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[Anno 2016-2017]
Dispense di 2016-2017
Sociologia dei processi
culturali e comunicativi
marco.deriu@unipr.it
2
INDICE
2. NATURA/CULTURA………………………………………………………………………………………… p. 13
3. GENERE/SESSO…………………………………………………………………………………………… p. 23
4. GENERE/VIOLENZA……………………………………………………………………………………… p. 38
5. SACRO/PROFANO………………………………………………………………………………………… p. 58
6. NORMALITÀ/DEVIANZA……………………………………………………………………………….. p. 72
7. SICUREZZA/INSICUREZZA…………………………………………………………………………… p. 82
8. INTERESSE/DONO………………………………………………………………………………………… p.101
9. SVILUPPO/DECRESCITA……………………………………………………………………………… p.115
- che tale termine si è andato modificando nel tempo quanto al suo uso e al
suo significato. In altre parole lo stesso termine in due momenti storici
differenti ha significato cose diverse.
- che si sono avute definizioni differenti, o addirittura concorrenti di
questo termine. Ovvero lo stesso termine può essere usato ed inteso con
significati diversi in ambienti e contesti differenti, siano questi contesti
territoriali, contesti sociali, contesti disciplinari.
- che tale termine ha avuto e rivela tuttora degli interessi politici o sociali
precisi, con conseguenze concrete sul piano della realtà in cui viviamo.
La parola cultura deriva dal verbo latino cŏlere (coltivare) che veniva usato
nell’antichità per indicare il lavoro della terra. Cultura era dunque la coltivazione
(agricoltura, monocoltura ecc…).
A questo proposito la scienziata ed attivista indiana Vandana Shiva, giocando con
le parole coltura/cultura ci ha in guardia da un uso troppo chiuso e asfittico
dell’identità culturale, che poteva causare delle gravi conseguenze di riduzione della
biodiversità naturale e culturale:
Nell’età umanistica per cultura si intendeva ciò che oggi noi definiamo
“erudizione” o “cultura intellettuale” ed elitaria, opponendo le persone colte – coloro
che appartenevano alle società letterate e alle classi aristocratiche a quelle incolte,
ovvero al volgo, così come alle società illetterate.
Si può notare che già in quest’epoca la parola cultura separava le persone sia su
base sociale (di classe) che territoriale (le alterità erano per definizione barbare, 4
primitive, selvagge).
In epoca illuministica l’idea di cultura si connette a quella di progresso, di
raffinamento intellettuale, di rischiaramento dalla superstizione. In Francia si parla in
particolare di Civiltà e di costumi con una vocazione universalistica.
Mentre contemporaneamente in Germania si elabora il concetto di Kultur con un
accento più particolaristico legato ad un gruppo umano, ad una terra, ad uno spirito o
al genio di un popolo. Tale nozione viene diffusa in particolare dal ceto medio in
opposizione al sapere convenzionale dell’aristocrazia di corte.
«La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico è quell’insieme
complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il
costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come
membro di una società» (Tylor, 1871).
Uno studioso che amo molto, Gregory Bateson, sosteneva che la scienza –
qualsiasi scienza - esplora, ma non prova mai nulla perché la nostra conoscenza è
sempre funzione della soglia dei mezzi di percezione di cui disponiamo in un dato
momento. Ricorrendo ai principi di Alfred Korzybski, secondo cui «la mappa non è
il territorio» e «il nome non è la cosa designata», Bateson insisteva nel
sottolineare che le mappe mentali e culturali che utilizziamo normalmente sono solo
strumenti con cui attivamente ci facciamo un’immagine della realtà indispensabile per
orientarci. 8
Questo significa in primo luogo che quando parliamo di un ombrello, di un lago o di
una città, nel nostro cervello non ci sono ombrelli, laghi o città. Noi registriamo
notizie, informazioni, differenze e in qualche modo le codifichiamo in schemi, immagini
o mappe.
Quindi non bisogna dimenticare che qualsiasi descrizione della realtà non può
corrispondere relamente alla cosa descritta. Qualsiasi percezione, qualsiasi
descrizione, qualsiasi comunicazione sono prodotti delle nostre capacità percettive e
dei nostri mezzi di registrazione e riproduzione sensoriali e cognitivi. Una mappa, una
mappa culturale, una mappa sociologica, dunque serve per orientarsi nella realtà. Ci
può essere un sistema di segni e riferimenti corrispondenti che ci aiuta ad orientarci,
ma tra la descrizione e la cosa descritta c’è sempre uno scarto incolmabile. Anche
una mappa estremamente elaborata e precisa, in scala 1:1 non coincide con la realtà.
Oltre a questo dato di fondo, diversi altri autori – sia sociologi che con angolatura
differenti anche psicologi - hanno sottolineato che il nostro modo di conoscere e
pensare non è solamente un processo individuale, ma dipende da forme di pensiero
sovra individuali, sociali. Dunque la dimensione di costruzione della realtà sociale non
è solo un fatto che riguarda l’individuo nelle sue relazioni con figure di prossimità,
riguarda più in generale tutti i processi culturali e di significazione sociale.
In altre parole il nostro linguaggio, le nostre categorie, le nostre idee, le nostre
convinzioni sono sempre in qualche misura debitrici di un pensiero collettivo.
Èmile Durkheim, fu il primo a prestare attenzione a questo aspetto introducendo
la nozione di “coscienza collettiva” e di “rappresentazioni collettive”. Durkheim
si riferiva ad un ampio insieme di forme intellettuali quali la religione, la morale, il
diritto, la scienza, il mito. La riflessione di Durkheim sulle rappresentazioni collettive
rischiava però di essere troppo rigida, poiché presupponeva delle conoscenze sovra
individuali che si impongono dall’esterno con una forma di coercizione, che pur non
escludendo il ruolo della personalità individuale, tende a enfatizzare l’aspetto statico
su quello dinamico.
Psicologi contemporanei come Serge Moscovici hanno sviluppato in senso più
fenomenologico e dinamico l’idea di “rappresentazioni sociali” che ci guidano nella
lettura o nella definizione della realtà e nella nostra azione in tale realtà.
Come scrive Moscovici:
«il linguaggio trae il suo potere dal fatto di essere definito relativamente a frame,
prototipi, metafore, narrazioni, immagini ed emozioni» (Lakoff, 2009, p. 18).
Nei rapporti con le nostre alterità, per esempio, queste formazioni discorsive
contribuiscono non solo a dirci come guardare all’altro, ma in maniera più profonda
contribuiscono a creare una specifica realtà dell’altro nella nostra testa, a costruire
l’altro. In queste rappresentazioni le nostre alterità non sono tanto soggetti della
rappresentazione quanto soggetti alla rappresentazione. In altre parole c’è un
rapporto tra la definizione di certi codici linguistici, di certe formazioni
discorsivi, di certi linguaggi e le pratiche di potere. C’è un rapporto tra nominare
e normare. Tra imporre i nomi e le categorie e imporre le regole, i codici di condotta.
E ancora di più c’è un rapporto tra imporre questi codici e la costruzione di identità e
di soggettività. Dunque chi attraverso delle formazioni discorsive può imporre un
linguaggio, un immaginario, acquisisce un grande potere sugli altri.
Ma d’altra parte può essere che questo linguaggio che si impone agli altri si scopra
ad un certo punto anche una gabbia per se stessi. Se queste formazioni discorsive
costruiscono una specie di “frame” all’interno del quale ci abituiamo a guardare,
pensare e parlare, può essere che questa cornice acquisisca una certa stabilità e
solidità tale per cui diventa difficilissimo uscirne. Queste cornici culturali sono infatti
così profondamente interiorizzate e stratificate nel nostro mondo culturale, sociale,
materiale da risultare implicite e indiscusse. Non è semplice liberarsi da questi
pregiudizi. Da quando siamo venuti al mondo, da quando abbiamo appena iniziato a
parlare, tutto attorno a noi ci spinge a pensare in questo modo. Nella quasi totalità dei
casi noi non conosciamo la ristrettezza - a volte la miseria - delle cornici culturali
dentro alle quali ci muoviamo.
Come diceva in maniera più secca e caustica un altro sociologo, Gabriel Tarde,
E ancora:
«In pratica bisogna strapparle dalla loro condizione di quasi evidenza, far
emergere i problemi che pongono; riconoscere che non sono quel posto
tranquillo a partire dal quale si possono porre altri problemi (sulla loro struttura,
la loro coerenza, la loro sistematicità, le loro trasformazioni), ma che in loro
stesse pongono tutto un fascio di problemi» (Foucault, 2005, p. 36).
«Il pericolo non viene da quello che non conosciamo, ma da quello che
crediamo sia vero e invece non lo è» .
Da questo punto di vista non si tratta solamente di costruire delle descrizioni o delle
narrazioni efficaci o più corrispondenti al “vero” ma di porci costantemente in un
atteggiamento riflessivo, dubbioso, auto-critico. Come sottolinea Gregory Bateson
Divenire consapevoli di questo, così dei nostri processi di conoscenza, e dei nostri
limiti, ci può permettere di relativizzare le nostre idee, ma anche di comprenderne la
singolarità e l’importanza, di divenire più coscienti di noi stessi e, possibilmente, di
confrontarci con più umiltà con gli altri.
Nel nostro corso ci occuperemo dunque di alcuni temi chiave della nostra
cultura esaminando delle diadi, delle coppie di parole: natura/cultura, sacro/profano,
genere/sesso, normalità/devianza, interesse/dono, identità/alterità,
progresso/collasso, sviluppo/decrescita, globalizzazione/localizzazione,
universalismo/particolarismo, democrazia/post-democrazia, lavoro/precarietà,
sicurezza/insicurezza ecc. Ogni lezione sarà dedicata a uno di questi temi che
cercheremo di scandagliare, attraversare, interrogare, smontare e rimontare.
Attraverso questo percorso auspico che vi facciate un’idea più critica e problematica
dei fondamenti e dei giudizi sui quali riposa la nostra visione del mondo. Allo stesso
tempo mi aguro che acquisiate degli strumenti critici per continuare da soli questo
lavoro nelle realtà e nelle esperienze che incontrerete.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
13
NATURA/CULTURA
Nelle scorse lezioni abbiamo detto che: a) La mappa non è il territorio; b) Le nostre
mappe, le nostre rappresentazioni, le nostre categorie linguistiche e mentali
costruiscono una nostra visione delle cose. Per cui a differenti idee di essere umano e
natura, corrispondono atteggiamenti diversi verso il mondo attorno a noi.
Questo nodo epistemologico si ripresenta anche quando parliamo di natura e di
cultura.
Tutta la comunicazione ambientale si struttura attorno ad alcune categorie centrali
quale natura, ambiente, sostenibilità ecc… che strutturano il nostro campo di
percezione. Noi pensiamo di sapere di cosa stiamo parlando ma in realtà si tratta di
questioni molto indeterminate e ambigue.
L'uso di parole come "natura" e "ambiente", non è così ovvio. L'idea di "natura" ci
porta a pensare qualcosa in cui l'essere umano non è ancora intervenuto anche se di
fatto l'essere umano fa parte della natura. Diversamente l'idea di ambiente rischia di
farci percepire il mondo attorno a noi come una scenografia, un ambiente come un
altro, rispetto al quale l'essere umano si può ritagliare la sua autonomia.
Quando noi parliamo di "Natura", pensiamo di avere un'idea chiara di quello di cui
stiamo parlando, un'idea "oggettiva". In realtà occorre riconoscere che l’idea stessa
di una natura in quanto separato da ciò che è umano ha una dimensione
culturale e storica peculiare. Da una parte questa opposizione non è affatto
universale anzi non è rintracciabile nella maggioranza delle culture e delle civiltà e
dall’altra nella stessa tradizione europea non è sempre esistita. Essa è frutto di
un’evoluzione molto lunga, ma arriva a definirsi in senso proprio solo con l’epoca
moderna.
Come ha notato l’antropologo Philippe Descola, uno dei maggiori specialisti di
questo tema:
Per esempio, nota Descola, gli Achuar dell'Amazzonia descrivono la foresta come
un immenso orto coltivato con cura da uno spirito. La maggior parte delle piante e
degli animali per loro condividono facoltà, comportamenti e codici sociali non dissimili
dagli umani. Essi distinguono gli esseri in base al loro grado di socialità e non in base
ad un'opposizione tra uomini e altre forme viventi.
1
Philippe Descola, Oltre Natura e Cultura, SEID Editori, 2014, Firenze, p. 58.
I Makuna dell'Amazzonia categorizzano gli umani, le piante e gli animali come
"persone" con caratteristiche quali mortalità, vita sociale e cerimoniale, intenzionalità 14
e conoscenza simili agli umani. Anzi umani e animali possono trasformarsi gli uni negli
altri, perché la forma esteriore è considerata un travestimento.
Un'altra popolazione dell'Amazzonia gli Yagua del Perù, categorizzano piante e
animali in diversi gradi di consanguineità, sulla base dei rapporti di amicizia o ostilità.
L’idea di un essere umano visto fondamentalmente come una bestia selvaggia che
occorre regolare e comandare (una rappresentazione al centro dell'antropologia
politica moderna e democratica) è espressione di una metafisica tipicamente
occidentale, poiché come sottolinea Marshall Sahlins:
«non solo presuppone una opposizione tra natura e cultura tipica del nostro
folclore, ma si differenzia altresì dai tanti popoli che considerano le bestie
fondamentalmente umane invece che gli umani fondamentalmente bestiali».2
In altre parole la maggior parte delle società e delle culture del passato e del
presente ci invitano a non tracciare le frontiere dell'umanità sul limitare della specie
umana, ma accogliere nell'idea di umanità anche gli animali, le piante o le altre
espressioni della natura.
Le caratteristiche attribuite a questi esseri dipendono dalle posizioni e dalle relazioni
che intrattengono gli uni con gli altri.
In questo senso molte cosmologie amazzoniche implicano una sorta di
"prospettivismo" e non un'opposizione tra natura e umanità.
Anche fra gli indiani del Canada e dell'Alaska la natura «non si oppone alla
cultura, ma la prolunga e l'arricchisce»3.
Tra gli indigeni della Siberia (Tungusi, Samoiedi, Xant, Mansi), si ritiene che tutta
la foresta sia animata da un grande spirito - lo spirito del bosco - che si manifesta
attraverso una molteplicità di incarnazioni, che siano animali, alberi o rocce.
Tra i Chewong della Malesia tutti le entità della foresta sono mescolate in una
comunità intima ed egualitaria. Il confine non riguarda umani e non umani ma vicini e
lontani: chi condivide lo stesso territorio e lo stesso stile di vita e chi vive in periferie
lontane con altre leggi.
Anche nella tradizione pur essendo più forte la differenziazione tra il villaggio e la
savana i rapporti e le relazioni sociali tra umani e non umani sono molto stretti, in
particolare per quanto riguarda le tradizioni animiste.
Per gran parte della storia umana e per molte civiltà, una distinzione rigida tra
natura e cultura non avrebbe avuto molto senso perché tutto è allo stesso tempo
naturale e culturale.
2
Marshall Sahlins, Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, eléuthera, Milano, 2010, p.8.
3
Philippe Descola, Oltre Natura e Cultura, SEID Editori, 2014, Firenze, p. 42.
4
Ivi. p. 45.
anche di natura umana sono a tutti gli effetti un frutto della nostra capacità
immaginativa culturale, della nostra cosmovisione o cosmologia, e non un dato 15
oggettivo e autoevidente. Si tratta soltanto di una fra le diverse espressioni possibili
degli schemi generali che gli esseri umani proiettano nel proprio rapporto con il
mondo.
Da questo punto di vista, Philippe Descola sviluppa una complessa classificazione
dei diversi modi possibili di concepire la natura a partire da quattro prospettive
differenti:
-animismo (ANTROPOGENISMO), nel quale le relazioni hanno la meglio sui
termini;
-totemismo (COSMOGENISMO), nel quale termini e relazioni sono interdipendenti
all'interno di ogni classe;
-naturalismo (ANTROPOCENTRISMO), nel quale i termini hanno la meglio sulle
relazioni;
-analogismo (COSMOCENTRISMO), nel quale termini e relazioni sono
interdipendenti all'interno del sistema generale.
Se dunque non vogliamo proiettare la nostra cosmovisione sul resto del mondo,
quello che dobbiamo fare è invece comprendere la peculiarità e i limiti della nostra
stessa idea di natura. Quando è maturata questa idea e su quali concezioni si fonda?
Se ci limitiamo al contesto culturale occidentale, si può dire che le nostre idee
su natura e cultura nei fatti si fondano su tre opposizioni:
Già in questo salmo si vede che l'essere umano è rappresentato all'esterno del suo
ambiente e quindi vi si contrappone per dominarlo. Da questo punto di vista viene
ipotizzata una sorta di gerarchia degli esseri viventi, al cui vertice sta l'uomo - ritenuto
di poco inferiore a un dio – mentre tutti gli altri animali vengono posti sotto il suo
dominio.
A distanza di migliaia di anni la nostra cosmologia, la nostra concezione del vivente,
il nostro pregiudizio antropologico sono rimasti sostanzialmente invariati. Anche se
naturalmente in questa stessa tradizione ci sono state voci differenti da San Francesco
a Théodore Monod, a Eugen Drewermann, solo per fare alcuni nomi.
Un tratto comune di diverse religioni tradizionali (dei monoteismi in particolare) in
effetti è quello di ipotizzare un dualismo tra Dio e creato, cui corrisponde un dualismo
tra essere umano (creato ad immagine divina) e il resto della natura. Secondo
Gregory Bateson tali presupposizioni sono una delle radici epistemologiche
dell’attuale crisi ecologica:
«Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete
l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e
naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in
cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza
mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi
sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza
sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie, in antitesi con
l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle
piante. Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se
possedete una tecnica progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà
quella di una palla di neve all’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti
tossici del vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e 17
l’esagerato sfruttamento delle riserve» (Bateson, 1976, p. 480).
In questa visione della natura l’uomo è il centro del mondo e il centro della vita. La
specie umana è superiore e ha un diritto di dominio sulle altre specie. Mentre la natura
è vista come un giacimento inerte di risorse disponibili per lo sfruttamento e le
necessità dell'essere umano.
Dunque ancora oggi la cultura occidentale rappresenta l’essere umano come un
soggetto pensante autonomo a fronte di un ambiente esterno sul quale egli è libero di
intervenire a suo piacimento. Se si vuole comprendere qualcosa dei sistemi viventi e
della loro organizzazione dobbiamo cominciare a mettere in discussione tale visione
individualistica e atomistica.
5
Ivi. p. 380.
6
Philippe Descola, Diversità di natura. Diversità di cultura, Book Time, Milano, 2011, p. 26.
di Humberto Maturana, all'idea della terra come un unico organismo vivente
presente in James Lovelock e nella sua ipotesi di Gaia7, fino alle riflessioni 18
sull'ecologia della mente di Gregory Bateson o su ecologia e complessità di
Edgar Morin.
L’idea di base secondo cui nell’universo vi sono “cose” separate – ha notato per
esempio Gregory Bateson - è una creazione e una proiezione della nostra psicologia
(Bateson, 1997, p. 148).
In realtà non è possibile separare l'essere umano dall'ambiente in cui è
immerso. Non esiste un "là fuori", un ambiente dato e oggettivo e nemmeno un “io”
separato dal suo ambiente e dalle sue infinite interazioni. Ambienti ed esseri viventi si
costruiscono e si adattano gli uni con gli altri, mediante le loro attività ed interazione.
Nell'evoluzione naturale, il processo di selezione nell'evoluzione è basato su una
relazione reciproca: l'ambiente seleziona gli organismi, e gli organismi selezionano
l'ambiente.8 Si tratta dunque di comprendere che l’essere umano non esiste come
forma vivente isolata al di fuori del suo ambiente.
Ricordiamo quanto diceva Edgar Morin,
«L’eco-sistema non è l’eco-sistema dal quale siano stati eliminati gli individui,
è l’eco-sistema insieme agli individui; l’individuo non è l’individuo separato
dall’eco-sistema, ma l’individuo insieme all’eco-sistema» (Morin, 1988, p. 88).
«Come tutti, sono consapevole dell’abisso che separa la materia inerte dalla
materia vivente – afferma il sociologo francese-, ma immagino egualmente che
l’una e l’altra possano presentare delle proprietà comuni, tendenti a ristabilire
l’integrità delle loro strutture, sia che si tratti dell’una o dell’altra. Così non ignoro
certo che una nebulosa contenente migliaia di mondi e la conchiglia secreta
da qualche mollusco marino sfidino qualsiasi tentativo di accostamento.
Ciononostante, io le vedo tutte e due sottomesse alla medesima legge dello
sviluppo a spirale. E di ciò non ci si dovrebbe stupire più di tanto, poiché la
spirale costituisce la sintesi perfetta di due leggi fondamentali dell’universo, la
simmetria e la crescita, che riescono a comporre l’ordine con l’espansione. È
7
Gaia è il nome con cui Lovelock indica il pianeta vivente. La sua ipotesi è la terra possa essere concepito
come un'organismo vivente e che oceani, mari, atmosfera, crosta terrestre e tutte le altre componenti
geofisiche del pianeta terra si mantengano in condizioni idonee alla presenza della vita proprio grazie al
comportamento e all'azione degli organismi viventi, vegetali e animali
8
Su questo aspetto vedi il bel libro di Richard C. Lewontin (1991), in particolare il cap. 2.
quasi inevitabile che l’animale, la pianta e gli astri si ritrovino egualmente
sottomessi ad esse» (Caillois, 1988, p. 5). 19
Caillois, pur essendo consapevole dell’abisso che separa il mondo vivente da quello
inanimato, non rinuncia tuttavia a sottolineare gli elementi di continuità e di
comunanza tra di essi. A questo proposito si richiama a Pasteur per proporre
l’accostamento tra le attività di ricostituzione di una qualunque parte rotta da parte di
un cristallo rimesso nella sua acqua madre e le attività di cicatrizzazione riscontrabili
nelle piante o nell’essere umano.
Dunque tra l’intelligenza umana e i fenomeni puramente biologici di calcificazione
presso gli organismi inferiori vi sarebbe, nonostante l’abisso che li separa, una
profonda comunanza.
«La mia ambizione – scrive – consiste piuttosto nel favorire una visione unitaria
delle vie della natura e dell’arte, una più ampia apertura di compasso, una prospettiva
allargata che comprenderebbe tanto la fisica dei fluidi, dei vapori, delle linfe, quanto le
invenzioni dei matematici e le risorse della tecnica o dell’abilità. Mi è capitato di
congetturare che l’ala della farfalla o il manto della zebra potevano essere considerati
come dei quadri interni, blasoni di una specie, certamente agli antipodi delle opere
esterne di un artista il cui stile esprime l’irriducibile personalità, derivata però da un
bisogno altrettanto inestirpabile. Il mio pensiero riposto, che oso appena esprimere,
implica che la fantasia degli uomini, l’immaginazione stessa non ha mai fatto altro che
prolungare le leggi generali dell’universo. Senza smettere di nutrirsene (e di seguirle),
le sviluppa e le ramifica. Sono consapevole di ciò che una tale ipotesi comporta di
scandaloso, se non di mortificante per un orgoglio di cui sembrano, a dire il vero,
guardarsi quasi istintivamente i più grandi artisti. Quest’intuizione – non è di più –
tende in effetti ad assimilare i quadri dei maestri alle nervature delle foglie degli alberi
e delle ali degli insetti, alle figure di contrazione dei noduli minerali» (Roger Caillois,
2003, pp. 28-29.).
«La pietra mi restituisce a una storia lunga e oscura, anteriore all’uomo, una
storia che non lo riguarda per nulla e da cui io sono nato alla fine di un percorso
tra innumerevoli germogli altrettanto effimeri e vani. Sono sconcertato da questo
cippo stemmato. Esso mi fa conoscere meglio la mia condizione di essere
frazionato e caduco, ma d’una origine così lontana e preparato da un numero
così sterminato di casi. Non mi spiace di ritrovarmi solo, senza enciclopedia né
documenti né codice di fronte a un enigma probabilmente insignificante, la cui
soluzione, in ogni caso, non potrebbe interessare un organismo sensibile,
sessuato, mortale (mi sorprende improvvisa l’idea che ogni essere sessuato, vale
a dire destinato alla riproduzione, è necessariamente mortale)» (Caillois, 1999,
p. 76).
Nei percorsi di Caillois relativi alle conformazioni e ai disegni delle pietre, alle
abitudini e ai comportamenti degli animali, alle origini del mito e alle strutture che 20
sottendono a tutte queste cose e anche al mondo dell’immaginazione, si ritrova in
nuce un tentativo di rovesciare un modo di ragionare che ha radici antiche, quello per
cui l’uomo si vede al centro del mondo e al centro della vita. Per cui la specie umana
si proclama superiore e vanta un diritto di dominio sulle altre specie.
Caillois richiama e critica più volte quella specie di “antropocentrismo negativo”
che risulta dal tentativo di escludere l’essere umano dall’universo e di sottrarlo a tutte
le regole e le corrispondenze che lo legano agli altri esseri viventi e alle strutture
dell’universo.
Come altri Caillois non rinuncia a ricordare all’essere umano la sua natura animale e
il suo legame con gli altri regni naturali a costo di frustrare le proprie rappresentazioni
narcisistiche.
Su questo piano, in particolare, tra Gregory Bateson e Roger Caillois di fronte a
differenze pur significative emergono tuttavia più profonde corrispondenze. Intenti a
celebrare “l’unità della natura” (Bateson) o “l’indivisibilità dell’universo”
(Caillois), entrambi cercano a proprio modo di restituire l’essere umano ad una più
ampia prospettiva che contempla assieme essere umano e natura.
Ma che può significare dunque restituire l’uomo alla natura? Cos’è allora quella
natura che ha prodotto l’essere umano e che cos’è l’essere umano che può riflettere
sulla natura e addirittura credere di contrapporvisi e dominarla senza per questo mai
smettere di esserne parte?
Probabilmente l’importanza di questi discorsi non sta tanto nella risposta ma
nell’impegno che possiamo spendere per continuare a riproporre questo genere di
domande, con l’idea di poter ogni volta afferrare una connessione più profonda,
un’intuizione ancora, o un briciolo di consapevolezza in più.
Fin dal suo saggio giovanile, scritto poco più che ventenne, sulla mantide religiosa e
sui miti e i riferimenti simbolici che l’accompagnano tra le culture umane, Caillois
sottolineava che
«l’uomo non è isolato dalla natura, è un caso particolare solo per se stesso.
Non sfugge all’azione delle leggi biologiche che determinano il comportamento di
altre specie animali, ma queste leggi, adattate alla sua propria natura, sono
meno evidenti, meno imperative: esse non condizionano più l’azione, ma soltanto
la rappresentazione» (Caillois, 1998, p. 45).
In altre parole sosteneva che per quanto riguarda l’essere umano si può parlare di
un condizionamento biologico non tanto del comportamento quanto
dell’immaginazione e che questo condizionamento agisce allo stesso modo nei miti
quanto nei deliri ovvero nei due poli estremi dell’affabulazione. «Il mito – nota Caillois
- rappresenta alla coscienza l’immagine di un comportamento di cui essa avverte la
sollecitazione»(Caillois, 1998, p. 47).
Da questo punto di vista Caillois non si limita a ricordarci darwinianamente che
deriviamo da un’evoluzione animale, ma insiste sul fatto che da quella natura
originaria non ci emanciperemo mai completamente. La stessa civiltà umana può
opporsi alla natura ma non può negarla poiché ne è piuttosto un frutto
legittimo.
«Non esiste abisso tra il mondo naturale e il mondo umano. L’uomo è natura,
ma la natura in lui è libera e inventiva. Suppone un individuo che esita e che si
sbaglia, che riflette ed è responsabile, che, in una parola, è cosciente. La
coscienza tentenna, ricomincia senza sosta, va di scacco in scacco, è maldestra e
dolorosa. Ma alla fine crea»(Caillois, in Olivieri 2004, p. 91). 21
Secondo Serres noi facciamo ancora oggi affidamento su una politica che
storicamente si definisce in un gioco a due, tra uomini. Infinite competizioni e
negoziazioni tra partiti, tra governo ed opposizioni, tra sindacati e industrie, credenti e
laici ecc. Sono giochi di equilibrio e di forza, ma sempre di umani con umani. Quello
che la filosofia ha chiamato dialettica. Ma, ci avverte Serres, oggi subiamo un colpo
definitivo al narcisismo umano: siamo «costretti a far entrare il mondo come
terzo nelle nostre relazioni politiche» (Ivi. p. 44). Il nuovo gioco a tre -
potremmo dire tra scienze, società e biogea - rimpiazzerà il vecchio gioco a due? E
come questo cambierà non solo la politica ma il nostro modo di pensare e di agire?
La novità è che le mosse della natura oggi ci appaiono più forti delle nostre, e
improvvisamente essa assume quel ruolo di soggetto che fino ad ora non eravamo
disposti a riconoscerle.
«Nel corso di alcuni decenni, l'antico oggetto passivo è diventato attivo. L'antico
soggetto umano - l'abbiamo visto - si mette a dipendere da ciò che, appunto
dipendeva da lui. Quale novità per i filosofi della conoscenza e dell'azione!»
(Serres 2009, p. 58).
In tutti i modi la prospettiva di una comunione tra essere umano e natura deve –
come ha ripetutamente sottolineato Théodore Monod (Monod, 2004) - spodestare
l’essere umano dal trono di re della creazione in cui si è indebitamente autocollocato.
All’essere umano va forse ricordata la sua natura animale a costo di frustrare le
proprie rappresentazioni narcisistiche. Non è possibile nessun passo avanti sul piano
della consapevolezza ecologica se non rifiutando l’idea che il resto della natura e delle
specie viventi non abbia altro motivo di esistenza che quello di essere utile alla specie
umana. La prossima conquista della specie umana che ci dobbiamo augurare sarebbe
una rivoluzione psichica da cui discenda una maggiore umiltà verso l’insieme della
natura vivente.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
23
GENERE/SESSO
A questo proposito vorrei raccontarvi una storia che ho vissuto quando ero poco più
che ventenne e che ha continuato ad abitare dentro di me per tutti questi anni.
Storie depositate dentro noi
24
Nei primi anni novanta ho fatto un'esperienza di volontariato con un gruppo
interculturale - che comprendeva sia italiani sia immigrati di differenti età - e che si
occupava di educazione alla differenza e di interculturalità nelle scuole e in altri
contesti educativi. Vi partecipavano uomini e donne, di diversi paesi: Italia, Messico,
Brasile, Ciad, Sierra Leone, Camerun, Burundi, Rwanda, Palestina.
Con questo gruppo si facevano ogni tanto dei ritiri di riflessione, socializzazione e
formazione. In uno di questi "ritiri" in una casetta in montagna, avevamo deciso di
dedicare un certo spazio per metterci a confronto sui diversi modi di pensare e vivere
l'essere uomini e l'essere donna in rapporto alle differenti culture.
La sera ci dividemmo in due gruppi, le donne dovevano riflettere su che cosa - a
partire dalla loro esperienza - caratterizzava il loro essere donne, gli uomini dovevano
riflettere su che cosa - a partire dalla loro esperienza - caratterizzava il loro essere
uomini. Dopo di ché ci saremmo ritrovati tutti insieme per raccontare quel che era
emerso.
Mentre il gruppo di donne poté presentare (senza differenze radicali rispetto alle
differenti culture) una serie di elementi e caratteristiche che riguardavano la loro
esperienza quotidiana di donne (la sensibilità, la capacità relazionale, la capacità di
accudimento ecc.); nel gruppo maschile invece si generò un processo di discussione e
di contrapposizione tra opinioni e punti di vista radicalmente diversi, tali per cui alla
fine non si riuscì ad accordarsi su cosa caratterizzava l'esperienza quotidiana di
uomini.
Nel gruppo maschile erano emerse almeno tre posizioni decisamente differenti: gli
immigrati, soprattutto gli Africani e gli Arabi avevano ben chiaro e potevano
facilmente elencarli, gli elementi che caratterizzavano il loro essere uomini. Elementi
che permettevano secondo il loro schema di differenziarli decisamente dalle figure
femminili (l'essere forti emotivamente, l'essere decisi e autorevoli, il poter sostenere e
proteggere le donne e la famiglia, l'essere tutti d'un pezzo, l'essere indipendenti
ecc...); la maggior parte degli italiani sostenevano invece che tra uomini e donne non
c'erano differenze significative. Sostenevano che donne e uomini erano uguali che non
esistevano elementi che caratterizzassero l'esperienza maschile, differenziandola da
quella femminile, che vi erano solo differenze tra persona e persona, a prescindere dal
sesso; da ultimo, tra i "bianchi" vi era anche chi sosteneva che invece tra uomini e
donne esisteva una bella differenza; infatti anche se non era possibile distinguere tra
ciò che era di origine biologica e ciò che era di origine storica, sociale e culturale, era
ad ogni modo possibile riconoscere almeno al livello empirico dell'esperienza
quotidiana delle differenze significative tra uomini e donne.
Sul momento, tuttavia la discussione non portò a nulla se non ad accrescere le
tensioni nel gruppo degli uomini e la competitività fra questo e il gruppo delle donne.
Il giorno dopo ci fu per altro l'occasione per continuare indirettamente le riflessioni
su questi problemi. La giornata era infatti dedicata alla comunicazione interpersonale
di esperienze di benessere e di malessere. Ogni persona raccontava le proprie
esperienze ad un'altra persona che poi avrebbe dovuto raccontarla di nuovo davanti al
gruppo, nella maniera più fedele possibile alle emozioni che la prima persona aveva
comunicato.
Così rimanemmo per qualche ora in ascolto gli uni delle altre, e mentre sentivamo
raccontare queste esperienze di malessere e di sofferenza, vi furono momenti molto
coinvolgenti. Alcune di queste storie, legate ad esperienze di perdita e di lutto, erano
talmente tristi che molte persone si sentirono toccate nell'intimo e si misero a
piangere.
Ho detto persone, ma non è proprio esatto. Quel che avvenne è che, a prescindere
dalle differenti provenienze culturali, tutte le donne, con un'unica eccezione, si erano
lasciate andare nel pianto, mentre tutti gli uomini, anche qui con un'unica eccezione,
pur essendo visibilmente contriti, non avevano trovato un momento di espressione 25
delle proprie emozioni attraverso le lacrime.
Alla fine interrogati su questo aspetto molti uomini ammisero o che non erano
riusciti a piangere o che si erano trattenuti. Eppure quasi tutti avrebbero voluto
piangere.
Perché non lo avevano fatto? Per ragioni sessuali, culturali, biografiche e personali?
Per me - credo per tutti/e - questa esperienza fu di enorme intensità e mi colpì
moltissimo. A me sembrava molto chiaro comunque che le differenze uomo-donna che
i maschi italiani avevano a parole buttato fuori dalla porta in nome di un
riconoscimento di un'ideale uguaglianza tra uomini e donne, rientravano dalla finestra
delle emozioni.
Credo che in quella occasione si fossero materializzate tutte le aporie e le
contraddizioni dei rapporti uomo-donna. Le posizioni che erano emerse dalla
discussione riportavano a due possibilità diverse ma in fondo simmetriche:
«Le figure del maschile e del femminile, gli attributi, i comportamenti, per non
dire i “destini” che sembrano esservi connessi, non hanno mai smesso di creare
incertezze, attese, delusioni, conflitti e sofferenze nello sviluppo degli individui, di
aprire un’inspiegabile divaricazione tra vita pubblica e privata, di fare
intravedere, dietro i mutamenti generazionali, il riproporsi di interrogativi
“eterni”.
La vicenda dei sessi rappresenta perciò uno degli aspetti più vistosi della
convivenza umana, una realtà che è sotto gli occhi di tutti, da cui tutti siamo
mossi, ma che sembra difficile vedere. In altre parole, un’evidenza invisibile, una
forma del vivere che non ci abbandona un istante, ma che ha bisogno, per
imporsi all’attenzione di essere scoperta» (Melandri, 2001, p. 98). 26
«Gli uomini e le donne sono, è ovvio, diversi. Ma non sono così diversi come il
giorno e la notte, la terra e il cielo, lo yin e lo yang, la vita e la morte. Dal punto
di vista della natura gli uomini e le donne sono più simili gli uni alle altre che a
qualsiasi altra cosa – alle montagne, ai canguri o alle palme da cocco. L’idea che
siano diversi più di quanto ciascuno di essi lo è da qualsiasi altra cosa deve
derivare da un motivo che non ha niente a che fare con la natura».
In altre parole, secondo Scott c’è una relazione di reciprocità tra genere e società,
tale per cui le forme e i significati di genere e di potere in una società si determinano
a vicenda.
Qualche anno prima era stato un uomo a dedicare un intero libro a termine genere.
E fra l’altro si trattava a quel tempo di un prete e teologo cattolico. Stiamo parlando di
Ivan Illich (1926-2002) e del suo libro Gender uscito nel 1982. Forse la prima
monografia dedicata al tema. Il libro trae ispirazione da un dialogo tra Illich e la
storica femminista Barbara Duden.
L’aspetto interessante è che in quest’opera Illich intende il genere in un senso
differente e lo contrappone a movimento di neutralizzazione e uguaglianza dei sessi
funzionale alla produzione industriale e capitalistica.
«Io contrappongo il regime della scarsità al regno del genere. Sostengo che la
scomparsa del genere vernacolare è la condizione decisiva dell’ascesa del
capitalismo e di un modo di vivere che dipende da merci prodotte industrialmente»
(Illich, 2013, p. 31).
«Una società industriale non può esistere se non impone certi presupposti
unisex: il presupposto che entrambi i sessi siano fatti per lo stesso lavoro,
percepiscano la stessa realtà e abbiano, a parte qualche trascurabile variante
esteriore, gli stessi bisogni» (Illich, 2013, p. 38).
Quello che Illich vuol dire è che il soggetto produttore e consumatore che la
società industriale postula è un essere umano neutro perché dev’essere inserito
nei cicli di lavoro e consumo, anche se nei fatti determina una polarizzazione sessuale
della forza lavoro.
In altre parole potremmo dire noi oggi che lo sviluppo economico capitalistico
impone un ideale egualitario su base economica (siamo tutti produttori e
consumatori allo stesso modo) ma al tempo stesso questo modello egualitario neutro,
distrugge qualsiasi riconoscimento di differenze vernacolari, e impone una
discriminazione di fatto rispetto al salario economico ma anche rispetto al
riconoscimento del lavoro di riproduzione delle donne o di quello che Illich chiama
“lavoro ombra”. Per Illich le donne sono discriminate negli impieghi, ma sono anche
costrette svolgere un lavoro che è economicamente fondamentalmente non
riconosciuto. Il loro compito diventa «aggiungere valore senza riproduzione a ciò che
produce il lavoro salariato» (p.81).
Illich in questo modo da una spiegazione diversa della provenienza patriarcale delle
discriminazioni economiche. Per Illich, il patriarcato è uno squilibrio di poteri e un
modello di predominio maschile imposto dentro la logica del genere. Ma il sessismo
economico è uno sfruttamento dentro una logica apparentemente neutra del sesso.
Quello che Illich sta cercando di notare è che in passato certamente donne e uomini
svolgevano compiti e lavori differenti, ma le donne non erano obbligate a lavorare in
una forma nascosta o sotterranea. Il lavoro femminile non era disconosciuto o
secondario.
In sintesi per Ilich,
«Il genere è qualcosa di diverso dal sesso e di assai più ampio. Esprime una
polarità sociale che è fondamentale e che non può essere la stessa in due luoghi
diversi» (p. 100).
Illich è stato molto criticato allora dalle femministe americane perché in qualche
modo romanticizzava il genere vernacolare e dava poca rilevanza alle
strutture di ineguaglianza presenti nelle società tradizionali. In questo credo
che le critiche fossero appropriate. 29
D’altra parte a mio avviso Illich ha compreso e messo in luce prima e meglio di
altri la peculiarità del sessismo moderno rispetto alle opposizioni di genere del
passato, delle sue relazioni con lo sviluppo capitalistico, e anche dell’errore di
proiettare su tutte le società tradizionali o non occidentali lo stesso schema di lettura
indotto dal sessismo contemporaneo. Il genere vernacolare è presente in tutte le
società e le culture, ma il grado di riconoscimento sociale, produttivo e riproduttivo,
nonché l’autorità politica, sociale, religiosa di uomini e donne possono variare anche
molto.
Non distinguere questi aspetti secondo me porta a fare molta confusione. Un
esempio di questa confusione è espressa dal sociologo Anthony Giddens quando
dice:
9
H.J.S. Maine, nel suo Ancient Law, del 1861, avanzò la tesi della priorità storica della discendenza
patrilineare sulla discendenza matrinileare sottolineando in particolare il potere dispotico e arbitrario del
patriarca fin nelle società primitive. Al contrario, nello stesso anno, J.J. Bachofen propose la tesi la
priorità storica del matriarcato. Gli studi moderni dell'archeologa Marija Gimbutas sulle culture matriarcali
dell'Europa antica confermerebbero in effetti questa seconda tesi.
«Patriarcato è il potere dei padri: un sistema socio-familiare, ideologico, 30
politico in cui gli uomini – con la forza, con la pressione diretta, o attraverso riti,
tradizioni, leggi, linguaggio, abitudini, etichetta, educazione e divisione del lavoro
– determinano quale ruolo compete alle donne, in cui la femmina è ovunque
sottoposta al maschio» (Rich, 1983, pp. 54-55).
10
Si veda in proposito il classico testo di Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine (Gianini Belotti, 1987).
primaria, pensiamo al ruolo educativo e istruttivo giocato dalla televisione, dai libri,
dalle fiabe, dal cinema, dai fumetti. Ognuno di questi propone dei modelli sessuali che 31
vengono inconsciamente assunti dai bambini. Anche il gruppo dei pari gioca un ruolo
importante nell’apprendimento di tali modelli maschili e femminili.
Dunque torniamo alla nostra discussione sul genere.
Di fondo, il concetto di genere è utilizzato per interrogare e discutere le forme di
disparità sociale e politica tra i due sessi e per denaturalizzare le premesse di questa
subordinazione.
Come hanno notato Simonetta Piccone Stella e Chiara Saraceno,
La questione posta dal genere tuttavia non risolve del tutto la questione della
differenza tra i sessi. Da questo punto di vista non a caso si è aperta nella tradizione
femminista un altro filone di riflessione e discussione politica, quello fondato sul
cosiddetto “pensiero della differenza sessuale”, che trae origine negli anni ’70 dai
lavori di Luce Irigaray in Francia e di Carla Lonzi in Italia, e prende spunto anche
dall’espressione letteraria di grandi autrici del novecento quali Virginia Woolf, Christa
Woolf, Clarice Lispector, Gertrude Stein, Elsa Morante, Ivy Compton Burnett.
Come nota Luce Irigaray in Etica della differenza sessuale,
Da parte sua, Carla Lonzi, nel suo Sputiamo su Hegel, del 1970 chiarisce la
relazione tra il principio di uguaglianza e quello della differenza sessuale:
Nel contesto italiano “il pensiero della differenza” è stato rielaborato e portato
avanti soprattutto dalla Libreria delle donne di Milano11 e dalla Comunità filosofica
di Diotima.12
11
La libreria delle donne di Milano ha aperto i battenti il 15 ottobre 1975 nella sede di Via Dogana 2. Dal
2001 si è trasferita in via Calvi 29.
Le pensatrici della differenza ritengono che il tentativo di non considerare la
differenza sessuale da parte delle donne o di ritenerla meramente una “falsa 32
esteriorità” è dovuto all’esperienza storica del dominio maschile sulle donne e al
tentativo di allontanare l’ombra del biologico come destino della donna, ma si
configura nei fatti come una “decisione semplificatrice” (Diotima, 1987, p. 10). Il
pensiero della differenza sessuale sottolinea che i modelli di femminismo
“emancipazionista”, ovvero quelli basati sull’idea di una mera integrazione delle donne
nel mondo, nelle istituzioni e nel simbolico maschile non hanno fatto altro che
cambiare i termini di un dominio: «dall’inferiorità discriminante ad un’integrazione
mutilante» (Diotima, 1987, p. 32).
L’alternativa perseguita invece è quella del riconoscimento della impossibilità della
donna di dirsi in un linguaggio – quello dell’universalismo maschile - che non la
riconosce in quanto soggetto, della necessità di passare attraverso l’esperienza storica
del separatismo come primo passo verso la costruzione di un simbolico che metta
capo anche all’essere delle donne.
Come ha scritto Adriana Cavarero:
Nelle intenzioni di queste autrici dunque il riconoscimento del “due” non è una
riconferma di un’identità di ruolo strutturata su dualismi e opposizioni tradizionali
come maschile/femminile, cultura/natura, corpo/spirito ecc., ma al contrario un
“pensarsi, qui ed ora, di un vivente storico sessuato al femminile”.
Come possiamo leggere in un testo storico curato dalla Libreria delle donne di
Milano, Non credere di avere dei diritti,
Dunque la differenza non è una differenza oggettivabile e definibile una volta per
tutte ma corrisponde alla possibilità di differire dalla norma maschile ma anche
dall’identità sociale di “genere femminile” o anche dalla propria stessa identità.
Il femminismo della differenza chiarisce anche il campo principale della propria
azione quello di fare uno spazio simbolico a questa differenza. Come nota Luisa
Muraro, ne L’ordine simbolico della madre, “il reale in assenza di simbolico è meno di
niente”:
«La struttura originaria del sapere non è formata dalla pura circolarità di
esperienza e logica. C’è anche la dicibilità come problema di ordine simbolico
storicamente determinato. La dicibilità dipende come problema di ordine
simbolico storicamente determinato. La dicibilità dipende dall’insieme delle
mediazioni che una data cultura assicura. Essa è dunque un’istanza storica senza
essere disgiungibile dall’istanza logica» (Muraro, 1991, p. 98).
12
La comunità filosofica di Diotima ha inizio a Verona nel dicembre del 1983 con un primo nome
provvisorio FF (effe effe), per poi assumere il nome definitivo di Diotima nel 1984.
4. La svolta post-strutturalista 33
Tale discussione su genere, sesso, differenza sessuale, subisce una svolta negli anni
’90, quando emergono poi alcune studiose di impostazione “post-struttualista”,
come Teresa De Lauretis, Judith Butler, Donna Haraway ed altre, che mettono
l’accento sulla dimensione del linguaggio come strumento di costruzione,
rappresentazione e comunicazione del genere e insistono sulla critica degli schemi
dualistici e della stessa nozione di “donna”. Si attacca l’eterosessualità nella sua
dimensione normativa, ovvero nel suo tentativo di affermarsi come unico modello
possibile e nel suo ruolo di consolidamento dell’opposizione binaria uomo/donna.
Judith Butler è considerata una delle più importanti esponenti delle teorie
lesbiche. Alcuni suoi libri come Gender Trouble (in italiano Scambi di genere) e Bodies
That matter: On the Discursive Limit of “Sex” (in italiano Corpi che contano. I limiti
discorsivi del sesso) sono diventati un punto di riferimento per il femminismo
contemporaneo. L’obiettivo polemico della Butler è il paradigma o meglio la
normatività eterosessuale che è responsabile dei processi di costruzione e
definizione dei modelli sessuali su una base binaria e in generale dell’egemonia
maschilista. Judith Butler rifiuta la divisione tradizionale tra sesso e genere, ovvero tra
materia biofisica e costruzione cultuale. A suo avviso non c’è nel corpo una
materialità primigenia che esiste precedentemente alla costruzione di genere ma al
contrario c’è una performatività di genere che da luogo a un processo di
materializzazione che da forma alla materialità dei corpi.
«in tale prospettiva, ciò che costituisce la fissità del corpo, i suoi lineamenti, i
suoi orientamenti, sarà visto come pienamente materiale; ma la materialità sarà
riconsiderata come effetto del potere, anzi l'effetto più produttivo del potere»
(Butler, 1996, p. 2).
«Perché negare il fatto – si domanda Judith Butler – che vi possano essere delle
occasioni in cui la mascolinità si manifesta nella donna e che femminile e
maschile non appartengano a corpi di sesso diverso?» (Butler, 2006, p. 231).
«La teoria stessa è costruita attorno all'affermazione che non ci sono sessi dati di
natura ma il sesso sia qualcosa esclusivamente ascritto alle norme della società.
[…] Alla fine dei conti questa è una posizione altrettanto fondamentalista. Rende
omaggio al fondamentalismo biologista semplicemente negando le condizioni
naturali, dandogli il peso opprimente della presenza della cosa negata. Di nuovo
la natura si separa e si isola dal processo sociale, nuovamente è dichiarata
morta. Ma la natura non è un ente statico separato del processo storico e sociale.
Natura e società umana si trasformano influendosi mutuamente senza che possa
delinearsi chiaramente da dove parte l'impulso iniziale. Basta guardare lo
sviluppo della specie dell'homo sapiens e del territorio che lo ospita insieme con i
cambiamenti climatici. Che cosa è causa, che cosa è effetto?».
(Veronika Bennholdt-Thomsen, 2016, p. 154)
D'altra parte il pensiero di Judith Butler non va ricondotto ad una posizione troppo
semplificata. La studiosa americana ha avuto modo negli anni di riformulare e chiarire
il suo pensiero anche tenendo conto delle critiche che le sono state mosse e dei
malintesi che alcune sue analisi avevano prodotto. In questo senso Butler ha avuto
modo di chiarire sua proposta di “fare e disfare” il genere non significa abolire le
categorie di sesso e di genere ma piuttosto disfare delle norme restrittive di
genere per trovare modalità più aperte e produttive per risignificare quegli
stessi riferimenti.13
«Credo che per molti la realtà che struttura la differenza sessuale non possa
essere ignorata, contrastata, e nemmeno ragionevolmente rivendicata. Essa è
forse più simile allo sfondo necessario alla possibilità del pensiero, del linguaggio
e dell’essere un corpo nel mondo. Chi ne dubita mette in discussione la struttura
stessa che rende possibile l’argomentazione. A volte si liquida il problema con un
po’ di ironia: pensiamo di poter fare a meno della differenza sessuale, ma è
proprio il nostro desiderio di sbarazzarcene a rappresentare un’ulteriore prova
della sua persistenza ed efficacia» (Butler, 2014, p. 264)
Per Butler dunque il punto non è far fuori la differenza sessuale ma piuttosto
tener conto che questa differenza non va considerata un dato o una
premessa ma un quesito che esige una riflessione e una ricerca, qualcosa che va
più o meno permanentemente interrogato.
13
Si veda per esempio l’intervista di Anna Simone “Judith Butler: Per fare movimento mettiamo a frutto
quello che ci divide”, in Liberazione, 3 maggio 2008.
data, né totalmente costruita: è entrambe le cose. Questa sua costitutiva
“parzialità” resiste a ogni senso di “partizione”» (Butler, 2014, p. 276). 36
5. Conclusioni
GENERE/VIOLENZA
Ancora oggi le relazioni tra uomini e donne sono molto segnate dalla violenza.
Secondo l'indagine ISTAT 2015 (dati 2014)" LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
DENTRO E FUORI LA FAMIGLIA", la violenza contro le donne è fenomeno ampio e
diffuso. Ecco alcuni dati che emergono da questa ricerca:
• 6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita una
qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i
70 anni: il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme
più gravi di violenza sessuale come stupri e tentati stupri. Sono 652 mila le donne
che hanno subìto stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri.
• Le donne straniere hanno subìto violenza fisica o sessuale in misura simile alle
italiane nel corso della vita (31,3% e 31,5%). La violenza fisica è più frequente fra
le straniere (25,7% contro 19,6%), mentre quella sessuale più tra le italiane
(21,5% contro 16,2%). Le straniere sono molto più soggette a stupri e
tentati stupri (7,7% contro 5,1%). Le donne moldave (37,3%), rumene (33,9%)
e ucraine (33,2%) subiscono più violenze.
• I partner attuali o ex commettono le violenze più gravi. Il 62,7% degli
stupri è commesso da un partner attuale o precedente. Anche le violenze
fisiche (come gli schiaffi, i calci, i pugni e i morsi) sono per la maggior parte opera
dei partner o ex. Gli sconosciuti sono nella maggior parte dei casi autori di molestie
sessuali (76,8% fra tutte le violenze commesse da sconosciuti).
• Il 10,6% delle donne ha subìto violenze sessuali prima dei 16 anni.
Considerando il totale delle violenze subìte da donne con figli, aumenta la
percentuale dei figli che hanno assistito ad episodi di violenza sulla propria madre
(dal 60,3% del dato del 2006 al 65,2% rilevato nel 2014)
• Le donne separate o divorziate hanno subìto violenze fisiche o sessuali in
misura maggiore rispetto alle altre (51,4% contro 31,5%). Critica anche la
situazione delle donne con problemi di salute o disabilità: ha subìto violenze fisiche
o sessuali il 36% di chi è in cattive condizioni di salute e il 36,6% di chi ha
limitazioni gravi. Il rischio di subire stupri o tentati stupri è doppio (10% contro il
4,7% delle donne senza problemi).
• Emergono importanti segnali di miglioramento rispetto all’indagine
precedente: negli ultimi 5 anni le violenze fisiche o sessuali sono passate
dal 13,3% all’11,3%, rispetto ai 5 anni precedenti il 2006. Ciò è frutto di una
maggiore informazione, del lavoro sul campo ma soprattutto di una migliore
capacità delle donne di prevenire e combattere il fenomeno e di un clima sociale di
maggiore condanna della violenza.
• E’ in calo sia la violenza fisica sia la sessuale, dai partner e ex partner (dal
5,1% al 4% la fisica, dal 2,8% al 2% la sessuale) come dai non partner (dal 9% 39
al 7,7%). Il calo è particolarmente accentuato per le studentesse, che passano dal
17,1% all’11,9% nel caso di ex partner, dal 5,3% al 2,4% da partner attuale e dal
26,5% al 22% da non partner.
