti da quello per il quale era
stato originariamente creato, nasce così il marketing relazionale, che è applicato ai beni industriali e ai servizi.
A partire dagli anni novanta lo scenario subisce un’ulteriore modifica, il fatto nuovo di maggior rilievo è
costituito dallo sviluppo e dalla diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione
(ICT). Le ICT ampliano in modo straordinario le possibilità di informazione e di scelta dei consumatori,
configurano nuovi canali di vendita e comunicazione, creano le condizioni per rapporti più interattivi tra
venditori e acquirenti e per l’instaurarsi di relazioni tra i consumatori. Dal lato della domanda si assiste a
un’ulteriore crescita della varietà/variabilità, ma anche a processi che riducono l’influenzabilità dei
consumatori. Cresce la frammentazione della società e i consumatori hanno un’identità sempre più mutevole
e sfaccettata. Aumenta la richiesta di personalizzazione dei prodotti e dei sistemi di offerta, nel contempo gli
acquirenti diventano più competenti ed esigenti, e aumenta l’attenzione al prezzo. Queste tendenze riducono
le capacità di condizionamento dei comportamenti di acquisto tramite le tradizionali politiche del marketing
mix, e quindi, nasce la necessità di ricercare nuovi approcci al mercato.

 Value defining/understanding
 Value developing/creating
 Value delivering/communicating

I trend del marketing


 Da approccio adattivo ad approccio proattivo
 Da visione settoriale ad approccio olistico
 Da consumi di massa alla personalizzazione dei prodotti
 Da rapporti unidirezionali all’interazione
 Da differenziazione del prodotto alla creazione del valore e alla creazione congiunta di valore
 Da scambio di valore a visione processuale
 Da approccio pianificato a incrementalismo
 Dal prodotto all’esperienza

Gli studi sviluppati nell’ambito della disciplina di marketing degli ultimi quindici anni sono stati in larga parte
rivolti a supportare e orientare questi processi evolutivi. Si rileva innanzitutto una focalizzazione
dell’attenzione sui processi di creazione del valore, considerati in tutte le loro fasi. Particolare attenzione è
stata rivolta alla valorizzazione delle nuove opportunità offerte da internet per comunicare, informare e per
interagire con i consumatori. Sono state esplorate nuove possibilità per la creazione di valore, attraverso
l’elaborazione sul marketing esperienziale e laterale. Con il marketing virale e tribale sono stati proposti nuovi
modelli operativi e concettuali per coinvolgere i consumatori nell’attribuzione di significati e valori simbolici
ai prodotti. Poi sono stati elaborati approcci tendenti a ricondurre in schemi unitari di sintesi i molteplici
compiti che nell’attuale realtà il marketing deve assolvere nelle imprese, e in questo caso parliamo di
marketing olistico e integrato:

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 Superare la seconda miopia del marketing: le relazioni vanno costruite e mantenute non solo con I
clienti, ma con i principali stakeholders!
 Il marketing è una attività diffusa nelle organizzazioni
 Il marketing comprende persone a tempo pieno e part time

Un ulteriore ambito di cambiamento riguarda il modello d’impresa, esse evolvono verso strutture più snelle
e organiche, e parallelamente puntano ad ampliare le possibilità di mobilitare risorse qualificate esterne.
Questo nuovo scenario richiede modifiche nelle strategie e nelle politiche di marketing.
Possiamo rilevare i trend in atto:
 Crescenti investimenti per sfruttare le nuove possibilità offerte da internet;
 La ricerca di rapporti più stabili con i consumatori, con politiche di marketing volte ad accrescere la
fidelizzazione dei consumatori;
 Una tendenza verso l’ipersegmentazione dei mercati, determinata dalla ricerca di nicchie che
consentano una differenziazione dai concorrenti;
 Una particolare attenzione verso l’individuazione di nuove possibilità di creare valore per i clienti,
facendo leva sull’esperienza che il consumatore vive al momento dell’acquisto o del consumo dei
beni/servizi offerti;
 L’esplorazione di opportunità connesse all’individuazione di nuovi mercati, che possono basarsi su
nuovi bisogni, nuove segmentazione dei consumatori.

