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ECONOMIA E GESTIONE DELLE IMPRESE

1. Razionalismo economico. Continuità e limiti nell’impresa “rappresentativa”

1. Introduzione

Oggi viviamo nella service economy. I servizi sono intangibili, deperibili, eterogenei e inseparabili.
Cavalieri distingue 2 classi di aziende:
• Impresa: realizza la sua f di produzione operando sui mercati e affrontando la competizione dal
lato della domanda e dell’offerta, opera in piena concorrenza  Barilla
• Aziende: realizzano la f produttiva operando in ambienti particolari dove la concorrenza è
attenuata o indiretta Atac, fondazioni, cooperative
Per analizzare il grado di concorrenza vedo l’omogenerità tra beni: bisogno soddisfatto, tecnologia,
materiali usati, commercializzazione…
Perché l’impresa è un sistema? Due considerazioni preliminari.
Nei primi anni di vita le aziende sono organizzazioni semplici che possono trasformarsi in
organizzazioni articolate e complesse. L’assunzione delle caratteristiche di “sistemicità” è la condizione
necessaria, ancorché non sufficiente, perché le stesse entità possano sopravvivere nel tempo e
competere con successo o, addirittura, maturare un vantaggio.
Le imprese non sono mai certe di mantenersi automaticamente in condizione di sistemicità nella loro
vita. L’imprenditore “intelligente” deve sempre interrogarsi a proposito della sua sistemicità e
dell’evoluzione di tale condizione, o deve porre tale problema a collaboratori o consulenti.
Quindi, l’affermazione secondo cui “l’impresa è un sistema” è tutta da dimostrare e implica ricerca.

2. Una prima elementare rappresentazione dell’impresa che vogliamo “sistema”

Ci focalizziamo sulle org. sociali che si denominano aziende di produzione, cioè sulle imprese:
a) nella loro individuale caratterizzazione economica di entità con specifiche dimensioni
organizzative e con precisi confini rispetto a tutte le altre organizzazioni del settore nel quale
sono entrate e operano;
b) nella loro caratterizzazione di parti di una totalità, ovvero di un’organizzazione sociale
pluralistica, generalmente definita sistema della società, costituita di entità differenti le une dalle
altre, tuttavia collettivamente interagenti.
Ogni impresa occupa uno spazio nel settore dell’economia in cui è entrata, detto ambiente specifico
dell’impresa (task environment), a sua volta, parte di un più vasto ambiente generale (general
environment), ove compaiono organizzazioni di tipo diverso da quello dell’impresa., come
organizzazioni a-specifiche (non specifiche di alcun settore di attività economica: P.A., organizzazioni
della società civile, organismi sopranazionali che influenzano più o meno il mondo produttivo), con cui
si rapportano. Per trovare il task guardo lo statuto. L’ambiente generale dell’impresa coincide con il
sistema della società.
Confini aziendali:
• Legali: definiti dall’atto costitutivo aziendale e dalla forma giuridica singolarmente adottata, che
permettono di distinguere ciascuna di esse dalle altre tipologie organizzative.
• Economico-aziendali: molto meno certi, difficoltà generate dal fatto che le imprese del nostro secolo
tendono a dislocarsi su più spazi, a frazionare la proprietà del capitale, ad aggregarsi o disgregarsi
anche rapidamente, oppure tendono a esternalizzare specifiche loro attività, a scorporare parti di se
stesse e affidare a terzi una o più operazioni incluse originariamente entro i propri confini, talora
stabilendo rapporti collaborativi e funzionali con le attività esternalizzate che diventano nuove
imprese.
Competitività: l’esercizio di capacità con le quali l’impresa si misura con altre organizzazioni,
offrendosi al giudizio del cliente finale del bene o servizio da essa prodotto.
Considerando il task environment, ciascuna organizzazione è una “forza competitiva”.
Le forze competitive con cui l’impresa entra in una molteplicità di relazioni di scambio (Porter):
a) i fornitori di fattori produttivi;
b) la clientela del prodotto;
c) i concorrenti diretti, potenziali e/o reali, ossia i produttori di beni simili;
d) i concorrenti indiretti, ossia i produttori di “surrogati”;
e) organizzazioni sociali interessate al settore, con finalità anche diverse rispetto all’impresa

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f) organizzazioni a-specifiche del settore, suscettibili però di influenzare le operazioni delle
aziende che producono nel settore medesimo.
I rapporti tra tali forze competitive esprimono non solo scambio e funzionalità reciproca, ma anche
rivalità che genera tensioni e spesso conflitti. Sono rapporti di forza= rapporti tra entità che collaborano
e competono al tempo stesso.
In conclusione, un’organizzazione produttiva:
a) presidia, difende, seleziona le proprie relazioni. Suscita pressioni competitive o cooperazione.
b) Nel proprio ambiente specifico ffre beni, reagisce alle pressioni, cerca e trova nuove “soluzioni”
per volgere a suo vantaggio la lotta competitiva o per appropriarsi dei benefici della
collaborazione;
c) In sintesi crea ambiente, non solo subisce vincoli al suo operare.

Catena del valore di Porter


Ci consente di interpretare l’impresa come un sistema di attività che creano valore.
• Attività infrastrutturali: es. contabilità
• Gestione delle risorse umane
• Sviluppo della tecnologia (ricerca e sviluppo)
• Approvvigionamenti
• Logistica in entrata: ricevimento, immagazzinaggio e distribuzione degli input
• Attività operative
• Logistica in uscita: raccolta, magazzinaggio e distribuzione del prodotto agli acquirenti
• Marketing: serve per creare una relazione con il prodotto: diventa TOP OF MIND
• Vendita: interessata solo alla vendita di un’unità
• Servizi post vendita: per migliorare e mantenere il valore del prodotto

3. Confini organizzativi e tensioni nell’ambiente

Ogni organizzazione vive di rapporti ed è interessata agli obiettivi, al funzionamento e ai risultati delle
altre organizzazioni della società. Dato un task environment, le organizzazioni interagiscono e hanno
particolare attenzione all’evoluzione dei rapporti di forza. Ogni organizzazione ha cura della propria
forza.
Nello sviluppo del rapporto tra le forze, si manifesta una più o meno forte tensione interorganizzativa. Il
campo delle tensioni e dei rapporti di forza è compreso tra l’estremo della concorrenza perfetta e quello
del monopolio, coinvolgendo le forme intermedie della concorrenza monopolistica e dell’oligopolio.
• Concorrenza perfetta: (regime di sistema dei prezzi) Tensione permanente e immodificabile; le
organizzazioni possono adeguarsi o essere espulse dal campo competitivo;
• Oligopolio: tensione maggiormente polarizzata. Le strategie offensive dell’oligopolista creano
imperfezioni nei mercati del settore: ne sono strumento le campagne ora centrate sul prezzo, ora su
altre variabili competitive. Per non subirne gli effetti, le organizzazioni investite da tali operazioni
attivano risposte di tipo difensivo o possono erigere barriere all’entrata nei loro mercati;
• Monopolio o quasi-monopolio: si riverbera dall’esterno una tensione debole o addirittura nulla
sull’impresa, il che favorisce il conformismo organizzativo. Se non viene regolato da terze forze o
se non viene scosso da un cambiamento tecnologico, finanziario o di altro tipo, oppure se non è
sottoposto al condizionamento di organizzazioni che hanno un potere controbilanciante, il
monopolista continua il suo dominio. Ma può anche cadere in una pericolosa inerzia o incapacità di
reazione al cospetto di imprevedibili movimenti di altre forze in gioco.

4. Fare impresa: trasformazione, retroazione, informazione

Ogni impresa può essere studiata secondo uno schema di azione e retroazione.

S/E
Fare impresa coincide con il
realizzare un “processo di
Input Trasformazione Output
trasformazione”, nel quale sono
coinvolte cose e persone.
S/E

Elaborazione Retroazione Informazione


dell’informazione

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Le varie operazioni implicano l’esecuzione di piani e procedure, cioè l’assunzione di un metodo di
lavoro “razionalistico” e “responsabile” verso il sistema della società, periodicamente sottoponibili a
cambiamento. Anche le persone “si trasformano” in impresa, entrando nel processo con proprie
capacità fisiche e mentali, relativizzandosi al contesto e strutturandosi, ma talvolta anche cambiando.
Le imprese nascono per servire, per essere funzionali non solo allo specifico scopo ad esse attribuito
dal fondatore, ma anche per soddisfare bisogni sociali.
Concetto di partecipante al sistema di impresa (1930, Chester Barnard): fare impresa comporta
operazioni nelle quali intervengono più persone, oltre che più capitali, e che per raggiungere il fine
aziendale occorrono più contributi e più capacità, non solo lo spirito capitalistico e l’energia di un’unica
persona, per quanto ve ne sia sempre qualcuna che è molto attiva o molto più intelligente delle altre.
I partecipanti sono divisi secondo uno schema P-D-O
Il processo di trasformazione degli input si svolge dividendo il lavoro aziendale in parti. Ogni segmento
assolve differenti funzioni, complessivamente da integrare in un unico “sistema aziendale”. Di qui la
definizione di parte come area funzionale o unità organizzativa o unità di progetto, ciascuna
comprendente fattori produttivi strutturati in modo tale da essere in grado di assolvere un compito
specifico e programmato, per realizzare un output finale.
In sintesi, l’impresa è un’organizzazione della società nella quale si integrano parti e partecipanti, le une
e gli altri intervenienti in un processo di trasformazione strutturale e orientato al raggiungimento di un
preciso fine. Tra le parti vi è un’ordinata interazione.

Principi generali dell’agire razionale in impresa:


• Ordine nella divisione del lavoro aziendale (operazioni da “gestire”) e strutturazione del
lavoro diviso secondo un progetto (operazioni da “organizzare”).
• Regole nell’amministrazione aziendale e nell’interazione tra parti e partecipanti.
• Calcolo nei processi inerenti a tutto ciò che si gestisce e si organizza (operazioni da
“rilevare” sia ex ante, sia in concomitanza e sia ex post).
• Metodo nell’operare: cioè coscienziosità e precisione, rispetto a ciò che si fa. In sintesi,
operare in modo “sistemico”.
• Comportarsi come se si assolvesse un dovere professionale, in forza di una vocazione.

L’impresa è inclusa nel sistema società, l’economia le offre input che essa trasforma e restituisce al suo
ambiente con valore aggiunto, in forma di prodotti o servizi. Essi impattano nell’ambiente e nei mercati
in cui vengono scambiati. Sono acquistati o trascurati dal consumatore.
Possono essere accolti come output “positivi” per la società e lo specifico consumatore, oppure come
output “negativi”, tali cioè da creare difficoltà e pericoli. Da questo impatto si alimenta un flusso di
informazioni di ritorno all’impresa: informazione si aggiunge a informazione, condizionando il futuro
comportamento dell’impresa. È indispensabile alla continuità del processo di trasformazione ed ha
assunto sempre più importanza nel corso del tempo.
• Informazione negativa: l’impatto dell’output sui mercati non ha trovato il riscontro desiderato ovvero
il consenso del consumatore, l’impresa adotta provvedimenti che generino un’inversione di
tendenza nell’approccio alla produzione e allo scambio.
• Informazione positiva: il processo di trasformazione può continuare come previsto. Si può cambiare
il processo di trasformazione, per migliorare o innovare l’offerta, per soddisfare appropriatamente il
consumatore o l’utente potenziale.
La raccolta e l’elaborazione danno luogo a una retroazione dell’informazione: dall’ambiente all’impresa
e all’originario processo di trasformazione, che si rialimentano (feedback) di fattori produttivi
indispensabili al loro funzionamento e al loro svolgimento nel tempo.
Le informazioni devono essere filtrate per non intasare i canali di comunicazione interna (Feldman e
March, 1981).

5. Alle radici di “governance” e management. Razionalizzazione come processo e metodo


per fare impresa

Nell’impresa che vogliamo sistema, il processo di trasformazione degli input in output e la condotta di
tale processo sono sottoposti a razionalizzazione. La trasformazione deve essere oggetto di
amministrazione, che richiede metodo e calcolo. I tre “momenti” (o aspetti) in cui si configura
l’amministrazione aziendale sono la gestione, l’organizzazione e la rilevazione.
Il processo di trasformazione ha bisogno dell’affinamento del “criterio” e del “modo” in cui si lavora, non
solo dell’impegno fisico e intellettuale umano, dell’uso di adeguate tecnologie materiali e immateriali, di

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sofisticate tecniche di raccolta ed elaborazione dell’informazione. Ha, in ultima analisi, bisogno di una
scienza per la sua amministrazione.
Decisivo è il nesso trasformazione/amministrazione. Lavoro e processo di trasformazione non si
autogovernano; essi hanno bisogno di una consapevole condotta verso il fine predeterminato
dell’impresa, cioè hanno bisogno di “amministrazione”. Quest’ultima è orientata da obiettivi che
reclamano risultati confortanti.
Il concetto di razionalizzazione emerge in modo contestuale allo sviluppo pieno del capitalismo inteso
come sistema sociale e come modo di produzione di beni e servizi, del tutto nuovo rispetto alle forme
dell’economia agricola e artigianale preesistenti al XVIII secolo.
L’elaborazione di principi intorno all’agire razionale in economia, tra i quali emergono ordine e regole,
metodo e calcolo economico, affondano le proprie radici nell’utilitarismo settecentesco e, prima ancora,
trovano conforto nelle idee che promanano dalla Riforma protestante (‘500).
Si può affermare che:
a) senza principi non si trasforma nulla con efficienza ed efficacia, né a scopo egoistico, né per
servizio;
b) i principi dell’agire razionale in economia sono il fondamento dell’agire in senso professionale;
l’uno e l’altro sono la piattaforma di pensiero ideale per rendere un servizio che abbia risultati
positivi.

Max Weber spiega ne“L’etica protestante e lo spirito del capitalismo) le ragioni del “razionalismo
economico”: “Il motivo fondamentale dell’economia moderna è stato individuato nel razionalismo
economico ovvero quell’ampliamento della produttività del lavoro che, con l’organizzazione del
processo di produzione da punti di vista scientifici, ha eliminato la sua dipendenza dai limiti fisiologici
naturalmente dati della persona umana”. È orientata verso il successo economico – ambito in una
forma pianificata e oggettiva – contrariamente alla vita alla giornata del contadino, alla privilegiata
routine del vecchio artigiano corporativo e al capitalismo di avventura che era orientato secondo
probabilità politiche e speculazioni irrazionali”.

Elementi essenziali dell’agire professionale in economia, che danno impulso al capitalismo moderno e
contemporaneo:
• Presupposto del razionalismo economico: “Il guadagno di denaro è il risultato e l’espressione
dell’abilità nella professione”. La professione dell’imprenditore è la conseguenza di una chiamata, di
una vocazione.
• dovere professionale, che oggi è così corrente eppure è tanto poco ovvia, è caratteristica dell’etica
sociale della civiltà capitalistica, anzi in un certo senso ha per essa un significato costitutivo”.
• Nell’etica protestante, “il lavoro professionale è il compito assegnato da Dio” e, pertanto, una
“espressione esterna dell’amore verso il prossimo”.
• “Il lavoro sociale del calvinista nel mondo è semplicemente lavoro in maiorem gloriam Dei. Ha
questo carattere anche il lavoro professionale, che è al servizio della vita terrena della collettività”.
• “Il lavoratore professionale svolgerà il suo lavoro con ordine.
• Citando Baxter, Weber sottolinea che, nell’etica protestante prevalente, lo stato di grazia è dato
dalla “coscienziosità che si esprime nella cura e nel metodo con cui si attende alla professione”.

Weber cerca di dare una definizione al capitalismo: “L’avidità di lucro, la ricerca del guadagno, del
denaro, di un guadagno pecuniario quanto più alto possibile, in sé per sé non ha nulla a che fare con il
capitalismo, che si identifica con la ricerca del guadagno nell’impresa capitalistica continua, razionale;
di un guadagno sempre rinnovato ossia della redditività. In un ordinamento capitalistico dell’intera
economia, una singola impresa capitalistica che non adottasse il criterio della probabilità di conseguire
redditività sarebbe condannata a perire”.
“L’organizzazione razionale moderna dell’azienda capitalistica non sarebbe stata possibile senza altri
due importanti fattori di sviluppo: la separazione dell’amministrazione domestica dell’azienda – e
strettamente connessa con questo primo fenomeno – la contabilità, o tenuta razionale dei conti”.

Date queste premesse, l’amministrazione aziendale sarà esercitata su basi teoriche e morali solide,
che verosimilmente porteranno a “risultati economici positivi”, in un periodo di tempo definito: positivi
sia per chi crea/fa impresa, sia per chi acquista/utilizza i prodotti della attività di impresa.
I primi due blocchi di principi dell’agire razionale e professionale sono:
• ordine e regole nella gestione, organizzazione e rilevazione aziendale.
• Metodo e calcolo economico nell’amministrazione complessivamente intesa.

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La finalità dell’impresa è produrre in modo professionale un output che serva, soddisfacendo bisogni
sociali, non solo quelli egoistici dell’imprenditore. Per ottenerlo, occorre che si adotti un metodo
scientifico nell’orientare e realizzare la trasformazione dei fattori in prodotti.
Il produrre e la funzione di produzione hanno sempre la primacy tra le finalità di impresa.
La redditività del prodotto e l’economicità della complessiva amministrazione aziendale non possono
avere il primo posto nella gerarchia dei fini aziendali nell’era del capitalismo pienamente sviluppato.
L’attesa di un risultato economico positivo, in termini di reddito, è un vincolo che viene
discrezionalmente assegnato alla produzione; ma senza prodotto non si può vendere nulla e senza
metodo nel produrre c’è solo confusione.
Non tutte le imprese producono un output per realizzare risultati economici positivi in termini di reddito
 non for profit, cioè non lucrative.
 imprese pubbliche, gratis o a prezzo politico.
Il reddito è solo un aspetto sotto il quale si presenta il risultato economico positivo dell’impresa in un
determinato periodo di tempo, il risultato economico della gestione riguarda l’impresa nel suo intero.

Focus: La Produzione

È quella funzione che si occupa di trasformare gli input in output. L’output può essere destinato al
consumo finale o al consumo intermedio.
Impresa unicentrica:
• produzione artigianale: dalla fine del sistema feudale a inizio ‘900.
• Caratterizzata da imprenditore molto interventista.
• Struttura organizzativa ridotta al minimo. Lavora in autonomia o con pochi familiari
• Si basa sul lavoro manipolativo, le macchine usate sono isolate. No lavoro standardizzato.

Produzione di massa (1900-1970)


Grazie all’energia elettrica si passa alla catena di montaggio macchine collegate
Si parcellizza il processo produttivo standardizzandolo e fruttando le economie di scala (FORD).
Nascono le large corporations: imprese complesse, tendono a essere verticalmente integrate. Nascono
i manager
• Ambiente: stabile
• Scorte: molto ampie
• Lavoratori: alla stregua di una macchina
• Qualità: ricercata ma verificata alla fine del processo
• Lead time: (tempo di attraversamento in impresa: da materia a prodotto) molto lungo
• Fornitori: pochissimi, visti come forze competitive e concorrenti. No cooperazione

Crisi della produzione di massa (1970)


Motivi: crisi petrolifera, shock economici, variazioni della domanda (voglio la personalizzazione del
prodotto), sviluppo di nuove tecnologie che permettono di ridurre le dimensioni dell’impresa (small is
beautiful: prevale in Italia, permette – costi e + flessibilità)
Produzione snella (lean production)
Obiettivi: - sincronizzazione dinamica tra produzione e mercato
- ridurre l’eccesso dell’uso delle risorse
- lavoratori altamente professionalizzati
Automazione flessibile: ci avvaliamo delle nuove tecnologie anche nel lavoro mentale (computer)
Just in time: no scorte, filosofia di programmazione nata in Toyota. Produrre il bene giusto in tempo per
consegnare il prodotto  si passa da logica push a logica pull. Sono le fasi a vale che dettano i regimi
di produzione delle fasi a monte.
Controllo qualità: durante tutto il processo, da parte del dipendente (dev’essere istruito e competente).
Manodopera flessibile: macchine e lavoratori ruotano da un processo all’altro

Fattori di cambiamento (1990)


Globalizzazione, sviluppo tecnologico, evoluzione della domanda:
• ottima qualità • Bassi costi
• grande flessibilità • Rapidità di risposta
• servizio di più elevato profilo • Variabilità limitata

Produzione modulare (1990-oggi)

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Metodo migliore per ridurre il tempo di risposta e personalizzare l’offerta su base pressoché modulare
 a basso costo per l’impresa
I costi sono competitivi e il prodotto è su misura. Il cliente diventa l’artigiano che si costruisce il
prodotto.

Focus: il Marketing

È un’attività aziendale attraverso la quale l’impresa studia il task environment, analizza le tendenze
della domanda e la corrispondente situazione concorrenziale, individua l’esistenza d’opportunità di
vendita e orienta la produzione in funzione dei diversi clienti di riferimento, crea la domanda suscitando
bisogli sempre nuovi e colloca i prodotti presso gli sbocchi…
Crea rapporto di lungo periodo con il consumatore (rapporto emotivo) top of mind
Consumatore fedele = consumatore profittevole

Marketing strategico
Obiettivo: creare e mantenere vantaggio competitivo dell’impresa nel lungo periodo.
1. analisi delle opportunità e minacce di mercato: matrice SWOT
2. Ricerca e selezione dei mercati obiettivo, dove scambiare i propri prodotti e competere con altre
imprese: PEST analysis
3. Segmentare il mercato in insiemi omogenei di consumatori di clienti,per sviluppare strategie e
politiche di marketing più efficaci ed efficienti. Se sono fedele non effettuo lo switch di provider e
compro anche altri prodotti.
Il mercato si segmenta
• Geograficamente
• Demograficamente: sesso, età. reddito
• Psicograficamente: stile di vita, personalità
• Comportamentalmente: come/quanto usano il prodotto
4. Targeting della clientela: strategia di copertura del mercato
a. Indifferenziato: a tutti i segmenti stesso prodotto
b. Differenziato
c. Concentrato: solo su un segmento
d. Marketing one to one: tutto “su misura”
5. Posizionamento: definire l’offerta dell’impresa in modo tale da consentire di occupare una
posizione distinta e apprezzata nella mente dei clienti obiettivo. Complementare alla
segmentazione.

Marketing operativo
Funzione: creare fatturatovendere Uso le 4 P
• Product: attributi tangibili (peso, dimensione, colore) e intangibili (garanzia, marchio, immagine del
prodotto)
Assortimento: insieme di prodotti che l’impresa vende:
o Linee: insieme di prodotti legati da un criterio, percepiti come omogenei dal consumatore
o Ampiezza: numero di linee
o Profondità: numero di modelli in ogni linea
• Promotion: (comunicazione) l’insieme di segnali emessi dall’impresa verso i diversi pubblici verso
c cui si rivolge clienti, distributori, azionisti, dipendenti…
Strumenti di comunicazione:
- pubblicità sui media: unidirezionale, di massa, a pagamento
- forza vendita: personale, bilaterale, su misura (es. commesso)
- promozione sulle vendite: stimolano l’acquisto di un prodotto specifico. Affiancano e
rafforzano l’azione delle prime due
- relazioni esterne: azioni pianificate che hanno il compito di suscitare un clima di
comprensione e fiducia reciproca tra l’impresa e il cliente
- altri strumenti di marketing diretto: saloni, fiere, mostre
• Place (distribuzione): ruolo=ridurre le disparità tra luoghi, tempi e modi di fabbricazione e quelli di
consumo, tramite la creazione di condizioni vantaggiose sotto il profilo dell’ubicazione e altre cose
che creano valore. Consente di ridurre gli scambi tra produttore e consumatore.
• Price: è l’unica fonte di ricavo del marketing mix. Come si definisce? Analisi delle 3 C
o Costi: livello minimo di prezzo

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o Concorrenza: l’intervallo all’interno del quale posiziono il prezzo
o Clienti: livello massimo di prezzo

Trade marketing
Spirale del declino nei rapporti industria-distribuzione
L’industria deve investire nel trade marketing
 brand loyalty: fidelizzazione del cliente

Nel XVII secolo il nuovo metodo razionalistico di produzione “incontra” la grande impresa.
Il primo evento è l’introduzione delle macchine nel processo produttivo: crea le premesse tecniche per
la produzione industriale su larga scala. Il secondo evento è la limitazione del rischio e della
responsabilità dei soci al capitale che essi apportano all’impresa come titolari di diritti di proprietà
(capitale sociale).
L’agire calcolato in impresa non si basa solamente sulla capacità di far conto, ma anche su capacità di
previsione, pianificazione e controllo. Secondo Karl Weick, devono avere uno scopo, anche non logico.
Il meccanismo della trasformazione in senso capitalistico vi si configura (tipicamente, ma non sempre)
come processo orientato a realizzare, col proprio output, anche un risultato economico positivo e, in
quell’ambito, un guadagno (reddito). Ciò può avvenire in vario modo, cioè con diversi “stili” di
combinazione dei fattori produttivi. Chi ci riesce dimostra, in senso weberiano, la propria professionalità
imprenditoriale; non solo soddisfa un bisogno personale di successo, ma anche rende un servizio al
sistema della società.
L’amministrazione razionale si riferisce all’impresa considerata nella sua unità e interezza. L’intero si
esaurisce nella persona del fondatore o continuatore nel caso dell’impresa individuale; presuppone,
invece, l’integrazione di più parti e partecipanti nel caso delle organizzazioni complesse, nel qual caso
serve una progettazione della divisione del lavoro in parti.
Si deve presumere che tutte le funzioni attivate in impresa siano di servizio alle altre. La funzione di
produzione è “centrale” in senso tecnico e organizzativo rispetto alle altre, per la finalità che deve
realizzare, cioè il prodotto o servizio da rivolgere ai mercati e alla società. Ad essa si affiancano altre
funzioni. La progettazione di tali funzioni deve avvenire nella quantità e nella qualità utili al
conseguimento del fine aziendale, generando un risultato economico positivo.
All’interno di ciascuna parte dell’impresa operano più partecipanti, in appropriata combinazione
economica con impianti, attrezzature e altri strumenti materiali e immateriali entrati nel processo di
trasformazione. Tutti i partecipanti hanno un “ruolo” (generalmente formalizzato da contratti) e trovano
la loro “posizione organizzativa” nell’ambito della divisione del lavoro aziendale.
Razionalità vuole che compiti di lavoro e ruoli non si svolgano nella confusione; al contrario, che
vengano “strutturati” trovando un ordine l’uno rispetto all’altro nella totalità aziendale.

Livelli di autorità: inerisce alla statica dei compiti di lavoro e dei ruoli organizzativi
Livelli di potere: inerisce all’autorità in azione, quando nella dinamica dei compiti di lavoro vengono
prese decisioni.

Il più elementare criterio di strutturazione è quello della gerarchia.


• Proprietari (P): partecipano all’impresa avendo conferito capitale di pieno rischio
• Direttivi (D): conferiscono lavoro altamente professionalizzato (orientato alla supervisione, al
coordinamento e al controllo di ciò che è stato diviso), legati da rapporto di lavoro subordinato
di tipo direttivo: i capi o manager che svolgono questo tipo di compito sono selezionati
dall’organo volitivo a ciò preposto e allocati alle diverse parti, o all’integrazione di più parti.
• Operativi (O): livello di pura esecuzione, non di ideazione o implementazione di strategie.

Oggi le strutture si sono “appiattite”; i rapporti interpersonali si sono ravvicinati e i processi decisionali
coinvolgono differenziati partecipanti all’impresa, perché è cresciuto il bisogno sia di delega di autorità
ai manager, sia di co-responsabilizzazione dei manager nelle decisioni dei proprietari.

Sintesi: nell’ambito del management aziendale si individuano due precise funzionalità, a loro volta
distinte per autorità e potere: quelle degli operatori alla base della piramide (livello operativo) e quelle
dei capi che presiedono alla supervisione, al coordinamento e al controllo delle operazioni di base; è
quest’ultimo il vero e proprio spazio della gerarchia ove si esercita la funzione manageriale (livello
direttivo).

6. Evoluzione dei modelli di impresa e della cultura aziendale razionalistica (MAINLY NOTES)

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L’impresa à la Dickens della seconda metà dell’800 si presenta ancora come un agglomerato di
capitali e di persone. C’è bisogno di razionalizzazione soddisfare la domanda crescente.

MAX WEBER, 1922, IMPRESA E


Si rivolge all’evoluzione del capitalismo come sistema e si applica alle trasformazioni intervenute nello
Stato come organizzazione profondamente compenetrata in tale evoluzione. L’attenzione di Weber si
rivolge principalmente al ruolo dello Stato nel sistema sociale capitalisticamente riformato: afferma
l’idea di Stato come struttura di autorità legale, cioè articolata e funzionante sulla base di regolamenti, a
loro volta ispirati a precise disposizioni normative.
Requisito per azienda moderna: amministrazione scientifica, pensata ad hoc e gestita da professionisti.
La ricerca di una soluzione tecnico-organizzativa capace di soddisfare tali esigenze di razionalità
amministrativa dà luogo all’elaborazione del concetto di burocrazia
È intrinsecamente gerarchica; è neutrale e suscettibile di applicarsi non solo alla organizzazione
statale, ma anche a tutte le altre organizzazioni complesse.

Principi:
a) le regole sono ovunque in una struttura razionale-legale
b) ogni persona/unità organizzativa ha compiti ben precisi e deve avere i necessari mezzi
c) lo svolgimento di ogni compito implica una preparazione specialistica
d) le operazioni si svolgono sulla base di procedure standardizzate
e) i rapporti tra persone e/o unità organizzative obbediscono alla logica della strutturazione
verticale dell’autorità e del potere;
f) assegnato un obiettivo a ciascuna unità, dal superiore all’inferiore, le operazioni previste si
svolgono sulla base della delega; attribuita una responsabilità per l’esercizio dei compiti a tutto
ciò inerenti, l’autorità delegante esercita il controllo e valuta il risultato ottenuto dall’autorità
delegata.
Inoltre occorrono ammissione per concorso e fedeltà all’ufficio. Sono principi universali, l’applicazione
dei principi garantisce lo stesso principio a tutti.
Autorità carismatica: condottiero, profeta
Autorità tradizionale: nobile (x tradizione storica) c.d. potere di signoria.
Non applicabili per Weber, che crede nell’autorità legale: fonte di legittimazione gli ordinamenti

ROBERT MERTON, 1949, TEORIA E STRUTTURA SOCIALE


La burocrazia quanto è applicata presenta disfunzioni latenti:
• Incapacità addestrata del funzionario: stesso lavoro + standardizzazione: perde in flessibilità
• Trasposizione mezzi-fini (spiazzamento del fine istituzionale determina fallimento
organizzativo): le regole diventano il fine (vengo valutato per il rispetto delle regole e non per il
prodotto). Circolo del virtuoso burocrate: ho perso di vista il fine di soddisfare il cittadino.
• Spirito di corpo dei funzionari: conflitto tra funzionari superiori e clienti.
• Tiranneggiamento del pubblico: i funzionari assumono un atteggiamento rigoroso e distante dai
consumatori.
Bisogna far lavorare diversamente l’impresa: la burocrazia è necessaria per applicazione dell’autorità
legale. Essa funziona se c’è “disciplina”, la quale implica devozione al compito assegnato e
autolimitazione delle iniziative individuali.

FREDERICK TAYLOR, 1911, L’ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO


Contesto storico: lavoro non qualificato, ad alta mobilità, le imprese cominciano ad ingrandirsi (mercato
in crescita).  fabbrica disorganizzata, rapporto tra imprenditore e operaio informale, tempi e metodi
sono discrezionali.
Si rivolge soprattutto alle imprese industriali manifatturiere e predica l’avvento del modo “scientifico” di
gestire, organizzare e dirigere le imprese.
La prospettiva con la quale egli guarda l’impresa è la stessa di Weber, ereditata dal razionalismo
protestante, secondo cui la trasformazione deve basarsi su un “calcolo rigorosamente matematico” e
orientarsi al mercato in una “forma pianificata e oggettiva”, attraverso una strutturazione e una
conduzione “scientifiche”. Si impone l’idea di un’impresa “funzionale” nella sua totalità: ogni sua parte e
ogni suo partecipante servono ad un differenziato compito e all’unico scopo aziendale, quello scelto da
colui che ne ha il controllo ma si astiene dal voler far tutto e su tutto intervenire.

Taylor propone l’organizzazione con metodo scientifico del lavoro fare del management una scienza.
Introduce i principi universali del maangement One Best Way

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Obiettivo massima prosperità, con - produzione di massa
-organizzazione funzionale (per funzioni aziendali)
- specializzazione: massima produttività del dipendente
Analizzo il processo produttivo, lo scompongo ed elimino i momenti non necessari.
Riunisco e standardizzo cronometrista: detta e verifica i tempi in impresa.
Il lavoratore è una macchina

Principi:
• le funzioni aziendali e le operazioni sono soggette a programmazione
• i dirigenti devono selezionare, addestrare, istruire e, quindi, “sviluppare” il lavoratore
• la ripartizione dei compiti dev’essere equa
• il capo deve cordialmente collaborare con il dipendente ed essere ottimista (stimolante)
• I principi non possono essere messi in discussione

Il capo deve conoscere ex ante ogni aspetto del lavoro da affidare ai soggetti selezionati, mentre al
lavoratore non viene richiesta alcuna iniziativa personale o intuizione operativa.
L’efficienza con cui sono esercitate le funzioni di lavoro è sempre soggetta a verifica e l’efficacia di tali
funzioni deve essere misurata.
La formalizzazione del progetto di organizzazione aziendale avviene attraverso:
- il funzionigramma, che fornisce il dettaglio scritto delle operazioni da svolgere in ogni unità
organizzativa;
- l’organigramma, che fornisce una rappresentazione grafica della struttura di autorità, nonché
delle volute relazioni di potere fra i diversi livelli gerarchici.

Taylor enfatizza la presenza di figure professionali (i manager) aventi il compito di ottimizzare la


combinazione dei fattori produttivi e il coordinamento dei lavori di più unità organizzative.
Taylor si occupa anche di costi e ricavi connessi allo svolgimento delle diverse operazioni, ben
comprendendo che occorre preventivare e controllare gli andamenti economici delle operazioni.
Secondo Weber e Taylor c’è una sola One Best Way. Pur essendo consapevole delle differenze
esistenti, Taylor è convinto che vi siano sufficienti dati di omogeneità tra un’impresa e l’altra, per
proporre univoche soluzioni tecnico-organizzative orientate alla ottimizzazione delle strutture, dei
comportamenti personali sul lavoro, delle interazioni tra i fattori produttivi.

In sintesi, l’impresa à la Taylor e à la Weber è un’organizzazione scientificamente pensata, divisa per


“funzioni”, regolata sulla base del “calcolo economico” e di “principi” di management, perciò razionale.

HENRI FAYOL, 1916, DIREZIONE INDUSTRIALE E GENERALE


Taylor guarda i dipendenti, Fayol i dirigenti. Segnala l’importanza del problema della ricomposizione del
lavoro diviso.
Identifica dei principi di direzione:

• Pianificare e programmare
• Organizzare
• Comandare (le persone)
• Coordinare e Controllare le operazioni
Sono universali ma devono essere utilizzati in modo ponderato. Non disconosce la one best way ma
deve essere rapportata alla situazione d’impresa.
Secondo lui, la funzione di direzione è “la più importante” tra le funzioni che si attivano in impresa,
almeno nelle imprese di grandi dimensioni. Deve essere differenziata al proprio interno.
Deve esserci un capo per ogni parte; tutte le responsabilità manageriali devono essere ordinate
secondo un “processo scalare” e supervisionate a loro volta da un livello di autorità superiore.
Compito del direttore “generale” è assicurare l’unità di comando delle operazioni aziendali. Ma la sua
capacità manageriale si esercita in primis guardando verso il basso. Deve sapere dove arriva
l’ampiezza del suo controllo; deve cioè sapere qual è il numero dei dirigenti, delle aree o dei reparti cui
può efficientemente ed efficacemente applicarsi nel suo lavoro di integrazione.
Dal principio della delega si sviluppa il principio manageriale dell’autorità scalare. È efficiente progettare
la diffusione dell’autorità, con livelli discendenti del potere decisionale e con ben individuate sfere di
influenza e competenza.
Si distingue chi è leader, cioè chi è più acuto nell’agire, competente e concretamente legittimato dalla
sua capacità di fare piuttosto che dalla formale attribuzione di un grado e di un’autorità per operare.

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La funzione direttiva deve mostrare la propria virtù nell’interconnettere operazioni, collegare e motivare
i collaboratori, cioè integrare cose e persone.
È una capacità professionale che non si basa solo sulla conoscenza scientifica, ma si matura anche
attraverso l’esperienza, talvolta l’analisi di errori.
L’esercizio della delega è sempre sottoposto a verifica da parte dell’autorità delegante.

7. Razionalità e cooperazione nella versione barnardiana

CHESTER BARNARD, 1938, LE FUNZIONI DEL DIRIGENTE


È il primo a parlare di partecipanti e dell’impresa come sistema (grazie alla frequentazione con
Henderson). Dice che efficienza ed efficacia, cioè economicità dell’impresa, passino o no attraverso
soluzioni tecnico-organizzativa. Però cum grano salis. Le persone non sono macchine e vanno
motivate. Compito del dirigente: individuare incentivi che spingono il lavoratore a raggiungere non solo
il fine personale, ma anche quello organizzativo.
Contesto storico: crisi del ’29, grandi imprese dove è fondamentale la presenza dei dirigenti.
Pensa al sistema aziendale come sistema cooperativo. È la cooperazione che porta al raggiungimento
dei fini aziendali. Coopero per raggiungere un fine che può essere personale (è quello che accade in
impresa).
Fine organizzativo ≠ movente personale  c’è conflitto, a volte antitesi.

Proprietari e capi debbano prendere atto dell’interconnettersi di formalità e informalità


nell’organizzazione, valorizzando le potenzialità emergenti. La “logica” da applicare per arrivare a tale
risultato consiste, dapprima, nell’assecondare le tendenze alla cooperazione interpersonale e, poi, nello
svilupparle scientificamente. Bisogna sviluppare la comunicazione bottom-up.
Incentivi di base per spingere il lavoratore a cooperare in impresa:
• Opportunità materiali
• Opportunità personali non materiali
• Condizioni fisiche
• Gratificazioni morali
• Associazione attraente
Funzioni direttive:
• Fornire e mantenere un sistema efficiente di comunicazioni, formali e informali
• Promuovere l’approvvigionamento
• Formulare e definire il fine organizzativo

Introduce la capacità di leadership: dirigente come trascinatore.