• In forte calo anche la violenza psicologica dal partner attuale (dal 42,3% al
26,4%), soprattutto se non affiancata da violenza fisica e sessuale.
• Alla maggiore capacità delle donne di uscire dalle relazioni violente o di prevenirle si
affianca anche una maggiore consapevolezza. Più spesso considerano la
violenza subìta un reato (dal 14,3% al 29,6% per la violenza da partner) e la
denunciano di più alle forze dell’ordine (dal 6,7% all’11,8%). Più spesso ne
parlano con qualcuno (dal 67,8% al 75,9%) e cercano aiuto presso i servizi
specializzati, centri antiviolenza, sportelli (dal 2,4% al 4,9%). La stessa
situazione si riscontra per le violenze da parte dei non partner.
• Si segnalano però anche elementi negativi. Non si intacca lo zoccolo duro
della violenza, gli stupri e i tentati stupri (1,2% sia per il 2006 sia per il 2014).
Le violenze sono più gravi: aumentano quelle che hanno causato ferite (dal
26,3% al 40,2% da partner) e il numero di donne che hanno temuto per la
propria vita (dal 18,8% del 2006 al 34,5% del 2014). Anche le violenze da parte
dei non partner sono più gravi.
• 3 milioni 466 mila donne hanno subìto stalking nel corso della vita, il 16,1%
delle donne. Di queste, 1 milione 524 mila l’ha subìto dall’ex partner, 2 milioni 229
mila da persone diverse dall’ex partner.
• Sono state 152 le donne uccise in Italia nel 2014; c’è stato un calo
complessivo del 15,1% di femminicidi rispetto al 2013 (179 casi) .
• Di queste morti, 117 sono state causate in ambito familiare, numero molto
simile ai 122 casi del 2013, e 35 per mano criminale. Evidente la responsabilità
dell'uomo, 'protagonista' nel 94% dei casi, quasi allo stesso modo dei familiari
(77%).
• Il numero dei femminicidi nel Sud nel 2014 è diminuito del 42,7%% (da 75 a 43), a
fronte di una crescita dell'8,3% a Nord (da 60 a 65) e di una certa stabilità al
Centro (44 vittime).
• Al primo posto a livello regionale la Lombardia (con 30 vittime nel 2014, in
aumento del 58% rispetto alle 19 vittime del 2013). Casi in aumento anche in
Toscana (da 13 a 16), in Veneto (da 4 a 7), Basilicata (da zero a 3), Liguria (da 4 a
5) e Sicilia (da 18 a 19), che, insieme al Lazio, si colloca al secondo posto per
numero di vittime censite nel 2014 (19 in entrambe le regioni).
• Sul fronte opposto la flessione più rilevante si osserva in Campania (da 20 a 7
vittime), Puglia (da 15 a 4) e Calabria (da 10 a 3), mentre nessun femminicidio
si conta nel 2014 in Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Molise e
Valle d'Aosta.
• A livello provinciale, nel 2014, in linea con la dinamica osservata a livello regionale,
è Milano, con 14 vittime, a registrare il maggior numero di donne uccise nel
proprio territorio (erano 6 nel 2013), seguita da Roma con 13 femminicidi (due
in più rispetto agli 11 del 2013); seguono Torino (con 8 vittime) e Firenze, dove
il numero dei femminicidi passa da un solo caso nel 2013 a ben 7 casi nel 2014. 40
In totale in quindici anni dal 2000 al 2014 sono stati commessi in italia 2551
femminicidi.
Gli autori sono persone comuni, di tutti gli strati sociali, di tutti i livelli di istruzione, di
tutte le provenienze geografiche, di tutte le professioni. Generalmente questi soggetti
negano di essere violenti o addirittura di aver usato violenza. Tra le persone che ho
incontrato e intervistato ho riscontrato che le forme della negazione possono essere
differenti:
Tuttavia questo non vuol dire che non sanno per nulla cosa hanno fatto. Anzi per certi
versi è proprio la gravità, il peso della colpa che li porta a rimuovere la
consapevolezza. In tutti i modi talvolta arriva un momento in cui si rendono conto di
aver commesso qualcosa di grave, forse di irreparabile. Di aver rotto qualcosa. O
semplicemente faticano a riconoscersi. In generale dunque occorre un lavoro
riflessivo o psicologico per divenire consapevoli di quello che hanno commesso e per
sentirsi finalmente responsabili delle proprie azioni.
Un aspetto che mi ha colpito è che gli stessi autori manifestano una reale o
presunta ignoranza sulle ragioni o sulle dinamiche di questa violenza.
Nei pochi casi in cui gli uomini che ho incontrato hanno ammesso almeno in parte il
loro comportamento, se gli chiedevo di fare delle ipotesi sulla violenza, di provare a 41
spiegare le radici, perché credono di agire questa violenza non sanno bene cosa
rispondere. Vediamo alcune possibili risposte:
«Mi sento nervoso, ferito, sottovalutato. Non è la vera causa. Non so dire il vero
perché…». [A1]
«Non so come spiegarmelo neanch’io. Di solito quando bevevo”. “Mi piaceva bere
per nervosismo». [A2]
«Non si litiga mai per le cose grosse, ma per le stronzate. È un accumulo». [A3]
«Al di là della parola siamo animali. Il cane quando non può più ringhiare apre la
bocca e se non viene capito morde. Se non c’è più riscontro col dialogo…. Sono cose
della natura umana». [A1]
Si aggiunge inoltre:
Dunque in un’ampia percentuale di casi gli autori hanno assistito o direttamente subito
violenze nella famiglia di origine. Come si può comprendere questo fenomeno?
In alcuni casi la violenza è l’unica modalità di comportamento appresa e
riproducibile automaticamente in certe circostanze a meno che non intervengano
risorse, strumenti differenti.
Occorre tener presente la peculiarità di quelle fasi che riguarda la socializzazione
primaria, che avviene nello stadio infantile, attraverso le relazioni con figure
fondamentali dal punto di vista affettivo: la madre, il padre o affini. In questa fase si
apprende a vedere la realtà attraverso gli occhi di queste figure più prossime.
In altre parole si interiorizza la visione delle cose che ci viene trasmessa dai
genitori e in qualche modo la si oggettivizza. I ruoli, le idee, le rappresentazioni,
le convinzioni dei genitori divengono anche i propri. Questa percezione della realtà
diventa qualcosa di assoluto, di rigido, di indiscutibile.
Occorre inoltre considerare le dinamiche psicologiche che generano paura, terrore,
senso di impotenza. Da una parte si può attivare un senso di colpa perché ci si sente
responsabili di quell'aggressività o violenza. Oppure ci si sente impotenti perché non
si è stato in grado di difendere la propria madre o la propria sorella.
La socializzazione primaria, avviene nello stadio infantile, attraverso le relazioni con figure
14
fondamentali dal punto di vista affettivo: la madre, il padre o affini. In questa fase si apprende a vedere
la realtà attraverso gli occhi di queste figure più prossime. In altre parole si interiorizza la visione delle
cose che ci viene trasmessa dai genitori e in qualche modo la si oggettivizza. I ruoli, le idee, le
rappresentazioni, le convinzioni dei genitori divengono anche i propri. Questa percezione della realtà
diventa qualcosa di assoluto, di rigido, di indiscutibile. La socializzazione secondaria invece interviene in
una fase successiva della vita della persona. Ha a che fare con l’ingresso in altri contesti sociali non
primari, ovvero non connotati in maniera così forte dal punto di vista affettivo. Pensiamo alla scuola, al
gruppo di amici, alla parrocchia, al partito, al mondo del lavoro. Confrontandosi con questi nuovi contesti
via via si impara che il mondo appreso e interiorizzato dai genitori non è l’unico esistente, è solo una
percezione della realtà tra le tante possibili.
O ancora si può essere costretti a solidarizzare con il genitore violento contro
l'altro fino ad assumere quel ruolo ottenendo una qualche effimera forma si sicurezza 43
e controllo.
Nelle interviste che ho fatto in alcuni casi è emersa una connessione significativa
con forme di violenze subite in passato. Anche in questi casi gli autori non riconoscono
un legame tra ciò che si è subito e ciò che si è agito.
«Avrò ricevuto uno schiaffo una volta da mio padre. Da mia madre tutti i giorni.
Ma quando mio padre mi guardava io dovevo filare. Anche per quello che diceva
mia madre. Ora guai a dare uno schiaffo. Capita di dover dare un
accompagnamento [mima il gesto di una patacca sul sedere] o la metto in
punizione per 5 minuti. È quello che dicono tutti. A me un ceffone mi faceva
capire dove arrivare». [A3]
L’esperienza appresa dunque è quella per cui la violenza che fa ordine, che ha una
finalità educativa e di limitazione è accettabile. Naturalmente molti uomini
richiameranno questa funzione anche nel rapporto con le donne.
Sappiamo inoltre che l'esposizione prolungata alla violenza in determinati contesti
sociali può trasferirsi anche nel contesto famigliare. Esistono diverse ricerche che
evidenziano una crescita della violenza tra le famiglie dei militari e dei reduci in
particolare. È Come se la violenza avesse un riverbero che si trasmette da uno spazio
ad un altro e da un tempo ad un altro.
Non c’è ovviamente nessuna causalità meccanica. In diversi dei casi che ho
incontrato il maltrattante non ha alle spalle una vicenda di violenza subita o assistita
in famiglia. O non ha proprio dei genitori inclini alla violenza.
Un intervistato addirittura mi ha raccontato: “[I miei genitori] mi rimproveravano.
Mi dicevano di smettere. Io rispondevo: fatevi i fatti vostri. Ognuno comanda a casa
sua. Sono stato un tipo immaturo”.
Anche un altro uomo intervistato mi ha detto cose simili: “Mio padre mi dice che
così non si usano queste cose. Io sto con lei da 28 anni e mai mi sono azzardato a
fare una cosa del genere”. “Mi diceva che ero uno stronzo”.
Oltre a tutto questo è possibile riconoscere che quete dinamiche entrano dentro i
percorsi di costruzione identitaria del senso di sé da parte degli uomini.
Per esempio a un uomo ho chiesto la prima situazione in cui ha usato violenza
nella sua vita.
“La prima volta a 14 anni ... . Due persone avevano dato fastidio a mia sorella di
13 anni. L’avevano importunata. Io gli ho detto di lasciarla stare e poi una parola lui
una io….”
Molti altri avevano alle spalle molte vicende di violenze tra uomini (risse,
scazzottate o anche atti punitivi) che per loro erano cose normali.
Agli uomini fa problema la violenza contro le donne in quanto concepite come più
deboli, ma la violenza tra uomini è ampiamente normalizzata.
Il fatto concreto della violenza maschile sulle donne è infatti espressione di un
immaginario culturale specifico - quello patriarcale - che in misura minore o maggiore
ci riguarda tutti. Naturalmente anche nella nostra tradizione esistono subculture o
ambienti familiari o soggetti più sani ed equilibrati, ma in termini generali si deve
riconoscere che l’immagine del dominio maschile sul corpo femminile impregna a più
livelli la nostra cultura e la nostra società. In questi termini i fantasmi di queste
violenze fisiche o sessuali ci riguardano tutti e condizionano comunque le nostre
relazioni con le donne. Molti uomini in un momento o in un altro, sono stati
attraversati da questo fantasma, molti hanno sentito che la possibilità della violenza
era iscritta nel nostro immaginario, nella nostra cultura, nella nostra storia.
A me pare che la questione fondamentale sia riconoscere che la violenza nelle sue
diverse forme è un tratto ricorrente e per molti aspetti fondante delle esperienze di
identificazione e socializzazione maschile. La violenza cioè è un elemento
importante nella costruzione dell’identità maschile e mantiene un ruolo
importante nelle forme di apprendimento e di costruzione di legami sociali.
Fin da piccoli gli uomini imparano che la propria identità sessuale non è scontata,
non è certa. È invece qualcosa di dubbio, di precario, di instabile. La propria identità
deve essere costruita, affermata, testimoniata continuamente.
La possibilità di conformarsi ad un certo ordine maschile o di sottrarsi ad esso
comincia molto presto. Fin da piccolo al giovane maschio sono richieste prove di forza,
di coraggio, di affermazione di sé nel confronto con altri. Fin dalle scuole medie
inferiori i ragazzi danno luogo a delle piccole bande e vanno ad esibire in giro la
propria presunta virilità. Vanno a cercare lo scontro con altri ragazzi per mostrare
forza e coraggio. Anche quando non accade nulla ad ogni modo lo scontro è
continuamente evocato e simbolizzato nel linguaggio, nel comportamento, persino nel
modo di vestire.
Tutto questo ci dice appunto che l’identità maschile è qualcosa di molto incerto, e
che molti comportamenti maschili avvengono non per spinte semplicemente
individuali ma anche nella cornice dello sguardo e della relazione sociale anzitutto con
altri maschi. 45
In molte culture e in molte subculture esistono e vengono ricreati dei rituali per
simbolizzare il passaggio del giovane nel mondo degli adulti, il diventare uomo. Molti
di questi rituali sono connessi ad esperienze di violenza e di dolore. Ad esempio alcuni
rituali di guerra avrebbero svolto e ancora svolgerebbero la funzione di far rinascere il
giovane guerriero nel mondo maschile, in contrapposizione alla nascita biologica
avvenuta dal corpo femminile. Anche il simbolismo della prova del sangue - che molte
culture tradizionali per esempio richiedevano ai giovani maschi come condizione per
potersi sposare - funzionerebbe quindi come rito di passaggio al mondo degli uomini
adulti. In altri contesti – per esempio nelle organizzazioni mafiose, in quelle criminali
talvolta in alcune gang di strada - gli atti di violenza rappresentano dei testi da
affrontare e superare per essere ammessi nella comunità maschile.
È come se i giovani uomini dovessero dunque procurare e procurarsi artificialmente
le ferite e dunque le rotture simboliche che segnerebbero la discontinuità evolutiva
nello sviluppo del sé maschile.
Anche nelle società contemporanee e in contesti molto comuni vengono
continuamente inventati e ridefiniti riti e rituali di maschilità. Le stesse modalità
continuano nei gruppi di adolescenti, nei quartieri, nelle manifestazioni sportive, nel
tifo negli stadi.
Sia in alcune manifestazioni di tifo, sia in alcune manifestazioni politiche, voi potete
trovare gruppi di giovani maschi provocatori che ricercano esplicitamente lo scontro
con la polizia e con le forze dell’ordine. Il motivo molto spesso non va ricercato in un
obiettivo politico o in un episodio concreto, ma nel fatto che questo scontro
rappresenta un terreno di manifestazione della propria maschilità.
In questi casi il carattere espressivo e identitario della violenza prevale su qualsiasi
obiettivo o motivazione esterna o dichiarata. Ci si mostra aggressivi e violenti per
mostrarsi “maschi”, per sentirsi forti, coraggiosi, indifferenti alla paura e al dolore.
Questo aspetto teatrale della violenza, la sua rappresentazione è rivolta sia al mondo
maschile per stabilire dei meriti, degli onori, delle gerarchie, sia al mondo femminile
poiché si ritiene che la forza e l’audacia siano caratteristiche vincenti.15
Anche la violenza maschile sulle donne presenta caratteristiche di questo tipo.
Certamente quando viene esercitata in gruppo, ma spesso anche nei contesti
famigliari. Per non parlare di contesti particolari dal punto di vista simbolico. Non so se
ricordate per esempio la dichiarazione nell’ottobre del 2006 del presidente Russo
Vladimr Putin nel corso di un incontro con il premier israeliano Ehud Olmert al
Cremlino. Pensando che i microfoni dei giornalisti fossero spenti fa una battuta con
Olmert a proposito del presidente israeliano Katsav sotto accusa per diversi episodi di
violenza sessuale. Putin avrebbe detto “Katsav si è rivelato un uomo forte, ha
struprato ben dieci donne! Non me lo sarei mai aspettato da lui. Ci ha sorpreso tutti,
lo invidiamo”.16
Pensate il presidente della Russia, che ragiona in questi termini. La violenza
maschile diventa un vanto, un prestigio perfino per i più potenti.
La violenza sessuale dunque lega un piacere sessuale ad un piacere dettato dal
senso di potenza e di superiorità del maschio e contemporaneamente ad una
sottomissione e degradazione imposta alla donna.
Per questo stesso motivo alcune donne apprezzano un certo tipo di immagine maschile ma poi
15
incappano nelle conseguenze di questo genere di mentalità una volta che questa idea di virilità viene
rivolta da questi uomini contro loro stesse. In qualche modo bisogna comprendere queste associazioni e
diminuire il prestigio sociale che questo immaginario virile ha in generale non solo quando si fa
esplicitamente violento.
Si veda La repubblica del 20 ottobre 2006, «Gaffe di Putin: “Che uomo forte Katsav ha stuprato 10
16
donne, lo invidiamo”.
La violenza come controllo e regolazione 46
Sempre più negli ultimi anni la forza e la solidità delle strutture patriarcali è venuta
meno. Non che non ci siano disuguaglianze, forme di sfruttamento e di violenza, ma la
legittimazione sociale verso tutto questo sta pian piano venendo meno. C'è una
crescente autonomia e indipendenza delle donne che entra in tutti gli aspetti della vita
sociale dalla sessualità, alla procreazione, dalla famiglia, al lavoro e agli aspetti
economici. Queste trasformazioni sociali stanno supportando il cambiamento delle
forme di relazione tra uomini e donne, facendo emergere la richiesta di una relazione
su un piano di parità, di riconoscimento reciproco, di accettazione di autonomia e di
libertà di due soggetti. Spesso gli uomini si trovano spiazzati di fronte a questo
mutamento delle forme di relazione. In questi casi la violenza può emergere come
reazione distruttiva ad un senso di inadeguatezza nel mutamento delle relazioni e di
impotenza a fronte di scacchi relazionali.
Per tutta l’epoca pre-moderna e fino a tempi recenti il matrimonio è stato regolato
da leggi e consuetudini17: divisioni dei compiti, del lavoro, dell’economia e dell’eredità,
della sessualità, della fede e della religione. Il matrimonio non serviva la ricerca della
felicità delle persone ma serviva l’ordine sociale, la stabilità, il mantenimento del
potere e della ricchezza, la costruzione di alleanze e la garanzia di una discendenza, la
salvaguardia della virtù femminile e dell’onore maschile. La famiglia era per una certa
classe sociale un’alleanza sociale-politica e per un’altra classe sociale un’unità
economica-produttiva. A partire dal Medioevo l’introduzione di elementi ecclesiastici
porta progressivamente a definire anche la forma canonica del matrimonio. Questi
aspetti economici, politici, religiosi, sono stati per tanto tempo assai più rilevanti e
vincolanti delle dimensioni affettive e sentimentali e della volontà stessa degli
individui.
In alcune popolazioni e culture, sia europee che extraeuropee, il matrimonio è stato
per molto tempo (e in alcuni contesti continua ad essere) un accordo tra gruppi
familiari, volto a stabilire legami e a garantire una certa linea di discendenza; rispetto
a questi fattori né il consenso né tantomeno il desiderio della sposa avevano
particolare rilevanza. Già col il diritto romano l’autorità e l’ordine sociale coincidevano
di fatto con l’autorità e il potere del capofamiglia maschio. La donna che si sposava
entrava a far parte della nuova “famiglia”, passando dal controllo paterno a quello del
marito.
Nell’ultimo secolo la famiglia è andata incontro a grandi cambiamenti. Dapprima ha
perso le connotazioni politiche e produttive e ha rafforzato quelle morali, religiose e
giuridiche. In seguito con i processi di secolarizzazione e individualizzazione le
connotazioni tradizionali sono via via venute meno per far emerge sempre di più le
aspettative e i progetti delle singole persone. In tempi recenti il matrimonio ha iniziato
a rappresentare sempre più il perseguimento di un ideale di relazione e di vita, un’idea
di realizzazione individuale e interpersonale.
Quello che è successo alle forme matrimoniali è indicativo di un cambiamento più
generale nella natura delle relazioni tra i sessi e delle unioni familiari. Oggi ci troviamo
in una situazione caratterizzata da quelle che il sociologo inglese Anthony Giddens
17
Su questi aspetti si veda Beck (2000 e 2008), Giddens (1995 e 2000), Attali (2008).
chiama “relazioni pure”.18 Per relazioni pure si intendono relazioni non dettate da
obblighi sociali, economici o religiosi ma fondate sui benefici che ciascun soggetto 49
ritiene di avere finché rimane in un rapporto continuativo con l’altro.
Di fatto le relazioni oggi si fondano sulla comunicazione e sull’intesa
emozionale. Tale intesa in passato non era la base dei legami familiari che
rispondevano ad altri obiettivi (anche se naturalmente era benvenuta quando si
creava), oggi al contrario ne è il principale presupposto e fondamento.
Dunque se in passato le relazioni famigliari erano costruite su ruoli, obblighi,
progetti economici, relazioni di potere, e talvolta di coercizione, oggi questo genere di
legami riposano piuttosto sulla capacità di comunicare comprendersi, sulla capacità di
stabilire rapporti di intimità, sulla fiducia e sul rispetto, sulla disponibilità al dialogo e
sull’adattamento reciproco. Il rapporto, in altre parole, non è dato una volta per
tutte è frutto di un dialogo, di una contrattazione, di un’intesa e di una fiducia che va
costantemente riaffermata.
Naturalmente questo non significa che non ci sono più costrizioni. Ancora oggi
esistono influenze esterne – per esempio di natura economica o religiosa - ma
evidentemente queste sono meno rigide e codificate e nei fatti la pratica quotidiana
stabilisce numerosi adattamenti. In tutti i modi la relazione di coppia o famigliare
non è superiore alle parti e non trova un fondamento esterno ma coincide e
finisce con l’interesse e la volontà dei due soggetti.
La forma più chiara di questa tendenza viene dall’estendersi delle cosiddette
“unioni di fatto” che altro non sono che l’esemplificazione di una relazione che è tale
solamente finché i due soggetti – e nessun altro - la riconoscono come tale. Ovvero
finché la relazione si dimostra tutto sommato soddisfacente o fonte di benefici per
entrambe le parti.
Da qui dunque la trasformazione dei legami familiari, la precarietà delle relazioni,
l’alto tasso dei divorzi, la pluralità dei modelli familiari, il diffondersi delle convivenze o
delle famiglie ricostruite o complesse.
Che cosa ha significato questo cambiamento?
In primo luogo ha significato la crisi di un universalismo neutro: la finzione di
un discorso in cui le differenze vengono rimosse e in cui il soggetto maschile si arroga
il diritto di parlare a nome di tutti e finisce col non parlare di nessuno. In concreto
questo ha significato al contempo la fine di una finta autoevidenza maschile.
18
Si veda la descrizione che Anthony Giddens fa delle relazioni pure in Giddens, 1995, p. 68 e Giddens,
2000, p. 78.
«L’idea che “gli uomini non sono capaci di amare” è completamente falsa e non
andrebbe utilizzata […] per descrivere le difficoltà degli uomini alle prese con la 50
sfera intima. Buona parte della sessualità maschile è mossa dalla ricerca
frustrata dell’amore, il quale, tuttavia, appare al tempo stesso temuto e
desiderato. Molti uomini sono incapaci di amare gli altri su un piano di parità, in
condizioni di intimità, ma sono perfettamente in grado di offrire amore e cure a
coloro che detengono meno potere, come le donne e i bambini» (Giddens, 1995,
p. 143)
«[Gli uomini e le donne] sono uguali ma in certi casi l’uomo deve fare l’uomo e la
donna de fare la donna. Se in questa stanza si rompe la lampada, L’uomo deve
fare lui. La donna deve fare la spesa e accompagnare il ragazzino. L’uomo deve
fare i lavori più pesanti. Ma nei sentimenti sono uguali. La donna ha i suoi
diritti». [C2]
«La donna cosa fa? Si alleva la prole. Tiene insieme tutte le cose che deve fare.
L’uomo porta avanti la baracca. La sera stanno insieme. La domenica se ne
vanno a spasso. Cercano di tirar su i figli. Finito, vite abbastanza semplici». [A6]
«L’uomo è uomo, la donna è donna. La parità ok, ma come stira una donna non
può stirare un uomo e come porta a casa la carretta l’uomo… Quando i ruoli
cominciano a invertirsi… La donna deve impegnarsi nelle faccende di casa, nella
conduzione della famiglia. Se vuole andare a lavorare va a lavorare. Ma può
stare a casa, ci posso pensare io. […] Certo io oggi mi trovo a fare il padre ma
anche la pappina. [però] in natura è così: il padre porta il becchime, ma chi lo
mette in bocca è la madre. Forse questo si è perso. Ma non sono maschilista».
[A3]
L'ordine maschile si da per scontato, non deve argomentare nulla. È la 52
norma, il senso comune; si fonda sull'oggettività delle strutture sociali. In
questo senso è importante tener conto di quella che Pierre Bordieu chiamava una
"violenza simbolica" (Bordieu p. 43) e un "confinamento simbolico" (Bordieu, Il
dominio maschile, p. 38).
Certi atti non sono effettivamente pensati, nel senso che provengono da un
adesione profonda ad alcuni schemi di percezione/valutazione/azione che
concretamente definiscono delle "disposizioni" (Bordieu p. 50). Dunque il
cambiamento non avverrà semplicemente con una semplice conversione delle
coscienze e delle volontà ma solamente attraverso «una trasformazione radicale delle
condizioni sociali di produzione delle disposizioni» (Bordieu, p. 53).
Tutto questo porta gli uomini a pensare che se stanno vivendo qualche difficoltà o
sofferenza, deve essere per forza il frutto di una volontà o di una perfidia della donna.
Spesso gli uomini violenti nel loro racconto forniscono una lettura auto vittimizzante.
Sono loro vittime delle donne che li criticano, li rifiutano, li respingono, li tradiscono, li
abbandonano.
«[…] Non hanno l’ideale della famiglia. Mio padre ha cresciuto 12 figli. Solo qua
[al Nord n.d.c.] succedono queste cose perché la legge difende la donna perché è
più debole. E lei può permettersi di fare quello che vuole. Fa la zoccola». [C6]
(italiano)
«Le donne vanno a scopare con gli altri e quando viene fuori la marmellata la
violenza l’ha fatta il marito. […] Quello che conta è l’onestà, crescere i figli,
difendere la mia moralità. Alla fine le donne fanno le cose immorali e la denuncia
viene fatta al marito. […] Mi accusano di violenza, ma è mia moglie. […] Andare
con gli altri non basta, deve anche denunciare il marito. […] Io non lo posso
accettare. Se la donna scopa e non vedi via d’uscita cosa fai? Succedono gli
omicidi perché non lo difende nessuno l’uomo. Prendono e mi mandano in galera.
[…] Nella denuncia dice “mi picchiava e mi violentava”. Ha scritto tante cose che
io non so…». [C8] (straniero)
Queste due testimonianze sono di due persone diverse per nazionalità, cultura e
verosimilmente religione. Eppure ripropongono schemi culturali assolutamente
identici.
Quello che emerge è la totale mancanza di riflessività. Non riconoscono le
loro difficoltà emotive, affettive, i propri scacchi, come qualcosa inerente alla
propria condizione di essere umano o all’essere esposti in una relazione libera in
cui si è di fronte ad un’altra soggettività, e in cui la relazione dipende dalla
valorizzazione e dal riconoscimento reciproco.
Un elemento su cui meditare è che solo il 18,2% delle donne che hanno
subito violenza fisica o sessuale in famiglia considera la violenza subita un
reato. Il 44% la considera qualcosa di sbagliato, il 36% solo qualcosa che è accaduto.
Solo il 7,2% della violenza in famiglia è stata denunciata.
Dunque la famiglia non è solo l’ambito in cui la violenza maschile contro le donne si
dispiega maggiormente, ma un ambito in cui è difficile che venga riconosciuta. Questo
non ci deve stupire è il frutto di una lunga storia sociale e culturale che solo
recentemente è cominciata a mutare. 53
Abbiamo visto come per secoli la donna maritata veniva considerata
proprietà del marito e di fatto il coniuge, con il contratto matrimoniale acquisiva
un diritto di accesso al corpo della moglie. Di fatto dunque, le forme di violenza
sessuale e di stupro non erano riconosciute in ambito coniugale. Senza contare che in
molti paesi del mondo è ancora molto diffuso il matrimonio forzato.
In Italia è solo a partire dal 1978 che una serie di sentenze della
Cassazione porteranno a riconoscere lo stupro come tale anche se compiuto
dal marito.
Pensate che è solo con l'articolo 1 della legge n. 442 del 5 agosto 1981 che viene
modificato il Codice Rocco riguardo alle cause d'onore. In particolare venne abrogato
l'articolo 544 del codice penale italiano che ammetteva il "matrimonio riparatore":
secondo questo articolo del codice, l'accusato di delitti di violenza carnale, anche su
minorenne, avrebbe avuto estinto il reato nel caso di matrimonio con la persona
offesa.
La stessa legge abroga anche quegli articoli (587 e 592) che riguardavano i delitti
per causa d'onore. Ovvero che riservava un particolare favore (pene molto lievi) a
coloro che commettevano omicidio o lesioni personali per difendere il proprio onore.
La donna (la moglie, la figlia o la sorella) era dunque l’oggetto, il contenitore
dell’onore, mentre l’onore apparteneva al soggetto maschile con cui la donna era in
relazione.
È invece con la legge n. 66 del 15 febbraio 1996, Norme contro la violenza
sessuale, che intervenendo ancora sul codice “Rocco” si riconosce che la violenza
sessuale non è reato contro la morale, ma contro una persona, con le modifiche
importanti che ciò comporta dal punto di vista giudiziario.
Tuttavia questa mentalità non è ancora del tutto sparita. Per molti uomini la moglie
o la partner devono essere sessualmente sempre disponibili e corrispondere alle voglie
del compagno, in virtù del legame che li unisce. In altre parole il legame
nell’immaginario maschile è visto ancora come un diritto di accesso e non come un
impegno all’ascolto e al rispetto delle soggettività e dei desideri.
Come ha detto una delle persone che ho intervistato.
«Noi meridionali crediamo più nella famiglia e non nel tradimento. Ho subito
un tradimento da parte di mia moglie. Mi ha portato a fare delle cose… […] Alla
fine mi hanno dato “violenza sessuale” dopo aver fatto due figli con lei. Quello mi
hanno dato, l’Art. 609 (bis)». [C6]
La permanenza di questa cultura spiega perché oggi sia molto difficile venire
denunciati e tantomeno condannati per violenze sessuali in ambito coniugale.
Come ha notato la Giornalista Luisa Betti ancora oggi
«lo stupro, ancor più della violenza fisica, all’interno di una relazione intima o
di un matrimonio, è considerato una violenza di serie B: un fatto per cui se non
arrivi massacrata o lacerata, o addirittura morta, non è dimostrabile fino in
fondo»19.
19
Luisa Betti, “Perché lo stupro coniugale è un tabù, e non solo in Italia”, Donne x Diritti, 8/10/2014,
http://bettirossa.com.
La questione dell’ordinarietà della violenza non interroga solamente gli uomini, o
la posizione maschile, ma va al cuore stesso delle relazioni affettive, della loro natura 54
e delle loro caratteristiche. La violenza è talmente intrecciata alle nostre relazioni che
spesso anche per le stesse vittime è difficile riconoscerla.
Un altro aspetto cruciale nella comprensione delle nuove forme di violenza è quello
relativo ai femminicidi. Non è certo un caso che in misura rilevante i femminicidi
riguardano il momento e l'esperienza della separazione. Qui si intrecciano
probabilmente tre aspetti differenti:
- il tema del possesso
- il tema dell'abbandono
- il tema della fragilità del sé.
20
Si veda in particolare EU.R.E.S, 2013.
21
ISTAT, Separazioni e divorzi in Italia (anno di riferimento 2012), 23 giugno 2014
http://www.istat.it/it/archivio/126552
con quelli del 2005, le unioni interrotte dopo sette anni da una separazione sono
raddoppiate, passando dal 4,5% al 9,3%. 55
Se poi pensiamo alle nuove generazioni, tra ragazzi e ragazze, per molti aspetti gli
incontri, i rapporti, le "storie" trovano meno ostacoli e più occasioni, esplorazioni,
sperimentazioni. Ma l'altra faccia di questa libertà è data dall'estrema fragilità
di queste relazioni. Occorre dunque una maturazione culturale relativa alla fine e
alla chiusura delle relazioni.
Il problema delle separazioni, non riguarda del resto solo quel momento specifico.
Spesso esse rivelano una difficoltà a fare i conti con la soggettività altrui che ha
attraversato l'intera storia relazione. Il paradosso dunque è che le separazioni in molti
casi sono il primo momento in cui molti uomini sono costretti a prendere atto di
questa alterità e di questa autonomia. In altre parole le separazioni sono prima di
tutto momenti in cui facciamo esperienza della differenza, prendiamo misura
fino in fondo dell'alterità. Per questo oggi sono così difficili da accettare per gli
uomini, più che per le donne.
Le violenze in questi contesti raccontano la difficoltà a riconoscere l'alterità, a fare i
conti con la differenza, a misurarsi quotidianamente con relazioni libere.
Il punto che è imporante comprendere è che non si tratta di violenze che nascono
in una situazione di arretratezza culturale, ma al contrario in un contesto di crescente
uguaglianza e riconoscimento di diritti e parità. In particolare questa violenza
colpisce donne che manifestano liberalmente il loro pensiero e il loro
desiderio, che aprono conflitti e che assumono decisioni autonomamente,
come chiudere una relazione, decidere della propria maternità, legarsi ad altre
persone, riorganizzare la propria vita sociale, professionale, economica.22
Sarebbe un errore ritenere che questa violenza maschile presupponga come
avveniva in passato un giudizio di inferiorità nei confronti delle donne o un puro e
semplice tentativo di sottomissione. Al contrario sembra più plausibile pensare che ci
troviamo di fronte ad una violenza dovuta ad un’incapacità dell’uomo di
confrontarsi con una sopraggiunta autonomia e libertà femminile. Si
accompagna cioè ad un senso di inadeguatezza verso l’altra, verso se stessi e verso la
vita. Questo si evidenzia anche per i numerosi casi di omicidio-suicidio diffusi
soprattutto tra gli uomini. Non solo non si riesce ad accettare di non essere più amati
e di essere abbandonati, ma non si riesce nemmeno ad immaginare se stessi al di
fuori di quella relazione. Nel momento in cui la partner abbandona l’uomo, questi si
rende conto improvvisamente che non sono e non sono mai stati “una cosa
sola”. Scopre quindi la sua fragilità e la sua totale mancanza di autonomia.
Effettivamente diversi studi condotti in Canada e negli Stati Uniti mostrano che gli
uomini violenti contro le proprie mogli siano emotivamente dipendenti, insicuri e con
un basso livello di autostima (OMS, 2002, p. 135).
Queste esperienze rivelano anche forme di dipendenza verso le donne e
compagne che gli uomini tendono a disconoscere e a non vedere. Questa dipendenza
è presente nel quotidiano, nell’organizzazione materiale e nell’equilibrio psichico e nel
senso di sé maschile, ma paradossalmente si rivela solamente al momento della
rottura. È per questo che spesso la violenza maschile in questi episodi finisce per
rivolgersi anche verso se stessi.
Tenete conto che in Italia in ambito domestico circa un omicidio su 10 la
violenza si conclude col suicidio. Ci sono circa 40 omicidi-suicidi all'anno.
22
In parte queste considerazioni valgono anche in contesti extraeuropei. Talune ricerche svolte in paesi
quali il Sud Africa e lo Zimbabwe hanno mostrato che «le donne corrono un rischio maggiore di violenza
sessuale, nonché di violenza fisica da parte del partner, quando raggiungono un livello di istruzione più
elevato, e hanno quindi maggiore potere», la stessa cosa riguarda le donne lavoratrici rispetto a quelle
che stanno in casa (OMS, 2002, p. 238).
Ora si parla dei problemi di attaccamento e dipendenza delle donne che non
lasciano questi uomini o lo fanno solo dopo molto tempo. E non si tiene conto della 56
paura, del giudizio sociale, dei bambini, dell'autonomia economica, della difficoltà di
accettare che la persona a cui hai dedicato la vita ti stia facendo del male. Tuttavia
non si vede e non si nomina il problema più evidente di tutti: la difficoltà
maschile a stare in relazione e anche a chiudere una relazione, a stare ai
sentimenti dell'altra, ad accettare di non essere amato, fino a reagire con
comportamenti di stalking o di omicidio.
Questi uomini si dimostrano incapaci di pensare un cambiamento nelle proprie
relazioni, nella relazione con l'altra, nella relazione con i propri figli, soprattutto nella
relazione con se stessi. Quanto questo ci parli della fragilità psicologica di questi
uomini e della dipendenza da strutture famigliari di tipo patriarcale non è mai oggetto
di analisi.
Il codice culturale profondo che vede le donne deboli, vittime, dipendenti, da
proteggere vede contemporaneamente gli uomini come forti, indipendenti, privi di
insicurezze. La realtà più profonda è un’altra, ovvero che gli uomini non
riconoscono la propria dipendenza dalle donne, nelle cose quotidiane.
Generalmente sono le donne a supportare e a garantire il proprio senso di sé. Quando
quella relazione va in crisi, improvvisamente si rivela quella donna è fondamentale
affinché rimanga integro e intero il proprio senso di sé.
Dunque la fine di una relazione non solo mette di fronte ad una frustrazione difficile
da accettare, quello di non essere più amati, ma anche di fronte ad un’io, ad una
identità che da sola - senza il supporto femminile – non sta in piedi, non ce la fa.
L’alternativa alla violenza non può venire rinforzando l’idea di un uomo
invulnerabile e protettivo né quella di un uomo vittima delle pretese delle donne, ma
al contrario stimolando l'abitudine alla riflessione e al dialogo rispetto al proprio
mondo interiore, affettivo, relazionale con tutti i conflitti, le contraddizioni e le
ambivalenze a cui questo ci espone. Aver cura della propria fragilità, non
nasconderla, ma metterla in gioco consapevolmente farne una cifra di confronto, e
perfino di forza e di coraggio. Questa è la sfida che dobbiamo affrontare.
Il cambiamento difficile è passare da una relazione di coppia basata sul
modello della relazione con la madre che nella nostra mentalità infantile “non
può non amarci” a quello di una relazione matura basata sul riconoscimento
dell’alterità della propria amata e dunque sull'accettazione della propria
vulnerabilità. Il che presuppone accogliere il dono d’amore ma anche accettare di
poter non essere ricambiati.
Si tratta dunque di riuscire a rielaborare e integrare nella propria esperienza
di umanità la dimensione della fragilità e dell’impotenza. Impotenza di fronte al
rifiuto, all’abbandono, al tradimento, al dolore, alla morte. Le esperienze di negazione
e di perdita non sono al di sotto della nostra umanità. Al contrario l’accettazione di
queste esperienze ci aprono ad una comprensione della vita e delle persone più
ampia e profonda.
Tali esperienze del limite ci incrinano l’illusione di controllo sulla nostra vita, sulle
relazioni, sulle persone. Ci smontano la pretesa di poter disporre di ogni cosa a
piacimento. Ci permettono di dissolvere l’immagine di una relazione senza vuoti e
senza distanze che ci eravamo costruiti. Ci obbligano infine ad ammettere una soglia
di non comprensione, oltre la quale si deve accettare l’altra persona per come si
presenta o per come si nega a noi, senza cercare ulteriori spiegazioni.
Se c’è un apprendimento in amore, esso passa anche attraverso l’accettazione e
l’integrazione del negativo, e della parte di “mistero” che porta con sè. Bisogna
imparare a conoscere e a conoscersi, attraversando esperienze d’ogni
genere. Alcune volte sono incontri, slanci, gioie, doni e condivisioni. Ma altre volte
sono invece delusioni, abbandoni, tradimenti, ferite, misteri insondabili. Nella mia
esperienza anche questi ultimi vissuti dolorosi e negativi sono stati comunque
passaggi fondamentali e costitutivi perché mi hanno messo di fronte all’esperienza del 57
limite, della mia parzialità, del riconoscimento di altre persone.
Contrariamente al senso comune, a quello che tutti siamo abituati a pensare,
contrariamente all’idea romantica dell’amore, in verità si può amare
veramente solo ciò che si è disposti a perdere. Amare è anzitutto acconsentire
all’esistenza e al desiderio dell’altro, affinché qualcosa possa accadere ma anche non
accadere.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
58
SACRO/PROFANO
23
Si veda in proposito Bajzek, Milanesi, 2006.
Il dualismo sacro/profano
59
«Il Cosmo - scriveva Mircea Eliade nel suo libro Il sacro e il profano -, per gli
uomini moderni privi di religiosità, è divenuto opaco, inerte, muto: non trasmette
alcun messaggio, non è portatore di alcun "mistero"» (Eliade, 1984, p. 113).
Senza dubbio Eliade coglieva una tendenza effettiva presente nella cultura e nella
mentalità delle società occidentali contemporanee, e tuttavia rimane da chiedersi: in
che misura è realmente così? I "moderni" hanno veramente perso il senso del sacro a
favore di una condizione "profana" e con questo hanno perduto un rapporto vivo e
fecondo con il cosmo?
E se qualcosa si è perso o è cambiato, dobbiamo - come implicitamente suggeriva
Eliade - tornare alle forme del sacro conosciute nel passato? Oppure è possibile una
visione ed un'esperienza del sacro adeguata al nostro tempo?
Gran parte degli studi e delle ricerche sul tema della religione e del sacro hanno
adottato come questione fondante la distinzione (e l'opposizione) tra sacro e
profano. Alcuni autori hanno addirittura posto questo dualismo come base di
partenza per cui il sacro viene definito in sede preliminare come ciò che si oppone al
profano. Per Émile Durkheim24 ad esempio la
«divisione del mondo in due domini che comprendono l'uno tutto ciò che è
sacro, e l'altro tutto ciò che è profano, è il carattere distintivo del pensiero
religioso».
«Non esiste nella storia del pensiero umano un altro esempio di due categorie
di cose tanto profondamente diverse, tanto radicalmente opposte l'una all'altra»
(Durkheim, 1971, p. 41).
L'opposizione tra sacro e profano è al centro degli studi - tra gli altri - di Henry
Hubert e Marcel Mauss (Mauss, Hubert 1977), di Rudolf Otto (Otto, 1992), Roger
Caillois (Caillois 2001), di Mircea Eliade (Eliade 1999). Come sostiene Roger
Caillois sembrerebbe che sacro e profano si definiscano l’uno mediante l’altro «si
escludono e si presuppongono» (Caillois, 2001, p. 13). I loro rapporti dunque vanno
regolati severamente, onde evitare turbamenti e disordini, attraverso interdetti e riti
di consacrazione per introdurre qualcuno o qualcosa nel regno del sacro e di
sconsacrazione per restituire qualcuno o qualcosa al mondo profano.
La definizione più famosa resta probabilmente quella di Rudolf Otto, che definisce
il sacro come mysterium tremendum et fascinans. Il sacro appare come
trascendenza assoluta, come qualcosa che va al di là della ragione, che sconcerta,
sconvolge, lascia senza parole. Nel suo essere totalmente altro il sacro comprende una
dimensione misteriosa che impedisce una sua oggettivazione e riduzione. Si pensi ad
esempio alle formulazioni della mistica e della cosiddetta “teologia negativa” (o
apofatica) che ritiene di poter avvicinarsi al sacro e a Dio attraverso un procedimento
ascendente di sottrazione e di eliminazione di ogni determinazione positiva.
Da questo punto di vista l’esempio più significativo è quello offerto da un famoso
testo di San Juan de la Cruz, che ha influenzato molti autori moderni da Thomas S.
Eliot a Simone Weil a George Bataille.
24
Cfr. Durkheim, 1971 [1912], p. 39 e Durkheim, 1996 [1898].
«Per arrivare a gustare tutto
non voler aver gusto a nulla. 60
per arrivare a sapere tutto
non voler sapere qualcosa in nulla
per arrivare a possedere tutto
non voler possedere qualcosa in nulla
per arrivare a essere tutto
non voler essere qualcosa in nulla
Salita del monte Carmelo. Spirito di perfezione. nulla nulla nulla nulla nulla nulla
«va capovolta, nel senso che va affermata la priorità della dimensione profana,
utile o economica, sulla quale è costituita la storia e nei rapporti della quale il
momento sacro assume gli aspetti di un momento dialettico che, secondo
modalità proprie delle singole culture, risolve i conflitti emergenti nella realtà del
profano» (Di Nola 1981, p. 354).
Per intendere il sacro oltre questo ristretto schema dualistico e per riflettere in
modo nuovo su alcune questioni che stanno al cuore della nostra cultura è necessario
innanzitutto riconoscere che con la categoria "sacro", in realtà si intendono un
insieme di idee ed esperienze anche molto differenti fra di loro. In termini
molto generali, si può dire che l'idea del sacro si riferisce alla percezione,
all'esperienza e alla rappresentazione di una realtà ultima, non riducibile o
immediatamente sovrapponibile a quella direttamente osservabile o riconoscibile e
rispetto ad essa più assoluta, profonda, complessa, superiore o trascendente. Ma al di
là di questa generalizzazione è importante tuttavia cercare di mettere in luce le
diverse dimensioni di senso implicite nella stessa categoria di "sacro". In
prima approssimazione mi sembra si possano rilevare, in relazione a diverse culture e
contesti storici almeno otto dimensioni differenti:
«Il cosmo sacro emerge dal caos e gli si para di fronte come il suo terribile
antagonista. Questa opposizione tra cosmo e caos s’esprime in una varietà di
miti cosmogonici. Il cosmo sacro, che trascende e ingloba l’uomo nel suo
ordinare la realtà, fornisce quindi l’ultima difesa dell’uomo contro il terrore
dell’anomia» (Berger, 1984, p. 38).
Se la costruzione della realtà sociale avviene tramite la creazione e l’istituzione di
significati collettivi e tramite la loro interiorizzazione soggettiva allora la religione è 62
l’impresa attraverso cui viene costruito un cosmo sacro.
c) una DIMENSIONE MAGICA, legata a una visione attiva e strumentale del sacro. Il
sacro è riconosciuto nella forma di energia, potenze e forze invisibili, naturali o
sovrannaturali, comunque reali, presenti in luoghi, persone o elementi particolari di
cui si deve tener conto. Si può cercare di non offendere luoghi o persone o non avere
contatto con alcuni elementi per evitare ritorsioni o sorprese spiacevoli. È connessa a
questa dimensione anche un approccio di tipo utilitaristico e finalistico. Il potere del
sacro viene invocato a proprio favore e contro altri oppure richiamato a tutela di una
comunità o di un posto. Come ha scritto Roger Caillois,
h) una DIMENSIONE UMANISTICA, legata ad una visione laica o profetica del sacro.
Il sacro viene riconosciuto come presenza divina che abita nel cuore di ciascuna
persona (metafora della luce, della scintilla, dello spirito divino, della sapienza) al di là
della fedeltà ad una particolare tradizione e della devozione a luoghi, riti o istituzioni
particolari, che possono essere importanti ma non necessari. Questa presenza può
rivelarsi particolarmente in figure ispirate in senso profetico o sapienziale che
richiamano a questa dimensione intima o personale del sacro piuttosto che a quella
normativa di una presunta "legge divina".
«Ciò che si dà a conoscere allo studioso dei fenomeni religiosi non è né una
"religione" allo stato puro, né soltanto la psiche o la cultura o la società, ma un
intreccio concreto, storicamente dato, tra determinate "individualità" religiose
con la loro particolare logica e struttura e determinati contesti storico-sociali»
(Filoramo, Prandi, 1997, p. 23).25
Quindi si può a questo punto ora avanzare l'idea che se c'è stata una qualche
eclissi del sacro, essa ha riguardato forse solo una specifica concezione ed
esperienza connotata storicamente e culturalmente.
Val la pena dunque provare a confrontarsi con alcuni delle riflessioni più
interessanti a proposito del sacro proposte da studiosi a noi coevi. In particolare mi
vorrei soffermarmi su René Girard e Gregory Bateson. Il primo è un credente, il
secondo un laico.
«non c'è nulla o quasi, nei comportamenti umani che non sia appreso, e ogni
apprendimento si riduce all'imitazione. Se gli uomini, a un tratto cessassero di
imitare, tutte le forme culturali svanirebbero» (Girard, 1983, p.22).
25
cfr. anche Prandi, 1988, p. 21 e ss.
come e attraverso l'altro. Paradossalmente, infatti l'altro è spesso modello, nello
stesso tempo che rivale. Ma la concorrenza dei desideri genera competizione, e il 65
desiderio diventa desiderio di possesso, esclusivo. Se un bambino ne vede un'altro
tendere una mano verso un oggetto, è subito tentato di imitarne il gesto. Questa
rivalità attorno ad un oggetto desiderato da più membri del gruppo, è definita da
Girard mimesi di appropriazione. Quando il conflitto per l'appropriazione si
esaspera, nasce allora la violenza. La violenza si basa anch'essa sul mimetismo:
«Dire che siamo in una situazione di apocalisse oggettiva non significa afffatto
"predicare la fine del mondo", ma piuttosto dire che, per la prima volta, gli
uomini sono veramente padroni del loro destino. Il pianeta intero si ritrova, di
fronte alla violenza, in una situazione paragonabile a quella dei gruppi umani più
primitivi, con l'unica differenza, questa volta che ciò avviene con cognizione di
causa; non abbiamo più risorse sacrificali e malintesi sacri per stornare da noi
questa violenza. Accediamo a un grado di coscienza e di responsabilità mai
ancora raggiunto dagli uomini che ci hanno preceduto» (Girard, 1983, p. 326).
Antropologo per formazione, biologo per tradizione familiare, psichiatra per elezione,
studioso della cibernetica e della teoria della comunicazione, il caso di Gregory
Bateson (Grantchester, 9 maggio 1904 – San Francisco, 4 luglio 1980) è quello di
uno scienziato era andato maturando negli ultimi anni della sua vita un pensiero
ecologico che (da una posizione atea) lo aveva portato lentamente ad accostarsi al
pensiero religioso ed in particolare all'idea e all'esperienza del sacro.
«Vedi, io non faccio ogni volta una domanda diversa» diceva in uno dei suoi
metaloghi con la figlia, «io rendo più ampia la stessa domanda» (Bateson, 1984, p.
280).
Così il libro Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro (Angels
Fear. Towards an Epistemology of the Sacred) costituisce essenzialmente il tentativo,
solo abbozzato, di uno sguardo oltre quella soglia, verso il terreno dove gli angeli
esitano a mettere il piede: il sacro.
L'elemento importante del suo approccio (da lui definito «ecologia della mente»)
sta nel fatto che nel suo avvicinarsi al territorio del sacro, Bateson non ha mai
rinunciato a un'impostazione scientifica rigorosa e ad un uso critico degli strumenti
della ragione:
«Nello scrivere questo libro, mi trovo ancora preso fra Scilla e Cariddi, fra il
materialismo imperante da un lato, col suo pensiero quantitativo, la scienza
applicata e gli esperimenti "controllati", e il soprannaturalismo romantico
dall'altro. Il mio compito è quello di indagare se vi sia, fra questi due incubi
insensati, un posto valido e sensato per la religione, se si possano trovare nella
conoscenza e nell'arte le fondamenta di un'affermazione del sacro che celebri
l'unità della natura» (Bateson e Bateson 1989, p. 103).
Negli ultimi anni della sua vita Bateson aveva dunque speso tutte le sue energie nel
tracciare le linee di fondo di un percorso scientifico e filosofico originale attorno ai temi
del sacro, ma il sopraggiungere della morte aveva poi posto fine a questa ricerca
lasciando ancora aperte molte questioni.
Rispetto al pensiero di Bateson sul sacro, Dove gli angeli esitano si presenta come
la prima espressione di una ricerca che se non fosse stata interrotta dalla sua morte
sarebbe stata probabilmente affinata e sistematizzata.
Negli ultimi anni Bateson si era convinto sempre più che quell’unità della natura che
aveva cercato di sostenere in Mente e natura poteva essere compresa solamente
attraverso quel genere di metafore caratteristiche della religione. Fin dai tempi
de La matrice sociale della psichiatria, Bateson aveva proposto una distinzione rispetto 68
alle verità religiose, tra verità storiche o oggettive e verità “metacomunicative”
(Bateson Gregory e Ruesch Jurgen, 1976, pp. 253-255). Dal suo punto di vista, era
possibile trovare una posizione diversa sia da quei fanatici che affermano che le loro
metafore, mitologie, o parabole sono verità storiche e oggettive e vanno prese in
senso letterale, sia dalle persone antireligiose che in maniera altrettanto sciocca non
colgono il carattere di verità metacomunicativa (deutero-verità) di un'idea religiosa.
Per esempio nel cristianesimo ci sono un insieme di affermazioni riguardanti
l’onnipotenza divina e il rapporto tra il Padre, il Figlio e l’umanità. Le parole «Padre
nostro che sei nei cieli…» implicano un'affermazione implicita rispetto alla fratellanza
umana. La verità delle metafore dunque è diversa dalle verità matematiche, eppure è
proprio tramite le metafore che avviene la comunicazione nel mondo biologico:
«la metafora non è solo una belluria poetica, non è logica buona o cattiva, ma
è di fatto la logica su cui è stato costruito il mondo biologico, è la principale
caratteristica e la colla organizzativa di questo mondo del processo mentale»
(Bateson e Bateson, 1989, p. 53).
Nel linguaggio religioso troviamo dunque una serie di affermazioni rispetto agli
esseri umani, al rapporto fra esseri viventi e al rapporto con l'intero universo; la
religione, con la sua miniera di affermazioni “deutero-apprese”, è una delle fonti più
determinanti delle nostre epistemologie.
