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UNIVERSITÀ DI PARMA

Corso di Laurea in Comunicazione e


media contemporanei per le industrie
creative

[Anno 2016-2017]

Il LINGUAGGIO DEL MONDO CONTEMPORANEO


Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Prof. Marco Deriu

Dispense di 2016-2017
Sociologia dei processi
culturali e comunicativi
marco.deriu@unipr.it
2

INDICE

1. CULTURA, RAPPRESENTAZIONI SOCIALI E FRAMES COGNITIVI……………… p. 3

2. NATURA/CULTURA………………………………………………………………………………………… p. 13

3. GENERE/SESSO…………………………………………………………………………………………… p. 23

4. GENERE/VIOLENZA……………………………………………………………………………………… p. 38

5. SACRO/PROFANO………………………………………………………………………………………… p. 58

6. NORMALITÀ/DEVIANZA……………………………………………………………………………….. p. 72

7. SICUREZZA/INSICUREZZA…………………………………………………………………………… p. 82

8. INTERESSE/DONO………………………………………………………………………………………… p.101

9. SVILUPPO/DECRESCITA……………………………………………………………………………… p.115

10. GLOBALIZZAZIONE/LOCALIZZAZIONE……………………………………………………… p.147

11. LAVORO/PRECARIETÀ………………………………………………………………………………… p.158

12. DEMOCRAZIA/POST-DEMOCRAZIA…………………………………………………………… p.174

13. IDENTITÀ/ALTERITÀ…………………………………………………………………………………… p.197

14. UNIVERSALISMO/PLURIVERSALISMO………………………………………………………… p.207

15. GUERRA/TERRORISMO.……………………………………………………………………………… p.224

Riferimenti bibliografici……………………………………………………………………………………… p. 234


Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
3
Il linguaggio del mondo contemporaneo.
Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Docente: Marco Deriu

CULTURA, RAPPRESENTAZIONI SOCIALI E FRAMES COGNITIVI

Nell’introdurvi alle tematiche di questo corso, la prima questione che vorrei


sottolineare è che l’idea stessa di cultura può essere considerata un prodotto
“culturale” e non è in nessun modo un termine oggettivo o neutro. Non esiste un
oggetto “cultura” nel mondo reale. Si tratta di una rappresentazione, di un utile
configurazione ideale.
Come ogni altra categoria linguistica la parola “cultura” allude ad una serie di fatti
ma allo stesso tempo li seleziona, li discrimina, li organizza in un insieme significativo,
e produce a sua volta dei fatti sociali.
Dunque sono possibili diverse concezioni e rappresentazioni di cos’è “cultura”.
Da questo punto di vista val la pena notare alcuni aspetti:

- che tale termine si è andato modificando nel tempo quanto al suo uso e al
suo significato. In altre parole lo stesso termine in due momenti storici
differenti ha significato cose diverse.
- che si sono avute definizioni differenti, o addirittura concorrenti di
questo termine. Ovvero lo stesso termine può essere usato ed inteso con
significati diversi in ambienti e contesti differenti, siano questi contesti
territoriali, contesti sociali, contesti disciplinari.
- che tale termine ha avuto e rivela tuttora degli interessi politici o sociali
precisi, con conseguenze concrete sul piano della realtà in cui viviamo.

La parola cultura deriva dal verbo latino cŏlere (coltivare) che veniva usato
nell’antichità per indicare il lavoro della terra. Cultura era dunque la coltivazione
(agricoltura, monocoltura ecc…).
A questo proposito la scienziata ed attivista indiana Vandana Shiva, giocando con
le parole coltura/cultura ci ha in guardia da un uso troppo chiuso e asfittico
dell’identità culturale, che poteva causare delle gravi conseguenze di riduzione della
biodiversità naturale e culturale:

«La principale minaccia alla diversità deriva dall’abitudine a pensare in termini


di monocolture, quelle che io chiamo “monocolture della mente”. Le monocolture
della mente cancellano la percezione della diversità e insieme la diversità stessa.
La scomparsa della diversità fa scomparire le alternative e crea la sindrome della
“mancanza di alternative”» (Shiva, 1995, p. 9).

Nell’età umanistica per cultura si intendeva ciò che oggi noi definiamo
“erudizione” o “cultura intellettuale” ed elitaria, opponendo le persone colte – coloro
che appartenevano alle società letterate e alle classi aristocratiche a quelle incolte,
ovvero al volgo, così come alle società illetterate.
Si può notare che già in quest’epoca la parola cultura separava le persone sia su
base sociale (di classe) che territoriale (le alterità erano per definizione barbare, 4
primitive, selvagge).
In epoca illuministica l’idea di cultura si connette a quella di progresso, di
raffinamento intellettuale, di rischiaramento dalla superstizione. In Francia si parla in
particolare di Civiltà e di costumi con una vocazione universalistica.
Mentre contemporaneamente in Germania si elabora il concetto di Kultur con un
accento più particolaristico legato ad un gruppo umano, ad una terra, ad uno spirito o
al genio di un popolo. Tale nozione viene diffusa in particolare dal ceto medio in
opposizione al sapere convenzionale dell’aristocrazia di corte.

Generalmente si fa risalire la prima definizione “moderna” di “cultura” ad uno dei


padri fondatori delle scienze antropologiche ovvero Edward Burnett Tylor il quale
nella sua opera del 1871 Primitive culture, diede della cultura la seguente definizione:

«La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico è quell’insieme
complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il
costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come
membro di una società» (Tylor, 1871).

Questa definizione portava con sé tre importanti innovazioni.


Per un verso non ci si riferiva più alla cultura intellettuale di una specifica classe
sociale ma ad un idea più ampia e complessa che inglobando tutte le attività umane
implicava sia concezioni astratte (pensiero), che abitudini sociali ed usi pratici (le
attività) e anche i loro artefatti (tutto ciò che oggi chiameremmo cultura materiale).
Per un altro verso costituisce un processo di unificazione poiché la cultura include in
questo modo tutte le società ciascuna con i suoi costumi particolari. Come si capisce
dal titolo della sua opera Tylor riconosce il carattere di cultura ad altre società, anche
se vi aggiunge l’aggettivo “primitivo”.
Infine ponendo l’accento sulle capacità e le attitudini acquisite, si suggeriva l’idea
che la cultura non venisse trasmessa su base biologica ma che potesse essere appresa
e dunque estesa potenzialmente a chiunque, in altre parole democratizzata.
Oggi esistono centinaia di definizioni diverse di cultura.
Uno dei più eminenti antropologhi contemporanei Clifford Geertz, recentemente
scomparso, ha definito la cultura in questo modo:

«un modello di significati trasmesso storicamente, significati incarnati in


simboli, un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche per
mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro
conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita» (Geertz, 1998, p. 113).

In generale il conflitto riguarda la tendenza tra coloro vorrebbero includere nel


concetto di cultura tutte le attività e le espressioni di una società e coloro che
preferiscono definizioni più ristrette e più utilizzabili nella ricerca sociale, per esempio
distinguendo tra cultura implicita (idee implicite e incorporate) e cultura esplicita
(le forme espressive in quanto tali). Ovviamente tale distinzione è a sua volta
discutibile.
La tradizione sociologica ha lavorato fin dall’inizio in stretta connessione con
l’elaborazione antropologica. In molti casi la sociologia ha cercato di avanzare
sistemazioni teoriche rispetto alle osservazioni rinvenibili nelle diverse analisi
etnografiche.
Le analisi di tipo sociologico della cultura sono a loro volta molto differenziate. Una
definizione classica è quella di Max Weber:
«La “cultura” è una sezione finita dell’infinità priva di senso dell’accadere del 5
mondo, alla quale viene attribuito senso e significato dal punto di vista
dell’uomo» (Weber, 2003, p. 47).

Le discipline culturali comunque presuppongono attualmente l’esistenza universale


di un patrimonio culturale in ogni società umana (non esistono cioè gruppi umani privi
di cultura), così una diversità più o meno rilevante tra le diverse culture. Questo è
anche il risultato del fatto che l’essere umano è fondamentalmente sociale, e
deriva gran parte delle sue conoscenze, delle sue capacità espressive e delle sue
abilità dal gruppo sociale cui appartiene. Questo non elimina per altro il
riconoscimento di un fondo pre-culturale in tutti gli esseri umani (istinti,
temperamenti, forme logiche, abilità fisiche inconsapevoli).
Possiamo evidenziare comunque alcuni elementi importanti emersi in questi anni
dagli studi sociologici.

- L’attenzione alle interazioni sociali ovvero ai rituali sociali come forma di


produzione sociale di significati, dunque di orientamento e di costruzione di
prodotti e concezioni culturali.
- L’attenzione alle forme di socializzazione, ovvero di integrazione di un
individuo in una società e in un contesto culturale. Nonché il ruolo delle
rappresentazioni collettive.
- L’attenzione alle cosiddette subculture, ovvero alla differenziazione
culturale e alla creazione di particolari contesti di elaborazione culturali in luoghi
e contesti specifici. Es. Cultura urbana, cultura giovanile ecc…
- L’attenzione alle caratteristiche sessuate delle produzioni e dei prodotti
culturali (analisi di genere)
- L’attenzione alle dimensioni conflittuali della cultura, il tema del dissenso e
dell’innovazione. Es. il concetto di controcultura, le culture di classe, i cultural
studies ecc…
- Il rapporto tra cultura e azione, ovvero il tema della trasformazione sociale
- L’attenzione ai fenomeni interculturali e di ibridazione culturale.
- L’attenzione ai processi comunicativi nella “costruzione” di elementi
culturali
- L’attenzione alle condizioni della conoscenza, al ruolo delle
rappresentazioni, e dei cosiddetti “frame”.

La realtà come costruzione sociale

È un errore epistemologico pensare che cose come la realtà o la conoscenza siano


cose naturali e ovvie, evidenti a tutti. O in altre parole è ingenuo pensare ad una
realtà esterna come qualcosa di completamente scisso dall’osservatore.
La sociologia si occupa senz’altro di spiegare le esperienze e le convinzioni della
gente comune. Le nostre azioni e interazioni ordinarie dalle piccole alle grandi cose. Le
nostre esperienze più comuni e familiari. Tuttavia la sociologia è qualcosa di ben
diverso dal semplice senso comune. La sociologia si propone anzi di interrogare
ciò che ci sembra più ovvio e naturale, trasformando in domanda ciò che ci
sembra scontato.
C’è un testo importante di due famosi sociologi, Peter L. Berger e Thomas
Luckmann, che si intitola “La realtà come costruzione sociale” in cui i due studiosi
sottolineano che «ciò che è reale per un monaco tibetano può non esserlo per un
uomo d’affari americano» e viceversa «la “conoscenza” del criminale è diversa dalla
conoscenza del “criminologo”. Ne deriva che particolari raggruppamenti di “realtà” e di
“conoscenza” appartengono a contesti sociali» (Berger, Luckmann, 1999, p. 15). 6
L’importanza di questa ricerca è che ci spinge a riflettere sul fatto che ciò che noi
oggi chiamiamo “realtà”, è qualcosa che abbiamo definito socialmente in questo
modo, attraverso una serie di processi, ovvero attraverso quello che i sociologi
chiamano la “socializzazione primaria”, e dunque dei processi di interiorizzazione
che determinano una specifica selezione, percezione, costruzione dell’immagine di
realtà. La realtà sociale viene costruita dunque attraverso un processo dialettico in cui
il singolo individuo in relazione alla natura e all’ambiente sociale è al contempo attivo
e passivo.
Se ci pensate il neonato della specie umana è fra i piccoli di tutti i mammiferi uno
dei più indifesi. Finché non raggiunge almeno i cinque anni di vita difficilmente può
minimamente sopravvivere senza aiuto e senza relazioni di cura e socializzazione
costanti e complesse. Attraverso la socializzazione, il bambino non soltanto impara a
vivere in mezzo agli altri e a comportarsi in modo adeguato ad un certo contesto, ma
soprattutto attraverso le relazioni primarie si costruisce una propria identità e una
propria coscienza di sé, diviene ovvero consapevole di se stesso e della propria
soggettività. Le forme di socializzazione sono alla base anche della costruzione
dell’individualità e della libertà.
Da questo punto di vista George Herbert Mead (1863-1931), nel suo libro Mente,
Sé e società (1934), sostiene che il senso del Sé emerge attraverso i rapporti che il
bambino costruisce con altri.

«Il “Sé”, proprio in quanto può essere oggetto a se stesso, è essenzialmente


una struttura sociale, e sorge nell’esperienza sociale. Dopo che un “Sé” è sorto,
esso in un certo senso fornisce a se stesso le proprie esperienze sociali, e in
conseguenza di ciò è possibile concepire un “Sé” perfettamente isolato» (Mead,
1966, pp. 157-158).

In altre parole il senso del sé è il risultato dell’interazione con altre persone e


dell’oggettivazione che l’individuo fa di se stesso quando arriva a considerarsi
attraverso le immagini che gli restituiscono gli altri. Per altri dobbiamo intendere
l’insieme delle persone che incontra nelle sue relazioni sociali, quello che può essere
indicato con il concetto di “altro generalizzato”.
Dunque l’immagine di sé, il senso di sé, sono il frutto di una buona socializzazione e
di un buon processo di individuazione. L’Io con il quale ci identifichiamo è una
risposta attiva al “Me” sociale, una risposta dell’individuo agli atteggiamenti che gli
altri assumono nei suoi confronti.
L’individuo non è precedente alla comunità. Anzi deve esistere un processo
sociale perché possano esistere degli individui.
In termini più culturali si potrebbe dire che le “nostre” idee nascono solo nella
misura in cui siamo capaci di assumere il pensiero e l’atteggiamento della
comunità e quindi di rispondere ad essi (Mead, 1966, 193).
Per quanto riguarda i processi di socializzazione, si suole distinguere tra una
“socializzazione primaria” e una “socializzazione secondaria”. La
socializzazione primaria, avviene nello stadio infantile, attraverso le relazioni con
figure fondamentali dal punto di vista affettivo: la madre, il padre o affini. In questa
fase si apprende a vedere la realtà attraverso gli occhi di queste figure più
prossime. In altre parole si interiorizza la visione delle cose che ci viene trasmessa
dai genitori e in qualche modo la si oggettivizza. I ruoli, le idee, le rappresentazioni, le
convinzioni dei genitori divengono anche i propri. In questo modo impariamo a
percepire ogni particolare evento come dotato di un significato specifico. Questa
percezione della realtà diventa qualcosa di assoluto, di rigido, di indiscutibile:
«Il bambino non interiorizza il mondo delle persone per lui importanti come uno 7
dei molti mondi possibili: lo interiorizza come il mondo, l’unico mondo esistente e
concepibile, il mondo tout court. Per questo il mondo interiorizzato nella
socializzazione primaria è tanto più saldamente radicato nella coscienza di
quanto lo siano i mondi interiorizzati nelle socializzazioni secondarie. Anche se
l’originario senso di inevitabilità viene indebolito dalle successive disillusioni, il
ricordo di una certezza irripetibile – la certezza della prima alba della realtà –
continua ad aderire sempre al primo mondo dell’infanzia» (Berger, Luckmann,
1999, pp. 186-187).

La “realtà” dunque va intesa come una struttura convenzionale di fondo -


interiorizzata attraverso le relazioni primarie - necessaria per fornire un minimo senso
di sicurezza per orientarci nel mondo.
La “socializzazione secondaria” invece interviene in una fase successiva della
vita della persona. Ha a che fare con l’ingresso in altri contesti sociali non primari,
ovvero non connotati in maniera così forte dal punto di vista affettivo. Pensiamo alla
scuola, al gruppo di amici, alla parrocchia, al partito, al mondo del lavoro.
Confrontandosi con questi nuovi contesti via via si impara che il mondo appreso e
interiorizzato dai genitori non è l’unico esistente, è solo una percezione della realtà tra
le tante possibili. In questi nuovi contesti avvengono nuove forme di interiorizzazione
più specifiche, legate in qualche modo a dei sottomondi. Concretamente si tratta
anche di interiorizzazioni collegate anche a dei ruoli sociali definiti.
Quali sono gli agenti di socializzazione? Oltre alla famiglia e alla sfera delle
relazioni primarie si possono indicare il “gruppo dei pari”, la scuola, l’ufficio, la
parrocchia e altri ambienti comunitari, ma anche i mass media, Internet e la rete.
Abbiamo detto che la socializzazione primaria costituisce una forma di
interiorizzazione di una particolare visione delle cose, corrisponde dunque alla “realtà”
in quanto tale. Questo non significa che questa visione della realtà non possa essere
messa in crisi e modificata, anche in maniera molto significatia. In effetti esiste la
possibilità di nuove forme di socializzazione che portano a profonde ristrutturazioni
dal punto di vista cognitivo, mentale, culturale. Il prototipo di queste forme di
ristrutturazione dell’immagine della realtà è la conversione religiosa.
Qualsiasi sia l’esperienza è chiaro che in qualche modo occorre uno shoc biografico
per disintegrare la massiccia realtà interiorizzata nell’infanzia. Questo shock avviene
attraverso nuovi contesti di relazioni molto importanti, dal punto di vista socio-
culturale. Spesso sono processi che si producono per mezzo dell’inserimento in
particolari luoghi di segregazione o comunque di isolamento dal mondo cui si era
tradizionalmente abituati. Pensiamo per esempio allo spazio di un convento, di una
caserma o di un ospedale psichiatrico, o anche alla realtà inedita che si presenta in un
processo migratorio. Si tratta cioè di luoghi in cui l’individuo è inserito in un nuovo
contesto con nuovi linguaggi, regole, rappresentazioni, valori a se stanti, differenti da
quelli già conosciuti.

La mappa non è il territorio

Uno studioso che amo molto, Gregory Bateson, sosteneva che la scienza –
qualsiasi scienza - esplora, ma non prova mai nulla perché la nostra conoscenza è
sempre funzione della soglia dei mezzi di percezione di cui disponiamo in un dato
momento. Ricorrendo ai principi di Alfred Korzybski, secondo cui «la mappa non è
il territorio» e «il nome non è la cosa designata», Bateson insisteva nel
sottolineare che le mappe mentali e culturali che utilizziamo normalmente sono solo
strumenti con cui attivamente ci facciamo un’immagine della realtà indispensabile per
orientarci. 8
Questo significa in primo luogo che quando parliamo di un ombrello, di un lago o di
una città, nel nostro cervello non ci sono ombrelli, laghi o città. Noi registriamo
notizie, informazioni, differenze e in qualche modo le codifichiamo in schemi, immagini
o mappe.
Quindi non bisogna dimenticare che qualsiasi descrizione della realtà non può
corrispondere relamente alla cosa descritta. Qualsiasi percezione, qualsiasi
descrizione, qualsiasi comunicazione sono prodotti delle nostre capacità percettive e
dei nostri mezzi di registrazione e riproduzione sensoriali e cognitivi. Una mappa, una
mappa culturale, una mappa sociologica, dunque serve per orientarsi nella realtà. Ci
può essere un sistema di segni e riferimenti corrispondenti che ci aiuta ad orientarci,
ma tra la descrizione e la cosa descritta c’è sempre uno scarto incolmabile. Anche
una mappa estremamente elaborata e precisa, in scala 1:1 non coincide con la realtà.
Oltre a questo dato di fondo, diversi altri autori – sia sociologi che con angolatura
differenti anche psicologi - hanno sottolineato che il nostro modo di conoscere e
pensare non è solamente un processo individuale, ma dipende da forme di pensiero
sovra individuali, sociali. Dunque la dimensione di costruzione della realtà sociale non
è solo un fatto che riguarda l’individuo nelle sue relazioni con figure di prossimità,
riguarda più in generale tutti i processi culturali e di significazione sociale.
In altre parole il nostro linguaggio, le nostre categorie, le nostre idee, le nostre
convinzioni sono sempre in qualche misura debitrici di un pensiero collettivo.
Èmile Durkheim, fu il primo a prestare attenzione a questo aspetto introducendo
la nozione di “coscienza collettiva” e di “rappresentazioni collettive”. Durkheim
si riferiva ad un ampio insieme di forme intellettuali quali la religione, la morale, il
diritto, la scienza, il mito. La riflessione di Durkheim sulle rappresentazioni collettive
rischiava però di essere troppo rigida, poiché presupponeva delle conoscenze sovra
individuali che si impongono dall’esterno con una forma di coercizione, che pur non
escludendo il ruolo della personalità individuale, tende a enfatizzare l’aspetto statico
su quello dinamico.
Psicologi contemporanei come Serge Moscovici hanno sviluppato in senso più
fenomenologico e dinamico l’idea di “rappresentazioni sociali” che ci guidano nella
lettura o nella definizione della realtà e nella nostra azione in tale realtà.
Come scrive Moscovici:

«Nessuna mente è libera dagli effetti del condizionamento precedente che


viene imposto attraverso le rappresentazioni, il linguaggio e la cultura che le
sono proprie. Noi pensiamo per mezzo di una lingua; organizziamo i nostri
pensieri in base ad un sistema che è condizionato, sia dalle nostre
rappresentazioni sia dalla nostra cultura; e vediamo solo quello che le
convenzioni sottostanti ci permettono di vedere, senza essere consapevoli di tali
convenzioni» (Moscovici, 2005, pp. 13-14.).

Da questo punto di vista – sottolinea Moscovici - la nostra posizione non è diversa


da quella di una qualsiasi tribù a cui attribuiamo un sistema di “credenze”. Noi
possiamo naturalmente divenire più consapevoli dell’aspetto “convenzionale” dei
nostri linguaggi, idee, rappresentazioni ma non potremo mai sottrarci completamente
al loro condizionamento. Una strategia migliore, ci dice Moscovici, è quella di
scoprire, riconoscere e tentare di rendere esplicite queste rappresentazioni in
modo da poterle in qualche modo vedere e discutere. Insomma non essere
passivamente succubi.
Rappresentazioni e formazioni discorsive
9
Le mappe che usiamo possono essere viste anche come uno sfondo che definisce
come devono essere interpretati i segni e le parole che tracciamo per indicare la
"realtà". Come è stato notato, i processi mentali hanno bisogno di una cornice per
delimitare lo sfondo contro cui le figure devono essere percepite. Più in generale,
come hanno notato da punti di vista diversi autori quali Gregory Bateson, Charles J.
Fillmore ed Erving Goffman la comunicazione umana è possibile solamente
attraverso un'intensa attività di "incorniciamento". Ogni elemento, ogni parola,
trae un senso in relazione ad altre (ciò che Fillmore chiamava frame concettuali) ed in
relazione a degli indicatori che definiscono un contesto e che aiutano ad interpretare
correttamente la situazione (quelli che Bateson chiamava metamessaggi o
segnacontesti).
In questo senso le parole non vanno viste semplicemente come frammenti isolati,
ma rimandano a contesti di senso e a campi di significato che il più delle volte
rimangono impliciti e inesplorati. Le parole richiamano altre parole, altre immagini che
si attivano nel nostro pensiero prima che possiamo rendercene conto.
Come ha notato George Lakoff:

«il linguaggio trae il suo potere dal fatto di essere definito relativamente a frame,
prototipi, metafore, narrazioni, immagini ed emozioni» (Lakoff, 2009, p. 18).

Allo stesso tempo il linguaggio e le categorie linguistiche contribuiscono a


richiamare cornici e sfondi dentro a cui collocare il nostro sguardo e il nostro
pensiero. Parole come progresso, sviluppo, crescita, libertà, democrazia, sicurezza,
concorrenza, austerità, che caratterizzano il linguaggio della modernità rappresentano
non delle realtà oggettive ma delle mappe simboliche con cui cerchiamo di ordinare il
mondo in cui viviamo.
Ogni espressione linguistica dunque suggerisce inevitabilmente un campo di
significati e di connessioni attraverso cui costruire una possibile visione della realtà.
Così per descrivere lo stesso evento noi possiamo utilizzare parole molto diverse
che richiamano visioni e orizzonti molto differenti: possiamo raccontare di un fatto
accaduto ad un soggetto che chiamiamo "migrante", o "extracomunitario", o
"clandestino", o "profugo", o "rifugiato" o "perseguitato"; ciascuna di queste categorie
evoca orizzonti e associazioni molto differenti, anche se stiamo parlando della stessa
persona e dello stesso fatto.
Oppure, per fare un altro esempio, ricordiamo il leitmotiv delle "armi di distruzione
di massa" che era stato utilizzato per creare un immaginario pauroso e per giustificare
l'intervento militare in Iraq guidato da americani e inglesi nella cornice di quella che
veniva chiamata "guerra preventiva".
Se le parole traggono senso solo in relazione ad altre costellazioni di parole e se
differenti costellazioni di parole evocano significati, visioni e immaginari differenti
allora dobbiamo riconoscere l'importanza di queste cornici o “frame” o "script"
all’interno del quale siamo spinti a guardare, pensare e parlare. Può anche
accadere che essere che queste cornici acquisiscano una certa stabilità e solidità tale
per cui diventa difficilissimo esprimersi o pensare al di fuori di questi schemi. Talvolte
tali cornici culturali vengono infatti così profondamente interiorizzate e stratificate nel
nostro mondo culturale, sociale da risultare in gran parte implicite e indiscusse.
Secondo George Lakoff certe connessioni divengono narrazioni ricorrenti, vengono
di fatto fissate negli stessi circuiti neurali del cervello e possono essere attivate e
funzionare inconsciamente, automaticamente e per riflesso (Lakoff, 2009, p. 39).
«i modelli culturali sono nel nostro cervello. E noi li usiamo automaticamente,
senza controllo conscio e senza memoria per la maggior parte del tempo» (Lakoff, 10
2009, p. 18).

È possibile dunque rintracciare una serie specifica di categorie, di parole ed


immagini, per comprendere quale specifica costruzione di significati si sta in un certo
momento e in un certo contesto costruendo attraverso un discorso.
Queste narrazioni o frames da una parte inducono a inquadrare gli eventi in una
certa prospettiva, dall'altra funzionano da cornici che spingono a ignorare o occultare
tutto ciò che rimane fuori da queste realtà o che rischia di contraddirle.
A questo proposito, un altro studioso, Michel Foucault parlava di “formazioni
discorsive” (Foucault, 2005), indicando con questo termine quegli insiemi, più o
meno eterogenei, di concetti valutazioni, enunciati, osservazioni, regole e prescrizioni
giuridiche ricorrenti, che danno forma a degli oggetti di sapere, quali per esempio la
follia, la delinquenza, la sessualità. L’aspetto importante da comprendere, suggerisce
a sua volta Stuart Hall è che queste formazioni discorsive producono significati e
questi contribuiscono a

«regolare e a organizzare le nostre condotte e pratiche – essi aiutano a


stabilire le regole, le norme e le convenzioni attraverso cui la vita sociale è
ordinata e governata» (Hall, 1997, p. 4).

Nei rapporti con le nostre alterità, per esempio, queste formazioni discorsive
contribuiscono non solo a dirci come guardare all’altro, ma in maniera più profonda
contribuiscono a creare una specifica realtà dell’altro nella nostra testa, a costruire
l’altro. In queste rappresentazioni le nostre alterità non sono tanto soggetti della
rappresentazione quanto soggetti alla rappresentazione. In altre parole c’è un
rapporto tra la definizione di certi codici linguistici, di certe formazioni
discorsivi, di certi linguaggi e le pratiche di potere. C’è un rapporto tra nominare
e normare. Tra imporre i nomi e le categorie e imporre le regole, i codici di condotta.
E ancora di più c’è un rapporto tra imporre questi codici e la costruzione di identità e
di soggettività. Dunque chi attraverso delle formazioni discorsive può imporre un
linguaggio, un immaginario, acquisisce un grande potere sugli altri.
Ma d’altra parte può essere che questo linguaggio che si impone agli altri si scopra
ad un certo punto anche una gabbia per se stessi. Se queste formazioni discorsive
costruiscono una specie di “frame” all’interno del quale ci abituiamo a guardare,
pensare e parlare, può essere che questa cornice acquisisca una certa stabilità e
solidità tale per cui diventa difficilissimo uscirne. Queste cornici culturali sono infatti
così profondamente interiorizzate e stratificate nel nostro mondo culturale, sociale,
materiale da risultare implicite e indiscusse. Non è semplice liberarsi da questi
pregiudizi. Da quando siamo venuti al mondo, da quando abbiamo appena iniziato a
parlare, tutto attorno a noi ci spinge a pensare in questo modo. Nella quasi totalità dei
casi noi non conosciamo la ristrettezza - a volte la miseria - delle cornici culturali
dentro alle quali ci muoviamo.
Come diceva in maniera più secca e caustica un altro sociologo, Gabriel Tarde,

«avere solo idee indotte e crederle spontanee è l’illusione tipica del


sonnambulo e dell’uomo sociale».

Per prendere coscienza di questo condizionamento e di questa limitatezza, bisogna


aver provato uno scacco nel proprio modo di pensare. Bisogna aver personalmente
cozzato contro le pareti di queste cornici. Essersi trovati almeno per una volta nelle
condizioni di vederle almeno parzialmente da fuori. 11
Il fatto è purtroppo è che non siamo padroni del nostro immaginario. Non
scegliamo fino in fondo quello che pensiamo. Il nostro compito è anche quello di
provare a pensare quello che pensiamo, a riflettere sui nostri pensieri, e per quello
che possiamo cercare buttare un occhio al di là dell’orizzonte condiviso, magari
ponendoci domande problematiche.
Il compito di un pensiero critico, dunque, è quello di sottrarre i concetti e le
nozioni che utilizziamo quotidianamente alla loro dimensione di apparente
ovvietà e auto evidenza. Come ha scritto Michel Focault

«Bisogna rimettere in questione queste sintesi belle e pronte, quei


raggruppamenti che in genere si ammettono senza il minimo esame, quei
collegamenti di cui si riconosce fin dall’inizio la validità; bisogna scalzare quelle
forme e forse oscure con cui si ha l’abitudine di collegare tra loro i discorsi degli
uomini; bisogna scacciarla dall’ombra in cui regnano» (Foucault, 2005, p. 30).

E ancora:

«In pratica bisogna strapparle dalla loro condizione di quasi evidenza, far
emergere i problemi che pongono; riconoscere che non sono quel posto
tranquillo a partire dal quale si possono porre altri problemi (sulla loro struttura,
la loro coerenza, la loro sistematicità, le loro trasformazioni), ma che in loro
stesse pongono tutto un fascio di problemi» (Foucault, 2005, p. 36).

La sociologia della cultura ci aiuta dunque a interrogare le parole, i concetti,


le categorie, le rappresentazioni con cui quotidianamente leggiamo e costruiamo
attivamente il mondo, di cui normalmente non vediamo i limiti, le dimensioni rimosse,
gli elementi oscuri, contraddittori o perturbanti.
Come saggiamente notava Mark Twain:

«Il pericolo non viene da quello che non conosciamo, ma da quello che
crediamo sia vero e invece non lo è» .

Da questo punto di vista non si tratta solamente di costruire delle descrizioni o delle
narrazioni efficaci o più corrispondenti al “vero” ma di porci costantemente in un
atteggiamento riflessivo, dubbioso, auto-critico. Come sottolinea Gregory Bateson

«Dobbiamo quindi esaminare in primo luogo le discrepanze sistematiche che


necessariamente esistono tra ciò che possiamo dire e ciò che tentiamo di
descrivere» (Bateson G., Bateson M.C., 1989, p. 228).

Un pensiero critico, avvertito, è un pensiero che riconosce di essere parziale


e si sforza di riconoscere e indagare i propri limiti, fino addirittura al paradosso,
quando si usano i propri limiti anche come possibilità di comunicare.

«Una vecchia barzelletta in voga nell’ex Repubblica Democratica Tedesca


racconta di un operaio tedesco che trova lavoro in Siberia. Consapevole del fatto
che tutta la sua posta verrà letta dalla censura, dice ai suoi amici: “Stabiliamo un
codice: se la lettera che ricevete è scritta in normale inchiostro blu, significa che
è veritiera; se invece è scritta in inchiostro rosso quella lettera dice il falso”.
Dopo un mese, gli amici ricevono la prima lettera, scritta in inchiostro blu: “Qui è
tutto meraviglioso: i negozi sono pieni di merci, il cibo è abbondante, gli
appartamenti sono grandi e ben riscaldati, nei cinematografi si proiettano film
occidentali, ci sono ovunque belle ragazze disponibili per un’avventura. L’unica 12
cosa che non si trova è l’inchiostro rosso”.»
(Raccontata da Slavoj Zizek, 2002, p. 7)

Divenire consapevoli di questo, così dei nostri processi di conoscenza, e dei nostri
limiti, ci può permettere di relativizzare le nostre idee, ma anche di comprenderne la
singolarità e l’importanza, di divenire più coscienti di noi stessi e, possibilmente, di
confrontarci con più umiltà con gli altri.
Nel nostro corso ci occuperemo dunque di alcuni temi chiave della nostra
cultura esaminando delle diadi, delle coppie di parole: natura/cultura, sacro/profano,
genere/sesso, normalità/devianza, interesse/dono, identità/alterità,
progresso/collasso, sviluppo/decrescita, globalizzazione/localizzazione,
universalismo/particolarismo, democrazia/post-democrazia, lavoro/precarietà,
sicurezza/insicurezza ecc. Ogni lezione sarà dedicata a uno di questi temi che
cercheremo di scandagliare, attraversare, interrogare, smontare e rimontare.
Attraverso questo percorso auspico che vi facciate un’idea più critica e problematica
dei fondamenti e dei giudizi sui quali riposa la nostra visione del mondo. Allo stesso
tempo mi aguro che acquisiate degli strumenti critici per continuare da soli questo
lavoro nelle realtà e nelle esperienze che incontrerete.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
13

Il linguaggio del mondo contemporaneo.


Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Docente: Marco Deriu

NATURA/CULTURA

Nelle scorse lezioni abbiamo detto che: a) La mappa non è il territorio; b) Le nostre
mappe, le nostre rappresentazioni, le nostre categorie linguistiche e mentali
costruiscono una nostra visione delle cose. Per cui a differenti idee di essere umano e
natura, corrispondono atteggiamenti diversi verso il mondo attorno a noi.
Questo nodo epistemologico si ripresenta anche quando parliamo di natura e di
cultura.
Tutta la comunicazione ambientale si struttura attorno ad alcune categorie centrali
quale natura, ambiente, sostenibilità ecc… che strutturano il nostro campo di
percezione. Noi pensiamo di sapere di cosa stiamo parlando ma in realtà si tratta di
questioni molto indeterminate e ambigue.
L'uso di parole come "natura" e "ambiente", non è così ovvio. L'idea di "natura" ci
porta a pensare qualcosa in cui l'essere umano non è ancora intervenuto anche se di
fatto l'essere umano fa parte della natura. Diversamente l'idea di ambiente rischia di
farci percepire il mondo attorno a noi come una scenografia, un ambiente come un
altro, rispetto al quale l'essere umano si può ritagliare la sua autonomia.
Quando noi parliamo di "Natura", pensiamo di avere un'idea chiara di quello di cui
stiamo parlando, un'idea "oggettiva". In realtà occorre riconoscere che l’idea stessa
di una natura in quanto separato da ciò che è umano ha una dimensione
culturale e storica peculiare. Da una parte questa opposizione non è affatto
universale anzi non è rintracciabile nella maggioranza delle culture e delle civiltà e
dall’altra nella stessa tradizione europea non è sempre esistita. Essa è frutto di
un’evoluzione molto lunga, ma arriva a definirsi in senso proprio solo con l’epoca
moderna.
Come ha notato l’antropologo Philippe Descola, uno dei maggiori specialisti di
questo tema:

«Il modo con il quale l’Occidente moderno rappresenta la natura è la cosa


meno condivisa al mondo. In numerose regioni del pianeta, umani e non umani
non sono percepiti come si sviluppassero in mondi incomunicabili e secondo
principi separati. L’ambiente non è oggettivato come una sfera autonoma; le
piante e gli animali, i fiumi e le rocce, le meteore e le stagioni, non esistono in
una stessa nicchia ontologica definita dalla sua mancanza di umanità».1

Per esempio, nota Descola, gli Achuar dell'Amazzonia descrivono la foresta come
un immenso orto coltivato con cura da uno spirito. La maggior parte delle piante e
degli animali per loro condividono facoltà, comportamenti e codici sociali non dissimili
dagli umani. Essi distinguono gli esseri in base al loro grado di socialità e non in base
ad un'opposizione tra uomini e altre forme viventi.

1
Philippe Descola, Oltre Natura e Cultura, SEID Editori, 2014, Firenze, p. 58.
I Makuna dell'Amazzonia categorizzano gli umani, le piante e gli animali come
"persone" con caratteristiche quali mortalità, vita sociale e cerimoniale, intenzionalità 14
e conoscenza simili agli umani. Anzi umani e animali possono trasformarsi gli uni negli
altri, perché la forma esteriore è considerata un travestimento.
Un'altra popolazione dell'Amazzonia gli Yagua del Perù, categorizzano piante e
animali in diversi gradi di consanguineità, sulla base dei rapporti di amicizia o ostilità.
L’idea di un essere umano visto fondamentalmente come una bestia selvaggia che
occorre regolare e comandare (una rappresentazione al centro dell'antropologia
politica moderna e democratica) è espressione di una metafisica tipicamente
occidentale, poiché come sottolinea Marshall Sahlins:

«non solo presuppone una opposizione tra natura e cultura tipica del nostro
folclore, ma si differenzia altresì dai tanti popoli che considerano le bestie
fondamentalmente umane invece che gli umani fondamentalmente bestiali».2

In altre parole la maggior parte delle società e delle culture del passato e del
presente ci invitano a non tracciare le frontiere dell'umanità sul limitare della specie
umana, ma accogliere nell'idea di umanità anche gli animali, le piante o le altre
espressioni della natura.
Le caratteristiche attribuite a questi esseri dipendono dalle posizioni e dalle relazioni
che intrattengono gli uni con gli altri.
In questo senso molte cosmologie amazzoniche implicano una sorta di
"prospettivismo" e non un'opposizione tra natura e umanità.
Anche fra gli indiani del Canada e dell'Alaska la natura «non si oppone alla
cultura, ma la prolunga e l'arricchisce»3.

«Dalle foreste lussureggianti dell'Amazzonia alle lande ghiacciate dell'Artico


canadese, alcuni popoli percepiscono la loro presenza nell'ambiente in un modo
molto differente dal nostro. Non si pensano come collettivi sociali che gestiscono
le loro relazioni in un ecosistema, ma come semplici componenti di un insieme
più vasto nel quale nessuna discriminazione effettiva è stabilita tra umani e non
umani»4.

Tra gli indigeni della Siberia (Tungusi, Samoiedi, Xant, Mansi), si ritiene che tutta
la foresta sia animata da un grande spirito - lo spirito del bosco - che si manifesta
attraverso una molteplicità di incarnazioni, che siano animali, alberi o rocce.
Tra i Chewong della Malesia tutti le entità della foresta sono mescolate in una
comunità intima ed egualitaria. Il confine non riguarda umani e non umani ma vicini e
lontani: chi condivide lo stesso territorio e lo stesso stile di vita e chi vive in periferie
lontane con altre leggi.
Anche nella tradizione pur essendo più forte la differenziazione tra il villaggio e la
savana i rapporti e le relazioni sociali tra umani e non umani sono molto stretti, in
particolare per quanto riguarda le tradizioni animiste.
Per gran parte della storia umana e per molte civiltà, una distinzione rigida tra
natura e cultura non avrebbe avuto molto senso perché tutto è allo stesso tempo
naturale e culturale.

In generale, dunque, il naturalismo moderno non rappresenta un oggettivo


metro di misura per verificare e giudicare le altre culture. La nostra idea di natura e

2
Marshall Sahlins, Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, eléuthera, Milano, 2010, p.8.
3
Philippe Descola, Oltre Natura e Cultura, SEID Editori, 2014, Firenze, p. 42.
4
Ivi. p. 45.
anche di natura umana sono a tutti gli effetti un frutto della nostra capacità
immaginativa culturale, della nostra cosmovisione o cosmologia, e non un dato 15
oggettivo e autoevidente. Si tratta soltanto di una fra le diverse espressioni possibili
degli schemi generali che gli esseri umani proiettano nel proprio rapporto con il
mondo.
Da questo punto di vista, Philippe Descola sviluppa una complessa classificazione
dei diversi modi possibili di concepire la natura a partire da quattro prospettive
differenti:
-animismo (ANTROPOGENISMO), nel quale le relazioni hanno la meglio sui
termini;
-totemismo (COSMOGENISMO), nel quale termini e relazioni sono interdipendenti
all'interno di ogni classe;
-naturalismo (ANTROPOCENTRISMO), nel quale i termini hanno la meglio sulle
relazioni;
-analogismo (COSMOCENTRISMO), nel quale termini e relazioni sono
interdipendenti all'interno del sistema generale.

La cosmovisione dei moderni

Se dunque non vogliamo proiettare la nostra cosmovisione sul resto del mondo,
quello che dobbiamo fare è invece comprendere la peculiarità e i limiti della nostra
stessa idea di natura. Quando è maturata questa idea e su quali concezioni si fonda?
Se ci limitiamo al contesto culturale occidentale, si può dire che le nostre idee
su natura e cultura nei fatti si fondano su tre opposizioni:

1. L’opposizione tra essere umano e ambiente;


2. L’opposizione tra cultura e natura;
3. L’opposizione tra pensiero (mente) e natura

Queste opposizioni sono un tratto ricorrente nella nostra cultura. E tuttavia, da un


punto di vista sociologico tali opposizioni non sono affatto scontate, dobbiamo
piuttosto prenderle come questioni da interrogare. Ognuna di esse si porta dietro
alcune domande.
Prendiamo la prima per esempio: l’opposizione tra essere umano e ambiente.
L’idea di una possibile opposizione tra essere umano e ambiente pone
immediatamente alcuni interrogativi: Esisterebbero gli esseri umani senza un
ambiente nel quale si è definita l’evoluzione del vivente, dalle forme di vita più
semplici passando per i primi ominidi per giungere fino all’homo sapiens?
E viceversa esisterebbe questo stesso ambiente senza esseri umani che per migliaia
di anni hanno contribuito a condizionarlo, organizzarlo, trasformarlo?
E più in generale esiste una sorta di unità della natura che legherebbe insieme
l’esistenza degli esseri umani a quella di tutti gli altri esseri?
Anche la seconda opposizione, quella tra cultura e natura, ci obbliga a porci
diverse questioni. La cultura si oppone alla natura o la continua? L’interazione tra
esseri umani, altre specie e gli ecosistemi non è propriamente una fonte costante di
adattamenti, ritualizzazioni, modelli organizzativi che sono al tempo stesso una
risposta alle peculiarità di un territorio e un agente attivo della sua trasformazione? In
questo senso molti paesaggi che chiameremmo “naturali” non sono a conti fatti il
prodotto di un’interazione simbiotica di lungo periodo con le elaborazioni culturali e
sociali?
Infine, anche l’ultima opposizione – quella tra pensiero umano e natura –
procura inevitabilmente altri interrogativi: La natura pensa? L’essere umano è il 16
prodotto di un pensiero naturale? Il pensiero umano è un prodotto della natura?
Si tratta di domande molto impegnative e e importanti che non possiamo certo
presumere di poter risolvere una volta per tutte. Ci accontenteremo piuttosto di
impostare alcuni percorsi di riflessione, ognuno dei quali potrebbero essere
ulteriormente approfonditi e discussi, senza alcuna pretesa di esaustività e di
sistematicità.
Partiamo dunque dalla prima opposizione quella tra essere umano e ambiente. Il
fondamento di tale opposizione ha radici molto antiche. Si può dire che in gran parte
derivi dalla cultura giudeo cristiana e in parte dalla cultura greca.
Per esempio nel Salmo 8 attribuito a Davide nella Bibbia, l'autore rivolgendosi a
Dio chiede "Signore che cos'è l'uomo?", oppure traducendo differentemente "Signore
chi è l'uomo?".

Quand'io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita,


la luna e le stelle che tu hai disposte,
chi è mai l'uomo perché ti ricordi di lui?
Chi è mai, che tu ne abbia cura?
L'hai fatto di poco inferiore a un dio,
coronato di forza e splendore,
signore dell'opera delle tue mani.
Tutto hai messo sotto il suo dominio:
pecore buoi e bestie selvatiche,
uccelli del cielo e pesci del mare
e le creature degli oceani profondi.

Già in questo salmo si vede che l'essere umano è rappresentato all'esterno del suo
ambiente e quindi vi si contrappone per dominarlo. Da questo punto di vista viene
ipotizzata una sorta di gerarchia degli esseri viventi, al cui vertice sta l'uomo - ritenuto
di poco inferiore a un dio – mentre tutti gli altri animali vengono posti sotto il suo
dominio.
A distanza di migliaia di anni la nostra cosmologia, la nostra concezione del vivente,
il nostro pregiudizio antropologico sono rimasti sostanzialmente invariati. Anche se
naturalmente in questa stessa tradizione ci sono state voci differenti da San Francesco
a Théodore Monod, a Eugen Drewermann, solo per fare alcuni nomi.
Un tratto comune di diverse religioni tradizionali (dei monoteismi in particolare) in
effetti è quello di ipotizzare un dualismo tra Dio e creato, cui corrisponde un dualismo
tra essere umano (creato ad immagine divina) e il resto della natura. Secondo
Gregory Bateson tali presupposizioni sono una delle radici epistemologiche
dell’attuale crisi ecologica:

«Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete
l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e
naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in
cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza
mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi
sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza
sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie, in antitesi con
l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle
piante. Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se
possedete una tecnica progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà
quella di una palla di neve all’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti
tossici del vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e 17
l’esagerato sfruttamento delle riserve» (Bateson, 1976, p. 480).

Anche la cultura moderna e scientifica, quella “laica”, sia di matrice


illuminista, sia marxista, si inscrive - anche se non ne è consapevole - in questo
grande solco culturale e ne condivide gli assunti antropocentrici e specisti.
Da questo punto di vista almeno una parte della cultura laica e scientifica moderna
è in continuità e anzi ha rafforzato le premesse di fondo di questa cosmovisione.
Con l'avanzare del positivismo e della scienza è prevalsa, specialmente nella
modernità occidentale, una visione materialistica e meccanicistica, secondo la
quale la natura non ha né anima né scopo, è frutto del caso e risponde solamente a
leggi meccaniche. C'è un aspetto importante da sottolineare per comprendere come è
stata possibile questa particolare evoluzione:

«Non è il progresso tecnico in sé che trasforma i rapporti che gli umani


intrattengono tra loro e con il mondo, sono piuttosto le modifiche a volte tenui di
questi rapporti che rendono possibile un tipo di azione giudicato prima
irrealizzabile su o con una certa categoria di esistenti. Infatti ogni tecnica è prima
di tutto una relazione mediata o immediata tra un agente intenzionale e la
materia inorganica o vivente, compresa lo stesso agente. […]
L'evoluzione tecnica potrebbe […] essere considerata non come una complessità
graduale degli strumenti e dei processi di trasformazione, ma come una serie
ristretta e più o meno cumulativa di oggettivazioni di relazioni nuove»5.

È in epoca moderna dunque che si afferma una visione oggettivante e passivizzante


di tutto ciò che non è umano o artificiale e che dunque viene ricondotto nella categoria
di "natura".

«Perché si possa parlare di natura, è necessario che l’uomo faccia un passo


indietro rispetto all’ambiente nel quale immerso, è necessario che l’uomo si senta
esterno e superiore al mondo che lo circonda. Egli potrà allora percepire il mondo
come un tutto, poiché è indietreggiato rispetto a questo, si è estrapolato»6.

In questa visione della natura l’uomo è il centro del mondo e il centro della vita. La
specie umana è superiore e ha un diritto di dominio sulle altre specie. Mentre la natura
è vista come un giacimento inerte di risorse disponibili per lo sfruttamento e le
necessità dell'essere umano.
Dunque ancora oggi la cultura occidentale rappresenta l’essere umano come un
soggetto pensante autonomo a fronte di un ambiente esterno sul quale egli è libero di
intervenire a suo piacimento. Se si vuole comprendere qualcosa dei sistemi viventi e
della loro organizzazione dobbiamo cominciare a mettere in discussione tale visione
individualistica e atomistica.

Percorsi riflessivi nella scienza e nella cultura contemporanea

Negli ultimi decenni fortunatamente, anche dentro la tradizione scientifica e


filosofica occidentale sono emersi approcci molto differenti rispetto alla concezione
dell'ambiente. Approcci che vanno dalle riflessioni sull'autocostruzione e auto-
mantenimento presenti negli organismi viventi su cui si basa la teoria dell'autopoiesi

5
Ivi. p. 380.
6
Philippe Descola, Diversità di natura. Diversità di cultura, Book Time, Milano, 2011, p. 26.
di Humberto Maturana, all'idea della terra come un unico organismo vivente
presente in James Lovelock e nella sua ipotesi di Gaia7, fino alle riflessioni 18
sull'ecologia della mente di Gregory Bateson o su ecologia e complessità di
Edgar Morin.
L’idea di base secondo cui nell’universo vi sono “cose” separate – ha notato per
esempio Gregory Bateson - è una creazione e una proiezione della nostra psicologia
(Bateson, 1997, p. 148).
In realtà non è possibile separare l'essere umano dall'ambiente in cui è
immerso. Non esiste un "là fuori", un ambiente dato e oggettivo e nemmeno un “io”
separato dal suo ambiente e dalle sue infinite interazioni. Ambienti ed esseri viventi si
costruiscono e si adattano gli uni con gli altri, mediante le loro attività ed interazione.
Nell'evoluzione naturale, il processo di selezione nell'evoluzione è basato su una
relazione reciproca: l'ambiente seleziona gli organismi, e gli organismi selezionano
l'ambiente.8 Si tratta dunque di comprendere che l’essere umano non esiste come
forma vivente isolata al di fuori del suo ambiente.
Ricordiamo quanto diceva Edgar Morin,

«L’eco-sistema non è l’eco-sistema dal quale siano stati eliminati gli individui,
è l’eco-sistema insieme agli individui; l’individuo non è l’individuo separato
dall’eco-sistema, ma l’individuo insieme all’eco-sistema» (Morin, 1988, p. 88).

Dunque essere umano e ambiente non sono in opposizione ma sono integrati e in


simbiosi l’uno con l’altro. Da questo punto di vista possiamo dunque anche
interrogarci sul tipo di legame che lega l’essere umano a tutte le altre forme viventi.
Possiamo a questo proposito riproporre la domanda formulata da Gregory Bateson.

«Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula


e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l’ameba da una parte
e lo schizofrenico dall’altra?» (Bateson, 1984, p. 21).

Questa frase di Gregory Bateson sarebbe certamente piaciuta anche al sociologo


Roger Caillois un altro studioso dei rapporti tra essere umano e natura, il quale
tuttavia non avrebbe tralasciato di aggiungervi qualche riferimento all’universo dei
minerali e a quello dell’immaginazione.
A parere del sociologo francese esisterebbero infatti delle leggi più vaste che
governerebbero ad un tempo l’inerte e l’organico (Caillois, 1988, p. 24).

«Come tutti, sono consapevole dell’abisso che separa la materia inerte dalla
materia vivente – afferma il sociologo francese-, ma immagino egualmente che
l’una e l’altra possano presentare delle proprietà comuni, tendenti a ristabilire
l’integrità delle loro strutture, sia che si tratti dell’una o dell’altra. Così non ignoro
certo che una nebulosa contenente migliaia di mondi e la conchiglia secreta
da qualche mollusco marino sfidino qualsiasi tentativo di accostamento.
Ciononostante, io le vedo tutte e due sottomesse alla medesima legge dello
sviluppo a spirale. E di ciò non ci si dovrebbe stupire più di tanto, poiché la
spirale costituisce la sintesi perfetta di due leggi fondamentali dell’universo, la
simmetria e la crescita, che riescono a comporre l’ordine con l’espansione. È

7
Gaia è il nome con cui Lovelock indica il pianeta vivente. La sua ipotesi è la terra possa essere concepito
come un'organismo vivente e che oceani, mari, atmosfera, crosta terrestre e tutte le altre componenti
geofisiche del pianeta terra si mantengano in condizioni idonee alla presenza della vita proprio grazie al
comportamento e all'azione degli organismi viventi, vegetali e animali
8
Su questo aspetto vedi il bel libro di Richard C. Lewontin (1991), in particolare il cap. 2.
quasi inevitabile che l’animale, la pianta e gli astri si ritrovino egualmente
sottomessi ad esse» (Caillois, 1988, p. 5). 19

Caillois, pur essendo consapevole dell’abisso che separa il mondo vivente da quello
inanimato, non rinuncia tuttavia a sottolineare gli elementi di continuità e di
comunanza tra di essi. A questo proposito si richiama a Pasteur per proporre
l’accostamento tra le attività di ricostituzione di una qualunque parte rotta da parte di
un cristallo rimesso nella sua acqua madre e le attività di cicatrizzazione riscontrabili
nelle piante o nell’essere umano.
Dunque tra l’intelligenza umana e i fenomeni puramente biologici di calcificazione
presso gli organismi inferiori vi sarebbe, nonostante l’abisso che li separa, una
profonda comunanza.

«La mia ambizione – scrive – consiste piuttosto nel favorire una visione unitaria
delle vie della natura e dell’arte, una più ampia apertura di compasso, una prospettiva
allargata che comprenderebbe tanto la fisica dei fluidi, dei vapori, delle linfe, quanto le
invenzioni dei matematici e le risorse della tecnica o dell’abilità. Mi è capitato di
congetturare che l’ala della farfalla o il manto della zebra potevano essere considerati
come dei quadri interni, blasoni di una specie, certamente agli antipodi delle opere
esterne di un artista il cui stile esprime l’irriducibile personalità, derivata però da un
bisogno altrettanto inestirpabile. Il mio pensiero riposto, che oso appena esprimere,
implica che la fantasia degli uomini, l’immaginazione stessa non ha mai fatto altro che
prolungare le leggi generali dell’universo. Senza smettere di nutrirsene (e di seguirle),
le sviluppa e le ramifica. Sono consapevole di ciò che una tale ipotesi comporta di
scandaloso, se non di mortificante per un orgoglio di cui sembrano, a dire il vero,
guardarsi quasi istintivamente i più grandi artisti. Quest’intuizione – non è di più –
tende in effetti ad assimilare i quadri dei maestri alle nervature delle foglie degli alberi
e delle ali degli insetti, alle figure di contrazione dei noduli minerali» (Roger Caillois,
2003, pp. 28-29.).

«Quando, in occasione del suo ottantesimo compleanno, un fotografo venne da


Parigi e chiese a Monet di farsi ritrarre, il pittore gli rispose: “venite la primavera
prossima e fotografate i miei fiori nel giardino, essi mi assomigliano più di quanto
io non somigli a me stesso”» (Bloch, 1994, pp. 166-167).

Un qualcosa di simile, racconta in qualche modo il rapporto di Roger Caillois con le


“sue” pietre alla cui descrizione ha dedicato tanti libri e sulle quali ritorna in molte
situazioni della sua vita.

«La pietra mi restituisce a una storia lunga e oscura, anteriore all’uomo, una
storia che non lo riguarda per nulla e da cui io sono nato alla fine di un percorso
tra innumerevoli germogli altrettanto effimeri e vani. Sono sconcertato da questo
cippo stemmato. Esso mi fa conoscere meglio la mia condizione di essere
frazionato e caduco, ma d’una origine così lontana e preparato da un numero
così sterminato di casi. Non mi spiace di ritrovarmi solo, senza enciclopedia né
documenti né codice di fronte a un enigma probabilmente insignificante, la cui
soluzione, in ogni caso, non potrebbe interessare un organismo sensibile,
sessuato, mortale (mi sorprende improvvisa l’idea che ogni essere sessuato, vale
a dire destinato alla riproduzione, è necessariamente mortale)» (Caillois, 1999,
p. 76).
Nei percorsi di Caillois relativi alle conformazioni e ai disegni delle pietre, alle
abitudini e ai comportamenti degli animali, alle origini del mito e alle strutture che 20
sottendono a tutte queste cose e anche al mondo dell’immaginazione, si ritrova in
nuce un tentativo di rovesciare un modo di ragionare che ha radici antiche, quello per
cui l’uomo si vede al centro del mondo e al centro della vita. Per cui la specie umana
si proclama superiore e vanta un diritto di dominio sulle altre specie.
Caillois richiama e critica più volte quella specie di “antropocentrismo negativo”
che risulta dal tentativo di escludere l’essere umano dall’universo e di sottrarlo a tutte
le regole e le corrispondenze che lo legano agli altri esseri viventi e alle strutture
dell’universo.
Come altri Caillois non rinuncia a ricordare all’essere umano la sua natura animale e
il suo legame con gli altri regni naturali a costo di frustrare le proprie rappresentazioni
narcisistiche.
Su questo piano, in particolare, tra Gregory Bateson e Roger Caillois di fronte a
differenze pur significative emergono tuttavia più profonde corrispondenze. Intenti a
celebrare “l’unità della natura” (Bateson) o “l’indivisibilità dell’universo”
(Caillois), entrambi cercano a proprio modo di restituire l’essere umano ad una più
ampia prospettiva che contempla assieme essere umano e natura.
Ma che può significare dunque restituire l’uomo alla natura? Cos’è allora quella
natura che ha prodotto l’essere umano e che cos’è l’essere umano che può riflettere
sulla natura e addirittura credere di contrapporvisi e dominarla senza per questo mai
smettere di esserne parte?
Probabilmente l’importanza di questi discorsi non sta tanto nella risposta ma
nell’impegno che possiamo spendere per continuare a riproporre questo genere di
domande, con l’idea di poter ogni volta afferrare una connessione più profonda,
un’intuizione ancora, o un briciolo di consapevolezza in più.
Fin dal suo saggio giovanile, scritto poco più che ventenne, sulla mantide religiosa e
sui miti e i riferimenti simbolici che l’accompagnano tra le culture umane, Caillois
sottolineava che

«l’uomo non è isolato dalla natura, è un caso particolare solo per se stesso.
Non sfugge all’azione delle leggi biologiche che determinano il comportamento di
altre specie animali, ma queste leggi, adattate alla sua propria natura, sono
meno evidenti, meno imperative: esse non condizionano più l’azione, ma soltanto
la rappresentazione» (Caillois, 1998, p. 45).

In altre parole sosteneva che per quanto riguarda l’essere umano si può parlare di
un condizionamento biologico non tanto del comportamento quanto
dell’immaginazione e che questo condizionamento agisce allo stesso modo nei miti
quanto nei deliri ovvero nei due poli estremi dell’affabulazione. «Il mito – nota Caillois
- rappresenta alla coscienza l’immagine di un comportamento di cui essa avverte la
sollecitazione»(Caillois, 1998, p. 47).
Da questo punto di vista Caillois non si limita a ricordarci darwinianamente che
deriviamo da un’evoluzione animale, ma insiste sul fatto che da quella natura
originaria non ci emanciperemo mai completamente. La stessa civiltà umana può
opporsi alla natura ma non può negarla poiché ne è piuttosto un frutto
legittimo.

«Non esiste abisso tra il mondo naturale e il mondo umano. L’uomo è natura,
ma la natura in lui è libera e inventiva. Suppone un individuo che esita e che si
sbaglia, che riflette ed è responsabile, che, in una parola, è cosciente. La
coscienza tentenna, ricomincia senza sosta, va di scacco in scacco, è maldestra e
dolorosa. Ma alla fine crea»(Caillois, in Olivieri 2004, p. 91). 21

Certamente il comportamento umano non appare mai altrettanto meccanico e


implacabile di quello delle altre forme viventi: l’essere umano esita, tentenna, riflette,
si contraddice, ha più gioco degli altri animali e tuttavia non cessa mai completamente
di confrontarsi con un certo schema dinamico, con un canovaccio antico e profondo.
Ora un modo per affrontare in modo interessante il rapporto tra natura e cultura è
quello di interrogarci sull’idea di “bellezza”.
Sia Caillois che Bateson per esempio fanno discendere l’idea di bellezza da una
sensibilità a queste relazioni, ricorrenze, connessioni. Per Bateson per definizione
estetico indica proprio «sensibile alla struttura che connette».
Allo stesso modo Caillois suggerisce l’esistenza di una certa sensibilità basata su
una continuità inaspettata tra trame naturali e frutti dell’ingegno e dell’arte umana.
Per Caillois la nostra stessa idea di bellezza, ovvero la nostra inesplicabile ed inutile
propensione a suddividere le cose in belle e brutte è debitrice di queste norme
permanenti, di questi sistemi di relazioni.
Lo stesso osservatore in fondo non fa che utilizzare modelli che ha già appreso e
che in qualche modo derivano da questa disciplina o conoscenza primaria. Regole
geometriche, matematiche, proporzioni, simmetrie e asimmetrie sono presenti
nell’universo ad ogni livello persino negli elementi più elementari e infinitesimali.
Nell’infinita varietà di corpi, materiali, forme di vita, livree, fiori, maschere, dipinti,
ovunque si trovano gli stessi disegni, le stesse immagini, le stesse ricorrenze, gli
stessi accostamenti cromatici. Queste corrispondenze non si trovano solo nella natura
ma si prolungano anche nel mondo dell’immaginazione.

Superare l’alienazione e riscoprirsi

Ancora nella società moderna è molto diffusa un notevole grado di ignoranza


rispetto alla storia naturale, ovvero all’avventura biologica ed animale, all’evoluzione
del vivente. Gran parte della nostra cultura è da questo punto di vista alienata,
morta, ignorante rispetto alle condizioni stesse della propria riproduzione e
sopravvivenza.
C’è d’altra parte qualcosa del patrimonio storico spirituale dell’umanità che
dev’essere recuperato e riconosciuto nella sua capacità di comprendere e
rappresentare metaforicamente la nostra condizione, attraverso la consapevolezza
della fondamentale unicità ed unità dell’essere. Bisogna riconoscere e ascoltare da
questo punto di vista la saggezza e le intuizioni di altre tradizioni religiose e spirituali
(orientali, africane, indigene) così come rivalutare quei pensatori che sia nella
tradizione religiosa cristiana (S. Francesco, Albert Schweitzer, Karl Barth, Eugen
Drewermann) hanno saputo mostrare una sensibilità diversa verso il vivente.
Come ha sottolineato il teologo tedesco Eugen Drewermann, l’essere umano fa
parte della natura, dunque ogni ideologia che promuove un dominio dell’uomo sulla
natura diventa ipso facto un’ideologia del dominio dell’uomo su altri esseri umani.
Basta pensare per esempio come la distruzione della natura promossa dalla cultura
occidentale in tutto il Novecento abbia coinvolto evidentemente anche tutti i popoli
che vivevano a stretto contatto con la natura: «ogni dottrina che contrappone l’uomo
alla natura invece di inserirlo nella natura, pone al tempo stesso l’uomo contro l’uomo.
Che lo voglia o no, una simile dottrina provoca guerra e distruzione per quanto i suoi
discorsi possano invocare la pace» (Drewermann, 1999, pp. 114-115).
Il punto importante è comprendere la condizione in cui ci troviamo oggi. La
modernità ha coltivato l'illusione di fare a meno della natura, di rendersi
completamente autonomi dalla natura, e di vivere in un mondo completamente
artificiale o ricreato. Ma questa illusione oggi si rovescia nel suo opposto.
Potremmo dire che mai come oggi l'umanità dipende da un flusso costante e 22
crescente di beni e risorse sottratte alla natura: risorse fossili, minerali, terra,
legno, cibo, animali, tutto viene saccheggiato e incorporato in un enorme metabolismo
sociale che produce un enorme disequilibrio.
Come ha scritto Michel Serres:

«Sì, una volta acquisiti, o quasi, la padronanza e il possesso della natura


finiscono per il fatto che la natura ci possiede e praticamente ci padroneggia.
Eravamo sul punto di manipolarla, e ormai essa ci manipola a sua volta. Come il
mercato. Si direbbe che dinanzi a noi si levi un altro soggetto. Questo qui.»
(Serres 2009, p. 41).

Secondo Serres noi facciamo ancora oggi affidamento su una politica che
storicamente si definisce in un gioco a due, tra uomini. Infinite competizioni e
negoziazioni tra partiti, tra governo ed opposizioni, tra sindacati e industrie, credenti e
laici ecc. Sono giochi di equilibrio e di forza, ma sempre di umani con umani. Quello
che la filosofia ha chiamato dialettica. Ma, ci avverte Serres, oggi subiamo un colpo
definitivo al narcisismo umano: siamo «costretti a far entrare il mondo come
terzo nelle nostre relazioni politiche» (Ivi. p. 44). Il nuovo gioco a tre -
potremmo dire tra scienze, società e biogea - rimpiazzerà il vecchio gioco a due? E
come questo cambierà non solo la politica ma il nostro modo di pensare e di agire?
La novità è che le mosse della natura oggi ci appaiono più forti delle nostre, e
improvvisamente essa assume quel ruolo di soggetto che fino ad ora non eravamo
disposti a riconoscerle.

«Nel corso di alcuni decenni, l'antico oggetto passivo è diventato attivo. L'antico
soggetto umano - l'abbiamo visto - si mette a dipendere da ciò che, appunto
dipendeva da lui. Quale novità per i filosofi della conoscenza e dell'azione!»
(Serres 2009, p. 58).

In tutti i modi la prospettiva di una comunione tra essere umano e natura deve –
come ha ripetutamente sottolineato Théodore Monod (Monod, 2004) - spodestare
l’essere umano dal trono di re della creazione in cui si è indebitamente autocollocato.
All’essere umano va forse ricordata la sua natura animale a costo di frustrare le
proprie rappresentazioni narcisistiche. Non è possibile nessun passo avanti sul piano
della consapevolezza ecologica se non rifiutando l’idea che il resto della natura e delle
specie viventi non abbia altro motivo di esistenza che quello di essere utile alla specie
umana. La prossima conquista della specie umana che ci dobbiamo augurare sarebbe
una rivoluzione psichica da cui discenda una maggiore umiltà verso l’insieme della
natura vivente.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
23

Il linguaggio del mondo contemporaneo.


Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Docente: Marco Deriu

GENERE/SESSO

Si può parlare di genere e di relazioni tra uomini e donne con un approccio


accademico tradizionale; il genere diventa un tema fra gli altri che analizziamo in
maniera impersonale e distaccata.
Si può parlare di genere e di relazioni tra uomini e donne con un approccio
normativo, cercando di stabilire cosa sono o cosa devono essere uomini e donne.
Se ne può parlare con un approccio ideologico e polemico cercando di stabilire
degli schieramenti al fine di sposare una parte e demonizzare l’altra.
Infine se ne può parlare cercando di implicare noi stessi nella discussione. Noi
stessi, le nostre relazioni, la nostra esperienza, le nostre domande interiori.
Che significa parlare di “genere” oggi? Che significa per me e per voi? Che significa
culturalmente e politicamente? Che cosa ci aiuta a capire e che cosa lascia in ombra?
Per tutta la vita mi sono interrogato attorno al tema della mia identità, in termini
sessuali e di genere. Mi sono chiesto e mi chiedo della natura delle differenze tra
donne e uomini. Quanto conta l’elemento sessuale, quanto conta l’elemento culturale,
quanto l’elemento biografico e soggettivo? Quanto contano e come entrano in circolo
fra loro tutte queste cose nel definire ciò che siamo o meglio nel nostro divenire
uomini o donne?
Ma possiamo anche chiederci quanto conta nel modo in cui ne discutiamo. Chi parla
a propria volta è un soggetto sessuato – in questo caso un uomo – che porta anzitutto
la propria esperienza e le proprie visioni.
Se vogliamo fare qualcosa di interessante dobbiamo anzitutto partire dal
riconoscimento del legame tra la nostra storia personale e l’oggetto che pretendiamo
di studiare e conoscere. La prima questione infatti, per chi si occupa di uomini e
donne, di maschile e femminile, è: perché studi proprio questo? Quale curiosità ci sta
muovendo? Quali sono le domande che sottendono la tua ricerca? Spesso anche se
non ci facciamo troppo caso sono domande personali, esistenziali, relazionali. Queste
domande hanno a che fare con la storia del nostro rapporto con il proprio sesso, e nel
mio caso con altri uomini: mio padre o le altre figure di adulti significativi, i miei amici,
in generale il mondo degli uomini con cui mi sono confrontato fin da piccolo. E
dall’altra parte queste domande hanno a che fare con le nostre relazioni con l’altro
sesso. Dunque nel mio caso le relazioni con mia madre, con le mie sorelle, con quelle
che sono state le mie compagne o con le mie amiche. Uno scienziato che stimo molto,
Gregory Bateson ha scritto:

«Quando il ricercatore comincia a sondare zone sconosciute dell’universo,


l’altro capo della sonda è sempre immerso nelle sue parti vitali» (Bateson, 1997,
p. 376).

A questo proposito vorrei raccontarvi una storia che ho vissuto quando ero poco più
che ventenne e che ha continuato ad abitare dentro di me per tutti questi anni.
Storie depositate dentro noi
24
Nei primi anni novanta ho fatto un'esperienza di volontariato con un gruppo
interculturale - che comprendeva sia italiani sia immigrati di differenti età - e che si
occupava di educazione alla differenza e di interculturalità nelle scuole e in altri
contesti educativi. Vi partecipavano uomini e donne, di diversi paesi: Italia, Messico,
Brasile, Ciad, Sierra Leone, Camerun, Burundi, Rwanda, Palestina.
Con questo gruppo si facevano ogni tanto dei ritiri di riflessione, socializzazione e
formazione. In uno di questi "ritiri" in una casetta in montagna, avevamo deciso di
dedicare un certo spazio per metterci a confronto sui diversi modi di pensare e vivere
l'essere uomini e l'essere donna in rapporto alle differenti culture.
La sera ci dividemmo in due gruppi, le donne dovevano riflettere su che cosa - a
partire dalla loro esperienza - caratterizzava il loro essere donne, gli uomini dovevano
riflettere su che cosa - a partire dalla loro esperienza - caratterizzava il loro essere
uomini. Dopo di ché ci saremmo ritrovati tutti insieme per raccontare quel che era
emerso.
Mentre il gruppo di donne poté presentare (senza differenze radicali rispetto alle
differenti culture) una serie di elementi e caratteristiche che riguardavano la loro
esperienza quotidiana di donne (la sensibilità, la capacità relazionale, la capacità di
accudimento ecc.); nel gruppo maschile invece si generò un processo di discussione e
di contrapposizione tra opinioni e punti di vista radicalmente diversi, tali per cui alla
fine non si riuscì ad accordarsi su cosa caratterizzava l'esperienza quotidiana di
uomini.
Nel gruppo maschile erano emerse almeno tre posizioni decisamente differenti: gli
immigrati, soprattutto gli Africani e gli Arabi avevano ben chiaro e potevano
facilmente elencarli, gli elementi che caratterizzavano il loro essere uomini. Elementi
che permettevano secondo il loro schema di differenziarli decisamente dalle figure
femminili (l'essere forti emotivamente, l'essere decisi e autorevoli, il poter sostenere e
proteggere le donne e la famiglia, l'essere tutti d'un pezzo, l'essere indipendenti
ecc...); la maggior parte degli italiani sostenevano invece che tra uomini e donne non
c'erano differenze significative. Sostenevano che donne e uomini erano uguali che non
esistevano elementi che caratterizzassero l'esperienza maschile, differenziandola da
quella femminile, che vi erano solo differenze tra persona e persona, a prescindere dal
sesso; da ultimo, tra i "bianchi" vi era anche chi sosteneva che invece tra uomini e
donne esisteva una bella differenza; infatti anche se non era possibile distinguere tra
ciò che era di origine biologica e ciò che era di origine storica, sociale e culturale, era
ad ogni modo possibile riconoscere almeno al livello empirico dell'esperienza
quotidiana delle differenze significative tra uomini e donne.
Sul momento, tuttavia la discussione non portò a nulla se non ad accrescere le
tensioni nel gruppo degli uomini e la competitività fra questo e il gruppo delle donne.
Il giorno dopo ci fu per altro l'occasione per continuare indirettamente le riflessioni
su questi problemi. La giornata era infatti dedicata alla comunicazione interpersonale
di esperienze di benessere e di malessere. Ogni persona raccontava le proprie
esperienze ad un'altra persona che poi avrebbe dovuto raccontarla di nuovo davanti al
gruppo, nella maniera più fedele possibile alle emozioni che la prima persona aveva
comunicato.
Così rimanemmo per qualche ora in ascolto gli uni delle altre, e mentre sentivamo
raccontare queste esperienze di malessere e di sofferenza, vi furono momenti molto
coinvolgenti. Alcune di queste storie, legate ad esperienze di perdita e di lutto, erano
talmente tristi che molte persone si sentirono toccate nell'intimo e si misero a
piangere.
Ho detto persone, ma non è proprio esatto. Quel che avvenne è che, a prescindere
dalle differenti provenienze culturali, tutte le donne, con un'unica eccezione, si erano
lasciate andare nel pianto, mentre tutti gli uomini, anche qui con un'unica eccezione,
pur essendo visibilmente contriti, non avevano trovato un momento di espressione 25
delle proprie emozioni attraverso le lacrime.
Alla fine interrogati su questo aspetto molti uomini ammisero o che non erano
riusciti a piangere o che si erano trattenuti. Eppure quasi tutti avrebbero voluto
piangere.
Perché non lo avevano fatto? Per ragioni sessuali, culturali, biografiche e personali?
Per me - credo per tutti/e - questa esperienza fu di enorme intensità e mi colpì
moltissimo. A me sembrava molto chiaro comunque che le differenze uomo-donna che
i maschi italiani avevano a parole buttato fuori dalla porta in nome di un
riconoscimento di un'ideale uguaglianza tra uomini e donne, rientravano dalla finestra
delle emozioni.
Credo che in quella occasione si fossero materializzate tutte le aporie e le
contraddizioni dei rapporti uomo-donna. Le posizioni che erano emerse dalla
discussione riportavano a due possibilità diverse ma in fondo simmetriche:

a) attraverso il discorso sulla differenza oggettivizzare e naturalizzare delle


caratteristiche identitarie storiche riconducendo gli uomini e le donne a modelli
prestabiliti, stabili e universali oppure
b) attraverso il discorso sull’uguaglianza negare le differenze esperienziali che
ciascuno di noi in realtà viveva quotidianamente.

Fu allora credo che iniziai più o meno consapevolmente a cercare un'alternativa a


questi due incubi: a una posizione che ci rinchiude in modelli stereotipati e a una
posizione che appiattisce le nostre esperienze reali e cancella le differenze. Entrambe
queste prospettive infatti a mio parere ci impoveriscono terribilmente.

La nascita della categoria di "genere"

Negli anni successivi ho studiato la letteratura femminista su sessi e generi. La


domanda continuava ad essere: gli uomini e le donne sono uguali o sono differenti? E
in quest’ultimo caso da dove originerebbe o su cosa si fonderebbe la propria diversità?
Su dati naturali o culturali?
Oggi riconosco più facilmente che queste erano le mie domande. Altre persone
partono da altre esperienze e altre domande. Che magari riguardano lo statuto di
concetti come donna, uomo, maschile, femminile, eterosessualità e omosessualità
ecc...
Ciò che comunque rimane importante è notare che ciò che diamo per scontato e
che utilizziamo nel linguaggio comune: uomini, donne, maschile, femminile,
maternità, paternità, sessi, sessualità, sono tutte realtà che non sono autoevidenti e
che inevitabilmente interroghiamo e significhiamo continuamente, che ne siamo
consapevoli o no.
Come ha scritto Lea Melandri,

«Le figure del maschile e del femminile, gli attributi, i comportamenti, per non
dire i “destini” che sembrano esservi connessi, non hanno mai smesso di creare
incertezze, attese, delusioni, conflitti e sofferenze nello sviluppo degli individui, di
aprire un’inspiegabile divaricazione tra vita pubblica e privata, di fare
intravedere, dietro i mutamenti generazionali, il riproporsi di interrogativi
“eterni”.
La vicenda dei sessi rappresenta perciò uno degli aspetti più vistosi della
convivenza umana, una realtà che è sotto gli occhi di tutti, da cui tutti siamo
mossi, ma che sembra difficile vedere. In altre parole, un’evidenza invisibile, una
forma del vivere che non ci abbandona un istante, ma che ha bisogno, per
imporsi all’attenzione di essere scoperta» (Melandri, 2001, p. 98). 26

Si può notare comunque che su questi temi si confrontano da tempo diverse


costruzioni teoriche proposte dalle studiose femministe elaborate a partire dal
secolo scorso e fino ad oggi.
Per buona parte del ‘900 e fino a pochi decenni fa è stata predominante una
visione emancipazionista basata sull’idea di uguaglianza tra uomini e donne e sulla
rivendicazione di una parità, di un’uguaglianza di diritti e di trattamento, oggi
diremmo di “pari opportunità”.
A partire dagli anni ’70 si diffonde invece una riflessione che pone l’accento
piuttosto sulla differenza e sulla valorizzazione dell’esperienza femminile.
In ambito anglosassone si comincia a parlare di “genere” e di “differenza di
genere”, mentre in Francia e in Italia si parla anche e sopratutto di “differenza
sessuale”.
Nel primo caso si enfatizza soprattutto la dimensione di costruzione sociale della
percezione sessuata nella seconda si insiste sulla dimensione di auto riflessività e
autodeterminazione di un soggetto vivente storico e sessuato.
Negli anni ’90 si affaccia infine una teorizzazione femminista post-
strutturalista, in cui si contesta anche lo schema binario uomo/donna e si rimettono
in discussione gli stessi termini genere, sesso. Questo come vedremo non significa che
non si riconoscano delle differenze ma si discute come e quanto le differenze sono
costruite, riconosciute, nominate e rispettate.
Val la pena, a questo punto, soffermarci sulle le categorie linguistiche che si
utilizzano in questo dibattito e in parte nella lingua comune.
Cosa intendiamo quindi per sesso, per genere, per uomini o donne e per
differenza sessuale?
In prima battuta possiamo notare che storicamente si è distinto tra il livello delle
differenze biologiche e anatomiche, ciò che indichiamo con il termine “sesso” o
dimorfismo sessuale e il livello che riguarda quel complesso di caratteristiche culturali,
sociali e psicologiche che definiscono le identità maschili e femminili in uno specifico
contesto storico e sociale e che convenzionalmente indichiamo con il concetto di
“genere”, identità di genere, differenze di genere o anche “ruoli sessuali”. Tuttavia -
come vedremo fra poco - questa distinzione tradizionale oggi è a sua volta contestata
e il discorso viene ulteriormente complessificato. Ma andiamo in ordine.

Il termine “genere” ha fatto la sua apparizione nel 1975 in un saggio


dell’antropologa Gayle Rubin, The Traffic in Women. Note on the «Political
Economy» of sex, in cui l’autrice parlava di sex-gender system per indicare l’insieme
dei rapporti e dei processi attraverso cui ogni società trasforma la sessualità biologica
in un prodotto sociale, differenziando la donna dall’uomo e identificando compiti
specifici per ciascun sesso.

«Gli uomini e le donne sono, è ovvio, diversi. Ma non sono così diversi come il
giorno e la notte, la terra e il cielo, lo yin e lo yang, la vita e la morte. Dal punto
di vista della natura gli uomini e le donne sono più simili gli uni alle altre che a
qualsiasi altra cosa – alle montagne, ai canguri o alle palme da cocco. L’idea che
siano diversi più di quanto ciascuno di essi lo è da qualsiasi altra cosa deve
derivare da un motivo che non ha niente a che fare con la natura».

Come vedete in questa spiegazione, Gayle Rubin insiste più sull’uguaglianza, o se


volete sulla comunanza tra uomini e donne che sulla loro differenza e allude al fatto
che la costruzione di una differenza resta in primo luogo un fatto sociale e attribuisce
a questa differenziazione la radice della subordinazione di un sesso all’altro. 27
Un’altra autrice, Joan Scott, nel suo saggio pubblicato originariamente nel 1986
dal titolo Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica (Scott, 2000, pp. 309-
310) ha notato che l’introduzione di questo termine da parte delle femministe
americane assolverebbe a diverse funzioni:

1. denotare il rifiuto di un determinismo biologico implicito nei termini quali


sesso o differenza sessuale. E d’altra parte accentua la dimensione di
costruzione culturale.
2. introdurre una nozione relazionale nel vocabolario delle scienze storico-
sociali: uomini e donne si definiscono in termini di reciprocità. L’uno implica lo
studio dell’altra.
3. un tentativo di rinnovamento radicale dei paradigmi disciplinari attraverso
un riesame critico delle premesse e dei modelli di ricerca, in analogia e in
connessione con altri concetti chiave quali classe o razza. L’uso di genere pone
in evidenzia infatti un intero sistema di relazioni di potere.
4. il termine mostra un suono più neutrale e più scientifico rispetto alla parola
sesso o donne e permetteva un maggior accettabilità politica della materia,
specialmente in ambito universitario.

Per la Scott il genere è al contempo un “elemento costitutivo delle relazioni sociali


fondate su una cosciente differenza tra i sessi” (basato su simboli, concetti normativi,
idee e istituzioni politiche e identità soggettive) e un “fattore primario del manifestarsi
dei rapporti di potere”.

«Il genere è un fattore primario nella manifestazione dei rapporti di potere.


Per meglio dire: il genere è un terreno fondamentale al cui interno o per mezzo
del quale viene elaborato il potere. Il genere non è l’unico terreno, ma sembra
essere stato un modo persistente e ricorrente con cui è stata possibile la
manifestazione del potere in Occidente, sia nella tradizione giudaico-cristiana sia
in quella islamica» (Scott, 2000, p. 336).

In altre parole, secondo Scott c’è una relazione di reciprocità tra genere e società,
tale per cui le forme e i significati di genere e di potere in una società si determinano
a vicenda.

Qualche anno prima era stato un uomo a dedicare un intero libro a termine genere.
E fra l’altro si trattava a quel tempo di un prete e teologo cattolico. Stiamo parlando di
Ivan Illich (1926-2002) e del suo libro Gender uscito nel 1982. Forse la prima
monografia dedicata al tema. Il libro trae ispirazione da un dialogo tra Illich e la
storica femminista Barbara Duden.
L’aspetto interessante è che in quest’opera Illich intende il genere in un senso
differente e lo contrappone a movimento di neutralizzazione e uguaglianza dei sessi
funzionale alla produzione industriale e capitalistica.

«Io contrappongo il regime della scarsità al regno del genere. Sostengo che la
scomparsa del genere vernacolare è la condizione decisiva dell’ascesa del
capitalismo e di un modo di vivere che dipende da merci prodotte industrialmente»
(Illich, 2013, p. 31).

Per Genere Illich intende una differenza di comportamento, rintracciabile in tutte le


culture vernacolari, nelle quali vengono distinti luoghi, tempi, utensili, compiti, modi di
parlare, gesti e percezioni associati agli uomini e alle donne. Illich parla di “genere
vernacolare” (nativo, indigeno, popolare), allo stesso modo in cui si parla di lingua 28
vernacolare. In altre parole il genere rispecchia un’associazione tra cultura materiale
locale duale e gli uomini e le donne che ne sono influenzati.
Dunque il genere «indica una complementarietà enigmatica e asimmetrica»
(p.32).
Per Illich a partire dal tardo settecento e poi in particolare con la rivoluzione
industriale e lo sviluppo economico il genere vernacolare viene soppiantato
dal regime del “sesso economico” ovvero una polarizzazione rigida che determina
una scomparsa di molti motivi vernacolari e una forma di diseguaglianza, di
sfruttamento e di ingiustizia. In qualsiasi società industriale infatti pur lavorando
anch’esse le donne ricevono sempre meno degli uomini. Per Illich il passaggio al modo
di produzione capitalistico è segnato dalla perdita del genere (p.19), una
discriminazione economica delle donne sarebbe stata impossibile senza l’abolizione del
genere e la costruzione sociale del sesso (p. 43).
In una società industriale, il linguaggio diventa neutro e contemporaneamente
sessista.

«Una società industriale non può esistere se non impone certi presupposti
unisex: il presupposto che entrambi i sessi siano fatti per lo stesso lavoro,
percepiscano la stessa realtà e abbiano, a parte qualche trascurabile variante
esteriore, gli stessi bisogni» (Illich, 2013, p. 38).

Quello che Illich vuol dire è che il soggetto produttore e consumatore che la
società industriale postula è un essere umano neutro perché dev’essere inserito
nei cicli di lavoro e consumo, anche se nei fatti determina una polarizzazione sessuale
della forza lavoro.
In altre parole potremmo dire noi oggi che lo sviluppo economico capitalistico
impone un ideale egualitario su base economica (siamo tutti produttori e
consumatori allo stesso modo) ma al tempo stesso questo modello egualitario neutro,
distrugge qualsiasi riconoscimento di differenze vernacolari, e impone una
discriminazione di fatto rispetto al salario economico ma anche rispetto al
riconoscimento del lavoro di riproduzione delle donne o di quello che Illich chiama
“lavoro ombra”. Per Illich le donne sono discriminate negli impieghi, ma sono anche
costrette svolgere un lavoro che è economicamente fondamentalmente non
riconosciuto. Il loro compito diventa «aggiungere valore senza riproduzione a ciò che
produce il lavoro salariato» (p.81).
Illich in questo modo da una spiegazione diversa della provenienza patriarcale delle
discriminazioni economiche. Per Illich, il patriarcato è uno squilibrio di poteri e un
modello di predominio maschile imposto dentro la logica del genere. Ma il sessismo
economico è uno sfruttamento dentro una logica apparentemente neutra del sesso.
Quello che Illich sta cercando di notare è che in passato certamente donne e uomini
svolgevano compiti e lavori differenti, ma le donne non erano obbligate a lavorare in
una forma nascosta o sotterranea. Il lavoro femminile non era disconosciuto o
secondario.
In sintesi per Ilich,

«Il genere è qualcosa di diverso dal sesso e di assai più ampio. Esprime una
polarità sociale che è fondamentale e che non può essere la stessa in due luoghi
diversi» (p. 100).

Illich è stato molto criticato allora dalle femministe americane perché in qualche
modo romanticizzava il genere vernacolare e dava poca rilevanza alle
strutture di ineguaglianza presenti nelle società tradizionali. In questo credo
che le critiche fossero appropriate. 29
D’altra parte a mio avviso Illich ha compreso e messo in luce prima e meglio di
altri la peculiarità del sessismo moderno rispetto alle opposizioni di genere del
passato, delle sue relazioni con lo sviluppo capitalistico, e anche dell’errore di
proiettare su tutte le società tradizionali o non occidentali lo stesso schema di lettura
indotto dal sessismo contemporaneo. Il genere vernacolare è presente in tutte le
società e le culture, ma il grado di riconoscimento sociale, produttivo e riproduttivo,
nonché l’autorità politica, sociale, religiosa di uomini e donne possono variare anche
molto.
Non distinguere questi aspetti secondo me porta a fare molta confusione. Un
esempio di questa confusione è espressa dal sociologo Anthony Giddens quando
dice:

«sebbene i ruoli maschili e femminili siano considerevolmente diversi nelle


varie culture, non esiste alcun esempio di società in cui le donne abbiano
maggior potere degli uomini. Dovunque il loro compito primario è la cura dei
bambini e della casa, mentre le attività politiche e militari tendono ad essere
decisamente maschili. In nessuna parte del mondo gli uomini hanno la
responsabilità primaria di allevare i bambini. Specularmente, sono poche o
nessuna le culture in cui alle donne siano affidati compiti principali l’allevamento
o la caccia degli animali di grandi dimensioni, la pesca in profondità o
l’agricoltura arativa. Nelle società industriali la divisione del lavoro tra i sessi è
divenuta meno netta rispetto a quelle non industriali, ma gli uomini superano
tuttora di gran lunga le donne nelle posizione di potere e di influenza» (Anthony
Giddens, 1994, p. 178).

A mio parere Giddens sovrappone qui diversità vernacolari e sistemi di potere e


disconosce il fatto che sono esistite ed esistono invece molte società e culture
nelle quali donne e uomini hanno ruoli differenziati ma non per questo forme di
discriminazioni. La ricerca contemporanea ha analizzato ad esempio diverse società
matriarcali o matrifocali (cfr. Goettner-Abendroth 2013 e Rosati Freeman, 2010).
D’altra parte probabilmente Illich ha sottovalutato il ruolo storico del patriarcato e
anche la commistione tra elementi patriarcali tradizionali ed elementi sessisti moderni
che si ritrova nelle società occidentali contemporanee.
La divisione del lavoro, dei compiti e la costruzione di ruoli sessuali nella modernità
si è costituita assieme ad un sistema di organizzazione del potere nella famiglia e nella
vita pubblica basato su un predominio dell’uomo sulla donna. Il dominio dell’uomo si è
andato affermando nella cultura e nella produzione simbolica, nel lavoro, nello stato,
nell’economia, nella sessualità ecc.
Si tratta di quella condizione di dominio maschile sulla donna, sul suo corpo e sulla
sua fecondità che è stato indicato con il concetto di “patriarcato”. In antropologia per
patriarcato si intende un organizzazione della famiglia e della società l’autorità e le
funzioni più importanti sono accentrate sulla figura paterna o sull’uomo più anziano e
dove i diritti e il potere sono trasmessi ai membri maschili, con preferenza ai
primogeniti. 9
Riletto in un ottica più ampia dal femminismo, secondo la definizione di Adrienne
Rich,

9
H.J.S. Maine, nel suo Ancient Law, del 1861, avanzò la tesi della priorità storica della discendenza
patrilineare sulla discendenza matrinileare sottolineando in particolare il potere dispotico e arbitrario del
patriarca fin nelle società primitive. Al contrario, nello stesso anno, J.J. Bachofen propose la tesi la
priorità storica del matriarcato. Gli studi moderni dell'archeologa Marija Gimbutas sulle culture matriarcali
dell'Europa antica confermerebbero in effetti questa seconda tesi.
«Patriarcato è il potere dei padri: un sistema socio-familiare, ideologico, 30
politico in cui gli uomini – con la forza, con la pressione diretta, o attraverso riti,
tradizioni, leggi, linguaggio, abitudini, etichetta, educazione e divisione del lavoro
– determinano quale ruolo compete alle donne, in cui la femmina è ovunque
sottoposta al maschio» (Rich, 1983, pp. 54-55).

Dal punto di vista delle strutture sociali il patriarcato si è fondato su un nucleo


famigliare costruito attorno ad un capofamiglia maschio – il patriarca appunto – ad
una discendenza patrilineare, e ad una suddivisione artificiale tra la vita pubblica e
quella privata. Mentre lo spazio pubblico è divenuto uno spazio abitato e controllato
fondamentalmente da uomini, con un suo linguaggio, delle proprie modalità di
comportamento e di rapporto, lo spazio domestico, delle relazioni e della cura è stato
in qualche modo ritenuto non significativo relegato nel privato familiare e affidato alle
cure femminili. In questo senso si è anche sottratto una possibilità di riconoscimento e
di valorizzazione alla dimensione della cura e delle relazioni. Nei fatti tutte le leve di
potere della nostra società, dalla politica all’economia, dalle banche alle imprese, dalla
cultura all’esercito, dalle università alle chiese, sono affidate sostanzialmente agli
uomini. Di converso gli uomini sono stati esonerati ma anche esiliati dalle dimensioni
della cura, dell’affettività, dell’emozione e dell’intimità e questo li ha impoveriti sul
piano umano-relazionale.
Le disuguaglianze sociali tra uomini e donne si manifestano dunque nella diversa
attribuzione di ruoli e nella diversa importanza riconosciuta a ciascuno di essi. Tutti i
ruoli più importanti, gratificanti e più pagati sono stati riservati agli uomini, mentre i
ruoli più relazionali e connessi alla riproduzione sono stati considerati negativamente e
attribuiti alle donne.
Alcuni studiosi hanno messo in luce il rapporto tra bassa valorizzazione delle donne
e il loro scarso riconoscimento sociale, politico ed economico. Le donne sono sovra-
rappresentate nei settori professionali meno retribuiti e meno riconosciuti, mentre
sono via via sempre più sottorappresentate mano a mano che si sale nella gerarchia
delle professioni e del riconoscimento sociale. Per intenderci ci sono molte donne nelle
professioni di cura, dall’assistente sociale alla maestra della scuola per l’infanzia ma
pochissime in ruoli politici rilevanti, pochissime a dirigere un università, ancora meno
in aziende di una certa importanza e non ne troviamo quasi nessuna a capo di istituti
bancari e di credito.
Le differenze di ruolo e di comportamento tra uomini e donne vengono riprodotte
non solo tramite la struttura sociale ma anche attraverso altre dimensioni. Alcune
studiose insistono soprattutto sull’importanza dei primi stadi di sviluppo infantile e al
ruolo del rispecchiamento nei ruoli famigliari e nella dimensione educativa di genere
spesso proposta in maniera del tutto inconsapevole e non interrogata.10 Da questo
punto di vista assume un’importanza centrale la distribuzione dei compiti sessuali che
si registra nelle diverse famiglie.
Gli studi sociologici e psicologici hanno sottolineato che i bambini e le bambine sono
trattati diversamente dai genitori, in qualche modo sono educate ad un ruolo sessuale,
nell’atteggiamento, nel comportamento, nel rapporto con la corporeità, con
l’emotività, con il linguaggio, con gli oggetti, con i diversi giochi. Anche
indipendentemente dagli atteggiamenti dei genitori i bambini imparano presto a
riconoscere differenze tra uomini e donne a partire dal tono della voce, dai profumi,
dall’acconciatura, dall’abbigliamento, dal modo di muoversi ecc. Anche se non ce ne
rendiamo conto tutte le dimensioni della nostra vita sono ricche di segni che denotano
l’appartenenza ad un sesso o ad un altro. Oltre alle dimensioni della socializzazione

10
Si veda in proposito il classico testo di Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine (Gianini Belotti, 1987).
primaria, pensiamo al ruolo educativo e istruttivo giocato dalla televisione, dai libri,
dalle fiabe, dal cinema, dai fumetti. Ognuno di questi propone dei modelli sessuali che 31
vengono inconsciamente assunti dai bambini. Anche il gruppo dei pari gioca un ruolo
importante nell’apprendimento di tali modelli maschili e femminili.
Dunque torniamo alla nostra discussione sul genere.
Di fondo, il concetto di genere è utilizzato per interrogare e discutere le forme di
disparità sociale e politica tra i due sessi e per denaturalizzare le premesse di questa
subordinazione.
Come hanno notato Simonetta Piccone Stella e Chiara Saraceno,

«Come tale, la scelta di sussumere i due sessi e i loro rapporti nell’espressione


“genere” risponde a una spinta intellettuale ben precisa: all’esigenza di attribuire
il massimo peso a quanto vi è di socialmente costruito nella disuguaglianza
sessuale, a quanto vi è di non biologicamente dato nella relazione di disparità tra
uomini e donne» (Piccone Stella, Saraceno, 1996, p. 11).

3. La prospettiva della differenza sessuale

La questione posta dal genere tuttavia non risolve del tutto la questione della
differenza tra i sessi. Da questo punto di vista non a caso si è aperta nella tradizione
femminista un altro filone di riflessione e discussione politica, quello fondato sul
cosiddetto “pensiero della differenza sessuale”, che trae origine negli anni ’70 dai
lavori di Luce Irigaray in Francia e di Carla Lonzi in Italia, e prende spunto anche
dall’espressione letteraria di grandi autrici del novecento quali Virginia Woolf, Christa
Woolf, Clarice Lispector, Gertrude Stein, Elsa Morante, Ivy Compton Burnett.
Come nota Luce Irigaray in Etica della differenza sessuale,

«La differenza sessuale rappresenta uno dei problemi o il problema che la


nostra epoca ha da pensare. Ogni epoca – secondo Heidegger – ha una cosa da
pensare. Una soltanto. La differenza sessuale, probabilmente, è quella del nostro
tempo. La cosa del nostro tempo che, pensata, ci darebbe la “salvezza”?»
(Irigaray, 1985, p. 11)

Da parte sua, Carla Lonzi, nel suo Sputiamo su Hegel, del 1970 chiarisce la
relazione tra il principio di uguaglianza e quello della differenza sessuale:

«L'uguaglianza è un principio giuridico: il denominatore comune presente in ogni


essere umano a cui va reso giustizia. La differenza è un principio esistenziale che
riguarda i modi dell'essere umano, la peculiarità delle sue esperienze, delle sue
finalità, delle sue aperture, del suo senso dell'esistenza in una situazione data e
nella situazione che vuole darsi. Quella tra donna e uomo è la differenza
fondamentale dell'umanità. […] L'uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul
piano delle leggi e dei diritti. E quanto si impone loro sul piano della cultura. È il
principio in base al quale l'egemone continua a condizionare il non-egemone»
(Lonzi, 1974, pp. 20-21).

Nel contesto italiano “il pensiero della differenza” è stato rielaborato e portato
avanti soprattutto dalla Libreria delle donne di Milano11 e dalla Comunità filosofica
di Diotima.12

11
La libreria delle donne di Milano ha aperto i battenti il 15 ottobre 1975 nella sede di Via Dogana 2. Dal
2001 si è trasferita in via Calvi 29.
Le pensatrici della differenza ritengono che il tentativo di non considerare la
differenza sessuale da parte delle donne o di ritenerla meramente una “falsa 32
esteriorità” è dovuto all’esperienza storica del dominio maschile sulle donne e al
tentativo di allontanare l’ombra del biologico come destino della donna, ma si
configura nei fatti come una “decisione semplificatrice” (Diotima, 1987, p. 10). Il
pensiero della differenza sessuale sottolinea che i modelli di femminismo
“emancipazionista”, ovvero quelli basati sull’idea di una mera integrazione delle donne
nel mondo, nelle istituzioni e nel simbolico maschile non hanno fatto altro che
cambiare i termini di un dominio: «dall’inferiorità discriminante ad un’integrazione
mutilante» (Diotima, 1987, p. 32).
L’alternativa perseguita invece è quella del riconoscimento della impossibilità della
donna di dirsi in un linguaggio – quello dell’universalismo maschile - che non la
riconosce in quanto soggetto, della necessità di passare attraverso l’esperienza storica
del separatismo come primo passo verso la costruzione di un simbolico che metta
capo anche all’essere delle donne.
Come ha scritto Adriana Cavarero:

«Il pensiero della differenza sessuale, riconoscendo il duale originario come un


intrascendibile presupposto, esclude una logica di assimilazione dell’Altro. Per il
pensiero femminile della differenza, l’Altro è teoricamente un non ancora
indagato, e probabilmente un indagabile solo nei modi consentiti da una logica
duale per ora solo prospettata come corretta e necessaria, ma non ancora
sviluppata» (Cavarero in Diotima 1987, p. 78).

Nelle intenzioni di queste autrici dunque il riconoscimento del “due” non è una
riconferma di un’identità di ruolo strutturata su dualismi e opposizioni tradizionali
come maschile/femminile, cultura/natura, corpo/spirito ecc., ma al contrario un
“pensarsi, qui ed ora, di un vivente storico sessuato al femminile”.
Come possiamo leggere in un testo storico curato dalla Libreria delle donne di
Milano, Non credere di avere dei diritti,

«La differenza sessuale è una differenza umana originaria. Non ci è dato


racchiuderla dentro questo o quel significato ma di accettarla insieme al nostro
essere corpo e di renderla significante: fonte inesauribile di sempre nuovi
significati» (Libreria delle donne di Milano, 1987, p. 152).

Dunque la differenza non è una differenza oggettivabile e definibile una volta per
tutte ma corrisponde alla possibilità di differire dalla norma maschile ma anche
dall’identità sociale di “genere femminile” o anche dalla propria stessa identità.
Il femminismo della differenza chiarisce anche il campo principale della propria
azione quello di fare uno spazio simbolico a questa differenza. Come nota Luisa
Muraro, ne L’ordine simbolico della madre, “il reale in assenza di simbolico è meno di
niente”:

«La struttura originaria del sapere non è formata dalla pura circolarità di
esperienza e logica. C’è anche la dicibilità come problema di ordine simbolico
storicamente determinato. La dicibilità dipende come problema di ordine
simbolico storicamente determinato. La dicibilità dipende dall’insieme delle
mediazioni che una data cultura assicura. Essa è dunque un’istanza storica senza
essere disgiungibile dall’istanza logica» (Muraro, 1991, p. 98).