Di fronte alla formalità della struttura c’è informalità fra le relazioni. Secondo Barnard va gestita, Taylor
non la prendeva in considerazionee.
Barnard introduce il concetto di “equilibrio organizzativo”, ovvero di stato economicamente e
socialmente utile in cui deve trovarsi il sistema aziendale nella sua interezza, stato che riguarda
fondamentalmente due elementi in gioco: il valore percepito dal lavoratore circa il proprio contributo
recato all’impresa; il valore attribuito a tale contributo dal datore di lavoro. Ci vuole la qualità del capo o
dirigente; in particolare, ci vuole la mano visibile di chi, tra i capi, si dimostra leader.
Barnard è convinto che la funzione di direzione sia la più importante in impresa, anche allo scopo di
pervenire al desiderato equilibrio tra incentivi e contributi. Barnard definisce “vitali” due funzioni della
direzione aziendale:
a) le funzioni “impersonali”, ad elevato contenuto professionale;
b) le funzioni “personali”, basate non solo sulla capacità tecnica di supervisione, coordinamento e
controllo, ma anche sulla capacità di esercitare leadership.
E’ leader colui che programma, comunica e discute con i collaboratori gli obiettivi da realizzare,
incentivandoli e portandoli con convinzione verso il raggiungimento del fine delle operazioni individuate.
Le ricompense pecuniarie e non pecuniarie sono funzionali a “motivare” il personale a identificarsi nel
fine generale di impresa e nei fini particolari delle singole operazioni.
In sintesi, l’impresa à la Barnard rimane un’organizzazione funzionale, ove, però, la formalità si
coniuga con l’informalità. Essa si razionalizza in quanto diventa “coinvolgente” e cooperativa. Per
questa via, l’informalità si legittima.

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Quanto più l’impresa (tayloristica o barnardiana) è di grandi dimensioni, tanto più essa esige delega di
autorità, coordinamento e controllo.

HOMANS
Il lavoratore entra in fabbrica con i suoi sentimenti che contribuiscono a formare il sistema informale.
Comincia a mettere in dubbio la one best way.
I gruppi umani che di fatto sorgono all’interno dell’impresa possono avere confini diversi da quelli delle
unità di lavoro progettate per strutture formali, quali reparti, uffici, dipartimenti.

Individua tre variabili tipiche dei gruppi informali che si autogenerano nelle organizzazioni complesse.
Essi sono:
• i sentimenti: influenzano il comportamento di ogni individuo
• le attività: le operazioni svolte da ogni partecipante all’interno del gruppo
• le interazioni: i singoli componenti si rapportano inevitabilmente l’uno all’altro nel contribuire alla
realizzazione degli obiettivi dei propri compiti. Sono l’elemento chiave del funzionamento dei
gruppi.

Le considerazioni di Homans proseguono il filone di studi delle human relations, evidenziano come in
impresa siano importanti le relazioni interpersonali e ancora più importante sia la capacità di trattarle.
Emerge anche l’idea dell’importanza della formazione continua del lavoratore per la crescita della
qualità delle prestazioni di lavoro, e di periodici cambiamenti di progettazione dell’organizzazione
scientifica del lavoro.L’uomo è da considerarsi una risorsa da valorizzare.

8. Universalismo e relativismo nella gestione e organizzazione aziendale

BURN & STALKER, 1974


Da one best way a “everything depends”  dall’ambiente in cui è inserita l’impresa. La struttura si
rifà al modello weberiano se ho un ambiente semplice e stabile.
Ambiente dinamico: modello flessibile c’è variabilità ( di compiti e mansioni)

LAWRENCE & LORSCH, 1968


Se non ho il dominio dell’ambiente la burocrazia rimane ma devo aggiungere altri meccanismi di
coordinazione e controllo (es. gruppi interpersonali o linking pin).
La rilevanza dell’ambiente entra in scena.
Si profila l’idea che ogni impresa debba dividere il lavoro operando scelte di differenziazione funzionale
e integrazione appropriate alle specifiche e mutevoli circostanze d’ambiente, cioè secondo
contingenze.
Se la grande fabbrica à la Taylor è un’impresa chiusa, che opera in modo stereotipato e prevedibile,
l’impresa postbellica rifiuta burocrazie inflessibili Si respinge l’idea che esista un modello unico di
impresa e un modello di governo e management scientifico senza alternative.
Le strutture organizzative si differenziano secondo l’ambiente tranquillo o l’ambiente turbolento in cui
operano le imprese. Siamo di fronte al trionfo di un empirismo che pone l’enfasi sulle diversità.
Nel nostro tempo, sembra corretta la posizione di chi accoglie i principi del razionalismo economico e
del management scientifico come una bussola per orientarsi all’interno e all’esterno dell’impresa che si
vuole “sistema”, senza renderli tuttavia dogmi.
Si parla diffusamente, oggi, di cambiamento organizzativo, considerato l’evolvere dell’ambiente
competitivo in cui si colloca l’impresa. Cambiamento e innovazione sono parole chiave usate con
riferimento alla amministrazione dell’impresa “rappresentativa” dell’ultima parte del XX secolo. E’, per
essa, un imperativo categorico apprendere dal contesto e dalla propria esperienza, e cambiare.
La learning organization fa leva sulla qualificazione professionale del fattore umano e sulla forza della
interazione cooperativa al proprio interno.
E’ l’impresa nella quale la capacità di raggiungere i risultati desiderati è funzione della capacità di
imparare dalla propria storia e da quella di altri, trasferendo l’intelligenza a tutti i partecipanti al suo
sistema, crescendo come “insieme”, come collettività operante in un contesto incessantemente
competitivo.
Di qui l’idea della knowledge-creating company, cioè dell’impresa che non solo ha capacità di
apprendere, ma sviluppa anche conoscenza per l’innovazione.
L’innovazione necessita di amministrazione consapevole per essere messa in utilità economica.

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Su una base concettuale che enfatizza l’importanza delle applicazioni della conoscenza, delle nuove
tecnologie di prodotto e processo a cavallo dei due secoli, si incardina un deciso ritorno di tipo
razionalistico allo studio dell’amministrazione dell’impresa.
Accresciutasi storicamente l’importanza del fattore informazione fra tutti i fattori produttivi, l’ultima parte
del XX secolo e l’inizio del XXI sono contraddistinti dalla ricerca della competitività aziendale, in
particolare, attraverso soluzioni tecnologiche di tipo informatico e telematico.
Nel pensiero economico-aziendale si profila una tendenza che sembra affidarsi all’impersonale virtù
delle capacità tecnologiche per promuovere la sopravvivenza e la crescita delle imprese.
In tale contesto, l’imprenditore rimane spiazzato dalla cultura incorporata nelle information
technologies; per la loro applicazione, l’imprenditore si rivolge a consulenti o si affida a manager, che
se ne appropriano e ne fanno uso. Siamo di fronte ad un neo-razionalismo che enfatizza l’intelligenza
artificiale, piuttosto che quella personale di cui sono portatori i soggetti che prendono decisioni.
Si assiste al ritorno della centralità della macchina (ora elettronizzata) e del know-how immateriale e
impersonale in essa incorporato. Le informazioni e le tecnologie dell’informazione e comunicazione
sono concepite come un insostituibile fattore di moltiplicazione della conoscenza in impresa.
Dentro il sistema aziendale l’informazione corre sempre più velocemente da una parte all’altra della
gerarchia, in via verticale, orizzontale e trasversale.

HERBERT SIMON, 1945


Il comportamento umano si trova in una classe intermedia tra comportamenti perfettamente razionali e
perfettamente irrazionali. I comportamenti umani sono intenzionalmente razionali per i limiti di capacità
di azione e reazione del corpo e della mente; per le carenze cognitive del soggetto che decide; per
l’intervento di preconcetti ed emozioni nel processo decisionale, che possono generare conflitti tra self-
interest e interesse istituzionale.. Per Simon la tecnologia aiuta l’uomo a superare i suoi limiti cognitivi,
ci possono essere errori ma il feedback aiuta a migliorarsi.
In sintesi, l’impresa di Simon è un’organizzazione caratterizzata da un processo decisionale solo
intenzionalmente razionale. La soddisfazione del bisogno di razionalità può essere agevolata
dall’automazione.

9. Pluralismo organizzativo (evoluzione dell’impresa “rappresentativa”)

Per pluralismo organizzativo s’intende il pluralismo delle dimensioni aziendali e del modo di fare
impresa, ovvero l’impos-sibilità di individuare una configurazione organizzativa aziendale universale, un
impresa universale, che sia l’unico modello vincente. Questo perché nel XXI secolo si assiste alla
presenza, e spesso coesistenza, di praticamente tutti i modelli organizza-tivi (sistema chiuso, aperto,
semiaperto - adattamento) venuti alla luce durante il XX secolo, a partire dai modelli organizzativi di
Weber, Taylor e Barnard, fino ad arrivare ai più recenti modelli organizzativi del neo-fordismo.
Vediamone l’evoluzione:
- à la Taylor: poggia su gerarchie alte, potere e sapere concentrati al vertice, lavoro scientificamente
pianificato.
- à la Barnard: fattore umano e relazioni interpersonali al centro, importanza bottom-up rispetto la top-
down. Fondamentali poi sono cooperazione, motivazione e incentivazione.
- lavori di gruppo: in particolare nella direzione, crescita e cooperazione infraorganizzativa, network.
- ritorno all’impresa razionalistica, il neo-fordismo: informazioni e conoscenze sono gestite con la
tecnologia, elettronica, in-formatica, telematica. Diventa importante non tanto il capitale reale
rappresentato dalle macchine, quanto il capitale virtuale rappresentato dal saper fare e organizzare,
dal software informatico e telematico. L’impresa si affida all’efficienza dell’automazione, all’efficacia dei
laboratori di ricerca e sviluppo, a nuovi prodotti e servizi.
- impresa globale: esempi sono la Toyota, Nestlé, Benetton, modelli di impresa senza confini, globali.
Le relative unità orga-nizzative sono dislocate su vari territori, sono una multinazionale. Ciò richiede
una forte capacità di innovazione e marketing, di una efficace scambio di informazioni. Nonostante il
fattore umano e le macchine siano fondamentali, assume sempre più importanza il virtuale.

2. Gerarchie e decisioni. Governo e management dell’impresa


1. Area del governo aziendale (“governance”) e area del processo amministrativo aziendale
(“management”)

La trasformazione degli input in output e tutte le decisioni che la concernono devono essere oggetto di
“amministrazione”. Quest’ultima si svolge con riferimento a un periodo di tempo codificato (l’esercizio

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annuale, ma nulla impedisce di riferirsi a più esercizi) e ha luogo attraverso operazioni di governo e
operazioni di management, consapevoli e guidate.

Governance
O governo: tipica di chi ha creato l’impresa, ne ha costituito il capitale di pieno rischio, diventando
“proprietario” dell’impresa stessa. E’ coinvolto anche il collegio sindacale.
Profilo oggettivo: l’area delle decisioni degli organi volitivi (nella s.p.a. “tradizionale” questi sono:
l’assemblea dei soci, il c.d.a. e il collegio sindacale) e della formazione degli indirizzi generali che
orientano lo svolgimento aziendale a valere nel tempo  strategia aziendale
Profilo soggettivo: titolari di diritti di proprietà dell’impresa: in particolare al soggetto economico
(persona fisica o giuridica che esercita il controllo effettivo del capitale netto ed imprimere
l’orientamento strategico di fondo all’impresa)

Assetti proprietari in impresa

1. Proprietà totalitaria (100%): controllo tramite dominio del capitale sociale.. Spa unipersonale o spa
in cui un solo socio detiene tutte le azioni.
2. Proprietà con maggioranza assoluta: (es.: 51 in mano a un solo socio): controllo pieno
dell’orientamento strategico dell’impresa; da valutare il comportamento assumere verso le minoranze.
3. Proprietà con assetto paritario (50%)  controllo per spartizione: due soggetti hanno la stessa
percentuale, è una situazione di equilibrio proprietario perfetto, ma rischia di mettere continuamente in
stallo l’amministrazione generale dell’impresa.
Il soggetto economico si individua nel concreto esercizio aziendale, guardando l’influenza che uno dei
due soci esercita negli organi volitivi, e l’orientamento di fondo che assume l’andamento aziendale.
4. Proprietà con soggetto in possesso di maggioranza relativa significativa del capitale sociale (es.:
35%). Il controllo è stabile o facilmente stabilizzabile influenzando le minoranze rilevanti e manovrando
in assemblea: il socio maggioritario deve trasformare in controllo effettivamente stabile la sua autorità e
il suo potere, potenzialmente instabili.
La “capacità imprenditoriale” è decisiva:
• capacità strategica: sceglie corretti indirizzi di amministrazione e individua necessità di cambio
• capacità di comando e coordinamento generale
• abilità politica: bilanciamento degli interessi dei vari partecipanti.
5. Proprietà frammentata, ma con presenza di un azionista di riferimento (es.: 10% o 15%). Egli è
solo potenzialmente di riferimento; il suo problema è diventare realmente tale e quale un soggetto
economico aziendale, quando si va ai voti. Deve coalizzare azionisti minori, esercitando la sua
“funzione politica” di governance. Il suo controllo è instabile, ma è stabilizzabile attraverso intese o
coalizioni con azionisti minori.
6. Proprietà frammentata, con più soggetti che, però, formano un “nucleo stabile” o “nocciolo
duro” (es.: 4+5+2+7): una frazione del capitale assume l’iniziativa di animare una coalizione durevole
con altre persone fisiche e/o giuridiche. Per sommatoria e per reciproca fiducia, il nocciolo duro di
azionisti diventa soggetto economico aziendale, ancorché dentro la medesima coalizione possa
sempre emergere l’azionista protagonista del processo decisionale, ovvero il socio più capace di altri
nell’influenzare indirizzi e obiettivi prioritari da perseguire. Si stipula patto parasociale o patto di
sindacato: i sottoscrittori regolano l’esercizio del voto nella società di cui trattasi e nelle società che la
controllano e limitano i propri diritti di trasferimento della proprietà azionaria.
7. Proprietà con azionista maggioritario o azionista di riferimento o nucleo stabile condizionato
da soggetti interni e/o esterni: limitato dagli stakeholders.
Significativo il potere acquisibile nel tempo dai top managers: si origina dall’esperienza e dalla
conoscenza accumulate nell’impresa in quanto tale, non dall’autorità formalmente posseduta. Si tratta
di esperienza e conoscenza capaci di generare asimmetrie informative a vantaggio di tali soggetti
rispetto ad ogni altro partecipante al sistema aziendale: può diventare soggetto economico
Si determina, dunque, un potere manageriale che influenza in modo insopprimibile la governance, per
la continuità e profondità del rapporto che i predetti soggetti hanno con i fatti aziendali.
8. Proprietà dispersa:  public company, senza capitalista in grado di diventare dominante, data la
diffusione dei titoli di proprietà tra i risparmiatori e la loro dispersione nei mercati dei capitali.
Il soggetto economico coincide con gli amministratori o i top managers che hanno il controllo di fatto
dell’amministrazione generale. Vi è, dunque, un controllo strategico manageriale, che non è illimitato.
Innanzitutto, perché gli azionisti di maggior peso periodicamente chiedono conto sia dei rendimenti
dell’attività svolta agli amministratori, sia del potere e della fiducia accordati ai dirigenti.

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In secondo luogo, perché gli azionisti più influenti possono concordare un’azione avversa a chi aveva
goduto della loro preferenza. Se non gli sta bene cambiano il top management e danno vita ad una
nuova formazione di alta direzione, cioè ad un potenziale nuovo soggetto economico.

Governance in senso stretto: proprietari del capitale di pieno rischio, in particolare il soggetto
economico aziendale (parte della proprietà che ha il controllo finanziario dell’impresa, ovvero il controllo
delle modalità di impiego e delle destinazioni del capitale netto patrimoniale).
Governance in senso ampio: anche soggetti che hanno un interesse nell’impresa (ad esempio, singoli
manager o coalizioni di prestatori di lavoro) e/o un interesse per l’impresa: i cosiddetti stakeholders.
Alcuni di questi condizionano direttamente le finalità aziendali (ad esempio, fornitori o distributori), altri
sono portatori di un interesse pubblico o altamente sociale verso l’impresa, ad esempio le
organizzazioni dello Stato o le associazioni di cittadini.
Non riguarda (quasi mai) i capi o manager, che svolgono una funzione dirigente e sono considerati
lavoratori dipendenti dell’impresa, né i restanti lavoratori subordinati.

Management
Nell’ambito dell’amministrazione generale dell’impresa, il management è un processo che presuppone
il governo. Le sue operazioni e interconnessioni assumono, cioè, contenuto e significato in quanto
ispirate alla volontà di organi che attivano un processo amministrativo di ordine superiore, per l’appunto
di governo.

Profilo oggettivo: gestione, organizzazione, rilevazione e direzione


Profilo soggettivo: compete a lavoratori dipendenti dell’impresa v.sotto

Management in senso ampio: riguarda l’intero processo amministrativo aziendale e coinvolge:


- chi, a livello di responsabile di una qualsiasi area decisionale, coordina e controlla le operazioni
delegate dagli organi del governo aziendale, svolgendo pertanto un’attività di “direzione”;
- chi realizza, in squadra, gruppi di lavoro o isolatamente, le operazioni aziendali sotto la
supervisione del capo.
Management in senso stretto coincide con l’attività di direzione.

Gino Zappa, 1927; individuò il concetto di “processo amministrativo aziendale”, costituito da uno
specifico insieme di decisioni e operazioni e da livelli di autorità e potere assai diversi da quelli che si
configurano nell’area della governance. Secondo Zappa, il processo amministrativo aziendale si
compone di tre “momenti”: la gestione, l’organizzazione e la rilevazione OGGI 4= DIREZIONE

LE TRE FASI ZAPPIANE


Gestione: attiene allo svolgimento delle operazioni aziendali di produzione del bene o servizio, di
acquisizione dei fattori produttivi, di vendita e marketing del prodotto, di finanziamento e quant’altre
sono reputate necessarie e utili, in un certo periodo di tempo, per il perseguimento del fine aziendale.
Vengono svolte non da chi siede negli organi di governance, ma da chi si trova coinvolto nel processo
di trasformazione degli input in output.
Organizzazione: sia la razionale strutturazione delle operazioni di gestione e rilevazione contabile, sia
l’allocazione del personale alle previste funzioni di lavoro.
Rilevazione: operazioni di contabilità generale, contabilità preventiva, contabilità di singoli processi,
tutte le forme di contabilità fuori bilancio che servono ai dirigenti e/o agli amministratori per misurare
l’efficienza e l’efficacia delle operazioni di gestione e organizzazione in corso e valutarne l’esito.
DIREZIONE: nel corso del XX secolo, è la supervisione, ordinamento e controllo di tutte le attività
aziendali. Non è presente nelle imprese appena nate, in quanto il soggetto economico di una impresa
neocostituita piccola è “interventista” (fa anche management).

Il management si occupa quindi di sviluppare e articolare nella struttura organizzativa le decisioni prese
a livello apicale della gerarchia, il che implica, a sua volta, l’attivazione di capacità di coordinamento e
controllo delle operazioni, cioè capacità direttive.
La governance si occupa di ideazione e pianificazione di decisioni che sono o saranno impegnative per
tutte le parti e per tutti i partecipanti all’impresa: per questa ragione, le decisioni di governance sono
altamente formalizzate e si sostanziano in deliberazioni che restano agli atti, esprimendo una legalità
che ha rilievo sia all’interno, sia all’esterno del sistema aziendale.
In conclusione, il governo dell’impresa afferisce alle decisioni e alle operazioni amministrative fatte da
pochi e precisi organi civilisticamente ordinati, cioè dagli organi volitivi aziendali.

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Sono questi i livelli di autorità da cui promana il potere della proprietà, in particolare, del soggetto
economico aziendale. Essi si rivolgono alla strategia, guardando soprattutto al di fuori dei confini
dell’impresa, cioè all’ambiente competitivo.
Il management afferisce, invece, a livelli di autorità subordinati ai precedenti.
Esso comprende un’area molto vasta di operazioni di gestione, organizzazione e rilevazione aziendale,
realizzate a vario livello gerarchico da una pluralità di collaboratori della proprietà, con la supervisione,
il coordinamento e il controllo di capi o manager, che svolgono una funzione dirigente. Quest’ultima si
rivolge alla tattica per realizzare la strategia.
I dirigenti partecipano alla formazione del processo decisionale strategico, ma non dicono l’ultima
parola negli atti che formalizzano la strategia aziendale. E’ questo, infatti, compito degli organi volitivi
dell’impresa, cioè di coloro che hanno potere di governance.

2. Decisioni ovunque, ma gerarchizzate

Nelle imprese societarie, le decisioni degli organi di governo si traducono in deliberazioni, messe per
iscritto nei verbali delle adunanze di tali organi (le società sono burocrazie in senso tecnico-weberiano
e necessitano di formalizzare le decisioni più importanti inerenti alle operazioni da svolgere). Tali
decisioni devono restare agli atti.
Le decisioni inerenti all’implementazione delle delibere degli organi volitivi, nonché le decisioni di
coordinamento e controllo delle relative operazioni sono prese, invece, dai manager responsabili delle
differenziate unità organizzative. Nel loro insieme i manager costituiscono un corpo sociale riconosciuto
dalla dottrina economico-aziendale come “organo di direzione”.
Le decisioni di governo condizionano il management dell’impresa. Partecipando in fase istruttoria, ma
non deliberativa, alle decisioni di governance, i manager influenzano la determinazione di obiettivi e
indirizzi inerenti all’orientamento di lungo periodo delle attività di impresa e possono anche ispirare
questa e quella scelta del soggetto economico.

Lo statuto aziendale traccia i lineamenti delle relazioni formali tra organi nella gerarchia.
Questa tipologia di relazioni “infraorganizzative” meglio si definisce durante l’esercizio aziendale, in
forza del numero e delle caratteristiche delle norme autogenerate dall’impresa stessa nel suo ciclo di
vita: regolamenti, circolari di servizio, contenuto di piani e programmi.
Le decisioni della governance sono formalizzate, quelle dell’organo direttivo aziendale possono
assumere anche l’aspetto di decisioni non formalizzate, che si concretizzano in comunicazioni non
scritte rivolte in via discendente ai subordinati gerarchici, e si rivolgono principalmente all’interno
dell’azienda l’utente delle decisioni dell’organo direttivo è, in primis, il subordinato gerarchico.
Nel contesto aziendale, le decisioni promanano, innanzitutto, dall’alto verso il basso (top-down).
Dagli organi volitivi, che presiedono all’indirizzo generale dell’impresa, ai manager, chiamati a
coordinare e controllare il processo amministrativo aziendale nei suoi “momenti”.
Il perseguimento degli obiettivi posti nel budget coinvolge coloro che direttamente lavo-rano per la
produzione del bene o servizio. Detto coinvolgimento determina un flusso di comunicazioni e di idee dal
basso verso l’alto (bottom-up o retroazione informativa), funzionale all’efficacia aziendale. Se non si
determina spontaneamente, tale flusso viene spesso incoraggiato e incentivato.
Ogni operatore, nel processo di trasformazione degli input in output, prende decisioni nell’esecuzione
del proprio compito, le quali influenzano la produttività dello stabilimento o ufficio e, talvolta, influenzano
anche parti più vaste del sistema aziendale.
In conclusione, le decisioni hanno natura e collocazione gerarchica differenziate nella struttura
organizzativa dell’impresa: esse hanno contenuto “strategico”, “tattico” ed “esecutivo” diverso l’uno
dall’altro, dal primo al terzo livello della gerarchia.
Ci sono decisioni ovunque in impresa, l’una alle altre legate da un filo (o processo) idealmente
“continuo”, a più livelli interconnessi.

Le operazioni aziendali hanno un impatto sull’ambiente esterno e sono socialmente rilevanti,


investendo fini e comportamenti di altre organizzazioni o persone.
Es. il comportamento dei consumatori segnala la reazione del mercato a valle della produzione; da tale
reazione si genera un’informazione per chi ha venduto il prodotto.
La retroazione informativa può giungere non solo a livello di management, ma anche a livello di
governance: in funzione di ciò, gli indirizzi generali e i piani inerenti alla produzione, vendita,
distribuzione dei beni prodotti possono essere confermati oppure modificati.
Si configura un vero e proprio circuito dell’informazione, che dal mercato può arrivare ai massimi livelli
aziendali, i quali prendono decisioni sulla base delle informazioni che hanno. Essi confermano o

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modificano tali decisioni sulla base delle informazioni che ricevono, non solo dall’interno della
organizzazione, ma anche dall’esterno.
Il processo decisionale di governo dell’impresa parte dall’alto ma può coinvolgere altri decisori interni,
nonché suscitare l’interesse di decisori estrinseci all’ambiente aziendale (stakeholders).
Nel corso del XX secolo si è affermata una corrente di pensiero che tende a sottolineare il dover essere
responsabile dell’impresa, come “contributo” al benessere della intera collettività sociale, non solo alla
soddisfazione del consumatore o del risparmiatore.
Si intende con “responsabile socialmente” la condotta dell’impresa che produce un bene o servizio
perseguendo il proprio specifico scopo, soddisfacendo bisogni diffusi e a-specifici, senza danneggiare
interessi di altri soggetti. Il discorso sulla responsabilità sociale va anche rivolto “all’interno, cioè ai
rapporti che intercorrono tra tutti i partecipanti all’impresa che si vuole sistema. La responsabilità
comincia dal rispetto del seguente principio: contratti e regole per tutti; trasparenza degli atti aziendali
da sottoporre alla valutazione di tutti.

3. Nucleo istituzionale-strategico, nucleo intermedio, nucleo operativo nel processo


decisionale

Lo strumento di regolazione e riduzione della complessità è la struttura organizzativa, la cui forma


maggiormente diffusa è la gerarchia. Nella gerarchia aziendale vi sono tre fondamentali tipi di
decisione:
- strategiche: sono di ideazione di finalità e indirizzi della complessiva attività aziendale;
- tattiche: sono di implementazione, supervisione, coordinamento e controllo;
- esecutive: sono di esecuzione a livello di routine.
Secondo James Thompson, il processo decisionale si innesta nella struttura dell’impresa configurando
il seguente modello di sintesi:
a) nucleo istituzionale (P): si occupa della strategia
b) nucleo intermedio o manageriale (D): si occupa dell’interno dell’impresa
c) nucleo operativo (O), si occupa di prestazioni di lavoro routinarie e standardizzate
A livello apicale le decisioni sono poche nella quantità, ma sempre socialmente rilevanti nella qualità.
Le imprese di piccola e media dimensione: se la fanno è strategia di corto periodo. Tipicamente
comportamenti strategici informali: un processo decisionale formale costoso.
Le imprese di grandi dimensioni e i gruppi di imprese fanno piani di azione per il medio e lungo periodo.
Nel contesto della grande impresa è “strategia”, quindi, un insieme di decisioni e di scelte pianificate di
azione, orientate al perseguimento di un fine e generalmente rivolte ad un periodo non breve.
Esse sono formalizzate in documenti deliberati dagli organi di governo, tipicamente dal consiglio di
amministrazione. I contenuti della strategia sono assolutamente impegnativi per la direzione aziendale,
che li deve realizzare articolando il piano, attraverso programmi, nella struttura.
La concretezza è una caratteristica della strategia; in quanto tale, essa è anche rivedibile, cioè
sottoponibile a cambiamento. Il cambiamento presuppone l’esistenza di un piano che orienta l’azione.

Secondo livello della gerarchia: decisioni del “nucleo intermedio”, afferiscono al coordinamento e
controllo delle operazioni di gestione, organizzazione e rilevazione, nonché alla supervisione
dell’economicità del loro svolgimento. Sono proprie dei collaboratori diretti del soggetto economico
aziendale, cioè dei manager. I manager svolgono un’indispensabile funzione di interconnessione fra
piano strategico, programmi annuali e operazioni finali. Talvolta, l’organo direttivo deve intervenire in
prima persona, in modo diretto e visibile, per anticipare o risolvere problemi di esecuzione delle
operazioni rivolte al cliente o utente finale.

A livello di base della gerarchia, sono varie e diffuse le decisioni del “nucleo operativo”.Le decisioni
prese a tale livello implicano scelte prevalentemente di routine. Esse seguono rigidi programmi
d’azione. Generalmente sono ripetitive e povere di autonomia. Dipende però dal comportamento del
capo, dallo stile di leadership, nonché dalla cultura aziendale maturata nel tempo, il grado di
coinvolgimento dei subordinati gerarchici nel management aziendale.
Entro i confini dell’impresa, nell’apparentemente statica gerarchia si determina, di fatto, una dinamica
più o meno intensa di decisioni e azioni di soggetti che sono portatori di interessi, ciascuno dotato di
discrezionalità piccola o grande. Esiste, inoltre, la dimensione tempo.
L’urgenza, l’imprevedibilità dei comportamenti dei competitori, l’incertezza ambientale consigliano di
praticare talvolta alcune rotture nella verticalità del processo decisionale gerarchico.
Il problema fondamentale di governo e management dell’azienda del nostro tempo è quello di
interpretare correttamente l’utilizzo del principio gerarchico.

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4. Soggetti di diritto, gerarchie semplici e gerarchie complesse (VEDI COMMERCIALE)

Soggetto giuridico aziendale o soggetto di diritto (SG) è la persona fisica o giuridica cui si riferiscono i
diritti di proprietà dell’azienda e si imputano le obbligazioni che sorgono nello svolgimento delle attività
di impresa.
L’impresa è costituita da una complessità organizzata di beni e dall’attività effettivamente svolta
attraverso tali beni.
L’imprenditore è la persona fisica o la persona giuridica che tale insieme complesso e tale attività
esercita, assumendo rischi economici e finanziari, essendo in ultima analisi il destinatario degli effetti
positivi o negativi dell’attività di impresa in svolgimento.
Organizzazioni “complesse” sono le aziende di produzione che hanno una compagine sociale o
associativa mobile, soggetta a variazioni nell’assetto del capitale nominale, che si avvalgono
diffusamente di norme e regole nella loro amministrazione, che sono strutturate a più livelli gerarchici.
Sono complessi, tipicamente, gli enti pubblici.
Nelle società di persone ciascun socio è de jure amministratore dell’azienda.
Nelle società di capitali, l’assunzione dell’incarico di amministratore avviene con contratto disgiunto da
quello in base al quale, eventualmente, si diventa socio. Il che qualifica la funzione del socio come
funzione di finanziatore piuttosto che di proprietario di “quota parte dell’impresa” e potenziale
amministratore.
Con la scelta della società di capitali in luogo della società di persone si segnala un’impresa orientata
alla competitività e alla crescita, il che richiede: capitali di rischio e flessibilità nell’uso degli strumenti
finanziari; l’adozione di una struttura organizzativa interna articolata e forte nella sua intenzionale
razionalità; la manifestazione di una preferenza per l’apertura ad una pluralità di investitori.
Con la scelta della società di persone, invece, viene di fatto inoltrato al pubblico un messaggio diverso:
quello di un’impresa che è suscettibile di crescere, ma è limitata nei mezzi disponibili per farlo; che si
fonda primariamente sulle virtù di un numero ristretto di partecipanti che intende accentrare il controllo
proprietario e fare uso altamente discrezionale delle risorse.
Mentre le società di capitali e di persone sono accomunate dall’orientamento competitivo e dalla finalità
di produzione e scambio con intenzione di ricavarne un reddito, le società cooperative e quelle di mutua
assicurazione non evidenziano, pur essendo società di capitali, lo scopo del lucro.
Esse hanno, infatti, una finalizzazione e un orientamento di tipo solidaristico-mutualistico per cui, se nel
loro andamento nel tempo si formasse un reddito, questo non potrebbe essere distribuito ai soci; esso
dovrebbe essere reinvestito all’interno del sistema aziendale per la crescita o per la razionalizzazione
delle iniziative economiche intraprese, o per iniziative benefiche.
5. Relazioni tra capitale di comando e capitale controllato

Nelle imprese societarie, il soggetto economico esercita un potere di governance che ha tre
caratteristiche fondamentali:
a) possiede o riesce in vario modo a detenere il controllo del capitale di pieno rischio,
b) domina l’amministrazione generale in prima persona o attraverso propri incaricati di servizio,
c) influenza per tale via le operazioni di management aziendale.

Soggetto economico: la persona fisica o giuridica che, dato un certo soggetto giuridico, riesce a
determinare finalità e indirizzi aziendali, esercitando un controllo di tipo finanziario o strategico. Nelle
SPA è il socio in grado di dominare l’assemblea, si rileva al momento della riunione dell’assemblea dei
soci. Può far parte del CdA o CS (governance diretta) oppure nominare una persona fidata.
Il soggetto economico aziendale amministra con autorità legale ed esercitando poteri.
La maggioranza del capitale non è detto corrisponda alla maggioranza dei voti. Ciò in quanto il capitale
sociale è diviso in azioni di uguale valore, ma non tutte le azioni attribuiscono i medesimi diritti di voto.
Inoltre, non tutti i titolari di diritti di proprietà si recano in assemblea a votare.
In caso di coalizione di azionisti si deve andare a cercare la singola persona predominante.
Anche in caso di rapporto tra società controllante e società controllate vi è sempre una persona fisica
che domina l’una e le altre.
Partecipa all’amministrazione generale della impresa o direttamente o indirettamente attraverso un
proprio incaricato o propri incaricati, assumendo nel primo caso il ruolo formale di amministratore unico,
oppure di membro del consiglio di amministrazione (e/o presidente e/o amministratore delegato); nel
secondo caso, attraverso membri da lui designati come amministratori, votati e nominati in assemblea.

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Le persone nominate grazie ai voti del soggetto economico si attengono agli indirizzi che stabilisce il
soggetto economico, ad essi ispirando le proprie decisioni e scelte.
Il loro rapporto col soggetto economico aziendale si è evoluto, dopo la riforma del 2003, da rapporto di
mandato fiduciario a vero e proprio incarico di lavoro. Sono titolari di una specifica autonomia
professionale, inerente all’incarico, sancita dalla legge e dallo statuto aziendale, ma è irrealistico
pensare che essi possano sottrarsi all’influenza del soggetto che li ha prima designati in assemblea e
poi fatti nominare.

Capitale di comando: quota del complessivo capitale sociale che attribuisce a chi la possiede o la
detiene la maggioranza dei voti in assemblea nel momento in cui questa si riunisce e di fatto il controllo
del patrimonio netto aziendale.
Capitale controllato: quota residuale del capitale sociale, posseduta o detenuta da tutti gli altri soci.

CdA: gestisce l’impresa a livello strategico


Collegio sindacale: vigila l’operato del CdA
Nel sistema tradizionale assemblea, CdA e collegio sindacale formano la governance.
Amministratori e sindaci non sono dipendenti ma incaricati dalla società alla corporate governance. Non
sono manager di norma eccezione: top manager molto bravo può diventare amministratore.
CdA: in genere presidente e AD sono due persone diverse
• amministratori esecutivi: con deleghe di gestione
• amministratori non esecutivi: senza deleghe, persone competenti che arricchiscono il dialogo
• amministratori indipendenti

Minoranze: si distingue tra:


• soci i minoranza rilevante: interessati alla governance ma di fatto esclusi, è importante perché
finanzia
• soci non interessati alla governance
si rapportano in due differenti modi con il capitale di comando:
• principe illuminato: coinvolge minoranza rilevanteapre a CdA e CS, per consigli,
finanziamenti, rapporti con altre imprese…

L’esercizio dell’impresa in forma collettiva, come accade in tutti i casi in cui ci troviamo di fronte ad una
società, è qualcosa di esclusivamente formale, non di reale. La società si pone non come strumento
per esercitare l’impresa in forma collettiva e democratica, ma come strumento per finanziare l’attività
aziendale del capitale di comando, nonché per dotare l’impresa stessa di una forma giuridica ritenuta
appropriata allo scopo da perseguire nel settore di attività economica prescelto.

Considerando che l’impresa può finanziarsi anche con capitale di credito, è possibile far rientrare anche
i mezzi forniti da terzi creditori nella nozione di capitale controllato. In quest’ottica può essere
considerato capitale controllato anche il debito commerciale, per le dilazioni di pagamento concesse da
fornitori, e tutti gli altri mezzi finanziari che, nel passivo patrimoniale, costituiscono un debito.
L’impresa può praticare forme di autofinanziamento, attraverso il reinvestimento dei redditi netti non
distribuiti ai soci, ma anche attraverso l’incremento periodico dei fondi di accantonamento e dei fondi di
ammortamento. Tali mezzi diventano capitale controllato.
Il capitale di comando si muove essenzialmente sul piano del finanziamento e della strategia di
impresa. Il capitale controllato, invece, si muove essenzialmente sul piano del reddito atteso ed
eventualmente sul piano della condivisione del potere di indirizzo (ciò riguarda soprattutto uno o più
forti stakeholder quali i top manager, all’interno, o i finanziatori, all’esterno).
Il capitale di comando ha una prospettiva strategica “ampia”, cioè fa sua una strategia aziendale volta
alla sopravvivenza dell’impresa nel lungo termine. Il capitale controllato ha una prospettiva strategica
“limitata”, nel senso che si muove sul piano del reddito atteso e di una strategia personale che non ha
niente a che fare con il successo dell’impresa nel lungo termine.
Autorità, potere e influenza danno luogo a dinamiche relazionali differenti. Il concetto di autorità attiene
alla posizione gerarchica occupata da ciascun partecipante, al suo ruolo in impresa, ai compiti formali
che l’individuo assolve nell’ambito di una certa divisione del lavoro aziendale.
Avere potere significa non solo possedere autorità inerente al ruolo ricoperto in una gerarchia, ma
anche esprimere abilità nell’amministrare indirizzo e controllo. Significa capacità di imporre obbedienza
rispetto alle decisioni formalmente prese.

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Avere influenza significa essere in grado, da un livello di sotto-ordinazione, di fornire ora un contributo
alla governance, ora anche al management.
QUINDI: Il potere si esprime quanto l’autorità è in azione.