La cornice dentro a cui si pone la riflessione batesoniana sul sacro vuole essere
alternativa al soprannaturalismo romantico da una parte e al meccanicismo
materialista dall'altra:
Alle tradizioni religiose rimprovera l’idea di un potere della mente sulla materia che
non colma lo iato tra le due, mentre a quelle materialistiche rimprovera l’idea che la
quantità possa determinare la forma, distogliendo in questo modo l’attenzione dalla
struttura, dalla Gestalt, e rendendo alla scienza impossibile dire alcun che di sensato
su cose come la bellezza, l’amore, il comico, il metaforico ecc. Il tentativo di Bateson è
appunto di trovare un posto valido per la religione tra questi “due incubi insensati”, in
modo tale avanzare un'idea del sacro che celebri l’unità della natura.
L’attenzione all’organizzazione del mondo biologico, permette a Bateson di proporre
una soluzione differente al problema mente-corpo. In Mente e natura, Bateson si era
sforzato di mostrare come la mente non sia una sostanza a sé, ma una caratteristica
organizzativa e comunicativa. Da questo punto di vista anche l'evoluzione del vivente
presenta proprità "mentali". A partire da questa osservazione Bateson sostiene l’idea
che
«mente e natura formano un’unità necessaria in cui non esiste una mente
separata dal corpo o un dio separato dalla sua creazione» (Bateson e Bateson,
1989, p. 27).
Ad ogni modo piuttosto che parlare di dio, Bateson preferisce spesso usare un
termine affine ma più generale, quello di "sacro". Come abbiamo già detto per molto
tempo il sacro in Occidente è stato opposto al profano, e visto quindi come sinonimo
di “interdizione” legata a spazi e tempi precisi. L’opposizione tra sacro e profano
corrisponde a quella tra Dio e mondo, tra mente e corpo, e - in termini più
attuali - tra religione e scienza. Ora nella posizione di Bateson è possibile
intravedere un'idea diversa: il sacro può non essere più legato a una realtà, a uno
spazio o un tempo particolare ma piuttosto a una sensibilità verso quella che Bateson
chiamava «struttura che connette». Bateson parla di un'unità del vivente, attraverso
l’idea della «struttura che connette» tutte le creature viventi che aveva anticipato in
Mente e natura. Il sacro è riferibile dunque alla percezione del tessuto
integrato del processo mentale che avvolge tutta la vita (la creatura, secondo la
distinzione già incontrata).
Oggi una riflessione nuova sul sacro come quella proposta da Bateson può essere
utile per gettare un ponte tra le forme di conoscenza religiose e quelle laiche. Come
indica il sottotitolo del libro, il tentativo di Bateson è quello di definire alcune
premesse - potremmo dire dei segnavia - attraverso cui reimpostare da un punto di
vista epistemologicamente più corretto (nel senso dell'«ecologia della mente») una
riflessione sul sacro per cogliere il meglio delle tradizioni religiose e al contempo
abbandonare alcune idee che alla luce della storia ecologica si sono dimostrate
patologiche. Gregory riteneva infatti che una grande parte dei problemi
dell’adattamento umano derivi dal fatto che le religioni occidentali fraintendono le loro
divinità in termini trascendenti piuttosto che in termini immanenti:
Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea
di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente
come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi
arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e
quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da
sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la
vostra gente o gli individui della vostra specie, in antitesi con l’ambiente formato
da altre unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle piante. Se questa è
l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se possedete una tecnica
progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di
neve all’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici del vostro stesso
odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento
delle riserve (Bateson, 2000, pp. 502-503).
Secondo Bateson dunque molte delle epistemologie derivanti dalle varie tradizioni
religiose o spirituali, hanno fra le altre cose un'idea in comune, quella di un’unità di
fondo della vita nelle sue diverse manifestazioni, e insieme l’idea che questa
unità di fondo sia estetica. Dimensioni come il sacro, o l'estetica hanno a che
vedere con il riconoscimento della «struttura che connette». Come notava altrove:
«La maggior parte di noi oggi non crede che, anche con gli alti e i bassi che
segnano la nostra limitata esperienza, la più vasta totalità sia fondamentalmente
bella. Abbiamo perduto il nocciolo del cristianesimo. Abbiamo perduto Shiva, il
dio danzante dell’Olimpo induista, la cui danza a livello banale è insieme
creazione e distruzione, ma nella totalità è bellezza. Abbiamo perduto il
totemismo, il senso del parallelismo tra l’organizzazione dell’uomo e quella degli
animali e delle piante. Abbiamo perduto persino il Dio Che Muore» (Bateson,
1984, p. 33-34).
NORMALITÀ/DEVIANZA
Una delle domande centrali della sociologia, se non la principale è «come è possibile
la società?» «che cosa tiene insieme una collettività?».
Uno dei punti di partenza dell’osservazione sociologica è il riconoscimento che in
una società gli individui generalmente si sottomettono spontaneamente anche senza
una costrizione evidente ad un certo numero di norme e regole sociali grazie alle quali
si crea un ordine e la società può complessivamente funzionare.
La scoperta e lo studio delle “norme sociali” diventa un aspetto determinante della
sociologia. Tutto ciò che riguarda il vivere sociale dal mangiare, al vestire, al parlare,
fino alle forme di organizzazione del tempo, del lavoro, degli spostamenti è nei fatti
regolato da norme sociali che in gran parte standardizzano il comportamento delle
persone rendendolo riconoscibile, prevedibile e assicurando una omogeneità di fondo
che rende più semplice lo scambio sociale. Nei fatti ogni società propone un insieme
di divieti, di permissioni o prescrizioni che indirizzano il comportamento sociale
degli individui e ai quali normalmente, le persone che intendono vivere si
assoggettano spontaneamente. Naturalmente le norme variano da società a società e
dunque ogni contesto sociale può proporre un certo numero di norme differenti o
addirittura opposte. Ma rimane il fatto che le società in quanto tali devono comunque
riconoscere alcune regole di fondo che permettono la convivenza e la riproduzione del
gruppo sociale.
Ora da un certo punto di vista si può pensare che questo insieme di regole in gran
parte precede e indirizza lo sviluppo del singolo individuo – pensiamo per esempio alle
convenzioni che riguardano il linguaggio e la comunicazione oppure alla definizione
di un insieme di valori culturalmente condivisi.
A questo proposito, l'antropologo Gregory Bateson ha proposto nel 1936 il concetto
di "ethos". Secondo Bateson l'ethos rappresenta «l’espressione di un sistema
culturalmente standardizzato di organizzazione degli istinti e delle emozioni degli
individui» (Bateson, 1988 [1936], trad. it. p. 113) sulla base di un sistema di valori.
Ovvero ogni cultura seleziona e favorisce una certa gamma di atteggiamenti emotivi
che possono essere espressi e accettati socialmente, mentre altri vengono sfavoriti o
rifiutati.
D’altra parte gli individui partecipano attivamente alla produzione di nuove regole e
alla standardizzazione dei comportamenti. Dunque si può anche pensare che le norme
sociali non siano altro che il risultato dei comportamenti e delle azioni delle persone
cristallizzate e integrati in modelli più o meno coerenti attraverso il tempo.
Ora i motivi per cui ci assoggettiamo a queste norme sono diversi. In primo
luogo si tratta di regole che abbiamo interiorizzato nel nostro ambiente sociale e
culturale e che quindi seguiamo spontaneamente per abitudine o convenzione. In
secondo luogo spesso seguiamo determinate regole per semplici ragioni di
opportunità. Se per esempio guidiamo sempre sulla corsia di destra e non in contro
senso è perché in questo modo diminuiamo la possibilità di fare incidenti scontrandosi
con automobili che vanno in senso contrario al nostro. 73
Infine il terzo motivo per cui ci conformiamo è che molte regole sono corredate di
sanzioni positive o negative a seconda che uno le rispetti o le trasgredisca. In alcuni
casi si tratta di sanzioni formali, istituzionalizzate e definite dalle leggi che comportano
punizioni amministrative, pecuniarie o anche la reclusione. In altri casi si tratta di
sanzioni informali, per esempio forme di giudizio, di ostilità o di isolamento da parte
delle persone che ci sono intorno.
Tuttavia, nonostante questo, non tutti e non sempre si trovano a rispettare queste
regole. La trasgressione o la devianza è anzi un fatto piuttosto comune. Per
devianza si intende proprio un comportamento di non conformità alle norme formali o
informali vigenti in una data comunità o società e riconosciute dalla maggioranza dei
suoi membri. Può essere un comportamento che si scosta dall’atteggiamento più
comune in un contesto sociale, un comportamento che viola le regole e le norme
sociali specifiche, o che addirittura le contesta esplicitamente.
Il comportamento deviante in questione può essere di una persona, di una coppia,
di una famiglia, di un gruppo ecc.
Ancora una volta la categoria di devianza non è “naturale”, oggettiva o auto
evidente, al contrario presuppone un contesto sociale specifico di riferimento
che detta “la norma” rispetto alla quale la devianza viene osservata. Presuppone
dunque l’esistenza di norme e aspettative di comportamento. Quindi implica il
rilevamento di questa devianza da parte di altri soggetti che vi attribuiscono un
significato (negativo in generale, ma non necessariamente). Presuppone infine
reazioni del gruppo sociale o conseguenze sull’individuo e sul contesto, a causa di
questa violazione.
Vi sono numerose teorie che hanno tentato di spiegare le forme della devianza. Vi
sono state teorie bio-antropologiche, che
identificano le cause di un certo comportamento
deviante con predisposizioni costitutive
dell’individuo, ovvero in elementi di carattere
biologico osservabili scientificamente nel
deviante. Secondo le ipotesi sviluppate da alcuni
studiosi - i riferimenti vanno qui agli studi di
craniometria dell’antropologo francese Paul
Broca (1824-1880) o a quelli di fisiognomica
del criminologo italiano Cesare Lombroso
(1835-1909) - sarebbe possibile distinguere le
caratteristiche sociali, razziali, intellettuali delle
persone sulla base di elementi biofisici osservabili
e misurabili.
Sulla base di queste teorie pseudoscientifiche
si è sostenuto che i devianti o i delinquenti
sarebbero individui costitutivamente diversi dagli
altri, ovvero sarebbero individui minorati,
inferiori, di qualità biologica scadente.
Secondo altri le motivazioni del
comportamento deviante vanno rintracciate nel
"Rivoluzionari e criminali politici, matti e
carattere psicologico, ovvero nel tipo di folli". Esempi di fisiognomica di criminali,
personalità individuale. Anche se ovviamente secondo Cesare Lombroso.
entrano in gioco nell’azione anche elementi
psicologici, tuttavia è piuttosto difficile stabilire una correlazione univoca tra caratteri
psicologici individuali e tendenza alla devianza o alla criminalità. Si dovrebbe in effetti 74
dimostrare che tutti coloro che hanno un certo tratto psicologico si comportano in
maniera deviante, come d’altra parte che tutti coloro che hanno un certo tipi di
comportamento deviante, possiedono gli stessi tratti psicologici. Non si può inoltre
rimuovere l’importanza delle dimensioni contestuali e relazionali. È questo il tipo di
attenzione che pongono le teorie di psicologia sociale e quelle più prettamente
sociologiche.
In prima ipotesi si può sostenere che una radice del comportamento deviante o
criminale può essere ricercata nella situazione cosiddetta di anomia. Si tratta di un
concetto usato da Émile Durkheim (1858-1917) nel suo studio sul suicidio (Le
Suicide, étude de sociologie, 1897) che indica uno stato di sregolatezza, di confusione
dei valori e delle regole sociali, dovuta a innovazioni economiche o sociali, o ad eventi
traumatici nelle proprie relazioni fondamentali:
«Non si sa più ciò che è possibile e ciò che non lo è, ciò che è giusto e ciò che
è ingiusto, quali sono le rivendicazioni e le speranze legittime, quali quelle che
passano la misura» (Durkheim, 1997 [1897], p. 266).
26
«Preliminary to any self-determined act of behavior there is always a stage of examination and
deliberation which we may call the definition of the situation. And actually not only concrete acts are
dependent on the definition of the situation, but gradually a whole life- policy and the personality of the
individual himself follow from a series of such definitions ... [This definition is always subject to] a rivalry
between the spontaneous definition of the situation made by members of an organized society and the
definition which his society has provided for him» (Thomas, 1923, p. 42).
con la sua “Field Theory” (Lewin, 1939) secondo cui il comportamento è funzione
della persona e del suo ambiente. 76
Naturalmente bisogna evitare un uso troppo ingenuo e disinvolto di queste teorie.
Però è sicuramente vero che il consolidamento o la strutturazione di un identità
deviante dipende anche da una forma di attribuzione e di aspettativa negativa (o
positiva, a seconda di come la si voglia valutare) nei confronti di una specifica realtà
da parte di una persona e del suo ambiente sociale.
Un esempio calzante può essere il processo sociale cui viene sottoposto un
immigrato clandestino. Poiché si possiede un’immagine negativa degli immigrati e
poiché le leggi del nostro paese rendono oltremodo difficile ad un migrante accedere
al nostro territorio in maniera regolare, in qualche modo si stimola gli immigrati a
servirsi di circuiti illegali. Una volta giunti nel nostro paese li si considera clandestini e
li si assimila ai criminali. L’etichetta e la condizione che gli immigrati clandestini si
portano dietro gli impediscono di trovare casa, lavoro e un riconoscimento civile, La
restrizione delle possibilità li spingono verso occupazioni e condizioni sempre più
marginali, illegali, fino al limite delle attività illecite e criminose.
Un altro elemento particolare da sottolineare è che diversi sociologi o studiosi
hanno messo in luce che le stesse istituzioni teoricamente preposte alla correzione del
comportamento privato (carceri e altre strutture penitenziarie, ospedali psichiatrici) in
realtà tendono a confermare, rafforzare o addirittura ad addestrare le persone ad una
cultura e ad un atteggiamento di tipo deviante e criminali.
Una acquisizione importante derivata dagli studi sociologici e medici sul tema
dunque è che si dovrebbe evitare l’errore di personalizzare troppo il comportamento
deviante, ovvero di associare strettamente l’azione deviante all’individuo che la
compie. Molte osservazioni di tipo sociologico infatti ci portano a non rintracciare
l’origine di un comportamento anormale o criminale in motivazioni o inclinazioni
soggettive dell’individuo.
In particolare si sottolinea un forte elemento situazionale. Come dice il proverbio:
“l’occasione fa l’uomo ladro”. Molto spesso l’atto deviante non è frutto di un
inclinazione particolare o di un progetto premeditato ma di una condizione in cui ci si è
ritrovati e in cui l’opportunità di trarre vantaggio da una situazione contingente era
molto allettante. C’è dunque una continuità tra decisioni normali, quotidiane, abituali,
e decisioni che portano verso un comportamento deviante. Questo vale non soltanto
per il piccolo ladro o il piccolo crimine ma anche per i crimini dei cosiddetti “colletti
bianchi”.
Con l’espressione “reati dei colletti bianchi” introdotta nel 1949, il sociologo Edwin
H. Sutherland (Sutherland, 1987), ha voluto indicare gli illeciti condotti da persone
altolocate e benestanti. Anzi da un certo punto di vista più ci si trova in una situazione
di accesso a grandi risorse e a scambi di natura molto vasta e più si è nelle condizioni
di trovarsi di fronte a quelle che eufemisticamente si possono definire “offerte che non
si possono rifiutare”. Da questo punto di vista è bene togliere di mezzo l’idea che le
attività devianti, illecite, criminali siano patrimonio delle classi sociali più basse ed
emarginate. Al contrario i comportamenti fuori dalle regole spesso sono molto diffusi
anche ai livelli più alti proprio perché si dispone di più risorse e perché ci si trova nelle
condizioni di poterne approfittare. Secondo il sociologo italiano Vincenzo Ruggiero
sebbene sia la carenza che l’eccesso di opportunità possano incoraggiare il ricorso ad
attività criminali, tuttavia sarebbe più l’abbondanza di risorse e di opportunità
anziché la carenza di entrambe a causare nella misura più significativa il
crimine. Per esempio negli Stati Uniti si è calcolato che la quantità di denaro
attinente i crimini dei colletti bianchi quali la frode o l’evasione fiscale è quaranta volte
superiore il denaro sottratto attraverso reati contro la proprietà (furti, rapine, scippi, 77
contraffazioni).
Tuttavia, nota ancora Ruggiero, dal punto di vista sociologico si può osservare che
non tutte le attività ai diversi livelli sociali sono colpite dallo stigma. Anzi in generale
mentre i delitti dei deboli tendono all’autovittimizzazione, quelli dei potenti tendono
all’autovalorizzazione (Ruggiero, 1999, p. 199). Più in generale si può notare che
tra i crimini che nascono da persone in stato di marginalità o di carenza di risorse e
quelli che nascono da persone altolocate e con grandi risorse ci sono alcune
differenze. Intanto nelle motivazioni: per gli uni si tratta di un’attività di
compensazione per uno stato di mancanza, per gli altri si tratta di un’ulteriore
opportunità di massimizzare i propri vantaggi. In secondo luogo, per i primi le
possibilità di scelta sono limitate, per i secondi la discrezionalità è molto più ampia.
Infine i primi non hanno evidentemente grandi risorse o strumenti per
determinare l’esito delle proprie azioni nonché l’attribuzione di un significato
deviante al loro comportamento, mentre i secondi possono in generale controllare
meglio gli esiti della loro attività, nascondendola e ottenendone i vantaggi necessari,
ed evitando o rifiutando un attribuzione di condotta criminale.
In certi casi le conseguenze dei crimini dei potenti possono essere molto più ampie
di quelle delle persone comuni. Pensate alle conseguenze dovute all’immissione sul
mercato di prodotti nocivi, o ai disastri dovuti al mancato rispetto delle condizioni di
sicurezza, o al rilascio di sostanze tossiche in un ciclo produttivo. Tuttavia anche se le
conseguenze di questi crimini sono molto ampie ed estremamente gravi spesso esse
sono meno visibili o comunque molto raramente l’interessato viene chiamato a
risponderne.
Un altro aspetto da sottolineare è che le attività criminose o delittuose possono
essere commesse anche da istituzioni o da apparati dello stato o dallo stato in se
stesso. Dai reati – violenza, ricatti, complicità col crimine - commessi dalla polizia, a
quelli dei funzionari di vario ordine, dagli abusi commessi dagli amministratori a veri e
propri crimini di cui si rendono responsabili governi. Pensate all’eliminazione delle
opposizioni, o alle forme di repressione sociale, o al terrorismo di stato, o anche ai
crimini commessi da regimi dittatoriali o totalitari. Quelli commessi dagli stati sono
molto probabilmente i crimini con le conseguenze più ampie e distruttive.
«lo stigma non riguarda tanto un insieme di individui concreti che si possono
dividere in due gruppetti, lo stigmatizzato e il normale, quanto piuttosto un
processo sociale a due, assai complesso, in cui ciascun individuo partecipa in
ambedue i ruoli, almeno per quello che riguarda certe connessioni e durante certi
periodi della vita. Il normale e lo stigmatizzato non sono persone, ma piuttosto
prospettive» (Goffman, 2003, p. 170).
È importante avere un'idea della popolazione carceraria nel nostro paese e nel
mondo. Secondo la ricerca presentata dall'Istat qualche anno fa27 il tasso medio
europeo di detenzione per 100.000 abitanti è di 124,1, mentre l’Italia si attesta a
102,9. In base agli ultimi dati disponibili (31 agosto 2016), i detenuti nelle carceri
italiane sono 54.195 di cui 18.311 stranieri. Circa il 95,7% dei detenuti sono uomini, il
restante 4,3% donne (la popolazione femminile nelle carceri è assolutamente
minoritaria in tutti i paesi del mondo).
In Italia si finisce in carcere soprattutto per reati legati alla droga (34,7% dei casi).
Mentre sono pochissimi i detenuti per crimini quali i reati finanziari (0,6% della
popolazione carceraria tra i condannati in via definitiva).
A fronte di un livello di detenuti basso rispetto alla popolazione, ha un elevato tasso
di sovraffollamento. Questa condizione è dovuta a diversi motivi, ed in particolare:
- la presenza di una quota consistente di detenuti in attesa di giudizio (36,6% nel
2013)
27
http://www.istat.it/it/files/2015/03/detenuti-2015-1.pdf?title=Detenuti+nelle+carceri+italiane+-
+19%2Fmar%2F2015+-+Testo+integrale.pdf
- un basso utilizzo di misure alternative al carcere rispetto agli altri paesi europei
(49,4 soggetti in misura alternativa per 100.000 abitanti nel 2013, contro i 178,8 80
della media europea, anno 2011).
A livello europeo i tassi più alti di popolazione carceraria si registrano in Lituania,
Lettonia, Estonia e Polonia, mentre i tassi più bassi, anche per un forte ricorso a
misure alternative si registrano in Finlandia, Svezia, Paesi Bassi.
«l’inarrestabile ascesa dello Stato penale americano nei tre decenni scorsi
corrisponde non a un aumento della criminalità – che è rimasta
complessivamente costante per poi conoscere una flessione alla fine di tale
periodo – ma alle frammentazioni provocate dal sottrarsi dello Stato al proprio
ruolo sociale e urbano e dall’imposizione del lavoro precario come nuovo criterio
di cittadinanza per gli americani delle classi inferiori» (Wacquant, 2006, p. 8).
L’ascesa di questo stato penale secondo Wacquant corrisponde a tre funzioni 81
correlate:
In altre parole secondo Wacquant questa ascesa dello stato penale corrisponde ad un
vero e proprio progetto politico e culturale.
SICUREZZA/INSICUREZZA
Ma il luogo privilegiato di queste nuove paure sono le città. Da questo punto di vista
abbiamo avuto grandi cambiamenti. Mentre storicamente le città con le loro mura e la
loro vita sociale rappresentavano un luogo di maggior tranquillità e sicurezza rispetto
all’incertezza e ai pericoli delle campagne e degli spazi esterni, negli ultimi decenni si
è assistito a un rovesciamento: il senso del pericolo è stato via via associato alla
città e alla vita urbana, mentre le campagne, o le zone rurali sono state investite di
un immaginario di pace e tranquillità.
Alla crescita della ricchezza e delle nuove povertà, ovvero delle diseguaglianze
sociali nello spazio urbano è connessa la crescita della paura verso la criminalità, i
furti, i rapimenti, e più in generale al timore degli estranei.
Il fatto è che non solo differenze e disuguaglianze globali entrano e si riproducono
nella città, ma la città stessa coopera a costruire e a ridefinire queste
disuguaglianze, queste distanze. Così quartieri, strutture, locali, servizi finiscono
col differenziare e separare, allontanare. A secondo delle zone della città cambiano le
forme di edilizia, le strutture urbanistiche, i servizi, le scuole, i negozi. Cambiano le
opportunità, cambia il tasso di disoccupazione. Cambia la presenza e l’atteggiamento
delle forze dell’ordine. Cambiano molte cose.
Da una parte abbiamo dunque una città fatta di banche, di boutique, di centri
commerciali, di casinò, di ristoranti raffinati. Dall’altra periferie degradate, territori
emarginati, quartieri dormitori. In qualche modo l’isola di benessere che ci siamo
costruiti si trova a confrontarsi con una molteplicità di pericoli incombenti
reali o immaginari che siano: i problemi di inquinamento dell’aria, il rischio di
attacchi terroristici, il diffondersi di baby gang, la crescente immigrazione e le
difficoltà di integrazione, il malcontento e le possibili rivolte delle periferie.
Come ha notato il sociologo Giandomenico Amendola,
«chi è escluso dal sogno può costituire, infatti, un pericolo per la stessa
esistenza del sogno. La bolla incantata può essere rotta e il sogno trasformarsi in
un incubo» (Amendola, 2000, p. 210).
La paranoia urbana è oggi come l’altra faccia della città scintillante delle
banche, dei casinò e dei fastfood. Curiosamente si risponde alla malattia
allevando altri focolai. Aumentando le distanze e le barriere. Più creiamo
barriere e più creiamo tensioni, sospetti, conflitti e violenze. Più creiamo nonluoghi,
zone franche, zone fantasma, zone senza legami, più seminiamo paure e timori a cui
rispondiamo con altro isolamento. 83
C’è dunque un ripiegamento psicologico e spaziale della città, di cui
possiamo osservare una ricca fenomenologia di segni e simboli che stanno
contrassegnando il tessuto urbano.
Questa paura si è concretizzata nell’esplosione di tutta una serie di dotazioni e
sistemi di sicurezza, a partire dai più semplici fino a quelli più complessi. Le case, gli
appartamenti sono sempre più chiusi e sigillati, grazie all’introduzione di porte
blindate o duplicate da cancelli d’acciaio, alle finestre con grate e inferriate, con
serramenti e avvolgibili blindati. Gli spazi d’ingresso delle case sono stati
trasformati da soglie aperte all’incontro e al contatto con la strada e con l’esterno a
luoghi separati da palizzate, cancelli con punte, muri con vetri. In molte città del
Brasile si è diffusa la moda di circondare gli spazi antistanti anche con delle strutture
di filo spinato o elettrificato. Le entrate divengono video sorvegliate e sistemi di
telecamere possono circondare gli edifici. I campanelli non espongono più i nomi
delle famiglie ma solo codici alfanumerici che bisogna conoscere prima di poter
“disturbare” gli occupanti. Per non parlare del mercato sempre più diversificato e
complesso di sistemi di rilevazione ed allarmi antifurto e antintrusione che
comprendono diversi tipi di sensori volumetrici che possono usare rilevatori a
microonde che utilizzano la riflessione di onde elettromagnetiche prodotte dai corpi in
movimento oppure rilevatori ad infrarosso passivo che captano l’emissione di energia
infrarossa presente nei corpi caldi. Esistono poi rilevatori a doppia tecnologia che
combinano i due sistemi. Ci sono poi altri tipi di dispositivi fra cui rivelatori di
movimento ad ultrasuoni, sensori d’urto o rivelatori microfonici per la rottura dei vetri,
rilevatore di pressione per le pavimentazioni. I sistemi di sicurezza si sono poi espansi
verso l’esterno con rilevatori perimetrali che rivelano l’arrampicamento o il taglio di
recinzioni, o addirittura sensori interrati con tecnologie geosismiche che percepiscono
le onde di pressione. Tutte queste tecnologie sono connessi con sistemi di allarme
sonoro, suonerie o sirene, con video o sistemi di segnalazione verso agenzie di
sicurezza.
L’ultima generazione di sistemi di sicurezza esplora anche tutte le tecnologie di
riconoscimento biometrico per controllare l’accesso in casa, in una comunità
residenziale o al lavoro: dal riconoscimento facciale, a quello dell’iride o della retina, o
ancora vocale, della mano o delle impronte digitali.
La psicologia dell’assedio può trasformare le architetture abitative ancora più in
profondità. Negli ultimi decenni si sono diffuse anche le cosiddette “safe rooms” o
“panic rooms”28, ovvero delle stanze di sicurezza blindate, una sorta di caveau
domestico, costruite dentro le case e gli appartamenti per nascondersi e mettersi “in
sicurezza” in caso di intrusioni e aggressioni. Le stanze collegate a sistemi di allarme e
di avviso sono pensate per trincerarsi all’interno e sopravvivere fino all’arrivo delle
forze di sicurezza o finché gli intrusi non se ne vanno. In genere contemplano sistemi
di telecamere e monitor per controllare la situazione all’esterno, acqua e cibo non
deperibile, sistemi di ventilazione, sistemi di radiocomunicazione per contattare la
polizia o i servizi di sicurezza privati. Stanze di questo genere arrivano a costare fino a
1 milione di dollari, ma d’altronde la paranoia cresce con la disponibilità economica e i
produttori di questi sistemi sanno come vendere le loro merci. Come recita una
pubblicità “Ogni stanza ha una sua funzione: questa salva la vita”.
28
Sono quelle stanze di sicurezza blindate, una sorta di caveau domestico, costruite dentro le case e gli
appartamenti per nascondersi in caso di intrusioni e aggressioni. Questo tipo di stanze sono state
popolarizzate dal film “Panic Room” (2000) di David Fincher con Jodie Foster.
La sorveglianza e le tecnologie di controllo e sicurezza, quali telecamere o allarmi
non riguardano solo le case private, ma sempre più anche altri luoghi urbani quali i 84
centri commerciali, i parchi, i luoghi di divertimento, gli stadi ecc.
Oltre alle tecnologie di controllo, è da notare la diffusione delle forme di
sorveglianza attiva, dei servizi privati di sicurezza, dei vigilantes di caseggiato o
quartiere, o delle scorte personali soprattutto tra persone famose. Le spese per la
sicurezza privata sono sempre più significative e in alcuni paesi, come gli Stati Uniti i
cittadini spendono per i loro guardiani armati una cifra che è il doppio della somma
destinata alla Polizia dello Stato Federale.
Comunità rinchiuse
Le origini delle gated communites29 vanno ricercate nel fenomeno dei Common-
Interest Development (CIDs),30 le cui radici affondano già negli anni ’30 dell’800.
In quell’epoca negli Stati Uniti iniziano a svilupparsi nuove aree residenziali attraverso
associazioni di proprietari (Homeowners Association) uniti da patti che definivano
l’uso delle terre ma che ponevano anche restrizioni di razza, religione e abitudini
sociali (per esempio relativamente al bere). Una delle più famose era la comunità di
proprietari di St. Francis Wood in San Francisco (St. Francis Home Association) che
nata nei primi decenni del ‘900 comprendeva circa 500 case con strade private,
parchi, campi da tennis e regolamenti che definivano restrizioni razziali, indicazioni
architettoniche e uso degli spazi. Si trattava comunque di associazioni di proprietari
senza forme di governo centralizzato della comunità.
Altri autori rintracciano dei prototipi di Gated Communities nel villaggio di
Rosemont nato nei primi del novecento nei pressi di Chicago che istituì il primo
checkpoint privato o nella comunità di Radburn nel New Jersey sorta nel 1928 che
propose per prima l’idea di un “governo privato” o “extramunicipale” basato su istituti
contrattuali tra i proprietari. Ma bisogna andare agli anni ’60 per trovare un vero e
proprio sviluppo dei Common-Interest Developments.
Un aspetto interessante è che secondo Evan Mckenzie, autore dello studio
Privatopia Homeovner Associations and the Rise of Residential Private Governement
tra gli ispiratori delle comunità rinchiuse c’è l’utopia verde e socialisteggiante di
Ebenezer Howard autore nel 1902 del celebre libro “Garden Cities of tomorrow”
29
Sulle Gated Communities si veda Atkinson Rowland, Blandy Sarah (Edited by), 2009, Gated
Communities, Routledge, London; Blakely Edwar J., Gail Snyder Mary, 1999, Fortress America. Gated
Communities in the United States, Brookings Institution Press, Washington D.C.; Caldeira Teresa P.R.,
2000, City of walls. Crime, segregation and citizenship in Sao Paolo, University of California Press,
Berkeley; Cortez Josè Miguel, 2010, La ciudad cautiva. Control y vigilancia en el espacio urbano, Akal,
Madrid; Ellin Nan (a cura di), 1997, Architectur of fear, Princeton Architectural Press, New York; Low
Setha, 2003, Behind the Gates. Life, Security, and the Pursuit of Happiness in Fortress America,
Routledge, New York; McKenzie Evan, Privatopia. Homeowner Associations and the Rise of Residential
Private Government, Yale University Press, New Haven London, 1994; Petti Alessandro, 2007, Arcipelaghi
e enclave. Architettura dell’ordinamento spaziale contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano. Si veda su
questi temi anche il numero monografico sulla “Homeland Security” della rivista Gomorra, anno IV,
numero sei, marzo 2004 e i lavori di Giandomenico Amendola, La città postmoderna, Laterza, Roma-Bari,
2000 e Il governo della città sicura. Politiche, esperienze, luoghi comuni, Liguori, Napoli, 2003.
30
Si veda in proposito Dana Young, Common interest developments an Historical overview of Cid
developments, Public Law Research Institute, Working Papers Series, Fall 1996-02,
http://w3.uchastings.edu/plri/96-97tex/cid.htm.
che ha ispirato molti pianificatori urbani e molti pensatori radicali tra cui Lewis
Munford. 86
Gli elementi di fondo venivano individuati in una pianificazione complessiva e
integrata e in una organizzazione politica ed economica della comunità
residenziale.Dall’utopia delle comunità di città giardino alle comunità rinchiuse c’è
dunque un filo, credo non casuale.
Nei decenni successivi il fenomeno delle gated communities mette radice anche
altrove. In Brasile, a partire dagli anni ’70 si sviluppa il progetto delle Alphaville,
delle città futuristiche costruite dal un impresa poi ribattezzata AlphaVille Urbanismo
S.A. Il nome Alphaville, ispirato al film di Jean Luc Godart del 1965 Alphaville: Une
étrange aventure de Lemmy Caution, dovrebbe evocare l’idea della “prima tra le
città”. In quel momento la metropoli di São Paulo registrava una crescita pronunciata
dei tassi di crimini urbani, del traffico e degli ingorghi urbani. Il progetto urbanistico
nacque in primo luogo per dare uno sfogo alle esigenze del comparto industriale e
commerciale e in secondo luogo per realizzare residenze per le classi sociali più
altolocate. Il sito della prima Alphaville a 23 km da comprende 33 aree
recintate con oltre 20,000 abitazioni e 35.000 abitanti, mentre al di fuori
dell’area residenziale si trova un’area di business che comprende anche 11 scuole e
università. La comunità è servita da un corpo di polizia di 1100 agenti. Questo per San
Paolo, la seconda città del Brasile, fu solo l’inizio di un lungo processo di chiusura che
continua tutt’ora. Come ha scritto Teresa Caldeira a proposito di San Paolo:
«oggi è una città fatta di muri. Sono state costruite ovunque delle barriere
fisiche: intorno alle case, ai condomini, ai parchi alle piazze, alle scuole, agli uffici
[…] La nuova estetica della sicurezza decide la forma di ogni tipo di costruzione,
imponendo una logica fondata sulla vigilanza e la distanza» (cit. in Bauman,
2005, p. 25).
Il progetto Alphaville è stato poi esteso in altre aree molte altre città del Brasile
(Campinas, São José dos Campos, Ribeirão Preto, Rio de Janeiro, Goiania, Curitiba,
Londrina, Maringá, Salvador, Fortaleza, Belo Horizonte, Natal, Gramado, Manaus) e
perfino in Portogallo.
Nelle Alphaville oltre alle abitazioni e agli spazi del business ci sono sport club con
campi sportivi, sentieri pedonali e ciclabili, saune, piscine, bar, ristoranti e centri
commerciali, scuole, hotel ecc.
Dall’altra parte dell’oceano il fenomeno delle gated communities trova un suo
sviluppo anche in Sud Africa.31 Dopo la fine del regime apartheid, e in un clima di
conflitto sociale dovuto a povertà e al perdurare di forme di discriminazione, una parte
dell’élites bianca si rinchiude in comunità recintate e di lusso (“security villages” o
“security estates”) situate nelle zone metropolitane di Johannesburg, Pretoria o Cape
Town o negli insediamenti costieri quali Plettenberg Bay, Mossel Bay, Port Elizabeth o
Richards Bay. Le più grandi sono quelle di Heritage Park nell’area metropolitana di
Cape Town e quella di Dainfern a Johannesburg. Si tratta comunque di
insediamenti sensibilmente più piccoli di quelli Brasiliani.
Negli anni ‘90 anche la Disney Company si lancia nel mercato delle oasi
recintate. Nel 1994 viene inaugurata Celebration nei pressi di Orlando, nel cuore
della Florida. Si tratta di una nuova città perfetta a forma di mezza luna con laghetti,
campi da golf, cinema, spazi per divertimenti, negozi color pastello, automobili
elettriche, prati e foreste, per un complesso di circa 27 chilometri. Un modello ispirato
31
Sul caso del Sud Africa, confrontato a quello del Brasile si veda Karina Landman, Martin Schönteich,
“Urban Fortresses. Gated communities as a reaction to crime”, African Security Review, Vol 11 N° 4,
2002.
però non al futuro, come le Alphaville brasiliane ma al passato, ovvero ai tranquilli
villaggi sette/ottocenteschi. I modelli abitativi sono standard e prevedono 6 tipologie 87
architettoniche differenti secondo uno stile classico, coloniale, vittoriano, costiero,
mediterraneo e francese. Si tratta infatti di proporre una forma urbana che ricordi un
clima di familiarità, di stabilità, di quiete, da opporre alle inquietudini e alle minacce
della modernità. Celebration ospita 952 abitazioni, 716 families e 2736 persone
residenti. Val la pena notare che secondo l’United States Census Bureau la
percentuale di bianchi nella composizione della popolazione di Celebration raggiunge
circa il 93,57% mentre tra le varie minoranze la popolazione nera arriva solamente al
1,72%. Percentuali ben diverse da quelle complessive degli Stati Uniti.
Più ancora che in altre comunità recintate qui la Disney ha voluto proporre un vero
e proprio modello di comunità, con una propria immagine di ordine, decoro
conservazione e sicurezza. A tal fine la comunità stabilisce regole di comportamento
precise, garantisce un sistema di sicurezza elettronico con una rete a fibre ottiche,
telecamere nascoste e un corpo di agenti che girano in abiti borghesi,
Attualmente negli Stati Uniti le “gated communities” sono oltre ventimila.
Secondo i censimenti degli ultimi anni ospitano circa 8 milioni di persone. Mentre
tra palazzi e centri residenziali sorvegliati si contano circa 28 milioni di cittadini
americani pari a oltre il 10% della popolazione Usa. Si stima che oltre un terzo dei
nuovi alloggi attualmente costruiti sono già inseriti in comunità chiuse e recitate. In
zone come Los Angeles è sempre più difficile comunque trovare una nuova casa in
costruzione fuori da questo tipo di edilizia. Secondo Forbes, tra le più lussuose Gated
communities negli Stati Uniti, i cui prezzi possono andare da 1,9 milioni a circa 35/40
milioni di dollari, ci sono il “Mauna Kea Resort” alle Hawaii, il “Beverly Park” e il
“Brentwood Country Estates” a Los Angeles, il “Pebble Beach” a Calif, l’”Indian
Creek Island” nella Florida del Sud, il “Pelican Hill” a Newport Beach, l’”Hualalai
Resort” alle Hawaii, il “Montage Resort” e il “Three Arch Bay” a Laguna Beach,
Calif e il “The Sactuary” a Boca Raton.
In Gran Bretagna si stimano circa 1000 gated communities che ospitano
circa 100.000 persone. Si trovano in particolare attorno a Londra specialmente
nell’area dei Docklands come “New Caledonian Wharf”, “Kings and Queen
Wharf”, “Pan Peninsula”, e nell’East London, come “Bow Quarter” altre comunità
si trovano nel sud est dell’Inghilterra.
In Italia il modello delle gated communities non si è per fortuna ancora affermato,
ma sono invece diffuse altre tipologie di enclave residenziali esclusive soprattutto nelle
principali aree metropolitane. Si pensi per esempio ai casi di Milano 2 e Milano 3,
costruite dalla società Edilnord come insediamenti ricchi di prati e di parchi per
persone ad alto reddito e che costituiscono delle specie di cittadine autonome non
recintate ma con servizi di vigilanza privati e accessi controllati, soprattutto la sera.
Un altro esempio è l’Olgiata a Roma, un comprensorio circondato da una
recinzione e monitorato 24 ore su 24 da un servizio di vigilanza che controlla accesso
e uscita nei due ingressi nord e sud. Al suo interno offre un Golf Club, un Country Club
con piscina olimpionica, campi da tennis e da calcetto e due ristoranti interni.
L’ultimo caso è quello di Cascina Vione. Cascina Vione, una frazione geografica del
comune di Basiglio, in provincia di Milano sulla strada verso Pavia è una di queste
storiche grange. L'esistenza del borgo è attestata già nel 1086, come possesso della
famiglia De Villiono (“locus de Villiono"), e poi nel 1240 come castrum. In seguito, nel
1245 il castrum di Vione passò in proprietà dell'abbazia di Chiaravalle e come
dimostra un documento del 1269 divenne una grangia. Nel 1484 passò sotto il
controllo del monastero di Sant'Ambrogio di Milano.
Forse conoscete la parola “grangia” o “grancia”. Un termine che viene dal francese,
granche (granaio), e che stava ad indicare appunto una struttura edilizia utilizzata per
la conservazione del grano e delle sementi e in senso lato il complesso di edifici che
costituivano l'antica azienda agricola. Questa forma era tipica dell'area occitana (Italia
nord-occidentale, Francia meridionale, area dei Pirenei). In Italia il termine è stato 88
diffuso dai monaci Cistercensi che furono impegnati in importanti opere di bonifica e di
promozione agricola attraverso aziende agrarie legate ai monasteri. Queste strutture
edilizie agricole chiuse comprendevano un grande cortile, le abitazioni, le stalle, i
capannoni magazzini, le officine e in genere una chiesa o una cappella e quindi terreni
e pascoli.
Cascina Vione conserva l'impianto chiuso di forma quadrangolare e con due ingressi
principali, con portali settecenteschi. All'interno gli spazi sono organizzati su otto
cortili suddivisi funzionalmente. Vi si trova la chiesa di San Bernardo e un antico
mulino.
Come è stato notato la logica di consolidamento del potere sulla grangia e la forma
di isolamento quale cellula socio-economica autonoma anche per difendersi da
ingerenze politiche e religiose esterne hanno creato una forma di unità politico-
amministrativa per cui Cascina Vione come molte altre grange si è sviluppata come
comune autonomo fino al 1725, quando venne annesso al Comune di Basiglio.
Dopo decenni di abbandono e degrado c’è stato un piano di recupero del Comune di
Basiglio rispetto alla quale si è inserita la società immobiliare Milano Holding Group.
Il Comune di Basiglio si trova nei pressi dell’insediamento urbanistico berlusconiano
di Milano 3, particolare interessante perché nella sua forma attuale Cascina Vione
rappresenta l’evoluzione logica di quelle cittadine esclusive quali Milano 2 o Milano 3.
Il 17 dicembre 2007 Danilo Doronzo, presidente di Milano Holding Group rilascia
un’intervista in cui dichiara di voler cedere i suoi progetti di sviluppo edilizio per uffici
in Lettonia per concentrarsi su un progetto nell’area milanese.
«Abbiamo acquistato una "grangia", l'unica che forse ancora esiste in Lombardia.
Le grange erano strutture agricole che i monaci cistercensi, già nel XIII secolo,
trasformarono in nuclei rurali organizzati come veri e propri villaggi. " Cascina
Vione " - questo è il nome dell'insediamento - si trova nel Comune di Basiglio, nel
Parco Sud, quindi a brevissima distanza da Milano. Si estende su di un'area di
circa 100 mila metri quadrati. Ancora oggi, una lunga cinta muraria esterna
lambita da un fossato rievoca l'antico centro agricolo fortificato. All’interno vi
sono numerose corti, ma tutti gli edifici sono in stato di completo abbandono
(all'interno vi sono anche una chiesetta , e un mulino). Nel dicembre 2006 il
Parco ha rilasciato il parere favorevole al piano di recupero per l'intero
complesso. In accordo con il Comune di Basiglio trasformeremo - nel rispetto
delle metrature esistenti - Cascina Vione in un ambiente esclusivo e
completamente sostenibile, con unità residenziali e ville. Verde
dappertutto, e niente auto (i parcheggi saranno sotterranei). È un progetto
affascinante e unico nel suo genere, che si può valutare in circa 80 milioni di
euro. Le unità saranno poste in vendita, e noi creeremo una struttura che sia in
grado di garantire ai residenti assoluta sicurezza e servizi condominiali a
cinque stelle. Pensiamo di poter partire con i lavori di questa "città ideale"
entro la primavera 2008, e per la completa consegna occorreranno circa tre
anni».32
32
http://www.internews.biz/interviste/36.htm
trasformazione del borgo storico nella prima vera e propria Gated community
italiana.33 89
La comunità ha aperto i battenti ai proprietari delle 146 case e
appartamenti (per un totale di 500 abitanti circa) il primo maggio scorso
(2011). Il complesso è chiuso da muri di cinta e prevede vigilanza armata,
telecamere lungo il perimetro e sensori antintrusione. L’ingresso sarà consentito solo
ai residenti e agli ospiti previa identificazione.
Nella presentazione inviata ai Mass media Danilo Doronzo presenta con queste
parole la nuova realtà:
«Sarà il regno del silenzio uno spazio dove i bambini potranno circolare
liberamente senza che nessuno possa entrare in assenza di autorizzazione e dove
una società di gestione esaudirà tutte le richieste dei proprietari, dai servizi di
baby sitting alla consegna della spesa, fino all’innaffiamento dei fiori 24 ore su
24». «Anche le biciclette - precisa Doronzo - resteranno fuori mentre per le auto
ci saranno i parcheggi sotterranei».
33
Si veda Jenner Meletti, “Cancelli, mura di cinta e telecamere. Le città con il ponte levatoio”, in La
Repubblica, 20 gennaio 2011.
quando uno di quei poveri animali si è ammalato, ci siamo uniti e abbiamo fatto
di tutto per curarlo. 90
Accidenti…
E non è tutto. Se lei verrà a Basiglio le potrà capitare di ammirare una scena
unica. Automobilisti che si fermano al passaggio di una delle tre colonie di gatti
randagi che ospitiamo. Cose che non accadono dappertutto…
E cosa mi dice del “quartiere chiuso” di Vione?
Si tratterà di una zona residenziale, verrà recintata con dei cancelli e ospiterà
cittadini molto facoltosi. Verrà, inoltre, costantemente vigilata da poliziotti privati
e telecamere, che saranno posizionate ovunque. Chi andrà a vivere lì dovrà poter
godere dei più alti standard di sicurezza possibili. E naturalmente non tutti
potranno entrarvi…
34
Nan Ellin, Architectur of fear, cit.p. 42.
Voglio richiamare a questo proposito un frammento di un’intervista a un tunisino
che ho svolto qualche anno fa nella mia città,dove risiede da una dozzina d’anni. Ha 91
un’avviata attività commerciale, un negozio sempre molto frequentato. Mi sono
chiesto come lui poteva vedere la città. Così durante un’intervista gli ho domandato se
ci sono luoghi della città dove abita che gli piacciono e altri che non gli piacciono e che
lo fanno sentire a disagio. A proposito di questi ultimi mi confida:
«…le villette della provincia di Parma, appena esci dalla città. Perché penso
che sono molto chiuse in se stesse. È gente che non vuole conoscere nessuno e
non vuole nessuno che entra, perché vedi sempre gli alberi che coprono la
visuale verso queste villette. È un benessere così grande che si sentono molto
indipendenti. Anche se qualcuno sta fuori a spiare non gliene frega niente. Danno
una freddezza e un’invidia…».
È sempre una sorpresa guardarsi attraverso gli occhi degli altri perché restituiscono
uno sguardo diverso su noi stessi e riequilibrano le nostre proiezioni sugli altri.
A ben guardare non è così scontato stabilire chi difende un senso di comunità
possibile e chi invece la minaccia o lentamente la smantella.
Mentre molti cittadini si nascondo in spazi privatizzati gli immigrati continuano ad
abitare e a vivere normalmente nelle strade e nelle piazze.
Le villette circondate da siepi o da alti cancelli, i condomini recintati come i quartieri
residenziali separati da mura sono in fondo alcuni dei tanti esempi di quella che
Zygmunt Bauman ha chiamato mixofobia, ovvero la paura di mescolarsi agli altri.
La paura dell’altro, la mixofobia, determina questa politica dello spazio, questa
costruzione di ghetti, enclaves, “ripulite”. Di fronte all’aumento delle differenze
nelle nostre città, le nuove enclosures permettono una effimera sensazione di
omogeneità e trasparenza sociale. Questa mixofobia, sostiene Bauman,
35
Si veda in proposito, il ritratto lucido e spietato della violenza latente in queste comunità e pronta a
scoppiare, secondo il tipico meccanismo del capro espiatorio, proposto dal regista Rodrigo Plà, La Zona,
(Messico, 2007),
classe si maschera da conflitto culturale. Il conflitto sociale, diventa conflitto
spaziale. 93
Commentando il film The Village di Manoj Night Shymalan, Slavoj Zizek
sottolinea che le figure esemplari del male di oggi,
36
Per una sintesi dei risultati della ricerca cfr. “Il manifesto”, 27 aprile 2004. Per conoscere l’European
Commission’s Urbaneye Project cfr. http://urbaneye.net
Ma quanto sarebbe intrusivo, invasivo, irrispettoso, oppressivo uno sguardo di
questo genere? Che garanzie abbiamo sulla nostra privacy? Quanto siamo disposti a 95
farci frugare nelle nostre tasche, nei nostri gesti, nei nostri occhi per ricevere (forse)
un pizzico di tranquillità in più? E quanta forza di polizia dovrebbe presidiare il
territorio per intervenire prontamente in tempo reale di fronte alla possibilità di un
crimine o a un fatto appena commesso? L’ipotesi di un controllo militare del territorio
è proprio la soluzione dei nostri problemi o non ne genererebbe di altri, forse più gravi
ancora? E tutte queste telecamere non aumentano la nostra ansia più che diminuirla?
In questo clima giocano un ruolo importante anche i mass media. Bastano
pochi episodi per creare già il clima e lanciare le campagne da “Emergenza criminalità”
e tener su le notizie per un bel po’. Nelle città le campagne mediatiche sulla sicurezza
finiscono immancabilmente per preparare e giustificare agli occhi della cittadinanza
delle retate generiche contro i clandestini dipinti in quanto tali come esseri colpevoli di
ogni genere di nefandezze o addirittura per sdoganare le ronde e aprire
pericolosamente la strada ad una giustizia fai da te.
Vi ricordate forse il caso successo a Parma qualche anno fa, quando un gruppo di
vigili urbani appartenenti ad un nuovo reparto di volontari, hanno brutalmente pestato
e insultato un giovane studente che passeggiava in un parco in attesa dell’orario di
inizio delle sue lezioni, poiché in quanto “negro” lo avevano giudicato senz’altro un
criminale spacciatore. Un episodio indicatore dei rischi cui può portare un certo clima
culturale.
Viceversa, possiamo osservare che gli omicidi volontari sono diminuiti da 1.901 nel
1991 a 475 nel 2014 (0,8 per 100.000 abitanti).
«Il tasso degli omicidi è costante (0,8 per 100.000 abitanti) e dagli anni ‘90 è
diminuito notevolmente: per la prima volta nel 2014 il numero degli omicidi scende
sotto le 500 unità (475 omicidi). L’Italia presenta il valore più basso in Europa, dove
pure il tasso di omicidi è diminuito fortemente nel triennio 2010-2012, con le sole
eccezioni di Grecia, Malta e Austria. E’ questo un dato importante per il Paese che ha
mantenuto livelli bassi anche durante la crisi. Gli omicidi di tipo mafioso e per furto e
rapina hanno avuto un breve incremento nel 2012, ma sono entrambi di nuovo in
diminuzione. Aspetti positivi emergono sul fronte della violenza contro le donne. È
diminuita la quota di donne che ha subito episodi di violenza negli ultimi cinque anni,
sia per la violenza fisica sia per la violenza sessuale e psicologica. La diminuzione
riguarda sia quella subita da parte dei partner sia quella da parte dei non partner e
soprattutto le forme meno gravi. Mentre rimangono stabili gli stupri e i tentati stupri,
aumenta la gravità degli episodi di violenza subiti dalle donne».
37
http://www.istat.it/it/files/2015/12/Rapporto_BES_2015.pdf
Con uno sguardo ancora più ampio, potremmo notare che sotto molti aspetti noi 96
viviamo in una società che risulta essere molto più sicura di qualsiasi altra del
passato. Eppure il nostro senso di insicurezza sembra forte come non mai.
La crescita del senso di insicurezza non corrisponde ad una crescita reale della
criminalità. Possiamo allora chiederci da dove deriva questo crescente senso di paura
e di insicurezza. Si tratta di qualcosa che dobbiamo spiegare in termini culturali e non
dare per scontato.
In realtà secondo Zygmunt Bauman (Bauman, 2000), si possono individuare
almeno tre tipi differenti di insicurezza:
«Nella sua forma pura e non manipolata, la paura esistenziale che ci rende
ansiosi e preoccupati è ingovernabile, irreprimibile e perciò paralizzante»
(Bauman, 2000, p. 51).
Piuttosto che guardare negli occhi questa verità si preferisce ridurre e incanalare
questa enorme e schiacciante paura e questo senso di insicurezza in elementi più
piccoli, in questioni più maneggevoli, che ci possano dar l’impressione di stare
cambiando qualcosa.
Oggi la sicurezza in realtà è soprattutto un articolo valido per il mercato economico
e per quello politico (non è un caso che la questione ritorni così spesso durante i
periodi elettorali). È uno slogan politico e un progetto di società sponsorizzato da
leader politici, da industrie della sicurezza e anche dai mass media..
Si può dire dunque che oggi ci troviamo a confrontarci con delle “paure ufficiali”,
delle paure nominabili, con una forma, un contorno, una possibile rappresentazione
che coprono tuttavia delle paure più profonde che non sono nominabili, perché sono
informi o sconosciute o perché ci inquietano troppo, o perché in termini sociali sono
disdicevoli. Le paure ufficiali sono costruite, sono cioè in gran parte artefatte,
propagandate, gonfiate dai mass media. Sono politiche e strumentalizzabili e possono
servire facilmente una causa elettorale. Sono economiche e redditizie e rappresentano
un’espansione del mercato attraverso gli angoli oscuri e malati del nostro sistema
sociale e del nostro stile di vita.