12
La comunità filosofica di Diotima ha inizio a Verona nel dicembre del 1983 con un primo nome
provvisorio FF (effe effe), per poi assumere il nome definitivo di Diotima nel 1984.
4. La svolta post-strutturalista 33

Tale discussione su genere, sesso, differenza sessuale, subisce una svolta negli anni
’90, quando emergono poi alcune studiose di impostazione “post-struttualista”,
come Teresa De Lauretis, Judith Butler, Donna Haraway ed altre, che mettono
l’accento sulla dimensione del linguaggio come strumento di costruzione,
rappresentazione e comunicazione del genere e insistono sulla critica degli schemi
dualistici e della stessa nozione di “donna”. Si attacca l’eterosessualità nella sua
dimensione normativa, ovvero nel suo tentativo di affermarsi come unico modello
possibile e nel suo ruolo di consolidamento dell’opposizione binaria uomo/donna.
Judith Butler è considerata una delle più importanti esponenti delle teorie
lesbiche. Alcuni suoi libri come Gender Trouble (in italiano Scambi di genere) e Bodies
That matter: On the Discursive Limit of “Sex” (in italiano Corpi che contano. I limiti
discorsivi del sesso) sono diventati un punto di riferimento per il femminismo
contemporaneo. L’obiettivo polemico della Butler è il paradigma o meglio la
normatività eterosessuale che è responsabile dei processi di costruzione e
definizione dei modelli sessuali su una base binaria e in generale dell’egemonia
maschilista. Judith Butler rifiuta la divisione tradizionale tra sesso e genere, ovvero tra
materia biofisica e costruzione cultuale. A suo avviso non c’è nel corpo una
materialità primigenia che esiste precedentemente alla costruzione di genere ma al
contrario c’è una performatività di genere che da luogo a un processo di
materializzazione che da forma alla materialità dei corpi.

«in tale prospettiva, ciò che costituisce la fissità del corpo, i suoi lineamenti, i
suoi orientamenti, sarà visto come pienamente materiale; ma la materialità sarà
riconsiderata come effetto del potere, anzi l'effetto più produttivo del potere»
(Butler, 1996, p. 2).

Dunque la materialità dei sessi e dei generi sono il risultato di un processo di


costruzione e normativizzazione attraverso un agire ripetuto, ovvero attraverso
«schemi regolativi» che non sono strutture atemporali, bensì «criteri di intelligibilità
storicamente revisionabili che producono e obliterano corpi che contano» (Butler,
1996, p. 13).
La materia dei corpi dunque non è un dato oggettivo e immutabile ma il
frutto di una storia. Dunque il legame tra materialità e significazione dei corpi che
contano è indissolubile.
Per Butler e tutta la corrente postmodernista il genere non ha un fondamento a-
priori è il risultato di un allestimento, di una ripetizione. Il genere è un prodotto
soprattutto di un’attività continua di costruzione di norme e significati, di re-citazioni e
di ri-petizioni che si sedimentano nel tempo e tali per cui i soggetti si percepiscono
come tali.

«Perché negare il fatto – si domanda Judith Butler – che vi possano essere delle
occasioni in cui la mascolinità si manifesta nella donna e che femminile e
maschile non appartengano a corpi di sesso diverso?» (Butler, 2006, p. 231).

Ma a questo punto ci si domanda se la disfatta delle categorie uomo-donna non si


trasferisca nella normalizzazione di categorie quali “maschile” e “femminile”. Che
senso ha far scomparire il sesso e negare la rilevanza dei corpi e poi reificare
l’esperienza maschile e femminile e sulla base di cosa a questo punto?
A questo proposito le cosiddette teorie “Queer” (lett. attraverso i sessi, nel senso
di bizzarro, strano) mettono in discussione il fondamento delle categorie di uomo e di
donna (ma anche di gay e di lesbica) per affermare la possibilità soggettiva di
interpretare le dimensioni maschili e femminili indifferentemente in un corpo 34
dell’uno o dell’altro sesso. Di qui i travestimenti e le parodie sessuali delle “drag
kings” e “drag queens”. La provocazione drag vorrebbe mostrare i limiti e le
eccedenze dei regimi eterosessuali senza peraltro pretendere di cancellarli o di
smettere di riferirsi ad essi.
Non c'è dubbio che dentro a questo mondo si è diffusa l'idea di una proliferazione
dei generi così come l'idea che ciascun soggetto possa virtualmente viaggiare da un
genere all’altro in una fluidità apparentemente senza ostacoli o resistenze. Come è
stato notato da più parti, una visione così liquida delle dimensioni di genere rischia di
trasformare la partita complessa e delicata del giusto riconoscimento della molteplicità
e della pluralità delle esperienze soggettive in un mondo piatto e senza resistenze o
alterità irriducibili producendo così una forma più sofisticata ed insidiosa di
neutralizzazione. Questo nelle posizioni meno critiche o avvertite rischia di rafforzare
la presunzione di un soggetto che si costituisce da sé sulla base dei propri desideri o
delle proprie preferenze in perfetta coerenza con l'immaginario ideologico del
neoliberismo.
A scanso di equivoci, è bene sottolineare che questa non è la posizione di Butler. La
teorica americana non ritiene affatto che le persone siano libere di autodefinirsi a
proprio piacimento, sulla base di una presunta autonomia e di uno slancio
volontaristico. Al contrario la riflessione critica sui processi di costruzione delle identità
sessuali la porta a sottolineare che i soggetti si riconoscono e si definiscono
sempre e inevitabilmente dentro a forme complesse di assoggettamento,
ovvero confrontandosi e riarticolando la propria relazione con regimi sessuali
regolatori. Sostenere che qualcosa è socialmente e culturalmente "costruito" per
Butler non significa concepirlo come artificiale o peggio come qualcosa di non
indispensabile, qualcosa di cui potremmo fare a meno. Significa riconoscere qualcosa
con cui è necessario cimentarsi e confrontarsi criticamente.
Quello che interessa a Butler è notare come la rigidità nella definizione di una
norma sessuale ed eterosessuale, non può che determinare processi di
espulsione di persone ed esistenze nella sfera dell'"abietto" e come questo
sia la base per le più diverse forme di violenza. La provocazione queer dunque
prende significato dal tentativo rimettere al riportare al centro dello sguardo ciò che è
stato cacciato fuori in quanto eccedente (e perturbante) rispetto ai canoni di
normalità. Si tratta della sfida di politicizzare e dare valore a corpi e persone che sono
stati negati e preclusi allo riconoscimento pubblico.
Le riflessioni di Judith Butler hanno suscitato un ampio dibattito, anche tra le
studiose femministe. È impossibile tentare di riassumere questo dibattito. Ma val la
pena, in quanto esemplificativa, prendere in esame la replica di Barbara Duden, un
importante studiosa femminista, che porta con se una lunga attività di ricerca nel
campo della percezione del corpo delle donne. Su questa base Duden contesta la
trasformazione del corpo in un puro costrutto sociale come sembra avvenire
quantomeno nella Butler di Gender Trouble:

«Quello che interessa a me è l’esatto contrario di questa performance


decostruttiva, in cui ciò che sento, provo, tengo in onore, è trasformato nella
spettrale silhouette di un comportamento socialmente determinato. Mi occupo del
testo di un’americana – che certamente è stata una ragazza in carne e ossa
come tutte le altre – perché vi posso analizzare, riflesso nello specchio del suo
pensiero, il rifiuto esplicito di un’esperienza corporea storicamente determinata.
Quello che Butler allestisce è un rito verbale. Si unisce al coro delle accademiche,
che fanno passare l’autodecorporeizzazione che avviene nella società mediatica
per qualcosa che gioca a favore del movimento femminile» (Duden, 2006, pp.
193-194) 35

Per Duden il risultato è quello di produrre una «donna decorporeizzata


dall’incarnazione della teoria». A suo modo di vedere questa teoria ha successo
perché funziona «da farmaco per levarsi di dosso insieme con il malessere
della vita quotidiana, anche la propria corporeità» (Duden, 2006, p. 195 n.).
Anche altre autrici femministe contestano questo tipo di impostazione. Per esempio
la studiosa eco-femminista tedesca Veronika Bennholdt-Thomsen ha notato
recentemente:

«La teoria stessa è costruita attorno all'affermazione che non ci sono sessi dati di
natura ma il sesso sia qualcosa esclusivamente ascritto alle norme della società.
[…] Alla fine dei conti questa è una posizione altrettanto fondamentalista. Rende
omaggio al fondamentalismo biologista semplicemente negando le condizioni
naturali, dandogli il peso opprimente della presenza della cosa negata. Di nuovo
la natura si separa e si isola dal processo sociale, nuovamente è dichiarata
morta. Ma la natura non è un ente statico separato del processo storico e sociale.
Natura e società umana si trasformano influendosi mutuamente senza che possa
delinearsi chiaramente da dove parte l'impulso iniziale. Basta guardare lo
sviluppo della specie dell'homo sapiens e del territorio che lo ospita insieme con i
cambiamenti climatici. Che cosa è causa, che cosa è effetto?».
(Veronika Bennholdt-Thomsen, 2016, p. 154)

D'altra parte il pensiero di Judith Butler non va ricondotto ad una posizione troppo
semplificata. La studiosa americana ha avuto modo negli anni di riformulare e chiarire
il suo pensiero anche tenendo conto delle critiche che le sono state mosse e dei
malintesi che alcune sue analisi avevano prodotto. In questo senso Butler ha avuto
modo di chiarire sua proposta di “fare e disfare” il genere non significa abolire le
categorie di sesso e di genere ma piuttosto disfare delle norme restrittive di
genere per trovare modalità più aperte e produttive per risignificare quegli
stessi riferimenti.13

«Credo che per molti la realtà che struttura la differenza sessuale non possa
essere ignorata, contrastata, e nemmeno ragionevolmente rivendicata. Essa è
forse più simile allo sfondo necessario alla possibilità del pensiero, del linguaggio
e dell’essere un corpo nel mondo. Chi ne dubita mette in discussione la struttura
stessa che rende possibile l’argomentazione. A volte si liquida il problema con un
po’ di ironia: pensiamo di poter fare a meno della differenza sessuale, ma è
proprio il nostro desiderio di sbarazzarcene a rappresentare un’ulteriore prova
della sua persistenza ed efficacia» (Butler, 2014, p. 264)

Per Butler dunque il punto non è far fuori la differenza sessuale ma piuttosto
tener conto che questa differenza non va considerata un dato o una
premessa ma un quesito che esige una riflessione e una ricerca, qualcosa che va
più o meno permanentemente interrogato.

«Forse la sua caratteristica ontologica consiste proprio nel rifiuto di qualsiasi


determinazione permanente. La differenza sessuale, infatti, non è totalmente

13
Si veda per esempio l’intervista di Anna Simone “Judith Butler: Per fare movimento mettiamo a frutto
quello che ci divide”, in Liberazione, 3 maggio 2008.
data, né totalmente costruita: è entrambe le cose. Questa sua costitutiva
“parzialità” resiste a ogni senso di “partizione”» (Butler, 2014, p. 276). 36

5. Conclusioni

Seguendo la parabola della teorizzazione di “genere” possiamo vedere come uno


strumento di analisi critica nato per decostruire la presunta naturalità dell’identità
maschile o dell’identità sessuale e per dare visibilità alle sedimentazioni culturali e
sociali iscritte nei modelli di maschilità e femminilità, arrivi alla fine mettere in dubbio
perfino se stesso.
Il dibattito sul genere e sulla differenza sessuale gira attorno al nodo
irrisolto della relazione tra biologico e culturale. Il femminismo è nato
dall'esigenza di problematizzare le forme di potere, di oppressione e di controllo di un
sesso sull'altro, di reagire alla marginalizzazione e invisibilizzazione delle donne.
Questo ha significato mettere in discussione i modelli dei ruoli sessuali socialmente
attribuiti agli uomini e alle donne nel quale si erano cristallizzati i pregiudizi e i
rapporti di potere storicamente determinati. In questo percorso è emerso come non
solamente le donne ma anche tutte le forme di femminilità e maschilità non
riconosciute nei modelli sessuali ed eterosessuali tradizionali erano state rese invisibili
e indicibili e sottratte al riconoscimento pubblico.
Per evitare il rischio che le rigide classificazioni e le gerarchie di potere tra sessi e
tra forme di sessualità venissero riportate ad una specie di ordine naturale dato,
oggettivo, quindi qualcosa di reso universale e indiscutibile le teoriche femministe
hanno dovuto mettere in risalto e concentrare l'attenzione sui processi di costruzione
sociale e culturale de modelli sessuali.
Nel tentativo di allontanarsi il più possibile da un presunto e dogmatico naturalismo
si è dunque portato all’estremo l’idea di una superiore determinazione e di una
dimensione performativa della cultura, dei linguaggi sulla nostra natura organica e
biologica.
Eppure a questo punto emerge il dubbio che più che spostare il peso sull’altro
lato della bilancia si tratterebbe forse di navigare alla ricerca di paradigmi
interpretativi più complessi, capaci di tenere insieme in un rapporto dinamico
portati biologici e corporei e costruzioni culturali, mente e corpo, razionalità e istinto,
senza sacrificare gli uni agli altri. La sfida è quella di evitare la doppia trappola
del determinismo biologico e del determinismo culturale. Se la materialità dei
corpi è fin dall'inizio legata al linguaggio e alla loro significazione, è altrettanto vero
che il linguaggio e la creazione culturale sono fin dall'inizio legati alla materialità e
all'organicità dei corpi e dell'ambiente di vita.
Se naturalizzare i modelli sessuali ha permesso di schiacciare la sessualità sulla
biologia e sul corpo, rappresentando come ovvie e immutabili certe configurazioni
identitarie del maschile e del femminile, dall’altra parte l’insistenza troppo pronunciata
sul culturale rischia di rendere muto e passivo il corpo, rischia di far velo alla
rimozione e all'espulsione dalla coscienza della propria natura organica e biologica. Se
è vero che come esseri corporei nasciamo in uno spazio sociale e culturale che
inevitabilmente partecipa a definire e conformare chi siamo in tutti gli aspetti psichici,
fisici simbolici, linguistici e intellettuali, dall'altra parte la nostra esistenza corporea, il
nostro essere corpi che sentono, vedono, si muovono, toccano ed entrano in relazione
con altri esseri e con altre forme viventi, è il punto di partenza imprescindibile per
qualsiasi lavoro di creazione e invenzione culturale, sociale, simbolica e politica.
Forse possiamo concordare con Judith Butler quando infine suggerisce che categorie
come "differenza sessuale" e "genere" ci servono per continuare a formulare e
riformulare, fare e disfare, l’interrogativo concernente la relazione tra il biologico e il
culturale. Un interrogativo che deve continuare ad essere posto e che non può
trovare mai una risposta definitiva o assoluta. 37
Ma non si tratta di bilanciare natura e cultura, biologico e sociale, ma di essere
disposti a riconoscere che queste stesse opposizioni sono problematiche - che ciò che
chiamiamo natura non è ovvio o passivo o altro da noi, che ciò che chiamiamo
culturale non è artificiale o altro dalla trama del vivente - ovvero che è impossibile e
forse insensato pretendere di tracciare una distinzione netta tra una cosa e l'altra.
Corpi, ambienti, linguaggi e rappresentazioni fanno parte inscindibilmente dello stesso
mondo. Occorre indagarne la circolarità e riscoprire un senso di responsabilità rispetto
a ciò che siamo e vogliamo essere dentro ad una trama e una processualità dinamica
e complessa che siamo chiamati a comprendere, interpretare e a svolgere
autorevolmente.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
38

Il linguaggio del mondo contemporaneo.


Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Docente: Marco Deriu

GENERE/VIOLENZA

Ancora oggi le relazioni tra uomini e donne sono molto segnate dalla violenza.
Secondo l'indagine ISTAT 2015 (dati 2014)" LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
DENTRO E FUORI LA FAMIGLIA", la violenza contro le donne è fenomeno ampio e
diffuso. Ecco alcuni dati che emergono da questa ricerca:

• 6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita una
qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i
70 anni: il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme
più gravi di violenza sessuale come stupri e tentati stupri. Sono 652 mila le donne
che hanno subìto stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri.
• Le donne straniere hanno subìto violenza fisica o sessuale in misura simile alle
italiane nel corso della vita (31,3% e 31,5%). La violenza fisica è più frequente fra
le straniere (25,7% contro 19,6%), mentre quella sessuale più tra le italiane
(21,5% contro 16,2%). Le straniere sono molto più soggette a stupri e
tentati stupri (7,7% contro 5,1%). Le donne moldave (37,3%), rumene (33,9%)
e ucraine (33,2%) subiscono più violenze.
• I partner attuali o ex commettono le violenze più gravi. Il 62,7% degli
stupri è commesso da un partner attuale o precedente. Anche le violenze
fisiche (come gli schiaffi, i calci, i pugni e i morsi) sono per la maggior parte opera
dei partner o ex. Gli sconosciuti sono nella maggior parte dei casi autori di molestie
sessuali (76,8% fra tutte le violenze commesse da sconosciuti).
• Il 10,6% delle donne ha subìto violenze sessuali prima dei 16 anni.
Considerando il totale delle violenze subìte da donne con figli, aumenta la
percentuale dei figli che hanno assistito ad episodi di violenza sulla propria madre
(dal 60,3% del dato del 2006 al 65,2% rilevato nel 2014)
• Le donne separate o divorziate hanno subìto violenze fisiche o sessuali in
misura maggiore rispetto alle altre (51,4% contro 31,5%). Critica anche la
situazione delle donne con problemi di salute o disabilità: ha subìto violenze fisiche
o sessuali il 36% di chi è in cattive condizioni di salute e il 36,6% di chi ha
limitazioni gravi. Il rischio di subire stupri o tentati stupri è doppio (10% contro il
4,7% delle donne senza problemi).
• Emergono importanti segnali di miglioramento rispetto all’indagine
precedente: negli ultimi 5 anni le violenze fisiche o sessuali sono passate
dal 13,3% all’11,3%, rispetto ai 5 anni precedenti il 2006. Ciò è frutto di una
maggiore informazione, del lavoro sul campo ma soprattutto di una migliore
capacità delle donne di prevenire e combattere il fenomeno e di un clima sociale di
maggiore condanna della violenza.
• E’ in calo sia la violenza fisica sia la sessuale, dai partner e ex partner (dal
5,1% al 4% la fisica, dal 2,8% al 2% la sessuale) come dai non partner (dal 9% 39
al 7,7%). Il calo è particolarmente accentuato per le studentesse, che passano dal
17,1% all’11,9% nel caso di ex partner, dal 5,3% al 2,4% da partner attuale e dal
26,5% al 22% da non partner.
• In forte calo anche la violenza psicologica dal partner attuale (dal 42,3% al
26,4%), soprattutto se non affiancata da violenza fisica e sessuale.
• Alla maggiore capacità delle donne di uscire dalle relazioni violente o di prevenirle si
affianca anche una maggiore consapevolezza. Più spesso considerano la
violenza subìta un reato (dal 14,3% al 29,6% per la violenza da partner) e la
denunciano di più alle forze dell’ordine (dal 6,7% all’11,8%). Più spesso ne
parlano con qualcuno (dal 67,8% al 75,9%) e cercano aiuto presso i servizi
specializzati, centri antiviolenza, sportelli (dal 2,4% al 4,9%). La stessa
situazione si riscontra per le violenze da parte dei non partner.
• Si segnalano però anche elementi negativi. Non si intacca lo zoccolo duro
della violenza, gli stupri e i tentati stupri (1,2% sia per il 2006 sia per il 2014).
Le violenze sono più gravi: aumentano quelle che hanno causato ferite (dal
26,3% al 40,2% da partner) e il numero di donne che hanno temuto per la
propria vita (dal 18,8% del 2006 al 34,5% del 2014). Anche le violenze da parte
dei non partner sono più gravi.
• 3 milioni 466 mila donne hanno subìto stalking nel corso della vita, il 16,1%
delle donne. Di queste, 1 milione 524 mila l’ha subìto dall’ex partner, 2 milioni 229
mila da persone diverse dall’ex partner.

Possiamo vedere alcuni dati anche relativi al femminicidio. Secondo il RAPPORTO


EURES 2015 " L’OMICIDIO VOLONTARIO IN ITALIA"

• Sono state 152 le donne uccise in Italia nel 2014; c’è stato un calo
complessivo del 15,1% di femminicidi rispetto al 2013 (179 casi) .
• Di queste morti, 117 sono state causate in ambito familiare, numero molto
simile ai 122 casi del 2013, e 35 per mano criminale. Evidente la responsabilità
dell'uomo, 'protagonista' nel 94% dei casi, quasi allo stesso modo dei familiari
(77%).
• Il numero dei femminicidi nel Sud nel 2014 è diminuito del 42,7%% (da 75 a 43), a
fronte di una crescita dell'8,3% a Nord (da 60 a 65) e di una certa stabilità al
Centro (44 vittime).
• Al primo posto a livello regionale la Lombardia (con 30 vittime nel 2014, in
aumento del 58% rispetto alle 19 vittime del 2013). Casi in aumento anche in
Toscana (da 13 a 16), in Veneto (da 4 a 7), Basilicata (da zero a 3), Liguria (da 4 a
5) e Sicilia (da 18 a 19), che, insieme al Lazio, si colloca al secondo posto per
numero di vittime censite nel 2014 (19 in entrambe le regioni).
• Sul fronte opposto la flessione più rilevante si osserva in Campania (da 20 a 7
vittime), Puglia (da 15 a 4) e Calabria (da 10 a 3), mentre nessun femminicidio
si conta nel 2014 in Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Molise e
Valle d'Aosta.
• A livello provinciale, nel 2014, in linea con la dinamica osservata a livello regionale,
è Milano, con 14 vittime, a registrare il maggior numero di donne uccise nel
proprio territorio (erano 6 nel 2013), seguita da Roma con 13 femminicidi (due
in più rispetto agli 11 del 2013); seguono Torino (con 8 vittime) e Firenze, dove
il numero dei femminicidi passa da un solo caso nel 2013 a ben 7 casi nel 2014. 40

• Se i femminicidi familiari rappresentano la parte preponderante del fenomeno, al


loro interno sono gli 'omicidi di coppia', vale a dire quelli compiuti da
coniugi/partner o da ex partner a evidenziare la maggiore frequenza, con 81
vittime nel solo 2014, pari al 69,2% dei 117 femminicidi familiari censiti (il
dato relativo al quinquennio 2010-2014 indica 393 femminicidi di coppia, pari al
68%).
• Il più alto numero di femminicidi nel 2014 è stato per mano del coniuge o
convivente (48, pari al 59,3% dei casi), seguito da ex coniugi/ex partner
(16 vittime, 19,8%) e partner non conviventi (6 vittime, 7,4%).
• Lo scorso anno è diminuita l'età media delle vittime, anche se a fronte di un
incremento della percentuale delle donne anziane uccise (33,6%).
• Un capitolo fondamentale per comprendere il fenomeno è inevitabilmente quello dei
moventi, che sono stati 'gelosia e possesso' nel 32,5% dei femminicidi
familiari, e liti e conflitti nel 20,6%.
• 140 donne sono state uccise nel nostro Paese dal 2010 al 2014 per aver
lasciato il proprio compagno, di cui oltre la metà nei primi 90 giorni della
separazione. Si rileva una prevalenza di casi commessi con armi da taglio
(30,3%).

In totale in quindici anni dal 2000 al 2014 sono stati commessi in italia 2551
femminicidi.

Chi sono gli autori della violenza?

Gli autori sono persone comuni, di tutti gli strati sociali, di tutti i livelli di istruzione, di
tutte le provenienze geografiche, di tutte le professioni. Generalmente questi soggetti
negano di essere violenti o addirittura di aver usato violenza. Tra le persone che ho
incontrato e intervistato ho riscontrato che le forme della negazione possono essere
differenti:

1.Attribuzione di un carattere difensivo o di reazione ai propri atti


2.Attribuzione di un carattere di eccezionalità al proprio comportamento
3.Attribuzione di una discrepanza tra intenzioni e atti reali
4.Minimizzazione dei fatti, della loro gravità, delle loro conseguenze
5.Riconoscimento (molto) parziale e omissione di alcuni elementi
6.Negazione totale, disconoscimento dei fatti

Tuttavia questo non vuol dire che non sanno per nulla cosa hanno fatto. Anzi per certi
versi è proprio la gravità, il peso della colpa che li porta a rimuovere la
consapevolezza. In tutti i modi talvolta arriva un momento in cui si rendono conto di
aver commesso qualcosa di grave, forse di irreparabile. Di aver rotto qualcosa. O
semplicemente faticano a riconoscersi. In generale dunque occorre un lavoro
riflessivo o psicologico per divenire consapevoli di quello che hanno commesso e per
sentirsi finalmente responsabili delle proprie azioni.
Un aspetto che mi ha colpito è che gli stessi autori manifestano una reale o
presunta ignoranza sulle ragioni o sulle dinamiche di questa violenza.
Nei pochi casi in cui gli uomini che ho incontrato hanno ammesso almeno in parte il
loro comportamento, se gli chiedevo di fare delle ipotesi sulla violenza, di provare a 41
spiegare le radici, perché credono di agire questa violenza non sanno bene cosa
rispondere. Vediamo alcune possibili risposte:

«Mi sento nervoso, ferito, sottovalutato. Non è la vera causa. Non so dire il vero
perché…». [A1]

«Non so come spiegarmelo neanch’io. Di solito quando bevevo”. “Mi piaceva bere
per nervosismo». [A2]

«Non si litiga mai per le cose grosse, ma per le stronzate. È un accumulo». [A3]

«Al di là della parola siamo animali. Il cane quando non può più ringhiare apre la
bocca e se non viene capito morde. Se non c’è più riscontro col dialogo…. Sono cose
della natura umana». [A1]

«Quando mi sentivo aggredito, quando reagivo mi sono sentito alla stregua di


uomini malvagi. In quei casi così, lì ero io il debole; dovevo stare, li subivo. […] È
un paradosso. […] Verbalmente era molto più brava di me. Io reagivo con le mani,
fermandola, bloccandola, prendendola per il bavero». [A5]

È importante dunque provare a riflettere sulle possibili cause o spiegazioni di questa


violenza.

La violenza maschile come problema complesso e stratificato

La violenza maschile contro le donne non nasce e non accade solamente o


semplicemente in uno spazio individuale (interno alla persona), e nemmeno solo in
uno spazio intersoggettivo (tra due o più persone), ma nasce e accade anche in
uno spazio sociale in cui i singoli attori, le coppie, le famiglie, i gruppi e anche le
loro reti di relazioni, rispondono a letture, rappresentazioni e aspettative sociali,
culturali e storiche precise.
Ma come tenere assieme tutte queste dimensioni: culturali, sociali, interpersonali e
individuali. Come vedere e tenere presente le relazioni tra di esse anche quando per
necessità ci occupiamo più di un aspetto dell'altro? Non c'è una risposta definitiva, ma
una domanda che deve rimanere aperta e continuare a spingere avanti la riflessione e
il lavoro.
Anche le radici e le possibili spiegazioni della violenza maschile sono complesse e
stratificate. Vorrei mettere in risalto in particolare alcune questioni:

 La violenza subita e assistita che si riverbera.


 La violenza appresa e socializzata.
 La violenza come individuazione e strutturazione identitaria.
 La violenza come strumento di controllo e potere.
 La violenza come ordinatore sociale.
 La violenza come resistenza maschile di fronte alla libertà femminile e alla
democratizzazione delle relazioni.
L'ambiente famigliare: la violenza subita/assistita
42
Subire o ancora di più assistere alla violenza può aumentare le probabilità di agire o
essere vittima di violenza da adulti. In letteratura il fatto è noto come "Ciclo
intergenerazionale della violenza". Parliamo di abitudine, nel senso di un
comportamento appreso in processi di “socializzazione primaria” o “secondaria”14 per
sottolineare che la violenza degli uomini spesso è qualcosa di visto, sentito, annusato
o sperimentato dagli uomini fin da piccoli.
Per esempio nel Rapporto “Rapporto sulla criminalità in Italia” (2006) del
Ministero dell’Interno nel capitolo V – “Le violenze contro le donne”, si nota
che

«La violenza subita e di cui si è stati testimoni da piccoli aumenterebbe il


rischio che il comportamento venga riprodotto da adulti come persecutore o
come vittima se non addirittura entrambi, a seconda del contesto» (p. 138).

Si aggiunge inoltre:

«Considerando, invece, l’autore della violenza, la quota di partner attuali


violenti con la propria partner è pari al 30% fra coloro che hanno assistito a
violenze familiari, al 34,8% fra coloro che l’hanno subita dal padre, al 42% tra
chi l’ha subita dalla madre e al 6% circa tra coloro che non hanno subito o
assistito a violenze nella famiglia d’origine» (p. 138).

Dunque in un’ampia percentuale di casi gli autori hanno assistito o direttamente subito
violenze nella famiglia di origine. Come si può comprendere questo fenomeno?
In alcuni casi la violenza è l’unica modalità di comportamento appresa e
riproducibile automaticamente in certe circostanze a meno che non intervengano
risorse, strumenti differenti.
Occorre tener presente la peculiarità di quelle fasi che riguarda la socializzazione
primaria, che avviene nello stadio infantile, attraverso le relazioni con figure
fondamentali dal punto di vista affettivo: la madre, il padre o affini. In questa fase si
apprende a vedere la realtà attraverso gli occhi di queste figure più prossime.
In altre parole si interiorizza la visione delle cose che ci viene trasmessa dai
genitori e in qualche modo la si oggettivizza. I ruoli, le idee, le rappresentazioni,
le convinzioni dei genitori divengono anche i propri. Questa percezione della realtà
diventa qualcosa di assoluto, di rigido, di indiscutibile.
Occorre inoltre considerare le dinamiche psicologiche che generano paura, terrore,
senso di impotenza. Da una parte si può attivare un senso di colpa perché ci si sente
responsabili di quell'aggressività o violenza. Oppure ci si sente impotenti perché non
si è stato in grado di difendere la propria madre o la propria sorella.

La socializzazione primaria, avviene nello stadio infantile, attraverso le relazioni con figure
14

fondamentali dal punto di vista affettivo: la madre, il padre o affini. In questa fase si apprende a vedere
la realtà attraverso gli occhi di queste figure più prossime. In altre parole si interiorizza la visione delle
cose che ci viene trasmessa dai genitori e in qualche modo la si oggettivizza. I ruoli, le idee, le
rappresentazioni, le convinzioni dei genitori divengono anche i propri. Questa percezione della realtà
diventa qualcosa di assoluto, di rigido, di indiscutibile. La socializzazione secondaria invece interviene in
una fase successiva della vita della persona. Ha a che fare con l’ingresso in altri contesti sociali non
primari, ovvero non connotati in maniera così forte dal punto di vista affettivo. Pensiamo alla scuola, al
gruppo di amici, alla parrocchia, al partito, al mondo del lavoro. Confrontandosi con questi nuovi contesti
via via si impara che il mondo appreso e interiorizzato dai genitori non è l’unico esistente, è solo una
percezione della realtà tra le tante possibili.
O ancora si può essere costretti a solidarizzare con il genitore violento contro
l'altro fino ad assumere quel ruolo ottenendo una qualche effimera forma si sicurezza 43
e controllo.
Nelle interviste che ho fatto in alcuni casi è emersa una connessione significativa
con forme di violenze subite in passato. Anche in questi casi gli autori non riconoscono
un legame tra ciò che si è subito e ciò che si è agito.

«Avrò ricevuto uno schiaffo una volta da mio padre. Da mia madre tutti i giorni.
Ma quando mio padre mi guardava io dovevo filare. Anche per quello che diceva
mia madre. Ora guai a dare uno schiaffo. Capita di dover dare un
accompagnamento [mima il gesto di una patacca sul sedere] o la metto in
punizione per 5 minuti. È quello che dicono tutti. A me un ceffone mi faceva
capire dove arrivare». [A3]

L’esperienza appresa dunque è quella per cui la violenza che fa ordine, che ha una
finalità educativa e di limitazione è accettabile. Naturalmente molti uomini
richiameranno questa funzione anche nel rapporto con le donne.
Sappiamo inoltre che l'esposizione prolungata alla violenza in determinati contesti
sociali può trasferirsi anche nel contesto famigliare. Esistono diverse ricerche che
evidenziano una crescita della violenza tra le famiglie dei militari e dei reduci in
particolare. È Come se la violenza avesse un riverbero che si trasmette da uno spazio
ad un altro e da un tempo ad un altro.
Non c’è ovviamente nessuna causalità meccanica. In diversi dei casi che ho
incontrato il maltrattante non ha alle spalle una vicenda di violenza subita o assistita
in famiglia. O non ha proprio dei genitori inclini alla violenza.
Un intervistato addirittura mi ha raccontato: “[I miei genitori] mi rimproveravano.
Mi dicevano di smettere. Io rispondevo: fatevi i fatti vostri. Ognuno comanda a casa
sua. Sono stato un tipo immaturo”.
Anche un altro uomo intervistato mi ha detto cose simili: “Mio padre mi dice che
così non si usano queste cose. Io sto con lei da 28 anni e mai mi sono azzardato a
fare una cosa del genere”. “Mi diceva che ero uno stronzo”.

La socializzazione della violenza

Tuttavia l’apprendimento non avviene solo nel contesto famigliare primario. La


questione della socializzazione maschile alla violenza non è qualcosa che riguarda
solamente la socializzazione primaria e i traumi che ne possono conseguire
(violenza in famiglia vissuta o assistita), ma anche una socializzazione secondaria.
Nelle ricerche che ho condotto tra i giovani, i maschi in particolare fanno esperienza
della violenza nella scuola, nelle società ed attività sportive, nei gruppi di pari, negli
scout, nei mezzi pubblici ecc…
In altre parole occorre contrastare queste forme di socializzazione lungo tutto il
percorso di vita (esperienze di risocializzazione in altri gruppi?)

 Contesti famigliari (ristretti e allargati)


 Contesti amicali (fra pari)
 Contesti educativi (Scuole e istituti scolastici)
 Contesti ricreativi-educativi (discoteca, scoutismo)
 Contesti sportivi (club sportivi, gruppi di tifosi)
 Contesti politici (estremismi e antagonismi)
 Contesti religiosi (tradizionalismo, fondamentalismo)
 Contesti militari (nonnismo, guerra, strupri)
 Contesti letterari (libri, fumetti)
 Contesti mediatici (Quotidiani, periodici, Tv, Cinema) 44
 Contesti digitali (videogiochi, internet)

In tutti questi contesti di socializzazione sono all'opera dinamiche di


traumatizzazione e normalizzazione del trauma, di definizione del prestigio e
dello status; di costruzione di elementi reputazionali con la conseguente conferma
positiva del comportamento e riproposizione di certi atteggiamenti, dimensioni di
mimetismo e di conformismo nel comportamento, dinamiche gruppali e violenze di
gruppi che tendono a diminuire il senso della consapevolezza e della responsabiltà
individuale.

I percorsi di costruzione identitaria maschile e la violenza

Oltre a tutto questo è possibile riconoscere che quete dinamiche entrano dentro i
percorsi di costruzione identitaria del senso di sé da parte degli uomini.
Per esempio a un uomo ho chiesto la prima situazione in cui ha usato violenza
nella sua vita.
“La prima volta a 14 anni ... . Due persone avevano dato fastidio a mia sorella di
13 anni. L’avevano importunata. Io gli ho detto di lasciarla stare e poi una parola lui
una io….”
Molti altri avevano alle spalle molte vicende di violenze tra uomini (risse,
scazzottate o anche atti punitivi) che per loro erano cose normali.
Agli uomini fa problema la violenza contro le donne in quanto concepite come più
deboli, ma la violenza tra uomini è ampiamente normalizzata.
Il fatto concreto della violenza maschile sulle donne è infatti espressione di un
immaginario culturale specifico - quello patriarcale - che in misura minore o maggiore
ci riguarda tutti. Naturalmente anche nella nostra tradizione esistono subculture o
ambienti familiari o soggetti più sani ed equilibrati, ma in termini generali si deve
riconoscere che l’immagine del dominio maschile sul corpo femminile impregna a più
livelli la nostra cultura e la nostra società. In questi termini i fantasmi di queste
violenze fisiche o sessuali ci riguardano tutti e condizionano comunque le nostre
relazioni con le donne. Molti uomini in un momento o in un altro, sono stati
attraversati da questo fantasma, molti hanno sentito che la possibilità della violenza
era iscritta nel nostro immaginario, nella nostra cultura, nella nostra storia.
A me pare che la questione fondamentale sia riconoscere che la violenza nelle sue
diverse forme è un tratto ricorrente e per molti aspetti fondante delle esperienze di
identificazione e socializzazione maschile. La violenza cioè è un elemento
importante nella costruzione dell’identità maschile e mantiene un ruolo
importante nelle forme di apprendimento e di costruzione di legami sociali.
Fin da piccoli gli uomini imparano che la propria identità sessuale non è scontata,
non è certa. È invece qualcosa di dubbio, di precario, di instabile. La propria identità
deve essere costruita, affermata, testimoniata continuamente.
La possibilità di conformarsi ad un certo ordine maschile o di sottrarsi ad esso
comincia molto presto. Fin da piccolo al giovane maschio sono richieste prove di forza,
di coraggio, di affermazione di sé nel confronto con altri. Fin dalle scuole medie
inferiori i ragazzi danno luogo a delle piccole bande e vanno ad esibire in giro la
propria presunta virilità. Vanno a cercare lo scontro con altri ragazzi per mostrare
forza e coraggio. Anche quando non accade nulla ad ogni modo lo scontro è
continuamente evocato e simbolizzato nel linguaggio, nel comportamento, persino nel
modo di vestire.
Tutto questo ci dice appunto che l’identità maschile è qualcosa di molto incerto, e
che molti comportamenti maschili avvengono non per spinte semplicemente
individuali ma anche nella cornice dello sguardo e della relazione sociale anzitutto con
altri maschi. 45
In molte culture e in molte subculture esistono e vengono ricreati dei rituali per
simbolizzare il passaggio del giovane nel mondo degli adulti, il diventare uomo. Molti
di questi rituali sono connessi ad esperienze di violenza e di dolore. Ad esempio alcuni
rituali di guerra avrebbero svolto e ancora svolgerebbero la funzione di far rinascere il
giovane guerriero nel mondo maschile, in contrapposizione alla nascita biologica
avvenuta dal corpo femminile. Anche il simbolismo della prova del sangue - che molte
culture tradizionali per esempio richiedevano ai giovani maschi come condizione per
potersi sposare - funzionerebbe quindi come rito di passaggio al mondo degli uomini
adulti. In altri contesti – per esempio nelle organizzazioni mafiose, in quelle criminali
talvolta in alcune gang di strada - gli atti di violenza rappresentano dei testi da
affrontare e superare per essere ammessi nella comunità maschile.
È come se i giovani uomini dovessero dunque procurare e procurarsi artificialmente
le ferite e dunque le rotture simboliche che segnerebbero la discontinuità evolutiva
nello sviluppo del sé maschile.
Anche nelle società contemporanee e in contesti molto comuni vengono
continuamente inventati e ridefiniti riti e rituali di maschilità. Le stesse modalità
continuano nei gruppi di adolescenti, nei quartieri, nelle manifestazioni sportive, nel
tifo negli stadi.
Sia in alcune manifestazioni di tifo, sia in alcune manifestazioni politiche, voi potete
trovare gruppi di giovani maschi provocatori che ricercano esplicitamente lo scontro
con la polizia e con le forze dell’ordine. Il motivo molto spesso non va ricercato in un
obiettivo politico o in un episodio concreto, ma nel fatto che questo scontro
rappresenta un terreno di manifestazione della propria maschilità.
In questi casi il carattere espressivo e identitario della violenza prevale su qualsiasi
obiettivo o motivazione esterna o dichiarata. Ci si mostra aggressivi e violenti per
mostrarsi “maschi”, per sentirsi forti, coraggiosi, indifferenti alla paura e al dolore.
Questo aspetto teatrale della violenza, la sua rappresentazione è rivolta sia al mondo
maschile per stabilire dei meriti, degli onori, delle gerarchie, sia al mondo femminile
poiché si ritiene che la forza e l’audacia siano caratteristiche vincenti.15
Anche la violenza maschile sulle donne presenta caratteristiche di questo tipo.
Certamente quando viene esercitata in gruppo, ma spesso anche nei contesti
famigliari. Per non parlare di contesti particolari dal punto di vista simbolico. Non so se
ricordate per esempio la dichiarazione nell’ottobre del 2006 del presidente Russo
Vladimr Putin nel corso di un incontro con il premier israeliano Ehud Olmert al
Cremlino. Pensando che i microfoni dei giornalisti fossero spenti fa una battuta con
Olmert a proposito del presidente israeliano Katsav sotto accusa per diversi episodi di
violenza sessuale. Putin avrebbe detto “Katsav si è rivelato un uomo forte, ha
struprato ben dieci donne! Non me lo sarei mai aspettato da lui. Ci ha sorpreso tutti,
lo invidiamo”.16
Pensate il presidente della Russia, che ragiona in questi termini. La violenza
maschile diventa un vanto, un prestigio perfino per i più potenti.
La violenza sessuale dunque lega un piacere sessuale ad un piacere dettato dal
senso di potenza e di superiorità del maschio e contemporaneamente ad una
sottomissione e degradazione imposta alla donna.

Per questo stesso motivo alcune donne apprezzano un certo tipo di immagine maschile ma poi
15

incappano nelle conseguenze di questo genere di mentalità una volta che questa idea di virilità viene
rivolta da questi uomini contro loro stesse. In qualche modo bisogna comprendere queste associazioni e
diminuire il prestigio sociale che questo immaginario virile ha in generale non solo quando si fa
esplicitamente violento.
Si veda La repubblica del 20 ottobre 2006, «Gaffe di Putin: “Che uomo forte Katsav ha stuprato 10
16

donne, lo invidiamo”.
La violenza come controllo e regolazione 46

Storicamente la violenza è espressione di un potere e di un controllo maschile sulle


donne, sui loro corpi, sulla loro sessualità, una rigida limitazione della loro autonomia
mentale, sociale, economica. Questo dominio di tipo sociale patriarcale viene
affermato a tutti i livelli della società. La violenza in questo senso rappresenta una
minaccia e una difesa di un'organizzazione sociale definita. D'altra parte anche di
fronte a un indebolimento di queste strutture culturali e sociali, la violenza è un
principio ordinatore in quanto fonte di potere sull'altro. Viene utilizzata
consapevolmente o inconsapevolmente come modalità di gestione dei conflitti per
mantenere un determinato equilibrio e non mettere in discussione l’uomo, specie
quando questi non possiede risorse psicologiche e comunicative per confrontarsi con
l'altra.
In molti casi la violenza serve per imporre un certo ordine alla donna e nella
relazione. La violenza serve per “farla cedere…” per “insegnarle come deve
comportarsi…”. Serve per mantenere un certo equilibrio e non mettere in discussione
l’uomo. In altre parole come strumento di potere nella relazione. Tra le conseguenze
della violenza infatti come risulta dalle ricerche dell'ISTAT le vittime si sentono più
diffidenti e fredde, c'è chi ha difficoltà ad instaurare relazioni e ad avere rapporti
sessuali. Insomma cambia la vita per una donna violentata.
Un parte di loro dichiara inoltre di non essere più tranquilla quando esce, di evitare
strade isolate quando esce, o addirittura di non uscire più di sera. Quello che si può
notare a questo proposito è che la violenza sulle donne ordina le relazioni non
solo nel privato ma anche nello spazio pubblico, trasforma non solo le relazioni
interpersonali ma quelle sociali. La violenza infatti non colpisce solo le vittime reali ma
anche tutte quelle potenziali. Attraverso la paura, il terrore, il trauma contribuisce a
modificare le possibilità e le forme delle relazioni tra uomini e donne per tutta la
società.
La violenza sessuale secondo alcune studiose – come per esempio Susan
Brownmiller – fa parte di un sistema di intimidazione maschile che tiene tutte le
donne in uno stato di paura.
Non è difficile fare degli esempi per capire di cosa sto parlando. La possibilità della
violenza infatti impedisce o condiziona molte possibilità o esperienze delle donne:
- uscire da sole di notte
- accettare un passaggio in macchina
- andare a casa di amici
- consentire un intimità corporea
Tutto questo viene vissuto come esperienze pericolose. Tale pericolosità del
comportamento maschile è talmente “naturalizzata” che si arriva al
paradosso che se una donna viene violentata di notte per strada il giudizio
sociale colpisce anche lei: “Una donna che esce di notte da sola se le va a cercare”
Questa condizione e questa mentalità dunque modificano le condizioni di tutti.
Poi dobbiamo chiederci quante fra le persone che abbiamo attorno a noi hanno
vissuto di queste esperienze. Difficilmente le donne ne parlano. Ma difficilmente noi
uomini ci mostriamo attenti a questa possibilità. Non ci pensiamo assolutamente. A
me è capitato che man mano che cominciavo a occuparmi di queste cose a parlare di
questi problemi molte persone a me vicine, donne e uomini mi hanno parlato di
esperienze di questo tipo. Ho iniziato a guardare il mondo attorno a me con altri occhi.
A saper osservare difficoltà, paure, blocchi. Senza andare tanto lontano, nelle mie
amicizie, nelle mie relazioni, tra i miei conoscenti.
La violenza come resistenza maschile di fronte alla libertà femminile e alla
democratizzazione delle relazioni 47

Sempre più negli ultimi anni la forza e la solidità delle strutture patriarcali è venuta
meno. Non che non ci siano disuguaglianze, forme di sfruttamento e di violenza, ma la
legittimazione sociale verso tutto questo sta pian piano venendo meno. C'è una
crescente autonomia e indipendenza delle donne che entra in tutti gli aspetti della vita
sociale dalla sessualità, alla procreazione, dalla famiglia, al lavoro e agli aspetti
economici. Queste trasformazioni sociali stanno supportando il cambiamento delle
forme di relazione tra uomini e donne, facendo emergere la richiesta di una relazione
su un piano di parità, di riconoscimento reciproco, di accettazione di autonomia e di
libertà di due soggetti. Spesso gli uomini si trovano spiazzati di fronte a questo
mutamento delle forme di relazione. In questi casi la violenza può emergere come
reazione distruttiva ad un senso di inadeguatezza nel mutamento delle relazioni e di
impotenza a fronte di scacchi relazionali.

La questione è fino a che punto gli uomini hanno recepito il cambiamento,


la natura della rivoluzione in corso delle relazioni, che è intervenuta con
l’affermazione della libertà delle donne, e come questo trasformi profondamente la
forma delle relazioni.
Nella società in cui viviamo ci sono stati profondi cambiamenti provocati dal
movimento delle donne e da più ampie trasformazioni sociali.
Alcune riforme legislative hanno segnato alcuni passaggi a questo proposito.
Pensiamo alla legge sul divorzio (Legge 1° dicembre 1970, N. 898 “Disciplina dei
casi di scioglimento del matrimonio”) alla “Riforma del diritto di famiglia” (Legge
del 19 maggio 1975, N. 151) che ha attuato il principio costituzionale dell’eguaglianza
dei coniugi. Grazie a questa legge viene abolito il concetto di “capofamiglia” unico
capo indiscutibile nella famiglia, e si riconoscono i diritti, anche economici per
entrambi i coniugi. Pensiamo all'istituzione dei consultori familiari (Legge del 29 luglio
1975, N. 405) o alla legge sull'IVG (La Legge del 22 maggio 1978, N. 194 “Norme per
la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”).
Nel frattempo è mutata anche il riconoscimento della violenza nel contesto
famigliare. La famiglia non è più concepita come un mondo intoccabile, dentro al quale
qualsiasi cosa, compresa la violenza, è tollerata in virtù del contratto matrimoniale o
della natura del rapporto.
La Legge del 5 aprile 2001, N. 154, “Misure contro la violenza nelle relazioni
familiari“ afferma per esempio che qualora il coniuge o il convivente abbia tenuto
“condotta pregiudizievole”, per tutelare l’incolumità della persona offesa, il giudice può
adottare come misura cautelare, l’allontanamento dell’imputato dalla casa familiare o
anche il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi frequentati abitualmente dalla
persona offesa. Il giudice può altresì ingiungere il pagamento periodico di un assegno
a favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta,
rimangano prive di mezzi adeguati di sussistenza.
Con la legge 119 del 2013, si sono introdotte delle misure che nel caso di
“maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e di atti persecutori” indicano come
“Circostanze aggravanti” (art. 609ter) il fatto che questi comportamenti violenti siano
commessi “nei confronti della persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche
separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da
relazione affettiva, anche senza convivenza”.

Dunque non è solo che in passato gli uomini controllavano la relazione, ma è


il fatto che le forme di relazione codificate imponevano modelli di
comportamento, doveri e prescrizioni definite in base al genere.
Dobbiamo rovesciare lo sguardo. Dovremmo pensare nei termini di una lunga, 48
lunghissima e travagliato storia maschile di educazione al riconoscimento
dell’alterità, e della propria dipendenza da quell’alterità.
Per comprendere la natura della trasformazione cui stiamo assistendo sul piano
relazionale si deve anzitutto tener conto del mutamento dei legami matrimoniali e
delle forme famigliari nella storia recente. Il matrimonio per esempio ha cambiato
radicalmente natura nel tempo e oggi ha un significato molto diverso rispetto al
passato. Come ha scritto il sociologo tedesco Ulrich Beck,

«Durante il Medioevo esso era un’istituzione sui generis, creata a prescindere


dall’individuo e garantita da Dio. Oggi invece si tratta sempre più spesso di un
sodalizio affettivo (a termine) che impegna due vite individuali. La sua
giustificazione non è più di natura tradizionale e materiale (si pensi solo alle
regole di successione riguardanti i beni e il potere), bensì individuale ed emotiva.
Il matrimonio d’amore, cui la precarietà del sentimento conferisce (e nel
contempo insidia) il senso e la consistenza, soppianta l’antico vincolo coniugale,
caratterizzato dal dovere e fondato sia su un interessi materiali, sia sulla netta
diversificazione dei compiti» (Beck, 2008, pp. 71-72).

Per tutta l’epoca pre-moderna e fino a tempi recenti il matrimonio è stato regolato
da leggi e consuetudini17: divisioni dei compiti, del lavoro, dell’economia e dell’eredità,
della sessualità, della fede e della religione. Il matrimonio non serviva la ricerca della
felicità delle persone ma serviva l’ordine sociale, la stabilità, il mantenimento del
potere e della ricchezza, la costruzione di alleanze e la garanzia di una discendenza, la
salvaguardia della virtù femminile e dell’onore maschile. La famiglia era per una certa
classe sociale un’alleanza sociale-politica e per un’altra classe sociale un’unità
economica-produttiva. A partire dal Medioevo l’introduzione di elementi ecclesiastici
porta progressivamente a definire anche la forma canonica del matrimonio. Questi
aspetti economici, politici, religiosi, sono stati per tanto tempo assai più rilevanti e
vincolanti delle dimensioni affettive e sentimentali e della volontà stessa degli
individui.
In alcune popolazioni e culture, sia europee che extraeuropee, il matrimonio è stato
per molto tempo (e in alcuni contesti continua ad essere) un accordo tra gruppi
familiari, volto a stabilire legami e a garantire una certa linea di discendenza; rispetto
a questi fattori né il consenso né tantomeno il desiderio della sposa avevano
particolare rilevanza. Già col il diritto romano l’autorità e l’ordine sociale coincidevano
di fatto con l’autorità e il potere del capofamiglia maschio. La donna che si sposava
entrava a far parte della nuova “famiglia”, passando dal controllo paterno a quello del
marito.
Nell’ultimo secolo la famiglia è andata incontro a grandi cambiamenti. Dapprima ha
perso le connotazioni politiche e produttive e ha rafforzato quelle morali, religiose e
giuridiche. In seguito con i processi di secolarizzazione e individualizzazione le
connotazioni tradizionali sono via via venute meno per far emerge sempre di più le
aspettative e i progetti delle singole persone. In tempi recenti il matrimonio ha iniziato
a rappresentare sempre più il perseguimento di un ideale di relazione e di vita, un’idea
di realizzazione individuale e interpersonale.
Quello che è successo alle forme matrimoniali è indicativo di un cambiamento più
generale nella natura delle relazioni tra i sessi e delle unioni familiari. Oggi ci troviamo
in una situazione caratterizzata da quelle che il sociologo inglese Anthony Giddens

17
Su questi aspetti si veda Beck (2000 e 2008), Giddens (1995 e 2000), Attali (2008).
chiama “relazioni pure”.18 Per relazioni pure si intendono relazioni non dettate da
obblighi sociali, economici o religiosi ma fondate sui benefici che ciascun soggetto 49
ritiene di avere finché rimane in un rapporto continuativo con l’altro.
Di fatto le relazioni oggi si fondano sulla comunicazione e sull’intesa
emozionale. Tale intesa in passato non era la base dei legami familiari che
rispondevano ad altri obiettivi (anche se naturalmente era benvenuta quando si
creava), oggi al contrario ne è il principale presupposto e fondamento.
Dunque se in passato le relazioni famigliari erano costruite su ruoli, obblighi,
progetti economici, relazioni di potere, e talvolta di coercizione, oggi questo genere di
legami riposano piuttosto sulla capacità di comunicare comprendersi, sulla capacità di
stabilire rapporti di intimità, sulla fiducia e sul rispetto, sulla disponibilità al dialogo e
sull’adattamento reciproco. Il rapporto, in altre parole, non è dato una volta per
tutte è frutto di un dialogo, di una contrattazione, di un’intesa e di una fiducia che va
costantemente riaffermata.
Naturalmente questo non significa che non ci sono più costrizioni. Ancora oggi
esistono influenze esterne – per esempio di natura economica o religiosa - ma
evidentemente queste sono meno rigide e codificate e nei fatti la pratica quotidiana
stabilisce numerosi adattamenti. In tutti i modi la relazione di coppia o famigliare
non è superiore alle parti e non trova un fondamento esterno ma coincide e
finisce con l’interesse e la volontà dei due soggetti.
La forma più chiara di questa tendenza viene dall’estendersi delle cosiddette
“unioni di fatto” che altro non sono che l’esemplificazione di una relazione che è tale
solamente finché i due soggetti – e nessun altro - la riconoscono come tale. Ovvero
finché la relazione si dimostra tutto sommato soddisfacente o fonte di benefici per
entrambe le parti.
Da qui dunque la trasformazione dei legami familiari, la precarietà delle relazioni,
l’alto tasso dei divorzi, la pluralità dei modelli familiari, il diffondersi delle convivenze o
delle famiglie ricostruite o complesse.
Che cosa ha significato questo cambiamento?
In primo luogo ha significato la crisi di un universalismo neutro: la finzione di
un discorso in cui le differenze vengono rimosse e in cui il soggetto maschile si arroga
il diritto di parlare a nome di tutti e finisce col non parlare di nessuno. In concreto
questo ha significato al contempo la fine di una finta autoevidenza maschile.

«Almeno nella cultura occidentale, quello presente è il primo periodo in cui i


maschi scoprono di essere tali, cioè di possedere una mascolinità conflittuale»
(Giddens 1995, p. 69).

Oggi emergono tutte le ambiguità, le ambivalenze, le molteplici possibilità


della differenza maschile, ovvero del vivere il proprio essere uomini.

In secondo luogo sicuramente ha significato la crisi di un sistema gerarchico


sia tra uomini che tra uomini e donne. Un sistema di ruoli e rappresentazioni in
cui un sesso dominava l’altro. I cambiamenti culturali, sociali e politici hanno in gran
parte messo in discussione se non superato questo tipo di modello di relazione tra i
sessi. Non che questo sia completamente sparito, ma sicuramente non ha più ne
l’autorità né il consenso sociale di un tempo.
Questo cambiamento riguarda anche la sfera affettiva nella quale la relazione
uomo-donna era segnata da una dominanza. Come nota Anthony Giddens,

18
Si veda la descrizione che Anthony Giddens fa delle relazioni pure in Giddens, 1995, p. 68 e Giddens,
2000, p. 78.
«L’idea che “gli uomini non sono capaci di amare” è completamente falsa e non
andrebbe utilizzata […] per descrivere le difficoltà degli uomini alle prese con la 50
sfera intima. Buona parte della sessualità maschile è mossa dalla ricerca
frustrata dell’amore, il quale, tuttavia, appare al tempo stesso temuto e
desiderato. Molti uomini sono incapaci di amare gli altri su un piano di parità, in
condizioni di intimità, ma sono perfettamente in grado di offrire amore e cure a
coloro che detengono meno potere, come le donne e i bambini» (Giddens, 1995,
p. 143)

In terzo luogo ha significato la crisi di un sistema complementare. Un sistema


di ruoli codificati corrispondenti a identità sessuali prestabilite. Un modello relazionale
in cui la donna rispondeva ai bisogni e alle necessità dell’uomo. Questa rottura ha
messo in luce anche la finzione dell’indipendenza maschile. Nella rottura di questo
schema complementare l’uomo comprende quanto della sua identità, della sua
sicurezza, della sua apparente autonomia dipendeva dal riconoscimento e dal
supporto femminile.
In passato c’era una rimozione della soggettività femminile in molti suoi aspetti dal
desiderio di gratificazione professionale alla sessualità. La virtù femminile era
quella di sacrificarsi per la soddisfazione altrui. I desideri sessuali da una parte, i
successi e la carriera dell’uomo in campo lavorativo, politico, sportivo ecc…
Non c’era nessuna reciprocità in questo. I percorsi di libertà e di autorealizzazione
femminile non erano contemplati.
Di fatto questa sempre maggiore libertà dai vincoli e questa individualizzazione
delle relazioni e perfino del matrimonio determina una nuova condizione caratterizzata
da alcuni elementi:

 L’indebolimento sempre più marcato dei tradizionali modelli di relazione rigidi e


prestabiliti che si traduce in una minor pressione conformistica nei confronti di
ciascuno/a. Da un certo punto di vista le persone si sentono più emancipate
dai tradizionali ruoli sessuali. Le ragazzine di oggi non si credono meno dotate
o con meno opportunità dei loro coetanei maschi. Credono di poter essere ciò che
vogliono e di poter distinguersi rispetto ai loro colleghi maschi quasi in ogni campo.
 Tuttavia questo comporta una maggior responsabilità da parte di uomini e donne
rispetto alla scelta di che uomini o donne si intende essere e sia rispetto alla
possibilità di cominciare o mantenere stabile una relazione.
 Comporta il fatto che in una coppia può anche essere la donna a ricoprire il ruolo
professionale più alto e lo status socioeconomico superiore o anche al di là della
dimensione economica, a rappresentare un più forte processo di
individualizzazione, autonomia e successo.
 Infine comporta un maggiore confronto, contrattazione e soprattutto una
maggiore esposizione alla libertà e alle decisioni dell’altra persona.

Quest’ultimo aspetto è particolarmente rilevante per il maschio. Mentre


storicamente le donne sono in fondo sempre state sottoposte alle volontà maschili non
altrettanto si può dire per gli uomini. Questo passaggio coincide di fatto con una crisi
delle strutture patriarcali che lascia per la prima volta gli uomini disarmati, a
confrontarsi con la propria dipendenza e vulnerabilità. All’improvviso i maschi non
stabiliscono più le regole e non conducono più il gioco. Devono confrontarsi
su ogni cosa e contrattare ogni aspetto delle relazioni. Si rivela sempre di più
l’importanza delle figure femminili nella costruzione del proprio equilibrio e del proprio
senso di sé.
Oggi è in parte diverso ma più per le donne che per gli uomini. Sono le donne che
esprimono una propria soggettività, autonomia, desiderio personale, professionale,
sessuale. Ma quanto gli uomini fanno i conti con questa autonomia e libertà
della donna? Non solo gli altri, quanto noi stessi lo facciamo? 51
Quanto nelle nostre decisioni lavorative, professionali ci mettiamo in discussione
per costruire un percorso condiviso e aperto anche alle possibilità della nostra
partner? Quanto siamo pronti a sacrificarci noi per permettere a lei di realizzare un
proprio desiderio. Quanto nella organizzazione della nostra giornata quotidiana
scegliamo senza dare per scontato la sponda femminile nell’occuparsi della casa, dei
bimbi o dei nostri stessi bisogni primari, come il farci da mangiare, il vestirci ecc…
La questione dunque non è tanto quanta libertà concediamo, perché la libertà nel suo
senso più profondo non può essere concessa, ma semmai riconosciuta. La questione è
piuttosto quanto siamo disposti a metterci in gioco per far spazio nelle nostre vite alla
libertà dell’altra.
Gli uomini fanno fatica ad accettare l’indipendenza femminile in termini economici,
psicologici, affettivi, sessuali.
La questione che ci possiamo porre è che cosa succede in una società in cui si è
affermato un ideale e una retorica egualitaria?
Per un certo verso le disuguaglianze, anche quelle meno pronunciate
divengono molto più visibili. Come è stato sottolineato:

«l’aumento di uguaglianza porta ancora più chiaramente alla coscienza le


disuguaglianze che persistono e si acutizzano» (Beck Ulrich, Beck-Gernsheim
Elisabeth, Il normale caos dell’amore, Bollati Boringhieri, Torino, 1996m p. 29).

In secondo luogo gli uomini si trovano talvolta in relazioni asimmetriche in cui


rappresentano la parte meno sicura e realizzata. In questo senso assistiamo ad
una trasformazione dei conflitti e da un altro punto di vista riemerge, spesso in
modo inconsapevole, il tema della differenza. Con questo non intendo gli stereotipi di
genere ma al contrario la libertà nel definire la propria soggettività sessuale anche in
contrasto con i modelli di ruolo tradizionale.
In alcuni casi gli autori riescono a collegare l'idea di violenza ad un atto
fisico ma non riconoscono invece la violenza come implicita nelle attribuzioni
di ruolo, nelle aspettative di genere o nei modelli di relazione che si affermano
quotidianamente e che si vuole comunque continuare a presidiare.
Vediamo per esempio questi frammenti di interevista:

«[Gli uomini e le donne] sono uguali ma in certi casi l’uomo deve fare l’uomo e la
donna de fare la donna. Se in questa stanza si rompe la lampada, L’uomo deve
fare lui. La donna deve fare la spesa e accompagnare il ragazzino. L’uomo deve
fare i lavori più pesanti. Ma nei sentimenti sono uguali. La donna ha i suoi
diritti». [C2]

«La donna cosa fa? Si alleva la prole. Tiene insieme tutte le cose che deve fare.
L’uomo porta avanti la baracca. La sera stanno insieme. La domenica se ne
vanno a spasso. Cercano di tirar su i figli. Finito, vite abbastanza semplici». [A6]

«L’uomo è uomo, la donna è donna. La parità ok, ma come stira una donna non
può stirare un uomo e come porta a casa la carretta l’uomo… Quando i ruoli
cominciano a invertirsi… La donna deve impegnarsi nelle faccende di casa, nella
conduzione della famiglia. Se vuole andare a lavorare va a lavorare. Ma può
stare a casa, ci posso pensare io. […] Certo io oggi mi trovo a fare il padre ma
anche la pappina. [però] in natura è così: il padre porta il becchime, ma chi lo
mette in bocca è la madre. Forse questo si è perso. Ma non sono maschilista».
[A3]
L'ordine maschile si da per scontato, non deve argomentare nulla. È la 52
norma, il senso comune; si fonda sull'oggettività delle strutture sociali. In
questo senso è importante tener conto di quella che Pierre Bordieu chiamava una
"violenza simbolica" (Bordieu p. 43) e un "confinamento simbolico" (Bordieu, Il
dominio maschile, p. 38).
Certi atti non sono effettivamente pensati, nel senso che provengono da un
adesione profonda ad alcuni schemi di percezione/valutazione/azione che
concretamente definiscono delle "disposizioni" (Bordieu p. 50). Dunque il
cambiamento non avverrà semplicemente con una semplice conversione delle
coscienze e delle volontà ma solamente attraverso «una trasformazione radicale delle
condizioni sociali di produzione delle disposizioni» (Bordieu, p. 53).

Tutto questo porta gli uomini a pensare che se stanno vivendo qualche difficoltà o
sofferenza, deve essere per forza il frutto di una volontà o di una perfidia della donna.
Spesso gli uomini violenti nel loro racconto forniscono una lettura auto vittimizzante.
Sono loro vittime delle donne che li criticano, li rifiutano, li respingono, li tradiscono, li
abbandonano.

«[…] Non hanno l’ideale della famiglia. Mio padre ha cresciuto 12 figli. Solo qua
[al Nord n.d.c.] succedono queste cose perché la legge difende la donna perché è
più debole. E lei può permettersi di fare quello che vuole. Fa la zoccola». [C6]
(italiano)

«Le donne vanno a scopare con gli altri e quando viene fuori la marmellata la
violenza l’ha fatta il marito. […] Quello che conta è l’onestà, crescere i figli,
difendere la mia moralità. Alla fine le donne fanno le cose immorali e la denuncia
viene fatta al marito. […] Mi accusano di violenza, ma è mia moglie. […] Andare
con gli altri non basta, deve anche denunciare il marito. […] Io non lo posso
accettare. Se la donna scopa e non vedi via d’uscita cosa fai? Succedono gli
omicidi perché non lo difende nessuno l’uomo. Prendono e mi mandano in galera.
[…] Nella denuncia dice “mi picchiava e mi violentava”. Ha scritto tante cose che
io non so…». [C8] (straniero)

Queste due testimonianze sono di due persone diverse per nazionalità, cultura e
verosimilmente religione. Eppure ripropongono schemi culturali assolutamente
identici.
Quello che emerge è la totale mancanza di riflessività. Non riconoscono le
loro difficoltà emotive, affettive, i propri scacchi, come qualcosa inerente alla
propria condizione di essere umano o all’essere esposti in una relazione libera in
cui si è di fronte ad un’altra soggettività, e in cui la relazione dipende dalla
valorizzazione e dal riconoscimento reciproco.

L'invisibilità della violenza sessuale

Un elemento su cui meditare è che solo il 18,2% delle donne che hanno
subito violenza fisica o sessuale in famiglia considera la violenza subita un
reato. Il 44% la considera qualcosa di sbagliato, il 36% solo qualcosa che è accaduto.
Solo il 7,2% della violenza in famiglia è stata denunciata.
Dunque la famiglia non è solo l’ambito in cui la violenza maschile contro le donne si
dispiega maggiormente, ma un ambito in cui è difficile che venga riconosciuta. Questo
non ci deve stupire è il frutto di una lunga storia sociale e culturale che solo
recentemente è cominciata a mutare. 53
Abbiamo visto come per secoli la donna maritata veniva considerata
proprietà del marito e di fatto il coniuge, con il contratto matrimoniale acquisiva
un diritto di accesso al corpo della moglie. Di fatto dunque, le forme di violenza
sessuale e di stupro non erano riconosciute in ambito coniugale. Senza contare che in
molti paesi del mondo è ancora molto diffuso il matrimonio forzato.
In Italia è solo a partire dal 1978 che una serie di sentenze della
Cassazione porteranno a riconoscere lo stupro come tale anche se compiuto
dal marito.
Pensate che è solo con l'articolo 1 della legge n. 442 del 5 agosto 1981 che viene
modificato il Codice Rocco riguardo alle cause d'onore. In particolare venne abrogato
l'articolo 544 del codice penale italiano che ammetteva il "matrimonio riparatore":
secondo questo articolo del codice, l'accusato di delitti di violenza carnale, anche su
minorenne, avrebbe avuto estinto il reato nel caso di matrimonio con la persona
offesa.
La stessa legge abroga anche quegli articoli (587 e 592) che riguardavano i delitti
per causa d'onore. Ovvero che riservava un particolare favore (pene molto lievi) a
coloro che commettevano omicidio o lesioni personali per difendere il proprio onore.
La donna (la moglie, la figlia o la sorella) era dunque l’oggetto, il contenitore
dell’onore, mentre l’onore apparteneva al soggetto maschile con cui la donna era in
relazione.
È invece con la legge n. 66 del 15 febbraio 1996, Norme contro la violenza
sessuale, che intervenendo ancora sul codice “Rocco” si riconosce che la violenza
sessuale non è reato contro la morale, ma contro una persona, con le modifiche
importanti che ciò comporta dal punto di vista giudiziario.
Tuttavia questa mentalità non è ancora del tutto sparita. Per molti uomini la moglie
o la partner devono essere sessualmente sempre disponibili e corrispondere alle voglie
del compagno, in virtù del legame che li unisce. In altre parole il legame
nell’immaginario maschile è visto ancora come un diritto di accesso e non come un
impegno all’ascolto e al rispetto delle soggettività e dei desideri.
Come ha detto una delle persone che ho intervistato.

«Noi meridionali crediamo più nella famiglia e non nel tradimento. Ho subito
un tradimento da parte di mia moglie. Mi ha portato a fare delle cose… […] Alla
fine mi hanno dato “violenza sessuale” dopo aver fatto due figli con lei. Quello mi
hanno dato, l’Art. 609 (bis)». [C6]

La permanenza di questa cultura spiega perché oggi sia molto difficile venire
denunciati e tantomeno condannati per violenze sessuali in ambito coniugale.
Come ha notato la Giornalista Luisa Betti ancora oggi

«lo stupro, ancor più della violenza fisica, all’interno di una relazione intima o
di un matrimonio, è considerato una violenza di serie B: un fatto per cui se non
arrivi massacrata o lacerata, o addirittura morta, non è dimostrabile fino in
fondo»19.

La libertà sessuale della donna in ambito relazionale o coniugale resta


ancora un tabù molto forte.

19
Luisa Betti, “Perché lo stupro coniugale è un tabù, e non solo in Italia”, Donne x Diritti, 8/10/2014,
http://bettirossa.com.
La questione dell’ordinarietà della violenza non interroga solamente gli uomini, o
la posizione maschile, ma va al cuore stesso delle relazioni affettive, della loro natura 54
e delle loro caratteristiche. La violenza è talmente intrecciata alle nostre relazioni che
spesso anche per le stesse vittime è difficile riconoscerla.

La violenza nelle separazioni e i femminicidi

Un altro aspetto cruciale nella comprensione delle nuove forme di violenza è quello
relativo ai femminicidi. Non è certo un caso che in misura rilevante i femminicidi
riguardano il momento e l'esperienza della separazione. Qui si intrecciano
probabilmente tre aspetti differenti:
- il tema del possesso
- il tema dell'abbandono
- il tema della fragilità del sé.

Se pensiamo ai femminicidi, sappiamo dalle ricerche e dalle rilevazioni20 che è


soprattutto la relazione di coppia a risultare significativa per spiegare la violenza (essa
è centrale nel 49,1% dei casi). E più nello specifico un numero rilevante di femminicidi
in Italia (nel 2012 oltre il 15%) accade nel momento in cui la donna intende lasciare
l'autore (circa il 14,2%) e talvolta viceversa. C'è qualcosa di notevole e di profondo,
più di quanto si è abituati a pensare, che accade simbolicamente in quei momenti,
quando un uomo si trova a confrontarsi con una scelta dell'ex compagna di mettere
fine a quella relazione o viceversa quando si trova a dover chiudere una relazione.
Perché in quel momento accade la violenza?
Si calcola che oltre 480 donne sono state uccise, dal 2000 a oggi, per aver
lasciato il proprio compagno. Quasi la metà nei primi 90 giorni dalla
separazione.
Il rapporto Eures, li definisce i 'femminicidi del possesso', poichè conseguono
generalmente alla decisione della vittima di uscire da una relazione di coppia; a tale
dinamica sono da attribuire con certezza negli ultimi 15 anni almeno 213 femminicidi
tra le coppie separate, e 121 casi in quelle ancora unite dove la separazione si
manifesta come intenzione.
Come abbiamo accennato il 45,9% avvengono nei primi tre mesi dalla rottura (il
21,6% nel primo mese e il 24,3% tra il primo e il terzo mese). Ma il "tarlo
dell'abbandono", segnala il dossier, ha una forte capacità di persistenza e di
riattivazione nei casi di un nuovo partner della ex, della separazione legale, o
dell'affidamento dei figli. Tanto che il 3,2% dei femminicidi nelle coppie separate
avviene dopo 5 anni dalla separazione.
Cosa accade simbolicamente in quei momenti, quando un uomo si trova a
confrontarsi con una scelta dell'ex compagna di mettere fine a quella relazione o
viceversa quando si trova a dover chiudere una relazione. Perché in quel momento
accade la violenza?
Faccio notare che secondo le rilevazioni dell'ISTAT21 in Italia si contano 311
separazioni e 174 divorzi ogni 1.000 matrimoni. Nel 2012 i tassi di separazione
hanno subito per la prima volta una lieve diminuzione, ma per più di quindici anni dal
1995 al 2011 sono stati in costante ascesa.
Altro elemento interessante messo in luce dalle rilevazioni dell'Istat è che i
matrimoni più recenti durano di meno. Confrontando i matrimoni celebrati nel 1985

20
Si veda in particolare EU.R.E.S, 2013.
21
ISTAT, Separazioni e divorzi in Italia (anno di riferimento 2012), 23 giugno 2014
http://www.istat.it/it/archivio/126552
con quelli del 2005, le unioni interrotte dopo sette anni da una separazione sono
raddoppiate, passando dal 4,5% al 9,3%. 55
Se poi pensiamo alle nuove generazioni, tra ragazzi e ragazze, per molti aspetti gli
incontri, i rapporti, le "storie" trovano meno ostacoli e più occasioni, esplorazioni,
sperimentazioni. Ma l'altra faccia di questa libertà è data dall'estrema fragilità
di queste relazioni. Occorre dunque una maturazione culturale relativa alla fine e
alla chiusura delle relazioni.
Il problema delle separazioni, non riguarda del resto solo quel momento specifico.
Spesso esse rivelano una difficoltà a fare i conti con la soggettività altrui che ha
attraversato l'intera storia relazione. Il paradosso dunque è che le separazioni in molti
casi sono il primo momento in cui molti uomini sono costretti a prendere atto di
questa alterità e di questa autonomia. In altre parole le separazioni sono prima di
tutto momenti in cui facciamo esperienza della differenza, prendiamo misura
fino in fondo dell'alterità. Per questo oggi sono così difficili da accettare per gli
uomini, più che per le donne.
Le violenze in questi contesti raccontano la difficoltà a riconoscere l'alterità, a fare i
conti con la differenza, a misurarsi quotidianamente con relazioni libere.
Il punto che è imporante comprendere è che non si tratta di violenze che nascono
in una situazione di arretratezza culturale, ma al contrario in un contesto di crescente
uguaglianza e riconoscimento di diritti e parità. In particolare questa violenza
colpisce donne che manifestano liberalmente il loro pensiero e il loro
desiderio, che aprono conflitti e che assumono decisioni autonomamente,
come chiudere una relazione, decidere della propria maternità, legarsi ad altre
persone, riorganizzare la propria vita sociale, professionale, economica.22
Sarebbe un errore ritenere che questa violenza maschile presupponga come
avveniva in passato un giudizio di inferiorità nei confronti delle donne o un puro e
semplice tentativo di sottomissione. Al contrario sembra più plausibile pensare che ci
troviamo di fronte ad una violenza dovuta ad un’incapacità dell’uomo di
confrontarsi con una sopraggiunta autonomia e libertà femminile. Si
accompagna cioè ad un senso di inadeguatezza verso l’altra, verso se stessi e verso la
vita. Questo si evidenzia anche per i numerosi casi di omicidio-suicidio diffusi
soprattutto tra gli uomini. Non solo non si riesce ad accettare di non essere più amati
e di essere abbandonati, ma non si riesce nemmeno ad immaginare se stessi al di
fuori di quella relazione. Nel momento in cui la partner abbandona l’uomo, questi si
rende conto improvvisamente che non sono e non sono mai stati “una cosa
sola”. Scopre quindi la sua fragilità e la sua totale mancanza di autonomia.
Effettivamente diversi studi condotti in Canada e negli Stati Uniti mostrano che gli
uomini violenti contro le proprie mogli siano emotivamente dipendenti, insicuri e con
un basso livello di autostima (OMS, 2002, p. 135).
Queste esperienze rivelano anche forme di dipendenza verso le donne e
compagne che gli uomini tendono a disconoscere e a non vedere. Questa dipendenza
è presente nel quotidiano, nell’organizzazione materiale e nell’equilibrio psichico e nel
senso di sé maschile, ma paradossalmente si rivela solamente al momento della
rottura. È per questo che spesso la violenza maschile in questi episodi finisce per
rivolgersi anche verso se stessi.
Tenete conto che in Italia in ambito domestico circa un omicidio su 10 la
violenza si conclude col suicidio. Ci sono circa 40 omicidi-suicidi all'anno.

22
In parte queste considerazioni valgono anche in contesti extraeuropei. Talune ricerche svolte in paesi
quali il Sud Africa e lo Zimbabwe hanno mostrato che «le donne corrono un rischio maggiore di violenza
sessuale, nonché di violenza fisica da parte del partner, quando raggiungono un livello di istruzione più
elevato, e hanno quindi maggiore potere», la stessa cosa riguarda le donne lavoratrici rispetto a quelle
che stanno in casa (OMS, 2002, p. 238).
Ora si parla dei problemi di attaccamento e dipendenza delle donne che non
lasciano questi uomini o lo fanno solo dopo molto tempo. E non si tiene conto della 56
paura, del giudizio sociale, dei bambini, dell'autonomia economica, della difficoltà di
accettare che la persona a cui hai dedicato la vita ti stia facendo del male. Tuttavia
non si vede e non si nomina il problema più evidente di tutti: la difficoltà
maschile a stare in relazione e anche a chiudere una relazione, a stare ai
sentimenti dell'altra, ad accettare di non essere amato, fino a reagire con
comportamenti di stalking o di omicidio.
Questi uomini si dimostrano incapaci di pensare un cambiamento nelle proprie
relazioni, nella relazione con l'altra, nella relazione con i propri figli, soprattutto nella
relazione con se stessi. Quanto questo ci parli della fragilità psicologica di questi
uomini e della dipendenza da strutture famigliari di tipo patriarcale non è mai oggetto
di analisi.
Il codice culturale profondo che vede le donne deboli, vittime, dipendenti, da
proteggere vede contemporaneamente gli uomini come forti, indipendenti, privi di
insicurezze. La realtà più profonda è un’altra, ovvero che gli uomini non
riconoscono la propria dipendenza dalle donne, nelle cose quotidiane.
Generalmente sono le donne a supportare e a garantire il proprio senso di sé. Quando
quella relazione va in crisi, improvvisamente si rivela quella donna è fondamentale
affinché rimanga integro e intero il proprio senso di sé.
Dunque la fine di una relazione non solo mette di fronte ad una frustrazione difficile
da accettare, quello di non essere più amati, ma anche di fronte ad un’io, ad una
identità che da sola - senza il supporto femminile – non sta in piedi, non ce la fa.
L’alternativa alla violenza non può venire rinforzando l’idea di un uomo
invulnerabile e protettivo né quella di un uomo vittima delle pretese delle donne, ma
al contrario stimolando l'abitudine alla riflessione e al dialogo rispetto al proprio
mondo interiore, affettivo, relazionale con tutti i conflitti, le contraddizioni e le
ambivalenze a cui questo ci espone. Aver cura della propria fragilità, non
nasconderla, ma metterla in gioco consapevolmente farne una cifra di confronto, e
perfino di forza e di coraggio. Questa è la sfida che dobbiamo affrontare.
Il cambiamento difficile è passare da una relazione di coppia basata sul
modello della relazione con la madre che nella nostra mentalità infantile “non
può non amarci” a quello di una relazione matura basata sul riconoscimento
dell’alterità della propria amata e dunque sull'accettazione della propria
vulnerabilità. Il che presuppone accogliere il dono d’amore ma anche accettare di
poter non essere ricambiati.
Si tratta dunque di riuscire a rielaborare e integrare nella propria esperienza
di umanità la dimensione della fragilità e dell’impotenza. Impotenza di fronte al
rifiuto, all’abbandono, al tradimento, al dolore, alla morte. Le esperienze di negazione
e di perdita non sono al di sotto della nostra umanità. Al contrario l’accettazione di
queste esperienze ci aprono ad una comprensione della vita e delle persone più
ampia e profonda.
Tali esperienze del limite ci incrinano l’illusione di controllo sulla nostra vita, sulle
relazioni, sulle persone. Ci smontano la pretesa di poter disporre di ogni cosa a
piacimento. Ci permettono di dissolvere l’immagine di una relazione senza vuoti e
senza distanze che ci eravamo costruiti. Ci obbligano infine ad ammettere una soglia
di non comprensione, oltre la quale si deve accettare l’altra persona per come si
presenta o per come si nega a noi, senza cercare ulteriori spiegazioni.
Se c’è un apprendimento in amore, esso passa anche attraverso l’accettazione e
l’integrazione del negativo, e della parte di “mistero” che porta con sè. Bisogna
imparare a conoscere e a conoscersi, attraversando esperienze d’ogni
genere. Alcune volte sono incontri, slanci, gioie, doni e condivisioni. Ma altre volte
sono invece delusioni, abbandoni, tradimenti, ferite, misteri insondabili. Nella mia
esperienza anche questi ultimi vissuti dolorosi e negativi sono stati comunque
passaggi fondamentali e costitutivi perché mi hanno messo di fronte all’esperienza del 57
limite, della mia parzialità, del riconoscimento di altre persone.
Contrariamente al senso comune, a quello che tutti siamo abituati a pensare,
contrariamente all’idea romantica dell’amore, in verità si può amare
veramente solo ciò che si è disposti a perdere. Amare è anzitutto acconsentire
all’esistenza e al desiderio dell’altro, affinché qualcosa possa accadere ma anche non
accadere.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
58

Il linguaggio del mondo contemporaneo.


Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Docente: Marco Deriu

SACRO/PROFANO

La sociologia ha sempre studiato con attenzione i fenomeni religiosi e più nello


specifico i diversi rapporti che intervengono tra società e religione. Questo perché si
presuppone l’esistenza di un'intima connessione – quindi un'influenza e un
modellamento reciproco - tra fenomeni sociali e fenomeni religiosi. L’analisi può
evidentemente procedere in due direzioni complementari:23 per un verso riguarda
lo studio scientifico del modo in cui le dimensioni sociali influiscono o determinano
particolari aggregazioni, costruzioni e fenomeni religiosi; per un altro verso riguarda lo
studio scientifico dei modi in cui aggregazioni, costruzioni e fenomeni religiosi
influiscono sulla società, sulle relazioni sociali, sui fatti sociali in genere. Ovviamente
la sociologia e le scienze sociali in genere non si propongono di comprendere nella sua
totalità il fenomeno religioso e tanto meno le fedi in quanto tali, ma di esplorare ciò
che riguarda la loro natura e portata sociale.
Si può notare che diversi dei classici della sociologia, da Émile Durkheim a Max
Weber hanno dato molta importanza allo studio dei fenomeni religiosi e anzi hanno
sottolineato la centralità della religione nella comprensione e spiegazione dei fenomeni
sociali. Per Émile Durkheim la religione è uno dei fattori fondamentali di integrazione
e di coesione della società. Per Max Weber, la religione come matrice di significati è
una dei fattori di cambiamento e strutturazione della società (si pensi per esempio alla
sua analisi del rapporto tra il Protestantesimo e la nascita dello “spirito del
capitalismo”).
La religione e i fatti religiosi possono essere studiati in termini funzionalisti,
ovvero in funzione del loro ruolo sociale: per esempio per stabilire legami sociali e
vincoli di solidarietà, per spiegare e integrare particolari esperienze sociali ed
esistenziali (vita, morte, sofferenza ecc.), per regolare il rapporto tra comunità umane
e cosmo, per stabilire certe forme di gerarchia, potere o organizzazione sociale, o per
criticarle e modificarle, per imporre determinati valori o orizzonti di senso ecc…
Ma la religione può essere studiata anche in se stessa, in termini sostanziali,
come fenomeno caratteristico, come fatto sociale in sé. Questo naturalmente può
portare a diverse definizioni del fatto religioso, della sua esperienza e del suo
significato.
D’altra parte in sociologia si presuppone un approccio storico sociale che tiene
conto delle differenze e delle specificità dei fatti sociali religiosi e anche della loro
evoluzione nel tempo, ovvero della loro storicità.
Nell’affrontare questo tema metteremo al centro dello studio e della comprensione
del fenomeno religioso il tema del sacro, identificato come nucleo caratteristico
comune di ogni realtà religiosa. Come ha notato Henry Hubert il sacro è l’idea
madre della religione e la religione è l’amministrazione del sacro. Ma come
vedremo questo significa pensare insieme il rapporto tra sacro e profano.

23
Si veda in proposito Bajzek, Milanesi, 2006.
Il dualismo sacro/profano
59
«Il Cosmo - scriveva Mircea Eliade nel suo libro Il sacro e il profano -, per gli
uomini moderni privi di religiosità, è divenuto opaco, inerte, muto: non trasmette
alcun messaggio, non è portatore di alcun "mistero"» (Eliade, 1984, p. 113).

Senza dubbio Eliade coglieva una tendenza effettiva presente nella cultura e nella
mentalità delle società occidentali contemporanee, e tuttavia rimane da chiedersi: in
che misura è realmente così? I "moderni" hanno veramente perso il senso del sacro a
favore di una condizione "profana" e con questo hanno perduto un rapporto vivo e
fecondo con il cosmo?
E se qualcosa si è perso o è cambiato, dobbiamo - come implicitamente suggeriva
Eliade - tornare alle forme del sacro conosciute nel passato? Oppure è possibile una
visione ed un'esperienza del sacro adeguata al nostro tempo?
Gran parte degli studi e delle ricerche sul tema della religione e del sacro hanno
adottato come questione fondante la distinzione (e l'opposizione) tra sacro e
profano. Alcuni autori hanno addirittura posto questo dualismo come base di
partenza per cui il sacro viene definito in sede preliminare come ciò che si oppone al
profano. Per Émile Durkheim24 ad esempio la

«divisione del mondo in due domini che comprendono l'uno tutto ciò che è
sacro, e l'altro tutto ciò che è profano, è il carattere distintivo del pensiero
religioso».

Secondo questo autore l'eterogeneità di queste due categorie è "assoluta":

«Non esiste nella storia del pensiero umano un altro esempio di due categorie
di cose tanto profondamente diverse, tanto radicalmente opposte l'una all'altra»
(Durkheim, 1971, p. 41).

L'opposizione tra sacro e profano è al centro degli studi - tra gli altri - di Henry
Hubert e Marcel Mauss (Mauss, Hubert 1977), di Rudolf Otto (Otto, 1992), Roger
Caillois (Caillois 2001), di Mircea Eliade (Eliade 1999). Come sostiene Roger
Caillois sembrerebbe che sacro e profano si definiscano l’uno mediante l’altro «si
escludono e si presuppongono» (Caillois, 2001, p. 13). I loro rapporti dunque vanno
regolati severamente, onde evitare turbamenti e disordini, attraverso interdetti e riti
di consacrazione per introdurre qualcuno o qualcosa nel regno del sacro e di
sconsacrazione per restituire qualcuno o qualcosa al mondo profano.
La definizione più famosa resta probabilmente quella di Rudolf Otto, che definisce
il sacro come mysterium tremendum et fascinans. Il sacro appare come
trascendenza assoluta, come qualcosa che va al di là della ragione, che sconcerta,
sconvolge, lascia senza parole. Nel suo essere totalmente altro il sacro comprende una
dimensione misteriosa che impedisce una sua oggettivazione e riduzione. Si pensi ad
esempio alle formulazioni della mistica e della cosiddetta “teologia negativa” (o
apofatica) che ritiene di poter avvicinarsi al sacro e a Dio attraverso un procedimento
ascendente di sottrazione e di eliminazione di ogni determinazione positiva.
Da questo punto di vista l’esempio più significativo è quello offerto da un famoso
testo di San Juan de la Cruz, che ha influenzato molti autori moderni da Thomas S.
Eliot a Simone Weil a George Bataille.

24
Cfr. Durkheim, 1971 [1912], p. 39 e Durkheim, 1996 [1898].
«Per arrivare a gustare tutto
non voler aver gusto a nulla. 60
per arrivare a sapere tutto
non voler sapere qualcosa in nulla
per arrivare a possedere tutto
non voler possedere qualcosa in nulla
per arrivare a essere tutto
non voler essere qualcosa in nulla

Sentiero di imperfezione celeste. Grazia. Gioia. Scienza, Consolazione. Riposo

Per arrivare a quello che non gusti


Devi andare per dove non hai gusto
Per arrivare a quello che non sai
Devi andare per dove non sai
Per arrivare a possedere quello che non possiedi
Devi andare per dove non possiedi
Per arrivare a quello che non sei
Devi andare per dove non sei

Salita del monte Carmelo. Spirito di perfezione. nulla nulla nulla nulla nulla nulla

Quando ti soffermi in qualcosa


cessi di tendere a tutto
per arrivare completamente al tutto
devi abbandonarti compiutamente in tutto
e quanto lo terrai compiutamente
devi tenerlo senza volere nulla

Sentiero di imperfezione mondano. Possesso. Gioia. Scienza, Consolazione. Riposo

In questa nudità l’anima


Trova il suo riposo, perché,
non desiderando essa nulla, nulla
l’affatica verso l’alto e nulla
l’opprime verso il basso perché
sta nel centro della sua umiltà».

(parz. tratto da Juan de la Cruz, Poesie, Einaudi, Torino, 1974)

Questo mysterium è comunque tremendum, qualcosa di potente e inquietante,


che fa tremare ed incute timore, e allo stesso tempo fascinans, affascinante,
attraente, irresistibile. L’ebbrezza del sacro è data proprio da questa compresenza di
repulsione e di rapimento estatico, che distingue l’esperienza del sacro dalle comuni
esperienze umane.
Anche autori legati a filoni culturali diversi come il marxismo o lo storicismo, hanno
in fondo riproposto - reinterpretandola in base ai propri modelli di analisi -
l'opposizione sacro/profano. Per Ernesto De Martino (De Martino 1995) il sacro ha
un significato di riscatto e compenso di fronte a determinate e drammatiche situazioni
storiche di tensione e crisi individuali e sociali. Per Vittorio Lanternari (Lanternari,
1976) la funzione del sacro si comprende in relazione alla dimensione liberatrice del
tempo sacro (in particolare nella festa), nei confronti del tempo profano, del tempo
subordinato e uniformizzato dal lavoro. Alfonso Di Nola ha sostenuto che la relazione
tra queste due categorie 61

«va capovolta, nel senso che va affermata la priorità della dimensione profana,
utile o economica, sulla quale è costituita la storia e nei rapporti della quale il
momento sacro assume gli aspetti di un momento dialettico che, secondo
modalità proprie delle singole culture, risolve i conflitti emergenti nella realtà del
profano» (Di Nola 1981, p. 354).

Eppure altri autori, in particolare antropologi, hanno cercato di mettere in


discussione la fondatezza di questo dualismo, sostenendo che non si tratta di un vero
carattere distintivo del religioso, ma piuttosto di un carattere accidentale legato a
specifiche formazioni culturali e sociali e a determinati momenti storici. Il dualismo
sacro/profano non sembra una categoria assoluta e universale ma è presente
piuttosto solamente in alcune culture o in alcuni contesti storici e non in altri.
Certamente questo dualismo caratterizza la tradizione occidentale. Se infatti la
tradizione cristiana è in gran parte basata sull'antagonismo tra queste due categorie,
l'idea di uno spazio, un tempo, delle figure, degli oggetti e dei fatti (chiese, feste,
sacerdoti, reliquie, riti e celebrazioni) opposti alla realtà profana, si può d'altra parte
notare che questo stesso dualismo ha informato (sebbene con un'enfasi opposta) il
"progetto" della modernità, sulla base dell'idea che il progresso con l'affermazione
della sfera della razionalità e della ragione determini sempre più l'emancipazione dalla
mentalità, dalle credenze e dalle superstizioni del passato (magia, sacralità, mistica,
irrazionalità, timore, suggestioni, paure, devozioni ecc…).

Visioni plurali del sacro

Per intendere il sacro oltre questo ristretto schema dualistico e per riflettere in
modo nuovo su alcune questioni che stanno al cuore della nostra cultura è necessario
innanzitutto riconoscere che con la categoria "sacro", in realtà si intendono un
insieme di idee ed esperienze anche molto differenti fra di loro. In termini
molto generali, si può dire che l'idea del sacro si riferisce alla percezione,
all'esperienza e alla rappresentazione di una realtà ultima, non riducibile o
immediatamente sovrapponibile a quella direttamente osservabile o riconoscibile e
rispetto ad essa più assoluta, profonda, complessa, superiore o trascendente. Ma al di
là di questa generalizzazione è importante tuttavia cercare di mettere in luce le
diverse dimensioni di senso implicite nella stessa categoria di "sacro". In
prima approssimazione mi sembra si possano rilevare, in relazione a diverse culture e
contesti storici almeno otto dimensioni differenti:

a) una DIMENSIONE COSMOLOGICA legata a una visione ontologica del sacro. Da


questo punto di vista ad esempio Peter L. Berger ha notato che il sacro si oppone
non solo al profano ma in senso più profondo al caos.

«Il cosmo sacro emerge dal caos e gli si para di fronte come il suo terribile
antagonista. Questa opposizione tra cosmo e caos s’esprime in una varietà di
miti cosmogonici. Il cosmo sacro, che trascende e ingloba l’uomo nel suo
ordinare la realtà, fornisce quindi l’ultima difesa dell’uomo contro il terrore
dell’anomia» (Berger, 1984, p. 38).
Se la costruzione della realtà sociale avviene tramite la creazione e l’istituzione di
significati collettivi e tramite la loro interiorizzazione soggettiva allora la religione è 62
l’impresa attraverso cui viene costruito un cosmo sacro.

«In altri termini, la religione costituisce il temerario tentativo di concepire


l’intero universo come umanamente significativo» (Berger, 1984, p. 40).

In questo modo avviene una proiezione dei significati dell’ordine umanamente


costruito sull’universo stesso, o se si vuole sulla totalità dell’essere. Attraverso la
sua sacralizzazione l’universo si “stacca” dal caos per assumere un senso e
un valore.
Il sacro in questo caso riguarda la percezione integrale della vita, dell'essere del/nel
mondo. Comprende l'idea dell'unità dell'essere, dell'unicità dell'esistente e in
senso teologico di una divinità che tiene unito o che coincide con il cosmo, con l'intera
realtà esistente. Non si tratta di un riconoscimento intellettuale che si ottiene
procedendo per sempre maggiore astrazione, ma attiene piuttosto a esperienze
vissute - percezioni, intuizioni, rivelazioni - riconducibili alla categoria della bellezza,
dell'assoluto, dell'unità integrale del vivente e della sua relazione con l'essere che
determinano una particolare visione del mondo o cosmologia.

b) una DIMENSIONE ORDINATIVA, legata a una visione di strutturazione e


orientamento del sacro. Sulla base della distinzione sacro/profano,
trascendente/immanente, reale/irreale, puro/impuro si riconosce nel sacro la realtà
fondativa e rigenerativa del mondo e dell'esistente in opposizione al caos primordiale.
Il sacro in questo caso è visto e vissuto come l'irruzione di un qualcosa di
completamente diverso (il ganz andere di Otto), di una realtà altra e più vera (il
numinoso) che una volta rivelatasi, determina un centro assoluto a cui ci si dovrà
dunque riferire per mantenere aperta la possibilità di comunicazione con gli dei. Le
sue successive manifestazioni - le ierofanie o le teofanie - determinano la
strutturazione topologica del mondo e l'ordinamento dei fatti umani. La realtà è
suddivisa e irregimentata secondo la separazione tra spazi, tempi, persone, oggetti e
comportamenti sacri rispetto a quelli profani. La distinzione e la non contaminazione
del sacro è salvaguardata da interdetti o da azioni di espulsione, purificazione,
consacrazione, sacrificio.

c) una DIMENSIONE MAGICA, legata a una visione attiva e strumentale del sacro. Il
sacro è riconosciuto nella forma di energia, potenze e forze invisibili, naturali o
sovrannaturali, comunque reali, presenti in luoghi, persone o elementi particolari di
cui si deve tener conto. Si può cercare di non offendere luoghi o persone o non avere
contatto con alcuni elementi per evitare ritorsioni o sorprese spiacevoli. È connessa a
questa dimensione anche un approccio di tipo utilitaristico e finalistico. Il potere del
sacro viene invocato a proprio favore e contro altri oppure richiamato a tutela di una
comunità o di un posto. Come ha scritto Roger Caillois,

«Nella sua forma elementare, il sacro rappresenta dunque innanzitutto


un’energia pericolosa, incomprensibile, difficile da maneggiarsi, eminentemente
efficace. Per chi decide di farvi ricorso, il problema consisten nel captarla e
utilizzarla al meglio nel proprio interesse, proteggendosi al contempo dai rischi
ineranti all’impiego di una forza così difficilmente dominabile» (Caillois, 2001, p.
16).

d) una DIMENSIONE LEGALISTICA, legata a una visione contrattuale del sacro. Il


timore e la devozione verso il sacro viene risolta nella sanzione di un patto. In
questo caso il sacro presuppone un vincolo, un legame tra gli esseri umani e le
divinità, le potenze sovrannaturali o le forze attive nel mondo che sancisce impegni o 63
responsabilità per entrambi i soggetti. La riaffermazione del patto può essere espressa
anche mediante sacrifici.

e) una DIMENSIONE IDEALISTICA, legata ad una visione etica o moralistica del


sacro. Il sacro è l'ideale, il modello di santità e di perfezione, l'archetipo della
purezza, della bontà, identificato nel riconoscimento di personaggi straordinari (santi,
profeti, messaggeri divini, avatar, incarnazioni del nume), o nel dettato della comunità
sociale. Si tratta dunque di un modo d'essere nel mondo, santo, superiore a quello
comune a cui gli esseri umani tendono e cercano di conformarsi.

f) una DIMENSIONE STORICO-SOCIALE, legata ad una visione utopistica del sacro.


Il sacro è vissuto come una dimensione trascendente o una formazione culturale che
in una situazione conflittuale richiama gli individui e ancora di più i gruppi all'ideale
puro di liberazione o di riscatto da una realtà monotona, ingiusta, miserabile e
intollerabile. In questo caso la forza trasformativa del sacro è vissuta in senso sociale
nell'immagine della missione, della rivolta, della realizzazione del regno di Dio in
terra, della rivoluzione, della ricerca comune di valori superiori che ridiano senso alla
realtà umana e forza al sentimento di solidarietà sociale della collettività.

g) una DIMENSIONE "SELVAGGIA", legata ad una visione vitalistica del sacro. In


questo caso il sacro è una forza, una potenza primigenia, istintuale, irrazionale o
inconscia, che si manifesta in modo selvaggio ed eccessivo, o addirittura violento. Il
carattere tendenzialmente selvaggio e irrefrenabile dovuto all'eruzione del rimosso o
di energie e desideri latenti restituisce finché non viene addomesticato quella
dimensione di pienezza, di esperienza unitaria ed integrale della vita, nelle sue
dimensioni creative e distruttive. A questo proposito molte feste in origine si
presentavano come uno spazio e un momento di esuberanza e effervescenza
collettiva, una febbre vitalistica, un momento di attività parossistica e rigenerante che
si contrappone alla monotonia, alla banalità e al costante logorio del quotidiano.

h) una DIMENSIONE UMANISTICA, legata ad una visione laica o profetica del sacro.
Il sacro viene riconosciuto come presenza divina che abita nel cuore di ciascuna
persona (metafora della luce, della scintilla, dello spirito divino, della sapienza) al di là
della fedeltà ad una particolare tradizione e della devozione a luoghi, riti o istituzioni
particolari, che possono essere importanti ma non necessari. Questa presenza può
rivelarsi particolarmente in figure ispirate in senso profetico o sapienziale che
richiamano a questa dimensione intima o personale del sacro piuttosto che a quella
normativa di una presunta "legge divina".