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Capitolo 20 La distribuzione commerciale
20.1 La rilevanza della distribuzione

La distribuzione nel corso degli anni si è evoluta, da mera attività rivolta al collocamento fisico dei prodotti
dell’impresa sul mercato, è divenuta un’area strategica in cui sempre più frequentemente l’impresa
industriale si è interfacciata con player caratterizzati da un elevato potere di mercato e che pongono in essere
proprie strategie, potenzialmente in conflitto con gli obbiettivi stessi dell’impresa.
Non è quindi più solo un canale, ma è costituita da attori di potere capaci di condizionare le vendite sul
mercato finale e capaci di influenzare il consumatore.

La distribuzione svolge due ruoli strategici:


- Comunicazione del valore: la distribuzione parla al cliente, è in contatto con lui e quindi è
importantissima per l’azienda.
- Diretto contatto con il cliente: capta segnali di cambiamento e ciò che non va.

Le funzioni che la distribuzione svolge in primo luogo sono le cosiddette funzioni primarie, e riguardano tutte
le attività strettamente connesse alla commercializzazione fisica dei prodotti, e sono sostanzialmente
quattro:
1. Disparità di luogo, in questo caso la distribuzione consente di ridurre la distanza tra luoghi dove il
bene è prodotto dall’impresa industriale, e luoghi dove esso è acquistato e consumato dai clienti
finali. Tale funzione si sostanzia nello specifico in attività di trasporto fisico del prodotto.
2. Disparità di tempo, il bene è in genere prodotto anche molto tempo prima rispetto all’acquisto del
consumatore. Si rende necessaria quindi un’attività che consente di conciliare i diversi tempi della
produzione con quelli del consumo, e si concretizza mediante il magazzinaggio dei beni.
3. Disparità di quantità, i beni infatti sono prodotti dall’impresa industriale in grande quantità, laddove
il consumo richiede per ogni atto di acquisto quantità di ridotto ammontare. In questo caso la
distribuzione assolve il compito del cosiddetto “frazionamento”, consentendo alla produzione di
operare con efficienza e al consumo di accedere al prodotto secondo le proprie tempistiche.
4. Disparità di qualità, in questo caso la distribuzione consente di rispondere all’esigenza di varietà del
consumo. Quindi la distribuzione consente la costruzione di assortimenti ampi e profondi che mirano
a offrire al consumo finale un’articolata e ampia varietà qualitativa di beni.

A fianco di queste quattro funzioni primarie, ci sono quelle secondarie, che non sono collegate direttamente
alla commercializzazione fisica del prodotto. Tra queste, si è soliti comprendere alcune attività che la
distribuzione svolge e sono le funzioni di
1. Promozione,
2. Stimolo delle vendite all’interno del punto vendita,
3. Orientamento e informazione del consumo con riferimento alle varietà di prodotti in assortimento.

Le strategie di mercato sono due:


- Strategia push: considera come cliente il distributore. Le strategie di relazione portano a una fedeltà
con il distributore. Si punta all’intermediario perché se viene fidelizzato l’intermediario, si presume
che si venderà di più sul mercato finale.
- Strategia pull: punta al consumatore finale. Attività volta a far sì che il consumatore alla fine
usufruisca di prodotti in modo tale da scegliere sempre quel prodotto perché convinti dalla qualità
del prodotto.

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20.2 Le tipologie di intermediari commerciali

Per intermediari commerciali si intendono attori specializzati nell’espletamento delle funzioni della
distribuzione. In linea generale esistono due grandi categorie:
(i) gli intermediari che operano all’ingrosso, identificati con il termine di grossisti;
(ii) e gli intermediari che operano al dettaglio, identificati con il termine dettaglianti.

