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1.

CULTURA/CULTURE

Francesco Remotti, Il concetto di cultura in antropologia

- Concezioni diverse di “cultura”

Esistono due concezioni fondamentalmente diverse di “cultura”:

1. classica e tradizionale  afferma e propone un ideale di formazione individuale; indica un


dover essere per alcuni individui di alcune società
2. moderna e scientifica, fatta valere dalle moderne scienze sociali  illustra una condizione
che riguarda i membri di qualsivoglia gruppo sociale

si può affermare che la differenza essenziale tra la concezione classica e quella moderna è data
dall’assenza o dalla presenza dei costumi come contenuti specifici della cultura. Se la cultura in
senso classico era costituita da ideali, verità e valori non condizionati dai mores (costumi), e se la
sua acquisizione coincideva con una liberazione dagli abiti e dalle consuetudini locali, la cultura in
senso moderno è invece costruita dai costumi, e un’analisi in termini culturali comporta il
riconoscimento della loro importanza e della loro incidenza in una molteplicità di ambiti del
comportamento umano.

Seconda metà del Settecento -> l’Europa sta completando il proprio giro attorno al mondo

Concetto etnografico di cultura che emerge dalle zone filosoficamente marginali del pensiero
tedesco:

Tra i pensatori per i quali le relazioni di viaggio si configurano come fonti imprescindibili per la
considerazione del mondo umano nelle sue varie forme, la figura di maggior spicco sotto il profilo
dell’elaborazione del concetto moderno e poi antropologico di cultura è senz’altro Johann
Gottfried Herder. Tipico di Herder è il desiderio di rimanere “costantemente in una sorta di viaggio
attraverso gli uomini”, raccogliendo le informazioni da ogni parte della terra e il rifiuto della
troppa filosofia di coloro che vogliono ritrovare “in un piccolo angolo della terra il mondo tutto”.
Alla base di questi atteggiamenti vi è la percezione della pluralità irriducibile delle “forme di vita”
che l’umanità può assumere, e quindi l’improbabilità della “cultura” in senso classico – la cultura
della comunità dei dotti – come modello esclusivo e, nello stesso tempo, universale di umanità.

La prima definizione organica in senso antropologico si deve all’inglese Edward B. Tylor:

La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include
la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e
abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società”.

- Abiti, costumi, esteriorità

Costumi e abitudini hanno contribuito a determinare il contenuto del concetto etnografico e


antropologico di cultura

Contenuti del concetto di cultura -> le origini etnografiche di questo concetto hanno portato a
individuare come contenuti della cultura soprattutto i costumi, ovvero quegli aspetti o dimensioni
del comportamento umano che sono sì dotati di regolarità – nel senso almeno della ripetitività – ma
di una regolarità variabile, nel senso che è tipico dei costumi variare da luogo a luogo e da tempo a
tempo, ossia tra società e società e, all’interno di una stessa società, tra i momenti diversi della
sua storia. Significativamente, nella definizione tyloriana troviamo in posizione centrale e critica
proprio la nozione di costume, ed è questa nozione, insieme a quella strettamente imparentata di
“abitudine”, ciò che, dal punto di vista dei contenuti, costituisce l’innovazione semantica più
decisiva rispetto al concetto tradizionale e classico di cultura.

Avvicinamento e fusione tra il concetto di cultura e il concetto di costume-abitudine hanno


prodotto un inglobamento dei costumi nella cultura. Da diversi decenni non si impiega più “usi e
costumi”, soppiantata dal ricorso al concetto di cultura.
I costumi danno alla cultura un insopprimibile significato di esteriorità. Anche la cultura, nella sua
accezione originariamente etnografica e poi antropologica, è qualcosa che, proprio per la sua
variabilità, l’uomo indossa.

L. Kroeber -> esteriorità della cultura

Fin dalle sue manifestazioni più rudimentali e primitive la cultura si configura come un insieme di
forme e processi che si collocano tra gli organismi umani e il mondo esterno.

Per Kroeber il carattere esteriore della cultura si oppone al carattere interiore dell’istinto -> la
cultura, in quanto tradizione, è qualcosa che viene “dato attraverso”, passato di mano in mano
dall’uno all’altro.

- Il differente peso della cultura e la sua imprescindibilità biologica

Gli studi più recenti sulla teoria della cultura mantengono l’idea della sua esteriorità ma rifiutano
la concezione stratigrafica.
Clifford Geertz → una volta la natura umana era pensata come nascosta dai costumi, i quali erano
ostacoli da rimuovere per cogliere l’umanità nella sua purezza. Nella prospettiva di Kroeber i
costumi non sono più usanze senza senso ma sono inseriti ordinatamente in una cultura. Gli sviluppi
più recenti della teoria antropologica predicano l’impossibilita di cogliere l’uomo nella sua purezza
originaria avulso dai costumi. I costumi foggiano le realtà che sono gli uomini nelle loro differenze
culturali. I costumi sono la vera seconda natura umana in cui va ricercata l’essenza dell’uomo.
L’essenza uomo viene resa compatibile con la variabilità.
Essere uomo = pluralità di forme particolari.

Esteriorità della cultura non è segno della superficialità dei costumi.


Nel suo spazio variegato ed esterno si decide ciò che gli uomini sono.
Dagli studi paleoantropologici ci si è resi conto che gli ominidi possedevano qualche forma di
cultura nonostante il loro cervello fosse un terzo di quello attuale di un uomo.
Conclusione: più corretto considerare gran parte della nostra struttura fisica come il risultato della
cultura e non pensare a uomini anatomicamente simili a noi che pian piano scoprono la cultura.
La cultura quindi interverrebbe prima che l’evoluzione biologica ci consegni l’uomo attuale.
Il rapporto fra evoluzione organica ed evoluzione culturale quindi deve essere pensato in modo
meno semplicistico.

Leroi–Gourhan → giunge a una conclusione simile a quella di Geertz: secondo la visione


stratigrafica il cervello ha una posizione prioritaria rispetto alla formazione della cultura. Secondo
lui invece il cervello sarebbe nelle ultime posizioni dello sviluppo organico. Segue il movimento
generale dell’organismo non ne è l’istigatore.
Dall’inizio della posizione eretta allo sviluppo del cervello umano attuale c’è un lungo periodo in
cui gli ominidi sfruttano le mani libere per la costruzione di utensili.
Anche il linguaggio e riconducibile alla posizione eretta: essa ha liberato le mani, e le mani hanno
liberato la bocca dall’attività di prensione permettendo lo sviluppo della parola.

Quindi lo sviluppo cerebrale che caratterizza l’evoluzione umana e avvenuto in un ambiente già
culturale.
Modello interattivo (vs. visione stratigrafica) → la cultura e vitale, non è un’esteriorizzazione di cui
si potrebbe fare a meno. Non è solo utile per una specie fisicamente inerme quale e l’uomo. È
indispensabile per l’uomo, e la base della sopravvivenza biologica dell’uomo.

- Simboli condivisi

Modello interattivo di Clifford Geertz* *saggio p.87

Il modello interattivo intende la cultura non soltanto come strumentalità, ma anche e forse
soprattutto, come simbolismo: la cultura incide nella vita dell’uomo e si configura come
“prerequisito” della sua esistenza biologica, psicologica e sociale in virtù non soltanto
dell’apparato tecnologico che sa fornire, ma anche della sostanza simbolica di cui è composta. Il
simbolismo della cultura è la qualità più precipua dell’ambiente in cui gli esseri umani e il loro
cervello si sono formati e continuano a svilupparsi.

Questo modello sottolinea fortemente il carattere della cultura come ambiente vitale degli esseri
umani, ma proprio in base al presupposto dell’interazione ritiene altresì che questo ambiente
impregnato di simbolismo sia a sua volta il prodotto, per molti aspetti inconsapevole, degli
organismi umani.

Il modello implica il rifiuto dell’idea dell’uomo come essere naturale che acquisisce o produce in un
secondo tempo la cultura.

L’interazione organismo/cultura implica l’interazione, lo scambio di azioni, informazioni, prodotti.


Ed è nel contesto sociale che si formano tanto i simboli quanto gli individui che li usano. Il
comportamento culturale dell’uomo appare sempre mediato dall’uso di simboli. Il simbolismo rinvia
alla società, giacché esso consiste in una condivisione di accordi, convinzioni, limiti, presupposti,
associazioni e distinzioni, e perché esso affiora come prodotto e come condizione nello stesso
tempo degli scambi o interazioni di cui è fatta la vita sociale. Strettamente coniugati, simbolismo e
vita sociale vanno a collocarsi alle origini più profonde della cultura umana.

La condivisione dei simboli è in effetti la base della vita sociale, la condizione di possibilità degli
scambi e delle azioni all’interno dei gruppi, la giustificazione più profonda della loro identità e
quindi anche il motivo della loro differenziazione culturale rispetto ad altri gruppi sociali.
Condividendo simboli si produce un “noi” e nello stesso tempo si determinano le differenze tra noi
e gli altri, tra il proprio “noi” e quello degli altri.

- Reificazione e precarietà: l’”in più” culturale

“Magia dei simboli condivisi” Roger Keesing

Parlando di “magia dei simboli condivisi” allude al fatto che i simboli condivisi agiscono come
presupposti e come condizioni della vita sociale di un particolare gruppo, in quanto vengono
scarsamente o nient’affatto esplicitati, resi oggetto di riflessione o di analisi: essi rimangono sullo
sfondo, anzi sullo sfondo della coscienza sociale, e vengono perlopiù sottratti, per mezzo della
routine della vita quotidiana, alla presa dell’atteggiamento critico. I simboli condivisi si trovano
infatti nei costumi più inveterati, nelle consuetudini più ovvie, negli atteggiamenti in apparenza più
naturali, a cui di solito non si presta attenzione.

I simboli condivisi non vivono soltanto nell’ombra della quotidianità, nelle azioni, nei pensieri, e nei
sentimenti in apparenza più banali (nelle norme dell’igiene e dell’etichetta, nei gusti
dell’abbigliamento o nel senso dell’ordine a tavola). Essi vengono talvolta esaltati, trasfigurati, resi
più potenti, allorché si conferisce loro una più esplicita realtà sovraindividuale, non solo
proclamando la loro indipendenza, ma sottolineando con rituali e credenze la dipendenza degli
uomini da queste entità. La “magia dei simboli condivisi” è anche questo: la trasposizione di
presupposti in entità che dominano esplicitamente la coscienza individuale, e alle quali ci si
riferisce periodicamente per orientare le azioni proprie e altrui, per motivare le scelte morali della
società, per determinare in qualche modo il futuro. Vi possono essere connessioni profonde tra i più
umili rituali della vita quotidiana e le costruzioni religiose più raffinate e complesse, le quali
insistono sul rapporto di dipendenza degli individui e dei gruppi da entità sovraumane. In un caso e
nell’altro è la potenza dei simboli condivisi che agisce e viene esaltata: naturalizzati nel primo e
sovra-umanizzati nel secondo, i simboli condivisi manifestano il loro potere nella misura in cui
risultano intatti o sono considerati intoccabili.
Questa sottrazione dei simboli condivisi alla presa della consapevolezza e alla manipolazione
sociale fa parte di un processo più vasto variamente denominato come entificazione,
sostanzializzazione, autonomizzazione, reificazione, il quale consiste nel conferimento di simboli di
una condizione di realtà autonoma e indipendente. I rituali e le abitudini della vita quotidiana da
un lato, le cerimonie e le credenze religiose dall’altro, rappresentano esiti particolarmente ben
riusciti del processo di reificazione.
La tendenza alla reificazione – la tendenza a trasformare in cose ritenute indipendenti e autonome
i simboli di cui facciamo - è uno dei caratteri fondamentali della cultura. La reificazione è infatti il
processo che consente di consolidare i simboli condivisi e, salvaguardandoli per quanto si può dal
flusso esperienziale del loro impiego, attribuendo loro un’esistenza a parte e stabile, consente pure
di conferire loro il ruolo di presupposti e di condizioni della comunicazione e della vita sociale.
“trucco delle reificazione”: trasformare i simboli condivisi, dunque eminentemente sociali, in
qualcosa che non ha a che fare con la società.
La reificazione è un processo costitutivo; ma, per quanto vitale, essa non può superare del tutto la
concezione di precarietà che caratterizza nel profondo la sostanza simbolica della cultura.
Altrettanto fondamentale della reificazione, la precarietà accompagna costantemente la
produzione culturale.

- Le variazioni e il mutamento p. 29
- Dilatazioni e sconfinamenti concettuali p. 37

Arjun Appadurai, La dimensione culturale

- L’occhio dell’antropologia
Per Appadurai l’Antropologia è il suo archivio di realtà vissute che ritrova in tutti tipi di etnografie
di persone che hanno trascorso vite molto diverse dalla sua, nel presente e nel passato.
Si trova spesso a disagio con il sostantivo cultura, mentre è assolutamente affezionato alla forma
aggettivale del sostantivo, e cioè culturale. Gran parte del disagio dovuto al sostantivo ha a che
fare con il preconcetto che la cultura sia un qualche oggetto, una cosa o una sostanza, fisica o
metafisica. Questa sostanziazione sembra riportare la cultura nello spazio discorsivo della razza.
L’aggettivo culturale conduce verso il più fertile campo delle differenze, dei contrasti e delle
comparazioni. La qualità principale del concetto di cultura è il suo valore euristico, che le consente
di evidenziare punti di somiglianza e di contrasto tra tutti i tipi di categorie: classi, generi, ruoli,
gruppi e nazioni.
In primo luogo, Appadurai ritiene che piuttosto che considerare la cultura una sostanza, è più utile
considerarla una dimensione di fenomeni, una dimensione che si accompagna alla differenza situata
e incarnata. Se si sottolinea la dimensionalità piuttosto che la sostanzialità della cultura, possiamo
pensare quest’ultima come uno strumento euristico utile per parlare della differenza, piuttosto che
come una proprietà degli individui o gruppi.
In secondo luogo, propone di considerare culturali solo quelle differenze che esprimono oppure
formano la base per la mobilitazione di identità collettive. Questa specificazione fornisce un
generico principio di selezione che consente di concentrarsi su una varietà di differenze che hanno
a che fare con l’identità collettiva, sia all’interno, sia all’esterno di qualsiasi gruppo sociale
specifico.  mette la mobilitazione dell’identità di gruppo al cuore dell’aggettivo culturale.
Sintesi: propone un approccio aggettivale che sottolinea la dimensione contestuale, euristica e
comparativa della cultura che ci orienta al concetto di cultura come differenza, soprattutto nel
campo nell’identità di gruppo.
Tipo di relazione tra cultura e identità di gruppo che Appadurai articola: la parola cultura, nel suo
senso non marcato, può continuare ad essere usare per fare riferimento alle molteplici differenze
che oggi caratterizzano il mondo, differenze a vari livelli, con diverse valenze, e con conseguenze
più o meno ampie in campo sociale. Propone tuttavia di restringere cultura, come termine
marcato, al sottoinsieme di differenze che viene mobilitato per articolare il confine della
differenza. Per quanto riguarda il mantenimento del confine, la cultura diviene quindi una
questione di identità collettiva costituita da alcune differenze tra altre.
Sintesi 2: dalla cultura in quanto sostanza alla cultura in quanto dimensione della differenza, alla
cultura come identità collettiva basata sulla differenza, alla cultura come processo di
naturalizzazione di un sottoinsieme di differenze che sono mobilitate per articolare l’identità di
gruppo.
Culturalismo  Si usa il termine culturalismo per designare un tratto di quei movimenti che
implicano consapevolmente le identità nel loro formarsi. È la politica dell’identità mobilitata al
livello dello Stato nazionale/deliberata mobilitazione delle differenze culturali al servizio di più
vaste politiche nazionali o trasnazionali.