L'elenco può essere integrato e raffinato ulteriormente, ma quello che importa è


riconoscere una dimensione pluralistica del sacro.
Queste molteplici dimensioni nella realtà possono presentarsi insieme, essere
connesse e integrate fra loro, ma in qualche misura possono presentarsi
distintamente, ed essere viste o vissute come differenti e addirittura alternative. Il
riconoscimento di una molteplicità di fatto e l'importanza della pluralità non significa
un'indifferenza generale verso i diversi percorsi. Al contrario, proprio il confronto con
una pluralità di prospettive rende legittimo e in qualche misura inevitabile un
approccio critico basato sull'analisi e sul confronto rispetto al modo di raffigurarsi e
interpretare il sacro.
Ad ogni modo è importante sottolineare che, sebbene si possano evidenziare alcuni
elementi universali, non esiste un'unica concezione ed esperienza del sacro di
tipo oggettivo. Quindi, non si tratta né di arrivare ad una definizione ultima di sacro,
né di elencare i modi in cui dal punto di vista fenomenologico questa esperienza si è 64
manifestata, ma piuttosto di riconoscere la dimensione di apertura insita
nell'esperienza del sacro, la molteplicità - pur nel ripresentarsi di aspetti,
comportamenti e moduli ricorrenti - delle sue dimensioni e delle sue espressioni
storiche, sociali e personali che si estende anche a quelle ancora possibili che
nasceranno in altri luoghi e in altri tempi. Al di fuori di ogni schema evoluzionistico, si
può riconoscere come queste differenti dimensioni possono presentarsi nello stesso
tempo in culture e realtà differenti, o in tempi diversi nella stessa area culturale e
nello stesso ambito religioso. Inoltre, diverse esperienze del sacro - tendenzialmente
opposte - possano presentarsi nello stesso tempo nello stesso contesto religioso in
diversi individui. Come hanno rilevato Carlo Prandi e Giovanni Filoramo
proponendo l'idea di un'"autonomia relativa" del fatto religioso

«Ciò che si dà a conoscere allo studioso dei fenomeni religiosi non è né una
"religione" allo stato puro, né soltanto la psiche o la cultura o la società, ma un
intreccio concreto, storicamente dato, tra determinate "individualità" religiose
con la loro particolare logica e struttura e determinati contesti storico-sociali»
(Filoramo, Prandi, 1997, p. 23).25

Quindi si può a questo punto ora avanzare l'idea che se c'è stata una qualche
eclissi del sacro, essa ha riguardato forse solo una specifica concezione ed
esperienza connotata storicamente e culturalmente.
Val la pena dunque provare a confrontarsi con alcuni delle riflessioni più
interessanti a proposito del sacro proposte da studiosi a noi coevi. In particolare mi
vorrei soffermarmi su René Girard e Gregory Bateson. Il primo è un credente, il
secondo un laico.

René Girard: l’ambivalenza del sacro

Diversi studiosi a partire dagli studi pionieristici di Robertson Smith (Robertson


Smith 1889) hanno messo in luce l'"ambivalenza" della nozione di sacro. Questa
ambiguità è presente nelle molteplici dimensioni del sacro che ho cercato di
evidenziare, ma con significati diversi e risultati del tutto differenti. Alcuni studiosi, in
particolare, hanno portato alla luce la connessione tra sacro e violenza (Agamben,
1995 e Girard, 1980, 1983, 1987).
Per lo studioso francese René Girard, all'origine di ogni aggregazione o società
umana, sta una qualche forma di violenza. Quest'ultima, è vista come l'elemento di
base che struttura ogni forma di socialità e di elaborazione culturale; Girard
considera la violenza come originaria. La violenza tuttavia non deriva da un
"istinto", bensì è il risultato di una serie di dinamiche che si sviluppano intorno al
meccanismo dell'imitazione, della "mimesi". Per Girard

«non c'è nulla o quasi, nei comportamenti umani che non sia appreso, e ogni
apprendimento si riduce all'imitazione. Se gli uomini, a un tratto cessassero di
imitare, tutte le forme culturali svanirebbero» (Girard, 1983, p.22).

La prima cosa che si conforma al mimetismo, è il desiderio umano, che dunque è


quasi sempre desiderio mimetico. Ogni desiderio si orienta e si sviluppa in rapporto a
ciò che è desiderato dagli altri. Si desidera sempre ciò che non si ha, ciò che l'altro ha,
o desidera lui stesso. Non solo si desidera ciò che desidera l'altro, ma si desidera

25
cfr. anche Prandi, 1988, p. 21 e ss.
come e attraverso l'altro. Paradossalmente, infatti l'altro è spesso modello, nello
stesso tempo che rivale. Ma la concorrenza dei desideri genera competizione, e il 65
desiderio diventa desiderio di possesso, esclusivo. Se un bambino ne vede un'altro
tendere una mano verso un oggetto, è subito tentato di imitarne il gesto. Questa
rivalità attorno ad un oggetto desiderato da più membri del gruppo, è definita da
Girard mimesi di appropriazione. Quando il conflitto per l'appropriazione si
esaspera, nasce allora la violenza. La violenza si basa anch'essa sul mimetismo:

«La violenza è un rapporto mimetico perfetto, dunque perfettamente


reciproco. Ognuno imita la violenza dell'altro e gliela restituisce "ad usura"»
(Girard, 1983, p. 370).

Si ha dunque una escalation della violenza. Una volta scatenato, il conflitto


degenera; si tende a dimenticare l'oggetto che era all'origine della disputa, che
quantomeno finisce in secondo piano, e l'obbiettivo diventa invece sconfiggere il rivale
percepito come causa della mancata realizzazione del proprio desiderio, connotandolo
in questa maniera come vittima ed oggetto di persecuzione. Se l'intera crisi mimetica
non viene in qualche modo evitata, controllata o incanalata, essa tenderà facilmente a
diffondersi, anche perché il desiderio mimetico può svilupparsi rispetto ad ogni
cosa (cibo, sessualità, territorio, ruolo sociale ecc.). Ma se la crisi mimetica si diffonde
o si generalizza, il risultato è la probabile distruzione o degenerazione della comunità,
o diversamente l'adozione mimetica comune delle medesime vittime ritenute le
responsabili. Quest'ultima possibilità è indicata col termine di mimetismo di
antagonismo.
Ora come è possibile che gli umani, siano riusciti a vivere in società, nonostante
queste tendenze e pericoli? Per Girard vi sono due risposte; innanzitutto, le varie
comunità umane, per tutelarsi di fronte al rischio di queste crisi mimetiche, hanno
sempre elaborato una serie di regole sociali da rispettare, che sono i tradizionali
divieti e tabù. Questi divieti culturali manifestano la propria ragion d'essere nella
proibizione della violenza e con essa di tutte le occasioni di violenza, come per
esempio le rivalità troppo accese e anche certe forme di concorrenza oggi tollerate o
addirittura incoraggiate. Nelle società tradizionali tutti gli ambiti di relazione sociale
sono sottoposti a certi vincoli (è facile pensare per esempio alle indicazioni riguardanti
le relazioni uomo-donna, le regole di distribuzione del cibo, o a certe limitazioni alla
proprietà privata). Vi sono anche dei divieti il cui senso è meno evidente e che
sembrano spesso assurdi, ma che nelle mentalità tradizionali sono comunque
ricondotti al tema della violenza; si tratta spesso di proibizioni, di tabù culturali
riguardanti certi comportamenti imitativi e certi simboli connessi all'imitazione, come
per esempio il tema del doppio (i gemelli mitici, gli specchi, le statuette che
rappresentano l'avversario, le rappresentazioni in generale ecc.).
In secondo luogo, bisogna però tenere conto, che le regole sociali spesso non sono
sufficienti a controllare e ad evitare l'insorgere di crisi mimetiche. Talvolta, inoltre, le
crisi mimetiche sono conseguenze di eventi naturali o non controllabili. Per Girard le
società umane per dare sfogo alla violenza che spesso si scatena, e che minaccia
l'ordine e la sopravvivenza dalla comunità, finiscono con l'assumere come modalità
abituale "rituale" per il ristabilimento dell'ordine violato, la designazione di una
vittima sacrificale, di un capro espiatorio, che incolpato di tutto il male diffuso
nella comunità, sarà espulso o immolato. Ed effettivamente il sacrificio collettivo della
vittima, conduce spesso ad una riappacificazione della comunità, ma questo non
perché la vittima fosse veramente la responsabile, come invece gli altri pensano, ma
perché la polarizzazione del male, della cattiveria, della responsabilità tutta addosso
ad un'unica persona, ridà una certa coesione e tranquillità alla comunità. La vittima
che prima era ritenuta la responsabile del disordine, ora è ritenuta la
responsabile dell'ordine e della pacificazione dunque ora essa viene
sacralizzata. Si ha così quel paradosso che per Girard è all'origine del sacro: 66

«È criminale uccidere la vittima perché essa è sacra...ma la vittima non


sarebbe sacra se non la si uccidesse» (Girard, 1980, p. 13).

Questo tipo di sacralizzazione e di violenza, come pure i divieti e i riti ad esse


connesse, sono per Girard alla base di ogni religione, cultura, società. Dal punto di
vista di queste culture, che ancora oggi misconoscono i loro fondamenti religiosi-
sacrificatori, si darebbero così due tipi di violenze: una potenzialmente
distruttiva di ogni società e che produce indifferenziazione, l'altra, religiosa,
sacra (nel linguaggio moderno diremmo "legale"), che è necessaria alla società per
mantenere o ricreare un nuovo ordine sociale.
Girard da ampia conferma di questo suo modello esplicativo, rileggendo attraverso
quest'ottica, un gran numero di riti o abitudini culturali, di miti di varie tradizioni, di
testi letterari classici, o anche di veri e propri "testi di persecuzione", cioè testi in cui il
meccanismo della persecuzione vittimaria si fa più evidente, perlomeno ai nostri occhi.
Per Girard è possibile smascherare la menzogna del meccanismo vittimario,
tuttavia secondo lui, questa disvelazione è possibile, unicamente perché quest'opera
di smascheramento è già stata innescata da una rivelazione avvenuta una volta per
sempre, quella di Gesù, tramandata nei Vangeli. La rilettura da parte di Girard delle
scritture ebraiche e più compiutamente delle scritture neo-testamentarie, riesce a
mettere in luce ciò che nei vangeli viene indicato come le cose nascoste sin dalla
fondazione del mondo, cioè il misconoscimento, la dissimulazione perpetua da parte
della cultura umana, delle proprie origini nella violenza collettiva. Alla base della
rivelazione della vita e della crocifissione di Gesù sta per Girard la denuncia della
logica mimetica e retributiva della violenza, alla quale invece viene contrapposta la
unilateralità della nonviolenza, lo disvelamento delle tendenze sacrificatorie
dichiarando l'innocenza e la beatitudine di tutte le vittime dei sacrifici umani,
tra cui manifestamente lui stesso.
Per Girard, nella situazione attuale, la violenza non ha smesso di orientare le nostre
culture e società, anzi la violenza si fa sempre più presente perché non ci sono più
tabù antimimetici a controllare le relazioni sociali. Si potrebbe dire addirittura che oggi
il principio competitivo sembra assunto a principio cardine dello sviluppo. Inoltre i
sacrifici pur esistendo ancora, non hanno più la stessa capacità pacificatoria,
perché ormai se ne riconosce almeno in arte la logica, dunque richiedono prezzi
sempre più alti per un risultato sempre più inconsistente. Inoltre l'assurdità del
sistema è ormai autevidente nella potenzialità distruttiva dell'arsenale atomico
mondiale.
Anche Girard dunque è dell'idea che

«Dire che siamo in una situazione di apocalisse oggettiva non significa afffatto
"predicare la fine del mondo", ma piuttosto dire che, per la prima volta, gli
uomini sono veramente padroni del loro destino. Il pianeta intero si ritrova, di
fronte alla violenza, in una situazione paragonabile a quella dei gruppi umani più
primitivi, con l'unica differenza, questa volta che ciò avviene con cognizione di
causa; non abbiamo più risorse sacrificali e malintesi sacri per stornare da noi
questa violenza. Accediamo a un grado di coscienza e di responsabilità mai
ancora raggiunto dagli uomini che ci hanno preceduto» (Girard, 1983, p. 326).

Girard è dunque convinto della necessità di un cambiamento radicale:


«Oramai non si tratta di moltiplicare i pii desideri e le formule ipocrite. Oramai
si tratterà sempre di più di una necessità implacabile. La rinuncia alla violenza, 67
definitiva e senza riserve, si imporrà a noi come condizione sine qua non di
sopravvivenza per l'umanità stessa e per ciascuno di noi» (Girard, 1983, p. 185).

Gregory Bateson: né soprannaturale né meccanico

Antropologo per formazione, biologo per tradizione familiare, psichiatra per elezione,
studioso della cibernetica e della teoria della comunicazione, il caso di Gregory
Bateson (Grantchester, 9 maggio 1904 – San Francisco, 4 luglio 1980) è quello di
uno scienziato era andato maturando negli ultimi anni della sua vita un pensiero
ecologico che (da una posizione atea) lo aveva portato lentamente ad accostarsi al
pensiero religioso ed in particolare all'idea e all'esperienza del sacro.
«Vedi, io non faccio ogni volta una domanda diversa» diceva in uno dei suoi
metaloghi con la figlia, «io rendo più ampia la stessa domanda» (Bateson, 1984, p.
280).
Così il libro Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro (Angels
Fear. Towards an Epistemology of the Sacred) costituisce essenzialmente il tentativo,
solo abbozzato, di uno sguardo oltre quella soglia, verso il terreno dove gli angeli
esitano a mettere il piede: il sacro.

«Non rivendico l’unicità» scrive Bateson «ma l’appartenenza a una piccola


minoranza che crede nell’esistenza di argomenti forti e netti a favore della
necessità del sacro e crede che questi argomenti si basino su un’epistemologia
radicata in una scienza più progredita e in ciò che è ovvio. Credo che tali
argomenti siano importanti in quest’epoca di diffuso scetticismo, anzi che siano
oggi non meno importanti della testimonianza di coloro la cui fede religiosa è
basata sulla luce interiore e su un’esperienza “cosmica”» (Bateson, G., Bateson,
M.C., 1989. p. 25).

L'elemento importante del suo approccio (da lui definito «ecologia della mente»)
sta nel fatto che nel suo avvicinarsi al territorio del sacro, Bateson non ha mai
rinunciato a un'impostazione scientifica rigorosa e ad un uso critico degli strumenti
della ragione:

«Nello scrivere questo libro, mi trovo ancora preso fra Scilla e Cariddi, fra il
materialismo imperante da un lato, col suo pensiero quantitativo, la scienza
applicata e gli esperimenti "controllati", e il soprannaturalismo romantico
dall'altro. Il mio compito è quello di indagare se vi sia, fra questi due incubi
insensati, un posto valido e sensato per la religione, se si possano trovare nella
conoscenza e nell'arte le fondamenta di un'affermazione del sacro che celebri
l'unità della natura» (Bateson e Bateson 1989, p. 103).

Negli ultimi anni della sua vita Bateson aveva dunque speso tutte le sue energie nel
tracciare le linee di fondo di un percorso scientifico e filosofico originale attorno ai temi
del sacro, ma il sopraggiungere della morte aveva poi posto fine a questa ricerca
lasciando ancora aperte molte questioni.
Rispetto al pensiero di Bateson sul sacro, Dove gli angeli esitano si presenta come
la prima espressione di una ricerca che se non fosse stata interrotta dalla sua morte
sarebbe stata probabilmente affinata e sistematizzata.
Negli ultimi anni Bateson si era convinto sempre più che quell’unità della natura che
aveva cercato di sostenere in Mente e natura poteva essere compresa solamente
attraverso quel genere di metafore caratteristiche della religione. Fin dai tempi
de La matrice sociale della psichiatria, Bateson aveva proposto una distinzione rispetto 68
alle verità religiose, tra verità storiche o oggettive e verità “metacomunicative”
(Bateson Gregory e Ruesch Jurgen, 1976, pp. 253-255). Dal suo punto di vista, era
possibile trovare una posizione diversa sia da quei fanatici che affermano che le loro
metafore, mitologie, o parabole sono verità storiche e oggettive e vanno prese in
senso letterale, sia dalle persone antireligiose che in maniera altrettanto sciocca non
colgono il carattere di verità metacomunicativa (deutero-verità) di un'idea religiosa.
Per esempio nel cristianesimo ci sono un insieme di affermazioni riguardanti
l’onnipotenza divina e il rapporto tra il Padre, il Figlio e l’umanità. Le parole «Padre
nostro che sei nei cieli…» implicano un'affermazione implicita rispetto alla fratellanza
umana. La verità delle metafore dunque è diversa dalle verità matematiche, eppure è
proprio tramite le metafore che avviene la comunicazione nel mondo biologico:

«la metafora non è solo una belluria poetica, non è logica buona o cattiva, ma
è di fatto la logica su cui è stato costruito il mondo biologico, è la principale
caratteristica e la colla organizzativa di questo mondo del processo mentale»
(Bateson e Bateson, 1989, p. 53).

Nel linguaggio religioso troviamo dunque una serie di affermazioni rispetto agli
esseri umani, al rapporto fra esseri viventi e al rapporto con l'intero universo; la
religione, con la sua miniera di affermazioni “deutero-apprese”, è una delle fonti più
determinanti delle nostre epistemologie.
La cornice dentro a cui si pone la riflessione batesoniana sul sacro vuole essere
alternativa al soprannaturalismo romantico da una parte e al meccanicismo
materialista dall'altra:

«io disprezzo e temo entrambe queste opinioni estreme e le giudico ingenue e


sbagliate sotto il profilo epistemologico e pericolose sotto il profilo politico.
Inoltre sono pericolose per qualcosa che possiamo chiamare genericamente
salute mentale» (Bateson e Bateson, 1989, p. 87).

Alle tradizioni religiose rimprovera l’idea di un potere della mente sulla materia che
non colma lo iato tra le due, mentre a quelle materialistiche rimprovera l’idea che la
quantità possa determinare la forma, distogliendo in questo modo l’attenzione dalla
struttura, dalla Gestalt, e rendendo alla scienza impossibile dire alcun che di sensato
su cose come la bellezza, l’amore, il comico, il metaforico ecc. Il tentativo di Bateson è
appunto di trovare un posto valido per la religione tra questi “due incubi insensati”, in
modo tale avanzare un'idea del sacro che celebri l’unità della natura.
L’attenzione all’organizzazione del mondo biologico, permette a Bateson di proporre
una soluzione differente al problema mente-corpo. In Mente e natura, Bateson si era
sforzato di mostrare come la mente non sia una sostanza a sé, ma una caratteristica
organizzativa e comunicativa. Da questo punto di vista anche l'evoluzione del vivente
presenta proprità "mentali". A partire da questa osservazione Bateson sostiene l’idea
che

«mente e natura formano un’unità necessaria in cui non esiste una mente
separata dal corpo o un dio separato dalla sua creazione» (Bateson e Bateson,
1989, p. 27).

Bateson ritiene che l’organizzazione biologica con caratteristiche mentali, il


processo mentale ed evolutivo, il tessuto comunicativo del vivente siano ciò che può
essere indicato col "nome" di dio (con consapevolezza però che il nome non è la cosa,
e la descrizione non è la cosa descritta). La posizione da cui Bateson ritiene in qualche
modo sensato parlare di dio è quella di un dio immanente alla biosfera: 69

«La mente individuale è immanente, ma non solo nel corpo: essa è


immanente anche in canali e messaggi esterni al corpo; e vi è una più vasta
Mente di cui la mente individuale è solo un sottosistema. Questa più vasta mente
è paragonabile a Dio, ed è forse ciò che alcuni intendono per “Dio”, ma essa è
ancora immanente nel sistema sociale interconnesso e nell’ecologia planetaria»
(Bateson, 2000, p. 502).

Ad ogni modo piuttosto che parlare di dio, Bateson preferisce spesso usare un
termine affine ma più generale, quello di "sacro". Come abbiamo già detto per molto
tempo il sacro in Occidente è stato opposto al profano, e visto quindi come sinonimo
di “interdizione” legata a spazi e tempi precisi. L’opposizione tra sacro e profano
corrisponde a quella tra Dio e mondo, tra mente e corpo, e - in termini più
attuali - tra religione e scienza. Ora nella posizione di Bateson è possibile
intravedere un'idea diversa: il sacro può non essere più legato a una realtà, a uno
spazio o un tempo particolare ma piuttosto a una sensibilità verso quella che Bateson
chiamava «struttura che connette». Bateson parla di un'unità del vivente, attraverso
l’idea della «struttura che connette» tutte le creature viventi che aveva anticipato in
Mente e natura. Il sacro è riferibile dunque alla percezione del tessuto
integrato del processo mentale che avvolge tutta la vita (la creatura, secondo la
distinzione già incontrata).
Oggi una riflessione nuova sul sacro come quella proposta da Bateson può essere
utile per gettare un ponte tra le forme di conoscenza religiose e quelle laiche. Come
indica il sottotitolo del libro, il tentativo di Bateson è quello di definire alcune
premesse - potremmo dire dei segnavia - attraverso cui reimpostare da un punto di
vista epistemologicamente più corretto (nel senso dell'«ecologia della mente») una
riflessione sul sacro per cogliere il meglio delle tradizioni religiose e al contempo
abbandonare alcune idee che alla luce della storia ecologica si sono dimostrate
patologiche. Gregory riteneva infatti che una grande parte dei problemi
dell’adattamento umano derivi dal fatto che le religioni occidentali fraintendono le loro
divinità in termini trascendenti piuttosto che in termini immanenti:

Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea
di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente
come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi
arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e
quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da
sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la
vostra gente o gli individui della vostra specie, in antitesi con l’ambiente formato
da altre unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle piante. Se questa è
l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se possedete una tecnica
progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di
neve all’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici del vostro stesso
odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento
delle riserve (Bateson, 2000, pp. 502-503).

D'altra parte per Bateson le tradizioni religiose custodiscono anche un patrimonio di


conoscenza prezioso e un antidoto al rozzo materialismo: «è tempo di raccogliere le
molte componenti epistemologiche della religione che sono state messe da
parte» dichiara programmaticamente. Per Bateson, che fornisce così una sua
definizione dell'esperienza religiosa,
«la religione non consiste nel riconosce i miracoli […] consiste invece nel 70
riconoscere vasti aggregati di organizzazione aventi caratteristiche mentali
immanenti» (Bateson e Bateson, 1989, p. 215).

Secondo Bateson dunque molte delle epistemologie derivanti dalle varie tradizioni
religiose o spirituali, hanno fra le altre cose un'idea in comune, quella di un’unità di
fondo della vita nelle sue diverse manifestazioni, e insieme l’idea che questa
unità di fondo sia estetica. Dimensioni come il sacro, o l'estetica hanno a che
vedere con il riconoscimento della «struttura che connette». Come notava altrove:

«La maggior parte di noi oggi non crede che, anche con gli alti e i bassi che
segnano la nostra limitata esperienza, la più vasta totalità sia fondamentalmente
bella. Abbiamo perduto il nocciolo del cristianesimo. Abbiamo perduto Shiva, il
dio danzante dell’Olimpo induista, la cui danza a livello banale è insieme
creazione e distruzione, ma nella totalità è bellezza. Abbiamo perduto il
totemismo, il senso del parallelismo tra l’organizzazione dell’uomo e quella degli
animali e delle piante. Abbiamo perduto persino il Dio Che Muore» (Bateson,
1984, p. 33-34).

Il riferimento al sacro indica per Bateson un percorso di avvicinamento a una


dimensione integrale (re-ligiosa) dell’esperienza, ovvero un’esperienza non riducibile
alla parte cosciente e razionale, ma che contempli anche la dimensione inconscia del
processo primario di percezione e l'emozione estetica. Solo combinando insieme tutte
queste dimensioni è possibile essere sensibili all’unità della biosfera e alla sua
bellezza. Alla fine di un percorso analitico e rigoroso durato tutta una vita, Bateson ci
pone di fronte a quella «Sacra Unità», sul limite di una soglia dove si percepiscono
anche i limiti del linguaggio o perlomeno di un certo linguaggio, quello analitico dello
scienziato. E dove forse gli artisti o i poeti si dimostrano più attrezzati.
In conclusione, sembra dunque che per Bateson il discorso scientifico e razionale e
il discorso religioso e metaforico non siano altro che due modi diversi (legittimi ma in
sé parziali) di conoscere e descrivere il mondo. In fondo quello che Gregory ha cercato
di fare è indicare la bellezza e la saggezza che può scaturire dal fatto che una persona
o una società sappiano comprendere e parlare allo stesso tempo queste due lingue
diverse.
Questo percorso mi pare oggi molto attuale e interessante. La proposta potrebbe
essere quella di interrogare in profondità le dimensioni del sacro come emergono
nell'esperienza religiosa, sia delle religioni storiche, sia rispetto alle forme assunte dal
religioso nella contemporaneità, per metterlo a confronto con il pensiero laico e
scientifico moderno. In via di ipotesi, mi pare che l'evidenziare le diverse dimensioni
del sacro "possibili" permetta di sviluppare questo confronto in maniera più analitica,
chiarendo meglio eventuali compatibilità e incompatibilità.
Se si rinuncia da principio a rivendicare ipotetiche gerarchie o superiorità o a
tentare di ridurre o inglobare una tradizione nell'altra, il dialogo tra queste due forme
di pensiero può probabilmente essere fondamentale per ripensare il nostro essere nel
mondo in relazione alle sue dimensioni sociali, culturali, storiche, biologiche,
psicologiche ed esistenziali. Esiste una ricerca della verità che accomuna con stili,
metodi e linguaggi diversi sia la ricerca scientifica sia quella religiosa. Non si tratta di
conciliare o risolvere l'una nell'altra, ma al contrario di imparare a comprendere ed
abitare due linguaggi diversi e provare a confrontarsi nella propria differenza. Oggi il
metodo e il sapere scientifico possono aiutare la religione a liberarsi da modi di
pensare e da epistemologie errate o sorpassate, a chiarire che cosa ha senso e che
cosa non lo ha, mentre l'esperienza religiosa può stimolare la scienza a interrogarsi su
dimensioni trascurate come la bellezza, l'amore, la saggezza e tentare di esprimersi su
queste con un proprio linguaggio e a riorientarsi complessivamente verso una 71
dimensione più complessa ed integrale della vita e del vivente.
In riferimento a questa dimensione integrale, mi sembra che un concetto come
quello di sacro nato in ambito religioso può e deve essere recepito criticamente e fatto
proprio anche dalla cultura laica e scientifica. Anzi sviluppando alcune dimensioni e
abbandonandone altre, l'idea e l'esperienza del sacro potrebbe essere riconosciuta
come un interfaccia o un ponte che attraverso il dialogo può ridurre l'intolleranza tra
scienza e religione e aprire i due "campi" consentendo un processo di maturazione
nella direzione - per usare un'espressione di Marsilio Ficino - di una «pia
philosophia» e di una «docta religio».
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
72

Il linguaggio del mondo contemporaneo.


Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Docente: Marco Deriu

NORMALITÀ/DEVIANZA

Una delle domande centrali della sociologia, se non la principale è «come è possibile
la società?» «che cosa tiene insieme una collettività?».
Uno dei punti di partenza dell’osservazione sociologica è il riconoscimento che in
una società gli individui generalmente si sottomettono spontaneamente anche senza
una costrizione evidente ad un certo numero di norme e regole sociali grazie alle quali
si crea un ordine e la società può complessivamente funzionare.
La scoperta e lo studio delle “norme sociali” diventa un aspetto determinante della
sociologia. Tutto ciò che riguarda il vivere sociale dal mangiare, al vestire, al parlare,
fino alle forme di organizzazione del tempo, del lavoro, degli spostamenti è nei fatti
regolato da norme sociali che in gran parte standardizzano il comportamento delle
persone rendendolo riconoscibile, prevedibile e assicurando una omogeneità di fondo
che rende più semplice lo scambio sociale. Nei fatti ogni società propone un insieme
di divieti, di permissioni o prescrizioni che indirizzano il comportamento sociale
degli individui e ai quali normalmente, le persone che intendono vivere si
assoggettano spontaneamente. Naturalmente le norme variano da società a società e
dunque ogni contesto sociale può proporre un certo numero di norme differenti o
addirittura opposte. Ma rimane il fatto che le società in quanto tali devono comunque
riconoscere alcune regole di fondo che permettono la convivenza e la riproduzione del
gruppo sociale.
Ora da un certo punto di vista si può pensare che questo insieme di regole in gran
parte precede e indirizza lo sviluppo del singolo individuo – pensiamo per esempio alle
convenzioni che riguardano il linguaggio e la comunicazione oppure alla definizione
di un insieme di valori culturalmente condivisi.
A questo proposito, l'antropologo Gregory Bateson ha proposto nel 1936 il concetto
di "ethos". Secondo Bateson l'ethos rappresenta «l’espressione di un sistema
culturalmente standardizzato di organizzazione degli istinti e delle emozioni degli
individui» (Bateson, 1988 [1936], trad. it. p. 113) sulla base di un sistema di valori.
Ovvero ogni cultura seleziona e favorisce una certa gamma di atteggiamenti emotivi
che possono essere espressi e accettati socialmente, mentre altri vengono sfavoriti o
rifiutati.
D’altra parte gli individui partecipano attivamente alla produzione di nuove regole e
alla standardizzazione dei comportamenti. Dunque si può anche pensare che le norme
sociali non siano altro che il risultato dei comportamenti e delle azioni delle persone
cristallizzate e integrati in modelli più o meno coerenti attraverso il tempo.
Ora i motivi per cui ci assoggettiamo a queste norme sono diversi. In primo
luogo si tratta di regole che abbiamo interiorizzato nel nostro ambiente sociale e
culturale e che quindi seguiamo spontaneamente per abitudine o convenzione. In
secondo luogo spesso seguiamo determinate regole per semplici ragioni di
opportunità. Se per esempio guidiamo sempre sulla corsia di destra e non in contro
senso è perché in questo modo diminuiamo la possibilità di fare incidenti scontrandosi
con automobili che vanno in senso contrario al nostro. 73
Infine il terzo motivo per cui ci conformiamo è che molte regole sono corredate di
sanzioni positive o negative a seconda che uno le rispetti o le trasgredisca. In alcuni
casi si tratta di sanzioni formali, istituzionalizzate e definite dalle leggi che comportano
punizioni amministrative, pecuniarie o anche la reclusione. In altri casi si tratta di
sanzioni informali, per esempio forme di giudizio, di ostilità o di isolamento da parte
delle persone che ci sono intorno.

La normalità della devianza

Tuttavia, nonostante questo, non tutti e non sempre si trovano a rispettare queste
regole. La trasgressione o la devianza è anzi un fatto piuttosto comune. Per
devianza si intende proprio un comportamento di non conformità alle norme formali o
informali vigenti in una data comunità o società e riconosciute dalla maggioranza dei
suoi membri. Può essere un comportamento che si scosta dall’atteggiamento più
comune in un contesto sociale, un comportamento che viola le regole e le norme
sociali specifiche, o che addirittura le contesta esplicitamente.
Il comportamento deviante in questione può essere di una persona, di una coppia,
di una famiglia, di un gruppo ecc.
Ancora una volta la categoria di devianza non è “naturale”, oggettiva o auto
evidente, al contrario presuppone un contesto sociale specifico di riferimento
che detta “la norma” rispetto alla quale la devianza viene osservata. Presuppone
dunque l’esistenza di norme e aspettative di comportamento. Quindi implica il
rilevamento di questa devianza da parte di altri soggetti che vi attribuiscono un
significato (negativo in generale, ma non necessariamente). Presuppone infine
reazioni del gruppo sociale o conseguenze sull’individuo e sul contesto, a causa di
questa violazione.
Vi sono numerose teorie che hanno tentato di spiegare le forme della devianza. Vi
sono state teorie bio-antropologiche, che
identificano le cause di un certo comportamento
deviante con predisposizioni costitutive
dell’individuo, ovvero in elementi di carattere
biologico osservabili scientificamente nel
deviante. Secondo le ipotesi sviluppate da alcuni
studiosi - i riferimenti vanno qui agli studi di
craniometria dell’antropologo francese Paul
Broca (1824-1880) o a quelli di fisiognomica
del criminologo italiano Cesare Lombroso
(1835-1909) - sarebbe possibile distinguere le
caratteristiche sociali, razziali, intellettuali delle
persone sulla base di elementi biofisici osservabili
e misurabili.
Sulla base di queste teorie pseudoscientifiche
si è sostenuto che i devianti o i delinquenti
sarebbero individui costitutivamente diversi dagli
altri, ovvero sarebbero individui minorati,
inferiori, di qualità biologica scadente.
Secondo altri le motivazioni del
comportamento deviante vanno rintracciate nel
"Rivoluzionari e criminali politici, matti e
carattere psicologico, ovvero nel tipo di folli". Esempi di fisiognomica di criminali,
personalità individuale. Anche se ovviamente secondo Cesare Lombroso.
entrano in gioco nell’azione anche elementi
psicologici, tuttavia è piuttosto difficile stabilire una correlazione univoca tra caratteri
psicologici individuali e tendenza alla devianza o alla criminalità. Si dovrebbe in effetti 74
dimostrare che tutti coloro che hanno un certo tratto psicologico si comportano in
maniera deviante, come d’altra parte che tutti coloro che hanno un certo tipi di
comportamento deviante, possiedono gli stessi tratti psicologici. Non si può inoltre
rimuovere l’importanza delle dimensioni contestuali e relazionali. È questo il tipo di
attenzione che pongono le teorie di psicologia sociale e quelle più prettamente
sociologiche.
In prima ipotesi si può sostenere che una radice del comportamento deviante o
criminale può essere ricercata nella situazione cosiddetta di anomia. Si tratta di un
concetto usato da Émile Durkheim (1858-1917) nel suo studio sul suicidio (Le
Suicide, étude de sociologie, 1897) che indica uno stato di sregolatezza, di confusione
dei valori e delle regole sociali, dovuta a innovazioni economiche o sociali, o ad eventi
traumatici nelle proprie relazioni fondamentali:

«Non si sa più ciò che è possibile e ciò che non lo è, ciò che è giusto e ciò che
è ingiusto, quali sono le rivendicazioni e le speranze legittime, quali quelle che
passano la misura» (Durkheim, 1997 [1897], p. 266).

In questo caso la mancanza di riferimenti e valori chiari e ben definiti in un


ambiente sociale specifico potrebbe aprire la strada a comportamenti devianti o
criminali.
Da un altro punto di vista, viceversa, potrebbe essere che ciò che noi leggiamo
come comportamenti devianti in fondo non sarebbero altro che comportamenti
conformi rispetto a subculture particolari o a gruppi sociali determinati. In questa
prospettiva, il sociologo Edwin H. Sutherland (1883-1950) che appartiene alla
cosiddetta “Scuola di Chicago” sviluppa a partire dalla fine degli anni '30 l’idea di
“associazione differenziale” (Shuterland 1939 e 1947 e Sutherland, Cressey,
Luckenbill, 1992). In altri termini in contesti sociali che contengono subculture diverse
i devianti si uniformerebbero alle regole del loro specifico gruppo sociale, che si tratti
di culture marginali (periferie degradate, territori controllati dalla mafia) o al contrario
di ambienti di potere (crimini dei “colletti bianchi”). Apprenderebbero dunque a
sottomettersi a norme illegali e criminali. La devianza sarebbe da questo punto di
vista ancora una volta un comportamento appreso, come qualunque altro anche se in
contrasto con la cultura più generale della comunità in cui ci si trova. Si tratterebbe in
questo caso di un apprendimento diretto in gruppi ristretti e definiti che riguarderebbe
valori, motivazioni, competenze, tecniche, atteggiamenti, comportamenti.
In una prospettiva più fine ancora si può dare il caso in cui il comportamento
deviante riguardi i mezzi ma non i fini sociali. Ovvero che il comportamento
deviante o criminale riguardi la selezione dei mezzi e dei comportamenti adeguati per
raggiungere mete sociali o culturali generalmente condivise. Per esempio si
condividono i valori sociali e i segni della ricchezza, di un certo stile di vita ma in
mancanza di altri mezzi o possibilità si scelgono strategie illegali o criminali per
acquisire quello status particolare. In questo caso paradossalmente il deviante
dimostrerebbe di sottoscrivere o addirittura assolutizzare quelli che sono i valori
sociali e culturali diffusi in una società e di ritenere dunque legittima qualsiasi
modalità di perseguimento di quei fini.
Esiste poi una prospettiva interpretativa nota come “teoria
dell’etichettamento”(Labelling theory) e sviluppata in particolare da Howard
Saul Becker nel suo libro Outsiders (Becker, 2003) e da altri autori della scuola
dell’Interazionismo simbolico e della fenomenologia –, secondo la quale la devianza
affonderebbe le proprie radici in una definizione negoziata delle persone e del loro
comportamento. In particolare per questi autori la devianza non sarebbe una qualità
riferibile all’atto in sé, ma qualcosa di legato alle attribuzioni di significati, di nomi, di
motivi, di caratteristiche da parte di una maggioranza verso una persona o un gruppo 75
specifico. La caratteristica di “deviante” è sempre in relazione ad un punto di vista che
si impone su altri. In altre parole la devianza non è l’espressione delle caratteristiche
dell’individuo o del gruppo in questione, ma piuttosto le conseguenze di un processo di
interazione che si concretizza con “l’etichettamento” di alcuni atti e talune persone.
Questo significa anche evidentemente che ci sono persone o gruppi sociali che si
trovano in una condizione di potere e che possono imporre le proprie etichette ad altri
che si trovano in una posizione più debole svantaggiata.
La devianza diventa dunque non uno stato originario ma piuttosto una conseguenza
del processo di etichettamento e delle sanzioni che vanno a colpire il soggetto
etichettato come trasgressore. Il soggetto cui è attribuita un’etichetta di deviante e
che subisce una conseguente sanzione sociale può per reazione far propria l’etichetta
e la rappresentazione della realtà ed assumere su di sé l’identità e il ruolo deviante.
Questo significa che le motivazioni alla devianza potrebbero seguire e non precedere
l’assunzione di un ruolo, o una carriera di deviante. A questo proposito un autore
come lo statunitense Edwin Lemert (1912-1996) ha proposto la distinzione tra
“devianza primaria” che corrisponde all’atto iniziale giudicato deviante dall’ambiente
sociale, e “devianza secondaria” (Lemert, 1981), quando il soggetto finisce con
l’accettare e l’assumere l’etichetta di deviante che gli è stata attribuita. In fondo si
tratterebbe di una forma – per quanto negativa – di riconoscimento sociale, che
potrebbe in fondo essere preferita ad una forma di indifferenza o invisibilità sociale.
Alcuni autori parlano a questo proposito di “profezie autoavveranti”, o “profezie
che si autoadempiono” (self-fulfilling prophecies), per cui secondo il teorema
coniato nel 1928 dal sociologo statunitense William I. Thomas (1863-1947) «se gli
uomini definiscono reali certe situazioni esse sono reali nelle loro conseguenze». Tale
idea corrisponde a quella che viene indicata come "definizione della situazione".

«Preliminare a qualsiasi atto autodeterminato del comportamento c'è sempre


una fase di esame e deliberazione che possiamo chiamare definizione della
situazione. E in realtà non solo gli atti concreti dipendono dalla definizione della
situazione, ma gradualmente tutta una linea di condotta di vita e la personalità
dell'individuo stesso derivano da una serie di tali definizioni ... [Questa
definizione è sempre soggetta a] una rivalità tra la spontanea definizione della
situazione fatta da membri di una società organizzata e la definizione che quella
società gli ha fornito»26.

Secondo il sociologo americano

«L’individuo agisce in funzione dell’ambiente che percepisce, della situazione


alla quale deve far fronte. Egli può definire ogni situazione della vita sociale
attraverso la mediazione dei suoi atteggiamenti preliminari che l’informano su
questo ambiente e gli permettono di interpretarlo».

Un certo comportamento sarebbe semplicemente dunque il frutto di una specifica


interpretazione del contesto e di attribuzione di significato alla situazione. Ad
un’analoga conclusione giunge anche lo psicologo tedesco Kurt Lewin (1890-1947),

26
«Preliminary to any self-determined act of behavior there is always a stage of examination and
deliberation which we may call the definition of the situation. And actually not only concrete acts are
dependent on the definition of the situation, but gradually a whole life- policy and the personality of the
individual himself follow from a series of such definitions ... [This definition is always subject to] a rivalry
between the spontaneous definition of the situation made by members of an organized society and the
definition which his society has provided for him» (Thomas, 1923, p. 42).
con la sua “Field Theory” (Lewin, 1939) secondo cui il comportamento è funzione
della persona e del suo ambiente. 76
Naturalmente bisogna evitare un uso troppo ingenuo e disinvolto di queste teorie.
Però è sicuramente vero che il consolidamento o la strutturazione di un identità
deviante dipende anche da una forma di attribuzione e di aspettativa negativa (o
positiva, a seconda di come la si voglia valutare) nei confronti di una specifica realtà
da parte di una persona e del suo ambiente sociale.
Un esempio calzante può essere il processo sociale cui viene sottoposto un
immigrato clandestino. Poiché si possiede un’immagine negativa degli immigrati e
poiché le leggi del nostro paese rendono oltremodo difficile ad un migrante accedere
al nostro territorio in maniera regolare, in qualche modo si stimola gli immigrati a
servirsi di circuiti illegali. Una volta giunti nel nostro paese li si considera clandestini e
li si assimila ai criminali. L’etichetta e la condizione che gli immigrati clandestini si
portano dietro gli impediscono di trovare casa, lavoro e un riconoscimento civile, La
restrizione delle possibilità li spingono verso occupazioni e condizioni sempre più
marginali, illegali, fino al limite delle attività illecite e criminose.
Un altro elemento particolare da sottolineare è che diversi sociologi o studiosi
hanno messo in luce che le stesse istituzioni teoricamente preposte alla correzione del
comportamento privato (carceri e altre strutture penitenziarie, ospedali psichiatrici) in
realtà tendono a confermare, rafforzare o addirittura ad addestrare le persone ad una
cultura e ad un atteggiamento di tipo deviante e criminali.

Delitti dei deboli delitti dei potenti

Una acquisizione importante derivata dagli studi sociologici e medici sul tema
dunque è che si dovrebbe evitare l’errore di personalizzare troppo il comportamento
deviante, ovvero di associare strettamente l’azione deviante all’individuo che la
compie. Molte osservazioni di tipo sociologico infatti ci portano a non rintracciare
l’origine di un comportamento anormale o criminale in motivazioni o inclinazioni
soggettive dell’individuo.
In particolare si sottolinea un forte elemento situazionale. Come dice il proverbio:
“l’occasione fa l’uomo ladro”. Molto spesso l’atto deviante non è frutto di un
inclinazione particolare o di un progetto premeditato ma di una condizione in cui ci si è
ritrovati e in cui l’opportunità di trarre vantaggio da una situazione contingente era
molto allettante. C’è dunque una continuità tra decisioni normali, quotidiane, abituali,
e decisioni che portano verso un comportamento deviante. Questo vale non soltanto
per il piccolo ladro o il piccolo crimine ma anche per i crimini dei cosiddetti “colletti
bianchi”.
Con l’espressione “reati dei colletti bianchi” introdotta nel 1949, il sociologo Edwin
H. Sutherland (Sutherland, 1987), ha voluto indicare gli illeciti condotti da persone
altolocate e benestanti. Anzi da un certo punto di vista più ci si trova in una situazione
di accesso a grandi risorse e a scambi di natura molto vasta e più si è nelle condizioni
di trovarsi di fronte a quelle che eufemisticamente si possono definire “offerte che non
si possono rifiutare”. Da questo punto di vista è bene togliere di mezzo l’idea che le
attività devianti, illecite, criminali siano patrimonio delle classi sociali più basse ed
emarginate. Al contrario i comportamenti fuori dalle regole spesso sono molto diffusi
anche ai livelli più alti proprio perché si dispone di più risorse e perché ci si trova nelle
condizioni di poterne approfittare. Secondo il sociologo italiano Vincenzo Ruggiero
sebbene sia la carenza che l’eccesso di opportunità possano incoraggiare il ricorso ad
attività criminali, tuttavia sarebbe più l’abbondanza di risorse e di opportunità
anziché la carenza di entrambe a causare nella misura più significativa il
crimine. Per esempio negli Stati Uniti si è calcolato che la quantità di denaro
attinente i crimini dei colletti bianchi quali la frode o l’evasione fiscale è quaranta volte
superiore il denaro sottratto attraverso reati contro la proprietà (furti, rapine, scippi, 77
contraffazioni).
Tuttavia, nota ancora Ruggiero, dal punto di vista sociologico si può osservare che
non tutte le attività ai diversi livelli sociali sono colpite dallo stigma. Anzi in generale
mentre i delitti dei deboli tendono all’autovittimizzazione, quelli dei potenti tendono
all’autovalorizzazione (Ruggiero, 1999, p. 199). Più in generale si può notare che
tra i crimini che nascono da persone in stato di marginalità o di carenza di risorse e
quelli che nascono da persone altolocate e con grandi risorse ci sono alcune
differenze. Intanto nelle motivazioni: per gli uni si tratta di un’attività di
compensazione per uno stato di mancanza, per gli altri si tratta di un’ulteriore
opportunità di massimizzare i propri vantaggi. In secondo luogo, per i primi le
possibilità di scelta sono limitate, per i secondi la discrezionalità è molto più ampia.
Infine i primi non hanno evidentemente grandi risorse o strumenti per
determinare l’esito delle proprie azioni nonché l’attribuzione di un significato
deviante al loro comportamento, mentre i secondi possono in generale controllare
meglio gli esiti della loro attività, nascondendola e ottenendone i vantaggi necessari,
ed evitando o rifiutando un attribuzione di condotta criminale.
In certi casi le conseguenze dei crimini dei potenti possono essere molto più ampie
di quelle delle persone comuni. Pensate alle conseguenze dovute all’immissione sul
mercato di prodotti nocivi, o ai disastri dovuti al mancato rispetto delle condizioni di
sicurezza, o al rilascio di sostanze tossiche in un ciclo produttivo. Tuttavia anche se le
conseguenze di questi crimini sono molto ampie ed estremamente gravi spesso esse
sono meno visibili o comunque molto raramente l’interessato viene chiamato a
risponderne.
Un altro aspetto da sottolineare è che le attività criminose o delittuose possono
essere commesse anche da istituzioni o da apparati dello stato o dallo stato in se
stesso. Dai reati – violenza, ricatti, complicità col crimine - commessi dalla polizia, a
quelli dei funzionari di vario ordine, dagli abusi commessi dagli amministratori a veri e
propri crimini di cui si rendono responsabili governi. Pensate all’eliminazione delle
opposizioni, o alle forme di repressione sociale, o al terrorismo di stato, o anche ai
crimini commessi da regimi dittatoriali o totalitari. Quelli commessi dagli stati sono
molto probabilmente i crimini con le conseguenze più ampie e distruttive.

Il contributo della sociologia della devianza

Come ha notato il sociologo inglese Anthony Giddens (1994, p. 139), il contributo


generale fornito dalle teorie sociologiche alle questioni della devianza e della
criminalità è di due ordini. Da una parte esse sottolineano la continuità tra
comportamento deviante o criminale e quello normale o “rispettabile”, dall’altra esse
insistono sulla centralità della dimensione contestuale. Il fatto di commettere un
reato, o anche il fatto che la stessa azione sia riconosciuta come reato oppure no
dipende in maniera decisiva dai contesti sociali e culturali in cui ci si trova, e dalla
propria collocazione sociale. Lo stesso atto può essere interpretato come un crimine in
taluni società ed in altre no. A due persone che agiscono lo stesso comportamento
possono essere attribuiti o non attribuiti particolari etichette devianti a seconda del
loro status e posizione sociale.
Il fatto che la devianza abbia una forte componente socio-culturale e contestuale è
evidente tra l’altro dalla forte asimmetria nelle statistiche sulla criminalità tra il
comportamento degli uomini e quello delle donne. In Italia tra le persone
condannate per omicidio soltanto il 6,3% sono donne. Il 7,4 per rapine, il 9,2 per
violenza privata, il 10,2 per furto. Sul totale dei condannati le donne rappresentano
solamente il 13,5%. Questa differenza naturalmente può sottendere spiegazioni anche
molto diverse, ma certamente si può ipotizzare che nelle esperienze di socializzazione 78
femminile vengano premiati comportamenti rivolti alla cura e ai rapporti personali e
non alla competizione e all’egoismo. Viceversa si può presupporre che le forme di
educazione, socializzazione e individuazione maschile siano più legate alla
competizione, all’affermazione sugli altri, all’uso della forza. Comunque la si interpreti
la discrepanza tra i due sessi rispetto al numero di crimini lascia pensare che ci siano
differenze sostanziali in gran parte derivati dagli schemi culturali.
Uno dei rischi fondamentali connessi al rapporto norma/devianza riguarda
l’atteggiamento riservato dalla società o dalla comunità ai diversi tipi di devianti.
Il sociologo statunitense Erving Goffman (1922-1982) nella sua opera Stigma,
ci ha offerto una riflessione sulle modalità di giudizio dispregiativo che una società può
riservare a persone che sulla base di un qualche tratto fisico, psicologico, caratteriale,
sociale o culturale vengono classificate come “diverse” o “minorate”. Come sottolinea
Goffman è la società a stabilire i criteri rilevanti attraverso cui distinguere le persone,
dividerle in categorie ed attribuirgli uno “stigma”. Goffman distingue tre tipi di
stigma: deformazioni fisiche, aspetti negativi del carattere, e infine stigmi razziali,
nazionali, religiosi, culturali. È importante aver chiaro che lo stigma non deve essere
riferito in termini assoluti a degli attributi specifici ma piuttosto a dei rapporti. Uno
stesso attributo può essere oggetto di stigma oppure no a seconda della persona, del
contesto, del momento storico ecc.
Tuttavia una volta che una persona è stata segnata, colpita dallo stigma, qualsiasi
sia la sua origine e la sua reale consistenza, essa viene investita da un profondo
discredito sociale che produce una frattura tra la sua identità sociale attesa (virtuale
per usare la terminologia di Goffman) e quella reale. Le persone colpite dallo stigma
sono fatte oggetto di discriminazioni e di forme di esclusione che possono peggiorare
notevolmente la sua vita, fino a metterla in pericolo.
Proprio perché lo stigma non dipende da tratti particolari o assoluti, ogni persona
potenzialmente può diventare oggetto di un qualche stigma. Agli occhi della
maggioranza qualsiasi persona può rivelare un particolare aspetto o pecca che può
essere assunto come argomento di stigmatizzazione. Dunque è bene pensare che c’è
una continuità e un interscambiabilità tra persone normali, persone devianti, persone
stigmatizzate. La normazione sociale del resto così come stimola il conformismo e
l’omogeneizzazione per altri versi stimola la devianza e l’anticonformismo.
Come ha giustamente sottolineato Goffman:

«lo stigma non riguarda tanto un insieme di individui concreti che si possono
dividere in due gruppetti, lo stigmatizzato e il normale, quanto piuttosto un
processo sociale a due, assai complesso, in cui ciascun individuo partecipa in
ambedue i ruoli, almeno per quello che riguarda certe connessioni e durante certi
periodi della vita. Il normale e lo stigmatizzato non sono persone, ma piuttosto
prospettive» (Goffman, 2003, p. 170).

Anzi aggiunge Goffman, poiché lo stigma è qualcosa di incerto, precario, variabile,


potenzialmente interscambiabile nei fatti

«lo stigmatizzato e il normale sono parte uno dell’altro e, se si dimostra che


l’uno è vulnerabile, c’è da aspettarsi che lo sia anche l’altro» (ivi. p. 167).

C’è poi un ultima questione importantissima da comprendere. La devianza in sé


non deve essere concepita necessariamente come qualcosa di negativo.
Qualunque società per stare assieme e assicurare integrazione ha bisogno di produrre
norme e regole, ma d’altra parte per evolvere e maturare ogni società ha anche
bisogno di rivedere e ripensare continuamente le norme che essa stessa si è
data. In una società sana dunque si può registrare una significativa dialettica tra 79
norma e devianza. Più spesso di quanto si creda l’atteggiamento deviante di una
persona, di un gruppo o di una minoranza, segnala la problematicità di una norma
sociale o addirittura l’ingiustizia ad essa soggiacente.
Le due donne nere – la giovane Claudette Colvin e la signora Rosa Parks – che
nel 1955 si rifiutarono a pochi mesi di distanza di cedere il posto a sedere
sull’autobus su cui viaggiavano ai passeggeri bianchi - hanno certamente scelto di
agire un comportamento deviante dalla norma ma in questo modo hanno posto le basi
di una rivoluzione sociale che ha consentito la fine di un regime segregazionista. La
stessa osservazione si può fare per le forme di disobbedienza civile condotte da
M.K. Gandhi prima nel regime segregazionista in Sudafrica e poi in India per liberarsi
dal dominio inglese, o ancora le forme di obiezione di coscienza alla guerra e alla leva
militare che si sono sviluppate negli stati moderni.
È importante capire che le leggi, i costumi di un paese sono un riferimento
importante e da rispettare ma che non possono essere presi come riferimenti ultimi e
assoluti pena il rischio di rovesciarsi in un regime totalitario. Del resto si può notare
che in un regime criminale, le leggi, o le norme sociali sono anch’esse
criminali. Come ha notato Hannah Arendt n queste condizioni – pensate per
esempio al regime fascista in Italia o a quello Nazista in Germania - chi vuole fare il
bene, chi vuole comportarsi giustamente deve paradossalmente resistere alla
tentazione di uniformarsi alle leggi del suo paese. Dunque ciò che in un dato momento
può essere etichettato come un atteggiamento deviante, può rivelarsi
successivamente l’atteggiamento più giusto e conforme alla giustizia.
Da questa prospettiva dobbiamo imparare a guardare con un certo senso critico a
tutte quelle istituzioni totali – dal carcere, al manicomio, ai campi – che una società
predispone per internare i propri devianti. Sia per le loro caratteristiche in quanto tali,
sia perché queste istituzioni spesso non fanno altro che strutturare definitivamente la
carriera di deviante di una persona e quindi confermare il suo destino di criminale o di
pazzo anziché offrirgli una possibilità di integrazione, sia perché il confine tra il
deviante e il normale è molto incerto e ambivalente.

Le carceri e lo stato penale

È importante avere un'idea della popolazione carceraria nel nostro paese e nel
mondo. Secondo la ricerca presentata dall'Istat qualche anno fa27 il tasso medio
europeo di detenzione per 100.000 abitanti è di 124,1, mentre l’Italia si attesta a
102,9. In base agli ultimi dati disponibili (31 agosto 2016), i detenuti nelle carceri
italiane sono 54.195 di cui 18.311 stranieri. Circa il 95,7% dei detenuti sono uomini, il
restante 4,3% donne (la popolazione femminile nelle carceri è assolutamente
minoritaria in tutti i paesi del mondo).
In Italia si finisce in carcere soprattutto per reati legati alla droga (34,7% dei casi).
Mentre sono pochissimi i detenuti per crimini quali i reati finanziari (0,6% della
popolazione carceraria tra i condannati in via definitiva).
A fronte di un livello di detenuti basso rispetto alla popolazione, ha un elevato tasso
di sovraffollamento. Questa condizione è dovuta a diversi motivi, ed in particolare:
- la presenza di una quota consistente di detenuti in attesa di giudizio (36,6% nel
2013)

27
http://www.istat.it/it/files/2015/03/detenuti-2015-1.pdf?title=Detenuti+nelle+carceri+italiane+-
+19%2Fmar%2F2015+-+Testo+integrale.pdf
- un basso utilizzo di misure alternative al carcere rispetto agli altri paesi europei
(49,4 soggetti in misura alternativa per 100.000 abitanti nel 2013, contro i 178,8 80
della media europea, anno 2011).
A livello europeo i tassi più alti di popolazione carceraria si registrano in Lituania,
Lettonia, Estonia e Polonia, mentre i tassi più bassi, anche per un forte ricorso a
misure alternative si registrano in Finlandia, Svezia, Paesi Bassi.

A livello mondiale, dagli ultimi dati comparabili disponibili emerge che la


popolazione carceraria è stabilmente attestata a circa 10 milioni di persone, con una
prevalenza di detenuti condannati. Il tasso di incarcerazione più basso si registra in
Islanda (147 detenuti per 100.000 abitanti). Gli Stati Uniti hanno la popolazione
carceraria più numerosa, 710 per 100.000 abitanti. Negli Stati Uniti ci sono quasi 2,2
milioni di detenuti, ovvero più una popolazione carceraria pari a quella dei 35 Paesi
europei messi insieme. Nei fatti mentre gli Stati Uniti rappresentano solo il 5% della
popolazione mondiale, essi detengono quasi un quarto della popolazione carceraria
mondiale.
Un fenomeno recente studiato in particolare dal sociologo francese Loïc Wacquant
è lo sviluppo di quello che ha chiamato lo “Stato Penale” che negli ultimi trent’anni
negli Stati Uniti e negli ultimi quindici anni in Europa si è tradotto in un incremento
sorprendente della popolazione carceraria. Come abbiamo visto negli Stati Uniti le
persone rinchiuse nelle carceri superano i due milioni, in una condizione di
sovraffollamento inimmaginabile.
Più in generale oltre sette milioni di persone attualmente negli Usa sono sottoposte
a controllo giudiziario, con un grande investimento economico proprio nel periodo in
cui al contrario le spese sociali per i meno abbienti subiscono grandi tagli.
Wacquant fa notare che

«l’inarrestabile ascesa dello Stato penale americano nei tre decenni scorsi
corrisponde non a un aumento della criminalità – che è rimasta
complessivamente costante per poi conoscere una flessione alla fine di tale
periodo – ma alle frammentazioni provocate dal sottrarsi dello Stato al proprio
ruolo sociale e urbano e dall’imposizione del lavoro precario come nuovo criterio
di cittadinanza per gli americani delle classi inferiori» (Wacquant, 2006, p. 8).
L’ascesa di questo stato penale secondo Wacquant corrisponde a tre funzioni 81
correlate:

1. in fondo alla scala sociale l’incarcerazione serve da deposito e da


neutralizzazione fisica degli esuberi della classe operaia;

2. il dispiegamento della rete poliziesca, giudiziaria e penitenziaria dello Stato


ricopre una funzione al tempo stesso economica e morale con l’imposizione
della disciplina del lavoro salariato desocializzato alle fasce sociali del
proletariato e della classe media in declino;

3. l’attivismo dell’istituzione penale corrisponde ad una missione simbolica: la


riaffermazione dell’autorità statale e il tentativo di far risaltare la suddivisione
tra cittadini meritevoli e categorie devianti, tra poveri buoni e vattivi, tra i
recuperabili e i marginalizzabili.

In altre parole secondo Wacquant questa ascesa dello stato penale corrisponde ad un
vero e proprio progetto politico e culturale.

Fonte: Loïc Wacquant, Punire i poveri, Deriveapprodi, Milano, 2006.


Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
82

Il linguaggio del mondo contemporaneo.


Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Docente: Marco Deriu

SICUREZZA/INSICUREZZA

Se c’è qualche idea che minaccia di diventare nell’immediato futuro l’ideologia


dominante della società occidentale, in qualche modo il feticcio della politica e del
mercato, il candidato principale è sicuramente l’idea di “sicurezza”.

Erigere muri: le Gated Communities e l’ecologia urbana della paura

Ma il luogo privilegiato di queste nuove paure sono le città. Da questo punto di vista
abbiamo avuto grandi cambiamenti. Mentre storicamente le città con le loro mura e la
loro vita sociale rappresentavano un luogo di maggior tranquillità e sicurezza rispetto
all’incertezza e ai pericoli delle campagne e degli spazi esterni, negli ultimi decenni si
è assistito a un rovesciamento: il senso del pericolo è stato via via associato alla
città e alla vita urbana, mentre le campagne, o le zone rurali sono state investite di
un immaginario di pace e tranquillità.
Alla crescita della ricchezza e delle nuove povertà, ovvero delle diseguaglianze
sociali nello spazio urbano è connessa la crescita della paura verso la criminalità, i
furti, i rapimenti, e più in generale al timore degli estranei.
Il fatto è che non solo differenze e disuguaglianze globali entrano e si riproducono
nella città, ma la città stessa coopera a costruire e a ridefinire queste
disuguaglianze, queste distanze. Così quartieri, strutture, locali, servizi finiscono
col differenziare e separare, allontanare. A secondo delle zone della città cambiano le
forme di edilizia, le strutture urbanistiche, i servizi, le scuole, i negozi. Cambiano le
opportunità, cambia il tasso di disoccupazione. Cambia la presenza e l’atteggiamento
delle forze dell’ordine. Cambiano molte cose.
Da una parte abbiamo dunque una città fatta di banche, di boutique, di centri
commerciali, di casinò, di ristoranti raffinati. Dall’altra periferie degradate, territori
emarginati, quartieri dormitori. In qualche modo l’isola di benessere che ci siamo
costruiti si trova a confrontarsi con una molteplicità di pericoli incombenti
reali o immaginari che siano: i problemi di inquinamento dell’aria, il rischio di
attacchi terroristici, il diffondersi di baby gang, la crescente immigrazione e le
difficoltà di integrazione, il malcontento e le possibili rivolte delle periferie.
Come ha notato il sociologo Giandomenico Amendola,

«chi è escluso dal sogno può costituire, infatti, un pericolo per la stessa
esistenza del sogno. La bolla incantata può essere rotta e il sogno trasformarsi in
un incubo» (Amendola, 2000, p. 210).

La paranoia urbana è oggi come l’altra faccia della città scintillante delle
banche, dei casinò e dei fastfood. Curiosamente si risponde alla malattia
allevando altri focolai. Aumentando le distanze e le barriere. Più creiamo
barriere e più creiamo tensioni, sospetti, conflitti e violenze. Più creiamo nonluoghi,
zone franche, zone fantasma, zone senza legami, più seminiamo paure e timori a cui
rispondiamo con altro isolamento. 83
C’è dunque un ripiegamento psicologico e spaziale della città, di cui
possiamo osservare una ricca fenomenologia di segni e simboli che stanno
contrassegnando il tessuto urbano.
Questa paura si è concretizzata nell’esplosione di tutta una serie di dotazioni e
sistemi di sicurezza, a partire dai più semplici fino a quelli più complessi. Le case, gli
appartamenti sono sempre più chiusi e sigillati, grazie all’introduzione di porte
blindate o duplicate da cancelli d’acciaio, alle finestre con grate e inferriate, con
serramenti e avvolgibili blindati. Gli spazi d’ingresso delle case sono stati
trasformati da soglie aperte all’incontro e al contatto con la strada e con l’esterno a
luoghi separati da palizzate, cancelli con punte, muri con vetri. In molte città del
Brasile si è diffusa la moda di circondare gli spazi antistanti anche con delle strutture
di filo spinato o elettrificato. Le entrate divengono video sorvegliate e sistemi di
telecamere possono circondare gli edifici. I campanelli non espongono più i nomi
delle famiglie ma solo codici alfanumerici che bisogna conoscere prima di poter
“disturbare” gli occupanti. Per non parlare del mercato sempre più diversificato e
complesso di sistemi di rilevazione ed allarmi antifurto e antintrusione che
comprendono diversi tipi di sensori volumetrici che possono usare rilevatori a
microonde che utilizzano la riflessione di onde elettromagnetiche prodotte dai corpi in
movimento oppure rilevatori ad infrarosso passivo che captano l’emissione di energia
infrarossa presente nei corpi caldi. Esistono poi rilevatori a doppia tecnologia che
combinano i due sistemi. Ci sono poi altri tipi di dispositivi fra cui rivelatori di
movimento ad ultrasuoni, sensori d’urto o rivelatori microfonici per la rottura dei vetri,
rilevatore di pressione per le pavimentazioni. I sistemi di sicurezza si sono poi espansi
verso l’esterno con rilevatori perimetrali che rivelano l’arrampicamento o il taglio di
recinzioni, o addirittura sensori interrati con tecnologie geosismiche che percepiscono
le onde di pressione. Tutte queste tecnologie sono connessi con sistemi di allarme
sonoro, suonerie o sirene, con video o sistemi di segnalazione verso agenzie di
sicurezza.
L’ultima generazione di sistemi di sicurezza esplora anche tutte le tecnologie di
riconoscimento biometrico per controllare l’accesso in casa, in una comunità
residenziale o al lavoro: dal riconoscimento facciale, a quello dell’iride o della retina, o
ancora vocale, della mano o delle impronte digitali.
La psicologia dell’assedio può trasformare le architetture abitative ancora più in
profondità. Negli ultimi decenni si sono diffuse anche le cosiddette “safe rooms” o
“panic rooms”28, ovvero delle stanze di sicurezza blindate, una sorta di caveau
domestico, costruite dentro le case e gli appartamenti per nascondersi e mettersi “in
sicurezza” in caso di intrusioni e aggressioni. Le stanze collegate a sistemi di allarme e
di avviso sono pensate per trincerarsi all’interno e sopravvivere fino all’arrivo delle
forze di sicurezza o finché gli intrusi non se ne vanno. In genere contemplano sistemi
di telecamere e monitor per controllare la situazione all’esterno, acqua e cibo non
deperibile, sistemi di ventilazione, sistemi di radiocomunicazione per contattare la
polizia o i servizi di sicurezza privati. Stanze di questo genere arrivano a costare fino a
1 milione di dollari, ma d’altronde la paranoia cresce con la disponibilità economica e i
produttori di questi sistemi sanno come vendere le loro merci. Come recita una
pubblicità “Ogni stanza ha una sua funzione: questa salva la vita”.

28
Sono quelle stanze di sicurezza blindate, una sorta di caveau domestico, costruite dentro le case e gli
appartamenti per nascondersi in caso di intrusioni e aggressioni. Questo tipo di stanze sono state
popolarizzate dal film “Panic Room” (2000) di David Fincher con Jodie Foster.
La sorveglianza e le tecnologie di controllo e sicurezza, quali telecamere o allarmi
non riguardano solo le case private, ma sempre più anche altri luoghi urbani quali i 84
centri commerciali, i parchi, i luoghi di divertimento, gli stadi ecc.
Oltre alle tecnologie di controllo, è da notare la diffusione delle forme di
sorveglianza attiva, dei servizi privati di sicurezza, dei vigilantes di caseggiato o
quartiere, o delle scorte personali soprattutto tra persone famose. Le spese per la
sicurezza privata sono sempre più significative e in alcuni paesi, come gli Stati Uniti i
cittadini spendono per i loro guardiani armati una cifra che è il doppio della somma
destinata alla Polizia dello Stato Federale.

Autosegregazione e secessione delle élites

Le forme di chiusura e ripiegamento nell’abitare urbano assumono forme anche più


evidenti e macroscopiche. Penso ai condomini, ai quartieri e alle comunità chiuse
e recintate, che si diffondono sempre più come nuove tipologie abitative. Sono le
cosiddette “gated communities”, forme di comunità residenziali recintate e il cui
ingresso è controllato da telecamere e agenti di sicurezza, l’accesso è permesso solo
agli abitanti o ai proprietari degli immobili e in genere prevedono un accordo legale
dei residenti che stabilisce un codice di condotta.
L’accesso e il transito agli estranei è interdetto salvo specifica autorizzazione e
presentazione di documenti e motivo della visita. Queste comunità possono variare
dagli immobili che si affacciano su una strada, ad un gruppo di condomini, fino a zone
residenziali più ampie e addirittura a intere concentrazioni urbane o cittadine
autonome e separate. Le forme di chiusura e separazione non sono necessariamente
connesse al reddito, ma certamente molte di queste nuove comunità corrispondono di
fatto al modello dell’oasi giardino o del resort di lusso che intende offrire un
livello di vita e di sicurezza distinto e più elevato dell’ambiente intorno.
Le Gated communities oggi sono diffuse un po’ ovunque, soprattutto nelle o attorno
alle grandi metropoli dagli Stati Uniti al Brasile, dalla Russia al Sudafrica,
dall’Argentina alla Gran Bretagna, dal Messico all’Italia, dall’Australia a Dubai, dalle
Filippine alla Thailandia. Assumono forme e nomi diversi quali “condomínio fechado”,
“barrios privados”, “clubes de campo”, “barrios de chacras”, “security villages”,
“enclosed neighborhoods”, “closed condominiums”, “fortified enclaves”, “fenced-up
areas” “suburban enclave”, “urban fortress”.
Dentro e attorno a città quali São Paulo, Los Angeles, Mosca, Città del Messico, New
York, Roma, Bogotà, Londra, Milano, Città del Capo, Pechino, una parte dell’élite
urbana ha deciso di rinchiudersi in una sorta di enclaves che assicuri, sicurezza, lusso,
privacy, servizi, spazi verdi, contro la pericolosità, il degrado, la cementificazione, ma
anche gli stimoli e la “pressione” della normale socialità. Al proprio interno le
gated comunities sono generalmente dotate di ogni tipo di comfort e servizi: centri
sportivi e centri ricreativi, piscine, ristoranti, cinema, negozi, centri commerciali,
laghetti o spiagge private, e in alcuni casi anche asili, scuole o università, in modo da
garantire il massimo dell’autosufficienza possibile e diminuire la necessità di cercare
qualcosa fuori.
Si costruiscono zone economicamente e socialmente “ripulite”, ghetti alla
rovescia. Sono le zone più ricche ad erigere muri attorno a sé, a circondarsi di
guardie e fili spinati. A rinchiudersi per rassicurarsi.

«Con una curiosa dialettica, è la cittadella ad assumere le forme storiche del


ghetto, cioè la concentrazione e la chiusura, mentre il vero ghetto mantiene
l’apparenza della città “normale”» (Petrillo, 2006, p. 89).
Di fatto si può parlare di una forma di “secessione delle élites” che si
sottraggono all’esposizione della vita urbana, alla sua “fatica”, ma anche alla 85
sua “ricchezza”. Qui si vede come questo fenomeno rappresenti in qualche modo
anche lo sviluppo e contemporaneamente la reazione ai processi di globalizzazione
contemporanei. Si tratta in fondo di quella che Zygmunt Bauman ha chiamato
mixofobia, ovvero la paura di mescolarsi agli altri. Queste forme di ripiegamento
in comunità chiuse e separate, o di nuove enclosures, offrirebbero in qualche modo
un’illusione di omogeneità e di familiarità ottenuta su base economica, sociale o
perfino ideologica, giacché in molti casi l’acquisto di un immobile in queste aree
residenziale presuppone l’adesione a un regolamento, a un codice e di fatto ad un
certo stile di vita.
Per creare questa finzione di omogeneità si scavano fossati, si erigono muri e
cancelli, si controlla l’accesso, e sostanzialmente si riduce drasticamente il contatto e
lo scambio sociale con la “gente di fuori”.

Comunità rinchiuse

Le origini delle gated communites29 vanno ricercate nel fenomeno dei Common-
Interest Development (CIDs),30 le cui radici affondano già negli anni ’30 dell’800.
In quell’epoca negli Stati Uniti iniziano a svilupparsi nuove aree residenziali attraverso
associazioni di proprietari (Homeowners Association) uniti da patti che definivano
l’uso delle terre ma che ponevano anche restrizioni di razza, religione e abitudini
sociali (per esempio relativamente al bere). Una delle più famose era la comunità di
proprietari di St. Francis Wood in San Francisco (St. Francis Home Association) che
nata nei primi decenni del ‘900 comprendeva circa 500 case con strade private,
parchi, campi da tennis e regolamenti che definivano restrizioni razziali, indicazioni
architettoniche e uso degli spazi. Si trattava comunque di associazioni di proprietari
senza forme di governo centralizzato della comunità.
Altri autori rintracciano dei prototipi di Gated Communities nel villaggio di
Rosemont nato nei primi del novecento nei pressi di Chicago che istituì il primo
checkpoint privato o nella comunità di Radburn nel New Jersey sorta nel 1928 che
propose per prima l’idea di un “governo privato” o “extramunicipale” basato su istituti
contrattuali tra i proprietari. Ma bisogna andare agli anni ’60 per trovare un vero e
proprio sviluppo dei Common-Interest Developments.
Un aspetto interessante è che secondo Evan Mckenzie, autore dello studio
Privatopia Homeovner Associations and the Rise of Residential Private Governement
tra gli ispiratori delle comunità rinchiuse c’è l’utopia verde e socialisteggiante di
Ebenezer Howard autore nel 1902 del celebre libro “Garden Cities of tomorrow”

29
Sulle Gated Communities si veda Atkinson Rowland, Blandy Sarah (Edited by), 2009, Gated
Communities, Routledge, London; Blakely Edwar J., Gail Snyder Mary, 1999, Fortress America. Gated
Communities in the United States, Brookings Institution Press, Washington D.C.; Caldeira Teresa P.R.,
2000, City of walls. Crime, segregation and citizenship in Sao Paolo, University of California Press,
Berkeley; Cortez Josè Miguel, 2010, La ciudad cautiva. Control y vigilancia en el espacio urbano, Akal,
Madrid; Ellin Nan (a cura di), 1997, Architectur of fear, Princeton Architectural Press, New York; Low
Setha, 2003, Behind the Gates. Life, Security, and the Pursuit of Happiness in Fortress America,
Routledge, New York; McKenzie Evan, Privatopia. Homeowner Associations and the Rise of Residential
Private Government, Yale University Press, New Haven London, 1994; Petti Alessandro, 2007, Arcipelaghi
e enclave. Architettura dell’ordinamento spaziale contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano. Si veda su
questi temi anche il numero monografico sulla “Homeland Security” della rivista Gomorra, anno IV,
numero sei, marzo 2004 e i lavori di Giandomenico Amendola, La città postmoderna, Laterza, Roma-Bari,
2000 e Il governo della città sicura. Politiche, esperienze, luoghi comuni, Liguori, Napoli, 2003.
30
Si veda in proposito Dana Young, Common interest developments an Historical overview of Cid
developments, Public Law Research Institute, Working Papers Series, Fall 1996-02,
http://w3.uchastings.edu/plri/96-97tex/cid.htm.
che ha ispirato molti pianificatori urbani e molti pensatori radicali tra cui Lewis
Munford. 86
Gli elementi di fondo venivano individuati in una pianificazione complessiva e
integrata e in una organizzazione politica ed economica della comunità
residenziale.Dall’utopia delle comunità di città giardino alle comunità rinchiuse c’è
dunque un filo, credo non casuale.
Nei decenni successivi il fenomeno delle gated communities mette radice anche
altrove. In Brasile, a partire dagli anni ’70 si sviluppa il progetto delle Alphaville,
delle città futuristiche costruite dal un impresa poi ribattezzata AlphaVille Urbanismo
S.A. Il nome Alphaville, ispirato al film di Jean Luc Godart del 1965 Alphaville: Une
étrange aventure de Lemmy Caution, dovrebbe evocare l’idea della “prima tra le
città”. In quel momento la metropoli di São Paulo registrava una crescita pronunciata
dei tassi di crimini urbani, del traffico e degli ingorghi urbani. Il progetto urbanistico
nacque in primo luogo per dare uno sfogo alle esigenze del comparto industriale e
commerciale e in secondo luogo per realizzare residenze per le classi sociali più
altolocate. Il sito della prima Alphaville a 23 km da comprende 33 aree
recintate con oltre 20,000 abitazioni e 35.000 abitanti, mentre al di fuori
dell’area residenziale si trova un’area di business che comprende anche 11 scuole e
università. La comunità è servita da un corpo di polizia di 1100 agenti. Questo per San
Paolo, la seconda città del Brasile, fu solo l’inizio di un lungo processo di chiusura che
continua tutt’ora. Come ha scritto Teresa Caldeira a proposito di San Paolo:

«oggi è una città fatta di muri. Sono state costruite ovunque delle barriere
fisiche: intorno alle case, ai condomini, ai parchi alle piazze, alle scuole, agli uffici
[…] La nuova estetica della sicurezza decide la forma di ogni tipo di costruzione,
imponendo una logica fondata sulla vigilanza e la distanza» (cit. in Bauman,
2005, p. 25).

Il progetto Alphaville è stato poi esteso in altre aree molte altre città del Brasile
(Campinas, São José dos Campos, Ribeirão Preto, Rio de Janeiro, Goiania, Curitiba,
Londrina, Maringá, Salvador, Fortaleza, Belo Horizonte, Natal, Gramado, Manaus) e
perfino in Portogallo.
Nelle Alphaville oltre alle abitazioni e agli spazi del business ci sono sport club con
campi sportivi, sentieri pedonali e ciclabili, saune, piscine, bar, ristoranti e centri
commerciali, scuole, hotel ecc.
Dall’altra parte dell’oceano il fenomeno delle gated communities trova un suo
sviluppo anche in Sud Africa.31 Dopo la fine del regime apartheid, e in un clima di
conflitto sociale dovuto a povertà e al perdurare di forme di discriminazione, una parte
dell’élites bianca si rinchiude in comunità recintate e di lusso (“security villages” o
“security estates”) situate nelle zone metropolitane di Johannesburg, Pretoria o Cape
Town o negli insediamenti costieri quali Plettenberg Bay, Mossel Bay, Port Elizabeth o
Richards Bay. Le più grandi sono quelle di Heritage Park nell’area metropolitana di
Cape Town e quella di Dainfern a Johannesburg. Si tratta comunque di
insediamenti sensibilmente più piccoli di quelli Brasiliani.
Negli anni ‘90 anche la Disney Company si lancia nel mercato delle oasi
recintate. Nel 1994 viene inaugurata Celebration nei pressi di Orlando, nel cuore
della Florida. Si tratta di una nuova città perfetta a forma di mezza luna con laghetti,
campi da golf, cinema, spazi per divertimenti, negozi color pastello, automobili
elettriche, prati e foreste, per un complesso di circa 27 chilometri. Un modello ispirato

31
Sul caso del Sud Africa, confrontato a quello del Brasile si veda Karina Landman, Martin Schönteich,
“Urban Fortresses. Gated communities as a reaction to crime”, African Security Review, Vol 11 N° 4,
2002.
però non al futuro, come le Alphaville brasiliane ma al passato, ovvero ai tranquilli
villaggi sette/ottocenteschi. I modelli abitativi sono standard e prevedono 6 tipologie 87
architettoniche differenti secondo uno stile classico, coloniale, vittoriano, costiero,
mediterraneo e francese. Si tratta infatti di proporre una forma urbana che ricordi un
clima di familiarità, di stabilità, di quiete, da opporre alle inquietudini e alle minacce
della modernità. Celebration ospita 952 abitazioni, 716 families e 2736 persone
residenti. Val la pena notare che secondo l’United States Census Bureau la
percentuale di bianchi nella composizione della popolazione di Celebration raggiunge
circa il 93,57% mentre tra le varie minoranze la popolazione nera arriva solamente al
1,72%. Percentuali ben diverse da quelle complessive degli Stati Uniti.
Più ancora che in altre comunità recintate qui la Disney ha voluto proporre un vero
e proprio modello di comunità, con una propria immagine di ordine, decoro
conservazione e sicurezza. A tal fine la comunità stabilisce regole di comportamento
precise, garantisce un sistema di sicurezza elettronico con una rete a fibre ottiche,
telecamere nascoste e un corpo di agenti che girano in abiti borghesi,
Attualmente negli Stati Uniti le “gated communities” sono oltre ventimila.
Secondo i censimenti degli ultimi anni ospitano circa 8 milioni di persone. Mentre
tra palazzi e centri residenziali sorvegliati si contano circa 28 milioni di cittadini
americani pari a oltre il 10% della popolazione Usa. Si stima che oltre un terzo dei
nuovi alloggi attualmente costruiti sono già inseriti in comunità chiuse e recitate. In
zone come Los Angeles è sempre più difficile comunque trovare una nuova casa in
costruzione fuori da questo tipo di edilizia. Secondo Forbes, tra le più lussuose Gated
communities negli Stati Uniti, i cui prezzi possono andare da 1,9 milioni a circa 35/40
milioni di dollari, ci sono il “Mauna Kea Resort” alle Hawaii, il “Beverly Park” e il
“Brentwood Country Estates” a Los Angeles, il “Pebble Beach” a Calif, l’”Indian
Creek Island” nella Florida del Sud, il “Pelican Hill” a Newport Beach, l’”Hualalai
Resort” alle Hawaii, il “Montage Resort” e il “Three Arch Bay” a Laguna Beach,
Calif e il “The Sactuary” a Boca Raton.
In Gran Bretagna si stimano circa 1000 gated communities che ospitano
circa 100.000 persone. Si trovano in particolare attorno a Londra specialmente
nell’area dei Docklands come “New Caledonian Wharf”, “Kings and Queen
Wharf”, “Pan Peninsula”, e nell’East London, come “Bow Quarter” altre comunità
si trovano nel sud est dell’Inghilterra.
In Italia il modello delle gated communities non si è per fortuna ancora affermato,
ma sono invece diffuse altre tipologie di enclave residenziali esclusive soprattutto nelle
principali aree metropolitane. Si pensi per esempio ai casi di Milano 2 e Milano 3,
costruite dalla società Edilnord come insediamenti ricchi di prati e di parchi per
persone ad alto reddito e che costituiscono delle specie di cittadine autonome non
recintate ma con servizi di vigilanza privati e accessi controllati, soprattutto la sera.
Un altro esempio è l’Olgiata a Roma, un comprensorio circondato da una
recinzione e monitorato 24 ore su 24 da un servizio di vigilanza che controlla accesso
e uscita nei due ingressi nord e sud. Al suo interno offre un Golf Club, un Country Club
con piscina olimpionica, campi da tennis e da calcetto e due ristoranti interni.
L’ultimo caso è quello di Cascina Vione. Cascina Vione, una frazione geografica del
comune di Basiglio, in provincia di Milano sulla strada verso Pavia è una di queste
storiche grange. L'esistenza del borgo è attestata già nel 1086, come possesso della
famiglia De Villiono (“locus de Villiono"), e poi nel 1240 come castrum. In seguito, nel
1245 il castrum di Vione passò in proprietà dell'abbazia di Chiaravalle e come
dimostra un documento del 1269 divenne una grangia. Nel 1484 passò sotto il
controllo del monastero di Sant'Ambrogio di Milano.
Forse conoscete la parola “grangia” o “grancia”. Un termine che viene dal francese,
granche (granaio), e che stava ad indicare appunto una struttura edilizia utilizzata per
la conservazione del grano e delle sementi e in senso lato il complesso di edifici che
costituivano l'antica azienda agricola. Questa forma era tipica dell'area occitana (Italia
nord-occidentale, Francia meridionale, area dei Pirenei). In Italia il termine è stato 88
diffuso dai monaci Cistercensi che furono impegnati in importanti opere di bonifica e di
promozione agricola attraverso aziende agrarie legate ai monasteri. Queste strutture
edilizie agricole chiuse comprendevano un grande cortile, le abitazioni, le stalle, i
capannoni magazzini, le officine e in genere una chiesa o una cappella e quindi terreni
e pascoli.
Cascina Vione conserva l'impianto chiuso di forma quadrangolare e con due ingressi
principali, con portali settecenteschi. All'interno gli spazi sono organizzati su otto
cortili suddivisi funzionalmente. Vi si trova la chiesa di San Bernardo e un antico
mulino.
Come è stato notato la logica di consolidamento del potere sulla grangia e la forma
di isolamento quale cellula socio-economica autonoma anche per difendersi da
ingerenze politiche e religiose esterne hanno creato una forma di unità politico-
amministrativa per cui Cascina Vione come molte altre grange si è sviluppata come
comune autonomo fino al 1725, quando venne annesso al Comune di Basiglio.
Dopo decenni di abbandono e degrado c’è stato un piano di recupero del Comune di
Basiglio rispetto alla quale si è inserita la società immobiliare Milano Holding Group.
Il Comune di Basiglio si trova nei pressi dell’insediamento urbanistico berlusconiano
di Milano 3, particolare interessante perché nella sua forma attuale Cascina Vione
rappresenta l’evoluzione logica di quelle cittadine esclusive quali Milano 2 o Milano 3.
Il 17 dicembre 2007 Danilo Doronzo, presidente di Milano Holding Group rilascia
un’intervista in cui dichiara di voler cedere i suoi progetti di sviluppo edilizio per uffici
in Lettonia per concentrarsi su un progetto nell’area milanese.

«Abbiamo acquistato una "grangia", l'unica che forse ancora esiste in Lombardia.
Le grange erano strutture agricole che i monaci cistercensi, già nel XIII secolo,
trasformarono in nuclei rurali organizzati come veri e propri villaggi. " Cascina
Vione " - questo è il nome dell'insediamento - si trova nel Comune di Basiglio, nel
Parco Sud, quindi a brevissima distanza da Milano. Si estende su di un'area di
circa 100 mila metri quadrati. Ancora oggi, una lunga cinta muraria esterna
lambita da un fossato rievoca l'antico centro agricolo fortificato. All’interno vi
sono numerose corti, ma tutti gli edifici sono in stato di completo abbandono
(all'interno vi sono anche una chiesetta , e un mulino). Nel dicembre 2006 il
Parco ha rilasciato il parere favorevole al piano di recupero per l'intero
complesso. In accordo con il Comune di Basiglio trasformeremo - nel rispetto
delle metrature esistenti - Cascina Vione in un ambiente esclusivo e
completamente sostenibile, con unità residenziali e ville. Verde
dappertutto, e niente auto (i parcheggi saranno sotterranei). È un progetto
affascinante e unico nel suo genere, che si può valutare in circa 80 milioni di
euro. Le unità saranno poste in vendita, e noi creeremo una struttura che sia in
grado di garantire ai residenti assoluta sicurezza e servizi condominiali a
cinque stelle. Pensiamo di poter partire con i lavori di questa "città ideale"
entro la primavera 2008, e per la completa consegna occorreranno circa tre
anni».32

La nuova società immobiliare, appositamente creata, “Residenze Vione” ha


eseguito i lavori di ristrutturazione fra il 2008 ed il 2011. Il risultato è la

32
http://www.internews.biz/interviste/36.htm
trasformazione del borgo storico nella prima vera e propria Gated community
italiana.33 89
La comunità ha aperto i battenti ai proprietari delle 146 case e
appartamenti (per un totale di 500 abitanti circa) il primo maggio scorso
(2011). Il complesso è chiuso da muri di cinta e prevede vigilanza armata,
telecamere lungo il perimetro e sensori antintrusione. L’ingresso sarà consentito solo
ai residenti e agli ospiti previa identificazione.
Nella presentazione inviata ai Mass media Danilo Doronzo presenta con queste
parole la nuova realtà:

«Sarà il regno del silenzio uno spazio dove i bambini potranno circolare
liberamente senza che nessuno possa entrare in assenza di autorizzazione e dove
una società di gestione esaudirà tutte le richieste dei proprietari, dai servizi di
baby sitting alla consegna della spesa, fino all’innaffiamento dei fiori 24 ore su
24». «Anche le biciclette - precisa Doronzo - resteranno fuori mentre per le auto
ci saranno i parcheggi sotterranei».

Sicurezza, spazi verdi, sostenibilità ambientale sono i criteri su cui si è sviluppato


questo progetto: «Tutti gli edifici avranno emissioni pari a zero grazie all’utilizzo di
pompe di calore e delle migliori tecnologie esistenti». I prezzi? «A partire dai 4-4,5
mila euro al metro quadrato, 6 mila per gli edifici di maggior pregio».

VISIONE DEL FILMATO

Stefano Fierro, è il responsabile della vendita degli immobili. Così presenta la


nuova realtà:

«Qui ci sono sicurezza assoluta, tranquillità, silenzio. Ci sarà vigilanza armata, ci


saranno telecamere sul muro di cinta e sensori elettronici antintrusione...
Potranno entrare solo i residenti e gli ospiti dei residenti, dopo l’identificazione».

Volete sapere cosa ne pensano gli amministratori di Basiglio. Ecco un frammento di


un’intervista a Rosalba Buccieri, portavoce del sindaco della cittadina che ospiterà la
‘gated community’.

Basiglio è davvero la città con il ponte levatoio?


Non esageriamo. Non c’è nessun ponte levatoio, è evidentemente un’immagine
metaforica che in fondo non ci dispiace. Vogliamo essere la città più sicura
d’Italia.
Eppure a quanto pare la sicurezza dei vostri cittadini verrà pagata cara.
E’ vero?
Certo, per gli standard che proponiamo non sono sufficienti le risorse del
Comune. Ma d’altro canto una recente ricerca ha rivelato che a Basiglio vivono i
cittadini con il più alto reddito pro capite del Paese, gente per lo più che lavora a
Milano 3, il centro inventato negli anni ’70 da Berlusconi. Chi vive a Basiglio
chiede di stare in pace ed è disposto a pagare anche molto caro…
Si può spiegare meglio?
Certo. Noi ci vantiamo di amministrare quella che alcuni chiamano la ‘piccola
Svizzera’. Le nostre strade sono pulite e sicure. Pensi, per il benessere dei nostri
cittadini abbiamo costruito un laghetto con tanto di cigni e qualche mese fa,

33
Si veda Jenner Meletti, “Cancelli, mura di cinta e telecamere. Le città con il ponte levatoio”, in La
Repubblica, 20 gennaio 2011.
quando uno di quei poveri animali si è ammalato, ci siamo uniti e abbiamo fatto
di tutto per curarlo. 90
Accidenti…
E non è tutto. Se lei verrà a Basiglio le potrà capitare di ammirare una scena
unica. Automobilisti che si fermano al passaggio di una delle tre colonie di gatti
randagi che ospitiamo. Cose che non accadono dappertutto…
E cosa mi dice del “quartiere chiuso” di Vione?
Si tratterà di una zona residenziale, verrà recintata con dei cancelli e ospiterà
cittadini molto facoltosi. Verrà, inoltre, costantemente vigilata da poliziotti privati
e telecamere, che saranno posizionate ovunque. Chi andrà a vivere lì dovrà poter
godere dei più alti standard di sicurezza possibili. E naturalmente non tutti
potranno entrarvi…

Dunque la logica è “vita blindata dall’esterno, vita comunitaria all’interno”. Ma il caso


di Cascina Vione va visto all’interno di un fenomeno di comunità nate dalla paura e
dall’insicurezza che ha un’estensione ben più ampia.
Tutti questi esempi raccontano di una trasformazione delle forme urbane che
conducono verso una città composta di spazi chiusi, recintati, separati, enclavizzati, e
protetti 24 ore su 24.
Il problema di questi processi è che dimensioni immaginarie e forme urbane si
rincorrono in una spirale negativa dando vita a quelle “Architetture della paura” di
cui parla Nan Ellin. Quest’ultima sottolinea che non solo le forme urbane sono il
riflesso dell’emergere di nuove paure ma anche che una certa forma di organizzazione
spaziale della città produce a sua volta nuove paure:

«Strategie come il gating, il mantenimento dell’ordine e altri sistemi di


sorveglianza, oltre che l’urbanismo difensivo forniscono a certe persone un
limitato senso di sicurezza. Ma questi dispositivi, secondo recenti studi, non
sempre diminuiscono il pericolo reale. E essi contribuiscono anche ad accentuare
un più generale senso di paura incrementando la paranoia e la sfiducia».34

Il fatto è che oggi come ha sottolineato Zygmunt Bauman

«Non lo stare insieme, ma l’evitarsi e lo star separati sono diventate le


principali strategie per sopravvivere alle megalopoli contemporanee» (Bauman,
1999, pp. 54-55).

La privatizzazione della sicurezza, le politiche sicuritarie, non solo non


rappresentano una risposta efficace ma contribuiscono in realtà a rafforzare il
problema poiché aumentano la diffidenza, la distanza sociale, il risentimento e
l’aggressività anziché la ricerca di soluzioni comuni.
In molte metropoli contemporanee, è stato notato, il vicinato è risorto in nome delle
esigenze difensive. Sono nati così i comitati civici, i gruppi di prevenzione anticrimine,
le ronde spontanee.
C’è una direzione alternativa che possiamo seguire: prendere il toro per le corna e
affrontare la paura di fondo, la paura di vivere insieme. La paura di incontrare
l’altro e soprattutto di incontrare noi stessi.
Nei nostri discorsi sulla sicurezza e sulla paura degli stranieri ci manca sempre il
punto di vista degli altri, degli stranieri, di coloro che rappresenterebbero una
minaccia. Provare a rovesciare lo sguardo, almeno per un momento, potrebbe darci
qualche spunto di riflessione differente.

34
Nan Ellin, Architectur of fear, cit.p. 42.
Voglio richiamare a questo proposito un frammento di un’intervista a un tunisino
che ho svolto qualche anno fa nella mia città,dove risiede da una dozzina d’anni. Ha 91
un’avviata attività commerciale, un negozio sempre molto frequentato. Mi sono
chiesto come lui poteva vedere la città. Così durante un’intervista gli ho domandato se
ci sono luoghi della città dove abita che gli piacciono e altri che non gli piacciono e che
lo fanno sentire a disagio. A proposito di questi ultimi mi confida:

«…le villette della provincia di Parma, appena esci dalla città. Perché penso
che sono molto chiuse in se stesse. È gente che non vuole conoscere nessuno e
non vuole nessuno che entra, perché vedi sempre gli alberi che coprono la
visuale verso queste villette. È un benessere così grande che si sentono molto
indipendenti. Anche se qualcuno sta fuori a spiare non gliene frega niente. Danno
una freddezza e un’invidia…».

È sempre una sorpresa guardarsi attraverso gli occhi degli altri perché restituiscono
uno sguardo diverso su noi stessi e riequilibrano le nostre proiezioni sugli altri.
A ben guardare non è così scontato stabilire chi difende un senso di comunità
possibile e chi invece la minaccia o lentamente la smantella.
Mentre molti cittadini si nascondo in spazi privatizzati gli immigrati continuano ad
abitare e a vivere normalmente nelle strade e nelle piazze.
Le villette circondate da siepi o da alti cancelli, i condomini recintati come i quartieri
residenziali separati da mura sono in fondo alcuni dei tanti esempi di quella che
Zygmunt Bauman ha chiamato mixofobia, ovvero la paura di mescolarsi agli altri.
La paura dell’altro, la mixofobia, determina questa politica dello spazio, questa
costruzione di ghetti, enclaves, “ripulite”. Di fronte all’aumento delle differenze
nelle nostre città, le nuove enclosures permettono una effimera sensazione di
omogeneità e trasparenza sociale. Questa mixofobia, sostiene Bauman,

«non è che la diffusa e molto prevedibile reazione all’impressionante,


esasperante varietà di tipi umani e di stili di vita che vengono a contatto nelle
strade delle città contemporanee, e anche nella più “comune” (vale a dire, non
protetta da spazi preclusi) delle zone residenziali» (Bauman, 2005, p. 29).

Come affrontare, come rispondere a questa paura? Certo dobbiamo partire


riconoscendo il fatto nuovo che abbiamo dinnanzi a noi. Anche pensando ai porti più
importanti negli imperi più grandi non v’è mai stato come ora, probabilmente, un
tempo in cui nelle città apparivano e scomparivano, nascevano e si
intrecciavano tante differenze. Mai così tante differenze di lingue e di accenti, di
generi e generazioni, di culture e religioni, di cibi e costumi, di musiche e di vestiti, di
preghiere e imprecazioni come nelle metropoli di oggi.
Generalmente sottovalutiamo l’ampiezza di questo fenomeno. Noi abitiamo le
città ma non sappiamo quanti culti, quante preghiere, quanti canti, quanti cibi quanti
mestieri l’attraversano. Se anche ci sforziamo di pensarvi è inevitabile sottovalutare
questa realtà.
Oggi è difficile abitare la città perché è difficile ospitare tutta questa
differenza che chiede alla città di cambiare non in ampiezza o altezza ma nelle
proprie reti sociali, nelle proprie strutture mentali, nelle proprie abitudini e sicurezze.
Si può facilmente comprendere come alberghi in ognuno di noi anche l’attrazione
verso un’apparentemente rassicurante “comunità di eguali”. Ma dobbiamo chiederci
se una comunità di consimili è realmente più sicura e più pacifica o se non attivi al
contrario una maggiore competizione mimetica e una violenza non controllabile.
Nelle città dunque oggi si scommette la possibilità di sperimentare una
convivenza delle differenze. Fin dalla propria origine, le città furono dei posti in cui
gli stranieri vivevano a stretto contatto con gli altri, pur restando stranieri (Bauman,
2005, p. 55). 92
Anche nello scenario internazionale una parte del nostro futuro, del destino di
guerra o di pace, dipenderà anche dalla capacità di inventare delle forme convincenti
dell’abitare e del convivere nelle nostre città, laddove il mondo intero – di culture, di
religioni, di opinioni politiche, di stili di vita – si concentra e si ritrova non in continenti
o paesi lontani, ma nelle strade, nelle piazze, nelle scuole e deve trovare un
senso al proprio stare insieme a partire da un comune senso del luogo.
La mixofobia prende a volte delle forme paradossali come per esempio quando si
comunica agli immigrati se saranno accettati solo se parleranno bene la nostra lingua,
se conosceranno la nostra storia, se sapranno indicare le nostre istituzioni, in breve se
sembreranno il più possibile come noi. Salvo naturalmente poi accusarli di
desiderare le stesse cose che vogliamo noi.
Il paradosso è stato ben espresso dal filosofo sloveno Slavoj Zizek, uno dei critici
dell’ipocrisia della retorica multiculturalista.

«L’odierna tolleranza progressista verso gli altri, il rispetto della diversità e


l’apertura verso di essa, è contrappuntata da una paura ossessiva di essere
molestati. In breve, l’Altro va benissimo, a patto che la sua presenza non sia
invadente, a patto che questo Altro non sia veramente altro… […] Ciò che
emerge sempre più come il diritto umano fondamentale nella società tardo-
capitalistica è il diritto a non essere molestato, che è il diritto a rimanere a una
distanza di sicurezza dagli altri» (Zizek, 2007, pp. 46-47).

Nella condizione attuale di una politica passivizzata e priva di vere passioni la


principale passione che viene messa in gioco è quella della paura, una politica della
paura tutta concentrata a assicurarci una difesa contro le presunte minacce alla nostra
incolumità o al nostro benessere. La paura – del crimine, degli immigrati, dei nomadi,
dei senzacasa, degli squatter ecc… - diventa una risorsa mobilitante che viene usata
strumentalmente dai politici.
Abbiamo visto anche che una delle forme che assume questa paura è quella di una
trasformazione delle forme urbane che va in direzione della costruzione di forme di
insediamenti residenziali chiusi, tendenzialmente omogenei per censo ed etnia se non
per religione. Queste comunità chiuse in forma di oasi recintate e protette dovrebbero
proteggere dalla sgradevole necessità di incontrare e misurarsi con l’altro.
Anche l’architettura urbana cambia dunque in funzione di questo clima di
insicurezza. L’architettura della paura, nota Nan Ellin, prevede diverse possibilità.
Non solo recinti e fossati, ma anche la dissimulazione, ovvero la costruzione di case
all’esterno non appariscenti, oppure l’intimidazione, mediante soluzioni esterne
aggressive in stile fortezza o bunker.
L’utopia della cosmopolis, suggerisce Paul Virilio si è trasformata nella realtà
della claustropolis. Assistiamo ad un mutamento della polis intesa come come
spazio aperto, diffuso, tollerante in un arcipelago di spazi chiusi, recintati, enclavizzati,
protetti 24 ore su 24. Una vera e propria bunkerizzazione delle città. Ci stiamo
mentalmente attrezzando per abituarci a vivere in uno stato di assedio psicologico. È
l’ecologia della paura di cui ha scritto Mike Davis. Queste enclave urbane
omogenee socialmente ed etnicamente che dietro la ricerca di una sicurezza assoluta
favoriscono in realtà la crescita di dinamiche paranoiche e proiettive. 35 Paura del
crimine e paura della differenza si sovrappongono e si confondono. Il conflitto di

35
Si veda in proposito, il ritratto lucido e spietato della violenza latente in queste comunità e pronta a
scoppiare, secondo il tipico meccanismo del capro espiatorio, proposto dal regista Rodrigo Plà, La Zona,
(Messico, 2007),
classe si maschera da conflitto culturale. Il conflitto sociale, diventa conflitto
spaziale. 93
Commentando il film The Village di Manoj Night Shymalan, Slavoj Zizek
sottolinea che le figure esemplari del male di oggi,

«non sono i consumatori ordinari che inquinano l’ambiente e vivono in un mondo


violento di legami sociali in disgregazione, ma coloro che, mentre si dedicano
anima e corpo a creare le condizioni di una tale devastazione e di un tale
inquinamento universali, si comprano con il denaro una via di fuga dalle loro
stesse attività, vivendo in “comunità recintate”, mangiando cibo biologico,
facendo le vacanze in riserve naturali e così via» (Zizek, 2007, p. 33).

Un aspetto interessante che Zizek mette in luce è anche il fatto che


nell’immaginario contemporaneo viene continuamente evocata la fragilità della
nostra coesione sociale, la possibilità che una volta messe in crisi le nostre
sicurezze materiali per un incidente, per mancanza di elettricità, per un virus, o un
cataclisma climatico o qualsiasi altra cosa si possa ritornare immediatamente ad un
egoismo sfrenato a una violenza parossistica o addirittura cannibalica, come
si vede nel libro di Cormac McCarthy e nel film The Road di John Hillcoat in molte
altre pellicole come 28 giorni dopo di Danny Boyle.
Questo immaginario ha la sua parte anche nel fenomeno delle Gated communities e
più in generale nei processi che presiedono alla costruzione dei muri negli spazi urbani
contemporanei. Muri fisici o muri invisibili, pensate anche a modo in cui sono trattati i
profughi tunisini oggi.
Zizek fa l’esempio di New Orleans e dice che immediatamente dopo l’uragano
Katrina si sono diffuse voci, ampiamente riprese da politici, giornalista e mass media
che la città era preda di stupri, furti, saccheggi, omicidi. E questa voce ha contribuito
a rallentare i soccorsi perché è scattato un meccanismo di difesa e di sicurezza dagli
abitanti piuttosto che per gli abitanti. Il fatto che si trattasse di una popolazione nera
e povera che non era riuscita a scappare dalla città non è ovviamente un caso. In altre
parole, nota Zizek, la realtà di una popolazione nera e povera abbandonata a se
stessa e senza mezzi di sopravvivenza è stata trasformata in una minaccia, tramite lo
spettro di una anarchia e violenza nera che per le strade avrebbe minacciato donne,
bambine, turisti e soccorritori. In realtà come hanno dimostrato inchieste successive,
a parte qualche caso isolato, quelle supposte scariche di violenza non hanno mai
avuto luogo.
Ora il punto, come nota Zizek, è che «Il soggetto che presumibilmente
depreda e stupra si trova dall’altra parte del muro». Quindi più costruiamo muri
e più edifichiamo l’idea che il male, la violenza, l’anarchia si trovi giusto a pochi
mattoni tra noi e il mondo esterno.