20.3 I canali distributivi: le alternative di configurazione e i fattori della scelta

L’insieme di istituzioni indipendenti coinvolte nel processo che rende un prodotto o un servizio disponibile
per essere utilizzato da un consumatore o da un’impresa. In altri termini, si tratta del percorso che il bene
compie nel passaggio tra produzione e consumo, nel quale si assiste anche a un passaggio di proprietà dello
stesso tra i diversi attori. La configurazione del canale di distribuzione si sostanzia nella scelta di quanti stadi
questo deve avvalersi per raggiungere il cliente finale.
In senso stretto fanno parte del canale di distribuzione quattro tipologie di soggetti: l’impresa industriale, il
grossista, il dettagliante e il cliente finale. A questi, si aggiungono soggetti che pur non essendo attori in senso
stretto, in quanto non acquistano la proprietà del bene, consentono un più efficacie funzionamento del
canale di distribuzione, e sono detti “ausiliari del commercio” come agenti, rappresentanti etc.
I canali distributivi possono essere:
- canale diretto, si vende direttamente al cliente (Olio Carli),
- canale breve, dove c’è un intermediario che è il dettagliante (bticino),
- canale lungo a due stadi, dove c’è sia il grossista che il dettagliante (moment act),
- canale lungo a tre stadi, dove prima del grossista c’è anche la figura dell’agente.

Si identificano almeno due configurazioni, il canale di distribuzione indiretto breve, dove tra impresa
industriale e consumatore finale esiste un unico livello di intermediazione commerciale (il dettaglio); e il
canale di distribuzione indiretto lungo, dove tra impresa industriale e consumatore finale esistono due livelli
di intermediazioni commerciale successivi (l’ingrosso e il dettaglio).

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I sistemi multicanale
Ci possono essere diversi canali per diversi segmenti. È un processo usato da diverse imprese e alcune aziende
si stanno rendendo conto che questo sistema di multicanalità non funziona perché c’è un segmento di
consumatori che usano un canale online e offline. La necessità è di essere coerente con tutti i canali, online
o fisici.

Fattori di scelta
La scelta della configurazione del canale di distribuzione ottimale discende da una serie di fattori, in
particolare possono essere rilevanti i seguenti:
1. Fattori relativi al prodotto, assumono rilevanza una serie di elementi caratterizzanti il prodotto, come la
natura merceologica o il livello di complessità tecnica. Qua troviamo la deperibilità del bene, la sua
complessità, la voluminosità e il valore unitario.
2. Fattori relativi all’impresa, si fa riferimento in primo luogo alle risorse finanziarie di cui la stessa dispone,
poi si prende in considerazione le strategie di marketing e infine la dimensione e quote di mercato.
3. Fattori relativi alla concorrenza, in questo caso l’impresa valuta i comportamenti dei concorrenti per
uniformarsi o per distinguersi dalle politiche da essi impostate, e qua troviamo come fattori la numerosità
dei concorrenti e i canali utilizzati.
4. Fattori relativi al mercato, le caratteristiche del mercato finale possono influire verso la scelta di un canale,
e qua troviamo la numerosità dei clienti e i modelli d’acquisto.
5. Fattori relativi ai distributori, la configurazione del canale da utilizzare può dipendere da alcuni aspetti
connessi al profilo degli intermediari, come le condizioni di efficienza.

20.4 Altre scelte rilevanti nel raccordo con gli intermediari commerciali

Dopo aver selezionato la configurazione ottimale in termini di canali di distribuzione, l’impresa industriale
deve definire almeno altri due aspetti essenziali nel raccordo con gli intermediari finanziari: la strategia di
copertura del mercato distributivo e le decisioni in tema di forza vendita. Per quanto riguarda le strategie di
copertura, quando l’impresa seleziona il canale indiretto, la stessa dovrà rispondere alla domanda di quali e
quanti distributori utilizzare.
In questo ambito abbiamo due alternative, la prima è la cosiddetta copertura intensiva, attraverso la quale
l’impresa industriale decide di ricorrere al maggior numero di intermediari commerciali presenti nel mercato
distributivo, viene selezionata da imprese che vendono prodotti ad acquisto ripetuto e di uso corrente, dove
il prodotto non fosse presente nel punto vendita visitato, l’acquirente potrebbe decidere di acquistarne uno
concorrente.
La seconda strategia è la copertura selettiva, dove l’impresa decide di selezionare solo alcuni punti vendita
in cui collocare i propri prodotti rispetto al numero di distributori potenzialmente disponibili, viene
selezionato che vendono prodotti ad acquisto ragionato.
Infine la copertura esclusiva, con l’impresa industriale che può concedere, attraverso accordi contrattuali
specifici (franchising) l’esclusiva territoriale e/o di prodotto ad alcuni punti vendita.