La violenza etnica cui assistiamo in molte zone del mondo è parte di una trasformazione più vasta
che è indicata con il termine culturalismo.
Il culturalismo è spesso associato a memorie extraterritoriali, a volte all’esilio e all’asilo politico, e
quasi sempre a lotte per un maggiore riconoscimento da parte degli esistenti Stati nazionali o da
parte di vari organismi trasnazionali.
I movimenti culturalisti spesso si fondano sugli eventi, reali o potenziali, della migrazione o della
secessione. Sono sensibilissimi ai temi dell’identità, della cultura e dell’eredità. È questa
mobilitazione deliberata, strategica e populista del materiale culturale che giustifica la loro
denominazione come movimenti culturalisti. I movimenti culturalisti, che riguardino afro-americani
negli USA, pakistani in Gran Bretagna, algerini in Francia, nativi hawaiani, sikh o francofoni del
Canada, tendono tutti a essere antinazionali e metaculturali. In senso lato, il culturalismo è la
forma che la differenza culturale tende ad assumere in un’epoca di mediazione di massa,
emigrazione e globalizzazione.
Tim Ingold, Abitare o costruire

Saggio parzialmente autobiografico. Ingold tenta di descrivere i suoi tentativi di trovare un modo
soddisfacente di comprendere le relazioni tra gli esseri umani e l’ambiente. Si occupa in particolare
del significato dell’architettura, o di quella parte dell’ambiente che convenzionalmente si descrive
come “costruito”.

Un ambiente non è mai dato ma è sempre in costruzione. Questo fatto ha delle implicazioni
importanti per le nostre idee sulla somiglianza e le differenze tra gli esseri umani e gli animali, in
riferimento ai modi in cui gli uni e gli altri si costruiscono dei mondi.

In anni recenti ha cambiato idea su alcune cose, e questo è il motivo per cui il saggio è
parzialmente autobiografico. Era sicuro che i modelli sviluppati dagli ecologi e dai biologi evolutivi
per spiegare le relazioni tra organismi e ambiente potessero essere applicati anche agli esseri
umani come alle altre specie, tuttavia gli ea chiaro che questi modelli non lasciavano spazio a ciò
che sembrava la più importante caratteristica dell’attività umana – il fatto che essa è motivata e
intenzionale.  azione umana intenzionale

Significato dell’ambiente costruito: come possiamo distinguere un ambiente che è stato costruito
da uno che non lo è?

Possiamo definire l’ambiente costruito “qualsiasi alterazione fisica dell’ambiente naturale, dal
focolaio alle città, per mezzo di una costruzione umana”. Ma perché i prodotti dell’attività di
costruzione dovrebbero differire di principio dalle costruzioni degli altri animali? In altre parole,
che diritto abbiamo di identificare convenzionalmente l’artificiale con ciò che è “fatto dall’uomo”?

Distinzione ritenuta in precedenza da Ingold cruciale e non problematica, tra progetto ed


esecuzione.

Tesi: immaginiamo la conchiglia di un mollusco, la tana di un castoro e una casa umana. Tutti e tre
sono stati presi come esempio di un certo tipo di architettura. Alcuni autori applicherebbero il
concetto di “architettura” alla sola casa, altri includerebbero la tana del castoro – come esempio di
“architettura animale” – ma escluderebbero la conchiglia, altri accetterebbero tutti e tre gli
esempi.
Ingold sosteneva che la differenza tra tana e casa non sta nella costruzione della cosa stessa, ma
nelle origini del progetto che ne governa la costruzione. Il progetto della tana è incorporato nello
stesso programma che sottende lo sviluppo del comportamento del castoro: il castoro non è il
progettista della tana più di quanto non lo sia il mollusco per la sua conchiglia. È un mero esecutore
di un progetto che si è evoluto, insieme alla morfologia e al comportamento del castoro, attraverso
un processo di variazione e di selezione naturale. In altre parole, sia il castoro, nella sua forma
esteriore e fenotipica, che la sua tana sono “espressioni” dello stesso genotipo. Gli esseri umani
invece sono gli autori dei loro progetti, costruiti attraverso processi di selezione, di selezione
intenzionale di idee. “A differenza della più elaborata costruzione animale, le costruzioni umane
comportano decisioni e scelte, sempre e inevitabilmente, e pertanto comportano un progetto”. È a
questo progetto, argomentava, che ci riferiamo quando diciamo che una casa è costruita, piuttosto
che semplicemente formata. Addirittura, estese questa tesi al dominio degli utensili. Gli strumenti
vengono costruiti laddove ce ne si fa un’immagine prima della loro esecuzione materiale.
Es. pietra che diventa un martello: cooptazione  ci sono due tipi di fare: co-optativo e
costruttivo. Nel fare co-optativo, un oggetto già esistente viene adattato a un’immagine
concettuale di un possibile uso futuro, nella mente dell’utente. Nel fare costruttivo, questa
procedura è capovolta, in quanto l’oggetto viene fisicamente modellato per conformarsi
esattamente a un’immagine preesistente.

Umwelt
Jakob von Uexküll, opponendosi alla biologia meccanicistica del tempo, sostenne che considerare
l’animale come un mero assemblaggio di organi sensori e motori significa dimenticare il soggetto
che usa tali organi come strumenti, rispettivamente per la percezione e l’azione p. 51
Per von Uexküll, l’Umwelt – cioè il mondo costituito dalle attività vitali specifiche dell’animale –
doveva essere chiaramente separato dall’ambiente, nel senso del contesto che circonda l’animale
come esso appare a un osservatore umano esterno. Noi esseri umani non possiamo accedere
direttamente alle Umwelten di altre creature, ma attraverso un attento studio possiamo
immaginare come potrebbe essere. Non è però vero il contrario: l’animale non umano, poiché non
può distaccare la propria coscienza dalle proprie attività vitali, continuamente sprofondato nel suo
Umwelt, non può vedere gli oggetti come tali, perciò essi sono sé stessi.
Es. abitanti di una quercia p. 52
Lo stesso albero figura in modi diversi per i rispettivi Umwelten dei suoi molteplici abitanti. Ma in
nessuno di essi esiste come un albero.
Le differenti percezioni degli umani non sono legate, come lo sono per l’animale, al modus
operandi dell’organismo. Gli esseri umani non costruiscono il mondo in un certo modo in virtù di ciò
che sono, ma in virtù delle loro concezioni delle possibilità. E queste possibilità sono solo limitate
dal potere dell’immaginazione.
Mentre l’animale non umano percepisce gli oggetti in quanto immediatamente disponibili per l’uso,
agli esseri umani essi appaiono inizialmente come fenomeni i cui usi potenziali debbono essere
assegnati, prima di utilizzarli.
2. COMPARAZIONE/ETNOGRAFIA

Ugo Fabietti, Il metodo comparativo

- Comparazione come spiegazione


La comparazione tra culture resta un antico progetto della disciplina. Mettere a fronte istituzioni e
tratti culturali; confrontare usanze e modi di pensare; affiancare costumi e classificare per tipi:
riti, miti, sistemi terminologici di parentela, idee della persona e del cosmo, schemi cognitivi e
tecniche di fabbricazione di determinati strumenti. Tutto, per l’antropologia, può essere
comparato.
Se per antropologia intendiamo un atteggiamento intellettuale volto in maniera sistematica alla
considerazione della differenza culturale e sociale, è abbastanza legittimo ritenere che fu proprio il
progetto comparativo dell’evoluzionismo ottocentesco a inaugurare il cammino dell’antropologia
culturale e sociale.
Nesso che lega comparazione e spiegazione. Vi è una concezione della comparazione che si ritiene
finalizzata alla spiegazione dei fatti che sono di interesse per l’antropologia. Proponendosi di
rendere conto di determinati fenomeni, l’antropologia ha lungamente cercato di produrne una
spiegazione in termini di relazioni causali. È vero che la spiegazione di un fenomeno può consistere
nella sua descrizione, ma in antropologia si è perlopiù fatto ricorso alla comparazione.
È mediante la comparazione che gli antropologi hanno cercato di dare delle risposte (cioè fornire
spiegazioni) ai fatti da loro presi in considerazione.

[“cugini incrociati”  in antropologia, si intendono i figli della sorella del padre e quelli del
fratello della madre di Ego
“cugini paralleli”  si intendono i figli del fratello del padre e quelli della sorella della madre
“patrilaterale” o “matrilaterale”  si specifica se il rapporto di parentela passa attraverso il padre
o la madre di Ego]

Studio di Lewis H. Morgan sui sistemi di parentela


Avvocato newyorkese, scrive la prima grande descrizione scientifica di un gruppo tribale
Classificazione dei sistemi di parentela irochesi (popolazione di nativi americani)

E. Durkheim, Regole del metodo sociologico (1895)


Metodo delle correlazioni statistiche o delle variazioni concomitanti -> metodo scientificamente
fondante e fondato della sociologia comparativa
In campo antropologico tale metodo era già stato utilizzato da Tylor in un suo lavoro del 1889. Il
metodo era alla base di una ricerca su circa trecento società finalizzata a stabilire una correlazione
tra alcuni riti relativi al parto, il tipo di discendenza e alcune istituzioni. Lo scopo di questo lavoro
era quello di mostrare, su basi statistiche, che se questi elementi si presentavano congiuntamente
un certo numero di casi era lecito supporre che quando qualcuno di essi veniva segnalato
isolatamente dovevano essere necessariamente presenti anche gli altri.
Tale tipo di comparazione aveva finalità predittive. Infatti il metodo delle variazioni concomitanti
consente, nelle intenzioni di chi lo impiega, di prevedere che, quando un fenomeno varia, varierà
anche quello (o quelli) con cui il fenomeno è statisticamente associato.
Il metodo delle correlazioni statistiche o delle variazioni concomitanti lega quindi intimamente la
comparazione alla spiegazione. Questo metodo ha goduto di notevole fortuna nell’ambito
dell’antropologia, e forse tra tutti gli stili comparativi è quello che più di ogni altro ha contribuito a
consolidare l’idea di antropologia come sapere fondato sulla comparazione.
Lo statunitense George P. Murdock in un’opera fondamentale, Social Structure (La struttura
sociale, 1949) tenta di stabilire, attraverso il campionamento di 250 società, delle
correlazioni/variazioni statistiche tra forme di proprietà, terminologie di parentela e
comportamento tra parenti.
- Comparazioni controllate
Nel 1965 Evans-Prtichard pubblicò un saggio sul metodo comparativo divenuto in seguito assai
celebre. Spostò l’accento sulla ricerca delle differenze. Per lui, più che le somiglianze,
l’antropologia doveva spiegare le differenze. Propende per un’immagine della ricerca antropologica
come metodologicamente più simile alle scienze storiche che non alle scienze naturali. “Forse
dovrei considerarmi più un etnografo prima che un antropologo sociale, visto che sono dell’opinione
che un’adeguata comprensione dei dati etnografici debba precedere qualunque analisi che
pretende di essere seriamente scientifica”.
Propone l’esercizio di un metodo comparativo su scala limitata, che prenda in conto società di un
solo tipo (cacciatori, nomadi ecc.) o tematiche circoscritte.
Nella prospettiva di Evans-Prtichard, la quale rifletteva la crisi ormai in atto del comparativismo
come garanzia di scientificità, si intravede un cambiamento importante nello statuto
epistemologico della stessa dimensione comparativa: essa non è più la condizione di metodo per la
formulazione di leggi generali, ma è semmai uno strumento di migliore comprensione della
specificità sociale e culturale.
La pratica di un metodo comparativo “circoscritto” nelle applicazioni e “limitato” nelle pretese
esplicative era già in atto presso quei ricercatori particolarmente sensibili a una utilizzazione
“critica” degli strumenti metodologici dell’antropologia. Tra questi vi è Sigfried F. Nadel che, in un
breve ma significativo studio sulla stregoneria in quattro società africane, diede un saggio di
comparazione controllata fondata sul principio delle variazioni concomitanti. Qui la comparazione
praticata da Nadel era del tipo esplicativo indicato da Evans-Pritchard, nel senso che il suo autore
non si proponeva di formulare una teoria generale della credenza nella stregoneria in queste
quattro società, ma mirava piuttosto a spiegare le differenze esistenti in questa credenza presso i
popoli presi in considerazione.
Nadel si propone di operare un lavoro di comparazione che tenga conto del contesto, ossia
dell’influenza esercitata da determinate istituzioni apparentemente prive di relazioni con
l’argomento studiato, sulla dinamica di quest’ultimo. Le variazioni concomitanti sono per Nadel le
relazioni tra elementi del contesto che devono essere comprese per poter fornire la spiegazione di
come una credenza quale quella nella stregoneria si presenti in maniera così diversa tra quattro
gruppi africani da lui stesso studiati in periodi diversi.