Emerge un peso specifico dei diversi livelli di autorità. I dirigenti hanno un’autorità derivata. Eesercitano
poteri di management in quanto rivestono contrattualmente un ruolo, ma non determinano l’indirizzo e il
controllo del patrimonio aziendale. Sul governo dell’impresa possono avere un’influenza: le
deliberazioni che prende il soggetto economico sono sempre decisioni almeno in parte basate sulla
conoscenza maturata dai dirigenti nel corso del tempo e nella loro carriera. Non sono mai opera di una
sola persona e non si improvvisano, abbiamo bisogno del knwo-how di dirigenti.
Grazie all’azionariato dei lavoratori, i dipendenti-azionisti rientrano nell’ambito del capitale controllato
devono essere correttamente intesi non solo come una politica finanziaria, ma anche come una politica
del personale, ovvero sia di una scelta del soggetto economico rispetto al modo in cui egli ritiene che le
risorse umane possano essere gestite e trattate.
Il personale è una risorsa portatrice sia di forza fisica, sia di forza inerente all’esperienza ed alla
conoscenza accumulate, talvolta di idee o progetti innovativi per la produzione aziendale e la
formazione del reddito. In quanto fornitore di tale capitale intellettuale, il personale può essere inteso
come capitale umano controllato dal soggetto economico di impresa. Si tratta di capitale virtuale e reale
al tempo stesso, essenziale per il successo, non meno che per l’esistenza del sistema aziendale.
6. Governance: diversità di sistemi di amministrazione e controllo

La proprietà si presenta come compagine indistinta; è un centro decisionale che, muovendosi sul piano
della legge, investendo nell’impresa il proprio capitale e operando attraverso l’assemblea dei soci, crea
con piena autonomia gli organi deliberativi a fini di governance, fornendo quindi finalità e indirizzi di
fondo a tutto il resto dell’impresa.
Tra i titolari di diritti di proprietà vi è un rapporto di forza che, ai voti in assemblea, è consapevolmente
regolato dall’iniziativa della maggioranza o si regola per iniziativa di una minoranza particolarmente
attiva, capace di trasformarsi in una maggioranza di voti.
Tipicamente, nell’assemblea dei soci con diritto di voto si manifesta la volontà del soggetto economico
aziendale. Nel caso delle imprese di minori dimensioni è possibile che il soggetto economico emerga
come amministratore unico della società. Negli altri casi, il soggetto economico designa gli individui che
saranno nominati consiglieri di amministrazione dall’assemblea stessa.
Gli amministratori designati dal capitale controllante ed eventualmente gli altri designati dal capitale
controllato formeranno, quindi, l’organo amministrativo più direttamente impegnato nelle operazioni di
governance: il c.d.A.

Attraverso l’assemblea, il capitale di comando e il capitale controllato concertano anche la nomina del
collegio sindacale: che ha il “dovere di vigilare sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto
dei principi di corretta amministrazione e in particolare sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo,
amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento”. Esercita anche un
controllo contabile nelle società che non fanno ricorso ai mercati del capitale di rischio e non sono
tenute a redigere un bilancio consolidato. Può chiedere agli amministratori notizie e informazioni
sull’andamento economico societario o su singole operazioni; nei gruppi di imprese può anche
scambiare informazioni con i corrispondenti organi delle società controllate.

Sistema dualistico e sistema monistico : vedi commerciale

8. Management, direzione aziendale e manager

La direzione giustifica il proprio ruolo in conseguenza del fenomeno della separazione delle funzioni
esercitate dal soggetto economico (funzioni di indirizzo strategico e controllo finanziario) dalle funzioni
interne di supporto inerenti al coordinamento e controllo delle operazioni di gestione, organizzazione e
rilevazione. È una autorità decisionale selezionata dalla proprietà. Gli organi deliberativi la scelgono, gli
affidano responsabilità, le attribuiscono delega di autorità.

D  Sono manager o capi tutti coloro che – avendo un contratto di lavoro, non necessariamente un
formale “contratto di lavoro direttivo” che li lega all’impresa – sono impiegati, per delega del nucleo
istituzionale, in un lavoro di supervisione, coordinamento e controllo svolto nel nucleo operativo.

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Il nucleo intermedio è un livello gerarchico che non tutte le imprese hanno, in quanto non tutti coloro
che creano impresa scelgono di evolversi verso la grande dimensione e non tutti nutrono la
convenienza a separare le funzioni di proprietario da quella di manager.
In quanto presiedono alla supervisione, al coordinamento e al controllo delle operazioni inerenti al
processo amministrativo aziendale, i capi danno una “responsabilità” ed una “autonomia” all’interno del
sistema aziendale. Essi sono “responsabili” verso chi ha loro dato una delega per il lavoro svolto
correntemente e anche per quello svolto dai collaboratori nel nucleo operativo. Inoltre, i capi sono
portatori di un’autonomia decisionale e di interessi specifici.
Chi crea impresa ed è anche soggetto economico aziendale tende a personificare la sua iniziativa,
soprattutto se resta microimpresa. Nelle imprese di piccola-media dimensione il soggetto economico si
configura come proprietario interventista, che accentra su di sé tutte le funzioni. Può anche avvalersi di
uno o più coadiutori familiari oppure di uno o più “dipendenti di fiducia” che operano al suo fianco, ai
quali delega alcune operazioni.
Si ha direzione se l’impresa sia filiata da un’impresa di maggiori dimensioni, oppure se il soggetto
economico ha una posizione monopolista nel settore di riferimento, che assicura alla sua impresa un
flusso di ricavi capace di reintegrare ogni costo, compreso quello di veri e propri dirigenti.

Nel caso della public company si assiste ad una dilatazione eccezionale del nucleo intermedio nella
gerarchia: i manager sono pervasivi, hanno potere non facilmente controllabile e tendono ad innalzarlo
fino al livello del consiglio di amministrazione.
In generale, quanto più l’impresa cresce ed è vasta, tanto più ampio diventa il livello dell’autorità
manageriale e tanto più forti sono il potere e l’autonomia decisionale di chi è capo, di chi dirige.
All’opposto, l’impresa nei primi anni di vita e l’impresa che decide di rimanere piccola evitano di
costituire un vero e proprio “organo direttivo”, finché non si esprime al proprio interno il bisogno di un
lavoro professionalizzato e di una funzione di integrazione separata da quella della proprietà.

Il momento in cui si profila il bisogno di separazione tra governance e management, tra proprietà e
direzione è funzione del combinato disposto delle caratteristiche “interne” di contesto amministrativo
(context) e delle caratteristiche “esterne” inerenti all’ambiente competitivo (environment), che possono
suggerire in vario modo la conferma o il mutamento dell’assetto del governo e del management
aziendale.
Nell’evoluzione dell’impresa è possibile che intervengano periodi in cui la separazione può trovare limiti
o non rivelarsi efficiente. Esistono, cioè, periodi e circostanze in cui, nella classica piramide decisionale,
i confini tra i livelli diventano meno netti del previsto e dell’ordinario. Emergono, quindi, zone grigie di
rapporti tra nucleo istituzionale e nucleo intermedio. Abbiamo momenti in cui la proprietà, pur essendo
separata dalle funzioni manageriali, deve necessariamente coinvolgersi in operazioni già delegate
perché perde un collaboratore prezioso.
All’opposto, se si crea un vuoto di governance (quando, ad esempio, la proprietà è in crisi finanziaria o
è in una fase di transizione dal fondatore al successore) può accadere che uno o più dirigenti
assumano temporaneamente funzioni pertinenti alla proprietà, il che è ben diverso dall’usurpare il
potere, anzi favorisce la soluzione dei problemi emersi.

Lo sviluppo dimensionale dell’impresa genera una proliferazione di centri di decisione (cioè, più organi
deliberativi, più centri di coordinamento e controllo, più centri di esecuzione delle operazioni).
Nelle grandi imprese il costo che bisogna sostenere dopo aver creato dirigenti non è solo un costo
economico, ma è anche un costo “organizzativo”, più propriamente un costo di coordinamento tra
l’organo di governo che fa strategia, dominato dal soggetto economico (il principale), e l’organo che,
entrato nella struttura del potere amministrativo (l’agente), implementa la strategia medesima,
sviluppandola in operazioni tattiche, via via meno complesse.

Emerge qui l’importanza della teoria dell’agenzia.


Il contesto interno in cui vengono prese le decisioni ha protagonisti differenziati ed è segnato, nelle
grandi imprese, da condizioni di prevalente incertezza, che rendono difficile da interpretare l’evolvere
dei rapporti infraorganizzativi e interpersonali. Del pari, la pluralità delle persone e organizzazioni che
agiscono nell’ambiente competitivo, le une e le altre portatrici di autonomie, culture e interessi diversi
determina un contorno di prevalente incertezza che influenza le decisioni.

Un principal delega all’agent il potere discrezionale di compiere nel proprio interesse e nel proprio conto
un determinato compito sulla base delle competenze da quest’ultimo possedute

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Sono agents anche i subordinati gerarchici che collaborano con i manager in tutte le aree del sistema
aziendale. Nella teoria dell’agenzia le funzioni da assolvere si precisano in dettaglio entro i confini dei
contratti: il rapporto tra l’uno e l’altro livello di autorità è visto come rapporto definito da partite e
contropartite, ordini e obbedienze.
Il contratto definisce il rapporto formale tra principal e agent. L’incertezza ambientale in cui si realizza il
contratto genera rischi e costi per entrambi, ma non di egual tipo ed entità.
PROBLEMA DELL’AGENZIA: la cooperazione tra P e A, seppur regolata da contratto, è deviata da:
• asimmetria informativa
• incompletezza contrattuale
• incertezza ambientale
Costi di monitoraggio: costo che P sostiene per provare a controllare l’agent
Costi di cauzione: sostenuti da A per dimostrargli che sta lavorando bene
Perdita residua: sicura, causata dai tre problemi.
L’impresa è un nexus of contractual relationships.
Il problema della separazioone è più evidente in imprese medio-grandi
• Strumenti interni di controllo: riconosco dei bonus (oppure stock options)
• Strumenti esterni di controllo: rischio di scalate ostili (take-overs): se le mie azioni rendono male
sono a rischio di scalata ostile, licenzio il manager che lavorava male e lo rovino a vita.
L’armonia deve essere costantemente provata e ricercata nello svolgimento delle attività aziendali.

9. Differenziazione fra manager e problemi di identificazione nel fine aziendale

Se agli organi deliberativi competono le decisioni inerenti alle strategie, all’organo direttivo, invece,
competono per contratto e per delega decisioni di sviluppo in operazioni aziendali di tali strategia, cioè
decisioni assimilabili a tattiche per soddisfare i fini dei piani e programmi deliberati.
L’organo direttivo può essere “monocratico” o “pluralistico”.
Top managers: incaricati di coordinare e controllare la totalità dell’impresa.
In quest’ambito emerge il direttore generale, esercita il coordinamento e il controllo sul complesso delle
operazioni aziendali e sovrintende al lavoro di altri manager, tipicamente vice-direttori generali e
dirigenti di singole unità organizzative. Nell’insieme, tale collegio implementa (sviluppa ed articola) la
strategia aziendale nella struttura.
È molto costoso. Presiedono ai rapporti con tutti i centri di decisione presenti nella struttura
organizzativa, non solo con la proprietà. Tipicamente essi formano un collegio e sviluppano la
collaborazione con i dirigenti funzionalmente, i middle managers.
Middle managers: sono dirigenti addetti a dipartimenti o uffici della sede sociale o a singole importanti
dipendenze territoriali. Può trattarsi di persone alle quali si affida una specifica politica da realizzare.
Possono accrescere il loro prestigio grazie all’efficacia con cui svolgono il proprio compito di lavoro,
tanto da poter influenzare i top managers e, talvolta, anche gli organi del governo aziendale.
Lower level managers: coloro che sono stati delegati a sovrintendere a subsistemi minori entro
un’area funzionale o un dipartimento, o a realizzare limitati progetti..

I manager non opportunistici tendono a sviluppare una forte identificazione nell’unità organizzativa cui
sovrintendono e nel proprio lavoro, facendone taluni anche un vero e proprio progetto di vita. L’unità
organizzativa in cui operano diventa la loro azienda.
E’ questa, una delle ragioni più forti che fa preferire le soluzioni di decentralizzazione delle decisioni e
disaggregazione della struttura.
I manager hanno un duplice mercato:
a) un mercato del lavoro interno: carriera interna all’azienda
b) un mercato del lavoro esterno: dipende dai risultati della propria performance aziendale, entra
in concorrenza con altri manager che hanno sviluppato la loro carriera in differenziati contesti.
Il dirigente è un soggetto strabico, in quanto ha un occhio rivolto all’interno (deve essere fedele e
sviluppare le sue capacità per il benessere aziendale) e un occhio rivolto all’esterno ( è stimolato dalla
presenza di opportunità di miglioramento della propria carriera) È un soggetto potenzialmente mobile.
La valutazione del manager da parte del mercato del lavoro si basa su due aspetti.
• contributo dato dal manager alla crescita in termini di fatturato e/o in termini di attivo
patrimoniale dell’impresa in cui lo stesso è impiegato: ciò spiega perché i manager si muovano
sul piano del reinvestimento, piuttosto che su quello della distribuzione degli utili.

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• visibilità e reputazione del manager: aumentano non solo al crescere delle dimensioni aziendali,
ma anche allo sviluppo dell’innovazione tecnologica e organizzativa promosse dal manager
stesso in quella e altre imprese.
Occorre, tuttavia, considerare un ulteriore aspetto della questione: quello delle capacità relazionali. Il
mercato apprezza il manager che riesce ad evocare una sfera di personalità ricca di capacità
relazionali, capacità di muoversi nel sistema sociale, capacità di gestire l’immagine.

10. Conflitti in impresa: casi e problemi

La configurazione armonica degli interessi e delle relazioni interpersonali all’interno del sistema
aziendale può essere descritto come segue:
• il capitale di comando si cala nei diritti e doveri della governance;
• il capitale controllato conosce i propri diritti e doveri, ma si limita a percepire i dividendi, talora
esercitando un’influenza;
• i soci votano sempre nell’interesse ultimo della società;
• gli amministratori non hanno interessi personali e/o extrasociali nelle operazioni che deliberano;
• ci sono dirigenti che rispettano i contratti;
• ci sono quadri, impiegati e operai che, a livello operativo, si riconoscono nel fine istituzionale e
sono motivati a raggiungerlo.
Almeno una volta l’anno tutto ciò deve essere sottoposto a verifica: a livello di bilancio di fine periodo
devono, infatti, tornare i conti patrimoniali e deve quadrare l’assetto contrattuale.
E’ possibile, infatti, che intervengano o siano intervenuti conflitti destabilizzanti il disegno
dell’imprenditore, sicché armonia ed equilibrio devono essere ristabiliti.
Se abbiamo una piccola e media impresa, sarà direttamente l’imprenditore-persona fisica a
depotenziare o risolvere i conflitti. Se siamo in una grande impresa è la visible hand dei dirigenti e/o
degli amministratori che procura tale armonia. Nelle grandi imprese, tale mano è fondamentalmente
quella dei top managers.
Quando non esistono tutte le capacità necessarie allo scopo, le imprese si avvalgono di una “terza
parte”, ovvero del consulente aziendale.
C’è un mercato della consulenza aziendale che offre un servizio che potrebbe essere definito di
prevenzione del conflitto e di manutenzione della compatibilità degli interessi coinvolti in impresa.
Disarmonie tra soci e conflitti tra soci, amministratori e/o manager possono condurre a serie crisi
aziendali.
E’ contra legem il “conflitto di interessi” all’interno della sfera della proprietà, quando il socio eserciti il
proprio diritto di voto risultando “determinante” nel corso di deliberazioni ove egli abbia direttamente o
indirettamente un interesse personale che si pone in modo antagonistico e reca danno all’interesse
aziendale; o quando l’amministratore sia in “concorrenza” con la società amministrata, esercitando in
proprio attività alternative o assumendo la qualità di socio illimitatamente responsabile o l’incarico di
amministratore o di direttore generale in società rivali, salvo autorizzazioni dell’assemblea.
Né gli amministratori possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità.
Ad evitare il conflitto di interessi, l’amministratore che abbia direttamente o indirettamente un interesse
in qualche operazione societaria deve darne notizia circostanziata al CdA e al collegio sindacale prima
della partecipazione al voto.
Se amministratore delegato, egli deve invece assolutamente astenersi dal compiere l’operazione.
Il primo e il secondo caso di conflitto di interesse sopra esposti potrebbero essere definiti casi di
conflitto patologico, se si manifestano.
Esistono altri tipi di disarmonia e conflitto tra decision makers aziendali, che non assumono le forme del
conflitto contra legem, né si manifestano potenzialità distruttive. Esiste, cioè, un’intera gamma di
conflitti che sono fisiologici nel divenire aziendale; essi avvengono tra persone o soggetti portatori di
interessi.
La prevenzione e la risoluzione del conflitto (che appartengono all’area del governo e soprattutto del
management dell’impresa, ma richiedono la cooperazione di altri soggetti, spesso di qualche
stakeholder, quale lo Stato o il sindacato dei lavoratori) devono in ogni caso essere assicurate
all’impresa.
Nel medio-lungo periodo la conflittualità permanente impedisce il mantenimento dell’equilibrio aziendale
e la continuità della formazione del reddito.

1. Tra titolari di diritti di proprietà: si esplicita con maggiore evidenza in sede di consuntivo di bilancio,
quando si perviene alla determinazione del risultato economico di periodo e si decide sia la

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distribuzione degli utili, sia l’entità del dividendo. Si manifesta l’interesse del capitale di comando alla
sopravvivenza dell’impresa e alle prospettive della continuità del reddito, mentre il capitale controllato si
muove tipicamente sul piano della massimizzazione del tornaconto di breve periodo.
2. Tra società controllante (holding) e società controllata: se ha una performance positiva significativa e
aspiri ad elevare la propria autonomia strategica, ancorché resti dipendente dal capitale della
controllante. La proposta degli amministratori della società controllata può divergere dall’opinione dei
soci della controllante, può sorgere una crisi temporanea dei rapporti tra controllante e controllata;
inevitabilmente si risolve a favore del soggetto economico dell’intero gruppo. Fazzi sottolineava come le
società controllate, nei gruppi aziendali, siano “forzatamente prive di imprenditorialità” e agiscano come
“quasi-imprese”, invece che come imprese con piena autonomia strategica e con finalità distinta da
quella della controllante. Se nella gerarchia del gruppo si determina un conflitto acuto tra controllante e
controllato, e quest’ultimo non si adegua all’orientamento strategico definito ex capite, il primo
interviene con la forza del proprio capitale e dei propri voti.
3. Tra maggioranza e minoranza azionaria: in una società controllata, in riferimento alla determinazione
dei prezzi di trasferimento degli output aziendali alla capogruppo.
4. Tra soggetto economico aziendale e direzione: Il dirigente è pur sempre vincolato all’impresa da un
contratto di lavoro dipendente. Tuttavia, i manager non trascurano l’importanza dell’autofinanziamento
dell’impresa per la quale operano; sono interessati alla solidità patrimoniale e alla generazione di
risorse per la crescita. Se potessero, i manager reinvestirebbero tutto l’utile lordo nella crescita
dimensionale. Da parte sua, la proprietà comprende meglio di ogni altro il valore della continuità
aziendale, ma non può trascurare l’importanza dei dividendi; i soci di maggioranza e i soci di minoranza
condividono questo interesse. Esiste, quindi, un conflitto fisiologico di interessi fra proprietari e dirigenti
che ha natura extra-contrattuale, e non è del solo tipo principal/agent. Ad esso corrisponde il dilemma:
dividendi o crescita?
5. All’interno della direzione aziendale: disarmonie ad ampio raggio, che si sviluppano nell’interazione
tra un’unità organizzativa e l’altra, cioè nella divisione del lavoro e nello svolgimento dell’azienda,
oppure nell’interazione tra persona e persona.
Ogni manager, infatti, porta con sé dentro l’impresa non solo la propria conoscenza, ma anche le
proprie convinzioni e ambizioni.
A livello direttivo si sviluppano, in particolare, dinamiche dei rapporti interpersonali di duplice tipo:
a) quelle legate alle funzioni assolte;
b) quelle legate alle sfere di personalità.
Tali dinamiche sono manifestazioni ora della professione, ora della persona, investendo, però,
entrambe l’andamento economico-finanziario dell’impresa.
Talvolta lo danneggiano, per le aperte divergenze d’opinione che provocano crisi; talvolta, però, lo
influenzano positivamente, perché la competitività e anche lo scontro tra manager possono far cogliere
opportunità o far emergere idee vincenti.

6. Tra i proprietari e il personale alle dipendenze: il quale aspira ad intervenire sulle scelte strategiche
aziendali o sull’organizzazione del lavoro.

11. Sfere di personalità, non solo interessi economici

Molte decisioni che intervengono a tutti e tre i livelli della gerarchia aziendale sono influenzati da ciò
che i diversi protagonisti hanno non solo nella loro sfera di razionalità, ma anche nella loro sfera di
sentimenti.
Homans presenta uno schema concettuale di ragionamento sulle imprese, e sui “gruppi umani” che le
compongono, fondato sui seguenti elementi:
- attività (activities), operazioni aziendali;
- sentimenti (sentiments), cioè i modi personali di essere e agire
- interazioni (interactions), i rapporti reciproci interpersonali e/o interfunzionali, che possono
avere esito di tipo diverso, cioè avere conseguenze positive o negative.
In impresa le armonie o i conflitti sono eminentemente riconducibili alle persone. Tra partecipanti al
sistema aziendale si stabiliscono non solo relazioni utilitaristiche, ma anche relazioni emotive. Le
relazioni in impresa mantengono una natura sociale, cioè non hanno una caratterizzazione solo
economico-aziendale. Gli individui che entrano in impresa sono non solo fattori produttivi, ma anche
persone umane che si comportano sulla base di culture maturate nel passato e sulla base di
preconcetti su tutto quanto accade. Possiamo affermare che l’impresa non è solo un insieme di centri

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decisionali e interessi lucrativi, ma è anche una coalizione di forze personali che è portatrice di
emozioni e sentimenti pesanti sulla sua amministrazione.

3. L’impresa che vogliamo sistema. Condizioni per esserlo


1. Le imprese: tutte sistemiche?

Von Bertalanffy: “Le imprese possono riconoscersi in sistemi in quanto siano “complessi costituiti da
elementi in interazione”, elementi che “interagiscono tra di loro e con l’ambiente circostante”. Un
sistema è una “complessità organizzata””
Zappa: “L’azienda non è una massa dissociata, è una realtà operante: diviene di giorno in giorno, si
costruisce continuamente, nelle sue strutture sempre si rinnova e sempre si ricompie; nei processi
dinamici attuati sempre si trasforma e apertamente si manifesta, come dettano le circostanze mutevoli
alle quali l’azienda deve adattarsi”.
Paganelli: “Sistema di forze economiche, cioè insieme di energie personali, mezzi patrimoniali e
condizioni varie, operanti congiuntamente per il raggiungimento di determinati fini”.
L’interesse per l’approccio sistemico allo studio degli organismi viventi e di altri organismi di diversa
natura è in primis accreditabile alle scienze biologiche, fisiche, ingegneristiche. Si è esteso ben presto
agli studiosi delle scienze sociali e manageriali. La tendenza è già chiara nei Principles of Management
di Frederick Taylor.
Barnard: società matrioska che contiene impresa. Pone enfasi sul management delle interazioni che,
formalmente o informalmente, pervadono l’impresa, e sul coordinamento efficace ed efficiente dei
fattori materiali e personali della produzione, l’uno e l’altro essenziali se si vuole fare dell’impresa un
vero e proprio sistema. Gli elementi in impresa sono in interdipendenza e orientati a un fine.
Katz & Kahn: sono contrived systems. They are made of men and are imperfect systems.
Kast & Rosenzweig: un sistema è un’unità organizzata

Un sistema è, in sintesi, un insieme ordinato e strutturato, composta da due o più parti, componenti o
subsistemi interdipendenti, separato da netti confini dal suo sovrasistema ambientale.
Gli aspetti che definiscono un sistema sono:
a) entità unitaria e organizzata (di qui la caratteristica dell’insieme ordinato e strutturato, della
totalità che supera la mera sommatoria di addendi);
b) composizione interna in due o più parti in reciproca interazione (di qui i subsistemi
interdipendenti);
c) separazione, tramite confini, dall’ambiente in cui si colloca (ambiente come sovrasistema).

Gli elementi di un sistema possono essere sia “parti” (cioè sottosistemi), che “partecipanti” (cioè
persone in varia posizione di autorità, singole o in gruppo, anch’essi sottosistemi del complesso
organizzato).

E’ sistema l’impresa in quanto sia una totalità strutturata e coordinata di parti, partecipanti e relazioni tra
tali elementi, indirizzata al raggiungimento di un preciso fine nel proprio ambiente di riferimento.
E’ compito dell’amministrazione aziendale portare e mantenere tale sistema in equilibrio.
Devono essere programmate (to contrite), governate e condotte consapevolmente a tale scopo.
Sono inoltre piene di “imperfezioni”, perché in esse sono diffuse l’irrazionalità e le asimmetrie, perché
l’azione umana è piena di errori. Diventare sistema, essere e restare in equilibrio, sopravvivere nel
tempo richiedono l’esistenza di condizioni di contesto, sia interne che esterne, e l’adozione di criteri di
amministrazione generale orientate durevolmente alla razionalità. L’esistenza di tali condizioni e criteri
deve essere oggetto di effettivo accertamento.
Diventare sistema e mantenersi tale sono traguardi faticosi, ma ambiti, che consentono all’impresa di:
a) dotarsi delle condizioni amministrative di base per competere e/o collaborare con altre
organizzazioni dell’ambiente di riferimento;
b) evolversi come organizzazione vitale, eventualmente crescere e cogliere le opportunità di
“vantaggio” rispetto ad altre organizzazioni;
c) prestare anche un servizio a collettività più ampie di quelle dell’ambiente di riferimento, cioè
essere anche socialmente rilevante e responsabile, non solo egoisticamente in utile.

2. Alla ricerca delle condizioni per cui l’impresa si fa sistema

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Differenziazione
Differenziazione del lavoro che si svolge entro i confini aziendali. Quanto più i lavori sono divisi, tanto
più l’impresa sarà differenziata in “parti”; inoltre, quanto più l’impresa è grande o cresce, tanto più le
parti e attività pertinenti alla governance si separeranno da quelle del management, e queste ultime si
differenzieranno a vari livelli nella gerarchia.
Razionalità: il lavoro diviso in tante parti, quante saranno necessarie e convenienti per la
trasformazione degli input in output e per la sua amministrazione.
La differenziazione è razionale in quanto corrisponda ad un disegno utile; a un preciso fine da
raggiungere e all’assunzione di un criterio “scientifico” di conduzione aziendale: tale criterio è quello
della economicità.
Nel dividere il lavoro bisogna considerare:
a) le dimensioni raggiunte dall’impresa nella sua evoluzione;
b) le caratteristiche dell’ambiente in cui la stessa impresa opera;
c) le previsioni sul futuro andamento aziendale.

Dimensioni aziendali.
Se grande è sicuramente differenziata al suo interno.
Se piccola, l’impresa è poco o per nulla differenziata, perché il soggetto economico personifica il
management oltre che la governance. L’imprenditore limita all’essenziale la sua domanda di lavoro e
d’opera da rivolgere a terzi, si identifica nel produttore e nella funzione di produzione. Se esistono, le
altre funzioni sono interiorizzate nella funzione del produttore.
Realizzare un’articolata divisione del lavoro è costoso: ogni progettazione richiede investimenti ad hoc.
I confini che dividono ciascuna area, ciascun progetto, ciascun raggruppamento di operazioni (cioè i
sottosistemi aziendali) da tutto il resto (cioè il sistema aziendale) sono confini convenzionali e mobili.
Si deve partire da una rappresentazione statica dell’impresa, incentrata sulla funzione della produzione
e, contemporaneamente, farsene una proiezione dinamica ed evolutiva.
La divisione del lavoro e la differenziazione infrasistemica mutano nel tempo e nello spazio. Dipende
non solo dai dinamismi dell’ambiente in cui opera l’impresa, ma anche dall’interazione tra componenti
(o “forze”) del costrutto aziendale.
Entro i confini organizzativi, convivono una statica di funzioni, progetti, lavori e una dinamica attivata sia
dalle innovazioni autopropulsive del fattore capitale, sia dal comportamento del fattore umano.
Tra parte e parte, i confini vengono tracciati per determinare gli ambiti di responsabilità, le deleghe e le
regole nello svolgimento delle mansioni di lavoro. Attraverso la differenziazione si compie un primo
passo verso un assetto ordinato dell’impresa, assetto che sarà reso stabile dalla struttura organizzativa.
Definiti i confini tra le parti, queste si relazionano l’una rispetto all’altra.
Tra una funzione e l’altra esistono delle dinamiche diffuse, delle forze, che vengono definite relazioni
interfunzionali. Possono essere anche solo unidirezionali (non tutte le operazioni comportano una
reciprocità). Le relazioni sono tipicamente bidirezionali: nessuna parte ha scopo se non in funzione
delle altre e del tutto.
Quanto più vaste diventano le dimensioni di impresa, tanto più diventa complessa la divisione del
lavoro e tanto meno le parti si regolano da sé; lo scambio all’interno dei confini aziendali si intensifica e
cresce anche il fabbisogno di guida consapevole di tutte le relazioni.
Fayol enfatizza l’importanza della funzione di coordinamento e controllo: ruolo dei dirigenti nel tenere i
fili delle relazioni sia interfunzionali, sia interpersonali. Per armonizzare la relazionalità
infraorganizzativa occorre individuare una funzione di integrazione del lavoro diviso: quest’ultima è
funzione tipica del dirigente, che deve conoscere i meccanismi di integrazione e anticipare i problemi.
Il mantenerla in vita è operazione non priva di ostacoli da superare.
A diversa capacità manageriale di progettare l’organizzazione e realizzare il coordinamento nella
totalità sistemica corrisponde una diversa capacità competitiva.
La competitività è anche legata all’uso di nuove tecnologie di informazione e comunicazione, le quali
possono esaltare la professionalità di chi dirige.
Praticata una razionale differenziazione e individuata l’entità del fabbisogno di risorse da investire, il
soggetto economico aziendale procede all’assegnazione di compiti precisi a ciascuna parte e ai
partecipanti che vi operano. Ciascuna parte cui è assegnato un compito ha un responsabile in capo, al
quale viene delegato un preciso obiettivo da raggiungere, in un certo tempo.
Ogni parte è anche un centro di costi e/o di ricavi, un’area di responsabilità con obiettivi quantitativi e
qualitativi da realizzare, il tutto riferito ad un certo periodo di tempo.

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Controllo di gestione: presuppone la divisione del lavoro e si applica alle operazioni che si compiono in
aree, reparti o altre unità in cui si divide il processo amministrativo aziendale.
Ciascuna unità ha un proprio obiettivo, cui deve essere rapportato il risultato ottenuto, per verificare
l’efficacia della responsabilità assunta.
Dopo la definizione degli obiettivi e la designazione dei responsabili, occorre devolvere a tali operazioni
le necessarie risorse materiali e immateriali. A loro volta queste generano non solo beni e servizi
destinati alla vendita, ma anche nuove risorse destinate a migliorare e arricchire l’azione di impresa.
L’impresa, in particolare, produce conoscenza.
La razionalità della differenziazione interna all’impresa costituisce il primo elemento da passare al
setaccio, quando l’impresa avverte problemi ora di crisi, ora di sviluppo.
L’accertamento dello stato di salute aziendale dipende da come è stato diviso il lavoro all’interno
dell’impresa: se esso è stato troppo o poco differenziato; se sono state delegate chiare responsabilità o
meno a livello di area o progetto o processo; se sono stati individuati compiti ben definiti oppure se
taluni sono stati moltiplicati o sovrapposti; se la progettazione è avvenuta secondo un disegno o è stata
vittima di improvvisazioni; se le relazioni tra i partecipanti sono o non sono conflittuali.

Strutturazione
Quando l’impresa cresce, l’impresa spesso deve passare da una configurazione organizzativa
“unicentrica” e “unipersonale” ad una configurazione maggiormente differenziata, ma anche più
stabilmente ordinata. Ciò ha a che fare con la seconda condizione di sistemicità: l’edificazione della
struttura organizzativa. Deve essere soddisfatto in impresa un fabbisogno di differenziazione e
strutturazione delle funzioni, delle decisioni e delle responsabilità operative.

Strutturare l’impresa significa:


1. Dare ordine alle parti, alle loro funzioni, agli obiettivi da raggiungere, creando un assetto
organizzativo stabile e duraturo, masempre modificabile.
2. Definire metodo, regole e procedure di comportamento delle parti e dei partecipanti (attraverso
regolamenti interni e funzionigrammi), il che rappresenta il presupposto dell’interazione.
Il discorso sulle regole è fondamentale in impresa.
Nell’attuale fase storica prevale la discussione sulle regole soprattutto con riferimento al rapporto
impresa-settore-mercati.
Nonostante ciò, l’importanza delle regole concernenti i rapporti all’interno dell’impresa è non meno
elevata delle regole in fatto di concorrenza tra imprese.
La definizione dei lineamenti del progetto delle relazioni tra livelli di autorità e tra funzioni all’interno dei
confini aziendali e la sua formalizzazione sono compito di chi governa l’impresa.
Regolando il complessivo processo decisionale e procedurizzando le operazioni, gli organi del governo
aziendale autogenerano norme in modo largamente autonomo da tutto il resto.
Le norme autogenerate dagli organi aziendali si formalizzano in documenti quali i regolamenti interni,
gli organigrammi, i funzionigrammi, le circolari di servizio.
I regolamenti descrivono i rapporti tra organi di governo e organo direttivo, le responsabilità dei capi e
le procedure per l’esecuzione delle operazioni a livello di area, ufficio, stabilimento o altro sottosistema.
Gli organigrammi, incasellando i poteri decisionali di governance e management in precise posizioni di
comando, offrono con visibile chiarezza la griglia dei livelli di autorità presenti in impresa e il desiderato
tracciato del percorso delle decisioni aziendali. efiniscono l’assetto “formale” e “cartolare” dei livelli di
autorità aziendale, dei relativi poteri e delle reciproche relazioni. Evidenziano la mappa del potere.
I funzionigrammi sono documenti che descrivono dettagliatamente l’aspetto e il contenuto delle
funzioni, dei compiti di lavoro e delle interazioni.
Le circolari di servizio, tipico strumento dell’azione manageriale, sono finalizzate alla diffusione interna
dell’informazione e alla realizzazione di operazioni di routine.

3. Innestare tale assetto differenziato e ordinato in gerarchia, il che significa creare e mettere in moto la
catena del comando.
Dopo i primi anni di vita, se cresce, l’impresa tende ad assumere una struttura organizzativa
gerarchica, piena di relazioni sia top-down, sia bottom-up, nonché di informazioni e comunicazioni.
Nelle imprese in crescita è efficiente valorizzare il feedback dal livello operativo all’alto della struttura.

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A fornire la conoscenza sulla rispondenza o meno dell’andamento aziendale agli obiettivi prefissati, non
è solo il sistema informativo, ma anche e soprattutto il livello operativo e le diffuse interazioni tra capi
responsabili delle funzioni e loro collaboratori. Nella strutturazione dell’impresa sistema, ciò che conta è
il modo in cui il meccanismo gerarchico viene messo in moto, ovvero come esso viene fatto “girare”
sotto la conduzione manageriale.

4. Progettare il “modello”, ovvero la configurazione di struttura che più appropriatamente di altri può
seguire e sostenere la strategia.
L’opzione dipende non solo dalla discrezionalità del decision maker aziendale, ma anche dalle
caratteristiche del settore/ambiente in cui si colloca l’impresa.
Ad esempio, sono disponibili il modello funzionale, il modello divisionale, quello a matrice e altri di tipo
reticolare; la scelta di uno di essi è ispirata all’approccio al mercato e all’orientamento strategico di
lungo periodo del soggetto economico aziendale.
Si tratta di dare vita ad una struttura organizzativa che sia adeguata e funzionale alla strategia
prescelta. Secondo Chandler, structure follows strategy, cioè la struttura organizzativa dell’impresa (ivi
compreso l’organigramma) segue il percorso della strategia aziendale.

La struttura organizzativa è un vero e proprio capitale, da cui si aspettano rendimenti positivi nel tempo.
E’ uno strumento della lotta competitiva, un investimento destinato a durare, che sottende costi da
reintegrare, sempre sottoponibile ad affinamenti e cambiamenti quando insopprimibili pressioni interne
o esterne lo consigliano o lo impongono. La competitività dell’impresa dipende anche dalle capacità
organizzative maturate nel tempo, che sono tanto importanti quanto le capacità tecnologiche,
finanziarie e di marketing maturate nel tempo.

La struttura organizzativa è, in sintesi:


• strumento di governo e gestione
• vincolo all’interazione tra le parti e ai comportamenti dei partecipanti
A parità di modello o configurazione concretamente adottati, la struttura tende a “fissare” l’impresa.
Al contrario, il fattore umano e le interazioni nella “coalizione di forze personali” dell’impresa tendono a
movimentare la struttura.

5. Inserire il tutto in un contenitore formale e legale appropriato rispetto allo scopo aziendale.

Integrazione e leadership
Integrazione significa riconduzione ad unità di ciò che è stato differenziato, ordinato e regolato,
individuando il “minimo comune denominatore” delle relazioni tra funzioni e tra fattori.
Nello svolgimento aziendale possono emergere comportamenti opportunistici, conflitti, carenze di
comunicazione e informazione, cioè differenti tipologie di disfunzione, tutte da fronteggiare per evitare
l’uscita dell’impresa dal campo competitivo.
Il bisogno di integrazione nasce nel momento stesso della soddisfazione dei bisogni di differenziazione
e strutturazione.
L’integrazione si può creare spontaneamente. Si tratta di imprese che, dunque, potremmo definire ad
armonie diffuse, dove la funzione di integrazione è di tipo organico.
E’ una condizione di sistemicità assai favorevole al successo aziendale: essa è caratterizzata dalla
leggerezza degli apparati intermedi, dai bassi costi di coordinamento, dall’automatismo dei controlli.
In altri casi, l’integrazione deve essere procurata da qualche fonte: siamo nell’impresa con disarmonie e
disfunzioni; in tal caso, l’integrazione o è gestita dall’interno (dal soggetto economico o dalla visible
hand del manager), o è acquisita dall’esterno, nella circostanza in cui tutto il sistema sia imperfetto.
Il costo legato all’esercizio di funzioni di integrazione è un costo organizzativo manageriale, ovvero di
coordinamento e controllo.
Non è necessario ove l’impresa fosse semplice o l’integrazione fosse organica. Il soggetto economico è
in grado di quantificarlo, considerando il costo dell’interruzione dei processi produttivi dovuta a conflitti;
il costo degli incentivi per motivare il personale a partecipare; altri costi di tipo amministrativo inerenti
all’intervento di uomini e mezzi.
Nelle imprese di grandi dimensioni, il soggetto “integratore” è il middle e il lower level manager; il
direttore generale (top manager) svolge, invece, un compito di integrazione che ha come ampiezza
teorica l’intera impresa che vogliamo sistema. Il manager è un diplomatico delle relazioni aziendali.

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In sintesi, esercitare la funzione di integrazione in impresa significa:
a) dare coordinamento alle parti, ai partecipanti e ai rapporti tra parti e partecipanti sulla base di
regole e meccanismi discrezionali;
b) esercitare il controllo del grado di raggiungimento degli obiettivi prefissati;
c) mostrare leadership. Esistono tre diverse teorie, da cui scaturiscono tre diversi significati e stili
da imprimere alla funzione in discussione.
Weber ha detto che ormai vige l’autorità legale e il disegno razionale, ma oggi non sono più sufficienti,
serve la leadership.