20.5 Il commercio elettronico: il ruolo di internet come canale di vendita

Internet è emerso nell’ultimo decennio come un nuovo canale di vendita, la sua diffusione è tale che le
potenzialità distributive di questo nuovo canale sono di fatto accessibili a tutte le tipologie di imprese
industriali. È possibile osservare due tendenze contrapposte ma compresenti con l’affermarsi della rete da
un punto di vista distributivo. Da una parte, lo sviluppo della rete ha reso possibile per tutte le imprese
industriali l’attivazione di un contatto diretto con i singoli consumatori, si tratta in questi casi del fenomeno
di disintermediazione, per cui le imprese industriali cercano di sostituire il canale indiretto offline, che
riguarda il ricorso a intermediari fisici, con il canale diretto online, tramite lo sviluppo di siti web con

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funzionalità di e – commerce (vendita online). Dall’altra parte, la rete ha generato un fenomeno opposto,
ovvero la necessità per gli acquirenti che ne fanno ricorso di ottenere una razionalizzazione e organizzazione
dell’elevata quantità di informazioni e di offerte presenti in rete, questo fenomeno è stato identificato con il
termine di reintermediazione, e in questo caso sono nati nella rete e seguono logiche differenti dal mercato
offline dei nuovi attori che intermediano on line prodotti e servizi (Amazon).
Nello specifico i vantaggi per il cliente finale sono rinvenibili almeno nei seguenti aspetti.
• Superamento dei vincoli spaziali e temporali connessi all’acquisto in luoghi commerciali offline.
• Ottenimento di maggiori informazioni e velocizzazione del processo di acquisto.
• Maggiore possibilità di interazione con il cliente finale.

Il trade marketing
È l’insieme delle strategie e degli strumenti di marketing utilizzati dalle imprese industriali nel porsi in
relazione con le imprese commerciali.

 Marketing AL trade
Politica ad hoc per gestire i rapporti con la distribuzione
 Marketing ATTRAVERSO il trade
Gestire i rapporti con il trade per far sì che le politiche di marketing raggiungano i consumatori finali

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Capitolo 16 L’innovazione
16.1 Il rapporto tra innovazione e competitività

Possiamo definire l’invenzione la scoperta o l’elaborazione di nuove idee e tecnologie, invece l’innovazione
è la trasformazione di una nuova idea o tecnologia in un prodotto/servizio commercializzato presso i
consumatori, che la percepiscono come nuova. L’innovazione è un processo complesso: non tutte le
invenzioni diventano automaticamente innovazioni.
Questa prima distinzione mette in evidenza il legame tra processo d’innovazione e l’attività d’impresa,
orientata alla definizione di un’offerta di prodotti in linea con le esigenze del mercato o in grado di anticiparle
per ottenere un vantaggio economico competitivo difendibile.
Schumpeter è stato il primo studioso che ha guardato al concetto di innovazione proprio analizzandolo come
un’attività centrale dell’agire imprenditoriale. Nella sua visione, l’imprenditore è un innovatore, colui che
attraverso le proprie capacità, intuito e creatività identifica nuove potenzialità nelle tecnologie e le traduce
in processi e prodotti gestiti dall’impresa. Attraverso la sua capacità di scoprire ambiti di mercato inesplorati
e di introdurre nuove tecnologie crea un differenziale di competitività con le altre imprese. Questa sua
capacità competitiva garantisce una rendita monopolistica temporanea che distrugge il mercato esistente,
creandone uno nuovo (distruzione creatrice). Chi innova di fatto rende obsolete le offerte dei prodotti
concorrenti e contribuisce a spostare la competizione a un livello più avanzato. In questo percorso molte
imprese possono scomparire (distruzione), ma ne possono nascere (creazione) nuove e più efficienti.