- Classificazioni politetiche e reti di connessioni

Saggio di Rodney Needham sulle classificazioni politetiche: Polythetic classification: Convergence


and consequences
Rodney Needham ha contribuito a conferire un senso nuovo alla prospettiva comparativa. Egli, già
agli inizi degli anni Settanta, operò uno “smantellamento” della “parentela”. Egli criticò la
pretesa, allora ampiamente diffusa, di poter considerare la nozione di parentela come una nozione
in grado di ricoprire un’area omogenea e definita di fenomeni empirici. Partiva dal fatto che non vi
sono ovunque classi di fenomeni omogenei a cui poter attribuire la qualifica di “fenomeni di
parentela”. Il suo rifiuto deriva dal fatto che ciò che noi chiamiamo parentela non trova
corrispondenze nelle società diverse dalla nostra. Per lui, la tendenza a definire universalmente le
categorie dell’area della parentela (discendenza, matrimonio, incesto ecc.) derivava
sostanzialmente da due fattori: dall’eccessivo “attaccamento” ai fatti empirici da un lato e dalla
accettazione, dall’altro, di un’idea del tutto non realistica di come si formano le classificazioni.
Discutendo del principio della discendenza, Needham rilevava per esempio che in antropologia non
esiste un accordo su che cosa sia una società a discendenza patrilineare. Questo perché, secondo
Needha, “non possiamo accomunare tra loro società per il semplice fatto che esse sono
“patrilineari”, piuttosto questa ampia designazione ha bisogno di essere scomposta nelle funzioni
che la compongono”.
In qualunque società esistono diritti che possono non essere trasmessi concordemente con un
principio sempre identico, nel caso specifico il principio di discendenza patrilineare. Tali diritti, o
“funzioni componenti”, possono essere la trasmissione del nome, della residenza, dell’eredità dei
beni materiali e spirituali appartenenti al gruppo. Ciascuna di queste prerogative può seguire un
modo diverso di trasmissione, per cui noi non potremmo dire che una società è patrilineare oppure
matrilineare solo se tutte queste prerogative fossero trasmesse in base allo stesso principio.
In un lavoro successivo (Polythetic classification: Convergence and consequences) Needham
sostiene che le comparazioni degli antropologi tendono a produrre tipologie solo apparentemente
fondate su classificazioni di tipo monotetico: queste sono classificazioni che nascono
dall’elaborazione di categorie basate sull’assunto che determinate proprietà siano presenti in
maniera costante. Es. caso della discendenza patrilineare p. 72
Di fronte al vicolo cieco rappresentato dalla classificazioni monotetiche sul piano comparativo,
Needham sceglie di considerare ciò che i naturalisti chiamano classificazioni politetiche, ossia classi
composte da individui che non condividono tutti uno o più tratti specifici, ma che ne condividono
alcuni variamente distribuiti.  esempio delle tre società A, B e C p. 72
Queste classificazioni politetiche, che secondo Needham rispondono meglio all’esigenza di una
antropologia che mira a comparare in maniera “debole”, stabilendo connessioni piuttosto che
comparazioni nel senso tradizionale del termine, ricordano le “somiglianze di famiglia” di
Wittgenstein. Le somiglianze di famiglia di Wittgenstein sono proprio quelle che si possono
rintracciare negli individui appartenenti a una stessa famiglia.
Le classificazioni politetiche, secondo Needham, andrebbero utilizzate dagli antropologi con
maggior profitto di quelle monotetiche.
Con Needham pare dunque tramontare ogni possibilità di comparazione, se comparazione significa
accostare tra loro le società “simili” allo scopo di costituire dei “tipi”.

Francesco Remotti, Carmela Pignato e Leonardo Piasere hanno rispettivamente affrontato le


problematiche della comparazione in senso lato, dell’antropologia della scienza e dello studio dei
sistemi di parentela.
Remotti, Noi primitivi, lo specchio dell’antropologia (1980)
Pignato, Arie di famiglia, analogie, modelli: Prospettive teoriche e strategie cognitive nella
scienza e nell’antropologia (1996)
Piasere, Le culture della parentela

Remotti, dopo aver “provato” la prospettiva delle somiglianze di famiglia wittigensteiniane nello
studio dei centri politico-rituali, ha posto al centro della problematica comparativa la dimensione
connessionista che, a suo giudizio, dovrebbe non solo evitare le impasses del comparativismo
classificatorio e tipologizzante, ma assegnare allo sguardo comparativo dell’antropologia una
validità metodica fondamentale.
In Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, secondo Remotti, gli antropologi avrebbero sempre
messo in pratica uno sguardo wittigensteiniano, orientato a cogliere non le analogie e le ricorrenze
in quanto tali, ma i principi che trasversalmente interessano l’organizzazione delle culture e delle
società. Per Remotti vale l’idea di stabilire dei “fasci di relazioni” tra fenomeni, “reti di
connessioni”, che l’antropologia “va tessendo nei più svariati contesti”.
La nozione di “rete di connessione” è per Remotti estremamente feconda in quanto da un lato pone
un freno alla polverizzazione della realtà umana subentrata in risposta al lungo imperio delle
tipologie rigide; e dall’altro ci ricorda che una rete non è una totalità, ma solo una parte di
quest’ultima, e quindi che i “fasci di relazioni” che ni andiamo costruendo nelle nostre descrizioni
delle culture sono “sempre di numero decisamente inferiore a quelli potenzialmente costruibili”.
La fecondità della nozione di rete, in contrapposizione a quella di tipologia, consiste dunque nel
farci percepire che finché riusciremo a stabilire tali reti e tali connessioni il compito
dell’antropologia non verrà meno.
La prospettiva connessionista nasce dallo scettiscismo di fronte alla possibilità di praticare
comparazioni fondate su un’idea di causazione lineare tra elementi e di poter racchiudere la realtà
in tipologie esaustive. Da questo punto di vista il connessionismo, pur non abbandonando un’idea di
oggettività come elemento intrinseco e necessario al discorso antropologico, sposta tale idea sul
versante delle categorie e dei modelli cognitivi, cioè del nostro “vedere come”.

- Comparazione come traduzione


Tentativi compiuti in direzione di una valutazione contestuale dei fenomeni culturali comparabili
hanno portato a forme di comparazione fondate su processi di traduzione. Ogni comparazione che
sia consapevole della dimensione pratica dell’agire umano in contesti specifici finisce
inevitabilmente per imbattersi in un “problema di traduzione”.
Lavoro di “antropologia della parentela” (Description and Comparison in Cultural Anthropology,
1969) di Ward Goodenough. Pur dichiarandosi fedele all’idea di una antropologia come “scienza
comparativa”, si interroga sul senso della comparazione.
Nella sua opera emerge il problema della definizione degli oggetti che si intendono studiare, ma
questo problema rinvia a quello più generale della traduzione dei concetti e della loro descrizione:
chiedersi che cosa sia il matrimonio tra i nayar dell’India o fra i truk della Micronesia è un po’ come
chiedersi: come posso descrivere e definire (chiamare) quel particolare fenomeno che, osservato
tra i nayer e i truk, io sono portato a chiamare “matrimonio”?
Prendendo spunto dall’opera di Murdock, Goodenough esamina la definizione che questi dà di
famiglia nucleare. La famiglia nucleare è per Murdock il gruppo costituito da un uomo, da una
donna e dalla loro prole, ed è una istituzione universale. Per quanto possano esistere altre forme di
famiglia (poliginica, poliandrica, estesa) la famiglia nucleare è presente ovunque. Al tempo stesso il
matrimonio è l’atto che ne sanziona la costituzione.
Secondo Goodenough noi “siamo vittime del nostro etnocentrismo”. Se il nostro compito è quello di
descrivere tutte le società con finalità generalizzanti, concetti come quelli di famiglia e di
matrimonio servono solo come termini di paragone al negativo: una volta formulati
(etnocentricamente) servono per confrontare, “per difetto”, tutte le altre forme presunte di
questa istituzione.
Goodenough procede quindi alla ricerca di un metodo comparativo che renda possibile formulare
una definizione di matrimonio in termini non etnocentrici. Il suo progetto si articola in
comparazioni tra fenomeni fortemente “contestualizzati” ma che non disdegnano di prendere in
considerazione società tra loro molto diverse e lontane nello spazio: i nayar dell’India, le culture
euroamericane, gli isolani delle Gilbert e i truk della Micronesia, i nuer del Sudan.
Egli parte da uno studio dell’antropologa Kathleen Gough sul “matrimonio” tra i nayar dell’India
meridionale. p.81-82  Proseguendo nella sua comparazione alla ricerca di una definizione
universalmente valida di “matrimonio”, prende in esame la definizione che di questa istituzione ha
dato la Gough nella sua etnografia sui nayar.
Se ci atteniamo alla definizione del matrimonio data da Kathleen Gough, constatiamo che presso i
nayar c’è il matrimonio ma non le famiglie coniugali (coresidenza dei genitori, cooperazione, cura
comune dei figli), mentre negli isolani di Truk ci sono famiglie coniugali ma non il “matrimonio”
(poiché non esiste riconoscimento individuale della paternità).
L’unico principio che Goodenough ritiene possibile individuare come possibile definizione universale
di matrimonio è un principio correlato con la riproduzione sessuale, e che richiede una transazione.
Questo principio è quello dell’accesso sessuale.
Egli tenta di dare una definizione di matrimonio: “Una transazione che si risolve in un accordo in
cui una persona (maschile o femminile, collettiva o individuale, in prima persona o per procura)
stabilisce un diritto continuativo ad accedere sessualmente a una donna, e nel quale la donna in
questione è considerata suscettibile di avere figli”.

Clifford Geertz, saggio sull’idea di “persona” a Java, Bali e in Marocco p. 87

Jean-Pierre Olivier de Sardan, L’etnografia e la politica del campo

Forme di produzione di dati:


- L’osservazione partecipante p.90
- I colloqui
- I procedimenti di censimento
- Raccolta di fonti scritte

- La politica del campo


- La gestione dei “fattori di disturbo”
- Conclusione: plausibilità e validità

3. PERCEZIONE/CONOSCENZA

Alessandro Duranti, La diversità linguistica

- La lingua nella cultura: la tradizione boasiana


A partire dalla fondazione dell’American Ethnological Society nel 1842 e dell’American
Anthropological Association nel 1902 l’antropologia negli Stati Uniti fu concepita come disciplina
olistica, che studiava i dati fisici, linguistici, culturali e archeologici delle popolazioni umane. Agli
studenti era richiesta una conoscenza generale di ciascuno di questi quattro ambiti. Lo studioso che
più di ogni altro rappresentò nella teoria e nella prassi di ricerca l’ottica olistica dell’antropologia
fu Franz Boas.
L’esperienza di ricerca presso gli eschimesi e gli indiani kwakiutl della Costa del Nordovest lo
indusse allo studio del linguaggio e delle lingue indiane: sosteneva infatti che non è possibile
comprendere davvero una cultura senza avere accesso diretto alla sua lingua. Il bisogno di uno
studio linguistico non aveva solo carattere pratico, ma teorico, a causa dell’intimo legame
esistente fra lingua e cultura.
“la conoscenza delle lingue indiane costituisce un importante complemento alla piena
comprensione delle usanze e delle credenze del popolo che vogliamo studiare […] la ricerca
linguistica è parte essenziale di un’indagine approfondita della psicologia dei popoli del mondo. Il
linguaggio umano, che è una delle manifestazioni più importanti della vita mentale, sembrerebbe
rientrare di diritto nel campo di studio dell’etnologia”.
Boas trasmise ai propri allievi l’interesse per le lingue indiane d’America; alcuni di essi, come
Edward Sapir, fornirono degli importanti contributi non solo alla linguistica degli indiani d’America
ma, più in generale, allo studio del linguaggio.
L’idea boasiana secondo cui la lingua è necessaria al pensiero umano – e dunque alla cultura umana
– diventò una tesi fondamentale dell’antropologia culturale americana della prima metà del
ventesimo secolo.
L’attrazione che Boas provava nei confronti della lingua lo indusse a pubblicare numerosi volumi di
etnografie quasi interamente basati su “testi” raccolti, cioè su trascrizioni di ciò che informatori
principali (solitamente bilingui) ricordavano riguardo alle loro tradizioni passate, comprese le
cerimonie, l’arte ecc. Trascrivere le descrizioni fornite dai nativi di cerimonie e altri aspetti della
cultura tradizionale era parte integrante di quella “antropologia del salvataggio” messa in atto da
Boas, e aveva ovvie implicazioni: come altri antropologi della sue epoca, Boas si preoccupava della
rapida scomparsa o del traumatico mutamento subito dalle lingue e dalle culture indigene
d’America e desiderava conservarle e documentarle, finché erano ancora in vita persone in grado di
parlare correntemente le lingue e dunque di descrivere la propria tradizione culturale.
Trascrivendo i testi nativi e traducendoli, Boas rimase affascinato dai modi diversi in cui lingue
differenti classificano il mondo e l’esperienza umana. Utilizzò perciò quest’osservazione come
prova ulteriore a favore del relativismo culturale – vale a dire della tesi secondo cui ciascuna
cultura dovrebbe essere compresa in base ai suoi stessi principi, e non come parte di un ampio
disegno di progressiva elevazione intellettuale e morale, alla sommità del quale vi erano di solito
gli europei e i loro discendenti.
Boas utilizzò la propria conoscenza delle lingue indiane d’America per mostrare che il modo in cui
le lingue classificano il mondo è arbitrario: ciascuna lingua, infatti, ha il proprio modo di costruire
un vocabolario che seziona il mondo e crea categorie di esperienze. Quel che in inglese o in italiano
poteva essere rappresentato da parole diverse in un’altra lingua poteva essere espresso da una sola
parola o mediante derivazioni dello stesso termine.