Al mercato della paura

Il mercato stesso suggerisce e rafforza il sospetto e spinge verso una


privatizzazione della sicurezza. Anche a questo livello dunque prolifera ovviamente
il mercato della paura. Ci sono aziende specializzate che operano per offrire
qualsiasi tipo di gadget per la sicurezza. Ci sono ditte che offrono prodotti alla portata
di tutti che nel loro catalogo offrono prodotti per l’autodifesa che vanno dalla
telesorveglianza, alle pistole, agli spray al peperoncino, agli allarmi personali, alle
telecamere, ad armi di vario genere.
Anche nel mercato politico, l’articolo “paura” o quello “insicurezza” vanno molto
forte. In molte città gli amministratori cavalcano l’isolamento e la spaesamento dei
cittadini, rafforzando l’immaginario della paura promuovendon politiche sicuritarie.
Alcuni paesi negli ultimi anni hanno adottato misure di sicurezza radicali e paradossali.
In Gran Bretagna per combattere la delinquenza giovanile si è abbassata a 10 anni 94
l’età per essere puniti dalla legge (1998), si sono inviati poliziotti nelle scuole, si sono
introdotti i braccialetti elettronici anche ai ragazzi tra i 10 e i 15 anni (2000) si è
disposto il coprifuoco per i ragazzini fino a quindici anni dalle 21 alle 6 del mattino
(2002), si è previsto un computer per schedare tutti i ragazzi fino a 18 anni (tredici
milioni e mezzo di giovani inglesi) con dati relativi alla nascita, alle parentele, alla
salute, agli studi e alle sospensioni a scuola, al comportamento. È stato perfino
esaminato il progetto di una vaccinazione dei ragazzi che li renderebbe immuni dalla
voglia di cocaina ed eroina (e anche di nicotina) in modo da evitare i crimini,
specialmente i furti, legati alla droga. Non c’è davvero limite al grottesco e alla perdita
del senso della comunità e dei legami sociali.
Un altro articolo di successo sono le telecamere e la videosorveglianza. A
partire dal 1994, quando per prima Glasgow ha montato 32 telecamere a controllo
delle sue strade, ogni metropoli ed ogni città ha cominciato la corsa alla
videosorveglianza. A New York sono migliaia le telecamere installate in ogni angolo
della città sotto il controllo degli agenti del Joint Operation Command Center.
Anche nella città di Parma, si è iniziato oltre 15 anni fa con l’installazione di 31
nuove telecamere anti-criminalità. Per l’occasione il vicesindaco ha dichiarato sul
giornale locale che questo sistema «è stato progettato per dare tranquillità ai cittadini.
Le telecamere hanno la funzione di far diminuire il numero di crimini commessi». Altre
telecamere sono state aggiunte recentemente. Non credo che avranno nessun effetto
sulla sicurezza dei cittadini.
Ma la palma dei cittadini più paurosi spetta agli inglesi. Secondo un studio
realizzato dallo European Commission’s Urbaneye Project36 nell’arco di due anni, il
90% dei britannici ritiene che le Cctv, le telecamere a circuito chiuso installate agli
angoli delle vie principali siano un’ottima idea. In paragone soltanto il 48% dei
tedeschi e il 24% degli austriaci apprezzano l’idea di essere spiati nei propri
movimenti. L’amore dei britannici per quegli occhiolini elettronici ha portato negli
ultimi tre anni a quadruplicarne il numero in Gran Bretagna fino a raggiungere
l’impressionante quantità di quattro milioni di telecamere distribuite in strade, bagni,
shopping center. Ogni anno in Gran Bretagna si producono dieci milioni di registrazioni
provenienti dalla Cctv.
Tutto questo naturalmente è in gran parte una questione di immagine,
un’operazione psicologica che funziona non come deterrente per i malviventi ma come
tranquillante per i cittadini angosciati ed impauriti. È impensabile che realisticamente
queste telecamere possano davvero garantire una maggior sicurezza ai cittadini.
Questi sistemi di controllo vengono proposti come se la telecamera giocasse il ruolo
della diretta, mentre più verosimilmente può al limite svolgere una funzione in
differita. L’unica funzione reale che possono avere delle telecamere disposte qua e la
nella città è infatti quella documentale, ovvero di registrazione di un evento in
rapporto a un processo investigativo, nel caso fortuito che il fatto sia avvenuto entro il
campo visivo della telecamera che registra in quel momento. Delle telecamere di
questo tipo infatti non potranno mai evitare un fatto criminoso in presa diretta, a
meno che lo sguardo di sorveglianza sia talmente accurato e ravvicinato da scrutare
continuamente ogni sguardo, ogni movimento, ogni gesto “ambiguo”, per sospettare,
presupporre un possibile evento criminoso, in modo da interpretare e prevenire
addirittura uno specifico comportamento, in uno scenario inquietante simile a quello
descritto dal film Minority Report.

36
Per una sintesi dei risultati della ricerca cfr. “Il manifesto”, 27 aprile 2004. Per conoscere l’European
Commission’s Urbaneye Project cfr. http://urbaneye.net
Ma quanto sarebbe intrusivo, invasivo, irrispettoso, oppressivo uno sguardo di
questo genere? Che garanzie abbiamo sulla nostra privacy? Quanto siamo disposti a 95
farci frugare nelle nostre tasche, nei nostri gesti, nei nostri occhi per ricevere (forse)
un pizzico di tranquillità in più? E quanta forza di polizia dovrebbe presidiare il
territorio per intervenire prontamente in tempo reale di fronte alla possibilità di un
crimine o a un fatto appena commesso? L’ipotesi di un controllo militare del territorio
è proprio la soluzione dei nostri problemi o non ne genererebbe di altri, forse più gravi
ancora? E tutte queste telecamere non aumentano la nostra ansia più che diminuirla?
In questo clima giocano un ruolo importante anche i mass media. Bastano
pochi episodi per creare già il clima e lanciare le campagne da “Emergenza criminalità”
e tener su le notizie per un bel po’. Nelle città le campagne mediatiche sulla sicurezza
finiscono immancabilmente per preparare e giustificare agli occhi della cittadinanza
delle retate generiche contro i clandestini dipinti in quanto tali come esseri colpevoli di
ogni genere di nefandezze o addirittura per sdoganare le ronde e aprire
pericolosamente la strada ad una giustizia fai da te.
Vi ricordate forse il caso successo a Parma qualche anno fa, quando un gruppo di
vigili urbani appartenenti ad un nuovo reparto di volontari, hanno brutalmente pestato
e insultato un giovane studente che passeggiava in un parco in attesa dell’orario di
inizio delle sue lezioni, poiché in quanto “negro” lo avevano giudicato senz’altro un
criminale spacciatore. Un episodio indicatore dei rischi cui può portare un certo clima
culturale.

Sicurezza e nuove paure

Ma qual è la realtà della criminalità in Italia?


Secondo il “Rapporto BES 2015”37 dell'ISTAT negli ultimi anni «rallenta la crescita
della criminalità predatoria con una sostanziale stazionarietà dei furti in abitazione e
delle rapine dopo, però, numerosi anni di crescita del fenomeno. Nell’arco di 10 anni i
furti in abitazione sono più che raddoppiati dall’8,5 per 1.000 del 2004 al 17,9 per
1.000 del 2013, con un incremento via via meno intenso dopo il primo picco raggiunto
nel 2007 e la crescita vertiginosa avvenuta dal 2009, per poi rimanere stabili nel
2014».

Viceversa, possiamo osservare che gli omicidi volontari sono diminuiti da 1.901 nel
1991 a 475 nel 2014 (0,8 per 100.000 abitanti).

«Il tasso degli omicidi è costante (0,8 per 100.000 abitanti) e dagli anni ‘90 è
diminuito notevolmente: per la prima volta nel 2014 il numero degli omicidi scende
sotto le 500 unità (475 omicidi). L’Italia presenta il valore più basso in Europa, dove
pure il tasso di omicidi è diminuito fortemente nel triennio 2010-2012, con le sole
eccezioni di Grecia, Malta e Austria. E’ questo un dato importante per il Paese che ha
mantenuto livelli bassi anche durante la crisi. Gli omicidi di tipo mafioso e per furto e
rapina hanno avuto un breve incremento nel 2012, ma sono entrambi di nuovo in
diminuzione. Aspetti positivi emergono sul fronte della violenza contro le donne. È
diminuita la quota di donne che ha subito episodi di violenza negli ultimi cinque anni,
sia per la violenza fisica sia per la violenza sessuale e psicologica. La diminuzione
riguarda sia quella subita da parte dei partner sia quella da parte dei non partner e
soprattutto le forme meno gravi. Mentre rimangono stabili gli stupri e i tentati stupri,
aumenta la gravità degli episodi di violenza subiti dalle donne».

37
http://www.istat.it/it/files/2015/12/Rapporto_BES_2015.pdf
Con uno sguardo ancora più ampio, potremmo notare che sotto molti aspetti noi 96
viviamo in una società che risulta essere molto più sicura di qualsiasi altra del
passato. Eppure il nostro senso di insicurezza sembra forte come non mai.
La crescita del senso di insicurezza non corrisponde ad una crescita reale della
criminalità. Possiamo allora chiederci da dove deriva questo crescente senso di paura
e di insicurezza. Si tratta di qualcosa che dobbiamo spiegare in termini culturali e non
dare per scontato.
In realtà secondo Zygmunt Bauman (Bauman, 2000), si possono individuare
almeno tre tipi differenti di insicurezza:

- l’insicurezza esistenziale, (riguardante il senso, i valori e i riferimenti di


fondo),
- l’incertezza sociale o la precarietà (riguardante i riferimenti materiali, sociali,
economici che determinano le condizioni di vita),
- l’insicurezza personale o l’incolumità (minacce al nostro corpo, ai nostri cari,
alle nostre proprietà e beni).

Ritengo che si possa completare questa tipologia di Bauman aggiungendo, una


quarta dimensione, specificamente post-moderna: l’insicurezza come senso di
inadeguatezza (incapacità di adattamento o di reazione di fronte alle pressioni e alle
richieste crescenti dell’ambiente vitale).
Le paure, le angosce, il senso di insicurezza che ci attanagliano hanno a che fare
con un intreccio fitto e complesso di questi diversi elementi. Tutti questi aspetti vanno
a comporsi in un disagio, in una paura, in un senso di insicurezza generalizzato che è
difficile da chiarire e controllare se non superare.
Come ha notato Zygmunt Bauman,

«Nella sua forma pura e non manipolata, la paura esistenziale che ci rende
ansiosi e preoccupati è ingovernabile, irreprimibile e perciò paralizzante»
(Bauman, 2000, p. 51).

Piuttosto che guardare negli occhi questa verità si preferisce ridurre e incanalare
questa enorme e schiacciante paura e questo senso di insicurezza in elementi più
piccoli, in questioni più maneggevoli, che ci possano dar l’impressione di stare
cambiando qualcosa.
Oggi la sicurezza in realtà è soprattutto un articolo valido per il mercato economico
e per quello politico (non è un caso che la questione ritorni così spesso durante i
periodi elettorali). È uno slogan politico e un progetto di società sponsorizzato da
leader politici, da industrie della sicurezza e anche dai mass media..
Si può dire dunque che oggi ci troviamo a confrontarci con delle “paure ufficiali”,
delle paure nominabili, con una forma, un contorno, una possibile rappresentazione
che coprono tuttavia delle paure più profonde che non sono nominabili, perché sono
informi o sconosciute o perché ci inquietano troppo, o perché in termini sociali sono
disdicevoli. Le paure ufficiali sono costruite, sono cioè in gran parte artefatte,
propagandate, gonfiate dai mass media. Sono politiche e strumentalizzabili e possono
servire facilmente una causa elettorale. Sono economiche e redditizie e rappresentano
un’espansione del mercato attraverso gli angoli oscuri e malati del nostro sistema
sociale e del nostro stile di vita.
Le paure più profonde non hanno voce, non entrano nella riflessione sociale e
politica, se non attraverso qualche piccolo convegno di realtà di base, o le
pubblicazione di un qualche accademico. Come ha sottolineato David Garland,
«in Gran Bretagna e in America gli attori politici hanno ripetutamente scelto di
rispondere alla diffusa preoccupazione per la criminalità e la sicurezza con 97
politiche che puniscono ed escludono. […] Anziché impegnarsi a costruire il
complesso di istituzioni integrative e di governo necessarie per regolare in modo
unitario il sistema economico e sociale, tali politiche hanno stabilito una divisione
tra i gruppi abilitati a vivere in una condizione di libertà senza re gole e i gruppi
da assoggettare a pesanti controlli. Invece di contrastare i processi di
marginalizzazione economica e di esclusione sociale, endemici nell’attuale
globalizzazione, la nuova enfasi sulla punizione e sul controllo poliziesco li ha
aggravati. In luogo di affrontare il difficile problema della solidarietà sociale in un
mondo pieno di diversità, i nostri leader politici hanno preferito affidarsi alle
certezze offerte dalle più semplici e coercitive soluzioni hobbesiane».38

Il sistema non si mette in discussione ma trova un adattamento, un


accomodamento nevrotico. È una sorta di circolo vizioso che trascina tutti verso il
fondo, senza che ce ne accorgiamo e senza che facciamo nulla per contrastare questa
dinamica. Anzi più scivoliamo verso le nostre paure più domandiamo sempre più
sicurezza e più diveniamo sempre più disposti a rinunciare alle nostre libertà. Da
questo punto di vista le istituzioni politiche e gli amministratori sono di scarso aiuto.
Tutto quello che possono fare e che stanno cercando di fare è - a loro volta - di

«convogliare l'ansia, estesa e diffusa, verso una sola componente della


Unsicherheit, quella della sicurezza personale, l'unico ambito in cui qualcosa può
essere fatto e viene effettivamente fatto. Il guaio è che mentre un intervento
efficace per debellare, o perlomeno mitigare, l'insicurezza e l'incertezza richiede
un'azione comune, gran parte delle misure adottate in nome della sicurezza
personale producono divisione: seminano il sospetto, allontanano le persone, le
spingono a fiutare nemici e cospiratori dietro ogni polemica o presa di distanza, e
finiscono per isolare ancora di più chi vive isolato. Ma la cosa peggiore è che tali
misure non solo lasciano intatte le vere fonti dell'ansia, ma consumano tutta
l’energia che esse generano: un'energia che potrebbe essere utilizzata molto più
efficacemente se venisse incanalata nello sforzo di riportare il potere nell'ambito
dello spazio pubblico gestito politicamente» (Bauman, 2000, p. 13).

Sognare un mondo diverso significa dunque anche imparare a guardare in faccia le


nostre paure, le nostre angosce, le nostre sconfitte e capire cosa di diverso ci è
possibile fare. In termini personali di fronte all’insicurezza e alla paura, comportarsi da
persone libere significa non proiettare la colpa sugli altri, non cercare facili capri
espiatori alle proprie angosce. In termini politici, invece, la sfida è quella di aprire una
riflessione più ampia sulla possibilità di praticare percorsi alternativi alla
militarizzazione del territorio e alla privatizzazione della sicurezza.

Passività: città depoliticizzate

Questa paura di incontrare l’altro è legata anche all’assenza delle nostre alterità
nello spazio politico pubblico. Uno spazio politico nel quale si gioca ancora con
regole, linguaggi, e dinamiche fortemente chiuse e conservatrici. Uno spazio dunque
che rimane ancora respingente per qualsiasi soggetto che non sia l’uomo di una certa
età e di un certo livello sociale. Così – se prendiamo il caso dell’Italia - non solo gli
immigrati, ma anche le donne e i più giovani oggi sono ai margini della vita

38
David Garland, The Culture of Control. Crime and Social Order in Contemporary Society, The
University of Chicago Press, Chicago, 2001, p. 202.
politica istituzionale. Credo che la situazione attuale ci parli non solo di un
impedimento ma anche di una grande diffidenza da parte dei nuovi soggetti. 98

Negli anni ’80 e ‘90 anche nel nostro paese si è diffusa una cultura politica che ha
riformulato – anche da un punto di vista linguistico - la questione del governo delle
città e della vita della polis in termini nuovi, in gran parte mutuati dal mercato e dal
mondo delle imprese. Il governo della polis si è trasformato in una attività di gestione
affaristico e imprenditoriale per un verso e di mantenimento dell’ordine per un altro.
Questa cultura ha attraversato indifferentemente la classe politica di una parte e
dell’altra. E, d’altronde, questo spirito ha permeato anche una buona parte della
popolazione, che soprattutto nelle città dove c’è maggior benessere, si è abituata a
delegare volontariamente la politica ai politici di professione almeno finché non
matura qualche grave problema o contraddizione che li tocca direttamente.
Così quello che è successo è che mentre le città si ingrandivano, mentre il ruolo
e gli ambiti, le dimensioni si andavano ampliando e complessificando, al contrario lo
spazio pubblico, lo spazio della politica, si è andato sempre più
miniaturizzando. Per ampiezza di prospettive, per partecipazione, per capacità di
sperimentazione, per luoghi e modalità decisionali. C’è un forte rischio di città senza
spazio pubblico. Senza un luogo e una pratica di discussione, di confronto, di
apprendimento, di invenzione collettiva. Dunque il problema non è solamente come
coinvolgere i diversi generi, le diverse generazioni, gli immigrati e in generale le
persone di diversa, ma anche come modificare e riaprire gli spazi pubblici della politica
in modo da renderli abitabili e significativi per tutti.
Se oggi c’è una crisi della politica è anzitutto per un difetto di immaginazione. La
città vive di come è stata sognata, di come è sognata… La città esiste nella capacità di
immaginarla dei suoi abitanti. Non sono degli amministratori più o meno illuminati, ma
di tutti i suoi abitanti. La politica di una polis dovrebbero emergere dal contributo di
tutti: uomini, donne, immigrati, bambini; maestri, scrittori, impiegati, medici, precari,
tutti dovrebbero essere stimolati a portare il proprio punto di vista e la propria
esperienza. Come ha notato Marc Augé,

«Urbanisti, architetti, artisti e poeti dovrebbero rendersi conto del fatto che la
loro sorte è legata e che la loro materia prima è la stessa: senza immaginario
non ci saranno più città e viceversa. Da questo punto di vista, la società e
l’utopia sono legate. L’immaginario misura l’intensità della vita sociale»
(Augé,1999, pp. 113-114)

Ma occorre per far questo che ci sia una presa di coscienza, che si faccia strada tra
la gente il desiderio di sperimentare qualcosa di nuovo che fuoriesca dalle modalità
tradizionali di far politica. Le città devono farsi laboratori, divenire città che si
guardano intorno e che apprendono, e cominciare ad affrontare davvero la sfida
dei problemi del nostro tempo.
Perché per esempio non spostare una buona parte dei palazzi dell’amministrazione,
della sicurezza - i consigli comunali, provinciali, regionali, le sedi delle rappresentanze
nazionali o delle forze di polizia – nei diversi quartieri periferici, come suggeriscono
Roland Castro e Marc Augè (Augé, 2007, p. 32)? Oppure perché non destinare i
palazzi lasciati vuoti ad altri usi: sociali, di incontro, ricreativi, culturali, artistici,
espositivi? Perché non inventare forme di spostamento e di comunicazione tra luoghi e
spazi diverse da quelle convenzionali, in modo da favorire la comunicazione e
l’incontro? Perché insomma non reinventare con un po’ di fantasia gli spazi pubblici e i
loro usi?
Non sono le possibilità che mancano. Ciò che ci difetta è invece la capacità di
pensare e immaginare la città altrimenti. Da questo punto di vista sono
particolarmente interessanti le esperienze di organizzazioni come il Project for
Public Spaces39, l’International Making Cities Livable Movement40, o il 99
Cittaslow - Slow cities movement41, o in Italia la Rete del nuovo municipio42 o
la Rete delle Città vicine,43 che si impegnano per la promozione e la riqualificazione
degli spazi pubblici, delle città e dei territori.
Fondata nel 1975 da Fred Kent, il Project for Public Spaces (PPS) è un
organizzazione nonprofit impegnata a creare e sostenere spazi pubblici in tutto il
mondo, secondo l’idea che la progettazione e il design urbano possono essere un
spazio di espressione e creazione della comunità.
Creato nel 1985 il Making Cities Livable movement si è fatto alfiere di quello che
definisce “True urbanism”, un urbanismo basato sull’idea di un architettura
appropriata alla scala umana, di palazzi ad uso misto (privato e commerciale), di città
più compatte ("city of short distances" contro lo “sprawl”) con una pianificazione
equilibrata dei trasporti, e con strade e piazze conviviali che ospitino caffè e ristoranti
all’aperto, mercati contadini, manifestazioni e festival. Promuove l’idea di uno spazio
pubblico capace di rilanciare l’impegno pubblico e la partecipazione democratica.
Nato ad Orvieto nel 1999, Cittaslow, il movimento internazionale delle “Città del
Buon Vivere”, si ispira ai concetti di Slow Food e intende promuovere un nuovo
modello di città centrato non più sulla crescita continua ma sulla qualità della vita
nelle città, valorizzando l’ambiente e la biodiversità, il patrimonio storico, artistico e
culturale, le produzioni tipiche, il rapporto col territorio.
Nata ufficialmente nel novembre del 2003, l’Associazione Rete del Nuovo
Municipio, promuove l’idea di una via alternativa della democrazia, promuovendo
istanze di rinnovamento ed allargamento delle dinamiche di decision-making e di
empowerment delle comunità locali nel governo della città e del territorio.
Per altri versi è interessante anche il Transition Town movement44. Si tratta di
un movimento popolarizzato da Rob Hopkins che si propone di cominciare a preparare
e inventare delle città sostenibili capaci di affrontare e rispondere alle sfide emergenti
in un era post-petrolifera e in un’epoca segnata dai cambiamenti climatici.
Tutti questi movimenti hanno capito che si può migliorare la città e la politica
prestando attenzione allo stesso tempo a “progetti” e “processi”: gli spazi e le
possibilità di incontrarsi, riconoscersi, confrontarsi per immaginare e costruire il
territorio sono le condizioni per rigenerare insieme e mutuamente la città e la
cittadinanza.

Rigenerazioni: visioni molteplici della città

Dunque la tendenza alla passivizzazione non è un destino. Tuttavia è necessario


comprendere che una “buona governance” non significa affatto semplicemente
efficienza o capacità di investimento dei soldi pubblici, ma significa anche promuovere
un insieme articolato e connesso di nuovi valori: trasparenza, partecipazione,
inclusione, equità, sostenibilità, senso di responsabilità civico diffuso, sussidiarietà,
fiducia, solidarietà e convivialità, rispetto e valorizzazione delle differenze, creatività e
libertà espressiva. Si tratta quindi di alimentare la consapevolezza, la conoscenza, le
fantasie e il saper fare pratico sia negli amministratori e nei politici che nei cittadini e
nelle parti sociali.

39
Vd. http://www.pps.org/
40
Vd. http://www.livablecities.org/index.htm
41
Vd. http://www.cittaslow.net/default.asp?Pag_ID=1
42
Vd. http://www.nuovomunicipio.org/
43
Vd. http://www.cittavicine.it/
44
Vd. http://transitiontowns.org
Secondo l’urbanista Nan Ellin, autrice del libro Integral Urbanism (Ellin, 2006),
diversamente da quanto avveniva con le città pianificate e funzionalizzate tipiche del 100
modernismo e del post-modernismo che tendevano a separare, isolare, alienare e
respingere, le nuove politiche urbanistiche dovrebbero facilitare la connessione, la
comunicazione e la celebrazione, ovvero la reintegrazione, la circolazione e la
comunione nello spazio e nel tempo della gente, delle attività e del lavoro generando
nuove forme di compresenza, ed ibridazione così come avviene in natura negli
“ecotoni”45 ovvero in quegli spazi di interfaccia e transizione che rappresentano una
sorta di cucitura tra ambienti diversi.
O per usare un’altra metafora, se la pianificazione urbana tradizionale prendeva la
forma di una operazione chirurgica su una città anestetizzata «l’urbanistica integrale –
afferma Nan Ellin - può essere vista come una forma di agopuntura in una città
pienamente vigile e coinvolta» che rimuove i blocchi lungo i “meridiani urbani” proprio
come l’agopuntura e altre forme di cura bioenergetica guariscono rimuovendo i blocchi
lungo i i meridiani energetici dei nostri corpi (Ellin, 2006, pp. 9-10).
Si tratta di connettere spazi ma anche attività e soggetti ovvero di
comprendere la necessità di un’integrazione tra distretti scolastici, parchi, luoghi
ricreativi, autorità del traffico, responsabili di quartiere, associazioni locali e di vicinato
e autorità pubbliche. Insomma in termini più generali la promozione della vitalità e
della comunicazione urbana è un fattore fondamentale per produrre un senso di
sicurezza e di benessere.
Abbiamo visto dunque come la ricchezza e la complessità delle differenze che le
attraversano possano essere causa di difficoltà, di conflitti, di reazioni e anche di
ripiegamenti. D’altra parte, in conclusione, possiamo anche chiederci che cosa può
tenere insieme tutte queste diversità?
La risposta dovrebbe essere ovvia, ma in realtà non lo è. La risposta è senza
dubbio: la città stessa. L’unica cosa che possono avere in comune tutte queste
persone è infatti il senso del luogo. La possibilità della convivenza, del
riconoscimento, dell’apertura piuttosto che della chiusura e dell’ostilità dipende in
primo luogo dal riconoscersi parte dello stesso luogo, della stessa “comunità di
destino”.
È importante, anzi fondamentale, che chi vive in una città, che vi sia nato o che vi
sia arrivato, che pensi di starci poco o tanto, che sia venuto a trovare lavoro o a
costruirsi la vita, possa riconoscere il luogo in cui abita come un luogo comune. Un
luogo in cui possa almeno in parte rispecchiarsi. Che possa considerare quel pezzo
di terra e di case come un pezzo di mondo interno. Perché questa è la garanzia
più forte che possa rispettarlo e averne cura.
La nostra domanda finale non può allora che essere questa: come destare di
nuovo l’amore del luogo? L’amore per le città che abitiamo?
Credo che amministrare una città oggi significhi soprattutto questo. Significa saper
accrescere l’amore del luogo per tutti coloro che la città la abitano, la attraversano, la
visitano, vi lavorano, o che, dovendo partire, se la portano dentro e vi rimangono in
qualche modo legati.

45
Un “ecotone” è un ambiente di transizione tra due ecosistemi diversi tra loro. La caratteristica di
cerniera, quindi di comunicazione e di scambio, tra ambienti diversi, rende in generale gli ecotoni dei
territori particolarmente ricchi in termini di biodiversità e particolarmente importanti in termini
ecologogici.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
101

Il linguaggio del mondo contemporaneo.


Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Docente: Marco Deriu

INTERESSE/DONO

L’antropologo Louis Dumont era solito sottolineare che la differenza fondamentale


tra le società tradizionali e la società moderna sta nel fatto che nelle prime i rapporti
più importanti sono quelli tra esseri umani, mentre nella società moderna – e in
particolare in quella che convenzionalmente e in maniera un po’ approssimativa
chiamiamo la moderna società occidentale – i rapporti tra esseri umani sono
subordinati ai rapporti tra uomini e cose. In altre parole il valore che orienta l’agire
non è più identificato nelle relazioni tra persone – anche quando si scambiano cose,
ma è localizzato proprio nelle cose prodotte in sé stesse.

La miseria dei valori nella società di mercato

Nei lavori di Karl Polanyi – in particolare La grande trasformazione - e di Louis


Dumont – in particolare Homo aequalis - è possibile rintracciare la genesi della
società di mercato e dell’ideologia economica moderna. Questi autori hanno mostrato
come la moderna società di mercato si sia andata costituendo attraverso una
separazione radicale, una “scorporazione”, degli aspetti economici dal più ampio
tessuto sociale e quindi una loro costituzione in un ambito a se stante. L’economia si
è quindi costituita come ambito relativamente autonomo rispetto alla società o alla
politica. Nelle società tradizionali gli aspetti economici erano innestati o incorporati
(embedded) nel sociale e dunque una distinzione tra l’economico e il politico non era
nemmeno comprensibile. Il liberalismo economico che ha accompagnato questa
trasformazione è stato innanzitutto una “rivoluzione nei valori” come l’ha chiamata
Dumont; è stato cioè l’invenzione e la legittimazione di un sistema di valori
emancipato dalla morale e dalle forme di solidarietà tradizionali. In particolare, a
partire da Adam Smith si iniziò a pensare che nel campo economico, e inizialmente
solo in quello, il motore della ricchezza e del benessere fosse l’interesse individuale, il
puro e semplice egoismo. Ai fini del benessere economico collettivo non conterebbe la
solidarietà o l’altruismo quanto quell’“armonia naturale degli interessi” che agisce
come una “mano invisibile” dando forma al bene comune.
Da allora il processo a cui abbiamo assistito è stato un vero e proprio ribaltamento
tale per cui sono il sociale e il politico che in gran parte sono stati incorporati
nell’economico e non viceversa. Allo stesso tempo il primato dell’interesse
individuale – dell’utilitarismo - uscendo dall’isolamento del puro ambito economico
si è andato talmente affermando che si è addirittura imposto come ideologia
globale e pervasiva della società contemporanea.
Come ha sottolineato Dumont, il risultato di queste trasformazioni è che noi oggi
siamo abituati a pensare alla società come qualcosa che si risolve essenzialmente
nelle sue dimensioni economiche e materiali, e al bene sociale come qualcosa di
connesso alla crescita e allo sviluppo. Lo stesso benessere dei cittadini è misurato in
termini economici e monetari proprio perché le persone sono concepite come individui
ovvero esseri umani privati di ogni caratteristica sociale. Oggi da questo punto di vista
non siamo abituati a chiederci se la prosperità individuale raggiunta a prezzo del 102
degrado sociale generale sia in sé un fatto positivo o socialmente accettabile. Quello
che la modernità ci ha consegnato dunque è un idea di prosperità che è al contempo
materiale, economica, utilitaristica ed individualistica. La prosperità, il benessere sono
diventati sinonimo di ricchezza.
La centralità dell’ideologia economica attuale, è tale da proporsi come il vero
universalismo nei nostri rapporti con altre culture e civiltà. Noi siamo convinti
che l’unico modo di guardare le cose “realistico” sia attraverso la lente dell’interesse e
dell’utile.
Al contrario, come scriveva Alain Caillé, il principale animatore del Mauss, il
Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali,

«L’utilitarismo non rappresenta un sistema filosofico particolare o una


componente fra le altre dell’immaginario dominante nelle società moderne.
Piuttosto, esso è diventato quello stesso immaginario; al punto che, per i
moderni, è in larga misura incomprensibile e inaccettabile ciò che non può essere
tradotto in termini di utilità e di efficacia strumentale. Nel migliore dei casi, quel
che appartiene al campo peraltro enorme del non-utilitario è pensato nel registro
del lusso, più o meno del superfluo, o dell’ideale inaccessibile, perché non di
questo mondo».

La scoperta di Marcel Mauss

Negli anni venti, l’antropologo francese Marcel Mauss scrisse un saggio, il celebre
"Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche"
(1923-24) destinato a diventare un punto di riferimento per tutti i successivi studi
antropologici e sociologici sul dono che poneva a questo proposito alcune questioni
chiave. Non solo studiando materiali sulle tribù indigene sia americane che del pacifico
metteva in luce la centralità del dono e della reciprocità nelle loro società seppure in
forme diverse (il Potlàc delle tribù indiane del Nord ovest americano o il Kula diffuso
attorno alle isole Tobriand vicino alla Nuova Guinea); ma inoltre Mauss sottolineava –
prima ancora di Polanyi e Dumont - che l’idea dell’uomo come “animale economico”
era in realtà un’invenzione recente e tipica delle società occidentali ovvero che l’homo
oeconomicus non è inscritto nella nostra storia e nella nostra antropologia, ma è una
creazione artificiale:

«Sono state le nostre società occidentali a fare, assai di recente, dell’uomo


un’“animale economico”. Ma ancora non siamo diventati tutti esseri di questo
genere. […] L’uomo è stato per lunghissimo tempo diverso, e solo da poco è
diventato una macchina, anzi, una macchina calcolatrice» (Mauss, 1991, pp.
283-284).

Mauss studia le tribù indigene sia americane che del pacifico e mette in luce
l'importanza del dono e della reciprocità nelle loro società. Tra le tribù indiane del
Nord ovest americano (attuali Stati Uniti e Canada), ad esempio si segnala un
usanza chiamata Potlàc (nutrire, consumare, dare). Queste tribù (indiani
Kwakiutl) studiate in particolare dall’antropologo Franz Boas per oltre 45 anni,
trascorrono l'inverno in una festa prolungata per diversi giorni e notti con, banchetti,
canti e balli, fiere e mercati (spesso legati a iniziazioni, matrimoni, funerali, passaggi
di cariche prestigiose), che costituiscono l'assemblea solenne della tribù e che si
svolgono una o due volte l’anno. Questi Potlàc organizzati dai membri di spicco della
tribù, rappresenta una forma di scambio che esclude il mercanteggiamento e che si
basa invece su un considerevole dono di ricchezze offerte in maniera esplicita con
l'atteggiamento di obbligare o sfidare. L’organizzatore distribuisce doni e regali a tutti 103
i partecipanti. Il destinatario di un dono deve necessariamente accettare questa sfida,
superare la propria condizione di indebitamento e quindi ricambiare a sua volta con un
dono più importante, cioè deve restituire il dono ad usura in modo da obbligare
nuovamente chi gli ha da poco fatto un regalo. Non si ricambia subito ma più tardi e in
missura maggiore più passa il tempo. Ci sono dei Potlàc in cui si deve dare tutto e non
si deve conservare niemte. Attraverso questo meccanismo di reciprocità e rivalità
si può pervenire ad una perdita o distruzione delle ricchezze accumulate.
Un altro esempio portato da Mauss (e studiato da Malinowski) è quello del Kula
diffuso attorno alle isole Tobriand vicino alla Nuova Guinea. Kula significa
cerchio. Il cerchio del dono lega i partners disseminati nelle varie isole. Ci sono delle
spedizioni da un isola all'altra in cui alcune persone donano ad altre dei piccoli regali di
apertura, ovvero dei regali che iniziano una relazione, al quale i riceventi ricambiano
con regali più importanti. In questo modo si creano partner ed amicizie. In questi
scambi si creano un'ampia circolazione di beni.
Molte pratiche di dono sono di fatto forme culturali che favoriscono la condivisione e
alla redistribuzione e ostacolano invece ogni forma di accumulazione individuale. Di
fatto molte culture tradizionali scoraggiano l’accumulazione privata e assicurano
che il surplus prodotto sia speso e consumato socialmente”.
In altre culture il concetto di ricchezza va riferito a dimensioni sociali o ambientali.
Vediamo per esempio l’intervista ad una donna di Dakar nel Senegal nel 1990
raccontata dallo studioso iraniano Mahjd Rahnema:

«Ho un’amica che fa le pulizie in un servizio pubblico. Quando è in congedo di


maternità faccio la supplenza. Allora prendo un salario di 30000 franche CFA(=85
euro) al mese: questo succede una volta ogni due anni in media. Grazie alle
ferie, faccio dei rimpiazzi per un mese.
Ho anche un altro parente molto importante per me. È un sarto. Siamo
cresciuti insieme, nella stessa strada. Quando devo far fare un vestito per me o
per i miei bambini porto il tessuto e le guarnizioni necessarie a confezionarlo. Non
mi domanda niente in cambio. In effetti ho due sarti. Noi ci siamo talmente
frequentati che siamo diventati dei parenti. Quando il primo si è sposato mi ha
presentato ufficialmente come sua cognata. Quando organizza una cerimonia
familiare sono io che mi occupo di tutta l’organizzazione della festa. Quando i
suoi figli vengono da me a farmi visita, gli faccio dei regali, un pezzo di tessuto e
dei soldi. Il padre sta attento che non mi facciano visita troppo spesso,
preoccupato di evitarmi tutti questi pesi. Conosce la situazione, sa che spesso
devo andare a prestito per fare dei regali. Ciò nonostante quando non vengono
per molto tempo vado io stesa da loro e distribuisco degli spiccioli a tutti.
Conto anche su un elettricista nelle mie relazioni. Siamo cresciuti insieme,
mangiava gratuitamente da noi quando era più giovane. Io non mi sono mai
confidata con lui, ma non mi ha mai fatto pagare niente e fa tutte le riparazioni
che voglio. Lui sa che la mia mano non può raggiungere la mia schiena
(espressione che, in wolof, significa essere di condizione molto modesta). Io
beneficio così degli investimenti che la mia famiglia ha fatto nel passato. È la
stessa cosa con il falegname: egli frequenta talmente la mia famiglia paterna che
mi considera una sorella e non mi domanda niente in cambio quando fa qualche
cosa per me. Mi ha appena fatto una tavola gratuitamente. Tre mesi fa mi aveva
gentilmente regalato un letto.
I venditori di carbone sono per la maggior parte degli stranieri. Ma il carbonaio
dell’angolo, di cui non conosco la famiglia che è restata in Guinea, è anche lui un
parente per me. Mi presta del denaro o del carbone. (…) Io gli offro spesso dei
piatti o dell’acqua fresca. Fa parte della mia famiglia. Quando organizzo una festa
famigliare lui è presente, è lui che mi dà il carbone per cucinare. 104
Per tutti i problemi di salute della famiglia, io ricorro anche ad un amica
infermiera. Quando i miei bambini sono malati mi da gratuitamente delle
medicine. Se non ne ha, le chiede ad un'altra infermiera; è solamente se anche
questa non ne ha, che sono obbligata a pagare la ricetta. Una volta ho venduto
un braccialetto per pagare le medicine. Questo mi è successo solo una volta. Ho
sempre potuto rivolgermi a un partente o a un amico perché i miei bisogni
fossero soddisfatti. Ho amici nella maternità cui posso domandare in caso di
bisogno per ottenere tutte le medicine necessarie. In più durante le gravidanze,
ricevo molti visitatori che mi faranno numerosi regali. Posso allora fare delle
economie per certe spese.
Sono spesso invitata a cerimonie, matrimoni, funerali, battesimi e faccio
sempre dei regali ai miei ospiti. Il mio partner raddoppia sempre ciò che ho
messo quando viene l’occasione di ricambiare.
La somma che io verso e le scadenze dei rimborsi dipendono dalla qualità delle
relazioni. Se la relazione non è forte sono obbligata a pagare il mio debito il
giorno stesso della cerimonia famigliare. Se non ho il soldi da restituire devo
ricorrere a una terza persona per saldare il mio debito. Se invece si tratta di un
amico o di un partente molto stretto posso differire il pagamento. Posso fare la
visita un’altra volta senza che questo dia ombra alle nostre relazioni».46

Come si vede qui il dono non è un atto unico, facilmente isolabile dal resto dei
comportamenti ma è il tessuto di fondo della relazione sociale comunitaria.

Il dono come relazione sociale

Attraverso l'osservazione di forme sociali di questo tipo Mauss e gli antropologi


arrivano a sottolineare che il dono crea un circolo impegnativo.
Secondo Mauss lo spirito del dono si basa un triplice obbligo: l'obbligo di dare,
l'obbligo di ricevere, l'obbligo di ricambiare.
Il dono è un circolo. Il dono è il filo che tesse la relazione, che costruisce l’amicizia,
il legame sociale, perché ci rende costantemente e irrinunciabilmente dipendenti gli
uni degli altri. Tutta la nostra vita è un dare e ricevere.
Mauss sottolinea il fatto «in tutte le società possibili, la natura peculiare del
dono è proprio quella di obbligare nel tempo». Il dono determina uno stato di
indebitamento reciproco che crea un legame e un senso di solidarietà. In questo modo
si crea una forma di unione e comunione.

«La circolazione dei beni segue quella degli uomini, delle donne e dei bambini,
dei banchetti, dei riti, delle cerimonie e delle danze, persino quelle delgi scherzi e
degli insulti. Si tratta, in fondo, della stessa cosa. Se le cose vengono date e
ricambiate, è perché ci si dà e ci si rende “dei riguardi” – noi diciamo anche
“delle cortesie”. Ma è, anche, che ci si dà donando e, se ci si dà, è perché ci si
deve – sé e i propri beni – agli altri » (Mauss, 1991, p. 239).

46
Mahjid Rahnema, Intervista ad una donna di Dakar, Senegal 1990, tratta da EC.CO.MI. Economia di
Condivisione e Microcredito. “Un piatto di riso”, Verona-Milano, 2005.
Donare significa mettersi in collegamento, stabilire una relazione nel tempo. Uno 105
studioso canadese, Jacques T. Godbout, definisce per questo il dono

«ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al


fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale delle persone».

Insomma bisogna pensare ai doni non come cose o oggetti ma come


rapporti. Non a caso molteplici tradizioni etico-religiose da quella induista a quella
cristiana insistono sul fatto che il segreto della felicità e della fortuna stia nel dare
piuttosto che nel conservare, nel mettere in circolo piuttosto che nel trattenere per sé.
In sintesi: date e vi sara dato. Non è semplicemente un precetto morale, ma un
indicazione sociale.
Mauss è stato il primo a sottolineare come il dono sia un principio generale che
non riguarda solo un fatto privato ma l'intera società nei suoi aspetti sociali,
giuridici, economici, politici, estetici, religiosi. L'idea e la pratica del dono può
mettere in moto, in certi casi, la totalità o la gran parte delle istituzioni di una società.
In questo senso parla del dono come “fatto sociale totale”. Lo scopo del dono è
quello di produrre amicizia, di stringere relazioni, di rinsaldare il legame sociale.
Da questo punto di vista l'antropologia porta a criticare una forma troppo
disincarnata e spiritualizzata del dono per mostrare invece quanto il dono porti con se
motivi personali e sociali. Una famosa antropologa Mary Douglas, ha affermato
qualche anno fa che non esiste un dono gratuito o se esiste è contrario alla
socialità. Intendendo con questo che non bisogna limitarsi ad osservare l'intenzione
di colui che dona e il richiamo ai principi di purezza e gratuità al di fuori da ogni idea
di restituzione. In realtà ogni dono ha un significato relazionale ben preciso.
Certamente il dono non è rivolto ad una ricompensa immediata e questo lo distingue
dalle forme di scambio di tipo mercantile, ma nonostante questo dobbiamo pensare
che esistono varie forme di restituzione anche non materiali: la riconoscenza, la
gratitudine, il piacere e la soddisfazione del dono, il potere, il senso di bellezza ecc.
Va sottolineata forse questa dimensione paradossale del dono, un qualcosa che
tiene insieme una dimensione di gratuità e una di restituzione. Ciò non toglie che vi
sono numerosi elementi che sottolineano una differenza tra la restituzione economica
e quella ideale del dono. Nel caso del dono infatti:

la restituzione anche quando ci sarà deve rimanere nascosta, innominata. Se


offro una cena a degli amici e al loro arrivo gli dicessi vi ho invitato perché mi
attendo che voi facciate altrettanto la settimana prossima, rischio di soffocare la
dimensione di dono e addirittura di impedire una restituzione.

la restituzione sebbene generalmente sia presente non è certa. C’è quindi una
dimensione di rischio in ogni dono e contemporaneamente una attestazione di
fiducia. La generazione di fiducia implicita nel dono è ciò che crea legame
sociale, che permette la società.

la restituzione è generalmente distante nel tempo. Più è lontana e più emerge la


dimensione di gratuità. Più è vicina e più si avvicinerebbe a uno scambio.

la restituzione ci può essere anche quando non è richiesta o voluta;

il controdono è generalmente superiore al dono ricevuto. In questo modo ci si


scambia delle relazioni di debito e di dipendenza. Il dono aborre l’equilibrio. Con
il controdono c’è una inversione di ruoli tra debitore e creditore, ma si mantiene
il disequilibrio iniziale che è necessario per mantenere il vincolo della relazione.
Il dono che non è mai saldato, si basa su una disuguaglianza, o su una 106
asimmetria alterna, su uno stato di debito accettato volontariamente. In questo
rompe con il narcisismo individuale.

il dono crea una relazione di obbligazione. Proprio in questo si distingue dallo


scambio mercantile che mirando all’uguaglianza e allo scambio di equivalenti
mira a sottrarci al vincolo della relazione. Dopo lo scambio ognuno è più
autonomo di prima. Per l’uomo moderno individualista il debito è intollerabile. Il
Canada ha proibito le forme di potlàc perché pericoloso per l’attività economica
e per la morale.

infine il dono non lascia immutati i due soggetti – donatore e ricevente – ma


entrambi si sentono gratificati e arricchiti.
Più in generale ogni dono partecipa comunque a creare un contesto di solidarietà.
Non a caso in tutte le società umane i doni battono il tempo, accompagnano gli
eventi rituali, scandiscono alcuni eventi chiave - nascita, malattia, esami, lauree,
matrimoni, morte e riti funebri - sottolineandoli e trasformandoli un fatto biologico o
materiale in fatto sociale.

Lo spirito della cosa donata (hau)

Secondo alcune popolazioni studiate da Mauss, le cose che regaliamo non sono
inerti, non sono morte. Generalmente i beni personali donati hanno uno spirito, o un
"potere spirituale". Nel dono resta infatti sempre qualcosa del donatore, un
potere magico che potrebbe anche ritorcersi contro colui che lo ha ricevuto qualora
questi contravvenisse agli obblighi della reciprocità.
Quando regaliamo, insieme ad un oggetto regaliamo qualcosa di noi stessi. E
questo qualcosa lo regaliamo ad un'altra persona. Insomma un regalo è lo spirito di
una relazione. Per questo alcuni regali possono essere una faccenda molto intima.
Qualcosa di cui siamo estremamente gelosi. Di questi regali intimi si nutrono le
relazioni, poiché c'è una mescolanza di legami spirituali che si attiva nel dono:

«Si tratta, in fondo proprio di mescolanze. Le anime si confondono con le cose; le


cose si confondono con le anime. Le vite si mescolano tra loro ed ecco come le
persone e le cose, confuse insieme, escono ciascuna dalla propria sfera e si
confondono: il che non è altro che il contratto e lo scambio» (Mauss, 1991, p.
184).

Le interpretazioni relative allo hau sono diverse nella letteratura critica. Qualcuno lo
riferisce a relazioni non tra due ma tra più persone, ad uno scambio o dono
generalizzato, con altre persone e anche con la natura. Può essere anche inteso in
senso sociale e cosmologico. Il dono è la forza vitale, il soffio che circolando
feconda e da vita mentre se trattenuto attrae su di noi l’invidia, il maleficio, la
stregoneria. Da questo punto di vista osserva Godbout, “il dono reintegra l’umanità
nel cosmo”.
In termini generali, anche noi nelle nostre vite sperimentiamo in parte questo tipo
di pensiero basato sullo spirito. Quando degli amanti si regalano una ciocca di capelli o
un anello di fidanzamento o di matrimonio. O quando regaliamo un ciondolo o una
compilation musicale con le nostre canzoni preferite. Tutti questi doni hanno un
importanza che trascende di gran lunga il dato materiale.
Dono: potere e dipendenza
107
Contrariamente alla nostra ingenuità i doni non sono tutti uguali. È la nostra
pigrizia mentale che ci fa usare la stessa parola per indicare doni che dovrebbero
essere catalogati sotto titoli completamente differenti: solidarietà, sfida, potere,
dominio. Ci sono doni che arricchiscono chi li riceve e chi li fa, e doni che
impoveriscono chi riceve e arricchiscono chi li fa.
Naturalmente esiste anche un dono negativo. Non a caso nota lo stesso Marcel
Mauss47 il vocabolo di origine germanica «gift» mantiene una certa ambivalenza,
tanto che nella lingua tedesca designa il «veleno» e nella lingua inglese il «dono»,
mentre l’olandese conserva entrambi i significati con due parole una neutra e una
femminile per designare il veleno e il regalo o la dote. Allo stesso modo, nel greco
antico «dosis» indicava l'atto del donare ma anche la «dose» di una sostanza mortale.
In molte culture, come quella germanica, il regalo per eccellenza è ciò che si versa,
ma la bevanda-regalo, nota Mauss può essere anche un veleno. Il dono dunque è ciò
che si è obbligati a fare e ad accettare, ma che è anche potenzialmente pericoloso.
In termini sociali e relazionali il dono contiene in sé potenzialmente anche una
faccia oscura, di potere, di dipendenza, di controllo. Da un punto di vista storico e
politico, ad esempio, il dono è stato anche uno strumento di colonialismo o di
conquista di nuovi mercati.
Nuruddin Farah uno dei maggiori scrittori africani e non solo viventi ha scritto
un libro per vendicare il senso di un popolo, quello somalo, vittima degli aiuti e degli
interventi cosiddetti umanitari dell’occidente. Si intitola non a caso Doni (Frassinelli,
Milano, 2001).

«In Somalia esiste la tradizione del Qaaraan: se ci si trova in stato di bisogno,


si invitano amici e parenti a casa nostra, o a casa di un ospite, e si fa girare il
cappello per raccogliere il loro obolo. Ma a condizioni precise. Innanzitutto deve
trattarsi di bisogno autentico; e chi cerca aiuto deve essere un membro
rispettabile della società, non un fannullone, un debitore o un ladro. La
discrezione, poi, è un elemento della massima importanza. I donatori non
dichiarano la cifra elargita, e il ricevente non sa chi ha dato, né quanto ha dato.
Così la gratitudine va alla comunità, collettivamente. Inoltre è escluso che la
stessa persona possa ripresentarsi a breve termine per chiedere altro denaro. Se
da tutto ciò possiamo trarre una lezione, è che lo stato di emergenza rappresenta
una condizione una tantum, non una scusa annuale per alzare il tiro delle
richieste di aiuti. Da quanti anni noi invece continuiamo a far girare la nostra
ciotola vuota?
Le carestie risvegliano i popoli dal letargo politico, sociale o economico; noi
stessi abbiamo visto come, dopo quarant’anni di governo, gli etiopi sono riusciti a
liberarsi del loro imperatore. Oltre a sabotare la capacità africana di sopravvivere
con dignità, le donazioni straniere di generi alimentari creano una sorta di
cuscinetto tra le élite corrotte e le masse affamate» (Farah, 2001, p. 256).

Ci sono dunque diverse possibilità di vivere il dono e dobbiamo essere consapevoli che
si possono usare i doni anche per controllare persone e popoli. Da questo ci si deve
allontanare.
Tuttavia il dono è anche l’antidoto per eccellenza della violenza. È ciò che può
disinnescare i conflitti. Può determinare quello che una studiosa, Florence Weber, ha
definito “una spirale di generosità”. Serve a trasformare un estraneo, un potenziale
nemico, in amico, serve a legare a sé una comunità di persone.

47
Si veda in proposito il saggio “Gift, Gift”, in Granet, Mauss, 1975, pp. 67-72.
Lo spirito del dono: residuo del passato o principio inesauribile? 108

Marcel Mauss fu forse il primo studioso moderno a sottolineare che il puro calcolo
dei bisogni dell’individuo non rappresenta il metodo economico migliore e che «il
perseguimento brutale degli scopi individualistici nuoce ai fini e alla pace dell’insieme»
e “di rimbalzo” all’individuo stesso (Mauss, 1991, p. 284). Tuttavia, nota Mauss, la
logica del dono è per fortuna ancora presente nella nostra società e ha ancora a che
fare con un intramontabile principio di saggezza, quello dell’uscire da se stessi, del
dare assieme «liberamente e per obbligo». Il significato del dono è quello di sottrarre i
rapporti personali ad una contabilità. Quando in una relazione di coppia o di amicizia si
è costantemente attenti a quanto si da e a quanto si riceve significa che si è in una
relazione competitiva e che probabilmente quella relazione è prossima alla fine.
Noi moderni tuttavia sembriamo non essere attrezzati culturalmente per
riconoscere l’importanza e tanto meno la presenza del dono nella nostra vita
reale.
In un certo senso per noi il dono non esiste, poiché ogni forma di gesto gratuito non
sarebbe altro che egoismo mascherato, oppure qualcosa che si da solo come caso
eccezionale, come parziale trasgressione alla normalità degli scambi basati
generalmente sul principio dell’utilità.
Sarebbe facile concludere dunque che il dono non è altro che un residuo di una
mentalità del passato, di un modo di concepire le cose adeguato a società tradizionali
e oggi del tutto anacronistico nell’epoca della globalizzazione e dei flussi finanziari. Ma
ci sono almeno due questioni che dovrebbero suggerirci a questo proposito una
maggiore attenzione.
La prima questione fondamentale è comprendere se una società può tenersi
insieme solamente grazie al perseguimento di obiettivi economici privati ed
individualistici di imprenditori, lavoratori e consumatori oppure se l’erosione della
concezione sociale e dello spirito di solidarietà sottostante ad ogni società non coincida
in qualche modo con l’erosione della società stessa e delle possibilità di una reale
convivenza.
La seconda questione, connessa alla precedente, è se effettivamente il dono
sarebbe un residuo destinato via via ad esaurirsi man mano che si diffonde
l’economicizzazione del mondo, o piuttosto non rappresenti un altro senso delle cose,
un altro spirito che continua a essere presente – anche se scarsamente riconosciuto –
anche nelle nostre società moderne?
Nell’ipotesi di Karl Polanyi per esempio esistono diverse forme di scambio -
reciprocità (dono), redistribuzione (stato) e mercato (scambio).
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare non esiste un'unica evoluzione in cui
attraverso un processo di sviluppo si passa da una forma di scambio all'altro. Per
esempio da una società basata sul dono ad una basata sul mercato a una basata sulla
redistribuzione. In realtà ogni società contiene in se tutte queste forme in misura
maggiore o minore.
Da questo punto di vista molti degli studiosi contemporanei che fanno riferimento al
movimento antitutilitarista sostengono da questo punto di vista che il dono è tanto
arcaico quanto moderno. Che non solo non è scomparso dalle nostre società ma
costituisce ancora oggi il fondamento implicito e dato per scontato del vivere comune.
Certo un fondamento che è necessario riconoscere se non si vuole mettere in crisi le
condizioni stesse della convivenza.
Il dono nelle società di mercato
109
ll dono esiste anche nella società moderna. E’ questa la scoperta fondamentale
realizzata da M. Mauss. Anche in una società di mercato come la nostra dunque, il
dono e la reciprocità possono avere uno ruolo ed un importanza fondamentale. Il
dono è alla base della nostra società moderna molto più di quanto non
pensiamo.
Per Jacques T. Godbout il dono

«non concerne soltanto momenti isolati e discontinui dell’esistenza sociale ma


la sua stessa totalità. Ancor oggi non è possibile avviare o intraprendere
alcunché, niente può crescere e funzionare se non nutrito dal dono».

Il dono è assolutamente presente nelle società contemporanee:

- c’è il dono in famiglia, nel gesto della madre e del padre verso il bambino, o negli
innumerevoli servizi, aiuti e gesti quotidiani compiuti da membri della rete
familiare verso altri membri, o anche nelle famiglie che adottano un bambino. C’è
poi il dono dell’eredità, o quello dell’adozione.
- c’è il dono in amore: donarsi tempo, emozioni, felicità;
- il dono in amicizia, gli aiuti e il sostegno, le cose e gli oggetti che circolano fra
amici;
- il dono in occasione di eventi della vita umana: nascita, compleanni, esami,
fidanzamenti, matrimoni, ecc.;
- il dono in occasione di festività come il Natale, la Befana, la Pasqua, e le varie
feste della donna, degli innamorati;
- il dono agli ospiti e agli stranieri, il dovere dell'accoglienza, dell’offrire cibo, vino,
ospitalità che in molti posti è ancora molto forte;
- c’è il dono nella forma del volontariato sociale, volontariato con anziani, bambini,
immigrati, poveri, persone vittime di violenza;
- il dono in gruppi di aiuto reciproco, i gruppi di autoaiuto, gli alcolisti anonimi,
basati sul principio che non si può riuscire da soli, che c'è bisogno dell'aiuto degli
altri e del dono di una forza superiore che si riceve e si trasmette ad altri;
- il dono agli sconosciuti, ovvero quel dono senza legame tra donante e ricevente
che è in gran parte una specificità moderna e che si ritrova per esempio nel dono
del sangue, degli organi, nella beneficenza, nelle sottoscrizioni; il dono;
- c’è il dono perfino nello spazio del lavoro, nel tempo e nel sostegno che si rivolge
ai colleghi, alla ditta o all'impresa.

Dunque il dono è estremamente diffuso anche tra di noi seppure non trova spesso un
adeguato riconoscimento simbolico. Secondo alcuni studiosi è proprio la presenza alla
base di tutte queste forme del dono che permette ad una società - anche una società
di mercato come la nostra - di sopravvivere. E nella misura in cui si erode lo spirito
del dono si condanna una società alla disgregazione, al degrado e alla violenza.
Si tratta allora di saper riconoscere la presenza del dono nelle nostre
società.
Da questo punto di vista la sfida è rompere lo schermo dell’utile, dell’interesse
come criterio di riconoscimento, interpretazione, valorizzazione della realtà ambientale
e sociale e della definizione delle priorità politiche e sociali. È importante portare alla
luce le dimensioni dello scambio sociale e dell’azione individuale e sociale non dettate
principalmente dall’interesse, si tratta infatti di un passaggio fondamentale nel
tentativo di limitare e contrastare il dominio dei criteri del profitto e della competizione
economica. Si deve continuare a interrogarsi su cosa tiene insieme una società, su
cosa costituisce il benessere reale o la qualità della vita delle persone e anzi
risottolineare l’importanza delle persone, delle relazioni in quanto tali e non come 110
strumenti o scopi per qualcos’altro.
Come ha scritto Alain Caillé l'antiutilitarismo procede dalla certezza

«che il solo modo di soddisfare i propri bisogni e i propri interessi consiste nel
non sacrificare la vita allo sforzo per soddisfarli; dalla certezza che si può godere
soltanto di ciò che si è pronti a perdere, più in generale, che l'umanità diventa
propriamente umana soltanto al di là della strumentalità».

Se l’economia neo-liberista con i suoi caratteri di accumulazione individualistica,


di competizione spietata, di aggressione, di imposizione, di cannibalizzazione dei
soggetti più piccoli o fragili presenta una struttura e una processualità
sostanzialmente polemologica, in cui se è presente una reciprocità è una
reciprocità negativa, ovvero quella della vendetta, l’economia del dono instaura una
logica di reciprocità positiva, di vincolo reciproco, in cui la sopravvivenza e il
benessere di ciascuno è legato alla sopravvivenza e al benessere dell’altro.
Molte pratiche di dono sono di fatto forme culturali che favoriscono la
condivisione e alla redistribuzione e ostacolano invece ogni forma di
accumulazione individuale. Di fatto molte culture tradizionali scoraggiano
l’accumulazione privata e tengono sotto controllo la ricchezza materiale:
-attraverso la redistribuzione;
-attraverso la circolazione dei beni;
-attraverso il dispendio sociale (feste, cerimonie, realizzazioni sociali);
-attraverso la distruzione (potlac).

Dunque non è che le società tradizionali non producessero surplus o non fossero in
grado di accumulare ricchezza. Il fatto è che individuavano una contraddizione tra
l’arricchimento individuale e la competizione e il benessere collettivo e la
solidarietà.
L’accumulazione o non esiste, o se esiste è socializzata. Si accumula al fine di
redistribuire o di goderne socialmente. Nelle società tradizionali – nota Sahlins - la
possibilità di arricchirsi a spese altrui non è prevista dai rapporti e dalle forme
di scambio. Trattenere i beni per sé è considerato immorale e socialmente pericoloso.
Esistevano una serie di regole che imponevano una continua spartizione all’interno
della comunità locale. Dunque, per esempio, si poteva soffrire la fame solo se
tutta la comunità soffriva la fame. Altrimenti la rete sociale avrebbe provveduto
alla difficoltà di ciascuno. Ecco perché la sussistenza tradizionale è molto diversa dalla
condizione di miseria moderna in una società individualizzata, in cui ciascuno è
abbandonato a se stesso.

«I popoli più primitivi del mondo hanno pochi beni, ma non sono poveri. La loro
povertà non consiste né in una data piccola quantità di beni né unicamente in
un rapporto tra mezzi e mezzi; è innanzitutto un rapporto interpersonale. La
povertà è uno status sociale e in quanto tale un’invenzione della civiltà»
(Marshall Sahlins, L’economia dell’età della pietra, Bompiani, Milano, 1988, p.
50).

Questo ci parla del fatto che l’economia moderna, capitalistica ha prodotto


due tendenze contrapposte ma collegate. Ha prodotto un’enorme
accumulazione, una ricchezza senza pari, ma al contempo anche una miseria
senza pari e una diseguaglianza tra i più ricchi e più poveri che non ha pari nella
storia dell’umanità.
Si potrebbe dire dunque che anche in una società di mercato, è fondamentale
sottrarre spazi e valore alla logica dell’individualismo e della competizione e 111
conquistare spazi alla logica della reciprocità, del dono, della condivisione.

Guerra e politica internazionale: il rischio del dono

Il tema del dono ha anche una sua valenza politica in un epoca di guerre, di
terrorismo internazionale, di pregiudizi e paure.
Ci troviamo in un circolo vizioso di diffidenza, sospetti, accuse reciproche.
Personalmente credo che un cambiamento in questo contesto sia possibile solamente
se si prova ad uscire dagli schemi di comportamento noti e prevedibili.
L’unica alternativa che abbiamo allo scontro attorno alle risorse fondamentali o al
controllo dell’economia e delle popolazioni e dei possibili nemici è quella di rinunciare
al controllo.
Ricercare la sicurezza politica, sociale ed economica non tramite il controllo ma
tramite obbligazioni unilaterali positive. Dobbiamo costruire dei rapporti sulla base di
gesti unilaterali volti a costruire un clima di fiducia e cooperazione e non di
contrapposizione o competizione.
Assumendoci naturalmente tutti i rischi e sopportando ciò che ne può conseguire
per un certo periodo di tempo.
Come ha scritto Marcel Mauss nel suo celebre saggio sul dono:

«In tutte le società che ci hanno immediatamente preceduto e che ancora ci


circondano, ed anche in numerose usanze connesse con la nostra morale
popolare, non esiste via di mezzo: fidarsi interamente o diffidare interamente;
deporre le armi e rinunciare alla magia, o dare tutto: dalla ospitalità fugace alle
figlie e ai beni. È in uno stato del genere che l’uomo ha rinunciato a restare sulle
sue e si è impegnato a dare e a ricambiare» (Mauss, 1991, pp. 289-290).

Naturalmente Mauss parlava di una scelta su scala locale. Noi siamo nelle condizioni
di dover arrischiare questa strada su scala globale.
Come ha notato anche Claude Lévi Strauss

«Esiste un nesso, una continuità tra rapporti ostili e la fornitura di prestazioni


reciproche. Gli scambi sono guerre risolte pacificamente e le guerre il risultato
di transazioni sfortunate» (Claude Lévi-Strauss, 1972).

In altre parole l’alternativa alla guerra permanente non è la pace perpetua


ma solamente una condizione intrinsecamente fragile e incerta di non ostilità
costantemente nutrita da politiche di relazionalità, condivisione e ospitalità.
Solo ripetuti atti di relazione, condivisione, ospitalità incondizionati possono
interrompere le dinamiche mimetiche, la competizione attorno a beni desiderabili o i
sentimenti di paura e di paranoia aggressiva.
Il gesto unilaterale consiste nel mostrarsi disponibili ad affrontare i problemi e i
rischi dell’attuale realtà globale assieme agli altri e non contro gli altri.
Solo questa propensione profonda e reiterata verso un’alleanza disinteressata potrà
sulla distanza isolare quei gruppi che vogliono – a partire da un atteggiamento di
potere e di dominio strutturale o a partire dal terrore e dalla violenza generalizzata –
cercare di condurre il gioco secondo i propri schemi ed interessi.
Da questo punto di vista le società fondate sul dono hanno qualcosa da insegnarci.
Come ha notato Marshall Sahlins queste società cosiddette “primitive” sono in 112
guerra con la Guerrra e tutti i loro rapporti sono trattati di pace.

«Tutti gli scambi, cioè devono nel loro profilo materiale sostenere un fardello
politico di riconciliazione. O come dicono i Boscimani: “La cosa peggiore e non
fare doni. Se due persone non si piacciono ma una fa un dono e l’altra deve
accettarlo, ciò porta la pace tra di loro. Si dona ciò che si ha. Ecco come si vive
insieme» (Marshall Sahlins, L’economia dell’età della pietra, Bompiani, Milano,
1980, p. 188.

In questa prospettiva nota Sahlins. La pace non è un atto isolato o un evento


intersocietario sporadico, ma “un processo continuamente attivo nella società stessa”.
Dunque non si tratta semplicemente di “fare la pace”, ma di processualizzarla,
ritualizzarla.
In altre parole si tratta di condurre una politica estera basata su un atteggiamento
non egoistico, non utilitaristico. Mi sembra importante insistere sulla dimensione attiva
di una politica nonviolenta. Non si tratta solamente (e neanche principalmente) di
pensare ad azioni quale marce dimostrative, manifestazioni, atti di disobbedienza
civile, boicottaggi. Tutte queste cose non sono sufficienti se non si inseriscono in una
prassi politica riconosciuta che cambi il segno – potremmo dire il simbolico – dell’agire
politico sul piano locale e internazionale. C’è bisogno in altre parole di mettere al
mondo una pratica politica nonviolenta che incida allo stesso tempo sulla dimensione
simbolica, su quella materiale e strutturale e su quella soggettiva e relazionale.
L’insegnamento che mi sembra importante cogliere di fronte alla situazione attuale
è che l’aumento della potenza distruttiva, della velocità e della globalizzazione della
violenza, sia nella forma della guerra che del terrorismo, generano una crescente
vulnerabilità e che è illusorio proteggersi da questa vulnerabilità innalzando dei muri
fisici o simbolici. È illusorio cioè credere di salvarsi o di proteggersi tirandosi fuori dalla
relazione, impedendo l’incontro. Dovremmo muoverci piuttosto lungo l’asse
opposto, la moltiplicazione delle relazioni. Solo la relazione, e la qualità di questa
relazione, può accrescere la consapevolezza e il rispetto della vulnerabilità degli altri e
di noi stessi. Vogliamo cercare d’essere invulnerabili o vogliamo cercare d’essere ben
voluti? Questa è l’alternativa che abbiamo di fronte: armarci e combattere all’infinito
contro ogni possibile nemico o cercare di costruire relazioni basate sulla fiducia e sul
rispetto.
Se scegliamo un orizzonte simbolico differente da quello bellico l’unica possibilità è
quella di una politica attiva volta alla costruzione di reti di relazioni strette e diffuse tra
soggetti - sia istituzionali che civili – dell’Italia e dell’Europa con paesi lontani
minacciati dalla logica dello scontro militare globale, anticipando e prevenendo così la
logica delle armi. Penso per esempio a paesi come la Cina, l’Iran, la Siria, la Corea del
nord, o in generale ai paesi dell’area islamica. Se vogliamo prevenire e contraddire la
cultura della guerra dobbiamo impegnarci in politiche di avvicinamento basate sulla
relazionalità, sulla condivisione, sull’ospitalità. La costruzione di una rete di rapporti
diffusi e profondi, costruiti nel tempo attraverso viaggi, incontri, scambi,
cooperazione, impegni politici reciproci, azioni coordinate a livello della società civile
può costituire non soltanto un elemento importante di attrito alle possibili iniziative
militari, ma può addirittura delineare un terreno di cooperazione e di comunanza che
renda concretamente impensabile sia la guerra verso una popolazione amica che
d’altro verso l’emergere in essa di un sostegno ad un progetto terroristico che
sacrifichi la vita per progetti politici. Si tratta in sostanza non di prendere
semplicemente le distanze dai progetti bellici quando questi sono già sostanzialmente
delineati ma piuttosto di incamminarci effettivamente in direzione contraria, togliendo
il sostegno sia a progetti di dominio economico e politico da parte dei nostri paesi che
isolando eventuali sentimenti di odio e di rivalsa negli altri paesi. Certo si obietterà 113
che alcuni di questi regimi sono non democratici, irrispettosi dei diritti umani e della
libera espressione dei cittadini. Questo mi sembra un motivo in più per non isolare
queste popolazioni e renderle ostaggio dei loro regimi. Anzi la costruzione di forti
legami di base potrebbe influire indirettamente anche sui rispettivi regimi
costringendoli ad una maggior apertura e tolleranza. D’altra parte, il contatto e il
confronto con altre realtà, altri problemi o altri punti di vista potrebbe arricchire anche
il nostro asfittico panorama politico democratico. Tanto più che proprio perché in molti
di questi paesi fare politica è un’attività più impegnativa e rischiosa, in genere le
passioni politiche sono in realtà più vive che da noi.
In termini generali una politica della relazionalità, dal mio punto di vista, potrebbe
basarsi su alcuni impegni pratici: la promozione di una conoscenza accurata delle
nostre alterità sessuali, culturali, religiose, politiche; la promozione di una conoscenza
accurata di noi stessi; l’ascolto delle esperienze; la pratica dell’ospitalità; una
cooperazione politica. Non si tratta – non si può trattare - di progetti politici definiti,
evidentemente, ma piuttosto di piste di ricerca, tracce, immagini, parole per orientarsi
altrimenti, consapevoli, come ha scritto Christian Salmon, che

«la pace è sempre un nuovo linguaggio, un’altra logica, un’altra sintassi»


(Salmon, Hanimann, 2004, p. 114).

Il linguaggio del dono, nelle sue diverse forme permette questo cambiamento.
C’è uno studioso cristiano della tradizione islamica, Louis Massignon, che val la pena
rileggere oggi, che ha molto insistito nella sua opera e con la sua stessa vita sull’idea
dell’ospitalità sacra e sull’importanza del rispetto nel rapporto con le nostre alterità.
L’intuizione fondamentale di questo studioso è che solo con il rispetto e l’ospitalità
e non con la legge e le osservanze legali né tantomeno con la forza otterremo
un mondo più pacifico. Ci incombe da questo punto di vista recuperare il valore
dell’ospitalità, non solo come un cerimoniale ma come un fondamento sociale e come
precisa pratica politica. L’ospitalità dev’essere un impegno anzitutto nei confronti dei
rifugiati che scappano dalla violenza, dalle persecuzioni o dalla miseria e nei confronti
degli immigrati che vengono a cercare lavoro e una miglior fortuna. La capacità di
ospitare queste persone non solo come corpi, come forza lavoro o come vittime, ma
come esseri umani che ci portano la loro soggettività, la loro esperienza, il loro vissuto
rappresenta una grande occasione di incontro tra popoli che non dev’essere sprecata.
Ma l’ospitalità deve essere invocata anche di fronte a coloro che si presentano (o ci
vengono presentati) come nemici. C’è un vecchio racconto sardo narrato da Salvatore
Cambosu e intitolato “L’ospite moro” (Cambosu, 1999, p. 97) in cui un vecchio afferra
il braccio di un suo compaesano prima che questo infierisca su un nemico ferito
ricordandogli «È un ospite, prima di essere un nemico».
Questo principio richiamato in rispetto perfino di un invasore segna, a mio avviso, il
principio di un rovesciamento di prospettive. L’ospitalità non è qui una cortesia
ma un principio fondante della propria identità e il riconoscimento della
comune umanità tramite l’impegno a preservare un legame di rispetto anche tra
contendenti. In questo senso il nemico è anzitutto un ospite dello spirito. Il
difficile è riuscire ad ospitare la sua umanità dentro di noi. In un certo senso
preservarne un immagine di umanità dentro di noi. Come sottolineava Dietrich
Bonhoffer (1998, p. 66), infatti, nulla di quanto disprezziamo negli altri ci è
completamente estraneo. E d’altra parte, nulla di quanto riconosciamo a noi stessi è
completamente estraneo alle nostre alterità. Riattizzare il fuoco dell’ospitalità significa
dunque ampliare l’immagine dell’umanità in noi stessi per cominciare a guardare le
cose da un altro punto di vista.
Una storia realmente accaduta
114
Giovedì 3 novembre 2005 nel campo di rifugiati palestinesi di Jénine, Ahmed
Al-Khatib, un ragazzino di 12 anni giocava nella strada con dei regali ricevuti per
celebrare la fine del Ramadan. Come molti ragazzini palestinesi imbracciava delle armi
giocattolo di plastica. Una pattuglia di soldati israeliani in una delle solite spedizioni in
quel campo vedono il ragazzino con le armi in mano e da lontano lo scambiano per
uno dei militanti dei gruppi di estremisti armati. Il ragazzo diventa dunque il bersaglio
degli israeliani che cominciano a sparare. Viene colpito da diverse pallottole di cui una
alla testa. Trasportato d’urgenza all’ospedale israeliano di Haïfa, il piccolo Ahmed
muore pochi giorni dopo, il sabato a causa delle sue gravi ferite.
È in situazioni come queste, nel lutto, nella disperazione, in un dolore senza senso
che nascono nuovi militanti estremisti, nuovi adepti per la lotta armata, nuovi
volontari per attentati kamikaze.
Ma quella volta la famiglia di Ahmed sceglie un altro linguaggio. Con un
gesto di straordinaria umanità i genitori di Ahmed decidono di far dono degli organi
del loro figlio morto.

- «Noi vogliamo indirizzare un messaggio di pace alla società israeliana, al


ministro della difesa e al Parlamento israeliano» - ha detto Ismail Al-Khatib il
padre di Ahmed.
- «Loro hanno ucciso mio figlio che era in buona salute; noi vogliamo donare i
suoi organi a coloro che ne anno bisogno» - ha aggiunto la Signora Al-Khatib che
poco tempo prima aveva perso fratello per non aver potuto godere di un
trapianto del fegato.
- «Che i riceventi siano Palestinesi o Israeliani non ci da alcun problema»- ha
precisato la madre di Ahmed.

Così due bambini ebrei e una ragazzina drusa di 12 anni hanno ricevuto i polmoni, il
fegato e il cuore del piccolo palestinese.
Il padre di Samah, la ragazzina drusa di 12 anni che aspettava un trapianto di
cuore da oltre cinque anni ha salutato il “gesto d’amore” dei genitori di Ahmed e ha
promesso di invitarli prossimamente in Israele.

«Io vorrei che considerassero a questo punto la nostra figlia come la loro figlia».

Certo non siamo così ingenui da pensare che singoli gesti come questi possano
fermare una guerra. Pero credo che spetti alla politica e ai politici inventare gesti
come questi. Dei doni fra popoli e paesi che interrompano la grammatica della
guerra e per cominciare a parlare il linguaggio della pace.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
115

Il linguaggio del mondo contemporaneo.


Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Docente: Marco Deriu

SVILUPPO/DECRESCITA

«Lo sviluppo è simile a una stella morta,


di cui ancora si vede la luce anche se
si è spenta da tempo, e per sempre»
(Gilbert Rist, 1997).

C’è un mito che, nell’ultimo secolo, ha fondato l’immaginario sociale e che ancora
oggi costituisce il sottofondo comune delle ideologie politiche di destra e di
sinistra: è il mito dello sviluppo. Questa credenza ha portato con sé le parole
d’ordine dell’accumulazione, della massimizzazione della produzione, dei consumi e
dei profitti. Da ipotetico strumento per raggiungere il benessere, lo sviluppo è
diventato presto un dogma di fede e l’obiettivo centrale dell’organizzazione sociale,
piegando alla propria logica non solo l’economia ma anche la politica e la società. Lo
sviluppo è il cardine dell’ideologia economica e sociale contemporanea. Tutti credono
che lo sviluppo sia qualcosa di intrinsecamente positivo e universalmente desiderabile.
Qualcosa di cui non si può fare a meno, se non rinunciando al benessere stesso.
Eppure, anche in questo caso, è facile dimostrare che l’idea di sviluppo è
un’invenzione tutto sommato recente e culturalmente relativa. Che non sia un
concetto universalmente condiviso emerge per esempio dal fatto che in molte lingue
non occidentali non esiste nemmeno una parola corrispondente. Da un punto di vista
storico, inoltre, come ha notato lo storico Heinz W. Arndt,

«Il termine "sviluppo economico", in quanto indicativo di un processo


intrapreso da parte di una società, era usato molto di rado prima della Seconda
Guerra Mondiale, sebbene l'utilizzo del termine nel senso di un'attività applicata,
dalle autorità di governo, in particolare per lo sfruttamento delle risorse naturali
e della terra era comune da almeno un secolo Il termine comunemente usato per
tale processo era quello di "progresso materiale"» (H. W. Arndt, 1990, p. 9).

In questa lezione vorrei provare a ricostruire che cosa questa narrazione dello
sviluppo ha significato nel rapporto con gli altri popoli, e nelle relazioni Nord-Sud e che
cosa ha significato per i paesi occidentali e industrializzati.

Sviluppo: ascesa e declino di una grande narrazione

Se si vuole trovare un momento simbolico in cui il termine "sviluppo economico",


nel senso con cui lo intendiamo oggi, entra a far parte del linguaggio politico ed
economico dobbiamo andare al 20 gennaio 1949. In quel giorno, Henry Truman
pronuncia il suo Discorso inaugurale. Il discorso si compone di quattro punti: ONU,
Piano Marshall, NATO, Aiuto allo sviluppo. Con quel discorso possiamo dire che si
inaugura ufficialmente l’era dello sviluppo e del sottosviluppo. 116

«In quarto luogo dobbiamo lanciare un nuovo programma che sia audace e
che metta i vantaggi del nostro progresso scientifico e industriale al servizio del
miglioramento e della crescita delle regioni sottosviluppate. Più della metà
delle persone di questo mondo vive in condizioni prossime alla miseria. Il loro
nutrimento è insoddisfacente. Sono vittime di malattie. La loro vita economica
è primitiva e stazionaria. La loro povertà costituisce un handicap e una
minaccia tanto per loro quanto per le regioni più prospere. Per la prima volta
nella storia l'umanità è in possesso delle conoscenze tecniche e pratiche in grado
di alleviare la sofferenza di queste persone. Gli Stati Uniti occupano tra le
nazioni un posto preminente per quel che riguarda lo sviluppo delle tecniche
industriali e scientifiche. […] Io credo che noi dovremmo mettere a disposizione
dei popoli pacifici i vantaggi della nostra riserva di conoscenze tecniche al fine di
aiutarli a realizzare la vita migliore alla quale essi aspirano. E in
collaborazione con altre nazioni, noi dovremmo incoraggiare l'investimento di
capitali nelle regioni dove lo sviluppo manca.
Il nostro scopo dovrebbe essere quello di aiutare i popoli liberi del mondo a
produrre, con i loro sforzi, più cibo, più vestiario, più materiali da
costruzione, più energia meccanica al fine di alleggerire il loro fardello. […] Il
vecchio imperialismo - lo sfruttamento al servizio del profitto straniero - non ha
niente a che vedere con le nostre intenzioni. Quel che prevediamo è un
programma di sviluppo basato sui concetti di un negoziato equo e democratico.
Tutti i paesi, compreso il nostro, profitteranno largamente di un programma
costruttivo che permetterà di utilizzare meglio le risorse umane e naturali
del mondo […]».

Come diversi autori hanno sottolineato, questa concezione universalistica e


unilineare che ha impregnato la mentalità occidentale ha significato nel rapporto con
le proprie alterità nient’altro che il disconoscimento di tutte le diversità culturali
e delle complesse visioni del mondo. Tali diversità, espressione di forme diverse di
civiltà, sono infatti sottratte ad una dimensione di coevità rispetto alla civiltà
occidentale e collocate in un “altro tempo”. È quel dispositivo semantico di
negazione della coevità e di allontanamento temporale che gli antropologi
hanno chiamato “allocronismo”.48 Le diversità sono allontanate e ricollocate nello
schema di un'unica storia universale orientata in una stessa direzione, quella appunto
del progresso e del moderno sviluppo capitalistico occidentale. Dunque le altre culture,
le altre forme di vita, le altre forme di organizzazione sociale ed economica non
vengono considerate nella loro compiutezza, diversità, ricchezza ma sono ricondotte a
posizioni arretrate (primitive, sottosviluppate, ritardatarie) in una scala temporale
evolutiva tracciata nel suo percorso della modernità occidentale che si auto-
rappresenta quindi come l'apice della storia. Gli altri popoli e le loro culture divengono
in questa prospettiva “arretrati” e “bisognosi di aiuto” per definizione.
Il giudizio di arretratezza che abbiamo imposto alle nostre alterità e la mentalità
che ci porta a guardare noi stessi come rappresentanti di una civiltà più evoluta ci
spinge a credere che gli altri popoli debbano in fondo imitarci per diventare come noi e
accedere al nostro mondo di benessere. In questa prospettiva diventava necessario
aiutare qui paesi che erano “rimasti indietro” con l'aiuto allo sviluppo e con
l'imposizione di politiche di sviluppo. L’idea dell’aiuto, del dono, dunque non è stato
altro che lo strumento attraverso cui gli esperti occidentali hanno creduto di colmare

48
Su questo tema si veda il classico studio antropologico di Johannes Fabian (2000).
questo gap “temporale” tra “noi” e “gli altri”. In altre parole attraverso il dono si
è cercato e si cerca di rendere gli altri simili a noi. Gli aiuti non sono 117
semplicemente oggetti o beni, ma sono segni, simboli, strumenti performativi, agenti
attivi di colonizzazione culturale. I cooperanti, gli agenti di sviluppo si sono
presentati in questo mezzo secolo come guide verso una liberazione dall’indigenza e
verso la meta ultima dello sviluppo che avrebbe finalmente dato accesso alla
modernità a questi paesi poveri e arretrati. Forti di questa autoinvestitura le élites di
espatriati si sono sentite autorizzate a impiantare in questi paesi mentalità, linguaggi,
valori, progetti presentati come neutri e universali, in realtà profondamente ambigui e
spesso destrutturanti.
Con molte ragioni dunque uno studioso francese, Serge Latouche, nei suoi libri ha
cercato di mostrare come lo sviluppo sia stato fondamentalmente un tentativo di
occidentalizzazione del mondo.
D’altra parte diversi studiosi hanno sottolineato che in molti paesi del sud del
mondo, le politiche di sviluppo sono coincise in gran parte con un processo di
interiorizzazione del giudizio dell’altro. Come ha scritto l’antopologo Marshall
Sahlins:

«Per “modernizzarsi”, il popolo deve prima imparare a deplorare ciò che


possiede, ciò che ha sempre considerato il suo benessere; inoltre deve disprezzare
se stesso, deve biasimare la propria esistenza e conseguentemente desiderare di
essere diverso. […]
L’umiliazione è una fase importante dello sviluppo economico, una condizione
necessaria al “decollo”; il ruolo della vergogna è cruciale, in quanto, per desiderare
i benefici del “progresso”, le sue meraviglie materiali e le sue comodità, tutto
quanto gli indigeni ritengono positivo – il senso della dignità personale e del valore
dei propri oggetti- deve essere screditato» (Sahlins, 1992, pp. 199-200).

Dietro all’adesione alla religione dello sviluppo si cela dunque l’interiorizzazione da


parte del colonizzato dello sguardo del colonizzatore, l’assunzione delle sue idee di
bene e di male, di utile e di inutile, di ricchezza e di povertà.
Tuttavia, afferma, Marshall Sahlins, l’esperienza umiliante e punitiva della
modernizzazione ha prodotto anche una controreazione e una nuova coscienza di sé
da parte delle culture indigene.

«Mi sembra che ora siamo nel bel mezzo di un “movimento culturale”
mondiale di questo tipo: nelle Figi e nel Tibet, in Amazzonia e nell’entroterra
autraliano, nel Kashmir e nel Wisconsin settentrionale, in tutto il mondo, gli
indigeni stanno diventanto consapevoli di quella che chiamano la loro “cultura” e
la difendono. La parola stessa si è diffusia in tutto il pianeta: una prise de
conscience che è sicuramente tra i più notevoli fenomeni della storia mondiale
del tardo XX secolo. I popoli hanno scoperto la loro “cultura”; prima si limitavano
a viverla. Ora la loro “cultura” è un valore conscio e articolato, qualcosa da
difendere e, se necessario, reinventare» (Sahlins, 1992, p. 200).

La diversità culturale non solo non è morta ma continua a riprodursi. A


questo punto è il nostro sguardo, la nostra immagine dell’alterità che è in
discussione. E oggi iniziamo a riconoscere che il nostro rapporto con le alterità
racconta di una cecità e di una rieducazione dello sguardo.
A questo proposito c’è un’antica storia indiana che fa al caso nostro. Conoscete
la storia di Sakuntala? Più o meno dice così:
Un uomo si avventurò una volta nella foresta. Ad un certo punto mentre
camminava, gli si parò dinanzi ai suoi occhi un grosso elefante. Ma l'uomo senza 118
battere ciglio esclamò:
- Qui non c'è nessun elefante.
Mentre l'elefante si allontanava nell'uomo incominciava a farsi spazio qualche
dubbio. Ma solamente dopo aver notato i rami spezzati e le orme sulla terra,
quest'uomo giunse a una diversa conclusione:
- In questo posto c'è stato un elefante.
(Racconto tratto da Il riconoscimento di Sakuntala, 31, rielaborato)

Questa storia può apparirvi strana, ma in realtà descrive molto bene, con molta
efficacia quello che è stato il nostro atteggiamento verso le altre culture e gli altri
popoli.
Per secoli abbiamo detto e continuato ad affermare che in quei paesi, in
quelle culture non c’era civiltà, non c’era sviluppo, non c’era benessere. E
abbiamo imposto la nostra visione dell’accumulazione, della ricchezza, del benessere,
della crescita, dello sviluppo.
Poi ad un certo punto ci siamo accorti che qualcosa non tornava. Non solo molti di
questi paesi non si sviluppavano. Non solo che le disuguaglianze tra nord e sud del
mondo aumentavano, ma addirittura che in molti casi la povertà stava aumentando
drasticamente, sia in termini quantitativi assoluti - il numero dei poveri -, sia in
termini relativi - la percentuale di poveri nei diversi paesi – sia ancora in termini
qualitativi, ovvero la povertà si faceva più drammatica a causa della disgregazione
delle reti di scambio sociale non monetario, l’impoverimento e il degrado delle risorse
ambientali, la diminuzione dei diritti di accesso.
Tuttavia si può notare come le concezioni e il linguaggio stesso implicito nel sistema
istituzionale internazionale ci impedisce la comprensione di questi meccanismi. Ci
impedisce di ridiscutere le idee di povertà e ricchezza.
Cosa dire per esempio dell’abitudine diffusasi prima tra la Banca Mondiale
e le Agenzie delle Nazioni Unite e poi nel mondo della cooperazione di
identificare la povertà con il reddito monetario? Come non vedere in questo già un
violento riduzionismo e un dispositivo di colonizzazione culturale?
Questa equazione - povero = persona che vive con meno di un dollaro al
giorno – presuppone infatti diverse concezioni non esplicitate:
 l’idea che la condizione di miseria in cui versa una parte della popolazione
mondiale sia dovuta ad una carenza di reddito. Rappresentazione che
nasconde invece il problema strutturale della distruzione dei sistemi socio-
economici di sostentamento e riproduzione tradizionali a causa dell’avanzata
dell’economia di mercato che ha reso certe popolazioni dipendenti
dall’esterno e dagli aiuti.
 l’idea che il benessere complessivo di una persona dipenda dal reddito e che la
ricchezza coincida con la ricchezza economica e non quella sociale e
ambientale. Il che non fa che confermare il giudizio negativo sulle forme di
organizzazione sociale basate sulla produzione di sussistenza, sui bassi
consumi e sulle forme di scambio sociale non monetario e sul primato dei
valori conviviali rispetto alla massimizzazione dell’interesse individuale.
 l’idea che la condizione di miseria di queste persone possa essere riscattata
attraverso il trasferimento di risorse economiche e materiali che garantiscano
un aumento della produzione, del consumo e dei redditi. Concezione che
porta immediatamente con sé l’idea che il superamento dello stato di miseria
renda necessaria l’organizzazione di un sistema di distribuzione di aiuti da
parte dei paesi ricchi verso le popolazioni povere.
Il fatto difficile da accettare è che le condizioni di miseria in cui vive una gran
parte della popolazione mondiale non sono il risultato di una condizione di 119
sottosviluppo, ma il risultato stesso delle strategie di sviluppo. Nel tentativo
sistematico di trasformare la logica della reciprocità in quella individualistica e
competitiva dello scambio monetario.
Le politiche di sviluppo concretamente hanno determinato in molti paesi
del sud del mondo la distruzione sistematica delle forme di povertà conviviale
praticate dalle comunità locali svalutando e soppiantando le forme di produzione per la
sussistenza e delle forme di scambio locale per imporre l’imperativo della crescita.
Hanno quindi gettato le basi di un’economia di mercato orientata alla crescita e
all’esportazione, che significa monocolture produttive, economicizzazione della
società e degli scambi sociali, induzione e moltiplicazione dei bisogni, maggiore
dipendenza individuale e sociale dalla produzione, dal reddito monetario e dal
consumo in una competizione di tutti contro tutti che alza le chance di
arricchimento per alcuni mentre condanna alla miseria tutti gli altri.
Qualche tempo fa Vandana Shiva ha risposto all’eonomista america Jeffrey
Sachs criticando il suo famoso libro “La fine della povertà” (Sachs J., 2005) e le sue
ricette per sconfiggere la povertà. Val la pena leggerne insieme alcuni stralci…

«Due dei grandi miti economici del nostro tempo permettono alle persone
di negare questo stretto collegamento e di diffondere interpretazioni scorrette di
cosa sia la povertà.
In primo luogo, per la distruzione della natura e della capacità delle
persone di aver cura di se stesse il biasimo non cade sulla crescita
industriale e sul colonialismo economico, ma sugli stessi poveri. La
malattia viene offerta come cura: più crescita economica, in modo da risolvere gli
stessi problemi di povertà e di declino ecologico a cui essa stessa ha dato inizio.
Questo è il messaggio che sta al cuore dell’analisi di Sachs.
Il secondo mito è l’assunto per cui se tu consumi ciò che produci, non
stai veramente producendo, almeno non economicamente parlando. Se io
mi coltivo il cibo che mangio, e non lo vendo, allora esso non contribuisce al PIL
e perciò non contribuisce ad andare verso la "crescita". Le persone vengono
percepite come "povere" se mangiano il cibo che hanno coltivato anziché il cibo
malsano distribuito dall’agribusiness globale. Sono visti come poveri se vivono in
case che si sono costruiti da soli, con materiali ben adattati ecologicamente come
il bambù ed il fango anziché in blocchi di cemento. Sono visti come poveri se
indossano abiti prodotti con fibre naturali anziché sintetiche.
Queste esistenze "sostenibili", che il ricco Occidente percepisce come
povertà, non si accoppiano necessariamente ad una bassa qualità della
vita. Al contrario, per la loro stessa natura di economie basate sul
sostentamento assicurano un’alta qualità della vita, se questa viene misurata in
termini di accesso a cibo sano ed acqua, identità sociale e culturale robusta e
percezione di un senso nell’essere vivi. Poiché questi poveri non condividono i
cosiddetti benefici della crescita economica, vengono rappresentati come "lasciati
indietro".
La falsa distinzione tra i fattori che creano l’accumulo e quelli che creano
povertà è al centro dell’analisi di Sachs. E per questo motivo, le sue prescrizioni
aggraveranno e renderanno peggiore la povertà, invece di porvi fine. I moderni
concetti di sviluppo economico, che Sachs vede come la "cura" per la
povertà, sono stati presenti solo in un’esigua porzione della storia
umana. Per secoli, i principi del sostentamento hanno permesso alle
società, sull’intero pianeta, di sopravvivere ed anche di prosperare. In
queste società i limiti presenti in natura venivano rispettati, e guidavano
i limiti del consumo umano. Quando la relazione della società con la natura è
basata sul sostentamento, la natura esiste come forma di bene comune. Viene 120
ridefinita come "risorsa" solo quando il profitto diviene il principio organizzativo
della società e produce l’imperativo finanziario allo sviluppo ed alla distruzione di
queste risorse per il mercato.
Sebbene in molti scegliamo di dimenticarlo o di negarlo, tutti i popoli
in tutte le società dipendono ancora dalla natura. Senza acqua pulita,
suoli fertili e diversità genetica, la sopravvivenza umana non è possibile.
Oggi lo sviluppo economico sta distruggendo questi che un tempo erano
beni comuni, dando come risultato una contraddizione: lo sviluppo
depriva le stesse persone che professa di aiutare della loro terra e dei
loro tradizionali sistemi di sostentamento, forzandole a sopravvivere in
un mondo naturale sempre più impoverito.
Un sistema quale è il modello di crescita economica che conosciamo
oggi, crea miliardi di miliardi di dollari di profitti per le corporazioni, nel
mentre condanna milioni di persone alla povertà. La povertà non è, come
Sachs suggerisce, uno stato iniziale del progresso umano da cui
dobbiamo fuggire. E’ lo stato finale in cui le persone cadono quando uno
sviluppo unilaterale distrugge i sistemi ecologici e sociali che hanno
mantenuto la vita, la salute ed il nutrimento dei popoli e del pianeta per
ere.
La realtà è che le persone non muoiono per mancanza di soldi.
Muoiono per mancanza di accesso alla ricchezza dei beni comuni. Qui, di
nuovo, Sachs si sbaglia quando dice: "In un mondo di abbondanza, un miliardo di
persone sono così povere che le loro vite sono in pericolo". I popoli indigeni
dell’Amazzonia, le comunità montane dell’Himalaya, i contadini ovunque le loro
terre non siano state espropriate e la cui acqua e biodiversità non sia stata
distrutta dall’industria agricola creatrice di debito, sono ecologicamente ricchi,
sebbene guadagnino meno di un dollaro al giorno» (Shiva, 2005a).

Sulla stessa linea della Shiva vanno anche le riflessioni di un importante studioso
iraniano che vive in francia, Majid Rahnema. A suo modo di vedere lo sviluppo ha
rappresentato non l’uscita da uno stato di povertà, ma piuttosto una
modernizzazione della povertà (Rahnema, 2005, p. 220), ovvero la trasformazione
della povertà in una condizione di miseria ben più drammatica. La mancanza di soldi
in una società nella quale il denaro rappresenta la principale quando non l’unica forma
di accesso a beni e servizi o addirittura alla possibilità stessa di lavorare, determina
una condizione di emarginazione e privazione ben più radicale di una condizione di
povertà in una società tradizionale. Dunque

non è «aumentando la potenza dei processi di produzione di beni e prodotti


materiali che si potrà porre fine all’infamia – ha scritto Rahnema -, poiché questi
processi sono in realtà i medesimi che producono sistematicamente la miseria»
(Rahnema, 2005. p. XIII).

Le politiche e l’economia dello sviluppo hanno cresciuto assieme la ricchezza e la


miseria. Hanno determinato contemporaneamente una condizione di abbondanza e di
spreco per un verso e di dipendenza e deprivazione per l’altro. In sintesi l’epopea dello
sviluppo non ha portato ad un’uscita dalla scarsità ma addirittura una sua
moltiplicazione.
D’altra parte nelle società tradizionali la maggior parte dei propri bisogni
sono coperti attraverso la ricchezza ecologica, quella sociale e attraverso
l’autoproduzione.
Dunque, dicevo è oggi, di fronte ai risultati delle politiche di sviluppo, che la nostra
arroganza ha iniziato ad andare in crisi il giudizio e la cecità che abbiamo avuto di 121
fronte alle altre culture e civiltà ha iniziato a mutare.
Può sembrare assurdo ma abbiamo iniziato ad avere i primi dubbi sulle
nostre ricette salvifiche quando abbiamo visto la povertà, ovvero uno stile di
vita sobrio e non orientato all’accumulazione, trasformarsi in miseria. Quando
abbiamo visto attorno alle città nascere immense bidonville e le persone perdere la
loro ricchezza ecologica e sociale per dipendere sempre più da un reddito monetario
per tutti ciò di cui avevano bisogno, compresi i servizi, la cura, i beni di base.
Da questo punto di vista è successo – da un punto di vista simbolico – qualcosa di
equivalente alla storia di Sakuntala. All’inizio l’Elefante gli stava di fronte ma lui non
riusciva a vederlo. Si è reso consapevole della sua presenza solamente quando si è
accorto che non c’era più un… elefante.
Allo stesso modo, noi solamente oggi e con grandi resistenze incominciamo a
pensare che le nostre visioni del mondo siano molto parziali, che le nostre conoscenze
siano molto parziali, che le nostre ricette economiche siano oltremodo discutibili.
Che forse – nonostante la retorica degli obiettivi del millennio - non sappiamo bene
come sconfiggere la povertà perché perfino la nostre idea di povertà è ampiamente
distorta dalla nostra ideologia economica.
Da ultimo – a partire da problematiche enormi quale l’esaurimento delle risorse, la
crisi energetica, il riscaldamento climatico, i conflitti ambientali e non ultima la crisi
economica che ci ha investito e che ci catapulterà in un periodo di recessione forzata -
ci stiamo sempre più rendendo conto che la nostra stessa idea di ricchezza – non
solo quella finanziaria – mostra sempre di più le fattezze di un grande fuoco
di artificio. Bello, impressionante, colorato, entusiasmante, ma destinato a spegnersi
o quantomeno a tornare a un livello di sobrietà che fatichiamo ad immaginare.
Siamo nel bel mezzo di una rivoluzione copernicana dal punto di vista culturale e
sociale.

L'economia dello sviluppo (fino agli anni '50)

Ma torniamo un poco indietro e seguiamo la parabola dello sviluppo. Almeno fino agli
anni '50, nel campo dello sviluppo ha dominato l'approccio dell'economia dello
sviluppo. Il fondamento della tradizionale teoria economica, liberale, rappresentava
l'esperienza storica dello sviluppo britannico nel periodo della rivoluzione industriale. Il
modello implicava l'affidarsi alle forze di mercato, ad una industrializzazione graduale,
un adeguato livello di investimenti. accento sul progresso tecnologico, (ma il modello
storico reale, implicava anche il protezionismo nazionale). Vi possono segnalare però
alcune parziali deviazioni da questo modello.
Il modello sovietico si basa su pianificazione, trasferimento risorse dall'agricoltura
all'industria, collettivizzazione settore agricolo, priorità industria pesante, impiego su
vasta scala di tecnologie.
Secondo Joseph A. Schumpeter, autore de La teoria dello sviluppo economico
(1911), il fondamento dell'economia moderna e dello sviluppo è il progresso
tecnologico, poiché solo l'innovazione è in grado di generare profitto.
Il Keynesismo (John Maynard Keynes) a partire dagli anni '30 ha rappresentato
l'ideologia prevalente dello sviluppo. I suoi elementi fondamentali sono la centralità
della domanda aggregata (investimenti e consumi), le politiche di piena occupazione,
e l'intervento equilibratore dello stato.

Concentrandosi a differenza di Keynes più sugli aspetti di lungo periodo gli


economisti Roy Harrod e Evsey Domar negli anni '40 hanno gettato le basi con il loro
modello Harrod-Domar della teoria della crescita. Nell'ottica di questo modello e
dei sue successive versioni il problema era come liberarsi dagli ostacoli e dai legami 122
che impedivano di accedere al processo di crescita. Si trattava di innalzare la
propensione interna al risparmio (l'accumulo del capitale) e quindi di aumentare gli
investimenti poiché questi erano considerati la forza fondamentale e trainante della
crescita economica.
Comune ai diversi approcci di questo periodo era l'idea della necessità di programmi
di investimenti massicci ed equilibrati, con uno sforzo volontario, intensivo e guidato,
come suggerito da varie metafore: la grande spinta (Paul Rosenstein-Rodan), il
decollo (Walt W. Rostow), il grande slancio (Alexander Gerschenkron).