La teoria X è associata alla concezione dell’impresa à la Taylor e à la Fayol. Nel razionalismo delle
origini non vi è differenza tra direzione e leadership: l’integrazione è garantita dalla puntuale attivazione
dei principi, delle regole, delle procedure standardizzate (stile di leadership autoritario).

La teoria Y enfatizza la cura delle relazioni umane e la cooperazione tra capo e subordinato, evocando
le caratteristiche dell’impresa à la Barnard e à la Homans (stile di leadership partecipativo).
Nasce l’idea della leadership come direzione “più” qualcos’altro. Non è necessariamente leader chi è
nella posizione più elevata della gerarchia, leader può essere o diventare anche un capo dipartimento o
altro capo di unità aziendale che, grazie alle proprie capacità intellettive, creative e alle suo ambizioni,
trova le soluzioni idonee a risolvere un conflitto o una crisi o, al contrario, le soluzioni appropriate a
cogliere delle opportunità di crescita.
Il capo che sa integrare sa ordinariamente attivare processi che creano consenso, danno motivazione a
produrre e partecipare, trascinano verso l’obiettivo.

La teoria Z corrisponde a quella idea di impresa che, partendo dalla teoria Y, ripensa il concetto di
efficace direzione aziendale, correlandolo alla capacità di stimolare e fare emergere progetti e prodotti
di innovazione tecnologica o organizzativa destinati al successo o al vantaggio competitivo.
Invoca, a tal fine, la creazione di gruppi di lavoro fortemente relazionali, o clan (stile di leadership
clanistico). Molto efficace in imprese di R&S.

Altro stile di leadership è quello cognitivo, che enfatizza l’obiettivo della crescita della conoscenza a
tutti i livelli della gerarchia. Si propone di sviluppare la generazione di conoscenza e di capire come
l’informazione venga elaborata, sino a trasferirsi nei comportamenti individuali o collettivi, sì da
pervenire a controllare le conseguenze della razionalità limitata. Di qui anche l’idea che il capo possa
elevare la propria reputazione non solo attraverso l’applicazione sapiente di principi di direzione, ma
anche e soprattutto coltivando efficacemente ed efficientemente lo spirito creativo dei collaboratori.

Si ha, infine, lo stile di leadership “a distanza”, nei casi in cui la trasformazione degli input in output
subisca un processo di decentralizzazione in unità organizzative separate territorialmente, distanti dalla
sede sociale, l’una all’altra collegate però ad un unico progetto.
Questo stile di leadership si preoccupa di gestire o organizzare la rete dei rapporti con fornitori, clienti e
altre imprese, col supporto dell’informatica e telematica, allo scopo di tener sotto controllo le dilatazione
o il restringimento dei confini dei rapporti interaziendali. Compito del distance manager è di essere un
efficace tessitore di relazioni, capace di valutare anche il momento utile per convocare “al centro”,
periodicamente, coloro che operano “in periferia”.
La leadership non coincide strettamente con la direzione aziendale, è una manifestazione della
capacità manageriale di convincere e trascinare; è un’attività specifica dei capi, che si rivolge
eminentemente al coinvolgimento delle risorse umane nel fine di impresa e a risolvere problemi.
Nel nuovo secolo, in differenti contesti, sopravvivono applicazioni di tutte e tre le idee di management e
leadership considerate. Gli stili di tipo partecipativo riscuotono il più elevato successo nei settori dove è
necessario lasciar fare per crescere l’innovazione.
Quando si parla di leadership, ci si può riferire non solo allo stile adottato nell’integrazione del sistema,
ma anche alle capacità manageriali che devono intervenire per risolvere una crisi (leadership anti-crisi)
o per cogliere un’opportunità di reddito e/o sviluppo (leadership per il successo o vantaggio
competitivo).

Finalizzazione
Qquarta condizione di sistemicità: l’orientamento dell’impresa al conseguimento di un preciso fine
istituzionale e l’orientamento di ogni singola operazione al conseguimento di obiettivi ispirati alla
realizzazione di tale fine (finalizzazione). L’impresa non può essere, né restare senza scopo. Lo scopo

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dell’impresa che vogliamo sistema si legge, con tutta evidenza, nell’atto costitutivo dell’impresa e
nell’allegato statuto aziendale; sempre esso si identifica nel produrre un preciso bene o servizio.
L’impresa precisamente e chiaramente finalizzata non può che essere funzionale all’ambiente in cui
entra e compete, servendo il suo pubblico; essa serve a chi partecipa al suo sistema, cioè tutte le
persone che in essa prestano lavoro e opere.

Si distingue la finalità generale (costitutiva e statutaria) dell’impresa dalle finalità particolari (lucrative o
non lucrative) dello specifico sistema).

La finalità generale, che emerge inequivocabilmente dall’atto costitutivo e dallo statuto aziendale, è
sempre la produzione di un bene o servizio per un “pubblico”.
Sul primato della produzione tra i fini di impresa è esplicito Parsone e il nostro Codice Civile: “E’
imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione
o dello scambio di beni o di servizi” (art.2082). È l’oggetto dell’atto costitutivo.

La finalità particolare, che vincola statutariamente la prima, può essere:


a) formazione di un reddito da distribuire a chi conferisce capitale di pieno rischio; tipico delle
imprese individuali con s.e. non pubblico, operantiin ambienti competitivi (imprese for profit);
b) formazione di un reddito da non distribuire (cioè da reinvestire) o produzione di un bene o
servizio in assenza di reddito, soddisfacendo una domanda “meritevole”, trascurata da altre
tipologie di offerta (caso delle aziende senza fine di lucro ovvero nonprofit);
c) creazione di un valore sociale (anche in assenza di reddito), cioè produzione di un bene o
servizio che non soddisfa una domanda di tipo egoistico o anche di gruppi sociali trascurati, ma
soddisfa una domanda di tipo macroeconomico, che corrisponde ad un interesse collettivo.

L’assenza di reddito di fine periodo può essere previsto statutariamente da enti economici pubblici o da
aziende statali o parastatali, cioè aziende-organo della pubblica amministrazione.
Enti pubblici e aziende pubbliche di produzione di beni o servizi vengono tipicamente per soddisfare
una domanda di tipo macroeconomico, necessaria per l’ordinato vivere civile. In assenza di un
produttore privato che offra i beni o servizi necessari a intere collettività di cittadini, lo Stato può
determinarsi a diventare imprenditore e produrre, senza esplicitamente vincolarsi al reddito.
Pur operando al soddisfacimento di una domanda di tipo macroeconomico, l’impresa pubblica può,
peraltro, effettivamente trovarsi in reddito e, in tal caso, distribuisce il dividendo al suo proprietario, cioè
allo Stato e ad eventuali soci privati di minoranza.
Questa tipologia aziendale costituisce una forma di offerta sostitutiva di quella privata che non segna
l’attualità del nostro tempo. Nel XX secolo numerose imprese pubbliche hanno operato anche in
concorrenza e non solo a sostituzione delle imprese private.
Anche un’impresa privata può scegliere di produrre un bene o servizio per soddisfare una domanda di
tipo macroeconomico, e farlo con successo.
Se l’output prodotto non può essere venduto a prezzi remunerativi di mercato o se il reddito si genera a
distanza insopportabilmente protratta nel tempo, l’impresa privata deve ricorrere a finanziatori che
sovvengano alla copertura del fabbisogno aziendale o ad agevolazioni, il cui costo è a carico di tutta la
collettività.

La finalità costitutiva è quella di produrre un bene o servizio. Il reddito deve essere collocato in una
gerarchia di fini, nella quale lo scopo della produzione del bene o servizio viene “prima”, in
considerazione dell’intrinseca funzione di “servizio” che assolve l’impresa nella società.
Non va dimenticato che, seppure entro contenuti periodi di tempo, ogni tipo di impresa può
sopravvivere senza reddito (esempio: dot.com). Tuttavia, il vincolo del reddito non può sciogliersi dalla
produzione di beni, nello svolgimento dell’impresa competitiva nel tempo, ma la formazione del reddito
non è una funzione linearmente continua nel tempo.
Produzione di beni e produzione di reddito si combinano in modo non univoco e non sempre virtuoso
nel ciclo di vita dell’impresa: la razionalità dei decisori aziendali è limitata; l’amministrazione aziendale
può essere basata anche su ferrei principi, ma l’ambiente competitivo la condiziona e limita le
condizioni in cui la produzione, pur orientata dal criterio dell’economicità di gestione, avviene in reddito.

Differente da quella sopra descritta è la tipologia di impresa che nasce per fare una speculazione.
Il soggetto economico nasce per servire se stesso; non è intenzionato a durare, ha come prospettiva il
breve o brevissimo periodo. Tale soggetto economico non vuole diventare, prima, “sistema” e, poi,
“sistema competitivo” per n anni. La sua razionalità è limitata non dall’incapacità, ma dal tempo.

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L’impresa non lucrativa, o impresa sociale, si orienta a produrre beni e servizi che soddisfano bisogni di
comunità “meritevoli”. Il soggetto economico assume come impegno programmatico di governare un
processo di trasformazione svincolato in linea di principio dalla formazione del reddito.
Si allude ad una tipologia di imprese (coop sociali) o ad enti privati (fondazioni), ove il soggetto
promotore, impiegando lavoratori dipendenti e/o volontari, si impegna ad essere utile per segmenti del
consumo trascurati dall’agire competitivo delle imprese che operano nei mercati aperti, trascurati anche
dalle imprese pubbliche, le quali generalmente operano per soddisfare la domanda di beni e servizi “di
base”. La sua finalizzazione particolare, che vincola quella generale, è non lucrativa. Se si forma il
reddito ne godono gli stakeholders.

In impresa non esiste solo la finalità istituzionale (generale e particolare) scritta nello statuto e nell’atto
costitutivo, ma anche una pluralità di “obiettivi” che si riferiscono a singole strategie, a singoli
programmi o budget, a una o più operazioni. Nella loro azione, quindi, le imprese autogenerano finalità
che specificano quella statutaria.
Inoltre, è possibile che si generi un disaccoppiamento tra fini personali e fine costitutivo-aziendale,
nonché tra fini personali e fini di singole operazioni.
L’impresa è infatti un sistema intenzionalmente ordinato e razionale, ma è in caso dotata di un
“organismo personale” che crea dinamismi continui ed è animata da una “coalizione personali”. Per
questo motivo, i fini possono assumere caratteristiche personalissime, proliferare all’interno del sistema
e configgere l’uno con l’altro.
Ad esempio, la finalità statutaria della produzione e del reddito interessa il sistema aziendale, ma non
tutti i partecipanti allo stesso modo. Inoltre, la distribuzione del reddito può non interessare i manager
allo stesso modo degli azionisti: i primi mirano a generare utili da reinvestire soprattutto nella crescita
dell’impresa, mentre i secondi non possono in linea di principio rinunciare al godimento dei dividendi.
Ancora, l’interesse del capitale di comando non coincide sempre con l’interesse del capitale controllato:
quest’ultimo è, infatti, coinvolto solo fino ad un certo punto nella prospettiva che l’impresa duri nel
tempo. Ci sono poi le finalità personali di tutti gli altri partecipanti all’impresa (quadri, impiegati, operai).
Inoltre, alcuni partecipanti all’impresa possono dar luogo a “cordate di potere”, anche trasversali, con
propri specifici fini. Es. più partecipanti si costituiscono in gruppi di pressione interni all’impresa, i quali
si propongono di promuovere la carriera dei loro membri e danneggiare le aspirazioni di altri.
Attraverso le varie configurazioni di auto-organizzazione delle persone, molti differenti fini possono
proliferare all’interno di quello che vogliamo sia un sistema. Come dice Simon, esistono fine e obiettivi,
ma esiste anche “a set of constraints”, vincoli di origine personale che condizionano il fine istituzionale.
Sistemicità vuole che debba essere resa compatibile e ricondotta ad un unico scopo (statutario) la
pluralità dei fini-interessi che possono generarsi ed entrare in conflitto.

Emerge il significato di finalizzazione chiara e condivisa: la chiarezza e la condivisione del fine


statutario favoriscono l’efficacia, cioè, in un certo periodo di tempo, l’esercizio del management in vista
dell’ottenimento dei risultati desiderati.
La chiarezza del fine dell’impresa vale, innanzitutto, all’esterno, poiché è tale e quale ad una
dichiarazione resa al pubblico circa le intenzioni del soggetto economico e dei top decision makers
aziendali; vale, in secondo luogo, all’interno dell’impresa, perché la chiarezza del fine istituzionale si
pone come presupposto della riconduzione ad unità di ogni altro obiettivo di parte o partecipante.
La condivisione si rivolge ai collaboratori dell’imprenditore, presupponendo la condizione di chiarezza.
Quanto più inequivoca è la dichiarazione del fine (generale) di chi ha creato e governa l’impresa, tanto
più facile è orientare tutti i partecipanti verso il fine medesimo e gli obiettivi delle molteplici operazioni
progettate per realizzare singoli processi o progetti. Per fidelizzare il collaboratore possono usarsi
diversi stili di leadership. Nelle imprese di grandi dimensioni sembra storicamente prevalere lo stile
partecipativo.

All’opposto della proliferazione dei fini, alcune aziende sembrano avvitarsi sul loro unico, dichiarato
scopo di produzione, per cui si verifica una vera e propria santificazione del fine statutario.
Accade tipicamente nelle aziende di produzione pubbliche e nelle amministrazioni di Stato. Si genera il
fenomeno del “virtuosismo burocratico”.

3. Omeostasi ovvero equilibrio del sistema: tre componenti

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Per durare nello spazio, l’imprenditore deve verificare lo stato dell’equilibrio (omeostasi) in cui versa il
sistema delle sue operazioni, cioè quale sia la sua complessiva situazione economica, finanziaria e
organizzativa. La situazione deve essere tale da consentirgli il normale svolgimento del processo di
trasformazione degli input in output e della sua complessiva amministrazione.
I sistemi che si autoregolano e si conservano da sé in omeostasi con la desiderata configurazione di
differenziazione, integrazione, strutturazione, orientamento verso uno scopo ben preciso, sono
assimilabili agli organismi viventi.
Rilevante in questo contesto è la teoria biologica dell’impresa. La nozione di equilibrio automatico e
spontaneo non può essere normalmente applicata alle imprese.
La differenziazione e la struttura organizzativa che caratterizzano il corpo dell’impresa devono essere
create e integrate secondo un disegno consapevole; devono procurarsi un senso e un orientamento
rispetto ad uno scopo. Tali caratteristiche e significati sono attribuiti all’impresa dal suo soggetto
fondatore o continuatore.
Tanto l’organismo vivente, quanto l’impresa sono indubbiamente configurabili come insieme di parti e
interazioni di elementi vari, che formano una totalità complessa.
Nell’impresa l’evolvere in sistema e il mantenersi in equilibrio necessitano di investimenti e
discrezionalità; sono una conquista, non uno “stato” naturale.
La similitudine tra mondo biologico e mondo imprenditoriale va ricondotta al fatto che si tratta di due
“complessi” destinati a durare nel tempo e, per questo, devono essere sistemici ed equilibrati sia nel
loro assetto, sia nelle loro relazioni di base
Le imprese vanno alla ricerca dell’equilibrio e se lo procurano con metodo, strumenti, meccanismi,
persone varie, cioè con l’uso dei fattori produttivi. Questi ultimi costituiscono di per sé non solo
un’opportunità, ma anche un limite.
Esso è cercato attraverso la visible hand del soggetto economico (se sono piccole e “semplici) e/o
attraverso quella dei top managers (se sono organizzazioni “complesse”).
Nel caso in cui l’omeostasi non venga trovata entro un periodo di tempo, esce dall’ambiente
competitivo o deve essere aiutata a restarci, ad esempio attraverso sovvenzioni.
Il criterio di amministrazione per arrivare all’equilibrio, in un certo periodo di tempo, è quello della
razionalità interpretata attraverso la “economicità di gestione”.
Amministrare in modo economico l’impresa, portandola ad uno stato di omeostasi, significa saper
coniugare efficienza ed efficacia in modo da raggiungere il reddito minimo di equilibrio.

Indicatori di performance in un certo periodo di tempo

Efficienza “interna” o tecnica, output / input


Efficienza “esterna” o economica, ricavi / costi.
Efficacia: risultati / obiettivi.

Onida differenzia i concetti di risultato economico e di reddito: il reddito è una manifestazione della
positività del risultato economico di esercizio dell’impresa, ma il risultato medesimo si manifesta anche
attraverso lo sviluppo dell’attività produttiva e le premesse poste nel presente a sviluppi futuri.
Emerge in Onida una concezione del risultato economico che coincide con quella di performance
aziendale “in senso ampio”, nell’esercizio.

Dunque:
• equilibrio è uno stato, la situazione di sintesi (economica, finanziaria e organizzativa) in cui
versa l’impresa in un determinato periodo di tempo; si tratta della situazione che assicura la
“normale attività” del complesso aziendale, ponendosi come condizione di sopravvivenza e
continuità dell’impresa intesa come sistema.
• Economicità è un criterio, redditività è il risultato dell’operare con tale criterio (ROE).
• Lo stato di equilibrio dà testimonianza del normale svolgimento delle attività nel complesso
aziendale.

L’impresa diventa sistema posto che si verifichino le seguenti condizioni:


a) sia un insieme di parti, partecipanti e relazioni differenziate l’una dall’altra in modo razionale;
b) questo insieme sia integrato consapevolmente da una visible hand;
c) venga strutturata secondo un progetto e mantenga il suo ordine;
d) sia chiaramente finalizzata e tale fine, che passa attraverso la gerarchia, sia condiviso o fatto
condividere grazie ad un appropriato stile di leadership.

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L’impresa non sopravvive alla lotta competitiva se non si mantiene in equilibrio, equilibrio che è
dinamico nel tempo. Se l’eventuale squilibrio si protrae nel tempo, si può parlare di “pseudo-impresa”,
cioè di organizzazione che prima o poi è destinata a lasciare lo specifico settore in cui è entrata.

L’equilibrio aziendale è unico, ma idealmente differenziabile in tre distinte componenti:


• l’equilibrio economico
• l’equilibrio finanziario
• l’equilibrio organizzativo
La componente di equilibrio organizzativo è funzione, nella concezione sistemica dell’impresa,
dell’esercizio di una efficace strutturazione e integrazione di parti e partecipanti. È funzione dei risultati
ai quali perviene l’adozione di un preciso stile di leadership nel processo amministrativo di impresa. Di
derivazione barnardiana e simoniaca, è stata non poco trascurata dall’economia aziendale italiana.
Richiama la lezione della scuola barnardiana in tema di rapporto fra incentivi e contributi. Dapprima
Barnard e in seguito Simon, March e altri del Carnegie Institute, fino a Williamson, hanno studiato
l’omeostasi come equilibrio generato, sotto l’azione umana, dall’incontro di due variabili sistemiche sui
generis.
Da un lato, chi partecipa all’impresa dà contributi (alla creazione di ricchezza) in termini di risorse e
competenze personali, cui attribuisce un valore economico; dall’altro lato, l’impresa offre incentivi al
predetto scopo. Chiunque entri in impresa è disposto a rimanervi fintantoché riceve un incentivo stimato
almeno pari al valore attribuito dal datore di lavoro al contributo effettivamente prestato. La
combinazione dei fattori produttivi deve avvenire in modo economico, tale cioè da produrre risultati
positivi che consentano di ripagare quei contributi. Fintantoché il valore percepito dei contributi si
mantiene almeno eguale al valore degli incentivi, il partecipante si integra nella societas aziendale.
Sul versante del datore di lavoro diventano critiche e devono aver successo le politiche atte non solo ad
incentivare la produzione di contributi, ma anche a motivare alla “partecipazione” e a far identificare i
collaboratori nel fine costitutivo dell’impresa.
Amministrare implica fatica e genera costi da reintegrare con ricavi; e trovare ricavi è ugualmente
faticoso e oneroso.

4. L’equilibrio economico

Si raggiunge adottando il criterio di amministrazione dell’economicità di gestione, cioè coniugando il


principio di efficienza, o produttività economica, al principio di efficacia.
Se si tratta di un’impresa appena nata, la misurazione dei risultati ottenuti non si fermerà al breve
periodo. La verifica dell’economicità e dell’attitudine a mantenere l’equilibrio andrà oltre i primissimi anni
di vita, mettendo invece a fuoco un periodo più esteso di tempo, in cui sia i costi, sia le difficoltà
possono verosimilmente essere recuperati.
Se si tratta, invece, di un’impresa già da tempo avviata al mercato, l’economicità di gestione e
l’equilibrio saranno accertati avuto riguardo all’esercizio tipico medio di un articolato ciclo di vita
aziendale.
RV - CS = RD
RV ricavi totali di competenza del
CS costi totali di competenza del periodo
RD risultato economico del periodo (qui inteso in termini di reddito o utile “netto” = risultato positivo;
perdita netta = risultato negativo).

RD minimo di equilibrio è il minimo indispensabile per soddisfare le attese dei titolari dei diritti di
proprietà, nonché l’eventuale opera prestata dal soggetto economico nell’esercizio aziendale.
Può coincidere con il reddito ottimale, ma non lo è mai programmaticamente.
Tale valore soddisfacente del reddito deve considerarsi sempre “migliorabile” nel tempo, in ordine ad
una sempre più razionale evoluzione aziendale e in funzione delle opportunità che offre l’ambiente
competitivo.
Dall’equazione dell’equilibrio economico si evince che il reddito economico è un residuo; è ciò che resta
di un processo amministrativo aziendale nel quale il totale dei ricavi reintegra tutti i costi dei fattori.
In caso di permanente squilibrio (RD<0), si può affermare che il soggetto economico aziendale si
dimostra inadeguato a generare incentivi sufficienti a soddisfare e rinnovare i contributi prestati.
La determinazione contabile di RD segnala un compromesso: verifica il grado di compenetrazione degli
interessi fra la volontà espressa dai titolari dei diritti di proprietà e l’influenza esercitata dai dirigenti.
E’ interesse dei proprietari massimizzare i propri benefici, in particolare il dividendo dell’esercizio.

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E’ interesse dei manager reinvestire nelle gestioni future quanto più possibile dell’utile lordo presente,
accantonando valori e/o ammortizzando immobili e impianti secondo un orientamento di massima
prudenza, fino a determinare un valore dell’utile netto al livello minimo indispensabile per soddisfare le
attese di dividendo dei datori di lavoro.

Piccola impresa:
RD = D + I + L  dividenti, incremento del c. netto (autofinanziamento), compenso imprenditoriale)

L’imprenditore viene pagato in virtù della carica che ricopre, rientra nei costi totali d’amministrazione.
• A livello teorico: viene pagato con ciò che residua (reddito minimo d’equilibrio)
• A livello pratico: grava sull’amministrazione generale
L non c’è nelle grandi imprese (teoria dell’agenzia)  RD = D + I
Tale remunerazione non è equiparabile a quella per salari e stipendi dei prestatori di lavoro, che la
società e il soggetto economico correntemente impiegano nell’esercizio aziendale, compresi in CS e
sono, pertanto, messi a carico della gestione ordinaria.
Il costo dell’opera del capitalista-interventista non può che essere messo a carico del reddito, cioè del
residuo RD deputato a remunerare i proprietari, questi ultimi considerati sia in riferimento ai mezzi
finanziari apportati a titolo di pieno rischio, sia in riferimento al lavoro eventualmente svolto in attività
operative.

Quindi a livello pratico:


Livello teorico: RV = CS + D + L + I
Livello pratico: RV = (CS +L) + (D + I)

• RD>0 perché ho gestito bene o per un fatto congiunturale? È atto a durare nel tempo? Ho
remunerato tutti gli stakeholders?
• RD=0 perché non ho un reddito minimo d’equilibrio? Se l’impresa è appena nata è pure buono.
Può essere per motivi fiscali o perché ho accelerato gli ammortamenti e/o forzato gli
accantonamenti. Può essere per motivi fiscali.
• RD<0 Crisi fisiologica: task environment o competitor veloci, comporta sacrifici per tutti i soci e in
casi più gravi anche per gli altri partecipanti
Crisi patologica: può essere generato da comportamenti irrazionali di proprietari o di
manager. L troppo alto

La compenetrazione degli interessi si realizza effettivamente solo ove la compagine proprietaria, sotto
l’influenza del soggetto economico aziendale, indirizzi le sue preferenze verso il conseguimento di una
redditività “soddisfacente” dei mezzi propri investiti e verso la continuità dell’impresa.
L’indice di redditività soddisfacente dell’impresa, relativo all’esercizio, si costruisce rapportando al
capitale netto (o, nell’ottica dell’investitore finanziario, al solo capitale sociale) il reddito “minimo” di
equilibrio.
La nozione di reddito soddisfacente è pienamente compatibile con i constraints che sono connaturati
allo human behaviour. Le imprese tendono a mantenersi in condizioni di equilibrio economico e di
reddito soddisfacente, cioè come suscettibile di migliorare nel tempo, e tale da non deludere le attese di
breve periodo di una differenziata compagine di “partecipanti”.
E’ probabile che il soggetto interventista si riservi il godimento del compenso legandolo al suo incarico
di socio amministratore o di amministratore unico, oppure legandolo all’assolvimento dell’incarico di
presidente e/o amministratore delegato.
L risulta essere, in effetti, una sommatoria di compensi L1, L2, L3, …, Ln , erogati in tempi successivi, in
corso di esercizio, tanti quanti sono i periodi in cui è previsto che la società remuneri l’attività della
persona a tutto quanto sopra incaricata.
Rientra nelle spese per emolumenti degli amministratori. appaiono in contabilità tra i costi generali di
amministrazione e non nel costo del personale alle dipendenze.
Nelle grandi imprese, tipicamente nelle SPA quotate, tutto il reddito economico che coincide col reddito
contabile va a remunerazione dei titolari dei diritti di proprietà, salve le specifiche destinazioni alla
riserva legale.

5. L’equilibrio finanziario
La nozione di equilibrio finanziario fa tutt’uno con una duplice condizione:
a) quella della solidità patrimoniale: equilibrio attività/passività

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b) quella della solvibilità: equilibrio di cassa o monetario
La situazione di equilibrio finanziario ha, quindi, due specifiche componenti: l’equilibrio patrimoniale e
l’equilibrio monetario.
L’equilibrio patrimoniale è espresso da c.d. “vincolo di bilancio”:
KI = CPR + CRD + FDI
dove
KI capitale complessivamente investito in azienda, a fine periodo di riferimento
CPR capitale netto, a fine del medesimo periodo (c.sociale, riserve, utili non distribuiti).
CRD capitale di credito attinto a varie fonti
FDI fondi di accantonamento e ammortamento, alcuni sono assimilabili a debiti, altri sono creati a
presidio dell’attivo o a fronte dell’esigenza di rinnovo di impianti e altri strumenti della
produzione. Tutti i fondi che non hanno natura debitoria, e hanno una permanenza stabile nel
tempo, sono suscettibili di “capitalizzare” e “rafforzare” patrimonialmente l’impresa.

La nozione di solidità patrimoniale si riferisce al modo in cui si compongono tra di loro, nel passivo, il
capitale proprio, il capitale di credito e i fondi, a fronte dell’investimento rilevato nell’attivo.
Può definirsi solida l’impresa che presenta un congruo e sostenibile rapporto tra capitale proprio e
capitale di credito, avuto riguardo al rischio dell’attività svolta.
Non esiste un indice universale che segnali la congruità e sostenibilità, si possono calcolare distinti
indici, facendo media dei rapporti CPR/CRD per significativi campioni di imprese che operano in distinti
settori di attività economica.
Un tentativo per definire un indice di rapporto congruo e sostenibile tra alcune tipologie di debito e
patrimonio netto aziendale fu fatto nel 2004 attraverso la normativa fiscale inerente alle società di
capitali. Il problema era quello di contenere la tendenza delle imprese a indebitarsi presso soci, che può
essere attraente ai fini dell’elusione fiscale. Dopo il 2008 venne abbandonato.
La solidità patrimoniale dipende non solo dalle scelte discrezionali inerenti alle modalità di copertura del
fabbisogno finanziario adottate dalle singole imprese, ma anche dalle caratteristiche dell’ambiente
generale e in particolare dell’ambiente legislativo, che può ora incoraggiare, ora scoraggiare l’accesso
al credito piuttosto che al capitale di pieno rischio.

Nel XX secolo l’impresa italiana è stata coinvolta in un trend evolutivo della legislazione economica che
l’ha spinta a preferire il capitale di credito agli aumenti del capitale.
Ad oggi, le imprese risultano “sottocapitalizzate”. Le autorità pubbliche:
a) hanno fiscalmente sfavorito il capitale proprio aziendale;
b) hanno agevolato l’accesso al credito attraverso la somministrazione di incentivi in c/ interessi;
c) hanno in altri casi finanziato le attività produttive attraverso sovvenzioni in conto capitale o
attraverso partecipazioni dello Stato al capitale di rischio di aziende private.

Attraverso la riforma del diritto societario del 2003, il legislatore ha operato un tentativo di ampliamento
delle opportunità di finanziamento delle società per azioni, prevedendo la possibilità di emissione di
azioni dette “speciali”.
I prestiti obbligazionari (SPA) sono debiti a scadenza protratta nel tempo. Avendo un piano di
ammortamento preciso, facilita l’assunzione di correlazioni del finanziamento appropriate alle decisioni
di investimento; si adatta a ristrutturazioni del complessivo passivo aziendale che mirano ad allungare
la scadenza del debito ed eventualmente ad alleggerirne l’onere.
L’impresa può, pertanto, essere “solida patrimonialmente” anche se ha un CRD notevolmente più
elevato rispetto al CPR, in quanto però il suo debito a scadenza medio-lunga abbia una parte
importante nel totale del passivo.

Nel medio-lungo periodo, se si realizzano i presupposti dell’equilibrio economico (RV = CS + RD), si


realizza anche l’equilibrio monetario; e il flusso delle uscite che misurano i costi eguaglierà il flusso
delle entrate che misurano i ricavi.
Nel breve periodo, può non esserci un perfetto equilibrio tra entrate e uscite monetarie. Se non è breve
e controllato, lo squilibrio di “cassa” può generare una situazione di illiquidità tale da suscitare “allarme
nei creditori”. Una crisi finanziaria di questo tipo evidenzia un’incapacità dell’impresa a rispondere alle
obbligazioni contratte con terzi e può portare alla dichiarazione legale di insolvenza.
L’impresa equilibrata economicamente non è, pertanto, necessariamente, in ogni istante o periodo,
equilibrata dal punto di vista monetario, nel rapporto tra entrate ed uscite della gestione corrente.

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Un andamento di gestione in cui l’impresa è durevolmente incapace di far fronte a pagamenti e impegni
per carenza di incassi genera prima una crisi e poi, eventualmente, finisce in dissesto.
La durevole solvibilità dell’impresa segnala la capacità dei decision makers aziendali di coordinare il
flusso delle entrate di periodo con il flusso delle uscite, che di fatto interessano lo stesso periodo.

L’equazione di cassa
esprime come il totale delle entrate (E) del periodo breve o brevissimo eguagli il totale delle uscite (U)
del medesimo periodo.
Considerato che ogni periodo di riferimento per la verifica dell’equilibrio monetario dell’impresa
comincia con un certo fondo di cassa (F1) e termina con un diverso fondo liquido (F2), la capacità
dell’impresa di essere solvibile, in tale intervallo, si verifica in presenza della seguente relazione:
F1 + E = U + F2
dove
F1 è il fondo di cassa iniziale.
E è il totale delle entrate monetarie di periodo.
U è il totale delle uscite monetarie di periodo.
F è il fondo di cassa finale.

La combinazione degli elementi (entrate e uscite) che danno luogo all’equilibrio di cassa, così come la
fissazione del periodo nel quale è opportuno esaminarne le caratteristiche, dipendono dalla natura della
produzione aziendale e dall’azione dei competitors nel settore prescelto di attività economica.
Oltre alle transazioni che generano, assieme a ricavi e costi, le correlate entrate e uscite monetarie,
l’impresa è interessata da movimenti nella gestione corrente che afferiscono sia ai crediti iniziali e a
quelli finali, sia ai debiti di inizio periodo e a quelli finali.
Deve aver riguardo ad “accertamenti” e “impegni” della gestione corrente che sono suscettibili di far
variare lo stato della liquidità aziendale di inizio e di fine periodo.
Con accertamenti ci si riferisce, partendo da un’immediata liquidità iniziale, a ogni variazione dei crediti
intervenuta nella gestione corrente (crediti di funzionamento); con impegni ci si riferisce a ogni
variazione dei debiti intervenuta nel periodo della medesima gestione corrente (debiti di
funzionamento).
Sicché l’equazione dell’equilibrio di cassa, riferita alla gestione corrente, diventa la seguente:
F1 + E + ΔCgc = U + ΔDgc + F2
dove
ΔCgc è la differenza tra “crediti di funzionamento” iniziali e finali intervenuta nella gestione corrente
ΔDgc è la differenza tra “debiti di funzionamento” iniziali e finali intervenuta nella gestione corrente

La prima manifestazione di squilibrio monetario riguarda la relazione:


F1 + E < U + F2

Ove emerga uno squilibrio di tale tipo, occorre valutare se esso abbia natura contingente o, al contrario,
se abbia natura strutturale, cioè un’attitudine a riprodursi nel tempo.
Se è temporaneo chiedo un prestito ad appositi istituti.
Una seconda soluzione è chiedere un prestito a soci, vorranno interessi e non dividendi.
Un terzo modo per creare flussi in entrata consiste nel domandare ad uno o più clienti il pagamento
anticipato di fatture, il che comporta concedere uno sconto sull’importo dovuto.
Se, però, lo squilibrio di cassa è destinato a durare per qualche tempo e reclama l’accesso a più fonti
per essere sanato, due modalità classiche per generare entrate sono il ricorso a un mutuo bancario,
oppure l’apertura di credito a scadenza protratta nel tempo. Entrambe le operazioni incidono sulla
struttura del passivo.
Incassi possono, infine, aver luogo attraverso operazioni di natura straordinaria, quali l’alienazione di un
magazzino o di altro bene strumentale alla gestione corrente.

La seconda manifestazione di squilibrio monetario riguarda la relazione:


F1 + E > U + F2
Segnala un’incapacità sui generis dell’imprenditore (o del decision maker che ha avuto delega ad
operare) nell’impiego delle eccedenze monetarie via via in formazione.
Queste reclamano di essere tempestivamente impiegate in attività reali o strumenti finanziari, in attesa
dell’incasso di un calcolato beneficio.

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La capacità competitiva dell’impresa dipende anche dalla tempestività dell’impiego di tutte le
disponibilità reali e finanziarie, comprese quelle rivenienti da temporanee eccedenze di cassa.
Ove si determinasse nel corso del periodo considerato un eccesso delle entrate sulle uscite, il manager
finanziario deve essere in grado di dare conveniente investimento alle disponibilità monetarie venutesi
a creare, allocando le maggiori entrate ad impieghi caratterizzati da diversi profili di rischio e
rendimento: ad esempio, estinguendo anticipatamente un debito; o acquisendo nuove attività
finanziarie; o accelerando l’acquisizione di fattori produttivi prospetticamente utili; non da ultimo,
investendo le predette risorse nella formazione di capitale umano qualificato.

6. L’equilibrio organizzativo

Rappresenta la componente fondativa dell’equilibrio aziendale complessivo e costituisce la piattaforma


ideale dalla quale le componenti economico-finanziarie possono decollare.
La rilevanza di tale componente non va, tuttavia, interpretata come equivalesse ad una sorta di primato
rispetto alle altre componenti di equilibrio.
Il rapporto fra le tre componenti è, invece, di funzionalità reciproca, indissolubile nell’omeostasi
sistemica.
L’armonia tra parti, partecipanti e relazioni infraorganizzative può generarsi e rinnovarsi
spontaneamente nell’impresa che vogliamo sistema, alla stregua di quanto avviene in un organismo
biologico, oppure deve essere procurata in qualche modo all’impresa medesima. E’ questo,
tipicamente, un compito manageriale.

Dimensione qualitativa
Armonia interpersonale e interfunzionale: Interazioni fluide
Rapporti sinergici
Curare le eventuali disfunzioni

Ogni azione discrezionale prevista comporta investimenti e, quindi, il sostenimento di costi.


C.d. costi di coordinamento: ineriscono a un investimento fatto di tempo, conoscenza, mezzi finanziari,
capacità organizzative, motivazionali e tecnologiche. Non sarebbe necessario se l’impresa fosse un
complesso perfettamente organico e, quindi, la sistemicità e l’armonia emergessero da sé.
Nonostante sia costoso, tale investimento è talmente necessario, da dover essere una routine, non
un’eccezione.
Particolarmente importante l’attenzione all’“ambiente psicologico” delle decisioni (Simon)
E’ fondamentale per l’equilibrio organizzativo l’identificazione del singolo partecipante nel fine per il
quale egli opera. Scrive Simon: “L’identificazione è quel processo in base al quale l’individuo sostituisce
obiettivi organizzativi ai suoi propri scopi come indici di valore intersi a determinare le sue decisioni”.
E’ professionalità tipica del manager che sa essere vero e proprio leader, creare un ambiente
psicologico motivante a partecipare e produrre, prevenire i conflitti o arginare i costi a tutto ciò inerenti.
Il manager deve limitare almeno i limiti della propria razionalità, se non può influenzare quelli degli altri.
Significa quindi esistenza di connessioni fluide e forti tra le parti, rapporti coesi e duraturi tra i
partecipanti, adeguatezza del rapporto tra compito di lavoro e personalità del lavoratore, interazioni
sinergiche tra parti e tra partecipanti, prevenzione dei pericoli di rapida caduta della razionalità nelle
decisioni, cura delle disfunzioni.
La presenza di una situazione di armonia interpersonale (coesione, lealtà, fiducia) favorisce il
conseguimento della desiderata produttività del lavoro, minimizza i costi di coordinamento.
I meccanismi motivanti e premianti sono finalizzati anche a favorire la creatività e l’innovazione.
Una complessiva situazione di cooperazione all’interno (armonia interpersonale e interfunzionale)
favorisce anche la proiezione all’esterno: è di sostegno alla competizione, rafforza la cooperazione con
altre imprese.

Dimensione quantitativa
CC1 + CC2 = BB

CC1 costi di coordinamento “ex ante”: necessari per la progettazione e realizzazione di investimenti
in strutture organizzative, politiche di integrazione e coesione tra partecipanti atte a creare un
clima adeguato alla cooperazione.

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CC2 costi di coordinamento “ex post”: sopportati per sanare disfunzioni, risolvere problemi di
informazione e comunicazione, intervenire su conflitti interpersonali, ristrutturare sottosistemi.
BB benefici economici procurati all’impresa.