Le paure più profonde non hanno voce, non entrano nella riflessione sociale e
politica, se non attraverso qualche piccolo convegno di realtà di base, o le
pubblicazione di un qualche accademico. Come ha sottolineato David Garland,
«in Gran Bretagna e in America gli attori politici hanno ripetutamente scelto di
rispondere alla diffusa preoccupazione per la criminalità e la sicurezza con 97
politiche che puniscono ed escludono. […] Anziché impegnarsi a costruire il
complesso di istituzioni integrative e di governo necessarie per regolare in modo
unitario il sistema economico e sociale, tali politiche hanno stabilito una divisione
tra i gruppi abilitati a vivere in una condizione di libertà senza re gole e i gruppi
da assoggettare a pesanti controlli. Invece di contrastare i processi di
marginalizzazione economica e di esclusione sociale, endemici nell’attuale
globalizzazione, la nuova enfasi sulla punizione e sul controllo poliziesco li ha
aggravati. In luogo di affrontare il difficile problema della solidarietà sociale in un
mondo pieno di diversità, i nostri leader politici hanno preferito affidarsi alle
certezze offerte dalle più semplici e coercitive soluzioni hobbesiane».38
Questa paura di incontrare l’altro è legata anche all’assenza delle nostre alterità
nello spazio politico pubblico. Uno spazio politico nel quale si gioca ancora con
regole, linguaggi, e dinamiche fortemente chiuse e conservatrici. Uno spazio dunque
che rimane ancora respingente per qualsiasi soggetto che non sia l’uomo di una certa
età e di un certo livello sociale. Così – se prendiamo il caso dell’Italia - non solo gli
immigrati, ma anche le donne e i più giovani oggi sono ai margini della vita
38
David Garland, The Culture of Control. Crime and Social Order in Contemporary Society, The
University of Chicago Press, Chicago, 2001, p. 202.
politica istituzionale. Credo che la situazione attuale ci parli non solo di un
impedimento ma anche di una grande diffidenza da parte dei nuovi soggetti. 98
Negli anni ’80 e ‘90 anche nel nostro paese si è diffusa una cultura politica che ha
riformulato – anche da un punto di vista linguistico - la questione del governo delle
città e della vita della polis in termini nuovi, in gran parte mutuati dal mercato e dal
mondo delle imprese. Il governo della polis si è trasformato in una attività di gestione
affaristico e imprenditoriale per un verso e di mantenimento dell’ordine per un altro.
Questa cultura ha attraversato indifferentemente la classe politica di una parte e
dell’altra. E, d’altronde, questo spirito ha permeato anche una buona parte della
popolazione, che soprattutto nelle città dove c’è maggior benessere, si è abituata a
delegare volontariamente la politica ai politici di professione almeno finché non
matura qualche grave problema o contraddizione che li tocca direttamente.
Così quello che è successo è che mentre le città si ingrandivano, mentre il ruolo
e gli ambiti, le dimensioni si andavano ampliando e complessificando, al contrario lo
spazio pubblico, lo spazio della politica, si è andato sempre più
miniaturizzando. Per ampiezza di prospettive, per partecipazione, per capacità di
sperimentazione, per luoghi e modalità decisionali. C’è un forte rischio di città senza
spazio pubblico. Senza un luogo e una pratica di discussione, di confronto, di
apprendimento, di invenzione collettiva. Dunque il problema non è solamente come
coinvolgere i diversi generi, le diverse generazioni, gli immigrati e in generale le
persone di diversa, ma anche come modificare e riaprire gli spazi pubblici della politica
in modo da renderli abitabili e significativi per tutti.
Se oggi c’è una crisi della politica è anzitutto per un difetto di immaginazione. La
città vive di come è stata sognata, di come è sognata… La città esiste nella capacità di
immaginarla dei suoi abitanti. Non sono degli amministratori più o meno illuminati, ma
di tutti i suoi abitanti. La politica di una polis dovrebbero emergere dal contributo di
tutti: uomini, donne, immigrati, bambini; maestri, scrittori, impiegati, medici, precari,
tutti dovrebbero essere stimolati a portare il proprio punto di vista e la propria
esperienza. Come ha notato Marc Augé,
«Urbanisti, architetti, artisti e poeti dovrebbero rendersi conto del fatto che la
loro sorte è legata e che la loro materia prima è la stessa: senza immaginario
non ci saranno più città e viceversa. Da questo punto di vista, la società e
l’utopia sono legate. L’immaginario misura l’intensità della vita sociale»
(Augé,1999, pp. 113-114)
Ma occorre per far questo che ci sia una presa di coscienza, che si faccia strada tra
la gente il desiderio di sperimentare qualcosa di nuovo che fuoriesca dalle modalità
tradizionali di far politica. Le città devono farsi laboratori, divenire città che si
guardano intorno e che apprendono, e cominciare ad affrontare davvero la sfida
dei problemi del nostro tempo.
Perché per esempio non spostare una buona parte dei palazzi dell’amministrazione,
della sicurezza - i consigli comunali, provinciali, regionali, le sedi delle rappresentanze
nazionali o delle forze di polizia – nei diversi quartieri periferici, come suggeriscono
Roland Castro e Marc Augè (Augé, 2007, p. 32)? Oppure perché non destinare i
palazzi lasciati vuoti ad altri usi: sociali, di incontro, ricreativi, culturali, artistici,
espositivi? Perché non inventare forme di spostamento e di comunicazione tra luoghi e
spazi diverse da quelle convenzionali, in modo da favorire la comunicazione e
l’incontro? Perché insomma non reinventare con un po’ di fantasia gli spazi pubblici e i
loro usi?
Non sono le possibilità che mancano. Ciò che ci difetta è invece la capacità di
pensare e immaginare la città altrimenti. Da questo punto di vista sono
particolarmente interessanti le esperienze di organizzazioni come il Project for
Public Spaces39, l’International Making Cities Livable Movement40, o il 99
Cittaslow - Slow cities movement41, o in Italia la Rete del nuovo municipio42 o
la Rete delle Città vicine,43 che si impegnano per la promozione e la riqualificazione
degli spazi pubblici, delle città e dei territori.
Fondata nel 1975 da Fred Kent, il Project for Public Spaces (PPS) è un
organizzazione nonprofit impegnata a creare e sostenere spazi pubblici in tutto il
mondo, secondo l’idea che la progettazione e il design urbano possono essere un
spazio di espressione e creazione della comunità.
Creato nel 1985 il Making Cities Livable movement si è fatto alfiere di quello che
definisce “True urbanism”, un urbanismo basato sull’idea di un architettura
appropriata alla scala umana, di palazzi ad uso misto (privato e commerciale), di città
più compatte ("city of short distances" contro lo “sprawl”) con una pianificazione
equilibrata dei trasporti, e con strade e piazze conviviali che ospitino caffè e ristoranti
all’aperto, mercati contadini, manifestazioni e festival. Promuove l’idea di uno spazio
pubblico capace di rilanciare l’impegno pubblico e la partecipazione democratica.
Nato ad Orvieto nel 1999, Cittaslow, il movimento internazionale delle “Città del
Buon Vivere”, si ispira ai concetti di Slow Food e intende promuovere un nuovo
modello di città centrato non più sulla crescita continua ma sulla qualità della vita
nelle città, valorizzando l’ambiente e la biodiversità, il patrimonio storico, artistico e
culturale, le produzioni tipiche, il rapporto col territorio.
Nata ufficialmente nel novembre del 2003, l’Associazione Rete del Nuovo
Municipio, promuove l’idea di una via alternativa della democrazia, promuovendo
istanze di rinnovamento ed allargamento delle dinamiche di decision-making e di
empowerment delle comunità locali nel governo della città e del territorio.
Per altri versi è interessante anche il Transition Town movement44. Si tratta di
un movimento popolarizzato da Rob Hopkins che si propone di cominciare a preparare
e inventare delle città sostenibili capaci di affrontare e rispondere alle sfide emergenti
in un era post-petrolifera e in un’epoca segnata dai cambiamenti climatici.
Tutti questi movimenti hanno capito che si può migliorare la città e la politica
prestando attenzione allo stesso tempo a “progetti” e “processi”: gli spazi e le
possibilità di incontrarsi, riconoscersi, confrontarsi per immaginare e costruire il
territorio sono le condizioni per rigenerare insieme e mutuamente la città e la
cittadinanza.
39
Vd. http://www.pps.org/
40
Vd. http://www.livablecities.org/index.htm
41
Vd. http://www.cittaslow.net/default.asp?Pag_ID=1
42
Vd. http://www.nuovomunicipio.org/
43
Vd. http://www.cittavicine.it/
44
Vd. http://transitiontowns.org
Secondo l’urbanista Nan Ellin, autrice del libro Integral Urbanism (Ellin, 2006),
diversamente da quanto avveniva con le città pianificate e funzionalizzate tipiche del 100
modernismo e del post-modernismo che tendevano a separare, isolare, alienare e
respingere, le nuove politiche urbanistiche dovrebbero facilitare la connessione, la
comunicazione e la celebrazione, ovvero la reintegrazione, la circolazione e la
comunione nello spazio e nel tempo della gente, delle attività e del lavoro generando
nuove forme di compresenza, ed ibridazione così come avviene in natura negli
“ecotoni”45 ovvero in quegli spazi di interfaccia e transizione che rappresentano una
sorta di cucitura tra ambienti diversi.
O per usare un’altra metafora, se la pianificazione urbana tradizionale prendeva la
forma di una operazione chirurgica su una città anestetizzata «l’urbanistica integrale –
afferma Nan Ellin - può essere vista come una forma di agopuntura in una città
pienamente vigile e coinvolta» che rimuove i blocchi lungo i “meridiani urbani” proprio
come l’agopuntura e altre forme di cura bioenergetica guariscono rimuovendo i blocchi
lungo i i meridiani energetici dei nostri corpi (Ellin, 2006, pp. 9-10).
Si tratta di connettere spazi ma anche attività e soggetti ovvero di
comprendere la necessità di un’integrazione tra distretti scolastici, parchi, luoghi
ricreativi, autorità del traffico, responsabili di quartiere, associazioni locali e di vicinato
e autorità pubbliche. Insomma in termini più generali la promozione della vitalità e
della comunicazione urbana è un fattore fondamentale per produrre un senso di
sicurezza e di benessere.
Abbiamo visto dunque come la ricchezza e la complessità delle differenze che le
attraversano possano essere causa di difficoltà, di conflitti, di reazioni e anche di
ripiegamenti. D’altra parte, in conclusione, possiamo anche chiederci che cosa può
tenere insieme tutte queste diversità?
La risposta dovrebbe essere ovvia, ma in realtà non lo è. La risposta è senza
dubbio: la città stessa. L’unica cosa che possono avere in comune tutte queste
persone è infatti il senso del luogo. La possibilità della convivenza, del
riconoscimento, dell’apertura piuttosto che della chiusura e dell’ostilità dipende in
primo luogo dal riconoscersi parte dello stesso luogo, della stessa “comunità di
destino”.
È importante, anzi fondamentale, che chi vive in una città, che vi sia nato o che vi
sia arrivato, che pensi di starci poco o tanto, che sia venuto a trovare lavoro o a
costruirsi la vita, possa riconoscere il luogo in cui abita come un luogo comune. Un
luogo in cui possa almeno in parte rispecchiarsi. Che possa considerare quel pezzo
di terra e di case come un pezzo di mondo interno. Perché questa è la garanzia
più forte che possa rispettarlo e averne cura.
La nostra domanda finale non può allora che essere questa: come destare di
nuovo l’amore del luogo? L’amore per le città che abitiamo?
Credo che amministrare una città oggi significhi soprattutto questo. Significa saper
accrescere l’amore del luogo per tutti coloro che la città la abitano, la attraversano, la
visitano, vi lavorano, o che, dovendo partire, se la portano dentro e vi rimangono in
qualche modo legati.
45
Un “ecotone” è un ambiente di transizione tra due ecosistemi diversi tra loro. La caratteristica di
cerniera, quindi di comunicazione e di scambio, tra ambienti diversi, rende in generale gli ecotoni dei
territori particolarmente ricchi in termini di biodiversità e particolarmente importanti in termini
ecologogici.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
101
INTERESSE/DONO
Negli anni venti, l’antropologo francese Marcel Mauss scrisse un saggio, il celebre
"Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche"
(1923-24) destinato a diventare un punto di riferimento per tutti i successivi studi
antropologici e sociologici sul dono che poneva a questo proposito alcune questioni
chiave. Non solo studiando materiali sulle tribù indigene sia americane che del pacifico
metteva in luce la centralità del dono e della reciprocità nelle loro società seppure in
forme diverse (il Potlàc delle tribù indiane del Nord ovest americano o il Kula diffuso
attorno alle isole Tobriand vicino alla Nuova Guinea); ma inoltre Mauss sottolineava –
prima ancora di Polanyi e Dumont - che l’idea dell’uomo come “animale economico”
era in realtà un’invenzione recente e tipica delle società occidentali ovvero che l’homo
oeconomicus non è inscritto nella nostra storia e nella nostra antropologia, ma è una
creazione artificiale:
Mauss studia le tribù indigene sia americane che del pacifico e mette in luce
l'importanza del dono e della reciprocità nelle loro società. Tra le tribù indiane del
Nord ovest americano (attuali Stati Uniti e Canada), ad esempio si segnala un
usanza chiamata Potlàc (nutrire, consumare, dare). Queste tribù (indiani
Kwakiutl) studiate in particolare dall’antropologo Franz Boas per oltre 45 anni,
trascorrono l'inverno in una festa prolungata per diversi giorni e notti con, banchetti,
canti e balli, fiere e mercati (spesso legati a iniziazioni, matrimoni, funerali, passaggi
di cariche prestigiose), che costituiscono l'assemblea solenne della tribù e che si
svolgono una o due volte l’anno. Questi Potlàc organizzati dai membri di spicco della
tribù, rappresenta una forma di scambio che esclude il mercanteggiamento e che si
basa invece su un considerevole dono di ricchezze offerte in maniera esplicita con
l'atteggiamento di obbligare o sfidare. L’organizzatore distribuisce doni e regali a tutti 103
i partecipanti. Il destinatario di un dono deve necessariamente accettare questa sfida,
superare la propria condizione di indebitamento e quindi ricambiare a sua volta con un
dono più importante, cioè deve restituire il dono ad usura in modo da obbligare
nuovamente chi gli ha da poco fatto un regalo. Non si ricambia subito ma più tardi e in
missura maggiore più passa il tempo. Ci sono dei Potlàc in cui si deve dare tutto e non
si deve conservare niemte. Attraverso questo meccanismo di reciprocità e rivalità
si può pervenire ad una perdita o distruzione delle ricchezze accumulate.
Un altro esempio portato da Mauss (e studiato da Malinowski) è quello del Kula
diffuso attorno alle isole Tobriand vicino alla Nuova Guinea. Kula significa
cerchio. Il cerchio del dono lega i partners disseminati nelle varie isole. Ci sono delle
spedizioni da un isola all'altra in cui alcune persone donano ad altre dei piccoli regali di
apertura, ovvero dei regali che iniziano una relazione, al quale i riceventi ricambiano
con regali più importanti. In questo modo si creano partner ed amicizie. In questi
scambi si creano un'ampia circolazione di beni.
Molte pratiche di dono sono di fatto forme culturali che favoriscono la condivisione e
alla redistribuzione e ostacolano invece ogni forma di accumulazione individuale. Di
fatto molte culture tradizionali scoraggiano l’accumulazione privata e assicurano
che il surplus prodotto sia speso e consumato socialmente”.
In altre culture il concetto di ricchezza va riferito a dimensioni sociali o ambientali.
Vediamo per esempio l’intervista ad una donna di Dakar nel Senegal nel 1990
raccontata dallo studioso iraniano Mahjd Rahnema:
Come si vede qui il dono non è un atto unico, facilmente isolabile dal resto dei
comportamenti ma è il tessuto di fondo della relazione sociale comunitaria.
«La circolazione dei beni segue quella degli uomini, delle donne e dei bambini,
dei banchetti, dei riti, delle cerimonie e delle danze, persino quelle delgi scherzi e
degli insulti. Si tratta, in fondo, della stessa cosa. Se le cose vengono date e
ricambiate, è perché ci si dà e ci si rende “dei riguardi” – noi diciamo anche
“delle cortesie”. Ma è, anche, che ci si dà donando e, se ci si dà, è perché ci si
deve – sé e i propri beni – agli altri » (Mauss, 1991, p. 239).
46
Mahjid Rahnema, Intervista ad una donna di Dakar, Senegal 1990, tratta da EC.CO.MI. Economia di
Condivisione e Microcredito. “Un piatto di riso”, Verona-Milano, 2005.
Donare significa mettersi in collegamento, stabilire una relazione nel tempo. Uno 105
studioso canadese, Jacques T. Godbout, definisce per questo il dono
la restituzione sebbene generalmente sia presente non è certa. C’è quindi una
dimensione di rischio in ogni dono e contemporaneamente una attestazione di
fiducia. La generazione di fiducia implicita nel dono è ciò che crea legame
sociale, che permette la società.
Secondo alcune popolazioni studiate da Mauss, le cose che regaliamo non sono
inerti, non sono morte. Generalmente i beni personali donati hanno uno spirito, o un
"potere spirituale". Nel dono resta infatti sempre qualcosa del donatore, un
potere magico che potrebbe anche ritorcersi contro colui che lo ha ricevuto qualora
questi contravvenisse agli obblighi della reciprocità.
Quando regaliamo, insieme ad un oggetto regaliamo qualcosa di noi stessi. E
questo qualcosa lo regaliamo ad un'altra persona. Insomma un regalo è lo spirito di
una relazione. Per questo alcuni regali possono essere una faccenda molto intima.
Qualcosa di cui siamo estremamente gelosi. Di questi regali intimi si nutrono le
relazioni, poiché c'è una mescolanza di legami spirituali che si attiva nel dono:
Le interpretazioni relative allo hau sono diverse nella letteratura critica. Qualcuno lo
riferisce a relazioni non tra due ma tra più persone, ad uno scambio o dono
generalizzato, con altre persone e anche con la natura. Può essere anche inteso in
senso sociale e cosmologico. Il dono è la forza vitale, il soffio che circolando
feconda e da vita mentre se trattenuto attrae su di noi l’invidia, il maleficio, la
stregoneria. Da questo punto di vista osserva Godbout, “il dono reintegra l’umanità
nel cosmo”.
In termini generali, anche noi nelle nostre vite sperimentiamo in parte questo tipo
di pensiero basato sullo spirito. Quando degli amanti si regalano una ciocca di capelli o
un anello di fidanzamento o di matrimonio. O quando regaliamo un ciondolo o una
compilation musicale con le nostre canzoni preferite. Tutti questi doni hanno un
importanza che trascende di gran lunga il dato materiale.
Dono: potere e dipendenza
107
Contrariamente alla nostra ingenuità i doni non sono tutti uguali. È la nostra
pigrizia mentale che ci fa usare la stessa parola per indicare doni che dovrebbero
essere catalogati sotto titoli completamente differenti: solidarietà, sfida, potere,
dominio. Ci sono doni che arricchiscono chi li riceve e chi li fa, e doni che
impoveriscono chi riceve e arricchiscono chi li fa.
Naturalmente esiste anche un dono negativo. Non a caso nota lo stesso Marcel
Mauss47 il vocabolo di origine germanica «gift» mantiene una certa ambivalenza,
tanto che nella lingua tedesca designa il «veleno» e nella lingua inglese il «dono»,
mentre l’olandese conserva entrambi i significati con due parole una neutra e una
femminile per designare il veleno e il regalo o la dote. Allo stesso modo, nel greco
antico «dosis» indicava l'atto del donare ma anche la «dose» di una sostanza mortale.
In molte culture, come quella germanica, il regalo per eccellenza è ciò che si versa,
ma la bevanda-regalo, nota Mauss può essere anche un veleno. Il dono dunque è ciò
che si è obbligati a fare e ad accettare, ma che è anche potenzialmente pericoloso.
In termini sociali e relazionali il dono contiene in sé potenzialmente anche una
faccia oscura, di potere, di dipendenza, di controllo. Da un punto di vista storico e
politico, ad esempio, il dono è stato anche uno strumento di colonialismo o di
conquista di nuovi mercati.
Nuruddin Farah uno dei maggiori scrittori africani e non solo viventi ha scritto
un libro per vendicare il senso di un popolo, quello somalo, vittima degli aiuti e degli
interventi cosiddetti umanitari dell’occidente. Si intitola non a caso Doni (Frassinelli,
Milano, 2001).
Ci sono dunque diverse possibilità di vivere il dono e dobbiamo essere consapevoli che
si possono usare i doni anche per controllare persone e popoli. Da questo ci si deve
allontanare.
Tuttavia il dono è anche l’antidoto per eccellenza della violenza. È ciò che può
disinnescare i conflitti. Può determinare quello che una studiosa, Florence Weber, ha
definito “una spirale di generosità”. Serve a trasformare un estraneo, un potenziale
nemico, in amico, serve a legare a sé una comunità di persone.
47
Si veda in proposito il saggio “Gift, Gift”, in Granet, Mauss, 1975, pp. 67-72.
Lo spirito del dono: residuo del passato o principio inesauribile? 108
Marcel Mauss fu forse il primo studioso moderno a sottolineare che il puro calcolo
dei bisogni dell’individuo non rappresenta il metodo economico migliore e che «il
perseguimento brutale degli scopi individualistici nuoce ai fini e alla pace dell’insieme»
e “di rimbalzo” all’individuo stesso (Mauss, 1991, p. 284). Tuttavia, nota Mauss, la
logica del dono è per fortuna ancora presente nella nostra società e ha ancora a che
fare con un intramontabile principio di saggezza, quello dell’uscire da se stessi, del
dare assieme «liberamente e per obbligo». Il significato del dono è quello di sottrarre i
rapporti personali ad una contabilità. Quando in una relazione di coppia o di amicizia si
è costantemente attenti a quanto si da e a quanto si riceve significa che si è in una
relazione competitiva e che probabilmente quella relazione è prossima alla fine.
Noi moderni tuttavia sembriamo non essere attrezzati culturalmente per
riconoscere l’importanza e tanto meno la presenza del dono nella nostra vita
reale.
In un certo senso per noi il dono non esiste, poiché ogni forma di gesto gratuito non
sarebbe altro che egoismo mascherato, oppure qualcosa che si da solo come caso
eccezionale, come parziale trasgressione alla normalità degli scambi basati
generalmente sul principio dell’utilità.
Sarebbe facile concludere dunque che il dono non è altro che un residuo di una
mentalità del passato, di un modo di concepire le cose adeguato a società tradizionali
e oggi del tutto anacronistico nell’epoca della globalizzazione e dei flussi finanziari. Ma
ci sono almeno due questioni che dovrebbero suggerirci a questo proposito una
maggiore attenzione.
La prima questione fondamentale è comprendere se una società può tenersi
insieme solamente grazie al perseguimento di obiettivi economici privati ed
individualistici di imprenditori, lavoratori e consumatori oppure se l’erosione della
concezione sociale e dello spirito di solidarietà sottostante ad ogni società non coincida
in qualche modo con l’erosione della società stessa e delle possibilità di una reale
convivenza.
La seconda questione, connessa alla precedente, è se effettivamente il dono
sarebbe un residuo destinato via via ad esaurirsi man mano che si diffonde
l’economicizzazione del mondo, o piuttosto non rappresenti un altro senso delle cose,
un altro spirito che continua a essere presente – anche se scarsamente riconosciuto –
anche nelle nostre società moderne?
Nell’ipotesi di Karl Polanyi per esempio esistono diverse forme di scambio -
reciprocità (dono), redistribuzione (stato) e mercato (scambio).
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare non esiste un'unica evoluzione in cui
attraverso un processo di sviluppo si passa da una forma di scambio all'altro. Per
esempio da una società basata sul dono ad una basata sul mercato a una basata sulla
redistribuzione. In realtà ogni società contiene in se tutte queste forme in misura
maggiore o minore.
Da questo punto di vista molti degli studiosi contemporanei che fanno riferimento al
movimento antitutilitarista sostengono da questo punto di vista che il dono è tanto
arcaico quanto moderno. Che non solo non è scomparso dalle nostre società ma
costituisce ancora oggi il fondamento implicito e dato per scontato del vivere comune.
Certo un fondamento che è necessario riconoscere se non si vuole mettere in crisi le
condizioni stesse della convivenza.
Il dono nelle società di mercato
109
ll dono esiste anche nella società moderna. E’ questa la scoperta fondamentale
realizzata da M. Mauss. Anche in una società di mercato come la nostra dunque, il
dono e la reciprocità possono avere uno ruolo ed un importanza fondamentale. Il
dono è alla base della nostra società moderna molto più di quanto non
pensiamo.
Per Jacques T. Godbout il dono
- c’è il dono in famiglia, nel gesto della madre e del padre verso il bambino, o negli
innumerevoli servizi, aiuti e gesti quotidiani compiuti da membri della rete
familiare verso altri membri, o anche nelle famiglie che adottano un bambino. C’è
poi il dono dell’eredità, o quello dell’adozione.
- c’è il dono in amore: donarsi tempo, emozioni, felicità;
- il dono in amicizia, gli aiuti e il sostegno, le cose e gli oggetti che circolano fra
amici;
- il dono in occasione di eventi della vita umana: nascita, compleanni, esami,
fidanzamenti, matrimoni, ecc.;
- il dono in occasione di festività come il Natale, la Befana, la Pasqua, e le varie
feste della donna, degli innamorati;
- il dono agli ospiti e agli stranieri, il dovere dell'accoglienza, dell’offrire cibo, vino,
ospitalità che in molti posti è ancora molto forte;
- c’è il dono nella forma del volontariato sociale, volontariato con anziani, bambini,
immigrati, poveri, persone vittime di violenza;
- il dono in gruppi di aiuto reciproco, i gruppi di autoaiuto, gli alcolisti anonimi,
basati sul principio che non si può riuscire da soli, che c'è bisogno dell'aiuto degli
altri e del dono di una forza superiore che si riceve e si trasmette ad altri;
- il dono agli sconosciuti, ovvero quel dono senza legame tra donante e ricevente
che è in gran parte una specificità moderna e che si ritrova per esempio nel dono
del sangue, degli organi, nella beneficenza, nelle sottoscrizioni; il dono;
- c’è il dono perfino nello spazio del lavoro, nel tempo e nel sostegno che si rivolge
ai colleghi, alla ditta o all'impresa.
Dunque il dono è estremamente diffuso anche tra di noi seppure non trova spesso un
adeguato riconoscimento simbolico. Secondo alcuni studiosi è proprio la presenza alla
base di tutte queste forme del dono che permette ad una società - anche una società
di mercato come la nostra - di sopravvivere. E nella misura in cui si erode lo spirito
del dono si condanna una società alla disgregazione, al degrado e alla violenza.
Si tratta allora di saper riconoscere la presenza del dono nelle nostre
società.
Da questo punto di vista la sfida è rompere lo schermo dell’utile, dell’interesse
come criterio di riconoscimento, interpretazione, valorizzazione della realtà ambientale
e sociale e della definizione delle priorità politiche e sociali. È importante portare alla
luce le dimensioni dello scambio sociale e dell’azione individuale e sociale non dettate
principalmente dall’interesse, si tratta infatti di un passaggio fondamentale nel
tentativo di limitare e contrastare il dominio dei criteri del profitto e della competizione
economica. Si deve continuare a interrogarsi su cosa tiene insieme una società, su
cosa costituisce il benessere reale o la qualità della vita delle persone e anzi
risottolineare l’importanza delle persone, delle relazioni in quanto tali e non come 110
strumenti o scopi per qualcos’altro.
Come ha scritto Alain Caillé l'antiutilitarismo procede dalla certezza
«che il solo modo di soddisfare i propri bisogni e i propri interessi consiste nel
non sacrificare la vita allo sforzo per soddisfarli; dalla certezza che si può godere
soltanto di ciò che si è pronti a perdere, più in generale, che l'umanità diventa
propriamente umana soltanto al di là della strumentalità».
Dunque non è che le società tradizionali non producessero surplus o non fossero in
grado di accumulare ricchezza. Il fatto è che individuavano una contraddizione tra
l’arricchimento individuale e la competizione e il benessere collettivo e la
solidarietà.
L’accumulazione o non esiste, o se esiste è socializzata. Si accumula al fine di
redistribuire o di goderne socialmente. Nelle società tradizionali – nota Sahlins - la
possibilità di arricchirsi a spese altrui non è prevista dai rapporti e dalle forme
di scambio. Trattenere i beni per sé è considerato immorale e socialmente pericoloso.
Esistevano una serie di regole che imponevano una continua spartizione all’interno
della comunità locale. Dunque, per esempio, si poteva soffrire la fame solo se
tutta la comunità soffriva la fame. Altrimenti la rete sociale avrebbe provveduto
alla difficoltà di ciascuno. Ecco perché la sussistenza tradizionale è molto diversa dalla
condizione di miseria moderna in una società individualizzata, in cui ciascuno è
abbandonato a se stesso.
«I popoli più primitivi del mondo hanno pochi beni, ma non sono poveri. La loro
povertà non consiste né in una data piccola quantità di beni né unicamente in
un rapporto tra mezzi e mezzi; è innanzitutto un rapporto interpersonale. La
povertà è uno status sociale e in quanto tale un’invenzione della civiltà»
(Marshall Sahlins, L’economia dell’età della pietra, Bompiani, Milano, 1988, p.
50).
Il tema del dono ha anche una sua valenza politica in un epoca di guerre, di
terrorismo internazionale, di pregiudizi e paure.
Ci troviamo in un circolo vizioso di diffidenza, sospetti, accuse reciproche.
Personalmente credo che un cambiamento in questo contesto sia possibile solamente
se si prova ad uscire dagli schemi di comportamento noti e prevedibili.
L’unica alternativa che abbiamo allo scontro attorno alle risorse fondamentali o al
controllo dell’economia e delle popolazioni e dei possibili nemici è quella di rinunciare
al controllo.
Ricercare la sicurezza politica, sociale ed economica non tramite il controllo ma
tramite obbligazioni unilaterali positive. Dobbiamo costruire dei rapporti sulla base di
gesti unilaterali volti a costruire un clima di fiducia e cooperazione e non di
contrapposizione o competizione.
Assumendoci naturalmente tutti i rischi e sopportando ciò che ne può conseguire
per un certo periodo di tempo.
Come ha scritto Marcel Mauss nel suo celebre saggio sul dono:
Naturalmente Mauss parlava di una scelta su scala locale. Noi siamo nelle condizioni
di dover arrischiare questa strada su scala globale.
Come ha notato anche Claude Lévi Strauss
«Tutti gli scambi, cioè devono nel loro profilo materiale sostenere un fardello
politico di riconciliazione. O come dicono i Boscimani: “La cosa peggiore e non
fare doni. Se due persone non si piacciono ma una fa un dono e l’altra deve
accettarlo, ciò porta la pace tra di loro. Si dona ciò che si ha. Ecco come si vive
insieme» (Marshall Sahlins, L’economia dell’età della pietra, Bompiani, Milano,
1980, p. 188.
Il linguaggio del dono, nelle sue diverse forme permette questo cambiamento.
C’è uno studioso cristiano della tradizione islamica, Louis Massignon, che val la pena
rileggere oggi, che ha molto insistito nella sua opera e con la sua stessa vita sull’idea
dell’ospitalità sacra e sull’importanza del rispetto nel rapporto con le nostre alterità.
L’intuizione fondamentale di questo studioso è che solo con il rispetto e l’ospitalità
e non con la legge e le osservanze legali né tantomeno con la forza otterremo
un mondo più pacifico. Ci incombe da questo punto di vista recuperare il valore
dell’ospitalità, non solo come un cerimoniale ma come un fondamento sociale e come
precisa pratica politica. L’ospitalità dev’essere un impegno anzitutto nei confronti dei
rifugiati che scappano dalla violenza, dalle persecuzioni o dalla miseria e nei confronti
degli immigrati che vengono a cercare lavoro e una miglior fortuna. La capacità di
ospitare queste persone non solo come corpi, come forza lavoro o come vittime, ma
come esseri umani che ci portano la loro soggettività, la loro esperienza, il loro vissuto
rappresenta una grande occasione di incontro tra popoli che non dev’essere sprecata.
Ma l’ospitalità deve essere invocata anche di fronte a coloro che si presentano (o ci
vengono presentati) come nemici. C’è un vecchio racconto sardo narrato da Salvatore
Cambosu e intitolato “L’ospite moro” (Cambosu, 1999, p. 97) in cui un vecchio afferra
il braccio di un suo compaesano prima che questo infierisca su un nemico ferito
ricordandogli «È un ospite, prima di essere un nemico».
Questo principio richiamato in rispetto perfino di un invasore segna, a mio avviso, il
principio di un rovesciamento di prospettive. L’ospitalità non è qui una cortesia
ma un principio fondante della propria identità e il riconoscimento della
comune umanità tramite l’impegno a preservare un legame di rispetto anche tra
contendenti. In questo senso il nemico è anzitutto un ospite dello spirito. Il
difficile è riuscire ad ospitare la sua umanità dentro di noi. In un certo senso
preservarne un immagine di umanità dentro di noi. Come sottolineava Dietrich
Bonhoffer (1998, p. 66), infatti, nulla di quanto disprezziamo negli altri ci è
completamente estraneo. E d’altra parte, nulla di quanto riconosciamo a noi stessi è
completamente estraneo alle nostre alterità. Riattizzare il fuoco dell’ospitalità significa
dunque ampliare l’immagine dell’umanità in noi stessi per cominciare a guardare le
cose da un altro punto di vista.
Una storia realmente accaduta
114
Giovedì 3 novembre 2005 nel campo di rifugiati palestinesi di Jénine, Ahmed
Al-Khatib, un ragazzino di 12 anni giocava nella strada con dei regali ricevuti per
celebrare la fine del Ramadan. Come molti ragazzini palestinesi imbracciava delle armi
giocattolo di plastica. Una pattuglia di soldati israeliani in una delle solite spedizioni in
quel campo vedono il ragazzino con le armi in mano e da lontano lo scambiano per
uno dei militanti dei gruppi di estremisti armati. Il ragazzo diventa dunque il bersaglio
degli israeliani che cominciano a sparare. Viene colpito da diverse pallottole di cui una
alla testa. Trasportato d’urgenza all’ospedale israeliano di Haïfa, il piccolo Ahmed
muore pochi giorni dopo, il sabato a causa delle sue gravi ferite.
È in situazioni come queste, nel lutto, nella disperazione, in un dolore senza senso
che nascono nuovi militanti estremisti, nuovi adepti per la lotta armata, nuovi
volontari per attentati kamikaze.
Ma quella volta la famiglia di Ahmed sceglie un altro linguaggio. Con un
gesto di straordinaria umanità i genitori di Ahmed decidono di far dono degli organi
del loro figlio morto.
Così due bambini ebrei e una ragazzina drusa di 12 anni hanno ricevuto i polmoni, il
fegato e il cuore del piccolo palestinese.
Il padre di Samah, la ragazzina drusa di 12 anni che aspettava un trapianto di
cuore da oltre cinque anni ha salutato il “gesto d’amore” dei genitori di Ahmed e ha
promesso di invitarli prossimamente in Israele.
«Io vorrei che considerassero a questo punto la nostra figlia come la loro figlia».
Certo non siamo così ingenui da pensare che singoli gesti come questi possano
fermare una guerra. Pero credo che spetti alla politica e ai politici inventare gesti
come questi. Dei doni fra popoli e paesi che interrompano la grammatica della
guerra e per cominciare a parlare il linguaggio della pace.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
115
SVILUPPO/DECRESCITA
C’è un mito che, nell’ultimo secolo, ha fondato l’immaginario sociale e che ancora
oggi costituisce il sottofondo comune delle ideologie politiche di destra e di
sinistra: è il mito dello sviluppo. Questa credenza ha portato con sé le parole
d’ordine dell’accumulazione, della massimizzazione della produzione, dei consumi e
dei profitti. Da ipotetico strumento per raggiungere il benessere, lo sviluppo è
diventato presto un dogma di fede e l’obiettivo centrale dell’organizzazione sociale,
piegando alla propria logica non solo l’economia ma anche la politica e la società. Lo
sviluppo è il cardine dell’ideologia economica e sociale contemporanea. Tutti credono
che lo sviluppo sia qualcosa di intrinsecamente positivo e universalmente desiderabile.
Qualcosa di cui non si può fare a meno, se non rinunciando al benessere stesso.
Eppure, anche in questo caso, è facile dimostrare che l’idea di sviluppo è
un’invenzione tutto sommato recente e culturalmente relativa. Che non sia un
concetto universalmente condiviso emerge per esempio dal fatto che in molte lingue
non occidentali non esiste nemmeno una parola corrispondente. Da un punto di vista
storico, inoltre, come ha notato lo storico Heinz W. Arndt,
In questa lezione vorrei provare a ricostruire che cosa questa narrazione dello
sviluppo ha significato nel rapporto con gli altri popoli, e nelle relazioni Nord-Sud e che
cosa ha significato per i paesi occidentali e industrializzati.
«In quarto luogo dobbiamo lanciare un nuovo programma che sia audace e
che metta i vantaggi del nostro progresso scientifico e industriale al servizio del
miglioramento e della crescita delle regioni sottosviluppate. Più della metà
delle persone di questo mondo vive in condizioni prossime alla miseria. Il loro
nutrimento è insoddisfacente. Sono vittime di malattie. La loro vita economica
è primitiva e stazionaria. La loro povertà costituisce un handicap e una
minaccia tanto per loro quanto per le regioni più prospere. Per la prima volta
nella storia l'umanità è in possesso delle conoscenze tecniche e pratiche in grado
di alleviare la sofferenza di queste persone. Gli Stati Uniti occupano tra le
nazioni un posto preminente per quel che riguarda lo sviluppo delle tecniche
industriali e scientifiche. […] Io credo che noi dovremmo mettere a disposizione
dei popoli pacifici i vantaggi della nostra riserva di conoscenze tecniche al fine di
aiutarli a realizzare la vita migliore alla quale essi aspirano. E in
collaborazione con altre nazioni, noi dovremmo incoraggiare l'investimento di
capitali nelle regioni dove lo sviluppo manca.
Il nostro scopo dovrebbe essere quello di aiutare i popoli liberi del mondo a
produrre, con i loro sforzi, più cibo, più vestiario, più materiali da
costruzione, più energia meccanica al fine di alleggerire il loro fardello. […] Il
vecchio imperialismo - lo sfruttamento al servizio del profitto straniero - non ha
niente a che vedere con le nostre intenzioni. Quel che prevediamo è un
programma di sviluppo basato sui concetti di un negoziato equo e democratico.
Tutti i paesi, compreso il nostro, profitteranno largamente di un programma
costruttivo che permetterà di utilizzare meglio le risorse umane e naturali
del mondo […]».
48
Su questo tema si veda il classico studio antropologico di Johannes Fabian (2000).
questo gap “temporale” tra “noi” e “gli altri”. In altre parole attraverso il dono si
è cercato e si cerca di rendere gli altri simili a noi. Gli aiuti non sono 117
semplicemente oggetti o beni, ma sono segni, simboli, strumenti performativi, agenti
attivi di colonizzazione culturale. I cooperanti, gli agenti di sviluppo si sono
presentati in questo mezzo secolo come guide verso una liberazione dall’indigenza e
verso la meta ultima dello sviluppo che avrebbe finalmente dato accesso alla
modernità a questi paesi poveri e arretrati. Forti di questa autoinvestitura le élites di
espatriati si sono sentite autorizzate a impiantare in questi paesi mentalità, linguaggi,
valori, progetti presentati come neutri e universali, in realtà profondamente ambigui e
spesso destrutturanti.
Con molte ragioni dunque uno studioso francese, Serge Latouche, nei suoi libri ha
cercato di mostrare come lo sviluppo sia stato fondamentalmente un tentativo di
occidentalizzazione del mondo.
D’altra parte diversi studiosi hanno sottolineato che in molti paesi del sud del
mondo, le politiche di sviluppo sono coincise in gran parte con un processo di
interiorizzazione del giudizio dell’altro. Come ha scritto l’antopologo Marshall
Sahlins:
«Mi sembra che ora siamo nel bel mezzo di un “movimento culturale”
mondiale di questo tipo: nelle Figi e nel Tibet, in Amazzonia e nell’entroterra
autraliano, nel Kashmir e nel Wisconsin settentrionale, in tutto il mondo, gli
indigeni stanno diventanto consapevoli di quella che chiamano la loro “cultura” e
la difendono. La parola stessa si è diffusia in tutto il pianeta: una prise de
conscience che è sicuramente tra i più notevoli fenomeni della storia mondiale
del tardo XX secolo. I popoli hanno scoperto la loro “cultura”; prima si limitavano
a viverla. Ora la loro “cultura” è un valore conscio e articolato, qualcosa da
difendere e, se necessario, reinventare» (Sahlins, 1992, p. 200).
Questa storia può apparirvi strana, ma in realtà descrive molto bene, con molta
efficacia quello che è stato il nostro atteggiamento verso le altre culture e gli altri
popoli.
Per secoli abbiamo detto e continuato ad affermare che in quei paesi, in
quelle culture non c’era civiltà, non c’era sviluppo, non c’era benessere. E
abbiamo imposto la nostra visione dell’accumulazione, della ricchezza, del benessere,
della crescita, dello sviluppo.
Poi ad un certo punto ci siamo accorti che qualcosa non tornava. Non solo molti di
questi paesi non si sviluppavano. Non solo che le disuguaglianze tra nord e sud del
mondo aumentavano, ma addirittura che in molti casi la povertà stava aumentando
drasticamente, sia in termini quantitativi assoluti - il numero dei poveri -, sia in
termini relativi - la percentuale di poveri nei diversi paesi – sia ancora in termini
qualitativi, ovvero la povertà si faceva più drammatica a causa della disgregazione
delle reti di scambio sociale non monetario, l’impoverimento e il degrado delle risorse
ambientali, la diminuzione dei diritti di accesso.
Tuttavia si può notare come le concezioni e il linguaggio stesso implicito nel sistema
istituzionale internazionale ci impedisce la comprensione di questi meccanismi. Ci
impedisce di ridiscutere le idee di povertà e ricchezza.
Cosa dire per esempio dell’abitudine diffusasi prima tra la Banca Mondiale
e le Agenzie delle Nazioni Unite e poi nel mondo della cooperazione di
identificare la povertà con il reddito monetario? Come non vedere in questo già un
violento riduzionismo e un dispositivo di colonizzazione culturale?
Questa equazione - povero = persona che vive con meno di un dollaro al
giorno – presuppone infatti diverse concezioni non esplicitate:
l’idea che la condizione di miseria in cui versa una parte della popolazione
mondiale sia dovuta ad una carenza di reddito. Rappresentazione che
nasconde invece il problema strutturale della distruzione dei sistemi socio-
economici di sostentamento e riproduzione tradizionali a causa dell’avanzata
dell’economia di mercato che ha reso certe popolazioni dipendenti
dall’esterno e dagli aiuti.
l’idea che il benessere complessivo di una persona dipenda dal reddito e che la
ricchezza coincida con la ricchezza economica e non quella sociale e
ambientale. Il che non fa che confermare il giudizio negativo sulle forme di
organizzazione sociale basate sulla produzione di sussistenza, sui bassi
consumi e sulle forme di scambio sociale non monetario e sul primato dei
valori conviviali rispetto alla massimizzazione dell’interesse individuale.
l’idea che la condizione di miseria di queste persone possa essere riscattata
attraverso il trasferimento di risorse economiche e materiali che garantiscano
un aumento della produzione, del consumo e dei redditi. Concezione che
porta immediatamente con sé l’idea che il superamento dello stato di miseria
renda necessaria l’organizzazione di un sistema di distribuzione di aiuti da
parte dei paesi ricchi verso le popolazioni povere.
Il fatto difficile da accettare è che le condizioni di miseria in cui vive una gran
parte della popolazione mondiale non sono il risultato di una condizione di 119
sottosviluppo, ma il risultato stesso delle strategie di sviluppo. Nel tentativo
sistematico di trasformare la logica della reciprocità in quella individualistica e
competitiva dello scambio monetario.
Le politiche di sviluppo concretamente hanno determinato in molti paesi
del sud del mondo la distruzione sistematica delle forme di povertà conviviale
praticate dalle comunità locali svalutando e soppiantando le forme di produzione per la
sussistenza e delle forme di scambio locale per imporre l’imperativo della crescita.
Hanno quindi gettato le basi di un’economia di mercato orientata alla crescita e
all’esportazione, che significa monocolture produttive, economicizzazione della
società e degli scambi sociali, induzione e moltiplicazione dei bisogni, maggiore
dipendenza individuale e sociale dalla produzione, dal reddito monetario e dal
consumo in una competizione di tutti contro tutti che alza le chance di
arricchimento per alcuni mentre condanna alla miseria tutti gli altri.
Qualche tempo fa Vandana Shiva ha risposto all’eonomista america Jeffrey
Sachs criticando il suo famoso libro “La fine della povertà” (Sachs J., 2005) e le sue
ricette per sconfiggere la povertà. Val la pena leggerne insieme alcuni stralci…
«Due dei grandi miti economici del nostro tempo permettono alle persone
di negare questo stretto collegamento e di diffondere interpretazioni scorrette di
cosa sia la povertà.
In primo luogo, per la distruzione della natura e della capacità delle
persone di aver cura di se stesse il biasimo non cade sulla crescita
industriale e sul colonialismo economico, ma sugli stessi poveri. La
malattia viene offerta come cura: più crescita economica, in modo da risolvere gli
stessi problemi di povertà e di declino ecologico a cui essa stessa ha dato inizio.
Questo è il messaggio che sta al cuore dell’analisi di Sachs.
Il secondo mito è l’assunto per cui se tu consumi ciò che produci, non
stai veramente producendo, almeno non economicamente parlando. Se io
mi coltivo il cibo che mangio, e non lo vendo, allora esso non contribuisce al PIL
e perciò non contribuisce ad andare verso la "crescita". Le persone vengono
percepite come "povere" se mangiano il cibo che hanno coltivato anziché il cibo
malsano distribuito dall’agribusiness globale. Sono visti come poveri se vivono in
case che si sono costruiti da soli, con materiali ben adattati ecologicamente come
il bambù ed il fango anziché in blocchi di cemento. Sono visti come poveri se
indossano abiti prodotti con fibre naturali anziché sintetiche.
Queste esistenze "sostenibili", che il ricco Occidente percepisce come
povertà, non si accoppiano necessariamente ad una bassa qualità della
vita. Al contrario, per la loro stessa natura di economie basate sul
sostentamento assicurano un’alta qualità della vita, se questa viene misurata in
termini di accesso a cibo sano ed acqua, identità sociale e culturale robusta e
percezione di un senso nell’essere vivi. Poiché questi poveri non condividono i
cosiddetti benefici della crescita economica, vengono rappresentati come "lasciati
indietro".
La falsa distinzione tra i fattori che creano l’accumulo e quelli che creano
povertà è al centro dell’analisi di Sachs. E per questo motivo, le sue prescrizioni
aggraveranno e renderanno peggiore la povertà, invece di porvi fine. I moderni
concetti di sviluppo economico, che Sachs vede come la "cura" per la
povertà, sono stati presenti solo in un’esigua porzione della storia
umana. Per secoli, i principi del sostentamento hanno permesso alle
società, sull’intero pianeta, di sopravvivere ed anche di prosperare. In
queste società i limiti presenti in natura venivano rispettati, e guidavano
i limiti del consumo umano. Quando la relazione della società con la natura è
basata sul sostentamento, la natura esiste come forma di bene comune. Viene 120
ridefinita come "risorsa" solo quando il profitto diviene il principio organizzativo
della società e produce l’imperativo finanziario allo sviluppo ed alla distruzione di
queste risorse per il mercato.
Sebbene in molti scegliamo di dimenticarlo o di negarlo, tutti i popoli
in tutte le società dipendono ancora dalla natura. Senza acqua pulita,
suoli fertili e diversità genetica, la sopravvivenza umana non è possibile.
Oggi lo sviluppo economico sta distruggendo questi che un tempo erano
beni comuni, dando come risultato una contraddizione: lo sviluppo
depriva le stesse persone che professa di aiutare della loro terra e dei
loro tradizionali sistemi di sostentamento, forzandole a sopravvivere in
un mondo naturale sempre più impoverito.
Un sistema quale è il modello di crescita economica che conosciamo
oggi, crea miliardi di miliardi di dollari di profitti per le corporazioni, nel
mentre condanna milioni di persone alla povertà. La povertà non è, come
Sachs suggerisce, uno stato iniziale del progresso umano da cui
dobbiamo fuggire. E’ lo stato finale in cui le persone cadono quando uno
sviluppo unilaterale distrugge i sistemi ecologici e sociali che hanno
mantenuto la vita, la salute ed il nutrimento dei popoli e del pianeta per
ere.
La realtà è che le persone non muoiono per mancanza di soldi.
Muoiono per mancanza di accesso alla ricchezza dei beni comuni. Qui, di
nuovo, Sachs si sbaglia quando dice: "In un mondo di abbondanza, un miliardo di
persone sono così povere che le loro vite sono in pericolo". I popoli indigeni
dell’Amazzonia, le comunità montane dell’Himalaya, i contadini ovunque le loro
terre non siano state espropriate e la cui acqua e biodiversità non sia stata
distrutta dall’industria agricola creatrice di debito, sono ecologicamente ricchi,
sebbene guadagnino meno di un dollaro al giorno» (Shiva, 2005a).
Sulla stessa linea della Shiva vanno anche le riflessioni di un importante studioso
iraniano che vive in francia, Majid Rahnema. A suo modo di vedere lo sviluppo ha
rappresentato non l’uscita da uno stato di povertà, ma piuttosto una
modernizzazione della povertà (Rahnema, 2005, p. 220), ovvero la trasformazione
della povertà in una condizione di miseria ben più drammatica. La mancanza di soldi
in una società nella quale il denaro rappresenta la principale quando non l’unica forma
di accesso a beni e servizi o addirittura alla possibilità stessa di lavorare, determina
una condizione di emarginazione e privazione ben più radicale di una condizione di
povertà in una società tradizionale. Dunque
Ma torniamo un poco indietro e seguiamo la parabola dello sviluppo. Almeno fino agli
anni '50, nel campo dello sviluppo ha dominato l'approccio dell'economia dello
sviluppo. Il fondamento della tradizionale teoria economica, liberale, rappresentava
l'esperienza storica dello sviluppo britannico nel periodo della rivoluzione industriale. Il
modello implicava l'affidarsi alle forze di mercato, ad una industrializzazione graduale,
un adeguato livello di investimenti. accento sul progresso tecnologico, (ma il modello
storico reale, implicava anche il protezionismo nazionale). Vi possono segnalare però
alcune parziali deviazioni da questo modello.
Il modello sovietico si basa su pianificazione, trasferimento risorse dall'agricoltura
all'industria, collettivizzazione settore agricolo, priorità industria pesante, impiego su
vasta scala di tecnologie.
Secondo Joseph A. Schumpeter, autore de La teoria dello sviluppo economico
(1911), il fondamento dell'economia moderna e dello sviluppo è il progresso
tecnologico, poiché solo l'innovazione è in grado di generare profitto.
Il Keynesismo (John Maynard Keynes) a partire dagli anni '30 ha rappresentato
l'ideologia prevalente dello sviluppo. I suoi elementi fondamentali sono la centralità
della domanda aggregata (investimenti e consumi), le politiche di piena occupazione,
e l'intervento equilibratore dello stato.
Negli anni '50, W.A. Lewis, per superare la situazione di impasse dei paesi del sud
del mondo (saturazione agricoltura e ad alta disoccupazione), ha suggerito una
strategia di sviluppo finanziata da capitali esteri, Industrializing by Invitation
(dicevano i critici). C'era l'idea che per un certo periodo dovessero necessariamente
coesistere un settore progredito e moderno con uno arretrato tradizionale.
Tra la fine degli anni '40 e gli anni '50 dominò l'idea che il commercio estero
rappresentava il motore della crescita, e che i paesi in via di sviluppo dovevano
specializzarsi nella produzione ed esportazione di quei beni che hanno costi di
produzione inferiori e che risultano per questi più redditizi, idea ottimistica poi criticata
da Hans Singer, Raùl Prebisch e Gunnar Myrdal. Nel 1949, Raùl Prebisch e Hans
Singer formularono simultaneamente la tesi sulla tendenza al deterioramento delle
ragioni di scambio a sfavore dei paesi esportatori di prodotti primari e importatori di
manufatti.
Agli inizi degli anni '60 dominava ancora un ingenuo ottimismo basato sull'idea della
inevitabilità della crescita sulla base di adeguati investimenti. Agli anni '60, addirittura
venne dato il nome di "primo decennio per lo sviluppo". Ma se in passato l'economia
dello sviluppo non rappresentava altro che una branca dell'economia applicata ai paesi
del sud del mondo, con gli anni '60 si viene affermando con il paradigma della
modernizzazione, la prima vera e propria teoria dello sviluppo.
Il paradigma della modernizzazione, mantiene un'ottica evoluzionistica lineare,
in cui lo sviluppo rappresenta l'idea di una transizione da una fase tradizionale ad
una fase moderna, ovvero di un processo di imitazione delle nazioni
industrializzate, da parte dei paesi sottosviluppati. Da un punto di vista generale le
politiche di modernizzazione implicano una razionalizzazione e una maggiore efficacia
delle strutture economiche e sociali. Queste teorie hanno un riferimento teorico anche
nella divisione del lavoro e alla differenziazione strutturale di Émile Durkheim. In
queste teorie lo sviluppo è visto come un processo endogeno che realizza le
potenzialità insite in tutte le società, la modernizzazione quindi è un processo
universale tipico di qualunque società umana, piuttosto che un processo storico di
determinate società in determinati momenti. Nella sostanza l'idea della
modernizzazione coincide con quella di occidentalizzazione.
Barrington Moore, in Le origini sociali della democrazia e della dittatura (1966),
ipotizza tre sentieri rilevanti verso la modernizzazione: la rivoluzione borghese classica
(Gran Bretagna), la rivoluzione dall'alto (Germania), e la rivoluzione popolare
(Russia). La teoria di Moore considera soltanto fattori endogeni e non analizza il
sistema internazionale.