Questo modo di vedere il rapporto tra innovazione e impresa, in cui al centro viene posto l’imprenditore, è
superato negli studi successivi dello stesso Schumpeter. Il protagonista del processo innovativo non è più il
singolo imprenditore (e la piccola impresa), ma la grande impresa manageriale quale baricentro dei processi
di innovazione. Solo l’impresa di grandi dimensioni ha le risorse e le competenze necessarie per effettuare
gli investimenti a sostegno dell’innovazione. In questa prospettiva la grande azienda è l’unica in grado di
poter alimentare il processo innovativo per mezzo di un diretto controllo delle conoscenze scientifiche e
tecnologiche necessarie.

16.2 Le fonti dell’innovazione: economia delle reti e open innovation

Generare innovazioni: tecnologia, domanda, design


Attraverso una definizione e una mappatura degli elementi e dei fattori che attivano l’innovazione e da cui
scaturiscono le esigenze di generazione del nuovo è possibile comprendere i differenti modelli di innovazione
e le tendenze evolutive che contraddistinguono il nuovo paradigma.
La teoria dell’innovazione ha identificato una prima classificazione dell’innovazione sulla base delle fonti,
esplicitando tre diversi approcci.
a) Technology push: l’innovazione nasce da nuove conoscenze scientifiche prodotte o nuove disponibilità
tecniche che spingono l’impresa verso l’ideazione di un’offerta nuova o migliore. Queste innovazioni sono
generate dalle funzioni R&S e non essendo esplicitamente espresse dal mercato, possono anticipare le
esigenze della domanda.
b) Demand pull: l’innovazione in questo caso nasce dalla domanda di mercato, attraverso lo studio delle
esigenze e i bisogni nuovi, insoddisfatti, latenti che manifestano i consumatori (effettivi e potenziali). In
questo caso la funzione marketing interagisce con la R&S, la quale ricorrerà alle tecnologie esistenti o
contribuirà a svilupparne di nuove al fine di elaborare prototipi di prodotto nuovo in funzione delle esigenze
della domanda.
c) Design driven: in questa prospettiva l’innovazione risiede nella capacità di elaborare significati particolari
e distintivi (esperienza ludica, divertimento, immaginazione, bellezza ecc.) e di veicolarli ai consumatori.

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In questo quadro, un’altra importante differenza riguarda la classificazione delle fonti dell’innovazione
rispetto ai confini dell’impresa. Si possono distinguere fonti interne e fonti esterne. Le conoscenze di cui può
disporre l’impresa al proprio interno possono riguardare da un lato l’ambito scientifico e della ricerca, che fa
capo alla funzione R&S, dall’altro lato alle conoscenze relative ai processi, ai prodotti e ai mercati che possono
essere riferite a specifiche funzioni (la produzione, il marketing).
Le conoscenze possono essere originate da un processo di apprendimento (learning) connesso al fare
quotidiano (learning by doing), all’attività di utilizzo (learning by using) o a specifiche attività di ricerca
finalizzate (learning by searching).

L’open innovation e il ruolo degli utilizzatori


Il modello di innovazione gerarchica e centrale, che ha contraddistinto il paradigma fordista, incentrato
sull’impresa – sul produttore come attore chiave e soggetto che governa l’innovazione – viene affiancato da
un modello alternativo che invece assume una natura più aperta e periferica. L’innovazione diventa aperta
(open innovation), nel senso che le fonti della conoscenza non sono più solamente rinchiuse entro i confini
proprietari dell’impresa, ma vi è un riconoscimento del valore attribuito al sapere detenuto da soggetti
esterni. Questo processo di open innovation prevede il superamento dell’innovazione basata sull’impresa
manageriale (gerarchica e accentrata) attraverso:
 la valorizzione di saperi esterni dell’azienda;
 la nascita di nuove imprese (spin-off, start-up) basate su idee sviluppate internamente ma che non
riescono ad essere impiegate nel business dell’azienda.
 Exploitation: implementazione e analisi di diverse strategie per commercializzare propria tecnologia
anche in settori non affini a quello in cui è nata.
 Exploration: Ricerca e accesso a risorse esterne di conoscenza e tecnologia:
- utenti innovativi per il cosviluppo di prodotti e tecnologie
- appello al crowdsourcing
- enti di ricerca ed università (attraverso i TTO – centri di trasferimento tecnologico)…