Per la misurazione dei costi e benefici sopra definiti, occorre fare riferimento a specifiche voci (valori
economici) della contabilità generale.
Con riferimento ai benefici, possono distinguersi:
• i maggiori ricavi direttamente imputabili alla penetrazione dei mercati di sbocco favorita da
incentivi e premi all’identificazione nel compito;
• i risparmi di costo dovuti al minor numero di ore di lavoro perdute per conflitti interpersonali o
sindacali, grazie ai guadagni di “atmosfera” procurati da policies ad hoc;
• il miglioramento della produttività del lavoro a livello sistemico-aziendale e/o di singole funzioni.
L’equilibrio organizzativo è lo “stato di sistema” da cui partire per cercare, innanzitutto, un risultato
economico positivo d’esercizio. La redditività aziendale influenza, a sua volta, l’equilibrio finanziario,
contribuendo ad accrescere il capitale netto e a rafforzare patrimonialmente l’impresa.

La continuità dell’impresa è assicurata dal rapporto virtuoso tra equilibrio organizzativo di avvio,
equilibrio economico ed equilibrio finanziario (intervenuti nel periodo) e nuovo stato di equilibrio
organizzativo. La solidità, la solvibilità e la redditività generano un clima di sicurezza.
Non esiste uno stile di leadership ottimale. Le imprese dispongono di un portafoglio di stili di leadership
entro il quale è possibile scegliere quello più opportuno rispetto allo stato di equilibrio desiderato, o al
disequilibrio cui devono porre rimedio.
Agli estremi di tale ventaglio si pongono due tipologie di stili di leadership.
Se le condizioni dell’ambiente interno ed esterno sono di prevalente certezza, i top decision makers
aziendali adottano uno stile di leadership classico, weberiano-tayloristico, cioè “autoritario” in senso
tecnico, con comunicazioni in prevalenza di tipo top-down e relazioni gerarchiche che attraversano
numerosi livelli di decisione (gerarchia “alta”).
Se le condizioni di contesto sono di prevalente incertezza, lo stile di leadership è quello “partecipativo”,
che chiama alla mobilitazione delle forze, alimenta il coinvolgimento di una pluralità di attori nelle
decisioni afferenti al “processo di trasformazione”, facilita l’identificazione nel fine da perseguire.
Spesso i due stili si “ibridano”, anche nel corso di uno stesso periodo di tempo.
Nell’esercizio delle operazioni di coordinamento e controllo, i tempi con i quali il leader esercita le sue
funzioni sono spesso molto stretti. Se “fallisce” il leader, è possibile si generino troppo elevati costi
perché l’impresa possa sopravvivere. La lotta per la sopravvivenza invoca continuamente interventi
sulla progettazione del sistema, sulle disfunzioni organizzative emergenti e sulle inadeguatezze
personali rispetto all’importanza delle decisioni da prendere o già prese.
Siamo in presenza di tre componenti dell’equilibrio aziendale: ognuna influenza le altre, secondo una
relazione di tipo circolare, ma si parte da ORGANIZZATIVO

7. Sistemicità dell’impresa: conclusioni

L’impresa è sistema se si verificano condizioni di:


• differenziazione razionale
• ordine e metodo nella strutturazione
• integrazione con appropriato stile di leadership
• finalizzazione chiara e condivisa
L’omeostasi (o equilibrio aziendale) si formalizza nelle seguenti equazioni:
RV = CS + RD KI = CPR + CRD + FDI
F1 + E + ΔCgc = U + ΔDgc + F2 BB = CC1 + CC2

Le parti, i partecipanti e le relazioni tra tutti questi elementi si intrecciano in modo almeno
intenzionalmente razionale, formando una complessità organizzata, nella quale sono latenti
imperfezioni che limitano (talvolta minacciano) l’integrità aziendale e il suo equilibrio, quando raggiunto.
Le imprese non sono sistemi perfetti, richiedono programmazione, controllo e manutenzione del loro
assetto e del loro equilibrio. L’imperfezione nasce dal fatto che, all’interno dei sistemi di impresa, vi è
anche la dimensione “personale” dei partecipanti, che vivificano le parti, creano relazioni, spesso
scompaginano la formalità di strutture e processi, commettono anche errori.

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8. Complessità, semplicità e responsabilità sociale nell’amministrazione aziendale

Individui e organizzazioni si rapportano in sistemi sociali complessi.


La complessità inerisce al numero (quantità) delle variabili in gioco nel sistema sociale e all’interno di
ciascuna organizzazione. Essa si riferisce al fatto che individui e organizzazioni sono in continua
interazione, aperta a esiti imprevedibili, con caratteristiche (qualità) non omologabili.
Viviamo anche nell’era della razionalità limitata (Simon).
Ci si aspetterebbe che più d’un soggetto in gioco avverta la necessità di ridurre in parte la complessità.
Nope. Di fronte alle situazioni più complesse e ai problemi emergenti prevalgono non i comportamenti
razionali, ma l’astuzia, l’improvvisazione e l’opportunismo, che distruggono ricchezza aziendale mentre
fanno solo quella personale. Nell’amministrazione delle imprese aumentano e si affinano gli strumenti e
le tecniche per la gestione e l’organizzazione aziendale. Sembra, però, affievolirsi il senso comune del
fare impresa. In un momento particolarmente complesso del suo ciclo di vita, quando appare una
“crisi”, nel senso di una sospensione della sua capacità di produrre e far reddito, spesso accade che
l’impresa non faccia ricorso alle idee semplici e ai principi maggiormente consolidati di amministrazione
aziendale.
Anzi, spesso accade che essa ricorra alle tecniche che promettono tutto, all’imbroglio, alla irrazionalità
amministrativa.
In una fase particolarmente positiva del proprio ciclo vitale, l’impresa cresce e coglie delle opportunità.
Accade che, spesso, cada nell’errore di proiettare verso l’infinito tale successo, bypassando il fine
istituzionale-statutario, dimenticando regole e metodo, cercando di far di tutto per massimizzare il
fatturato e il guadagno; non poche volte, però, con esisto infausto.

In conclusione, data una situazione di complessità economica e sociale (ora di crisi, ora di sviluppo),
accade che si renda ulteriormente ingarbugliata la faccenda.
Si parla correntemente di responsabilità sociale dell’impresa.
Poiché a fine esercizio si deve rendere conto alla società, oltre che a se stessi, di tutto quello che si sta
facendo, è ragionevole pensare alla responsabilità sociale dell’impresa come al fare buone opere prima
di ogni altra cosa; al produrre, in condizioni di equilibrio economico, finanziario, organizzativo, beni e
servizi indirizzati a soddisfare bisogni, secondo il meccanismo di mercato, ma senza abuso o forzature
della concorrenza.

4. Lo stato di “equità seriale”. Transazioni, persone e solidarismo organico in


impresa

1. Mercati e imprese
Secondo la teoria classica gli individui si orientano nel mercato guidati dai prezzi.
Funzioni dei prezzi:
• fornire informazioni sui vantaggi e gli svantaggi dell’acquisto di fattori o vendita di prodotti
• far corrispondere l’offerta alla domanda di fattori o prodotti: non ci sono sprechi (mercato libero,
trasparente ed efficiente)
• limitar ei bisogni, quando i fattori o i prodotti sono scarsi.
Il coordinamento tra domanda e offerta assolto dai prezzi è il più efficiente? Secondo l’approccio
transazionale bisogna osservare il modus operandi del sistema capitalistico contemporaneo: ci sono
fattori oggettivi (incertezza, imperfezioni oligo-monopolistiche…) e fattori soggettivi (opportunismo,
idiosincrasie e razionalità limitata degli operatori) mettono in difficoltà la tesi dell’ottimalità del
funzionamento dei mercati.
In più di sono una pluralità di modalità alternative al mercato per il coordinamento tra centri che
emettono decisioni e centri che ricevono segnali: nelle imprese si internalizzano e si integrano funzioni
e relazioni di scambio (posso autoprodurre o autovendere).
Le imprese sono considerate sottosistemi del mercato, all’interno delle quali si organizza e si coordina
in modo guidato un insieme di transazioni tra gruppi, sottraendole al mercato.
Amministrazione aziendale: lo scambio abbisogna di governo consapevole. All’interno dell’impresa il
meccanismo di scambio è non competitivo, sempre amministrato. La gerarchia, come metodo di
strutturazione del processo decisionale, pervade l’impresa. Da qui la riconduzione dell’impresa
(firm/organization) alla sua più diffusa forma strutturale (structure/hierarchy)
Penrose: un’impresa non è solo un’unità organizzativa, ma anche un insieme di risorse produttive, la
cui distribuzione tra impieghi diversi è determinata in base a decisioni amministrative.

La gerarchia serve perché i costi transazionali spingerebbero alle stelle i costi dei prodotti.

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Esistono comunque imprese non profit per il bene comune.
Coase e Williamson: approfondiscono il concetto di transazione il mercato è un sistema aperto, dove
i soggetti si relazionano. I comportamenti di chi decide in economia denunciano limiti di razionalità (vedi
simon) che impediscono di ottimizzare le funzioni nella combinazione produttiva e creano imperfezioni.
Quindi servono le imprese, cioè strutture di governo delle transazioni, che si sostituiscono alle funzioni
di coordinamento del mercato.

Le transazioni di mercato possono essere formali o informali. All’intenro dell’impresa abbiamo


transazioni tra “partecipanti”. IL numero può essere elevato ma è sempre finito.
Ovunque si origino le transazioni hanno un costo: costi di negoziazione, attuazione e controllo.
• Costo della ricerca della controparte nello scambio
• Costo amministrativo: preparazione del contratto
• Costo del controllo: delle modalità con cui si svolge la relazione.
• Costo del rafforzamento: delle relazioni contrattuali attraverso premi, incentivi o sanzioni
Quanto più le transazioni tra soggetti agenti nel sistema economico hanno come prospettiva il lungo
termine, quanto più i rapporti tra le parti sono intensi, specifici e soggetti a incertezza, tanto più emerge
la convenienza dell’uso dell’impresa. Le imprese sono strumento di razionalizzazione del processo di
produzione e di scambio a tutta scala del sistema economico-sociale.
Vantaggi dell’impresa:
• La concentrazione delle risorse entro i confini consente ai partecipanti di programmarsi
• La gerarchia e il principio di autorità danno certezza ai rapporti tra le parti
• La costruzione di una razionale struttura organizzativa aziendale è funzionale al controllo
dell’efficacia ed efficienza delle transazioni
• La disponibilità di informazioni sulle risorse necessarie alla produzione costituisce un fattore di
successo nella lotta competitiva.

2. Cooperazione in impresa ed equilibrio “organizzativo”

In impresa ogni partecipante dà un contributo lavorativo e riceve incentivi monetari e non, definiti su
base contrattuale. Per Barnard e Simon la qualità del contributo dipende anche dal grado di
soddisfazione nell’esecuzione del lavoro, cioè la motivazione.
La gestione equilibrata delle relazioni cooperative è un fondamentale principio di amministrazione.
L’equilibrio organizzativo è oggetto di conquista. L’impresa è anche un’organizzazione animata dal forte
impegno verso le persone e la società.
Per Barnard ogni individuo conferisce la propria professionalità all’organizzazione nella quale entra e
sceglie di cooperare, la cooperazione si mantiene con gli incentivi. L’equilibrio organizzativo è sempre
equo? I contributi si valutano all’inizio e in base poi all’efficacia ed efficienza del lavoro prestato. Ciò
comporta costi di amministrazione per mantenere fini aziendali e personali sulla stessa linea.
Per Aoki e Ouichi occorre promuovere lo sviluppo di condizioni di solidarietà organica tra i membri
dell’unico e unitario sistema aziendale. È funzione della devozione al fine istituzionale. Ls’attenzione dei
top decision makers deve focalizzarsi sui meccanismi di integrazione che garanticono la coesione.

3. Solidarietà organica

In caso di professionalità altamente specifiche, con mansioni non standardizzate, la gerarchia può
fallire. I controlli si devono effettuare sul lungo periodo. Si possono fare dei gruppi relazionali, in genere
auto-generati. Ouchi dice che il clan è la forma di gruppo relazionale che si nutre dei più elevati principi
di solidarietà organica (lealtà, fiducia, coesione e moralità dei comportamenti).
Smirth Ring: l’analisi transazionale provvede una solida base contrattuale per distinguere i meccanismi
regolatori di mercato da quelli gerarchici, ma non dà convincenti spiegazioni dell’equilibrio creatosi. Ci
sono anche sistemi di personalità, culture e convinzioni. Ove applicato, il modello organizzativo a clan
non comporta la dissoluzione dei principles of management, in particolare quello dell’autorità legittima:
il clan ha bisogno di ordine e coordinamento. Nei clan avviene in modo implicito: comune dedizione
verso il fine condiviso. Si premia la creatività, nei sistemi classici la conformità. Si applica a tutte le
imprese che abbiano una progettualità innovativa.

4. L’equilibrio dell’impresa in stato di “equità seriale”

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Il concetto di clan affonda le radici in quello di comune: la principale fonte di controllo è la convergenza
di credenze e valori, che produce congruenza di interessi. Non c’è opportunismo nei clan. Ci sono costi
di transazione relativamente bassi. È però difficile valutare i contributi da dare.
Nelle organizzazioni clanistiche, l’equilibrio organizzativo è per il medio-lungo periodo e passa
attraverso lo “stato di equità seriale”, in opposizione all’equità istantanea dei mercati e burocrazie.

5. Alternativi modelli di progettazione, svolgimento e controllo delle transazioni


• Mercati: spontaneismo, varietà, regolata da prezzi e contratti a breve
• Gerarchie prevedibilità, standardizzazione, regolati da regole e contratti (a scad. Determinata)
• Gruppi relazionali equità e reciprocità. Contratti lunghi( sostengono la creatività) Autocontrollo
• Clan comunione e sacrificio, equità seriale. Longevità dei rapporti, solidarietà organica
Tutte presenti nell’era contemporanea.
Pericoli:
• Determinismo storico: non si tratta di un’evoluzione, ma di differenti assetti.
• Reificazione dell’organizzazione: le persone non sono variabili, ma caratteristiche
indispensabili.
Ouchi: un’organizzazione è una stabile configurazione strutturale di transazioni sociali. La cooperazione
e la solidarietà facilitano l’equilibrio, che è equo solo se seriale, cioè di lungo periodo.

5. Competitività. Dal sistema d’impresa ai fattori di competitività, al sistema


competitivo nel tempo

1. Settore di attività economica, mercato, ambiente dell’impresa

Si compete per questioni di profittabilità: competere vuol dire misurarsi con le proprie armi.
1. Dove e quando si compete? Nei mercati o nell’environment. Nel tempo, è dinamica.
2. Come si compete? Sulla base di risorse e competenze definisco la mia strategia.

Profittabilità: ambiente attrattivo e munificente


vantaggio competitivo

In ogni settore troviamo le cinque forze di Porter.


Il settore è lo spazio economico o “campo” in cui si realizza il confronto tra le aziende produttrici di beni
simili (settore in senso stretto) e tra queste ultime e quelle produttrici di beni sostituibili nelle preferenze
del consumatore (settore in senso ampio).
Il settore ha propri “mercati”: nel task environment non solo si produce, ma si fanno anche scambi
commerciali, operazioni di compravendita; offerta e domanda si incontrano.
All’interno dello stesso settore ci si può rivolgere a mercati diversi (FCA con city car e auto di lusso).
Criteri per la definizione dei “confini” del settore.
• Elasticità incrociata: analisi quantitativa..
ε = ΔQa / Qa
ΔPb / Pb

• Similarità o dissimilarità: analisi qualitativa


- tipo di bisogno soddisfatto
- tecnologia utilizzata
- materiali e semilavorati utilizzati
- commercializzazione dei prodotti

La quota di mercato non è uguale a quella di settore:

MKT %= Vendite az.A Settore: tutto mio Quanto siamo forti nel singolo mercato≠
Vendite totali tutto tutto quanto siamo forti nel settore

Bisogna capire l’evoluzione delle quote di mercato: quanto più cresce il segmento tanto più cresce
la munificenza.

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Ogni impresa è coinvolta nelle dinamiche dell’ambiente generale (Thompson: everything else).
Se alcune forze non di mercato sono di elevato interesse specifico per l’impresa, allora sono
stakeholders del settore. Le grandi imprese svolgono ricerche orientate al “sociale”, per capire quali
siano i mutamenti possibili delle preferenze dei consumatori, intesi come cittadini.
Il rapporto reciproco tra shareholders e stakeholders legittima ampiamente la nozione di impresa quale
“societas aziendale”, ovvero di organizzazione che, pur non essendo un organismo biologico, è
profondamente interconnessa col sistema della società.
Le imprese sono interessate ad un portafoglio molto ampio di tendenze e pressioni ambientali: sia alle
opportunità e minacce presenti nel settore per cui operano, sia alle opportunità e minacce che si
profilano nell’ambiente generale (PEST e SWOT).
La valutazione di “opportunità” o “minaccia”, rispetto ad un dato evento ambientale dipende anche dai
meccanismi cognitivi degli imprenditori o manager che trattano l’informazione.
Ciò che l’ambiente specifico e l’ambiente generale segnalano è sempre rilevante per i decision makers
aziendali. Lo studio di tali segnali, nonché la comparazione delle valutazioni soggettive dei fenomeni
emergenti appartengono pienamente al campo del management scientifico.
I risultati di tali analisi non possono che influenzare il modo in cui l’impresa va alla ricerca del proprio
“equilibrio” con gli altri competitors.

2. Tipologie di impresa nel rapporto con l’ambiente competitivo

Le imprese vivono di relazioni, in particolare di relazioni di scambio.


Un qualsiasi sistema si definisce aperto o chiuso a seconda che abbia o non abbia relazioni di scambio
con altre entità organizzative dell’ambiente specifico e dell’ambiente generale.
Tutti i sistemi sono imperfettamente aperti o imperfettamente chiusi e presentano, inoltre, un grado di
apertura che varia nel tempo e nello spazio economico-sociale.
Ogni sistema ha il suo ambiente “relativo”, nell’ambito del settore di attività economica prescelto.
Tre tipologie sistemiche fondamentali, secondo il grado di apertura all’ambiente “relativo”:
a) il sistema chiuso;
b) il sistema aperto;
c) il sistema parzialmente aperto.

Sistema chiuso: FORDISMO  burocratizzazione


imprese gerarchiche ben definite sia all’interno che all’esterno. Le caratteristiche enfatizzano la
burocratizzazione. Il processo decisionale è del tipo top-down. Un esempio è la De Beers.
L’organizzazione “rappresentativa” del nuovo tempo è la grande azienda industriale di base.
E’ un’azienda che presenta tipicamente i caratteri del sistema chiuso, sicuro delle proprie capacità
imprenditoriali, dominatore dell’ambiente. Al suo interno, la grande azienda di inizio secolo è centrata
sulla funzione di produzione. Solo a livello embrionale si evidenziano funzioni e unità organizzative ben
delineate, diverse dalla produzione, quali vendite, acquisti, ricerca e finanza.
Della nuova tipologia aziendale sono protagonisti, da una parte gli operai e dall’altra i capitalisti.

Sistema aperto: POST-FORDISMO.  flessibilità estrema


Opera nell’incertezza ambientale; essa è sottoposta e si sottopone al rischio misurandosi con una
pluralità di forze competitive. Non si affida solo alle regole e alla memoria del passato per cambiare
strategie e strutture a ridosso di minacce o opportunità in evoluzione. Flessibile, bottom-up. Cambiano
i modelli di leadership.
Esempi: startup, imprese già nate operanti in settori di libera concorrenza, e imprese che si collocano in
settori oligopostici ipercompetitivi. Es. Carrefour.
Nella seconda metà del XX secolo le mprese manifatturiere si aprono alla domanda di massa e alle
esigenze della ricostruzione delle economie e del sistema della società.
Ci sono innovazioni tecnologiche ed organizzative nei processi di trasformazione degli input in output.
Il marketing aziendale e la distribuzione commerciale sono sempre più attivi nell’indurre i consumi di
beni durevoli, oltre che nel proporre soluzioni che soddisfano bisogni immediati.
Lo stabilimento industriale e i “colletti blu” rimangono centrali, ma la loro funzione trova completamento
nell’efficacia del lavoro d’ufficio e nei “colletti bianchi”, che operano in altre funzioni di management.

Sistema parzialmente aperto: NEO-FORDISMO.  dialetticità


si colloca in ambienti competitivi, limitando consapevolmente il proprio grado di apertura, e si segnala
non solo per l’attitudine ad adeguare strategie e strutture interne alle pressioni competitive, ma anche
per la capacità di difendersi e reagire all’evoluzione del settore, intrattenendo con l’ambiente un
rapporto dialettico, interattivo e multiforme.

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E’ un’impresa che usa la propria discrezionalità, non solo segue l’ambiente per adeguarsi
passivamente alle condizioni che trova, anzi è in grado di trasformarlo o controllarlo.
È basato su rapporti di co-produzione, co-progettazione, co-marketing sempre più forti, tesi a superare
le rigidità tecnologiche e produttive, esaltando le connessioni interfunzionali e inter-impresa.
Le imprese cercano una crescente flessibilità, sia al loro interno, sia in collaborazione con imprese
minori. Il grado di apertura varia anche secondo i diversi contesti spazio-temporali. Soprattutto nel XX
secolo, questo è stato il caso di numerose imprese multinazionali, “aperte” in patria, ma “chiuse” nel
rapporto intrattenuto con il sistema sociale che all’estero ne ha accolto gli investimenti.
Flessibilità strutturale: l’organizzazione di tipo weberiano, caratterizzata da più livelli gerarchici, tende
ad appiattirsi e snellirsi in relazioni reciprocamente funzionali.
Flessibilità strategica: incontrando preferenze e domande sempre mutevoli o operando in settori a
rapida evoluzione tecnologica o in ambienti sociali differenziati, le imprese sono o devono essere
capaci di riorientare con frequenza il loro piano d’azione e il loro comportamento competitivo.

Il concetto di flessibilità può essere visto con prevalente riferimento all’“organizzazione del lavoro”, nel
senso che il capitale umano viene trattato come risorsa da valorizzare.
L’organizzazione del lavoro è scientifica non solo in quanto riesca a dividere razionalmente i compiti e
selezionare l’uomo giusto al posto giusto; ma anche in quanto sappia far ruotare e commutare le
mansioni, arricchire di contenuti le funzioni di lavoro, sviluppare la collaborazione.
Si diffonde in quanto si afferma la convinzione che l’equilibrio dall’equilibrio organizzativo.
Quando si parla di “flessibilità della direzione aziendale”, si intende che il comportamento manageriale
sembra non più obbedire ad un modello unico, ad uno stile universale.
Lo stile di direzione si flessibilizza per incontrare diverse culture e distinti sistemi di personalità.

Gli ultimi anni sono contraddistinti dal successo applicativo della information technology.
New economy: dal sopravvento dell’elettronica sulla meccanica, nonché dal sempre più profondo
interagire dell’intelligenza artificiale con l’intelligenza degli uomini che producono.
Nel XXI secolo si segnala un tipo di uomo sempre programmato, in tutto o in parte, dalle esigenze della
new economy, che opera in contesti aziendali ad elevata automazione e spersonalizzazione, il cui
lavoro richiede tempi e metodi basati sulla perfetta congruenza dei propri comportamenti rispetto a
quelli delle nuove tecnologie. Abbiamo un fordismo di ritorno.
Le imprese non presentano caratteristiche gestionali e organizzative omogenee.
Convivono imprese uni-centriche e uni-personali; sistemi “razionali” secondo tradizione; sistemi
razionalizzati attraverso la “cooperazione” con altri sistemi; gruppi di imprese che tendono al
ricentraggio delle decisioni.
Oggi, impresa programmata e controllata per resistere all’ipercompetizione distruttiva; assai attenta ad
anticipare i condizionamenti ambientali attraverso la comunicazione al pubblico e la costruzione della
propria immagine.

3. Creazione di impresa, selezione naturale e selezione competitiva

Liability of newness: (stinchcombe, 1965)


1. le nuove organizzazioni apprendono nuovi ruoli e nuove abilità
2. comporta alti costi di: tempo, conflitti, temporanea inefficienza
3. ricorrono alla collaborazione di persone esterne: relazioni precarie (una delle risorse delle
organizzazioni è un set stabile di legami fiduciari).
Gli anni della selezione naturale sono caratterizzati da elevato tasso di mortalità infantile delle imprese.

Liability of adolescence (fichtman e levinthal, 1991)


L’hazard rate è coperto in honeymoon, poi cresce e decresce al 4o anno.

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Nei primi anni di vita si distinguono le imprese selected in e le imprese selected out per debolezza
propria o sotto i colpi delle turbolenze ambientali.
Le imprese sopravvissute vanno alla ricerca della loro sistemicità, avendo di fronte una duplice
prospettiva strategica: crescere oppure non crescere. Aumento quota di mercato o massimizzio
redditività aziendale? Se l’impresa riesce a superare i primi anni di vita, si può dire che essa abbia
conseguito un successo competitivo, determinato dall’esserci, dal non aver abbandonato il campo, dal
sopravvivere alla concorrenza.
Nei primi anni di vita, è semplicemente un successo evitare l’esclusione, affermare la propria identità
produttiva, crearsi una “nicchia ecologica” sicura, misurata dalla quota di mercato delle vendite per cui
è possibile reintegrare tutti i costi attraverso i ricavi, assicurandosi almeno il reddito minimo di equilibrio.
All’inizio solo price competitiveness.

Oltre gli anni della selezione naturale, si apre un periodo assai lungo, nel quale l’impresa sopravvissuta
deve trovare l’equilibrio sistemico a valere nel tempo e migliorare la propria redditività,
Tale periodo è denominato selezione competitiva.
In altre parole, nella selezione competitiva, l’offerente del bene o servizio si confronta con i concorrenti
diretti, indiretti e le altre forze non solo avendo riguardo ai prezzi, ma anche mettendo in campo fattori
quali la qualità, i servizi aggiuntivi al prodotto, le condizioni di pagamento, il design, gli avanzamenti
della tecnologia; cioè fattori che gli consentono di differenziare il prodotto sulla base delle esigenze
della clientela, spiazzare se possibile la concorrenza.
E’, a questo punto, l’impresa stessa a provocare esclusioni.
Nella selezione competitiva, assume rilevanza la non price competiveness.

a) Nascita – richiesti investimenti e finanziamenti specifici, un calcolo economico consapevole,


un’analisi dell’ambiente competitivo di riferimento, cioè operazioni che ora precedono, ora
accompagnano l’entrata nel settore: tutto ciò è una novità, anche per i competitori.
b) Selezione naturale – segna i primi anni post entry, elevata mortalità delle imprese neonate.
c) Selezione competitiva – è un periodo idealmente lungo, costellato di differenziati aspetti
“drammatici”, in cui l’impresa si costruisce e si perfeziona come sistema; agisce per essere
competitiva grazie alle raggiunte condizioni di sistemicità e all’esperienza, combinando prezzo e
fattori diversi dal prezzo nell’evolvere della propria azione.
d) Declino ed estinzione –generalmente preceduta dal succedersi di eventi che portano a crisi
patologiche. Ora può trattarsi di eventi che preannunciano l’estinzione; ora, al contrario, gli stessi
eventi possono dare maggiore consapevolezza e un nuovo impulso all’azione imprenditoriale.

4. Transizioni del controllo proprietario e cambiamenti organizzativi

Quando l’impresa nasce, assume centralità la figura del fondatore, persona che attribuisce a
quest’ultima una cultura. La cultura aziendale è rappresentata da un insieme di valori soggettivi e di
principi istituzionali che permeano l’impresa, dandole un profilo distintivo, visibile tanto all’interno,
quanto all’esterno del sistema. Possono essere tramandati informalmente di generazione in
generazione e anche mitizzati.
La cultura aziendale può mutare nel lungo andare. Ciò può accadere almeno per tre ragioni:
- il fondatore ha un personale ciclo di vita, che giunge al termine anche contro la propria volontà;
- egli volontariamente cede il controllo ad un successore;
- decide di vendere ciò che ha creato, in quanto desideroso o bisognoso di realizzare il valore di
mercato della propria iniziativa.
Quando scompare la figura del fondatore o quando questi si ritira, è possibile che nella scena aziendale
entri un successore familiare. Oppure il controllo familiare può andar perduto per una serie di ragioni
inerenti a scelte personali o a meccanismi di mercato. E’ meglio pensare a una trasmissione del potere
apicale dal fondatore a un generico continuatore, invece che ad un successore in ambito familiare.
Non tutte le imprese scelgono una strategia di crescita dopo i primi anni di vita. Alcune cercheranno
incondizionatamente lo sviluppo dimensionale, ma altre cercheranno di darsi una compiuta identità
sistemica e migliorare la loro redditività, per affrontare mutevoli circostanze d’ambiente.
Se l’impresa cresce, è probabile che le caratteristiche della sua sistemicità varino anche radicalmente
rispetto a fasi evolutive precedenti: la crescita dimensionale impone una separazione tra la funzione del
soggetto economico (funzione di confine, rivolta all’esterno) e la funzione manageriale (funzione rivolta
all’interno, cioè alla gestione, organizzazione, rilevazione aziendale).

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Nella crescita può accadere che l’impresa originaria crei, a sua volta, altre imprese o le acquisisca da
terzi e si formino gruppi di imprese sotto il suo controllo.
In entrambe le circostanze, sorgerà un bisogno di decentramento d’autorità oppure di semplice
decongestionamento decisionale. Il soggetto proprietario soddisferà il nuovo bisogno di coordinamento
e controllo attraverso il personale dirigente.
I manager possono essere selezionati all’interno o all’esterno dell’impresa, è una questione di strategia
e cultura aziendale.

Nell’impresa familiare, spesso la scomparsa del fondatore può comportare problemi amministrativi. Non
sempre i figli o i discendenti possiedono le stesse capacità degli avi. Ci sono casi in cui, tra i
discendenti dotati di capacità imprenditoriale, vi sia una diversa “visione” degli obiettivi da perseguire,
con una conseguente litigiosità che impatta neg. sulla capacità di sopravvivenza dell’impresa.
Di recente si è introdotto il “patto di famiglia”.

Concetto di cambiamento: più significati.


Cambiamento “radicale: variazione delle condizioni di sistemicità in cui versa l’impresa, da cui emerge
un nuovo assetto della struttura organizzativa, del coordinamento e controllo, delle finalità aziendali e
del metodo che presiede alla ricerca dell’equilibrio aziendale.
Cambiamento “marginale” una parte del sistema aziendale,oppure riguarda variazioni delle condizioni
di sistemicità che non comportano un significativo riassetto dell’impresa.
E’ possibile distinguere il cambiamento sistemico, dal cambiamento locale, che è di routine, anzi
necessario e indispensabile nell’ordinaria amministrazione aziendale.
Ogni tipo di cambiamento può essere positivo o negativo. I cambiamenti radicali si hanno a ridosso di
un evento che è in grado di sollevare problemi non prima sperimentati nel governo e management, e
innescare un’inedita ricerca di nuove condizioni di sistemicità.
Relazione causale: evento  importante discontinuità nell’amministrazione generale dell’impresa 
apertura di una fase “drammatica”  cambiamento sistemico.

Ogni cambiamento ha un costo.


Vedo se conservazione delle condizioni sistemiche di governo abbia un costo superiore al costo del
disinvestimento delle esistenti tecnologie, strutture e persone (Dis) più il costo della progettazione e
costruzione di nuovo assetto sistemico (Inn).
CCons > CDis + CInn
In tali condizioni di costo l’impresa corre un rischio di estraniazione dal suo ambiente e deve cambiare.
Com’è possibile calcolare il costo della conservazione dell’impresa così com’è?
I dati necessari sono tutti rinvenibili all’interno della contabilità generale e possono essere rielaborati
attraverso la contabilità direzionale.

I cambiamenti radicali non sono frequenti nel ciclo di vita dell’impresa, poiché annunciano ampie
variazioni di assetto del potere decisionale. La normalità in azienda è rappresentata dalla routine e
dalla conservazione. Il cambiamento “radicale” è il frutto di una significativa discontinuità (e di un
dramma) nel ciclo di vita aziendale; tale discontinuità si verifica a onde lunghe nel tempo, cioè molto
raramente.
Al contrario, le imprese vivono di molti piccoli cambiamenti a livello “locale”. La fase terminale del ciclo
di vita sistemico è rappresentata dal declino e dall’estinzione dell’impresa. L’estinzione dell’impresa è
un’operazione costosa e si configura come un momento “drammatico” del ciclo di vita aziendale: con la
fine dell’impresa vengono meno lavoro, tecnologia e produzione di ricchezza, non solo per il soggetto
economico, ma anche per gli altri partecipanti al sistema aziendale. Ne può risultare significativamente
colpito anche tutto il sistema sociale .

5. I fattori di competitività dell’impresa: “price competition & non price competition”

L’impresa va alla ricerca del pieno successo e vantaggio competitivo non solo con l’acquisita
sistemicità e il raggiunto equilibrio, ma anche con i punti di forza che il suo sistema coltiva ed è in grado
di attivare nei confronti di ogni altro concorrente. In quanto diventata sistema, l’impresa non è solo
oggetto delle forze di mercato, ma anche è soggetto che vuole cambiamenti. E’ anche soggetto
dell’evoluzione del settore in cui essa è entrata. E’, cioè, in grado di attivare dinamismi che modificano
lo stato della concorrenza.

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In altre parole, l’impresa diventa competitiva nella sua evoluzione non solo per la conquistata
sistemicità, ma anche perché essa dispone di fattori materiali e immateriali (risorse e competenze), che
sa attivare nei confronti dei competitori nel settore: le risorse non hanno alcun valore in sé e per sé;
esse acquisiscono valore soltanto quando riescono a specificarsi i modi in cui esse devono essere
usate. Risorse e competenze alimentano l’azione imprenditoriale e danno capacità di reazione verso i
competitori.
Una volta conquistata, la sistemicità deve essere continuamente vivificata, cioè arricchita di “capacità
competitive”. Queste fanno tutt’uno con le risorse/competenze che l’impresa sviluppa al proprio interno
o (se non le ha) riesce ad acquisire dal proprio ambiente.
L’impresa compete non solo attraverso il fattore “prezzo”, ma anche attraverso fattori di non price
competition: capacità di marketing e distribuzione, capacità di innovare anche marginalmente il bene o
servizio prodotto, capacità di qualificare la propria offerta nella percezione del consumatore, capacità di
rapportarsi ad altri enti o soggetti del proprio ambiente.
È competitiva se è capace non solo di generare e usare i punti di forza, ma anche di prevenire le
difficoltà e rimediare a carenze e debolezze di questa o quella persona o unità organizzativa al suo
interno. In conclusione, sono i punti di forza, e le risorse/competenze a tutto ciò inerenti, nonché la
prevenzione o cura dei punti di debolezza, i fattori che danno capacità alle imprese di lottare con
successo per la sopravvivenza; di crescere e mirare all’aumento della quota di mercato; se possibile, di
avvantaggiarsi rispetto ai diretti concorrenti.

6. Rapporti di forza e forze competitive: concorrenti diretti e potenziali entranti

Concorrenti diretti:
a) Il grado di concentrazione del settore.
In libera concorrenza il fattore competitivo dominante è il prezzo: è un dato che non può essere
modificato. L’impresa sopravvive solo se le condizioni del costo unitario del bene offerto sono allineate
a quelle degli altri produttori.
b) La similarità/dissimilarità dimensionale delle imprese concorrenti.
Quanto più le imprese del settore sono simili l’una all’altra dal punto di vista dimensionale e
organizzativo, tanto più è probabile che il settore viva di dinamismi competitivi di modesta entità. Le
imprese si selezionano fondamentalmente sulla base della diversa capacità di amministrarsi con
economicità di gestione. Se le imprese sono molto dissimili la concorrenza può subire dinamiche
significative e avere esiti imprevedibili, tanto che le dinamiche vengano attivate dall’impresa leader,
desiderosa di eliminare i concorrenti marginali con lotte nel prezzo; quanto che a provocarle sia
un’impresa emergente, dotata di capacità innovative sorprendenti.
c) La differenziazione dei prodotti offerti dai vari produttori.
Nella concorrenza oligopolistica entra in gioco la capacità dell’operatore di “differenziare” il prodotto o la
gamma dei propri prodotti. Se i prodotti delle imprese del settore sono intrinsecamente standardizzati,
la rivalità interaziendale non può che basarsi sul prezzo.

Potenziali concorrenti:
1. Barriere inerenti al fabbisogno dei capitali da investire. Un potenziale competitore entra nel settore
prescelto in due modi:
a) creando ex novo un’impresa, cioè avviando la produzione di un bene nuovo o di un bene simile
a quelli già offerti (entrata per via interna);
b) acquisendo il controllo di un operatore presente nel settore (entrata per via esterna).
Sono più convenienti le scalate borsistiche o le altre forme di acquisizione di imprese già consolidatesi
nel settore, per via esterna: per tale via si contemplano costi di ammodernamento o rinnovo, non costi
di primo impianto.
2. Economie di scala: si hanno fino alla “dimensione ottima minima” dell’operatore. Oltre tale
dimensione delle capacità produttive e degli altri fattori si verificano diseconomie di scala.
3. Esperienza e vantaggi di costo: le imprese già installate nel settore godono di vantaggi di costo
grazie all’esperienza nella manifattura del prodotto, maturata in un periodo significativamente lungo di
tempo. Le favorisce l’affinamento progressivo delle tecniche produttive od organizzative, e il
consolidato rapporto con fornitori o distributori, il che significa poter godere di rapporti preferenziali e di
fiducia.

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4. Immagine di marca e differenziazione del prodotto. I produttori già installati nel settore possono
proteggersi, anche a basso costo, dalle minacce degli entranti potenziali ricorrendo a politiche di
“differenziazione” del prodotto, il che significa produrre un bene di base in più esemplari con
caratteristiche distinte, in modo tale da offrire appropriate soluzioni di consumo a differenziate
domande. La barriera è altamente specifica nel settore della produzione di beni di consumo.
5. Accesso dei produttori ai canali distributivi: talvolta esso è libero, altre volte è limitato da qualche
forza competitiva. Presenta difficoltà per qualsiasi neoentrante: infatti, occorre innanzitutto accreditarsi
nel prezzo e nella qualità presso il distributore; in secondo luogo, una volta entrati nel canale, occorre
negoziare il comportamento del distributore.
6. Barriere legali. Quando l’accesso a una data attività produttiva è limitato da una legge e, pertanto,
occorrono autorizzazioni o concessioni governative per produrre, esiste una difficoltà oggettiva, prima,
a entrare e, poi, a diventare protagonista del settore. Di tipo diverso sono le barriere legali
rappresentate dai brevetti o dai diritti d’autore, che è di costo, poichè può assumere un elevato potere
di esclusione.
7. Ritorsioni delle imprese già presenti nel settore. Di fronte ad un potenziale entrante o un nuovo
entrato, le imprese già installate nel settore possono rispondere alla minaccia con cambiamenti
significativi della propria strategia.