- La relatività linguistica
Una delle affermazioni più nette della posizione secondo cui il modo in cui pensiamo al mondo è
influenzato dalla lingua che usiamo è contenuta in un articolo scritto da Sapir nel 1929 “La
posizione della linguistica come scienza”. In questo scritto egli afferma che gli esseri umani sono
alla mercé della particolare lingua che parlano.
Questa posizione fu ribadita un decennio dopo da Whorf, che la formulò come “principio di
relatività linguistica”; con questo termine egli indicava il fatto che “gli utenti di grammatiche
profondamente diverse sono indirizzati dalle loro grammatiche verso tipi di osservazioni diversi e
valutazioni diverse di atti di osservazione esternamente simili, e non sono quindi equivalenti in
quanto osservatori, ma devono arrivare a visioni del mondo in qualche modo differenti.

- La lingua come guida al mondo: le metafore

I recenti contributi allo studio delle metafore rappresentano un’ulteriore versione dell’ipotesi
Sapir-Whorf: le metafore infatti vi sono analizzate come meccanismi in grado di fornire schemi
concettuali attraverso i quali comprendiamo il mondo.
George Lakoff e Mark Johnson p. 122

- Termini di colore e relatività linguistica

Una delle più forti critiche alla relatività linguistica giunse dalle ricerche che si occuparono dello
studio translinguistico dei termini di colore. I risultati ottenuti da Berlin e Kay si basavano sullo
studio empirico della terminologia di colore in venti lingue. Quanto ai dati relativi a un numero di
lingue ancora più ampio (78 secondo Kay e Mcdaniel), erano stati desunti invece dalla consultazione
di ricerche e materiale bibliografico. Gli autori sostennero che vi fossero dei vincoli universali 1) sul
modo in cui le lingue codificano e organizzano i propri termini fondamentali di colore ( basic colors
terms) e 2) sul modo in cui le lingue cambiano nel tempo aggiungendo nuovi termini di colore
fondamentali al loro lessico. Scoprirono così che esistevano undici categorie percettive universali.

- Linguaggio, lingue e varietà linguistiche

“Linguaggio” fa riferimento alla facoltà umana di comunicare facendo uso di particolari tipi di segni
organizzati in particolari tipi di unità.
“Lingua” denota un particolare prodotto sociostorico
Nelle indagini gli antropologi hanno bisogno di essere consapevoli delle variazioni.
I sociolinguisti preferiscono utilizzare il termine di varietà (e anche varietà linguistica o varietà di
lingua) che va inteso come insieme di forme comunicative e di norme che ne governano l’uso,
limitato a un particolare gruppo o comunità e talora persino a particolari attività.

- Comunità di parlanti: dall’idealizzazione all’eteroglossia


Comunità di parlanti  gruppo reale di persone che condividono qualcosa del modo in cui utilizzano
la lingua.
Bachtin affermò che l’omogeneità linguistica ipotizzata dalla maggior parte dei linguisti, filosofi e
filologi è una costruzione ideologica, storicamente legata allo sviluppo degli Stari europei e agli
sforzi di creare un’identità nazionale mediante una lingua nazionale che doveva ricevere un unico
nome: tedesco, francese, russo, italiano. Simile nozione unificata di una lingua non ha alcun
rapporto necessario con l’uso linguistico reale: nella realtà della vita quotidiana il discorso di
qualunque individuo è pieno di numerose voci diverse, o personaggi costruiti attraverso la lingua,
qualità che Bachtin chiama raznorecie, termine tradotto in italiano come eteroglossia.
I molteplici fattori sociali, culturali, cognitivi e biologici responsabili della nascita di una lingua
eteroglotta, o di ciò che i sociolinguisti chiamano variazione linguistica, agiscono assieme dando
vita a un’interrotta tensione fra quelle che Bachtin chiamò le forze centripete e centrifughe della
lingua. Delle forze centripete fanno parte i poteri politici e istituzionali, che tentano di imporre
una varietà o codice a discapito di altri, com’è accaduto per esempio con il quechua in Perù nel XVI
secolo, con l’inglese in Scozia nei secoli XII e XVI, con il dialetto toscano in Italia nel XIV secolo,
con lo spagnolo nelle Americhe. Si tratta di forze centripete perché tentano di costringere i
parlanti ad adottare un’identità linguistica unificata. Le forze centrifughe invece allontanano i
parlanti da un centro comune, favorendo la differenziazione: sono le forze che vengono
impersonate di solito da persone marginali, alla periferia del sistema sociale.
Gli antropologi del linguaggio hanno considerato queste norme alternative come altrettante
strategie per la creazione di un’identità sociale o etnica: proprio mediante la resistenza alla lingua
o varietà ufficiale, allo standard della maggioranza, i parlanti riescono a tenere in vita identità
alternative e spesso parallele.

- Comunità di parlanti multilingui


Presso la comunità dei tewa dell’Arizona studiata da Paul Kroskrity, tre secoli di contatto e di
matrimoni misti con la popolazione degli hopi, per giunta più numerosa, non sono riusciti a
estirpare la lingua tewa.
Statuto del tewa come simbolo di identità etnica
Altro esempio: il catalano, lingua di minoranza che sopravvive come simbolo di identità etnica
Messicano, noto anche come azteco o nahuatl, discendente moderno della lingua degli Aztechi e di
molte altre popolazioni del Messico e dell’America centrale. p. 131

Michael Jackson, La conoscenza del corpo

- Iniziazioni e imitazioni
Nella stagione secca del 1970, nel nord della Sierra Leone, poco dopo aver cominciato il suo lavoro
sul campo nel villaggio kuranko di Firawa, ebbe la fortuna di assistere alle celebrazioni pubbliche
associate con i riti di iniziazione femminile (fine per le ragazzine della condizione di bambine).
Rituale che ha luogo nelle boscaglie, le ragazzine vengono allontanate dal villaggio. 3 settimane in
cui vengono istruite dalle donne anziane e in cui aspettano che guariscano le ferite della
clitoridectomia.
Imitazione degli uomini da parte delle donne  ha assistito a pratiche imitative durante le
iniziazioni kuranko  inversioni di ruoli nelle iniziazioni
Imitazioni del comportamento maschile, mimare le espressioni impassibili*, imitare i cacciatori.
L’imitazione presumibilmente incoraggia una coscienza di cosa sia essere uomo. Però, nella misura
in cui queste pratiche del corpo non sono precedute da alcuna dichiarazione verbale d’intenzione,
sono ambigue. Le imitazioni sono quindi aperte all’interpretazione, e il significato che possono
assumere per l’imitatore o l’osservatore è indeterminato. È perfettamente possibile che le
imitazioni siano esperite o considerate in modi diversi come un modo di “prendere a prestito” le
virtù maschili, un modo per prendersi gioco degli uomini. Quest’ambiguità, e il fatto che le
interpretazioni che sorgono tendono a confondere le convenzioni quotidiane su genere e ruolo, può
spiegare il silenzio delle donne kuranko sul problema del significato**: le imitazioni significano tutto
o niente.
*impassibilità è collegata a qualità morali come il controllo delle emozioni e l’accettazione della
separazione  prassi corporea che induce o suggerisce valori morali, impartisce
sapere/insegnamenti
**Impiegava il suo tempo a chiedere alla gente di dirgli che stesse succedendo, cosa significasse
tutto ciò. Ritenere che ogni atto significhi qualcosa è una forma stravagante di astrazione.
Altri casi:
- Valore della moderazione è inculcato attraverso tabù che vietano di chiedere o nominare il cibo
nella capanna dell’iniziazione
- Per i novizi il divieto di parlare senza aspettare il proprio turno, muoversi o gridare durante le
operazioni è direttamente collegato con le virtù di mantenere segreti, promesse e giuramenti,
di pazienza e di cautela
- L’importanza data all’ascoltare gli anziani durante i periodi di segregazione nella boscaglia è
collegata alla virtù di rispettare gli anziani, i cui consigli assicurano una buona vita sociale e
anche fisica
- La notte insonne che gli iniziati devono passare in una casa piena di fumo alla vigilia del loro
ritorno dalla boscaglia dopo l’iniziazione è un modo di instillare in loro le virtù della
sopportazione delle avversità e dell’essere vigili, mentre la segregazione forzata è connessa al
valore dell’autocontrollo e all’indipendenza
- Indossare nuovi abiti suggerisce nella mente dell’iniziato l’assunzione di un nuovo status
- Le imitazioni degli uomini da parte delle donne sono a volte spiegate, in maniera simile, come
un modo per le donne di prendere su di sé le virtù “maschili” di forza d’animo e coraggio che
sentono di non possedere
Questi esempi indicano, come nell’iniziazione kuranko, ciò che viene fatto col corpo è la base di ciò
che viene detto e pensato.
Resoconto di cosa significano e perché si svolgono queste performance imitative
Non si possono spiegare le imitazioni in occasione delle iniziazioni o dei rituali in termini di
coinvolgimento individuale o sentimenti. Quando suggerii alle donne kuranko che agire come gli
uomini potesse essere un modo di sfogare il loro risentimento nei confronti del potere maschile
nella vita di tutti i giorni, restarono confuse.
Il carattere regolare e convenzionale di queste pratiche corporee non è necessariamente il risultato
dell’obbedienza a regole o intenzioni consce ma piuttosto una conseguenza del mondo in cui i corpi
delle persone sono plasmati da abitudini inculcate all’interno di un ambiente condiviso e articolate
in movenze che sono “collettivamente orchestrate senza essere il prodotto dell’azione
organizzatrice di un direttore d’orchestra”. Queste “disposizioni durature” sorgono in un ambiente
di attività pratiche quotidiane che Pierre Bourdieu chiama habitus.
L’iniziazione kuranko è in primo luogo uno sconvolgimento nell’habitus, ed è questo, più che
qualunque precetto, regola o regia, che mette in moto quelle modificazioni sociali e personali il cui
aspetto corporeo manifesto è l’inversione di ruoli. Secondo Jackson, questo sconvolgimento
dell’habitus in cui le donne hanno campo libero nel villaggio e gli uomini devono cavarsela da soli o
stare in casa come donne atterrite, apre alle persone possibilità di comportamento che portano
incarnate, ma normalmente non hanno l’inclinazione a esprimere. Inoltre, crede che sia grazie alla
forza di queste possibilità straordinarie che le persone controllano e ricreano il loro mondo, il loro
habitus.
Perché queste particolari possibilità socialmente vengono messe in atto e pubblicamente
interpretate?
Si può postulare che il rito di iniziazione massimizzi le informazioni disponibili nell’ambiente
complessivo per assicurare il completamento del suo compito vitale: creare adulti e in tal modo
ricreare l’ordine sociale.
I riti di iniziazione coinvolgono una “mimesi pratica” in cui vengono incorporati e ricombinati
elementi da diversi campi, senza copioni, proverbi, suggerimenti, scopi consci o nemmeno
emozioni.

Molte delle intuizioni di maggior valore di Jackson sulla vita sociale kuranko sono arrivare
dall’imitazione ed esercizio di abilità pratiche: zappare in campagna, ballare, accendere un fuoco,
intrecciare una stuoia, consultare un indovino. Per smettere l’abitudine di usare un modello di
comunicazione lineare per capire le pratiche corporee, è necessario adottare come strategia
metodologica il prender parte senza secondo fini e il mettersi letteralmente al posto delle altre
persone: abitare il loro mondo. Stare in disparte rispetto all’azione, dare per scontato un punto di
vista, e fare infinite domande come aveva fatto nel corso delle iniziazioni femminili ha portato a un
quadro viziato e ha aumentato il problema fenomenologico di come avrebbe potuto conoscere
l’esperienza dell’altro. Invece, partecipare in modo corporeo a compiti pratici di tutti i giorni è
stata una tecnica creativa che spesso lo ha aiutato a cogliere il senso di un’attività usando il suo
corpo come facevano gli altri.
Mentre le parole e concetti distinguono e dividono, la corporeità unisce e forma la base per una
comprensione empatica, persino universale.

Philippe Descola, Gli schemi della pratica

Descola, in una sezione della sua opera Oltre Natura e Cultura, riconosce l’evidenza potente e
spontanea delle pratiche che necessitano di indagini etnografiche minuziose e partecipate tese a
individuare specifici habitus. Nonostante ciò, ritiene si debba mantenere l’ambizione, in qualità di
antropologi culturali, di ricercare le “strutture di inquadramento” capaci di spiegare le regolarità e
la coerenza dei differenti modi, culturalmente determinati, di abitare e percepire il mondo. In
altre parole, Descola propone di riesumare lo studio de quelle che il suo maestro, Lévi-Strauss,
denomina “strutture”, ma facendolo con un linguaggio e una strumentazione nuova e una minore
propensione all’astrazione. Occorre quindi rintracciare “schemi elementari della pratica”, un
“piccolo nucleo di schemi interiorizzati” dai quali gli habitus prendono origine. L’antropologo
culturale dovrebbe essere particolarmente abile a individuare quei particolari schemi (gli schemi
ordinatori dell’esperienza) che permettono a ciascun essere umano di avere l’idea di condividere
con altre persone “una stessa cultura, una stessa cosmologia”.