Il ruolo dei consumatori


In questa prospettiva un contributo rilevante alla teoria dell’innovazione è stato offerto da Eric von Hippel,
che ha posto l’utilizzatore al centro del processo di sviluppo e di scambio di conoscenze utili ai fini
dell’innovazione. Secondo von Hippel non è solamente il produttore a controllare e ad attivare l’innovazione,
al contrario, il ruolo degli utilizzatori può essere particolarmente critico per la definizione delle traiettorie
innovative sia sul fronte dell’innovazione incrementale, sia nell’ambito dell’innovazione radicale.
Nello specifico viene identificata una particolare categoria di utilizzatori, i lead user, o utilizzatori esperti, che
dispongono di conoscenze molto evolute e specializzate riguardo al prodotto e/o al suo contesto d’uso
(learning by using). In questo modello il consumatore diventa l’attivatore dell’innovazione in un paradigma
fondato sul consumo e sulla collaborazione tra consumatore e impresa.
I lead user si possono considerare dei pionieri nell’innovazione, soggetti aperti alla sperimentazione e in
grado di anticipare gli altri consumatori. In questa prospettiva i lead user hanno specifiche caratteristiche che
li rendono dei soggetti chiave da coinvolgere in modo interattivo e collaborativo nelle strategie di innovazione

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dell’impresa. Hanno un chiaro beneficio economico connesso all’introduzione dell’innovazione, e per questo
sono interessati a diventare parte attiva, scambiando conoscenze con l’impresa.
Secondo Verona e Prandelli i lead user hanno caratteristiche specifiche:
 un chiaro beneficio economico connesso all’introduzione dell’innovazione, e per questo sono
interessati a diventare parte attiva, scambiando conoscenze con l’impresa.
 un’elevata expertise legata all’esperienza e all’interesse verso uno specifico ambito, molto spesso
superiore anche alle conoscenze interne all’impresa.
 una significativa capacità di prevedere e di anticipare, anche di molto tempo, le necessità e le
esigenze del mercato (di mass) prima che queste si manifestino, riuscendo quindi a offrire un
significativo vantaggio alle imprese con cui si relazionano.

Le comunità di pratica
Il valore che il profilo dei lead user acquista nel nuovo paradigma è connesso anche alla trasformazione del
consumo e all’emergere di soggetti collettivi in grado di dare un contributo importante alla dinamica
innovativa: le comunità (di consumatori, professionali). Il consumo post–fordista si connota per essere
fortemente orientato alla partecipazione e all’esperienza, allo stesso tempo l’esperienza viene riconosciuta
in termini di percorso di apprendimento del consumatore (learning by using), identificando nei lead user i
soggetti potenzialmente rilevanti nel processo di innovazione dell’impresa per le conoscenze acquisite e per
il sistema di relazioni in cui sono inseriti.
L’elaborazione di conoscenze avanzate da parte dei lead user non avviene nel vuoto sociale ma attraverso la
condivisione della propria esperienza ed il confronto con altri utenti all’interno di comunità di pratica.
Le comunità di pratica si fondano su pratiche di lavoro condivise e distintive che strutturano i modi
(partecipazione, reificazione) attraverso cui i saperi professionali vengono selezionati e diffusi (Wenger,
1998). Le comunità di pratica rappresentano il luogo cardine entro cui si attivano processi di apprendimento,
dove la generazione di nuova conoscenza è inseparabile rispetto al contesto della pratica.