Un settore che non presenta barriere all’entrata (e anche all’uscita) si definisce settore contendibile, o
contestabile. Il grado di “contendibilità” dipende dall’entità degli investimenti a redditività differita che
l’impresa deve fare per entrare nel settore, sostenendo costi non facili in breve tempo da recuperare
(costi sommersi o sunk costs). Le imprese già installate nel settore sono costrette a operare a livello del
“prezzo limite”, quindi a condizioni tali per cui continuare l’attività può rivelarsi una scelta non
particolarmente redditizia. I vecchi concorrenti sono indotti a continuare la produzione nell’attesa che i
loro costi siano prima o poi reintegrati convenientemente dal flusso dei ricavi: alla base di tale
comportamento stanno la capacità di resistere pro tempore agli squilibri economico-finanziari e la
convinzione di poter competere grazie alla reputazione o all’immagine.

7. Concorrenti indiretti e altre forze competitive

L’impresa deve innanzitutto verificare se esistono o meno prodotti sostitutivi del proprio e quanto essi
siano numerosi. Se la propensione all’acquisto dei prodotti o servizi sostitutivi è bassa, la forza dei
concorrenti indiretti è ovviamente debole (a parità di altre condizioni).

Altro aspetto da considerare per valutare la minaccia rappresentata dai prodotti sostitutivi è il prezzo. Il
sostituto deve essere in grado di soddisfare un bisogno primario che al consumatore va bene lo stesso.

I fornitori di fattori produttivi: sono il prezzo di vendita, ridurre la qualità dei prodotti e limitare le quantità
vendute. Nel valutare il rapporto tra produttore e fornitore occorre, inoltre, tenere presente la
dimensione delle imprese coinvolte nelle negoziazioni.
L’esito del rapporto può andare a favore dell’impresa dimensionalmente più grande, in grado di poter
scegliere tra più fornitori, o a favore dell’impresa minore, se quest’ultima ha propensione a innovare o
migliorare costantemente il bene offerto, creando in tal modo una dipendenza tecnologica nella propria
clientela, anche nelle imprese maggiori.
Se l’informazione è simmetrica, essa equilibra perfettamente il rapporto; se, invece, è asimmetrica,
essa può sbilanciare il potere contrattuale a favore ora del compratore, ora del fornitore.

Potere di contrattazione dei clienti: dipende dalla sensibilità al prezzo e dal potere contrattuale relativo.
Il consumatore dell’output di un’impresa può essere un’altra impresa, o possono essere più imprese.
Tali clienti possono esercitare una pressione competitiva sui generis sui produttori di beni finali o di
output intermedi: può esservi un rapporto tra pari o può esservi un rapporto tra impari.
In quest’ultimo caso, i “minori” devono trovare soluzioni organizzative per rafforzare la propria posizione
di mercato. Un esempio è rappresentato dai “gruppi di acquisto”.
Per arrivare ai consumatori finali e conquistarli alla propria offerta, occorrono non solo abili venditori alle
proprie dipendenze, ma anche uno o più intermediari, in particolare i grossisti e le imprese commerciali
al dettaglio. Nel corso del tempo, queste ultime hanno sviluppato un “potere di contro-bilanciamento”
verso i produttori industriali.

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Sorge un problema di comportamento dell’intermediario. Da una parte, la grande impresa di
distribuzione è in grado di entrare in un rapporto di collaborazione con il produttore industriale, ad
esempio in fase di co-design e co-marketing del bene da offrire al pubblico.
Dall’altra parte l’intermediario è in grado di scegliere tra i produttori e dettare regole di manifattura del
prodotto conformi alle sue preferenze commerciali e/o alla capacità di spesa della propria clientela.
L’intermediario è in grado di esercitare il suo potere verso il produttore anche grazie a scelte
discrezionali di assortimento degli articoli da commercializzare e a scelte altrettanto discrezionali di
esposizione al pubblico di tali beni. Da parte del consumatore, non è sempre agevole valutare
razionalmente le differenze di qualità, avuto riguardo a beni di una stessa tipologia o categoria; spesso,
infatti, le scelte finali di acquisto avvengono sulla base di valutazioni emotive, che dipendono
dall’efficacia del marketing ora del produttore, ora del distributore.
L’importanza del distributore vale anche in caso di commercializzazione di beni industriali.

Esistono organizzazioni non direttamente produttive di beni o servizi per il mercato, le quali popolano il
general environment e influenzano le produzioni industriali e di servizi per il mercato.
Si tratta di forze extra-mercato, le quali esercitano pressioni cui le imprese non possono sottrarsi. Ove
possibile, l’impresa che ne è almeno potenzialmente soggetta si fa attiva, anzi pro-attiva, cioè capace di
volgere a proprio vantaggio la presenza di organizzazioni in grado di intervenire, con risorse e
comportamenti discrezionali, nel settore della propria operatività specifica.

8. Capacità competitive: descrizione e reinterpretazione

I fattori della competitività aziendale devono essere cercati, innanzitutto, entro i confini dell’impresa,
cioè nelle parti, nei partecipanti, nelle interazioni che hanno luogo nel sistema aziendale.
Bisogna, in secondo luogo, guardare ai mercati e alle altre forze produttive.

Ad avvio del loro ciclo di vita, sono poche le imprese in grado di sviluppare un’attività economica
disponendo di tutte le risorse necessarie per avere successo, anche solo per sopravvivere in condizioni
minime di equilibrio.
In tema di contenuto specifico delle risorse, è possibile operare una distinzione tra:
a) risorse intese come tradizionali fattori produttivi
b) Competenze: risorse costituite di pura conoscenza, brevetti, informazioni e comunicazioni,
procedure organizzative, know-how finanziario o tecnologico, immagine, marca.
Esse si leggono sempre in quello che alcuni chiamano modello di business, cioè nel metodo e nel
processo di produzione, nelle caratteristiche del prodotto e nell’agire sistemico che contraddistinguono
l’impresa nel settore prescelto di attività economica. Si caratterizzano non tanto per l’immaterialità
assoluta, quanto piuttosto per essere risorse con un livello di conoscenza superiore a quello dei beni
che coincidono con i fattori produttivi di tipo a).
Incorporandosi talora in questi ultimi, ne elevano le prestazioni e il valore d’uso; altre volte entrano in un
prodotto o in un processo produttivo, cioè in una o più fasi della trasformazione degli input in output,
elevando le potenzialità d’uso del processo e/o il valore di scambio del prodotto.
Alcune risorse del tipo a), quindi, presentano contenuti di conoscenza del tipo b).
Quindi, il bene materialmente inteso non solo rappresenta un supporto o un contenitore, ma diventa
anche un veicolo di conoscenza, fino al punto che il bene stesso può diventare “competenza” per
l’impresa.
Le “competenze” hanno un tipico valore di scambio (prezzo) e un valore d’uso; in quanto ad elevato
contenuto di conoscenza esse sono suscettibili di incorporarsi anche in altro bene, elevando il valore
d’uso e il tipico valore di scambio (prezzo) di tale bene.
Non sempre le risorse e competenze sono evidenti, facilmente rintracciabili e misurabili. Sempre esse,
tuttavia, si situano in subsistemi del sistema aziendale.

Risorse/competenze funzionali: ogni sottosistema aziendale detiene e riproduce risorse materiali o


immateriali (impianti, AI e PI, organizzazione, finanza) che presiedono allìoperatività del sistema
aziendale. Ciascuna di essere può tradursi nel tempo in risorsa/competenza core e/o competenza
distintiva.

Risorse/competenze core: fattori che sono al centro del successo competitivo aziendale. Frutto
dell’esperienza e della conoscenza maturate nel competere, i cui risultati si sono trasformati in
collective learning dell’intera organizzazione.

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Risorse/competenze distintive: fattori materiali e immateriali altamente specifici, talvolta unici nel loro
genere, la cui natura procura un vantaggio competitivo all’impresa. La capacità di integrare più risorse
funzionali diverse costituisce di per sé una capacità distintiva

Le risorse/competenze eccellenti: fanno durare nel tempo il vantaggio e diventano “esemplari” per
tutti gli altri concorrenti. L’eccellenza inerisce al fatto che esistono imprese in vantaggio, le quali sanno
migliorare costantemente il proprio modo di essere sistema e la propria complessiva capacità
competitiva, diventando esemplari per tutti gli altri operatori del settore (e non).

9. Successo, vantaggio, eccellenza: una sintesi

Successo competitivo è sinonimo di performance positiva, in termini di quote di mercato o redditività,


conseguita in un certo periodo di tempo grazie all’attivazione di capacità competitive.
Nella fase di selezione naturale, corrisponde a successo il mantenersi in vita, anche senza visibile
crescita dimensionale, in condizioni di reddito minimo di equilibrio.
Nella fase di selezione competitiva, sono performance positive e corrispondono a successo, lo sviluppo
dimensionale o anche la conservazione delle dimensioni associate ad un reddito di periodo superiore a
quello minimo di equilibrio.
Vantaggio competitivo inerisce all’esistenza e all’efficace utilizzo in impresa di competenze
“distintive”. E’ in vantaggio chi è primo o tra i primi nel settore (leader), essendo pervenuto ad una
quota di mercato e una redditività superiori a quelle dei diretti concorrenti, grazie alla disponibilità,
all’uso sapiente e al ricambio di risorse e competenze.
Richiede esperienza, accumulo e rinnovo del know-how tecnologico, finanziario, organizzativo, oltre
che produttivo e distributivo. Tali capacità si acquisiscono tipicamente nel periodo della selezione
competitiva.
L’acquisizione di vantaggio competitivo può essere dovuta alla:
a) Capacità di maturare una leadership di costo, ovvero produrre non solo al costo unitario del prodotto
che sta entro il “prezzo limite” rilevato nel settore, ma soprattutto a costo inferiore a quello dei
concorrenti.
b) Capacità di leadership nella differenziazione del prodotto: capacità di lavorazione e/o di marketing e
distribuzione commerciale che consentono di offrire un bene percepibile dal consumatore come diverso
da tutti quelli direttamente concorrenti.
c) Capacità di leadership nell’innovazione tecnologica e/o nell’innovazione organizzativa, compreso
l’uso pro-attivo delle risorse umane.

Vantaggio, prima, ed eccellenza, poi, maturano ora in funzione di una leadership di costo o di una
sapiente differenziazione del prodotto, ora in funzione di una originale capacità di innovazione, ora,
infine, per una originale combinazione di tutte le predette capacità.
Tanto più il vantaggio è destinato a durare, quanto più esso è il risultato dell’integrazione di capabilities
di tipo diverso nella gestione e organizzazione aziendale. E’ tale capacità integrativa che crea i
presupposti dell’esemplarità e suscita imitazione del sistema aziendale, non solo del bene prodotto.

10. Rapporti tra sistema di impresa e sistema-paese

Le condizioni di sistemicità e le capacità competitive maturate dalle imprese nel loro ciclo evolutivo non
solo influenzano l’ambiente specifico, ma anche si riversano sull’ambiente generale, contribuendo a
determinare lo stato di benessere del sistema-paese.
A sua volta, la competitività dell’impresa nel task environment è influenzata non solo dalle sue risorse/
competenze e dallo stato della concorrenza, ma anche dalle condizioni di ambiente generale, cioè dalla
efficacia ed efficienza dell’offerta di beni e servizi da parte di altre organizzazioni pubbliche e private,
nonché dalla cultura del sistema-paese. Quanto più favorevoli sono le condizioni di sistema-paese,
tanto più avvantaggiata è l’impresa nel sopravvivere e nel competere.
Ogni sistema-paese è dotato di capacità competitiva, nei confronti dell’estero e di altri sistemi-paese,
che gli deriva non solo dal comportamento delle imprese, ma anche da quello delle pubbliche
amministrazioni e dalle altre organizzazioni della società civile che sono insediate entro i confini
nazionali.

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Quindi, se è vero che le imprese attraverso il loro successo e vantaggio competitivo accrescono il
benessere del sistema-paese “nazionale”, è anche vero che tale sistema-paese può migliorarsi col
metodo del buon governo della società e delle sue istituzioni, arricchendo con ciò, indirettamente, il
benessere delle imprese.
Il contributo dato dalle imprese al benessere non è solamente assorbito dal sistema-paese, ma in parte
almeno viene loro restituito, ad esempio attraverso agevolazioni fiscali e finanziarie o servizi di pubblica
utilità.

6. Tecnologie dell’informazione e comunicazione per la competitività.


Le utenze telematiche possono essere domestiche o professionali. I centri che forniscono i servizi
assolvono funzioni di reselling dei dati di base prodotti. Vari servizi offerti:
• Funzione d’informazione: accesso a informazioni non in-house
• Funzione di tele-transazione:
• Funzione di tele-trattamento di simboli, immagini o dati
• Funzione di trasmissione: trasporto di informazioni e input su supporti informatici
Aziende presenti nell’industria dell’informazione e comunicazione:
1. azienda produttrice del servizio di pura telecomunicazione e/o telematico
2. azienda fornitrice di hardware informatico
3. azienda produttrice-distributrice di pure informazioni
Oggi l’utente stesso può diventare un produttore di informazioni e specifiche soluzioni tecnico
funzionali (autoproduzione dei servizi)dovuta a struttura organizzativa interna dell’ezienda uente
e network che lega l’utente all’ambiente esterno.
Nel mercato delle tecnologie telematiche, si distinguono due categorie di domanda:
1. domanda di sistemi d’utente
2. domanda di servizi a valore aggiunto (VAS)  message-handling e database getaway,
servizi di supporto al software, servizi di telemetria e telesoccorso, servizi di raccolta
dati per l’utenza commerciale.
Nonché la domanda di informazioni e di servizi di base.
L’offerta di prodotti telematici è globale, quindi si ricorre a accorsi, fusioni o partnership strategiche.
In genere nei settori dove sono più forti le pressioni competitive il cambiamento tecnologico è fast.
Quattro configurazioni di imprese internet suscitano l’interesse del venditore:
1. imprese che sanno affinare il software e lo offrono a prezzi bassi.
2. imprese che ottimizzano l’uso di software e proprietà delle reti
3. imprese che hanno un vantaggio sui concorrenti in termini di switching costs
4. imprese che hanno capito che geography matters

7. Evoluzione.
Il rapporto impresa/ambiente nell’approccio dialettico all’adattamento

Dopo essere state create, le imprese non si autogovernato, per mantenersi coerenti con le intenzioni
che presiedono alla loro creazione, e nel perseguimento degli scopi di produzione e reddito desiderati,
le imprese sono condotte come contrived systems, cioè sistemi disciplinati da piani, programmi e
controlli, e perciò vengono burocratizzate, in senso tecnico-organizzativo. L’evoluzione avviene
attraverso l’adattamento, ovvero il posizionamento competitivo ottimale nell’ambiente dell’impresa
(survival of the fittest). Peraltro, i decision makers aziendali sono razionali solo nelle intenzioni. Le
imprese sono e restano sempre sistemi imperfetti.
Sistemi di impresa e sistemi biologici hanno pur qualche similarità.
1. ciclo di vita
2. lotta per la sopravvivenza
3. adattamento
4. insieme di parti: parti e partecipanti (funzioni)
Differenze: l’equilibrio degli esseri è spontaneo.
La conoscenza di tipo darwiniano in tema di evoluzione dei sistemi o “organismi viventi” offre alcune
idee importanti per comprendere l’evoluzione delle imprese, ovvero dei sistemi o “organismi
imprenditoriali”.

Principio di variazione

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a) I singoli membri o componenti di un insieme differiscono sempre l’uno dall’altro per qualche
caratteristica;
b) ognuno di tali insiemi si evolve in ragione del cambiamento delle proporzioni in cui stanno l’uno
all’altro i differenti membri o componenti, o l’una all’altra caratteristica.
Principle of heredity: nell’evoluzione, alcune di queste risorse/competenze devono essere acquistate;
le più importanti vengono ereditate dal breve o lungo passato.
Cambiamenti possono peraltro verificarsi all’interno di ogni altro competitore, possono aver luogo in
ogni istante e casualmente. Per tali differenti caratteristiche e per tali cambiamenti alcuni organismi
imprenditoriali sopravvivono e si riproducono, mentre altri vanno perduti per la loro specie.
Principle of the struggle for survival: dato da scarsità risorse. Nessun organismo è uguale all’altro
perché ciascuno è l’oggetto di forze differenziate ed esclusive. Nel sistema sociale esistono organismi
imprenditoriali con diverse dotazioni di risorse/competenze e capacità diverse di farne uso. Ciascuno
vive e inevitabilmente si rapporta con organismi differenziati, mutanti; ma la lotta per la sopravvivenza è
innanzitutto una lotta con se stessi, poi diventa una lotta con gli altri.

Principle of natural selection: ogni sistema si evolve effettivamente in funzione del variare del
rapporto in cui sta un subsistema rispetto agli altri, una caratteristica rispetto all’altra. Anche una piccola
variazione in un qualsiasi insieme può innescare una grande variazione tra insiemi.
In termini darwiniani, si ha evoluzione in quanto si determina un processo di selezione naturale per il
quale “tutti variano”, ma “alcuni membri o componenti permangono, mentre altri scompaiono, sicché la
natura dell’intero sistema cambia”. A livello macro, il sistema sociale varia nello spazio, a livello micro,
negli organismi imprenditoriali, i componenti in discussione sono le funzioni.

Un secondo importante contributo proviene dal darwinismo in tema di ambiente.


Nel pensiero evoluzionistico classico l’ambiente è un dato di fatto per ciascuno degli organismi
esistenti. Non estraneo alla sorte degli organismi che lo popolano: offre opportunità di sopravvivenza
oppure non ne dà alcuna. Entro tale “situazione”, o ci si sta appropriatamente con le proprie forze
oppure non ha luogo alcun fit, cioè non vi è inserimento efficace, né spazio per la sopravvivenza.
Il darwinismo classico è l’equivalente del liberismo classico.
Gli organismi che esistono, cioè sopravvivono, hanno un marvelous fit nell’ambiente. Qualcuno invece
si esclude. L’ambiente rileva nella misura in cui offre opportunità e sceglie: poiché le forze che animano
ciascun sistema sono forze autonome, l’ambiente non fa altro che prendere atto di quel che accade,
scegliendo tra possibili stati interni agli organismi che lo popolano, determinando chi sopravvive.

2. Darwinismo classico e darwinismo contemporaneo

Nel darwinismo classico ogni organismo si colloca ad un crocevia, ove si dirigono e si incontrano
forze interne e forze esterne, ciascuna delle quali ha un proprio percorso evolutivo.
Essendo ridotto a luogo, anzi a punto di intersezione (locus of interaction), l’organismo vivente è
meramente il medium attraverso il quale le forze esterne incontrano le forze interne che producono
variazione.
Tale concezione riduttiva degli esseri viventi viene corretta dal darwinismo contemporaneo, il quale
enfatizza tre fondamentali aspetti dell’evoluzione organica, grazie a cui è possibile riconciliarlo con la
teoria biologica dell’impresa.
1. Tutti gli esseri viventi sono la conseguenza di un processo storico, ma tra la loro creazione e la loro
eventuale scomparsa c’è qualcosa in più delle componenti originarie e della loro evoluzione casuale.
C’è anche la totalità dell’organismo;
2. L’organismo vivente è oggetto di mutamento, ma è in grado di partecipare attivamente al suo
sviluppo quali-quantitativo. L’organismo è anche oggetto che entra direttamente nella determinazione
del suo futuro.
3. L’organismo non è una mera conseguenza di un locus of interaction; non è solo un oggetto
“passivo”, è anche una unità “attiva”, un soggetto dell’evoluzione; forze interne e forze esterne,
organismo e ambiente si influenzano reciprocamente, si co-determinano.

Ne deriva che organizzazioni sociali del tipo dei sistemi di impresa incontrano sempre nuove forze, si
rinnovano nella loro interezza; e sono anche soggetto di cambiamento evolutivo, strumento attivo di
esclusione di altre organizzazioni. Ciò avviene grazie alla loro capacità di determinare alcuni passaggi
dell’esistenza e controllare l’indomani dell’incontro tra interno ed esterno.

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Tutto ciò significa che i sistemi hanno capacità di fare strategie di adattamento e orientarsi per la
propria evoluzione.
Nel darwinismo classico, l’ambiente rappresenta un dato, in ogni istante, per gli organismi viventi. E’ la
situazione in cui ciascuno si colloca. Esso ha proprie regole, non sta fermo, a tutti pone problemi.
Ognuno deve trovare la forma (struttura) e il modo (processi) per risolverli.
Si definisce adattamento il “processo di cambiamento evolutivo per cui l’organismo si crea una sempre
migliore soluzione al problema che ha di fronte, il cui risultato finale è rappresentato dall’essere
adattato”.
Non tutti sopravvivono. Il darwinismo contemporaneo rileva empiricamente che vi è un successo
differenziale nell’adattamento. All’interno dei sistemi aziendali esistono capacità competitive e operano
centri nevralgici (quali gli organi volitivi) che prendono decisioni discrezionali e svolgono attività in grado
di incidere profondamente sullo stato del settore e metterlo in moto.
Settori e ambienti competitivi di tipo differenziato si co-determinano assieme alle loro componenti, cioè
alle imprese. L’ambiente è la creazione di tutte le organizzazioni che in esso convivono o hanno
convissuto; è la conseguenza di un processo storico. Ogni organismo imprenditoriale costruisce e
ricostruisce il suo ambiente. Trova in proposito giustificazione il concetto di enactment, ovvero di
attivazione dell’ambiente da parte delle imprese.

3. Co-evoluzione, adattamento e burocratizzazione

Impresa non solo oggetto, ma anche soggetto di cambiamento; adattamento come ricerca di soluzioni,
co-evoluzione tra impresa e ambiente: questi sono i risultati del pensiero darwinista contemporaneo.
Essi sfuggono alla concezione dell’impresa come organismo biologico che subisce passivamente sia la
propria eredità, sia il proprio ambiente.
Partendo dal darwinismo contemporaneo, si propone un’idea dell’evoluzione dei sistemi come processo
storico cui concorrono tre elementi di base:
a) variazione: convivere con distinte tipologie di organismi viventi e organizzazioni sociali, che si
differenziano gli uni dagli altri e variano in questa o quella componente.
b) eredità: vivere della propria storia individuale o di gruppo: esistono componenti costitutive dei
sistemi che rappresentano una eredità, peraltro sempre soggetta a cambiamenti. La storia, la
tradizione, i valori e i principi condivisi rappresentano la realtà viva di un’organizzazione.
c) selezione: misurarsi e, se occorre, lottare con altre forze attraverso le proprie risorse e
competenze, cercando di migliorare costantemente la propria competitività. Tutti variano, ma
solo alcuni permangono, altri scompaiono.

L’impresa non è solo spettatrice dell’evoluzione del settore in cui opera, ma ne è anche co-
protagonista, cambiando con esso. Essa mette in moto l’ambiente, si misura, può creare esclusione.
Ad esempio, superate le difficoltà dei primi anni di vita e conquistato un certo posizionamento
competitivo, l’impresa non si limita ad adeguarsi all’ambiente di riferimento, ma cerca anche di
modificarlo e strutturarlo.
Se resiste e anche attiva processi di esclusione il sistema di impresa è riuscito a crearsi una zona di
rispetto sociale, radicandosi appropriatamente dentro una nicchia ecologica.
Contestualmente al raggiungimento di un certo posizionamento competitivo e di una condizione di
equilibrio soddisfacente nel proprio ambiente (omeostasi all’esterno), è naturalmente consentito
all’impresa di pensare al miglioramento continuo delle proprie condizioni sistemiche, cercando
l’equilibrio ottimale.

Nella ricerca dell’adattamento e delle migliori soluzioni, un ruolo fondamentale assolve la struttura
organizzativa aziendale. Il modello strutturale più diffuso (e sopravvissuto al XX secolo) rimane ancora
oggi quello “gerarchico-burocratico” (burocratizzazione).
Adattamento e burocratizzazione sono momenti del tutto interrelati dell’unico processo evolutivo.
L’armatura burocratica si offre come forza che soddisfa non solo un bisogno aziendale, ma anche un
bisogno di legittimazione delle imprese, in un sistema sociale in cui tutto è sottoposto a gerarchie e
regole. I valori socio-economici dominanti nel sistema della società filtrano, infatti, attraverso i confini
delle singole imprese, lungo tutti i processi di adattamento: i principi di burocratizzazione si affermano
in seno alle organizzazioni complesse perché saldamente burocratizzata è tutta la vita sociale.
La struttura organizzativa non è un elastico: cambia lentamente. Le preferenze e i criteri manageriali di
costruzione e ricostruzione delle strutture si coniugano con opportunità suggerite dall’ambiente, ma ciò
non è, né deve essere frutto dell’improvvisazione.

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Altre volte i cambiamenti sono necessitati da crisi nel rapporto dell’impresa col task environment, il che
suggerisce riassetti strutturali della produzione, delle vendite, di altre funzioni.

4. Co-evoluzione e approccio dialettico al rapporto tra impresa e ambiente

Ipotizziamo che esista un imperativo di ordine nel funzionamento dei sistemi e nei rapporti
intersistemici, ciò che suggerisce l’esistenza di una efficiente struttura e di una compatibilizzazione
reciproca di fini, ruoli e compiti entro e tra le organizzazioni.
Il disordine interno e l’instabilità durevole dell’equilibrio sono tra le cause più diffuse di “fallimento
organizzativo”. Tutti i subsistemi e gli elementi che ne caratterizzano assetto e comportamento sono il
risultato finale di un processo di costruzione sociale, che si definisce storicamente e può avere esiti
futuri diversi. La raggiunta sistemicità è il fattore di base della competitività, ma non rende immortali o
immodificabili i sistemi. Emerge la dialetticità del rapporto tra impresa, ambiente competitivo e resto
della società.
Dialetticità vuole che tale rapporto sia non sempre continuo e desiderabile; che, anzi, esso possa
comportare conflitti, paradossi, conseguenze non volute. In altre parole, il rapporto è contraddittorio e
non sempre si svolge in condizioni di razionalità economica (contraddittorietà).
In uno stesso ambiente si determina una selezione dei soggetti agenti. Il principio evocato
dall’approccio dialettico è quello di tesi e antitesi, per cui alcune imprese resistono, mentre altre
scompaiono. I fenomeni di distruzione di organizzazioni e di “selecting out” sono contrastati dalla
continua autogenesi di organizzazioni e dai fenomeni di “selecting in”.
Il rapporto impresa/ambiente è sempre un rapporto dialettico di mutua determinazione causale.
Ogni organizzazione, qualunque sia la tipologia, stabilisce e mantiene collegamenti multipli con altre
tipologie organizzative; tali collegamenti generano dinamismi e cambiamenti reciproci nel corpo di tutte
le soggettività coinvolte.

5. Pensare il rapporto impresa-ambiente in termini di “circoli”

Impresa e ambiente sono interdipendenti. Il rapporto ambiente-impresa si manifesta non solo nel senso
della continuità, ma anche della discontinuità e contraddizione:
a) ambiente munifico/ non munifico
b) il rapporto I/A po’ essere virtuoso nel privato ma dannoso nel sociale
c) l’impresa opta per la crescita ma limita la concorrenza e crea imperfezioni di mercato
d) l’impresa non ha infrastrutture in un paese
L’impresa e l’ambiente evolvono condizionandosi reciprocamente nel bene e nel male: per questo il loro
rapporto si dice dialettico, oltre che co-evolutivo.
L’ambiente provvede l’impresa di input per il processo di trasformazione, nonché di specifiche
informazioni per la competizione o la collaborazione con altre organizzazioni. L’impresa può
condizionarlo con i suoi output e le sue operazioni, e può maturare anche capacità competitive tali da
consentirle di influenzare significativamente l’ambiente specifico e quello generale.
L’interazione tra impresa e ambiente può far cambiare in tutto o in parte entrambi.
Dopo la sua nascita ed entrata in un settore, l’impresa tende a provvedersi di capacità per prevenire o
controllare le pressioni ambientali che tendono all’esclusione.
Nel ciclo di vita dell’impresa, ci sono fasi in cui la forza dell’ambiente si rivela incontenibile e consente
solo l’adeguamento, cioè l’allineamento a regole date, tale fase non concede possibilità di
sopravvivenza a chi non è in grado di conformare le proprie forze e il proprio comportamento alle
configurazioni competitive dettate dall’ambiente (compliance).
E’ questa la situazione in cui versano le imprese che stabilmente operano in mercati di libera
concorrenza o in mercati imperfetti, ma ipercompetitivi.
Ci sono anche fasi in cui l’impresa riesce ad attivare capacità che si impongono all’ambiente e alle altre
forze competitive. Ciò richiede esperienza, maturazione di condizioni di sistemicità, operazioni di
rilevante costruzione e/o ricostruzione sociale. Tali capacità consentono, in primo luogo, di resistere
alle pressioni all’esclusione; in secondo luogo, di andare all’attacco della concorrenza, influenzando in
modo determinante i lineamenti della co-evoluzione.
Emerge, in tal modo, una forza in grado di mettere in moto l’ambiente (enactment); di trasformare altre
forze; di definire e ridefinire anche se stessa, avendo una prospettiva teorica di sopravvivenza a lungo
termine, tipica della fase della selezione competitiva.
Il successo nel competere può venir meno; l’impresa può subire crisi o rimanere vittima di
contraddizioni. L’ambiente riprende la sua piena forza.

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L’adattamento è sempre contraddittorio; è anche sempre latente la possibilità di un ritorno all’indietro, di
una regressione a stati già vissuti, anche do un’esclusione dal campo.

6. Autonomia e dipendenza nel rapporto impresa/ambiente

Uscite con successo dai primi anni di vita, le imprese si misurano con i meccanismi della selezione
competitiva. Quanto più vaste si fanno le loro dimensioni, tanto più le imprese cercano di far prevalere
le ragioni della propria autonomia (prevalente influenza o potere di condizionamento attivati
dall’impresa), rispetto alle forze che creano dipendenza (prevalenti condizionamenti ambientali).
L’evoluzione del sistema di impresa e del rapporto che esso intrattiene con l’ambiente ha profonde
ripercussioni sulla struttura organizzativa aziendale. La struttura organizzativa aziendale è ampiamente
coinvolta nel processo evolutivo. Consolidata e affinata per sostenere la crescita, la struttura diventa
uno strumento di pressione verso l’esterno, una forza di combattimento nella lotta per l’esistenza.
E’ merito di Selznick di avere insistito sulla funzione della leadership nell’integrazione aziendale, come
funzione critica della sopravvivenza e dello sviluppo.
Nelle organizzazioni complesse la leadership è caratteristica propria non del dirigente “qualsiasi”, ma
della persona che mostra capacità di anticipare o risolvere problemi, trascinando i collaboratori verso gli
obiettivi programmati. Risultano leader coloro che sono capaci di difendere l’integrità
dell’organizzazione, quando si segnalino pericoli interni di disintegrazione e/o quando provengano
dall’esterno minacce all’equilibrio sistemico. Coloro che mostrano di sapersi misurare con la
concorrenza, cogliendo successi o vantaggi competitivi nell’interesse aziendale; anticipare o risolvere
conflitti; oppure tradurre il lavoro della loro unità organizzativa in innovazioni del processo produttivo e
in nuovi prodotti. Colui che ha buone e nuove idee per lo sviluppo aziendale e sa trasformarle in
successo può, nel tempo, assumere funzioni direttive sempre più elevate dal punto di vista della
gerarchia d’autorità. E’ leader colui che gestisce intelligentemente il rapporto tra dipendenza e
autonomia della propria organizzazione. Può anche mirare ben oltre e più in alto dell’obiettivo del
controllo interno o dell’ambiente-mercato politica.

7. Adattamento e posizionamento competitivo dell’impresa

L’adeguamento è solo una delle possibili configurazioni dell’adattamento.


L’impresa è prevalentemente “oggetto” del cambiamento evolutivo  concorrenza perfetta
Si adeguano anche le imprese in fase di avanzata selezione competitiva nella misura in cui esse
continuino a operare in settori di libera concorrenza, non potendo o non volendo assumere il rischio di
investimenti e strategie suscettibili di ridurre la loro dipendenza.
Altre imprese si adattano all’ambiente in modo opposto a quello del mero adeguamento, seminando
imperfezioni nel mercato e cercando di erigere barriere all’entrata di concorrenti potenziali, grazie
anche alla loro crescita dimensionaleoligopolio
Controllo:
a) attivazione di capacità competitive diverse e rinnovate;
b) utilizzo dell’autonomia aziendale finalizzata al condizionamento delle dinamiche ambientali.

L’adattamento è un vero e proprio campo di possibilità. Esso varia tra adeguamento e controllo.
Ogni impresa può evolversi dalla piena dipendenza alla piena autonomia, dall’adeguamento al
controllo, nel proprio ciclo di vita. È una relazione, non è uno stato di equilibrio. Non ci si adatta da soli;
ci si adatta in rapporto ad altri. Implica ricerca: esso è la costosa ricerca della migliore soluzione
possibile rispetto ai problemi emergenti.

Mobilitando le capacità endogenamente maturate o acquistando risorse/competenze di cui non


dispongono, esse si sforzano di progettare e pianificare il proprio ciclo di vita. Tendono, in sintesi, a
governare i propri destini e, quindi, a imporre le ragioni della propria “autonomia” nei confronti di tutte le
altre forze competitive.
Nell’adattamento, l’impresa cerca la migliore soluzione ai suoi problemi di esistenza e competitività.
Adattandosi, l’impresa si posiziona nel proprio settore di attività economica, procurandosi un equilibrio
di potere (omeostasi all’esterno) con le altre organizzazioni del proprio ambiente.

La valutazione del posizionamento competitivo dell’impresa (α), in un dato periodo di tempo, deve
essere effettuata considerando due elementi fondamentali:

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- la quota corrente di mercato, sicché quanto maggiore è la percentuale delle vendite
dell’impresa (α) sul totale venduto nel settore, tanto più forte è il suo posizionamento
competitivo nel periodo considerato;
- il potenziale di miglioramento che detiene l’impresa; quanto più elevato è il potenziale delle sue
capabilities, tanto più forte e prevedibilmente duraturo è il suo posizionamento competitivo nel
tempo.
I due elementi sono strettamente interconnessi. La quota di mercato costituisce una mera fotografia del
successo competitivo corrente, ma nulla dice in merito alle possibilità di successo o vantaggio futuro.

8. Tipologie di impresa nell’adattamento


i) Imprese in “equilibrio instabile”: il loro assetto sistemico e il loro rapporto con l’ambiente
cambiano alla maniera dei sistemi aperti; l’omeostasi all’esterno è di tipo “puntuale” e presenta
numerose varianti. Ha una volatile quota di mercato, anche se il flusso dei ricavi può essere tale
da reintegrare tutti i costi e assicurare un soddisfacente equilibrio economico.
ii) Imprese “dominate”: dipendenti dalle altre forze competitive e tipicamente operanti in ambienti di
libera concorrenza; l’omeostasi all’esterno è guidata dalle pressioni ambientali.
iii) Imprese “dominanti”: dotate di autonomia strategica, monopoliste od oligopoliste, sono in grado di
controllare il loro ambiente specifico e condizionano quello generale; la ricerca dell’omeostasi si
basa su solide capacità competitive.
iv) Imprese in “simbiosi” riescono a sopravvivere solo in quanto si rapportino durevolmente ad
un’altra organizzazione in condizioni privilegiate o non di mercato: es. impresa, stabile fornitrice di
un ente statale, dal quale resta fortemente dipendente; o startup con grande cliente. Si distingue
dalle imprese in equilibrio instabile, perché gode della sua stretta “vicinanza” ad altre
organizzazioni, con le quali intrattiene relazioni di scambio che le consentono di sopravvivere in
condizioni di soddisfacente redditività.
Un caso particolare di simbiosi è quello del rapporto tra impresa neoentrata in un network e altre
organizzazioni già presenti in tale ambito, come avviene nel caso dei distretti industriali. Il distretto può
essere guidato da un’impresa “centrale”, oppure il medesimo sistema può trovare al proprio interno un
forte “coordinatore”, che dà senso e scopo comune alle relazioni interorganizzative. I potenziali nuovi
produttori possono incontrare difficoltà di vario genere a superare le barriere all’entrata e a legittimarsi
nel network. Se, però, tali difficoltà vengono superate, il sistema reticolare attiva verso il nuovo entrante
le proprie naturali funzioni cooperative, che diventano anche funzioni di sostegno, grazie all’offerta di
servizi e opportunità d’affari da parte di questa o quella componente.
Da tale munificenza ambientale il nuovo soggetto potrebbe non volersi più staccare, entrando in una
sorta di simbiosi con la rete, nel suo complesso. I costi di uscita sarebbero altissimi.

9. Verso un “modello generale” di rapporto tra impresa e ambiente


Il rapporto tra impresa e ambiente è segnalato dalle seguenti caratteristiche:
a) interdipendenza: i due sistemi di forze necessitano l’uno dell’altro in modo inestricabile;
b) cambiamento: le caratteristiche delle due componenti in gioco non rimangono sempre le stesse;
nella variazione l’una componente sempre condiziona l’altra;
c) dialetticità: il rapporto assume configurazioni discontinue e contraddittorie rispetto al trend
storico; tesi e antitesi si rincorrono e l’impresa sopravvive solo se riesce a comporle nella sintesi
dell’equilibrio sistemico.

L’adattamento esprime lo stato di vitalità del soggetto agente nella co-evoluzione; enuncia la capacità
di quest’ultimo di trovare soluzioni e ritagliarsi la propria nicchia nel segmento o settore di attività
economica.
Anche se può essere influenzato dal caso, l’adattamento è il risultato di una ricerca di tipo strategico.
Tale concezione dell’adattamento consente di superare le difficoltà dell’adesione ad uno dei due
opposti filoni di pensiero che si confrontano in dottrina:
- da una parte, il razionalismo dogmatico, che configura organizzazioni sociali in grado di
mantenersi in vita in quanto perfettamente e anelasticamente strutturate, dirette secondo
principi universali, sempre capaci di far valere le ragioni della propria autonomia;
- dall’altra parte, l’organicismo illimitato, che configura organizzazioni sociali permanentemente
mutanti ed elasticamente strutturate, percorse all’infinito dalle influenze ambientali: tali
organizzazioni paiono sempre disposte ad affacciarsi oltre i propri confini, per cogliere il nuovo,

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il rischioso, l’innovativo e, talvolta, il rivoluzionario, sì da qualificare in modo straordinario la
propria esistenza.

L’impresa è oggetto e soggetto al tempo stesso del cambiamento evolutivo.