- Il sapere delle cose comuni p. 156

- Schematismi
La stimolazione euristica fornita dai modelli connessionisti così come la moltiplicazione degli studi
che si basano sulla formazione dei concetti classificatori e l’apprendimento del saper-fare hanno
portato psicologi e antropologi a interessarsi in modo più sistematico al ruolo delle strutture
astratte che organizzano le conoscenze e l’azione pratica senza mobilitare immagini mentali o un
sapere esplicativo, strutture oggi raggruppate sotto il nome generico di “schemi”.
Distinzione tra:
- Schemi cognitivi universali
- Schemi cognitivi che provengono da una competenza culturale acquisita o dai casi della storia
individuale  sono soprattutto questi che detengono l’attenzione di coloro che si interessano
alla diversità degli usi del mondo dal momento che è in parte per effetto di questi meccanismi
che i comportamenti umani differiscono. Gli schemi collettivi interessano più da vicino gli
etnologi poiché costituiscono uno dei principali mezzi per costruire sei significati culturali
condivisi. Possiamo definirli come disposizioni psichiche, sensorio-motrici ed emozionali,
interiorizzate grazie all’esperienza acquisita all’interno dell’ambiente sociale dato, e che
permettono l’esercizio di almeno tre tipi di competenza:
1. Strutturare in modo selettivo il flusso della percezione dando una preminenza significativa
ad alcuni tratti e processi osservabili nell’ambiente;
2. Organizzare tanto l’attività pratica quanto l’espressione del pensiero e delle emozioni
secondo scenari relativamente standardizzati;
3. Fornire un quadro per interpretazioni tipiche dei comportamenti o avvenimenti
Gli schemi collettivi possono essere:
- Spiegabili -> suscettibili di essere formulati in modo più o meno sintetico come modelli
vernacolari da coloro che li mettono in pratica. Molti fra essi non si trasmettono come un
insieme di precetti ma sono poco a poco interiorizzati senza essere particolarmente inculcati,
cosa che non impedisce che siano oggettivabili con un certo grado di sistematicità quando le
circostanze lo esigono.
- Non riflessivi -> non affiorano alla coscienza e dobbiamo quindi desumere la loro esistenza e il
modo con il quale organizzano il sapere e l’esperienza a partire dai loro soli effetti. Si
manifestano in modi molto differenti. Alcuni sono altamente tematici e si adattano a una
grande varietà di situazioni (schemi integratori), mentre altri non sono attivati se non in
circostanze molto particolari (schemi specializzati).
Gli schemi specializzati formano la trama della nostra esistenza quotidiana poiché organizzano
la maggior parte delle nostre azioni, dalle tecniche del corpo o gli scenari di espressioni delle
emozioni fino all’uso degli stereotipi culturali e la formazione dei giudizi classificatori.
Gli schemi integratori sono dispositivi più complessi. Tutto lascia pensare che è la loro funzione
mediatrice che, in gran parte, contribuisce a dare a ciascuno di noi il sentimento di avere in
comune con gli altri individui una stessa cultura e una stessa cosmologia.
Come individuare questi schemi che imprimono il loro segno sui comportamenti e le pratiche di
una collettività in modo tale che questa si offra all’osservatore come immediatamente
distintiva? Devono essere presi come dominanti gli schemi che sono attivati nel maggior numero
di situazioni, sia nel trattamento degli umani che in quello dei non-umani.
André-Georges Haudricourt distingueva due forme di “trattamento della natura e dell’altro”:
1. Azione indiretta negativa -> è volta a favorire le condizioni di crescita dell’essere
addomesticato modificandone al meglio il suo ambiente e non esercitando su di lui un
controllo diretto
2. Azione diretta positiva -> esige un contatto permanente con l’animale, che dipende per la
sua alimentazione e la sua protezione dall’intervento dell’uomo
Secondo Haudricourt l’opposizione tra l’azione indiretta negativa e l’azione diretta positiva è
ugualmente percepibile nei comportamenti verso gli umani. p.164
- Differenziazione, stabilizzazione, analogie
Mettere in evidenza gli schemi della pratica propri a un aggregato di umani non è cosa facile.
Consolidati durante gli anni di formazione, gli schemi della pratica permettono di adattarsi a
situazioni inedite che saranno percepite come casi particolari di situazioni già conosciute. Come
tutte le abitudini precocemente acquisite, gli schemi sono quindi più rinforzati dall’esperienza che
riformati da questa.
Ruolo che giocano gli affetti nel processo di schematizzazione: un’emozione intensa suscitata da un
avvenimento contribuisce a rinforzare le connessioni neuronali che il suo apprendimento attiva.
I riti costituiscono indici preziosi del modo in cui una collettività concepisce e organizza la sua
relazione con il mondo e con l’altro perché rivelano sotto una forma condensata gli schemi di
interazione e principi di strutturazione della praxis più diffusi della vita comune.
Il ruolo degli affetti nella stabilizzazione degli schemi non è manifesto solamente nei contesti
rituali: ogni avvenimento, importante per le emozioni che suscita, contribuisce con forza
all’apprendimento e al rafforzamento dei modelli di relazione e di interazione.
4. COSMO-LOGIE/SOCIO-LOGIE

Michael Herzfeld, Cosmologie

- Vivere nel cosmo


La cosmologia si riferisce al posto che occupiamo nell’universo. Per i fisici, il cosmo o universo
rappresenta la totalità delle cose fisiche: non soltanto la materia, ma anche lo spazio, il tempo, e
in generale tutto ciò che è pertinente da un punto di vista fisico.
La cosmologia scientifica potrebbe avere in comune con la cosmologia religiosa il concetto di
ordine: tramite la cosmologia le persone considerano l’universo come un’entità organizzata. Questo
è ciò che è stato indicato come “l’ordine del mondo”. L’ordine è l’elemento di maggior interesse
dei sistemi cosmologici, dagli schemi religiosi di popoli distanti nello spazio geografico e temporale
fino alle argomentazioni della fisica e della chimica moderne.
John Middleton ha attestato la validità di una storia degli studi cosmologici: secondo lui gli
antropologi si sono avvicinati alla cosmologia come fenomeno culturale. È precisamente con
Durkheim che lo studio comparativo delle cosmologie come ambito specifico di ricerca ha avuto
inizio nei primi anni del XX secolo. Il punto di partenza e l’asserzione: “non esistono false religioni”
dato che tutte rispondono a certe condizioni dell’esistenza umana. Durkheim indica che
“un’istituzione umana non può basarsi su un errore o sulla menzogna”. Il suo ragionamento si
fondava sul presupposto dell’esistenza di facoltà umane di raziocinio comuni e universali.
Intraprese lo studio delle religioni primitive.
I primi sistemi di rappresentazione con cui gli uomini hanno figurato sé stessi e il mondo erano di
origine religiosa. Durkheim quindi osserva che “non c’è religione che non sia anche una cosmologia
e una speculazione sul divino”.
Secondo Durkheim la causa determinante di un fatto sociale dovrebbe essere cercata tra i fatti
sociali che lo precedono e non tra gli stati della coscienza individuale.

Secondo Evans-Pritchard “l’antropologia sociale analizza le società come sistemi morali o


simbolici, non come sistemi naturali, perciò ricerca modelli e non leggi e interpreta più che
spiegare”. Questa e stata la prima dichiarazione dell’interesse comparativo in antropologia.

La tradizione durkheimiana è rimasta radicata ai presupposti evoluzionisti.


Per Durkheim e Mauss la mancanza di differenziazione dei ruoli nelle società primitive (solidarietà
meccanica: arte, politica, credenze sono inglobate in una singola struttura sociale) non ha lasciato
spazio al ruolo dell’agentività individuale.
Invece per la cosmologia dell’occidente postilluminista, l’esercizio dell’agentività individuale ha
necessitato la liberazione dell’intelletto e i pensatori occidentali hanno dato per scontato che si
trattasse di un’acquisizione di pochi popoli.
Il discorso della scienza sociale e diventato veicolo di discriminazione fra attività intellettuale del
colonizzante e supposta passività del colonizzato.
Per Durkheim in una situazione di solidarietà meccanica la religione pervade l’intera vita sociale,
questo perché la vita sociale consiste quasi esclusivamente in credenze e pratiche comuni.
La specializzazione dei ruoli dell’attività culturale e stata il prodotto della modernità in cui si è
supposto che la creazione di sfere separate rispecchiasse una corrispondente differenziazione delle
strutture sociali.

- Teodicee popolari e dottrinali


Gli esseri umani devono sempre assegnare la responsabilità e la colpa. È un importante aspetto
della costruzione di un mondo che sia per noi vivibile: se dobbiamo in ogni caso ammettere la colpa
delle terribili condizioni del nostro mondo, o se non siamo in grado di spiegare le piccole e grandi
tragedie che ci accadono in modo da non precluderci la speranza di un futuro migliore, dovremmo
giudicare la nostra esistenza intollerabile.
In molte società le persone elaborano quell’aspetto esegetico della cosmologia conosciuto come
“teodicea”: letteralmente “giustizia divina”, ma in termini più specifici, la spiegazione dottrinale
di ciò che si abbatte su di noi.
Il potere (che ha al centro il controllo dell’incertezza) assume una posizione di centralità quando
prendiamo in considerazione il ruolo delle giustificazioni. Le giustificazioni presuppongono un
insieme di idee che permettono a un individuo di sottrarsi alla responsabilità diretta per gli effetti
delle azioni a cui prende parte. Molti stratagemmi per eludere la colpa finiscono sotto il termine di
stregoneria, la quale permette alla gente di incolpare gli altri in maniera non circostanziata. Essa
non implica un atto volontario di malvagità.
L’idea che “queste cose siano state mandate per metterci alla prova” provvede a offrirci una
rassicurazione sulla generale prevedibilità del mondo.
Le accuse di stregoneria si basano su un principio fondamentale della teodicea: c’è un male
generale nel mondo e alcuni individui sono sufficientemente sfortunati da esserne i latori.

- Mitologia e cosmologia

Quello di mito è concetto profondamente preoccupante per l’antropologia moderna. Il termine è


spesso associato alle nozioni di finzione o di falsa credenza.
Hill e altri autori hanno sollevato la questione chiedendosi fino a che punto sia utile operare una
distinzione tra mito e storia, suggerendo che i tentativi di trattare il mito come una
rappresentazione “simbolica” piuttosto che una verità “storica” possano essere meno innocui di
quanto sembrino.
I primi antropologi avevano pensato il mito in termini evoluzionisti: esso e l’espressione della
superstizione. Dalla tradizione iniziata da Durkheim emergono due approcci per lo studio del mito:
1° Sviluppato da Malinowski e approfondito dallo storico delle religioni Mircea Eliade -> oltre a
ripetere che i miti rappresentano narrazioni sacre e reali, ha posto l’accento sul fatto che essi
hanno il carattere di statuti sociali e che pertanto agiscono in qualità di modelli comportamentali
per gli individui  i miti forniscono modelli per il comportamento umano.
Eliade sostiene che presso le società primitive esiste un timore della storia che induce la gente a
sopportare la sofferenza fornendo giustificazioni che contestualizzano la causa di tale sofferenza in
un ambito sacro. In altri termini essa rende sopportabile la sofferenza sostenendo che non è
arbitraria.
2° Si è focalizzato sulle procedure intellettuali che si celano dietro ai miti
Secondo Lévi-Strauss i miti costituiscono “meccanismi per la soppressione del tempo”. Egli indica
che una delle principali caratteristiche dei miti è la loro atemporalità.
Secondo E. Leach essi mostrano le contraddizioni interne della società al punto da renderle immuni
a una analisi critica. Entrambi affermano che il mito ha a che fare con eventi reversibili, mentre la
storia con quelli irreversibili e per entrambi la distinzione tra mito e storia riproduce una più ampia
distinzione sociale tra “primitivo” o “arcaico” e società moderne da un lato, e industriali dall’altro.

- Temporalità
Ossio ci mostra che secondo Esiodo il tempo e una sequenza caratterizzata da un processo di
decadenza da uno stato iniziale di perfezione.
Nell’India antica il ciclo intero, Mahayuga, comprende 4 età ognuna preceduta da una fase
nascente e da una di declino. Esso si concludeva con una totale dissoluzione, poi iniziava un nuovo
ciclo.
Nelle culture precolombiane il passato era schematizzato come sequenza di età, ognuna associata a
un livello dell’evoluzione umana. La piena umanità era raggiunta nell’ultima età. Il punto di rottura
fra le età era un evento pauroso. Presso aztechi e maya questi eventi erano cataclismi provocati
dall’intervento di tutti gli elementi naturali. Per prevenire questi cataclismi gli aztechi ricorrevano
a sacrifici umani. Per gli inca ogni divisione era parachuti, cioè cataclisma. Per sottrarsi ad essi
però avevano istituito una monarchia divina per cui il cataclisma era associato a un re divino
capace di ripristinare l’ordine.
Cristo fu assimilato alla figura del re divino inca quindi l’attrazione esercitata dal cristianesimo
sulle popolazioni indigene e stata dovuta alla sua associazione con l’idea di ordine.

- Rituale e ordine cosmologico


I rituali possono essere visti come modo per opporsi alla degenerazione tramite la routine.
Caratteristiche del rituale: ripetizione e ridondanza, semplificazione del linguaggio e basso livello
di riferimento alle cose del mondo sociale reale.
Alcuni rituali sono finalizzati al cambiamento di specifiche situazioni (guarigione), ma la maggior
parte hanno lo scopo di ripristinare l’ordine.
Tutti i rituali si riferiscono a un passaggio (sono composti da fasi). Essi possono mostrare
contraddizioni e debolezze della società.
Esponendo l’autorità alla insubordinazione all’interno di un quadro rituale, i rituali sono stati utili
al mantenimento dello status quo. Questa descrizione però per molte forme di rituali non è
dimostrata.
Maurice Godelier, Donare, scambiare, custodire: come si creano le società