Open source
Uno degli esempi più emblematici del ruolo delle comunità di pratica nell’innovazione è l’open source. L’open
source prevede che il codice sorgente di un software sia accessibile e liberamente modificabile dai
programmatori. Attraverso questo meccanismo di condivisione e partecipazione, la comunità di pratica dei
programmatori è stata in grado di sviluppare e di far evolvere nel tempo software di alto livello (p.e. Linux)

Le reti e gli intermediari dell’innovazione


Il paradigma dell’open innovation pone l’enfasi sulla capacità dell’impresa di costruire e gestire reti con
soggetti esterni.
Le reti dell’innovazione possono essere
 verticali: l’impresa collabora con fornitori (a monte) o consumatori (a valle),
 orizzontali: l’impresa collabora con imprese dello stesso settore,
 laterali: l’impresa collabora con imprese di settori affini

Per mezzo della rete l’impresa può condividere i costi e gli sforzi organizzativi dell’innovazione, mantenendo
aperte attraverso le relazioni nuove opportunità.

Il processo di innovazione
L’innovazione si può applicare a due ambiti principali:
 di prodotto che consiste nell’ideazione e nella successiva realizzazione (industrializzazione) di una
nuova offerta per il consumatore
 di processo che consiste nell’introduzione di una soluzione organizzativa per ridefinire o migliorare
un’attività aziendale, in particolar modo con riferimento al contesto della produzione.

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Le tipologie di innovazione
Esistono diverse tipologie di innovazione in cui si articola l’innovazione di prodotto e di processo, questo varia
sulla base del grado di cambiamento necessario al processo produttivo e al prodotto stesso.
 innovazioni radicali (o breakthrough) le innovazioni che hanno per oggetto una nuova generazione
di prodotti o processi che necessitano di una nuova impostazione del processo produttivo o
introducono cambiamenti profondi nelle attività dell’impresa. Le innovazioni radicali di solito sono
connesse all’avvento di una nuova tecnologia di prodotto e/o di processo.
 innovazioni derivate, che si incentrano prevalentemente sul miglioramento e sulla messa a punto di
aspetti particolari o funzioni del prodotto o del processo in questione.
 innovazioni piattaforma, che non rappresentano una rottura reale con i prodotti o i processi
precedenti, ma si basano su una piattaforma (una linea di prodotti) che permette di poter introdurre
dei cambiamenti rispetto ai prodotti (o processi) esistenti, ma con un certo grado di novità, come se
fossero nuove generazioni.

L’innovazione sequenziale e simultanea


Il processo di innovazione può essere organizzato in due modalità principali:
 Sequenziale, le fasi del processo di innovazione (dall’idea all’industrializzazione del prodotto)
vengono eseguite una dopo l’altra senza sovrapposizioni (modello della grande impresa
manageriale).
 Simultanea, le fasi sono tra loro parzialmente o totalmente sovrapposte e svolte in modo parallelo
(modello giapponese)

16.4 L’innovazione simbolica: il design

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La tecnologia è uno dei fattori fondamentali nel processo di innovazione: innovazione technology-based
intesa come traduzione e replicazione delle scoperte scientifiche e delle innovazioni tecnologiche in processi
e prodotti standard.
Da questo punto di vista il design sembra giocare un ruolo marginale: innovazione design-based, intesa come
intervento teso a qualificare esteticamente prodotti di nicchia, quasi artigianali.

A questa contrapposizione tra innovazione e design corrisponde una diversa specializzazione industriale:
 Le grandi imprese si sono focalizzate sull’innovazione intesa come incremento delle prestazioni
funzionali e tecniche del prodotto (innovazione tecnologica);
 Le piccole e medie imprese, in particolare quelle italiane, hanno invece puntato sull’innovazione
estetica del prodotto (design).

L’incontro tra designer e artigiani è stato facilitare dallo specifico modello di sviluppo industriali italiano
basato sui distretti. Questo modello di organizzazione economica consente di combinare tra loro flessibilità
(piccoli lotti produttivi, differenziazione produttiva) e qualità (attenzione ai dettagli, cura artigianale del
prodotto) produttiva.

Il caso del vetro di Murano


Uno degli ambiti dove si è manifestato con maggiore chiarezza questo incontro tra design e artigianato è il
vetro di Murano.
 Da un lato il designer, si impegna ad attribuire uno stile distintivo agli artefatti che progetta
 Dall’altro il maestro vetraio, è sistematicamente impegnato nel tradurre intuizioni di carattere
formale in un prodotto unico.

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