Negli anni '50, W.A. Lewis, per superare la situazione di impasse dei paesi del sud
del mondo (saturazione agricoltura e ad alta disoccupazione), ha suggerito una
strategia di sviluppo finanziata da capitali esteri, Industrializing by Invitation
(dicevano i critici). C'era l'idea che per un certo periodo dovessero necessariamente
coesistere un settore progredito e moderno con uno arretrato tradizionale.
Tra la fine degli anni '40 e gli anni '50 dominò l'idea che il commercio estero
rappresentava il motore della crescita, e che i paesi in via di sviluppo dovevano
specializzarsi nella produzione ed esportazione di quei beni che hanno costi di
produzione inferiori e che risultano per questi più redditizi, idea ottimistica poi criticata
da Hans Singer, Raùl Prebisch e Gunnar Myrdal. Nel 1949, Raùl Prebisch e Hans
Singer formularono simultaneamente la tesi sulla tendenza al deterioramento delle
ragioni di scambio a sfavore dei paesi esportatori di prodotti primari e importatori di
manufatti.

Il paradigma della modernizzazione (primi '60)

Agli inizi degli anni '60 dominava ancora un ingenuo ottimismo basato sull'idea della
inevitabilità della crescita sulla base di adeguati investimenti. Agli anni '60, addirittura
venne dato il nome di "primo decennio per lo sviluppo". Ma se in passato l'economia
dello sviluppo non rappresentava altro che una branca dell'economia applicata ai paesi
del sud del mondo, con gli anni '60 si viene affermando con il paradigma della
modernizzazione, la prima vera e propria teoria dello sviluppo.
Il paradigma della modernizzazione, mantiene un'ottica evoluzionistica lineare,
in cui lo sviluppo rappresenta l'idea di una transizione da una fase tradizionale ad
una fase moderna, ovvero di un processo di imitazione delle nazioni
industrializzate, da parte dei paesi sottosviluppati. Da un punto di vista generale le
politiche di modernizzazione implicano una razionalizzazione e una maggiore efficacia
delle strutture economiche e sociali. Queste teorie hanno un riferimento teorico anche
nella divisione del lavoro e alla differenziazione strutturale di Émile Durkheim. In
queste teorie lo sviluppo è visto come un processo endogeno che realizza le
potenzialità insite in tutte le società, la modernizzazione quindi è un processo
universale tipico di qualunque società umana, piuttosto che un processo storico di
determinate società in determinati momenti. Nella sostanza l'idea della
modernizzazione coincide con quella di occidentalizzazione.
Barrington Moore, in Le origini sociali della democrazia e della dittatura (1966),
ipotizza tre sentieri rilevanti verso la modernizzazione: la rivoluzione borghese classica
(Gran Bretagna), la rivoluzione dall'alto (Germania), e la rivoluzione popolare
(Russia). La teoria di Moore considera soltanto fattori endogeni e non analizza il
sistema internazionale.
Tra i contributi più noti alla teoria della modernizzazione c'è sicuramente la teoria
dei cinque stadi di Walt Rostow (The Stages of Economic Growth, 1960). Secondo
Rostow, il passaggio dallo stato tradizionale a quella che definisce "maturità", si basa
su un processo endogeno che si articola in cinque stadi: 123
1. la società tradizionale;
2. lo stadio precedente al decollo;
3. il decollo;
4. la strada verso la maturità;
5. la società dei consumi di massa.
Nel secondo stadio, eliminate la maggior parte delle caratteristiche delle società
tradizionali, si determinano i prerequisiti economici necessari al decollo. La
produttività agricola viene incrementata rapidamente, e si costruisce una moderna
infrastruttura; nella società si sviluppa una nuova mentalità e la nuova classe sociale
degli imprenditori. Durante lo stadio del decollo la quota degli investimenti netti e dei
risparmi rispetto al reddito nazionale aumenta del 5-10% o più, avviando il processo
di industrializzazione. La tecnologia moderna viene introdotta in alcuni settori guida
che assumono un ruolo trainante per procedere verso la maturità e la lo stadio dei
consumi di massa. La teoria di Rostow ha avuto una notevole influenza negli anni '60.
L'analisi di Alexander Gerschenkron (1962) si distacca da quella di Rostow per
alcuni importanti aspetti. Innanzitutto per Gerschenkron il passaggio della
modernizzazione rappresentava un particolare processo storico e non aveva
requisiti di universalità. Inoltre i prerequisiti di Rostow sono per Gerschenkron le
conseguenze del processo di sviluppo. La fase di decollo chiamata qui "il grande
slancio" (Big Spurt) secondo Gerschenkron può avvenire anche per iniziativa dello
stato che può supplire la mancanza di spirito imprenditoriale, di capitali. Inoltre
nell'analisi di Gerschenkron il contesto internazionale rappresenta un importante
fattore causale, poiché l'importazione di tecnologia può costituire un vantaggio per
lo sviluppo.
D'altra parte si rese evidente che le difficoltà per l'avvio di processi di crescita
economica erano dovute non solo a bassi redditi e bassi investimenti ma anche a
problemi nel sistema decisionale, politico, imprenditoriale, amministrativo. Cercando
di introdurre un approccio più realistico e pragmatico, Albert O. Hirschmann, negli
anni '50 propose una strategia di crescita non equilibrata, (The strategy of
economic Development, 1958) basata su poli di crescita. L'approccio di Hirschmann
partiva dall'idea che si dovesse deviare dalla strada seguita dai paesi industriali per
inventare sequenze nuove orientate anche a rovescio. Hirschmann si sforzava di
rivelare eventuali "razionalità occulte", e di individuale "connessioni a monte e a
valle" e "costellazioni di connessioni".
Fra i critici della modernizzazione, si può citare Fernando Henrique Cardoso
(1969, con Faletto) che sottolinea l'insufficienza esplicativa dei concetti di tradizione e
modernità, e il loro collegamento con i diversi stadi dello sviluppo. Il dipendentista
cileno Osvaldo Sunkel criticava il modello sottostante a queste teorie in cui
l'economia capitalistica era vista come obiettivo degli sforzi dello sviluppo e le nazioni
sottosviluppate venivano interpretate come stato anteriore e imperfetto. Secondo
Sunkel, che propugnava un approccio più storico, le caratteristiche del sottosviluppo
dovevano essere viste come conseguenze normali del funzionamento di un
determinato sistema. Il basso reddito, la crescita moderata. disoccupazione,
dipendenza, mocultura, marginalizzazione culturale, economica, politica non erano
deviazioni dal modello ma derivavano dal normale funzionamento del capitalismo
internazionale. Per cambiare lo stato delle cose bisognava dunque attaccare non i
sintomi ma gli elementi strutturali del sottosviluppo. Secondo André Gunder Frank
(Sociologia dello sviluppo e sottosviluppo della sociologia, 1969), il sottosviluppo
non era uno stadio iniziale, ma piuttosto una condizione creata. Frank notava che
l'analisi di Rostow faceva riferimento alla statica comparata e non alla dinamica e che
nessun paese sottosviluppato era mai riuscito a svilupparsi lungo gli stadi di Rostow;
ricordava infine il viscerale anticomunismo che sottintedeva alle sue analisi. Dopo
questi e altri attacchi, il paradigma della modernizzazione, con suo sfrontato 124
etnocentrismo, è caduto in disgrazia.
Infine Dudley Seers in un articolo intitolato "The Limitation of the Special Case",
1963 sollevava l'idea che la teoria economica tradizionale sarebbe valida solo per
l'occidente capitalista industrializzato: "l'economia è lo studio dell'economia", differenti
economie, differenti analisi teoriche.

L'Approccio della dipendenza (dependencia) (anni '60)

L'approccio della dipendenza si forma negli anni '60 dalla convergenza di due
percorsi, il neomarxismo e le discussioni latinoamericane sullo sviluppo in particolare
nella tradizione della CEPAL.
Nell'approccio neomarxista, in particolare di Paul Baran (The Political economy
of Growth, 1957) l'imperialismo (al contrario di Marx) era visto come il principale
nemico del capitalismo. Il sottosviluppo era visto come un processo continuo e non
solo come uno stadio iniziale e l'alleanza neocoloniale feudale-imperialista
(coincidenza degli interessi delle classi dominanti interne e internazionali) nei paesi del
sud del mondo costituiva la causa principale e più grave che ostacolava lo sviluppo.
Sulla linea di Baran si colloca anche il contributo di André Gunder Frank
(Sociologia dello sviluppo e sottosviluppo della sociologia, 1969), secondo cui il
sottosviluppo non era uno stadio iniziale, ma piuttosto una condizione creata; a
titolo di esempio citava la deindustrializzazione dell'India praticata dalla Gran
Bretagna, e gli affetti distruttivi del traffico degli schiavi per le società africane e la
distruzione delle civiltà indiane in America centrale e meridionale. Frank parlava
dunque si sviluppo del sottosviluppo. Il concetto di dipendenza di Frank si basava
sul modello metropoli-satelliti, l'idea che, ad ogni livello, una minoranza di
capitalisti sfruttava una maggioranza sottostante rendendola dipendente per
mancanza di accesso alle risorse.
La seconda tradizione all'origine dell'approccio dipendentista, viene dalla
discussione latinoamericana sul sottosviluppo che ha visto impegnati autori quali Raùl
Prebisch e Fernando Henrique Cardoso (attuale presidente del Brasile). In questa
discussione un ruolo fondamentale è stato giocato dalla CEPAL (Commissione
Economica per l'America Latina), fondata a Santiago del Cile nel 1948. La CEPAL
ha elaborato una dottrina che all'epoca fu considerata rivoluzionaria o utopistica. Da
un punto di vista dell'analisi, elaborava un modello, il sistema centro-periferia che
contrastava la visione ingenua e ottimistica delle relazioni e degli scambi
internazionali. Secondo questo sistema, a causa delle tendenze di lungo periodo sulle
ragioni di scambio, dell'asimmetria politica e dei fattori tecnologici, le nazioni centrali
si avvantaggiavano degli scambi commerciali, mentre le nazioni periferiche ne erano
danneggiate. Dal punto di vista della strategia di sviluppo, la dottrina della CEPAL
enfatizzava l'industrializzazione per mezzo della sostituzione delle
importazioni, la pianificazione con un generico intervento statale di coordinamento,
integrazione regionale, e un certo protezionismo nella fase iniziale dello sviluppo.
Ideologicamente, la dottrina si inseriva nella tradizione del nazionalismo economico.
Per industrializzazione per sostituzione delle importazioni, si intendeva che
l'importazione dei vari articoli di consumo doveva essere sostituita dalla produzione
interna.
Negli anni '50-'60, molti paesi dell'America Latina hanno accolto la dottrina della
CEPAL come l'appropriata strategia di sviluppo. Ma dopo un periodo di iniziale
successo si sono evidenziati i problemi e le contraddizioni di questa strategia.
Innanzitutto il processo industriale richiedeva degli imputs d'importazione tecnologici
e finanziari che creavano una nuova forma di dipendenza. Inoltre vista l'esigua
distribuzione dei redditi in America Latina la domanda di manufatti era esigua e veniva
soddisfatta velocemente arrestando il processo di crescita. 125
L'approccio della dipendenza è sfociato in una pluralità di scuole della dipendenza
con sottolineature più economiche, culturali o politiche tra cui va ricordata l'idea dello
sganciamento - de-linkage - dell'egiziano Samir Amin). Ad ogni modo comune a
tutti gli approcci dipendentisti, era l'idea che le economie di un gruppo di paesi siano
condizionate dallo sviluppo e dalla espansione delle altre. La divisione internazionale
del lavoro, analizzata in termine di relazioni interregionali, qui è vista come un
ostacolo allo sviluppo. In sostanza poiché la periferia vien spogliata del suo surplus
sviluppo e sottosviluppo, sono processi correlati, contrariamente all'idea della
modernizzazione. Poiché la periferia è condannata al sottosviluppo a causa del suo
legame col centro si ritiene indispensabile che un paese alla periferia si stacchi
dall'economia mondiale e faccia affidamento sui suoi mezzi, tramite una
trasformazione politica più o meno rivoluzionaria. Da notare che rispetto alla
concettualizzazione dello sviluppo, la differenza tra i dipendentisti e i modernizzatori la
differenza è esigua.
Ma già alla fine degli anni '70 la teoria della dipendenza viene sottoposta a
numerose critiche e viene lentamente abbandonata. Secondo queste critiche infatti,
oltre alla mancanza di influenza pratica, la teoria della dipendenza, non chiarisce l'idea
di sviluppo e non ne fornisce una adeguata teoria, i concetti di centro e periferia non
sono che inversioni polemiche del dualismo tradizione.modernità, la teoria tende ad
essere economicistica, le cause ultime del sottosviluppo non sono identificate. Inoltre
anche la distinzione tra paesi dipendenti e non dipendenti risulta particolarmente
problematica, e l'idea di una gradazione della dipendenza scolora il senso polemico
della teoria. Infine alcuni paesi del sud del mondo si stanno industrializzando
velocemente contraddicendo le previsioni dei dipendentisti. Ad ogni modo il
dipendentismo ha in parte demolito l'idea di progresso come processo automatico e
lineare.
Le riflessioni dei dipendentisti hanno comunque mutato il clima culturale e politico.
Nel 1974, durante la sesta sessione straordinaria dell'assemblea generale delle
Nazioni Unite, le pressanti richieste di cambiamenti strutturali nei meccanismi
dell'economia e del commercio internazionale diedero vita, su iniziativa del presidente
algerino Houari Boumedienne, alla "Dichiarazione per la costituzione di un
Nuovo Ordine Economico Internazionale" NOEI. Tra le richieste c'erano la
stabilizzazione dei prezzi, l'aumento dell'assistenza, cambiamenti nel sistema
monetario, trasferimento di tecnologia. La novità veniva dal comportamento fermo e
ben coordinato dei paesi del Sud. Lo sviluppo diventava l'argomento prioritario
sull'agenda internazionale.
Negli anni '70 prendendo nota di una crescita che non ha prodotto sviluppo ma al
contrario maggiori povertà, si insiste sulla connessione tra crescita economica e
distribuzione del reddito, H. Chenery, indica una nuova strategia, la "ridistribuzione
con crescita" (Redistribution with Growth, 1974). Ma sembra una riedizione della
vecchia ricetta della crescita equilibrata.

L'approccio dell'Interdipendenza (anni '70)

Come abbiamo visto l'approccio della modernizzazione metteva l'enfasi sulle forze
endogene, mentre l'approccio dipendentista su quelle esogene. Ma nel mondo reale i
paesi dipendono tutti dal sistema a cui appartengono, pur essendoci diverse forme e
gradi di dipendenza, in questo senso essi sono tutti reciprocamente interdipendenti.
Da una parte il concetto di interdipendenza suggerisce l'introduzione di alcuni
elementi che arricchiscono la complessità dell'analisi (la rivalità tra paesi del centro,
l'industrializzazione di alcune periferie e la deindustrializzazione di alcune zone del
centro, l'emergere di potenze regionali quali il Brasile e l'India). Dall'altra rimanda una 126
certa ambiguità mettendo tutti su una stessa barca e tralasciando di sottolineare le
differenze di situazione.
All'affermazione dell'idea di interdipendenza hanno contribuito sia la Conferenza
dell'0NU sull'ambiente del 1972 che ha posto l'accento sul fatto che i sistemi
ecologici non conoscono confini nazionali, sia le richieste di un riformismo globale per
un NOEI, sia il rapporto della commissione Brandt in cui interdipendenza era la
parola chiave. Inoltre la crisi petrolifera-energetica del 1973 ha ricordato
l'importanza dell'energia a basso prezzo nello sviluppo dell'industria occidentale, e ha
sancito un punto di svolta e di non ritorno sottolineando l'esauribilità delle risorse
naturali e la vulnerabilità del sistema industriale occidentale. Negli anni '70 si
determinano i primi cambiamenti: modelli di investimento e flussi finanziari; gli
sviluppi tecnologici; la localizzazione della produzione industriale; l'industrializzazione
di alcuni paesi del sud (Messico, Brasile, Nigeria, Costa d'Avorio, Kenya, Hong Kong,
Singapore, Corea del sud, Taiwan).
All'interno dell'ottica della Interdipendenza che si sviluppa negli anni '70 si colloca
l'approccio del sistema-mondo (The modern World System, 1974-1980) di
Immanuel Wallerstein. Wallerstein ritiene che l'economia mondiale sia capitalistica
e che comprendo gran parte della terra abbia dato luogo ad un complesso sistema di
relazioni funzionali. Nel sistema di Wallerstein non ci sono solo stati centrali e stati
periferici, ma anche stati semi-periferici, con una gerarchia delle mansioni
occupazionali (le periferie vedono declinare il settore manifatturiero per trasformarsi
in fornitori di materie prime per il centro). Tuttavia egli non distingue tra sviluppo e
sottosviluppo o tra capitalismo centrale e periferico. Esiste un solo tipo di capitalismo
ovvero un unico sistema mondiale di scambio capitalistico. Tanto l'Europa che
l'Africa hanno fatto parte da un certo momenti di un sistema mondiale che ha
determinato il loro sviluppo. Dunque i singoli paesi non hanno una reale autonomia.
Nel senso che le alternative alle singole parti sono poste dal sistema. Wallerstein,
abbandona l’unità di analisi dello “stato sovrano” o della “società nazionale” partendo
dall’idea che l’unico vero sistema sociale era il sistema mondo. L'analisi di tipo
unidisciplinare (una scienza sociale storica sopra le varie discipline) quindi deve partire
dal funzionamento dell'insieme del sistema. In questo Wallerstein si allontana dalle
precedenti interpretazioni marxiste e liberali etichettate come sviluppiste e di cui
critica la logica degli stadi evolutivi. In Wallerstein il punto di vista della dipendenza è
conservato come spiegazione del processo di sottosviluppo. Ora il processo di
sottosviluppo delle nazioni deve continuare fino alle sue estreme conseguenze, finché
non si creino i presupposti di una trasformazione rivoluzionaria del sistema
mondiale per creare con un unico governo mondiale (un sistema mondiale
socialista). La futura scomparsa del sistema capitalista è l’unico modo per superare
l’attuale stato di divisione ineguale della risorse mondiali. Fino all’incontro con le teorie
di Ilya Prigogine sulle strutture dissipative, Wallerstein manterrà questo approccio
teleologico.
A partire dal XV secolo inizia a formarsi un’economia mondiale dell’Europa di tipo
nuovo che via via arriva a coprire il globo. Si definisce “sistema-mondo” perché
trascende le unità politiche ed “economia mondo” (l’espressione è di Fernand Braudel)
perché il legame fra le parti è in primo luogo economico. Il sistema-mondo è definito
come «una struttura sociale dotata di confini, strutture, gruppi, regole di
legittimazione e coerenza». Si tratta di un’entità economico materiale autonoma
basata su una vasta divisione del lavoro e caratterizzata al suo interno da una
molteplicità di culture.
Critiche all'approccio del sistema mondiale sono venute anche da autori
neomarxisti, secondo i quali il concetto di “modo di produzione” risulta vanificato in
un'analisi del sistema mondiale. Il capitalismo invece si articola in svariati modi di
produzione (anche non capitalistici: asiatico, antico, feudale, coloniale, domestico, 127
agricolo, ecc.) che danno luogo a diverse formulazioni sociali.
Il limite dell’impostazione di Wallerstein sembra essere nella sua lettura
principalmente economica che non riconosce i presupposti culturali e sociali
dell’economizzazione del mondo e nemmeno capisce che l’opposizione alla dittatura
delle logiche capitalistiche di mercato può essere fatta solo a partire da una lettura
critica non economica di questi cambiamenti. Se il quadro di lettura è economico, la
moleplicità di culture che Wallerstein vede presenti nel sistema mondo, diventa in
realtà una molteplicità di folclori, che escludono le vere alterità culturali. Perché come
si sa dopo Polanyi, la prima vera differenza tra la cultura occidentale e le altre è il
ruolo e la posizione dell’economico rispetto al sociale (anche se ultimamente
Wallerstein ha rivisto la centralità della cultura come campo di battaglia ideologico del
sistema mondiale). Il sistema mondo è ancora una lettura occidentalizzante. Tuttavia
recentemente Wallerstein ha sottolineato che la crisi sistemica in atto sancisce la
definitiva obsolescenza del paradigma del liberalismo, con i sui corollari dello stato-
nazione, dello sviluppo, dell’universalismo, del razzismo-sessismo ecc…
Il rapporto della commissione Brandt (North-South: A programme for Survival,
1980), si basa esplicitamente sul concetto di interdipendenza. La filosofia del rapporto
è che al fine di evitare un processo di polarizzazione, i paesi ricchi propugnano il tema
della interdipendenza. In termini di strategia dello sviluppo, il rapporto esprime un
"keynesismo globale": la soluzione della povertà mondiale, passa attraverso un
massiccio trasferimento di risorse dal nord al sud.

La ricerca di uno sviluppo diverso o alternativo

Verso la metà degli anni '70 visti gli scarsi successi delle teorie e delle strategie
tradizionali dello sviluppo, si fa strada un nuovo atteggiamento basato su un
approccio normativo allo sviluppo. Si tratta di approcci che esaminano lo sviluppo
non sulla base di come si manifesta ma in base a ciò che dovrebbe essere. Spesso
tuttavia la mancanza di distinzione tra approcci normativi e positivi è fonte di
confusione intellettuale. La tendenza utopistica nella teoria dello sviluppo si
concretizza nel concetto di Sviluppo diverso, popolarizzato dal Rapporto della Dag
Hammarskjöld Foundation (What Now del 1975). Il dossier dell'International
Foundation for Development Alternatives (IFDA), parla invece di sviluppo
alternativo. Secondo la dottrina dello sviluppo della Dag Hammarskjöld Foundation,
uno sviluppo diverso dovrebbe essere definito come:
-orientato verso i bisogni (soddisfare i bisogni umani
materiali e non materiali).
-endogeno (derivante dall'interno di ciascuna società e
che stabilisce autonomamente i propri valori.
-che fa perno sulle proprie forze (fare affidamento
sulle proprie forze, risorse e potenzialità).
-ecologicamente valido (utilizzo razionale delle risorse,
consapevolezza dei limiti naturali)
-basato su trasformazioni strutturali (per realizzare
autogestione e la partecipazione al processo decisionale)

Un primo paradigma dello sviluppo alternativo è fornito dal concetto di Self-


reliance (SR), avanzato da Julius K. Nyerere nella Dichiarazionedi Arusha (1967). La
popolarità di questo approccio si basa sul successo del paradigma della dipendenza.
Un riferimento storico potrebbe essere individuato nella concezione dello sviluppo
gandhiano. IL concetto del contare sulle proprie forze è stato portato sulla scena
internazionale dai paesi non allineati nel loro incontro di Lusaka del 1970. La Self-
reliance implica una fiducia nei propri mezzi, il fare affidamento innanzitutto sulle 128
proprie risorse umane e materiali, e un'autonomia decisionale sugli obiettivi
desiderabili. Tuttavia la SR è un rimedio alla diseguaglianza solo se questa dipende da
interazioni esterne altrimenti risulta dannosa. Inoltre un completo ritiro o
indipendenza dall'ordine economico internazionale è un opzione poco realistica per la
maggior parte dei paesi. La SR non coincide necessariamente con l'autarchia, quindi si
pone qui un problema di grado e di misura. C'è innanzitutto una certa ambiguità del
termine: si tratta di autosufficienza o autosussistenza? Riguardo alla seconda, si può
notare una radicale contraddizione (conflitto) tra una politica di cultura di sussistenza
e le logiche di una integrazione economica mondiale. Se si promuove questa, si deve
rinunciare ad una posizione e ad un ruolo competitivo nel mercato internazionale.
Riguardo alla seconda può evidenziare un conflitto tra questa e le grandi tendenze
della dinamica economica e culturale transnazionale, che rende oggi, una politica di
autosufficienza, specie per i paesi più deboli sarebbe difficile da sostenere di fronte
alle pressioni esterne. La Self-reliance sembrerebbe indicare dunque l'idea di una
partecipazione selettiva al sistema internazionale.

Un secondo paradigma dello sviluppo alternativo è costituito dall'approccio dei


bisogni fondamentali o Basic Needs (BD) particolarmente sostenuto
dall'International Labour Organisation (ILO) dal 1976, ma avanzato anche da
Robert McNamara del 1972. L'idea dei basic needs si è in gran parte sviluppata nelle
esperienze del terzo mondo, ad esempio dei dipendentisti latinoamericani. I
partecipanti alla conferenza su World Employment organizzata nel 1976
dall'International Labour Organisation, hanno adottato una Dichiarazione di principi e
Programma di azione per una strategia di sviluppo umano basata sui Basic Needs.
L'idea di bisogni fondamentali si può basare su interpretazioni oggettivistiche o
soggettivistiche e storicistiche dei bisogni. Si possono comunque distinguere un
approccio dei bisogni materiali fondamentali (ABMF) che fa riferimento ai
bisogni indispensabili per la riproduzione fisica e un approccio dei bisogni umani
fondamentali (ABUF) che si occupa dei valori sociali nelle differenti culture. Da un
punto di vista pratico, l'approccio sembra indicare nei programmi di sviluppo una
qualche forma di garanzia per i gruppi sociali più deboli. Da un punto di vista
normativo, l'approccio dei Basic Needs suggerisce uno sviluppo degli individui
piuttosto che delle cose.
Tuttavia l'approccio e la nozione stessa dei Bisogni Fondamentali si basano su una
visione naturistica del tutto discutibile. Come notava M.me de Stael: <<Il necessario
ha qualcosa di rivoltante, quando a misurarlo sono i possessori del superfluo>>.
Inoltre la politica dei bisogni fondamentali può essere anche molto pericolosa, perché
una volta che questi pretesi tali venissero soddisfatti (se intendiamo cibo,
abbigliamento, alloggio), che ne sarebbe delle rivendicazioni di dignità, di
riconoscimento, di status, di identità? Non ha senso semplificare o circoscrivere la
ricchezza indivisibile della vita umana attraverso la selezione di presunti bisogni
fondamentali. Secondo le ricerche condotte da Ivan Illich l'idea di bisogno appare
nell'Europa cristiana del periodo carolingio, nel campo religioso: si teorizzò che per il
suo cammino spirituale, il popolo dei fedeli avesse bisogno di esperti (il clero) che lo
guidassero verso la salvezza. L'idea di bisogni universali e fondamentali, sembra
andare fin dalla nascita in direzione di una negazione delle possibilità e risorse
personali, e della possibilità di autogestione della propria esistenza.

La presa di coscienza ecologica degli anni '70 ha portato all'elaborazione di un terzo


paradigma dello sviluppo alternativo, quello dell'Ecosviluppo. All'origine di questo
paradigma c'è la consapevolezza in contrapposizione ai paradigmi tradizionali, della
finitezza ed esauribilità delle risorse naturali e quindi lo spettro della scarsità.
L'esauribilità delle risorse implica l'idea di "limiti della crescita e dello sviluppo". Il 129
primo rapporto allarmistico sui limiti fisici della crescita è stato quello del 1972 del
System Dynamic Group del Mit al Club di Roma (I limiti dello sviluppo), che ha
posto le basi della discussione degli anni '70. Gli autori del rapporto (tra cui Jay
Forrester autore del modello dinamico di analisi e Dennis Meadows che ha guidato i
lavori del gruppo) puntavano il dito sulla probabilità di un collasso del sistema di
sviluppo mondiale se questo continuasse con lo stesso trend esponenziale nell'uso
delle risorse, nell'aumento della popolazione, nell'inquinamento e negli investimenti
per la produzione di beni materiali. Ma l'ossessione per i limiti fisici rappresentava
anche la principale debolezza del rapporto. Ad ogni modo l'approccio ecologico
suggerisce di analizzare lo sviluppo come un processo coinvolgente tanto le società
quanto l'ambiente. La realtà dello sviluppo non ha mai tenuto conto delle sue
implicazioni ecologiche. Questo dovrebbe portare ad un maggior relativismo storico
nel affrontare il principio della crescita.
Il tentativo di mediare tra il culto della crescita e l'ecologismo costiuisce il nucleo
delle riflessioni di Ignacy Sachs su concetto di ecosviluppo. La nozione di
ecosviluppo, proposta da Maurice Strong alla conferenza sull'ambiente delle nazioni
unite del 1972, è stato sviluppato e popolarizzato da Sachs secondo cui l'ecosviluppo è
un tipo di sviluppo che, in ciascuna ecoregione, richiede specifiche soluzioni per
particolari problemi regionali alla luce dei dati culturali ed ecologici nonché dei bisogni
immediati e di lungo periodo. Di conseguenza agisce in base a criteri di progresso che
sono peculiari a ciascun caso e ambiente particolare. Questo approccio rappresenta
una sfida al paradigma della modernizzazione più radicale di quello della dipendenza.
Non vi è più nessun modello da copiare, ma ciascun paese o regione deve partire dalla
propria specificità. Non esiste uno sviluppo di per sé ma solo lo sviluppo di qualcosa.
Dunque una strategia di ecosviluppo è composta da elemtni specifici e non universali.
Purtroppo l'ecosviluppo ha un solo difetto, nel mondo moderno non s'è mai visto.
Una variazione del'ecosviluppo è costituita dall'idea di uno sviluppo sostenibile o
durevole, entrata nell’uso comune con la presentazione del Rapporto della
Commissione Brundtland (1988) Our Common Future (il Futuro di noi tutti). In
questo caso la sensibilità ecologica si connette con la preoccupazione per le
generazioni future. Lo sviluppo sostenibile si basa sull'idea di mantenere un certo
equilibrio nell'utilizo delle risorse naturali per garantire la soddisfazione dei bisogni
dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di soddisfare
i lori. Quindi si proporne il principio di un'eguaglianza di possibilità tra le generazioni
presenti e quelle future. La consapevolezza di limiti ecologici spinge dunque verso uno
sviluppo equilibrato che rende possibile una sua riproduzione nel tempo.
Nel caso di questi approcci ecologici, il rischio è di aggiungere posticciamente limiti
e criteri ad un paradigma che si è costruito, realizzato ed imposto su una logica
completamente estranea a questi valori, o mentalità. La stessa idea di progresso,
come ha notato Remo Bodei nasce nel XVII sec., nel momento in cui si avverte che il
bilancio tra distruzione della natura e capacità di creazione dell'uomo si sposta a
favore dell'uomo. L'idea di un progresso lineare è legata dunque al dominio sulla
natura. Inoltre da un punto di vista pratico, l'idea di una socialità alternativa,
armonica dal punto di vista ambientale e sociale, si pone in conflitto con gli imperativi
della competizione, del profitto, del produttivismo, del consumismo, del
quantitativismo.

Nella ricerca di uno sviluppo alternativo si è parlato anche di Tecnologie


appropriate. Ma appropriate a che scopo? Se si risponde che dev'essere appropriata
ai bisogni dei paesi locali, si deve anche dire come si fa a identificarli e come si fa a
decidere che cose è appropriato e funzionale. In certi settori oltretutto,
particolarmente quelli che non erano presenti nelle organizzazioni tradizionali, ad
esempio l'automobilistico, l'areonautico, l'elettronico ecc., è difficile parlare di 130
tecnologie appropriate, e perfino di tecnologie intermedie. Inoltre difficilmente le
tecnologie appropriate potranno reggere la sfida della competizione. In realtà
l'approccio delle tecnologie appropriate non ha condotto alcuna analisi approfondita
della società tecnica, dei suoi presupposti, delle sue logiche, dei suoi valori latenti,
delle sue culture, delle sue compatibilità, delle forme relazionali che sottende, dei suoi
effetti, e delle sue conseguenze. Una tecnica diversa acquisterebbe il suo significato
soltanto in una società alternativa, con una diversa logica, con diversi valori, con
diversi obbiettivi.

Un ultimo paradigma dello sviluppo alternativo è quello dello Sviluppo Umano,


sostenuto in particolare dal programma per lo sviluppo delle nazioni unite che, a
partire dal 1990, pubblica annualmente un rapporto sullo sviluppo umano, ogni volta
approdondendo un aspetto differente. L'ultimo rapporto, quello del 1996, esplora il
rapporto tra crescita economica e sviluppo umano. L'approccio dello sviluppo umano si
basa sulle riflessioni dell'economista indiano Amartya Sen e sulla sua nozione di
Capability, come opportunità di scelte di azione, tra diversi "funzionamenti"
(functionings) che una persona può conseguire (Il tenore di vita). In base a questa
impostazione, nella prospettiva dello sviluppo umano, la crescita economica non è più
un fine in sé. Essa è un mezzo ed un fine in quanto ampia le possibilità di scelta delle
persone, e in tal senso dovrebbe essere valutato il suo impatto sulle persone. Per la
valutazione si fa riferimento a degli indicatori di sviluppo umano (HDI), l'aspettativa di
vita e il tasso di alfabetizzazione che vengono mediati con il prodotto nazionale lordo
pro-capite. Purtroppo non tutto è quantificabile e indicizzabile siamo sempre in un
approccio riduttivista.

Hirsch e Hirschmann

Le riflessioni di Fred Hirsch, nel suo I limiti sociali allo sviluppo (1976)
costituiscono un percorso teorico originale e difficilmente inquadrabile. Secondo Hirsch
i legami di reciprocità durkheimiani, servono da premessa per il decollo dello sviluppo,
di cui dovrebbero poi garantire la perpetuazione; ma è lo sviluppo stesso, che con la
su morale individualistica e utilitaristica, e con un processo di feed-back produce la
distruzione di quei legami. In altre parole la cultura utilitaristica, funzionale allo
sviluppo, affermandosi distrugge le proprie fondamenta culturali e sociali. Per Hirsch
l'etica del successo può garantire quanto promette soltanto inizialmente, allorché
viene perseguita da pochi (se l'atteggiamento competitivo è poco diffuso infatti
costoro non faticheranno a prevalere sugli altri); ma il successo esemplare di quei
pochi diffonderà l'atteggiamento competitivo. Quando i concorrenti diventano
numerosi, il successo è garantito a pochi e soprattuto ai primi. Quando la
competizione diventa universale, le opportunità che garantiscono il successo si
riveleranno inefficenti se concesse a tutti. Dunque la competizione si farà più feroce.
Quando l'etica del successo si è completamente diffusa si rende desueto il rispetto
delle regole morali fondamentali e causa l'abbandono pratico delle norme
solidaristiche di integrazione e controllo sociale. Lo sviluppo per Hirsch non è costituito
da una soglia ma da da una posizione relativa. La logica dello sviluppo nel mercato è
selettiva e posizionale e riguarda il potere d'acquisto. L'avanzamento generale è solo
un illusione. Promesso a tutti si realizzerà necessariamente solo per pochi (come il
bastone del maresciallo dei soldati di napoleone). Per Hirsch lo sviluppo produce
fenomeni di congestione, e una disorganica scarsità sociale; la continua competizione
è fonte infatti di spreco sociale e di crescente frustazione. Ma ad un certo punto la
situazione diventa talmente complessa che l'analisi costi benefici su cui si basa gran
parte dell'agire strumentale dei ciascun individuo singolo, non funziona più; il risultato
si rivela minore di quello ottenibile perseguendo un interesse collettivo. 131

Un'approccio a parte è costituito dal ripensamento teorico dell'ultimo Albert O.


Hirschmann, che nel suo Ascesa e declino dell'economia dello sviluppo (1983)
contesta qualsiasi ipotesi sinottico-riduttiva di stampo macro-evoluzionistico, qualsiasi
forma di determinismo unilineare e riduttivista. Hirschmann sostiene che la
retroazione e gli effetti perversi intercorrenti tra una catena di fenomeni e l'altra siano
tali e tanti che l'effettiva prevedibilità di un singolo passaggio di mutamento non
garantisce in alcun modo la prevediblitià del processo di sviluppo nel suo complesso:
Hirschmann ritiene dunque insostituibile un ruolo autonomo del decisore politico.
Ad ogni modo, come ammette lo stesso autore, vista in prospettiva la sua posizione e
il suo dissenso avevano la natura di un'obiezione interna al generale movimento di
idee legato all'economia dello sviluppo.

In sintesi possiamo notare che, secondo tutte le teorie economiche moderne, vi


sono alcuni fattori specifici che influenzano lo sviluppo: l'aumento della popolazione,
l'accumulazione di capitali (insieme dei mezzi di produzione) e il progresso
tecnologico.

Sviluppo alternativo o alternative allo sviluppo? ('80-'90)

Negli anni '80 e '90, sulla scia da una parte dell'antropologia economica di
Marcel Mauss, Karl Polanyi, Marshall Sahlins, Luis Dumont, dall'altra dell'analisi
storico filosofica di Ivan Illich, il dibattito sullo sviluppo ha iniziato a registrare una
crescita sia al nord che al sud di quelle posizioni radicali, che attaccano l’ideologia
stessa dello sviluppo arrivando a reclamare in alcuni casi il diritto al non sviluppo.
Ivan Illich ha contrapposto al mito dello sviluppo l’immagine di una società
conviviale; Nicholas Georgescu-Roegen ha mostrato con la sua teoria
bioeconomica che il processo di crescita e di sviluppo economico illimitato è in
contrasto con le leggi dell’entropia e dunque non può essere sostenibile; François
Partant ha dichiarato la “fine dello sviluppo” e ha invitato a cercare nuove
alternative; Fred Hirsch ha mostrato così acutamente i limiti sociali allo sviluppo, i
paradossi della crescita e la necessità del superamento di un approccio
individualistico; Gilbert Rist ha suggerito di guardare allo sviluppo come a una
moderna credenza e ha lanciato l’invito a uscire dalla religione dello sviluppo; Serge
Latouche ha avanzato la critica dello sviluppo come processo di sradicamento
culturale e di occidentalizzazione del mondo e ha ripreso il concetto Roegeniano di
Decroissance; Wolfgang Sachs ha sostenuto che l’articolo "sviluppo" sia da confinare
in una dimensione archeologica, ha suggerito di puntare verso forme di economia e di
benessere più “leggere”. Ci sono poi anche intellettuali del sud del mondo come
l’indiana Vandana Shiva con la sua critica dello sviluppo come prodotto di una
cultura patriarcale legata alla passivizzazione della donna e della natura, e con le sue
lotte a difesa delle biodiversità, e ancora l’iraniano Majid Rahnema e la sua critica
alla concezione occidentale della povertà, il catalano Joan Martinez-Alier e la sua
riflessione sull'economia ecologica e sull'ecologia dei poveri, il messicano Gustavo
Esteva interprete delle lotte popolari e contadine, il colombiano Arturo Escobar con
la sua analisi integrata delle teorie del post-sviluppo e l’elenco potrebbe continuare.
Anche in Italia si è andato ampliando negli ultimi anni lo schieramento di studiosi/e
che hanno preso posizione contro lo sviluppo. E tuttavia nella maggioranza della gente
in Occidente c’è una forma di difesa del paradigma dello sviluppo nonostante le sue
contraddizioni e i suoi risultati, probabilmente dovuta alla paura di abbandonare un
riferimento ideale per quale si è tanto impegnati, si è tanto lottato, si è tanto
sacrificato. Abbandonare il mito dello sviluppo significa confrontarsi con il senso di
vuoto, di spaesamento, di mancanza di prospettive. La questione centrale è dunque 132
proprio l’abbandono per svuotamento dell’immaginario economico dominante, e la
riconquista di uno spazio politico che permetta il confronto sul senso e sulle direzioni
della vita sociale compresi gli aspetti economici.
«La principale minaccia alla diversità – ha scritto Vandana Shiva – deriva
dall’abitudine a pensare in termini di monocolture, quelle che io chiamo “monocolture
della mente”. Le monocolture della mente cancellano la percezione della diversità e
insieme la diversità stessa. La scomparsa della diversità fa scomparire le alternative e
crea la sindrome della “mancanza di alternative”» (SHIVA, 1995, p.5). Insomma la
distruzione delle diversità naturali e umane incomincia nella povertà del pensiero.
Curiosamente, come ha notato Luigi Zoja (2003), la cultura occidentale moderna
che continua ad ispirarsi all’espansione della crescita, all’immagine dello sviluppo
contemporaneamente continua, nelle sue fantasie inconsce e nel suo immaginario a
produrre immagini di punizione. Il mito dello sviluppo e quello della nemesi, della
punizione cosmica sono in verità profondamente intrecciati, anche nella nostra
mentalità di “moderni”. Ma questo non emerge ad un livello di consapevolezza: «nelle
sue fantasie inconsce, questa cultura continua ad allevare i tabù e i terrori di
punizione che in passato venivano associati all’arroganza e alla fortuna eccessiva:
essa seguita dunque a temere la catastrofe, il complemento dimenticato di quel mito.
La crescita illimitata è infatti il furto e l’esercizio di un’attività divina» (Zoja, 2003,
pp.21-22).
Il problema in quest'ottica non è quella di trovare uno sviluppo alternativo ma di
trovare una alternativa allo sviluppo.
Si tratta dunque, per cominciare, di rompere nell’immaginario collettivo le
associazioni tra sviluppo e realizzazione del benessere, tra crescita quantitativa e
qualità della vita. La grande conquista della civiltà occidentale sarebbe apprendere e
istituire socialmente dei modelli di socialità e di benessere non dipendenti dalla
crescita economica.

La fine di un lessico e la ricerca di un’alternativa

«È finita –dichiarò pochi anni fa lo scrittore egiziano Mohammed Sid


Ahmed – il dialogo Nord-Sud è morto come il conflitto Est-Ovest. È morta l’idea
dello sviluppo. Non c’è più nessuno linguaggio comune, si è esaurito perfino il
patrimonio lessicale necessario per esprimere questi problemi. Sud, Nord, Terzo
Mondo, liberazione, progresso, tutte queste parole non hanno più nessun
senso».49

Ha ragione Mohammed Sid Ahmed a rovesciare dal tavolo tutti i termini con cui
abbiamo apparecchiato il nostro tempo. È finita e stiamo tardando troppo a
rendercene conto. Rimaniamo terribilmente attaccati a concetti antiquati come se
fossero le ultime boe di salvataggio e non capiamo che se non iniziamo a nuotare
nessuno ci salverà. L’idea dello sviluppo è uno di questi appigli che fatichiamo ad
abbandonare, ma che volenti o nolenti dovremo abbandonare.
La scelta delle società occidentali di puntare unilateralmente
sull’accumulazione economica, sulla crescita della produttività e dei consumi, ha
prodotto in “Occidente” per tutta una fase storica, una maggiore ricchezza
materiale, un maggiore accesso a beni di consumo e un generale avanzamento
tecnologico. L’unilateralità di questo approccio ha finito però col minacciare le forme di
legame sociale nelle nostre società e l’equilibrio ecologico del pianeta.

49
Citato in Martin, Schumann, 1997, p. 30.
I costi di queste performance sono stati pagati non solo dalle classi lavoratrici e
dai soggetti considerati non produttivi e dunque non “utili”, ma più ancora dai paesi e 133
dalle popolazioni di altre parti del globo costrette ad adattarsi e a riorientare i loro
sistemi sociali e produttivi alle nostre esigenze economiche e politiche. Allo stesso
tempo queste performance economiche sono state possibili attraverso uno
sfruttamento sconsiderato delle risorse naturali e un deterioramento dei sistemi
ecologici causando danni che incidono sulle popolazioni che vivono a più stretto
contatto con la natura e che pregiudicano in maniera significativa le condizioni di vita
delle generazioni future. Il nostro sistema politico economico sta conducendo una
guerra non dichiarata alle generazioni future e alle altre specie viventi.
Ad ogni modo questa breve fase di ricchezza e creazione di benessere sta volgendo
al suo termine nello stesso mondo “sviluppato”. È già molto tempo che la crescita
della ricchezza e la crescita del benessere non coincidono più.
Non c’è nulla di strano in questo. In effetti nella misura in cui la crescita è divenuta
fine a se stessa quello che è successo che la medicina dello sviluppo superato un certo
limite si è trasformata in veleno. Come nota Gregory Bateson:

«Sostanze, cose, strutture o successioni di esperienze desiderate che sono in un


certo senso “buone” per l’organismo – regimi alimentari, condizioni di vita,
temperatura, divertimenti, sesso e così via -, non sono mai tali che una quantità
maggiore di esse sia sempre meglio che una quantità minore. Al contrario, per
tutti gli oggetti e le e esperienze esiste sempre una quantità con un valore
ottimale; al di sopra di essa la variabile diventa tossica, scendere al di sotto di
quel valore significa subire una privazione» (Bateson, 1984, p. 78).

Per dirla con le parole di Ivan Illich (Illich, 1993) si deve riconoscere l’esistenza di
una “seconda soglia” dello sviluppo economico oltre la quale la ricerca di una sempre
maggior ricchezza si traduce in una disutilità marginale, ovvero in un fattore contro-
produttivo, in termini sociali, ecologici e come abbiamo visto recentemente perfino
economici.

Una crisi epistemologica

Il salto di coscienza difficile a questo punto è quello di riconoscere che tutti noi siamo
parte di questo modo di pensare patologico: individualista, dualista, finalista,
economicista, arrogante, potenzialmente autodistruttivo. Se non capiamo questo, il
rischio – potremmo dire il destino – sarà quello per cui ogni volta che crediamo di fare
qualcosa di nuovo, di alternativo, di riparativo per curare quel sintomo, in realtà
riproduciamo sotto altra forma (anzi spesso in forma più sottile ed insidiosa) le
premesse sbagliate che hanno condotto alla crisi. Gran parte dei nostri interventi e
delle nostre soluzioni, delle nostre risposte di emergenza entrano a far parte del
problema e lo rinforzano in un modo che non riusciamo a riconoscere. Come ha notato
Gregory Bateson:

«Il paradigma è questo: curare il sintomo in modo da rendere il mondo


confortevole per la patologia. In realtà è ancora peggio di così, perché
scrutiamo anche il futuro e cerchiamo di scorgere sintomi e disagi che verranno.
Prevediamo gli intasamenti sulle autostrade e mediante appalti statali invitiamo
le imprese ad allargare le strade perché possano contenere automobili che ancora
non esistono. In questo modo milioni di dollari vengono impegnati in ipotesi di
futuri aumenti di patologia.
Dunque il medico che si concentra sui sintomi rischia di proteggere o
incoraggiare la patologia di cui i sintomi fanno parte» (Bateson 1997, p. 441).
L’effetto più perverso di questo sistema è stato di suscitare una forma di 134
adattamento alla patologia. L’inquinamento, i mutamenti climatici, la crescita e la
colpevolizzazione degli esclusi, le guerre per le risorse stanno diventando un
paesaggio consueto a cui ci abituiamo passivamente senza modificare i nostri
comportamenti e gli assetti di fondo della nostra società.
Già nel 1971, nel saggio “Il pianeta malato” Guy Debord, scriveva a questo
proposito:

«Una società sempre più malata, ma sempre più potente, ha concretamente


ricreato dappertutto il mondo come ambiente e scenario della sua malattia, come
pianeta malato» (Debord, 2007, pp. 53-54).

Una parte dei discorsi pseudo-ambientalisti che oggi sentiamo pronunciare da


politici e tecnocrati non fa altro che trasformare il mondo intero in un ospedale
globale in cui si interviene emergenza dopo emergenza, per tentare di rattoppare i
disastri prodotti dalle performance economiche dello sviluppo.
Come rispondere allora ai problemi ecologici e sociali che abbiamo di
fronte?
Si tratta in primo luogo di attribuire ai fenomeni di crisi che abbiamo sotto gli occhi
un significato sistemico. Il problema non è il sintomo che riusciamo a riconoscere
facilmente, il problema piuttosto è il disequilibrio che ne è causa. In questo
senso è la “normalità” che precede queste “crisi” che bisogna interrogare.
Da un certo punto di vista si tratta di lavorare per un intervento correttivo ad un
livello più ampio. Naturalmente questa correzione è molto più difficile perché:

a) non solo richiede di esaminare “zone di pertinenza” più vaste; e anzi


b) richiede il cambiamento di mentalità e comportamenti appresi che in
quanto profondamente interiorizzati non riconosciamo come “negativi”; e
anzi
c) tali attitudini fanno parte del nostro “adattamento”, dunque ci appaiono
abitudini “naturali” se non fattori “indispensabili” di sopravvivenza.

Insomma si tratta proprio di procedere a mettere in dubbio ciò che è ovvio e che è
indispensabile (non solo ci appare come tale, ma in un dato contesto è effettivamente
tale).
Si comprende dunque l’estrema difficoltà, il “pasticcio” dentro a cui ci siamo infilati.
Un altro modo per esprimere questa situazione è che nella situazione attuale per
avere una reale prospettiva è assolutamente indispensabile un profondo
cambiamento, ma d’altra parte sul breve periodo tale cambiamento non può che
presentarsi come estremamente doloroso se non come una vera e propria piaga. Per
tornare a Bateson:

«l’inverso della “formazione delle abitudini” cioè la distruzione di


informazioni programmate rigidamente, e una forma di apprendimento che
probabilmente è sempre difficile e dolorosa e che, quando non riesce, può essere
patogenica» (Bateson 1997, p. 228)

Queste riflessioni di Gregory Bateson ci incoraggiano a guardare le cose da un altro


punto di vista, a rovesciare le nostre certezze più consolidate. Ma poi cambiare non
è facile, agire non è scontato, e per muoversi bisogna mostrare molta saggezza.
Forse conviene procedere ulteriormente nella comprensione “formale” dei paradossi
sociali in cui siamo coinvolti
A questo proposito, penso valga la pena richiamare la storia della farfalla Bread-
and-butter-fly di Lewis Carrol che piaceva molto anche a Gregory Bateson: 135

«“Eccola lì che sta zampettando vicino ai tuoi piedi,” disse la Zanzara (alice tirò
indietro i piedi, un po’ allarmata) “la Farfalla-Pane-e-Burro. Le sue ali sono fettine
sottilissime di pane spalmate col burro, il corpo è un pezzo di crosta, e la testa è
una zolletta di zucchero”.
“E di cosa si nutre?”
“Di tè leggere con panna”.
Venne in mente ad Alice una difficoltà imprevista. “E se non lo trova?” Chiese.
Allora muore, naturalmente”.
Ma è una cosa che le deve capitare assai spesso” osservò Alice, pensierosa.
“Le capita sempre” rispose la Zanzara.
Dopo di che, Alice restò zitta per un paio di minuti, soprappensiero…».

«Se ci domandiamo di che cosa sia morta la Bread-and-butter-fly – commenta


Gregory Bateson -, siamo costretti a rispondere che è morta di un doppio vincolo.
Non dei particolari traumi dovuti a una scelta sciolta nel tè leggero e neppure
d’inedia, bensì dell’impossibilità di un adattamento contraddittorio.
Probabilmente i dinosauri si trovarono imprigionati in qualche vincolo cieco
evolutivo di natura simile. E c’è una grande probabilità che noi stessi ci
estinguiamo per l’impossibilità di adattarci alla pace e a una tecnologia povera»
(Bateson, 1997, p. 333)

Quello che Bateson cerca di suggerirci dunque è che adattamento e


assuefazione sono fenomeni molto collegati tra loro. In un certo senso l’uno è la
conseguenza dell’altro. Un prolungato adattamento tanto più si estende e si radica si
trasforma in qualche misura in un’assuefazione. Ora fino ad un certo punto
l’adattamento rappresenta la risposta migliore a condizioni date e ad un certo tipo di
ambiente. Quando tuttavia si verificano mutamenti ambientali o quando le nostre
abitudini prendono a erodere le fondamenta ambientali su cui abbiamo edificato le
nostre sicurezze ci troviamo all’improvviso in un bell’impiccio. La nostra capacità
tecnica di sfruttare al massimo le risorse naturali e sociali, di costruire un sistema di
produzione, di consumo e di benessere sempre più strutturato finisce col modificare le
più generali condizioni ambientali e a minacciare le nostre stesse condizioni di
sopravvivenza. In sintesi: un’adattamento eccessivo si tradice in un’assuefazione e
quest’ultima stabilisce delle condizioni di “rigidità” che la trasforma all’improvviso
in un ostacolo al cambiamento richiesto dalle mutate condizioni ambientali.
La situazione in cui ci troviamo è una tipica situazione di retroazione di cui troviamo
una descrizione molto acuta di Edgar Morin:

«L’uomo è diventato l’asservitore globale della biosfera, ma con ciò stesso si è


trovato asservito. È diventato l’iperparassita del mondo vivente e, minacciando di
disintegrare l’eco-organizzazione nella quale vive, minaccia così anche la sua
sopravvivenza, proprio perché parassita. Possiamo spingerci ben più in là. Non
soltanto lo sviluppo della nostra indipendenza antropo-sociale ci rende dipendenti
dagli eco-sistemi in forme sempre più profonde, ma – sempre maggiormente –
diventiamo sempre più dipendenti dal nostro strumento di indipendenza:
l’organizzazione tecnologica che si è costituita nelle macchine artificiali, per opera
e a vantaggio di queste, e che ormai retroagisce sui macchinatori e sui
macchinisti» (Edgar Morin, 2004, p. 85).
In altre parole noi siamo chiamati a mettere in discussione molte delle
certezze sulle quali noi tutti siamo cresciuti, siamo stati educati, sulle quali 136
abbiamo costruito un nostro adattamento ecologico e sociale, per quanto perverso.
Tutti siamo plasmati ad un livello più o meno cosciente dall’immaginario economico
moderno. La maggior parte di noi è cresciuta in un contesto di prodotti, beni, merci,
che hanno non solo reso più o meno comoda la nostra vita, ma hanno contribuito a
dar forma alle nostre relazioni sociali e all'immagine di noi stessi, ovvero alla nostra
stessa identità. Pensate al ruolo che hanno nella nostra vita cose come i vestiti, i
cellulari, gli smartphone, i tablet, la televisione. Producendo un mondo di merci
abbiamo prodotto anche un essere umano che si struttura soggettivamente e
socialmente attraverso quelle merci, ovvero che ne diviene inseparabile. Non
possiamo più interrogare il mondo delle merci senza interrogare contemporaneamente
noi stessi e quello che siamo diventati.
Da questo punto di vista è fondamentale capire che qualsiasi tentativo di
descrizione e comprensione, implica anche una riflessione sull’osservatore e sulle
premesse culturali e cognitive dalle quali questi prende le mosse.
Quello che ci sentiamo di suggerire, dunque, è che l’accesso all’epoca del
“doposviluppo” sarà molto più simile ad un processo di disapprendimento e
di disintossicazione che alla realizzazione di un progetto razionale. Ci si deve
disabituare a una forma di vita diversa in termini materiali, mentali e psicologici.
La società della crescita, infatti, si presenta oggi attraverso diverse dimensioni di
adattamento/dipendenza:

- Una dimensione di adattamento/dipendenza politica. Il benessere dello


sviluppo non è un dato oggettivo ma piuttosto “posizionale”, si misura in rapporto
a quelli che stanno meglio o peggio. Il consenso politico nelle società fondate sulla
crescita è legato alla promessa di un miglioramento del proprio status
socioeconomico. Il successo dello sviluppo si basa sull’idea che prima o poi tutti
raggiungeranno il tenore di vita di quelli che stanno meglio. Da questo punto di
vista la decrescita non è un obiettivo politico attraente. A meno che non si riesca a
far emergere la dimensione di liberazione implicita in questa proposta.

- Una dimensione di adattamento/dipendenza materiale dal punto di vista


tecnologico, economico, organizzativo. È evidente che l’intera organizzazione
materiale attorno a noi risponde alle logiche di una società di crescita. Il
cambiamento delle abitudini si deve confrontare con le resistenze e con i limiti
concreti posti dall’organizzazione tecnico materiale. Ma anche con il fatto che
dipendiamo da un ampio spettro di risorse minerali sottoposte oramai ad un
regime di scarsità.

- Una dimensione di adattamento/dipendenza simbolico-antropologica.


Senza l’idea di progresso, sviluppo e crescita si genera in noi un’angoscia del
vuoto. Nella maggioranza delle persone in Occidente c’è una forma di difesa
rispetto all’idea di sviluppo nonostante le sue contraddizioni e i suoi risultati,
dovuta alla paura di abbandonare un riferimento ideale per quale si è tanto
impegnato, si è tanto lottato, si è tanto sacrificato. Abbandonare il mito dello
sviluppo significa confrontarsi con il senso di vuoto, di spaesamento, di mancanza
di prospettiva.

- Una dimensione di adattamento/dipendenza psicologica e sociale. Il


consumo è anche un bisogno emotivo, relazionale, identitario; gli oggetti che
compriamo sono appendici dell’io dell’uomo moderno. Ci rinforzano nel nostro
senso di identità. Noi ci costruiamo una certa immagine di noi stessi, anche sulla
base di ciò che compriamo: vestiamo, indossiamo, mangiamo, usiamo ecc.
Dobbiamo riconoscere che questo è un tratto assolutamente comune a tutti noi. 137
Solamente che alcuni lo fanno in riferimento a vestiti o alle auto, altri lo fanno in
riferimento a libri, a cd, piuttosto che a quadri.

Vedete come ci sono differenti livelli di dipendenza/adattamento ognuno dei quali


difficile da affrontare e superare.
Qui si trova il rompicapo – il “doppio vincolo”, direbbe Bateson - dentro al
quale siamo tutti presi: la dipendenza è l’altra faccia dell’adattamento. Non
possiamo sciogliere questa dipendenza se non affrontando il problema
dell’adattamento. Un adattamento che per molti versi è stato comprensibile e
ragionevole, ma che oggi è diventato sempre più nevrotico e patogeno ed assume
sempre di più il carattere di un’assuefazione tossica.
C’è a questo proposito un proverbio indiano ricordato da Raimon Panikkar: “se
cavalchi una tigre non puoi scendere, altrimenti la tigre ti divora”.
Noi tutti – noi abitanti del mondo sviluppato - stiamo cavalcando la tigre. Dobbiamo
sfamare la tigre per tenerla buona ma più la nutriamo e più diventa grande,
minacciosa e incontrollabile.

«In chiusura, è d’obbligo raccomandare la prudenza. Avendo capito che la


crescita è difficile da realizzare proprio là dove più serve, non dobbiamo essere
indotti a credere che il desviluppo sia una questione semplice. Se il problema
dell’accumulazione è stato il più grande rompicapo dei pianificatori, la
deaccumulazione potrebbe rivelarsi un rompicapo persino maggiore»
(Georgescu-Roegen, 2003, p. 126).

O per dirla nuovamente con le parole di Ivan Illich,

«La disassuefazione dallo sviluppo sarà dolorosa. Lo sarà per la generazione di


passaggio, e soprattutto per i più intossicati tra i suoi membri. Possa il ricordo di
tali sofferenze preservare dai nostri errori le generazioni future» (Illich, 1993, p.
109)

La questione su cui oggi è fondamentale riflettere è come sciogliere una


dipendenza, un’assuefazione a qualcosa che per altri versi è frutto di un adattamento
necessario. Io credo che dovremo lavorare a lungo per riformulare il nostro problema,
per trovare una forma intelligente al nostro rompicapo. Una forma che ci aiuti ad
andare più lontano nella comprensione di quello che siamo, di quello che desideriamo,
di quello che ancora possiamo fare per cambiare.
L’orizzonte che abbiamo davanti a noi non può più essere quello di una performance
economica ottenuta al prezzo di tutto il resto, ma la ricerca di un equilibrio
flessibile capace di rispondere con più leggerezza e tempestività all’epoca di
cambiamenti nella quale ci stiamo sempre più addentrando.
In generale credo che qualsiasi atteggiamento che affronta un lato della questione
tralasciando l’altro non possa che portarci in un vicolo cieco. Si illude sia chi continua
a parlare della necessità dello sviluppo (magari con l’aiuto di quello specchietto per
allodole che si chiama sviluppo sostenibile) dimenticando che per l’idea di uno
sviluppo illimitato è in quanto tale antiecologica e sia chi pensa si tratti semplicemente
di smettere di produrre o consumare (di de-crescere in senso letterale) dimenticando
che il nostro adattamento sociale in tutte le sue forme si basa sulla crescita continua.
Gregory Bateson riteneva che «per liberarsi da una dipendenza sembra
cruciale riconoscere di essere in trappola» (Bateson G., Bateson M.C. 1989, p.
194). In altre parole si tratta di comprendere la dimensione “tragica” della storia in cui
siamo presi e questo implica anche una maturazione psicologica, morale e politica
degli stessi attori sociali. D’altra parte lo stesso Bateson ci ha insegnato che le 138
situazioni di doppio vincolo mentre sono quasi sempre fonte di dolore, possono essere
anche fonte di creatività, di umorismo, di cambiamento. Ma occorre non accontentarsi
dei tranquillanti e delle facili ricette e continuare a cercare con la giusta disposizione in
una felice ed irriducibile inquietudine.

Dai "limiti della crescita" alla proposta della "decrescita": la nascita di un


dibattito

Decrescita è la traduzione della parola francese «dècroissance» che significa


riduzione. In inglese si usa la parola Degrowth. Questa idea oggi è molto diffusa
grazie al lavoro di Serge Latouche50. Questo dibattito oggi rappresenta una novità
incoraggiante anche se si tratta di una discussione ancora agli inizi e probabilmente
ancora piena di ambivalenze e contraddizioni.
La teoria della decrescita si caratterizza come una critica all'economia e alla
modernità capitalistica nella quale confluiscono diversi filoni di pensiero: la critica
antropologica e culturale (la prospettiva dell'antropologia economica,
dell'antiutilitarismo, del postcolonialismo), la critica sociale e dell'immaginario (la
prospettiva della convivialità, la prospettiva dell'istituzione immaginaria della società),
la critica ecologica (la prospettiva della bioeconomia e dell'economia ecologica,
quella dell'ecologia della mente e quella dell'ecologia profonda), la critica
femminista (la prospettiva della sussistenza e quella dell'ecofemminismo).
Va la pena però ricostruire un po’ la nascita di questo concetto. L'origine va
rintracciata all'inizio degli anni '70.
Nel 1972 l'uscita del rapporto del System Dynamics Group del MIT al Club di Roma
The Limits to Growth51 tradotto in Italia col titolo I limiti dello sviluppo, apre una
nuova era della discussione sull'ecologia e sui limiti della crescita. Come è noto il
rapporto, redatto l'anno precedente, suggeriva che se la linea di sviluppo esistente
fosse continuata inalterata nelle logica di una crescita esponenziale - nei cinque settori
fondamentali analizzati ovvero popolazione, industrializzazione, inquinamento,
produzione di alimenti e consumo delle risorse naturali - l'umanità sarebbe stata
destinata a raggiungere i limiti naturali dello sviluppo entro i successivi cento anni. «Il
risultato più probabile sarà un improvviso, incontrollabile declino del livello di
popolazione e del sistema industriale»52.
Il 9 febbraio di quell'anno Sicco Mansholt53 (1908-1995), socialdemocratico
olandese, e Commissario europeo per l'agricoltura, avendo letto una versione di
questo rapporto poco prima della sua pubblicazione ed essendone rimasto
profondamente impressionato, aveva scritto - sotto gli ulivi della Sardegna come

50
Si vedano Serge Latouche, 2005, 2007, 2008, 2009, 2011. Si veda anche per uno sguardo complessivo
D'alisa, Demaria, Kallis, 2014 e Deriu, 2016.
51
Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jorgen Randers, William W. Behrens III, The Limits to
Growth, Universe Books, New York, 1972, trad. it. I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano, 1972.
52
Ivi, p. 32.
53
Sulla figura di Sicco Mansholt e la decrescita si vedano: Joan Martinez- Alier “Sicco Mansholt y el
decrecimiento económico”, La Jornada, 8 settembre 2012,
http://www.jornada.unam.mx/2012/09/08/opinion/017a2pol; Trad. it. "Sicco Mansholt e la decrescita",
http://www.democraziakmzero.org/2012/09/11/sicco-mansholt-e-la-decrescita/;
Joan Martinez-Alier, “'Growth below zero': in memory of Sicco Mansholt”, intervento alla RESPONDER
conference, Brussels, 21 March 2014 http://www.ejolt.org/2014/03/growth-below-zero-in-memory-of-
sicco-mansholt/
racconta - una famosa lettera54 a Franco Maria Malfatti Presidente della Commissione
Europea (cui subentrò qualche mese dopo), in cui aveva espresso posizioni critiche 139
verso le tradizionali politiche di crescita traducendole in una serie di urgenti
raccomandazioni. «È evidente - scriveva nella lettera - quel la società di domani non
potrà essere incentrata sulla crescita, almeno in campo materiale». Questo significava
a suo modo di vedere che non si sarebbe dovuto più orientare il nostro sistema
economico verso la ricerca della massima crescita, verso la massimizzazione del
prodotto nazionale lordo. Questo sarebbe dovuto essere sostituito da altre misure
come l'"utilità nazionale lorda" o la "felicità nazionale lorda". A suo modo di vedere la
Commissione Europea avrebbe dovuto ragionare attorno all'idea di un "piano centrale
europeo" che mettesse al primo posto la salvaguardia dell'equilibrio ecologico e la
conservazione per le generazioni future di fonti di energia sufficienti e su un "piano
quinquennale" per lo sviluppo di un nuovo sistema di produzione "non inquinante"
basato su un'economia a ciclo chiuso ovvero un'economia di riciclo. Suggerendo di
ricentrare e riorientare la ricerca dall'obiettivo della massimizzazione della crescita a
quello dell'utile o del benessere, Mansholt abbozzava tutta una serie di possibili
misure economiche e politiche:
1. la priorità alla produzione alimentare investendo anche in prodotti agricoli
considerati "non redditizi";
2. una forte riduzione del consumo di beni materiali per abitante, compensato
dall'estensione di beni tangibili (previdenza sociale, sviluppo intellettuale,
organizzazione del tempo libero e delle attività ricreative ecc.);
3. un significativo prolungamento della vita di tutti i beni strumentali, prevenendo
lo spreco e evitando la produzioni di beni “non essenziali”;
4. la lotta contro l'inquinamento e contro la rarefazione delle materie prime
attraverso il riorientamento degli investimenti verso il riciclo e le misure
antinquinamento, che si tradurranno naturalmente in una modificazione della
domanda, e, pertanto della produzione.
Il carattere radicale e assolutamente inedito di quelle proposte nell'Europa post-
bellica - di fatto il primo tentativo di immaginare le linee essenziali di un progetto
politico di decrescita - da parte di un personaggio considerato l'incarnazione
dell'eurocrate lasciò in un primo momento molti senza parole. Ad aprire il fuoco contro
Mansholt - con l'effetto però di portare al centro della discussione pubblica la sua
lettera - fu Georges Marchais, allora Segretario generale del Partito Comunista
francese che per sostenere il NO durante la campagna referendaria francese per
l'allargamento della Comunità europea da sei a nove membri, utilizzò il dibattito sulla
limitazione della crescita e l'attacco a Mansholt e al Club di Roma accusandoli di
rappresentare l'immagine di "un'Europa della miseria e della repressione economica",
di volere "deliberatamente provocare un forte calo del benessere degli abitanti della
nuova comunità" con una politica malthusiana ad oltranza di limitazione delle nascite
e di diminuzione della produzione e dei consumi.
In quello stesso anno si tenne a Stoccolma dal 5 al 15 giugno la prima Conferenza
delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano (United Nations Conference on Human
Environment, UNCHE). In un'intervista rilasciata a Josette Alia per le Le Nouvel
Observateur uscita sul numero del 12 giugno, in contemporanea con la Conferenza di
Stoccolma, Mansholt rilanciava nuovamente la sua idea di una crescita negativa. Egli

54
Per un approfondimento di questa lettera e del dibattito cui ha dato vita si veda: Jean Claude Thill,
Laurence Reboul, Albert Te Pass, La lettre mansholt réactions et commentaires, Pauvert, Paris, 1972. Il
testo parziale della lettera si trova on line sul sito di EcoRev - Revue Critique d'Ecologie Politique: Lettre
au président de la Commission européenne http://www.ecorev.org/spip.php?article803; Si veda inoltre
Michel Bosquet, “Per un buon uso di Mansholt”, in Critique du capitalisme quotidien, Editions Galilée,
Paris, 1975; trad. it. “Per un buon uso di Mansholt” in Critica al capitalismo di ogni giorno, Jaca Book,
Milano, 1978.
riconosce di essere stato profondamente scioccato dal rapporto del System Dynamic
Group del MIT. All'improvviso si era reso conto che non era più possibile uscire dalle 140
difficoltà emergenti con qualche adattamento: «è il nostro intero sistema che ha
bisogno di essere rivisto, è la sua filosofia che dobbiamo cambiare radicalmente». Di
fronte dunque alla domanda della giornalista Josette Alia se per caso fosse un
sostenitore della "crescita zero", Mansholt rispose:

«Sono stato frainteso su questo punto. In realtà, i politici che mi hanno


attaccato, probabilmente non ha letto il rapporto del MIT. Essi non possono
concepire una forma di società diversa da quella che conosciamo e che si basa
interamente sulla crescita continua. Ora la questione non si pone più in quei
termini. La domanda è: dati i limiti che si impongono a lungo termine per la
produzione di energia, cibo, ferro, zinco, rame, acqua, ecc, è possibile mantenere
il nostro tasso crescita attuale senza modificare profondamente la nostra società?
Se si affronta la questione lucidamente, si vede chiaramente che la risposta è no.
Quindi non si tratta più nemmeno di crescita zero, ma di una crescita al di sotto
dello zero. Diciamolo apertamente: occorre ridurre la nostra crescita economica,
la nostra crescita puramente materiale, per sostituirle l'idea di una crescita di
altre cose - della cultura, della felicità, del benessere»55.

Mansholt dichiara esplicitamente che occorrerà modificare il modo di produrre ma


anche semplificare la vita, ridurre i propri consumi per evitare il disastro. «La nostra
società futura non sarà a immagine della società attuale: sarà una società in cui ci
saranno meno automobili, case più semplici, meno mezzi di trasporto, e non ci
saranno per nulla jumbo-jet e altri velivoli supersonici. […]. Il "Concorde" non è il
futuro è il passato»56.
Nella stessa intervista Mansholt afferma che il Prodotto Nazionale Lordo (PNB in
francese o GNP in inglese), per esempio, non vuole dire granché, visto che non tiene
conto di elementi quali la rarefazione delle materie prime o l'inquinamento
ambientale. D'altro canto, continua, altri elementi come l'istruzione, la salute pubblica,
l'habitat, gli spazi verdi, la qualità dell'aria - che non sono contabilizzati - sono invece
altrettanto importanti per il nostro benessere. «per questo ho proposto di sostituire al
Prodotto Nazionale Lordo, la nozione di "Utilità Nazionale Lorda" o di "Felicità
Nazionale Lorda"»57. Il "percorso di una necessaria conversione" che Mansholt
propone a partire dall'Europa, per smettere di essere schiavi della crescita è di
incentivare politiche volte a ridistribuire il reddito, ridurre le disuguaglianze,
promuovere i servizi pubblici a scapito dei privati, diminuire l'uso dell'automobile ecc.
In questo clima, e a immediato ridosso della pubblicazione di quell'intervista, l'OBS
il Club du Nouvel Observateur organizzò a Parigi per la sera di martedì 13 giugno
1972 un grande dibattito (si presentarono per l'occasione oltre duemila persone a
fronte di una sala da duecento) su "Ecologie et revolution" che vide la partecipazione
straordinaria di Sicco Mansholt, Herbert Marcuse, Edmond Maire, Edgar Morin, Edward
Goldsmith, Philippe Saint-Marc et Michel Bosquet (alias André Gorz). È proprio in tale
contesto che la parola décroissance fa la sua prima apparizione pubblica.58

55
Sicco Mansholt, "Le Chemin du bonhoeur", Propos recueillis par Josette Aliea, "Le Nouvel Observateur"
n. 396, 12 juin 1972, pp. 71-88.
56
Idem.
57
Idem.
58
La parola décroissance sarà usata anche l'anno successivo dal filofoso André Amar nell'articolo "La
croissance et le problème moral" pubblicato nel n. 52 de la Revue La Nef dal titolo "Les objecteurs de
croissance" e dedicato alla discussione attorno al rapporto Meadows.
http://www.decroissance.org/?chemin=textes/amar
Nel dibattito, Sicco Mansholt, divenuto nel frattempo Presidente della Commissione
Europea, esprime nuovamente la certezza che sia necessario ridurre il nostro livello di 141
vita materiale e che tale obiettivo implichi la ricerca di un'altra società. Egli sembra
ritenere che tale obiettivo non possa essere trovato nel contesto di un capitalismo di
Stato, ma piuttosto nell'orizzonte di una società socialista che trasformi il sistema di
produzione attraverso un processo democratico.
Tra gli altri interventi il più interessante è quello di Michel Bosquet , lo pseudonimo
usato allora da Gerhart Horst, poi divenuto famoso col nome di André Gorz (1923-
2007). Egli comincia sottolineando il rischio che gli industriali che hanno finanziato la
ricerca del M.I.T. (Volkswagen, Fiat e Ford Foundation) vogliano appropriarsi di certi
temi ambientali solamente per disinnescare la contestazione ecologica, ovvero
levandogli il suo potenziale anticapitalista. Ma, si chiede Gorz, «l'equilibrio globale, di
cui la non-crescita - anzi la decrescita - della produzione materiale è una condizione,
questo equilibrio globale è compatibile con la sopravvivenza del sistema?»59.
Nel rispondere a questa domanda Gorz delinea chiaramente fin da allora i due
possibili modi di affrontare la fine della crescita e la prospettiva della decrescita che
ancora oggi si pongono di fronte a noi. A suo avviso la semplice non-crescita è
contraria alla logica del sistema capitalistico e incompatibile al funzionamento del
capitalismo "così come lo conosciamo" ma non necessariamente incompatibile con una
versione del capitalismo sotto altra forma, almeno per un certo periodo. Gorz ritiene
infatti che si diano due tipi di non-crescita o decrescita, l'uno corrisponde a un
progetto ideale come quello ipotizzato da Mansholt e dall'equipe del MIT (e più vicino
con l'attuale proposta politica della decrescita), si fonda su una politica economica di
equilibrio, diretta a livello centrale, l'altra invece è la decrescita reale (la situazione
che tecnicamente si indica con il termine "recessione"), ovvero la crisi dell'economia
capitalista. Tale condizione "oggettiva" può ciononostante trasformarsi in un progetto
capitalistico di tipo nuovo. Infatti l'arresto della crescita va compreso come "risultato
medio", una situazione in cui il capitale "nel suo insieme" si trova nell'impossibilità di
accrescerci. Questo tuttavia non significa che tutte le industrie, o tutti i capitali
saranno in crisi allo stesso modo. Anzi ci potrebbero essere alcune aziende che grazie
alla loro forza e alla loro posizione nel mercato produttivo o finanziario potrebbero
avvantaggiarsi eliminando o assorbendo i soggetti più deboli e conquistando fette
maggiori del mercato grazie a una produzione più efficiente e perfino meno
inquinante. Questo permetterebbe di dar vita a un nuovo ciclo di accumulazione anche
se su una base più incerta e su un tempo più limitato. Questo tipo di capitalismo che
nella rappresentazione di Gorz potrebbe trarre vantaggio dalla vendita di "aria non
inquinata", di "acqua potabile", di "minerali riciclati", di "pezzi d'ambiente preservati",
corrisponderebbe da ultimo ad un nuovo ciclo di accumulazione fondato su uno
sfruttamento ancora più estremo ovvero sulla «sussunzione da parte del capitale della
totalità dei fattori e delle condizioni che permettono la vita sulla terra»60.
Gorz individua dunque fin dall'inizio l'alternativa tra un progetto di decrescita scelto,
volontario, egualitario e fondamentalmente rivoluzionario, e la prospettiva di chi
andrebbe cavalcando la crisi economica e la recessione approfittando per concentrare
ulteriormente i profitti e imponendo in nome dell'ambiente una forma di controllo e di
dispotismo ancora maggiore.
Questo dibattito venne ripreso nel febbraio 1974 dalla rivista Le Sauvage che invitò
alcuni dei partecipanti alla serata di Parigi - Herbert Marcuse, Sicco Mansholt, Edward

59
"Ecologie et revolution", avec Sicco Mansholt, Edmond Maire, Edgar Morin, Edward Goldsmith, Philippe
Saint-Marc et Michel Bosquet, supplément spécial de Le nouvel observateur, n°397, 1972.
60
Michel Bosquet ivi. Questo testo è stato ripubblicato con il titolo "Ecologie et capitalisme" nel libro
Michel Bosquet, Critique du capitalisme quotidien, Edition Galilée, Paris, 1973, pp. 298-303; trad. it,
"Ecologia e capitalismo", in Michel Bosquet, Critica al capitalismo di ogni giorno, Jaca Book, Milano, 1973,
pp. 179-186. La frase citata si trova a p. 183 del testo dell'edizione italiana.
Goldsmith, Edgar Morin, Michel Bosquet (André Gorz) - a riaggiornare le loro
riflessioni argomento a distanza di un anno e mezzo. In quell'occasione Gorz torna a 142
sottolineare che «a fronte della crescente scarsità e dell'aumento dei prezzi
dell'energia, l'obiettivo attuale e realistico non è di "lavorare" e "produrre", ma di
lavorare e produrre meno vivendo meglio, ma diversamente: la rimozione degli
sprechi, la ricerca della sostenibilità dei prodotti, lo sviluppo di consumi e dei servizi
collettivi, sottrazione al mercato dei beni e dei servizi necessari a tutti, ecc.»61.
Negli anni successivi André Gorz sarà una delle figure che svilupperà con più
coerenza la propria riflessione attorno alla decrescita. Nel 1977 da alle stampe il libro
Écologie et liberté nel quale la sua riflessione sull'ecologia e la decrescita si fa più
strutturata e coerente. Il testo apre con una doppia affermazione che costituisce quasi
un manifesto culturale:

«Il capitalismo fondato sulla crescita è morto. Il socialismo fondato sulla


crescita, che gli somiglia come un fratello, ci riflette l'immagine deformata non
del nostro futuro ma del nostro passato. Il marxismo, che rimane insostituibile
come strumento d'analisi, ha tuttavia perduto il suo valore profetico»62.

Per Gorz la crescita economica non solo non ha assicurato abbondanza e benessere
per tutti ma al contrario ha creato contemporaneamente ricchezza e nuove povertà.
Ha moltiplicato bisogni e aspettative che non poteva garantire a tutti, affermando così
nuove forme di accaparramento, di accesso e di consumo esclusivo e concentrando la
ricchezza su pochi soggetti.
Gorz denuncia i limiti e gli effetti perversi della crescita capitalistica. Gli sforzi
economici volti al superamento di una scarsità relativa finiscono a suo modo di vedere
a generare, oltrepassata una certa soglia, una scarsità assoluta e insormontabile. A
quel punto occorre riprodurre e trasformare in merce tutto ciò che fino a quel
momento era stato abbondante e gratuito. Nei termini da lui proposti ciò con cui si ha
a che fare è una classica crisi di sovrapproduzione aggravata da una crisi di
riproduzione. L'intreccio peculiare tra queste due crisi stabilisce un nuovo contesto
d'azione. In questo nuovo contesto di ambienti sempre più degradati, di
diseguaglianze sempre più estreme e di risorse sempre più rarefatte, il progetto della
crescita che risulta sempre più irrealistico ed illusorio e realtà e utopia si capovolgono:

«L’utopia oggi non consiste affatto nel preconizzare il benessere attraverso la


decrescita e il sovvertimento dell’attuale modo di vita; l’utopia consiste nel
credere che la crescita della produzione sociale possa ancora condurre a un
miglioramento del benessere, che essa sia materialmente possibile”»63.

Gorz sottolinea che in queste condizioni la risposta alla nocività, all'intasamento e


alle empasse della cultura industriale possono essere superate solamente se si
abbandona l'obiettivo della crescita (della produzione, dei consumi e dei profitti) a
favore di una riduzione complessiva della produzione materiale, ovvero della
decrescita. A suo modo di vedere una vita più ricca è non solo compatibile con una

61
"Le temps des prophètes", Le Sauvage, n° 10, février 1974, reprint 26 juin 2011,
http://www.lesauvage.org/2011/06/le-temps-des-prophetes/; reprint 16 juillet 2011
http://www.lesauvage.org/2011/07/le-temps-des-prophetes-suite/
62
André Gorz, Ecologie et liberté, Éditions Galilée, Paris, 1977; trad. it., Ecologia e libertà, a cura di
Emanuele Leonardi, Orthotes, Napoli, 2015, p. 37.
63
André Gorz, Ecologia e libertà, Éditions Galilée, Paris, 1977; trad. it., Ecologia e libertà, a cura di
Emanuele Leonardi, Orthotes, Napoli, 2015, p. 40.
riduzione della quantità dei beni prodotti ma una vita più ricca esige una tale
riduzione64. 143
Contemporaneamente esprime in maniera più esplicita anche la paura che
l'ecologia, vista come scienza degli equilibri naturali, possa essere utilizzata in
direzione del tecnofascismo per imporre scelte e limitazioni come se fossero
semplicemente "tecniche" in maniera autoritaria o per esaltare l'ingegneria applicata
ai sistemi viventi in modo da giustificare una volta di più l'investimento in grandi
apparati tecnologici. Per lui, l'ecologia politica e la decrescita vanno intese come scelte
in direzione dell'autogestione, come forme di "autoregolazione decentrata" piuttosto
che di "eteroregolazione centralizzata". In questo senso la lotta per una società
diversa diventa per lui anche la lotta per una tecnologia diversa e per una
trasformazione degli strumenti.
In questo libro Gorz rivela già influenze molto evidenti di altri autori come Nicholas
Georgescu-Roegen, Ernst Friedrich Schumacher, Marshall Sahlins, Jean Pierre Dupuy,
Jean Robert, e soprattutto l'Ivan Ilich di Tools for Conviviality.
André Gorz ritornerà sul tema della decrescita in diversi articoli e interventi negli
anni successivi. In particolare nel 1982 nel capitolo conclusivo di Adieux au prolétariat
dal titolo "Croissance destructive et décroissance productive"65 e poi più avanti nel
2007 negli articoli "Crisi mondiale, decrescita e uscita dal capitalismo"66 e "L'uscita del
capitalismo è già cominciata"67. In quest'ultimo, le sue riflessioni poco prima della sua
morte, ci consegnano il suo testamento sulla prospettiva della decrescita:

«La decrescita è dunque un imperativo di sopravvivenza. Ma essa suppone


un'altra economia, un altro stile di vita, un'altra civiltà, altri rapporti sociali. In
assenza di questi, il crollo non potrebbe essere evitato se non a forza di
restrizioni, razionamenti, allocazioni autoritarie di risorse, caratteristiche di
un'economia di guerra. L'uscita dal capitalismo dunque avrà luogo in un modo o
nell'altro, sarà civilizzata o barbara. La questione riguarda soltanto la forma che
questa uscita prenderà e la cadenza secondo la quale essa andrà a realizzarsi»68.

La scelta dunque, a suo modo di vedere, è tra una crisi catastrofica subita o una
scelta di autolimitazione assunta da una società auto-organizzata che anticipi almeno
in parte tale catastrofe.
Il dibattito negli anni '70 segna dunque l'articolazione tra le posizioni degli studiosi
ecologisti che parlano di "crescita zero" come nel rapporto Meadows al Club di Roma e
come farà di li in avanti una parte di studiosi ecologisti ed economisti ecologici 69, di
"crescita negativa" come nel caso di Sicco Mansholt, o esplicitamente di "decrescita"70.

64
Ivi. p. 61.
65
André Gorz, Adieux au prolétariat, Galilée, Paris, 1980; trad. it. Addio al proletariato, Edizioni del
lavoro, Roma, 1982; ripubblicato in André Gorz, Ecologica, Editions Galilée, Paris, 2008; trad. it, André
Gorz, Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009.
66
"Crise mondiale, décroissance et sortie du capitalisme ", Entropia, n. 2 «Décroissance et travail»,
Parangon, printemps 2007, ripubblicato in André Gorz, Ecologica, Editions Galilée, Paris, 2008; trad. it,
André Gorz, Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009.
67
"La sortie du capitalisme est déjà commencé", EcoRev, n. 28 automne 2007, ripubblicato in André
Gorz, Ecologica, Editions Galilée, Paris, 2008; trad. it, André Gorz, Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009.
68
Ivi p. 33.
69
Herman Daly, insieme ad altri economisti ecologici svilupperà a partire da questa idea la proposta di
una "steady-state economics". Cfr. Herman Daly, Steady-State Economics: The Economics of Biophysical
Equilibrium and Moral Growth, first edition W.H.Freeman & Co Ltd, San Francisco, 1977, 2nd Edition,
Island Press, Washington, 1991.
70
Per una ricostruzione del concetto di Decrescita si vedano fra gli altri: Serge Latouche, Le pari de la
décroissance, Fayard, Paris, 2006; trad. it., La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2007, in
particolare l'introduzione; Timothéé Duverger, La décroissance une idée pour demain, Sang de la Terre,
Il termine e la riflessione sulla decrescita è d'altra parte debitrice anche nei
confronti dell'opera dell'economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen l'inventore 144
del termine "bioeconomia". Georgescu-Roegen ha usato in realtà pochissime volte
questa parola nei suoi testi, ma un suo allievo - Jacques Grinevald - raccolse e
pubblicò in Francia nel 1979 una serie di suoi saggi con il titolo Demain la
dècroissance (Parigi, Pierre Marcel Fabvre, 1979).
Ad ogni modo Georgescu-Roegen era piuttosto convinto della necessità di un
rovesciamento della crescita, riteneva infatti che la stessa idea di "crescita zero"
propugnata in seguito da Herman Daly e altri, non fosse sufficiente. Tuttavia
riconosceva che il passaggio dall'idea alla realtà fosse tutt'altro che facile.

«È indubbio – ha scritto Nicholas Georgescu-Roegen – che l’attuale


processo di crescita deve giungere a un termine, anzi, rovesciarsi. Ma chiunque
creda di poter stilare un programma per la salvezza ecologica della specie umana
non comprende la natura dell’evoluzione, e nemmeno della storia: essa consiste
in una lotta permanente sotto forme sempre diverse, non in un processo fisico-
chimico prevedibile e controllabile, come far bollire un uovo o lanciare un razzo
sulla Luna» (Georgescu-Roegen, 1998, p. 74).

Secondo il bioeconomista rumeno, al contrario di tutte le altre specie viventi che


utilizzano solo strumenti endosomatici71 (zampe, artigli, ali ecc…), la specie
umana ha trasceso i suoi limiti corporei evolvendosi attraverso un’ampia gamma di
strumenti esosomatici (prodotti dall’uomo stesso al di fuori del proprio corpo), dal
coltello ai satelliti, dalle automobili agli aerei, dal telefono ai computer. Pian piano
l’essere umano si è assuefatto a questa congerie di strumenti, tanto che essi sono
diventati una specie di prolungamento biologico di se stesso, o se vogliamo il suo
nuovo ambiente di vita. E questa evoluzione esosomatica - nota Georgescu-Roegen –
è un fenomeno in gran parte irreversibile, simile a quello del pesce volante,
assuefattosi all’atmosfera e trasformatosi in uccello. Non è affatto semplice liberarsi a
questo punto da questa dipendenza. L’intera organizzazione sociale riposa su questi
strumenti, molto più di quanto non siamo disposti a riconoscere. Nei fatti esiste a
questo proposito una legge di ereditarietà affine a quella esistente in campo biologico,
ovvero ogni generazione eredita la struttura esosomatica di quella precedente
(Georgescu-Roegen, 2003, p. 75). Data questa condizione il problema che dobbiamo
affrontare non è solo biologico e tanto meno solamente economico, ma precisamente
“bioeconomico”. In questo senso possiamo solamente intuire che abbiamo di fronte un
problema assai complesso e di difficile risoluzione.
La sostanza del ragionamento di Georgescu-Roegen riguarda l'utilizzo e il degrado
dell'energia e dei materiali naturali utilizzati che è sottoposto alle leggi dell'entropia. I
processi di produzione e consumo trasformano infatti energia e materiali da una
condizione di bassa entropia in prodotti degradati o in veri e propri rifiuti (alta
entropia). Nemmeno i processi di riciclo di materiale sfuggono a questa legge, perché
non si riuscirà mai a riciclare completamente i materiali usati. La prospettiva della
decrescita rappresenta dunque un tentativo di ridurre il consumo di materiali e la
dispersione di energia per garantire una maggiore sostenibilità sul lungo periodo.
Altro autore fondamentale per la elaborazione della proposta della decrescita è il
croato Ivan Illich.
Illich non usava il termine decrescita ma riteneva che l'inversione del processo di
modernizzazione della povertà cui la società industriale ci ha consegnato richiederesse

Paris, 2011; "What is Degrowth? From an Activist Slogan to a Social Movement", in Environmental
Values 22 (2013), pp. 191-215;
71
La distinzione tra organi esosomatici e organi endosomatici ripresa da Georgescu-Roegen è
originariamente di Alfred J. Lotka.
l'invenzione di una forma di "sussistenza moderna" che chiamava anche "austerità
conviviale". Un concetto che si avvicina molto a quello che oggi diversi studiosi 145
indicano con il termine decrescita.

«Io propongo di recuperare questo termine - diceva Illich a proposito


dell'austerità conviviale - in un senso moderno, chiamando "sussistenza
moderna", il modo in cui la gente sia riuscita a ridurre la propria dipendenza dal
mercato, e ci sia arrivata proteggendo, con mezzi politici un'infrastruttura dove le
tecniche e gli strumenti servano in primo luogo a creare valori d'uso non
quantificati né quantificabili dai fabbricanti professionali di bisogni»72.

Illich invitava dunque a optare per una società realmente post-industriale che
disponga di un largo ventaglio di strumenti moderni e conviviali. Ma la discussione sul
processo di transizione verso una società post-industriale è attrettanto importante
dell'obiettivo. In un certo senso lo stesso procedere dev'essere conviviale. Illich è
estremamente contrario all'idea di affidare agli esperti l'incarico di fissare un limite
alla crescita.73
«Dinanzi al disastro incombente, la società può adagiarsi a sopravvivere entro i
limiti fissati e imposti da una dittatura burocratica, ma può anche reagire
politicamente ricorrendo alle procedure giuridiche e politiche»74. Illich chiarisce che la
gestione burocratica (eteronoma) della sopravvivenza umana non solo sarebbe
inaccettabile, ma sarebbe oltretutto inutile. Poiché la delega ai tecnocrati spingerebbe
a mantenere il sistema industriale comunque al massimo livello di produttività
sostenibile, cercando di forzare il più possibile la soglia di tolleranza con tutti i mezzi
disponibili. Sarebbe insomma un po’ come continuare a giocare con la morte,
camminando sull'orlo del precipizio, sperando di non scivolare o che nel frattempo non
smotti comunque l'orlo sotto il peso di effetti cumulativi o di feed back non previsti.
L'avvento di quello che Illich chiama "fascismo tecno-burocratico" è comunque una
mossa sempre possibile, ma che non è scritta negli astri.
Inoltre, occorre tener conto che il percorso di transizione per garantire una forma
di sopravvivenza nell'equità esigerà sacrifici di un certo tenore, che potranno essere
accettati dalle persone solamente se scelti e assunti consapevolmente anche se
all'interno di un processo politico. Come scriveva Illich,

«Solo un'attiva maggioranza di individui e di gruppi che cerchino, con una


procedura conviviale comune, di recuperare i propri diritti, può strappare al
leviatano il potere di stabilire i confini che, per sopravvivere, bisogna imporre alla
crescita, e quella di scegliere i limiti che ottimizzano una civiltà»75.

Il concetto e la proposta della decrescita sono stati dunque recuperati e rilanciati


all'inizio degli anni '2000. Nel 2002, Serge Latouche si fa promotore a Parigi della
Conferenza UNESCO Defaire le dèveloppement, refaire le monde (Disfare lo
sviluppo, rifare il mondo). In questo evento, a cui partecipò lo stesso Ivan Illich, e
che vide la partecipazione di circa ottocento persone venne rilanciata l'idea della
decrescita.
Negli stessi anni a Lione dentro a un gruppo («Casseurs de Pub») che promuoveva
la contestazione della pubblicità, del consumismo e dei danni prodotti dalle automobili
nelle città si sviluppò un movimento favorevole alla decrescita che si concretizzò prima
in un numero speciale della rivista «Silence» dedicato alla decrescita (2002) curato da

72
Ivan Illich, Disoccupazione creativa, Boroli Editore, Milano, 2005, p. 78.
73
Ivan Illich, Disoccupazione creativa, Boroli Editore, Milano, 2005, p. 65.
74
Ivan Illich, La convivialità, Red Edizioni, Como, 1993, p. 129.
75
Ivan Illich, La convivialità, Red Edizioni, Como, 1993, p. 126.
Vincent Cheynet e Bruno Clementin. Successivamente gli stessi diedero vita nel 2004
alla rivista "La Dècroissance, le journal de la joie de vivre" che rimane ancora oggi un 146
riferimento importante della rete per la decrescita francese e non solo.
Il movimento per la decrescita dunque si sviluppa a partire dal 2001 in Francia, a
partire dal 2004 in Italia e a partire dal 2006 in Spagna. Successivamente si estende
in diversi paesi europei (Svizzera, Belgio, Portogallo, Germania, Filandia, Norvegia,
Danimarca, Repubblica Ceca ecc…) ed extraeuropei (Canada, Messico, Brasile,
Portorico ecc…). Un ruolo particolare è giocato dalle Conferenze internazionali sulla
decrescita che si tengono ogni due anni in diverse città. La prima si tenne a Parigi nel
2008, successivamente a Barcellona nel 2010, a Montreal nel 2011 (Conferenza delle
Americhe) a Venezia nel 2012, a Leipzig nel 2014 e a Budapest nel 2016.
Il più noto divulgatore della teoria della decrescita rimane ancor oggi l'economista
francese Serge Latouche.

«Parlare di “decrescita” – afferma Latouche - significa dunque lanciare una sfida,


azzardare una provocazione: all’interno del nostro immaginario dominato dalla
religione della crescita e dell’economia, asserire la necessità della decrescita
risulta letteralmente blasfemo e chi sostiene simili posizioni è quantomeno
considerato iconoclasta» (Latouche, 2007, p. 8).

Per Latouche la decrescita non è un modello e nemmeno un paradigma. Non è, in


altre parole, un termine “simmetrico” ma con il segno rovesciato rispetto a quello di
crescita. In termini più rigorosi, si dovrebbe parlare di “a-crescita” come si parla di “a-
teismo”. In altre parole l’aspirazione sarebbe quella di sottrarsi alla religione della
crescita e dello sviluppo, ad una società che basa il suo benessere sull’aumento
continuo della produzione e dei consumi (dalle merci alle tecnologie, dai gadget alle
armi). Dunque la decrescita non è un’alternativa ma piuttosto come ama dire
Latouche una “matrice” di alternative, ovvero una proposta per aprire il campo ad
altre rappresentazioni del benessere sociale sganciate dalla logica dello sviluppo o in
termini più ampi da una logica accrescitiva nei più svariati campi.
A mio parere l’idea di decrescita possa essere intesa non come una semplice
regressione lineare ma come una operazione di riduzione selettiva di
complessità. Non si tratta di presupporre semplicemente un ritorno indiscriminato ad
una fase più semplice di organizzazione sociale – una specie di ritorno al passato - ma
si tratta invece di ricercare una superiore e più fine capacità di discrimine tra ciò che è
più importante e significativo e ciò a cui possiamo invece rinunciare. In altre parole si
tratta di un processo culturale di “disapprendimento”, che contempla una perdita
ma che se viene affrontato (e non solo subito) consapevolmente per tempo permette
anche una maturazione sociale ed ecologica. Un processo dunque che mescola
insieme forme di conservazione, di dismissione e di innovazione in tutti i
campi: ambientale, culturale, politico, economico, tecnologico e altro ancora.
È probabilmente un mondo strano, curioso e imprevedibile quello che si profila davanti
a noi. Una società dove diverse forme di produzione, autoproduzione, riciclo,
rigenerazione, scambio, condivisione, vivranno intrecciate l’una con l’altra, e
occorrerà abbastanza flessibilità nella nostra mente per saper tenere insieme
creativamente tutto questo per dargli una forma conviviale, di buon vivere.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
147

Il linguaggio del mondo contemporaneo.


Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Docente: Marco Deriu

GLOBALIZZAZIONE/LOCALIZZAZIONE

Il dibattito sulla globalizzazione, sull'ideologia neoliberista che la guida


economicamente e politicamente, sull’opportunità di realizzare una globalizzazione
alternativa o non piuttosto un’alternativa alla globalizzazione, costituisce uno dei nodi
più discussi del nostro tempo. Tuttavia si deve anzitutto sottolineare che la
globalizzazione non è una realtà in sé ma una rappresentazione della realtà, un modo
di guardare il mondo contemporaneo. Questo non significa che questa
rappresentazione non abbia un legame con processi reali, ma piuttosto che il mondo
attuale potrebbe benissimo essere interpretato e descritto attraverso altre griglie
percettive, altre lenti di osservazione, altri criteri di riferimento.
Il termine si è andato diffondendo negli anni '90 del novecento insieme con
l'affermazione delle multinazionali, l'affermazione ideologica del neoliberismo e la
deregolamentazione del commercio internazionale, e infine con l'avvento di internet e
la finanziarizzazione dei mercati globali.
Si sente dire solitamente che il mondo si divide in sostenitori e critici della
globalizzazione, come se stessimo parlando di un fenomeno oggettivo. In realtà prima
ancora che nel merito dei suoi risultati, l’idea di globalizzazione può essere criticata
nei termini della capacità analitica di rappresentare la realtà. Rappresentazioni del
mondo come “villaggio globale”, come “pianeta uniforme”, come “sistema mondo” o
“economia mondo”, ovvero come quadri omogenei sono in realtà problematiche. Sono
problematiche perché dipingendo un quadro uniforme espungono dalla lettura della
realtà ogni elemento che contraddice o che contrasta con questa rappresentazione o
previsione.
Le prospettive che dipingono la situazione attuale come assorbita da un dominio
anonimo e generalizzato sotto il dominio dell’Occidente vanno rifiutate sia quando
presentate come compimento positivo, come compimento della storia, sia quando
sono presentate come avvento negativo di un unico mondo, di un progetto imperiale e
coloniale.
In realtà si può sostenere con molte ragioni che la globalizzazione non
corrisponde a nient’altro che alla visione politica del mondo dell’Occidente. Il
pianeta viene visto come un unico grande mercato che realizza la possibilità di libero
scambio, investimento e competizione in uno spazio privo di vincoli e il più possibile di
limiti. Questa è stata in qualche modo l'idea e la rappresentazione con la quale si è
venduta la prospettiva della globalizzazione.
Da questo punto di vista apologeti e critici si tengono per mano. La realtà
attuale non è certo un’omogeneizzazione delle culture come può apparire a noi
occidentali. In realtà le culture e le società cambiano, anche su pressione
dell’occidente, ma al tempo stesso conservano caratteristiche e valori propri, spesso
evolvono sulla base di modelli e di grammatiche proprie. Inoltre le differenze non
sono date una volta per tutte, esse continuano a prodursi.
In altre parole la critica riflessiva dell’Occidente deve riguardare anche la critica dei
suoi fantasmi di onnipotenza, sia in positivo che in negativo. E anche concetti come
glocale, globalizzazione dal basso - nota il filosofo Rino Genovese - sono “figli
dell’imbarazzo”, unilateralità del modello teorico. 148
In realtà come ha notato lo stesso Rino Genovese:

«Sono possibili allora modernizzazioni solo parziali e il destino dell’ibridazione


avvolge l’intero pianeta. Ma se il mondo è ibridato, non è interamente
globalizzato, come da più parti si sostiene, sia che s’intenda esaltare la
globalizzazione sia che s’intenda metterla sotto accusa. Quello di globalizzazione
è un concetto vago, nonostante il grande uso che se ne fa, o forse proprio per
questo: un concetto che parla di un mondo unificato nel segno dell’economia e
della tecnica, che non esiste se non nei sogni o negli incubi, occidentali. È
necessario modificare lo sguardo, assumere una prospettiva antropologico-
culturale, nell’ambito di una filosofia della storia plurale, per accorgersi che il
mondo è soltanto superficialmente globalizzato – e comunque non nel senso di
una omogeneizzazione delle culture» (Genovese, 2005, p. 8).