L’autore si propone di esplorare le distinzioni esistenti tra le cose che si vendono, quelle che si
donano, e quelle, infine che non bisogno né vendere né donare, ma custodire e trasmettere.
Per esplorare questo argomento è necessario reimmergersi nella storia stessa dell’antropologia e si
viene rinviati a uno dei grandi momenti di questa storia e a un testo imprescindibile, il Saggio sul
dono di Marcel Mauss (1921).
Contesto in cui è stata scritta l’opera:
Mauss dopo la Prima guerra mondiale aveva perso molti amici. Era socialista.
Aveva visitato la Russia sotto il potere comunista ed era divenuto ostile al bolscevismo perché
voleva creare un’economia che uscisse dal mercato e per il ricorso alla violenza per trasformare la
società. Mauss nel saggio critica il liberalismo e la società che si chiude sulla fredda ragione del
commerciante. Nel 1921 scrive un programma socialdemocratico che prevede che lo stato fornisca
un aiuto materiale e una protezione sociale che il salario non permette. Chiede anche a ricchi e
potenti di mostrare quella generosità interessata praticata dai capi melanesiani o kwakiutl.
Che cos’è un dono per Mauss?
È un atto che insatura un doppio rapporto tra colui che dona e colui che accetta, tra donatore e
donatario. Donare, significa condividere volontariamente ciò che si ha o ciò che si è. Un dono
forzato non è un dono. Il dono volontario avvicina colui che dono a colui che riceve. Ma allo stesso
tempo, il dono crea, presso colui che l’accetta, un debito, degli obblighi. Il dono provoca quindi
due cose al contempo. Avvicina e allontana le due parti. Instaura un’asimmetria, una gerarchia, tra
colui che dona e colui che riceve. Sin dall’inizio, Mauss pone come principio di analisi il fatto che il
dono non è un atto suscettibile di essere studiato in modo isolato, ma fa parte di un insieme di
rapporti che si allacciano tra gli individui e i gruppi per via della concatenazione di tre obblighi:
quello di donare, quello di accettare il dono e quello di donare a propria volta quando il dono è
stato accettato.
Levi-Strauss ha riconosciuto in Mauss il precursore dello strutturalismo perché ha posto il dono
come primo momento di una catena di azioni.
Levi-Strauss “critica” Mauss per aver accettato come spiegazione scientifica dell’obbligo di donare
a propria volta una spiegazione indigena, cioè quella dei maori: i maori credevano nell’esistenza di
uno spirito presente nella cosa che si dona che spingerà colui che ha ricevuto il dono a restituire
l’oggetto o uno equivalente. Questo e il punto debole in Mauss perché per spiegare i primi due
obblighi, quello di donare e quello di accettare il dono, aveva avanzato ragioni sociologiche: si è
obbligati a donare perché donare obbliga e si è obbligati ad accettare perché rifiutare farebbe
entrare in conflitto con colui che offre.
Invece per spiegare il terzo obbligo egli pone l’accento su ragioni ideologiche.
Sembrerebbe che per Mauss gli oggetti donati siano abitati da due spiriti: spirito di colui che per
primo ha posseduto l’oggetto e lo ha donato, e spirito proprio dell’oggetto che lo fa agire come una
persona.
L’oggetto donato quindi non e completamente alienato. Resta legato al proprietario.
E inalienabile e alienato allo stesso tempo. Come e possibile?
L’oggetto donato e investito di: diritto di proprietà inalienabile e diritto all’uso inalienabile.
Mauss non si è occupato di tutte le forme di dono. Ha privilegiato quelle che ha definito
“prestazioni totali”, che impegnano gruppi o persone che rappresentano gruppi. Si è occupato dei
doni socialmente necessari per produrre e riprodurre dei rapporti sociali, di parentela, rituali, di
potere, ossia delle condizioni sociali dell’esistenza degli individui e dei gruppi in una determinata
società. Egli considera queste prestazioni “totali” perché il dono è un atto a più dimensioni e lega
in sé molti aspetti della società, inoltre i doni provocando controdoni mobilitano ricchezze ed
energia di molti gruppi mettendo in movimento tutta la società.
Esistono due tipi di prestazione totale:
1. Tipo non agonistico  al termine di una serie di doni reciproci donatore e donatario si
trovano in una parità di status (ognuno è superiore e inferiore all’altro). I controdoni non
annullano i debiti creati dai doni. Creano debiti che bilanciano e non annullano i primi.
Doni e controdoni quindi alimentano continuamente obblighi. Questo circolo finisce per
ridistribuire le risorse di cui i gruppi dispongono.
2. Tipo agonistico  il potlatch segue una logica completamente diversa. Mauss sottolinea
come sia una vera e propria “guerra di ricchezze”, condotta per conservare status, potere,
in cui lo spirito di rivalità ha la meglio su quello di generosità. È una pratica di potere, che
implica l’accumulo di grandi quantità di oggetti preziosi e di beni di sussistenza per
ridistribuirli in occasione di festini e di competizioni cerimoniali, o distruggerli con
ostentazione.
Cose che non bisogna vendere né donare, ma che bisogna custodire, per esempio gli oggetti
sacri. Essi spesso si presentano come doni, doni che dei o spiriti avrebbero fatto agli antenati
degli uomini, e che i loro discendenti, gli uomini attuali, devono custodire gelosamente e non
devono vendere né donare. Si presentano e sono vissuti come elementi essenziali dell’identità
dei gruppi e degli individui che li custodiscono. È una fonte di potere nella e sulla società e, a
differenza dell’oggetto di valore, si presenta come inalienabile e inalienato.

Studio sul campo in Nuova Guinea p. 199

Secondo l’autore, per creare una società sono necessarie tre basi e tre principi. Bisogna donare
certe cose, bisogna venderne o scambiarne altre e bisogna sempre custodirne alcune. Nelle nostre
società, vendere e compare sono divenute le attività dominanti. Vendere significa separare
completamente le cose dalle persone. Donare significa mantenere sempre qualcosa della persona
che dona nella cosa donata. Custodire significa non separare le cose dalle persone perché
nell’unione si afferma un’identità storica che bisogna trasmettere, almeno fino a quando è
riproducibile.
Gli oggetti si presentano in tre diversi contesti, cioè come cose alienabili e inalienate (per esempio
gli oggetti sacri e i testi giuridici), perché le tre operazioni – vendere, donare e custodire per
trasmettere – sono diverse.

Lila Abu-Lughod, L’identità nella relazione

Beduini Awlad ‘Ali che abitano la fascia costiera lungo il bordo settentrionale del Deserto libico (o
Deserto Occidentale, termine che gli egiziani preferiscono). Essi pensano al territorio in cui vivono
principalmente nei termini delle persone e dei gruppi che lo abitano. Si definiscono sulla base di
alcuni principi-chiave di organizzazione sociale: la genealogia e un ordine tribale fondato sulla
vicinanza degli agnati (i parenti paterni) e legato a un codice morale, quello dell’onore e della
modestia. Il loro universo è ordinato da questi principi ideologici che definiscono le identità degli
individui e la qualità delle loro relazioni con gli altri. Tali principi sono riuniti nella nozione che gli
Awlad ‘Ali hanno di “sangue”.

- Asl: il sangue delle origini


Il sangue lega le persone al passato e allo stesso tempo le unisce nel presente. In quanto
collegamento con il passato attraverso la genealogia, il sangue è fondamentale per la definizione
dell’identità culturale. La nobiltà di origine o di discendenza (asl) è un motivo di grande
preoccupazione per gli Awlad ‘Ali. I clan o le tribù conosciuti come Awlad ‘Ali migrarono in Egitto
dalla Libia.
Dopo l’ascesa al potere di Nasser nel 1952 gli obiettivi del governo si spostarono dal controllo
politico all’assimilazione. Ma questo obiettivo di assimilazione non è stato raggiunto. Al contrario,
gran parte dell’identità e del senso di sé beduini si esprime nel distinguersi dai non beduini o nel
contrapporsi a loro. Il senso di identità collettiva dei beduini si definisce per opposizione agli
egiziani o ai contadini.
Il sangue, nel senso della genealogia, è alla base dell’identità degli Awlad ‘Ali. Il sangue è ciò che
autentica l’origine o la genealogia e come tale è cruciale per l’identità dei beduini e per la loro
differenziazione dagli egiziani, ritenuti privi di radici o nobili origini. Si ritiene che le nobili origini
conferiscano qualità morali e carattere. I beduini attribuiscono valore a una costellazione di qualità
che potrebbero essere racchiuse nell’espressione compendiosa “codice dell’onore”. La virtù più
apprezzata è la generosità, espressa soprattutto dall’ospitalità per cui sono famosi.
La temerarietà e il coraggio sono qualità considerate naturali negli uomini e nelle donne beduine in
quanto si accompagnano alle nobili origini. Una segregazione sessuale troppo blanda e l’intimità
che mariti e mogli mostrano in pubblico sono interpretate come segno di debolezza degli uomini e
di immoralità delle donne.

- “Garaba”: il sangue della parentela


Gli Awald ‘Ali concepiscono se stessi soprattutto in termini di tribù, unità definite dalla
consanguineità o dai legami con un comune antenato pratrilineare*.

[*nelle società patrilineari gli individui si ascrivono a un gruppo di discendenza determinato dalla
sola linea di ascendenza paterna. Nelle società matrilineari gli individui si ascrivono a un gruppo di
discendenza determinato dalla sola linea di ascendenza materna.  sistemi unilineari. Questi
sistemi permettono l’identificazione di un antenato comune a molti individui, i quali possono agire
socialmente come gruppo coeso e solidale. Tale sistema alla base di gruppi di discendenza
denominati in antropologia lignaggi e clan e di unità politiche definite con il nome co il nome
tecnico di “tribù”.]

L’importanza del sangue nell’identità sociale è evidente nell’identificazione dei beduini con la
famiglia, il lignaggio e la tribù.
Il mondo sociale degli Awlad ‘Ali si divide tra parenti e stranieri/estranei.
L’ideologia beduina della parentela è basata su due proposizioni fondamentali:
1. tutti coloro che sono in relazione di sangue condividono una sostanza che li identifica.
2. gli individui che condividono il sangue si sentono vicini
Il termine per parentela è garaba, dalla radice che significa “essere vicino”. La visione che i
beduini hanno delle relazioni sociali è dominata da questa ideologia dei naturali, positivi e
irrevocabili vincoli di sangue. I bambini assumono l’affiliazione tribale del padre, anche se
l’affiliazione della madre influenza il loro status.
Una donna conserva la sua affiliazione tribale per tutta la vita e dovrebbe schierarsi con i propri
parenti paterni nel caso in cui questi abbiano dispute con i parenti del marito.
La donna beduina p. 209  i suoi parenti, non suo marito, sono responsabili per lei
Si pensa che questi legami di parentela siano basati sul sentimento. Il senso di vicinanza,
identificazione, interesse comune e lealtà si esprime nel modo in cui le donne parlano dei loro
parenti materni.
Il matrimonio presenta seri problemi di coerenza per un sistema ideologico che antepone
l’agnazione a qualsiasi altro criterio di affiliazione al gruppo.
Il modo per risolvere il problema del matrimonio è di fonderlo con l’identità e la vicinanza del
sangue condiviso. Il matrimonio tra cugini paralleli* patrilaterali può essere quello preferito perché
è il solo tipo coerente con le idee beduine sull’importanza dell’agnazione. p. 210-211
*cugini i cui padri sono fratelli o le cui madri sono sorelle. Si differenziano dai cugini incrociati i cui
genitori consanguinei, che determinano la relazione, sono di sesso differente. In molte società, il
matrimonio preferenziale è quello fra cugini incrociati.

- I legami materni e la vita familiare


Oltre all’agnazione, i due legami più importanti tra gli individui sono la parentela materna e la
coresidenza.
Nella società beduina i rapporti tra madri e figli sono estremamente stretti e affettuosi lungo tutta
la vita. L’altro tipo di relazione stretta nella società beduina è quella tra persone non imparentate
che vivono insieme. Il vincolo definito dal viver insieme o dal condividere la vita nonostante sia
caratterizzato da precarietà, richiama i legami di tipo parentale definiti da persistenti legami di
vicinanza. Il vincolo è simboleggiato dal concetto di condivisione del cibo, che significa assenza di
ostilità. Nei piccoli villaggi fissi i vicini diventano quasi parenti: si visitano e si danno assistenza e
aiuto reciprocamente e si rispettano.
Vivere insieme rende gli estranei familiari e perciò più simili ai parenti stretti, che sono
automaticamente familiari in virtù dell’essere famiglia.

- Identificazione e condivisione
Avere in comune il sangue permette ai parenti paterni di identificarsi l’un l’altro. Tali parenti
condividono interessi e onore; idealmente condividono anche luogo di residenza, proprietà e mezzi
di sussistenza  forte identificazione con i parenti paterni. In molti contesti gli individui agiscono
come se ciò che riguarda tali parenti riguardasse anche loro. Un affronto o un atto disonorevole da
parte di una persona ha effetti sull’intero gruppo, non solo sull’individuo.
La gente spesso descrive l’esistenza di legami interpersonali utilizzando l’espressione: “Noi
andiamo da loro e loro vengono da noi”, andare e venire si riferisce alla reciprocità sia nelle visite
quotidiane che nelle visite rituali in occasioni particolari. La mancata frequentazione è interpretata
come segno che la relazione è terminata e che il legame è stato interrotto.
L’andirivieni è accompagnato dallo scambio di doni, animali da macellare, denaro e servizi.
Offrendo doni, sia in forma di beni materiali che di servizi, la gente condivide ciò che ha.
Condividere pensieri ed emozioni, specialmente quelli che non si conformano agli ideali dell’onore
e della modestia, è anche un indice significativo di vicinanza sociale.

- Autonomia e gerarchia
Gli Awlad ‘Ali attraverso mezzi ideologici riescono a conciliare il valore fondamentale
dell’eguaglianza con il sistema gerarchico in cui vivono. Essi ritengono che le basi di uno status
superiore, del controllo delle risorse e del controllo che le persone possono esercitare sugli altri
siano morali. Gli individui devono raggiungere una posizione sociale mettendo in pratica gli ideali
culturali richiesti dal codice dell’onore, il cui valore supremo è l’autonomia.
L’autonomia o libertà è il criterio in base al quale si misura lo status e determina la gerarchia
sociale. È l’elemento costante che plasma l’ideologia beduina della vita sociale, in cui eguaglianza
non è niente altro che eguaglianza di autonomia, cioè eguaglianza di libertà dal dominio o dalla
dipendenza da altri. Questo principio è chiaro nell’organizzazione politica beduina, il modello del
lignaggio segmentario. A nessun leader è attribuita un’autorità sull’intera confederazione di
segmenti tribali.
Nonostante la retorica riguardante l’equivalenza giuridica e l’eguaglianza degli agnati esistono
enormi disuguaglianze di status e di autorità all’interno del lignaggio così come all’interno della
tribù. La distinzione prima è tra anziani e giovani. Gli anziani controllano le risorse quali i pozzi e la
terra e combinano i matrimoni per i giovani.
La diseguaglianza tra il patriarca e le persone che da lui dipendono all’interno della famiglia stessa
è allo stesso modo una diseguaglianza nella relativa indipendenza. La famiglia è il prototipo delle
relazioni gerarchiche. Il patriarca controlla le risorse. I fratelli maggiori hanno la precedenza. I
padri hanno autorità sulle figlie come sui figli. I fratelli maggiori hanno autorità sulle sorelle minori.
Marito e moglie non sono mai uguali.