Dipendenza e autonomia convivono, co-evolvono e segnano le varie configurazioni nell’adattamento.
Determinismo ambientale ed esercizio di capacità competitive sono le due facce della stessa medaglia,
quella dell’adattamento.
Dunque, il rapporto dell’impresa col suo ambiente coinvolge più variabili: da una parte, le pressioni
competitive (X), dall’altra parte, le capacità aziendali di controllo (Y); X e Y si co-determinano, in quanto
il rapporto tra impresa e ambiente è co-evolutivo.
In altre parole, l’orientamento strategico al controllo e il determinismo ambientale sono le due
fondamentali variabili da cui dipende il processo evolutivo e l’adattamento delle imprese; ma sono al
tempo stesso l’uno influenzato dall’altro.

L’adattamento Z è un campo intero di possibilità ed è funzione di più variabili, sintetizzabili in X e Y, che


si influenzano reciprocamente:
Z = f (X,Y) (funzione generale dell’adattamento) X↔Y
Ogni tipo di adattamento dell’impresa ha elementi di conformismo rispetto all’ambiente e ha elementi di
tensione proattiva nei confronti dell’ambiente.

L’adattamento è funzione non di una sola variabile (ora le sole pressioni competitive X, ora la sola
capacità del sistema di impresa di pianificare e controllare il proprio ambiente Y), ma di un mix di
variabili X e Y. Solo a determinate condizioni (condizioni polari), l’adattamento assume la
configurazione dell’adeguamento oppure la configurazione del controllo pieno.

La funzione dell’adeguamento si esprime attraverso Z = f (X,0) per X >0. Si ipotizza, cioè, che
l’ambiente sia comunque presente in forze.
Questa configurazione è figlia della concezione organicistica dei sistemi: l’impresa si adegua, ha
capacità limitate nel competere sui vari fronti e accoglie come un dato le condizioni di prezzo, cioè Y
tende a zero.

La funzione del controllo si esprime attraverso Z = f (0,Y) per Y >0. Si ipotizza, cioè, che l’impresa sia
sempre in grado di attivare e condizionare i processi evolutivi, anche di modesta entità.
Questa configurazione è figlia della concezione vetero-razionalistica che vede l’impresa
indefettibilmente sistemica e sempre capace di controllare il contesto, dentro e fuori se stessa.
Incline alla crescita, l’impresa è priva di limiti di razionalità e guidata da mani visibili di manager che
dispongono di risorse e competenze esclusive, o imitabili solo ad elevato costo da parte dei
concorrenti.
L’ipotesi è, quindi, che X tenda a zero: è questo il caso dei mercati oligopolistici o quasi-monopolistici.

Per quanto riguarda le diverse configurazioni che l’adattamento assume, Hrebiniak e Joyce
costruiscono una matrice chiusa da due assi cartesiani: sull’asse verticale sono posizionati i valori di Y
rappresentativi di capacità competitive da rivolgere all’orientamento strategico e al controllo; mentre
sull’asse orizzontale si trovano le intensità X del determinismo ambientale, originate da variabili
competitive che creano dipendenza.
Si considerano solo le X >0, perché si assume che tutte le imprese si misurino con qualche pressione
ambientale. Si considerino, altresì, le Y >0, perché si assume che tutte le imprese abbiano qualche
capacità da attivare nella lotta per l’esistenza, nella ricerca dell’adattamento, per riprodursi.

Negli spazi o sottoquadranti I, II, III, IV si possono ricavare quattro tipologie di adattamento Z, ovvero
quattro fondamentali configurazioni dell’incontro di forze ambientali X, che creano “dipendenza”, e forze
espresse da capabilities Y, che attribuiscono all’impresa una relativa “autonomia” nel competere.

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11. Dinamismi nella matrice dell’adattamento: un ciclo virtuoso

In nessuna delle quattro combinazioni dei rapporti tra impresa e ambiente vi è completa assenza di
esercizio di scelte discrezionali e, all’opposto, di dinamismi ambientali.
Ne deriva che il confronto tra le azioni orientate al controllo e lo stress ambientale, ovvero la lotta tra
autonomia e dipendenza, rappresenta la normalità del contesto in cui operano le imprese e avviene
l’adattamento. Un primo tipo di analisi dei dinamismi nel rapporto tra impresa e ambiente suggerisce un
possibile ciclo virtuoso dell’adattamento.
Non tutte le imprese neonate sopravvivono alla selezione dei primi anni di vita e non tutte quelle
sopravvissute vogliono crescere. Chi resiste e sopravvive si adatta al meglio in ZI.
Tuttavia, è naturale che esistano imprenditori i quali si propongono di crescere grazie alle proprie
capacità.
Una tipologia di adattamento diversa da ZI, che abbia come obiettivo la crescita delle dimensioni
aziendali, può essere progettata stando nel primo quadrante, e realizzarsi evolutivamente nel secondo
quadrante grazie al reinvestimento dei profitti, all’utilizzo di specifiche risorse materiali e immateriali, in
particolare grazie al successo di politiche commerciali e/o tecnologiche.
L’impresa del primo quadrante può, dunque, muoversi strategicamente grazie alla differenziazione del
prodotto/servizio e all’innovazione della propria offerta.
Essa può passare nel secondo quadrante e adattarsi in ZII.
Prima di arrivare a tale risultato, verosimilmente essa si sarà creata una maggiore sicurezza negli
approvvigionamenti e avrà reso più stabili i rapporti con alcuni distributori, grazie a politiche di
contrattazione, oppure avrà tentato di consolidare la propria compagine sociale, acquisendo partner
finanziari e conquistando la fiducia dei mercati grazie a politiche di cooptazione, che attraggono nuovi
capitali e nuove persone nel governo aziendale. Possono anche essere utili, a tal proposito, forme di
cooperazione tra imprese, basate sulla fiducia reciproca, anche non formalmente strutturate.
La propensione ad assumere rischi via via maggiori può consigliare l’impresa già cresciuta a progettare
successive evoluzioni: ora dando vita a processi produttivi via via più efficienti e manovrando i prezzi al
ribasso; ora migliorando il proprio marketing; ora innovando radicalmente le caratteristiche del prodotto;
ora ristrutturandosi finanziariamente per lanciare strategie acquisitive di aziende concorrenti.
In tal modo, vengono poste le basi per realizzare il passaggio dal secondo al terzo quadrante.
Funzioni aziendali decisive per tale evoluzione sono non solo la ricerca e lo sviluppo di nuovi processi e
prodotti, ma anche l’adozione di soluzioni organizzative creative, talvolta anche l’uso spregiudicato
delle risorse finanziarie.
La disponibilità e l’uso pro-attivo di tali fattori possono, ad esempio, favorire la crescita del sistema
aziendale tramite integrazione verticale o tramite diversificazione della produzione, cioè tramite l’entrata
in settori di attività economica anche lontani da quello di origine.
Sorgono, in tal caso, i gruppi aziendali integrati oppure diversificati.

Qualora abbiano successo, tali strategie e politiche aziendali possono provocare un cambiamento del
contesto adattivo e delle caratteristiche dell’oligopolio in cui si sviluppa l’azione dell’impresa.
L’oligopolio può evolversi da “differenziato” a “concentrato”. L’impresa di nostro riferimento entra in un
nuovo e più favorevole rapporto con l’ambiente competitivo (vantaggio), che si rivela, nella matrice,
attraverso l’adattamento in ZIII.

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Si può ipotizzare che, ancor prima di affrontare tale passaggio, l’impresa abbia realizzato cooperazioni
“strutturate” con altri produttori del suo stesso settore, per il conseguimento di obiettivi condivisi.
La strategia di cooperazione può anche coinvolgere fornitori e/o distributori.

Dall’oligopolio concentrato può risultare vincente una mossa verso il definitivo controllo o la quasi-
occupazione del settore: ad esempio, l’acquisizione del controllo di altri membri dell’oligopolio e la
fusione tra imprese rappresentano altrettante soluzioni strategiche che possono condurre alla
formazione di un’entità dominante, la quale si adatta per monopolizzazione del settore.
Le capacità aziendali da attivare nelle nuove strategie sono molteplici: innanzitutto quelle finanziarie,
che consentono di portare a termine i processi di acquisizione o fusione e, quindi, ristrutturazione del
sistema aziendale; in secondo luogo, quelle di innovazione tecnologica, che sorprendono e spiazzano i
competitori.
Se la manovra strategica ha successo, il nuovo adattamento si realizza in ZIV.
Anticipando tale passaggio evolutivo, è possibile che alcuni oligopolisti si accordino per formare cartelli
orientati al controllo dei prezzi di vendita dei prodotti, o dei prezzi di acquisto dei fattori; oppure diano
luogo a coalizioni con altre imprese per influenzare (a valle) l’evoluzione del comportamento del
consumatore e/o per ostacolare (a monte) l’entrata di nuovi competitori.
Ancorché non tutte le imprese si evolvano in modo virtuoso, la matrice assume l’ipotesi che il sistema
aziendale focalizzato intenda essere un soggetto, non solo un oggetto del processo evolutivo.

Ogni zona grigia della “matrice” individua una transizione verso un adattamento sempre più voluto e
virtuoso. Il comportamento aziendale in tale zona è ipotizzato come potenzialmente introduttivo ad un
radicale cambiamento di strategia e, quindi, a un passaggio di quadrante.
Sono snodi di tale cambiamento, dapprima, la “contrattazione” dei rapporti con fornitori e distributori e
la “cooptazione” di partner finanziari o partner d’affari nella compagine aziendale; poi, la “cooperazione
strutturata” con altre imprese per raggiungere un obiettivo comune; e infine, in uno stadio molto
avanzato del ciclo di vita aziendale, la formazione di “cartelli” e “coalizioni” per limitare o controllare i
mercati in tutta la loro profondità.
E’ possibile passare dalla stato di necessità, che obbliga a comportamenti passivi (I quadrante), alla
scelta di strategie consapevolmente attive che selezionano i mercati e li rendono oligopolistici, basate
soprattutto sulla differenziazione del prodotto/servizio e sull’innovazione tecnologica/organizzativa.
Dalla competizione per differenziazione (II quadrante) è almeno potenzialmente breve il passo verso la
scelta di strategie ancor più avanzate di controllo, caratterizzate dall’uso di un set completo di fattori di
price e non price competition (III quadrante).
Dall’oligopolio concentrato è possibile, infine, attivare strategie aggressive che conducono
all’adattamento tramite monopolizzazione del settore o di più settori.
Se hanno successo, tali strategie portano al dominio nel IV quadrante.

12. Il ciclo contraddittorio dell’adattamento

Data un’evoluzione virtuosa, posso sempre verificarsi un’inversione di tendenza e una crisi.
Quest’ultima è annunciata dal perdurare di squilibri aziendali che conducono a ridimensionamenti e
ristrutturazioni. Se queste ultime operazioni non hanno successo, si arriva all’uscita dal settore.
Le risorse/competenze autogenerate e le condizioni di sistemicità aziendale, se non sono difese
adeguatamente e rinnovate con tempestivi investimenti, scompaiono o deperiscono.
Esse sono anche soggette a trasmigrazione: si pensi al passaggio di un manager particolarmente
esperto da un’azienda all’altra concorrente; o all’imitazione rapida di una innovazione di processo o di
prodotto da parte di un rivale.
Non solo indebolimenti o deficienze di risorse e competenze (Y), ma anche imprevisti movimenti di X –
ad esempio, una rapida crescita qualitativa e/o quantitativa della concorrenza diretta – possono dare
luogo, prima, a squilibri e, poi, a crisi aziendali che sospingono l’impresa focalizzata verso stati
precedenti, cioè verso rapporti intersistemici e tipologie di adattamento già conosciute, ma superate; o
addirittura conducono a rapporti non più sostenibili con l’ambiente, cioè all’exit dal settore.

Ad esempio, se lo Stato fa venire meno i propri aiuti alla produzione o modifica il quadro di riferimento
legislativo che protegge e regola un monopolio, rendendo il settore di fatto competitivo, l’impresa in
adattamento ZIV può trovarsi ad operare in un ambiente indesiderato, rifluendo verso l’adattamento ZIII.

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Altro caso è quello del monopolista che, appannato nel suo letargo strategico, subisce lo sviluppo di
una forza nuova e imprevista o, addirittura, di un nuovo ambiente, che ne possono pregiudicare
l’equilibrio sistemico e indebolire il posizionamento competitivo sia nel breve, sia nel lungo periodo.
Nel III quadrante, l’entrata di nuovi operatori nell’oligopolio, dotati di straordinaria capacità di
innovazione nella tecnologia o nel marketing, fa variare le X in senso incrementativi, il che può
trasformare radicalmente il settore, costringendo imprese già leader a cercare nuove soluzioni ai propri
problemi nel II quadrante e, quindi, a passare dall’adattamento in ZIII all’adattamento di tipo ZII.
In conclusione, procuratasi la desiderata omeostasi all’esterno e arrivata a un certo posizionamento
competitivo, l’impresa deve sempre prestare attenzione ad almeno tre problemi di gestione e
organizzazione, a prescindere dalla sua collocazione di quadrante:
- curare il radicamento nel settore e il continuo sviluppo delle proprie capacità competitive;
- non farsi sottrarre legalmente o fraudolentemente le risorse/competenze critiche (core e
distintive);
- anticipare i cambiamenti di ambiente, in modo tale da poter pensare ad adeguate risposte alle
pressioni competitive.
Quando si verificano cambiamenti tali per cui si accresce il determinismo ambientale e/o si riduce
l’orientamento al controllo, è importante che l’impresa dimostri a se stessa di saper reagire agli eventi.

8. Strategie evolutive e di adattamento


Il concetto di strategia “attiene alla relazione tra impresa e ambiente” e, quindi, le decisioni strategiche
sono primariamente interessate ai problemi esterni, non già ai problemi interni dell’impresa; esse
specificatamente si dedicano alla scelta del mix dei prodotti che farà l’impresa e del mercato o dei
mercati in cui essa li venderà.
Guardando al settore di riferimento e al desiderato mix di prodotti e mercati per cui lottare, i top
decision makers aziendali fanno un atto ben concreto: deliberano un “piano” di operazioni (plan of
action) con obiettivi generalmente a medio-lungo termine, e danno indirizzi perché i collaboratori
agiscano in conformità a tale piano, costruendo “programmi” annuali e/o infra-annuali (budget),
controllandone in seguito la realizzazione: è, questa, tipicamente un’attività di management.

L’idea di strategia non è dissociabile dall’idea del piano e dei programmi, da realizzare attraverso
concrete operazioni di produzione e vendita.
Strategia è ricerca consapevole di strumenti, metodi e azioni suscettibili di assicurare all’impresa
sopravvivenza, successo o vantaggio competitivo, in condizioni di equilibrio.

Proiettandosi verso l’ambiente e i mercati, la strategia aziendale può di fatto manifestarsi come:
• progetto e percorso d’azione totalmente dipendenti dall’ambiente, è questo il caso delle imprese
in libera concorrenza (strategia di “mantenimento” e non crescita);
• progetto e percorso d’azione che attivano in vario modo le capabilities dell’impresa per il
successo o il vantaggio competitivo: (strategia di “controllo” e crescita);
• progetto e percorso d’azione che prevedono modalità di collaborazione con altre imprese o
istituzioni per raggiungere un obiettivo condiviso nel settore (strategia di “cooperazione”).

Le imprese di piccola o piccolissima dimensione, soprattutto nei primi anni di vita, non sempre
elaborano plan of action formalizzati, perché sono fortemente dipendenti dalla pressioni competitive e
sono schiacciate dalla routine.
Nelle grandi imprese, invece, il plan of action è frutto di una progettazione formalizzata, resa possibile
dalla esperienza accumulata, dalla disponibilità e dal saper far uso delle risorse.
Oggetto e soggetto di cambiamento, l’impresa opera in un concreto sistema econonomico-sociale. La
strategia deve tradursi in operazioni orientate alla soluzioni di problemi di adattamento. Ci vuole
visione. Razionalità e visione sono richieste anche nel periodo breve, quando emergono opportunità o,
all’opposto, improvvise crisi.
La semplicità deve sempre contraddistinguere il pensiero e l’azione d’ordine strategico.

2. Formalizzare la strategia in un piano d’azione

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1. Ideazione di percorsi strategici alternativi: crescere; mantenere le dimensioni e le posizioni di
mercato; cooperare con altre imprese. Ogni percorso ipotizzato deve essere corredato da un sintetico
progetto di piano, con relativi obiettivi da raggiungere.

2. Scelta di uno specifico percorso, dopo una valutazione condivisa tra amministratori e top managers,
cui segue l’approvazione di un documento inerente alle operazioni da svolgersi, per conseguire
l’obiettivo desiderato. L’organo di governo ufficializza il piano di azione. L’organo direttivo elabora,
invece, tecnicamente, il piano da approvare. Ogni nuova strategia determina, generalmente,
nell’impresa, la necessità di un cambiamento di struttura organizzativa.

3. Implementazione, cioè sviluppo articolato della strategia attraverso la struttura organizzativa.


A tale scopo, è necessario che i dirigenti si identifichino pienamente negli obiettivi da perseguire, sia
partecipando all’elaborazione tecnica del plan of action da sottoporre all’organo di governo; sia
traducendo tale piano in “budget” annuali di ricavo e di costo, di finanziamento e di investimento, cioè
preventivando le operazioni necessarie per realizzare la strategia.
Significa farla passare attraverso la gerarchia aziendale. Simon attribuisce una particolare importanza
all’interiorizzazione dei fini da raggiungere, quando si implementa la strategia nella struttura.
L’implementazione della strategia non solo comporta “fiducia” in quello che gli amministratori hanno
deliberato, non solo “lealtà” del subordinato gerarchico rispetto al superiore, ma anche assorbimento e
identificazione personale negli obiettivi pianificati.

4. Controllo: ogni piano d’azione e ogni budget devono essere di tempo in tempo sottoposti a verifica,
avuto riguardo ai risultati che essi producono.
Nell’elaborare piani e programmi, anche le grandi imprese devono pensare in piccolo, articolando le
operazioni mese per mese, sottosistema per sottosistema, considerato che quanto più è instabile il
settore e quanto più è aperta la concorrenza, tanto più è difficile definire obiettivi che reggano a ogni
prova. Alla fine di ogni anno, sarà un obbligo controllare come la specifica strategia, articolata nei
programmi annuali, abbia contribuito all’equilibrio o al disequilibrio del sistema aziendale.
Delle informazioni rivenienti da tale controllo si dovrà rendere conto sia agli shareholders, sia agli
stakeholders interessati al successo dell’impresa.

5. Raccolta ed elaborazione delle informazioni relative all’efficacia o inefficacia della strategia: ogni
informazione di ritorno dalla fase di controllo è una risorsa per l’impresa, da utilizzare in funzione
dell’ottenimento dell’obiettivo progettato; o del cambiamento di tale obiettivo.

Il dubbio dovrebbe sempre caratterizzare lo strategist aziendale. Se l’informazione che ricava


periodicamente è positiva, egli si sentirà certamente confortato nel continuare il percorso prescelto;
nello stesso tempo, egli dovrà anche chiedersi se, avendo raggiunto un obiettivo, possa fare di meglio
in futuro. Se l’informazione che trae dal controllo è di tipo negativo, ancora di più egli dovrà farsi
prendere dal dubbio e verificare la validità delle precedenti decisioni.
La strategia non si modifica facilmente. Innovare continuamente non è, peraltro, sempre conveniente,
né può essere ridotto a routine.
Si cambia la strategia quando si ravvisano opportunità o minacce radicalmente nuove, tali da
consigliare di rielaborare l’orientamento di fondo, la tempistica, le modalità, la successione delle
operazioni aziendali.

3. Brevi note sui percorsi strategici

Crescita
Equivale a sviluppo dimensionale dell’impresa. Quest’ultimo può essere misurato attraverso indicatori
diversi: l’aumento della capacità produttiva, l’aumento dell’attivo patrimoniale, oppure l’incremento dei
ricavi delle vendite.
L’incremento della capacità produttiva è diretto al raggiungimento della “dimensione ottima minima”
(DOM), corrispondente alla produzione che ottimizza il livello delle economie di scala.
L’acquisizione di quote di mercato aggiuntive consente l’incremento dei ricavi aziendali, al fine di
reintegrare i costi totali della crescita.
In un dato periodo di tempo, la crescita può realizzarsi in modo differenziato:

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a) Sviluppo dimensionale con aumento complessivo dei costi senza proporzionale aumento RT. La
conseguenza è lo squilibrio economico di periodo, con pericolo di esclusione dal campo competitivo a
più protratta scadenza, anche per lo squilibrio finanziario che ne può derivare.
b) Sviluppo dimensionale con aumento complessivo dei ricavi più che proporzionale rispetto ai costi.
Ciò determina un positivo contributo alla redditività aziendale di periodo. Sono soddisfatti sia i
proprietari, che si attendono un rendimento positivo del loro investimento finanziario, sia i manager, che
si sentono gratificati in termini di maggior potere e più elevati incentivi e stimoli alla carriera.
c) Sviluppo dimensionale con aumento complessivo dei ricavi allineato a quello dei costi. È possibile
che l’impresa goda di un aumento della quota di mercato a discapito di quella dei concorrenti diretti, a
causa di una crisi di questi ultimi o dell’efficacia del proprio marketing aziendale.
Si tratta di una modalità di crescita che accontenta i dirigenti, ma scontenta i proprietari del capitale,
che puntano di volta in volta a una sempre maggiore redditività del loro investimento.
d) Aumento della quota di mercato, dei ricavi e della redditività, senza che siano stati realizzati
significativi nuovi investimenti per lo sviluppo della dimensione aziendale nello stesso periodo.
Ciò significa che:
- se il settore è complessivamente in crescita, le politiche dell’impresa focalizzata hanno
comportato un successo o un vantaggio competitivo;
- se il settore è in via di maturazione o addirittura sta declinando, l’impresa è riuscita a sfruttare
nicchie o segmenti interessanti della domanda, praticando un’efficace politica di innovazione
del prodotto.

Quando un’impresa decide di crescere può optare per.

Espansione orizzontale:crescita dell’impresa attorno al proprio core business, all’interno dell’originario


settore di entrata. La strategia si basa sullo sviluppo di una unica produzione e sull’allargamento e
approfondimento delle relazioni col consumatore finale, ai fini dell’incremento della quota di mercato del
prodotto (o della prescelta gamma di prodotti).
In proposito, si parla di strategia “a livello di singolo business” o di crescita monosettoriale. Tale
strategia deve, generalmente, incontrare e soddisfare domande differenziate del consumatore.
L’impresa monosettoriale cerca la dimensione ottima minima, corrispondente alla capacità produttiva
che minimizza il costo medio unitario di lungo periodo della produzione.
Tale modalità di crescita è tipica delle imprese che, uscite dai primi anni di vita, cioè dalla loro minorità,
vogliono diventare grandi, restando però in un unico settore, quello di prima entrata.

Integrazione verticale: sviluppo dimensionale dell’impresa che si snoda nei settori a monte (fornitori)
e/o a valle (distributori, clienti finali) del core business aziendale.
I new business e il core business sono strettamente funzionali l’uno all’altro.
Ricerca della dimensione ottima minima, economie di scala e accentuazione della differenziazione del
prodotto caratterizzano la strategia.
Il successo dello sviluppo integrato verticalmente è condizionato dall’effettiva disponibilità di risorse
finanziarie, nonché di capacità commerciali, risorse manageriali, conoscenza organizzativa o
tecnologica. Realizzata, alla fine, la strategia di integrazione verticale, l’impresa internalizza nel proprio
sistema transazioni connotate dall’incertezza, strappandole al mercato.
E’ possibile che l’internalizzazione di transazioni coinvolga prima o poi anche imprese clienti, cooptate
nel sistema, nell’interesse della stabilizzazione della domanda dei beni del produttore.
a) si configura entro i confini di un’organizzazione maggiormente complessa di quella
monobusiness, poiché comprende più aziende o unità produttive del tutto funzionali l’una
all’altra, ancorché separate per tipo di produzione o per localizzazione territoriale;
b) talvolta si formalizza in gruppo di imprese, quando l’originario soggetto di diritto si costituisca in
capogruppo e le unità produttive controllate vengano rese autonome dal punto di vista
societario, ancorché siano dipendenti in linea strategica, in quanto integrato verticalmente.

Diversificazione della produzione: entrata dell’impresa, già monosettoriale o verticalmente integrata,


in settori positivamente correlati a quello di provenienza (related diversification).
In ciascuno dei settori in cui avvengono le nuove entrate sono insediate le unità aziendali distinte, che
autonomamente stabiliscono relazioni con i mercati degli specifici input e i mercati degli specifici output,
sotto l’orientamento strategico e il coordinamento dell’unità aziendale controllante.

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Le unità controllate si possono gerarchicamente configurare in vario modo rispetto all’unità controllante.
Possono emergere due diverse esigenze dell’unità controllante:
a) presidiare le specifiche relazioni prodotto-mercato attraverso unità organizzative dedicate, nella
impossibilità di farlo direttamente in modo efficiente: ciascuna unità diventa “divisione” della
totalità sistemica, sicché diventa più complessa la struttura aziendale, ma non si forma un vero
e proprio “gruppo” di imprese;
b) assegnare a ciascuna divisione una soggettività giuridica, col che si dà vita ad un “gruppo”
strutturato in una società controllante e in più unità controllate; sorto il gruppo di imprese,
questo si configura, quindi, come gruppo diversificato e multidivisionale, controllato da una
holding apicale.
Occorre distinguere fra related diversification, ossia diversificazione con entrata in settori positivamente
correlati l’uno all’altro, e unrelated diversification, ossia diversificazione che procede con entrata in
settori non positivamente correlati l’uno all’altro, tanto meno rispetto a quello originario.
Quanto più la diversificazione è unrelated, tanto più il gruppo che nasce si configura come
“conglomerato” di imprese (conglomerazione). Ciò presuppone l’esistenza di una holding in grado di
controllare e coordinare efficacemente imprese molto dissimili l’una dall’altra, ponendo a tutte obiettivi
di reddito sostenibili nel tempo.
Le logiche economiche che sono alla base della diversificazione related e di quella unrelated sono,
dunque, diverse: nel primo caso si tratta di una logica industriale o di servizio reciproco tra le diverse
produzioni e divisioni; nel secondo caso, si tratta di una logica di tipo finanziario, talvolta solo
speculativa.
Quando ci si diversifica, si ipotizza che il costo della produzione congiunta dei beni sia inferiore al costo
della produzione di A, B e C realizzata in imprese separate e indipendenti l’una dall’altra.
Nel caso in cui ciò effettivamente si verifichi si realizzano le cosiddette economie di raggio d’azione.
La struttura organizzativa più adeguata alla strategia di diversificazione risulta essere quella
multidivisionale.
Si tratta di una struttura decentrata solo in senso tecnico-organizzativo; la libertà d’azione delle diverse
unità aziendali è infatti limitata dalle decisioni della controllante, che agisce in quanto holding dell’intero
gruppo.

Crescita endogena e crescita esogena


Sia quando avviene per espansione orizzontale, sia quando avviene per integrazione verticale o per
diversificazione, la crescita può svolgersi in due diversi modi: per via endogena (o interna) oppure per
via esogena (o esterna).
Crescere per via endogena implica fare ricorso alle risorse e competenze maturate all’interno dei
confini aziendali, sviluppando la capacità produttiva che c’è, oppure reinvestendo tali risorse e
competenze in settori diversi da quello dell’attività originaria.
Crescere per via esogena significa, invece, fare acquisizioni di altre imprese, mantenendo la
personalità giuridica di ciascuna (in tal caso si forma un gruppo), oppure facendone unità incorporate in
un unico sistema aziendale (in tal caso si ha una fusione per incorporazione).

Crescita per via endogena e crescita per via esogena possono essere monosettoriali, cioè avvenire
all’interno del settore originario, oppure possono dar luogo a imprese integrate verticalmente o, infine, a
imprese diversificate.

La scelta ora della via interna, ora della via esterna, è astrattamente neutrale.
La convenienza ad investire attraverso l’una o l’altra modalità va valutata in funzione delle opportunità
che, in un determinato momento, offrono il settore o i settori di attività economica in cui l’impresa opera.
Scegliere un’opzione invece che un’altra, nella crescita, e poi cambiarla, si configura come
un’opportunità che offre l’ambiente competitivo e non come una necessità.
In altre parole, l’impresa può scegliere uno solo dei percorsi sopra nominati e limitarsi ad esso; oppure
può progredire seguendo via via itinerari diversi, secondo le convenienze offerte dai differenziati stati
dell’ambiente, mettendo in campo tutte le proprie capacità strategiche.

4. Internazionalizzazione delle attività aziendali

Si può crescere in vario modo e si possono al tempo stesso internazionalizzare le attività del sistema
aziendale.

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Particolarmente titolata ad assecondare l’internazionalizzazione è la strategia di crescita, ma
opportunità in questo senso non mancano alle imprese che scelgono l’opzione della non crescita o
della cooperazione.
Anche se sono di numero sempre più elevato i fenomeni di internazionalizzazione precoce, l’impresa
nasce normalmente senza una vocazione a svolgere attività complesse sull’estero.
E’ più probabile che l’organizzazione neonata o di piccola dimensione (A), fornisca input ad un’impresa
nazionale di maggiori dimensioni (B) che vende all’estero i propri output: può dirsi indirettamente
internazionalizzata, perché serve input utili alla produzione di un’impresa esportatrice.
E’ possibile che l’impresa cresciuta arrivi alla decisione di aprire all’estero delle “sussidiarie” di
produzione oppure proprie “filiali” di acquisto o vendita.
Il caso di specie è quello dell’impresa, già esportatrice, che trovi convenienza a localizzare all’estero
anche impianti di produzione o distribuzione, o basi logistiche. Attraverso i nuovi insediamenti nel
paese ospitante, essa diventa multinazionale.

La multinazionalizzazione è quella fase del processo di internazionalizzazione in cui l’impresa ha non


solo clienti esteri e non si avvale solo di una rete distributiva propria o di agenti esteri, ma insedia
anche propri presidi organizzativi in uno o più paesi ospitanti, indipendentemente dal percorso di
crescita seguito. Per diventare e restare un’impresa multinazionale occorrono grandi dimensioni.
Si annoverano, peraltro, anche casi di “piccole multinazionali”, che restano minori in patria, ma riescono
a insediare e gestire con successo iniziative di varia dimensione in altri paesi.
Il caso tipico della multinazionale è, però, il caso dell’impresa di vaste dimensioni che ha acquisito
capacità organizzative tali da potersi internamente differenziare in una holding generalmente radicata
nel paese di origine; e in società controllate in uno o più paesi ospitanti.
Il gruppo multinazionale è, quindi, formato da due entità: il sottosistema dell’impresa “madre” e i
sottosistemi delle imprese “filiate” all’estero.
In quest’ambito, si può citare il caso dell’impresa globale ovvero dell’impresa che sceglie di insediarsi
ovunque, considerando il globo come un mercato senza confini.

Per poter essere presenti e operare con successo in tutto il globo, occorre avere prodotti desiderabili da
un consumatore “universale”; e, nel contempo, disporre di capacità di produzione, marketing e altre
risorse/ competenze appropriate anche agli ambienti di riferimento, rendendo il proprio comportamento
del tutto compatibile con le diversità socio-culturali dei paesi ospitanti. Di qui la complessità dell’agire
“globalmente”. È necessario avvalersi del lavoro professionale di collaboratori esperti e, se possibile,
radicati nel paese ospitante. Servono manager a-nazionali, capaci di affrontare e la variabilità nel nesso
domanda/offerta in una pluralità di situazioni operative.
Emerge una precisa differenza tra impresa globale contemporanea e impresa multinazionale classica.
L’impresa multinazionale classica è l’impresa tipica degli anni ’50 e ’60 del XX secolo, che si localizza
all’estero insediando i propri impianti di produzione, le proprie filiali commerciali e basi logistiche
nell’ottica dell’appropriazione e dell’uso intensivo delle risorse dei paesi di destinazione. Il rapporto è di
tipo imperialistico.
L’impresa globale del XXI secolo è, invece, l’impresa che tende a sviluppare la cooperazione con tutte
le forze produttive nel paese che ne accoglie le operazioni. L’impresa è consapevole dell’importanza di
radicarsi in ciascuno dei paesi ospitanti; di essere globale e locale al tempo stesso, come sistema
diffusamente vitale.

5. Gruppi di imprese, disinvestimento, esternalizzazione di attività aziendali

Il gruppo è un sistema aziendale costituito di più imprese, ciascuna dotata del proprio soggetto
giuridico, ma con un comune soggetto economico. Si distinguono l’impresa controllante e le imprese
controllate. Altre imprese, meramente partecipate, si dicono collegate.
Il controllo può manifestarsi in linea capitale (controllo azionario) o per via contrattuale (es.:
franchising).

I gruppi aziendali possono nascere attraverso una delle seguenti modalità:


a) per sviluppo endogeno, cioè per gemmazione dall’impresa “storica” di più società controllate o
collegate, nel medesimo o in altro settore di attività economica, ciascuna delle quali viene
dotata di personalità giuridica;
b) per sviluppo esogeno dell’impresa “storica”, cioè per acquisizione di società presenti nel
medesimo settore di attività economica o in settori di attività diversi da quello originario;

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c) per sviluppo collaterale (fenomeno meno importante dei precedenti), nel caso di un’impresa che
meramente necessiti di funzioni di “supporto” e soddisfi tale bisogno attraverso la creazione o
acquisizione di società di servizio alla produzione principale.

A parità di genesi, si distinguono gruppi monosettoriali, cioè costituiti di imprese operanti in un unico
settore di attività economica; gruppi integrati verticalmente; gruppi diversificati; gruppi conglomerati
(nazionali o internazionali).
Si distinguono, infine, i gruppi che hanno il core business nell’industria (gruppi industriali) dai gruppi che
hanno il core business nella pura finanza, cioè controllano e gestiscono partecipazioni azionarie (gruppi
finanziari); si annoverano anche altre entità che gestiscono un business di servizi, operando grandi
infrastrutture (gruppi di public utilities).
Il soggetto economico del gruppo è il soggetto economico dell’impresa controllante (holding).
In particolare, nei gruppi internazionali si distinguono holding-casa madre e imprese controllate-
sussidiarie.
Il sistema del gruppo è costituito di due fondamentali subsistemi:
- il sottosistema dell’impresa “controllante”;
- il sottosistema delle “controllate” o semplicemente “collegate”.

Opposta alla strategia della crescita sia endogena che esogena è la scelta dei top decision makers
aziendali di dimettere e, quindi, fare a meno ora di singole unità organizzative o funzioni di
management, ora del controllo di singole società.
E’, quindi, possibile che:
a) unità/funzioni del sistema aziendale siano eliminate ovvero cessino di esistere;
b) altre, invece, siano cedute ad un’altra entità privata o pubblica e se ne ricavi un’entrata
finanziaria;
c) altre, infine, vengano esternalizzate, cioè escano formalmente dal sistema, o per essere
amministrate e gestite con terzi, o per essere amministrate e gestite da un’entità controllata
dall’impresa stessa che disinveste.

La decisione a tutto ciò inerente corrisponde ad un disinvestimento di parti o sottosistemi aziendali (si
dice disintegrazione verticale la decisione di disinvestimento operata da una organizzazione produttiva
già integrata verticalmente).
La sua immediata conseguenza è il rimpicciolimento e/o lo snellimento delle dimensioni del sistema.
Venute meno alcune parti, l’impresa che disinveste può comunque trovarsi nella necessità di
continuare a disporre del bene o servizio originariamente prodotto, e chiederlo al mercato (to buy).
E’ possibile che la dismissione di un’unità già funzionalmente integrata o di una società controllata sia
fatta a favore di personale dipendente dell’impresa. E’ questo un caso specifico di creazione di
impresa.

Sia nel caso di creazione di imprese da parte del personale già alle dipendenze, sia in tutti gli altri casi
di intervento di terzi compratori, l’organizzazione che ebbe ad operare l’originario disinvestimento
produttivo può entrare in rapporti cooperativi con le parti che si sono autonomizzate, attivando
differenziati strumenti giuridici o soluzioni strategiche:
a) contratti di co-progettazione e/o co-produzione di un unico prodotto;
b) contratti di finanziamento;
c) assunzione di partecipazioni di minoranza;
d) creazione di joint venture azionarie o non azionarie per cogliere un’opportunità di mercato e
realizzare un business occasionale;
e) assegnazione di commesse o conferimento di ordini di acquisto in serie;
f) incentivazione dell’entrata della controparte in una rete guidata da chi l’ha dismessa.

Dall’originario gruppo aziendale è possibile si generi un nuovo sistema di relazioni inter-impresa.


Si rimpicciolisce l’azienda-gruppo, ma si dilatano i confini dei suoi rapporti. E’ possibile che si formi un
network, comprendente il gruppo di origine e numerose altre imprese.

6. Non crescere

Non crescere è una alternativa strategica, che può caratterizzare l’impresa sia nei primi anni di vita, sia
in altre circostanze dell’evoluzione aziendale.

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a) mantenere il posizionamento competitivo raggiunto, in termini di quota di mercato e/o
dimensioni aziendali, conservando tutte le proprie capabilities;
b) cooperare con altre imprese per raggiungere un obiettivo comune, condividendo capacità
competitive. La cooperazione inter-aziendale può avvenire “in rete” (networking), oppure “senza
rete” (joint venturing).

La scelta sub a) può essere:


• “consapevole”, per la bassa propensione al rischio del soggetto economico o perché
quest’ultimo privilegia non la crescita dimensionale, ma il miglioramento della redditività;
• “necessitata”, il che implica una strategia di difesa della dimensione e della quota di mercato cui
l’impresa è pervenuta nel suo ciclo di vita, dati certi limiti di sviluppo del settore in cui essa
opera o, all’opposto, date le forti pressioni che tendono ad escluderla dalla competizione.
Può essere innanzitutto la decisione di pensare nella direzione della massimizzazione del reddito, nelle
condizioni date, oppure, all’opposto, dall’esistenza di un deficit di risorse e competenze incolmabile,
almeno nel breve periodo, qualora si volessero attivare processi di crescita.
Può altrimenti verificarsi una insostenibile turbolenza dell’ambiente competitivo che obbliga a rivedere i
piani di crescita. Anche la maturità in cui cade lo specifico settore in cui l’impresa è inserita può indurre
all’assunzione di scelte “conservative” delle dimensioni raggiunte; o, alternativamente, indurre al
drastico taglio dei costi (restructuring) e/o al rimpicciolimento delle dimensioni (downsizing).

7. Accordi e cooperazione interaziendale


La cooperazione interaziendale si configura come una modalità sui generis di organizzazione e
coordinamento dell’attività economica.
Due o più imprese si dicono in cooperazione quando:
- hanno un obiettivo comune da raggiungere;
- condividono l’utilizzo di risorse anche diverse, ma complementari;
- predefiniscono la durata delle operazioni necessarie a raggiungere il comune obiettivo.