Tra i contributi più noti alla teoria della modernizzazione c'è sicuramente la teoria
dei cinque stadi di Walt Rostow (The Stages of Economic Growth, 1960). Secondo
Rostow, il passaggio dallo stato tradizionale a quella che definisce "maturità", si basa
su un processo endogeno che si articola in cinque stadi: 123
1. la società tradizionale;
2. lo stadio precedente al decollo;
3. il decollo;
4. la strada verso la maturità;
5. la società dei consumi di massa.
Nel secondo stadio, eliminate la maggior parte delle caratteristiche delle società
tradizionali, si determinano i prerequisiti economici necessari al decollo. La
produttività agricola viene incrementata rapidamente, e si costruisce una moderna
infrastruttura; nella società si sviluppa una nuova mentalità e la nuova classe sociale
degli imprenditori. Durante lo stadio del decollo la quota degli investimenti netti e dei
risparmi rispetto al reddito nazionale aumenta del 5-10% o più, avviando il processo
di industrializzazione. La tecnologia moderna viene introdotta in alcuni settori guida
che assumono un ruolo trainante per procedere verso la maturità e la lo stadio dei
consumi di massa. La teoria di Rostow ha avuto una notevole influenza negli anni '60.
L'analisi di Alexander Gerschenkron (1962) si distacca da quella di Rostow per
alcuni importanti aspetti. Innanzitutto per Gerschenkron il passaggio della
modernizzazione rappresentava un particolare processo storico e non aveva
requisiti di universalità. Inoltre i prerequisiti di Rostow sono per Gerschenkron le
conseguenze del processo di sviluppo. La fase di decollo chiamata qui "il grande
slancio" (Big Spurt) secondo Gerschenkron può avvenire anche per iniziativa dello
stato che può supplire la mancanza di spirito imprenditoriale, di capitali. Inoltre
nell'analisi di Gerschenkron il contesto internazionale rappresenta un importante
fattore causale, poiché l'importazione di tecnologia può costituire un vantaggio per
lo sviluppo.
D'altra parte si rese evidente che le difficoltà per l'avvio di processi di crescita
economica erano dovute non solo a bassi redditi e bassi investimenti ma anche a
problemi nel sistema decisionale, politico, imprenditoriale, amministrativo. Cercando
di introdurre un approccio più realistico e pragmatico, Albert O. Hirschmann, negli
anni '50 propose una strategia di crescita non equilibrata, (The strategy of
economic Development, 1958) basata su poli di crescita. L'approccio di Hirschmann
partiva dall'idea che si dovesse deviare dalla strada seguita dai paesi industriali per
inventare sequenze nuove orientate anche a rovescio. Hirschmann si sforzava di
rivelare eventuali "razionalità occulte", e di individuale "connessioni a monte e a
valle" e "costellazioni di connessioni".
Fra i critici della modernizzazione, si può citare Fernando Henrique Cardoso
(1969, con Faletto) che sottolinea l'insufficienza esplicativa dei concetti di tradizione e
modernità, e il loro collegamento con i diversi stadi dello sviluppo. Il dipendentista
cileno Osvaldo Sunkel criticava il modello sottostante a queste teorie in cui
l'economia capitalistica era vista come obiettivo degli sforzi dello sviluppo e le nazioni
sottosviluppate venivano interpretate come stato anteriore e imperfetto. Secondo
Sunkel, che propugnava un approccio più storico, le caratteristiche del sottosviluppo
dovevano essere viste come conseguenze normali del funzionamento di un
determinato sistema. Il basso reddito, la crescita moderata. disoccupazione,
dipendenza, mocultura, marginalizzazione culturale, economica, politica non erano
deviazioni dal modello ma derivavano dal normale funzionamento del capitalismo
internazionale. Per cambiare lo stato delle cose bisognava dunque attaccare non i
sintomi ma gli elementi strutturali del sottosviluppo. Secondo André Gunder Frank
(Sociologia dello sviluppo e sottosviluppo della sociologia, 1969), il sottosviluppo
non era uno stadio iniziale, ma piuttosto una condizione creata. Frank notava che
l'analisi di Rostow faceva riferimento alla statica comparata e non alla dinamica e che
nessun paese sottosviluppato era mai riuscito a svilupparsi lungo gli stadi di Rostow;
ricordava infine il viscerale anticomunismo che sottintedeva alle sue analisi. Dopo
questi e altri attacchi, il paradigma della modernizzazione, con suo sfrontato 124
etnocentrismo, è caduto in disgrazia.
Infine Dudley Seers in un articolo intitolato "The Limitation of the Special Case",
1963 sollevava l'idea che la teoria economica tradizionale sarebbe valida solo per
l'occidente capitalista industrializzato: "l'economia è lo studio dell'economia", differenti
economie, differenti analisi teoriche.
L'approccio della dipendenza si forma negli anni '60 dalla convergenza di due
percorsi, il neomarxismo e le discussioni latinoamericane sullo sviluppo in particolare
nella tradizione della CEPAL.
Nell'approccio neomarxista, in particolare di Paul Baran (The Political economy
of Growth, 1957) l'imperialismo (al contrario di Marx) era visto come il principale
nemico del capitalismo. Il sottosviluppo era visto come un processo continuo e non
solo come uno stadio iniziale e l'alleanza neocoloniale feudale-imperialista
(coincidenza degli interessi delle classi dominanti interne e internazionali) nei paesi del
sud del mondo costituiva la causa principale e più grave che ostacolava lo sviluppo.
Sulla linea di Baran si colloca anche il contributo di André Gunder Frank
(Sociologia dello sviluppo e sottosviluppo della sociologia, 1969), secondo cui il
sottosviluppo non era uno stadio iniziale, ma piuttosto una condizione creata; a
titolo di esempio citava la deindustrializzazione dell'India praticata dalla Gran
Bretagna, e gli affetti distruttivi del traffico degli schiavi per le società africane e la
distruzione delle civiltà indiane in America centrale e meridionale. Frank parlava
dunque si sviluppo del sottosviluppo. Il concetto di dipendenza di Frank si basava
sul modello metropoli-satelliti, l'idea che, ad ogni livello, una minoranza di
capitalisti sfruttava una maggioranza sottostante rendendola dipendente per
mancanza di accesso alle risorse.
La seconda tradizione all'origine dell'approccio dipendentista, viene dalla
discussione latinoamericana sul sottosviluppo che ha visto impegnati autori quali Raùl
Prebisch e Fernando Henrique Cardoso (attuale presidente del Brasile). In questa
discussione un ruolo fondamentale è stato giocato dalla CEPAL (Commissione
Economica per l'America Latina), fondata a Santiago del Cile nel 1948. La CEPAL
ha elaborato una dottrina che all'epoca fu considerata rivoluzionaria o utopistica. Da
un punto di vista dell'analisi, elaborava un modello, il sistema centro-periferia che
contrastava la visione ingenua e ottimistica delle relazioni e degli scambi
internazionali. Secondo questo sistema, a causa delle tendenze di lungo periodo sulle
ragioni di scambio, dell'asimmetria politica e dei fattori tecnologici, le nazioni centrali
si avvantaggiavano degli scambi commerciali, mentre le nazioni periferiche ne erano
danneggiate. Dal punto di vista della strategia di sviluppo, la dottrina della CEPAL
enfatizzava l'industrializzazione per mezzo della sostituzione delle
importazioni, la pianificazione con un generico intervento statale di coordinamento,
integrazione regionale, e un certo protezionismo nella fase iniziale dello sviluppo.
Ideologicamente, la dottrina si inseriva nella tradizione del nazionalismo economico.
Per industrializzazione per sostituzione delle importazioni, si intendeva che
l'importazione dei vari articoli di consumo doveva essere sostituita dalla produzione
interna.
Negli anni '50-'60, molti paesi dell'America Latina hanno accolto la dottrina della
CEPAL come l'appropriata strategia di sviluppo. Ma dopo un periodo di iniziale
successo si sono evidenziati i problemi e le contraddizioni di questa strategia.
Innanzitutto il processo industriale richiedeva degli imputs d'importazione tecnologici
e finanziari che creavano una nuova forma di dipendenza. Inoltre vista l'esigua
distribuzione dei redditi in America Latina la domanda di manufatti era esigua e veniva
soddisfatta velocemente arrestando il processo di crescita. 125
L'approccio della dipendenza è sfociato in una pluralità di scuole della dipendenza
con sottolineature più economiche, culturali o politiche tra cui va ricordata l'idea dello
sganciamento - de-linkage - dell'egiziano Samir Amin). Ad ogni modo comune a
tutti gli approcci dipendentisti, era l'idea che le economie di un gruppo di paesi siano
condizionate dallo sviluppo e dalla espansione delle altre. La divisione internazionale
del lavoro, analizzata in termine di relazioni interregionali, qui è vista come un
ostacolo allo sviluppo. In sostanza poiché la periferia vien spogliata del suo surplus
sviluppo e sottosviluppo, sono processi correlati, contrariamente all'idea della
modernizzazione. Poiché la periferia è condannata al sottosviluppo a causa del suo
legame col centro si ritiene indispensabile che un paese alla periferia si stacchi
dall'economia mondiale e faccia affidamento sui suoi mezzi, tramite una
trasformazione politica più o meno rivoluzionaria. Da notare che rispetto alla
concettualizzazione dello sviluppo, la differenza tra i dipendentisti e i modernizzatori la
differenza è esigua.
Ma già alla fine degli anni '70 la teoria della dipendenza viene sottoposta a
numerose critiche e viene lentamente abbandonata. Secondo queste critiche infatti,
oltre alla mancanza di influenza pratica, la teoria della dipendenza, non chiarisce l'idea
di sviluppo e non ne fornisce una adeguata teoria, i concetti di centro e periferia non
sono che inversioni polemiche del dualismo tradizione.modernità, la teoria tende ad
essere economicistica, le cause ultime del sottosviluppo non sono identificate. Inoltre
anche la distinzione tra paesi dipendenti e non dipendenti risulta particolarmente
problematica, e l'idea di una gradazione della dipendenza scolora il senso polemico
della teoria. Infine alcuni paesi del sud del mondo si stanno industrializzando
velocemente contraddicendo le previsioni dei dipendentisti. Ad ogni modo il
dipendentismo ha in parte demolito l'idea di progresso come processo automatico e
lineare.
Le riflessioni dei dipendentisti hanno comunque mutato il clima culturale e politico.
Nel 1974, durante la sesta sessione straordinaria dell'assemblea generale delle
Nazioni Unite, le pressanti richieste di cambiamenti strutturali nei meccanismi
dell'economia e del commercio internazionale diedero vita, su iniziativa del presidente
algerino Houari Boumedienne, alla "Dichiarazione per la costituzione di un
Nuovo Ordine Economico Internazionale" NOEI. Tra le richieste c'erano la
stabilizzazione dei prezzi, l'aumento dell'assistenza, cambiamenti nel sistema
monetario, trasferimento di tecnologia. La novità veniva dal comportamento fermo e
ben coordinato dei paesi del Sud. Lo sviluppo diventava l'argomento prioritario
sull'agenda internazionale.
Negli anni '70 prendendo nota di una crescita che non ha prodotto sviluppo ma al
contrario maggiori povertà, si insiste sulla connessione tra crescita economica e
distribuzione del reddito, H. Chenery, indica una nuova strategia, la "ridistribuzione
con crescita" (Redistribution with Growth, 1974). Ma sembra una riedizione della
vecchia ricetta della crescita equilibrata.
Come abbiamo visto l'approccio della modernizzazione metteva l'enfasi sulle forze
endogene, mentre l'approccio dipendentista su quelle esogene. Ma nel mondo reale i
paesi dipendono tutti dal sistema a cui appartengono, pur essendoci diverse forme e
gradi di dipendenza, in questo senso essi sono tutti reciprocamente interdipendenti.
Da una parte il concetto di interdipendenza suggerisce l'introduzione di alcuni
elementi che arricchiscono la complessità dell'analisi (la rivalità tra paesi del centro,
l'industrializzazione di alcune periferie e la deindustrializzazione di alcune zone del
centro, l'emergere di potenze regionali quali il Brasile e l'India). Dall'altra rimanda una 126
certa ambiguità mettendo tutti su una stessa barca e tralasciando di sottolineare le
differenze di situazione.
All'affermazione dell'idea di interdipendenza hanno contribuito sia la Conferenza
dell'0NU sull'ambiente del 1972 che ha posto l'accento sul fatto che i sistemi
ecologici non conoscono confini nazionali, sia le richieste di un riformismo globale per
un NOEI, sia il rapporto della commissione Brandt in cui interdipendenza era la
parola chiave. Inoltre la crisi petrolifera-energetica del 1973 ha ricordato
l'importanza dell'energia a basso prezzo nello sviluppo dell'industria occidentale, e ha
sancito un punto di svolta e di non ritorno sottolineando l'esauribilità delle risorse
naturali e la vulnerabilità del sistema industriale occidentale. Negli anni '70 si
determinano i primi cambiamenti: modelli di investimento e flussi finanziari; gli
sviluppi tecnologici; la localizzazione della produzione industriale; l'industrializzazione
di alcuni paesi del sud (Messico, Brasile, Nigeria, Costa d'Avorio, Kenya, Hong Kong,
Singapore, Corea del sud, Taiwan).
All'interno dell'ottica della Interdipendenza che si sviluppa negli anni '70 si colloca
l'approccio del sistema-mondo (The modern World System, 1974-1980) di
Immanuel Wallerstein. Wallerstein ritiene che l'economia mondiale sia capitalistica
e che comprendo gran parte della terra abbia dato luogo ad un complesso sistema di
relazioni funzionali. Nel sistema di Wallerstein non ci sono solo stati centrali e stati
periferici, ma anche stati semi-periferici, con una gerarchia delle mansioni
occupazionali (le periferie vedono declinare il settore manifatturiero per trasformarsi
in fornitori di materie prime per il centro). Tuttavia egli non distingue tra sviluppo e
sottosviluppo o tra capitalismo centrale e periferico. Esiste un solo tipo di capitalismo
ovvero un unico sistema mondiale di scambio capitalistico. Tanto l'Europa che
l'Africa hanno fatto parte da un certo momenti di un sistema mondiale che ha
determinato il loro sviluppo. Dunque i singoli paesi non hanno una reale autonomia.
Nel senso che le alternative alle singole parti sono poste dal sistema. Wallerstein,
abbandona l’unità di analisi dello “stato sovrano” o della “società nazionale” partendo
dall’idea che l’unico vero sistema sociale era il sistema mondo. L'analisi di tipo
unidisciplinare (una scienza sociale storica sopra le varie discipline) quindi deve partire
dal funzionamento dell'insieme del sistema. In questo Wallerstein si allontana dalle
precedenti interpretazioni marxiste e liberali etichettate come sviluppiste e di cui
critica la logica degli stadi evolutivi. In Wallerstein il punto di vista della dipendenza è
conservato come spiegazione del processo di sottosviluppo. Ora il processo di
sottosviluppo delle nazioni deve continuare fino alle sue estreme conseguenze, finché
non si creino i presupposti di una trasformazione rivoluzionaria del sistema
mondiale per creare con un unico governo mondiale (un sistema mondiale
socialista). La futura scomparsa del sistema capitalista è l’unico modo per superare
l’attuale stato di divisione ineguale della risorse mondiali. Fino all’incontro con le teorie
di Ilya Prigogine sulle strutture dissipative, Wallerstein manterrà questo approccio
teleologico.
A partire dal XV secolo inizia a formarsi un’economia mondiale dell’Europa di tipo
nuovo che via via arriva a coprire il globo. Si definisce “sistema-mondo” perché
trascende le unità politiche ed “economia mondo” (l’espressione è di Fernand Braudel)
perché il legame fra le parti è in primo luogo economico. Il sistema-mondo è definito
come «una struttura sociale dotata di confini, strutture, gruppi, regole di
legittimazione e coerenza». Si tratta di un’entità economico materiale autonoma
basata su una vasta divisione del lavoro e caratterizzata al suo interno da una
molteplicità di culture.
Critiche all'approccio del sistema mondiale sono venute anche da autori
neomarxisti, secondo i quali il concetto di “modo di produzione” risulta vanificato in
un'analisi del sistema mondiale. Il capitalismo invece si articola in svariati modi di
produzione (anche non capitalistici: asiatico, antico, feudale, coloniale, domestico, 127
agricolo, ecc.) che danno luogo a diverse formulazioni sociali.
Il limite dell’impostazione di Wallerstein sembra essere nella sua lettura
principalmente economica che non riconosce i presupposti culturali e sociali
dell’economizzazione del mondo e nemmeno capisce che l’opposizione alla dittatura
delle logiche capitalistiche di mercato può essere fatta solo a partire da una lettura
critica non economica di questi cambiamenti. Se il quadro di lettura è economico, la
moleplicità di culture che Wallerstein vede presenti nel sistema mondo, diventa in
realtà una molteplicità di folclori, che escludono le vere alterità culturali. Perché come
si sa dopo Polanyi, la prima vera differenza tra la cultura occidentale e le altre è il
ruolo e la posizione dell’economico rispetto al sociale (anche se ultimamente
Wallerstein ha rivisto la centralità della cultura come campo di battaglia ideologico del
sistema mondiale). Il sistema mondo è ancora una lettura occidentalizzante. Tuttavia
recentemente Wallerstein ha sottolineato che la crisi sistemica in atto sancisce la
definitiva obsolescenza del paradigma del liberalismo, con i sui corollari dello stato-
nazione, dello sviluppo, dell’universalismo, del razzismo-sessismo ecc…
Il rapporto della commissione Brandt (North-South: A programme for Survival,
1980), si basa esplicitamente sul concetto di interdipendenza. La filosofia del rapporto
è che al fine di evitare un processo di polarizzazione, i paesi ricchi propugnano il tema
della interdipendenza. In termini di strategia dello sviluppo, il rapporto esprime un
"keynesismo globale": la soluzione della povertà mondiale, passa attraverso un
massiccio trasferimento di risorse dal nord al sud.
Verso la metà degli anni '70 visti gli scarsi successi delle teorie e delle strategie
tradizionali dello sviluppo, si fa strada un nuovo atteggiamento basato su un
approccio normativo allo sviluppo. Si tratta di approcci che esaminano lo sviluppo
non sulla base di come si manifesta ma in base a ciò che dovrebbe essere. Spesso
tuttavia la mancanza di distinzione tra approcci normativi e positivi è fonte di
confusione intellettuale. La tendenza utopistica nella teoria dello sviluppo si
concretizza nel concetto di Sviluppo diverso, popolarizzato dal Rapporto della Dag
Hammarskjöld Foundation (What Now del 1975). Il dossier dell'International
Foundation for Development Alternatives (IFDA), parla invece di sviluppo
alternativo. Secondo la dottrina dello sviluppo della Dag Hammarskjöld Foundation,
uno sviluppo diverso dovrebbe essere definito come:
-orientato verso i bisogni (soddisfare i bisogni umani
materiali e non materiali).
-endogeno (derivante dall'interno di ciascuna società e
che stabilisce autonomamente i propri valori.
-che fa perno sulle proprie forze (fare affidamento
sulle proprie forze, risorse e potenzialità).
-ecologicamente valido (utilizzo razionale delle risorse,
consapevolezza dei limiti naturali)
-basato su trasformazioni strutturali (per realizzare
autogestione e la partecipazione al processo decisionale)
Hirsch e Hirschmann
Le riflessioni di Fred Hirsch, nel suo I limiti sociali allo sviluppo (1976)
costituiscono un percorso teorico originale e difficilmente inquadrabile. Secondo Hirsch
i legami di reciprocità durkheimiani, servono da premessa per il decollo dello sviluppo,
di cui dovrebbero poi garantire la perpetuazione; ma è lo sviluppo stesso, che con la
su morale individualistica e utilitaristica, e con un processo di feed-back produce la
distruzione di quei legami. In altre parole la cultura utilitaristica, funzionale allo
sviluppo, affermandosi distrugge le proprie fondamenta culturali e sociali. Per Hirsch
l'etica del successo può garantire quanto promette soltanto inizialmente, allorché
viene perseguita da pochi (se l'atteggiamento competitivo è poco diffuso infatti
costoro non faticheranno a prevalere sugli altri); ma il successo esemplare di quei
pochi diffonderà l'atteggiamento competitivo. Quando i concorrenti diventano
numerosi, il successo è garantito a pochi e soprattuto ai primi. Quando la
competizione diventa universale, le opportunità che garantiscono il successo si
riveleranno inefficenti se concesse a tutti. Dunque la competizione si farà più feroce.
Quando l'etica del successo si è completamente diffusa si rende desueto il rispetto
delle regole morali fondamentali e causa l'abbandono pratico delle norme
solidaristiche di integrazione e controllo sociale. Lo sviluppo per Hirsch non è costituito
da una soglia ma da da una posizione relativa. La logica dello sviluppo nel mercato è
selettiva e posizionale e riguarda il potere d'acquisto. L'avanzamento generale è solo
un illusione. Promesso a tutti si realizzerà necessariamente solo per pochi (come il
bastone del maresciallo dei soldati di napoleone). Per Hirsch lo sviluppo produce
fenomeni di congestione, e una disorganica scarsità sociale; la continua competizione
è fonte infatti di spreco sociale e di crescente frustazione. Ma ad un certo punto la
situazione diventa talmente complessa che l'analisi costi benefici su cui si basa gran
parte dell'agire strumentale dei ciascun individuo singolo, non funziona più; il risultato
si rivela minore di quello ottenibile perseguendo un interesse collettivo. 131
Negli anni '80 e '90, sulla scia da una parte dell'antropologia economica di
Marcel Mauss, Karl Polanyi, Marshall Sahlins, Luis Dumont, dall'altra dell'analisi
storico filosofica di Ivan Illich, il dibattito sullo sviluppo ha iniziato a registrare una
crescita sia al nord che al sud di quelle posizioni radicali, che attaccano l’ideologia
stessa dello sviluppo arrivando a reclamare in alcuni casi il diritto al non sviluppo.
Ivan Illich ha contrapposto al mito dello sviluppo l’immagine di una società
conviviale; Nicholas Georgescu-Roegen ha mostrato con la sua teoria
bioeconomica che il processo di crescita e di sviluppo economico illimitato è in
contrasto con le leggi dell’entropia e dunque non può essere sostenibile; François
Partant ha dichiarato la “fine dello sviluppo” e ha invitato a cercare nuove
alternative; Fred Hirsch ha mostrato così acutamente i limiti sociali allo sviluppo, i
paradossi della crescita e la necessità del superamento di un approccio
individualistico; Gilbert Rist ha suggerito di guardare allo sviluppo come a una
moderna credenza e ha lanciato l’invito a uscire dalla religione dello sviluppo; Serge
Latouche ha avanzato la critica dello sviluppo come processo di sradicamento
culturale e di occidentalizzazione del mondo e ha ripreso il concetto Roegeniano di
Decroissance; Wolfgang Sachs ha sostenuto che l’articolo "sviluppo" sia da confinare
in una dimensione archeologica, ha suggerito di puntare verso forme di economia e di
benessere più “leggere”. Ci sono poi anche intellettuali del sud del mondo come
l’indiana Vandana Shiva con la sua critica dello sviluppo come prodotto di una
cultura patriarcale legata alla passivizzazione della donna e della natura, e con le sue
lotte a difesa delle biodiversità, e ancora l’iraniano Majid Rahnema e la sua critica
alla concezione occidentale della povertà, il catalano Joan Martinez-Alier e la sua
riflessione sull'economia ecologica e sull'ecologia dei poveri, il messicano Gustavo
Esteva interprete delle lotte popolari e contadine, il colombiano Arturo Escobar con
la sua analisi integrata delle teorie del post-sviluppo e l’elenco potrebbe continuare.
Anche in Italia si è andato ampliando negli ultimi anni lo schieramento di studiosi/e
che hanno preso posizione contro lo sviluppo. E tuttavia nella maggioranza della gente
in Occidente c’è una forma di difesa del paradigma dello sviluppo nonostante le sue
contraddizioni e i suoi risultati, probabilmente dovuta alla paura di abbandonare un
riferimento ideale per quale si è tanto impegnati, si è tanto lottato, si è tanto
sacrificato. Abbandonare il mito dello sviluppo significa confrontarsi con il senso di
vuoto, di spaesamento, di mancanza di prospettive. La questione centrale è dunque 132
proprio l’abbandono per svuotamento dell’immaginario economico dominante, e la
riconquista di uno spazio politico che permetta il confronto sul senso e sulle direzioni
della vita sociale compresi gli aspetti economici.
«La principale minaccia alla diversità – ha scritto Vandana Shiva – deriva
dall’abitudine a pensare in termini di monocolture, quelle che io chiamo “monocolture
della mente”. Le monocolture della mente cancellano la percezione della diversità e
insieme la diversità stessa. La scomparsa della diversità fa scomparire le alternative e
crea la sindrome della “mancanza di alternative”» (SHIVA, 1995, p.5). Insomma la
distruzione delle diversità naturali e umane incomincia nella povertà del pensiero.
Curiosamente, come ha notato Luigi Zoja (2003), la cultura occidentale moderna
che continua ad ispirarsi all’espansione della crescita, all’immagine dello sviluppo
contemporaneamente continua, nelle sue fantasie inconsce e nel suo immaginario a
produrre immagini di punizione. Il mito dello sviluppo e quello della nemesi, della
punizione cosmica sono in verità profondamente intrecciati, anche nella nostra
mentalità di “moderni”. Ma questo non emerge ad un livello di consapevolezza: «nelle
sue fantasie inconsce, questa cultura continua ad allevare i tabù e i terrori di
punizione che in passato venivano associati all’arroganza e alla fortuna eccessiva:
essa seguita dunque a temere la catastrofe, il complemento dimenticato di quel mito.
La crescita illimitata è infatti il furto e l’esercizio di un’attività divina» (Zoja, 2003,
pp.21-22).
Il problema in quest'ottica non è quella di trovare uno sviluppo alternativo ma di
trovare una alternativa allo sviluppo.
Si tratta dunque, per cominciare, di rompere nell’immaginario collettivo le
associazioni tra sviluppo e realizzazione del benessere, tra crescita quantitativa e
qualità della vita. La grande conquista della civiltà occidentale sarebbe apprendere e
istituire socialmente dei modelli di socialità e di benessere non dipendenti dalla
crescita economica.
Ha ragione Mohammed Sid Ahmed a rovesciare dal tavolo tutti i termini con cui
abbiamo apparecchiato il nostro tempo. È finita e stiamo tardando troppo a
rendercene conto. Rimaniamo terribilmente attaccati a concetti antiquati come se
fossero le ultime boe di salvataggio e non capiamo che se non iniziamo a nuotare
nessuno ci salverà. L’idea dello sviluppo è uno di questi appigli che fatichiamo ad
abbandonare, ma che volenti o nolenti dovremo abbandonare.
La scelta delle società occidentali di puntare unilateralmente
sull’accumulazione economica, sulla crescita della produttività e dei consumi, ha
prodotto in “Occidente” per tutta una fase storica, una maggiore ricchezza
materiale, un maggiore accesso a beni di consumo e un generale avanzamento
tecnologico. L’unilateralità di questo approccio ha finito però col minacciare le forme di
legame sociale nelle nostre società e l’equilibrio ecologico del pianeta.
49
Citato in Martin, Schumann, 1997, p. 30.
I costi di queste performance sono stati pagati non solo dalle classi lavoratrici e
dai soggetti considerati non produttivi e dunque non “utili”, ma più ancora dai paesi e 133
dalle popolazioni di altre parti del globo costrette ad adattarsi e a riorientare i loro
sistemi sociali e produttivi alle nostre esigenze economiche e politiche. Allo stesso
tempo queste performance economiche sono state possibili attraverso uno
sfruttamento sconsiderato delle risorse naturali e un deterioramento dei sistemi
ecologici causando danni che incidono sulle popolazioni che vivono a più stretto
contatto con la natura e che pregiudicano in maniera significativa le condizioni di vita
delle generazioni future. Il nostro sistema politico economico sta conducendo una
guerra non dichiarata alle generazioni future e alle altre specie viventi.
Ad ogni modo questa breve fase di ricchezza e creazione di benessere sta volgendo
al suo termine nello stesso mondo “sviluppato”. È già molto tempo che la crescita
della ricchezza e la crescita del benessere non coincidono più.
Non c’è nulla di strano in questo. In effetti nella misura in cui la crescita è divenuta
fine a se stessa quello che è successo che la medicina dello sviluppo superato un certo
limite si è trasformata in veleno. Come nota Gregory Bateson:
Per dirla con le parole di Ivan Illich (Illich, 1993) si deve riconoscere l’esistenza di
una “seconda soglia” dello sviluppo economico oltre la quale la ricerca di una sempre
maggior ricchezza si traduce in una disutilità marginale, ovvero in un fattore contro-
produttivo, in termini sociali, ecologici e come abbiamo visto recentemente perfino
economici.
Il salto di coscienza difficile a questo punto è quello di riconoscere che tutti noi siamo
parte di questo modo di pensare patologico: individualista, dualista, finalista,
economicista, arrogante, potenzialmente autodistruttivo. Se non capiamo questo, il
rischio – potremmo dire il destino – sarà quello per cui ogni volta che crediamo di fare
qualcosa di nuovo, di alternativo, di riparativo per curare quel sintomo, in realtà
riproduciamo sotto altra forma (anzi spesso in forma più sottile ed insidiosa) le
premesse sbagliate che hanno condotto alla crisi. Gran parte dei nostri interventi e
delle nostre soluzioni, delle nostre risposte di emergenza entrano a far parte del
problema e lo rinforzano in un modo che non riusciamo a riconoscere. Come ha notato
Gregory Bateson:
Insomma si tratta proprio di procedere a mettere in dubbio ciò che è ovvio e che è
indispensabile (non solo ci appare come tale, ma in un dato contesto è effettivamente
tale).
Si comprende dunque l’estrema difficoltà, il “pasticcio” dentro a cui ci siamo infilati.
Un altro modo per esprimere questa situazione è che nella situazione attuale per
avere una reale prospettiva è assolutamente indispensabile un profondo
cambiamento, ma d’altra parte sul breve periodo tale cambiamento non può che
presentarsi come estremamente doloroso se non come una vera e propria piaga. Per
tornare a Bateson:
«“Eccola lì che sta zampettando vicino ai tuoi piedi,” disse la Zanzara (alice tirò
indietro i piedi, un po’ allarmata) “la Farfalla-Pane-e-Burro. Le sue ali sono fettine
sottilissime di pane spalmate col burro, il corpo è un pezzo di crosta, e la testa è
una zolletta di zucchero”.
“E di cosa si nutre?”
“Di tè leggere con panna”.
Venne in mente ad Alice una difficoltà imprevista. “E se non lo trova?” Chiese.
Allora muore, naturalmente”.
Ma è una cosa che le deve capitare assai spesso” osservò Alice, pensierosa.
“Le capita sempre” rispose la Zanzara.
Dopo di che, Alice restò zitta per un paio di minuti, soprappensiero…».
50
Si vedano Serge Latouche, 2005, 2007, 2008, 2009, 2011. Si veda anche per uno sguardo complessivo
D'alisa, Demaria, Kallis, 2014 e Deriu, 2016.
51
Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jorgen Randers, William W. Behrens III, The Limits to
Growth, Universe Books, New York, 1972, trad. it. I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano, 1972.
52
Ivi, p. 32.
53
Sulla figura di Sicco Mansholt e la decrescita si vedano: Joan Martinez- Alier “Sicco Mansholt y el
decrecimiento económico”, La Jornada, 8 settembre 2012,
http://www.jornada.unam.mx/2012/09/08/opinion/017a2pol; Trad. it. "Sicco Mansholt e la decrescita",
http://www.democraziakmzero.org/2012/09/11/sicco-mansholt-e-la-decrescita/;
Joan Martinez-Alier, “'Growth below zero': in memory of Sicco Mansholt”, intervento alla RESPONDER
conference, Brussels, 21 March 2014 http://www.ejolt.org/2014/03/growth-below-zero-in-memory-of-
sicco-mansholt/
racconta - una famosa lettera54 a Franco Maria Malfatti Presidente della Commissione
Europea (cui subentrò qualche mese dopo), in cui aveva espresso posizioni critiche 139
verso le tradizionali politiche di crescita traducendole in una serie di urgenti
raccomandazioni. «È evidente - scriveva nella lettera - quel la società di domani non
potrà essere incentrata sulla crescita, almeno in campo materiale». Questo significava
a suo modo di vedere che non si sarebbe dovuto più orientare il nostro sistema
economico verso la ricerca della massima crescita, verso la massimizzazione del
prodotto nazionale lordo. Questo sarebbe dovuto essere sostituito da altre misure
come l'"utilità nazionale lorda" o la "felicità nazionale lorda". A suo modo di vedere la
Commissione Europea avrebbe dovuto ragionare attorno all'idea di un "piano centrale
europeo" che mettesse al primo posto la salvaguardia dell'equilibrio ecologico e la
conservazione per le generazioni future di fonti di energia sufficienti e su un "piano
quinquennale" per lo sviluppo di un nuovo sistema di produzione "non inquinante"
basato su un'economia a ciclo chiuso ovvero un'economia di riciclo. Suggerendo di
ricentrare e riorientare la ricerca dall'obiettivo della massimizzazione della crescita a
quello dell'utile o del benessere, Mansholt abbozzava tutta una serie di possibili
misure economiche e politiche:
1. la priorità alla produzione alimentare investendo anche in prodotti agricoli
considerati "non redditizi";
2. una forte riduzione del consumo di beni materiali per abitante, compensato
dall'estensione di beni tangibili (previdenza sociale, sviluppo intellettuale,
organizzazione del tempo libero e delle attività ricreative ecc.);
3. un significativo prolungamento della vita di tutti i beni strumentali, prevenendo
lo spreco e evitando la produzioni di beni “non essenziali”;
4. la lotta contro l'inquinamento e contro la rarefazione delle materie prime
attraverso il riorientamento degli investimenti verso il riciclo e le misure
antinquinamento, che si tradurranno naturalmente in una modificazione della
domanda, e, pertanto della produzione.
Il carattere radicale e assolutamente inedito di quelle proposte nell'Europa post-
bellica - di fatto il primo tentativo di immaginare le linee essenziali di un progetto
politico di decrescita - da parte di un personaggio considerato l'incarnazione
dell'eurocrate lasciò in un primo momento molti senza parole. Ad aprire il fuoco contro
Mansholt - con l'effetto però di portare al centro della discussione pubblica la sua
lettera - fu Georges Marchais, allora Segretario generale del Partito Comunista
francese che per sostenere il NO durante la campagna referendaria francese per
l'allargamento della Comunità europea da sei a nove membri, utilizzò il dibattito sulla
limitazione della crescita e l'attacco a Mansholt e al Club di Roma accusandoli di
rappresentare l'immagine di "un'Europa della miseria e della repressione economica",
di volere "deliberatamente provocare un forte calo del benessere degli abitanti della
nuova comunità" con una politica malthusiana ad oltranza di limitazione delle nascite
e di diminuzione della produzione e dei consumi.
In quello stesso anno si tenne a Stoccolma dal 5 al 15 giugno la prima Conferenza
delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano (United Nations Conference on Human
Environment, UNCHE). In un'intervista rilasciata a Josette Alia per le Le Nouvel
Observateur uscita sul numero del 12 giugno, in contemporanea con la Conferenza di
Stoccolma, Mansholt rilanciava nuovamente la sua idea di una crescita negativa. Egli
54
Per un approfondimento di questa lettera e del dibattito cui ha dato vita si veda: Jean Claude Thill,
Laurence Reboul, Albert Te Pass, La lettre mansholt réactions et commentaires, Pauvert, Paris, 1972. Il
testo parziale della lettera si trova on line sul sito di EcoRev - Revue Critique d'Ecologie Politique: Lettre
au président de la Commission européenne http://www.ecorev.org/spip.php?article803; Si veda inoltre
Michel Bosquet, “Per un buon uso di Mansholt”, in Critique du capitalisme quotidien, Editions Galilée,
Paris, 1975; trad. it. “Per un buon uso di Mansholt” in Critica al capitalismo di ogni giorno, Jaca Book,
Milano, 1978.
riconosce di essere stato profondamente scioccato dal rapporto del System Dynamic
Group del MIT. All'improvviso si era reso conto che non era più possibile uscire dalle 140
difficoltà emergenti con qualche adattamento: «è il nostro intero sistema che ha
bisogno di essere rivisto, è la sua filosofia che dobbiamo cambiare radicalmente». Di
fronte dunque alla domanda della giornalista Josette Alia se per caso fosse un
sostenitore della "crescita zero", Mansholt rispose:
55
Sicco Mansholt, "Le Chemin du bonhoeur", Propos recueillis par Josette Aliea, "Le Nouvel Observateur"
n. 396, 12 juin 1972, pp. 71-88.
56
Idem.
57
Idem.
58
La parola décroissance sarà usata anche l'anno successivo dal filofoso André Amar nell'articolo "La
croissance et le problème moral" pubblicato nel n. 52 de la Revue La Nef dal titolo "Les objecteurs de
croissance" e dedicato alla discussione attorno al rapporto Meadows.
http://www.decroissance.org/?chemin=textes/amar
Nel dibattito, Sicco Mansholt, divenuto nel frattempo Presidente della Commissione
Europea, esprime nuovamente la certezza che sia necessario ridurre il nostro livello di 141
vita materiale e che tale obiettivo implichi la ricerca di un'altra società. Egli sembra
ritenere che tale obiettivo non possa essere trovato nel contesto di un capitalismo di
Stato, ma piuttosto nell'orizzonte di una società socialista che trasformi il sistema di
produzione attraverso un processo democratico.
Tra gli altri interventi il più interessante è quello di Michel Bosquet , lo pseudonimo
usato allora da Gerhart Horst, poi divenuto famoso col nome di André Gorz (1923-
2007). Egli comincia sottolineando il rischio che gli industriali che hanno finanziato la
ricerca del M.I.T. (Volkswagen, Fiat e Ford Foundation) vogliano appropriarsi di certi
temi ambientali solamente per disinnescare la contestazione ecologica, ovvero
levandogli il suo potenziale anticapitalista. Ma, si chiede Gorz, «l'equilibrio globale, di
cui la non-crescita - anzi la decrescita - della produzione materiale è una condizione,
questo equilibrio globale è compatibile con la sopravvivenza del sistema?»59.
Nel rispondere a questa domanda Gorz delinea chiaramente fin da allora i due
possibili modi di affrontare la fine della crescita e la prospettiva della decrescita che
ancora oggi si pongono di fronte a noi. A suo avviso la semplice non-crescita è
contraria alla logica del sistema capitalistico e incompatibile al funzionamento del
capitalismo "così come lo conosciamo" ma non necessariamente incompatibile con una
versione del capitalismo sotto altra forma, almeno per un certo periodo. Gorz ritiene
infatti che si diano due tipi di non-crescita o decrescita, l'uno corrisponde a un
progetto ideale come quello ipotizzato da Mansholt e dall'equipe del MIT (e più vicino
con l'attuale proposta politica della decrescita), si fonda su una politica economica di
equilibrio, diretta a livello centrale, l'altra invece è la decrescita reale (la situazione
che tecnicamente si indica con il termine "recessione"), ovvero la crisi dell'economia
capitalista. Tale condizione "oggettiva" può ciononostante trasformarsi in un progetto
capitalistico di tipo nuovo. Infatti l'arresto della crescita va compreso come "risultato
medio", una situazione in cui il capitale "nel suo insieme" si trova nell'impossibilità di
accrescerci. Questo tuttavia non significa che tutte le industrie, o tutti i capitali
saranno in crisi allo stesso modo. Anzi ci potrebbero essere alcune aziende che grazie
alla loro forza e alla loro posizione nel mercato produttivo o finanziario potrebbero
avvantaggiarsi eliminando o assorbendo i soggetti più deboli e conquistando fette
maggiori del mercato grazie a una produzione più efficiente e perfino meno
inquinante. Questo permetterebbe di dar vita a un nuovo ciclo di accumulazione anche
se su una base più incerta e su un tempo più limitato. Questo tipo di capitalismo che
nella rappresentazione di Gorz potrebbe trarre vantaggio dalla vendita di "aria non
inquinata", di "acqua potabile", di "minerali riciclati", di "pezzi d'ambiente preservati",
corrisponderebbe da ultimo ad un nuovo ciclo di accumulazione fondato su uno
sfruttamento ancora più estremo ovvero sulla «sussunzione da parte del capitale della
totalità dei fattori e delle condizioni che permettono la vita sulla terra»60.
Gorz individua dunque fin dall'inizio l'alternativa tra un progetto di decrescita scelto,
volontario, egualitario e fondamentalmente rivoluzionario, e la prospettiva di chi
andrebbe cavalcando la crisi economica e la recessione approfittando per concentrare
ulteriormente i profitti e imponendo in nome dell'ambiente una forma di controllo e di
dispotismo ancora maggiore.
Questo dibattito venne ripreso nel febbraio 1974 dalla rivista Le Sauvage che invitò
alcuni dei partecipanti alla serata di Parigi - Herbert Marcuse, Sicco Mansholt, Edward
59
"Ecologie et revolution", avec Sicco Mansholt, Edmond Maire, Edgar Morin, Edward Goldsmith, Philippe
Saint-Marc et Michel Bosquet, supplément spécial de Le nouvel observateur, n°397, 1972.
60
Michel Bosquet ivi. Questo testo è stato ripubblicato con il titolo "Ecologie et capitalisme" nel libro
Michel Bosquet, Critique du capitalisme quotidien, Edition Galilée, Paris, 1973, pp. 298-303; trad. it,
"Ecologia e capitalismo", in Michel Bosquet, Critica al capitalismo di ogni giorno, Jaca Book, Milano, 1973,
pp. 179-186. La frase citata si trova a p. 183 del testo dell'edizione italiana.
Goldsmith, Edgar Morin, Michel Bosquet (André Gorz) - a riaggiornare le loro
riflessioni argomento a distanza di un anno e mezzo. In quell'occasione Gorz torna a 142
sottolineare che «a fronte della crescente scarsità e dell'aumento dei prezzi
dell'energia, l'obiettivo attuale e realistico non è di "lavorare" e "produrre", ma di
lavorare e produrre meno vivendo meglio, ma diversamente: la rimozione degli
sprechi, la ricerca della sostenibilità dei prodotti, lo sviluppo di consumi e dei servizi
collettivi, sottrazione al mercato dei beni e dei servizi necessari a tutti, ecc.»61.
Negli anni successivi André Gorz sarà una delle figure che svilupperà con più
coerenza la propria riflessione attorno alla decrescita. Nel 1977 da alle stampe il libro
Écologie et liberté nel quale la sua riflessione sull'ecologia e la decrescita si fa più
strutturata e coerente. Il testo apre con una doppia affermazione che costituisce quasi
un manifesto culturale:
Per Gorz la crescita economica non solo non ha assicurato abbondanza e benessere
per tutti ma al contrario ha creato contemporaneamente ricchezza e nuove povertà.
Ha moltiplicato bisogni e aspettative che non poteva garantire a tutti, affermando così
nuove forme di accaparramento, di accesso e di consumo esclusivo e concentrando la
ricchezza su pochi soggetti.
Gorz denuncia i limiti e gli effetti perversi della crescita capitalistica. Gli sforzi
economici volti al superamento di una scarsità relativa finiscono a suo modo di vedere
a generare, oltrepassata una certa soglia, una scarsità assoluta e insormontabile. A
quel punto occorre riprodurre e trasformare in merce tutto ciò che fino a quel
momento era stato abbondante e gratuito. Nei termini da lui proposti ciò con cui si ha
a che fare è una classica crisi di sovrapproduzione aggravata da una crisi di
riproduzione. L'intreccio peculiare tra queste due crisi stabilisce un nuovo contesto
d'azione. In questo nuovo contesto di ambienti sempre più degradati, di
diseguaglianze sempre più estreme e di risorse sempre più rarefatte, il progetto della
crescita che risulta sempre più irrealistico ed illusorio e realtà e utopia si capovolgono:
61
"Le temps des prophètes", Le Sauvage, n° 10, février 1974, reprint 26 juin 2011,
http://www.lesauvage.org/2011/06/le-temps-des-prophetes/; reprint 16 juillet 2011
http://www.lesauvage.org/2011/07/le-temps-des-prophetes-suite/
62
André Gorz, Ecologie et liberté, Éditions Galilée, Paris, 1977; trad. it., Ecologia e libertà, a cura di
Emanuele Leonardi, Orthotes, Napoli, 2015, p. 37.
63
André Gorz, Ecologia e libertà, Éditions Galilée, Paris, 1977; trad. it., Ecologia e libertà, a cura di
Emanuele Leonardi, Orthotes, Napoli, 2015, p. 40.
riduzione della quantità dei beni prodotti ma una vita più ricca esige una tale
riduzione64. 143
Contemporaneamente esprime in maniera più esplicita anche la paura che
l'ecologia, vista come scienza degli equilibri naturali, possa essere utilizzata in
direzione del tecnofascismo per imporre scelte e limitazioni come se fossero
semplicemente "tecniche" in maniera autoritaria o per esaltare l'ingegneria applicata
ai sistemi viventi in modo da giustificare una volta di più l'investimento in grandi
apparati tecnologici. Per lui, l'ecologia politica e la decrescita vanno intese come scelte
in direzione dell'autogestione, come forme di "autoregolazione decentrata" piuttosto
che di "eteroregolazione centralizzata". In questo senso la lotta per una società
diversa diventa per lui anche la lotta per una tecnologia diversa e per una
trasformazione degli strumenti.
In questo libro Gorz rivela già influenze molto evidenti di altri autori come Nicholas
Georgescu-Roegen, Ernst Friedrich Schumacher, Marshall Sahlins, Jean Pierre Dupuy,
Jean Robert, e soprattutto l'Ivan Ilich di Tools for Conviviality.
André Gorz ritornerà sul tema della decrescita in diversi articoli e interventi negli
anni successivi. In particolare nel 1982 nel capitolo conclusivo di Adieux au prolétariat
dal titolo "Croissance destructive et décroissance productive"65 e poi più avanti nel
2007 negli articoli "Crisi mondiale, decrescita e uscita dal capitalismo"66 e "L'uscita del
capitalismo è già cominciata"67. In quest'ultimo, le sue riflessioni poco prima della sua
morte, ci consegnano il suo testamento sulla prospettiva della decrescita:
La scelta dunque, a suo modo di vedere, è tra una crisi catastrofica subita o una
scelta di autolimitazione assunta da una società auto-organizzata che anticipi almeno
in parte tale catastrofe.
Il dibattito negli anni '70 segna dunque l'articolazione tra le posizioni degli studiosi
ecologisti che parlano di "crescita zero" come nel rapporto Meadows al Club di Roma e
come farà di li in avanti una parte di studiosi ecologisti ed economisti ecologici 69, di
"crescita negativa" come nel caso di Sicco Mansholt, o esplicitamente di "decrescita"70.
64
Ivi. p. 61.
65
André Gorz, Adieux au prolétariat, Galilée, Paris, 1980; trad. it. Addio al proletariato, Edizioni del
lavoro, Roma, 1982; ripubblicato in André Gorz, Ecologica, Editions Galilée, Paris, 2008; trad. it, André
Gorz, Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009.
66
"Crise mondiale, décroissance et sortie du capitalisme ", Entropia, n. 2 «Décroissance et travail»,
Parangon, printemps 2007, ripubblicato in André Gorz, Ecologica, Editions Galilée, Paris, 2008; trad. it,
André Gorz, Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009.
67
"La sortie du capitalisme est déjà commencé", EcoRev, n. 28 automne 2007, ripubblicato in André
Gorz, Ecologica, Editions Galilée, Paris, 2008; trad. it, André Gorz, Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009.
68
Ivi p. 33.
69
Herman Daly, insieme ad altri economisti ecologici svilupperà a partire da questa idea la proposta di
una "steady-state economics". Cfr. Herman Daly, Steady-State Economics: The Economics of Biophysical
Equilibrium and Moral Growth, first edition W.H.Freeman & Co Ltd, San Francisco, 1977, 2nd Edition,
Island Press, Washington, 1991.
70
Per una ricostruzione del concetto di Decrescita si vedano fra gli altri: Serge Latouche, Le pari de la
décroissance, Fayard, Paris, 2006; trad. it., La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2007, in
particolare l'introduzione; Timothéé Duverger, La décroissance une idée pour demain, Sang de la Terre,
Il termine e la riflessione sulla decrescita è d'altra parte debitrice anche nei
confronti dell'opera dell'economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen l'inventore 144
del termine "bioeconomia". Georgescu-Roegen ha usato in realtà pochissime volte
questa parola nei suoi testi, ma un suo allievo - Jacques Grinevald - raccolse e
pubblicò in Francia nel 1979 una serie di suoi saggi con il titolo Demain la
dècroissance (Parigi, Pierre Marcel Fabvre, 1979).
Ad ogni modo Georgescu-Roegen era piuttosto convinto della necessità di un
rovesciamento della crescita, riteneva infatti che la stessa idea di "crescita zero"
propugnata in seguito da Herman Daly e altri, non fosse sufficiente. Tuttavia
riconosceva che il passaggio dall'idea alla realtà fosse tutt'altro che facile.
Paris, 2011; "What is Degrowth? From an Activist Slogan to a Social Movement", in Environmental
Values 22 (2013), pp. 191-215;
71
La distinzione tra organi esosomatici e organi endosomatici ripresa da Georgescu-Roegen è
originariamente di Alfred J. Lotka.
l'invenzione di una forma di "sussistenza moderna" che chiamava anche "austerità
conviviale". Un concetto che si avvicina molto a quello che oggi diversi studiosi 145
indicano con il termine decrescita.
Illich invitava dunque a optare per una società realmente post-industriale che
disponga di un largo ventaglio di strumenti moderni e conviviali. Ma la discussione sul
processo di transizione verso una società post-industriale è attrettanto importante
dell'obiettivo. In un certo senso lo stesso procedere dev'essere conviviale. Illich è
estremamente contrario all'idea di affidare agli esperti l'incarico di fissare un limite
alla crescita.73
«Dinanzi al disastro incombente, la società può adagiarsi a sopravvivere entro i
limiti fissati e imposti da una dittatura burocratica, ma può anche reagire
politicamente ricorrendo alle procedure giuridiche e politiche»74. Illich chiarisce che la
gestione burocratica (eteronoma) della sopravvivenza umana non solo sarebbe
inaccettabile, ma sarebbe oltretutto inutile. Poiché la delega ai tecnocrati spingerebbe
a mantenere il sistema industriale comunque al massimo livello di produttività
sostenibile, cercando di forzare il più possibile la soglia di tolleranza con tutti i mezzi
disponibili. Sarebbe insomma un po’ come continuare a giocare con la morte,
camminando sull'orlo del precipizio, sperando di non scivolare o che nel frattempo non
smotti comunque l'orlo sotto il peso di effetti cumulativi o di feed back non previsti.
L'avvento di quello che Illich chiama "fascismo tecno-burocratico" è comunque una
mossa sempre possibile, ma che non è scritta negli astri.
Inoltre, occorre tener conto che il percorso di transizione per garantire una forma
di sopravvivenza nell'equità esigerà sacrifici di un certo tenore, che potranno essere
accettati dalle persone solamente se scelti e assunti consapevolmente anche se
all'interno di un processo politico. Come scriveva Illich,
72
Ivan Illich, Disoccupazione creativa, Boroli Editore, Milano, 2005, p. 78.
73
Ivan Illich, Disoccupazione creativa, Boroli Editore, Milano, 2005, p. 65.
74
Ivan Illich, La convivialità, Red Edizioni, Como, 1993, p. 129.
75
Ivan Illich, La convivialità, Red Edizioni, Como, 1993, p. 126.
Vincent Cheynet e Bruno Clementin. Successivamente gli stessi diedero vita nel 2004
alla rivista "La Dècroissance, le journal de la joie de vivre" che rimane ancora oggi un 146
riferimento importante della rete per la decrescita francese e non solo.
Il movimento per la decrescita dunque si sviluppa a partire dal 2001 in Francia, a
partire dal 2004 in Italia e a partire dal 2006 in Spagna. Successivamente si estende
in diversi paesi europei (Svizzera, Belgio, Portogallo, Germania, Filandia, Norvegia,
Danimarca, Repubblica Ceca ecc…) ed extraeuropei (Canada, Messico, Brasile,
Portorico ecc…). Un ruolo particolare è giocato dalle Conferenze internazionali sulla
decrescita che si tengono ogni due anni in diverse città. La prima si tenne a Parigi nel
2008, successivamente a Barcellona nel 2010, a Montreal nel 2011 (Conferenza delle
Americhe) a Venezia nel 2012, a Leipzig nel 2014 e a Budapest nel 2016.
Il più noto divulgatore della teoria della decrescita rimane ancor oggi l'economista
francese Serge Latouche.
GLOBALIZZAZIONE/LOCALIZZAZIONE
PAESAGGI GLOBALI
76
Per una storia della globalizzazione e dei fenomeni che ne stanno alla base si veda Osterhammel e
Petersson, 2005.
evitare, anche nelle analisi, che il mondo attuale sia ridotto all’unica dimensione del
mercato “globale”. 150
Un antropologo indiano, Arjun Appadurai, in un testo che è ormai divenuto un
classico sulla globalizzazione Modernity at Large (trad. it. Modernità in polvere,
Meltemi, Roma, 2001), insiste sul fatto che siamo di fronte ad un fenomeno
complesso in cui si sovrappongono più aspetti e dimensioni. Appadurai propone di
parlare di 5 paesaggi:
- Il paesaggio tecnologico (tecnoscape): la configurazione globale della
tecnologia meccanica e informatica, e più in generale, direi, le reti infrastutturali di
diverso genere che permettono i flussi di informazioni, di immagini, di capitali e di
beni.