- La famiglia come modello della gerarchia sociale


La fondamentale contraddizione tra ideali di indipendenza e la realtà delle posizioni diseguali è
mediata da uno stratagemma concettuale: tutte le relazioni di diseguaglianza sono concepite nel
linguaggio delle relazioni di diseguaglianza che si stabiliscono all’interno della famiglia.
Il linguaggio famigliare aggiunge alla dicotomia dominio/subordinazione le nozioni di unità e
identità: tra i membri della famiglia ci sono legami d’amore, per questo chi ha potere ha obblighi e
responsabilità di cura e protezione verso i più deboli.
Una qualità morale di obbligo e affetto reciproca caratterizza queste relazioni di diseguaglianza. I
beduini asseriscono che queste non sono relazioni di dominazione e subordinazione ma di
protezione e dipendenza. Il controllo sulle persone e sulle risorse non è arbitrario ma basato sulla
maggiore competenza e abilità degli adulti.
5. IDENTITÀ/APPARTENENZE

Gianfranco Biondi, Olga Rickards, La razza: un errore scientifico e un abominio sociale


La biologia moderna nasce nel XVIII secolo con Carlo Linneo che ha definito le modalità per
classificare gli esseri viventi e su quella base ha fondato la Tassonomia: la disciplina che definisce i
rapporti di parentela tra le diverse entità.
L’essere umano e considerato un animale fra gli altri: Linneo era un creazionista ed è stato arduo
per lui mettere gli uomini nello stesso ordine tassonomico dei Primati con il nome di Homo sapiens.
La somiglianza fra noi e i primati era pero innegabile. L’evidenza sperimentale ha anche permesso
di affermare che il concetto tassonomico di razza non può essere applicato alla specie umana. Le
razze umane non esistono.
La razza in biologia è una categoria tassonomica sottospecifica e come le altre specie deve
identificare il rapporto di parentela o antenato-discendente che unisce gli individui o i gruppi. La
gran parte delle specie viventi può essere suddivisa all’interno in razze, ma non la nostra.
Nel 1775 Blumenbach scrive De generis humani varietate nativa → nel titolo c’e già un errore: le
razze umane non sono un dato di natura. Secondo lui l’umanità doveva essere divisa 5 razze.
Questo non era un’ipotesi da validare ma un dato evidente.
La suddivisione dell’umanità in razze rispondeva alla necessita di mettere ordine nella variabilità
morfologica osservata nella nostra specie e i caratteri utilizzati riguardavano volume e forma del
cranio (posti erroneamente in correlazione con l’intelligenza) e colore della pelle.
Ma la manifestazione di quei tratti e determinata dall’interazione tra geni e ambiente quindi e di
natura ecologica. La morfologia consente di individuare la connessione tra popolazioni e ambienti
in cui vivono, non permette di ricostruire relazioni di parentela fra i gruppi umani.
La Tassonomia serve a descrivere la sequenza parentale antenato-discendente e la Razziologia ha
fallito questo compito nell’uomo. Diversamente, l’Ecologia rende conto dell’indissolubile legame
tra la vita e il luogo dove essa si è sviluppata. La Razziologia non ci ha fornito il quadro della
parentela tra le popolazioni umane, come il suo compito scientifico avrebbe imposto, ma quello
della condivisione ambientale. Questa è la spiegazione teorica dell’affermazione: le razze umane
non esistono. Rifiutare il concetto scientifico di razza significa che le diversità osservate non
devono essere ascritte alla Tassonomia ma all’Ecologia.
La falsificazione scientifica della razza è stata possibile solo nel corso della seconda metà del
Novecento e cioè dopo che la Genetica si è affermata come disciplina biologica.
Nell’Ottocento, l’Antropologia ha introdotto l’analisi matematica dei caratteri (Antropometria)
ritenendo che i tratti morfologici fossero stabili nelle generazioni. Un esperimento ha spazzato via
questa ipotesi: i figli di migranti avevano caratteristiche morfologiche diverse dai genitori dovute al
condizionamento ambientale.
Sono state proposte moltissime possibilità di suddivisione in razze, tutte inutili. p. 231
L’elevata variabilità morfologica osservata tra le popolazioni ha indotti gli antropologi ad affrontare
un ulteriore problema: se essa non fosse da attribuire a origini diverse dei vari gruppi. Questa
ipotesi della genesi multipla delle popolazioni, detta anche origine poligenica o poligenismo,
appariva la più congruente con l’esistenza delle razze umane. Anche il poligenismo è stato
falsificato. La nostra origine è unitaria.
Con la nascita della genetica e della antropologia molecolare le parentele che la morfologia aveva
proposto vengono sovvertite: i popoli africani ed europei sono da una parte dello schema, asiatici e
australiani dall’altra. Gli studi classici tenevano invece conto del colore della pelle che accomunava
europeiasiatici, e africani-australiani.
Questo e un passo in direzione della falsificazione della razza: la filogenesi morfologica non
coincide con quella genetica, quindi la razza non è un dato di natura.
Lewontin nel 1972 ha dimostrato che il 90% circa della variabilità genetica differenzia tra loro gli
individui e che solo il rimanente 10% rende le popolazioni diverse le une dalle altre.
Tutta la sperimentazione antropologica e genetica e successiva ha dimostrato che i confini genetici
tra i popoli o non esistono affatto o sono talmente tenui da suggerire che alla mescolanza genetica
tra essi ci può essere al massimo un qualche limite di natura culturale o geografica ma non
certamente razziale.

L’origine della nostra specie e stata descritta mediante due modelli morfologici:
1. Multiregionalismo → alcune popolazioni della specie Homo ergaster sono uscite dall’Africa e si
sono evolute indipendentemente nel Vecchio Mondo in diverse specie intermedie fino a dare origine
alla nostra.
Errore: pensare che evoluzioni differenti possano aver prodotto la stessa specie. Le mutazioni sono
casuali quindi non è verosimile che gruppi separati possano essere interessati da mutazioni
identiche.
2. “Fuori dall’Africa” → la nascita dell’essere umano è avvenuta una sola volta in Africa poche
centinaia di migliaia di anni fa. Dopo l’uomo ha colonizzato il resto del Vecchio Mondo. La vita
dell’uomo è così breve che è impossibile la divisione in razze.

Stretta parentela tra africani ed europei -> è stato dimostrato che ciò è dipeso dal fatto che i
gruppi di Homo Sapiens che hanno colonizzato l’Europa sono emigrati dall’Africa dopo quelli che
hanno preso la via per l’Oriente. Vale a dire che per un tempo più a lungo gli africani e noi siamo
stati un’unica popolazione.
La comunità antropologica ha potuto falsificare il concetto di razza nell’uomo ed espellerlo dalle
sue ricerche e dai suoi manuali perché esso costituiva un argomento scientifico, tanto che per
moltissime altre specie viventi non solo era, ma ancora è, assolutamente idoneo a descrivere la
parentela sottospecifica.
Nel corso dell’Ottocento e della prima metà del Novecento la Razziologia è stata usata non solo per
ordinare scientificamente, ma anche per definire una gerarchia di tipo intellettivo e morale
all’interno della quale disporre i popoli. La razza è assurta a ruolo di alibi, e di alibi autorevole in
quanto spacciato per scientifico, per il dominio dei popoli “superiori” su quelli “inferiori”.
In Italia il fascismo ha eretto a pratica il razzismo biologico per giustificare nell’opinione pubblica
la persecuzione antisemita e a guerra di dominio coloniale.  concetto di razza che si è prestato a
sostenere il razzismo
Solo alla fine della Seconda guerra mondiale è iniziato nel mondo occidentale il movimento di
falsificazione del concetto di razza.

Anne-Christine Taulor, Patrick Williams, Jean-Paul Razon, L’etnia e le minoranze etniche

- Il concetto di etnia
Etnia= termine che designa un insieme linguistico, culturale e territoriale di una certa grandezza,
essendo il termine tribù generalmente riservato a gruppi di dimensioni più ridotte.
L’espressione etnia resta per molto tempo di uso esclusivamente ecclesiastico. Essa denota, in
opposizione ai cristiani, i popoli pagani, che nel linguaggio secolare si chiameranno dapprima
nazioni o popoli, poi, a partire dal XIX secolo, razza e tribù, mentre alla fine del XVIII secolo, la
scienza incaricata della loro descrizione assume il nome di etnologia o etnografia.
Gli africanisti hanno preso coscienza che le etnie sono delle creazioni coloniali, imposte tramite
traduzioni arbitrarie in linguaggio dotto, degli stereotipi diffusi nelle popolazioni vicine. Ci si è
accorti che, da allora, la cristallizzazione di “etnie”, rinvia sempre a dei processi di dominazione
politica, economica o ideologica di un gruppo sull’altro; ancora oggi, il discorso etnicista tenuto
dalle classi dirigenti degli Stati neocoloniali, come dai media occidentali, serve soprattutto a
eliminare i movimenti di rivolta.
Il termine “etnia” non designerebbe, in definitiva, che un certo livello di organizzazione sociale, di
cui niente giustifica l’enorme privilegio epistemologico e ancor meno la reificazione.
Per molteplici ragioni l’etnicità è diventato un valore positivo di identità.

- Etnie minoritarie: problemi antropologici


Associate l’un l’altra, le nozioni di “etnia” e di “minoranza”, evocano immediatamente quelle,
strettamente legate, di gruppo e di relazione. Il gruppo può essere definito secondo criteri obiettivi
interni (comunanza di origine, di cultura, religione, di legami di parentale) o esterni (percorso
storico comune, ruolo economico ecc.) e secondo criteri soggettivi, che possono essere ugualmente
essere interni (sentimento di appartenenza, legami di solidarietà che uniscono i membri ecc.) o
esterni (controllo imposto sul gruppo dalla società circostante).
Minoranze: indiani d’America diventati tali sul loro stesso territorio; neri d’America, discendenti
dei deportati, che erano minoranze straniere sul territorio in cui vivevano; i rifugiati o gli esiliati;
gli immigrati.
Certe minoranze s’identificano con il territorio che esse occupano e non sono “minoritarie” se non
politicamente (curdi, sahrawi): c’è una “nazione” o una “nazionalità”, ma non uno Stato.
Esistono infine delle minoranze molto disperse, senza base territoriale comune (zingari).
Un esame critico della nozione di etnia conduce a dubitare dell’effettiva esistenza della stessa in
quanto entità definita: essa non sarebbe altro se non una categoria di analisi che permette di
comprendere una realtà sociale in movimento. Per raffronto, la nozione di etnia minoritaria sembra
avere una maggiore consistenza perché la realtà sociale che essa designa è il prodotto di un
rapporto di forze.

- Etnie minoritarie: problemi giuridici e politici


Non esistono etnie minoritarie in sé; esse sono tali in rapporto con altri gruppi, ai quali sono
associate all’interno di un paese retto dalle stesse leggi (Stato). Esse soffrono per l’usurpazione e
gli abusi della società globale, essendo i loro interessi subordinati agli scopi egemonici degli Stati-
nazione. Questa dominazione culturale, economica e politica si traduce nella negazione della loro
identità, nel controllo dei loro territori, delle loro risorse.
Riguardo le leggi o i comportamenti, alcuni gruppi (pigmei, khoi-san) sono oggetto di
discriminazioni diverse, da parte do tutti o di una parte dei membri della società circostante sono
sottoposti a regolamenti che urtano le loro tradizioni, altre a forme di
assoggettamento e spoliazione territoriale o forme di assoggettamento che minacciano la loro
esistenza (indiani dell’Amazzonia).
La natura e i mezzi delle rivendicazioni delle etnie minoritarie possono variare molto, in funzione
degli oltraggi inflitti ai loro diritti, dei tempi recenti o remoti in cui è avvenuta la loro integrazione
forzata nella società globale, ecc:
- Conseguimento di garanzie giuridiche di fronte ad alcune minacce
- Concessione di diritti particolari in materia economica, sociale, politica
- Concessione di uguaglianza di diritti con i cittadini dello Stato-nazione dominante
Possono essere infine apportatrici di un’esigenza più radicale, di autonomia o indipendenza.
Ugualmente i mezzi usati per le rivendicazioni possono andare dall’azione condotta nel quadro
della legislazione del paese, fino alla lotta armata.
6. MOBILITÀ/MIGRAZIONI