Dunque, se vogliamo adoperare il termine globalizzazione dobbiamo


quantomeno sottolinearne la parzialità e la contraddittorietà.
Manfred B. Steger, per esempio, utilizza il termine globalità «per designare una
condizione sociale caratterizzata da stette interconnessioni e dinamiche globali
economiche, politiche, culturali e ambientali che rendono irrilevanti quasi tutti i confini
e le linee di demarcazione in essere» (Steger, 2016, p. 18). Per Steger la
globlizzazione riguarda dunque quei processi sociali che trasformano la nostra
condizione di nazionalità tradizionale in una condizione di globalità. Tuttavia come ben
sanno i migranti i confini sono ancora ben rilevanti da diversi punti di vista. Oggi
viviamo da un certo punto di vista in un epoca dove hanno nuova diffusione muri,
barriere, steccati, fili spinati. E la crisi delle identità nazionali non lascia spazio tanto a
identità sovranazionali quanto a una proliferazione di varie identità locali, religiose,
culturali, politiche ecc…
Anche per quanto riguarda i prodotti culturali, gli artefatti e le merci, non tutto
circola nella stessa maniera. Si tratta dunque di capire che cosa circola, in che misura
e perché, e che cosa invece rimane - per necessità o per scelta - dentro a perimetri
tutto sommato locali.
Saskia Sassen, per esempio, già distingue tra due distenti insiemi di dinamiche: il
primo insieme riguarda «la formazione di istituzioni e processi esplicitamente globali,
quali l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), i mercati finanziari globali, il
nuovo cosmopolitismo, i tribunali internazionali dei crimini di guerra» (sassen, 2008,
p. 5), mentre il secondo insieme comprende processi che pur essendo localizzati in
ambiti nazionali o subnazionali fanno comunque parte della globalizzazione perché
concernono sia reti transconfinarie che attori locali, nazionali o diversi paesi o località.
La globalizzazione non rappresenterebbero dunque semplicemente uno spostamento
verso dimensioni più ampie ed estese, poiché secondo Sassen, le dinamiche di re-
scaling (ri-scaliarità) tagliano trasversalmente la dimensione istituzionale e le
gerarchie territoriali prodotte dai processi di formazione degli stati nazionali. Questo
spiega perché in un contesto di globalizzazione possono comunque assumere
importanza differenti dimensioni come quelle subnazionali come le cosiddette "città
globali", o le "regioni transfrontaliere" o ancora le entità sopranazionali, come quelle
definite dalle aree di libero commercio o i mercati finanziari (Sassen, 2008, p. 29).
La stessa dimensione statale non sparisce ma viene in qualche modo trasformata.
Per un verso lo Stato sembra abdicare e delegare una serie di poteri, ma dall'altra
rimane un soggetto importante sia dal punto di vista politico che economico nel
contesto globale.
Tenuto conto di queste avvertenze e anche di questa complessità, possiamo dire
che l’idea di globalizzazione allude ad un fenomeno di un mutamento nel rapporto e 149
nel vissuto sociale dello spazio e del tempo originato da una rivoluzione culturale ed
ideologica, tecnica ed economica.
In senso convenzionale per globalizzazione si può intendere l’effetto dell'espansione
di tutti i sistemi di comunicazione e movimento, per cui la mobilità di persone, servizi,
informazione, beni finanziari, ecc. aumenta radicalmente ed avviene in tempo reale,
con conseguente compressione delle dimensioni spaziali e temporali.
Questo da luogo concretamente a una crescita delle attività economiche, politiche,
sociali attraverso le frontiere, intensifica la dipendenza reciproca tra paesi e persone,
determina un maggior impatto di eventi lontani sulla nostra vita e viceversa. Si tratta
evidentemente di un'accelerazione di fenomeni già in corso da lungo tempo e in alcuni
casi addirittura da secoli76.
Tuttavia non si tratta dell'evoluzione "naturale", di processi autonomi frutto di un
movimento storico oggettivo e ineluttabile. Come hanno giustamente scritto Jürgen
Oserhammel e Niels P. Petersson,

«I legami globali sono costruiti, mantenut, trasformati e distrutti dagli Stati,


dalle imprese, dai gruppi e dagli invidui; sono oggetto di conflitti d'interesse e di
scelte politiche; producono vincitori e perdenti - ma lo stesso vale anche per la
distruzione delle strutture globali. Dietro la globalizzazione si trovano attori
globali con differenti visioni e strategie» (Oserhammel, Petersson, 2005, p. 126).

Se pensiamo all’accelerazione di flussi di movimenti di merci, finanze, persone,


linguaggi, e idee attraverso il pianeta. Questi movimenti creano una crescente
interdipendenza planetaria.
Ma, come vedremo, l’accellerazione temporale e l’abbattimento parziale delle
distanze fisiche e dei confini è in realtà molto parziale e selettiva sia per quanto
riguarda le merci che le persone.
Questa interdipendenza non significa affatto che i flussi siano equilibrati o
multidirezionali. In realtà i flussi hanno generalmente delle direzioni specifiche. Si
potrebbe studiare con grande interesse le direzioni dei flussi che attraversano il
mondo. I flussi delle materie prime fondamentali per esempio, come il petrolio o il
gas, o delle materie preziose come l’oro o i diamanti o i flussi delle droghe. E si
potrebbero studiare i flussi che vanno in direzione inversa: i beni finiti, le armi
vendute ad ogni paese. I flussi della finanza internazionale. E infine i flussi delle
bombe.
In altre parole le distanze sociali, economiche e politiche, non solo non sono
abolite, ma per molti versi sono in realtà accresciute e rafforzate. E non
mancano i segnali che fanno pensare che la promozione di processi di
deregolamentazione, l'indebolimento delle economie locali e nazionali, la promozione
di una cultura di "libertà" del consumo, stiano innescando processi di tensione,
disintegrazione, riemersione di microidentità che possano portare a un forte
contraccolpo di chiusura.

PAESAGGI GLOBALI

Sebbene si sia utilizzato il termine globalizzazione per sottolineare soprattutto i


mutamenti finanziari, produttivi ed economici, in realtà oggi i fenomeni globali sono
diversi, e presentano, intrecciati tra loro molti e diversi elementi. Bisogna infatti

76
Per una storia della globalizzazione e dei fenomeni che ne stanno alla base si veda Osterhammel e
Petersson, 2005.
evitare, anche nelle analisi, che il mondo attuale sia ridotto all’unica dimensione del
mercato “globale”. 150
Un antropologo indiano, Arjun Appadurai, in un testo che è ormai divenuto un
classico sulla globalizzazione Modernity at Large (trad. it. Modernità in polvere,
Meltemi, Roma, 2001), insiste sul fatto che siamo di fronte ad un fenomeno
complesso in cui si sovrappongono più aspetti e dimensioni. Appadurai propone di
parlare di 5 paesaggi:
- Il paesaggio tecnologico (tecnoscape): la configurazione globale della
tecnologia meccanica e informatica, e più in generale, direi, le reti infrastutturali di
diverso genere che permettono i flussi di informazioni, di immagini, di capitali e di
beni.
- Il paesaggio economico e finanziario (financescape): l'organizzazione e le
dinamiche del capitale globale e della finanza.
- Il paesaggio della comunicazione (mediascape): la distribuzione delle
capacità elettronica di produrre e diffondere di informazioni, immagini e narrazioni e
con essi i prodotti stessi di questi nuovi strumenti.
- Il paesaggio politico-ideologico (ideoscape): idee, ideologie e narrazioni
politiche: ideologia liberale, democrazia, diritti umani universali, ideologia umanitaria.
- Il paesaggio dei movimenti di persone (etnoscape): popolazioni e
movimenti di turisti, immigrati, rifugiati, esiliati, lavoratori ospiti ed altri gruppi in
movimento, che influenzano la politica e l'economia come mai prima d'ora.
Sottolineare l'esistenza di più orizzonti è importante per far emergere alcune
fondamentali “disgiunture”, a volte anche contraddizioni tra aspetti economici,
culturali e politici, soprattutto quando ci riferiamo all'impatto di questi processi nei
contesti locali.

1. Il paesaggio tecnologico (tecnoscape)

Una diffusione globale della tecnologia occidentale meccanica e informatica ha dato


luogo a una modificazione complessiva delle reti infrastrutturali. Su questa base si
sono resi possibili altri cambiamenti:
Dal punto di vista dei trasporti, si sono espanse e strutturate tutte le reti stradali,
ferroviarie, navali e aeroportuali. Poco meno di mezzo secolo fa, nel 1953, il traffico
internazionale di merci per via aerea era di trecentocinquanta milioni di tonnellate per
chilometro che venivano trasportate attraverso i confini nazionali. Nel 1992 il traffico
internazionale di merci per via aerea è stato di sessantadue miliardi di tonnellate per
chilometro cioè un volume di 180 volte superiore a quello di origine e per il 75%
costituito da trasporti di lunghissimo raggio. Contemporaneamente il volume di merci
trasportate per mare è cresciuto del 500% e quello dei prodotti trasportati per ferrovia
è cresciuto del 300%.
Per quanto riguarda le telecomunicazioni, abbiamo registrato forti cambiamenti
legati all’espansione della telefonia, della televisione, del sistema di comunicazione
satellitare e soprattutto - con la rivoluzione informatica – del computer e di internet.
Ancora trent'anni fa, alla metà degli anni sessanta, esisteva un solo cavo telefonico
translatlantico attraverso il quale non potevano transitare più di ottantanove
conversazioni simultaneamente tra Europa e America. La medesima situazione si
registrava sul versante del Pacifico con meno di cento conversazioni simultanee. Oggi
la rete cablata e il sistema satellitare a livello globale permettono di gestire circa un
milione di chiamate simultaneamente attraverso l'Atlantico e di raggiungere in pochi
istanti uno qualunque del miliardo e duecento milioni di terminali distribuiti in
centottantacinque paesi. Quanto a Internet nel giro di pochi decenni ha permesso la
comunicazione e lo scambio di informazioni di ogni genere in tempo reale su una rete
diffusa in una porzione significativa del pianeta. Attualmente gran parte del pianeta è
in rete, sebbene ci siano differenze elevate tra aree e paesi (vd immagine di seguito). 151

2. Il paesaggio economico e finanziario (financescape)

Dal punto di vista economico e finanziario si sono registrate trasformazioni in diverse


direzioni, in particolare per quello che riguarda l’espansione del commercio, la
trasformazione dei sistemi produttivi, l’unificazione dei mercati finanziari, le
trasformazioni del consumo.
Per quanto riguarda il commercio, i fenomeni di “globalizzazione” possono essere
ricondotti alla fine della seconda guerra mondiale quando, con gli accordi di Bretton
Woods del 1944, è stato messo a punto il nuovo sistema mondiale del commercio. In
quell'occasione si sono avviate le politiche per la costruzione di uno spazio di libero
scambio. Nel 1947 vede la luce il Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade), un
accordo multilaterale sulle tariffe e sul commercio in origine firmato da 23 paesi. Il
Gatt si basa sul meccanismo di negoziazione delle riduzioni delle tariffe doganali per
tappe. Queste tappe nella negoziazione degli scambi vengono detti "rounds". Ci sono
stati 8 round di negoziati finché nel 1995 si è arrivati alla nascita del World Trade
Organisation (WTO), l’organizzazione mondiale del commercio. Nella tabella riportata
di seguito si può seguire l’evoluzione di questo percorso per la creazione del libero
scambio.
È soprattutto l'estensione di questi processi di liberalizzazione delle merci ai
prodotti agricoli che sta rovinando in buona parte i paesi del terzo mondo.
Dal punto di vista pratico, l'aumento del commercio internazionale significa che in
ciascun paese si produce in misura crescente per gli altri paesi e
contemporaneamente si consumano in misura crescente i prodotti importati da altri
paesi. Nel consumo, come nella produzione si dipende sempre di più dagli scambi con
altri paesi anche quando ciascuno potrebbe produrre da se certi prodotti.
Per quanto la produzione si può segnalare l’importanza assunta negli ultimi decenni
dalle cosiddette multinazionali. Attualmente si stima un network di 147 aziende
strettamente intrecciate tra di loro governino circa il 40% del mercato finanziario
globale77 152
In termini di forme di produzione si è passati dalla produzione di massa tipica della
fase fordista a quello che è stata chiamata una fase post-fordista in cui domina la
flessibilità, la produzione snella, just in time, la fabbrica integrata, la fabbrica
modulare.
Kenichi Ohmae, consulente della McKinsey & Company, ha proposto uno schema in
cinque stadi relativi alla mondializzazione delle imprese:
- primo stadio: produzione in uno stato e commercializzazione del prodotto in un
altro;
- secondo stadio: costruzione di filiali per la commercializzazione negli altri stati;
- terzo stadio: produzione di alcune componenti in altri stati, diversi da quello
della casa madre;
- quarto stadio: si tratta delle cosiddette multinazionali, ovvero la casa madre
esporta un intero ciclo produttivo in un altro paese per scavalcare le barriere doganali;
- quinto stadio: disarticolazione in una pluralità di stati nazionali dei diversi
segmenti del ciclo produttivo, è la distribuzione del processo di lavoro in una
molteplicità di luoghi in una serie di operazioni sincroniche. È dunque la
delocalizzazione del lavoro possibile grazie al supporto tecnologico dell'informatica e
della telematica. La sede legale può essere a Hong Kong o Singapore, la progettazione
in Cina, l'ingegnerizzazione e infrastrutture telematiche in India, commercializzazione
in Europa o negli Stati Uniti.
Infine in termini di mercati finanziari, si è assistito nel giro di pochi decenni
all’unificazione a livello globale dei mercati di capitali. Gli scambi finanziari elettronici
avvengono 24 su 24. Oggi si spostano più di mille e cinquecento miliardi di dollari al
giorno, alla velocità della luce. La quantità di soldi che si scambia con cose reali, con
l'economia reale è circa un sessantesimo di questa cifra, tutto il resto, cioè
cinquantanove sessantesimi, viene scambiato per ricavarne in un profitto immediato
in un mercato che si muove a grande velocità. Oggi è in gioco una partita attorno alla
regolazione di questi flussi e al potere di questi capitali.
Per quanto riguarda i consumi, negli ultimi decenni si è assistito all’espandersi di
quella classe che possiamo chiamare “consumatori globali”. Si tratta dei consumatori
dei paesi più ricchi e sviluppati ma anche di una crescente fetta di altri paesi. Norman
Myers e Jennifer Kent in un loro recente e prezioso libro hanno cercato di individuare
le caratteristiche di questi “nuovi consumatori”. Queste persone possono essere
identificate in base ad alcuni elementi di consumo specifico. In particolare:
- acquistano ed usano numerosi elettrodomestici.
- acquistano e consumano molta carne.
- prelevano e consumano grandi quantità d’acqua.
- acquistano ed utilizzano nuove automobili.
Si calcola che il numero di questi nuovi consumatori abbia superato a partire dal
2000 un miliardo e cento milioni di persone. Molti di questi nuovi consumatori si
distribuiscono tra diversi paesi, nell’ordine, dell’Asia, dell’America Latina e dell’Europa
dell’Est. In Cina per esempio oggi ci sono oggi 300 milioni di nuovi consumatori in
India 130 milioni. Questo peraltro non impedisce che contemporaneamente negli
stessi paesi cresca anche la disuguaglianza e che una fetta significativa della
popolazione continui a vivere in condizioni intollerabili o veda addirittura peggiorare le
proprie possibilità.
Per avere un’idea del cambiamento possiamo notare che le auto in Cina sono
passate nel decennio 1990-2000 da 1,6 a 8 milioni con un incremento del 400%. Nello

77
Stefania Vitali, James B. Glattfelder, Stefano Battiston (2011), The Network of Global Corporate
Control, PLoS ONE 6(10): e25995. doi:10.1371/journal.pone.0025995
stesso periodo in Sud Corea si è passati da 2,1 a 8,5 milioni di auto, con un
incremento del 305%, mentre in Colombia da 0,6 a 8,5 milioni di auto con una 153
crescita del 217%.
Se poi guardiamo al consumo di apparecchi per la casa negli ultimi decenni, insieme
all’espandersi dello stile di vita occidentale sono cresciuti i consumi di frigoriferi,
lavatrici, condizionatori, Tv, video registratori, computer, tecnologie hi-fi, accessori,
giochi elettronici ecc. Tutti questi beni sono visti come status symbol o come portatori
di maggior benessere e libertà. Questo naturalmente porta con se anche una notevole
crescita del consumo energetico.
Questa nuova élite non raggiunge ancora il livello di consumo dei superconsumatori
dei paesi più ricchi e industrializzati (circa 850 milioni), ma il loro tenore di vita si è
ormai decisamente distaccato da quello della maggior parte della popolazione
mondiale.
Attualmente c’è senza dubbio una pressione per un'uniformazione globale de
mercati anche attraverso l’omogeneizzazione dei gusti. Pensiamo al cibo e a prodotti
come Mc Donald o Coca Cola una bevanda la cui ricetta viene esportata dagli USA in
oltre 200 paesi. In generale per le aziende è più conveniente uniformare i gusti in
tutto il mondo, cercando di smussare i saperi troppo forti, per cercare di raggiungere
un maggior numero di persone in tutto il mondo, anziché differenziare i prodotti in
diversi mercati locali.

3. Il paesaggio della comunicazione (mediascape)

Sul piano della comunicazione si registrano forti processi di spinta all’uniformazione


culturale. Per esempio, per quanto riguarda le lingue, si calcola che fino a non molto
tempo fa le lingue parlate fossero circa 15.000, oggi, secondo l'Atlante delle lingue del
mondo in pericolo di estinzione dell'Unesco sono appena rimaste appena 5-6.000 di
cui quasi 3.000 a rischio di estinzione. Ma solo cento quelle che si spartiscono il 95%
del pianeta e una sola lingua - quella inglese - comanda per tutte nel mondo degli
affari. Anche la lingua tuttavia non va concepita come un fenomeno statico, poiché
contemporaneamente si vanno diffondendo nuovi idiomi e ibridazioni linguistiche.
Un’importanza particolare è quella svolta dai mass media e dal sistema
dell’informazione. Le ricerche dell'Unesco evidenziano che delle 300 società che
dominano il mercato dell'informazione e della comunicazione, 144 sono nord-
americane, 80 europee, 49 giapponesi, mentre solo 27 interessano altre aree
geografiche. Esiste inoltre un quasi monopolio di nove grandi agenzie: tre americane
(Associated Press-AP, United Press International, CNN), due britanniche (BBC e
Reuter) e una francese (Agence France Presse-AFP), una tedesca (DPA), una Spagnola
(EPE) e una italiana (ANSA). Tutte le radio, tutte le televisioni, tutti i giornali del
mondo sono abbonati a queste agenzie. Da sole coprono circa l'80% del flusso delle
notizie, mentre dai soli Usa viene il 65% delle informazioni mondiali. L’AP serve circa
8500 giornali, radio e televisioni in 112 paesi. Diffonde circa 2 milioni di parole in
inglese ogni giorno.
Già questo da un’idea di come nel vedere il mondo in cui abitiamo e gli eventi che
lo attraversano siamo fondamentalmente limitati da paraocchi strutturali e materiali.
C’è una parte della realtà, nonché un angolo di visuale che è sistematicamente esclusa
dalla nostra percezione e dal nostro ascolto. Anzi spesso le vicende di un paese, in
special luogo del sud del mondo, sono lette attraverso le lenti dei mass media
occidentali.
Anche dal punto di vista dell’immaginario ci sono forti spinte all’uniformazione. I
mass media diffondono continuamente storie e stili di vita. Prendiamo l'esempio di
MTV. Nata nel Nord America, oggi più di 300 milioni di famiglie in tutto il mondo
guardano MTV. La stessa musica dagli USA all'Europa all'Asia. D'altra parte, il 100%
dei messaggi pubblicitari, la vera produzione dell'immaginario collettivo su scala
allargata che ha sostituito ogni altra sacra scrittura, viene pensato e prodotto nella 154
triade Stati Uniti-Europa-Giappone. Sul piano dell’industria cinematografica la
situazione è ancora più squilibrata. Gli Stati Uniti, per esempio, comprano all’estero
solo l’1% dei film distribuiti nel proprio mercato, mentre i film americani vengono
distribuiti in tutto il mondo. Dal mercato estero i colossi americani ricevono oltre il
70% del proprio fatturato.
Nonostante lo squilibrio manifesto e l’imponenza di questi processi di
comunicazione globale essi non determinano comunque la scomparsa delle diversità
culturali. Ancora Sahlins ha notato che se è vero che la civiltà occidentale ha costretto
ogni cultura a cambiare è anche vero che ogni cultura cambia secondo una logica
propria e originale, per cui le differenze e i conflitti non spariscono, anzi, continuano
piuttosto a riprodursi, ad aggiornarsi, a reinventarsi. Sahlins parla a questo proposito
di evoluzione “neo-tradizionale”. Lo sviluppo e la globalizzazione hanno aggredito e
svalutato le culture tradizionali, ma oggi molte persone stanno resistendo e
riscoprendo le proprie tradizioni. E siamo nel mezzo di un fenomeno di rivalorizzazione
e riaffermazione delle culture locali e tradizionali.

4. Il paesaggio politico-ideologico (ideoscape)

Uno dei cambiamenti più interessanti riguarda d’altra parte lo sviluppo, lento ma
significativo, di una generale consapevolezza ecologica globale. Pian piano le persone
stanno prendendo coscienza dell’unità dell’ecosistema globale. In questa direzione
hanno giocato un ruolo importante alcuni eventi particolarmente significativi.
-1969 la terra vista dalla luna, icona ecologica e imperiale (Sachs);
-1972 Rapporto Meadows sui limiti dello sviluppo, Crisi ecologica.
-1973 Crisi petrolifera;
-1986 Incidente nucleare di Chernobyl (Ucraina)
Poi a partire dagli anni ’90, le prime analisi sul buco dell’Ozono e il fenomeno del
riscaldamento globale con tutte le conseguenze ecologiche e sociali che ne derivano
hanno messo all’attenzione dell’opinione pubblica i grandi temi ambientali. Da qui
anche la nascita di molte organizzazioni ambientaliste: Wwf, Greenpeace, Amici della
terra ecc…
Negli stessi decenni si è registrata invece un indebolimento degli stati nazione. Di
fronte ai processi globali dell’economia, della finanza, nonché a quelli ecologici, gli
organismi statali hanno visto relativizzare via via il proprio ruolo.
Contemporaneamente si sono sviluppate una serie di aree economiche, politiche e
militari che raggruppavano più paesi. Tra queste la più importante è la crazione
dell’Unione Europea. Inoltre sono cresciute in numero e importanza le organizzazioni
internazionali e multilaterali. Non c'è solo l'Onu con tutte le sue agenzie specializzate,
ma anche la il G7, il FMI, la BM, il WTO, la UE, l'OCSE, la NATO ecc. Se ci riferiamo
per esempio ai Summit internazionali di queste organizzazioni, possiamo notare che a
metà del IX secolo se ne organizzavano due o tre all'anno, oggi ce ne sono oltre
quattrocento. Inoltre si moltiplicano le agenzie e le associazioni internazionali.
Da un altro punto di vista, gli anni '90 hanno registrato anche l'affermazione delle
cosiddette ONG (Organizzazioni Non Governative), molte delle quali hanno assunto un
tratto e una rilevanza internazionale. Si pensi ad Amnesty International, Medici senza
frontiere, Oxfam, Save the Children, Care, ecc…
Un aspetto poco conosciuto ma molto importante di queste trasformazioni riguarda
il fenomeno della privatizzazione della guerra e della diffusione di imprese militari
globali. I nuovi soggetti di questa privatizzazione si chiamano Pmf, (Private Military
Firm), Pmc (Private Military Company), Psc (Private Security Company).
Le differenze tra queste società e i tradizionali mercenari sono numerose. La
principale novità riguarda il fatto che stiamo parlando di soggetti che si presentano a 155
tutti gli effetti come moderne imprese societarie, normalmente quotate in borsa e
integrate in sistemi finanziari e commerciali più vasti che propongono un vasto
assortimento di prodotti e servizi sia all’interno di un certo settore (per esempio quello
della sicurezza) o anche in diversi settori (sicurezza, logistica, forniture ecc.). È
importante sottolineare dunque che siamo di fronte a soggetti economici pubblici e
legali guidati dalla prospettiva di un business d’impresa (e non di guadagno
individuale) che competono sul mercato globale, strutturati e organizzati secondo una
gerarchia societaria che garantisce contrattualmente - assicurando affidabilità e
stabilità anche nel tempo e non solo nel breve periodo - una clientela vasta e
articolata.

5. Il paesaggio dei movimenti di persone (etnoscape)

L’ultimo aspetto sottolineato da Appaduraj riguarda l’espansione dei flussi migratori.


Negli ultimi secoli vi sono state diverse ondate migratorie.

La prima è coincisa con il commercio transatlantico degli schiavi. Si calcola che circa
12 milioni di persone siano state deportate come schiavi dall'Africa verso le Americhe.
Una seconda immigrazione, dovuta alla povertà si registrò tra il 1880 e la prima
guerra mondiale, durante la quale circa 30 milioni di persone si trasferirono 156
oltreoceano. Una terza ondata migratoria si è registrata dopo la seconda guerra
mondiale, in particolare negli anni '50 e '60 quando milioni di persone si riversarono in
Europa in coincidenza con un forte sviluppo economico. A queste ondate si aggiunge
ora l'immigrazione più recente verso i paesi più ricchi.
Si stima che oggi più di 247 milioni di persone, pari al 3,4 % della popolazione
mondiale, vivano al di fuori del proprio paese di nascita. Il numero di migranti è
cresciuto da 175 milioni nel 2000 a 251 milioni nel 2015 e a più di 247 milioni nel
2013. Il corridoio USA-Messico risulta essere il corridoio migratorio più percorso al
mondo, con 13 milioni di migranti nel 2013. Quello tra Russia–Ucraina con 3,5 milioni
è il secondo, seguito da Bangladesh-India (3,2 milioni), e Ucraina–Russia (2,9
milioni).
Oltre a questo si possono notare altri flussi di persone che riguardano,
L'affermazione del turismo di massa, la crescita dei profughi negli ultimi decenni, il
flusso di volontari e cooperanti nei paesi del sud del mondo e infine il flusso di
lavoratori altamente specializzati.

GLOBALIZZAZIONE, LOCALIZZAZIONE ED ESPULSIONE

In conclusione è importante considerare che i processi di globalizzazione non


costituiscono un fenomeno omogeneo che determinano una direzione e degli effetti
univoci, al contrario tali processi manifestano differenziazioni, disgiunzioni e
contraddizioni profonde. Come ha notato Zygmunt Bauman:

«Gli usi del tempo e dello spazio sono non solo nettamenti differenziati, ma
inducono essi stessi differenze tra le persone. La globalizzazione divide tanto
quanto unisce; divide mentre unisce, e le cause della divisione sono le stesse
che, dall'altro lato, promuovono l'uniformità del globo» (Bauman, 1999a, p. 4)

«piuttosto che rendere omogenea la condizione umana, l'annullamento


tecnologico delle distanza spazio temporali tende a polarizzarla» (Bauman,
1999a, p. 22)

Gli stessi processi di globalizzazione della finanza e dell'economia che hanno creato
una classe transnazionale in gran parte distaccata dai territori ha creato anche forme
di mobilità differente. Le élites, gli imprenditori, gli investitori possono muoversi a loro
agio e a loro piacimento nelle diverse rotte globali, spesso sottrandosi - loro e i loro
capitali - ai vincoli legali e fiscali degli stati nazionali, mentre i poveri espulsi dai
processi economici e sociali devono rischiare la vita nelle carrette del mare per
approdare nella terra promessa dell'Europa. La globalizzazione dunque non produce
dunque semplicemente una dinamica di interconnessione ma anche di stratificazione e
separazione. In termini ancora più netti Saskia Sassen sottolinea come «gli ultimi due
decenni hanno visto crescere rapidamente il numero di persone, imprese e luoghi
espulsi dai fondamentali ordinamenti sociali ed economici del nostro tempo» (Sassen,
2015, p. 7).
Non si tratta di nuove povertà o del ritorno di forme di povertà, ma di qualcosa di
molto diverso, ovvero la produzione di scarti, di eccedenze, di persone considerate
inutili dal sistema di produzione capitalistico contemporaneo. Masse crescenti di
espulsi dalle proprie terre, dal proprio lavoro, dalla propria comunità, dai diritti e dai
sistemi sociali.
In prospettiva dunque, con l'aumento di queste masse di esclusi e la crescente
consapevolezza di un'impossibile accesso o integrazione nel sistema del "benessere" 157
dominante si delineano dunque nuove tensioni, nuovi conflitti e nuove forme di
violenza. Non c'è dubbio che il diffondersi di forme di populismo politico nonché la
presa che movimenti criminali e terroristici hanno nelle popolazioni locali dipendano
anche dalla crescita del malessere degli esclusi del sistema globale.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
158

Il linguaggio del mondo contemporaneo.


Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Docente: Marco Deriu

LAVORO/PRECARIETÀ

Il lavoro è una categoria culturale centrale nella nostra società. Eppure quando oggi
parliamo di lavoro non ci rendiamo conto che gran parte dei nostri schemi di lettura,
delle nostre categorie sono divenute nel frattempo improprie e inadatte a rendere
contto del contesto attuale. Le mutazioni del lavoro sono state tante e tali da
cambiare radicalmente l’esperienza e le condizioni sociali di una parte crescente della
popolazione e delle generazioni più in particolare.
Personalmente ritengo che quello che stanno vivendo oggi le nuove generazioni non
sia semplicemente un’esperienza di modificazione delle forme di organizzazione del
lavoro o di sostentamento. Credo che stiano attraversando un vero e proprio
mutamento antropologico, di cui è difficile rendersi conto per due motivi: il primo è
che tutti noi stiamo vivendo questo tempo e questo cambiamento in una dimensione
individuale e non c’è una socializzazione delle nostre esperienze; il secondo è che ci
manca un linguaggio per farlo. Non siamo ancora in grado di raccontare quello che le
nuove generazioni stanno vivendo in una maniera abbastanza profonda. Il punto è
invece mostrarsi capaci di raccontare le proprie esistenze, di produrre significati sociali
nuovi a partire da quello che si vive, a imporre un linguaggio politico nuovo, coerente
con il senso sociale che si intende istituire. Essendo in una fase di grande
trasformazione occorre inoltre riuscire a guadagnare una prospettiva che non sia né
irrigidita sul passato nè schiacciata sul presente, ma capace in qualche modo di
leggere eredità, trasformazioni e visioni del futuro. In questa prospettiva può essere
stimolante domandarsi come si costruisce la gestione del presente e la proiezione
verso il futuro delle generazioni che vivono all'ombra del precariato.

La capacità di aspirare nell'epoca del precariato

In un saggio di qualche anno fa (Appadurai 2011, pp. 3-53; Appadurai, 2014, cap.
9.), l'antropologo indiano Arjun Appadurai ha offerto una riflessione sulla "capacità
di aspirare", presentandola come una dimensione fondamentale della democrazia e del
cambiamento sociale.
Essa corrisponde alla possibilità di far sentire la propria voce, di esprimere la
propria "protesta", di partecipare criticamente, di mettere in campo desideri e obiettivi
rivolti al futuro e al miglioramento delle condizioni personali e collettive. Come ha
notato Paolo Jedlowski, le aspirazioni si collocano tra i meccanismi della
protensione, ovvero la tensione a trascendere lo stato di cose presente, e quelli
dell'aspettazione, ovvero l'anticipazione nell'immaginazione di futuri possibili
(Jedlowski, in de Leonardis, Deriu, 2012, p. 3.; cfr anche Jedowski, 2012, p. 72). Si
tratta dunque di individuare un rapporto effettivo e fecondo tra i propri desideri di
cambiamento e miglioramento e l'identificazione di quei percorsi e processi sociali e
collettivi per incamminarsi (o "navigare", per usare la metafora di Appadurai)
coerentemente in quell'orizzonte.
Si tratta dunque, secondo l'antropologo indiano, di una capacità umana
fondamentale e al contempo di un'attitudine definita e nutrita culturalmente. Le 159
aspirazioni e le idee circa il futuro si nutrono infatti di strumenti metaforici, retorici,
organizzativi che hanno una forte relazione con le culture e le forme sociali locali
perché, pur riferendosi a bisogni, preferenze, scelte e previsioni soggettive, non sono
mai semplicemente individuali ma si riagganciano a più ampie e generali idee etiche e
metafisiche che definiscono cosa sia la felicità, la giustizia o la "buona vita". Come
scrive Appadurai:

«le aspirazioni fanno parte di un più ampio insieme di idee morali e metafisiche,
derivanti da norme culturali più ampie. Le aspirazioni non sono mai
semplicemente individuali (come il linguaggio dei desideri e delle scelte ci porta a
pensare). Si formano sempre nell'interazione con la vita sociale e nel suo
tessuto. […] Le aspirazioni a una buona vita, sana e felice, esistono in tutte le
società. Tuttavia, l'immagine buddhista della buona vita è piuttosto lontana da
quella islamica. Alla stessa maniera, l'idea della buona vita di una povera
contadina tamil può divergere da quella di una donna cosmopolita di Delhi così
come dall'idea di una donna, similmente povera, della Tanzania. Ma, in ogni caso
le aspirazioni alla buona vita fanno parte di un qualche sistema di idee (si ricordi
la relazionalità come un aspetto della cultura), che le colloca in una più grande
mappa di idee e di credenze locali circa la vita e la morte, la natura dei
possedimenti terreni, l'importanza dei beni materiali rispetto alle relazioni sociali,
la relativa illusione della continuità sociale, il valore della pace e della guerra»
(Appadurai, 2015, p. 257).

In altri termini indagare le aspirazioni di un gruppo sociale o di una generazione


significa entrare a fondo nei sistemi di valore, di riconoscimento, di comunicazione, di
costruzione di consenso e di manifestazione del dissenso.
Appadurai ritiene inoltre che questa specie di meta-capacità risenta anche delle
condizioni sociali. Essa non è distribuita uniformemente in tutti i paesi ed in tutti gli
strati della società, ma risulta generalmente più presente e sviluppata in coloro che si
presentano relativamente più ricchi e potenti. Tali gruppi sociali, infatti sono più in
grado di produrre discorsi, narrazioni e metafore, di mobilitare reti e poteri, di mettere
in campo strumenti e mezzi per raggiungere determinati obiettivi o per definire nuovi
scenari di cambiamento rivolti al futuro. La forza della capacità di aspirare si definisce
attraverso la capacità di elaborare una mappa di viaggio realistica verso un futuro più
soddisfacente e gratificante. In altre parole la capacità di aspirare è una capacità
di immaginare e costruire ponti concreti tra il presente e il futuro. È un modo
di immaginare e piantare nel presente le radici del futuro. Ma, avverte Appadurai,

«In ogni società, i più privilegiati, allo scopo di esplorare il futuro con maggiore
frequenza e realismo e condividere tale conoscenza, hanno semplicemente usato
la mappa delle norme di tale società più regolarmente dei propri, più deboli e più
poveri vicini. I membri più poveri, proprio perché privi dell'opportunità di
esercitarsi nell'uso di questa capacità di orientamento (in quanto le loro
condizioni permettono sia pochi esperimenti sia minore facilità di immaginare
futuri alternativi), hanno un orizzonte di aspettative più fragile» (Appadurai,
2015, pp. 258-259).

Il modo in cui le persone immaginano, danno forma e avvicinano il futuro


attraverso forme di azioni e intervento non è dunque semplicemente un dato di fatto,
ma piuttosto un terreno dinamico, nel quale si affacciano molti elementi complessi e
interagenti. Rispetto a questi contesti specifici è possibile domandarsi dunque quali
sono le difficoltà e le opportunità con cui si trova a che fare un gruppo sociale ed in
quale modo si può intervenire per rafforzare le forme di aspirazione, per sfruttare 160
meglio le potenzialità e riconquistare così il senso di un rapporto più dialettico e attivo
verso il proprio futuro.
Nello specifico il focus della riflessione di Appadurai riguardava le aspirazioni della
popolazione povera di Mumbay in opposizione agli strati più ricchi della società
indiana. Io mi ripropongo invece di discutere la dimensione delle aspirazioni in un
contesto differente, quello delle generazioni vissute e cresciute nell'esperienza del
precariato.
In particolare vorrei prendere in esame tre questioni: 1) in che modo le condizioni
di precarietà in cui si trovano a vivere le attuali generazioni possono influire sulla loro
"capacità di aspirare"; 2) in quale senso il contenimento delle aspirazioni diventa nella
società della precarietà un potente meccanismo di controllo politico o viceversa un
possibile terreno di conflitto sociale; 3) quali forme e orizzonti può assumere la
capacità di aspirare nelle attuali condizioni.
Ma per cominciare val la pena richiamare alcuni dati recenti.

Le giovani generazioni e la lotteria del lavoro

Secondo l'OECD Employment Outlook 2016 il tasso di occupazione in Italia si


attesta nella prima parte del 2016 al 49,4%; si tratta tuttavia del terzo valore più
basso tra i paesi OCSE dopo la Grecia e la Turchia.
Secondo i dati ISTAT nel secondo semestre 2016 il tasso di disoccupazione in
Italia era pari all’11,5% in termini assoluti circa 2 milioni e 965 mila persone.
A livello europeo, secondo la rilevazione EUROSTAT dello stesso periodo il tasso di
disoccupazione nell'Eurozona era del 10,1%, circa 22 milioni di persone.
Se guardiamo allo specifico della fascia giovanile il tasso di disoccupazione dei 15-
24enni in Italia nel 2016 era pari al 35.5 (era del 20,3% nel 2007). L'Italia ha il tasso
di disoccupazione giovanile tra i più alti in Europa, inferiore solo a Spagna e Grecia.
Quello della disoccupazione
giovanile è un problema che
colpisce gran parte dei paesi
più industrializzati. Nei paesi
OCSE tra i giovani attivi con
meno di 24 anni circa uno su
quattro è disoccupato.
Quello che occorre notare
dunque è che almeno per
quanto riguarda alcuni paesi
la disoccupazione giovanile è
divenuta un fenomeno di
massa che minaccia di
escludere e tener lontano dal
mondo del lavoro proprio le
persone che vi si sono appena
affacciate. Altro elemento
preoccupante è che il tasso
di disoccupazione di lungo periodo (da oltre un anno) che sta diventando un
problema strutturale in Europa. Secondo uno studio specifico realizzato in Germania 78 161
quasi la metà dei 22 milioni di disoccupati in Europa sono senza lavoro da più di un
anno. Da questo punto di vista l'Italia rappresenta uno dei paesi più toccati da questo
fenomeno in Europa (settima su 28 paesi). Secondo l'OECD Employment Outlook, in
Italia i disoccupati di lunga durata, sono il 58,7% del totale dei disoccupati, una quota
tra le più elevate tra i paesi OCSE, pur migliorata di 3,5 punti percentuali rispetto al
picco raggiunto nel 2014.
Occorre tener conto di questo dato di fondo per capire come agli occhi dei più
giovani l'impiego stia diventando un'incognita sempre più evanescente. Questo fatto
produce conseguenze anche per chi qualche forma di lavoro - ancorché precaria e
malpagata - riesce a ottenerla. Di fatto anche i lavoratori precari sono minacciati di
ricadere nel tunnel della disoccupazione se non si adeguano alle condizioni e alle
richieste del proprio datore di lavoro.
Inoltre secondo l'OCSE Employment Outlook 2016 oltre la metà degli under 25
italiani che lavorano è precario, e la percentuale è aumentata tra il 2014 e il 2015,
dal 56% al 57,1%. Nei fatti si calcola che in Italia nel 2015 circa il 14 per cento delle
persone assunte sia stato assunto con contratti a tempo determinato.
Questa condizione è il risultato non solo della più recente crisi economica e
finanziaria, ma anche di fattori più strutturali e principalmente dell’introduzione di
tecnologie laborsaving (automazione, tecnologie informatiche, telecomunicazione),
delle politiche condotte in nome della competizione globale e della flessibilità che
hanno ridotto i costi del lavoro, hanno eroso diritti e prerogative, pur di mantenere i
profitti, nonché del progressivo smantellamento e indebolimento del settore pubblico.
A conti fatti l'esperienza del precariato ha in Italia alle spalle quasi due
decenni. Data almeno dal 1997 con il varo del pacchetto Treu che ha aperto alle
co.co.co e al lavoro interinale. Nel frattempo un'intera generazione è cresciuta in
questa condizione. Dunque c’è un apprendimento silenzioso e molto difficile che i
giovani cominciano molto presto e a cui rischiano di adattarsi, ma di cui sono
responsabili solo parzialmente.
Le esperienze di lavoro si profilano sempre più spesso come assolutamente
precarie, incerte e non garantite. Non si tratta solamente della tipologia del contratto
o della durata dello stesso. Guy Standing ha suggerito che il precariato possa essere
più chiaramente definita in senso negativo come quel tipo di lavoro e di lavoratori che
vengono privati dei sette tipi di sicurezza (Standing 2012, pp. 26-27) che erano stati
conquistati dai movimenti dei lavoratori nel secolo scorso, ovvero:
Sicurezza nell'occupazione: ovvero una reale opportunità di trovare
occupazione, garantita da un impegno del governo a favore della "piena occupazione";
Sicurezza del posto di lavoro: ovvero un'assunzione regolamentata che protegge
contro la possibilità di un licenziamento arbitrario;
Sicurezza del ruolo professionale: possibilità di mantenere il proprio ruolo
professionale e di mobilità verso l'altro;
Sicurezza sul posto di lavoro: protezione contro il rischio di incidenti, e tutela
rispetto a infortuni e malattie;
Sicurezza della formazione sul lavoro: opportunità di sviluppo delle proprie
competenze attraverso l'apprendistato e la formazione;
Sicurezza del reddito: garanzia di un introito fisso e adeguato, garantita
attraverso differenti possibili strumenti e modalità.

78
Fondazione Bertelsmann, 2016, Long-term Unemployment in the EU: Trends and Policies,
http://www.bertelsmann-stiftung.de/fileadmin/files/user_upload/Studie_NW_Long-
term_unemployment.pdf
Sicurezza della rappresentanza: garanzia di potersi esprimere e di poter
avanzare richieste e rivendicazioni tramite forme di rappresentanza sindacale e diritto 162
di sciopero.
Questo elenco potrebbe essere peraltro ulteriormente ampliato includendo anche
questioni come la tutela della maternità e della paternità, o la garanzia di qualche
forma di sistema pensionistico a tutela delle future condizioni di anzianità, ma su
quest'ultimo tema torneremo dopo.
I lavoratori precari dunque sono tali poiché vengono esposti ad una forma
di insicurezza radicale che comprende molte dimensioni
contemporaneamente, tanto da rendere sempre più difficili le strategie di
difesa e di organizzazione della propria vita. Le offerte di lavoro riguardano
impieghi di pochi mesi, scarsamente qualificati, sottopagati, senza opportunità di
carriera, con poche tutele, senza possibilità di contrattare condizioni migliori, senza
dunque alcuna prospettiva di futuro. L’ideale di un posto minimamente stabile e
garantito si allontana sempre più lontano nel tempo.
Questo significa difficoltà a costruire identità professionali coerenti, ad accumulare
esperienza ed un curriculum spendibile nel passaggio da un contesto di lavoro ad un
altro, ad accumulare anzianità retributiva e contributiva. L'esperienza del precariato
può essere descritta da questo punto di vista come una specie di cancello girevole in
ragione del quale anziché andare avanti si continua a tornare allo stesso punto di
partenza.
Una tale configurazione del mondo del lavoro ha prodotto una crisi e un
disorientamento anche di altre dimensioni sociali, da quelle educative e formative a
quelle del volontariato o dell'impegno politico e sociale.
Per quanto riguarda il primo aspetto pensiamo al percorso di costruzione dei
fondamenti educativi e formativi per entrare a far parte di questa società. Per un
verso oggi i giovani si rendono conto almeno in parte di stare affrontando un lungo
percorso di studi – da un minimo di 13 a 17-18 anni di studio (per chi fa l'Università)
o anche di più se contiamo specializzazioni, master, dottorati ecc. – senza che questo
assicuri una qualsivoglia connessione con il lavoro o l’impiego che troveranno dopo. La
connessione tra formazione e lavoro oggi non è affatto assicurata, anzi diminuisce
sempre di più.
In Italia è molto alta anche la percentuale dei giovani inattivi, i cosiddetti NEET
(Not in Education or in Employment Training), sono circa 1,3 milioni di persone,
il 20% della popolazione nella fascia d'età 15-24. Oltre un giovane su 4 tra i 15 e i 29
anni è un NEET, ovvero non studia e non lavora.
C’è un fatto di fondo nel vissuto delle giovani generazioni che va assolutamente
compreso, un senso di precarietà e di incertezza che invade ogni spazio della vita
sociale e intima: dalla dubbia utilità del loro studio, all’incertezza e dalla fragilità del
lavoro, dalla crisi delle famiglie e delle relazioni primarie all’incertezza economica,
dalla crisi delle agenzie formative a quella delle istituzioni politiche. Come notava il
sociologo francese Pierre Bourdieu:

«Risulta chiaro che la precarietà oggi è dappertutto. Nel settore privato, ma


anche in quello pubblico, che ha moltiplicato i posti di lavoro a tempo definito e
interinali, nell'industria ma anche nelle istituzioni di produzione e diffusione
culturale, nel mondo della formazione, nel giornalismo, nei mass media, etc.,
dove essa produce effetti quasi sempre identici, che diventano particolarmente
visibili nel caso estremo, quando colpisce alcuni con il dramma della
disoccupazione: la destrutturazione dell'esistenza, privata tra l'altro delle sue
strutture temporali, e il conseguente degrado di tutto il rapporto con il mondo,
con il tempo, con lo spazio» (Bourdieu, 1999, p. 96).
La mancanza di controllo sui tempi e gli spazi di vita
163
Uno degli aspetti più difficili da riconoscere pubblicamente è che il precariato non
corrisponde affatto ad una condizione di sottoccupazione. Talvolta si produce
paradossalmente l'esatto contrario una forma di sovraoccupazione forzata. Il
precario è fin troppo impegnato a lavorare. Lo scarso riconoscimento economico, la
delimitazione temporale o l'incertezza sulla rinnovabilità dell'attuale occupazione, la
mancanza di benefit e altre opportunità, spinge il giovane non solo ad adattarsi alle
condizioni di sfruttamento ma anche a ricercare e accettare più forme di impiego e
impegno lavorativo contemporaneamente, cercando di incastrare e sincronizzare
spazi, tempi e organizzazione in modo da raggiungere o approssimarsi a una base di
sopravvivenza sul breve e sul medio periodo. Questo significa che un precario spesso
sovrappone e intreccia una molteplicità di impegni, compiti e mansioni nello stesso
periodo, nella stessa settimana e spesso nella stessa organizzazione giornaliera. Nei
fatti questa strategia, del tutto comprensibile in termini di sopravvivenza produce
tuttavia nei fatti una forma di autosfruttamento. Gran parte del tempo libero e delle
energie vengono costantemente occupate e impegnate fino a superare spesso il monte
ore del lavoro salariato tradizionale. Non solo gli orari di lavoro si dilatano ben oltre i
consueti orari d'ufficio o i turni d'officina, ma tutta una serie di spazi e tempi di vita,
relazione e convivialità, dai pasti, alle serate e alle notti, ai week end, vengono messi
impiegati per portare a termine le diverse incombenze. In questo modo la distinzione
tra tempi e spazi di vita e tempi e spazi di lavoro viene meno o diventa sempre più
evanescente. C'è in ogni modo una compressione del tempo libero e degli spazi di
riproduzione che spesso richiede tra l'altro un faticoso impegno in una contrattazione
interiore e relazionale per difendere e salvaguardare dimensioni di relazione e
familiarità quotidiana.
In termini più ampi l'incertezza lavorativa, la continua richiesta di adattamento, il
timore di perdere le proprie precarie fonti di reddito produce una riconfigurazione
generale dei progetti personali e familiari.
Tale precarietà determina per esempio non solo un ritardo nel raggiungimento
dell'indipendenza economica, ma anche una maggiore difficoltà di accesso
all'abitazione sia per la sproporzione tra il costo degli immobili, il proprio reddito e la
propria possibilità di risparmio, sia per la fatica a causa delle proprie condizioni
lavorative precarie a vedersi concessi mutui da parte delle banche, o anche a ottenere
contratti di affitto a fronte di richieste di garanzie, o ad anticipi di mensilità. Queste
difficoltà possono non solo sottrarre energie, ritardare passaggi ma anche restringere
il campo delle possibilità a condizioni meno favorevoli e dunque complessivamente a
ricondurre verso il basso le proprie aspettative. Nei fatti è evidente che per la maggior
parte dei giovani l'uscita di casa è associata ad una prospettiva di peggioramento delle
proprie condizioni di vita materiali.
Più in generale l'esperienza del precariato ha portato con sé forme diverse di
costruzione identitaria, relazionale, di strategie di formazione, di sperimentazione, di
organizzazione relazionale e famigliare. Un modo diverso di concepirsi nello spazio e
nel tempo sociale. La precarietà contribuisce in maniera determinante ad una
complessiva ridefinizione delle stagioni della vita già in atto da diversi
decenni. Fino agli anni 50 i giovani terminavano la formazione, entravano nel mondo
lavorativo, si costruivano una famiglia e accedevano definitivamente nel mondo adulto
già dai 25 anni. Al contrario come ha notato il demografo Massimo Livi Bacci oggi la
fase di transizione all'adultità nel proprio ciclo di vita si è dilatata in maniera
significativa (Livi Bacci, 2008, cap. 2). Si sommano a suo avviso una serie di fattori:
l'allungamento dei processi formativi, l'elevata e crescente età alla quale si abbandona
la casa dei genitori per una abitazione autonoma, l'elevata e crescente età d'ingresso
nel mercato del lavoro, l'aumento dell'età alla quale i giovani iniziano una vita di
coppia, il ritardo nella formazione dei progetti riproduttivi. 164
E non si tratta nemmeno solamente di una dilatazione dei tempi. Di fatto, come
notano Elisabetta Ambrosi e Alessandro Rosina, quello che si registra nella
transizione all'età adulta è un'esperienza di reversibilità:

«Le tappe sono meno reversibili. L'occupazione più instabile. L'unione di coppia
può essere sciolta e si può tornare a vivere come single. Dopo la fine di un
rapporto di lavoro o dopo un fallimento coniugale, spesso si torna,
temporaneamente, a vivere con i propri genitori» (Ambrosi, Rosina, 2009, p.
19).

Come è stato notato da più parti, è difficile dunque proiettarsi sul futuro se non si
ha una solida presa sul presente, o se questa presa viene a mancare totalmente. In
queste condizioni, come ha notato Marita Rampazi, diventa prevalente un senso di
"incertezza biografica" che si compone di diversi elementi quali la reversibilità delle
scelte, l'enfatizzazione del presente a scapito del futuro e del passato, la dilatazione
dei tempi di passaggio, e una progressiva centralità della dimensione biografica. Ma
l'elemento determinante è che oggi «l'incertezza biografica non appare più una
condizione transitoria, legata a una particolare fase di passaggio ma si propone come
un aspetto permanente dell'esperienza individuale» (Rampazi, 2009, p. 83).
Per quanto riguarda la posticipazione delle nascite, legata ad una generale
modificazione degli stili di vita, comincia nel nostro paese dalla metà degli anni '70,
ma va detto che aspetti quali la crisi economica, la precarietà lavorativa, l'incertezza
sull'impiego, sul reddito e anche sulle tutele in caso di maternità e paternità, oggi
contribuiscono ulteriormente a rinviare nel tempo l'esperienza riproduttiva. Se nel
1991 l'età media del primo parto era in Italia di 29,1 anni, la media era già salita a
30,38 nel 2000, a 30,87 nel 2005 (31,29 per le sole madri italiane), a 31,26 nel 2010
(31,89 per le sole madri italiane), a 31,39 nel 2012 (32,02 per le sole madri
italiane)79. Attualmente sette nati su 100 hanno una madre ultraquarantenne. La
posticipazione delle nascita contribuisce fra l'altro all'abbassamento della natalità nel
nostro paese. Nei fatti in Italia i giovani sono sempre meno. Secondo le rilevazioni
Istat del 201680 in Italia ci sono 161,1 anziani ogni 100 giovani, con un indice di
vecchiaia tra i più vecchi del mondo insieme al Giappone e la Germania.

Il precariato e il senso di una mancata integrazione sociale

Il precariato ha creato inoltre un peggioramento delle condizioni economiche, un


aumento del differenziale nelle retribuzioni salariali tra giovani e adulti, tra lavoratori
precari e lavoratori tradizionali, e in generale del potere di acquisto reale. Il risultato è
un espandersi dei cosiddetti working poor nelle nuove generazioni ovvero di persone
che pur essendo occupate non riesco a garantirsi un livello di sussistenza adeguato.
Come dicevano gli indignados "A fine stipendio avanza troppo mese". Secondo le
stime proposte dal CNEL in Italia i working poor sarebbero tra i 2 milioni e 800 mila
persone e i 3 milioni e 400 mila persone a seconda di come vengono calcolati (CNEL,
2014 in particolare le pp. 29-31).
Tutte queste condizioni di precarietà, povertà e incertezza hanno creato una
maggiore dipendenza nei confronti dei genitori e delle generazioni precedenti. Negli
ultimi decenni si è costituito infatti in Italia una sorta di welfare intrafamiliare che in
parte ha supplito alla fragilità dei giovani, ma ha anche bloccato od ostacolato dei

79
Dati tratti dagli Indicatori di fecondità dell'ISTAT.
80
http://www.istat.it/it/files/2016/04/Cap_2_Ra2016.pdf
percorsi e dei progetti. Come ha scritto lapidariamente Giuliano Cazzola «I figli si
riprendono nell'ambito privato tutto ciò che i padri rubano loro nella vita pubblica. 165
Recenti stime hanno calcolato che le famiglie vanno in aiuto dei figli già adulti (magari
pure inseriti in un proprio nucleo familiare) con un flusso di risorse pari a circa 80
miliardi di euro all'anno» (Cazzola, 2004). Il dato va certamente aggiornato ma da
un'idea del fenomeno. Tuttavia questo scambio sancisce una saldatura
fondamentalmente conservatrice, che toglie libertà e opportunità alle nuove
generazioni. O detto in altre parole «I genitori italiani sono molto generosi con i loro
figli e molto egoisti coi figli degli altri» (Boeri, Galasso, 2007, p. 5 e cap. III). Inoltre
si tratta di un tampone evidentemente temporaneo destinato ad esplodere nel giro di
pochi anni o al massimo di una generazione.
Si tratta dunque di una trasformazione che non riguarda semplicemente la
collocazione e la retribuzione ma il senso di sé, delle proprie relazioni, della propria
esistenza, dei propri cicli di vita, della propria integrazione sociale. Nel vissuto di molti
giovani vi è una profonda questione che riguarda l’ansia e l’angoscia rispetto al
prossimo lavoro precario e più profondamente rispetto al proprio posto nella società.
La propria condizione li porta talvolta a ritenersi non predisposti, non adeguati
all’inserimento sociale ed economico. Si domandano se la società in cui vivono è
interessata al loro contributo, alla loro esistenza oppure no. Si domandano se la
comunità fa in qualche modo affidamento su di loro, se li “mette al lavoro”, nel senso
di dargli davvero un’occasione per farsi valere o se il loro contributo è quasi del tutto
indifferente, così come è assolutamente indifferente chi lo svolge. L’importante è che
all'occasione si riesca a coprire quel buco di qualche mese nel ciclo della produzione.
Dunque se l’incertezza sul futuro può creare una tensione e un’angoscia costante, il
messaggio di silenzio, d’indifferenza quando non di cinismo che le nuove generazioni
ricevono dalla società li può portare anche verso la depressione o la rabbia.
Come ha scritto Stefano Laffi nei fatti quello che è avvenuto è un'iscrizione dei
giovani nel registro dei soprannumerari, dei superflui, degli inutili

«Se fossero previsti nella scuola, nel mondo del lavoro, nelle istituzioni, nella vita
pubblica - ma si può dire persino nella famiglia - la scena sarebbe diversa,
mentre tutto è pervaso dall'imbarazzo su cosa fargli fare, come tenerli, come
dirgli che non c'è più posto, che i soldi rimasti servono a mantenere gli adulti, i
quali casomai provvedono ai propri figli (condannandoli quindi a essere sempre
"figli", mai "giovani")» (Laffi 2014, p. 128).

La questione in sostanza riguarda la possibilità che una società riesca a proporre ai


giovani delle forme di integrazione sociale e simbolica, che testimoni il riconoscimento
e l'interesse per lo scambio tra generazioni, per il contributo che i giovani possono
dare, per le competenze e le sensibilità che possono portare.
Da questo punto di vista alcune analisi tracciano un quadro molto problematico. Gli
psicoanalisti Miguel Benasayag e Gérard Schmit per esempio hanno fornito una
personale interpretazione del vissuto dei giovani di oggi a partire dalla loro esperienza
clinica. A loro avviso le condizioni di incertezza, insicurezza, mancanza di garanzie,
precarietà generalizzata non permetterebbero infatti a questi giovani di vivere in un
adeguato contesto strutturante. I due psicanalisti sostengono che il mutamento cui
stiamo assistendo potrebbe essere descritto come un “cambiamento di segno del
futuro”, ovvero il passaggio da un futuro-promessa al futuro-minaccia
(Benasayag, Schmit, 2005, pp. 18 e 30). Si tratta di un mutamento di percezione
oramai piuttosto radicato e diffuso.
Un sondaggio demos COOP per la Repubblica del gennaio 201381 ha
confrontato per esempio le opinioni della popolazione rispetto al futuro dei giovani 166
sulla base di serie storiche. La domanda di riferimento recitava: "Secondo lei i giovani
di oggi avranno nel prossimo futuro una posizione sociale ed economica migliore, più o
meno uguale o peggiore rispetto a quella dei loro genitori?".
Nel 2006 il 25,5% pensava che sarebbe stata migliore, il 26,2% più o meno uguale
e il 45% pensava che sarebbe stati peggio. Nel 2009 la percentuale che ha risposto
che sarebbe stato migliore è scesa al 18,6, il 23,3 lo riteneva più o meno uguale e il
56,6% peggiore. Nel 2013 il 12,3% pensava che sarebbe stata migliore, il 16% più o
meno uguale e ben il 69,7% che sarebbe stata peggiore.
Nei fatti, hanno osservato Benasayag e Schmit

«Oggi, per i giovani, la minaccia del futuro si è sostituita all’invito a entrare nella
società, a condividere, a conoscere e ad appropriarsi dei beni della cultura.
Sembra che la nostra società non possa più “concedersi il lusso” di sperare o di
proporre ai giovani la loro integrazione sociale come frutto e fonte di un desiderio
profondo» (Benasayag, Schmit, 2005, p. 40).

Questo cambiamento si sta producendo senza una reale discussione e


problematizzazione collettiva. Di fronte alla depressione o alle reazioni rabbiose dei
giovani, le istituzioni fingono che il problema sia quello di educare o stimolare la
buona volontà di questo o quel ragazzo. Mentre gli adulti sembrano dimenticare che il
problema rispetto al futuro non sta tanto “nel” giovane in sé e rimuovono il fatto che
la crisi investe l’intera società.
In passato c'era una cultura del sacrificio che garantiva o proponeva a fronte
dello studio o dell'apprendistato una possibilità di integrazione sociale ed economica.
Quelle opportunità di impiego, di valorizzazione, di sostegno, di diritti e più in generale
quegli standard di benessere e consumo raggiunti negli anni del boom economico e
della crescita oggi appaiono non più sostenibili o democratizzabili. Le disuguaglianze
continuano ad aumentare non solo tra classi sociali ma anche tra una generazione e
l'altra. I giovani sembrano sempre di più le vittime sacrificali designate di un sistema
che non sembra disposto ad interrogarsi sulla sua equità e sostenibilità.

La rottura della solidarietà intergenerazionali

In questa prospettiva il grande tema della precarietà va letto non solo come
aumento delle condizioni di incertezza e fragilità delle nuove generazioni di lavoratori,
ma come rapido dissolvimento delle forme di equità tra differenti generazioni e dei
legami di solidarietà intergenerazionali che nella fase industriale novecentesca erano
stati in qualche modo reinventati e garantiti.
Prendiamo per esempio il tema della previdenza sociale e delle pensioni. Per
un verso tutta una serie di garanzie, di diritti e sussidi rivolti a proteggere e
supportare i lavoratori e le lavoratrici in caso di gravidanza, di malattia, di infortuni,
licenziamenti arbitrari o chiusura dell'azienda sono via via in corso di smantellamento
con la giustificazione della necessità di mantenere basso il costo del lavoro.
D'altra parte anche l'equilibrio tra giovani anziani e il relativo sistema pensionistico
oggi è sempre più in crisi. Non solo perché come abbiamo visto è cambiata la struttura
della popolazione e non solo perché si continua ad innalzare l'età pensionabile,
prolungando la permanenza nel mondo del lavoro dei più anziani a fronte di una
difficoltà di accesso dei giovani. Ma anche perché la precarizzazione del lavoro rende

81
http://www.demos.it/2013/pdf/2563report_-_repubblica_delle_idee_-_torino_02.02.13.pdf
l'accesso ad un sistema pensionistico più difficile, travagliato ed incerto per i giovani
precari di oggi. 167
In passato il sistema pensionistico finanziato dal prelievo fiscale dei lavoratori,
garantiva i servizi sociali, le cure mediche e un reddito ai più anziani, in cambio di una
garanzia che quando si sarebbe stati a propria volta anziani e bisognosi di cure ci
sarebbe stato una previdenza anche per sé. Oggi gran parte dei lavoratori precari
sono nei fatti stati esclusi da questo sistema o vi rientrano in maniera del tutto
secondaria. Chi è entrato nel mercato del lavoro negli ultimi vent'anni andranno in
pensione più tardi e con una pensione incerta e comunque più bassa.
Come ha notato Luciano Gallino (Gallino, 2013, p. 14), i giovani che hanno
iniziato a lavorare con contratti co.co.co. quando avranno raggiunto 66 anni e almeno
30 annualità contributive piene (fatto di per sé assai improbabile) potranno contare
circa sul 35/40% della retribuzione. Essendo questa molto più bassa dei lavoratori
dipendenti (la media mensile rilevata è di 825) determinerà dunque nel migliore dei
casi una pensione di circa 330 euro. Ma la realtà è che nemmeno l'Inps al momento
riesce a fornire dei calcoli precisi.
Nella misura in cui per le nuove generazioni questi lavori sono le condizioni normali,
questo significa che un’intera generazione viene estromessa dalla possibilità di una
vecchiaia supportata. Significa abbandonare gli anziani di domani a loro stessi, privarli
di molte garanzie e destinarli a un ulteriore impoverimento del loro già precario tenore
di vita. Simbolicamente questo equivale a un 'enorme rottura di un implicito patto di
solidarietà intergenerazionale su cui si erano costruiti gli equilibri economici, sociali,
politici novecenteschi.
Il sociologo francese Louis Chauvel ha messo in luce almeno sette punti che
stanno alla base dell'attuale frattura intergenerazionale (Chavel, cit. in
Ambrosi, Rosina, 2009, pp. 43-46)82. Prendendo spunto da quella riflessione per
provare ad ampliare il ragionamento, proponendo in questo contesto un elenco più
ampio che tiene conto di dimensioni sociali, economiche, politiche ed ecologiche:
1. Le opportunità nella fase iniziale: ovvero le condizioni di ingresso nel
mercato del lavoro e la stabilità dell'impiego;
2. La ripartizione del potere d'acquisto: la distanza salariale tra lavoratori over
60 e giovani è andata crescendo negli ultimi decenni;
3. Il progresso delle qualifiche: le possibilità di progressione di carriera attuali
sono molto meno favorevoli che nei decenni precedenti;
4. Le possibilità di ascesa sociale: negli anni '60 e '70 le condizioni economiche
e sociali hanno permesso un forte miglioramento delle proprie condizioni sociali;
5. Le prerogative generazionali decrescenti: nel passaggio da una generazione
all'altra non sono vengono trasmesse le diseguaglianze sociali, ma la situazione e le
prospettive dei giovani di oggi sono per la prima volta peggiori rispetto a quelle dei
loro genitori;
6. La trasmissione del modello sociale e lavorativo: negli sessanta e settanta i
lavoratori hanno goduto di diritti sociali e previdenziali che sono stati
progressivamente erosi con la giustificazione della globalizzazione e della necessità di
contenere la spesa e di mantenere competitive le aziende italiane83.
7. Il potere e la rappresentanza politica ed economica: l'età del personale
nelle istituzioni politiche ed economiche è andata aumentando negli anni, e si è resa

82
L'elenco originale di Chauvel comprendeva i seguenti punti: Primo: la ripartizione del potere d'acquisto;
Secondo: il progresso delle qualifiche; Terzo: le opportunità nella fase iniziale; Quarto: le possibilità di
ascesa sociale; Quinto: le prerogative generazionali decrescenti; Sesto: la trasmissione del modello
sociale (Previdenza e diritti sociali); Settimo: La rappresentanza politica.
83
Come ha riassunto efficacemente Aris Accornero oggi «Le probabilità dei venticinquenni di avere un
impiego permanente sono la metà di quelle che hanno avuto i cinquantenni» (Accornero, 2006, p. 34).
più difficile la partecipazione dei giovani alle decisioni che riguardano il loro presente e
il loro futuro. 168
8. Le condizioni del debito pubblico: negli ultimi decenni ed in particolare dagli
anni '70 e '80 in avanti si è fatto ricorso ad un crescente indebitamento che ha
raggiunto condizioni considerevoli84; tale fardello pesa sulle prospettive dei giovani
costretti a pagarne i costi e gli interessi e minaccia di portare a tagli crescenti e alla
riduzione della spesa pubblica per le future generazioni;
9. Le condizioni dell'ambiente e delle risorse: l’eccesso di sfruttamento delle
risorse realizzato negli scorsi decenni per sostenere il modello di crescita economica
ha prodotto problemi di scarsità o addirittura di esaurimento di molte risorse
fondamentali (risorse fossili, risorse minerali, disponibilità di suolo, acqua); la crescita
dei rifiuti e dell’inquinamento, e gli accumuli di rifiuti tossici rimarranno come eredità
per le future generazioni. Più in generale si è assistito ad un degrado degli ecosistemi,
dalla riduzione della biodiversità e al dissesto idrogeologico. Nel complesso le
condizioni che si consegna alle future generazioni rappresenta una pesante ipoteca
sulle condizioni di vita e di salute delle future generazioni.
10. Il cambiamento climatico: non solo gli stili di vita e le abitudini delle passate
generazioni ma anche le attuali scelte politiche in tema di emissioni climalteranti
costituiscono infine un lascito drammatico che altererà radicalmente le possibilità di
scelta delle future generazioni.
A mio avviso è importante riconoscere e tener conto anche della gestione del
patrimonio ambientale perché il livello di vita e di consumi insostenibile delle passate
generazioni è stato possibile solamente attraverso uno sfruttamento e un saccheggio
di risorse ben oltre le possibilità di rigenerazione, dunque è come se le generazioni
precedenti abbiano attinto in maniera speculativa al patrimonio delle generazioni
successive. Questo disequilibrio avrà enormi conseguenze non solo ecologiche ma
anche sulla salute, sull'economia e sulle dinamiche politiche in futuro. Il silenzio e la
rimozione su queste interconnessioni socio-ambientali sono un aspetto caratterizzante
dei modelli culturali delle passate generazioni.
In generale dunque negli ultimi decenni è venuto meno visibilmente un senso di
responsabilità e solidarietà intergenerazionale. Molti problemi – sociali, ecologici,
economici, politici – sono stati affrontati avendo come orizzonte solamente
l’immediato presente e senza condurre una reale ed approfondita riflessione sulle
conseguenze delle scelte sulle future generazioni, lasciando i giovani in gran parte soli
a confrontarsi con una serie di nodi irrisolti.
Come hanno scritto Elisabetta Ambrosi e Alessandro Rosina: «Generazione
"rapinata": un'immagine che ben sintetizza la condizione di chi è giovane nel nostro
paese» (Ambrosi, Rosina, 2007, p. 7). Quantomeno, come ha detto Massimo Livi
Bacci, si registra un «progressivo indebolimento delle prerogative dei giovani
avvenuto negli ultimi due o tre decenni» (Livi Bacci, 2008, p. 7).
Insomma per la prima volta i figli potrebbero stare peggio dei genitori e le
generazioni successive peggio di quelle attuali. In molti sembrano accomodarsi
in quella che diventa una semplice constatazione. E ancora una volta quella che può
essere presentata come una semplice costatazione potrebbe facilmente tradursi in un
indebolimento della facoltà di aspirare.
Le domande che dobbiamo porci da questo punto di vista riguardano dunque gli
effetti di questa rottura generazionale. Cosa succede quando una società non si
preoccupa più dell’integrazione e delle possibilità di vita delle generazioni successive?

84
A luglio 2014 il debito italiano aveva raggiunto la cifra record di quasi 2.169 miliardi di euro con una
leggera contrazione nei mesi successivi. A ottobre 2014, i dati Eurostat evidenziano che l'Italia segna il
rapporto più alto in Europa tra debito e Pil (133,8%). Cfr.
http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_PUBLIC/2-23102014-AP/EN/2-23102014-AP-EN.PDF
Quale boomerang può diventare la cancellazione della fiducia nel futuro per le
generazioni a venire? 169
Non si deve sottovalutare il fatto che, come ha sottolineato Luciano Gallino, «il
senso di insicurezza per il proprio destino individuale e familiare, unito al tasso di
angoscia collettiva che ne deriva, è stato il motore di alcuni dei più violenti movimenti
sociali della storia, di sinistra come di destra» (Gallino, 2001, pp. 38-39).
Occorre domandarci quindi se siamo capaci di concepire nuove forme di solidarietà
sociali che si estendano non solo nello spazio ma anche nel tempo. In altre parole se
sappiamo inventare un modello sociale collettivo di distribuzione equa dei rischi e dei
benefici tra generi e generazioni diverse.

Le nuove generazioni e la facoltà di aspirare

A fronte di questa condizione qual è dunque la capacità delle nuove generazioni di


far sentire la propria voce, di protestare o partecipare criticamente?
Complessivamente questa capacità sembra ancora piuttosto limitata. Come spiegare
questo fatto?
Secondo alcuni osservatori una spiegazione è inerente alle forme del dominio di cui
la precarietà stessa costituisce un aspetto. A parere di Pierre Bourdieu la precarietà
si inserisce infatti una modalità di dominio di nuovo genere, fondata sull'istituzione
generalizzata e permanente di insicurezza che spinge ad accettare le nuove forme di
sfruttamento per la sensazione di non avere reali alternative.

«La precarietà colpisce profondamente colui o colei che la subisce: nella misura
in cui rende tutto il futuro incerto, impedisce qualsiasi forma di anticipazione
razionale, e in particolare, quel minimo di fede e di speranza nel futuro che è
necessario per ribellarsi, soprattutto collettivamente, contro il presente, anche
quello più intollerabile» (Bourdieu, 1999, p. 86).

Un'altra possibile integrazione di questa spiegazione riguarda la natura


dell'esperienza di precariato che queste persone hanno attraversato e dalle cornici
mentali con cui è stata vissuta. All'interno di una cultura sempre più centrata
sull'individualismo e su una narrazione dominante che insiste continuamente sulle
infinite possibilità di fare, comprare, essere, divenire molte persone hanno vissuto
queste esperienze più come scacco individuale, come insufficienza personale, che
come una condizione di svantaggio sociale e generazionale. Per esempio la necessità
di dipendere per l'integrazione del reddito, per l'abitazione o per le garanzie di mutui o
rate dai propri genitori che molti hanno attraversato diventa facilmente un terreno di
vergogna, di svalorizzazione e autosvalorizzazione da passare sottosilenzio piuttosto
che un'esperienza comune su cui costruire proteste o rivendicazioni collettive. In
questo senso il dominio di nuovo tipo di cui parla Bourdieu penetra nell'intimo, nel
senso di sé, produce isolamento e depressione piuttosto che altro.
Nei termini di Appadurai, si potrebbe dire che uno degli effetti dell'esposizione
prolungata al precariato è stata quella di produrre un indebolimento delle capacità di
aspirare, della possibilità di dare forma nel presente ad un futuro desiderabile. Questo
può avvenire almeno su due piani differenti: da una parte una maggiore difficoltà a
coltivare un'immagine del futuro sensibilmente diverso, dall'altra una maggiore
difficoltà di individuare nel presente strumenti, risorse e percorsi per rendere possibile
ciò che si sta immaginando.
Questo non significa - come è stato notato - che i giovani abbiano rinunciato a
pensare o a proiettarsi nel futuro o a mantenere un qualche tipo di rotta (Leccardi,
2012, p. 43), quanto che le loro aspirazioni sono necessariamente nutrite insieme di
idealismo e pragmatismo. «L'idealismo nasce dall'aspirazione - tipica dei giovani - a
cambiare il mondo, in nome di valori traditi, o ignorati, dalle generazioni adulte. Il
pragmatismo deriva dalla consapevolezza di non potere contare sugli strumenti 170
tradizionali della politica per l'affermazione di questi ideali» (Rampazi in De Leonardis,
Deriu, 2012, p. 95). L'orientamento, ha notato Marita Rampazi, sembra essere
quello di provare ad agire nella concretezza della vita quotidiana, a partire
dall'ambiente più prossimo, sul quale si esercita qualche forma di controllo, facendo
leva sugli strumenti di cui ciascuno dispone.
Da questo punto di vista mi pare che nel riflettere su come si possano configurare
le immagini del futuro e come possano farsi spazio nuove forme di aspirazione,
occorra confrontarsi con la dimensione antropologica, esistenziale e psichica delle
generazioni che vivono e sono vissute nella cornice del precariato.
Un collega psicologo, Michele Oldani, esperto di psicologia dell'età evolutiva,
sottolineava in alcune lezioni che abbiamo tenuto assieme che in termini psichici,
essere mentalmente precari significa accettare che l'io si può precarizzare. Si
abbandona una tensione unilaterale verso un obiettivo predefinito in ragione del quale
si sacrifica o si relativizza ogni altra cosa e si accetta invece di stare dentro una
polarità, dentro una tensione tra esigenze, interessi e passioni differenti. La vita non è
più qualcosa di tracciato e di lineare che si sviluppa attraverso dei binari prestabiliti
dalla scuola, all'università, al lavoro, alla famiglia ecc. Quella che una volta era una
cultura e una mentalità del sacrificio in vista di un obiettivo futuro, oggi si trasforma in
una ricerca continua di una misura quotidiana, di un senso quotidiano. In qualche
modo si accetta fatto che la propria esistenza sia qualcosa di aperto alla mutazione,
alla trasformazione, allo scarto, all'improvvisazione.
Come è possibile vivere in questa prospettiva? Che cosa comporta? A quali
condizioni è possibile? In termini psicologici per me questo può voler dire due cose. Da
una parte accettare di avere un forte senso interiore di orientamento pur nell'assenza
di un obiettivo identificato e di una traiettoria predefinita. Richiede una forte
centratura in se stessi nel senso di un ascolto e un dialogo continuo con sé, nonché
una capacità di ritrovarsi pur dopo grandi cambiamenti o imprevisti.
In secondo luogo richiede una costruzione di sé e della propria identità attraverso
esperienze differenti, articolate e discontinue. Un processo che riguarda la costruzione
di sé attraverso la trama complessa dell’esistenza, quello che Mary Catherine
Bateson ha indicato con l’espressione “comporre una vita" (Bateson M.C., 1992) in
un libro dedicato ad esplorare la capacità d’improvvisazione e di sintesi creativa nella
composizione delle nostre vite. Ci invita a riflettere sull'«arte dell'improvvisazione, sul
modo in cui ciascuna di noi combina ciò che è familiare e ciò che è sconosciuto in
risposta a situazioni nuove, seguendo una grammatica di fondo e un'estetica in
divenire. […] È tempo adesso di esplorare il potenziale creativo di vite disseminate di
discontinuità e conflitti, di vite in cui le energie non siano concentrate in un ambito
ristretto o permanentemente rivolte a una singola aspirazione. […] Come può la
creatività espandersi nella confusione? A quali intuizioni ci apre la strada l’esperienza
dell’ambiguità e della molteplicità? A che punto l’improvvisazione disperata diventa
un’importante conquista?» (Bateson M.C., 1992, p. 19).
Questa riflessione ci permette di sottolineare che, per certi versi, l'esperienza del
lavoro precario e postfordista, come è stato notato, si approssima di più all'esperienza
storica delle donne, poiché «l’attività lavorativa prevalente assume i caratteri mobili,
frastagliati, irregolari e insieme iper-soggetivizzati, intrisi di personalizzazione,
emotivamente non neutralizzati né neutralizzabili che avevano fatto, appunto, della
forza-lavoro femminile un segmento non perfettamente assimilabile nel sistema
razionalizzato fordista» (Revelli 2001, p. 142).
Quello che occorre segnalare dunque è che nella precarietà, insieme agli aspetti di
dominio, sfruttamento e autosfruttamento, isolamento e svalorizzazione, hanno messo
radici profonde anche delle trasformazioni delle abitudini, delle aspettative, dei
desideri delle nuove generazioni. I giovani oggi sono abituati a essere impegnati su
diversi fronti più che a concentrarsi in un'unica direzione, sono abituati ad 171
attraversare diversi ambienti fisici, relazionali e virtuali in ogni giornata, a gestire
forme e livelli di comunicazione molteplici con diverse reti di persone, mescolando
continuamente dimensioni personali e dimensioni professionali, a cercare di
equilibrare passioni, interessi e necessità piuttosto che dedicare tutte le proprie
energie al lavoro.
L'aspetto difficile da cogliere è che le dimensioni di sfruttamento e quelle
di possibile liberazione sono - nella condizione attuale - entrambe presenti ed
in tensione tra loro. La soggettivazione e la ricomposizione delle dimensioni
personali, relazionali, esperienziali, di cura nelle nuove forme di lavoro possono essere
sia una strada che precipita verso un assoggettamento ed un'espropriazione più
radicale, sia una possibile fuoriuscita dalle scissioni e dalle alienazioni della civiltà del
lavoro novecentesca. Non è difficile vedere che per la maggior parte dei lavoratori
precari - quelli meno dotati di risorse e dunque di strumenti di contrattazione e
autorganizzazione - prevalgono al momento gli elementi di sfruttamento e di
sofferenza, ma questo non deve impedirci di cogliere la portata della mutazione in
corso anche in termini di potenzialità. È fondamentale cogliere la profondità di questo
cambiamento antropologico, esistenziale e psicologico. In questo senso lottare per i
diritti delle nuove generazioni e dei precari più in generale non significa illudersi di
rinchiudere queste nuove generazioni nell’ordine – fisico, mentale, sociale e politico -
del lavoro fordista.
Coglie e sintetizza bene questa tensione e questa possibile apertura oltre le forme
del lavoro conosciute, Andrea Fumagalli quando contrappone l'idea della flessibilità
del lavoro rispetto alle esigenze della vita, contro la flessibilità della vita rispetto alle
esigenze del lavoro:

«è su questo punto, sulla flessibilità, che il precariato mostra di avere una


tensione concreta al ribaltamento del rapporto con il lavoro, perché se ora
flessibilità vuol dire sottomissione alle discontinuità, essa potrebbe voler anche
indicare un'apertura oltre il lavoro. Una flessibilità del lavoro rispetto alle
esigenze della vita è un possibile ribaltamento del rapporto di sottomissione e
sfruttamento. La flessibilità può essere ribaltata e pensata a partire dalle
esigenze della vita, questo i precari lo percepiscono» (Fumagalli, 2006, p. 163).

Occorre sperimentare percorsi di lotta e conquista di diritti, garanzie e tutele nel


contesto di un mutamento di costumi e di aspettative 85. In che misura le nuove
generazioni saranno in grado di trasformare la precarietà in forme riconosciute di
diritto alla discontinuità e alla variabilità del lavoro, in diritto all'organizzazione del
proprio tempo di vita e di lavoro nel quadro di una trasformazione generale delle
forme di esistenza e di sussistenza?
In questo contesto la riflessione sulle aspirazioni torna ad essere cruciale. Occorre
indagare più a fondo le forme che desideri, attese, passioni assumono nelle esistenze
dei giovani di oggi per arrivare a delineare meglio i contorni e i possibili strumenti di
questa trasformazione.

Le nuove generazioni e le difficoltà dell'agire politico

È sul piano della sintesi e dell'incisività politica che l'esperienza del precariato segna
oggi la maggiore difficoltà. Intervenire sul quadro istituzionale, sociale ed economico,

85
In questa direzione vanno molte delle proposte sviluppate nell'ottica della flexicurity che mirano ad
assicurare indennità, accesso ai servizi primari e un continuità di base nel flusso di reddito.
modificare le condizioni di base ed imprimere un orientamento significativo alle
politiche pubbliche richiede infatti un'iniziativa collettiva al tempo stesso concreta e 172
lungimirante che ancora non ha trovato adeguata strutturazione.
In questi ultimi decenni ci sono stati, da parte dei precari, tentativi di raccontare e
descrivere un vissuto, con i rispettivi bisogni, necessità, fatiche, desideri, aspettative,
delusioni, conflitti. C'è oramai una letteratura del precariato, una cinematografia, ci
sono saggi e scritture collettive. Ci sono associazioni e reti, invenzioni creative come
quella di San Precario e manifestazioni pubbliche come l'EuroMayDay.
C'è stata tuttavia anche una fatica dei soggetti tradizionali, partiti e sindacati non
solo a raccogliere questa spinta ma anche a trovare strumenti, luoghi e forme di
confronto. Probabilmente perché il conflitto emergente del precariato mette in crisi
molte schematizzazioni e appartenenze politiche tradizionali.
Del resto in questa situazione è anche difficile individuare un avversario o
quantomeno un interlocutore. Contro chi si sta lottando? Il precariato è stato e
continua ad essere promosso in Italia e in Europa invariabilmente dalla
destra come dalla sinistra, dalle imprese come dalle istituzioni pubbliche. Le
stesse organizzazioni sindacali sono orientate - nel migliore dei casi - a difendere ed
estendere i diritti le forme tradizionali del lavoro produttivo più che a elaborare assetti
e prospettive capaci di includere e rispondere alle esigenze di chi viene dal precariato.
Da questo punto di vista bisogna porsi in modo radicale lo stesso tipo di domanda
che suggeriva tempo fa Ulrich Beck:

«Il desiderio di evadere dalla disciplina del lavoro salariato e di diventare


“padroni di se stessi” anche nel lavoro è davvero soltanto un’illusione, un residuo
premoderno destinato a svanire con l’avanzare dell’età di modernizzazione di una
società, come l’ostinazione puberale svanisce con il raggiungimento dell’età
adulta? Oppure si tratta di manifestazioni di sogni di resistenza?» (Beck, 2000, p.
138).

Resta comunque una certa difficoltà ad assumere il superamento del precariato come
problema e conflitto collettivo, che riguardava le visioni non solo del lavoro, ma della
società, della comunità, del futuro, del modello di benessere, delle forme di economia
e di solidarietà.
Anche i discussi tentativi di riforma tentati recentemente in Italia non passano
comunque da un reale ascolto o confronto con questi soggetti. Si interviene non
soltanto svalutando la discussione e il ruolo del parlamento, e consultando solo
sbrigativamente le parti sociali tradizionali, ma soprattutto si salta completamente il
confronto con le nuove soggettività. Certo è difficile perché non ci sono organizzazioni
riconoscibili o forme di rappresentanza strutturata, ma ho l'impressione che si stia
perdendo un'altra occasione per parlare, coinvolgere e dare riconoscimento a questo
mondo. Per trovare luoghi, spazi e tempi per incontrarlo, per ascoltarlo, per discutere,
per costruire assieme un percorso e una forma di integrazione sociale e politica. A mio
avviso si sta legiferando sopra di loro più che per loro o con loro. Il che rischia di
pregiudicare i risultati di questi interventi, qualunque siano le intenzioni.
Ma questa è anche una lezione per il precariato. Perché deve essere chiaro che non
saranno le passate generazioni che risolveranno questa condizione, non solo perché
hanno contribuito a crearla, ma anche per il semplice fatto che non l’hanno vissuta in
prima persona e non hanno prodotto un significato e un orientamento adeguato a
queste nuove forme di esistenza. Le generazioni precarie devono prendere in
mano questo cambiamento, producendo significato sociale e politico a partire
dalla propria esperienza vissuta.
Secondo Guy Standing il precariato rappresenta «un nuovo gruppo sociale di
dimensioni mondiali, una vera e propria classe globale in divenire» (Standing, 2012,
p. 11). I precari «stanno diventando una nuova classe esplosiva». «Non ancora
classe-per-sé, il precariato è una classe in divenire, che comincia a distinguere ciò che 173
vuole combattere da ciò che vuole costruire. Ha certamente bisogno di infondere
nuovamente vita a un ethos imperniato sulla solidarietà e sull'universalismo»
(Standing, 2012, p. 245).
La riflessione di Appadurai ci aiuta tuttavia a riconoscere, da questo punto di vista,
che affinché i soggetti socialmente ed economicamente più svantaggiati possano
esercitare la protesta con efficacia e regolarità occorre che la loro capacità di aspirare
venga continuamente rafforzata e potenziata (Appadurai, 2014, p. 292). Come
abbiamo notato, la capacità di aspirare richiede sia una capacità di orientamento e di
prospettiva, sia una capacità di navigazione. A questo proposito Appadurai suggerisce
l'importanza di elaborare e mettere a fuoco alcuni strumenti politici definiti che
possano accompagnare l'azione e aiutare a tracciare un percorso.
Appadurai richiama fra l'altro l'impegno ad autosservarsi e autocensirsi, producendo
forme di conoscenza e consapevolezza; l'elaborazione di un proprio linguaggio
espressivo; l'attenzione nel simbolizzare e narrare le proprie rivendicazioni e le proprie
lotte per renderle più visibili e intellegibili; l'impegno nel produrre autocoscienza,
consenso, fiducia, legami di solidarietà, nonché appoggi e alleanze; l'individuazione di
segnavia e di obiettivi intermedi concreti che costituiscano dei "precedenti" positivi; la
disponibilità a sperimentare e a procedere per tentativi; la capacità di pazientare, di
mantenere aperto un conflitto nel tempo e di produrre un cambiamento
gradualmente.
L'elaborazione di metodologie e prassi politiche come queste possono aiutare a
contrastare l’isolamento, la passività, la perdita di identità collettiva e a riflettere sulle
trasformazioni del paesaggio sociale ed economico a partire dalla propria esperienza.
Si tratta di agire riflessivamente a partire dai mutamenti della propria coscienza, dalle
dimensioni antropologiche implicite nella propria condizione, cercando di indirizzare il
cambiamento attraverso un attivo e diretto coinvolgimento che connetta i percorsi
individuali a forme di una socializzazione ed elaborazione collettiva in vista di un
mutamento sociale.
D'altra parte tutto questo non significa che i più adulti possono sottrarsi alle loro
responsabilità o delegare completamente ai giovani la fatica di rimettere mano ai
problemi che si è contribuito a creare. Da parte delle generazioni più adulte occorre la
disponibilità a costruire spazi di ascolto e di confronto con le aspirazioni dei più
giovani. Solamente partendo dal riconoscimento e dalla valorizzazione delle
esperienze dei giovani, dei loro percorsi, dei loro bisogni e desideri è possibile
sottrarre le comunità in cui viviamo all'indifferenza e all'ostilità e ricostruire un tessuto
sociale attento, accogliente, intelligente e vivibile perché fondato sull'impegno comune
nella ricostruzione di un patto di solidarietà tra generazioni.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
174

Il linguaggio del mondo contemporaneo.


Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Docente: Marco Deriu

DEMOCRAZIA/POST-DEMOCRAZIA

Continuando il nostro lavoro di riflessione sulle categorie culturali di fondo del nostro
immaginario, oggi affronteremo l’idea di “democrazia” e le sue rappresentazioni. Lo
faremo in tre modi: mostrandone la non trasparenza, ovvero la sua non
immediatezza; mostrando le diverse e a volte contrapposte rappresentazioni che
oggi si confrontano e si sfidano nel nostro universo politico culturale; ed infine
cercando di far emergere ciò che di questa idea rimane in ombra, ovvero
quell’aspetto più problematico e inquietante che sfugge alla nostra coscienza.
L’idea di democrazia nella sua forma più astratta e generica rappresenta oggi uno
degli ultimi punti di riferimento attorno a cui si raccoglie un largo consenso ideale nel
mondo attuale. Ma questa concordanza è solo apparente perché quando si tratta
di dare contenuto e forma all’ideale astratto le opinioni non solo dei cittadini ma degli
stessi teorici divergono fortemente. Al di là delle diverse valutazioni e punti di vista,
molti osservatori concordano nel registrare un momento di crisi o trasformazione
del moderno progetto democratico, evidenziando fra l’altro una crescente
divaricazione tra l’ideale politico, la teoria e le forme concrete assunte caso per caso
dai sistemi politici contemporanei. Come ha scritto John Dunn,

«Se oggi siamo tutti democratici, non ci troviamo dunque a condividere un


destino molto allegro. Oggi, in politica, democrazia è il nome di ciò che non
possiamo avere, e che tuttavia non possiamo smettere di volere» (Dunn, 1983,
pp. 51-52).

Da un punto di vista formale e quantitativo il successo della democrazia nel mondo


contemporaneo sembrerebbe ormai affermato. Come infatti ricorda il rapporto
dell’UNDP del 2002 negli ultimi decenni circa 81 paesi hanno compiuto passi
significativi in direzione della democrazia, 33 regimi militari sono stati sostituiti da
governi civili e attualmente circa 140 dei quasi 200 paesi esistenti hanno adottato la
prassi delle elezioni multipartitiche, un numero mai raggiunto in passato (UNDP, 2002,
p. 17).
Tuttavia il fatto che oggi ci troviamo di fronte ad alcuni nuclei duri e problematici
dell’esperienza democratica è segnalato tra l’altro dalla presenza di quattro
paradossi.
In primo luogo si può notare come proprio nel momento in cui l’avversario più
temibile delle democrazie liberali, il sistema comunista, è definitivamente uscito di
scena, la democrazia mostra la propria limitatezza e il bisogno di un’immagine in
negativo cui opporsi per giustificare se stessa e allontanare il pensiero della propria
crisi. L’attuale tentativo di resuscitare un nemico esterno, come quello del
fondamentalismo islamico, per ritrovare il consenso verso il sistema delle democrazie
e delle libertà sembra non far bene né ai paesi arabi ne a noi stessi. Infatti da una 175
parte le popolazioni dei paesi a maggioranza islamica si trovano schiacciate da un
atteggiamento ambiguo e incoerente dei paesi occidentali che sembrano essere portati
a distinguere più secondo le classiche categorie amici/nemici che tra democrazie e
regimi autoritari (si pensi ai diversi pesi e misure utilizzate verso Arabia Saudita, Libia,
Tunisia, Iraq, Afghanistan, Iran).
In secondo luogo proprio nel momento in cui la stragrande maggioranza dei paesi
del mondo scelgono la forma di governo democratica, i cittadini delle democrazie
storiche occidentali manifestano il massimo grado di disillusione e sfiducia nel sistema
democratico: diminuiscono costantemente le percentuali di votanti, cresce la
diffidenza verso politici e istituzioni, la politica stessa è sempre più percepita con
connotati negativi. Più in generale, negli ultimi anni, in effetti, sono cresciute molte
forme di disagio sociale, legati alla solitudine, l’emarginazione, ai ripiegamenti
identitari, alla paura, all’incertezza e all’insicurezza.
In terzo luogo le aspettative delle popolazioni in alcuni dei paesi a più recente
transizione democratiche sono andate rapidamente deluse producendo una forma di
risentimento. Come il rapporto dell’UNDP suggerisce, di contro all’avanzamento
globale della democrazia molti dei paesi del sud del mondo sono più poveri rispetto a
10, 20, e in alcuni casi 30 anni fa. Molti dei nuovi governi non sono stati in grado di
affrontare i problemi principali che riguardavano i loro cittadini, garantendo loro
lavoro, servizi, accesso ai beni fondamentali, e spesso non hanno risolto i problemi
relativi alla presenza di minoranze specifiche. Da parte loro i cittadini realisticamente
non sentono di poter incidere o influenzare con le loro opinioni o decisioni le condizioni
in cui si trovano a vivere. Così l’impeto di euforia con cui molti di questi paesi hanno
accolto le elezioni multipartitiche ed altre caratteristiche della democrazia moderna,
«sta iniziando a trasformarsi in frustrazione e disperazione» (UNDP, 2002, p. 5)
facendo crescere la rabbia della popolazione ed in particolare dei giovani verso i propri
leader, verso le stesse istituzioni e verso le forze preponderanti della globalizzazione.
Infine, in quarto luogo, e in relazione alle precedenti considerazioni, sorge il
dubbio se questa affermazione della democrazia su scala globale sia il segno di un
trionfo o viceversa la constatazione della sua insignificanza, dello svuotamento di un
ideale politico che diventa ampiamente adattabile a qualsiasi situazione, senza
necessità di profonde trasformazioni culturali, sociali, politiche. Concretamente
chiunque oggi può dirsi democratico senza timore di essere smentito, nonostante il
degrado politico ed economico di una società e la crescente impotenza dei cittadini.
Da questo punto di vista oggi c’è effettivamente il rischio che la parola democrazia
non sia altro che una di quelle “parole di plastica” o “parole ameba” – secondo le
espressioni del linguista tedesco Uwe Poerksen (Poerksen, 1995) ovvero quelle
parole passpartout che vengono introdotte per ottenere un certo effetto, ma che in
realtà sono talmente indefinite, malleabili e versatili da non significare (quasi) nulla.
Del resto l’“aura” di cui è rivestita questa parola, rimanda ad alcune categorie di fondo
- per esempio quella di “sovranità popolare”, di “libera opinione pubblica”, di
“libertà di scelta”, di “consenso”, di “pluralismo”, di “rappresentanza”, “stato di
diritto”, “separazione ed equilibrio dei poteri” - che sembrano oggi talmente in
crisi di fronte al potere uniformante del mercato, dei mass media che nessuno si può
permettere di darle per scontato e di usarle ingenuamente. Tanto che a volte viene il
dubbio che “democrazia” sia solamente un’etichetta, un logo pubblicitario, utile per il
marketing politico, per promuovere la propria immagine in pubblico e per screditare
quella degli altri. Come ha scritto senza tanti giri di parole John Dunn:

«La teoria democratica è il gergo ufficiale del mondo moderno; il gergo e lo


strumento verbale dell’ipocrisia; e l’ipocrisia è il tributo che il vizio paga alla
virtù. Tutti gli stati oggi si professano democratici perché la virtù di uno stato è di
essere una democrazia» (Dunn, 1983, p. 27). 176

Fa bene dunque Carlo Galli a riconoscere l'esistenza di un "disagio della


democrazia" (Galli, 2011) e a prenderlo sul serio. Questo disagio a suo avviso
composto di un elmento soggettivo che si esprime in una forma di disaffezzione e di
«ripulsa rabbiosa o rassegnata, generata dall'imbarazzo per una morte che non si può
annuncciare» (Galli, 2011, p. 4) nonché di un elemento oggettivo e strutturale, legato
all'inadeguatezza della democrazia e dei suoi istituti a mantenere nei fatti la promessa
originaria di libertà, di uguali diritti, di dignità e più in generale di piena espressività
del singolo.

«Il disagio della democrazia è l'impressione di essere finiti in un vicolo cieco, o


meglio in un sentiero che non si interrompe bruscamente ma che digrada (e si
degrada) in una sorta di pista, sempre meno visibile nella giungla del nostro
presente. Il disagio è l'adeguazione, rabbiosa o rassegnata, alla cattiva
democrazia, alla sua pretesa necessità» (Galli, 2011, p. 81).

Sguardi sulle democrazie reali

Qual è la percezione che gli studiosi hanno attualmente dello stato della
democrazia? E quale valutazione ne traggono sui governi democratici?
Vorrei provare qui di seguito a tracciare una mappa delle rappresentazioni della
democrazia che non ricalca le suddivisioni delle scuole politiche tradizionali (liberali,
repubblicane, socialiste, comuniste ecc.) ma che piuttosto cerca di coglierne la
posizione psicologica o epistemologica nei confronti delle democrazie esistenti.

C’è un primo filone di analisi che possiamo definire apologetico, in cui la


riflessione ha spesso il tono dell’autocelebrazione. Si festeggia il trionfo dell’ideologia
democratica nel mondo contemporaneo e di decantare le virtù della democrazia
rispetto a tutti gli altri regimi che vengono complessivamente identificati con il male.
Dopo la crisi dei regimi comunisti, nessuno sfidante credibile sembra contendergli il
posto di sistema ideale. Così Francis Fukuyama, già nell’immediato 1989, proclamava
che si era raggiunto il momento finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità e
dell’universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma finale del
governo umano.86 Gli faceva eco qualche tempo dopo la caduta del muro uno dei più
famosi politologi italiani, Giovanni Sartori, il quale affermava che la vittoria della
democrazia era la vittoria della sola democrazia «reale» che si sia mai realizzata sulla
terra, ovvero la liberal-democrazia:

«Il vento della storia ha cambiato direzione e soffia in una direzione sola:
verso la democrazia. Dove la politica è autonoma (dalla religione), e dove arriva
il soffio della modernizzazione (che è anche occidentalizzazione), un governo è
legittimo soltanto se eletto dai governati e fondato sul loro consenso. Per lo
Zeitgeist, lo spirito del nostro tempo, la democrazia è oramai senza nemico: non
è più fronteggiata da legittimità alternative» (Sartori, 1994).

La democrazia in cui viviamo dunque viene confermata alla prova dei fatti come il
migliore dei sistemi esistenti. A questa considerazione più o meno condivisibile si

86
Si vedano Francis Fukuyama, “The End of History?”, The National Interest, Summer 1989, e Francis
Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 2003.
accompagnano altre affermazioni tutt’altro che equivalenti; per esempio chi intende
sostenere che la democrazia sia il migliore non sono dei sistemi esistenti, ma anche il 177
migliore dei sistemi possibili o addirittura il migliore dei mondi possibili. Con
l’affermazione delle democrazie liberali (peraltro tutt’altro che scontata) saremmo
giunti in qualche modo alla fine della storia. Questo approccio sottovaluta sia la
possibilità negativa che la vittoria della democrazia sia reversibile e che il futuro – in
seguito a una crisi economica, a un conflitto bellico di grandi proporzioni o a disastri
ambientali - ci possa riservare un rilancio dei regimi autoritari, ma sottovaluta anche
la possibilità che il futuro possa maturare nella coscienza collettiva un’altra forma di
governo che assicura più giustizia e libertà ai propri cittadini. Così in questa
prospettiva libera da dubbi, preoccupazioni o incertezze, qualsiasi critica alle
democrazie reali è guardata con sospetto quando non giudicata seccamente come
sterile e inopportuna. Una certa insofferenza verso le critiche e le preoccupazioni sul
reale stato delle società democratica è presente per esempio in un lavoro di qualche
anno fa di Gianfranco Pasquino, La democrazia esigente, ove si liquidano tutte le
critiche alle democrazie reali con un certo fastidio, come se a malapena fosse il caso di
occuparsene:

«Criticare la democrazia sembra essere diventata, ma il termine non vuole


offendere nessuno, un’industria profittevole» (Pasquino,1997, p. 17);

«C’è chi ripete meccanicamente giaculatorie sul tramonto del parlamento chi
lamenta il declino dell’opposizione; chi vede soltanto organizzazioni particolaristiche
attive nel rosicchiare il formaggio del bene comune» (Pasquino, 1997, p. 25).

E così piuttosto sbrigativamente si sostiene che non ci sono grandi problemi


irrisolvibili per le democrazie contemporanee: né il potere delle grandi corporations,
né quello dei mass media, né le disuguaglianze di ricchezza nella competizione
politica, né il disincanto dei cittadini e il riflusso nel privato, né la tendenza di una
parte dei cittadini ad accettare passivamente la corruzione politica, né lo scarso
ricambio delle élites al potere, né la manipolazione dei cittadini, costituirebbero un
reale pericolo. Tutto sembra risolvibile e migliorabile.
Ora sebbene sia giusto ricordarci che tutto sommato con i sistemi attuali abbiamo
raggiunto effettivamente delle condizioni di gran lunga migliori rispetto ad altre
situazioni; che in fondo la democrazia è qualcosa di molto recente e dunque va
tutelato, difeso e rafforzato con cura; e che è probabile, da questo punto di vista, che
questo sistema abbia ancora molte potenzialità da sperimentare e sfruttare, tuttavia,
non si può evitare di riconoscere in questo approccio apologetico un tono spesso un
po’ troppo ottimistico, e tranquillizzante, per non dire acquietante. C’è in effetti il
rischio che un atteggiamento eccessivamente compiaciuto, non faccia altro che
aumentare le forme di assuefazione e accomodamento ai limiti e alle degenerazioni
del sistema democratico, o addirittura a giustificarli benevolmente. Di questo genere
per esempio è il ragionamento di Luigi Bonanate nel suo Democrazia fra le nazioni:

«Non direi neppure che la mia immagine sia quella di una dissimulata
“occidentalizzazione” dei principi democratici – ma concludo provocatoriamente:
che cosa preferire tra una democrazia un po’ bolsa e un po’ sguaiata e una
condizione di terrore diuturno e incoercibile come in Algeria?» (Bonanate, 2001,
p. 150).