La cooperazione interaziendale è infrequente nei primi anni di vita dell’impresa, poiché la cooperazione
presume una capacità di selezione del partner basata sulla esperienza. Assume forme più esplicite nel
periodo di selezione competitiva.
La cooperazione tra aziende di produzione industriale e di servizi, formalmente indipendenti l’una
dall’altra, rappresenta concettualmente un percorso strategico alternativo alla crescita dimensionale.
La cooperazione non riguarda solo le imprese di minore dimensione. Esistono momenti del ciclo di vita
dell’azienda in cui può risultare più conveniente cooperare che puntare allo spiazzamento della
concorrenza o affrontare rischi sconosciuti.
Può ora emergere a monte, tra un produttore di beni o servizi finali e uno o più suoi fornitori; ora a valle,
tra un produttore e più distributori; ora, infine, lateralmente, tra produttore manifatturiero e altro
produttore.
A quest’ultimo riguardo, per una cooperazione efficace, si ipotizza che si incontrino imprese
distintamente “specializzate”, che alimentano le proprie funzioni e operazioni con risorse e competenze
uniche nel loro genere: ad esempio, si ipotizza che le attività attorno alle quali l’impresa (X) si
specializza siano complementari alle attività svolte dall’impresa (Y) o a quelle di altro ente (Z).
Pertanto, le attività dell’uno e dell’altro tipo possono essere organizzate e coordinate in modo tale da
configurare un unitario processo di produzione e scambio.
Può coinvolgere imprese “simmetriche”, cioè che abbiano raggiunto singolarmente dimensioni simili,
ma non abbiano da sole le sufficienti risorse per cogliere nuove opportunità di mercato, o anche per
affrontare particolari difficoltà intervenute durante il loro ciclo di vita.
Oppure può riguardare imprese “asimmetriche”, ove una ha funzioni di leadership, trascinando altre
organizzazioni produttive verso il comune obiettivo.
La cooperazione può avvenire tra piccole imprese, tra grandi imprese, tra piccole e grandi imprese.
La cooperazione assume una varietà di forme strutturali e legali, ma tutte hanno la medesima
piattaforma strategica: l’esistenza dell’accordo, tra due o più persone fisiche o giuridiche, a lavorare di
concerto per un certo periodo di tempo condividendo risorse/competenze di tipo differenziato, in vista
del conseguimento di un obiettivo comune.
Informale o formale che sia, l’accordo è il presupposto della effettiva cooperazione.

L’accordo di tipo informale si basa su rapporti interpersonali di fiducia e lealtà reciproca; la


cooperazione si realizza in modo spontaneo e non perfettamente strutturato.

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L’accordo di tipo formale è strutturato e complesso.
La formalizzazione dell’accordo e della cooperazione può avvenire secondo due distinte modalità:
• attraverso un contratto per la progettazione del lavoro da realizzare, la condivisione degli
obiettivi, la definizione delle modalità della gestione e organizzazione delle risorse (non equity
cooperation);
• attraverso lo scambio di quote o azioni delle società coinvolte, con la cooptazione reciproca di
amministratori nella governance di ciascuna azienda interessata al business comune; oppure
mediante la costituzione di una impresa ad hoc (equity cooperation).

Ulteriore elemento unificante tutte le tipologie di rapporti cooperativi è costituiti dal fatto che ognuna di
esse comprende un aspetto di limitazione reciproca dei poteri di iniziativa.
A ciò fanno da benefico contrappeso:
a) la mutua assicurazione contro il rischio di essere soli nel fare impresa;
b) la creazione di appropriati “cuscinetti” organizzativi, non solo per minimizzare i costi, ma anche
per affrontare l’incertezza.
Le forme cooperative di organizzazione dell’attività economica si distinguono dalle aggregazioni di
imprese con formazione di gruppi, perché le prime non prevedono il controllo finanziario di una parte
dell’altra.
Il “disegno consapevole” prevede una strategia condivisa, non il controllo del capitale.
E’ emblematico, in proposito il caso della “rete” di imprese, dove la strategia condivisa si definisce:
a) ora secondo un ordine libero da schemi, grazie alla conoscenza reciproca delle rispettive
capabilities, maturate nel tempo, e dati solidi rapporti di fiducia;
b) ora sotto la guida di un’impresa centrale, dotata di dimensioni, esperienza, capacità progettuali
maggiori di quelle delle altre imprese operanti nel comune disegno: essa dà input strategici e
può anche prestare fattori produttivi, ma non controlla il capitale dell’impresa societaria o
dell’impresa individuale che fa parte della “sua” rete.

8. Reti di imprese

Continuità dei rapporti reciproci e adattamento strutturato contraddistinguono le tipologie di


cooperazione interaziendali che si definiscono reti (network).
E’ peculiare della rete, che tutte le imprese in essa incluse siano impegnate nella soluzione dello stesso
problema di sopravvivenza a lungo termine e tutte si adattino con funzioni volute o non volute di
reciproco sostegno. Ogni organizzazione è una risorsa per le altre.
La rete è caratterizzata dai seguenti elementi:
a) presenza di relazioni contrattuali multiple, intense e ripetute nel tempo tra i soggetti coinvolti,
prevalentemente biunivoche;
b) rilevanza della dimensione sociale-interpersonale delle relazioni;
c) convivenza di simmetricità e di asimmetricità tra i “nodi” della rete, ossia presenza di gradi
diversi di omogeneità produttiva e commerciale delle aziende in cooperazione;
d) autonomia formale dei soggetti coinvolti, anche quando esista un’unità “centrale” che guidi la
costruzione e il funzionamento della rete;
e) modalità di coordinamento interaziendale basate sull’aggiustamento reciproco (cioè su
programmazioni non rigide, salvo il caso di un processo produttivo tecnologicamente continuo)
e sulla legittimazione reciproca, come soluzioni idonee anche a prevenire, non solo a ridurre
l’intensità dei conflitti.
La rete tra imprese può emergere spontaneamente (autoregolandosi nella sua evoluzione) tra
organizzazioni produttive di uno stesso settore di attività economica o anche tra organizzazioni
appartenenti a settori diversi di attività economica. E’ questo il caso delle reti di mercato (à la Thorelli).
Poiché si definiscono e si regolano da sé, le transazioni che si realizzano in una tale rete sono di tipo
“organico”. In altri termini, le attività di questo tipo di network sono caratterizzate dalla libertà di entrata
e uscita, dall’automatismo nella formazione dei contratti, dalla prevedibilità e chiarezza dei
comportamenti soggettivi. Per questo si dicono “di mercato”.
In altri casi, la rete viene, invece, creata consapevolmente su iniziativa di un’impresa “centrale”, che
coinvolge produttori minori e/o fornitori e/o distributori, in un condiviso progetto da realizzare.
E’ questo il caso delle reti guidate (à la Lorenzoni)

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La collaborazione tra più soggetti può limitarsi al momento dell’elaborazione di un’idea innovativa, ma
più spesso continua fino alla realizzazione e commercializzazione di un prodotto finito, anche di un
bene complesso.
E’ possibile che un’organizzazione si segnali rispetto alle altre per dimensione, capacità di
progettazione, vastità di penetrazione dei mercati, assumendo il compito di dividere e pianificare il
lavoro interorganizzativo, prendendo la leadership della rete.
Essa è “centrale” rispetto ad una “periferia” di altre organizzazioni, ma non controlla un gruppo
aziendale. Esercita un’intelligenza ordinatrice, ma non esercita il diretto controllo del capitale della
periferia. Ogni unità della rete è formalmente autonoma dall’altra, ma dipende dall’impresa leader per
quel che riguarda l’orientamento strategico.
Un esempio di rete guidata è costituito dai network basati su contratti di franchising. Si tratta di una
tipologia di cooperazione tendenzialmente stabile, che guarda non solo a monte, attraverso il
decentramento della manifattura a unità minori, ma anche a valle della produzione del manufatto.
In periodo di new economy, un altro esempio di rete guidata, orientata a valle, è costituito dal sistema di
stabili interazioni cooperative che si stabilisce tra la grande impresa informatica e le imprese
distributrici, generalmente di piccola o media dimensione.
La collaborazione che si verifica tra la grande impresa informatica (assemblatrice di hardware e
software “di base”) e le piccole imprese produttrici di software personalizzato costituisce un altro
esempio di rete di relazioni tendenzialmente stabile, che, diversamente dal precedente caso, è
orientata a monte di un processo produttivo “centrale”.
Può emergere una rete anche all’interno di un gruppo aziendale, quando una parte di esso entra in
molteplici, forti e stabili relazioni di mercato con altre imprese del gruppo o con imprese esterne del
tutto indipendenti (ciò accade, di frequente, nei gruppi internazionali di imprese, quando la holding
stimola le controllate a entrare in rapporti altamente cooperativi con l’ambiente ospitante), “legandole”
però di fatto all’interesse del gruppo e, in particolare, della capogruppo.
Siamo in questo caso in presenza di relazioni interorganizzative strutturate “a gruppo con reti” .

I distretti industriali sono reti che si caratterizzano per la forte concentrazione territoriale delle
imprese che le compongono. Generalmente, tali imprese producono una gamma “settoriale” di beni,
agendo in durevole, stabile e intensa reciproca collaborazione.
E’ possibile operare una distinzione tra distretti “guidati” e distretti “di mercato”.
Laddove esista un distretto guidato, emerge sempre un’unità che elabora una business idea e assolve
funzioni di progettazione sia della gamma dei prodotti, sia della strategia del complessivo sistema. Può
essere:
a) un’impresa leader, che gerarchizza le relazioni reciproche, in grado di influenzare
significativamente la sopravvivenza nel lungo termine di tutte le componenti del distretto;
b) un’impresa coordinatrice, che assume un ruolo di elaborazione strategica e di stimolo alla
continuità della collaborazione nell’area del distretto. Al coordinatore spetta il ruolo di gestire il
flusso di comunicazione tra i diversi attori distrettuali ed integrarne i diversi apporti,
consentendo la valorizzazione della formula imprenditoriale basata su competenze e relazioni.

E’ sempre rilevante la dimensione territoriale dell’entrata di un’impresa in un qualsiasi settore di attività


economica.
Se l’impresa si localizza in un particolare territorio, ove esistono numerose altre organizzazioni di tipo
diverso che potenzialmente le offrono servizi alla produzione, essa trova una situazione “esterna” che
le facilita lo scambio e la sopravvivenza, almeno a breve.
In tali condizioni, se sopravvive, l’impresa acquisisce un vantaggio di appartenenza, che ne può elevare
significativamente, a lungo termine, la competitività nei mercati del settore di riferimento.

9. Crisi, risanamento o uscita dall’ambiente competitivo

Anche se l’impresa ha seguito con efficacia un percorso strategico, possono determinarsi sospensioni o
interruzioni del successo pro tempore ottenuto.
Ogniqualvolta si determini tale stato di sistema, si può affermare che si è in presenza di una crisi di
impresa.
Una crisi aziendale può essere causata da fattori che hanno varia origine, interna o esterna. In ogni
caso, le crisi pongono in discussione l’adattamento.
Se dalla crisi si determina l’uscita dell’impresa dal campo competitivo, tale risultato implica:

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a) la cessazione consapevole delle operazioni, sotto la guida dei top decision makers aziendali,
con conseguenze economiche e finanziarie ragionevolmente prevedibili;
b) la cessazione necessitata delle operazioni, con fallimento dell’impresa e conseguenze
economiche e finanziarie prevedibilmente negative per la persona fisica o la persona giuridica
che controlla il sistema.

Non sono sempre irrisolvibili. La complessità delle decisioni da prendere è proporzionale alla gravità
delle difficoltà intervenute nell’evoluzione e nell’adattamento.
Le soluzioni possono comportare ora lievi cambiamenti di strategia e struttura, ora innovazioni radicali
di sistema (turnaround: sub e) e f) ) che conducono ad un “nuovo inizio”.
Le operazioni di recupero dalla crisi possono comportare le seguenti soluzioni:
a) una prioritaria attenzione alla presente e futura formazione dei costi (restructuring);
b) scelte di disinvestimento di attività, con riduzione della dimensione aziendale (downsizing);
c) operazioni di disintegrazione verticale, nel caso di imprese già verticalizzate;
d) cooperazioni puramente difensive, progettate con altre imprese o istituzioni dell’ambiente
generale;
e) mutamento del soggetto economico e/o dell’originario business dell’impresa;
f) fusione con altre imprese o incorporazione dell’impresa in difficoltà in altra organizzazione
produttiva.

Il turnaround implica, generalmente, cambiamenti di persone alla guida delle operazioni aziendali.

Quando la crisi si rende esplicitamente manifesta, si pongono alcuni canonici “dilemmi” per i vecchi e
per i nuovi top decision makers aziendali:
- conservare tutti i “momenti” del processo amministrativo all’interno del sistema di impresa, così
come essi sono, o esternalizzare qualche funzione o operazione, acquistando da terzi uno o più
fattori o beni intermedi già prodotti all’interno?
- Cambiare a livello “locale” oppure cambiare in modo radicale a livello “generale” sia la strategia,
che la struttura o, addirittura, le finalità dell’impresa?
La scelta dell’una o dell’altra opzione dipende dal concreto caso aziendale.
La crisi può rappresentare un’opportunità per promuovere cambiamenti strutturali, strategie innovative,
stili di leadership differenti, ovvero un “nuovo inizio”.
Dalle crisi possono emergere imprese che diventano più forti di prima; che recuperano posizioni
competitive perdute e, grazie a una strategia e a una struttura risanate, possono crescere più
rapidamente di prima, e meglio delle imprese concorrenti.

9. Cambiamento. Innovazioni, resistenze, “drammi”


2. Tipologie di cambiamento

I cambiamenti nelle imprese possono verificarsi:


a) in risposta a un movimento esterno ai loro confini, dovuto ad una modificazione delle condizioni
ambientali in cui il sistema si trova ad operare;
b) in conseguenza di un movimento autonomo delle variabili interne del sistema.

Alcuni cambiamenti sono spontanei, altri discrezionali, cioè sono provocati dalla “mano visibile” della
proprietà e/o dei top managers.

Cambiamento strategico: investe in profondità il modo di porsi dell’impresa nei confronti delle altre
organizzazioni complesse e, quindi, il posizionamento competitivo reciproco. Ogni cambiamento di
strategia comporta un passaggio importante nel ciclo di vita aziendale. È innovativo per l’assetto
sistemico e comporta, generalmente, radicali cambiamenti di strutture e processi organizzativi, nonché
cambiamenti di metodo e contenuto nella formulazione, implementazione e attuazione di piani e
programmi aziendali.

Cambiamento organizzativo: riguarda le caratteristiche delle differenziazione e della strutturazione che


segnano il sistema aziendale al suo interno. Esso può manifestarsi:

a) nel senso di una modificazione dei sistemi di personalità e dei comportamenti dei singoli
individui che operano in una o più aree funzionali; segna un potenziamento delle conoscenze e

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un accrescimento delle capacità di lavoro individuali, con “sviluppo” della persona umana
coinvolta nel processo. Incentivi monetari e di carriera aiutano le politiche aziendali di sviluppo
della persona, di identificazione dei singoli nei compiti organizzativi, di generazione del
consenso.
b) nel senso di una modificazione dell’organizzazione del lavoro e/o delle configurazioni della
struttura organizzativa in senso stretto; è segnato ora da modificazioni delle regole e delle
procedure di lavoro o dei contenuti dei compiti, ora da modificazioni che generalmente fanno
seguito all’adozione di una nuova strategia o a riassetti del potere decisionale
c) nel senso di una modificazione di clima o “atmosfera” in cui si svolgono le operazioni aziendali,
il che dipende a sua volta, generalmente, da un cambiamento di stile di leadership, in
particolare dei metodi di gestione del personale. può avvenire in senso autoritario, il che
riguarda fondamentalmente il restringimento dei margini di discrezionalità nel decidere e un
appesantimento burocratico della struttura; oppure può avvenire in senso partecipativo

3. Sviluppo organizzativo e fasi del cambiamento

Si ipotizza che ogni tipo di cambiamento comporti variazioni positive, con incremento del potenziale
innovativo delle risorse umane impiegate, rafforzamento delle capacità reattive della struttura,
miglioramento del clima partecipativo e l’innalzamento dell’economicità del sistema aziendale.
Nel loro insieme e nel loro congiunto manifestarsi, tali fenomeni segnalano che si è prodotto, attraverso
il cambiamento, un complessivo sviluppo organizzativo del sistema.
Sviluppo organizzativo significa scientificazione dei processi decisionali; affinamento dei metodi di
direzione; elevazione della qualità dei contributi che i singoli partecipanti danno alla realizzazione della
strategia aziendale; erogazione di incentivi che premiano l’efficienza; valorizzazione dell’impiego delle
risorse e, in particolare, aumento della soddisfazione del personale.

I fenomeni che comportano sviluppo organizzativo interessano tutte le tipologie di impresa. Le più
chiare manifestazioni e implicazioni dello sviluppo organizzativo si hanno, tuttavia, nelle grandi imprese.
E’ possibile che, per le sue peculiari caratteristiche, lo sviluppo organizzativo segnali una rottura non
lieve con le pratiche del passato.
I cambiamenti e, in particolare, lo sviluppo organizzativo, variano secondo la fase del ciclo di vita in cui
è entrata l’impresa. Il cambiamento è connaturato all’evoluzione e accompagna l’adattamento.

Nascita – Le imprese appena avviate al mercato e alla competizione sono gestite secondo i valori
culturali e le preferenze soggettive del fondatore. I loro comportamenti competitivi sono, però,
fortemente influenzati dal determinismo ambientale; l’adattamento si confonde con l’adeguamento.
Eventuali cambiamenti organizzativi seguono le convinzioni del fondatore o dei soci di questo; talvolta
sono determinati dai rapporti interni alla famiglia del proprietario.

Crescita – Se sopravvive alla selezione naturale e supera le minacce che tendono ad escluderla dal
campo competitivo, l’impresa deve decidere se crescere o non crescere dimensionalmente.
Se decide per la prima delle due opzioni, l’imprenditore “razionale” costruisce una struttura
organizzativa appropriata alla strategia prescelta. Sorgerà un bisogno di qualificazione e sviluppo del
personale.
La strategia deliberata nel senso della crescita segna una novità significativa nel ciclo di vita aziendale
ed è generalmente accompagnata da cambiamenti organizzativi.

Maturità – Questa fase è segnata dal tendenziale azzeramento dei tassi di crescita del fatturato, dalla
presenza di attività di investimento di pura sostituzione e aggiornamento.
Se le passate scelte strategiche si sono rilevate efficaci e redditive, le caratteristiche gestionali di fase
consentono non solo l’accumulo di risorse finanziarie all’interno del sistema, ma anche utili reimpieghi
in altre attività. E’ possibile, infatti, che la situazione favorevole consigli cambiamenti strategici e
strutturali, che danno sbocco alle risorse finanziarie autogenerate e alle competenze tecniche,
scientifiche e organizzative derivate dall’esperienza.

Declino – Il successo del passato può essere contraddetto da un presente di errori, inefficacia delle
strategie che difendono e prolungano il ciclo di vita del prodotto, incapacità di apportare appropriati
cambiamenti.
C’è poi la concorrenza: le nuove entrate possono destabilizzare l’assetto sistemico dell’impresa. Se ciò
avviene, le crisi sono segnate da diminuzioni del fatturato e dei livelli del reddito d’esercizio.

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L’impresa può far fronte al declino con ridimensionamenti del personale, ristrutturazioni delle capacità
produttive, nuove strategie, riforme organizzative.
Se le misure anti-crisi hanno esito positivo, può aver luogo una vera a propria rinascita aziendale.

Estinzione – Tale momento si verifica a esaurimento delle finalità per le quali l’impresa è nata o a
seguito della constatata impossibilità di far fronte alle crisi e al declino.
La sopravvivenza o la morte di un’organizzazione dipendono dalla capacità di risposta alle pressioni
competitive e alle esigenze di cambiamento organizzativo.

Il modello “a fasi” dell’evoluzione dell’impresa e delle manifestazioni di cambiamento deve essere


interpretato in senso non deterministico.
In altre parole, non esiste un ciclo di vita a senso unico, privo di contraddizioni e varianti. Infatti:
a) appena nata, l’impresa può cadere in una crisi che fa scivolare verso la rapida estinzione; il
cambiamento coincide con la completa destrutturazione del sistema;
b) non tutte le imprese decidono di crescere e adeguare la propria struttura organizzativa alla
strategia prescelta; specialmente in condizioni ambientali turbolente, molte decidono di
presidiare semplicemente i confini, sacrificando la crescita dimensionale alla sopravvivenza e
all’ottimizzazione del tasso di redditività di periodo;
c) in ogni momento del ciclo di vita aziendale possono avvenire crisi di produzione, di domanda, di
successione nell’ambito familiare o societario; esse interrompono la crescita, ma non tutte
portano all’esclusione dell’impresa dal campo competitivo;
d) la maturità dell’impresa non significa che l’impresa debba scivolare verso il declino;
e) con l’esperienza maturata si possono apportare affinamenti dell’amministrazione aziendale; se
del caso è possibile riformarla profondamente in funzione di nuovi obiettivi strategici e di una
radicale ristrutturazione (turnaround), suscettibili di anticipare e allontanare il declino.

Il cambiamento è sempre accompagnato da corpose decisioni imprenditoriali o manageriali che lo


impongono al sistema, anche quando la spinta a farlo avvenga dall’esterno, sotto pressione
ambientale.
Secondo importanti ricerche empiriche, gli effetti a medio-lungo termine del cambiamento strategico
sono influenzati sia dalla razionalità del processo decisionale che innova in tutto o in parte l’assetto
strutturale, sia dal grado di identificazione che i collaboratori dell’imprenditore hanno negli obiettivi da
raggiungere.
Le organizzazioni complesse cambiano con difficoltà o, addirittura, non cambiano significativamente.

4. Le difficoltà del cambiamento

Numerose difficoltà limitano o bloccano i cambiamenti: ostacoli creati dai competitori all’esterno,
pesantezza, lentezza o inerzia della “macchina amministrativa” all’interno del sistema aziendale,
razionalità limitata, opportunismo e convenienze personali che impediscono alle organizzazioni
complesse di rompere la continuità del loro assetto sistemico, di imboccare la via del cambiamento
secondo quanto sarebbe opportuno o necessario.
Le organizzazioni che si sottopongono a radicali processi di cambiamento non sono molte.
I fattori che limitano o frenano i cambiamenti hanno differente natura. Esistono nelle organizzazioni
complesse fattori interni e fattori esterni che segnalano inerzie, attriti, pressioni esercitate da cose e
persone, che danno luogo a processi diversi ma convergenti di resistenza.

Fattori interni: a) la fissità dell’investimento in impianti e altri strumenti tecnici della produzione
aziendale; b) le regole e le procedure di lavoro, necessariamente ispirate ai contratti; c) la
gerarchizzazione top-down del processo decisionale: quanto più alte e verticalizzate sono le strutture,
tanto più lenta è, dal basso, la diffusione delle idee buone o innovative che possono aiutare la strategia
a risolvere problemi; d) la diffidenza verso il concetto di partecipazione al processo decisionale; e) le
incrostazioni degli interessi dei differenziati partecipanti al sistema aziendale, ciascuno dei quali si crea
cuscinetti di convenienze dure a modificarsi, che mettono profonde radici; f) le sedimentazioni culturali
“avverse”, formatesi nella storia dell’impresa; g) il coacervo di sordità e ignoranza latente in impresa,
che periodicamente affiora e tende a riprodursi; h) i limiti di razionalità dei decision makers aziendali.

Fattori esterni: a) l’eventuale stazionarietà dell’ambiente socio-istituzionale in cui è immersa l’impresa,


che non stimola iniziative di cambiamento; b) l’arretratezza economica del “sistema-paese” di origine
dell’impresa; c) le barriere tecnologiche, commerciali o legali all’entrata di nuove impresa; d) la lentezza
o assenza dell’innovazione tecnologica nell’ambiente di riferimento; e) l’asimmetria dell’informazione,

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che spesso avvantaggia i poteri più conservatori in impresa e penalizza la raccolta dei segnali di
mercato più promettenti, nonché l’acquisizione delle risorse e competenze di cui si nutrono le
innovazioni di processo e di prodotto.

5. La struttura come investimento

La struttura dell’organizzazione è un terreno assai poco propenso ad essere riformato o semplicemente


messo in discussione. Si tratta di un terreno che si alimenta di conservazione.
Chi è responsabile del governo aziendale o esercita il controllo manageriale è orientato a presidiare,
piuttosto che a modificare con continuità e radicalità gli assetti strutturali delle relazioni di lavoro e di
potere, mettendo in discussione i risultati economici, finanziari, organizzativi conseguiti nel tempo.
Chi è più cauto e chi è più ardito nel dire sì o no alle proposte di cambiamento?
La risposta dipende, innanzitutto, dalla radicalità del progetto da valutare: quanto più esso implica
cambiamenti generali di sistema, tanto più il rischio è elevato e le decisioni su come affrontarlo non
possono che essere prese a livello di governance.
Tali decisioni sono orientate alla prudenza e alla trasparenza; inoltre, richiedono la dovuta
formalizzazione.
La conservazione è praticata da chiunque goda di vantaggi in termini di forza e prestigio personale:
costui può essere ora l’azionista di riferimento, ora l’amministratore delegato, ora anche una
selezionata coalizione di manager.
I progetti innovativi esaltano chi li concepisce e chi li realizza, ma possono danneggiare altri soggetti; e
ciò accade a ogni livello del sistema aziendale.
Sono rari i casi in cui la conservazione è invocata e teorizzata. Sono molti, invece, i casi in cui la
conservazione è tacitamente cercata.

La struttura organizzativa ha una duplice faccia: in essa vengono prese e implementate le decisioni di
cambiamento, ma coltiva anche resistenza.
La struttura è la spina dorsale del corpo aziendale. E’ un investimento necessario, consapevolmente
programmato e controllato dall’imprenditore e dai manager suoi collaboratori, in funzione di una ben
determinata strategia di adattamento, che rapporta l’azienda all’ambiente competitivo.

Accade che il suo funzionamento non sia sempre quello desiderato o quello necessario. Occorre in tal
caso apportare correzioni, cioè cambiamenti.
L’ordine, la coesione e la solidità della struttura (integrità) sono da mantenere sempre in efficienza.
I cambiamenti “locali” sono frequenti perché indispensabili all’efficienza aziendale. Sono rari, al
contrario, i cambiamenti “radicali”.
L’integrità della struttura è un bene da custodire in sé. L’integrità raggiunta è segnaletica del livello
soddisfacente dell’istituzionalizzazione in impresa dei valori condivisi dall’élite aziendale che amministra
il sistema.
La protezione dell’integrità strutturale è una delle funzioni fondamentali della leadership. Difendere
l’integrità significa anche difendere la distintiva competenza dell’organizzazione, il che contribuisce a
dare forza all’impresa nel misurarsi con incertezza e pressioni competitive.

La struttura organizzativa imprime un ordine alla divisione del lavoro aziendale, alla differenziazione dei
ruoli e compiti di chi partecipa al sistema di impresa.
Dalla sua rappresentazione in termini di organigramma si evincono i rapporti che intercorrono tra
proprietà e direzione nello svolgersi del processo decisionale aziendale, in un certo periodo di tempo.
Il funzionigramma spiega, invece, il contenuto dei compiti di lavoro e delle operazioni che sono richieste
ai diversi partecipanti al sistema di impresa.

L’effetto che hanno le pressioni competitive e le altre turbolenze ambientali è controverso.


All’influenza della “cultura del mercato” e alla forza delle altre variabili ambientali che premono per
l’innovazione, la struttura organizzativa oppone una “cultura del controllo” che condiziona l’adattamento
e il cambiamento: la forza controbilanciante di tale cultura è talmente elevata, che tutti i passaggi di
strategia competitiva nel ciclo di vita aziendale sono inevitabilmente condizionati da resistenze o inerzie
dell’esistente struttura organizzativa.
Ibridi organizzativi, che condensano elementi del passato ed elementi innovativi, emergono facilmente
nella storia delle imprese, soprattutto nei momenti di transazione da una strategia all’altra; e ciò è
conseguenza del fatto che è difficile smantellare costosi investimenti già realizzati e farne altri.

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L’edificazione di una qualsivoglia nuova struttura organizzativa implica il sostenimento di costi, sia fissi
che variabili. L’impianto strutturale rappresenta un investimento necessario, ma sempre oneroso.
Il suo rendimento deve essere strumentale all’efficacia sistemica.

Chandler ha dimostrato che il cambiamento della struttura organizzativa segue generalmente il


cambiamento della strategia aziendale. Tuttavia, non mancano le variazioni sul tema.

La struttura ha una funzionalità bivalente nei confronti della strategia, cioè può manifestare il suo
contributo alla sistemicità e competitività dell’impresa in un duplice modo:
a) ora in senso positivo: la struttura è un efficiente supporto al perseguimento dei fini aziendali, nel
senso che in essa si creano e si usano conoscenza ed esperienza in modo appropriato rispetto
ad altre risorse, garantendo sicurezza all’agire strategico e capacità di risposta alle pressioni
ambientali;
b) ora in senso negativo: con le sue rigidità, la struttura pone limiti di fatto alla manovra strategica;
se inefficiente, il suo costo inibisce il conseguimento di performances aziendali positive.
Inefficienza strutturale significa sottoutilizzo di competenze nascoste nei differenziati
sottosistemi dell’impresa; rigidità significa, ad esempio, eccesso di formalizzazione delle
decisioni e/o scarsa fiducia nelle potenzialità della partecipazione bottom-up.

Quanto più vaste sono le dimensioni di impresa, tanto più forte è l’impatto (positivo o negativo) del
funzionamento della struttura sul complessivo agire sistemico aziendale.

6. Strutture, miti e riti aziendali

Ogni organismo e ogni organizzazione che vengono creati sono dei meccanismi di trasmissione delle
idee, dei valori, delle regole e dei comportamenti consolidatisi nella società.
Del pari, la divisione del lavoro, le strutture, i rapporti verticali e laterali interni a ogni organismo e
organizzazione sono intrisi di tali elementi costitutivi della società, condensano storia e cultura.
Soggetto, non solo oggetto dell’evoluzione sociale, le organizzazioni di impresa partecipano
attivamente alla generazione di nuove idee, di progetti, di nuovi modi di essere e di vivere.

Le organizzazioni di successo o in vantaggio operano uno sforzo per legittimare esternamente le


strutture e i processi che hanno contribuito aziendalmente a renderle “sistemi”.
Quando acquisiscono la piena sicurezza della bontà delle proprie soluzioni gestionali e organizzative,
esse esportano nel sistema sociale il modello elaborato al di qua dei propri confini. Talvolta, esse
cercano di imporlo con manovre forti.
Del proprio agire sistemico, del modello di business e cultura incorporato nella propria struttura, del
successo ottenuto, l’élite al vertice aziendale tende a fare un mito, che rinnova di volta in volta.
Ciò avviene non solo attraverso il marketing sociale, rivolto all’esterno, ma anche in canoniche
ricorrenze aziendali, in sedute formali di studio e riflessione o in occasioni informali, anche di tipo
conviviale. Il tutto si svolge con aspetti cerimoniali e rievocativi (riti).

Il mito è vivificato non solo dall’evocazione dei risultati positivi ottenuti e dei fatti amministrativi
realmente accaduti, ma anche dalla narrazione di storie e aneddoti sulle operazioni di maggior
successo. Nel contempo, si ricostruisce la vita dei più famosi esponenti della proprietà e/o del
management aziendale.
La celebrazione del rito serve a rafforzare il senso di appartenenza e sicurezza del personale alle
dipendenze dell’organizzazione.
Non poche volte la lettura mitologica dei successi aziendali e i riti che alimentano tali miti giustificano
culturalmente la propensione al non cambiamento.

Il rischio che l’impresa corre è quello di celebrare solo i successi, sottovalutando le difficoltà
intervenute, gli insuccessi, il futuro aziendale.
I top decision makers ricorrono ad enunciazioni ambigue o generiche degli obiettivi delle strategie
aziendali, sì da lasciarsi ampi margini di libertà nell’implementazione di tali obiettivi nella struttura,
ovvero per potersi concedere questa o quell’operazione con la desiderata discrezionalità.
La strategia viene tipicamente elaborata “in alto”; spesso essa è sapientemente cosparsa di mistero nel
suo processo di diffusione “verso il basso”. La razionalità amministrativa viene di fatto negata.

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Il momento dell’implementazione della strategia attraverso la struttura è, in ogni caso, importante ai fini
del coinvolgimento dei middle manager e di altri collaboratori nell’organizzazione del lavoro e nella
discussione dei budget economici e patrimoniali.
Dato il contesto mitologico e data l’opacità ambientale, la capacità di leadership del vertice aziendale
emerge anche a livello di introduzione qua e là di piccoli aggiustamenti strategici-strutturali.
Se bene presentati al resto del sistema, tali mutamenti di contenuto e di clima possono perfino apparire
innovazioni radicali o addirittura rivoluzionarie rispetto alla storia aziendale, anche a quella
personalmente vissuta.

7. Rapporto tra “rischio di estraniazione” e cambiamento radicale

Le svolte radicali di assetto sistemico si determinano a ridosso di “eventi” importanti o addirittura


eccezionali nel ciclo di vita dell’impresa.
Questi eventi incidono profondamente sull’omeostasi sistemica e creano problemi che possono
diventare ingovernabili.
Occorre, a questo punto, andare alla ricerca di soluzioni: si svolge un “dramma” sulla scena
dell’impresa, nel corso del quale è verosimile emerga la convenienza del cambiamento rispetto alla
conservazione.

Il cambiamento generale-radicale corrisponde a una svolta rara nella vita delle imprese. Esso segna
una netta discontinuità tra presente e passato aziendale, impegnando fortemente anche l’evoluzione
futura del sistema.
Le innovazioni generali o di sistema si verificano quando si capisce che il costo del mantenimento in
vita dell’assetto, della struttura dei processi amministrativi così come sono (C1) – costo che può
comportare l’estraniazione o mismatching dell’impresa rispetto all’ambiente competitivo – diventa
superiore al costo del disinvestimento del vecchio assetto gestionale e organizzativo (C2) più il costo
della progettazione e costruzione di un nuovo assetto (C3).
La condizione del cambiamento generale-radicale dell’impresa può, quindi, essere ricondotta ad una
condizione di costo, cioè al verificarsi, in un certo periodo di tempo, della disuguaglianza:
C1 > C2 + C3
(condizione necessaria del cambiamento radicale)
La condizione sufficiente sta nell’effettiva assunzione di responsabilità da parte di coloro che hanno
autorità formale e potere per deciderla e farla.
Nella realizzazione del progetto di cambiamento radicale si misura la loro capacità di leadership, a
valere nel tempo. Decisa a livello di governance tale importante operazione, i capi devono conquistare i
propri collaboratori “uno per uno” per portarla a compimento.

8. Drammi

Le imprese cambiano, ma le innovazioni che contano, di tipo sistemico, generale-radicale, si delineano


solo in momenti critici della vita aziendale, nonché a certe condizioni.

Routine amministrativa – La vita delle imprese è contrassegnata da prevalente routine. L’evoluzione


è lenta.

Passato e presente – Nelle imprese di vasta dimensione la struttura organizzativa, i processi


attraverso cui si svolgono le operazioni, le relazioni interfunzionali sono fatte oggetto di un progetto
consapevole, che assume forma per via di aggiustamenti incrementali.
Per il lavoro, il costo, spesso il sacrificio di risorse che ha richiesto, tale progetto nella sua forma
definitiva e nella sua compiuta realizzazione acquisisce una dignità culturale. Esso viene accreditato
socialmente; è oggetto di celebrazioni rituali; se ne fa anche mito.
La burocratizzazione è parte di questa evoluzione.
Nelle piccole e medie imprese, non meno che nelle grandi, i cambiamenti incontrano numerose
difficoltà, superabili talvolta solo col ricambio generazionale, sicché passato e presente convivono in un
ibrido mix strutturale.

Discontinuità, drammi e cambiamento – I “drammi” sono situazioni o stati interni del sistema
aziendale che introducono ad un cambiamento radicale.

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L’evento che provoca dramma e, poi, cambiamento segna un’importante discontinuità nella storia
dell’impresa. Esso può avere origine ora interna, ora esterna. Può essere di natura personale oppure
legale o microeconomica o societaria o, infine, macroambientale.
I drammi si verificano dopo periodi non brevi di quiete strategica e organizzativa, cioè contrassegnati
dalla routine amministrativa e da solo marginali cambiamenti.
Non sempre esistono le condizioni perché il dramma si svolga e il cambiamento possa dispiegarsi col
pieno, attivo coinvolgimento di tutti i partecipanti al sistema aziendale.
In tali casi, il cambiamento viene implementato con fenomenologie straordinarie o procedure irrituali.

Innovazioni di sistema – Il cambiamento generale-radicale rappresenta l’eccezione nel ciclo di vita


delle imprese, le quali modificano l’ordine dei loro assetti sistemici solo in quanto:
a) ricorrano crisi che mettono in pericolo la posizione competitiva aziendale, sottoponendo
l’impresa al rischio di esclusione dal campo competitivo;
b) esista un’opportunità strategica da sfruttare in modo unico e singolare, il che rende conveniente
“cambiar sistema”;
c) si introducano in azienda soluzioni tecnologiche, finanziarie o strutturali del tutto nuove, che
fanno intravedere il possibile conseguimento di un vantaggio competitivo mai prima
sperimentato;
d) abbiano luogo significativi avvicendamenti nella governance.
Quanto maggiori sono le dimensioni dell’impresa, tanto più cambiare implica elevati costi e importanti
ridistribuzioni del potere.

9. Conclusione

Le imprese sono assimilabili a organismi, nel contempo soggetto e oggetto di cambiamento evolutivo.
Molte di esse paiono in alcuni periodi di tempo molto dinamiche e sono per alcuni esercizi redditive.
Poi, però, scompaiono quasi sorprendentemente dal campo competitivo: ciò accade, talvolta, per
improvvisa turbolenza ambientale e per difetto della “macchina” del controllo; altre volte ciò accade per
cecità di fronte all’evidenza di dati che invitano a provvedere in direzione di questo o quel
cambiamento.
Altre volte ancora la visione strategica e la raccolta dei dati sono carenti o addirittura impossibili, perché
strutture e processi amministrativi sono obsoleti.
Non raramente, durante o subito dopo un intenso processo di crescita, subentra una confidenza
eccessiva nelle proprie forze, il che lascia spazio alla confusione e disorganizzazione, con effetti di
destabilizzazione del sistema aziendale.
Il cambiamento non viene sempre attivamente cercato all’interno delle organizzazioni complesse.
Il cambiamento è non poche volte, anzi, subito.
Esso emerge come risultato di una situazione di necessità, piuttosto che come risultato di un
incessante processo di elaborazione programmatica, che si genera in un laboratorio di idee e
attraverso un consapevole processo di partecipazione ai suoi scopi e ai suoi valori.

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