Philip e Iona Mayer, L’emigrazione e lo studio degli africani in città

Aiwha Ong, Da rifugiati a cittadini

- Dinamiche dello stato e ambiguità dei rifugiati


Nonostante i reportage giornalistici e le storie di vita dei rifugiati nel XX secolo, poca attenzione è
stata posta allo studio delle loro esperienze di dislocamento, regolamentazione o inserimento
all’estero. Si presta invece molta più attenzione alla minaccia che essi sembrano costituire per lo
Stato-nazione. Anche gli antropologi hanno adottato un modello di opposizione tra rifugiato e Stato
considerando la condizione di rifugiato e opposta alla nozione di cittadino e che quindi rappresenta
una sfida alla sovranità dello Stato.
L’immagine stessa di nazione tende ad escludere ideologicamente i rifugiati; di conseguenza questi
finiscono per venire definiti moralmente impuri.
Porre l’accento sulla nazione però finisce per eclissare i processi reali che ritrasformano i rifugiati
in cittadini.
Infatti, ci sono anche rifugiati che vengono reinseriti in nuovi paesi. Ignorando questo fatto non si
tiene conto di come gli Stati e i loro abitanti possano essere pro o contro l’afflusso di rifugiati.
La maggior parte delle persone fa coincidere la cittadinanza con il possesso di un insieme di diritti,
cioè con una condizione legale. La nozione di cittadinanza come nazionalità distingue i cittadini
dagli stranieri e da residenti illegali.
Gli USA, per esempio, alla loro fondazione esclusero dalla cittadinanza tutti coloro che non erano
nati nelle colonie.
Vari organismi statali e associazioni private concorrono nel trasformare i rifugiati in cittadini.
Quando i cambogiani negli anni ‘80 arrivarono in USA la loro condizione di rifugiati non venne meno
neanche durante il processo per diventare americani → questa rilevanza dello status di rifugiati
mostra come alcuni processi istituzionali plasmino il processo che trasforma in minoranza gli
immigrati facendoli dipendere dal welfare state.
L’imperativo morale di offrire asilo ai rifugiati è stata una caratteristica della politica USA fin dal
1945.
Lo status di rifugiato viene conferito solo quando le richieste di ingresso vengono presentate al di
fuori degli Stati Uniti, ai funzionari dell’immigrazione che si trovano in Stati terzi. Questa politica
ha fatto sì che, dagli anni Cinquanta ad oggi piu del 90% dei rifugiati ammessi negli Usa proveniva
da paesi comunisti. Questa politica ha sfavorito gli esuli politici provenienti dal Sud America (Haiti,
El Salvador, Cile) che non rientravano nel programma anticomunista americano, ma erano
considerati sudditi di dittature di destra alleate agli Stati Uniti. Così molti di quei futuri rifugiati
sono stati costretti a entrare nel paese illegalmente come stranieri e a chiedere asilo.
A partire dal 1950 sono stati ammessi più di due milioni di rifugiati provenienti dai paesi comunisti,
tre quarti dei quali arrivavano da Cuba e dal Sudest asiatico, e più di mezzo milione dall’Europa
centrale e orientale. Nel momento però in cui i rifugiati diventavano residenti permanenti,
perdevano la loro aura di combattenti per la libertà. Negli anni ‘70 l’immagine dei rifugiati contro
il comunismo inizio a sbiadire ed essi iniziarono a rappresentare più un pericolo che un’opportunità.
Quando iniziarono ad apparire i cubani di colore la razza inizio ad alterare la percezione dei
rifugiati provenienti da paesi comunisti.
Inoltre, l’intervento americano per porre un freno alla diffusione del comunismo in Indocina (guerra
del Vietnam) ebbe come conseguenza molte boat people in fuga dal Vietnam (migranti su barconi
senza meta che sperano di incrociare rotte di navi per essere raccolti).
Aumentavano quindi le quote di immigrazione delle popolazioni del Sudest asiatico verso gli Usa.
Ora anche i rifugiati hanno perso la loro aura morale: i nuovi migranti reggevano male il confronto
con l’élite intellettuale europea sfuggita al nazismo e al comunismo.
L’opinione pubblica inizia ad osteggiare i boat people. Entra in uso l’espressione rifugiato
economico per indicare persone che non scappano da persecuzioni politiche.

- Salvare i figli
Gli sfollati del Sudest asiatico costituirono il gruppo di rifugiati più importante fra quelli entrati
negli Stati Uniti in quegli anni di limbo morale.

Man mano che la maggior parte delle famiglie cambogiane-americane povere si adattava alle
esigenze di vita nell’America urbana, il conflitto tra genitori e figli diventava una questione sempre
più ricorrente in alcune di esse. I conflitti con i figli derivavano di solito dalla perdita di autorità
morale dei genitori e dai tentativi dei figli stessi di sviluppare una propria identità di fronte alle
drammatiche contraddizioni che sorgevano tra le aspettative dei genitori e l’influenza della società
americana nel suo complesso. Molti ragazzi cambogiani avevano l’impressione che non avrebbero
potuto imparare come essere moderni seguendo il modello dei loro genitori. Di conseguenza i figli
di genitori rifugiati cercavano con ogni mezzo di liberarsi da codici di famiglia cambogiani che ai
loro occhi appariva antiquati e insignificanti, mentre l’esposizione quotidiana alla cultura
consumistica, alla televisione, alla scuola e alle gang di strada esercitava un’influenza molto forte
sulla formazione della loro identità individuale.

- Ragazze a rischio
La perdita del controllo sulla sessualità delle figlie è il fatto che provoca più angoscia nei genitori
cambogiani. Ragazzi e ragazze erano trattati in modo diverso per quanto riguarda il comportamento
sessuale. Mentre la promiscuità di un ragazzo poteva anche essere interpretata come virilità, le
ragazze dovevano conservare la loro purezza sessuale perché era ciò su cui si basava l’onore della
famiglia. Le avventure sessuali dei ragazzi erano tollerate, ma le ragazze che uscivano con i ragazzi
o praticavano sesso prima del matrimonio causavano l’umiliazione dei genitori perché significava
che questi avevano perso il controllo sulle proprie figlie e quindi, non riuscendo a salvaguardare la
virtù familiare, finivano per essere disprezzati da tutta la comunità.
Il controllo sulle figlie e i maltrattamenti nei loro confronti erano il primo catalizzatore delle
critiche degli operatori sociali ai genitori cambogiani e alla loro cultura.
Gli appuntamenti fra adolescenti americani inoltre erano un modo per mostrare popolarità,
ricchezza e fascino. Al contrario la concezione khmer di corteggiamento era simile a quella
americana dell’Ottocento, richiedeva che il potenziale pretendente venisse a dichiararsi, che
esibisse un comportamento rispettoso verso i genitori della ragazza e che si mostrasse di una
qualche utilità in casa loro. I genitori fissavano barriere sociali e sessuali fino al matrimonio della
ragazza.
Nei conflitti per il controllo del comportamento dei figli adolescenti, la cultura finì per essere un
elemento che poteva essere usato, da operatori sociali e avvocati, per dimostrare che gruppi
immigrati come i cambogiani dovevano essere giudicati in modo diverso da altri gruppi che
risiedevano in America.
8. DIVERSITÀ E RELATIVISMO

Leonardo Piasere, La nuova Turii

- “Protagoristi”
Protagora era stato amico e consulente di Pericle, il quale gli aveva affidato la stesura della
costituzione della nuova città di Turii che, sulle rovine di Sibari, doveva riunire coloni provenienti
da tante parti della Grecia. Era una colonia “panellenica”, cioè, limitatamente al mondo greco di
allora, pluriculturale. È significativo che Pericle, padre della democrazia occidentale, chiami
Protagora, sofista, a redigerne la costituzione. Protagora propugnava per Turii una legislazione che
oggi chiameremmo interculturale, che tenesse in considerazione le leggi delle varie città di
provenienza dei nuovi coloni. Nella quotidianità praticava un relativismo militante, cioè pragmatico
e non ingenuo. Era un relativismo che non temeva di sporcarsi le mani nella politica; anzi, era un
relativismo che considerava la partecipazione politica dei singoli alla democrazia come un modo
per raggiungere la virtù. Relativismo che per Turii, per la prima volta nella storia occidentale,
prevedeva la scuola per tutti i figli dei cittadini a spese della città, che prevedeva cioè la scuola
pubblica (ma non obbligatoria) anche per chi non ne avesse i mezzi.
Predicava che ogni uomo e misura di tutte le cose e ha in se la virtù politica e per questo e degno
di ascolto. La virtù politica si può acquisire.
Però una teoria relativista sarebbe coerente solo se tutti gli uomini fossero relativisti.
Ma il problema di incoerenza del relativismo e lo stesso dell’incoerenza della democrazia: é giusto
ammettere un partito che predica la cancellazione della democrazia? Quindi relativismo e
democrazia sono indissociabili.
Il relativismo diventa il capro espiatorio di una lotta contro le nuove forme di democrazia.
La sfida moderna e quella di costruire democrazie cosmopolite, costruite anche sulla presa in
considerazione delle lotte per le identità.
Non è vero che il relativismo culturale predica l’assenza dei valori → il principio di relatività
culturale non significa che se i membri di una tribù possono comportarsi in un certo modo, questo
garantisce che tutti i gruppi possono comportarsi così.
Relatività culturale significa che l’idoneità di ogni usanza va considerata in relazione alla sua
adattabilità alle abitudini di un gruppo.
L’antropologia non nega da un punto di vista teorico l’esistenza di principi morali assoluti.
L’uso del metodo comparato ci fornisce mezzi scientifici per scoprire questi assoluti: se tutte le
società attuali vietano un comportamento, questo e un forte argomento per ritenere che vi e alla
base la considerazione di un principio morale irrinunciabile.

- I diritti dell’uomo e i diritti dei popoli


Il relativismo culturale nasce nell’antropologia moderna con Franz Boas e balza sulla scena durante
il dibattito per la redazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Nel dibattito risorsero le obiezioni già evidenziate da Platone e Aristotele: gli antropologi dicevano
che voler fare enunciati universali sulla base di una prospettiva relativistica e contradditorio e
chiedevano di tenere conto dell’uomo in quanto membro di un gruppo sociale rischiando di avallare
condizioni di sfruttamento. Nato come strumento di critica all’etnocentrismo occidentale, il
relativismo culturale rischiava di diventare un’ideologia che manteneva rapporti di
dominanza/sottomissione di vario tipo.
Però la storia ha dato ragione ai consigli di quegli antropologi.
Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo → i diritti umani in mancanza di un diritto di
appartenenza a una comunità nazionale sono insufficienti per garantire il diritto a un uomo di avere
diritti. L’uomo vive in una concreta condizione storica per cui solo se sei un cittadino hai dei diritti.
Se hai appartenenza politico-giuridica sei un uomo.
Iniziano quindi a fiorire Dichiarazioni che cercavano di smussare l’Uomo astratto inserendolo in
contesti culturali concreti.

- Differenza e gerarchia
Viveiros de Castro  studi riguardo a quello che egli chiama il multinaturalismo amerindiano. In
molte culture amazzoniche gli uomini e gli animali sono pensati condividere una stessa essenza
umana “rivestita” da corpi diversi. Gli esseri non-umani, nonostante la loro apparenza, sono quindi
persone. La traduzione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo nelle cosmologie
amazzoniche suona come una Dichiarazione Universale degli Esseri Viventi visto che tutti hanno
un’essenza umana.
In queste cosmologie diventano essenziali gli sciamani che riescono a vedere i non umani come
umani.
Secondo molti antropologi il relativismo e quella teoria che sostiene la “molteplicità di
rappresentazioni” circa un unico mondo. Questo e quello che non succede in Amazzonia. Abbiamo
un mondo che prevedere una molteplicità di soggetti, umani e non-umani. Essi vedono il mondo allo
stesso modo ma, avendo corpo diverso, vedono il mondo in modo diverso. Questo non è relativismo,
dice Viveiros de Castro, perché non siamo in presenza di una molteplicità di rappresentazioni ma di
una molteplicità di mondi concepiti a partire da un punto di vista, cioè da un corpo: è quello del
prospettivismo amerindiano.
Viveiros de Castro costruisce il prospettivismo per inversione rispetto al relativismo; il primo
sarebbe caratteristico del multinaturalismo amerindiano, il secondo del multiculturalismo
occidentale, il quale comporta una molteplicità di rappresentazioni soggettive parziali; e arriva a
dire che il prospettivismo non è un relativismo, ma un relazionismo. Anche il relativismo percettivo
di Protagora così sembra un relazionismo. Per il filosofo una cosa è in se tutti i modi in cui è
percepita, ma è percepita in modo diverso a seconda della condizione delle persone e in questo
senso, ogni percezione è vera in relazione alla persona che è nella condizione appropriata per
apprendere quell’aspetto di realtà.
Il prospettivismo, quindi, è quella forma di relativismo che si pone come verità della relatività
invece che come relatività della verità.
Forse in analogia con la teoria della relatività di Einstein gli antropologi hanno coniato l’espressione
“relatività culturale” senza pero considerarne due caratteristiche:
1. Il problema della continuità
Nella concezione di Tyler le culture erano come scatole con confini che le separavano nettamente
le une dalle altre. A questa visione discontinuista oggi si sta sostituendo una visione continuista in
cui le culture sfumano le une sulle altre sovrapponendosi.
Il relativismo classico centrato solo sul soggetto marcava la discontinuità e figurava i rapporti tra
culture come ponti tra entità separate. Il prospettivismo invece è appropriato per una visione
continuista.
2. La sua natura relazionale
L’alterità non rappresenta un’essenza, una qualità intrinseca. E una nozione relativa: si è Altro solo
agli occhi di qualcuno.

- Prospettivismo a scuola
Il dibattito sul pluralismo educativo nelle società multiculturali è sotto le luci della ribalta. Il
tentativo è quello di far convivere più “culture” in una scuola nata per la perpetuazione di una
“cultura”. Il tentativo più avanzato è quello dell’interculturalismo pedagogico, che dice di
proporre un approccio dialogico contro la visione fissista delle culture.
Ma il dialogo che propone non arriva mai a discutere due fenomeni fondamentali:
1. il guscio entro cui il dialogo si svolge: la scuola
2. il principio di libertà di scelta culturale
La forma scuola è una costruzione sociale apparsa in Europa nel XVI e XVII secolo. È una forma
inedita di relazione fra un maestro e uno scolaro ed è distinta da altre relazioni sociali perché è
sempre più autonoma (spossessa gli altri gruppi sociali delle loro competenze).
Nasce per la forma scuola un luogo ad hoc e un tempo ad hoc. Vi si impara l’obbedienza alle regole.
La relazione pedagogica è sottomissione del maestro e dello scolaro a regole impersonali. In uno
spazio chiuso e interamente ordinato al compimento da parte di ciascuno dei propri compiti in un
tempo regolato.
Quale educazione scolastica può sopportare la nuova società multiculturale?
Gli Stati-nazione hanno stabilito l’equazione successo scolastico = assimilazione culturale.
Ma oggi quasi nessuno stato e interamente omogeneo. Gli Stati devono trovare i modi per dare vita
all’unità nazionale in mezzo alla diversità.
Le politiche multiculturali sono quelle politiche che riconoscono ufficialmente le diversità culturali.
E la forma-scuola, allora può diventare fondamentale per la costruzione dei nuovi Stati
multiculturali e per la costruzione della nuova democrazia multiculturale.
La nuova democrazia è quella forma politica che favorisce la libertà di scelta individuale tra
espressioni culturali diverse perché l’identità ha in se anche un elemento di scelta.
Nella nuova democrazia non c’e la corsa all’integrazione che maschera la reale corsa
all’assimilazione.
È la nuova scuola che dovrebbe giocare un ruolo fondamentale, essendo il progetto del
prospettivismo, di questo prospettivismo, del relativismo che tiene conto dei rapporti di potere e
che è dalla parte dei subalterni.
I nuovi “protagoristi”, è questa nuova Turii che vogliono abitare.

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