Ma che senso ha prendere come termine di confronto il peggio dei regimi esistenti
al mondo per sdoganare le proprie contraddizioni e i propri angoli bui?
Molti di questi autori tendono fra l’altro a ragionare sulla base di una distinzione tra
il modello ideale di democrazia e le sue effettive realizzazioni. Così possono respingere 178
molte critiche alla democrazia sostenendo che certe degenerazioni vanno imputate
alla cattiva qualità della traduzione concreta dell’ideale perfetto. Su questa strada
naturalmente si può difendere quasi tutto, compreso l’ideale di una monarchia
illuminata o di un meritocratico “governo dei migliori”. E non si è forse difeso con lo
stesso tipo di sofisma la grande promessa comunista rispetto alle “volgari”
realizzazioni dei paesi del socialismo reale? E non è la stessa risposta dietro a cui si
sono trincerati da sempre tutti i seguaci di un qualche modello ideale politico o
religioso che fosse, per non sentirsi responsabili delle peggiori nefandezze commesse
in nome del proprio ideale? È dunque fondamentale rifiutare un approccio
idealistico al problema della democrazia nella misura in cui non si confronta con
le incarnazioni concrete di questi modelli. I sistemi di governo vanno confrontati nella
loro concretezza e non astrattamente. La realtà – inconoscibile in quanto tale –
possiede comunque una sua “resistenza” che mette alla prova e talvolta smaschera i
limiti le nostre mappe concettuali e i nostri progetti ideali. Non raramente quelle che
noi chiamiamo accidenti o degenerazioni sono piuttosto contraddizioni o angoli oscuri
non previsti dal modello teorico.
Nei fatti dietro queste forme apologetiche spesso si nasconde un tentativo più o
meno larvato di far passare l’idea che non esistono, che non possono esistere,
alternative al modello democratico-liberale e che al massimo possiamo
impegnarci a restaurare qua e là quello che c’è. La stessa sicumera verso le nostre
democrazie può arrivare all’idea paternalistica e coloniale che siccome è il regime
migliore allora dobbiamo assolutamente utilizzare tutti i mezzi a nostra disposizione o
quasi per imporla agli altri. In questo modo da una parte si rimuove la consapevolezza
delle nostre colpe e responsabilità per una serie di violenze strutturali che esercitiamo
verso altri popoli e paesi, e dall’altra si giustifica l’esercizio di un’«influenza
interessata» - e spesso l’uso vero e proprio della forza militare - verso altri paesi non
ancora democratici che – come è stato notato – vengono identificati con il male:

«Si potrebbe persino accettare un certo tasso di espansionismo economico da


parte di quegli stati che per interesse decidessero di promuovere delle istituzioni
democratiche presso gli stati i cui mercati vogliono conquistare» (Bonanate,
1997, pp. 146).

Quando perfino i politologi finiscono col benedire l’idea di un colonialismo


democratico non si può non dar ragione a Gabriel Garcia Marquez, quanto denuncia
l’esistenza e i rischi del “fondamentalismo democratico”.

Un secondo filone che chiameremo disincantato si caratterizza per lo sforzo di


mettere in risalto lucidamente i limiti e le mancanze delle democrazie contemporanee
ma al contempo di evidenziare qual è il nucleo minimo fondamentale (chi prende
decisioni e attraverso quali procedure) che alla fin fine caratterizza un governo
democratico, distinguendolo da uno autocratico. Norberto Bobbio, per esempio, fin
dal suo classico libro Il futuro della democrazia ha sottolineato che «la democrazia non
gode di ottima salute, e del resto non l’ha mai goduta anche in passato, ma non è
sull’orlo della tomba» (Bobbio, 1984, p. VII) e dunque che andrebbe considerato che
quelle che chiamiamo crisi della democrazia spesso costituiscono piuttosto delle sue
trasformazioni. Nella sua analisi, lo studioso torinese si sforza di riconoscere la
distanza tra gli ideali democratici e la realtà rozza della “democrazia reale”. Da questo
punto di vista tenta di individuare quelle che definisce le “promesse mancate della
democrazia” e ne suggerisce sei:
1. La centralità dell’individuo è stata sostituita da quella dei gruppi e delle
associazioni; 179
2. La rappresentanza politica è diventata una rappresentanza degli interessi
particolari e non una rappresentanza libera e generale;
3. Le oligarchie sono rimaste mantenendo tutto il loro potere;
4. La democrazia non è ancora riuscita ad imporsi in alcuni importanti ambiti
come l’impresa e l’apparato amministrativo;
5. Sono ancora presenti i poteri invisibili (logge massoniche, mafie, servizi
segreti);
6. Invece della partecipazione è cresciuta l’apatia politica.

Quel che ci interessa notare per ora è che Bobbio ritiene che in effetti queste
promesse erano in fondo impegni che la democrazia non avrebbe potuto mantenere, a
causa dell’aumento della complessità tecnica, della crescente burocrazia, del
sovraccarico di domande registrate dal sistema politico. Ciò che conta è che comunque
tali mancanze non inficiano la specificità e la preferibilità della democrazia. Da questo
punto di vista Bobbio insiste molto sull’importanza fondamentale da una parte delle
garanzie dei principali diritti di libertà (lo Stato di diritto) e dall’altra delle
cosiddette “regole procedurali della democrazia”: pluralità di partiti in
concorrenza fra di loro, elezioni periodiche a suffragio universale, voto libero e uguale
per ogni individuo adulto, regola della maggioranza, ecc….
Più recentemente anche Domenico Settembrini, nel suo Democrazia senza
illusioni, ha motivato un atteggiamento di accettazione stoico dei limiti della
democrazia. Per lui come per Ernest Renan l’unica cosa che dobbiamo richiedere alla
democrazia è il Noli me tangere:

«La democrazia non morirà, finché non sia morta nel mondo la speranza. Una
democrazia che dobbiamo saper accettare e difendere senza illusioni di
utopistiche palingenesi. Una democrazia che nonostante tutte le sue imperfezioni
e tutti i suoi mali, agli occhi degli uomini e delle donne del mondo intero
conserva intatto il fascino delle origini: “il diritto riconosciuto a tutti di perseguire
la propria felicità» (Settembrini, 1994, p. 99).

Un terzo approccio che definiremo evolutivo, definisce in maniera più netta la


“democrazia” come un modello di riferimento ideale a cui i regimi politici realmente
esistenti devono mirare nella consapevolezza di non poter mai raggiungere l’ideale
politico vero e proprio. Si tratta per esempio dell’approccio ormai classico di Robert
Dahl che in una lunga raccolta di studi ha fondato le sue riflessioni sulla distinzione
tra la democrazia come ideale e le democrazie reali del nostro mondo occidentale che
chiama “poliarchie”. Questi ultimi sono regimi relativamente (ma incompletamente)
democratizzati. Si tratta cioè di regimi

«dove è stata riconosciuta la legittimità della partecipazione del popolo al


governo, e che sono quindi altamente inclusivi e aperti in modo estensivo alla
contestazione pubblica» (Dahl, 1997, p. 32).

La poliarchia si caratterizza per la presenza di sette istituzioni:

1. Elezione dei rappresentanti;


2. Elezioni libere e regolari;
3. Suffragio universale;
4. Diritto di presentarsi alle elezioni;
5. Libertà di espressione;
6. Informazione alternativa;
7. Libertà di associazione. 180

A tutt’oggi, commenta Dahl, «Nessun paese ha oltrepassato la poliarchia per


andare verso un “più alto” livello di democrazia» (Dahl, 1990, p. 336). In un altro
libro, La democrazia economica (Dahl, 1989), l’autore illustra la possibilità di una
democratizzazione delle imprese come possibile passaggio evolutivo del progetto
democratico. Anche Bobbio, ha insistito in alcuni suoi scritti su una dimensione
evolutiva presente nell’idea di democrazia e ha suggerito un processo di estensione
della democratizzazione che si allarghi dalla democrazia politica a quella sociale legata
ad ambiti come quello imprese o dell’amministrazione pubblica (Bobbio, 1984 e 1985)
In uno dei suoi testi più recenti Dahl identifica alcune sfide per la democrazia del
futuro:

a) L’ordine economico: esistono strade possibili per risolvere l’antica tensione


tra gli obiettivi democratici e l’economia di mercato capitalista?
b) La globalizzazione: è possibile trovare strumenti per costringere le élite
politiche e burocratiche ad assumersi la responsabilità delle loro decisioni?
c) La diversità culturale: come affronteranno le democrazie i problemi creati
da una crescente diversificazione culturale?
d) L’educazione dei cittadini: se l’aumento della quantità di informazione
sottopone i cittadini ad una pressione superiore, come si potrà migliorare la
capacità dei cittadini di impegnarsi in modo intelligente e consapevole nella vita
politica?

Il problema è che per nessuna di queste sfide Dahl sembra offrire risposte
significative. In termini generali questa impostazione se ha svolto una funzione
importante per chiarire alcuni nodi teorici e aumentare la comprensione dell’ideale
democratico, ha mostrato però una scarsa attenzione nell’analisi delle democrazie
reali e dei loro angoli oscuri. Per esempio il problema delle disuguaglianze di
opportunità, il dominio di élites ristrette nella gestione del potere politico, l’influenza
manipolatoria del mass media e l’inadeguatezza dell’informazione al cittadino anche
quando sono stati presi in considerazione non hanno tutto sommato ricevuto risposte
serie e adeguate alla gravita della situazione. L’impostazione evolutiva tende dunque a
mancare di realismo e non mettere bene a fuoco quelli che sono i nodi strutturali, i lati
oscuri e i rischi degenerativi piuttosto che evolutivi delle democrazie occidentali.
Nei fatti nonostante una maggiore consapevolezza dei limiti reali, certe affermazioni -
«a paragone quindi delle sue alternative, passate e presenti, la poliarchia è uno dei
più straordinari prodotti dell’umanità» (Dahl, 1990, p. 337) - rivelano che anche da
questa prospettiva si rimane comunque ancorati ad una dimensione apologetica o
autocelebrativa delle democrazie liberali.

Nella prospettiva evolutiva si pone anche la discussione sulla cosiddetta


“Democrazia cosmopolita”. Negli ultimi anni si è andata sviluppando tra gli studiosi
una riflessione attorno alla divergenza tra i processi globali dell’economia e della
finanza e le tradizionali forme statali della politica. Secondo la formula di successo
offerta da Daniel Bell lo stato sarebbe troppo grande per le cose piccole e troppo
piccolo per le cose grandi. La maggior parte degli autori sembra orientata ad
assumere la prospettiva del governo mondiale. Anzi la maggior parte da questo
processo per scontato e “naturale”. Come ha affermato Cerroni:

«È difficile prevedere i tempi e anche le forme in cui andrà progredendo la


tendenza alla costruzione di un governo mondiale. Si può solo dire che il
processo sarà lento e anche faticoso ma sarà tuttavia stimolato e sospinto da
oggettive necessità planetarie» (Cerroni, 2002, p. 61). 181

In realtà la questione è tutt’altro che scontata e l’accordo tra studiosi è lungi dal
verificarsi: per il momento sembrano profilarsi al contrario due posizioni quella di una
democrazia cosmopolitica e quella di un ordine minimo sovranazionale.
Ad ogni modo un gruppo di studiosi – Daniele Archibugi, David Held, Richard
Falk, - ha promosso in questi anni una riflessione su un progetto che hanno chiamato
“democrazia cosmopolitica”. Secondo la definizione di Archibugi:

«il progetto cosmopolitico si basa sull’assunto che alcuni obiettivi sostanziali,


come il controllo sull’uso della forza nei rapporti internazionali, il rispetto dei
diritti umani e l’autodeterminazione dei popoli, possano essere ottenuti solo
tramite l’estensione e lo sviluppo della democrazia. Problemi quotidiani come la
protezione dell’ambiente, la regolazione dei flussi migratori e l’utilizzazione delle
risorse naturali devono essere sottoposti al controllo democratico. Ma, affinché
ciò sia possibile, è necessario oggi che la democrazia travalichi le frontiere dei
singoli stati e si affermi a livello globale» (Archibugi, 2000, p. 19).

Archibugi specifica che il progetto di democrazia cosmopolita deve essere perseguito


su tre livelli differenti e interconnessi:
- la democrazia all’interno degli stati;
- la democrazia nei rapporti tra stati. Questo comporterebbe sia il rafforzamento
dell’attuale rete di organismi intergovernativi tra cui l’ONU, ma anche l’affermazione di
un diritto/dovere di “interferenza umanitaria” negli affari interni di altre comunità in
caso di problemi quali la pulizia etnica, la repressione dei popoli, la violazione dei
diritti umani;
- la democrazia a livello globale per affrontare tematiche quali la protezione
dell’ambiente e la difesa dei diritti umani.
David Held precisa altre caratteristiche di questa comunità cosmopolitica,
introducendo - in riferimento alla distinzione kantiana tra “unioni di pace” basate su
strutture federali o confederali – l’importanza di un diritto cosmopolitico. La
democrazia cosmopolita dovrebbe situarsi a metà strada tra le due forme. L’adesione
degli stati dovrebbe essere di tipo confederale, ovvero un raggruppamento volontario,
ma una volta istituita dovrebbe assumere una valenza più federale, ovvero dovrebbe
divenire un’unione legittimata e dunque vincolante dal punto di vista del diritto
cosmopolitico e delle sua clausole.

«Per essere efficace, il diritto democratico deve internazionalizzarsi. Quindi,


l’applicazione di un diritto cosmopolitico democratico e la formazione di una
comunità cosmopolitica – la comunità di tutte le comunità democratiche -
devono diventare un dovere per i democratici, il dovere di costruire una comune
struttura transnazionale di azione politica, l’unica che, in ultima analisi, può
sostenere la politica dell’autodeterminazione. […] I principi di società e stati
democratici potrebbero venire a coincidere con quelli del diritto cosmopolitico
democratico. Quindi i diritti e le responsabilità degli individui in quanto cittadini di
una nazione in quanto soggetti del diritto cosmopolitico potrebbero coincidere, e
la cittadinanza democratica potrebbe assumere, in linea di principio, uno status
veramente universale. […] gli individui membri di stati e società le cui
costituzioni si conformino al diritto cosmopolitico potrebbero essere considerati
cittadini, non solo delle proprie comunità nazionali o regionali, ma di un sistema
universale di “governo cosmopolitico”» (Held, 1999, pp. 233-235).
In questo quadro cosmopolitico, gli stati sarebbero destinati in qualche misura ad
estinguersi, nel senso di un “ricollocamento” e di una riarticolazione entro un più 182
ampio diritto democratico globale. Il modello cosmopolitico prevederebbe un ordine
politico di associazioni, città, nazioni, regioni, reti globali democratiche nonché la
formazione di un’autorevole assemblea di tutti gli organismi e degli stati democratici
(un’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riformata o un suo complemento). A
fianco di questa si ritiene imprescindibile anche la costituzione di un’assemblea
indipendente dei popoli democratici, da essi direttamente eletta.
Nel suo volume La costellazione postnazionale anche Jurgen Habermas prende
partito per una posizione cosmopolitica anche se con alcune differenze. Secondo
Habermas non è pensabile pensare a uno stato mondiale nel senso di una comunità
democratica di cittadini del mondo. Dal suo punto di vista una politica cosmopolitica
non è collocabile al piano superiore di una politica già organizzata in stato mondiale,
piuttosto «essa dovrà realizzarsi (accontentandosi di un fondamento di legittimità
meno ambizioso) nelle forme organizzative non statali dei sistemi internazionale di
negoziato già esistenti per altri settori della politica» (Habermas, 1999, p. 97) in
direzione di quella che definisce una “politica interna mondiale”, anche senza un
governo del mondo. La sua insomma è la prospettiva di un “global governance”
senza stato mondiale (Habermas, 1999, p. 100).
Queste proposte non hanno mancato tuttavia di suscitare forti opposizioni.
Secondo Ulrich Beck la risposta alla globalizzazione non va cercata in un grande
Stato sopranazionale né tanto meno in uno Stato mondiale, ma piuttosto in un
“procedere insieme” degli Stati nazionali che dovrebbero accordarsi per
ridimensionare le imprese transnazionali e rinnovare il loro potere di organizzazione
politica e autodeterminazione (Beck,1999, p. 159).
Anche Danilo Zolo, ha più volte criticato la linearità tipica del razionalismo
illuministico delle tesi di questi studiosi (“Western globalist” secondo la pungente
definizione coniata da Hedley Bull), in particolare l’idea che la costituzione di un
governo globale sia l’unica alternativa alla guerra, al disordine planetario, alla
distruzione ambientale. Zolo mette subito il dito sul rimosso di queste teorie, ovvero
l’assoluta mancanza di un confronto e di una riflessione seria con le tradizioni
filosofiche e politiche delle culture non occidentali dall’Islam al Sud-est asiatico.
Un’autorità politica cosmopolitica democratica di questo genere si costituirebbe, a suo
dire, sulla base di un sempre più forte e stringente accentramento gerarchico che
determinerebbe una drastica riduzione di complessità del sistema internazionale. In
un quadro internazionale segnato da forti disuguaglianze di potere tra soggetti statali
ed economici si può infatti dubitare della reale equanimità e della volontà di pace di
una sovrastruttura mondiale.
Secondo Zolo, una filosofia politica attenta ai rischi dell’accumulazione e della
centralizzazione del potere dovrebbe puntare invece sulla conservazione di una logica
sistemica di governance without government. ovvero di una accettazione di forme
di regionalizzazioni policentriche, che adottino accordandosi una pluralità di regimi
giuridici su differenti questioni. Si dovrebbe cioè rinunciare all’idea di una lex
mundialis che disciplini i rapporti internazionali dall’alto attraverso una monolitica
gerarchia normativa, e recuperare l’idea di “regimi internazionali” negoziati, ovvero di
frames di responsabilità giuridiche che disciplinano l’interazione fra gli attori come
risultato di una negoziazione multilaterale, come già avviene in una serie di issue-
areas come la pesca oceanica, la ricerca spaziale il sistema dei cambi ecc. Più in
generale Zolo richiama l’idea di Hedley Bull che a livello internazionale sia
preferibile puntare su un “ordine politico minimo”, presidiato da poteri limitati e
poco interventisti poiché rispettosi dell’autonomia dei diversi paesi e culture.
A queste critiche aggiungere la considerazione che l’idea stessa di un governo
planetario rimanda l’idea di un potere che non ha più alcun limite sopra o intorno a sé,
ovvero crea simbolicamente l’idea di un potere assoluto e totale del mondo. È
preferibile riconoscere l’esistenza di una dimensione internazionale e transnazionale, 183
ovvero l’idea di uno spazio comune piuttosto che un’idea di amministrazione dell’intero
pianeta che rafforzerebbe le proiezioni antropocentriche e tecnocratiche degli uomini.
In effetti l’idea tecnocratica insita del risolvere le questioni ambientali attraverso un
management globale fa parte della stessa concezione che ha causato la crisi ecologica.
Il problema dell’ambiente non è affatto semplicemente un problema di “scala”. Non è
che gli esseri umanii devono dotarsi di strumenti politici e tecnologici per
“amministrare” al meglio l’intera natura del pianeta. Tutto al contrario gli esseri umani
devono riconoscere di far parte di un ambiente naturale che è più grande e più
complesso della razionalità umana. In questo senso si deve cercare una sostenibilità
intrinseca alle forme di vita umane che sia umilmente rispettosa dell’ambiente. Inoltre
senz’altro è preferibile rivendicare l’idea di un mantenimento del pluralismo culturale e
politico contro le tendenze all’uniformazione sociale, politica, culturale, economica, che
l’idea di un unico governo, di un'unica forma politica, di un unico diritto cosmopolitico
intrinsecamente portano con sé. In sintesi: è meglio che si diffonda una cultura ed
una coscienza ecologica e cosmopolita tra i governi nazionali piuttosto che si affermi
una mentalità antropocentrica e nazionalista in un governo mondiale.
In una prospettiva, tutto sommato evolutiva, anche se con un accento più
rifondativo, si pone anche Luce Irigaray quando nel suo libro La democrazia
comincia a due (Irigaray, 1994) auspica un “compimento reale della democrazia” in
cui al diritto di voto si affianchi un diritto e un dovere politici completi, che prevedano
una responsabilità politica per ciascuno e ciascuna (Irigaray, 1994, p.153). Si tratta
da questo punto di vista di «definire una cittadinanza adatta alle necessità della nostra
epoca: la convivenza tra i sessi, le generazioni, le razze, le tradizioni» (Irigaray, 1994,
p. 15). Se da una parte infatti la differenza sessuale appare come il cammino più
difficile, esso rappresenta anche la chiave per raggiungere la coesistenza fra le altre
diversità. Per Irigaray si tratta in fondo di «educare all’amore fra i generi come a un
cammino verso la democrazia», poiché la democrazia può rifondarsi solamente a
partire da un giusto rapporto in due (Irigaray, 1994, p. 21 e p. 106).

Un quarto punto di vista si caratterizza per un approccio metafisico o spirituale


alla democrazia. Jean-Luc Nancy, parla esplicitamente di “spirito della democrazia”
ovvero di un “soffio” ispiratore. Per Nancy, la democrazia non è figurabile o figurale.

«La verità della democrazia è questa: essa non è una forma politica tra le
altre, a differenza di quanto fosse per gli antichi. Non è affatto una forma
politica, o almeno non è in primo luogo una forma politica»(Nancy, La verità della
democrazia, Cronopio, Napoli, 2009, p. 65).

La democrazia sarebbe è in primo luogo una metafisica e solo in secondo


luogo una politica. Ma questa ultima a suo modo di vedere non è fondata dalla
prima, ma è semplicemente la condizione del suo esercizio. Con questo Nancy vuol
dire che la democrazia è in primo luogo

«un regime di senso, la cui verità non può essere sussunta in nessuna istanza
ordinatrice, né religiosa, né politica, né scientifica o estetica, ma che impegna
interamente l’“uomo” in quanto rischio e chance di “se stesso”, “danzatore
sull’abisso”, per usare termini deliberatamente paradossali e nietzscheani”».

In secondo luogo la democrazia è


«il dovere di inventare la politica non dei fini della danza al di sopra
dell’abisso, ma dei mezzi per aprire o mantenere aperti gli spazi della loro messa 184
in opera» (Nancy, La verità della democrazia, Cronopio, Napoli, 2009, pp. 66-
67).

L’intento di Nancy è quello di suggerire una concezione aperta della democrazia


come “apertura infinita” della politica e come rifiuto di irrigidimento in un ordine
politico concreto o in un finalismo predeterminato. Tuttavia occorre domandarsi se
questa identificazione di un principio di apertura politica con una categoria data e
storica come quella di democrazia non sia da questo punto di vista un autogol che
genera l’effetto opposto di quello preteso. Infatti presupponendo assiologicamente che
non vi sia alcuna correlazione forte tra la nozioni metafisiche e le produzioni
storico/politiche ci impediamo di fare i conti non solo con i limiti reali delle nostre
istituzioni politiche, ma più in profondità con le connessioni impensate e inconsapevoli
tra la struttura del nostro immaginario e le configurazioni concrete cui, date certe
premesse, possono scaturirne in termini di invenzioni politiche determinate. C’è il
rischio concreto dunque di rinchiudere gli orizzonti di ricerca se non in una forma
politica data comunque in un immaginario politico altrettanto angusto e limitato
rispetto alla possibilità di continuare a esplorare e di trovare ciò che non conosciamo e
che dunque al momento non sappiamo nemmeno immaginare o nominare nemmeno
in termini metafisici.

Un quinto filone che possiamo definire critico o di autocritico, si caratterizza per


una recensione impietosa e radicale dei sistemi politico-democratici vigenti.
Particolarmente importante da questo punto di vista è il pensiero di Cornelius
Castoriadis con la declinazione politica della sua teoria dell’istituzione immaginaria
della società che ha influenzato diversi studiosi. Castoriadis in polemica con qualsiasi
approccio che riduca la democrazia a un fatto puramente procedurale e che quindi
qualifichi come tali tutte i regimi che propongono queste procedure ha insistito sul
fatto che per esistere realmente una società democratica deve essere innanzitutto
istituita come un mondo di significati immaginari sociali. Le stesse procedure non sono
fatti neutrali e oggettivi ma sostantivi ovvero sono istituzioni che vengono create da
uno specifico immaginario sociale e che – per funzionare realmente - presuppongono
individui sociali che ne riconoscano e ne perpetuino lo spirito originario. Per questo
autore la democrazia è essenzialmente il progetto di una società autonoma,
ovvero di una società basata dell’autogoverno da parte di tutti i suoi partecipanti.
L’autonomia della collettività non può realizzarsi se non attraverso l’autogoverno di
cittadini autonomi che partecipano alla formulazione delle norme sociali, a al
contempo, l’autonomia degli individui è inconcepibile senza l’autonomia auto-istituita
della collettività (Castoriadis, 1995b, p. 19). Il carattere intrinsecamente rivoluzionario
della democrazia deriva non dalla corrispondenza ad un ideale di perfezione quanto
piuttosto al fatto che si tratta di un regime che si

«autoistituisce esplicitamente in modo permanente. Questo non significa che


cambia Costituzione tutte le mattine o tutti i primi del mese, ma che ha preso
tutte le necessarie disposizioni, di diritto e di fatto, per poter cambiare le sue
istituzioni senza guerra civile, senza violenza, senza spargimento di sangue».

Un altro autore, Pietro Barcellona, che si riconosce in questo tipo di impianto


sottolinea che la riflessione sulla dimensione sociale come creazione di figure di senso
e di insiemi di significati è l’unica strada per criticare l’immaginario del funzionalismo
economico e della ragione strumentale che vogliono ridurre tutta la società comprese
le sue istituzioni democratiche alla pura logica economico-funzionale, trasformando
così la democrazia in pura procedura tecnica e sottraendo così la possibilità del
confronto sulla questione dei valori e dei fini (Barcellona, 1994a, pp. 14 e 34). 185
Nei fatti questi autori sottolineano che la democrazia è un progetto che
presuppone uno spazio riflessivo, individuale e collettivo, sulla società e su
se stessi, sui propri bisogni, sui valori, sul bene comune, e che istituisce delle forme
di coesistenza e una “grammatica vitale comune”.
Da questo punto di vista si capisce come il confronto, o meglio la lotta tra
democrazie e regimi autocratici riguardi prima di tutto lo spazio dell’immaginario e del
simbolico, ovvero delle immagini di sé, degli altri, del mondo. Se questo spazio è
colonizzato da un immaginario economico o tecnico violento e spersonalizzante che
nega qualsiasi pensiero e decisione riflessiva, allora le possibilità creative della
democrazia possono venire distrutte per tutti. E ancora, proprio perché la
democrazia è decisione sui significati sociali e sui valori collettivi qualsiasi riduzione
della democrazia ad una dimensione tecnocratica o di selezione del personale
competente (élites) finisce con eliminare proprio il valore originario del confronto
collettivo su ciò che è desiderabile in vista del bene comune. In realtà proprio perché il
potere istituente siamo noi, non ci sono “affari collettivi” di cui non possiamo occuparci
(Barcellona, 1998, p. 349).
In questa prospettiva Castoriadis mette nettamente in discussione quelle che
chiama le “pseudo-democrazie” occidentali, che considera a tutti gli effetti oligarchie
liberali:

«In queste società, qualunque filosofo dei tempi classici avrebbe riconosciuto
dei regimi di oligarchia liberale: oligarchia, perché un ceto determinato domina la
società; liberale perché tale ceto lascia ai cittadini un certo numero di libertà
negative o difensive» (Castoriadis, 2001, p. 128).

Quello che definisce ancora più nello specifico il carattere non democratico di queste
società è il fatto che quella che dovrebbe essere la sfera pubblica (l’ekklesia), ovvero il
luogo in cui si decide, e che dovrebbe essere il più possibile aperto alla partecipazione
è in realtà privata ovvero è sotto il controllo dell’oligarchia politica e non del corpo
politico. Le vere decisioni vengono prese a porte chiuse, nei stanze in cui si
incontrano i leader dei partiti e non nei luoghi ufficiali in cui si presume che
vengano prese. Quando le questioni arrivano nelle sedi ufficiali i giochi sono già fatti.
Di più, aggiunge Castoriadis, le motivazioni di queste decisioni il più delle volte sono
segrete e le leggi non ne garantiscono, anzi spesso ne vietano l’accesso ai cittadini
(Castoriadis, 2001, p. 127).
Anche Pietro Barcellona arriva alle medesime conclusioni:

«noi viviamo sotto regimi oligarchici nei quali le grandi decisioni che
riguardano la vita di tutti sono di fatto e spesso anche di diritto precluse alla
grande maggioranza dei cittadini. I cittadini non hanno accesso alle informazioni
che contano; la manipolazione dei budget dello Stato è materia sostanzialmente
riservata al governo. Tutto ciò che riguarda la difesa, il controllo degli apparati
militari, l’industria nucleare è fuori dalla portata del controllo pubblico e sociale e
spesso è trattato come segreto di stato» (Aa.Vv, 1995, p. 7).

Castoriadis riconosce, come dicevamo, il carattere liberale di questi regimi e il fatto


che le società che li producano siano società aperte ovvero posti in cui il dissenso e la
contestazione verso le autorità costituite sono, fino ad un certo punto, possibili e
garantiti. Si tratta dunque di società in cui è tornato a manifestarsi quello che
definisce “il progetto di autonomia individuale e collettiva”, anche se non sono riuscite
a realizzare l’autonomia e l’autogoverno.
Pur provenendo da altri percorsi, anche altri autori hanno messo in discussione la
rappresentazione della democrazia proposta dai regimi occidentali. Luciano Canfora 186
ha criticato quella che chiama “retorica democratica”, ricordando che in verità

«è improprio definire “democrazia” un sistema politico nel quale il voto è


merce sul mercato politico, e l’ingresso nel Parlamento comporta una fortissima
“spesa” elettorale da parte dell’aspirante “rappresentante del popolo”» (Canfora,
2002, p. 27).

Anche Domenico Losurdo ha sottolineato il processo in corso di reintroduzione di


fatto di una democrazia censitaria cui si connette la decapitazione politica delle classi
subalterne. Losurdo ha parlato a questo proposito di volatizzazione formalistica della
democrazia e di trionfo di un “bonapartismo soft” nel senso di un regime che assicura
semplicemente una successione ordinata e regolamentata che è in grado di
assicurarne la permanenza nel tempo (Losurdo, 1993, p. 309).

Occorre dunque fare realmente i conti con la realtà di un "nuovo dispostismo


democratico", come non teme di indicarlo Michele Ciliberto, rivisitando l'analisi
analisi e le categorie proposte da Alexis de Tocqueville, in riferimento a ciò che ha
costituito il Berlusconismo in Italia. Un dispostismo che si rivela nella capacità di
generare «una vera e propria mutazione antropologica attraverso l'uso
spregiudicatissimo di una serie di strumenti antichi e nuovi, a cominciare dal sistema
dei media, dal quale il moderno dispostismo ha tratto, e continua a trarre, esistenza e
potenza» (Ciliberto, 2011, p. XII).

Il taglio critico diventa intrinsecamente un’autocritica da parte delle democrazie


stesse secondo Pierre Rosanvallon. Per quest’ultimo si tratta di prendere atto
dell’erosione della sfiducia nelle società democratiche per pensare e contemplare
all’interno del rinnovamento della teoria democratica anche le forme organizzate della
manifestazione della sfiducia. A fianco dell’erosione delle forme tradizionale di
organizzazione della politica come partiti e istituzioni si sono infatti imposti negli ultimi
decenni altre forme organizzate come per esempio i gruppi di pressione, i movimenti,
le manifestazioni di protesta. In altre parole si tratta di comprendere democrazia e
critica del potere democratico, come due aspetti congiunti che vanno letti
come forme differenti di un unico sistema politico, o come forme di resistenza
attiva a quella che viene chiamata entropia rappresentativa, al degradarsi del rapporto
eletti-elettori. Rosanvallon individua tre modalità principali di manifestazione di una
“sfiducia democratica”: le forme di vigilanza, sorveglianza, denuncia del potere; le
forme di interdizione e sanzione del potere; infine le forme dell’imputazione, di
giudizio e perfino di umiliazione del potere:

«All’ombra della democrazia elettorale-rappresentativa, questi tre contro-


poteri delineano i contorni di quel che propongo di chiamare una contro-
democrazia. Questa contro-democrazia non è il contrario della democrazia; è
piuttosto la forma di democrazia che contrasta l’altra, la democrazia dei poteri
indiretti disseminati nel corpo sociale, la democrazia della sfiducia organizzata di
fronte alla democrazia della legittimità elettorale. La contro-democrazia fa in tal
modo sistema con le istituzioni democratiche legali. Mira a prolungarne e ad
estenderne gli effetti; ne costituisce il contrafforte» (Pierre Rosanvallon, La
politica nell’era della sfiducia, Città aperta, Troina, 2009, p. 17).

Dal punto di vista di epistemologia politica, si può sottolineare che le forme di


contro-democrazia suggerite da Rosanvallon sono allo stesso tempo post-
democratiche, nel senso che emergono in reazione alle promesse non mantenute dalle
democrazie rappresentative, che pre-democratiche, in quanto espressione di forme di 187
difesa dal potere e dalla tirannia emerse prima dell’avvento dei regimi democratici
moderni. Insomma muovendosi al di fuori di schemi idealistici e lineari e
interessandosi più alla vita della democrazia come capacità di risolvere sempre nuovi
problemi, Rosanvallon mostra che nella realtà politica delle democrazie, il vecchio e il
nuovo non hanno mai smesso di integrarsi e di ricombinarsi (Rosanvallon, 2009, p.
30) e che occorre in qualche modo deoccidentalizzare lo sguardo.

Un sesto approccio può essere definito conflittuale o agonistico. Secondo


Jacques Ranciére per esempio, la democrazia, come ogni nozione politica, è oggetto
di una lotta, una lotta per l’appropriazione del nome. A suo modo di vedere la
democrazia non è semplicemente un ideale ma un presupposto valoriale di
uguaglianza:

«la democrazia nel senso del potere del popolo, del potere di quelli che non
hanno alcun titolo particolare a esercitare il potere, è la base stessa che rende la
politica pensabile» (Jacques Ranciére, “Les démocraties contre la démocratie” in
Aa.Vv. Dèmocratie, dans quel état?, La fabrique, Paris, 2009, p. 98).

La nozione di democrazia ha una funzione critica contro qualsiasi forma di


dominazione. Per questo motivo Ranciére, critica quelle forme di diffidenza o di
derisione contro la democrazia, diffuso, a suo dire, nelle nostre società. Tale “odio
della democrazia” si fonda su una confusione tra il principio della democrazia e i
governi o i fenomeni sociali esistenti. Soprattutto rifiuta l’identificazione della
democrazia con una forma di società rinchiusa negli appetiti individuali e dominata
dalle oligarchie economiche e statali. Al contrario, sostiene Ranciére, contro
l’accaparramento della cosa pubblica da parte di una solida alleanza dell’oligarchia
statale e dell’oligarchia economica «il processo democratico deve costantemente
rimettere in gioco l’universale sotto una forma polemica. Il processo democratico è il
processo di questa rimessa in gioco perpetua» (Jacques Ranciére, La haine de la
démocratie, La fabrique, Paris, 2005, p. 70).

«La democrazia allora, ben lungi dall’essere la forma di vita degli individui
votate alla loro felicità privata, è il processo di lotta contro questa
privatizzazione, il processo di allargamento di questa sfera» pubblica (Jacques
Ranciére, La haine de la démocratie, La fabrique, Paris, 2005, p. 62).

Si tratta di un movimento votato ad espandere le forme dell’uguaglianza in altri


ambiti della vita comune contro “l’illimitazione capitalista della ricchezza”, e per
riaffermare «l’appartenenza a tutti a chiunque di questa sfera pubblica
incessantemente privatizzata» (p. 65).
Sul riconoscimento della dimensione strutturalmente conflittuale della democrazia si
muove anche Stuart Hampshire secondo il quale proprio in virtù dell’inestirpabilità
del conflitto occorre garantire una forma equa di espressione, di confronto e di
valutazione delle opinioni. Non sarebbe dunque nella regola della maggioranza, il
cardine della democrazia.

«Al contrario, il valore di una costituzione democratica risiede nella difesa delle
minoranze e non delle maggioranze. Occorre fare in modo, nel nome della
giustizia, che le minoranze siano ascoltate come si deve e che svolgano nel
processo il loro ruolo necessario» (Stuart Hampshire, Non c’è giustizia senza
conflitto. Democrazia come confronto di idee, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 45).
Anche per Miguel Abensour la democrazia rappresenta un pensiero del conflitto. 188
Per un verso la vera democrazia per Abensour è «la politica per eccellenza, il
dispiegamento, l’apoteosi del principio politico» (p. 100), e nel «luogo della
democrazia si svela nella sua perfezione il principio politico stesso» (p. 102). D’altra
parte la democrazia s’invera soltanto in una lotta incessante contro quel compromesso
moderato rappresentato dallo “Stato democratico”. Il conflitto di cui parla Abensour
non è però un conflitto interno allo Stato, ma un conflitto esterno e contro lo Stato. In
questa prospettiva per Abensour la vera democrazia supera e va oltre i limiti
dello Stato moderno, la democrazia «è antistatale o non è». Ma non nel senso
che essa dia luogo a uno spazio lineare senza asperità, ma al contrario come
istituzione determinata di uno spazio conflittuale, di uno spazio contro, di una scena
agonistica in cui la democrazia, come vita del popolo, sfida l’arroganza dello Stato in
quanto forma organizzatrice che produrrebbe un inevitabile decadimento della
democrazia stessa.
Abensour pensa alla democrazia dunque come regime di autoistituzione del sociale,
un’autodeterminazione continua, una “democrazia insorgente” tale per cui:

«l’avvento della democrazia significhi l’apertura di una scena conflittuale, che


ha come bersaglio “naturale” e privilegiato lo Stato; ed inoltre come la
democrazia sia il teatro di una “insurrezione permanente” contro lo Stato, contro
la forma Stato, unificatrice, integratrice, organizzatrice» (p. 22).

Abensour contesta insomma la riduzione della democrazia allo “stato democratico”,


poiché lo Stato non è l’ultima parola del politico.

«Così la vera democrazia, retta dal principio di auto fondazione continua, non
è pensata come compimento definitivo, ma come un’unità che si fa e si rifà
continuamente contro l’insorgenza sempre minacciosa dell’eteronomia, solo cioè
se è guidata dal movimento dell’infinità del volere» (p. 119).

Un settimo filone che possiamo definire involutivo, secondo cui non saremmo
di fronte ad una democrazia incompiuta e di la da venire, ma al contrario nella
condizione di una democrazia nella sua fase di declino, ovvero in una parabola
discendente.
Un autore importante che possiamo ricondurre a questo filone è Colin Crouch, che
sostiene che le versioni liberali non rendono conto della situazione attuale che non
sarebbe più quella di una vera e propria democrazia, ma piuttosto quella di una
“postdemocrazia”. Rispetto all’ottimismo evolutivo di Dahl, Crouch sembra proporre
uno schema di lettura invertito. In quest’ottica non saremmo di fronte ad una
democrazia incompiuta e di la da venire, ma al contrario nella condizione di una
democrazia nella sua fase di declino, ovvero in una parabola discendente.

«In base a questo modello, anche se le elezioni continuano a svolgersi e a


condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente
controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperi nelle tecniche di
persuasione e di esercita su un numero ristretto di questioni selezionaete da
questi gruppi. La mssa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente,
persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve» (Crouch, 2003, p. 6).

Nella postdemocrazia il regime politico cede sempre più potere alle lobby
economiche, fatto che rende sempre più difficile la possibilità di politiche egualitarie e
di ridistribuzione del potere e della ricchezza. Questo spiega il diffuso senso di
disillusione e la scarsa partecipazione dei cittadini. 189
Per Crouch la democrazia si presenta in una dimensione entropica, dunque
non si può che accettare il suo declino, salvo impegarsi a livelli diversi in politiche
capaci di contrastare o bilanciare almeno in parte l’inesorabile slittamento verso la
democrazia. Crouch pensa a politiche che affrontino la crescente preponderanza delle
élite economiche, che riformino la prassi politicia tramite esperienze di “assemblee di
cittadini” o e che attivino i cittadini in quanto tali, mobilitandoli sul piano delle nuove
identità sociali più estranee al vecchio sistema politico.
L’aspetto comune che si può rintracciare tra questi pur diversi autori richiamati è il
tentativo di smascheramento delle autorappresentazioni democratiche delle
oligarchie liberali occidentali come punto di partenza per un cambiamento
nell’immaginario e nelle pratiche politiche democratiche.

Un ottavo filone che chiameremo trasformativo, si caratterizza per un’analisi più


problematica delle possibilità del progetto democratico. Secondo Niklas Luhman per
esempio, i crescenti processi di differenziazione funzionale tipici delle moderne società
complesse mettono radicalmente in discussione le concezioni e le possibilità della
democrazia così come è stata pensata fino ad ora. Nelle società complesse a suo
avviso non si può pensare ad una effettiva partecipazione di tutti i cittadini ai processi
decisionali, perché questo produrrebbe un sovraccarico di complessità. Il sistema
politico - secondo l’approccio dei Sistemi Sociali di Luhmann - sarebbe in realtà un
sistema autoreferenziale che produce e riproduce da sé i propri elementi costitutivi.
D’altra parte Luhmann da per scontato che nelle società altamente differenziate il
sistema politico abbia perso irrimediabilmente la sua centralità e che in generale non
si possa più centrale sulla politica una società funzionalmente differenziata senza
distruggerla (Luhmann, 1987, p. 56). Quale sarebbe dunque lo spazio rimasto per la
politica oggi? Luhmann lascia aperta teoricamente anche un’ipotesi espansiva in cui la
politica potrebbe riattribuirsi un ruolo guida di qualche genere, ipotesi tuttavia che egli
non ritiene probabile, mentre confida in una concezione più restrittiva della
politica in cui essa potrebbe ancora portare il suo contributo alla vita delle società ma
in connessione con altri ambiti funzionali. Conseguentemente la politica dovrebbe
riconoscere i propri limiti ed accettarli responsabilmente. In questo quadro la
democrazia non può più essere pensata come uno strumento di emancipazione
collettiva, piuttosto, rispetto ad altri regimi, essa si riduce a significare solamente

«conservazione di complessità nonostante la continua attività decisionale,


mantenimento di un ambito selettivo il più ampio possibile per decisioni sempre
nuove e differenti» (Luhmann, 1990, p. 71).

Richiamandosi a queste analisi, ma anche scostandosene in parte per quanto


riguarda le possibilità della politica, Danilo Zolo in alcuni libri, Complessità e
democrazia (1987), La democrazia difficile (1989), Il principato democratico (1992),
sostiene che le importanti trasformazioni sociali che accompagnano l’ingresso di nuove
tecnologie della comunicazione, elettroniche, informatiche, robotiche, che stanno
accelerando i processi di specializzazione funzionale dei sistemi politico, economico,
sociale, stanno mettendo profondamente in crisi l’idea stessa di “democrazia
rappresentativa” e le stesse categorie politiche classiche: parole come “sovranità
popolare”, “rappresentanza”, “divisione dei poteri”, “bene comune”, “controllo
democratico”, “opinione pubblica”, “consenso”, “partecipazione”, “competizione tra
partiti”, “pluralismo”, a suo avviso non sono altro che scatole vuote. Dal suo punto di
vista,
«La nozione classica di democrazia rischia oggi di apparire come un innocuo e
irrealizzabile postulato normativo con pretese di universalità, se non proprio 190
come una formula rituale di giustificazione della politica in quanto tale da parte
delle oligarchie al potere. Essa viene usata per giustificare ogni politica e ogni
uso del potere, anche il più spietato, arbitrario e brutale» (Zolo, 1989, p. 91).

Zolo ritiene dunque necessaria una ricostruzione della teoria democratica. Sul piano
teorico l’accusa si rivolge in particolare a tutta la dottrina, che definisce “neoclassica”,
del pluralismo competitivo di autori come S. Martin Lipset, Robert Dahl, John
Plamenatz, Raymond Aron, Giovanni Sartori, che ritiene elementare e irrealistica. Per
Zolo, la sovranità, la razionalità, l’autonomia morale dei cittadini non sono affatto
scontate ma semmai costituiscono un difficile obbiettivo da raggiungere, e all’interno
degli attuali regimi democratici è perfino dubbio che gli elementi costitutivi e gli attori
politici effettivi siano effettivamente gli individui. In realtà, scrive Zolo,

«sono le direzioni dei partiti ad essere ormai titolati esclusive del potere che
Schumpeter affidava agli elettori: sono esse che ‘producono’ i governi e sono
esse che i governi ‘rappresentano’, mentre l’antico rapporto di rappresentanza
fra elettori ed eletti è ormai un binario morto che conduce sulla soglia di
assemblee parlamentari dove non circola che un potere residuale di micro-
clientelismo personalizzato» (Zolo, 1992, p. 148).

Dunque per Zolo si dovrebbe abbandonare addirittura l’idea di democrazia


rappresentativa in favore di un’idea più limitata e realistica di organizzazione degli
interessi, di mediazione dei conflitti, di garanzia della sicurezza e di tutela delle libertà
civili; riconoscere l’autonomia funzionale del sistema politico e la natura di “sistemi
autocratici differenziati e limitati” (in soldoni “oligarchie liberali”) dei regimi che
chiamiamo democratici. Per Zolo anche questo nucleo minimo di garanzie rischia
tuttavia di essere travolto da un ambiguo e rischioso processo di ulteriore
differenziazione e complessificazione delle società postindustriali, cosicché le oligarchie
liberali rischiano di trasformarsi in oligarchie illiberali e senza alternative sul modello
Singapore.
Fra le critiche che si possono avanzare alle prospettive - peraltro molto interessanti
- di Luhmann e Zolo mi limiterei ad osservare che una teoria che si autodefinisce
complessa non può assumere come premessa l’idea semplicistica che il sistema
politico abbia come unica o principale funzione quella di

«regolare selettivamente la distribuzione dei rischi sociali, e quindi di ridurre la


paura, attraverso l’assegnazione agonistica di valori di sicurezza» (Zolo, 1992, p.
62).

Senza negare la pertinenza di questa dimensione della politica si può sostenere che
essa corrisponde più precisamente ad un’idea specifica della politica (e prima ancora
ad un’antropologia specifica della politica) che entra in gioco nel confronto politico,
piuttosto che non ad una descrizione esatta della “realtà” della politica. Ci si può
chiedere dunque se una certa spiegazione sistemica e funzionale sia realmente una
deduzione della realtà politica o non piuttosto (contemporaneamente) una sua
conseguenza. Se si ammette il carattere circolare tra realtà osservata e osservazione
riflessiva, ne consegue la consapevolezza che una rappresentazione unilaterale di una
realtà definita da rigide differenziazioni funzionali e di un politica mossa da
atteggiamenti di tipo adattativi rivolti a diminuire i rischi e l’insicurezza finisce col
rafforzare nella realtà la dimensione di adattamento piuttosto che illuminare e
stimolare le possibilità di apertura e di mutamento in essa latenti. E probabilmente
non è un caso che la prospettiva di questi approcci sia fondamentalmente basata su
un atteggiamento politico-psicologico “difensivo”, ovvero di ridefinizione al ribasso 191
della linea di non arretramento dietro a cui in una società complessa e postindustriale
si può assestare un progetto democratico preoccupato (come lo è autenticamente
Zolo) della resistenza alle nuove forme di potere, dei suoi abusi e delle sue arroganze.
In effetti se la definizione della politica da cui si parte è puramente negativa e
difensiva – regolazione dei rischi, riduzione della paura, garanzia della sicurezza –
anche la prospettiva non può coerentemente mettere avanti nessuna apertura positiva
di rilancio o iniziativa autonoma e imprevedibile degli individui e delle collettività
contro i poteri impersonali delle società complesse. Fortunatamente la realtà politica è
più complessa e più imprevedibile di quello che le teorie politiche della complessità
prevedono che sia.

Un ottavo filone che possiamo definire di radicalizzazione, mira ad estendere e


radicalizzare i principi e le forme della democrazia tradizionale, in gran parte svuotata
dalle forze della globalizzazione economica, per aumentare le forme di partecipazione
popolare ed autodeterminazione. A partire dalle esperienze pilota di Porto Alegre e
dello Stato di Rio grande do Sul e di molte altre città in Brasile ed in America Latina,
numerosi autori si sono impegnati in una riflessione teorica sulle nuove forme di
democrazia partecipativa e di “bilanci partecipativi” e sulla loro possibile
implementazione e diffusione. Uno dei protagonisti di questa nuova prospettiva pratica
e teorica Tarso Genro – già sindaco di Porto Alegre, ora ministro nel governo Lula,
ma anche avvocato e studioso di diritto e teoria politica - chiarisce in un libro ormai
famoso scritto assieme a Ubiratan de Souza che riconoscere i limiti della democrazia
non significa per questo accettare i regimi politici autoritari nemmeno se questi si
presentassero come difensori degli interessi della popolazione e dei lavoratori.

«Si tratta, invece, di democratizzare radicalmente la democrazia, di creare


meccanismi affinché essa corrisponda agli interessi dell’ampia maggioranza della
popolazione. Si tratta di creare istituzioni nuove, attraverso le riforme o
attraverso la rottura, che permettano che le decisioni sul futuro siano decisioni
sempre condivise» (Genro, de Souza, 2002, p. 27).

Genro sottolinea come da circa due secoli a questa parte non abbiamo creato
nessuna nuova rilevante istituzione democratica. Per questo a suo avviso la
funzionalità dello Stato nel mondo attuale si può rimettere in moto solamente
«attraverso uno “shock democratico”, con la dissoluzione delle barriere
burocratiche che separano lo Stato dal cittadino comune» (Genro, de Souza, 2002, p.
114)
Nei fatti l’accusa che viene rivolta alle concezioni tradizionali di democrazia basate
sull’idea della competizione per la conquista del potere, è quella di non occuparsi della
costituzione di forme effettive di partecipazione uguale o almeno “più uguale”, nelle
decisioni pubbliche. Non è un caso che molti di questi autori vengono da posizioni
marxiste ed hanno particolarmente a cuore la condizione dei ceti subalterni la cui
inclusione sociale e politica mettono al centro della questione democratica. Come
hanno notato infatti alcune attente studiose, l’idea e la pratica della democrazia
partecipativa in questa declinazione radicale riporta al senso etimologico del termine
democrazia (il potere del popolo) in una doppia accezione, quella del potere
dell’insieme dei cittadini, ma anche quella del potere del “petit peuple” ovvero di quel
popolino composto da poveri, emarginati, stranieri che sono solitamente lasciati fuori
dalle porte dei luoghi decisionali (Gret, Sintomer, 2002, p. 134).
Non è un caso che uno dei teorici più significativi di questa corrente, Boaventura
de Sousa Santos, curatore di un colossale progetto editoriale in sette volumi sulla
reinvenzione dell’emancipazione sociale il cui primo tomo si intitola significativamente
Democratizzare la democrazia (de Sousa Santos, 2002) colloca il tema della 192
democrazia partecipativa all’interno di un gruppo di questioni cruciali come i sistemi
alternativi di produzione, il multiculturalismo, la giustizia e la cittadinanza culturale, la
lotta per la biodiversità, e un nuovo internazionalismo operaio. Secondo de Sousa
Santos infatti si tratta di costruire un progetto di globalizzazione contro-
egemonica sulla base di percorsi molteplici di resistenza sociale con la
consapevolezza che questa lotta va combattuta su tutti questi fronti simultaneamente,
perché una strategia costruita sulla resistenza ad un'unica forma di potere, senza
tener conto delle altre rischia di contribuire a peggiorare la situazione di oppressione
dei gruppi sociali subalterni, anziché migliorarla (de Sousa Santos, 2002, p. 27).
Questa connessione tra radicalizzazione della democrazia e critica al modello
neoliberale viene richiamata anche da Emil Sader (Sader, 2002) secondo il quale la
democrazia partecipativa rappresenta in forma aperta una critica radicale
dell’ideologia liberale che porta ad identificare il cittadino con il consumatore e il
processo elettorale con il mercato e delle forme di democrazia liberali che nei fatti
oggi manifestano una perdita di legittimità nei governi, dei parlamenti, della giustizia,
una concentrazione complessiva di potere, un aumento dell’astensione elettorale ed
una quasi totale assenza di reali dibattiti politici (Sader, 2002, pp. 653 e 655). Nei
fatti lo scopo di questi pensatori (e talvolta anche attori) non è quello di rabberciare in
senso socialdemocratico le forme dello stato liberale, e nemmeno quello di «”assaltare
lo Stato” a partire da una struttura esterna ad esso, che raccoglie in sé un potere
alternativo» (Sader, 2002, pp. 670-671) ma al contrario quello di arrivare a capo di
una riforma in senso democratico radicale dell’intera struttura statale nonché
dello spazio pubblico della politica, garantendo trasparenza, confronto pubblico,
partecipazione dei cittadini, responsabilità degli amministratori, e una interazione
continua e dialettica tra governanti e governati. Nei fatti nell’idea di tutti questi autori
l’invenzione di strumenti quali il bilancio partecipativo, va vista come un processo di
radicalizzazione della democrazia che avrà conseguenze profonde nelle relazioni della
società con tutte le sfere pubbliche dello stato.
Anche Paul Ginsborg si pone a suo modo in questa prospettiva, suggerendo la
necessità di “rianimare” e “ripopolare” la democrazia. Partendo dal riconoscimento di
una crisi di carattere qualitativo della democrazia che si registra nelle forme di delega
ai politici professionisti, nella passività del cittadino “spettatore” mediatico, nella
dipendenza della politica dal grande capitale. I terreni sui quali occorre rivitalizzare ed
estendere la democrazia, secondo Ginsborg, sarebbero principalmente tre: una
democrazia partecipata, una democrazia economica, una democrazia di genere
(Ginsborg, 2006).

Un ultimo filone, più recente, che definiremo di eccedenza o di


oltrepassamento, propone di provare a guardare anche oltre quello che a questo
proposito è stato chiamato “l’integralismo della religione democratica” (Mario Tronti,
2001). In sostanza questo filone nasce soprattutto dalla reazione critica al pensiero
che si debba accettare la democrazia come forma ultima, definitiva e indiscutibile di
sistema politico. Come reazione dunque alla fine della storia e alla fine della politica.

In una prospettiva di oltrepassamento si muovono in particolare molte studiose


femministe le quali sottolineano di fondo come gli attuali sistemi politici statuali,
compresi quelli democratici, siano segnati fin dalle fondamenta da un’organizzazione e
da un ordine simbolico fondamentalmente maschili, ostili al riconoscimento delle
donne. Come ha notato Maria Luisa Boccia,
«Dal momento che per “essenza”, e non solo per condizione, le donne sono
state considerate altro dalla politica, non basta porsi il problema della loro 193
inclusione, bisogna ricollocare la politica nel pensiero, compiere un continuo
oltrepassa mento di quello che è il suo ambito predefinito» (Maria Luisa Boccia,
La differenza politica. Donne e cittadinanza, Il saggiatore, Milano, p. 10).

Secondo Carol Pateman, ad esempio, il racconto originario del “contratto sociale”


evocato dalla teoria politica moderna a fondamento della sfera pubblica della libertà
civile nasconde il racconto di subordinazione e soggezione del “contratto sessuale”. Il
sistema e l’immaginario politico moderno si costituiscono attraverso questa
separazione e opposizione tra privato e pubblico che rimanda all’opposizione tra donne
e uomini e tra ambito naturale (femminile) e ambito civile (maschile). Le due
sfere della società civile – nota Pateman - sono allo stesso tempo separate e
inseparabili, ovvero l’ambito pubblico della politica non può essere compreso
pienamente in assenza della sfera privata definita come di competenza e
responsabilità femminile (Pateman, 1997, p. 7).
Diverse studiose italiane hanno sottolineato come la democrazia sia il risultato di
una fondazione teoretica che in nome dell’universalismo ha trasformato la potenzialità
delle differenze, in primis quella sessuale, in connotati identitari allo scopo di ridurle
ad una norma unica che definisce implicitamente una gerarchia e una condizione di
inferiorità femminile (Cavarero, 2007; Boccia, 2002). Le donne sono riconosciute
come cittadine, ma allo stesso tempo – a causa della loro emotività, passionalità e
instabilità – sono considerate poco razionali ed affidabili e dunque inadatte alle
responsabilità politiche.
Molti autori e autrici hanno sottolineato inoltre il legame storico tra l’allargamento
della cittadinanza e la leva di massa, ovvero la partecipazione degli uomini alla
guerra. Dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, dalla Francia all’Italia, in tutti gli stati
moderni l’allargamento della cittadinanza è proceduto parallelamente al
coinvolgimento degli uomini nel servizio militare armato. A questo proposito, Jean
Bethke Elshtain (1991) ha elaborato l’idea di “virtù civica armata”. Dunque nel Dna
delle democrazie contemporanee rimarrebbe questa connessione profonda tra
cittadinanza e uso delle armi, della forza. Ancora oggi le donne che si candidano ad
avere un ruolo politico devono dimostrare di saper all’occorrenza far uso in modo
spregiudicato della forza e del linguaggio bellicista.
Il fondamento stesso del potere politico può essere rintracciato, secondo alcune
analisi, in un principio maschile avverso e in opposizione al mondo delle donne. Ida
Dominijanni ha sottolineato, per esempio, la

«struttura sacrificale e “intrinsecamente e costitutivamente polemologica” del


contratto sociale moderno, incentrato sulla scena primaria della congiura fraterna
per il parricidio che fissa una volta per tutte in termini di senso di colpa, rimorso
e nostalgia per il padre, endemicità della guerra fratricida il prezzo della libertà
(maschile) […]» (Dominijanni, 2001, p. 65).

Tutte queste analisi hanno in comune il fatto di sottolineare la dimensione


strutturalmente maschile nella nascita e nella definizione delle istituzioni politiche
moderne e conseguentemente l’allontanamento non contingente dell’altro sesso.
Dunque la sfida non è semplicemente estendere questo sistema alle donne o di
includerle uniformandole a questo sistema ma comprendere questa inimicizia con
l’universo femminile per agire un conflitto capace di modificare l’ordinamento
esistente e le sue implicite opposizioni, con l’implicito bando del simbolico femminile e
materno. Secondo alcune, infatti, il modello originario del parricidio andrebbe riletto
piuttosto come un matricidio originario. Come ha notato Diana Sartori: 194

«Sulla questione del materno si struttura, infatti, la stessa definizione di


politico. L’esclusione della madre dal politico in grande misura si sovrappone
storicamente e logicamente a quella della differenza sessuale stessa e
dell’esclusione femminile. Va osservato, inoltre, che nel corso del tempo il
materno si è dimostrato il nucleo più resistente e irriducibile nella vicenda
dell’inclusione delle donne nella sfera pubblica e politica.
I confini stessi della sfera del politico sono disegnati in modo tale da tenere
fuori dal suo orizzonte l’ombra della madre, con il risultato che questa è
diventata così l’ombra stessa della politica» (Sartori in Diotima, 2007, p. 35).

Non si tratta dunque di restaurare istituzioni cadenti ma in qualche modo di pensare


qualcosa di diverso. Come ha notato Lea Melandri, si tratta di non diventare

«più realiste del re, andando a rafforzare istituzioni cadenti, che sono
all’origine della nostra cancellazione come persone. Vogliamo essere soggetti
politici a pieno titolo, ma soggetti di una “politica ripensata” in tutti i suoi aspetti”
[…]» (Melandri, 2007, p. 114).

Una posizione di “oltrepassa mento” viene prospettata anche da alcuni studiosi


maschi, per giunta di prospettive culturali e politiche differenti.
Da questo punto di vista Sabino Acquaviva, suggerisce un rovesciamento
provocatorio rispetto a tante formulazioni idealistiche della democrazia. La democrazia
– suggerisce Acquaviva - è probabilmente qualcosa di già sorpassato, un’utopia
lontana dalle realtà politica, economica e sociale in cui viviamo. Un‘utopia
quindi che non sta davanti a noi ma piuttosto alle nostre spalle (Acquaviva, 2002, p.
20). Si tratterebbe dunque di avere il coraggio di operare dei tagli simbolici forti e di
dichiarare la fine e l’oltrepassamento di questo progetto:

«Questa società non è radicalmente riformabile, va reinventata, ma senza


utilizzare le anticaglie ideologiche e politiche che hanno lastricato di milioni di
morti la storia degli ultimi due secoli (Acquaviva, 1994, passim). Certamente è
vero che la democrazia, come diceva Churchill, è il peggiore dei sistemi,
naturalmente ad eccezione di tutti gli altri, che sono peggio. Ma è anche vero che
questa democrazia apparente, quasi virtuale, ormai divenuta il sistema politico
dominante – accettato quasi da tutti – si sta trasformando nella più grande truffa
politica della storia. Perché non ammettere che questo sistema, insieme al
progresso tecnico-scientifico, consente ad una piccola “entità” – in gran parte
impersonale – di detenere tutto il potere?» (Acquaviva, 2002, pp. 22, 23).

Le società democratiche di oggi sono in verità società depressive, che vivono alla
giornata, in preda alla noia e al tedio senza più nessuna aspirazione o idea. Mentre la
democrazia stessa così come è stata pensata sulla base di antichi principi diventa un
simulacro, un involucro vuoto sempre più irrilevante, qualcosa che non ha più senso
se non per il fatto che permette con la sua esistenza virtuale e la sua finzione, di
evitare qualsiasi tipo di rivolta (Acquaviva, 2002, p. 151).
Anche Massimo Fini, autore di Sudditi. Manifesto contro la democrazia (Fini,
2004), avanza un giudizio netto contro un regime che di fatto non corrisponde a
nessuno dei presupposti sui quali sostiene di basarsi. Per Fini la democrazia è un
sistema senza valori di legittimazione e perpetuamento delle oligarchie economiche.
Insomma i cittadini delle società democratiche altro non sarebbero che sudditi
impotenti contro queste oligarchie (Fini, 2004, p. 95). 195
La domanda per questi pensatori allora diventa: è possibile inventare un altro
sistema, un’altra forma politica post-democratica all’altezza dei tempi e in grado di
garantire libertà, partecipazione e diritti?
È difficile immaginare “che cosa” ovvero di quale “cosa nuova” si sta parlando. E qui
infatti arrivano i problemi. Per quanto riguarda Mario Tronti, la sua riflessione non va
oltre la definizione del titolo di un progetto di ricerca:

«Un’idea di libertà a contrasto con la pratica dell’homo democraticus. Un’idea


di democrazia a contrasto con la pratica dell’homo oeconomicus. Spingendo su
questi due tasti con le dita del pensiero, bisognerebbe provare a riavviare la
ricerca delle nuove forme in grado di ridare senso all’agire politico» (Tronti,
1998, p. 198).

L’altro, Acquaviva, al termine di una discussione interessante si perde a tratteggiare


una soluzione tecnocratica e scientista basata non sulla politica ma sulla rilevazione
scientifica e razionale dei bisogni “oggettivi” (materiali e spirituali) degli esseri umani,
il tutto riposto nelle mani (si fa per dire) di un cervello informatico centralizzato a
livello planetario. Quanto alla politica, secondo Acquaviva

«La tecnica e la scienza dispongono – o potrebbero (e forse dovrebbero)


disporre – degli strumenti per controllare la politica, per imbrigliarla quando
evade dalla razionalità tecnologica» (Acquaviva, 2002, p. 188).

Sembra la sceneggiatura di un b-movie di fantascienza e prefigura un mondo


molto più inquietante di quelle democrazie dimidiate che conosciamo. Le conclusioni di
questi due autori ci portano ad osservare che per quanto sia saggio evidenziare i limiti
delle democrazie reali e anche provare a liberare il pensiero oltre gli schemi
tradizionali, d’altra parte è importante non perdere la bussola e comprendere che
qualsiasi nuovo regime sarà il risultato di un processo lento di trasformazione di
soggetti, di pensieri, di relazioni e che ogni tentativo di prefigurare la “cosa nuova”
solamente con il proprio pensiero, ovvero di fuggire ai drammi del presente con la
definizione a priori di piani prestabiliti per il futuro non produrrà altro che figure
ingenue quando non agghiaccianti.
Il punto cruciale qui è di comprendere il rischio che il paesaggio e il sentimento
attuale spinga gli individui, anche quelli insoddisfatti dalle "democrazie realmente
esistenti", a rinchiudersi nella disaffezzione, nel proprio "particulare" o al contrario a
spingersi verso forme di populismo superficiale e velleitario. Come ha notato Michele
Ciliberto

«Senza ristabilire 'legami' - politici, sociali 'vitali' - non si esce dalla servitù e
non è possibile ricostituire il nesso fra democrazia e libertà, fra libertà ed
eguaglianza. In questo senso, la costruzione di nuovi 'legami' è il pilastro di una
posizione coerentemente antidispotica» (Ciliberto, 2011, p. 132).

Per istituire nuovi immaginari, per dar forma a nuove prassi e a nuove istituzioni
occorre anzitutto creare nuove occasioni, spazi e forme di relazione e confronto
politico. Ricostruire un progetto politico che dia una risposta più forte ai nostri bisogni
e alle nostre aspirazioni comporta anzitutto far spazio, nutrire e fare crescere nuove
relazioni politiche significative attraverso cui reinventare e superare l'esistente.
Tornando dunque alla mappa di visioni e rappresentazioni della democrazia, non mi
interessa stabilire quale è sbagliata e quale è giusta. Nessuna a mio modo di vedere è 196
totalmente soddisfacente. E quello che mi interessa è semmai la capacità di integrare
e di comporre un approccio alla riflessione e alla pratica politica che riconosca – come
direbbe Gregory Bateson – che più descrizioni sono meglio di una. Che l’integrazione
di questi diversi punti di vista, piuttosto che l’assunzione unilaterale di uno di essi,
produce una maggior complessità e profondità di lettura e una maggiore libertà di
azione.
Di fatto interrogare la democrazia, significa interrogare contemporaneamente le
nostre idee, i nostri schemi di pensiero, le nostre ideologie, le nostre tradizioni di
pensiero, i nostri desideri, la nostra soddisfazione sociale e politica; significa integrare
uno sguardo sul nostro paese, uno sguardo sui paesi vicino a noi, nonché una lettura
del mondo contemporaneo, con le sue promesse e le sue minacce.
Nel costruire una visione della democrazia, in un certo senso assegno un “peso”
differente a tutti questi punti di vista, ma non ne escludo nessuno completamente. E
assegnando un peso, oltretutto, tengo conto anche degli effetti performativi che una
certa interpretazione della realtà può implicare sulla determinazione della realtà
stessa. Da questo punto di vista preferisco insistere sulle letture che propongono una
dimensione riflessiva e su una dimensione dinamica, dando più risalto dunque agli
elementi di insoddisfazione e di autocritica, e introducendo istanze di radicalizzazione,
di eccedenza e perfino di oltrepassamento. È probabile che la fedeltà più profonda allo
spirito che ha prodotto la democrazia come principio e come pratica politica, non
corrisponda ad un ripiegamento identitario e a un adattamento a un sistema politico
dato che oggi manifesta chiaramente molti problemi, defaillance, limiti e
contraddizioni, ma corrisponda piuttosto ad una fedeltà nel mutamento, in una
tensione autocritica e trasformativa che lascia spazio a ciò che sentiamo che ancora
manca e che ci spinge a non sentirci completamente appagati, e a cercare ancora,
accettando l’idea di poter scoprire qualcosa di fondamentale, qualche verità che
ancora non sappiamo e che non riusciamo ancora ad immaginare. Dobbiamo
accontentarci di immaginare non la cosa, ma la possibilità, ovvero la costante
esplorazione del cambiamento.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
197

Il linguaggio del mondo contemporaneo.


Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Docente: Marco Deriu

IDENTITÀ/ALTERITÀ

Nell'incontro con le nostre alterità noi portiamo sempre con noi un mondo e una storia
di idee, di rappresentazioni, di convinzioni di cui siamo consapevoli soltanto in minima
parte. Non possiamo pensare ingenuamente di andare verso gli altri privi di pregiudizi,
privi di convinzioni, privi di preconcetti. Dobbiamo pensare esattamente il contrario.
Che i nostri occhi, il nostro linguaggio, le nostre idee, i nostri saperi e anche le nostre
tecnologie, i nostri beni sono frutto di una lunghissima storia culturale e sociale che
inevitabilmente condizionano il nostro incontro e la nostra relazione con l'altro.
E onestamente dobbiamo riconoscere che la storia del nostro incontro con l'Africa,
con l'America Latina, con l'Asia è stata per molti aspetti segnata dal colonialismo,
dall'imperialismo, dai saccheggi, dalla schiavitù, dal razzismo. Ci piacerebbe poter dire
che questa è una una storia che non ci riguarda più, che è acqua passata, che oggi
queste cose non esistono più. Ma non è così. Potremmo forse parlare di vecchi e
nuovi colonialismi (o imperialismi), di forme vecchie e nuove di saccheggio
delle risorse, di vecchie e nuove schiavitù, di vecchio e nuovo razzismo. E così
saremmo già un po’ più vicini al vero.
Ma non è solo questo. Vorrei provare a dire qualcosa in più.

Un primo aspetto è che dobbiamo riconoscere che una storia di questo genere è
depositata nei linguaggi e nei discorsi, nelle immagini e negli immaginari, negli
sguardi e nei pensieri nostri e delle nostre alterità. È depositata in profondità,
nell'inconscio collettivo e nelle forme più diverse, sia in noi occidentali che negli altri
popoli: convinzioni, criteri interpretativi, pregiudizi, sensi di colpa, risentimenti,
desideri di riscatto, sospetti, complessi di superiorità o di inferiorità. Le dinamiche
delle nostre relazioni sono costantemente condizionate o insidiate da questi elementi
che noi e gli altri spesso non riconosciamo. E quando siamo più sicuri che queste cose
non ci siano è proprio allora che quelle idee ed immagini ma agiranno sotto traccia,
inconsapevolmente.
Allora quello che possiamo fare per darci una possibilità di costruire qualcosa di
nuovo è di divenire più consapevoli delle premesse indiscusse; dobbiamo imparare a
riconoscere noi stessi, a vedere come pensiamo, cos'è che diamo per scontato e
che magari non lo è.

Poi c'è un secondo aspetto. La storia del nostro rapporto con gli altri popoli, con
le altre culture, con le altre civiltà è una storia in gran parte di un incontro mancato.
Non sto dicendo che non ci sono stati rapporti, contaminazioni, ibridazioni. Sto
dicendo che questo confronto è stato in gran parte unidirezionale. Molti di questi
popoli e civiltà sono state costrette a confrontarsi, a sottomettersi, a scegliere se
cambiare e adattarsi oppure sparire. Ma da parte nostra non c'è mai stato un reale
incontro. Non vuol dire che non abbiamo preso nulla da questi paesi o da questi
popoli, anzi. In effetti abbiamo preso a man bassa, saccheggiando risorse, energie,
conoscenze, saperi, musiche, sculture, tutte cose che sono entrate nella nostra
economia, nel nostro commercio, nella nostra alimentazione, nella nostra farmacopea,
nella nostra arte, nel nostro antiquariato, ma senza realmente riconoscere e
valorizzare. Ma l'incontro è un'altra cosa dal saccheggio. Tu puoi appropriarti 198
violentemente delle cose di qualcun altro - che si tratti di beni o di saperi - solo se non
lo riconosci, se non gli riconosci dignità, soggettività, autorità, potere.
L'incontro appunto presuppone un riconoscimento, un mettersi sullo stesso
piano, un confronto, anche un conflitto magari, ma non una rimozione o uno
sfruttamento dell'altro.
In passato, lo sguardo occidentale, identificando la cultura, il sapere, la civiltà, con
se stesso, e riducendo la diversità ad uno stadio infantile di un unico progresso o
sviluppo universale si è condannato ad una totale incomprensione delle alterità che
aveva di fronte a sé. Ha in questo modo disconosciuto ed ignorato la ricchezza e la
complessità che queste potevano offrire. Solo recentemente abbiamo cominciato a
riscoprire nell'alterità quell'interesse e quella profondità che esse portano con se.

Infine c'è un terzo aspetto. Non è solo che siamo sempre portatori di pregiudizi o
che non siamo stati in grado fino in fondo di riconoscere, alscoltare e quindi
comprendere l'alterità, ma anche che le nostre relazioni con gli altri sono state e
continuano essere improntate da un dispositivo di potere che pretende di imporre
una specifica rappresentazione di chi è o che cos'è l'altro, anzitutto a se stesso.
Questo dispositivo che il gesuita e storico francese Michel de Certeau chiama
"scrittura dell'altro" è stato illustrato in maniera molto raffinata attraverso un suo
commento ad una stampa di Jan Van der Straet del 1619 dal titolo “L’esploratore
(A. Vespucci) davanti all’indiana che si chiama America”. Questo è il commento che ci
ha proposto Michel de Certeau
«Amerigo Vespucci, lo scopritore arriva dal mare, in piedi, vestito, corazzato, 199
crociato; porta le armi europee del senso e ha dietro di se i vascelli che
riporteranno verso l’occidente i tesori di un paradiso. Di fronte, l’indiana America:
donna stesa, nuda, presenza innominata della differenza, corpo che si risveglia in
uno spazio di vegetazioni ed animali esotici. Scena inaugurale. Dopo un attimo di
stupore su questa soglia segnata da un colonnato d’alberi, il conquistatore si
appresta a scrivere il corpo dell’altro ed a tracciarvi la propria storia. Ne farà il
corpo istoriato – il blasone – dei suoi lavori e dei suoi fantasmi. Sarà l’America
“latina”.
Questa immagine erotica e guerriera ha valore quasi mitico. Rappresenta
l’inizio di un nuovo funzionamento occidentale della scrittura. Certo, la messa in
scena di Jan Van der Straet raffigura la sorpresa davanti a questa terra di cui
Vespucci fu il primo a capire distintamente che era una “nuova terra” ancora
inesistente sulle carte, corpo sconosciuto ben presto vestito dal nome del suo
inventore (Amerigo). Ma quella che viene così avviata è una colonizzazione del
corpo da parte del discorso del potere. È la scrittura conquistatrice: userà il
Nuovo Mondo come una pagina bianca (selvaggia) dove scrivere il volere
occidentale; trasforma lo spazio dell’altro in un campo di espansione per un
sistema di produzione; a partire da una frattura tra un soggetto e un oggetto
dell’operazione, tra un voler scrivere e un corpo scritto (o da scrivere), fabbrica
storia occidentale. La scrittura della storia è lo studio della scrittura come pratica
storica» (Michel de Certeau, La scrittura della storia, pp. 1-2).

Ogni sistema socio-culturale riproducendo se stesso produce un complesso di


rappresentazioni sia di sé, della propria identità (o diverse identità) sia delle proprie
alterità. Producendo queste rappresentazioni si producono e si scambiano significati.
Il punto allora è che il linguaggio, le categorie, le visioni del mondo che noi
portiamo nel rapporto con gli altri non sono neutre.
Io per esempio lavoro molto con le immagini delle pubblicità "umanitarie",
prodotte nel mondo della cooperazione, degli aiuti allo sviluppo, della solidarietà
internazionale. Ho una raccolta di quasi un migliaio di immagini. Nella stragrande
maggioranza delle campagne l'immagine dell'alterità e ridotta a un soggetto
infantilizzato, passivo, degradato, incapace di badare a se stesso e alla sua comunità.
Un soggetto che dipende materialmente, culturalmente e simbolicamente dagli aiuti e
dall'intervento degli occidentali. La cosa più difficile è decostruire questo
immaginario. Fare comprendere che non è semplicemente uno strumento per
raccogliere soldi, ma un dispositivo di potere. È il radicamento e il
consolidamento di un'immagine degradata dell'altro, degli altri mondi, delle altre
culture, affinché questo possa ribadire e consolidare nel nostro immaginario la
convinzione di noi stessi come eroi, salvatori, operatori e professionisti onnipotenti
capaci di portare salute, pace, cultura, civiltà in mezzo alla barbarie.

Negli ultimi anni si è creato un legame stretto ed ambiguo tra televisioni, giornali e
agenzie umanitarie. Gli uni hanno bisogno degli altri per ”vendere il proprio prodotto”.
Da una parte le catastrofi umanitarie sono un buon articolo per i mass media.
Dall’altra, senza mass media, il mondo umanitario praticamente non esisterebbe. Le
agenzie umanitarie hanno bisogno di tener desta l’opinione pubblica con immagini
strazianti e scioccanti per mantenere alta la “commozione umanitaria” e garantirsi
l’apertura dei rubinetti finanziari per i progetti d’emergenza. Così molte agenzie hanno
reporter e fotografi al loro seguito col compito di rappresentare il dramma e insieme di
ritrarre i buoni salvatori. In queste condizioni diventa difficile distinguere fino a che
punto le immagini servono a denunciare il dolore degli altri e quando servono
200
piuttosto a reclamizzare i propri progetti ed interventi o addirittura a procacciarsi una
commessa.

Le immagini della sofferenza

Se proviamo a guardare una dopo l'altro tante immagini di campagne pubblicitarie


umanitarie, di Ong o di Agenzie istituzionali, notiamo che quasi sempre esse si
focalizzano sulla rappresentazione della sofferenza e del dolore.
Dal punto di vista emotivo la maggior parte di queste immagini producono un senso
di debolezza, di fragilità, di compassione, tenerezza. Ma anche di desolazione,
angoscia, impotenza, dolore. In questi casi il nostro contributo monetario assume
anche la connotazione di una cura e di una difesa dalla proiezione della nostra fragilità
o angoscia.
Alcune di esse, in particolare, producono anche un senso di ribrezzo, di orrore.
Alcune appaiono particolarmente aggressive o violente. Ci sono particolari, ferite, visi
o smorfie di dolore, quasi sonore che non si vorrebbe vedere o sentire. Talvolta il
primo piano è usato come un arnese per sferrare un colpo. Parti del corpo, come una
bocca aperta, vengono usate per richiamare l’idea della fame o dell’urlo di dolore.
Come le sole mani di altre persone riassumono l’idea dell’aiuto, del soccorso, della
cura.
In alcuni casi si è notato come l’immagine del dolore non corrisponde al problema di
cui si parla. Ovvero la rappresentazione del dolore è del tutto iconica e non descrittiva.
Immagine dopo immagine l’effetto di accumulazione contribuisce alla lunga a far
arretrare lo spettatore-cliente. Si produce cioè un effetto negativo di ritorno. Ovvero
una specie di assuefazione o addirittura di rigetto, di nausea. In effetti alcune
immagini si preferirebbe non vederle e il meccanismo psicologico sottostante è proprio
quello di sborsare soldi per allontanare mentalmente ed emotivamente quell’immagine
da sé.
In generale da queste immagini si tra l’impressione di una costruzione professionale
e non di immagini casuali o occasionali. I particolari sono tutti ben disposti. I vestiti
assenti o sgualciti. I colori generalmente scuri o di bianco e nero sottolineano il
carattere drammatico e di sofferenza pietrificata. Il soggetto sofferente è messo in
posa o è inquadrato con un taglio particolare, isolandolo dal contesto in cui è inserito.
Attorno a lui non c’è nulla, se non uno sfondo nero o insignificante, immagine della
povertà o del vuoto simbolico o delle ombre. Salvo naturalmente quando si sottolinea
la presenza dell’operatore occidentale. Ma tra la sua sofferenza e l’intervento del
bianco, non c’è nulla.
Generalmente queste pubblicità non destano reali interrogativi o pensieri. Quando
ci sono domande o questioni la risposta è implicita e riguarda la presenza degli
operatori umanitari, veri e propri mediatori tra il pubblico di utenti e lo spettacolo
della sofferenza.
Non è mai prevista o richiesta una presenza di noi spettatori. In alcune pubblicità la
presenza fisica è sostituita da quella monetaria. I soldi stanno a fianco del bisognoso
al posto della nostra presenza reale. In qualche modo i soldi che doniamo disegnano
un simulacro di presenza umana.
I professionisti dell’umanitario costituiscono uno schermo tra noi e gli altri. Un
cuscinetto psicologico ed emotivo. In molte pubblicità l’aiuto che siamo chiamati a
dare è in primo luogo all’organizzazione la quale poi si farà carico di aiutare gli altri al
posto nostro. In effetti è l’associazione che intende stare al loro fianco. Noi paghiamo
201
qualcuno che lo faccia al posto nostro.
In certe pubblicità la rappresentazione della sofferenza è immediatamente collegata
al prezzo da pagare per la cura e la ricostruzione.
La nudità delle persone sofferenti viene spesso simbolicamente ostentata. Essa
richiama per un verso la vulnerabilità e la fragilità, per un altro contribuisce ad
eliminare ogni riferimento culturale, sociale o identitario. Rimane solo il corpo come
rappresentante di quella che Giorgio Agamben (1995) sulla scorta di Walter Benjamin
chiama la “nuda vita”, l’essere umano ridotto ai suoi bisogni corporei essenziali: cibo,
acqua, cure.
In queste rappresentazioni non è messa al centro la persona, uomini donne nella
loro umanità complessiva, nella loro complessità sociale, culturale, politica, data dalle
relazioni, dall’identità, dalla storia, dalle esperienze, dalle idee e convinzioni, ma il
generico "essere sofferente" o addirittura il solo corpo sofferente.
La rappresentazione umanitaria incontra queste persone solo come “vite astratte”
perse ai propri legami sociali, alla propria cultura, al proprio cibo, al proprio ambiente.
Offrendo cure, alimenti e vestiti come beni neutrali e asettici, si contribuisce ad
astrarre il corpo della persona dal contesto sociale di cui è stato privato. L'umanitario
trasforma gli individui in un'unica entità astratta, un'unica immagine dell'umanità
sofferente.
Mente ci viene proposto di contribuire a lenire o estirpare il dolore,
contemporaneamente l’essere umano viene ridotto a puro essere bisognoso. Altre
emozioni, altre figure e prospettive come la rabbia, la resistenza, la protesta,
l'opposizione, la lotta non entrano mai in gioco. Facendo astrazione da tutta questa
rete complessa di relazioni, di emozioni e di espressioni, ovvero da tutto ciò che rende
l’organismo biologico qualcosa di propriamente umano, queste rappresentazioni per la
verità propongono implicitamente un messaggio antiumanistico.
Paradossalmente la rappresentazione puramente umanitaria dell’individuo isolato
dalla dimensione politica e dal confronto con i contesti culturali e sociali si muove in
una continuità segreta con i processi di sradicamento politico ed e economico che
hanno causato la povertà, la fame, i conflitti.
Come ha notato Giorgio Agamben l’umanitario separato dal politico non può che
riprodurre l’isolamento della nuda vita, della vita sacra che è alla base del potere
sovrano e dei campi.87 L’umanitario è l’altra faccia della biopolitica moderna.
Il “potere sovrano” riduce le persone a nude vite, le rinchiude nei campi per
dominarli ed eventualmente per eliminarli. L’umanitario riduce le persone a nude vite,
le rinchiude in cornici mentali e in campi profughi per soccorrerli più “efficacemente”.

«L’umanitario separato dal politico - ha scritto Agamben - non può che


riprodurre l’isolamento della vita sacra su cui si fonda la sovranità e il campo,
cioè lo spazio puro dell’eccezione, è il paradigma biopolitico di cui esso non riesce
a venire a capo»88.

L’infanzia dell’alterità. politiche del tempo e immaginario paternalistico

I bambini sono senza paragoni il soggetto preferito della gran parte delle pubblicità
umanitarie. Qualche volta compaiono delle donne, quasi mai degli adulti maschi. I

87
Giorgio Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 1995.
88
Giorgio Agamben, op. cit., p. 148.
bambini e le donne rappresentano nella nostra cultura o nei nostri stereotipi culturali
l’immagine della fragilità, dei soggetti deboli e indifesi. Insieme evocano l’idea di 202
protezione. L’immagine dell’adulto maschio invece non si presta a questo genere di
rappresentazione e dunque viene il più delle volte omessa.
Le emozioni che ci suggeriscono le immagini dei bambini sono in primo luogo di
tenerezza, compassione, affetto; suscitano il desiderio di abbracciarli.
In bambini sono ritratti enfatizzando la loro
tristezza o il loro dolore oppure enfatizzando la
loro felicità o esuberanza. Il discrimine, lo
spartiacque simbolico è determinato
dall’intervento degli operatori umanitari. Prima
dell’intervento domina la tristezza, la disperazione,
o addirittura l’apatia. Ma con la presenza e
l’intervento degli operatori umanitari la situazione
si capovolge. I bambini sorridono, sono felici e
sereni, o addirittura ritrovano lo spazio del gioco,
della serenità, della spensieratezza.
L’implicito velatamente razzista che in qualche
pubblicità emerge con più chiarezza è che i
bambini bianchi sono feliciti e benestanti, i
bambini neri sono poveri e disgraziati, senza
risorse o strumenti.
Spesso i bambini sembrano non essere
nemmeno bambini, ovvero non godere
dell’infanzia. Sono privati del gioco, del
divertimento, degli scherzi, del benessere,
dell’educazione e istruzione, della scuola.
In una pubblicità di Actionaid notiamo che il
claim «è impossibile che la marmellata l’abbia
rubata io» presenta da questo punto di vista una molteplicità di significati. Il bambino
africano non può essere stato il ladro della marmellata dacché la marmellata dovrebbe
sembrare nel contesto africano un bene irraggiungibile. È curioso notare come si
proietta su contesti altri un cibo che non gli appartiene. Così come è interessante
vedere come l’assenza di un alimento nella sua dimensione simbolica possa veicolare
diversi significati. La marmellata ricorda anche i lavori di casa, lo spazio domestico, la
presenza e il calore della madre. Tutte cose che secondo il nostro immaginario
verrebbero ad essere precluse nella vita di queste bambini. Il messaggio sottotraccia
sembrerebbe dunque essere anche quello dell’assenza di uno spazio domestico e di
cura. Dunque il messaggio della pubblicità in senso più ampio potrebbe lasciar
intendere che in Africa o nel sud del mondo non ci sono famiglie stabili o protettive
che curano o nutrono i bambini adeguatamente. Naturalmente non sorge nel
pubblicitario o nel lettore il dubbio che se non della marmellata di lamponi i bambini
africani possano godere ugualmente di dolci o golosità differenti prodotte dalle proprie
madri o dalle proprie reti famigliari.
È chiara la mistificazione di questi immaginari e la riproduzione di pregiudizi
superficiali. In questo contesto il nostro aiuto, è stato notato, sembra consistere nel
riportare l’infanzia alla normalità. Da questo punto di vista, si sottolinea, “tutto
dipende da te”.
Nella pubblicità Unicef sui sali minerali si è notato come il bambino viene descritto
come debole, apatico. Le secrezioni sul viso del bambino sottolineano questa
condizione di passività e di apatia. Anche fisicamente il bambino viene sorretto poiché
da solo non ne avrebbe le forze. Dal punto di vista del colore c’è un forte contrasto tra
il bianco predominante e il nero. Gli operatori Unicef sono bianchi e splendenti, mentre
l’unico elemento nero è il bambino stesso che sembra avvolto così da questo
splendore. È il nero sorretto dal bianco. 203
Anche i simboli dell’Unicef si notano molto
per contrasto col bianco. Chi guarda
l’immagine vede subito chi aiuta. Gli operatori
Unicef sono lì per fare il bene del bambino. Le
parole chiave sono “trasformare la vita”,
“recuperare, riprendere a vivere”,
“sostenere”, “Ridare la luce”.
In generale, e questo vale per tutte le
pubblicità umanitarie, i bambini sono
sofferenti e disperati prima di incontrarci,
sereni e sorridenti, quando arriva il nostro
aiuto o in presenza degli operatori o delle
operatrici occidentali. Più chiaro di così.
Nella dinamica pubblicitaria spesso sembra essere lo stesso bambino a chiamare e
chiedere aiuto. Da un punto di vista generale abbiamo già detto come i bambini
occupano gran parte delle nostre rappresentazioni delle alterità del sud del mondo in
queste pubblicità. Si può notare inoltre come nella maggior parte dei casi i bambini
sono associati al registro della vulnerabilità e della mortalità e non a quello della
natalità e della vitalità. Non solo dunque la nostra immagine dell’alterità viene
associata ai bambini e dunque in senso lato viene ad essere infantilizzata, ma rispetto
alla rappresentazione dell’infanzia si tralascia la dimensione di creatività e di apertura,
ovvero la promessa di novità, di rigenerazione e di cambiamento e si rafforza invece
l’idea di un destino negativo tracciato fin dall’infanzia. Un mondo condannato fin dalla
più tenera età.
Simmetricamente questo genere di pubblicità mira a rafforzare l’immagine
paternalistica del consumatore – umanitario – occidentale. E in particolare del
simbolico paterno o genitoriale viene rievocata soprattutto la dimensione della cura e
della protezione non quella dell’ascolto, dello stupore, della meraviglia.
Perfino verso questa alterità infantilizzata non è previsto ascolto o apertura. Anche
di premura si può soffocare.

Un altro genere di alterità: rappresentazioni delle donne e del femminile

Dopo i bambini, le donne rappresentano il secondo maggior riferimento delle


pubblicità umanitarie che spesso decidono di accostare
insieme entrambe le figure. Le donne sono associate nel
nostro immaginario all’idea di un soggetto debole e
vulnerabile. Nella stragrande maggioranza dei casi il
riferimento visivo o testuale è alla donna madre. La
donna viene legata in queste rappresentazioni sempre e
comunque con la figura della madre e della maternità.
Talvolta scompare perfino la figura materna e rimane
solamente il riferimento simbolico del grembo, quello che
la donna rappresenta in questo immaginario.
Si può osservare che c’è un contrasto forte tra la
rappresentazione della donna occidentale e la
rappresentazione della donna nelle altre culture. Le
donne degli altri paesi sembrano sempre vittime di un
destino già tracciato e ineluttabile. Sono segnate
dall’ignoranza, sono abbruttite, sono vittime di violenze o
di disastri. Le nostre sono pulite, ben vestite, truccate.
Un fatto che si può notare è il contrasto tra il discorso e la retorica sulla donna, sui
suoi diritti e sulla sua liberazione che viene spesso richiamato nel nostro immaginario 204
e il tipo di rappresentazione della donna che viene
proposto. Il modo di guardare alla donna in realtà
non sembra particolarmente innovativo. Il
pregiudizio è costantemente presente. La sua
valorizzazione è presente solo in quanto madre e
riproduttrice e non in quanto donna con la sua
soggettività, con le sue risorse e talenti. In altre
parole la donna viene valutata solo sulla base della
sua corrispondenza al ruolo sessuale tradizionale.
Tale impressione è ancora più netta se si pensa a
quelle pubblicità – si vedano le due dell’AIDOS - che nemmeno riproducono la donna
nella sua completezza ma solamente il suo ventre. È il ventre e non la donna l’oggetto
della valutazione. In una di queste addirittura sono messi a confronto il ventre di una
donna bianca e il ventre di una donna nera e i relativi screening: in un caso le
possibilità sono che il bambino nasca maschio o femmina, nell’altro che sia vivo o
morto, organo o malato di HIV. Così la donna è ridotta a madre, la madre è ridotta a
ventre, il ventre è ridotto alle probabilità di vita. Non male come riduzionismo.
È interessante anche notare che gli uomini non ci
sono quasi mai. La donna è rappresentata sempre da
sola o con i bambini. Perfino quando si parla di
adozioni, (si veda la pubblicità del VIS), e quando
sarebbe possibile richiamare l’idea di famiglia o di
coppia, viene rappresentata la donna da sola.
Insomma non viene mai proposta l’immagine di un
possibile diverso rapporto tra uomini e donne.
Si può dunque sottolineare un triplice paradosso.
Mentre nel nostro immaginario ci vantiamo di essere
più avanti e di voler liberare la donna o realizzare i
suoi diritti, in realtà in queste rappresentazioni: 1. la
donna viene ridotta al grembo e alla sua funzione
riproduttiva; 2. non viene valorizzata per sue risorse o
capacità particolari, ma viene rappresentata solo in
quanto vittima o soggetto debole, svantaggiato,
ignorante; 3. non viene rappresentato un possibile
rapporto differente tra i sessi, ma anzi l’uomo
scompare del tutto. In un caso – in una pubblicità di
MSF – una figura maschile compare ma accasciata sul
grembo della donna quasi fosse un bambino.
Qui sembra quasi esserci inconsciamente una
proiezione dei nostri stereotipi. La donna o è nera e
dunque vittima e abbandonata o è bianca e dunque
autonoma e senza relazioni. Queste rappresentazioni
ci impediscono di domandarci se, invece, in alcuni
contesti africani la donna gioca un ruolo differente da
quello che gli attribuiamo e se le relazioni tra i sessi
siano altrettanto o più interessanti di quello che
avviene da noi.
Anche quando il rapporto tra i sessi è segnato dalla
violenza – si veda la pubblicità di Coopi sulle donne
sfigurate dal Bangladesh – la pubblicità richiama
genericamente l’idea dell’inferno rappresentando la donna unicamente dal lato della
vittima rinunciando a interrogare la sua storia e la sua ricerca di libertà e allo stesso
tempo ad interrogare il soggetto maschile e la cultura patriarcale che ha prodotto quel 205
tipo di violenza. Insomma un’occasione davvero sprecata per far riflettere.

Il deserto dell’alterità: nude vittime e paesi senza risorse

Per quanto riguarda la rappresentazione dei paesi del sud del mondo si nota una
mancanza di colore e di colori. Predomina un’immagine in bianco e nero che da un
tono drammatico e freddo a queste immagini.
L’ambiente viene identificato con il deserto o con
la terra arida che costituiscono più dei topos che
ritratti reali di questi paesi che risultano a qualsiasi
latitudine privi di vegetazione, di alberi o prati, di
laghi, fiumi o mari. Le scenografie richiamano
paesaggi in rovina, o tende, mai case o solide mura
o città. Curiosamente non solo l’ambiente naturale
ma anche quello urbano scompare completamente
dalla nostra immagine dell’Africa, del Sud America,
dell’Asia. In un caso, nella pubblicità di Intersos, le
mura ci sono ma sono crivellate di colpi di mortaio,
di missili, di bombe. In questa foto l’alterità non
appare per nulla. Sono le mura crivellate che
dovrebbero dire già tutto. L’altro non serve proprio.
Allo stesso modo manca la società in tutte le sue
espressioni. Manca la vita, le relazioni sociali. Al
massimo compare in qualche rappresentazione una massa umana indifferenziata. I
profughi sulle barche, sui ponti, o masse di persone in movimento sulla strada
compaiono frequentemente nelle pubblicità di agenzie come UNHCR.
In generale si registra un’assenza dell’alterità. In alcuni casi non ci sono nemmeno
persone, ma numeri, oppure spazi vuoti o immagini drammatiche. Manca una
presenza reale dell’altro. L’alterità non è mai ritratta in azione, nel suo fare, dire,
scegliere, criticare, lottare. In sostanza le nostre alterità sono rappresentate solo
negativamente nel segno della privazione e della mancanza.
La cornice è quella della sopravvivenza: “La sopravvivenza è tutto ciò che ci
chiedono” recita uno slogan
pubblicitario di Intersos.
L’idea è che gli altri possano
al massimo aspirare ad una
vita dimezzata, sempre in
prossimità della morte.
Certamente morirebbero
senza il nostro aiuto. È solo
il nostro intervento che li
tiene al di qua della soglia.
Un altro aspetto che va
sottolineato è come guerre
e carestie, ovvero eventi
politici ed economici,
vengano trattati alla stregua
di catastrofi naturali. Essi
sono depoliticizzati e naturalizzati. Si pensi alle pubblicità di Medici Senza Frontiere
che si vantano di intervenire ovunque e in ogni situazione: guerre, epidemie,
catastrofi naturali. Tutto viene messo nello stesso calderone. L’intervento è solamente
una questione tecnica, professionale, non un confronto con un contesto storico,
sociale e politico specifico. 206
Da questo punto di vista si può
notare come nella pubblicità di Medici
senza frontiere sul tema della nascita
ci sia questa connessione tra la
nascita e la camera operatoria. La
nascita viene associata ad
un’immagine di natura malefica. O
meglio la nascita non è più un evento
naturale. In quell’inferno è solo
l’intervento chirurgico degli operatori
umanitari che permette di dare alla
vita. La condizione di questi paesi è
negativa siamo solo noi che portiamo
la speranza. Non è la madre ma la
techné occidentale che dona la vita.
In un'altra pubblicità l’operatore di MSF dice, “Se vi chiediamo dei soldi non
mandateci all’inferno. Già ci siamo”. L’universo dell’alterità qui è ricondotta
direttamente all’immagine dell’inferno. Le culture, le società, la politica, l’economia, la
vita quotidiana tutto è disciolto nel calore dell’inferno. In questo mondo infernale
solamente il professionista occidentale – epigono di Dio -, può portare la salvezza. La
mascherina che indossa il medico è rivolta nei confronti dell’alterità rispetto a cui ci si
deve difendere e produrre un contesto anestetizzato.
In altre pubblicità invece l’alterità si inabissa nel buio (Croce Rossa Internazionale)
o naufraga nel mare (Intersos). Gli avvenimenti sono sempre calamità incomprensibili
e misteriose, di cui non è dato sapere e conoscere nulla. O forse di cui preferiamo non
conoscere nulla.

Angeli, supereroi e benefattori: immagini di onnipotenza

Il vero soggetto di queste pubblicità, come abbiamo visto, non sono le alterità a cui
apparentemente sono dedicate. Il vero soggetto siamo in realtà noi occidentali. Noi
siamo rappresentati a seconda dei casi come angeli, benefattori o supereroi.
In una pubblicità dell’UNHCR il testo dice “Aiutaci a proteggerli. Diventa un angelo
dell’UNHCR”. E nell’altra pagina “Grazie sei un angelo”. Colpisce non solo la nostra
santificazione ma anche la connessione tra la protezione tramite il denaro e la
protezione dell’angelo. In altri casi emerge il
potere degli occidentali di dare vita alle
alterità. Nella pubblicità di Medici senza
frontiere sui bambini del Sudan il lettore vede
un bambino morente e lo slogan recita
“Questo era un bambino del Sudan”. Quindi il
lettore è invitato a compilare il coupon per il
versamento all’associazione perché “Questo è
un bambino del Sudan”. In altre parole con il
semplice di versare soldi nei fatti da vita ad
un bambino. In una pubblicità del Cesvi invece
il cittadino deve versare i suoi soldi per dare
vita ad un intero paese: “Il Sudan sta sparendo… Dai vita al Sudan”. Per finire con una
pubblicità di Amref dove l’aereo e il versamento del cittadino sono niente meno che un
“mezzo di salvezza per l’Africa”. Insomma con i nostri soldi teniamo vita addirittura un
continente. Pubblicità come queste danno un’idea del senso di onnipotenza che ispira
l’immaginario occidentale degli aiuti, che peraltro contrasta fortemente con i modesti
quando non ambivalenti risultati sul campo. 207
Altro esempio. In una pubblicità del World Food
Program il claim recita “300 milioni di bambini
aspettano il tuo aiuto”. In qualche modo il lettore è
coinvolto nella felicità di 300 milioni di bambini. Questi
300 milioni, si noti la cifra enorme e puramente
simbolica, starebbero aspettando proprio te, il lettore.
Dunque il lettore è ingaggiato, è immediatamente reso
corresponsabile. Si da per assodato che quei bambini
stiano li ad attendere il gesto del sensibile cittadino. Si
aspettano che li aiuterai.
Nel nostro immaginario si dovrebbe profilare questa
massa enorme e indefinita di bambini che aspettano il
nostro aiuto. Nella foto si vede un bambino che mangia
un biscotto, che ha già ottenuto l’aiuto della PAM-WFP.
In molte pubblicità c’è questo riferimento ad una
forma della relazione che è quella della questua,
dell’elemosina. Le nostre alterità per definizione starebbero lì in attesa del nostro
obolo. Ma questa forma di rapporto simbolico, questa attesa scontata dell’elemosina
occidentale è in realtà una nostra produzione culturale. Siamo noi che abbiamo
imposto questa idea nell’immaginario globale. Siamo noi che insegniamo alle nostre
alterità, fin da bambini e fino agli immigrati che arrivano qua a mettersi in una
posizione di questuanti. Si pensi a tutte quelle pubblicità che ritraggono il cliché della
folla di persone con le mani alzate riprese dall’alto
mentre si aspettano di ricevere aiuti alimentari o di
altro genere.
Del resto cosa potrebbero vedere loro in noi?
Abbiamo costruito e veicolato in tutti i modi
un’immagine materialista, di ricchezza e di benessere,
cosa altro potremmo aspettarci? Dunque non ci si può
sorprendere quando le nostre alterità finiscono con
corrispondere all’immagine di relazione che abbiamo
veicolato. Quando ti chiedono ciò di cui siamo
l’immagine.
Dunque bisogna prestare attenzione al fatto che
questo immaginario culturale che costruiamo è
relazionale. All’immagine onnipotente di noi stessi, all’idea di occidentali capaci di
dispensare ricchezza, felicità o vita corrisponde l’immagine di un’alterità che si aspetta
di ricevere da noi tutto quanto in offerta. Come valutare la corruzione dello sguardo
che abbiamo imposto con questo immaginario?
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi 208

Il linguaggio del mondo contemporaneo.


Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Docente: Marco Deriu

UNIVERSALISMO/ PLURIVERSALISMO

Per “diritti umani” si intende un insieme di norme che riguardano i diritti della
persona e che sono stati affermate attraverso una serie di dichiarazioni le più famose
delle quali sono la “Dichiarazione dei diritti” americana del 1776, la “Dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadino” adottata dall’Assemblea Nazionale Francese in
occasione della rivoluzione del 1789 e la “Dichiarazione universale dei diritti umani”
delle Nazioni Unite. Quest’ultima venne adottata con una semplice risoluzione
dall’Assemblea Generale dell’Onu il 10 dicembre 1948. Non ha valore giuridico
vincolante, ma costituisce un impegno solenne da parte dei diversi paesi che l’hanno
ratificata.
La dottrina dei diritti umani nasce nell’alveo di una tradizione specifica, quella
giudeo-cristiana, e nel solco della tradizione illuministica. Essa certamente
rappresenta uno dei massimi frutti etico-politici della tradizione europea. Da un punto
di vista storico l’affermazione di questo complesso di diritti rappresenta il momento in
cui si afferma e si sancisce il valore dell’individuo contro lo strapotere dello Stato.
Mentre nelle epoche precedenti i sudditi avevano principalmente dei doveri, con
queste dichiarazioni si affermava che i cittadini ora avevano innanzitutto dei diritti.
La Dichiarazione universale dei diritti umani è il risultato di un confronto difficile e
travagliato tra i rappresentanti dei diversi paesi in seno alle Nazioni Unite, in un clima
tra l’altro di “guerra fredda”. Gli studiosi sottolineano che fondamentalmente si sono
incontrate e influenzate a vicenda tre principali correnti di pensiero: quella
giusnaturalistica (diritti innati e naturali) portata avanti da molti paesi europei,
quella socialista (diritti economici e sociali), e quella nazionalistica (che portò
all’eliminazione di alcuni diritti come quelli relativi alle minoranze nazionali). La
dichiarazione dunque è in primo luogo il risultato di una contrattazione tra idee
differenti e dunque la sua stessa nascita mostra che si tratta di un testo di
compromesso e non di una serie di formulazioni assolute. Per certi versi si tratta di
una sintesi importante e innovativa, ma certamente è possibile osservare diverse
mancanze e l’assenza di alcuni diritti chiave. Per esempio il diritto di rivolta e
ribellione contro le autorità oppressive, il diritto di petizione contro gli abusi dello
stato, i diritti delle minoranze nazionali, i diritti dei popoli all’autodeterminazione.
L’intreccio e il confronto tra più correnti di pensiero spiega anche perché alcuni
diritti risultano conflittuali tra di loro, ovvero in determinate circostanze possono
essere in alternativa ed in competizione fra loro. Solo per fare alcuni esempi il diritto
di libertà e di proprietà può confliggere con i diritti sociali (sicurezza sociale, lavoro,
redistribuzione, tenore di vita), il diritto alla sicurezza può confliggere con il diritto alla
privacy, i diritti economici contrastano con il diritto all’ambiente sano e alla sua tutela.
Qui si evidenzia fra l’altro una contraddizione perché se tutti i diritti sono
fondamentali, inalienabili, indivisibili è perfino impossibile graduarli e relativizzarli
stabilendo delle priorità degli uni rispetto agli altri.
Nonostante il carattere perentorio e assoluto di molte dichiarazioni i diritti umani
sono certamente diritti storici e sociali. Secondo Norberto Bobbio non esiste alcuna
possibilità di fondamento assoluto dei diritti umani. Essi infatti sono mal definibili,
variabili, eterogenei e segnati da vistose antinomie. 209
Come ha scritto Bobbio

«i diritti dell’uomo costituiscono una classe variabile come la storia di questi


ultimi secoli mostra a sufficienza. L’elenco dei diritti dell’uomo si è modificato e
va modificandosi col mutare delle condizioni storiche, cioè dei bisogni e degli
interessi, delle classi al potere, dei mezzi disponibili per la loro attuazione, delle
trasformazioni tecniche, ecc. Diritti che erano stati dichiarati assoluti alla fine del
Settecento, come la proprietà “sacre et inviolable”, sono stati sottoposti a radicali
limitazioni nelle dichiarazioni contemporanee; diritti che le dichiarazioni del
Settecento non menzionavano neppure, come i diritti sociali, sono ormai
proclamati con grande ostentazione in tutte le dichiarazioni recenti» (Bobbio,
1990, p. 9).

Il fatto che siano diritti “storici” significa già di per sé che non possono vantare
alcun fondamento assoluto. Anche restando dentro alla cornice dei diritti umani,
ciascuna dichiarazione, compresa la più famosa “Dichiarazione universale dei diritti
umani”, non offre un elenco definito né immutabile. Questo è evidente anche per il
fatto che negli anni si sono aggiunte altre dichiarazioni ad integrare la precedente. Tra
le altre:

 Nel 1958 la Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio;


 Nel 1959 la Dichiarazione dei diritti del fanciullo;
 Nel 1960 la Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai paesi e ai
popoli coloniali;
 Nel 1965 la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di
discriminazione razziale;
 Nel 1966 il Patto sui diritti economici, sociali e culturali e il Patto sui diritti civili
e politici;
 Nel 1979 la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di
discriminazione nei confronti della donna;
 Nel 1989 la Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo.
Cui si aggiunge a livello europeo, anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea promulgata nel dicembre 2000.

Molto spesso gli studiosi hanno classificato i diritti secondo uno schema evolutivo. Il
sociologo Thomas Marshall per esempio proponeva una tripartizione poi divenuta
classica, tra diritti civili, diritti politici e diritti sociali che secondo lui si sarebbero
affermati rispettivamente nel corso del diciottesimo, del diciannovesimo e del
ventesimo secolo (Marshall, 2002, p. 16). Altre interpretazioni, più recenti,
identificano tre o quattro generazioni di diritti umani.
La prima generazione riguarderebbe i diritti individuali, sia quelli civili (diritto di
libertà, di eguaglianza, alla vita, all’integrità fisica, di libertà dalla schiavitù, alla libertà
di pensiero, di espressione, di manifestazione, di religione) sia quelli politici (diritto di
associazione, di elettorato attivo e passivo, di partecipazione al governo).
La seconda generazione comprenderebbe i diritti economici, sociali e culturali:
sicurezza sociale, lavoro, condizioni di vita, riposo, istruizione ecc.
La terza generazione si riferirebbe a diritti quali il diritto alla pace, ad un
ambiente salubre, ad uno sviluppo umano, all’autodeterminazione dei popoli ecc.
C’è stato anche chi ha proposto di identificare una quarta generazione che
riguarderebbe la non manipolabilità del patrimonio genetico. Insomma, secondo alcuni
autori i diritti evolverebbero in rapporto alle trasformazioni sociali e alle lotte per
l’emancipazione per cui l’uomo continuamente si impegna. 210
Altri autori criticano radicalmente l’ottimismo evolutivo di queste linee interpretative
dei diritti. Per esempio Danilo Zolo ha parlato in proposito di una “legge di effettività
decrescente” delle garanzie dei diritti soggettivi, sottolineando che «al riconoscimento
sempre più ampio della titolarità formale (entitlement) di nuove categorie di diritti
ha corrisposto un’effettività decrescente del loro godimento (endowement) da parte
dei cittadini» (Zolo, 2001, pp.66-68).

I diritti umani sono universali? Un confronto culturale sui valori fondamentali

Una delle questioni più dibattute a proposito della Dichiarazione Universale dei diritti
umani è proprio la questione dell’universalità. La Dichiarazione stessa si propone
come universale:

«L’Assemblea Generale proclama la presente Dichiarazione Universale dei


diritti umani come ideale comune da raggiungersi da tutti popoli e da tutte le
Nazioni».

Tuttavia, nei fatti, non tutte le nazioni e le culture del mondo si riconoscono
totalmente in questa dichiarazione e probabilmente una buona parte dell’umanità non
solo non è stata interpellata in proposito ma nemmeno sa della sua esistenza.
Esistono comunque divergenze culturali su singoli aspetti e sull’assolutezza di
taluni diritti. Fin qui possiamo riconoscere intanto che tali diritti non sono universali
nel senso di “universalmente condivisi”. Tuttavia si può pensare, come hanno
proposto alcuni studiosi, che il carattere universale debba essere inteso nel senso che
tali diritti siano universalizzabili ovvero che si possa sviluppare una sempre maggiore
convergenza tra i vari paesi e le varie culture su questo testo o su un testo analogo.
In effetti ci sono attivisti civili, politici e sociali in tutto il mondo, dall’Europa all’Asia
all’Africa che si riconoscono in questi valori e lottano mettendo a rischio se stessi e la
propria vita per affermare questi diritti nel proprio paese e contano sull’autorità
morale di questi valori nel contesto internazionale per spingere il proprio governo e il
proprio paese a cambiare.
Tuttavia la questione se i diritti umani siano da universalizzare è piuttosto
complessa e non può essere liquidata facilmente. In effetti a proposito dei diritti
umani sembra ripetersi una storia nota: l’Occidente si propone come la civiltà più
sviluppata che impone la propria visione del mondo, i propri valori e i propri standard
disconoscendo l’autorità morale presente nelle altre tradizioni. I paesi occidentali
hanno cercato di imporre prima il vangelo cristiano, poi il vangelo dei Lumi,
poi il vangelo dello sviluppo e oggi il vangelo dei diritti umani. Nonostante le
migliori intenzioni oggi possiamo dire che tutti questi tentativi hanno scontato una
grave presunzione, hanno prodotto gravi danni e giustificato, nel nome dei propri
valori, le peggiori violenze. Non si può partire dal fatto di possedere una verità
universale senza confrontarsi davvero e a fondo con i fondamenti etico-spirituali delle
altre tradizioni.
Fa specie il fatto che grandi giuristi e teorici dei diritti umani banalizzino le diversità
culturali e religiose e le differenze etico-filosofiche delle altre tradizioni. Per esempio
Antonio Cassese, uno dei più famosi giuristi italiani, in un testo dedicato ai diritti
umani nel mondo contemporaneo presenta una sezione dedicata alle divergenze nelle
concezioni filosofiche e nelle tradizioni culturali nella quale ci offre una presentazione
delle altre tradizioni filosofico-spirituali caricaturale, grottesca e segnata dal
pregiudizio:
«Ancora più radicale è la differenza tra la concezione occidentale e quella che
deriva dalle grandi tradizioni culturali dell’Asia. Nella concezione buddista la 211
società è modellata sul regime familiare: il leader (l’imperatore, nel passato) è
come un padre di famiglia, con tutti i poteri, l’autorità e le cure del pater familias.
La libertà non consiste dunque nel garantirsi uno spazio di azione da possibili
invasioni o soverchiamente dell’autorità, ma nell’armonizzare quanto più
possibile l’agire dell’individuo con quello del leader, al quale l’individuo deve
tendenzialmente ubbidienza» (Cassese, 1999, pp. 56-67).

Questo sarebbe il Buddismo. Ora vediamo l’Induismo:

«Ancora più proclive all’assoggettamento al capo è la tradizione induista.


Malgrado numerose sovrastrutture e “mediazioni” moderne, essa ancora
sopravvive nell’animo di tanti abitanti del subcontinente indiano. Nel sistema
etico-religioso dell’India la separazione in caste – formalmente abolita –
comporta la necessità per ogni membro di ciascuna di questa categorie sociali di
accettare senza ribellione la sua condizione. Compito di ogni individuo è quello di
adoperarsi per agire positivamente all’interno della propria casta, in modo da
poter passare ad una casta superiore nella vita futura, o comunque da non
peggiorare, dopo la morte, la propria condizione sociale. Di lotta contro l’autorità
e di salvaguardia di una propria sfera di libertà contro un potere esterno, non
troviamo traccia» (Cassese, 1999, p. 57).

E con questo fa piazza pulita di Gandhi e del Satyagraha,89 della lotta contro le
discriminazioni di razza e di casta, della lotta contro il colonialismo inglese (il paese
della Rule of Law!), e delle contemporanee lotte dei movimenti locali di donne e
contadini per la tutela delle foreste e per l’autodeterminazione agricola e alimentare
contro le multinazionali (guardacaso occidentali).
Ma anche alle altre tradizioni Cassese non riconosce molto più valore. Il
Confucianesimo descritto come un sistema patriarcale esteso dalla famiglia allo
stato, in cui l’imperatore è visto come un capofamiglia, cui si deve ossequio assoluto
per cui «rimane dunque poco spazio per i diritti umani». Come oramai ci aspettiamo il
giudizio di Cassese colpisce anche l’Islam:

«Lo stesso vale per la tradizione islamica. […] In particolare se non esiste una
incompatibilità radicale con i principi essenziali dei diritti umani, esiste conflitto
per quanto riguarda i rapporti tra uomo e donna: nell’Islam, su due piani
profondamente diversi (l’uomo è il padrone; la donna occupa un posto inferiore)»
(Idem).

Da ultimo sette righe di sciocchezze per descrivere secoli di storia e la multiformità


del continente africano:

«Nella tradizione africana, che è soprattutto una tradizione di usi e


costumanze tribali, l’individuo si realizza nella comunità; questa è diretta da un
leader alla cui autorità tutti devono piegarsi. La lotta contro il leader non ha
ragion d’essere, perché questi non opprime i membri della comunità, ma li guida,
operando in modo da consentir loro di integrarsi pienamente nel tutto; egli
dunque agisce proficuamente nell’interesse della comunità» (Cassese, 1999, pp.
57-58).

89
“Forza della verità”, è il nome che Gandhi usava per designare il suo metodo di lotta nonviolenta.
Che un professore di diritto internazionale, già presidente del Tribunale
internazionale delle Nazioni Unite per i crimini dell’ex-Jugoslavia considerato uno dei 212
più prestigiosi giuristi italiani e uno dei maggiori esperti in materia di diritti umani si
esprima, in un testo di presentazione sui diritti umani nel mondo contemporaneo, con
tale ignoranza e superficialità e con un linguaggio e delle espressioni che non
differiscono per nulla da analoghi coloniali di un secolo fa lascia piuttosto esterrefatti e
fa intendere con quale arroganza e mancanza di strumenti i paladini occidentali dei
diritti umani si presentano al confronto con le altre tradizioni culturali e spirituali. Delle
altre tradizioni in realtà non si sa nulla e si ricava un’immagine sfocata e deformata
solo in relazione alla maggior o minor distanza dalla propria superiore tradizione.
Analoga impressione, con un atteggiamento appena più cauto (ci risparmia almeno
rispetto a Cassese le “costumanze tribali” degli Africani), si registra leggendo il testo
Una ragionevole apologia dei diritti umani di Michael Ignatieff, che liquida il
confronto con le altre tradizioni culturali e religiose (in particolare all’Islam e a quelle
genericamente asiatiche) a cinque striminzite paginette in cui naturalmente le alterità
culturali sono presentate solo nei loro aspetti di culture patriarcali, autoritarie,
discriminanti nei confronti delle donne. In altre parole c’è oggi una certa contiguità in
alcune posizioni tra l’esaltazione dei diritti umani (che dimentica per esempio di fare i
conti con i propri lati oscuri quali il colonialismo, l’imperialismo e l’olocausto) e un
pregiudizio culturale verso le altre tradizioni che lambisce pericolosamente posizioni
squisitamente razziste. Come ha commentato causticamente Danilo Zolo

«mentre si producono in proposte di unificazione normativa del mondo i


Western globalist danno prova immancabilmente del loro limitato interesse – e
della loro scarsa informazione – a proposito delle tradizioni culturali, politiche e
giuridiche con le quali vorrebbero (o dovrebbero) entrare in dialogo» (Zolo,
2003, p. 150).

In realtà, qualsiasi sia il valore che si vuole accordare alla dottrina dei diritti umani,
bisognerebbe quantomeno ammettere che essa è solamente uno dei prodotti del
sapere etico-politico mondiale e non ne esaurise affatto, né adesso né in
prospettiva, la dimensione filosofico-spirituale.
È un errore madornale pensare che certi valori come l’umanità, la giustizia, il
rispetto degli altri, la compassione, la libertà, la valorizzazione equanime di donne e
uomini, siano patrimonio esclusivo della sola cultura occidentale. Alcuni di questi valori
hanno in verità una storia antichissima che attraversa e contagia moltissime culture
perfino di epoche diverse.
Prendiamo per esempio due testi. Uno dell’antica tradizione egiziana e uno della
tradizione islamica. Il primo è tratto dal Libro dei morti:

«Ecco, io vengo presso di voi, e non c’è mia colpa, non c’è mio male, non c’è
mia iniquità, non c’è mia accusa, non c’è persona cui io abbia fatto questo. Io
vivo di verità, io conosco la verità. Io ho fatto quel che dicono gli uomini, quello
di cui si compiacciono gli dei. Io ho soddisfatto il dio di quel che egli ama. Io ho
dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vesti all’ignudo, una barca a chi ne era
privo. Salvatemi voi, proteggetemi voi! Non esiste un rapporto contro di me in
vostro cospetto. Io sono uno la cui bocca è pura, le cui mani sono pure, cui si
dice “Benvenuto in pace” da parte di coloro che lo vedono».90

Il secondo è tratto dal Corano:

90
La traduzione è quella proposta da Sergio Donadoni in Testi religiosi egizi (Donadoni, 1988, p. 198).
«Nel nome di Dio, clemente misericordioso!
Pel mattino! Per la Notte che calma s’abbuia! 213
Il Signore tuo non t’ha abbandonato né t’odia
e l’altra vita ti sarà più bella della prima.
E ti darà Dio, e ne sarai contento
Non t’ha trovato orfano e t’ha dato riparo?
Non t’ha trovato errante e t’ha dato la Via?
Non t’ha trovato povero e t’ha dato dovizia di beni?
Dunque l’orfano non maltrattarlo.
dunque il questuante non scacciarlo.
Ma piuttosto racconta a tutti quanto è buono il Signore».91

Come si vede da questi due passi che rispecchiano molto da vicino il racconto del
giudizio finale presente nel Vangelo cristiano, non è difficile trovare aspetti etici
comuni a diverse tradizioni religiose e spirituali.
Tuttavia altri sostenitori dei diritti umani affermano che poiché i valori espressi dalla
Dichiarazione dei diritti umani si ritrovano un po’ in tutte le culture allora possono
essere accettati come universali. Questo tipo di ragionamento mi sembra fallace. Il
fatto che taluni valori o principi si ritrovino, seppur espressi in modo differente, nelle
diverse tradizioni, mi sembra un fatto che dimostri la rilevanza ma anche la relatività
di quella Dichiarazione storica.
La questione infatti non è se la dichiarazione dei diritti umani esprime valori che si
ritrovano in tutte le tradizioni, ma piuttosto se i valori, o meglio le intuizioni etico-
spirituali delle diverse tradizioni possono essere correttamente tradotte o espresse
nella formulazione rappresentata dalla Dichiarazione dei diritti. Possiamo
naturalmente riconoscere che quest’ultima rappresenti nel contesto occidentale quasi
un testo fondante, una specie di grammatica morale. Ma ogni tradizione ha una
sua grammatica e le sue espressioni. Quando si traduce da una lingua all’altra non
si possono tradurre certe parole senza prestare attenzione alle forme grammaticali
attraverso cui una lingua stabilisce un nesso tra di esse ed in qualche modo le rende
espressive.
I diritti umani esprimono determinati valori in un modo che si basa su uno specifico
della tradizione occidentale e che mette al centro l’individuo (e l’individualismo),
il razionalismo e il volontarismo. Altre tradizioni possono magari condividere come
valori di fondo o come mete ultime alcuni di questi valori, ma tuttavia propongono un
modo differente di esprimerlo e di tentare di raggiungerli o realizzarli.
Per esempio ipotizziamo che ciò che ci importa praticamente sia il fatto che le
persone si rispettino tra loro, che non cerchino di dominare l’una sull’altra, non
commettano violenza, non si torturino, non si ammazzino, non si rendano schiave ecc.
Se anche tutti questi valori fossero davvero condivisi, rimane comunque il problema di
come stimolare le persone a comportarsi in un certo modo, a fare certe cose e a non
farne altre.
Per la tradizione giudeo-cristiana, cui appartiene la Dichiarazione dei diritti, la
formula è quella del decalogo e dei comandamenti. Per altre tradizioni, questo tipo di
formula, potremmo dire questa grammatica, ha poco senso.
Per esempio per la tradizione Taoista il riferimento principale è l’idea di Via. Tao
significa appunto “via”. Il Tao-Te-Ching, uno dei testi fondamentali tella tradizione
taoista comincia con un apparente paradosso:

«La Via veramente Via non è una via costante»

91
Corano, 93, La sura del mattino, trad. di Alessandro Bausani, Bur, 1999.
Ovvero la Via è qualcosa di vago e di mutevole, impossibile afferrarla una volta per
tutte. La Via ha a che fare con un’armonia tra esseri e il mondo nel suo complesso e 214
dunque è necessariamente impermanente, in costante alternarsi tra essere e non
essere. Dunque non può essere veramente fissata, concettualizzata, oggettivizzata.
Insomma non può essere nominata una volta per tutte e dunque resa in
comandamenti o decaloghi di sorta. Della Via si possono avere delle immagini, delle
manifestazioni non delle prescrizioni, dei germi non delle norme. Nella visione
taoista la Via è vuota. È come un vaso profondo e insondabile perché non può
essere riempito una volta per tutte. Ciò che si dice diviene importante soltanto in
relazione a ciò che non può essere detto. Ciò che conta, ciò che è più importante non
può essere proclamato o esibito: “la Via è nascosta e non ha nomi”.
Dunque quello che posso capire della tradizione taoista è che essa mostra la
discordanza tra il riconoscimento di ciò che è buono e la pretesa di ottenerlo in
maniera affermativa e lineare, forzando la realtà delle cose. In un certo modo rivela la
fallacia di ogni moralismo che pretende di migliorare il comportamento degli esseri
umani attraverso comandamenti e prescrizioni, d’ogni fanatico determinismo che
pretende di conoscere già ciò che è bene prima ancora di confrontarsi con la sottile e
dinamica complessità dell’essere, di ogni ingenuo volontarismo che pensa di aver
presa sulla realtà attraverso la razionalità e il controllo su di sé e sulle cose. Ciò che si
può controllare è al contrario solo un riflesso di ciò che conta:

«Quindi: se si abbandona la Via, allora (si fa valere) la Virtù.


Se si abbandona la Virtù, allora (si fa valere) l’umanità.
Se si abbandona l’umanità allora (si fa valere) la giustizia.
Se si abbandona la giustizia, allora (si fa valere) la condotta rituale.
Difatti la condotta rituale è il sottile guscio della fedeltà e
della buona fede, e l’inizio del disordine».92

In qualche modo è presente nel taoismo una lezione epistemologica,


psicologica ed etica raffinata che si esprime in una cautela che porta ad arrestarsi
di fronte alle cose piuttosto che a costringerle, a lambire senza violarle le zone
d’ombra, a frequentare da vicino i paradossi, a vedere le connessioni e non solo gli
elementi isolati, a cogliere la misura delle cose senza pretendere di fissarla una volta
per tutte. In altre parole spinge a fare i conti con la complessità e il mistero della
psiche, delle relazioni, della vita, della natura. Così c’è quasi una sottile ironia in
un testo scritto 2500 anni fa che arriva a noi attraverso i millenni:

«Quando la grande Via è decaduta, ci sono umanità e giustizia.


Quando l’intelligenza e la conoscenza si mostrano,
c’è una grande cultura artificiale.
Quando i sei parenti non vivono in armonia ci sono i figli filiali
Quando lo Stato e la dinastia sprofondano nel disordine,
ci sono ministri fedeli».93

E basterebbe davvero poco per aggiungere: quando la gente si fa saltare in aria e gli
stati si bombardano con proiettili all’uranio c’è un gran parlare di diritti umani e di
doveri umanitari.
Per il taoismo dunque, l’affermazione roboante di principi pretesi assoluti e
universali rischia più che altro di mostrare per contrasto la corruzione del senso
comune e la mancanza di una cultura armonica diffusa, interiorizzata, condivisa.

92
Tao-Te-Ching, Bompiani, Milano, p.99.
93
Ivi . p. 61
Da questo punto di vista la stessa evoluzione dei diritti umani in direzione per
esempio di diritti ambientali – il diritto a respirare l’aria sana, a bere acqua non 215
inquinata a mangiare cibi non geneticamente modificati – lungi da rappresentare un
ulteriore passo avanti dell’umanità, rappresenta piuttosto l’accrescersi delle minacce
contro gli esseri viventi con l’espandersi della cultura del profitto, dello sviluppo
illimitato, del progresso tecnologico. Anziché mettere sotto accusa il pregiudizio
antropocentrico e la cultura utilitarista e produttivista dominanti da cui discendono tali
disastri si preferisce aggiungere un altro paletto fingendo che possa contrastare la
marea che sale.
Per riassumere: dal punto di vista del comportamento l’autorepressione morale non
conduce da nessuna parte, e certo non al superamento della violenza. Solamente la
vicinanza ad un senso più ampio e più profondo dell’essere può, indirettamente,
modificare il comportamento.
Da questo punto di vista, si può anche notare che c’è una dimensione performativa
che non passa attraverso proposizioni dirette ma attraverso forme espressive
differenti (meno coscienti, meno razionalistiche, meno volontaristiche) che
comunicano e agiscono a livello più profondo: storie, rappresentazioni, miti,
metafore, paradossi, koan, riti, cerimonie, atti sociali.
Dunque le dichiarazioni dei diritti, qualsiasi cosa esse dichiarino dal punto di
vista del contenuto, rappresentano soltanto una tra le tante forme espressive
performative della morale – tra l’altro probabilmente una delle meno efficaci - e in
questo senso non possono vantare alcuna universalità.
Naturalmente ho preso come esempio solo una tradizione ma si potrebbero tentare
confronti approfonditi in diverse direzioni.
Per esempio Raimon Panikkar ricorda il significato e la ricchezza delle categorie di
dharma e svadharma nella tradizione indiana. Per gli indiani il dharma (legge,
norma di condotta, carattere delle cose, ordine della realtà) è qualcosa di molto
complesso che contempla allo stesso tempo giustizia, moralità, legge, religione,
destino, verità. Lo svadharma è il dharma inerente ogni essere, ma al contempo è
qualcosa che va al di là dell’individuo perchè è connesso al dharma di tutti gli altri
esseri. Ora mentre l’idea di diritti umani si riferisce ai singoli individui presi a se stante
(con tutte le contraddizioni che emergono quando le libertà dell’uno sono in contrasto
con le libertà di un altro), l’idea di fondo su cui riposa lo svadharma è al contrario «la
totalità della complessa concatenazione del reale» (Panikkar, 2003, p. 190) ovvero
l’ordine che tiene insieme l’intera realtà, il mondo intero. In Occidente il richiamo
verso una società più giusta e più rispettosa è stato espresso nella formula dei diritti
umani, nella tradizione indiana è stato espresso con la nozione, per molti versi più
complessa, di svadharma. Le due concezioni hanno forse qualche tratto in comune ma
non sono la stessa cosa. E in qualsiasi tentativo di traduzione di un’idea nel linguaggio
dell’altro si perde qualcosa del significato originale.
Del resto mentre i diritti umani sanciscono un ideale che mette al centro
l’individuo, la maggioranza delle tradizioni non occidentali valorizzano molto
più l’ethos comunitario ovvero mettono al centro l’importanza delle relazioni
fondamentali, del senso della comunità che sola può garantire la vita e il benessere
dell’individuo94. Il risultato di questo è tra l’altro che nelle nostre società si assiste alla
crescita continua di diritti virtuali e all’impoverimento reale delle relazioni umane e
comunitarie attorno a noi. Così l’individuo può avere astrattamente riconosciuti
tutti i diritti del mondo ma risultare completamente solo e sradicato e non
potere effettivamente godere di nulla. Come ha sottolineato il giurista algerino
Abdelhak Benachenhou, l’individualismo che impregna l’ideologia dei diritti umani è
contemporaneamente un non-senso e una sciocchezza nella misura in cui l’uomo

94
Su questi aspetti vedi anche le riflessioni di Danilo Zolo, 2003, pp. 150-152, e 2004, pp. 106-108.
resta, che lo si voglia o no, un animale sociale. La promozione dell’individualismo
attraverso il mercato ha per bersaglio e per vittime le vecchie generazioni, le giovani 216
generazioni come le generazioni future (Benachenhou, 2000, p. 149)
Così non è certo un caso, come ha notato Danilo Zolo, richiamando le culture
giuridiche non occidentali come quella cinese-confuciana, che

«oggi questa cultura giuridica profondamente anti-individualistica e


antiformalistica si rafforza, anziché estinguersi, in una vasta area di paesi asiatici
che sono impegnati a riscattare la propria identità politica mettendo al primo
posto l’armonia sociale, la famiglia, il rispetto dell’autorità, il senso di
responsabilità dei funzionari pubblici. E un discorso convergente, anche se in
termini molto differenziati, potrebbe farsi per una larga parte del mondo islamico
e delle culture autoctone africane e americane. In questa prospettiva l’Occidente
viene percepito come il luogo dove i valori comunitari decadono sotto la spinta di
un individualismo sfrenato e di una concezione politica che impone allo Stato il
riconoscimento di un numero crescente di diritti individuali cui non corrisponde
alcun dovere né alcun legame di solidarietà» (Zolo, 2003, pp. 152-153).

Più in generale credo che nelle diverse tradizioni culturali ci siano diversi approcci
nei confronti dei valori fondamentali: c’è chi parte dal non agire, chi dalla
compassione, chi dai diritti naturali, chi dalla luce che illumina ogni uomo, chi
dall’unicità dell’essere, chi dalla relazione come fondamento della vita. Ci
sono valori che sono impliciti in alcune culture ed espliciti in altre e viceversa,
intuizioni etiche che sono sviluppate in alcune e dimenticate in altre. Ma ciò che più
conta è capire che anche laddove si scoprisse l’esistenza di un certo numero di
intuizioni etiche in comune tra diverse culture, quello che differenzia una tradizione
dall’altra è la grammatica attraverso cui mette insieme e fa parlare i singoli termini,
secondo uno stile e un carattere espressivo che le è proprio. Sarebbe quindi un delitto
disconoscere tutta questa ricchezza per celebrare solamente i diritti umani.
Questo non significa abbandonare l’idea di una comprensione tra tradizioni
differenti e nemmeno la possibilità di approdare ad un riconoscimento comune della
dignità di tutti gli esseri viventi. Tuttavia, come suggerisce Gregory Bateson, tutta la
riflessione su un tema quale la dignità dell’essere umano deve essere condotta “in
termini di Gestalten piuttosto complesse” e non su modelli riduzionistici:

«Io attribuisco grande valore alla varietà dei modelli culturali che diversificano
il mondo. Sono belli in sé e per me la la stessa varietà è bella. Il problema, a mio
parere, sarà quello di dare ordine a questa varietà; non eliminando tutti i modelli
tranne uno, bensì ideando modelli di comunicazione che trascendano le
differenze» (Bateson, 1997, p. 83).

Dunque non si tratta di affermare questa o quella tradizione a discapito di tutte le


altre e nemmeno di elaborare delle meta-etiche globali, ma al contrario di lavorare per
acquisire una percezione più ampia e approfondita dell’orizzonte che si estende di là
dall’angolo cieco del nostro sguardo sugli altri e su noi stessi e al contempo lavorare
per accrescere le nostre capacità di confronto e comunicazione con altri
linguaggi e universi normativi e simbolici.
Probabilmente la cosa più difficile sarà superare la nostra difficoltà a riconoscere le
categorie che presiedono alla nostra visione del mondo, e ai nostri valori di
riferimento. Come ha notato Raimundo Panikkar, infatti, noi abbiamo la tendenza a
identificare i limiti della nostra visione con l’orizzonte stesso dell’umano e del bene:
«Tenere per fermo che, senza un esplicito riconoscimento dei Diritti Dell’Uomo,
la vita sarebbe caotica e priva di senso fa parte della stessa mentalità che ritiene 217
che, senza un credo in un Dio unico quale è compreso nella tradizione di Abramo,
la vita umana si dissolverebbe in una totale anarchia. Sarebbe sufficiente
spingere un po’ oltre questa direzione per concludere che gli atei, i buddisti e gli
animisti, ad esempio devono essere considerati come i rappresentanti di
aberrazioni umani. Sulla stessa scia: o i Diritti dell’Uomo o il caos» (Panikkar,
2003, p. 180).

Fortunatamente non è così. Nella nostra tradizione c’è un’eccessiva presunzione di


universalismo. C’è naturalmente un universo di umanità fuori dal nostro sguardo e
dalle nostre cornici culturali. Possiamo trovare degli orizzonti morali profondi e
raffinatissimi anche al di là dei diritti umani. Ma dobbiamo sporgerci, sbilanciarci fuori
dalle nostre cornici per vederlo e capirlo.
Anche dentro alla tradizione occidentale, comunque c’è chi non ha
risparmiato critiche alla dottrina dei diritti umani. Critiche sono venute dalla
tradizione marxista che ha visto nei diritti dell’uomo soprattutto l’espressione dei
diritti del cittadino borghese e ha denunciato la strutturale inadeguatezza della
Dichiarazione dei diritti nel denunciare le cause sociali della violenza e della
persecuzione. Ad esempio l’intellettuale tedesco Robert Kurz, della rivista Krisis, ha
scritto da un punto di vista classicamente marxista che:

«la critica emancipatoria dei diritti umani è il presupposto di ogni critica nel
XXI° secolo come la critica della religione fu il presupposto di quella del XIX°
secolo. È la critica radicale del “principio di realtà” capitalistico e della sua
riduzione economicistica dell’uomo e a partire da quella anche la critica radicale
di ogni “realpolitik”». 95

Da parte femminista si è accusata la Dichiarazione dei diritti di occultare con un


universalismo che è espressione di una concezione patriarcale la differenza
fondamentale tra uomini e donne. Su questo piano valgono ancora le storiche
riflessioni di Carla Lonzi

«L'uguaglianza è un principio giuridico: il denominatore comune presente in


ogni essere umano a cui va reso giustizia. La differenza è un principio
esistenziale che riguarda i modi dell'essere umano, la peculiarità delle sue
esperienze, delle sue finalità, delle sue aperture, del suo senso dell'esistenza in
una situazione data e nella situazione che vuole darsi. Quella tra donna e uomo è
la differenza fondamentale dell'umanità. […] L'uguaglianza è quanto si offre ai
colonizzati sul piano delle leggi e dei diritti. E quanto si impone loro sul piano
della cultura. È il principio in base al quale l'egemone continua a condizionare il
non-egemone».96

In termini ambientalisti non è difficile sottolineare che la Dichiarazione dei diritti


umani poggia su un sottostante antropocentrismo e su una cultura millenaria che
affida all’uomo il dominio sul resto della natura, e del resto risulterebbe piuttosto
improprio e fragile il tentativo di estendere la nozione di diritto innato universale ad
altre forme di vita. In altre parole un discorso seriamente ecologico non si può fondare
sulla categoria dei diritti umani neppure di seconda o terza generazione.

95
Cfr. Robert Kurz, “Economia politica dei diritti umani”, disponibile on-line in:
http://ozioproduttivo.blogspot.it/2007/01/economia-politica-dei-diritti-umani.html
96
Cfr. Carla Lonzi, 1974, pp. 20-21.
Del resto se provassimo a deporre almeno per un attimo i nostri pregiudizi
antropocentrici capiremmo una cosa peraltro centrale in tutte le tradizioni orientali e 218
in molte delle culture non occidentali, ovvero il necessario equilibrio tra diritti e
doveri nel rapporto con il mondo vivente: il genere umano stesso non ha alcun
“diritto” di sopravvivenza se non nella misura in cui compie il suo ruolo, ovvero il suo
dovere, nel rendere possibile il mantenimento e la riproduzione della vita sulla terra.97

Diritti, politica e convivenza umana: il cittadino e la nuda vita

Oltre ad una critica dei fondamenti del loro presunto universalismo c’è poi una
questione cruciale di ordine politico che investe l’idea dei Diritti umani. Già pochi anni
dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Hannah Arendt aveva già compreso gli
angoli ciechi della dottrina dei diritti umani e sceglieva non a caso di intitolare il nono
capitolo del suo monumentale libro sul totalitarismo: “Il tramonto dello stato
nazione e la fine dei diritti umani”.

«Nessun paradosso della politica contemporanea è più pervaso di amara ironia


del divario fra gli sforzi di sinceri idealisti, che insistono tenacemente a
considerare “inalienabili” diritti umani in realtà goduti soltanto dai cittadini dei
paesi più prosperi e civili e la situazione degli individui privi di diritti, che è
costantemente peggiorata, sino a fare del campo di internamento (prima della
seconda guerra mondiale l’eccezione piuttosto che la regola per gli apolidi) la
soluzione corrente del problema della residenza delle “displaced persons”»
(Arendt, 1996, p. 388).

La lucidità e la radicalità di quel capitolo non ha eguali e deve ancora essere


digerito dalla filosofia politica del nostro tempo. La filosofa tedesca sottolineava
anzitutto che le prime dichiarazioni dei diritti dell’uomo, alla fine del ‘700 dovevano
rappresentare nei fatti una garanzia per gli individui contro l’arbitrio dello Stato o della
società, nel momento in cui, con la secolarizzazione della società, essi non potevano
più essere sicuri delle garanzie umani e sociali che fino ad allora erano state
assicurate non dai governi o dai tribunali ma da forze sociali, spirituali e religiose.
Ora mentre i diritti dell’uomo erano stati definiti inalienabili proprio perché si
riteneva che essi dovessero essere indipendenti dai governi e anzi dovessero essere
una protezione verso di essi, con l’esperienza del nazismo e della deportazione, «si
scoprì che, appena gli individui perdevano la protezione del loro governo ed
erano costretti a contare sul minimo di diritti che dovevano avere acquistato
con la nascita, non trovavano nessuna autorità disposta a garantirlo»(Arendt,
1996, p. 404). Quello che si trovano improvvisamente a comprendere, afferma Arendt
è “l’esistenza di un diritto ad avere diritti”. Senza questo diritto ad avere diritti,
che nei fatti è dato dalla cittadinanza in uno stato-nazione, tutti gli altri diritti sono
perduti.

«Quindi non la perdita di specifici diritti, ma la perdita di una comunità


disposta e capace di garantire qualsiasi diritto è stata la sventura che si è
abbattuta su un numero crescente di persone. L’individuo può perdere tutti i
cosiddetti diritti umani senza perdere la sua qualità essenziale di uomo, la sua
dignità umana. Soltanto la perdita di una comunità politica lo esclude
dall’umanità» (Arendt, 1996, p. 412).

97
Si veda su questo PANIKKAR, 1993, p. 193.
Il problema della Dichiarazione dei diritti umani è che fa riferimento ad un uomo
astratto che non esiste da nessuna parte. Quelli che sono stati considerati diritti 219
inalienabili dell’uomo sono in realtà espressione di diritti garantiti dagli stati
nazionali ai propri cittadini. Essi mostrano tutta la loro fragilità nel momento in cui
nella relazione tra gli individui e i diritti sanciti nelle dichiarazioni universali non sia
presente un tramite politico che sia effettivamente interessato a garantirli. Dunque
essi perdono gran parte della loro consistenza nel caso di individui senza stato o il cui
stato li abbia in qualche modo ripudiati.
Questo spiega perché oggi la figura del profugo, del rifugiato è una figura
chiave della crisi della politica contemporanea: per un verso evidenzia la crisi
dello stato nazione e nel sud del mondo dal punto di vista dell’identità, della comunità
politica e della sovranità, in entità statali costruite artificialmente; secondariamente
mostra la crisi dello stato nazione nei paesi di accoglienza dal punto di vista dello
scollamento tra territorio, popolo, stato e cittadinanza; infine non avendo accesso alla
cittadinanza nel paese in cui ha trovato rifugio il profugo svela la finzione di un
soggetto astratto del diritto attraverso la condizione reale di individui ridotti a nuda
vita e in alcun modo garantiti nelle loro libertà e possibilità di vita.
Come ha commentato Pietro Barcellona,

«In realtà i diritti che non hanno la "copertura" della comunità e della
tradizione istituita, del gruppo di appartenenza, non possono essere fatti valere,
perché la nuda vita è singolarizzata in questo corpo spogliato ed esposto a
qualsiasi manipolazione, giacché è scomparso lo "spazio pubblico" della politica e
delle sue istituzioni» (Barcellona, 2001, p. 143).

L’uomo del resto è un animale sociale che vive e si definisce per il tramite dei
legami sociali. È molto difficile rimanere “umani” se si viene privati dei legami sociali.
Nel doppio senso: è molto difficile mantenere un comportamento morale ed è molto
difficile ottenere da altri un trattamento morale. Come aveva ben compreso Hannah
Arendt «pochissimi individui hanno la forza di conservare la loro integrità se la loro
condizione sociale, politica e giuridica è del tutto indefinita» (Arendt, 1993b, p. 44).
Simmetricamente, si deve aggiungere, in pochissime realtà sociali gli individui vedono
riconosciuta la loro integrità e dignità se la loro condizione sociale, politica e giuridica
è del tutto indefinita. Su questo non bisogna farsi illusioni. Nel momento in cui è
ridotto “nuda vita”, come direbbe Giorgio Agamben, la sua condizione è in balia di
qualsiasi forza esterna. Nel migliore dei casi è in balia di un soccorso umanitario, nel
peggiore di un qualsiasi malintenzionato. In entrambi i casi la sua sorte rimane
precaria. La sua vita incerta. Come riassume definitivamente Hannah Arendt

«la concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono
comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche,
tranne la loro qualità umana. Il mondo non ha trovato nulla di sacro nell’astratta
nudità dell’essere umano» (Arendt, 1996, p. 415).

Non c’è niente di stupefacente in questo. Tale fatto dimostra soltanto che ciò che
fa di un essere vivente un essere umano non è semplicemente la sua mera
natura biologica ma l’incontro tra il suo essere corporeo e la sua dimensione
simbolico-sociale. Questo è dunque il motivo per cui la massima privazione cui può
essere oggetto un essere umano è la rottura tra queste due dimensioni. Questo
significa che il motivo per cui l’ingerenza umanitaria è insensata e la guerra per i diritti
umani è una contraddizione, non è solo perché si ricorre all’imposizione e alla
violenza, ma anche perché si pretende di imporre dall’esterno un diritto astratto a
individui nel momento in cui - trattandoli come vittime e soggetti passivi, privandoli
della possibilità di espressione e di azione nel loro mondo comune e accelerando la
decomposizione della loro comunità politica o della loro reale sovranità – si sancisce 220
definitivamente la loro disintegrazione in quanto esseri sociali.
Recentemente anche il filosofo sloveno Slavoj Zizek ha messo in luce la natura
paradossale di questo fatto:

«In breve il paradosso sta nel fatto che si venga privati dei diritti umani
proprio nel momento in cui, all’interno della propria realtà sociale, si è
effettivamente ridotti a un essere umano “in generale”, senza cittadinanza,
professione, ecc., vale a dire proprio quando si diventa effettivamente l’ideale
PORTATORE di “diritti umani universali” (i quali mi appartengono
“indipendentemente” dalla mia professione, dal mio sesso, dalla mia
cittadinanza, dalla mia religione, dalla mia identità etnica» (Zizek, 2005a, p. 11 e
2005b, p. 59)).

Dunque sembrerebbe aver ragione chi come Etienne Balibar, sostiene il


necessario ribaltamento della relazione storica e teoretica tra “uomo” e “cittadino”. È
la cittadinanza a fare l’uomo e non l’uomo la cittadinanza.
Come ha commentato Abdelhak Benachenhou, contestando l’antropocentrismo e
l’individualismo implicito nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo,

«Spinto al suo parossismo, dalla sua propria logica, questo egotismo – come si
dice oggi – non può che sboccare nella disgregazione sociale ed ecologica. I
diritti dell’uomo, dell’individuo in senso classico, dunque costituiscono proprio, in
sé, un non-senso e un’impasse» (Benachenhou, 2000, p. 149).

A conclusioni ancor più nette e radicali arriva David Chandler

«La dinamica distruttiva dell’interventismo umanitario non è perché le politiche


dei diritti umani non sono completamente applicate o perché le istituzioni
internazionali hanno qualche agenda nascosta di Grande Potenza, ma
precisamente perché il discorso dei diritti umani in se stesso è corrosivo del
processo politico» (Chandler, 2002, p. 236).

Viceversa qualsiasi politica e strategia di difesa – sia da parte di organismi


internazionali che da parte di associazioni di tutela - che voglia proteggere e garantire
diritti agli esseri umani deve mirare non ad astrarre la loro nuda vita, i loro bisogni
biologici, i loro presunti diritti inalienabili, ma al contrario a proteggere o a ricostruire
la loro identità sociale e la loro comunità politica che sola può garantirgli il diritto ad
avere diritti. Del resto ha notato un altro studioso Jacques Rancière che cosa
succede dei diritti umani quando nei fatti si comprende che per i cittadini, che godono
di diritti ben più tangibili, essi sono inutili? Risposta:

«quando diventano inutili, ci si comporta con essi come le persone caritatevoli


con i loro vestiti vecchi – li si danno ai poveri. Questi diritti che lì dove stanno
sembrano essere inutili vengono mandati all’estero, insieme a medicine e vestiti,
a persone prive di medicine, di vestiti e di diritti. È in questo modo, come
risultato di tale processo, che i Diritti dell’Uomo diventano i diritti di coloro che
non hanno diritti, i diritti di meri esseri umani soggetti a una repressione
inumana e a inumane condizioni di esistenza. Essi diventano diritti umanitari, i
diritti di coloro che non li possono attuare, le vittime dell’assoluta negazione del
diritto…» (Rancière, 2004, p. 307).
In questo quadro il diritto all’ingerenza umanitaria, nota Rancière, può essere
descritto «come una sorta di “ritorno al mittente”». 221

«[…] se quelli che soffrono repressioni disumane non sono in grado di


avvalersi dei diritti umani, che sono la loro risorsa estrema, allora qualcun altro
deve assumersi la responsabilità di farli valere al posto loro. Questo è ciò che
viene chiamato il “diritto all’interferenza umanitaria”, un diritto che alcuni stati si
arrogano per il supposto beneficio delle popolazioni vittimizzate, e molto spesso
contro il parere delle stesse organizzazioni umanitarie. Il “diritto all’interferenza
umanitaria” può essere descritto come una specie di “ritorno al mittente”: i diritti
inutilizzati che sono stati spediti ai senza diritti vengono rispediti al mittente»
(Rancière, 2004, pp. 307-308).

Slavoj Zizek (2005b. p. 62) nota che questa operazione coincide con la formula
della comunicazione espressa da Jacques Lacan secondo la quale “il mittente riceve
il suo stesso messaggio dal ricevente-destinatario in forma invertita, cioè vera”. In
termini simbolici di fronte alla depoliticizzazione attuata dai diritti umani si finisce con
il rimandare su un altro piano alle necessità della politica. Slavoj Zizek sottolinea il
carattere violento di depoliticizzazione dei diritti umani che «priva l’altro vittimizzato di
ogni soggettivazione politica» (Zizek, 2005b. p. 62).
L’insegnamento che il mondo occidentale esita a trarre da questo punto di vista è la
necessità di una dialettica tra individuo e comunità che non sacrifichi
nessuno dei due termini. Pare vano e controproducente in effetti sia il tentativo di
fondare una morale sull’assolutizzazione della comunità e del suo valore organico sia il
contrapposto tentativo di fondare una morale sull’assolutizzazione dell’individuo e dei
suoi diritti soggettivi. Resta da esplorare quindi con uno spirito nuovo e con un
atteggiamento più umile di confronto con altre tradizioni la possibilità di mettere al
centro e “proteggere” proprio la necessaria relazione dinamica tra i due
termini – individui e comunità – che non solo non sono opposti ma che non
possono nemmeno esistere se non uno in rapporto all’altro.
Tutto questo naturalmente ha evidentemente anche una ricaduta pratica. Per
decenni le associazioni internazionali di tutela dei diritti hanno scelto una
strategia basata sulla pubblicazione di denuncie e rapporti documentati e sulla presa
in carico di singoli casi di persone imprigionate, torturate o in pericolo. Non c’è dubbio
che tale strategia ha ottenuto risultati concreti prima del 1989 perché nel
confronto est-ovest fungeva da pungolo politico per denunciare una o l’altra parte.
Dopo il 1989 le organizzazioni hanno sfruttato al massimo le possibilità degli strumenti
mediatici per denunciare determinate situazioni e influire sui governi. Ma, oltre al
rischio di provocare alla lunga un effetto di assuefazione, si può osservare che
l’evocazione di un’indignazione mediatica ha prodotto (o giustificato) nel caso del
Kosovo i bombardamenti su Belgrado. L’episodio ha diviso il movimento per i diritti
umani. Alcuni hanno salutato l’intervento militare come un grande successo perché
finalmente si è imposta l’idea che i diritti umani sono più importanti del principio della
sovranità nazionale, ma molti altri vi hanno visto piuttosto una terribile sconfitta
perché in realtà quella che si è imposta – oltre a nuovi morti e nuove distruzioni - è
soprattutto l’idea di un interventismo militare fondamentalista. In fondo questa
divisione è stata causata proprio da una filosofia di tutela delle persone che
prescindeva dal riconoscimento dell’importanza centrale del processo politico.
In altre parole rivelava il vuoto della politica nel movimento umanitarista, l’assenza di
un ragionamento politico e di una forma di pratica politica che non si fermi alla mera
denuncia delle violazioni. L’assenza di un reale discorso critico sui fondamenti dei
diritti umani si è manifestato anche nell’impotenza degli strumenti impolitici
tradizionali di tale movimento, e tutto questo, alla fine, si è trasformato in un
disastroso boomerang politico. 222

Diritti e ingerenza umanitaria

La dottrina dei diritti umani rappresenta nella cultura occidentale un punto di


riferimento fermo, in gran parte indiscusso, proclamato sia da capi di stato, che da
studiosi accademici che da attivisti di Ong. Tuttavia negli ultimi anni è stata oggetto di
una crescente contestazione, in particolare di fronte all’osservazione che in nome dei
diritti umani si sono giustificati atti di ingerenza e perfino guerre “umanitarie”.
Molti hanno denunciato la contraddizione di guerre combattute in nome dei
diritti umani, di una politica che per difendere i suoi valori di civiltà bombarda città e
popolazioni indifese, dalla Serbia, all’Afghanistan, all’Iraq. In effetti è abbastanza
singolare che alcune nazioni si arroghino il diritto, in nome della tutela dei diritti
fondamentali di alcuni individui, di sacrificare la vita, gli affetti e i beni di migliaia di
altri innocenti. In questo modo per salvare i diritti degli uni si violano i diritti
degli altri.
I fautori dell’ingerenza umanitaria,98 sostengono che gli interventi umanitari sono
legittimi se sono autolimitati, rapidi ed efficaci e nella misura in cui si interviene non
per impadronirsi del territorio, ma per portare pace e stabilità, per ristabilire
l’autodeterminazione per poi ritirarsi. Questi ragionamenti manifestano una grande
ingenuità quando non una grande ipocrisia per diversi ordini di motivi. In primo luogo
com’è sotto gli occhi di tutti le guerre contemporanee utilizzano armi di enorme
impatto distruttivo sulle persone, sugli abitati, sull’ambiente dunque parlare di
autolimitazione non ha senso. In secondo luogo le guerre in Bosnia, Kosovo, in
Afghanistan e in Iraq non si sono esaurite rapidamente o dato vita a forme reale di
pace ma hanno dato luogo piuttosto a ghetti etnici in costante tensione, a conflitti a
bassa intensità o addirittura in forme di resistenza all’occupazione. In terzo luogo –
rispetto alla condizione della non occupazione del territorio - non si può far finta di
ignorare che rispetto alle strategie belliche contemporanee è del tutto anacronistico
(che si tratti di interventi umanitari o di interventi imperialistici) pensare di occupare
militarmente interi territori o addirittura interi paesi; è sufficiente, come di fatto è
avvenuto puntualmente in tutti gli interventi umanitari, posizionare basi militari
avanzate e controllare per mezzo di soggetti privati le zone strategiche dal punto di
vista economico, magari con l’accordo di governi fantoccio. Dunque il ritiro delle forze
militari non significa la fine dell’occupazione e l’avvento della pace ma semplicemente
il passaggio del testimone ad altri soggetti. Infine ci vuole del coraggio per
considerare autonomi e democratici governi chiaramente eterocontrollati quali quelli
dell’Afghanistan e dell’Iraq. Per queste e per altre ragioni, molte persone in occidente,
e soprattutto in Europa, si sono sentite disgustate da queste giustificazioni e hanno
accusato i propri governi di usare strumentalmente la retorica dei diritti umani per
coprire interessi imperialistici, o di tradire quegli stessi diritti che dicevano di voler
difendere con l’umanitarismo militare. Tuttavia quello che generalmente non si è
voluto notare è che la categoria del tradimento è servita e tuttora serve a non
mettere in discussione il fondamento della dottrina dei diritti umani, e a non
problematizzare il punto fondamentale ovvero la pretesa assolutezza della nostra
visione morale convenzionale del mondo.99

98
Si veda a titolo di esempio le posizioni di un Michael Ignatieff, 2003b, pp. 42 e seg.
99
È la posizione per esempio assunta da Antonio Gambino (2001), che considera i diritti umani non un
insieme di norme giuridiche già realizzate ma piuttosto un criterio ideale e meta-giuridico che nasce
spontaneo nella coscienza collettiva e che ha per fine quello di unire gli uomini e le donne del nostro
pianeta. Si tratterebbe dunque, secondo Gambino, non di imporre norme giuridiche con la forza ma di
seguire la via del dialogo, del “discorso razionale sui diritti” (J.S.Mill) e quindi della persuasione per
Dal mio punto di vista è più interessante mettere in luce la continuità e non 223
l’opposizione tra rappresentazioni positive e atteggiamenti aggressivi. Capire come da
dal diritto e dagli aiuti si è arrivati alla guerra umanitaria. Come è stato possibile il
percorso di slittamento semantico e politico prodotto dalla filosofia umanitaria, per cui
si è passati dalla tutela dei diritti umani al diritto di assistenza e soccorso, al diritto
d’ingerenza umanitaria, alla guerra umanitaria.
L’espressione “droit d’ingérance humanitaire” fu proposta per la prima volta nel
1991 da Bernard Kouchner, tra i fondatori di Médecins sans frontieres e poi di
Médecins du Monde e all’epoca Ministro per le Azioni umanitarie del Governo
Mitterand. Kouchner coniò tale idea in relazione al preteso diritto di intervenire in
Kurdistan per portare aiuto ai curdi attaccati con gli elicotteri dall’esercito di Saddam
Hussein. Kouchner fu anche tra coloro che spinsero le Nazioni Unite a rimettere in
discussione per la prima volta il principio della sovranità degli Stati, in un documento
dell’assemblea generale dell’Onu di quello stesso anno, sempre in relazione alla crisi
curda. Il diritto d’ingerenza venne invocato anche per giustificare la UNPROFOR, la
sventurata missione ONU in Bosnia tra il 1992 e il 1995. Allora il nuovo verbo del
diritto d’ingerenza divenne la parola d’ordine tra Istituzioni Internazionali, governi
occidentali, e soprattutto tra le Ong umanitarie. Tutti pensavano che avrebbe
significato la garanzia di una maggiore tutela dei più deboli. Sono bastati pochi anni
per mostrare l’ingenuità e la scarsa lungimiranza politica di queste posizioni.
L'affermazione del "diritto di ingerenza umanitaria" o del "dovere di assistenza"
anziché rafforzare i diritti umani e garantire i più deboli è divenuta infatti soprattutto
uno strumento per rafforzare la sovranità e il dominio degli stati più potenti.
Non si vede come sarebbe potuto essere altrimenti quando si è affidata la difesa dei
più deboli alla forza dei più potenti. Il senso e l'efficacia pratica di qualsivoglia diritto
d’ingerenza – sia di tipo strettamente umanitario che di tipo militare - è infatti del
tutto legato all'ampiezza delle risorse materiali, economiche, politiche e militari di cui
un paese può disporre. Solo uno stato potente può candidarsi ad agire in nome del
principio d’ingerenza (direttamente o su mandato internazionale) e una volta investito
o autoinvestito di questo diritto ne fa uso in modo sovrano nei casi che lui stesso
giudica appropriati. Come ha notato Bertrand Badie

«Così la deterritorializzazione che è associata a questo nuovo diritto, tende a


dotare gli stati più forti di nuovi mezzi legali, che permettono loro di calpestare la
sovranità territoriale dei più deboli»(Badie, 1996, p. 182).

In questo modo il diritto di ingerenza sancisce la distinzione tra statualità forti


che – qualsiasi cosa accada - possono comunque difendere la propria sovranità
territoriale e rifiutare l’intrusione di soggetti umanitari o militari esterni, e statualità
deboli che possono essere accusate di ogni delitto e d’incapacità di mantenere
l’ordine e dunque essere costrette a piegarsi alla logica degli interventi esterni. Quello
che a proposito di ingerenze non si è voluto assolutamente capire è che la pratica di
intervento sotto la spinta di un principio umanitario non si risolve affatto in una
temporanea violazione di una sovranità comunque riconosciuta; tutto al contrario
spezzando i confini e sovrastando le forze politiche locali sia di potere che di
opposizione si finisce col determinare nuove configurazioni politiche che non
corrispondono affatto alle aspirazioni popolari ma agli interessi delle potenze

estendere l’ideale dei diritti umani in un numero sempre maggiore di Stati o gruppi di Stati (p. 151-152).
Gambino dunque si limita a criticare le modalità e il tentativo di imporre un universalismo che a suo
modo di vedere si può basare solamente su una dimensione consensuale, formata attraverso un metodo
dialogico (p. 45) ma non sembra disposto a mettere radicalmente in dubbio il fondamento e l’ideale
universalistico dei diritti umani.
intervenute. La normalizzazione delle ingerenze in nome dei diritti umani porterà le
potenze occidentali Usa, Europa, Giappone ad accrescere la propria capacità di 224
mediare e di intervenire in determinate aree calde importanti da un punto di vista
economico e geopolitico, e di assicurarsi il controllo del territorio tramite le armi, il
controllo della popolazione tramite gli aiuti alimentari, i medicinali e i crediti, il
controllo politico tramite l’instaurazione di governi amici e fedeli. Mentre i paesi del
sud del mondo e gli altri paesi emarginati, che tanta fatica hanno fatto per
conquistarsi una propria indipendenza, vedranno ulteriormente indebolirsi la propria
autonomia, le proprie istituzioni, le proprie capacità di manovra, le proprie autonome
possibilità di scelta e di autoderminazione. Per questa strada non è improbabile, come
suggeriscono diversi analisti, che in alcuni casi come quello della Somalia o del
Kosovo, la trattativa politica e diplomatica sia stata solamente formale, mentre in
realtà la possibilità di un accordo sia stata boicottata per arrivare a giustificare un
intervento militare umanitario. Tra la fine del 1992 e il 1993, in Somalia si è
assistito alla prima occupazione di un paese indipendente sulla base di una mission
umanitaria. Come ricorda Noam Chomsky (2000b, p. 93) si trattò in realtà di un
grande intervento promozionale in stile hollywoodiano100, una specie di vetrina per
l’universo militare, per favorire i programmi per una forza di intervento all’estero. Il
risultato è stato naturalmente un disastro assieme politico, militare, umanitario. Oltre
tutto le truppe italiane, francesi, belghe, americane, canadesi, nigeriane, pakistane si
sono rese responsabili di numerosi atti di violenza, abusi contro la popolazione civile e
perfino stupri ai danni di donne somale. Come ha notato Alex De Waal,

«la manifestazione più eclatante dell'impunità umanitaria si è verificata


sicuramente in Somalia. Nella loro caccia al capo-fazione Mohammad Farah Aidid,
le Nazioni Unite hanno violato a più riprese le convenzioni di Ginevra aprendo il
fuoco a casaccio su civili, bombardando ospedali e incarcerando numerosi somali
senza alcun capo d'accusa; secondo The Philadelphia Inquirer, nel 1993 le truppe
americane hanno ucciso oltre 1.000 civili»101.

Altre fonti riportate da Chomsky stimano un numero di vittime molto superiore tra il
7.000 e 10.000 somali (Chomsky, 2000b, p. 94). Nei fatti l'intervento umanitario -
dalla Somalia ai Balcani - ha più spesso contribuito a indebolire e a frammentare i
territori e le popolazioni piuttosto che ad unirli. Non ha risolto i conflitti e fermato la
violenza ma anzi l’ha moltiplicata e ha contribuito a cronicizzarla (vedi il caso
Somalia), ha aumentato i problemi connessi (vittime, feriti, profughi, malattie,
distruzioni), ha spesso esacerbato le divisioni (specie quelle etniche o religiose)
anziché contribuire ad appianarle. Talvolta le soluzioni imposte con la forza con la
logica della spartizione hanno giustificato altra violenza e altre azioni di pulizie etniche
(vd. la pace di Dayton). Nel migliore dei casi l’ingerenza sì è trasformata in una pace
armata e precaria, come nel caso del Kosovo. In nessun caso ha assicurato una pace
reale. Ad ogni modo la critica più feroce dell’ingerenza umanitaria viene dalle parole di
Régis Debray:

«Che cosa succederà nell’anno 2100 quando la Cina sarà la potenza


imperialista mondiale, se i Cinesi invaderanno l’Indonesia perché la minoranza
cinese è vittima di sevizie? Noi siamo contenti dell’“umanitario” perché siamo noi
a gestirlo. Il giorno che sarà ripreso da altri, che cosa diremo?».102

100
Non a caso gli eventi della Somalia hanno offerto l’occasione per un nuovo film di epica militare
americanista come Black Hawk Down (2001) di Ridley Scott.
101
Alex De Waal, "In piena impunità umanitaria", in «Le monde diplomatique», n. 4, aprile 1998.
102
Intervista con Régis Debray di Jean-Paul Monferran, L’Humanité, 15 maggio 1999, disponibile on-line:
http://www.humanite.presse.fr/journal/1999-05-15/1999-05-15-289600
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
225

Il linguaggio del mondo contemporaneo.


Categorie, frames e rappresentazioni sociali
Docente: Marco Deriu

GUERRA/TERRORISMO

Quando oggi parliamo di guerre - termine derivante dall'antico vocabolo germanico


werra - evochiamo un'immaginario che è fortemente condizionato da secoli di
rappresentazioni letterarie, giornalistiche e mediatiche. Ma dietro lo stesso termine si
nascondono fenomeni che nel frattempo hanno assunto delle forme e delle modalità
molto differenti dal passato. La guerra del vietnam aveva in fondo ancora molto in
comune con quelle mondiali. Ma le guerre balcaniche appartenevano già ad un altro
tipo di "conflitto". Così le guerre civili in Somalia o in Rwanda o le guerre in Iraq, Libia
e e Siria. Per non parlare del terrorismo e della cosidetta "guerra al terrorismo" o delle
nuove forme di cyberwar.
In questo campo ci sono stati dunque profondi cambiamenti, che non è falice
descrivere sinteticamente.
In un libro, pubblicato per la prima volta nel 1999 e disponibile anche in italiano,
Guerra senza limiti (Liang, Xiangsui, 2001), due “Colonnelli superiori” dell’Aeronautica
Militare cinese Qiao Liang e Wang Xiangsui avevano descritto con grande acume la
trasformazione della logica bellica in corso negli ultimi decenni:

«Qualsiasi conflitto che scoppi domani o più avanti rientrerà in un concetto di


guerra in senso ampio, ovvero un mix di guerra condotta con la forza degli
armamenti e guerra condotta con altri mezzi. L’obiettivo di questo tipo di guerra
andrà oltre il semplice “uso di mezzi che coinvolgano la forza degli armamenti
per costringere il nemico ad accettare la propria volontà”. Lo scopo sarà invece
quello di “usare tutti i mezzi possibili – mezzi che comportano la forza degli
armamenti e mezzi che non la comportano, mezzi che coinvolgano la potenza
militare e mezzi che non la coinvolgono, mezzi che provocano vittime e mezzi
che non ne provocano – per obbligare il nemico a servire i propri interessi»
(Liang, Xiangsui, 2001, p. 86).

C'è dunque bisogno di un grande sforzo analitico per comprendere che cosa sono e
che forme hanno assunto le guerre o i conflitti armati nel mondo contemporaneo.
Un contributo all’analisi della guerra contemporanea sulla base dello strumentario
teorico critico offerto dalle scienze sociali potrebbe partire, a mio avviso, recuperando
il concetto di “fenomeno sociale totale” proposto da Marcel Mauss nel suo celebre
“Saggio sul dono”. In altre parole suggerisco di smettere di guardare la guerra come
un evento saltuario o accidentale, che si presenta in determinate occasioni e a
determinate condizioni, o che può essere delimitato in maniera semplice e chiara. Per
cambiare veramente prospettiva, per provare a vedere le cose da un altro punto di
vista, dovremmo piuttosto cominciare a guardare la guerra nella nostra società
contemporanea come un “fatto sociale totale” ovvero un fenomeno complesso
attraverso il quale si può leggere e interrogare tutta una società, una cultura e un
tempo nel suo insieme, nelle sue dimensioni più profonde. Essa va letta cioè come un
fenomeno che esprime e che permette di rileggere in filigrana ogni specie di
istituzioni: economiche e produttive, finanziarie, politiche, giuridiche, religiose,
educative, familiari. La guerra va letta non nella sua dimensione “événementielle”
(cronachistica) ma nelle sue connessioni più profonde e meno visibili con la normalità 226
della produzione culturale, sociale, economica e politica di una società. Dobbiamo
evidenziare i legami visibili e invisibili tra attività bellica e modelli di produzione e
consumo, tra produzioni culturali e produzioni materiali, tra iniziative economiche e
conseguenze politiche, tra ideali di sviluppo e forme di sradicamento culturale e
politico, tra rappresentazioni ideali come democrazia e diritti umani e forme di
disconoscimento delle alterità culturali. In altre parole proprio perché la guerra si
(di)spiega attraverso tutte queste dimensioni è più difficile di quanto si creda
“ritagliare” l’oggetto guerra dalla normale realtà che ci circonda. Una realtà che
illusoriamente ci appare pacifica e rassicurante perché fatta di mille oggettivazioni
conosciute, di beni materiali, come di istituzioni, di immagini come di abitudini,
professioni e mansioni burocratiche che diamo naturalmente per scontate e di cui non
afferriamo il “doppio oscuro”, l’altra faccia, negativa e inquietante. In senso analogo è
molto più difficile contornare una guerra in termini temporali. In passato la guerra era
pensato come elemento transitorio che poteva essere indicato mediante una cornice
temporale: una data d’inizio certa ed una conclusione. Per quanto riguarda il sud del
mondo, molte guerre (si pensi da questo punto di vista alla Palestina, all’Afghanistan,
al Corno d'Africa, alla Colombia, al Burundi, all'Iraq) si allontanano sempre di più dalla
forma dell’evento transitorio, per divenire una condizione cronica, uno stato contenuto
ma continuo di belligeranza e di violenza; mentre per quanto riguarda le democrazie
occidentali - Stati Uniti ed alleati – la guerra rischia di diventare non più l’elemento
eccezionale di discontinuità ma l’attività dominante che si dipana da un paese all’altro
- dall’Iraq alla Libia, dall’Afghanistan alla Siria – in un conflitto permanente per
l’egemonia politico-economica mondiale, contro gruppi terroristi, stati "canaglia" o
"stati falliti", potenze rivali emergenti.
Oggi la guerra può essere vista attraverso la stessa immagine che adoperava
Arendt per parlare in termini più generali del male, ovvero un fungo che estende le
sue spore dappertutto. La guerra contemporanea ha oramai travalicato decisamente la
sua arena tradizionale per invadere ogni dimensione dell’esistente dal punto di vista
spaziale, temporale, materiale. Si dispiega in ogni ambiente naturale, sulla terra, nel
cielo, nei mari, ma anche nello spazio extra-atmosferico e prossimamente – potete
scommetterci - sulla Luna, su Marte e sugli altri pianeti; attraversa ogni ambiente
materiale e tecnologico, dallo spazio urbano della città bombardata, alla mediosfera
delle telecomunicazioni al campo virtuale del cyberterrorismo, o della guerra
finanziaria; impregna sempre di più ogni spazio sociale, dall’informazione, alla
comunicazione, dall’economia alla politica, dalla cultura alla psicologia; colpisce la vita
in ogni sua forma e dimensione, attraverso i germi, l’aria, l’acqua, il cibo; imprime il
proprio marchio su ogni generazione: su quella attuale innanzitutto, sulla prossima se
pensiamo all’infanzia martoriata dai conflitti, sulla successiva se pensiamo allo stupro
di guerra, o ancora più in là nel tempo sulle generazioni future che si dovranno
confrontare con l’esaurimento delle risorse fossili, i guasti della Guerra ambientale, la
devastazione dell’ambiente, l’inquinamento chimico e radioattivo. Può sembrare
eccessivo, ma basta consultare i documenti strategici o i testi di teoria militare più
recenti per comprendere che questa lunga lista non è frutto di fantapolitica, ma la
semplice registrazione della realtà e delle più recenti proiezioni strategiche delle
dottrine militari. Non si era mai visto in precedenza nella storia umana un estendersi
così ampio della guerra sull’esistente.
Se è vero – come è stato notato – che «il modo in cui creiamo benessere
economico e il modo in cui creiamo la guerra sono inestricabilmente connessi» (Toffler
A., Toffler H., 1994, p. 86), oggi come non mai la trasformazione delle forme di
produzione e delle forme di distruzione impedisce oggi di distinguere chiaramente la
pace dalla guerra, l’attività bellica dai normali processi socio-economici, i soldati dagli
operatori economici o dai semplici vicini di casa, il bottino di guerra dagli oggetti
personali che indossiamo o consumiamo (automobili, gioielli, cellulari…), le armi dagli 227
strumenti normali e quotidiani della vita di ciascuno di noi (computer, aerei, treni,
metropolitane, satelliti…). Tutto insomma viene pian piano “impregnato” e riplasmato
attraverso le logiche della guerra. Come hanno sottolineato profeticamente due
colonnelli cinesi, un bel mattino la gente si sveglierà scoprendo con stupore che
alcune cose gentili e carine, quelle più ordinarie e vicine, hanno cominciato ad
assumere caratteristiche offensive e letali, sino a divenire vere e proprie armi rivolte
contro di loro. Armi da cui è difficile se non impossibile difendersi (cfr. Liang, Xiangsui,
2001, p. 59). Dunque la nuova guerra, quella che questi Lina e Xiangsui chiamano
“guerra senza limiti”, non va pensata più nei termini tradizionali. Essa si sviluppa sia
nel senso dell’utilizzo di risorse militari a fini non direttamente bellici, ma ancora di più
nell’uso a fini bellici di risorse non direttamente militari. Dunque se la violenza militare
tradizionale può perfino andare incontro a una relativa riduzione, dall’altra parte si
può prevedere una decisa crescita della violenza civile, terroristica, politica,
economica, tecnologica. Quello che abbiamo visto con il terrorismo contemporaneo e
come l’intero nostro mondo materiale, tecnologico, virtuale possa essere letteralmente
rivolto contro di noi. Questa nuova violenza è insidiosa perché nasce dal paesaggio
ordinario che credevamo addomesticato e sotto il nostro controllo, qualcosa di innocuo
insomma, mentre oggi riconosciamo invece che può anche assumere un segno
negativo. La nostra estrema dipendenza da tutto questo paesaggio materiale e
tecnologico è dunque anche la condizione della nostra estrema vulnerabilità.
Dal punto di vista delle innovazioni strategiche, secondo Liang e Xiangsui, i nuovi
principi della guerra non sarebbero più semplicemente quelli di usare la forza delle
armi per costringere il nemico a sottomettersi ai propri voleri, ma come abbiamo
visto, quelli di usare tutti i mezzi, inclusa la forza delle armi e sistemi di offesa militari
e non-militari e letali e non letali per costringere il nemico ad accettare i propri
interessi.
E tuttavia perfino questa acuta ridefinizione della guerra, forse la più sottile e
avanzata prodotta in ambito militare, nasconde ancora una parte rilevante della
comprensione del fenomeno guerra contemporaneo.
In effetti l’aspetto fondamentale da capire da questo punto di vista è che proprio
perché siamo di fronte non solo a una “guerra senza limiti” ma a quello che sulla
scorta di Mauss abbiamo definito un “fatto sociale totale”, il significato ultimo della
guerra non risiede solamente nell’imporre il proprio interesse al nemico, e nemmeno
solo nell’imporre un certo ordine più o meno gerarchico nelle relazioni internazionali,
ma anche in quello di imporre un ordine sociale e politico determinato al proprio
interno, nel proprio paese. La guerra, e ancora di più la guerra nella sua versione
attuale, è una forma di violenza che tende a “mettere in ordine” la realtà,
contemporaneamente all’esterno e all’interno, e a conformare la società alle sue
esigenze. La guerra si impone anche come progetto di società all’interno dio ogni
paese molto più che in passato. Come ha notato Barbara Ehrenreich

«possiamo [...] che tecnologie e stili bellici simili creano nelle culture umane
esigenze simili, e che tali esigenze tendono a imporre una sorta di uniformità a
settori dell’agire umano apparentemente distanti dall’impresa bellica in sé.
Contrariamente a quanto pensava Marx, non sono tanto i “mezzi di produzione” a
modellare le società umane, ma anche e soprattutto i “mezzi di distruzione”»
(Ehrenreich, 1998, p. 133).

Dunque la nostra civiltà, il nostro sistema politico e materiale sono sempre più
impregnate di violenza e plasmate dalla guerra e nemmeno ce ne rendiamo conto.
Non riusciamo ancora ad immaginarci fino in fondo la dimensione e l’estensione che
sta assumendo la guerra e la violenza nel nostro pianeta e nella nostra quotidianità.
Una delle difficoltà a questo proposito è che non riusciamo a riconoscere le 228
connessioni tra tutti gli aspetti del quadro attuale. Ci manca la capacità di leggere ogni
aspetto non a sé stante ma come nodo di una rete più vasta con una sua fisionomia
definita.

Le caratterische delle nuove guerre

Di seguito provo a sintetizzare i nove elementi attorno a cui si possono raccogliere


le principali caratteristiche dei conflitti contemporanei.

1.Attori in campo. Un primo elemento da notare è che degli oltre centoventi


conflitti succedutisi dopo il 1989 solamente 7 casi hanno riguardato guerre tra Stati.
Una caratteristica delle nuove guerre è dunque la grande complessità ed
articolazione degli attori in campo.
Mary Kaldor (2004, pp. 130-139) propone una differenziazione fra tre tipi di attori e
di eserciti - le reti, le nuove forze militari americane e le forze militari neomoderne -
che corrisponderebbero anche a tre tipi diversi di guerre: guerre a rete tipiche di attori
statali e non statali come signori della guerra, cellule terroristiche, criminalità
organizzata, forze regolari e forze paramilitari;103 guerre spettacolo, che sono
fondamentalmente, quelle intraprese dalla superpotenza americana utilizzando le
tecnologie aeronautiche e missilistiche più avanzate; infine le guerre neomoderne,
legate a potenze quali Russia, India, Cina, che puntano ancora sulla forza militare
tradizionale in funzione antinsurrezionalista.

2.Campo di battaglia. Le guerre contemporanee tendono sempre di più a


ridefinire radicalmente il campo di battaglia, il teatro dove si svolge lo scontro e gli atti
di violenza. In senso spaziale e geografico la guerra, soprattutto nella sua forma
asimmetrica e terroristica, pur avendo una o più scene principali viene sempre più
delocalizzata e disseminata. Il campo di battaglia è molteplice e variabile. Per esempio
l’attentato terroristico può essere condotto ovunque, in ogni grande città, in ogni
ambasciata, in qualsiasi località turistica, in monumenti o palazzi simbolici o in luoghi
della vita quotidiana (bar, ristoranti, stadi, concerti, autobus, metropolitane) a
seconda dell’opportunità, della vulnerabilità dell’obiettivo e del danno previsto.
Dall’altra parte la guerra al terrorismo può portare a colpire le basi dei militanti
ovunque esse si trovino. Assai più che in passato le guerre sono costruite su reti
di attori e di basi (sia ufficiali che informali) dislocate un po’ in tutto il
mondo.

3. Obiettivi politico-strategici. Al contrario di quelle del passato, le nuove guerre


non mirano semplicemente a sconfiggere il nemico in battaglia né ad un’occupazione
territoriale permanente di un paese. Questi conflitti, generalmente, hanno a che fare
con una ridefinizione del potere politico ed economico. Queste guerre non vanno
interpretate come momenti di semplice caos o anarchia, ma di conflitti che mirano
ad instaurare nuove gerarchie di potere, nuove forme di governance,
insomma nuovi sistemi politici.

4.Narrazioni e forme di mobilitazione. In questi nuovi conflitti la violenza non


serve solamente a distruggere obiettivi militari ma è usata come forma per

103
Questa tipologia di guerre a rete corrisponde alla dizione di “nuove guerre” nella terminologia specifica
di Kaldor. Si vedano in proposito Kaldor, Vashee, 1997 e Kaldor, 1999.
estremizzare e mobilitare le emozioni, per ridefinire e radicalizzare le appartenenze in
modo da garantirsi una base di sostegno politico per i propri progetti. In altre parole, 229
come sottolinea Mary Kaldor, la guerra stessa è una forma di mobilitazione
politica (Kaldor, 2004 p. 133). La creazione artificiale di un’opposizione noi-loro è
uno degli obiettivi della violenza e della guerra nelle sue prime fasi.

5.Forme di comunicazione. Nelle nuove guerre i mezzi di comunicazione di


massa (radio, televisione, internet) hanno una funzione fondamentale da diversi punti
di vista. Si pensi alle immagini di fosse comuni, di profughi, di attentati, di esecuzioni
e dell’uso politico che ne è stato fatto prima di tutto per convincere l’opinione pubblica
ad appoggiare e a giustificare un intervento militare. Si pensi all’utilizzo che è stato
fatto della radio in paesi come il Rwanda, dove, durante il genocidio, questo
apparecchio è stato non solo uno dei mezzi di comunicazione più importanti ma anche
uno degli strumenti più usati per fomentare l’odio etnico e incitare alla pulizia etnica.
Si pensi infine all’importanza dell’immagine come fonte di terrore e di pubblicità nella
strategia terroristica a partire dall’attentato alle “Twin Towers”. Nel caso delle guerre
più recenti, come quella dell’Iraq o dell'ISIS, anche i video che riprendono la prigionia
o l’esecuzione di ostaggi hanno avuto un ruolo particolarmente dirompente. In altre
parole i mezzi di comunicazione di massa – e non solo i singoli giornalisti embedded -
non sono solo uno strumento di comunicazione o di propaganda ma vengono
“incorporati” nel warfare.

6.Target, vittime e modalità di combattimento. Dal punto di vista dei metodi di


combattimento, la tipologia più diffusa è quella della guerra non convenzionale o
asimmetrica. Che si tratti di eserciti nazionali, milizie, o gruppi terroristici, la strategia
è quella di evitare il più possibile la battaglia frontale. Sia le dottrine militari più
avanzate che si richiamano alla “netwar” e allo “swarming”, sia le valutazioni d’ordine
pratico dei gruppi non statali che non possono affrontare direttamente un nemico
superiore in forze, spingono in direzione di operazioni di guerra mordi e fuggi in cui
non è necessario restare troppo esposti su un medesimo campo di battaglia. Gli
attacchi sono limitati, rapidi e mirano a creare il maggior danno possibile. In questo
tipo di guerra la violenza è spesso direttamente e non incidentalmente diretta contro i
civili che costituiscono tra l’80 e il 90% delle vittime di questi conflitti e che sono
oggetto di repressione, di attacchi terroristici, di pulizie etniche, di stupri, rapimenti e
razzie, di uccisioni di massa, di bombardamenti, di embarghi economici. In molti casi
si cerca di terrorizzare la popolazione e di spingere il conflitto fino agli estremi per
intimidire l’avversario e per costringerlo ad arrendersi o a scappare. Da questo punto
di vista le guerre contemporanee anche se a bassa intensità e magari senza il ricorso
ad armamenti pesanti, tendono a divenire contemporaneamente, guerre totali: non
c'è più un esercito da sconfiggere, ma una popolazione o una comunità da eliminare,
un territorio da "sgombrare" o "ripulire", pur di realizzare i propri interessi e di
raggiungere i propri scopi.

7.Forme di finanziamento. Mentre le guerre tradizionali erano


fondamentalmente un’impresa pubblico-statale, le nuove guerre sono invece un
impresa privata o pubblico-privata. A fianco delle risorse pubbliche le fonti di
finanziamento possono essere di ogni genere: gestione di traffici illeciti, tasse di
guerra, estorsione, saccheggi, rapine, rapimenti, risorse umanitarie, ma anche
sostegno da parte delle persone della diaspora, o di paesi terzi interessati in qualche
modo alla posta in gioco nel conflitto. Come ha notato Mary Kaldor, «le distinzioni
tradizionali tra politico ed economico, pubblico e privato, militare e civile, non
funzionano più. Il controllo politico è necessario per imporre le nuove forme coercitive
di scambio economico, ma queste sono a loro volta necessarie per fornire una solida
base finanziaria ai nuovi potenti/banditi che agiscono nel contesto di disintegrazione
dello stato e marginalizzazione economica» (Kaldor, 1999, p. 122). Altro aspetto 230
caratteristico, da questo punto di vista, è che le nuove guerre risultano perfettamente
integrate nell’economia globale: nel mercato, nella finanza, nei flussi di merci e
capitali, nelle banche e nei paradisi fiscali. Da questo punto di vista anche se appaiono
locali sono in realtà internazionali.

8.Rapporto tra civile e militare. Nelle nuove guerre tendenzialmente viene a


confondersi sempre di più il confine tra civile e militare. Sia dal punto di vista degli
attori, del teatro di guerra, che degli obiettivi. La guerra non è più un fatto di soldati,
di eserciti, di campi di battaglia, di obiettivi militari ma è composto da un intreccio di
soggetti statali e non statali, militari, paramilitari, civili, mercenari, di target civili
(vedi tabella: Lo spettro della violenza nei nuovi conflitti e relativi esempi). Si tratta di
conflitti generalmente molto distruttivi dove sono fatte bersaglio volontariamente
anche semplici abitazioni private, fabbriche, campi, chiese e moschee, monumenti e
biblioteche, scuole, ospedali ed infrastrutture in generale in modo da distruggere la
vita civile o in modo da rendere lucrosa l’attività di ricostruzione, o da estendere le
forme di assistenza e controllo in una fase successiva. I conflitti contemporanei sono
profondamente distruttivi dal punto di vista della vita sociale.

9.Rapporto tra pace e guerra. Una delle caratteristiche più importanti che si può
registrare nelle nuove guerre (o nella forma assunta da guerre di antica data) è lo
sfumarsi del confine tra pace e guerra, diversamente dal passato, dove la distinzione
tra tempo di pace e tempo di guerra era piuttosto marcata. La guerra cominciava con
una dichiarazione, con un attacco o con un’invasione, e si concludeva con una
dichiarazione di pace e con il ritiro delle truppe. Oggi la guerra non ha un tempo
preciso. Può iniziare in modo serpeggiante o esplodere all’improvviso senza alcuna
avvisaglia. Può continuare per lunghi anni alternando momenti di calma a riprese del
conflitto. Può cronicizzarsi in una forma di conflitto a bassa intensità. Con questo non
si intende guerre meno violente, o meno devastanti, ma solamente che la violenza
non è concentrata su un fronte, ma è diffusa, molecolare e intermittente. Il campo di
battaglia può essere dovunque e in ogni momento. La distinzione tra combattente e
non combattente si va sfumando, e diventa più difficile distinguere amici e nemici.
Questi conflitti possono terminare con una forma di pace armata e piena di
tensione. Anche una volta firmati i trattati di pace, molto spesso, la violenza riprende
il suo corso. In diversi paesi rimangono sul terreno contingenti internazionali, in altri
le basi militari straniere divengono una presenza stabile. Il risultato è che molti paesi
vivono in una zona grigia tra la pace e la guerra per molto tempo (si possono fare
numerosi esempi: Palestina, Sudan, Kurdistan, Uganda, Colombia, Somalia, Algeria,
Burundi, Afghanistan…). Dunque, se queste nuove guerre non si presentano più con
un inizio certo e/o con un termine chiaro e definito esse assumono piuttosto la forma
di una minaccia o di una tensione costante. Questa situazione di emergenza
permanente può essere utile sia in termine di profitti economici, per un maggior
controllo delle risorse, che in termini politici, per mantenere definitivamente irrisolta
una problematica spinosa. Quale che sia la ragione, da un punto di vista temporale la
guerra è sempre meno un evento e assomiglia sempre di più ad una condizione
strutturale. Dunque non più un tempo di guerra ma uno stato permanente di guerra.

La logica del terrorismo

Al Qaida, Boko Haram, Daesh, Isis… negli ultimi anni ci siamo abituati ad
identificare il terrorismo con questi nomi. Ovviamente queste organizzazioni non
hanno "inventato" il terrorismo - che di per se ha una lunga storia - ma certamente
l'hanno portato ad un livello senza precedenti. 231
Cerchiamo dunque intanto di capire quali sono le caratteriche e gli elementi
identificanti del terrorismo. La caratteristica fondamentale non riguarda il soggetto
responsabile dell’atto di violenza. In effetti possono rendersi responsabili di atti
terroristici sia soggetti istituzionali e statali, che parti devianti dell’apparato statale,
che gruppi politici subnazionali, che organizzazioni criminali, o anche singoli individui.
Dirimente non è certamente il livello e la tipologia della violenza. Né si può
richiamare un grado diverso di moralità tra guerra e terrorismo. Ci sono forme di
guerra convenzionale o di repressione che producono forme di violenze più terribili e
disumane di quanto non possa fare un’organizzazione di terroristi. Nemmeno
l’elemento dell’efferatezza è dirimente. Ci sono terroristi che portano a termine il loro
obiettivo freddamente, quasi burocraticamente, senza un’evidente crudeltà o un
godimento per lo spettacolo della violenza. Viceversa si può ritrovare una notevole
dose di efferatezza tra i soldati dei paesi più sviluppati del mondo.
Per quanto gli atti di terrorismo siano generalmente associati alla scelta di obiettivi
civili, tuttavia nemmeno l’oggetto della violenza – preso isolatamente – sembra
permettere una distinzione chiara tra guerra, terrorismo e crimine comune.
Certamente si può comprendere meglio il terrorismo se lo si pensa come
un dispositivo, o una strategia, volta non solo a colpire i civili o i non
combattenti, ma a diffondere un panico e un caos generalizzato. Mediante
l’interruzione e la minaccia costante si intende destabilizzare il campo avversario e
impedire il lo svolgimento normale della vita civile o l’assunzione di scelte politiche in
piena autonomia. Il terrore, il panico si creano nel momento in cui si comincia con il
percepire la propria nudità e fragilità, il proprio essere profondamente vulnerabili.
Questo dispositivo di produzione di panico ottiene il massimo risultato quando si
determina un senso di timore verso le cose più familiari: metropolitane, arei, treni,
shopping center, cinema, locali, teatri. Quando non c’è più uno specifico target, ma
ogni luogo e in ogni momento, può divenire bersaglio. Da questo punto di vista non
solo una serie di attentati dinamitardi o di attentati kamikaze ma anche un
bombardare indiscriminatamente una città, bersagliare una campagna o un territorio
con bombe a grappolo, o attaccare ripetutamente dei centri abitati distruggendo
abitazioni e picchiando o colpendo gli abitanti andrebbero definiti forme di terrorismo.
In ultima analisi infatti, lo scopo di questi interventi è il medesimo, rendere
impossibile la vita ad una popolazione o impedire qualsiasi forma di discussione
politica al di fuori di una lotta senza quartiere.
Dunque se vogliamo capire qual è la specificità del terrorismo islamico
possiamo per prima cosa indicare il suo carattere transnazionale. La maggior parte
delle realtà terroristiche che conosciamo sono di carattere nazionale o regionale.
Anche se si basano su reti di supporto di carattere transnazionale, i loro obiettivi sono
fondamentalmente locali. Gli obiettivi e il teatro di azione dell’Ira in Irlanda, dell’Eta in
Spagna, delle Tigri Tamil in Sri Lanka, dell’Olp e di Hamas in Palestina, erano ben
definiti. Viceversa, se si vuole comprendere la specificità del terrorismo di matrice
islamico, questa andrebbe ricercata nell’evoluzione che ha subito negli ultimi anni
verso un movimento di carattere globale.
Questo non vuol dire che non abbia un radicamento in territori e comunità locali.
Come la rapida espansione di movimenti terroristici in Africa, nel Maghreb e nel Medio
Oriente ha permesso di comprendere, il terrorismo non ha una natura solamente
militare. In particolare negli ultimi anni la forza di questi movimenti si è definita
attraverso un radicamento sociale ed economico, perché nelle comunità sono state
organizzate forme di sostegno alle famiglie, si sono assicurati i servizi fondamentali, e
una certa condizione di vita. Insomma un modello di amministrazione caratterizzato
da autoritarismo politico, fondamentalismo religioso e tutela sociale. Come è stato
notato, se Al Qaida funzionava come un'azienda del terrore in franchising, l'Isis si è
data invece un'organizzazione territoriale con un suo sistema di welfare. 232
Un elemento importante da comprendere è che il terrorismo fondamentalista
non è un ritorno alla barbarie ma piuttosto un prodotto della modernità. Molti
studiosi e commentatori, e fra tutti in particolare John Gray (2004), hanno
giustamente sottolineato che contrariamente alla retorica dominante che dipinge il
terrorismo di matrice islamica come una minaccia alla civiltà occidentale ed un ritorno
alla barbarie, in realtà Bin Laden, e la rete che chiamiamo impropriamente “Al Qa’ida”
è in realtà a pieno titolo un frutto – se pur ibrido - della modernità occidentale. Gli
elementi “moderni” di questa rete terroristica sono diversi.
Anzitutto emergono sul piano dell’ideologia. L’idea che attraverso “atti di
terrore” si possa dar vita ad un “nuovo mondo”, deriva dalla tradizione
rivoluzionaria e dall’anarchismo europeo e non certo dalla tradizione
islamica. Da queste tradizioni il movimento islamico che abbiamo identificato in Al
Qa’ida prima e nell'Isis poi, ha desunto la convinzione “che il mondo possa essere
trasformato da atti di terrore spettacolari” (Gray, 2004). Tale idea è una fede nata e
cresciuta esclusivamente nell’alveo occidentale anche se poi si è certamente diffusa
altrove:

«Come il comunismo e il nazismo – nota Gray -, l’islam radicale è moderno.


Sebbene pretenda di essere antioccidentale, è formato tanto dall’ideologia
occidentale quanto dalle tradizioni islamiche. Allo stesso modo dei marxisti e dei
neoliberisti, anche gli islamici radicali concepiscono la storia come il preludo di un
mondo nuovo. Tutti sono convinti di poter riformare la condizione umana. Se
esiste un solo mito moderno, è questo» (Gray, 2004, p. 7).

Altri aspetti di questa "modernità" possono essere riconoscibili nel fatto che i network
terroristici hanno costruito un consenso in quei paesi e in quegli agglomerati urbani
rimasti marginali e delusi dalle promesse dei processi di sviluppo e di integrazione
occidentali.
In questo senso ci sono altri elementi che pur non essendo in assoluto invenzioni o
peculiarità di questo terrorismo sono diventati comunque tratti caratteristici di questi
gruppi. In particolare mi referisco all'ampio impiego delle nuove tecnologie digitali,
informatiche, visuali, all'importanza della comunicazione e alla scelta di un terrore
portato nei luoghi della vita quotidiana in maniera sistematica.
Il web è diventato il principale luogo di comunicazione, indottrinamento e perfino
reclutamento dei nuovi adepti di questi gruppi. Siti, documenti, video, giornali online
trovano nel Deep Web un ambiente ideale per diffondersi.
La violenza terroristica ha colpito in questi anni molti luoghi della vita e della
socialità quotidiana - stadi, teatri, concerti, ristoranti etnici, bar, mercati, siti o
villaggi turistici - assai più che installazioni militari o istituzionali. Il terrore mira non a
sconfiggere un'avversario ma a insuare e installare la paura dentro alla psicologia
quotidiana.
In più la violenza viene esplicitamente ripresa, mostrata, esibita, ritrasmessa
attraverso foto, video e filmati producendo una forma di "pornografia della
violenza" che trova un terreno fertile non solo nel web ma anche nella televisione.
Qual è il significato di questa violenza terroristica apparentemente indiscriminata?
Da una parte può essere letta in termini di risentimento verso l'occidente, verso i
paesi occidentali ritenuti direttamente coinvolti o complici di azioni di guerra e di
regimi autoritari in diversi paesi.
Dall'altra c'è probabilmente il tentativo di creare uno sconvoglimento complessivo
delle forme e dei modi di vita occidentali, rendendo impossibile la tranquilità,
instillando la paura e l'odio.
Infine si tenta certamente di fomentare reazioni simmetriche da parte delle
istituzioni e delle popolazioni locali in funzioni anti-Islam. L'instaurazione di uno stato 233
di emergenza, se non di uno stato di eccezione, la restrizione delle libertà civili,
l'insaprimento della diffidenza e dei pregiudizi verso la popolazione immigrata, così
come le rappresaglie militari non sono affatto effetti accidentali di queste azioni
terroristiche ma sono piuttosto elementi precisi di una strategia che intende
polarizzare sempre di più lo scontro sia a livello globale che locale nella logica
ideologica dello scontro di civiltà, togliendo terreno e spazi di movimento alle forze
moderate e democratiche.
In questo contesto nel quale la semplificazione è il mezzo per produrre
polarizzazione e radicalizzare lo scontro è importante contrastare le spiegazioni e gli
schemi semplicistici.
In particolare è importante comprendere criticamente il ruolo e l'uso delle
identità religiose che si fa in questi contesti. Occorre cioè evitare luoghi comuni
simmetrici che dicono che la violenza nasce dalle religioni o viceversa che questa
violenza non ha nulla a che fare con le religioni.
Da una parte occorre infatti riconoscere che le religioni non esistono nel vuoto, ma
si sviluppano in rapporto a condizioni storiche, sociali, a rapporti di potere, a rapporti
economici ecc... Non esiste un'espressione "pura" o "vera" della religione aliena da
contesti e condizioni date. Questo significa che le religioni possono essere usate e
interpretate diversamente a seconda dei momenti e degli obiettivi di un contesto di
persone. Le stesse realtà religiose possono in certi momenti allearsi con o divenire
esse stesse poteri economici, politici, militari e in altri predicare l'uguaglianza, la
tolleranza, la difesa dei più deboli ecc..
Non a caso molte tradizioni religione hanno conosciuto espressioni o giustificazione
della violenza, della guerra o del terrorismo. Senza bisogno di andare a scomodare
crociate o l'evangelizzazione forzata nelle americhe, possiamo facilmente riconoscere
l'esistenza di un terrorismo di ispirazione cristiana (e a sua volta cattolica e
protestante), ebraica, islamica, induista e perfino buddista in diversi paesi e momenti
storici del secondo dopoguerra.
Riconoscere una responsabilità delle religioni significa anche riconoscere
l'importanza dei conflitti "interni" alle appartenenze religiose (si pensi allo scontro tra
cattolici e protestanti in Irlanda o tra sciiti e sunniti in diversi paesi arabi) e
l'importanza delle correnti che si oppongono alla violenza dentro ciascuna tradizione e
che magari sono esse stesse vittime di quella violenza. Il terrorismo è sempre stato
uno strumento usato dalle minoranze per imporsi più che un'aspetto condiviso.
Occorre notare a questo proposito, che la maggior parte delle vittime del terrorismo
fondamentalista islamico (in Iraq, Libia, Siria, Mali ecc…) sono altri credenti
musulmani.
Più che essere utilizzate per spiegare l'origine della violenza, le appartenze religiose
andrebbero spiegate come potenti strumenti di mobilitazione e produzione di
consenso anche (e forse soprattutto) laddove l'obiettivo è in realtà principlamente di
tipo economico, politico. È più facile produrre risentimento e ribellione nella misura in
cui si riesce a far credere che determinati problemi, ingiustizie o manzanze derivino da
una discriminazione di una specifica cultura, religione, etnia.
Le forme che ha assunto la violenza nei conflitti contemporanei, con le nuove
guerre e i nuovi terrorismo costituiscono una sfida radicale non solo per le ragioni
della pace ma per l'esistenza stessa delle società e delle città come luoghi di incontro
e convivenza.
Per certi versi dobbiamo fare i conti con un doppio scacco, quello del militarismo e
quello del pacifismo. Da situazioni come quella dell'Iraq, della Libia, della Siria,
dovremmo imparare che le azioni militari sono strumenti che producono una
moltiplicazione e una cronicizzazione della violenza più che una sua risoluzione.
Come ha scritto Loretta Napoleoni
234
«l'intervento straniero non arresterà la destabilizzazione della regione - non lo ha
mai fatto mai lo farà - e che è indispensabile un approccio diverso, più
pragmatico, per impedire altri morti e altre distruzioni. Questo approccio deve
prendere atto dell'esistenza di una nuova potenza nella reigone riconoscere che
l'uso della guerra pre procura è una strategia destinata a ritorcersi contro chi vi
ricorre. Di conseguenza, tale approccio deve cercare di contrastare questa nuova
potenza usando altri strumenti, differenti dalla guerra» (Napoleoni, 2015, pp.
116-117).

D'altra parte di fronte alla forma che hanno assunto la violenza e il terrorismo e alla
compenetrazione con le logiche dell'economia e del mercato globale, è impensabile
rispondere con un generico richiamo alla pace e alla buona volontà. Occorre essere
consapevoli del peso della forza senza per questo venerarla, dell'impatto della
violenza senza rispondere sullo stesso piano significa innanzitutto imparare a
riconoscere e ad affrontare i conflitti prima che diventino distruttivi.
In particolare costruire relazioni locali e internazionali più pacifiche richiede grandi
capacità politiche e relazionali e la disponibilità a mettersi in discussione e ad operare
significativi cambiamenti che concretamente magari significano la riduzione e non
l’ampliamento delle proprie libertà e dei propri vantaggi. Presuppone fra l’altro una
crescita della capacità di immedesimarsi nella sofferenza e nelle difficoltà di persone
lontane nello spazio e nel tempo, la rinuncia ad approfittare degli strumenti e della
forza di cui si dispone per imporre i propri interessi ad altri soggetti, e in senso più
ampio l’interiorizzazione di un senso del limite che nel mondo attuale è un articolo
sempre più raro.
L’insegnamento che mi sembra importante cogliere di fronte alla situazione attuale
è che l’aumento della potenza distruttiva, della velocità e della globalizzazione della
violenza, sia nella forma della guerra che del terrorismo, generano una crescente
vulnerabilità e che è illusorio proteggersi da questa vulnerabilità innalzando dei muri
fisici o simbolici. È illusorio cioè credere di salvarsi o di proteggersi tirandosi fuori dalla
relazione, impedendo l’incontro. Dovremmo muoverci piuttosto lungo l’asse opposto,
la moltiplicazione delle relazioni. Solo la relazione, la qualità di questa relazione, la
pratica quotidiana di un conflitto non distruttivo, può accrescere la consapevolezza e il
rispetto della vulnerabilità degli altri e di noi stessi. Questa è l’alternativa che abbiamo
di fronte: armarci e combattere all’infinito contro ogni possibile nemico o cercare di
costruire relazioni basate sulla fiducia e sul rispetto.
In altre parole l’alternativa alla guerra permanente non è la pace perpetua ma
solamente una condizione intrinsecamente fragile e incerta di non ostilità
costantemente nutrita da politiche di relazionalità, condivisione, ospitalità, gestione
creativa dei conflitti.
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