- Il paesaggio economico e finanziario (financescape): l'organizzazione e le
dinamiche del capitale globale e della finanza.
- Il paesaggio della comunicazione (mediascape): la distribuzione delle
capacità elettronica di produrre e diffondere di informazioni, immagini e narrazioni e
con essi i prodotti stessi di questi nuovi strumenti.
- Il paesaggio politico-ideologico (ideoscape): idee, ideologie e narrazioni
politiche: ideologia liberale, democrazia, diritti umani universali, ideologia umanitaria.
- Il paesaggio dei movimenti di persone (etnoscape): popolazioni e
movimenti di turisti, immigrati, rifugiati, esiliati, lavoratori ospiti ed altri gruppi in
movimento, che influenzano la politica e l'economia come mai prima d'ora.
Sottolineare l'esistenza di più orizzonti è importante per far emergere alcune
fondamentali “disgiunture”, a volte anche contraddizioni tra aspetti economici,
culturali e politici, soprattutto quando ci riferiamo all'impatto di questi processi nei
contesti locali.
77
Stefania Vitali, James B. Glattfelder, Stefano Battiston (2011), The Network of Global Corporate
Control, PLoS ONE 6(10): e25995. doi:10.1371/journal.pone.0025995
stesso periodo in Sud Corea si è passati da 2,1 a 8,5 milioni di auto, con un
incremento del 305%, mentre in Colombia da 0,6 a 8,5 milioni di auto con una 153
crescita del 217%.
Se poi guardiamo al consumo di apparecchi per la casa negli ultimi decenni, insieme
all’espandersi dello stile di vita occidentale sono cresciuti i consumi di frigoriferi,
lavatrici, condizionatori, Tv, video registratori, computer, tecnologie hi-fi, accessori,
giochi elettronici ecc. Tutti questi beni sono visti come status symbol o come portatori
di maggior benessere e libertà. Questo naturalmente porta con se anche una notevole
crescita del consumo energetico.
Questa nuova élite non raggiunge ancora il livello di consumo dei superconsumatori
dei paesi più ricchi e industrializzati (circa 850 milioni), ma il loro tenore di vita si è
ormai decisamente distaccato da quello della maggior parte della popolazione
mondiale.
Attualmente c’è senza dubbio una pressione per un'uniformazione globale de
mercati anche attraverso l’omogeneizzazione dei gusti. Pensiamo al cibo e a prodotti
come Mc Donald o Coca Cola una bevanda la cui ricetta viene esportata dagli USA in
oltre 200 paesi. In generale per le aziende è più conveniente uniformare i gusti in
tutto il mondo, cercando di smussare i saperi troppo forti, per cercare di raggiungere
un maggior numero di persone in tutto il mondo, anziché differenziare i prodotti in
diversi mercati locali.
Uno dei cambiamenti più interessanti riguarda d’altra parte lo sviluppo, lento ma
significativo, di una generale consapevolezza ecologica globale. Pian piano le persone
stanno prendendo coscienza dell’unità dell’ecosistema globale. In questa direzione
hanno giocato un ruolo importante alcuni eventi particolarmente significativi.
-1969 la terra vista dalla luna, icona ecologica e imperiale (Sachs);
-1972 Rapporto Meadows sui limiti dello sviluppo, Crisi ecologica.
-1973 Crisi petrolifera;
-1986 Incidente nucleare di Chernobyl (Ucraina)
Poi a partire dagli anni ’90, le prime analisi sul buco dell’Ozono e il fenomeno del
riscaldamento globale con tutte le conseguenze ecologiche e sociali che ne derivano
hanno messo all’attenzione dell’opinione pubblica i grandi temi ambientali. Da qui
anche la nascita di molte organizzazioni ambientaliste: Wwf, Greenpeace, Amici della
terra ecc…
Negli stessi decenni si è registrata invece un indebolimento degli stati nazione. Di
fronte ai processi globali dell’economia, della finanza, nonché a quelli ecologici, gli
organismi statali hanno visto relativizzare via via il proprio ruolo.
Contemporaneamente si sono sviluppate una serie di aree economiche, politiche e
militari che raggruppavano più paesi. Tra queste la più importante è la crazione
dell’Unione Europea. Inoltre sono cresciute in numero e importanza le organizzazioni
internazionali e multilaterali. Non c'è solo l'Onu con tutte le sue agenzie specializzate,
ma anche la il G7, il FMI, la BM, il WTO, la UE, l'OCSE, la NATO ecc. Se ci riferiamo
per esempio ai Summit internazionali di queste organizzazioni, possiamo notare che a
metà del IX secolo se ne organizzavano due o tre all'anno, oggi ce ne sono oltre
quattrocento. Inoltre si moltiplicano le agenzie e le associazioni internazionali.
Da un altro punto di vista, gli anni '90 hanno registrato anche l'affermazione delle
cosiddette ONG (Organizzazioni Non Governative), molte delle quali hanno assunto un
tratto e una rilevanza internazionale. Si pensi ad Amnesty International, Medici senza
frontiere, Oxfam, Save the Children, Care, ecc…
Un aspetto poco conosciuto ma molto importante di queste trasformazioni riguarda
il fenomeno della privatizzazione della guerra e della diffusione di imprese militari
globali. I nuovi soggetti di questa privatizzazione si chiamano Pmf, (Private Military
Firm), Pmc (Private Military Company), Psc (Private Security Company).
Le differenze tra queste società e i tradizionali mercenari sono numerose. La
principale novità riguarda il fatto che stiamo parlando di soggetti che si presentano a 155
tutti gli effetti come moderne imprese societarie, normalmente quotate in borsa e
integrate in sistemi finanziari e commerciali più vasti che propongono un vasto
assortimento di prodotti e servizi sia all’interno di un certo settore (per esempio quello
della sicurezza) o anche in diversi settori (sicurezza, logistica, forniture ecc.). È
importante sottolineare dunque che siamo di fronte a soggetti economici pubblici e
legali guidati dalla prospettiva di un business d’impresa (e non di guadagno
individuale) che competono sul mercato globale, strutturati e organizzati secondo una
gerarchia societaria che garantisce contrattualmente - assicurando affidabilità e
stabilità anche nel tempo e non solo nel breve periodo - una clientela vasta e
articolata.
La prima è coincisa con il commercio transatlantico degli schiavi. Si calcola che circa
12 milioni di persone siano state deportate come schiavi dall'Africa verso le Americhe.
Una seconda immigrazione, dovuta alla povertà si registrò tra il 1880 e la prima
guerra mondiale, durante la quale circa 30 milioni di persone si trasferirono 156
oltreoceano. Una terza ondata migratoria si è registrata dopo la seconda guerra
mondiale, in particolare negli anni '50 e '60 quando milioni di persone si riversarono in
Europa in coincidenza con un forte sviluppo economico. A queste ondate si aggiunge
ora l'immigrazione più recente verso i paesi più ricchi.
Si stima che oggi più di 247 milioni di persone, pari al 3,4 % della popolazione
mondiale, vivano al di fuori del proprio paese di nascita. Il numero di migranti è
cresciuto da 175 milioni nel 2000 a 251 milioni nel 2015 e a più di 247 milioni nel
2013. Il corridoio USA-Messico risulta essere il corridoio migratorio più percorso al
mondo, con 13 milioni di migranti nel 2013. Quello tra Russia–Ucraina con 3,5 milioni
è il secondo, seguito da Bangladesh-India (3,2 milioni), e Ucraina–Russia (2,9
milioni).
Oltre a questo si possono notare altri flussi di persone che riguardano,
L'affermazione del turismo di massa, la crescita dei profughi negli ultimi decenni, il
flusso di volontari e cooperanti nei paesi del sud del mondo e infine il flusso di
lavoratori altamente specializzati.
«Gli usi del tempo e dello spazio sono non solo nettamenti differenziati, ma
inducono essi stessi differenze tra le persone. La globalizzazione divide tanto
quanto unisce; divide mentre unisce, e le cause della divisione sono le stesse
che, dall'altro lato, promuovono l'uniformità del globo» (Bauman, 1999a, p. 4)
Gli stessi processi di globalizzazione della finanza e dell'economia che hanno creato
una classe transnazionale in gran parte distaccata dai territori ha creato anche forme
di mobilità differente. Le élites, gli imprenditori, gli investitori possono muoversi a loro
agio e a loro piacimento nelle diverse rotte globali, spesso sottrandosi - loro e i loro
capitali - ai vincoli legali e fiscali degli stati nazionali, mentre i poveri espulsi dai
processi economici e sociali devono rischiare la vita nelle carrette del mare per
approdare nella terra promessa dell'Europa. La globalizzazione dunque non produce
dunque semplicemente una dinamica di interconnessione ma anche di stratificazione e
separazione. In termini ancora più netti Saskia Sassen sottolinea come «gli ultimi due
decenni hanno visto crescere rapidamente il numero di persone, imprese e luoghi
espulsi dai fondamentali ordinamenti sociali ed economici del nostro tempo» (Sassen,
2015, p. 7).
Non si tratta di nuove povertà o del ritorno di forme di povertà, ma di qualcosa di
molto diverso, ovvero la produzione di scarti, di eccedenze, di persone considerate
inutili dal sistema di produzione capitalistico contemporaneo. Masse crescenti di
espulsi dalle proprie terre, dal proprio lavoro, dalla propria comunità, dai diritti e dai
sistemi sociali.
In prospettiva dunque, con l'aumento di queste masse di esclusi e la crescente
consapevolezza di un'impossibile accesso o integrazione nel sistema del "benessere" 157
dominante si delineano dunque nuove tensioni, nuovi conflitti e nuove forme di
violenza. Non c'è dubbio che il diffondersi di forme di populismo politico nonché la
presa che movimenti criminali e terroristici hanno nelle popolazioni locali dipendano
anche dalla crescita del malessere degli esclusi del sistema globale.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
158
LAVORO/PRECARIETÀ
Il lavoro è una categoria culturale centrale nella nostra società. Eppure quando oggi
parliamo di lavoro non ci rendiamo conto che gran parte dei nostri schemi di lettura,
delle nostre categorie sono divenute nel frattempo improprie e inadatte a rendere
contto del contesto attuale. Le mutazioni del lavoro sono state tante e tali da
cambiare radicalmente l’esperienza e le condizioni sociali di una parte crescente della
popolazione e delle generazioni più in particolare.
Personalmente ritengo che quello che stanno vivendo oggi le nuove generazioni non
sia semplicemente un’esperienza di modificazione delle forme di organizzazione del
lavoro o di sostentamento. Credo che stiano attraversando un vero e proprio
mutamento antropologico, di cui è difficile rendersi conto per due motivi: il primo è
che tutti noi stiamo vivendo questo tempo e questo cambiamento in una dimensione
individuale e non c’è una socializzazione delle nostre esperienze; il secondo è che ci
manca un linguaggio per farlo. Non siamo ancora in grado di raccontare quello che le
nuove generazioni stanno vivendo in una maniera abbastanza profonda. Il punto è
invece mostrarsi capaci di raccontare le proprie esistenze, di produrre significati sociali
nuovi a partire da quello che si vive, a imporre un linguaggio politico nuovo, coerente
con il senso sociale che si intende istituire. Essendo in una fase di grande
trasformazione occorre inoltre riuscire a guadagnare una prospettiva che non sia né
irrigidita sul passato nè schiacciata sul presente, ma capace in qualche modo di
leggere eredità, trasformazioni e visioni del futuro. In questa prospettiva può essere
stimolante domandarsi come si costruisce la gestione del presente e la proiezione
verso il futuro delle generazioni che vivono all'ombra del precariato.
In un saggio di qualche anno fa (Appadurai 2011, pp. 3-53; Appadurai, 2014, cap.
9.), l'antropologo indiano Arjun Appadurai ha offerto una riflessione sulla "capacità
di aspirare", presentandola come una dimensione fondamentale della democrazia e del
cambiamento sociale.
Essa corrisponde alla possibilità di far sentire la propria voce, di esprimere la
propria "protesta", di partecipare criticamente, di mettere in campo desideri e obiettivi
rivolti al futuro e al miglioramento delle condizioni personali e collettive. Come ha
notato Paolo Jedlowski, le aspirazioni si collocano tra i meccanismi della
protensione, ovvero la tensione a trascendere lo stato di cose presente, e quelli
dell'aspettazione, ovvero l'anticipazione nell'immaginazione di futuri possibili
(Jedlowski, in de Leonardis, Deriu, 2012, p. 3.; cfr anche Jedowski, 2012, p. 72). Si
tratta dunque di individuare un rapporto effettivo e fecondo tra i propri desideri di
cambiamento e miglioramento e l'identificazione di quei percorsi e processi sociali e
collettivi per incamminarsi (o "navigare", per usare la metafora di Appadurai)
coerentemente in quell'orizzonte.
Si tratta dunque, secondo l'antropologo indiano, di una capacità umana
fondamentale e al contempo di un'attitudine definita e nutrita culturalmente. Le 159
aspirazioni e le idee circa il futuro si nutrono infatti di strumenti metaforici, retorici,
organizzativi che hanno una forte relazione con le culture e le forme sociali locali
perché, pur riferendosi a bisogni, preferenze, scelte e previsioni soggettive, non sono
mai semplicemente individuali ma si riagganciano a più ampie e generali idee etiche e
metafisiche che definiscono cosa sia la felicità, la giustizia o la "buona vita". Come
scrive Appadurai:
«le aspirazioni fanno parte di un più ampio insieme di idee morali e metafisiche,
derivanti da norme culturali più ampie. Le aspirazioni non sono mai
semplicemente individuali (come il linguaggio dei desideri e delle scelte ci porta a
pensare). Si formano sempre nell'interazione con la vita sociale e nel suo
tessuto. […] Le aspirazioni a una buona vita, sana e felice, esistono in tutte le
società. Tuttavia, l'immagine buddhista della buona vita è piuttosto lontana da
quella islamica. Alla stessa maniera, l'idea della buona vita di una povera
contadina tamil può divergere da quella di una donna cosmopolita di Delhi così
come dall'idea di una donna, similmente povera, della Tanzania. Ma, in ogni caso
le aspirazioni alla buona vita fanno parte di un qualche sistema di idee (si ricordi
la relazionalità come un aspetto della cultura), che le colloca in una più grande
mappa di idee e di credenze locali circa la vita e la morte, la natura dei
possedimenti terreni, l'importanza dei beni materiali rispetto alle relazioni sociali,
la relativa illusione della continuità sociale, il valore della pace e della guerra»
(Appadurai, 2015, p. 257).
«In ogni società, i più privilegiati, allo scopo di esplorare il futuro con maggiore
frequenza e realismo e condividere tale conoscenza, hanno semplicemente usato
la mappa delle norme di tale società più regolarmente dei propri, più deboli e più
poveri vicini. I membri più poveri, proprio perché privi dell'opportunità di
esercitarsi nell'uso di questa capacità di orientamento (in quanto le loro
condizioni permettono sia pochi esperimenti sia minore facilità di immaginare
futuri alternativi), hanno un orizzonte di aspettative più fragile» (Appadurai,
2015, pp. 258-259).
78
Fondazione Bertelsmann, 2016, Long-term Unemployment in the EU: Trends and Policies,
http://www.bertelsmann-stiftung.de/fileadmin/files/user_upload/Studie_NW_Long-
term_unemployment.pdf
Sicurezza della rappresentanza: garanzia di potersi esprimere e di poter
avanzare richieste e rivendicazioni tramite forme di rappresentanza sindacale e diritto 162
di sciopero.
Questo elenco potrebbe essere peraltro ulteriormente ampliato includendo anche
questioni come la tutela della maternità e della paternità, o la garanzia di qualche
forma di sistema pensionistico a tutela delle future condizioni di anzianità, ma su
quest'ultimo tema torneremo dopo.
I lavoratori precari dunque sono tali poiché vengono esposti ad una forma
di insicurezza radicale che comprende molte dimensioni
contemporaneamente, tanto da rendere sempre più difficili le strategie di
difesa e di organizzazione della propria vita. Le offerte di lavoro riguardano
impieghi di pochi mesi, scarsamente qualificati, sottopagati, senza opportunità di
carriera, con poche tutele, senza possibilità di contrattare condizioni migliori, senza
dunque alcuna prospettiva di futuro. L’ideale di un posto minimamente stabile e
garantito si allontana sempre più lontano nel tempo.
Questo significa difficoltà a costruire identità professionali coerenti, ad accumulare
esperienza ed un curriculum spendibile nel passaggio da un contesto di lavoro ad un
altro, ad accumulare anzianità retributiva e contributiva. L'esperienza del precariato
può essere descritta da questo punto di vista come una specie di cancello girevole in
ragione del quale anziché andare avanti si continua a tornare allo stesso punto di
partenza.
Una tale configurazione del mondo del lavoro ha prodotto una crisi e un
disorientamento anche di altre dimensioni sociali, da quelle educative e formative a
quelle del volontariato o dell'impegno politico e sociale.
Per quanto riguarda il primo aspetto pensiamo al percorso di costruzione dei
fondamenti educativi e formativi per entrare a far parte di questa società. Per un
verso oggi i giovani si rendono conto almeno in parte di stare affrontando un lungo
percorso di studi – da un minimo di 13 a 17-18 anni di studio (per chi fa l'Università)
o anche di più se contiamo specializzazioni, master, dottorati ecc. – senza che questo
assicuri una qualsivoglia connessione con il lavoro o l’impiego che troveranno dopo. La
connessione tra formazione e lavoro oggi non è affatto assicurata, anzi diminuisce
sempre di più.
In Italia è molto alta anche la percentuale dei giovani inattivi, i cosiddetti NEET
(Not in Education or in Employment Training), sono circa 1,3 milioni di persone,
il 20% della popolazione nella fascia d'età 15-24. Oltre un giovane su 4 tra i 15 e i 29
anni è un NEET, ovvero non studia e non lavora.
C’è un fatto di fondo nel vissuto delle giovani generazioni che va assolutamente
compreso, un senso di precarietà e di incertezza che invade ogni spazio della vita
sociale e intima: dalla dubbia utilità del loro studio, all’incertezza e dalla fragilità del
lavoro, dalla crisi delle famiglie e delle relazioni primarie all’incertezza economica,
dalla crisi delle agenzie formative a quella delle istituzioni politiche. Come notava il
sociologo francese Pierre Bourdieu:
«Le tappe sono meno reversibili. L'occupazione più instabile. L'unione di coppia
può essere sciolta e si può tornare a vivere come single. Dopo la fine di un
rapporto di lavoro o dopo un fallimento coniugale, spesso si torna,
temporaneamente, a vivere con i propri genitori» (Ambrosi, Rosina, 2009, p.
19).
Come è stato notato da più parti, è difficile dunque proiettarsi sul futuro se non si
ha una solida presa sul presente, o se questa presa viene a mancare totalmente. In
queste condizioni, come ha notato Marita Rampazi, diventa prevalente un senso di
"incertezza biografica" che si compone di diversi elementi quali la reversibilità delle
scelte, l'enfatizzazione del presente a scapito del futuro e del passato, la dilatazione
dei tempi di passaggio, e una progressiva centralità della dimensione biografica. Ma
l'elemento determinante è che oggi «l'incertezza biografica non appare più una
condizione transitoria, legata a una particolare fase di passaggio ma si propone come
un aspetto permanente dell'esperienza individuale» (Rampazi, 2009, p. 83).
Per quanto riguarda la posticipazione delle nascite, legata ad una generale
modificazione degli stili di vita, comincia nel nostro paese dalla metà degli anni '70,
ma va detto che aspetti quali la crisi economica, la precarietà lavorativa, l'incertezza
sull'impiego, sul reddito e anche sulle tutele in caso di maternità e paternità, oggi
contribuiscono ulteriormente a rinviare nel tempo l'esperienza riproduttiva. Se nel
1991 l'età media del primo parto era in Italia di 29,1 anni, la media era già salita a
30,38 nel 2000, a 30,87 nel 2005 (31,29 per le sole madri italiane), a 31,26 nel 2010
(31,89 per le sole madri italiane), a 31,39 nel 2012 (32,02 per le sole madri
italiane)79. Attualmente sette nati su 100 hanno una madre ultraquarantenne. La
posticipazione delle nascita contribuisce fra l'altro all'abbassamento della natalità nel
nostro paese. Nei fatti in Italia i giovani sono sempre meno. Secondo le rilevazioni
Istat del 201680 in Italia ci sono 161,1 anziani ogni 100 giovani, con un indice di
vecchiaia tra i più vecchi del mondo insieme al Giappone e la Germania.
79
Dati tratti dagli Indicatori di fecondità dell'ISTAT.
80
http://www.istat.it/it/files/2016/04/Cap_2_Ra2016.pdf
percorsi e dei progetti. Come ha scritto lapidariamente Giuliano Cazzola «I figli si
riprendono nell'ambito privato tutto ciò che i padri rubano loro nella vita pubblica. 165
Recenti stime hanno calcolato che le famiglie vanno in aiuto dei figli già adulti (magari
pure inseriti in un proprio nucleo familiare) con un flusso di risorse pari a circa 80
miliardi di euro all'anno» (Cazzola, 2004). Il dato va certamente aggiornato ma da
un'idea del fenomeno. Tuttavia questo scambio sancisce una saldatura
fondamentalmente conservatrice, che toglie libertà e opportunità alle nuove
generazioni. O detto in altre parole «I genitori italiani sono molto generosi con i loro
figli e molto egoisti coi figli degli altri» (Boeri, Galasso, 2007, p. 5 e cap. III). Inoltre
si tratta di un tampone evidentemente temporaneo destinato ad esplodere nel giro di
pochi anni o al massimo di una generazione.
Si tratta dunque di una trasformazione che non riguarda semplicemente la
collocazione e la retribuzione ma il senso di sé, delle proprie relazioni, della propria
esistenza, dei propri cicli di vita, della propria integrazione sociale. Nel vissuto di molti
giovani vi è una profonda questione che riguarda l’ansia e l’angoscia rispetto al
prossimo lavoro precario e più profondamente rispetto al proprio posto nella società.
La propria condizione li porta talvolta a ritenersi non predisposti, non adeguati
all’inserimento sociale ed economico. Si domandano se la società in cui vivono è
interessata al loro contributo, alla loro esistenza oppure no. Si domandano se la
comunità fa in qualche modo affidamento su di loro, se li “mette al lavoro”, nel senso
di dargli davvero un’occasione per farsi valere o se il loro contributo è quasi del tutto
indifferente, così come è assolutamente indifferente chi lo svolge. L’importante è che
all'occasione si riesca a coprire quel buco di qualche mese nel ciclo della produzione.
Dunque se l’incertezza sul futuro può creare una tensione e un’angoscia costante, il
messaggio di silenzio, d’indifferenza quando non di cinismo che le nuove generazioni
ricevono dalla società li può portare anche verso la depressione o la rabbia.
Come ha scritto Stefano Laffi nei fatti quello che è avvenuto è un'iscrizione dei
giovani nel registro dei soprannumerari, dei superflui, degli inutili
«Se fossero previsti nella scuola, nel mondo del lavoro, nelle istituzioni, nella vita
pubblica - ma si può dire persino nella famiglia - la scena sarebbe diversa,
mentre tutto è pervaso dall'imbarazzo su cosa fargli fare, come tenerli, come
dirgli che non c'è più posto, che i soldi rimasti servono a mantenere gli adulti, i
quali casomai provvedono ai propri figli (condannandoli quindi a essere sempre
"figli", mai "giovani")» (Laffi 2014, p. 128).
«Oggi, per i giovani, la minaccia del futuro si è sostituita all’invito a entrare nella
società, a condividere, a conoscere e ad appropriarsi dei beni della cultura.
Sembra che la nostra società non possa più “concedersi il lusso” di sperare o di
proporre ai giovani la loro integrazione sociale come frutto e fonte di un desiderio
profondo» (Benasayag, Schmit, 2005, p. 40).
In questa prospettiva il grande tema della precarietà va letto non solo come
aumento delle condizioni di incertezza e fragilità delle nuove generazioni di lavoratori,
ma come rapido dissolvimento delle forme di equità tra differenti generazioni e dei
legami di solidarietà intergenerazionali che nella fase industriale novecentesca erano
stati in qualche modo reinventati e garantiti.
Prendiamo per esempio il tema della previdenza sociale e delle pensioni. Per
un verso tutta una serie di garanzie, di diritti e sussidi rivolti a proteggere e
supportare i lavoratori e le lavoratrici in caso di gravidanza, di malattia, di infortuni,
licenziamenti arbitrari o chiusura dell'azienda sono via via in corso di smantellamento
con la giustificazione della necessità di mantenere basso il costo del lavoro.
D'altra parte anche l'equilibrio tra giovani anziani e il relativo sistema pensionistico
oggi è sempre più in crisi. Non solo perché come abbiamo visto è cambiata la struttura
della popolazione e non solo perché si continua ad innalzare l'età pensionabile,
prolungando la permanenza nel mondo del lavoro dei più anziani a fronte di una
difficoltà di accesso dei giovani. Ma anche perché la precarizzazione del lavoro rende
81
http://www.demos.it/2013/pdf/2563report_-_repubblica_delle_idee_-_torino_02.02.13.pdf
l'accesso ad un sistema pensionistico più difficile, travagliato ed incerto per i giovani
precari di oggi. 167
In passato il sistema pensionistico finanziato dal prelievo fiscale dei lavoratori,
garantiva i servizi sociali, le cure mediche e un reddito ai più anziani, in cambio di una
garanzia che quando si sarebbe stati a propria volta anziani e bisognosi di cure ci
sarebbe stato una previdenza anche per sé. Oggi gran parte dei lavoratori precari
sono nei fatti stati esclusi da questo sistema o vi rientrano in maniera del tutto
secondaria. Chi è entrato nel mercato del lavoro negli ultimi vent'anni andranno in
pensione più tardi e con una pensione incerta e comunque più bassa.
Come ha notato Luciano Gallino (Gallino, 2013, p. 14), i giovani che hanno
iniziato a lavorare con contratti co.co.co. quando avranno raggiunto 66 anni e almeno
30 annualità contributive piene (fatto di per sé assai improbabile) potranno contare
circa sul 35/40% della retribuzione. Essendo questa molto più bassa dei lavoratori
dipendenti (la media mensile rilevata è di 825) determinerà dunque nel migliore dei
casi una pensione di circa 330 euro. Ma la realtà è che nemmeno l'Inps al momento
riesce a fornire dei calcoli precisi.
Nella misura in cui per le nuove generazioni questi lavori sono le condizioni normali,
questo significa che un’intera generazione viene estromessa dalla possibilità di una
vecchiaia supportata. Significa abbandonare gli anziani di domani a loro stessi, privarli
di molte garanzie e destinarli a un ulteriore impoverimento del loro già precario tenore
di vita. Simbolicamente questo equivale a un 'enorme rottura di un implicito patto di
solidarietà intergenerazionale su cui si erano costruiti gli equilibri economici, sociali,
politici novecenteschi.
Il sociologo francese Louis Chauvel ha messo in luce almeno sette punti che
stanno alla base dell'attuale frattura intergenerazionale (Chavel, cit. in
Ambrosi, Rosina, 2009, pp. 43-46)82. Prendendo spunto da quella riflessione per
provare ad ampliare il ragionamento, proponendo in questo contesto un elenco più
ampio che tiene conto di dimensioni sociali, economiche, politiche ed ecologiche:
1. Le opportunità nella fase iniziale: ovvero le condizioni di ingresso nel
mercato del lavoro e la stabilità dell'impiego;
2. La ripartizione del potere d'acquisto: la distanza salariale tra lavoratori over
60 e giovani è andata crescendo negli ultimi decenni;
3. Il progresso delle qualifiche: le possibilità di progressione di carriera attuali
sono molto meno favorevoli che nei decenni precedenti;
4. Le possibilità di ascesa sociale: negli anni '60 e '70 le condizioni economiche
e sociali hanno permesso un forte miglioramento delle proprie condizioni sociali;
5. Le prerogative generazionali decrescenti: nel passaggio da una generazione
all'altra non sono vengono trasmesse le diseguaglianze sociali, ma la situazione e le
prospettive dei giovani di oggi sono per la prima volta peggiori rispetto a quelle dei
loro genitori;
6. La trasmissione del modello sociale e lavorativo: negli sessanta e settanta i
lavoratori hanno goduto di diritti sociali e previdenziali che sono stati
progressivamente erosi con la giustificazione della globalizzazione e della necessità di
contenere la spesa e di mantenere competitive le aziende italiane83.
7. Il potere e la rappresentanza politica ed economica: l'età del personale
nelle istituzioni politiche ed economiche è andata aumentando negli anni, e si è resa
82
L'elenco originale di Chauvel comprendeva i seguenti punti: Primo: la ripartizione del potere d'acquisto;
Secondo: il progresso delle qualifiche; Terzo: le opportunità nella fase iniziale; Quarto: le possibilità di
ascesa sociale; Quinto: le prerogative generazionali decrescenti; Sesto: la trasmissione del modello
sociale (Previdenza e diritti sociali); Settimo: La rappresentanza politica.
83
Come ha riassunto efficacemente Aris Accornero oggi «Le probabilità dei venticinquenni di avere un
impiego permanente sono la metà di quelle che hanno avuto i cinquantenni» (Accornero, 2006, p. 34).
più difficile la partecipazione dei giovani alle decisioni che riguardano il loro presente e
il loro futuro. 168
8. Le condizioni del debito pubblico: negli ultimi decenni ed in particolare dagli
anni '70 e '80 in avanti si è fatto ricorso ad un crescente indebitamento che ha
raggiunto condizioni considerevoli84; tale fardello pesa sulle prospettive dei giovani
costretti a pagarne i costi e gli interessi e minaccia di portare a tagli crescenti e alla
riduzione della spesa pubblica per le future generazioni;
9. Le condizioni dell'ambiente e delle risorse: l’eccesso di sfruttamento delle
risorse realizzato negli scorsi decenni per sostenere il modello di crescita economica
ha prodotto problemi di scarsità o addirittura di esaurimento di molte risorse
fondamentali (risorse fossili, risorse minerali, disponibilità di suolo, acqua); la crescita
dei rifiuti e dell’inquinamento, e gli accumuli di rifiuti tossici rimarranno come eredità
per le future generazioni. Più in generale si è assistito ad un degrado degli ecosistemi,
dalla riduzione della biodiversità e al dissesto idrogeologico. Nel complesso le
condizioni che si consegna alle future generazioni rappresenta una pesante ipoteca
sulle condizioni di vita e di salute delle future generazioni.
10. Il cambiamento climatico: non solo gli stili di vita e le abitudini delle passate
generazioni ma anche le attuali scelte politiche in tema di emissioni climalteranti
costituiscono infine un lascito drammatico che altererà radicalmente le possibilità di
scelta delle future generazioni.
A mio avviso è importante riconoscere e tener conto anche della gestione del
patrimonio ambientale perché il livello di vita e di consumi insostenibile delle passate
generazioni è stato possibile solamente attraverso uno sfruttamento e un saccheggio
di risorse ben oltre le possibilità di rigenerazione, dunque è come se le generazioni
precedenti abbiano attinto in maniera speculativa al patrimonio delle generazioni
successive. Questo disequilibrio avrà enormi conseguenze non solo ecologiche ma
anche sulla salute, sull'economia e sulle dinamiche politiche in futuro. Il silenzio e la
rimozione su queste interconnessioni socio-ambientali sono un aspetto caratterizzante
dei modelli culturali delle passate generazioni.
In generale dunque negli ultimi decenni è venuto meno visibilmente un senso di
responsabilità e solidarietà intergenerazionale. Molti problemi – sociali, ecologici,
economici, politici – sono stati affrontati avendo come orizzonte solamente
l’immediato presente e senza condurre una reale ed approfondita riflessione sulle
conseguenze delle scelte sulle future generazioni, lasciando i giovani in gran parte soli
a confrontarsi con una serie di nodi irrisolti.
Come hanno scritto Elisabetta Ambrosi e Alessandro Rosina: «Generazione
"rapinata": un'immagine che ben sintetizza la condizione di chi è giovane nel nostro
paese» (Ambrosi, Rosina, 2007, p. 7). Quantomeno, come ha detto Massimo Livi
Bacci, si registra un «progressivo indebolimento delle prerogative dei giovani
avvenuto negli ultimi due o tre decenni» (Livi Bacci, 2008, p. 7).
Insomma per la prima volta i figli potrebbero stare peggio dei genitori e le
generazioni successive peggio di quelle attuali. In molti sembrano accomodarsi
in quella che diventa una semplice constatazione. E ancora una volta quella che può
essere presentata come una semplice costatazione potrebbe facilmente tradursi in un
indebolimento della facoltà di aspirare.
Le domande che dobbiamo porci da questo punto di vista riguardano dunque gli
effetti di questa rottura generazionale. Cosa succede quando una società non si
preoccupa più dell’integrazione e delle possibilità di vita delle generazioni successive?
84
A luglio 2014 il debito italiano aveva raggiunto la cifra record di quasi 2.169 miliardi di euro con una
leggera contrazione nei mesi successivi. A ottobre 2014, i dati Eurostat evidenziano che l'Italia segna il
rapporto più alto in Europa tra debito e Pil (133,8%). Cfr.
http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_PUBLIC/2-23102014-AP/EN/2-23102014-AP-EN.PDF
Quale boomerang può diventare la cancellazione della fiducia nel futuro per le
generazioni a venire? 169
Non si deve sottovalutare il fatto che, come ha sottolineato Luciano Gallino, «il
senso di insicurezza per il proprio destino individuale e familiare, unito al tasso di
angoscia collettiva che ne deriva, è stato il motore di alcuni dei più violenti movimenti
sociali della storia, di sinistra come di destra» (Gallino, 2001, pp. 38-39).
Occorre domandarci quindi se siamo capaci di concepire nuove forme di solidarietà
sociali che si estendano non solo nello spazio ma anche nel tempo. In altre parole se
sappiamo inventare un modello sociale collettivo di distribuzione equa dei rischi e dei
benefici tra generi e generazioni diverse.
«La precarietà colpisce profondamente colui o colei che la subisce: nella misura
in cui rende tutto il futuro incerto, impedisce qualsiasi forma di anticipazione
razionale, e in particolare, quel minimo di fede e di speranza nel futuro che è
necessario per ribellarsi, soprattutto collettivamente, contro il presente, anche
quello più intollerabile» (Bourdieu, 1999, p. 86).
È sul piano della sintesi e dell'incisività politica che l'esperienza del precariato segna
oggi la maggiore difficoltà. Intervenire sul quadro istituzionale, sociale ed economico,
85
In questa direzione vanno molte delle proposte sviluppate nell'ottica della flexicurity che mirano ad
assicurare indennità, accesso ai servizi primari e un continuità di base nel flusso di reddito.
modificare le condizioni di base ed imprimere un orientamento significativo alle
politiche pubbliche richiede infatti un'iniziativa collettiva al tempo stesso concreta e 172
lungimirante che ancora non ha trovato adeguata strutturazione.
In questi ultimi decenni ci sono stati, da parte dei precari, tentativi di raccontare e
descrivere un vissuto, con i rispettivi bisogni, necessità, fatiche, desideri, aspettative,
delusioni, conflitti. C'è oramai una letteratura del precariato, una cinematografia, ci
sono saggi e scritture collettive. Ci sono associazioni e reti, invenzioni creative come
quella di San Precario e manifestazioni pubbliche come l'EuroMayDay.
C'è stata tuttavia anche una fatica dei soggetti tradizionali, partiti e sindacati non
solo a raccogliere questa spinta ma anche a trovare strumenti, luoghi e forme di
confronto. Probabilmente perché il conflitto emergente del precariato mette in crisi
molte schematizzazioni e appartenenze politiche tradizionali.
Del resto in questa situazione è anche difficile individuare un avversario o
quantomeno un interlocutore. Contro chi si sta lottando? Il precariato è stato e
continua ad essere promosso in Italia e in Europa invariabilmente dalla
destra come dalla sinistra, dalle imprese come dalle istituzioni pubbliche. Le
stesse organizzazioni sindacali sono orientate - nel migliore dei casi - a difendere ed
estendere i diritti le forme tradizionali del lavoro produttivo più che a elaborare assetti
e prospettive capaci di includere e rispondere alle esigenze di chi viene dal precariato.
Da questo punto di vista bisogna porsi in modo radicale lo stesso tipo di domanda
che suggeriva tempo fa Ulrich Beck:
Resta comunque una certa difficoltà ad assumere il superamento del precariato come
problema e conflitto collettivo, che riguardava le visioni non solo del lavoro, ma della
società, della comunità, del futuro, del modello di benessere, delle forme di economia
e di solidarietà.
Anche i discussi tentativi di riforma tentati recentemente in Italia non passano
comunque da un reale ascolto o confronto con questi soggetti. Si interviene non
soltanto svalutando la discussione e il ruolo del parlamento, e consultando solo
sbrigativamente le parti sociali tradizionali, ma soprattutto si salta completamente il
confronto con le nuove soggettività. Certo è difficile perché non ci sono organizzazioni
riconoscibili o forme di rappresentanza strutturata, ma ho l'impressione che si stia
perdendo un'altra occasione per parlare, coinvolgere e dare riconoscimento a questo
mondo. Per trovare luoghi, spazi e tempi per incontrarlo, per ascoltarlo, per discutere,
per costruire assieme un percorso e una forma di integrazione sociale e politica. A mio
avviso si sta legiferando sopra di loro più che per loro o con loro. Il che rischia di
pregiudicare i risultati di questi interventi, qualunque siano le intenzioni.
Ma questa è anche una lezione per il precariato. Perché deve essere chiaro che non
saranno le passate generazioni che risolveranno questa condizione, non solo perché
hanno contribuito a crearla, ma anche per il semplice fatto che non l’hanno vissuta in
prima persona e non hanno prodotto un significato e un orientamento adeguato a
queste nuove forme di esistenza. Le generazioni precarie devono prendere in
mano questo cambiamento, producendo significato sociale e politico a partire
dalla propria esperienza vissuta.
Secondo Guy Standing il precariato rappresenta «un nuovo gruppo sociale di
dimensioni mondiali, una vera e propria classe globale in divenire» (Standing, 2012,
p. 11). I precari «stanno diventando una nuova classe esplosiva». «Non ancora
classe-per-sé, il precariato è una classe in divenire, che comincia a distinguere ciò che 173
vuole combattere da ciò che vuole costruire. Ha certamente bisogno di infondere
nuovamente vita a un ethos imperniato sulla solidarietà e sull'universalismo»
(Standing, 2012, p. 245).
La riflessione di Appadurai ci aiuta tuttavia a riconoscere, da questo punto di vista,
che affinché i soggetti socialmente ed economicamente più svantaggiati possano
esercitare la protesta con efficacia e regolarità occorre che la loro capacità di aspirare
venga continuamente rafforzata e potenziata (Appadurai, 2014, p. 292). Come
abbiamo notato, la capacità di aspirare richiede sia una capacità di orientamento e di
prospettiva, sia una capacità di navigazione. A questo proposito Appadurai suggerisce
l'importanza di elaborare e mettere a fuoco alcuni strumenti politici definiti che
possano accompagnare l'azione e aiutare a tracciare un percorso.
Appadurai richiama fra l'altro l'impegno ad autosservarsi e autocensirsi, producendo
forme di conoscenza e consapevolezza; l'elaborazione di un proprio linguaggio
espressivo; l'attenzione nel simbolizzare e narrare le proprie rivendicazioni e le proprie
lotte per renderle più visibili e intellegibili; l'impegno nel produrre autocoscienza,
consenso, fiducia, legami di solidarietà, nonché appoggi e alleanze; l'individuazione di
segnavia e di obiettivi intermedi concreti che costituiscano dei "precedenti" positivi; la
disponibilità a sperimentare e a procedere per tentativi; la capacità di pazientare, di
mantenere aperto un conflitto nel tempo e di produrre un cambiamento
gradualmente.
L'elaborazione di metodologie e prassi politiche come queste possono aiutare a
contrastare l’isolamento, la passività, la perdita di identità collettiva e a riflettere sulle
trasformazioni del paesaggio sociale ed economico a partire dalla propria esperienza.
Si tratta di agire riflessivamente a partire dai mutamenti della propria coscienza, dalle
dimensioni antropologiche implicite nella propria condizione, cercando di indirizzare il
cambiamento attraverso un attivo e diretto coinvolgimento che connetta i percorsi
individuali a forme di una socializzazione ed elaborazione collettiva in vista di un
mutamento sociale.
D'altra parte tutto questo non significa che i più adulti possono sottrarsi alle loro
responsabilità o delegare completamente ai giovani la fatica di rimettere mano ai
problemi che si è contribuito a creare. Da parte delle generazioni più adulte occorre la
disponibilità a costruire spazi di ascolto e di confronto con le aspirazioni dei più
giovani. Solamente partendo dal riconoscimento e dalla valorizzazione delle
esperienze dei giovani, dei loro percorsi, dei loro bisogni e desideri è possibile
sottrarre le comunità in cui viviamo all'indifferenza e all'ostilità e ricostruire un tessuto
sociale attento, accogliente, intelligente e vivibile perché fondato sull'impegno comune
nella ricostruzione di un patto di solidarietà tra generazioni.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
174
DEMOCRAZIA/POST-DEMOCRAZIA
Continuando il nostro lavoro di riflessione sulle categorie culturali di fondo del nostro
immaginario, oggi affronteremo l’idea di “democrazia” e le sue rappresentazioni. Lo
faremo in tre modi: mostrandone la non trasparenza, ovvero la sua non
immediatezza; mostrando le diverse e a volte contrapposte rappresentazioni che
oggi si confrontano e si sfidano nel nostro universo politico culturale; ed infine
cercando di far emergere ciò che di questa idea rimane in ombra, ovvero
quell’aspetto più problematico e inquietante che sfugge alla nostra coscienza.
L’idea di democrazia nella sua forma più astratta e generica rappresenta oggi uno
degli ultimi punti di riferimento attorno a cui si raccoglie un largo consenso ideale nel
mondo attuale. Ma questa concordanza è solo apparente perché quando si tratta
di dare contenuto e forma all’ideale astratto le opinioni non solo dei cittadini ma degli
stessi teorici divergono fortemente. Al di là delle diverse valutazioni e punti di vista,
molti osservatori concordano nel registrare un momento di crisi o trasformazione
del moderno progetto democratico, evidenziando fra l’altro una crescente
divaricazione tra l’ideale politico, la teoria e le forme concrete assunte caso per caso
dai sistemi politici contemporanei. Come ha scritto John Dunn,
Qual è la percezione che gli studiosi hanno attualmente dello stato della
democrazia? E quale valutazione ne traggono sui governi democratici?
Vorrei provare qui di seguito a tracciare una mappa delle rappresentazioni della
democrazia che non ricalca le suddivisioni delle scuole politiche tradizionali (liberali,
repubblicane, socialiste, comuniste ecc.) ma che piuttosto cerca di coglierne la
posizione psicologica o epistemologica nei confronti delle democrazie esistenti.
«Il vento della storia ha cambiato direzione e soffia in una direzione sola:
verso la democrazia. Dove la politica è autonoma (dalla religione), e dove arriva
il soffio della modernizzazione (che è anche occidentalizzazione), un governo è
legittimo soltanto se eletto dai governati e fondato sul loro consenso. Per lo
Zeitgeist, lo spirito del nostro tempo, la democrazia è oramai senza nemico: non
è più fronteggiata da legittimità alternative» (Sartori, 1994).
La democrazia in cui viviamo dunque viene confermata alla prova dei fatti come il
migliore dei sistemi esistenti. A questa considerazione più o meno condivisibile si
86
Si vedano Francis Fukuyama, “The End of History?”, The National Interest, Summer 1989, e Francis
Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 2003.
accompagnano altre affermazioni tutt’altro che equivalenti; per esempio chi intende
sostenere che la democrazia sia il migliore non sono dei sistemi esistenti, ma anche il 177
migliore dei sistemi possibili o addirittura il migliore dei mondi possibili. Con
l’affermazione delle democrazie liberali (peraltro tutt’altro che scontata) saremmo
giunti in qualche modo alla fine della storia. Questo approccio sottovaluta sia la
possibilità negativa che la vittoria della democrazia sia reversibile e che il futuro – in
seguito a una crisi economica, a un conflitto bellico di grandi proporzioni o a disastri
ambientali - ci possa riservare un rilancio dei regimi autoritari, ma sottovaluta anche
la possibilità che il futuro possa maturare nella coscienza collettiva un’altra forma di
governo che assicura più giustizia e libertà ai propri cittadini. Così in questa
prospettiva libera da dubbi, preoccupazioni o incertezze, qualsiasi critica alle
democrazie reali è guardata con sospetto quando non giudicata seccamente come
sterile e inopportuna. Una certa insofferenza verso le critiche e le preoccupazioni sul
reale stato delle società democratica è presente per esempio in un lavoro di qualche
anno fa di Gianfranco Pasquino, La democrazia esigente, ove si liquidano tutte le
critiche alle democrazie reali con un certo fastidio, come se a malapena fosse il caso di
occuparsene:
«C’è chi ripete meccanicamente giaculatorie sul tramonto del parlamento chi
lamenta il declino dell’opposizione; chi vede soltanto organizzazioni particolaristiche
attive nel rosicchiare il formaggio del bene comune» (Pasquino, 1997, p. 25).
«Non direi neppure che la mia immagine sia quella di una dissimulata
“occidentalizzazione” dei principi democratici – ma concludo provocatoriamente:
che cosa preferire tra una democrazia un po’ bolsa e un po’ sguaiata e una
condizione di terrore diuturno e incoercibile come in Algeria?» (Bonanate, 2001,
p. 150).
Ma che senso ha prendere come termine di confronto il peggio dei regimi esistenti
al mondo per sdoganare le proprie contraddizioni e i propri angoli bui?
Molti di questi autori tendono fra l’altro a ragionare sulla base di una distinzione tra
il modello ideale di democrazia e le sue effettive realizzazioni. Così possono respingere 178
molte critiche alla democrazia sostenendo che certe degenerazioni vanno imputate
alla cattiva qualità della traduzione concreta dell’ideale perfetto. Su questa strada
naturalmente si può difendere quasi tutto, compreso l’ideale di una monarchia
illuminata o di un meritocratico “governo dei migliori”. E non si è forse difeso con lo
stesso tipo di sofisma la grande promessa comunista rispetto alle “volgari”
realizzazioni dei paesi del socialismo reale? E non è la stessa risposta dietro a cui si
sono trincerati da sempre tutti i seguaci di un qualche modello ideale politico o
religioso che fosse, per non sentirsi responsabili delle peggiori nefandezze commesse
in nome del proprio ideale? È dunque fondamentale rifiutare un approccio
idealistico al problema della democrazia nella misura in cui non si confronta con
le incarnazioni concrete di questi modelli. I sistemi di governo vanno confrontati nella
loro concretezza e non astrattamente. La realtà – inconoscibile in quanto tale –
possiede comunque una sua “resistenza” che mette alla prova e talvolta smaschera i
limiti le nostre mappe concettuali e i nostri progetti ideali. Non raramente quelle che
noi chiamiamo accidenti o degenerazioni sono piuttosto contraddizioni o angoli oscuri
non previsti dal modello teorico.
Nei fatti dietro queste forme apologetiche spesso si nasconde un tentativo più o
meno larvato di far passare l’idea che non esistono, che non possono esistere,
alternative al modello democratico-liberale e che al massimo possiamo
impegnarci a restaurare qua e là quello che c’è. La stessa sicumera verso le nostre
democrazie può arrivare all’idea paternalistica e coloniale che siccome è il regime
migliore allora dobbiamo assolutamente utilizzare tutti i mezzi a nostra disposizione o
quasi per imporla agli altri. In questo modo da una parte si rimuove la consapevolezza
delle nostre colpe e responsabilità per una serie di violenze strutturali che esercitiamo
verso altri popoli e paesi, e dall’altra si giustifica l’esercizio di un’«influenza
interessata» - e spesso l’uso vero e proprio della forza militare - verso altri paesi non
ancora democratici che – come è stato notato – vengono identificati con il male:
Quel che ci interessa notare per ora è che Bobbio ritiene che in effetti queste
promesse erano in fondo impegni che la democrazia non avrebbe potuto mantenere, a
causa dell’aumento della complessità tecnica, della crescente burocrazia, del
sovraccarico di domande registrate dal sistema politico. Ciò che conta è che comunque
tali mancanze non inficiano la specificità e la preferibilità della democrazia. Da questo
punto di vista Bobbio insiste molto sull’importanza fondamentale da una parte delle
garanzie dei principali diritti di libertà (lo Stato di diritto) e dall’altra delle
cosiddette “regole procedurali della democrazia”: pluralità di partiti in
concorrenza fra di loro, elezioni periodiche a suffragio universale, voto libero e uguale
per ogni individuo adulto, regola della maggioranza, ecc….
Più recentemente anche Domenico Settembrini, nel suo Democrazia senza
illusioni, ha motivato un atteggiamento di accettazione stoico dei limiti della
democrazia. Per lui come per Ernest Renan l’unica cosa che dobbiamo richiedere alla
democrazia è il Noli me tangere:
«La democrazia non morirà, finché non sia morta nel mondo la speranza. Una
democrazia che dobbiamo saper accettare e difendere senza illusioni di
utopistiche palingenesi. Una democrazia che nonostante tutte le sue imperfezioni
e tutti i suoi mali, agli occhi degli uomini e delle donne del mondo intero
conserva intatto il fascino delle origini: “il diritto riconosciuto a tutti di perseguire
la propria felicità» (Settembrini, 1994, p. 99).
Il problema è che per nessuna di queste sfide Dahl sembra offrire risposte
significative. In termini generali questa impostazione se ha svolto una funzione
importante per chiarire alcuni nodi teorici e aumentare la comprensione dell’ideale
democratico, ha mostrato però una scarsa attenzione nell’analisi delle democrazie
reali e dei loro angoli oscuri. Per esempio il problema delle disuguaglianze di
opportunità, il dominio di élites ristrette nella gestione del potere politico, l’influenza
manipolatoria del mass media e l’inadeguatezza dell’informazione al cittadino anche
quando sono stati presi in considerazione non hanno tutto sommato ricevuto risposte
serie e adeguate alla gravita della situazione. L’impostazione evolutiva tende dunque a
mancare di realismo e non mettere bene a fuoco quelli che sono i nodi strutturali, i lati
oscuri e i rischi degenerativi piuttosto che evolutivi delle democrazie occidentali.
Nei fatti nonostante una maggiore consapevolezza dei limiti reali, certe affermazioni -
«a paragone quindi delle sue alternative, passate e presenti, la poliarchia è uno dei
più straordinari prodotti dell’umanità» (Dahl, 1990, p. 337) - rivelano che anche da
questa prospettiva si rimane comunque ancorati ad una dimensione apologetica o
autocelebrativa delle democrazie liberali.
In realtà la questione è tutt’altro che scontata e l’accordo tra studiosi è lungi dal
verificarsi: per il momento sembrano profilarsi al contrario due posizioni quella di una
democrazia cosmopolitica e quella di un ordine minimo sovranazionale.
Ad ogni modo un gruppo di studiosi – Daniele Archibugi, David Held, Richard
Falk, - ha promosso in questi anni una riflessione su un progetto che hanno chiamato
“democrazia cosmopolitica”. Secondo la definizione di Archibugi:
«La verità della democrazia è questa: essa non è una forma politica tra le
altre, a differenza di quanto fosse per gli antichi. Non è affatto una forma
politica, o almeno non è in primo luogo una forma politica»(Nancy, La verità della
democrazia, Cronopio, Napoli, 2009, p. 65).
«un regime di senso, la cui verità non può essere sussunta in nessuna istanza
ordinatrice, né religiosa, né politica, né scientifica o estetica, ma che impegna
interamente l’“uomo” in quanto rischio e chance di “se stesso”, “danzatore
sull’abisso”, per usare termini deliberatamente paradossali e nietzscheani”».
«In queste società, qualunque filosofo dei tempi classici avrebbe riconosciuto
dei regimi di oligarchia liberale: oligarchia, perché un ceto determinato domina la
società; liberale perché tale ceto lascia ai cittadini un certo numero di libertà
negative o difensive» (Castoriadis, 2001, p. 128).
Quello che definisce ancora più nello specifico il carattere non democratico di queste
società è il fatto che quella che dovrebbe essere la sfera pubblica (l’ekklesia), ovvero il
luogo in cui si decide, e che dovrebbe essere il più possibile aperto alla partecipazione
è in realtà privata ovvero è sotto il controllo dell’oligarchia politica e non del corpo
politico. Le vere decisioni vengono prese a porte chiuse, nei stanze in cui si
incontrano i leader dei partiti e non nei luoghi ufficiali in cui si presume che
vengano prese. Quando le questioni arrivano nelle sedi ufficiali i giochi sono già fatti.
Di più, aggiunge Castoriadis, le motivazioni di queste decisioni il più delle volte sono
segrete e le leggi non ne garantiscono, anzi spesso ne vietano l’accesso ai cittadini
(Castoriadis, 2001, p. 127).
Anche Pietro Barcellona arriva alle medesime conclusioni:
«noi viviamo sotto regimi oligarchici nei quali le grandi decisioni che
riguardano la vita di tutti sono di fatto e spesso anche di diritto precluse alla
grande maggioranza dei cittadini. I cittadini non hanno accesso alle informazioni
che contano; la manipolazione dei budget dello Stato è materia sostanzialmente
riservata al governo. Tutto ciò che riguarda la difesa, il controllo degli apparati
militari, l’industria nucleare è fuori dalla portata del controllo pubblico e sociale e
spesso è trattato come segreto di stato» (Aa.Vv, 1995, p. 7).
«la democrazia nel senso del potere del popolo, del potere di quelli che non
hanno alcun titolo particolare a esercitare il potere, è la base stessa che rende la
politica pensabile» (Jacques Ranciére, “Les démocraties contre la démocratie” in
Aa.Vv. Dèmocratie, dans quel état?, La fabrique, Paris, 2009, p. 98).
«La democrazia allora, ben lungi dall’essere la forma di vita degli individui
votate alla loro felicità privata, è il processo di lotta contro questa
privatizzazione, il processo di allargamento di questa sfera» pubblica (Jacques
Ranciére, La haine de la démocratie, La fabrique, Paris, 2005, p. 62).
«Al contrario, il valore di una costituzione democratica risiede nella difesa delle
minoranze e non delle maggioranze. Occorre fare in modo, nel nome della
giustizia, che le minoranze siano ascoltate come si deve e che svolgano nel
processo il loro ruolo necessario» (Stuart Hampshire, Non c’è giustizia senza
conflitto. Democrazia come confronto di idee, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 45).
Anche per Miguel Abensour la democrazia rappresenta un pensiero del conflitto. 188
Per un verso la vera democrazia per Abensour è «la politica per eccellenza, il
dispiegamento, l’apoteosi del principio politico» (p. 100), e nel «luogo della
democrazia si svela nella sua perfezione il principio politico stesso» (p. 102). D’altra
parte la democrazia s’invera soltanto in una lotta incessante contro quel compromesso
moderato rappresentato dallo “Stato democratico”. Il conflitto di cui parla Abensour
non è però un conflitto interno allo Stato, ma un conflitto esterno e contro lo Stato. In
questa prospettiva per Abensour la vera democrazia supera e va oltre i limiti
dello Stato moderno, la democrazia «è antistatale o non è». Ma non nel senso
che essa dia luogo a uno spazio lineare senza asperità, ma al contrario come
istituzione determinata di uno spazio conflittuale, di uno spazio contro, di una scena
agonistica in cui la democrazia, come vita del popolo, sfida l’arroganza dello Stato in
quanto forma organizzatrice che produrrebbe un inevitabile decadimento della
democrazia stessa.
Abensour pensa alla democrazia dunque come regime di autoistituzione del sociale,
un’autodeterminazione continua, una “democrazia insorgente” tale per cui:
«Così la vera democrazia, retta dal principio di auto fondazione continua, non
è pensata come compimento definitivo, ma come un’unità che si fa e si rifà
continuamente contro l’insorgenza sempre minacciosa dell’eteronomia, solo cioè
se è guidata dal movimento dell’infinità del volere» (p. 119).
Un settimo filone che possiamo definire involutivo, secondo cui non saremmo
di fronte ad una democrazia incompiuta e di la da venire, ma al contrario nella
condizione di una democrazia nella sua fase di declino, ovvero in una parabola
discendente.
Un autore importante che possiamo ricondurre a questo filone è Colin Crouch, che
sostiene che le versioni liberali non rendono conto della situazione attuale che non
sarebbe più quella di una vera e propria democrazia, ma piuttosto quella di una
“postdemocrazia”. Rispetto all’ottimismo evolutivo di Dahl, Crouch sembra proporre
uno schema di lettura invertito. In quest’ottica non saremmo di fronte ad una
democrazia incompiuta e di la da venire, ma al contrario nella condizione di una
democrazia nella sua fase di declino, ovvero in una parabola discendente.
Nella postdemocrazia il regime politico cede sempre più potere alle lobby
economiche, fatto che rende sempre più difficile la possibilità di politiche egualitarie e
di ridistribuzione del potere e della ricchezza. Questo spiega il diffuso senso di
disillusione e la scarsa partecipazione dei cittadini. 189
Per Crouch la democrazia si presenta in una dimensione entropica, dunque
non si può che accettare il suo declino, salvo impegarsi a livelli diversi in politiche
capaci di contrastare o bilanciare almeno in parte l’inesorabile slittamento verso la
democrazia. Crouch pensa a politiche che affrontino la crescente preponderanza delle
élite economiche, che riformino la prassi politicia tramite esperienze di “assemblee di
cittadini” o e che attivino i cittadini in quanto tali, mobilitandoli sul piano delle nuove
identità sociali più estranee al vecchio sistema politico.
L’aspetto comune che si può rintracciare tra questi pur diversi autori richiamati è il
tentativo di smascheramento delle autorappresentazioni democratiche delle
oligarchie liberali occidentali come punto di partenza per un cambiamento
nell’immaginario e nelle pratiche politiche democratiche.
Zolo ritiene dunque necessaria una ricostruzione della teoria democratica. Sul piano
teorico l’accusa si rivolge in particolare a tutta la dottrina, che definisce “neoclassica”,
del pluralismo competitivo di autori come S. Martin Lipset, Robert Dahl, John
Plamenatz, Raymond Aron, Giovanni Sartori, che ritiene elementare e irrealistica. Per
Zolo, la sovranità, la razionalità, l’autonomia morale dei cittadini non sono affatto
scontate ma semmai costituiscono un difficile obbiettivo da raggiungere, e all’interno
degli attuali regimi democratici è perfino dubbio che gli elementi costitutivi e gli attori
politici effettivi siano effettivamente gli individui. In realtà, scrive Zolo,
«sono le direzioni dei partiti ad essere ormai titolati esclusive del potere che
Schumpeter affidava agli elettori: sono esse che ‘producono’ i governi e sono
esse che i governi ‘rappresentano’, mentre l’antico rapporto di rappresentanza
fra elettori ed eletti è ormai un binario morto che conduce sulla soglia di
assemblee parlamentari dove non circola che un potere residuale di micro-
clientelismo personalizzato» (Zolo, 1992, p. 148).
Senza negare la pertinenza di questa dimensione della politica si può sostenere che
essa corrisponde più precisamente ad un’idea specifica della politica (e prima ancora
ad un’antropologia specifica della politica) che entra in gioco nel confronto politico,
piuttosto che non ad una descrizione esatta della “realtà” della politica. Ci si può
chiedere dunque se una certa spiegazione sistemica e funzionale sia realmente una
deduzione della realtà politica o non piuttosto (contemporaneamente) una sua
conseguenza. Se si ammette il carattere circolare tra realtà osservata e osservazione
riflessiva, ne consegue la consapevolezza che una rappresentazione unilaterale di una
realtà definita da rigide differenziazioni funzionali e di un politica mossa da
atteggiamenti di tipo adattativi rivolti a diminuire i rischi e l’insicurezza finisce col
rafforzare nella realtà la dimensione di adattamento piuttosto che illuminare e
stimolare le possibilità di apertura e di mutamento in essa latenti. E probabilmente
non è un caso che la prospettiva di questi approcci sia fondamentalmente basata su
un atteggiamento politico-psicologico “difensivo”, ovvero di ridefinizione al ribasso 191
della linea di non arretramento dietro a cui in una società complessa e postindustriale
si può assestare un progetto democratico preoccupato (come lo è autenticamente
Zolo) della resistenza alle nuove forme di potere, dei suoi abusi e delle sue arroganze.
In effetti se la definizione della politica da cui si parte è puramente negativa e
difensiva – regolazione dei rischi, riduzione della paura, garanzia della sicurezza –
anche la prospettiva non può coerentemente mettere avanti nessuna apertura positiva
di rilancio o iniziativa autonoma e imprevedibile degli individui e delle collettività
contro i poteri impersonali delle società complesse. Fortunatamente la realtà politica è
più complessa e più imprevedibile di quello che le teorie politiche della complessità
prevedono che sia.
Genro sottolinea come da circa due secoli a questa parte non abbiamo creato
nessuna nuova rilevante istituzione democratica. Per questo a suo avviso la
funzionalità dello Stato nel mondo attuale si può rimettere in moto solamente
«attraverso uno “shock democratico”, con la dissoluzione delle barriere
burocratiche che separano lo Stato dal cittadino comune» (Genro, de Souza, 2002, p.
114)
Nei fatti l’accusa che viene rivolta alle concezioni tradizionali di democrazia basate
sull’idea della competizione per la conquista del potere, è quella di non occuparsi della
costituzione di forme effettive di partecipazione uguale o almeno “più uguale”, nelle
decisioni pubbliche. Non è un caso che molti di questi autori vengono da posizioni
marxiste ed hanno particolarmente a cuore la condizione dei ceti subalterni la cui
inclusione sociale e politica mettono al centro della questione democratica. Come
hanno notato infatti alcune attente studiose, l’idea e la pratica della democrazia
partecipativa in questa declinazione radicale riporta al senso etimologico del termine
democrazia (il potere del popolo) in una doppia accezione, quella del potere
dell’insieme dei cittadini, ma anche quella del potere del “petit peuple” ovvero di quel
popolino composto da poveri, emarginati, stranieri che sono solitamente lasciati fuori
dalle porte dei luoghi decisionali (Gret, Sintomer, 2002, p. 134).
Non è un caso che uno dei teorici più significativi di questa corrente, Boaventura
de Sousa Santos, curatore di un colossale progetto editoriale in sette volumi sulla
reinvenzione dell’emancipazione sociale il cui primo tomo si intitola significativamente
Democratizzare la democrazia (de Sousa Santos, 2002) colloca il tema della 192
democrazia partecipativa all’interno di un gruppo di questioni cruciali come i sistemi
alternativi di produzione, il multiculturalismo, la giustizia e la cittadinanza culturale, la
lotta per la biodiversità, e un nuovo internazionalismo operaio. Secondo de Sousa
Santos infatti si tratta di costruire un progetto di globalizzazione contro-
egemonica sulla base di percorsi molteplici di resistenza sociale con la
consapevolezza che questa lotta va combattuta su tutti questi fronti simultaneamente,
perché una strategia costruita sulla resistenza ad un'unica forma di potere, senza
tener conto delle altre rischia di contribuire a peggiorare la situazione di oppressione
dei gruppi sociali subalterni, anziché migliorarla (de Sousa Santos, 2002, p. 27).
Questa connessione tra radicalizzazione della democrazia e critica al modello
neoliberale viene richiamata anche da Emil Sader (Sader, 2002) secondo il quale la
democrazia partecipativa rappresenta in forma aperta una critica radicale
dell’ideologia liberale che porta ad identificare il cittadino con il consumatore e il
processo elettorale con il mercato e delle forme di democrazia liberali che nei fatti
oggi manifestano una perdita di legittimità nei governi, dei parlamenti, della giustizia,
una concentrazione complessiva di potere, un aumento dell’astensione elettorale ed
una quasi totale assenza di reali dibattiti politici (Sader, 2002, pp. 653 e 655). Nei
fatti lo scopo di questi pensatori (e talvolta anche attori) non è quello di rabberciare in
senso socialdemocratico le forme dello stato liberale, e nemmeno quello di «”assaltare
lo Stato” a partire da una struttura esterna ad esso, che raccoglie in sé un potere
alternativo» (Sader, 2002, pp. 670-671) ma al contrario quello di arrivare a capo di
una riforma in senso democratico radicale dell’intera struttura statale nonché
dello spazio pubblico della politica, garantendo trasparenza, confronto pubblico,
partecipazione dei cittadini, responsabilità degli amministratori, e una interazione
continua e dialettica tra governanti e governati. Nei fatti nell’idea di tutti questi autori
l’invenzione di strumenti quali il bilancio partecipativo, va vista come un processo di
radicalizzazione della democrazia che avrà conseguenze profonde nelle relazioni della
società con tutte le sfere pubbliche dello stato.
Anche Paul Ginsborg si pone a suo modo in questa prospettiva, suggerendo la
necessità di “rianimare” e “ripopolare” la democrazia. Partendo dal riconoscimento di
una crisi di carattere qualitativo della democrazia che si registra nelle forme di delega
ai politici professionisti, nella passività del cittadino “spettatore” mediatico, nella
dipendenza della politica dal grande capitale. I terreni sui quali occorre rivitalizzare ed
estendere la democrazia, secondo Ginsborg, sarebbero principalmente tre: una
democrazia partecipata, una democrazia economica, una democrazia di genere
(Ginsborg, 2006).
«più realiste del re, andando a rafforzare istituzioni cadenti, che sono
all’origine della nostra cancellazione come persone. Vogliamo essere soggetti
politici a pieno titolo, ma soggetti di una “politica ripensata” in tutti i suoi aspetti”
[…]» (Melandri, 2007, p. 114).
Le società democratiche di oggi sono in verità società depressive, che vivono alla
giornata, in preda alla noia e al tedio senza più nessuna aspirazione o idea. Mentre la
democrazia stessa così come è stata pensata sulla base di antichi principi diventa un
simulacro, un involucro vuoto sempre più irrilevante, qualcosa che non ha più senso
se non per il fatto che permette con la sua esistenza virtuale e la sua finzione, di
evitare qualsiasi tipo di rivolta (Acquaviva, 2002, p. 151).
Anche Massimo Fini, autore di Sudditi. Manifesto contro la democrazia (Fini,
2004), avanza un giudizio netto contro un regime che di fatto non corrisponde a
nessuno dei presupposti sui quali sostiene di basarsi. Per Fini la democrazia è un
sistema senza valori di legittimazione e perpetuamento delle oligarchie economiche.
Insomma i cittadini delle società democratiche altro non sarebbero che sudditi
impotenti contro queste oligarchie (Fini, 2004, p. 95). 195
La domanda per questi pensatori allora diventa: è possibile inventare un altro
sistema, un’altra forma politica post-democratica all’altezza dei tempi e in grado di
garantire libertà, partecipazione e diritti?
È difficile immaginare “che cosa” ovvero di quale “cosa nuova” si sta parlando. E qui
infatti arrivano i problemi. Per quanto riguarda Mario Tronti, la sua riflessione non va
oltre la definizione del titolo di un progetto di ricerca:
«Senza ristabilire 'legami' - politici, sociali 'vitali' - non si esce dalla servitù e
non è possibile ricostituire il nesso fra democrazia e libertà, fra libertà ed
eguaglianza. In questo senso, la costruzione di nuovi 'legami' è il pilastro di una
posizione coerentemente antidispotica» (Ciliberto, 2011, p. 132).
Per istituire nuovi immaginari, per dar forma a nuove prassi e a nuove istituzioni
occorre anzitutto creare nuove occasioni, spazi e forme di relazione e confronto
politico. Ricostruire un progetto politico che dia una risposta più forte ai nostri bisogni
e alle nostre aspirazioni comporta anzitutto far spazio, nutrire e fare crescere nuove
relazioni politiche significative attraverso cui reinventare e superare l'esistente.
Tornando dunque alla mappa di visioni e rappresentazioni della democrazia, non mi
interessa stabilire quale è sbagliata e quale è giusta. Nessuna a mio modo di vedere è 196
totalmente soddisfacente. E quello che mi interessa è semmai la capacità di integrare
e di comporre un approccio alla riflessione e alla pratica politica che riconosca – come
direbbe Gregory Bateson – che più descrizioni sono meglio di una. Che l’integrazione
di questi diversi punti di vista, piuttosto che l’assunzione unilaterale di uno di essi,
produce una maggior complessità e profondità di lettura e una maggiore libertà di
azione.
Di fatto interrogare la democrazia, significa interrogare contemporaneamente le
nostre idee, i nostri schemi di pensiero, le nostre ideologie, le nostre tradizioni di
pensiero, i nostri desideri, la nostra soddisfazione sociale e politica; significa integrare
uno sguardo sul nostro paese, uno sguardo sui paesi vicino a noi, nonché una lettura
del mondo contemporaneo, con le sue promesse e le sue minacce.
Nel costruire una visione della democrazia, in un certo senso assegno un “peso”
differente a tutti questi punti di vista, ma non ne escludo nessuno completamente. E
assegnando un peso, oltretutto, tengo conto anche degli effetti performativi che una
certa interpretazione della realtà può implicare sulla determinazione della realtà
stessa. Da questo punto di vista preferisco insistere sulle letture che propongono una
dimensione riflessiva e su una dimensione dinamica, dando più risalto dunque agli
elementi di insoddisfazione e di autocritica, e introducendo istanze di radicalizzazione,
di eccedenza e perfino di oltrepassamento. È probabile che la fedeltà più profonda allo
spirito che ha prodotto la democrazia come principio e come pratica politica, non
corrisponda ad un ripiegamento identitario e a un adattamento a un sistema politico
dato che oggi manifesta chiaramente molti problemi, defaillance, limiti e
contraddizioni, ma corrisponda piuttosto ad una fedeltà nel mutamento, in una
tensione autocritica e trasformativa che lascia spazio a ciò che sentiamo che ancora
manca e che ci spinge a non sentirci completamente appagati, e a cercare ancora,
accettando l’idea di poter scoprire qualcosa di fondamentale, qualche verità che
ancora non sappiamo e che non riusciamo ancora ad immaginare. Dobbiamo
accontentarci di immaginare non la cosa, ma la possibilità, ovvero la costante
esplorazione del cambiamento.
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
197
IDENTITÀ/ALTERITÀ
Nell'incontro con le nostre alterità noi portiamo sempre con noi un mondo e una storia
di idee, di rappresentazioni, di convinzioni di cui siamo consapevoli soltanto in minima
parte. Non possiamo pensare ingenuamente di andare verso gli altri privi di pregiudizi,
privi di convinzioni, privi di preconcetti. Dobbiamo pensare esattamente il contrario.
Che i nostri occhi, il nostro linguaggio, le nostre idee, i nostri saperi e anche le nostre
tecnologie, i nostri beni sono frutto di una lunghissima storia culturale e sociale che
inevitabilmente condizionano il nostro incontro e la nostra relazione con l'altro.
E onestamente dobbiamo riconoscere che la storia del nostro incontro con l'Africa,
con l'America Latina, con l'Asia è stata per molti aspetti segnata dal colonialismo,
dall'imperialismo, dai saccheggi, dalla schiavitù, dal razzismo. Ci piacerebbe poter dire
che questa è una una storia che non ci riguarda più, che è acqua passata, che oggi
queste cose non esistono più. Ma non è così. Potremmo forse parlare di vecchi e
nuovi colonialismi (o imperialismi), di forme vecchie e nuove di saccheggio
delle risorse, di vecchie e nuove schiavitù, di vecchio e nuovo razzismo. E così
saremmo già un po’ più vicini al vero.
Ma non è solo questo. Vorrei provare a dire qualcosa in più.
Un primo aspetto è che dobbiamo riconoscere che una storia di questo genere è
depositata nei linguaggi e nei discorsi, nelle immagini e negli immaginari, negli
sguardi e nei pensieri nostri e delle nostre alterità. È depositata in profondità,
nell'inconscio collettivo e nelle forme più diverse, sia in noi occidentali che negli altri
popoli: convinzioni, criteri interpretativi, pregiudizi, sensi di colpa, risentimenti,
desideri di riscatto, sospetti, complessi di superiorità o di inferiorità. Le dinamiche
delle nostre relazioni sono costantemente condizionate o insidiate da questi elementi
che noi e gli altri spesso non riconosciamo. E quando siamo più sicuri che queste cose
non ci siano è proprio allora che quelle idee ed immagini ma agiranno sotto traccia,
inconsapevolmente.
Allora quello che possiamo fare per darci una possibilità di costruire qualcosa di
nuovo è di divenire più consapevoli delle premesse indiscusse; dobbiamo imparare a
riconoscere noi stessi, a vedere come pensiamo, cos'è che diamo per scontato e
che magari non lo è.
Poi c'è un secondo aspetto. La storia del nostro rapporto con gli altri popoli, con
le altre culture, con le altre civiltà è una storia in gran parte di un incontro mancato.
Non sto dicendo che non ci sono stati rapporti, contaminazioni, ibridazioni. Sto
dicendo che questo confronto è stato in gran parte unidirezionale. Molti di questi
popoli e civiltà sono state costrette a confrontarsi, a sottomettersi, a scegliere se
cambiare e adattarsi oppure sparire. Ma da parte nostra non c'è mai stato un reale
incontro. Non vuol dire che non abbiamo preso nulla da questi paesi o da questi
popoli, anzi. In effetti abbiamo preso a man bassa, saccheggiando risorse, energie,
conoscenze, saperi, musiche, sculture, tutte cose che sono entrate nella nostra
economia, nel nostro commercio, nella nostra alimentazione, nella nostra farmacopea,
nella nostra arte, nel nostro antiquariato, ma senza realmente riconoscere e
valorizzare. Ma l'incontro è un'altra cosa dal saccheggio. Tu puoi appropriarti 198
violentemente delle cose di qualcun altro - che si tratti di beni o di saperi - solo se non
lo riconosci, se non gli riconosci dignità, soggettività, autorità, potere.
L'incontro appunto presuppone un riconoscimento, un mettersi sullo stesso
piano, un confronto, anche un conflitto magari, ma non una rimozione o uno
sfruttamento dell'altro.
In passato, lo sguardo occidentale, identificando la cultura, il sapere, la civiltà, con
se stesso, e riducendo la diversità ad uno stadio infantile di un unico progresso o
sviluppo universale si è condannato ad una totale incomprensione delle alterità che
aveva di fronte a sé. Ha in questo modo disconosciuto ed ignorato la ricchezza e la
complessità che queste potevano offrire. Solo recentemente abbiamo cominciato a
riscoprire nell'alterità quell'interesse e quella profondità che esse portano con se.
Infine c'è un terzo aspetto. Non è solo che siamo sempre portatori di pregiudizi o
che non siamo stati in grado fino in fondo di riconoscere, alscoltare e quindi
comprendere l'alterità, ma anche che le nostre relazioni con gli altri sono state e
continuano essere improntate da un dispositivo di potere che pretende di imporre
una specifica rappresentazione di chi è o che cos'è l'altro, anzitutto a se stesso.
Questo dispositivo che il gesuita e storico francese Michel de Certeau chiama
"scrittura dell'altro" è stato illustrato in maniera molto raffinata attraverso un suo
commento ad una stampa di Jan Van der Straet del 1619 dal titolo “L’esploratore
(A. Vespucci) davanti all’indiana che si chiama America”. Questo è il commento che ci
ha proposto Michel de Certeau
«Amerigo Vespucci, lo scopritore arriva dal mare, in piedi, vestito, corazzato, 199
crociato; porta le armi europee del senso e ha dietro di se i vascelli che
riporteranno verso l’occidente i tesori di un paradiso. Di fronte, l’indiana America:
donna stesa, nuda, presenza innominata della differenza, corpo che si risveglia in
uno spazio di vegetazioni ed animali esotici. Scena inaugurale. Dopo un attimo di
stupore su questa soglia segnata da un colonnato d’alberi, il conquistatore si
appresta a scrivere il corpo dell’altro ed a tracciarvi la propria storia. Ne farà il
corpo istoriato – il blasone – dei suoi lavori e dei suoi fantasmi. Sarà l’America
“latina”.
Questa immagine erotica e guerriera ha valore quasi mitico. Rappresenta
l’inizio di un nuovo funzionamento occidentale della scrittura. Certo, la messa in
scena di Jan Van der Straet raffigura la sorpresa davanti a questa terra di cui
Vespucci fu il primo a capire distintamente che era una “nuova terra” ancora
inesistente sulle carte, corpo sconosciuto ben presto vestito dal nome del suo
inventore (Amerigo). Ma quella che viene così avviata è una colonizzazione del
corpo da parte del discorso del potere. È la scrittura conquistatrice: userà il
Nuovo Mondo come una pagina bianca (selvaggia) dove scrivere il volere
occidentale; trasforma lo spazio dell’altro in un campo di espansione per un
sistema di produzione; a partire da una frattura tra un soggetto e un oggetto
dell’operazione, tra un voler scrivere e un corpo scritto (o da scrivere), fabbrica
storia occidentale. La scrittura della storia è lo studio della scrittura come pratica
storica» (Michel de Certeau, La scrittura della storia, pp. 1-2).
Negli ultimi anni si è creato un legame stretto ed ambiguo tra televisioni, giornali e
agenzie umanitarie. Gli uni hanno bisogno degli altri per ”vendere il proprio prodotto”.
Da una parte le catastrofi umanitarie sono un buon articolo per i mass media.
Dall’altra, senza mass media, il mondo umanitario praticamente non esisterebbe. Le
agenzie umanitarie hanno bisogno di tener desta l’opinione pubblica con immagini
strazianti e scioccanti per mantenere alta la “commozione umanitaria” e garantirsi
l’apertura dei rubinetti finanziari per i progetti d’emergenza. Così molte agenzie hanno
reporter e fotografi al loro seguito col compito di rappresentare il dramma e insieme di
ritrarre i buoni salvatori. In queste condizioni diventa difficile distinguere fino a che
punto le immagini servono a denunciare il dolore degli altri e quando servono
200
piuttosto a reclamizzare i propri progetti ed interventi o addirittura a procacciarsi una
commessa.
I bambini sono senza paragoni il soggetto preferito della gran parte delle pubblicità
umanitarie. Qualche volta compaiono delle donne, quasi mai degli adulti maschi. I
87
Giorgio Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 1995.
88
Giorgio Agamben, op. cit., p. 148.
bambini e le donne rappresentano nella nostra cultura o nei nostri stereotipi culturali
l’immagine della fragilità, dei soggetti deboli e indifesi. Insieme evocano l’idea di 202
protezione. L’immagine dell’adulto maschio invece non si presta a questo genere di
rappresentazione e dunque viene il più delle volte omessa.
Le emozioni che ci suggeriscono le immagini dei bambini sono in primo luogo di
tenerezza, compassione, affetto; suscitano il desiderio di abbracciarli.
In bambini sono ritratti enfatizzando la loro
tristezza o il loro dolore oppure enfatizzando la
loro felicità o esuberanza. Il discrimine, lo
spartiacque simbolico è determinato
dall’intervento degli operatori umanitari. Prima
dell’intervento domina la tristezza, la disperazione,
o addirittura l’apatia. Ma con la presenza e
l’intervento degli operatori umanitari la situazione
si capovolge. I bambini sorridono, sono felici e
sereni, o addirittura ritrovano lo spazio del gioco,
della serenità, della spensieratezza.
L’implicito velatamente razzista che in qualche
pubblicità emerge con più chiarezza è che i
bambini bianchi sono feliciti e benestanti, i
bambini neri sono poveri e disgraziati, senza
risorse o strumenti.
Spesso i bambini sembrano non essere
nemmeno bambini, ovvero non godere
dell’infanzia. Sono privati del gioco, del
divertimento, degli scherzi, del benessere,
dell’educazione e istruzione, della scuola.
In una pubblicità di Actionaid notiamo che il
claim «è impossibile che la marmellata l’abbia
rubata io» presenta da questo punto di vista una molteplicità di significati. Il bambino
africano non può essere stato il ladro della marmellata dacché la marmellata dovrebbe
sembrare nel contesto africano un bene irraggiungibile. È curioso notare come si
proietta su contesti altri un cibo che non gli appartiene. Così come è interessante
vedere come l’assenza di un alimento nella sua dimensione simbolica possa veicolare
diversi significati. La marmellata ricorda anche i lavori di casa, lo spazio domestico, la
presenza e il calore della madre. Tutte cose che secondo il nostro immaginario
verrebbero ad essere precluse nella vita di queste bambini. Il messaggio sottotraccia
sembrerebbe dunque essere anche quello dell’assenza di uno spazio domestico e di
cura. Dunque il messaggio della pubblicità in senso più ampio potrebbe lasciar
intendere che in Africa o nel sud del mondo non ci sono famiglie stabili o protettive
che curano o nutrono i bambini adeguatamente. Naturalmente non sorge nel
pubblicitario o nel lettore il dubbio che se non della marmellata di lamponi i bambini
africani possano godere ugualmente di dolci o golosità differenti prodotte dalle proprie
madri o dalle proprie reti famigliari.
È chiara la mistificazione di questi immaginari e la riproduzione di pregiudizi
superficiali. In questo contesto il nostro aiuto, è stato notato, sembra consistere nel
riportare l’infanzia alla normalità. Da questo punto di vista, si sottolinea, “tutto
dipende da te”.
Nella pubblicità Unicef sui sali minerali si è notato come il bambino viene descritto
come debole, apatico. Le secrezioni sul viso del bambino sottolineano questa
condizione di passività e di apatia. Anche fisicamente il bambino viene sorretto poiché
da solo non ne avrebbe le forze. Dal punto di vista del colore c’è un forte contrasto tra
il bianco predominante e il nero. Gli operatori Unicef sono bianchi e splendenti, mentre
l’unico elemento nero è il bambino stesso che sembra avvolto così da questo
splendore. È il nero sorretto dal bianco. 203
Anche i simboli dell’Unicef si notano molto
per contrasto col bianco. Chi guarda
l’immagine vede subito chi aiuta. Gli operatori
Unicef sono lì per fare il bene del bambino. Le
parole chiave sono “trasformare la vita”,
“recuperare, riprendere a vivere”,
“sostenere”, “Ridare la luce”.
In generale, e questo vale per tutte le
pubblicità umanitarie, i bambini sono
sofferenti e disperati prima di incontrarci,
sereni e sorridenti, quando arriva il nostro
aiuto o in presenza degli operatori o delle
operatrici occidentali. Più chiaro di così.
Nella dinamica pubblicitaria spesso sembra essere lo stesso bambino a chiamare e
chiedere aiuto. Da un punto di vista generale abbiamo già detto come i bambini
occupano gran parte delle nostre rappresentazioni delle alterità del sud del mondo in
queste pubblicità. Si può notare inoltre come nella maggior parte dei casi i bambini
sono associati al registro della vulnerabilità e della mortalità e non a quello della
natalità e della vitalità. Non solo dunque la nostra immagine dell’alterità viene
associata ai bambini e dunque in senso lato viene ad essere infantilizzata, ma rispetto
alla rappresentazione dell’infanzia si tralascia la dimensione di creatività e di apertura,
ovvero la promessa di novità, di rigenerazione e di cambiamento e si rafforza invece
l’idea di un destino negativo tracciato fin dall’infanzia. Un mondo condannato fin dalla
più tenera età.
Simmetricamente questo genere di pubblicità mira a rafforzare l’immagine
paternalistica del consumatore – umanitario – occidentale. E in particolare del
simbolico paterno o genitoriale viene rievocata soprattutto la dimensione della cura e
della protezione non quella dell’ascolto, dello stupore, della meraviglia.
Perfino verso questa alterità infantilizzata non è previsto ascolto o apertura. Anche
di premura si può soffocare.
Per quanto riguarda la rappresentazione dei paesi del sud del mondo si nota una
mancanza di colore e di colori. Predomina un’immagine in bianco e nero che da un
tono drammatico e freddo a queste immagini.
L’ambiente viene identificato con il deserto o con
la terra arida che costituiscono più dei topos che
ritratti reali di questi paesi che risultano a qualsiasi
latitudine privi di vegetazione, di alberi o prati, di
laghi, fiumi o mari. Le scenografie richiamano
paesaggi in rovina, o tende, mai case o solide mura
o città. Curiosamente non solo l’ambiente naturale
ma anche quello urbano scompare completamente
dalla nostra immagine dell’Africa, del Sud America,
dell’Asia. In un caso, nella pubblicità di Intersos, le
mura ci sono ma sono crivellate di colpi di mortaio,
di missili, di bombe. In questa foto l’alterità non
appare per nulla. Sono le mura crivellate che
dovrebbero dire già tutto. L’altro non serve proprio.
Allo stesso modo manca la società in tutte le sue
espressioni. Manca la vita, le relazioni sociali. Al
massimo compare in qualche rappresentazione una massa umana indifferenziata. I
profughi sulle barche, sui ponti, o masse di persone in movimento sulla strada
compaiono frequentemente nelle pubblicità di agenzie come UNHCR.
In generale si registra un’assenza dell’alterità. In alcuni casi non ci sono nemmeno
persone, ma numeri, oppure spazi vuoti o immagini drammatiche. Manca una
presenza reale dell’altro. L’alterità non è mai ritratta in azione, nel suo fare, dire,
scegliere, criticare, lottare. In sostanza le nostre alterità sono rappresentate solo
negativamente nel segno della privazione e della mancanza.
La cornice è quella della sopravvivenza: “La sopravvivenza è tutto ciò che ci
chiedono” recita uno slogan
pubblicitario di Intersos.
L’idea è che gli altri possano
al massimo aspirare ad una
vita dimezzata, sempre in
prossimità della morte.
Certamente morirebbero
senza il nostro aiuto. È solo
il nostro intervento che li
tiene al di qua della soglia.
Un altro aspetto che va
sottolineato è come guerre
e carestie, ovvero eventi
politici ed economici,
vengano trattati alla stregua
di catastrofi naturali. Essi
sono depoliticizzati e naturalizzati. Si pensi alle pubblicità di Medici Senza Frontiere
che si vantano di intervenire ovunque e in ogni situazione: guerre, epidemie,
catastrofi naturali. Tutto viene messo nello stesso calderone. L’intervento è solamente
una questione tecnica, professionale, non un confronto con un contesto storico,
sociale e politico specifico. 206
Da questo punto di vista si può
notare come nella pubblicità di Medici
senza frontiere sul tema della nascita
ci sia questa connessione tra la
nascita e la camera operatoria. La
nascita viene associata ad
un’immagine di natura malefica. O
meglio la nascita non è più un evento
naturale. In quell’inferno è solo
l’intervento chirurgico degli operatori
umanitari che permette di dare alla
vita. La condizione di questi paesi è
negativa siamo solo noi che portiamo
la speranza. Non è la madre ma la
techné occidentale che dona la vita.
In un'altra pubblicità l’operatore di MSF dice, “Se vi chiediamo dei soldi non
mandateci all’inferno. Già ci siamo”. L’universo dell’alterità qui è ricondotta
direttamente all’immagine dell’inferno. Le culture, le società, la politica, l’economia, la
vita quotidiana tutto è disciolto nel calore dell’inferno. In questo mondo infernale
solamente il professionista occidentale – epigono di Dio -, può portare la salvezza. La
mascherina che indossa il medico è rivolta nei confronti dell’alterità rispetto a cui ci si
deve difendere e produrre un contesto anestetizzato.
In altre pubblicità invece l’alterità si inabissa nel buio (Croce Rossa Internazionale)
o naufraga nel mare (Intersos). Gli avvenimenti sono sempre calamità incomprensibili
e misteriose, di cui non è dato sapere e conoscere nulla. O forse di cui preferiamo non
conoscere nulla.
Il vero soggetto di queste pubblicità, come abbiamo visto, non sono le alterità a cui
apparentemente sono dedicate. Il vero soggetto siamo in realtà noi occidentali. Noi
siamo rappresentati a seconda dei casi come angeli, benefattori o supereroi.
In una pubblicità dell’UNHCR il testo dice “Aiutaci a proteggerli. Diventa un angelo
dell’UNHCR”. E nell’altra pagina “Grazie sei un angelo”. Colpisce non solo la nostra
santificazione ma anche la connessione tra la protezione tramite il denaro e la
protezione dell’angelo. In altri casi emerge il
potere degli occidentali di dare vita alle
alterità. Nella pubblicità di Medici senza
frontiere sui bambini del Sudan il lettore vede
un bambino morente e lo slogan recita
“Questo era un bambino del Sudan”. Quindi il
lettore è invitato a compilare il coupon per il
versamento all’associazione perché “Questo è
un bambino del Sudan”. In altre parole con il
semplice di versare soldi nei fatti da vita ad
un bambino. In una pubblicità del Cesvi invece
il cittadino deve versare i suoi soldi per dare
vita ad un intero paese: “Il Sudan sta sparendo… Dai vita al Sudan”. Per finire con una
pubblicità di Amref dove l’aereo e il versamento del cittadino sono niente meno che un
“mezzo di salvezza per l’Africa”. Insomma con i nostri soldi teniamo vita addirittura un
continente. Pubblicità come queste danno un’idea del senso di onnipotenza che ispira
l’immaginario occidentale degli aiuti, che peraltro contrasta fortemente con i modesti
quando non ambivalenti risultati sul campo. 207
Altro esempio. In una pubblicità del World Food
Program il claim recita “300 milioni di bambini
aspettano il tuo aiuto”. In qualche modo il lettore è
coinvolto nella felicità di 300 milioni di bambini. Questi
300 milioni, si noti la cifra enorme e puramente
simbolica, starebbero aspettando proprio te, il lettore.
Dunque il lettore è ingaggiato, è immediatamente reso
corresponsabile. Si da per assodato che quei bambini
stiano li ad attendere il gesto del sensibile cittadino. Si
aspettano che li aiuterai.
Nel nostro immaginario si dovrebbe profilare questa
massa enorme e indefinita di bambini che aspettano il
nostro aiuto. Nella foto si vede un bambino che mangia
un biscotto, che ha già ottenuto l’aiuto della PAM-WFP.
In molte pubblicità c’è questo riferimento ad una
forma della relazione che è quella della questua,
dell’elemosina. Le nostre alterità per definizione starebbero lì in attesa del nostro
obolo. Ma questa forma di rapporto simbolico, questa attesa scontata dell’elemosina
occidentale è in realtà una nostra produzione culturale. Siamo noi che abbiamo
imposto questa idea nell’immaginario globale. Siamo noi che insegniamo alle nostre
alterità, fin da bambini e fino agli immigrati che arrivano qua a mettersi in una
posizione di questuanti. Si pensi a tutte quelle pubblicità che ritraggono il cliché della
folla di persone con le mani alzate riprese dall’alto
mentre si aspettano di ricevere aiuti alimentari o di
altro genere.
Del resto cosa potrebbero vedere loro in noi?
Abbiamo costruito e veicolato in tutti i modi
un’immagine materialista, di ricchezza e di benessere,
cosa altro potremmo aspettarci? Dunque non ci si può
sorprendere quando le nostre alterità finiscono con
corrispondere all’immagine di relazione che abbiamo
veicolato. Quando ti chiedono ciò di cui siamo
l’immagine.
Dunque bisogna prestare attenzione al fatto che
questo immaginario culturale che costruiamo è
relazionale. All’immagine onnipotente di noi stessi, all’idea di occidentali capaci di
dispensare ricchezza, felicità o vita corrisponde l’immagine di un’alterità che si aspetta
di ricevere da noi tutto quanto in offerta. Come valutare la corruzione dello sguardo
che abbiamo imposto con questo immaginario?
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi 208
UNIVERSALISMO/ PLURIVERSALISMO
Per “diritti umani” si intende un insieme di norme che riguardano i diritti della
persona e che sono stati affermate attraverso una serie di dichiarazioni le più famose
delle quali sono la “Dichiarazione dei diritti” americana del 1776, la “Dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadino” adottata dall’Assemblea Nazionale Francese in
occasione della rivoluzione del 1789 e la “Dichiarazione universale dei diritti umani”
delle Nazioni Unite. Quest’ultima venne adottata con una semplice risoluzione
dall’Assemblea Generale dell’Onu il 10 dicembre 1948. Non ha valore giuridico
vincolante, ma costituisce un impegno solenne da parte dei diversi paesi che l’hanno
ratificata.
La dottrina dei diritti umani nasce nell’alveo di una tradizione specifica, quella
giudeo-cristiana, e nel solco della tradizione illuministica. Essa certamente
rappresenta uno dei massimi frutti etico-politici della tradizione europea. Da un punto
di vista storico l’affermazione di questo complesso di diritti rappresenta il momento in
cui si afferma e si sancisce il valore dell’individuo contro lo strapotere dello Stato.
Mentre nelle epoche precedenti i sudditi avevano principalmente dei doveri, con
queste dichiarazioni si affermava che i cittadini ora avevano innanzitutto dei diritti.
La Dichiarazione universale dei diritti umani è il risultato di un confronto difficile e
travagliato tra i rappresentanti dei diversi paesi in seno alle Nazioni Unite, in un clima
tra l’altro di “guerra fredda”. Gli studiosi sottolineano che fondamentalmente si sono
incontrate e influenzate a vicenda tre principali correnti di pensiero: quella
giusnaturalistica (diritti innati e naturali) portata avanti da molti paesi europei,
quella socialista (diritti economici e sociali), e quella nazionalistica (che portò
all’eliminazione di alcuni diritti come quelli relativi alle minoranze nazionali). La
dichiarazione dunque è in primo luogo il risultato di una contrattazione tra idee
differenti e dunque la sua stessa nascita mostra che si tratta di un testo di
compromesso e non di una serie di formulazioni assolute. Per certi versi si tratta di
una sintesi importante e innovativa, ma certamente è possibile osservare diverse
mancanze e l’assenza di alcuni diritti chiave. Per esempio il diritto di rivolta e
ribellione contro le autorità oppressive, il diritto di petizione contro gli abusi dello
stato, i diritti delle minoranze nazionali, i diritti dei popoli all’autodeterminazione.
L’intreccio e il confronto tra più correnti di pensiero spiega anche perché alcuni
diritti risultano conflittuali tra di loro, ovvero in determinate circostanze possono
essere in alternativa ed in competizione fra loro. Solo per fare alcuni esempi il diritto
di libertà e di proprietà può confliggere con i diritti sociali (sicurezza sociale, lavoro,
redistribuzione, tenore di vita), il diritto alla sicurezza può confliggere con il diritto alla
privacy, i diritti economici contrastano con il diritto all’ambiente sano e alla sua tutela.
Qui si evidenzia fra l’altro una contraddizione perché se tutti i diritti sono
fondamentali, inalienabili, indivisibili è perfino impossibile graduarli e relativizzarli
stabilendo delle priorità degli uni rispetto agli altri.
Nonostante il carattere perentorio e assoluto di molte dichiarazioni i diritti umani
sono certamente diritti storici e sociali. Secondo Norberto Bobbio non esiste alcuna
possibilità di fondamento assoluto dei diritti umani. Essi infatti sono mal definibili,
variabili, eterogenei e segnati da vistose antinomie. 209
Come ha scritto Bobbio
Il fatto che siano diritti “storici” significa già di per sé che non possono vantare
alcun fondamento assoluto. Anche restando dentro alla cornice dei diritti umani,
ciascuna dichiarazione, compresa la più famosa “Dichiarazione universale dei diritti
umani”, non offre un elenco definito né immutabile. Questo è evidente anche per il
fatto che negli anni si sono aggiunte altre dichiarazioni ad integrare la precedente. Tra
le altre:
Molto spesso gli studiosi hanno classificato i diritti secondo uno schema evolutivo. Il
sociologo Thomas Marshall per esempio proponeva una tripartizione poi divenuta
classica, tra diritti civili, diritti politici e diritti sociali che secondo lui si sarebbero
affermati rispettivamente nel corso del diciottesimo, del diciannovesimo e del
ventesimo secolo (Marshall, 2002, p. 16). Altre interpretazioni, più recenti,
identificano tre o quattro generazioni di diritti umani.
La prima generazione riguarderebbe i diritti individuali, sia quelli civili (diritto di
libertà, di eguaglianza, alla vita, all’integrità fisica, di libertà dalla schiavitù, alla libertà
di pensiero, di espressione, di manifestazione, di religione) sia quelli politici (diritto di
associazione, di elettorato attivo e passivo, di partecipazione al governo).
La seconda generazione comprenderebbe i diritti economici, sociali e culturali:
sicurezza sociale, lavoro, condizioni di vita, riposo, istruizione ecc.
La terza generazione si riferirebbe a diritti quali il diritto alla pace, ad un
ambiente salubre, ad uno sviluppo umano, all’autodeterminazione dei popoli ecc.
C’è stato anche chi ha proposto di identificare una quarta generazione che
riguarderebbe la non manipolabilità del patrimonio genetico. Insomma, secondo alcuni
autori i diritti evolverebbero in rapporto alle trasformazioni sociali e alle lotte per
l’emancipazione per cui l’uomo continuamente si impegna. 210
Altri autori criticano radicalmente l’ottimismo evolutivo di queste linee interpretative
dei diritti. Per esempio Danilo Zolo ha parlato in proposito di una “legge di effettività
decrescente” delle garanzie dei diritti soggettivi, sottolineando che «al riconoscimento
sempre più ampio della titolarità formale (entitlement) di nuove categorie di diritti
ha corrisposto un’effettività decrescente del loro godimento (endowement) da parte
dei cittadini» (Zolo, 2001, pp.66-68).
Una delle questioni più dibattute a proposito della Dichiarazione Universale dei diritti
umani è proprio la questione dell’universalità. La Dichiarazione stessa si propone
come universale:
Tuttavia, nei fatti, non tutte le nazioni e le culture del mondo si riconoscono
totalmente in questa dichiarazione e probabilmente una buona parte dell’umanità non
solo non è stata interpellata in proposito ma nemmeno sa della sua esistenza.
Esistono comunque divergenze culturali su singoli aspetti e sull’assolutezza di
taluni diritti. Fin qui possiamo riconoscere intanto che tali diritti non sono universali
nel senso di “universalmente condivisi”. Tuttavia si può pensare, come hanno
proposto alcuni studiosi, che il carattere universale debba essere inteso nel senso che
tali diritti siano universalizzabili ovvero che si possa sviluppare una sempre maggiore
convergenza tra i vari paesi e le varie culture su questo testo o su un testo analogo.
In effetti ci sono attivisti civili, politici e sociali in tutto il mondo, dall’Europa all’Asia
all’Africa che si riconoscono in questi valori e lottano mettendo a rischio se stessi e la
propria vita per affermare questi diritti nel proprio paese e contano sull’autorità
morale di questi valori nel contesto internazionale per spingere il proprio governo e il
proprio paese a cambiare.
Tuttavia la questione se i diritti umani siano da universalizzare è piuttosto
complessa e non può essere liquidata facilmente. In effetti a proposito dei diritti
umani sembra ripetersi una storia nota: l’Occidente si propone come la civiltà più
sviluppata che impone la propria visione del mondo, i propri valori e i propri standard
disconoscendo l’autorità morale presente nelle altre tradizioni. I paesi occidentali
hanno cercato di imporre prima il vangelo cristiano, poi il vangelo dei Lumi,
poi il vangelo dello sviluppo e oggi il vangelo dei diritti umani. Nonostante le
migliori intenzioni oggi possiamo dire che tutti questi tentativi hanno scontato una
grave presunzione, hanno prodotto gravi danni e giustificato, nel nome dei propri
valori, le peggiori violenze. Non si può partire dal fatto di possedere una verità
universale senza confrontarsi davvero e a fondo con i fondamenti etico-spirituali delle
altre tradizioni.
Fa specie il fatto che grandi giuristi e teorici dei diritti umani banalizzino le diversità
culturali e religiose e le differenze etico-filosofiche delle altre tradizioni. Per esempio
Antonio Cassese, uno dei più famosi giuristi italiani, in un testo dedicato ai diritti
umani nel mondo contemporaneo presenta una sezione dedicata alle divergenze nelle
concezioni filosofiche e nelle tradizioni culturali nella quale ci offre una presentazione
delle altre tradizioni filosofico-spirituali caricaturale, grottesca e segnata dal
pregiudizio:
«Ancora più radicale è la differenza tra la concezione occidentale e quella che
deriva dalle grandi tradizioni culturali dell’Asia. Nella concezione buddista la 211
società è modellata sul regime familiare: il leader (l’imperatore, nel passato) è
come un padre di famiglia, con tutti i poteri, l’autorità e le cure del pater familias.
La libertà non consiste dunque nel garantirsi uno spazio di azione da possibili
invasioni o soverchiamente dell’autorità, ma nell’armonizzare quanto più
possibile l’agire dell’individuo con quello del leader, al quale l’individuo deve
tendenzialmente ubbidienza» (Cassese, 1999, pp. 56-67).
E con questo fa piazza pulita di Gandhi e del Satyagraha,89 della lotta contro le
discriminazioni di razza e di casta, della lotta contro il colonialismo inglese (il paese
della Rule of Law!), e delle contemporanee lotte dei movimenti locali di donne e
contadini per la tutela delle foreste e per l’autodeterminazione agricola e alimentare
contro le multinazionali (guardacaso occidentali).
Ma anche alle altre tradizioni Cassese non riconosce molto più valore. Il
Confucianesimo descritto come un sistema patriarcale esteso dalla famiglia allo
stato, in cui l’imperatore è visto come un capofamiglia, cui si deve ossequio assoluto
per cui «rimane dunque poco spazio per i diritti umani». Come oramai ci aspettiamo il
giudizio di Cassese colpisce anche l’Islam:
«Lo stesso vale per la tradizione islamica. […] In particolare se non esiste una
incompatibilità radicale con i principi essenziali dei diritti umani, esiste conflitto
per quanto riguarda i rapporti tra uomo e donna: nell’Islam, su due piani
profondamente diversi (l’uomo è il padrone; la donna occupa un posto inferiore)»
(Idem).
89
“Forza della verità”, è il nome che Gandhi usava per designare il suo metodo di lotta nonviolenta.
Che un professore di diritto internazionale, già presidente del Tribunale
internazionale delle Nazioni Unite per i crimini dell’ex-Jugoslavia considerato uno dei 212
più prestigiosi giuristi italiani e uno dei maggiori esperti in materia di diritti umani si
esprima, in un testo di presentazione sui diritti umani nel mondo contemporaneo, con
tale ignoranza e superficialità e con un linguaggio e delle espressioni che non
differiscono per nulla da analoghi coloniali di un secolo fa lascia piuttosto esterrefatti e
fa intendere con quale arroganza e mancanza di strumenti i paladini occidentali dei
diritti umani si presentano al confronto con le altre tradizioni culturali e spirituali. Delle
altre tradizioni in realtà non si sa nulla e si ricava un’immagine sfocata e deformata
solo in relazione alla maggior o minor distanza dalla propria superiore tradizione.
Analoga impressione, con un atteggiamento appena più cauto (ci risparmia almeno
rispetto a Cassese le “costumanze tribali” degli Africani), si registra leggendo il testo
Una ragionevole apologia dei diritti umani di Michael Ignatieff, che liquida il
confronto con le altre tradizioni culturali e religiose (in particolare all’Islam e a quelle
genericamente asiatiche) a cinque striminzite paginette in cui naturalmente le alterità
culturali sono presentate solo nei loro aspetti di culture patriarcali, autoritarie,
discriminanti nei confronti delle donne. In altre parole c’è oggi una certa contiguità in
alcune posizioni tra l’esaltazione dei diritti umani (che dimentica per esempio di fare i
conti con i propri lati oscuri quali il colonialismo, l’imperialismo e l’olocausto) e un
pregiudizio culturale verso le altre tradizioni che lambisce pericolosamente posizioni
squisitamente razziste. Come ha commentato causticamente Danilo Zolo
In realtà, qualsiasi sia il valore che si vuole accordare alla dottrina dei diritti umani,
bisognerebbe quantomeno ammettere che essa è solamente uno dei prodotti del
sapere etico-politico mondiale e non ne esaurise affatto, né adesso né in
prospettiva, la dimensione filosofico-spirituale.
È un errore madornale pensare che certi valori come l’umanità, la giustizia, il
rispetto degli altri, la compassione, la libertà, la valorizzazione equanime di donne e
uomini, siano patrimonio esclusivo della sola cultura occidentale. Alcuni di questi valori
hanno in verità una storia antichissima che attraversa e contagia moltissime culture
perfino di epoche diverse.
Prendiamo per esempio due testi. Uno dell’antica tradizione egiziana e uno della
tradizione islamica. Il primo è tratto dal Libro dei morti:
«Ecco, io vengo presso di voi, e non c’è mia colpa, non c’è mio male, non c’è
mia iniquità, non c’è mia accusa, non c’è persona cui io abbia fatto questo. Io
vivo di verità, io conosco la verità. Io ho fatto quel che dicono gli uomini, quello
di cui si compiacciono gli dei. Io ho soddisfatto il dio di quel che egli ama. Io ho
dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vesti all’ignudo, una barca a chi ne era
privo. Salvatemi voi, proteggetemi voi! Non esiste un rapporto contro di me in
vostro cospetto. Io sono uno la cui bocca è pura, le cui mani sono pure, cui si
dice “Benvenuto in pace” da parte di coloro che lo vedono».90
90
La traduzione è quella proposta da Sergio Donadoni in Testi religiosi egizi (Donadoni, 1988, p. 198).
«Nel nome di Dio, clemente misericordioso!
Pel mattino! Per la Notte che calma s’abbuia! 213
Il Signore tuo non t’ha abbandonato né t’odia
e l’altra vita ti sarà più bella della prima.
E ti darà Dio, e ne sarai contento
Non t’ha trovato orfano e t’ha dato riparo?
Non t’ha trovato errante e t’ha dato la Via?
Non t’ha trovato povero e t’ha dato dovizia di beni?
Dunque l’orfano non maltrattarlo.
dunque il questuante non scacciarlo.
Ma piuttosto racconta a tutti quanto è buono il Signore».91
Come si vede da questi due passi che rispecchiano molto da vicino il racconto del
giudizio finale presente nel Vangelo cristiano, non è difficile trovare aspetti etici
comuni a diverse tradizioni religiose e spirituali.
Tuttavia altri sostenitori dei diritti umani affermano che poiché i valori espressi dalla
Dichiarazione dei diritti umani si ritrovano un po’ in tutte le culture allora possono
essere accettati come universali. Questo tipo di ragionamento mi sembra fallace. Il
fatto che taluni valori o principi si ritrovino, seppur espressi in modo differente, nelle
diverse tradizioni, mi sembra un fatto che dimostri la rilevanza ma anche la relatività
di quella Dichiarazione storica.
La questione infatti non è se la dichiarazione dei diritti umani esprime valori che si
ritrovano in tutte le tradizioni, ma piuttosto se i valori, o meglio le intuizioni etico-
spirituali delle diverse tradizioni possono essere correttamente tradotte o espresse
nella formulazione rappresentata dalla Dichiarazione dei diritti. Possiamo
naturalmente riconoscere che quest’ultima rappresenti nel contesto occidentale quasi
un testo fondante, una specie di grammatica morale. Ma ogni tradizione ha una
sua grammatica e le sue espressioni. Quando si traduce da una lingua all’altra non
si possono tradurre certe parole senza prestare attenzione alle forme grammaticali
attraverso cui una lingua stabilisce un nesso tra di esse ed in qualche modo le rende
espressive.
I diritti umani esprimono determinati valori in un modo che si basa su uno specifico
della tradizione occidentale e che mette al centro l’individuo (e l’individualismo),
il razionalismo e il volontarismo. Altre tradizioni possono magari condividere come
valori di fondo o come mete ultime alcuni di questi valori, ma tuttavia propongono un
modo differente di esprimerlo e di tentare di raggiungerli o realizzarli.
Per esempio ipotizziamo che ciò che ci importa praticamente sia il fatto che le
persone si rispettino tra loro, che non cerchino di dominare l’una sull’altra, non
commettano violenza, non si torturino, non si ammazzino, non si rendano schiave ecc.
Se anche tutti questi valori fossero davvero condivisi, rimane comunque il problema di
come stimolare le persone a comportarsi in un certo modo, a fare certe cose e a non
farne altre.
Per la tradizione giudeo-cristiana, cui appartiene la Dichiarazione dei diritti, la
formula è quella del decalogo e dei comandamenti. Per altre tradizioni, questo tipo di
formula, potremmo dire questa grammatica, ha poco senso.
Per esempio per la tradizione Taoista il riferimento principale è l’idea di Via. Tao
significa appunto “via”. Il Tao-Te-Ching, uno dei testi fondamentali tella tradizione
taoista comincia con un apparente paradosso:
91
Corano, 93, La sura del mattino, trad. di Alessandro Bausani, Bur, 1999.
Ovvero la Via è qualcosa di vago e di mutevole, impossibile afferrarla una volta per
tutte. La Via ha a che fare con un’armonia tra esseri e il mondo nel suo complesso e 214
dunque è necessariamente impermanente, in costante alternarsi tra essere e non
essere. Dunque non può essere veramente fissata, concettualizzata, oggettivizzata.
Insomma non può essere nominata una volta per tutte e dunque resa in
comandamenti o decaloghi di sorta. Della Via si possono avere delle immagini, delle
manifestazioni non delle prescrizioni, dei germi non delle norme. Nella visione
taoista la Via è vuota. È come un vaso profondo e insondabile perché non può
essere riempito una volta per tutte. Ciò che si dice diviene importante soltanto in
relazione a ciò che non può essere detto. Ciò che conta, ciò che è più importante non
può essere proclamato o esibito: “la Via è nascosta e non ha nomi”.
Dunque quello che posso capire della tradizione taoista è che essa mostra la
discordanza tra il riconoscimento di ciò che è buono e la pretesa di ottenerlo in
maniera affermativa e lineare, forzando la realtà delle cose. In un certo modo rivela la
fallacia di ogni moralismo che pretende di migliorare il comportamento degli esseri
umani attraverso comandamenti e prescrizioni, d’ogni fanatico determinismo che
pretende di conoscere già ciò che è bene prima ancora di confrontarsi con la sottile e
dinamica complessità dell’essere, di ogni ingenuo volontarismo che pensa di aver
presa sulla realtà attraverso la razionalità e il controllo su di sé e sulle cose. Ciò che si
può controllare è al contrario solo un riflesso di ciò che conta:
E basterebbe davvero poco per aggiungere: quando la gente si fa saltare in aria e gli
stati si bombardano con proiettili all’uranio c’è un gran parlare di diritti umani e di
doveri umanitari.
Per il taoismo dunque, l’affermazione roboante di principi pretesi assoluti e
universali rischia più che altro di mostrare per contrasto la corruzione del senso
comune e la mancanza di una cultura armonica diffusa, interiorizzata, condivisa.
92
Tao-Te-Ching, Bompiani, Milano, p.99.
93
Ivi . p. 61
Da questo punto di vista la stessa evoluzione dei diritti umani in direzione per
esempio di diritti ambientali – il diritto a respirare l’aria sana, a bere acqua non 215
inquinata a mangiare cibi non geneticamente modificati – lungi da rappresentare un
ulteriore passo avanti dell’umanità, rappresenta piuttosto l’accrescersi delle minacce
contro gli esseri viventi con l’espandersi della cultura del profitto, dello sviluppo
illimitato, del progresso tecnologico. Anziché mettere sotto accusa il pregiudizio
antropocentrico e la cultura utilitarista e produttivista dominanti da cui discendono tali
disastri si preferisce aggiungere un altro paletto fingendo che possa contrastare la
marea che sale.
Per riassumere: dal punto di vista del comportamento l’autorepressione morale non
conduce da nessuna parte, e certo non al superamento della violenza. Solamente la
vicinanza ad un senso più ampio e più profondo dell’essere può, indirettamente,
modificare il comportamento.
Da questo punto di vista, si può anche notare che c’è una dimensione performativa
che non passa attraverso proposizioni dirette ma attraverso forme espressive
differenti (meno coscienti, meno razionalistiche, meno volontaristiche) che
comunicano e agiscono a livello più profondo: storie, rappresentazioni, miti,
metafore, paradossi, koan, riti, cerimonie, atti sociali.
Dunque le dichiarazioni dei diritti, qualsiasi cosa esse dichiarino dal punto di
vista del contenuto, rappresentano soltanto una tra le tante forme espressive
performative della morale – tra l’altro probabilmente una delle meno efficaci - e in
questo senso non possono vantare alcuna universalità.
Naturalmente ho preso come esempio solo una tradizione ma si potrebbero tentare
confronti approfonditi in diverse direzioni.
Per esempio Raimon Panikkar ricorda il significato e la ricchezza delle categorie di
dharma e svadharma nella tradizione indiana. Per gli indiani il dharma (legge,
norma di condotta, carattere delle cose, ordine della realtà) è qualcosa di molto
complesso che contempla allo stesso tempo giustizia, moralità, legge, religione,
destino, verità. Lo svadharma è il dharma inerente ogni essere, ma al contempo è
qualcosa che va al di là dell’individuo perchè è connesso al dharma di tutti gli altri
esseri. Ora mentre l’idea di diritti umani si riferisce ai singoli individui presi a se stante
(con tutte le contraddizioni che emergono quando le libertà dell’uno sono in contrasto
con le libertà di un altro), l’idea di fondo su cui riposa lo svadharma è al contrario «la
totalità della complessa concatenazione del reale» (Panikkar, 2003, p. 190) ovvero
l’ordine che tiene insieme l’intera realtà, il mondo intero. In Occidente il richiamo
verso una società più giusta e più rispettosa è stato espresso nella formula dei diritti
umani, nella tradizione indiana è stato espresso con la nozione, per molti versi più
complessa, di svadharma. Le due concezioni hanno forse qualche tratto in comune ma
non sono la stessa cosa. E in qualsiasi tentativo di traduzione di un’idea nel linguaggio
dell’altro si perde qualcosa del significato originale.
Del resto mentre i diritti umani sanciscono un ideale che mette al centro
l’individuo, la maggioranza delle tradizioni non occidentali valorizzano molto
più l’ethos comunitario ovvero mettono al centro l’importanza delle relazioni
fondamentali, del senso della comunità che sola può garantire la vita e il benessere
dell’individuo94. Il risultato di questo è tra l’altro che nelle nostre società si assiste alla
crescita continua di diritti virtuali e all’impoverimento reale delle relazioni umane e
comunitarie attorno a noi. Così l’individuo può avere astrattamente riconosciuti
tutti i diritti del mondo ma risultare completamente solo e sradicato e non
potere effettivamente godere di nulla. Come ha sottolineato il giurista algerino
Abdelhak Benachenhou, l’individualismo che impregna l’ideologia dei diritti umani è
contemporaneamente un non-senso e una sciocchezza nella misura in cui l’uomo
94
Su questi aspetti vedi anche le riflessioni di Danilo Zolo, 2003, pp. 150-152, e 2004, pp. 106-108.
resta, che lo si voglia o no, un animale sociale. La promozione dell’individualismo
attraverso il mercato ha per bersaglio e per vittime le vecchie generazioni, le giovani 216
generazioni come le generazioni future (Benachenhou, 2000, p. 149)
Così non è certo un caso, come ha notato Danilo Zolo, richiamando le culture
giuridiche non occidentali come quella cinese-confuciana, che
Più in generale credo che nelle diverse tradizioni culturali ci siano diversi approcci
nei confronti dei valori fondamentali: c’è chi parte dal non agire, chi dalla
compassione, chi dai diritti naturali, chi dalla luce che illumina ogni uomo, chi
dall’unicità dell’essere, chi dalla relazione come fondamento della vita. Ci
sono valori che sono impliciti in alcune culture ed espliciti in altre e viceversa,
intuizioni etiche che sono sviluppate in alcune e dimenticate in altre. Ma ciò che più
conta è capire che anche laddove si scoprisse l’esistenza di un certo numero di
intuizioni etiche in comune tra diverse culture, quello che differenzia una tradizione
dall’altra è la grammatica attraverso cui mette insieme e fa parlare i singoli termini,
secondo uno stile e un carattere espressivo che le è proprio. Sarebbe quindi un delitto
disconoscere tutta questa ricchezza per celebrare solamente i diritti umani.
Questo non significa abbandonare l’idea di una comprensione tra tradizioni
differenti e nemmeno la possibilità di approdare ad un riconoscimento comune della
dignità di tutti gli esseri viventi. Tuttavia, come suggerisce Gregory Bateson, tutta la
riflessione su un tema quale la dignità dell’essere umano deve essere condotta “in
termini di Gestalten piuttosto complesse” e non su modelli riduzionistici:
«Io attribuisco grande valore alla varietà dei modelli culturali che diversificano
il mondo. Sono belli in sé e per me la la stessa varietà è bella. Il problema, a mio
parere, sarà quello di dare ordine a questa varietà; non eliminando tutti i modelli
tranne uno, bensì ideando modelli di comunicazione che trascendano le
differenze» (Bateson, 1997, p. 83).
«la critica emancipatoria dei diritti umani è il presupposto di ogni critica nel
XXI° secolo come la critica della religione fu il presupposto di quella del XIX°
secolo. È la critica radicale del “principio di realtà” capitalistico e della sua
riduzione economicistica dell’uomo e a partire da quella anche la critica radicale
di ogni “realpolitik”». 95
95
Cfr. Robert Kurz, “Economia politica dei diritti umani”, disponibile on-line in:
http://ozioproduttivo.blogspot.it/2007/01/economia-politica-dei-diritti-umani.html
96
Cfr. Carla Lonzi, 1974, pp. 20-21.
Del resto se provassimo a deporre almeno per un attimo i nostri pregiudizi
antropocentrici capiremmo una cosa peraltro centrale in tutte le tradizioni orientali e 218
in molte delle culture non occidentali, ovvero il necessario equilibrio tra diritti e
doveri nel rapporto con il mondo vivente: il genere umano stesso non ha alcun
“diritto” di sopravvivenza se non nella misura in cui compie il suo ruolo, ovvero il suo
dovere, nel rendere possibile il mantenimento e la riproduzione della vita sulla terra.97
Oltre ad una critica dei fondamenti del loro presunto universalismo c’è poi una
questione cruciale di ordine politico che investe l’idea dei Diritti umani. Già pochi anni
dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Hannah Arendt aveva già compreso gli
angoli ciechi della dottrina dei diritti umani e sceglieva non a caso di intitolare il nono
capitolo del suo monumentale libro sul totalitarismo: “Il tramonto dello stato
nazione e la fine dei diritti umani”.
97
Si veda su questo PANIKKAR, 1993, p. 193.
Il problema della Dichiarazione dei diritti umani è che fa riferimento ad un uomo
astratto che non esiste da nessuna parte. Quelli che sono stati considerati diritti 219
inalienabili dell’uomo sono in realtà espressione di diritti garantiti dagli stati
nazionali ai propri cittadini. Essi mostrano tutta la loro fragilità nel momento in cui
nella relazione tra gli individui e i diritti sanciti nelle dichiarazioni universali non sia
presente un tramite politico che sia effettivamente interessato a garantirli. Dunque
essi perdono gran parte della loro consistenza nel caso di individui senza stato o il cui
stato li abbia in qualche modo ripudiati.
Questo spiega perché oggi la figura del profugo, del rifugiato è una figura
chiave della crisi della politica contemporanea: per un verso evidenzia la crisi
dello stato nazione e nel sud del mondo dal punto di vista dell’identità, della comunità
politica e della sovranità, in entità statali costruite artificialmente; secondariamente
mostra la crisi dello stato nazione nei paesi di accoglienza dal punto di vista dello
scollamento tra territorio, popolo, stato e cittadinanza; infine non avendo accesso alla
cittadinanza nel paese in cui ha trovato rifugio il profugo svela la finzione di un
soggetto astratto del diritto attraverso la condizione reale di individui ridotti a nuda
vita e in alcun modo garantiti nelle loro libertà e possibilità di vita.
Come ha commentato Pietro Barcellona,
«In realtà i diritti che non hanno la "copertura" della comunità e della
tradizione istituita, del gruppo di appartenenza, non possono essere fatti valere,
perché la nuda vita è singolarizzata in questo corpo spogliato ed esposto a
qualsiasi manipolazione, giacché è scomparso lo "spazio pubblico" della politica e
delle sue istituzioni» (Barcellona, 2001, p. 143).
L’uomo del resto è un animale sociale che vive e si definisce per il tramite dei
legami sociali. È molto difficile rimanere “umani” se si viene privati dei legami sociali.
Nel doppio senso: è molto difficile mantenere un comportamento morale ed è molto
difficile ottenere da altri un trattamento morale. Come aveva ben compreso Hannah
Arendt «pochissimi individui hanno la forza di conservare la loro integrità se la loro
condizione sociale, politica e giuridica è del tutto indefinita» (Arendt, 1993b, p. 44).
Simmetricamente, si deve aggiungere, in pochissime realtà sociali gli individui vedono
riconosciuta la loro integrità e dignità se la loro condizione sociale, politica e giuridica
è del tutto indefinita. Su questo non bisogna farsi illusioni. Nel momento in cui è
ridotto “nuda vita”, come direbbe Giorgio Agamben, la sua condizione è in balia di
qualsiasi forza esterna. Nel migliore dei casi è in balia di un soccorso umanitario, nel
peggiore di un qualsiasi malintenzionato. In entrambi i casi la sua sorte rimane
precaria. La sua vita incerta. Come riassume definitivamente Hannah Arendt
«la concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono
comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche,
tranne la loro qualità umana. Il mondo non ha trovato nulla di sacro nell’astratta
nudità dell’essere umano» (Arendt, 1996, p. 415).
Non c’è niente di stupefacente in questo. Tale fatto dimostra soltanto che ciò che
fa di un essere vivente un essere umano non è semplicemente la sua mera
natura biologica ma l’incontro tra il suo essere corporeo e la sua dimensione
simbolico-sociale. Questo è dunque il motivo per cui la massima privazione cui può
essere oggetto un essere umano è la rottura tra queste due dimensioni. Questo
significa che il motivo per cui l’ingerenza umanitaria è insensata e la guerra per i diritti
umani è una contraddizione, non è solo perché si ricorre all’imposizione e alla
violenza, ma anche perché si pretende di imporre dall’esterno un diritto astratto a
individui nel momento in cui - trattandoli come vittime e soggetti passivi, privandoli
della possibilità di espressione e di azione nel loro mondo comune e accelerando la
decomposizione della loro comunità politica o della loro reale sovranità – si sancisce 220
definitivamente la loro disintegrazione in quanto esseri sociali.
Recentemente anche il filosofo sloveno Slavoj Zizek ha messo in luce la natura
paradossale di questo fatto:
«In breve il paradosso sta nel fatto che si venga privati dei diritti umani
proprio nel momento in cui, all’interno della propria realtà sociale, si è
effettivamente ridotti a un essere umano “in generale”, senza cittadinanza,
professione, ecc., vale a dire proprio quando si diventa effettivamente l’ideale
PORTATORE di “diritti umani universali” (i quali mi appartengono
“indipendentemente” dalla mia professione, dal mio sesso, dalla mia
cittadinanza, dalla mia religione, dalla mia identità etnica» (Zizek, 2005a, p. 11 e
2005b, p. 59)).
«Spinto al suo parossismo, dalla sua propria logica, questo egotismo – come si
dice oggi – non può che sboccare nella disgregazione sociale ed ecologica. I
diritti dell’uomo, dell’individuo in senso classico, dunque costituiscono proprio, in
sé, un non-senso e un’impasse» (Benachenhou, 2000, p. 149).
Slavoj Zizek (2005b. p. 62) nota che questa operazione coincide con la formula
della comunicazione espressa da Jacques Lacan secondo la quale “il mittente riceve
il suo stesso messaggio dal ricevente-destinatario in forma invertita, cioè vera”. In
termini simbolici di fronte alla depoliticizzazione attuata dai diritti umani si finisce con
il rimandare su un altro piano alle necessità della politica. Slavoj Zizek sottolinea il
carattere violento di depoliticizzazione dei diritti umani che «priva l’altro vittimizzato di
ogni soggettivazione politica» (Zizek, 2005b. p. 62).
L’insegnamento che il mondo occidentale esita a trarre da questo punto di vista è la
necessità di una dialettica tra individuo e comunità che non sacrifichi
nessuno dei due termini. Pare vano e controproducente in effetti sia il tentativo di
fondare una morale sull’assolutizzazione della comunità e del suo valore organico sia il
contrapposto tentativo di fondare una morale sull’assolutizzazione dell’individuo e dei
suoi diritti soggettivi. Resta da esplorare quindi con uno spirito nuovo e con un
atteggiamento più umile di confronto con altre tradizioni la possibilità di mettere al
centro e “proteggere” proprio la necessaria relazione dinamica tra i due
termini – individui e comunità – che non solo non sono opposti ma che non
possono nemmeno esistere se non uno in rapporto all’altro.
Tutto questo naturalmente ha evidentemente anche una ricaduta pratica. Per
decenni le associazioni internazionali di tutela dei diritti hanno scelto una
strategia basata sulla pubblicazione di denuncie e rapporti documentati e sulla presa
in carico di singoli casi di persone imprigionate, torturate o in pericolo. Non c’è dubbio
che tale strategia ha ottenuto risultati concreti prima del 1989 perché nel
confronto est-ovest fungeva da pungolo politico per denunciare una o l’altra parte.
Dopo il 1989 le organizzazioni hanno sfruttato al massimo le possibilità degli strumenti
mediatici per denunciare determinate situazioni e influire sui governi. Ma, oltre al
rischio di provocare alla lunga un effetto di assuefazione, si può osservare che
l’evocazione di un’indignazione mediatica ha prodotto (o giustificato) nel caso del
Kosovo i bombardamenti su Belgrado. L’episodio ha diviso il movimento per i diritti
umani. Alcuni hanno salutato l’intervento militare come un grande successo perché
finalmente si è imposta l’idea che i diritti umani sono più importanti del principio della
sovranità nazionale, ma molti altri vi hanno visto piuttosto una terribile sconfitta
perché in realtà quella che si è imposta – oltre a nuovi morti e nuove distruzioni - è
soprattutto l’idea di un interventismo militare fondamentalista. In fondo questa
divisione è stata causata proprio da una filosofia di tutela delle persone che
prescindeva dal riconoscimento dell’importanza centrale del processo politico.
In altre parole rivelava il vuoto della politica nel movimento umanitarista, l’assenza di
un ragionamento politico e di una forma di pratica politica che non si fermi alla mera
denuncia delle violazioni. L’assenza di un reale discorso critico sui fondamenti dei
diritti umani si è manifestato anche nell’impotenza degli strumenti impolitici
tradizionali di tale movimento, e tutto questo, alla fine, si è trasformato in un
disastroso boomerang politico. 222
98
Si veda a titolo di esempio le posizioni di un Michael Ignatieff, 2003b, pp. 42 e seg.
99
È la posizione per esempio assunta da Antonio Gambino (2001), che considera i diritti umani non un
insieme di norme giuridiche già realizzate ma piuttosto un criterio ideale e meta-giuridico che nasce
spontaneo nella coscienza collettiva e che ha per fine quello di unire gli uomini e le donne del nostro
pianeta. Si tratterebbe dunque, secondo Gambino, non di imporre norme giuridiche con la forza ma di
seguire la via del dialogo, del “discorso razionale sui diritti” (J.S.Mill) e quindi della persuasione per
Dal mio punto di vista è più interessante mettere in luce la continuità e non 223
l’opposizione tra rappresentazioni positive e atteggiamenti aggressivi. Capire come da
dal diritto e dagli aiuti si è arrivati alla guerra umanitaria. Come è stato possibile il
percorso di slittamento semantico e politico prodotto dalla filosofia umanitaria, per cui
si è passati dalla tutela dei diritti umani al diritto di assistenza e soccorso, al diritto
d’ingerenza umanitaria, alla guerra umanitaria.
L’espressione “droit d’ingérance humanitaire” fu proposta per la prima volta nel
1991 da Bernard Kouchner, tra i fondatori di Médecins sans frontieres e poi di
Médecins du Monde e all’epoca Ministro per le Azioni umanitarie del Governo
Mitterand. Kouchner coniò tale idea in relazione al preteso diritto di intervenire in
Kurdistan per portare aiuto ai curdi attaccati con gli elicotteri dall’esercito di Saddam
Hussein. Kouchner fu anche tra coloro che spinsero le Nazioni Unite a rimettere in
discussione per la prima volta il principio della sovranità degli Stati, in un documento
dell’assemblea generale dell’Onu di quello stesso anno, sempre in relazione alla crisi
curda. Il diritto d’ingerenza venne invocato anche per giustificare la UNPROFOR, la
sventurata missione ONU in Bosnia tra il 1992 e il 1995. Allora il nuovo verbo del
diritto d’ingerenza divenne la parola d’ordine tra Istituzioni Internazionali, governi
occidentali, e soprattutto tra le Ong umanitarie. Tutti pensavano che avrebbe
significato la garanzia di una maggiore tutela dei più deboli. Sono bastati pochi anni
per mostrare l’ingenuità e la scarsa lungimiranza politica di queste posizioni.
L'affermazione del "diritto di ingerenza umanitaria" o del "dovere di assistenza"
anziché rafforzare i diritti umani e garantire i più deboli è divenuta infatti soprattutto
uno strumento per rafforzare la sovranità e il dominio degli stati più potenti.
Non si vede come sarebbe potuto essere altrimenti quando si è affidata la difesa dei
più deboli alla forza dei più potenti. Il senso e l'efficacia pratica di qualsivoglia diritto
d’ingerenza – sia di tipo strettamente umanitario che di tipo militare - è infatti del
tutto legato all'ampiezza delle risorse materiali, economiche, politiche e militari di cui
un paese può disporre. Solo uno stato potente può candidarsi ad agire in nome del
principio d’ingerenza (direttamente o su mandato internazionale) e una volta investito
o autoinvestito di questo diritto ne fa uso in modo sovrano nei casi che lui stesso
giudica appropriati. Come ha notato Bertrand Badie
estendere l’ideale dei diritti umani in un numero sempre maggiore di Stati o gruppi di Stati (p. 151-152).
Gambino dunque si limita a criticare le modalità e il tentativo di imporre un universalismo che a suo
modo di vedere si può basare solamente su una dimensione consensuale, formata attraverso un metodo
dialogico (p. 45) ma non sembra disposto a mettere radicalmente in dubbio il fondamento e l’ideale
universalistico dei diritti umani.
intervenute. La normalizzazione delle ingerenze in nome dei diritti umani porterà le
potenze occidentali Usa, Europa, Giappone ad accrescere la propria capacità di 224
mediare e di intervenire in determinate aree calde importanti da un punto di vista
economico e geopolitico, e di assicurarsi il controllo del territorio tramite le armi, il
controllo della popolazione tramite gli aiuti alimentari, i medicinali e i crediti, il
controllo politico tramite l’instaurazione di governi amici e fedeli. Mentre i paesi del
sud del mondo e gli altri paesi emarginati, che tanta fatica hanno fatto per
conquistarsi una propria indipendenza, vedranno ulteriormente indebolirsi la propria
autonomia, le proprie istituzioni, le proprie capacità di manovra, le proprie autonome
possibilità di scelta e di autoderminazione. Per questa strada non è improbabile, come
suggeriscono diversi analisti, che in alcuni casi come quello della Somalia o del
Kosovo, la trattativa politica e diplomatica sia stata solamente formale, mentre in
realtà la possibilità di un accordo sia stata boicottata per arrivare a giustificare un
intervento militare umanitario. Tra la fine del 1992 e il 1993, in Somalia si è
assistito alla prima occupazione di un paese indipendente sulla base di una mission
umanitaria. Come ricorda Noam Chomsky (2000b, p. 93) si trattò in realtà di un
grande intervento promozionale in stile hollywoodiano100, una specie di vetrina per
l’universo militare, per favorire i programmi per una forza di intervento all’estero. Il
risultato è stato naturalmente un disastro assieme politico, militare, umanitario. Oltre
tutto le truppe italiane, francesi, belghe, americane, canadesi, nigeriane, pakistane si
sono rese responsabili di numerosi atti di violenza, abusi contro la popolazione civile e
perfino stupri ai danni di donne somale. Come ha notato Alex De Waal,
Altre fonti riportate da Chomsky stimano un numero di vittime molto superiore tra il
7.000 e 10.000 somali (Chomsky, 2000b, p. 94). Nei fatti l'intervento umanitario -
dalla Somalia ai Balcani - ha più spesso contribuito a indebolire e a frammentare i
territori e le popolazioni piuttosto che ad unirli. Non ha risolto i conflitti e fermato la
violenza ma anzi l’ha moltiplicata e ha contribuito a cronicizzarla (vedi il caso
Somalia), ha aumentato i problemi connessi (vittime, feriti, profughi, malattie,
distruzioni), ha spesso esacerbato le divisioni (specie quelle etniche o religiose)
anziché contribuire ad appianarle. Talvolta le soluzioni imposte con la forza con la
logica della spartizione hanno giustificato altra violenza e altre azioni di pulizie etniche
(vd. la pace di Dayton). Nel migliore dei casi l’ingerenza sì è trasformata in una pace
armata e precaria, come nel caso del Kosovo. In nessun caso ha assicurato una pace
reale. Ad ogni modo la critica più feroce dell’ingerenza umanitaria viene dalle parole di
Régis Debray:
100
Non a caso gli eventi della Somalia hanno offerto l’occasione per un nuovo film di epica militare
americanista come Black Hawk Down (2001) di Ridley Scott.
101
Alex De Waal, "In piena impunità umanitaria", in «Le monde diplomatique», n. 4, aprile 1998.
102
Intervista con Régis Debray di Jean-Paul Monferran, L’Humanité, 15 maggio 1999, disponibile on-line:
http://www.humanite.presse.fr/journal/1999-05-15/1999-05-15-289600
Corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
225
GUERRA/TERRORISMO
C'è dunque bisogno di un grande sforzo analitico per comprendere che cosa sono e
che forme hanno assunto le guerre o i conflitti armati nel mondo contemporaneo.
Un contributo all’analisi della guerra contemporanea sulla base dello strumentario
teorico critico offerto dalle scienze sociali potrebbe partire, a mio avviso, recuperando
il concetto di “fenomeno sociale totale” proposto da Marcel Mauss nel suo celebre
“Saggio sul dono”. In altre parole suggerisco di smettere di guardare la guerra come
un evento saltuario o accidentale, che si presenta in determinate occasioni e a
determinate condizioni, o che può essere delimitato in maniera semplice e chiara. Per
cambiare veramente prospettiva, per provare a vedere le cose da un altro punto di
vista, dovremmo piuttosto cominciare a guardare la guerra nella nostra società
contemporanea come un “fatto sociale totale” ovvero un fenomeno complesso
attraverso il quale si può leggere e interrogare tutta una società, una cultura e un
tempo nel suo insieme, nelle sue dimensioni più profonde. Essa va letta cioè come un
fenomeno che esprime e che permette di rileggere in filigrana ogni specie di
istituzioni: economiche e produttive, finanziarie, politiche, giuridiche, religiose,
educative, familiari. La guerra va letta non nella sua dimensione “événementielle”
(cronachistica) ma nelle sue connessioni più profonde e meno visibili con la normalità 226
della produzione culturale, sociale, economica e politica di una società. Dobbiamo
evidenziare i legami visibili e invisibili tra attività bellica e modelli di produzione e
consumo, tra produzioni culturali e produzioni materiali, tra iniziative economiche e
conseguenze politiche, tra ideali di sviluppo e forme di sradicamento culturale e
politico, tra rappresentazioni ideali come democrazia e diritti umani e forme di
disconoscimento delle alterità culturali. In altre parole proprio perché la guerra si
(di)spiega attraverso tutte queste dimensioni è più difficile di quanto si creda
“ritagliare” l’oggetto guerra dalla normale realtà che ci circonda. Una realtà che
illusoriamente ci appare pacifica e rassicurante perché fatta di mille oggettivazioni
conosciute, di beni materiali, come di istituzioni, di immagini come di abitudini,
professioni e mansioni burocratiche che diamo naturalmente per scontate e di cui non
afferriamo il “doppio oscuro”, l’altra faccia, negativa e inquietante. In senso analogo è
molto più difficile contornare una guerra in termini temporali. In passato la guerra era
pensato come elemento transitorio che poteva essere indicato mediante una cornice
temporale: una data d’inizio certa ed una conclusione. Per quanto riguarda il sud del
mondo, molte guerre (si pensi da questo punto di vista alla Palestina, all’Afghanistan,
al Corno d'Africa, alla Colombia, al Burundi, all'Iraq) si allontanano sempre di più dalla
forma dell’evento transitorio, per divenire una condizione cronica, uno stato contenuto
ma continuo di belligeranza e di violenza; mentre per quanto riguarda le democrazie
occidentali - Stati Uniti ed alleati – la guerra rischia di diventare non più l’elemento
eccezionale di discontinuità ma l’attività dominante che si dipana da un paese all’altro
- dall’Iraq alla Libia, dall’Afghanistan alla Siria – in un conflitto permanente per
l’egemonia politico-economica mondiale, contro gruppi terroristi, stati "canaglia" o
"stati falliti", potenze rivali emergenti.
Oggi la guerra può essere vista attraverso la stessa immagine che adoperava
Arendt per parlare in termini più generali del male, ovvero un fungo che estende le
sue spore dappertutto. La guerra contemporanea ha oramai travalicato decisamente la
sua arena tradizionale per invadere ogni dimensione dell’esistente dal punto di vista
spaziale, temporale, materiale. Si dispiega in ogni ambiente naturale, sulla terra, nel
cielo, nei mari, ma anche nello spazio extra-atmosferico e prossimamente – potete
scommetterci - sulla Luna, su Marte e sugli altri pianeti; attraversa ogni ambiente
materiale e tecnologico, dallo spazio urbano della città bombardata, alla mediosfera
delle telecomunicazioni al campo virtuale del cyberterrorismo, o della guerra
finanziaria; impregna sempre di più ogni spazio sociale, dall’informazione, alla
comunicazione, dall’economia alla politica, dalla cultura alla psicologia; colpisce la vita
in ogni sua forma e dimensione, attraverso i germi, l’aria, l’acqua, il cibo; imprime il
proprio marchio su ogni generazione: su quella attuale innanzitutto, sulla prossima se
pensiamo all’infanzia martoriata dai conflitti, sulla successiva se pensiamo allo stupro
di guerra, o ancora più in là nel tempo sulle generazioni future che si dovranno
confrontare con l’esaurimento delle risorse fossili, i guasti della Guerra ambientale, la
devastazione dell’ambiente, l’inquinamento chimico e radioattivo. Può sembrare
eccessivo, ma basta consultare i documenti strategici o i testi di teoria militare più
recenti per comprendere che questa lunga lista non è frutto di fantapolitica, ma la
semplice registrazione della realtà e delle più recenti proiezioni strategiche delle
dottrine militari. Non si era mai visto in precedenza nella storia umana un estendersi
così ampio della guerra sull’esistente.
Se è vero – come è stato notato – che «il modo in cui creiamo benessere
economico e il modo in cui creiamo la guerra sono inestricabilmente connessi» (Toffler
A., Toffler H., 1994, p. 86), oggi come non mai la trasformazione delle forme di
produzione e delle forme di distruzione impedisce oggi di distinguere chiaramente la
pace dalla guerra, l’attività bellica dai normali processi socio-economici, i soldati dagli
operatori economici o dai semplici vicini di casa, il bottino di guerra dagli oggetti
personali che indossiamo o consumiamo (automobili, gioielli, cellulari…), le armi dagli 227
strumenti normali e quotidiani della vita di ciascuno di noi (computer, aerei, treni,
metropolitane, satelliti…). Tutto insomma viene pian piano “impregnato” e riplasmato
attraverso le logiche della guerra. Come hanno sottolineato profeticamente due
colonnelli cinesi, un bel mattino la gente si sveglierà scoprendo con stupore che
alcune cose gentili e carine, quelle più ordinarie e vicine, hanno cominciato ad
assumere caratteristiche offensive e letali, sino a divenire vere e proprie armi rivolte
contro di loro. Armi da cui è difficile se non impossibile difendersi (cfr. Liang, Xiangsui,
2001, p. 59). Dunque la nuova guerra, quella che questi Lina e Xiangsui chiamano
“guerra senza limiti”, non va pensata più nei termini tradizionali. Essa si sviluppa sia
nel senso dell’utilizzo di risorse militari a fini non direttamente bellici, ma ancora di più
nell’uso a fini bellici di risorse non direttamente militari. Dunque se la violenza militare
tradizionale può perfino andare incontro a una relativa riduzione, dall’altra parte si
può prevedere una decisa crescita della violenza civile, terroristica, politica,
economica, tecnologica. Quello che abbiamo visto con il terrorismo contemporaneo e
come l’intero nostro mondo materiale, tecnologico, virtuale possa essere letteralmente
rivolto contro di noi. Questa nuova violenza è insidiosa perché nasce dal paesaggio
ordinario che credevamo addomesticato e sotto il nostro controllo, qualcosa di innocuo
insomma, mentre oggi riconosciamo invece che può anche assumere un segno
negativo. La nostra estrema dipendenza da tutto questo paesaggio materiale e
tecnologico è dunque anche la condizione della nostra estrema vulnerabilità.
Dal punto di vista delle innovazioni strategiche, secondo Liang e Xiangsui, i nuovi
principi della guerra non sarebbero più semplicemente quelli di usare la forza delle
armi per costringere il nemico a sottomettersi ai propri voleri, ma come abbiamo
visto, quelli di usare tutti i mezzi, inclusa la forza delle armi e sistemi di offesa militari
e non-militari e letali e non letali per costringere il nemico ad accettare i propri
interessi.
E tuttavia perfino questa acuta ridefinizione della guerra, forse la più sottile e
avanzata prodotta in ambito militare, nasconde ancora una parte rilevante della
comprensione del fenomeno guerra contemporaneo.
In effetti l’aspetto fondamentale da capire da questo punto di vista è che proprio
perché siamo di fronte non solo a una “guerra senza limiti” ma a quello che sulla
scorta di Mauss abbiamo definito un “fatto sociale totale”, il significato ultimo della
guerra non risiede solamente nell’imporre il proprio interesse al nemico, e nemmeno
solo nell’imporre un certo ordine più o meno gerarchico nelle relazioni internazionali,
ma anche in quello di imporre un ordine sociale e politico determinato al proprio
interno, nel proprio paese. La guerra, e ancora di più la guerra nella sua versione
attuale, è una forma di violenza che tende a “mettere in ordine” la realtà,
contemporaneamente all’esterno e all’interno, e a conformare la società alle sue
esigenze. La guerra si impone anche come progetto di società all’interno dio ogni
paese molto più che in passato. Come ha notato Barbara Ehrenreich
«possiamo [...] che tecnologie e stili bellici simili creano nelle culture umane
esigenze simili, e che tali esigenze tendono a imporre una sorta di uniformità a
settori dell’agire umano apparentemente distanti dall’impresa bellica in sé.
Contrariamente a quanto pensava Marx, non sono tanto i “mezzi di produzione” a
modellare le società umane, ma anche e soprattutto i “mezzi di distruzione”»
(Ehrenreich, 1998, p. 133).
Dunque la nostra civiltà, il nostro sistema politico e materiale sono sempre più
impregnate di violenza e plasmate dalla guerra e nemmeno ce ne rendiamo conto.
Non riusciamo ancora ad immaginarci fino in fondo la dimensione e l’estensione che
sta assumendo la guerra e la violenza nel nostro pianeta e nella nostra quotidianità.
Una delle difficoltà a questo proposito è che non riusciamo a riconoscere le 228
connessioni tra tutti gli aspetti del quadro attuale. Ci manca la capacità di leggere ogni
aspetto non a sé stante ma come nodo di una rete più vasta con una sua fisionomia
definita.
103
Questa tipologia di guerre a rete corrisponde alla dizione di “nuove guerre” nella terminologia specifica
di Kaldor. Si vedano in proposito Kaldor, Vashee, 1997 e Kaldor, 1999.
estremizzare e mobilitare le emozioni, per ridefinire e radicalizzare le appartenenze in
modo da garantirsi una base di sostegno politico per i propri progetti. In altre parole, 229
come sottolinea Mary Kaldor, la guerra stessa è una forma di mobilitazione
politica (Kaldor, 2004 p. 133). La creazione artificiale di un’opposizione noi-loro è
uno degli obiettivi della violenza e della guerra nelle sue prime fasi.
9.Rapporto tra pace e guerra. Una delle caratteristiche più importanti che si può
registrare nelle nuove guerre (o nella forma assunta da guerre di antica data) è lo
sfumarsi del confine tra pace e guerra, diversamente dal passato, dove la distinzione
tra tempo di pace e tempo di guerra era piuttosto marcata. La guerra cominciava con
una dichiarazione, con un attacco o con un’invasione, e si concludeva con una
dichiarazione di pace e con il ritiro delle truppe. Oggi la guerra non ha un tempo
preciso. Può iniziare in modo serpeggiante o esplodere all’improvviso senza alcuna
avvisaglia. Può continuare per lunghi anni alternando momenti di calma a riprese del
conflitto. Può cronicizzarsi in una forma di conflitto a bassa intensità. Con questo non
si intende guerre meno violente, o meno devastanti, ma solamente che la violenza
non è concentrata su un fronte, ma è diffusa, molecolare e intermittente. Il campo di
battaglia può essere dovunque e in ogni momento. La distinzione tra combattente e
non combattente si va sfumando, e diventa più difficile distinguere amici e nemici.
Questi conflitti possono terminare con una forma di pace armata e piena di
tensione. Anche una volta firmati i trattati di pace, molto spesso, la violenza riprende
il suo corso. In diversi paesi rimangono sul terreno contingenti internazionali, in altri
le basi militari straniere divengono una presenza stabile. Il risultato è che molti paesi
vivono in una zona grigia tra la pace e la guerra per molto tempo (si possono fare
numerosi esempi: Palestina, Sudan, Kurdistan, Uganda, Colombia, Somalia, Algeria,
Burundi, Afghanistan…). Dunque, se queste nuove guerre non si presentano più con
un inizio certo e/o con un termine chiaro e definito esse assumono piuttosto la forma
di una minaccia o di una tensione costante. Questa situazione di emergenza
permanente può essere utile sia in termine di profitti economici, per un maggior
controllo delle risorse, che in termini politici, per mantenere definitivamente irrisolta
una problematica spinosa. Quale che sia la ragione, da un punto di vista temporale la
guerra è sempre meno un evento e assomiglia sempre di più ad una condizione
strutturale. Dunque non più un tempo di guerra ma uno stato permanente di guerra.
Al Qaida, Boko Haram, Daesh, Isis… negli ultimi anni ci siamo abituati ad
identificare il terrorismo con questi nomi. Ovviamente queste organizzazioni non
hanno "inventato" il terrorismo - che di per se ha una lunga storia - ma certamente
l'hanno portato ad un livello senza precedenti. 231
Cerchiamo dunque intanto di capire quali sono le caratteriche e gli elementi
identificanti del terrorismo. La caratteristica fondamentale non riguarda il soggetto
responsabile dell’atto di violenza. In effetti possono rendersi responsabili di atti
terroristici sia soggetti istituzionali e statali, che parti devianti dell’apparato statale,
che gruppi politici subnazionali, che organizzazioni criminali, o anche singoli individui.
Dirimente non è certamente il livello e la tipologia della violenza. Né si può
richiamare un grado diverso di moralità tra guerra e terrorismo. Ci sono forme di
guerra convenzionale o di repressione che producono forme di violenze più terribili e
disumane di quanto non possa fare un’organizzazione di terroristi. Nemmeno
l’elemento dell’efferatezza è dirimente. Ci sono terroristi che portano a termine il loro
obiettivo freddamente, quasi burocraticamente, senza un’evidente crudeltà o un
godimento per lo spettacolo della violenza. Viceversa si può ritrovare una notevole
dose di efferatezza tra i soldati dei paesi più sviluppati del mondo.
Per quanto gli atti di terrorismo siano generalmente associati alla scelta di obiettivi
civili, tuttavia nemmeno l’oggetto della violenza – preso isolatamente – sembra
permettere una distinzione chiara tra guerra, terrorismo e crimine comune.
Certamente si può comprendere meglio il terrorismo se lo si pensa come
un dispositivo, o una strategia, volta non solo a colpire i civili o i non
combattenti, ma a diffondere un panico e un caos generalizzato. Mediante
l’interruzione e la minaccia costante si intende destabilizzare il campo avversario e
impedire il lo svolgimento normale della vita civile o l’assunzione di scelte politiche in
piena autonomia. Il terrore, il panico si creano nel momento in cui si comincia con il
percepire la propria nudità e fragilità, il proprio essere profondamente vulnerabili.
Questo dispositivo di produzione di panico ottiene il massimo risultato quando si
determina un senso di timore verso le cose più familiari: metropolitane, arei, treni,
shopping center, cinema, locali, teatri. Quando non c’è più uno specifico target, ma
ogni luogo e in ogni momento, può divenire bersaglio. Da questo punto di vista non
solo una serie di attentati dinamitardi o di attentati kamikaze ma anche un
bombardare indiscriminatamente una città, bersagliare una campagna o un territorio
con bombe a grappolo, o attaccare ripetutamente dei centri abitati distruggendo
abitazioni e picchiando o colpendo gli abitanti andrebbero definiti forme di terrorismo.
In ultima analisi infatti, lo scopo di questi interventi è il medesimo, rendere
impossibile la vita ad una popolazione o impedire qualsiasi forma di discussione
politica al di fuori di una lotta senza quartiere.
Dunque se vogliamo capire qual è la specificità del terrorismo islamico
possiamo per prima cosa indicare il suo carattere transnazionale. La maggior parte
delle realtà terroristiche che conosciamo sono di carattere nazionale o regionale.
Anche se si basano su reti di supporto di carattere transnazionale, i loro obiettivi sono
fondamentalmente locali. Gli obiettivi e il teatro di azione dell’Ira in Irlanda, dell’Eta in
Spagna, delle Tigri Tamil in Sri Lanka, dell’Olp e di Hamas in Palestina, erano ben
definiti. Viceversa, se si vuole comprendere la specificità del terrorismo di matrice
islamico, questa andrebbe ricercata nell’evoluzione che ha subito negli ultimi anni
verso un movimento di carattere globale.
Questo non vuol dire che non abbia un radicamento in territori e comunità locali.
Come la rapida espansione di movimenti terroristici in Africa, nel Maghreb e nel Medio
Oriente ha permesso di comprendere, il terrorismo non ha una natura solamente
militare. In particolare negli ultimi anni la forza di questi movimenti si è definita
attraverso un radicamento sociale ed economico, perché nelle comunità sono state
organizzate forme di sostegno alle famiglie, si sono assicurati i servizi fondamentali, e
una certa condizione di vita. Insomma un modello di amministrazione caratterizzato
da autoritarismo politico, fondamentalismo religioso e tutela sociale. Come è stato
notato, se Al Qaida funzionava come un'azienda del terrore in franchising, l'Isis si è
data invece un'organizzazione territoriale con un suo sistema di welfare. 232
Un elemento importante da comprendere è che il terrorismo fondamentalista
non è un ritorno alla barbarie ma piuttosto un prodotto della modernità. Molti
studiosi e commentatori, e fra tutti in particolare John Gray (2004), hanno
giustamente sottolineato che contrariamente alla retorica dominante che dipinge il
terrorismo di matrice islamica come una minaccia alla civiltà occidentale ed un ritorno
alla barbarie, in realtà Bin Laden, e la rete che chiamiamo impropriamente “Al Qa’ida”
è in realtà a pieno titolo un frutto – se pur ibrido - della modernità occidentale. Gli
elementi “moderni” di questa rete terroristica sono diversi.
Anzitutto emergono sul piano dell’ideologia. L’idea che attraverso “atti di
terrore” si possa dar vita ad un “nuovo mondo”, deriva dalla tradizione
rivoluzionaria e dall’anarchismo europeo e non certo dalla tradizione
islamica. Da queste tradizioni il movimento islamico che abbiamo identificato in Al
Qa’ida prima e nell'Isis poi, ha desunto la convinzione “che il mondo possa essere
trasformato da atti di terrore spettacolari” (Gray, 2004). Tale idea è una fede nata e
cresciuta esclusivamente nell’alveo occidentale anche se poi si è certamente diffusa
altrove:
Altri aspetti di questa "modernità" possono essere riconoscibili nel fatto che i network
terroristici hanno costruito un consenso in quei paesi e in quegli agglomerati urbani
rimasti marginali e delusi dalle promesse dei processi di sviluppo e di integrazione
occidentali.
In questo senso ci sono altri elementi che pur non essendo in assoluto invenzioni o
peculiarità di questo terrorismo sono diventati comunque tratti caratteristici di questi
gruppi. In particolare mi referisco all'ampio impiego delle nuove tecnologie digitali,
informatiche, visuali, all'importanza della comunicazione e alla scelta di un terrore
portato nei luoghi della vita quotidiana in maniera sistematica.
Il web è diventato il principale luogo di comunicazione, indottrinamento e perfino
reclutamento dei nuovi adepti di questi gruppi. Siti, documenti, video, giornali online
trovano nel Deep Web un ambiente ideale per diffondersi.
La violenza terroristica ha colpito in questi anni molti luoghi della vita e della
socialità quotidiana - stadi, teatri, concerti, ristoranti etnici, bar, mercati, siti o
villaggi turistici - assai più che installazioni militari o istituzionali. Il terrore mira non a
sconfiggere un'avversario ma a insuare e installare la paura dentro alla psicologia
quotidiana.
In più la violenza viene esplicitamente ripresa, mostrata, esibita, ritrasmessa
attraverso foto, video e filmati producendo una forma di "pornografia della
violenza" che trova un terreno fertile non solo nel web ma anche nella televisione.
Qual è il significato di questa violenza terroristica apparentemente indiscriminata?
Da una parte può essere letta in termini di risentimento verso l'occidente, verso i
paesi occidentali ritenuti direttamente coinvolti o complici di azioni di guerra e di
regimi autoritari in diversi paesi.
Dall'altra c'è probabilmente il tentativo di creare uno sconvoglimento complessivo
delle forme e dei modi di vita occidentali, rendendo impossibile la tranquilità,
instillando la paura e l'odio.
Infine si tenta certamente di fomentare reazioni simmetriche da parte delle
istituzioni e delle popolazioni locali in funzioni anti-Islam. L'instaurazione di uno stato 233
di emergenza, se non di uno stato di eccezione, la restrizione delle libertà civili,
l'insaprimento della diffidenza e dei pregiudizi verso la popolazione immigrata, così
come le rappresaglie militari non sono affatto effetti accidentali di queste azioni
terroristiche ma sono piuttosto elementi precisi di una strategia che intende
polarizzare sempre di più lo scontro sia a livello globale che locale nella logica
ideologica dello scontro di civiltà, togliendo terreno e spazi di movimento alle forze
moderate e democratiche.
In questo contesto nel quale la semplificazione è il mezzo per produrre
polarizzazione e radicalizzare lo scontro è importante contrastare le spiegazioni e gli
schemi semplicistici.
In particolare è importante comprendere criticamente il ruolo e l'uso delle
identità religiose che si fa in questi contesti. Occorre cioè evitare luoghi comuni
simmetrici che dicono che la violenza nasce dalle religioni o viceversa che questa
violenza non ha nulla a che fare con le religioni.
Da una parte occorre infatti riconoscere che le religioni non esistono nel vuoto, ma
si sviluppano in rapporto a condizioni storiche, sociali, a rapporti di potere, a rapporti
economici ecc... Non esiste un'espressione "pura" o "vera" della religione aliena da
contesti e condizioni date. Questo significa che le religioni possono essere usate e
interpretate diversamente a seconda dei momenti e degli obiettivi di un contesto di
persone. Le stesse realtà religiose possono in certi momenti allearsi con o divenire
esse stesse poteri economici, politici, militari e in altri predicare l'uguaglianza, la
tolleranza, la difesa dei più deboli ecc..
Non a caso molte tradizioni religione hanno conosciuto espressioni o giustificazione
della violenza, della guerra o del terrorismo. Senza bisogno di andare a scomodare
crociate o l'evangelizzazione forzata nelle americhe, possiamo facilmente riconoscere
l'esistenza di un terrorismo di ispirazione cristiana (e a sua volta cattolica e
protestante), ebraica, islamica, induista e perfino buddista in diversi paesi e momenti
storici del secondo dopoguerra.
Riconoscere una responsabilità delle religioni significa anche riconoscere
l'importanza dei conflitti "interni" alle appartenenze religiose (si pensi allo scontro tra
cattolici e protestanti in Irlanda o tra sciiti e sunniti in diversi paesi arabi) e
l'importanza delle correnti che si oppongono alla violenza dentro ciascuna tradizione e
che magari sono esse stesse vittime di quella violenza. Il terrorismo è sempre stato
uno strumento usato dalle minoranze per imporsi più che un'aspetto condiviso.
Occorre notare a questo proposito, che la maggior parte delle vittime del terrorismo
fondamentalista islamico (in Iraq, Libia, Siria, Mali ecc…) sono altri credenti
musulmani.
Più che essere utilizzate per spiegare l'origine della violenza, le appartenze religiose
andrebbero spiegate come potenti strumenti di mobilitazione e produzione di
consenso anche (e forse soprattutto) laddove l'obiettivo è in realtà principlamente di
tipo economico, politico. È più facile produrre risentimento e ribellione nella misura in
cui si riesce a far credere che determinati problemi, ingiustizie o manzanze derivino da
una discriminazione di una specifica cultura, religione, etnia.
Le forme che ha assunto la violenza nei conflitti contemporanei, con le nuove
guerre e i nuovi terrorismo costituiscono una sfida radicale non solo per le ragioni
della pace ma per l'esistenza stessa delle società e delle città come luoghi di incontro
e convivenza.
Per certi versi dobbiamo fare i conti con un doppio scacco, quello del militarismo e
quello del pacifismo. Da situazioni come quella dell'Iraq, della Libia, della Siria,
dovremmo imparare che le azioni militari sono strumenti che producono una
moltiplicazione e una cronicizzazione della violenza più che una sua risoluzione.
Come ha scritto Loretta Napoleoni
234
«l'intervento straniero non arresterà la destabilizzazione della regione - non lo ha
mai fatto mai lo farà - e che è indispensabile un approccio diverso, più
pragmatico, per impedire altri morti e altre distruzioni. Questo approccio deve
prendere atto dell'esistenza di una nuova potenza nella reigone riconoscere che
l'uso della guerra pre procura è una strategia destinata a ritorcersi contro chi vi
ricorre. Di conseguenza, tale approccio deve cercare di contrastare questa nuova
potenza usando altri strumenti, differenti dalla guerra» (Napoleoni, 2015, pp.
116-117).
D'altra parte di fronte alla forma che hanno assunto la violenza e il terrorismo e alla
compenetrazione con le logiche dell'economia e del mercato globale, è impensabile
rispondere con un generico richiamo alla pace e alla buona volontà. Occorre essere
consapevoli del peso della forza senza per questo venerarla, dell'impatto della
violenza senza rispondere sullo stesso piano significa innanzitutto imparare a
riconoscere e ad affrontare i conflitti prima che diventino distruttivi.
In particolare costruire relazioni locali e internazionali più pacifiche richiede grandi
capacità politiche e relazionali e la disponibilità a mettersi in discussione e ad operare
significativi cambiamenti che concretamente magari significano la riduzione e non
l’ampliamento delle proprie libertà e dei propri vantaggi. Presuppone fra l’altro una
crescita della capacità di immedesimarsi nella sofferenza e nelle difficoltà di persone
lontane nello spazio e nel tempo, la rinuncia ad approfittare degli strumenti e della
forza di cui si dispone per imporre i propri interessi ad altri soggetti, e in senso più
ampio l’interiorizzazione di un senso del limite che nel mondo attuale è un articolo
sempre più raro.
L’insegnamento che mi sembra importante cogliere di fronte alla situazione attuale
è che l’aumento della potenza distruttiva, della velocità e della globalizzazione della
violenza, sia nella forma della guerra che del terrorismo, generano una crescente
vulnerabilità e che è illusorio proteggersi da questa vulnerabilità innalzando dei muri
fisici o simbolici. È illusorio cioè credere di salvarsi o di proteggersi tirandosi fuori dalla
relazione, impedendo l’incontro. Dovremmo muoverci piuttosto lungo l’asse opposto,
la moltiplicazione delle relazioni. Solo la relazione, la qualità di questa relazione, la
pratica quotidiana di un conflitto non distruttivo, può accrescere la consapevolezza e il
rispetto della vulnerabilità degli altri e di noi stessi. Questa è l’alternativa che abbiamo
di fronte: armarci e combattere all’infinito contro ogni possibile nemico o cercare di
costruire relazioni basate sulla fiducia e sul rispetto.
In altre parole l’alternativa alla guerra permanente non è la pace perpetua ma
solamente una condizione intrinsecamente fragile e incerta di non ostilità
costantemente nutrita da politiche di relazionalità, condivisione, ospitalità, gestione
creativa dei conflitti.
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