CULTURA/CULTURE
si può affermare che la differenza essenziale tra la concezione classica e quella moderna è data
dall’assenza o dalla presenza dei costumi come contenuti specifici della cultura. Se la cultura in
senso classico era costituita da ideali, verità e valori non condizionati dai mores (costumi), e se la
sua acquisizione coincideva con una liberazione dagli abiti e dalle consuetudini locali, la cultura in
senso moderno è invece costruita dai costumi, e un’analisi in termini culturali comporta il
riconoscimento della loro importanza e della loro incidenza in una molteplicità di ambiti del
comportamento umano.
Seconda metà del Settecento -> l’Europa sta completando il proprio giro attorno al mondo
Concetto etnografico di cultura che emerge dalle zone filosoficamente marginali del pensiero
tedesco:
Tra i pensatori per i quali le relazioni di viaggio si configurano come fonti imprescindibili per la
considerazione del mondo umano nelle sue varie forme, la figura di maggior spicco sotto il profilo
dell’elaborazione del concetto moderno e poi antropologico di cultura è senz’altro Johann
Gottfried Herder. Tipico di Herder è il desiderio di rimanere “costantemente in una sorta di viaggio
attraverso gli uomini”, raccogliendo le informazioni da ogni parte della terra e il rifiuto della
troppa filosofia di coloro che vogliono ritrovare “in un piccolo angolo della terra il mondo tutto”.
Alla base di questi atteggiamenti vi è la percezione della pluralità irriducibile delle “forme di vita”
che l’umanità può assumere, e quindi l’improbabilità della “cultura” in senso classico – la cultura
della comunità dei dotti – come modello esclusivo e, nello stesso tempo, universale di umanità.
La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include
la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e
abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società”.
Contenuti del concetto di cultura -> le origini etnografiche di questo concetto hanno portato a
individuare come contenuti della cultura soprattutto i costumi, ovvero quegli aspetti o dimensioni
del comportamento umano che sono sì dotati di regolarità – nel senso almeno della ripetitività – ma
di una regolarità variabile, nel senso che è tipico dei costumi variare da luogo a luogo e da tempo a
tempo, ossia tra società e società e, all’interno di una stessa società, tra i momenti diversi della
sua storia. Significativamente, nella definizione tyloriana troviamo in posizione centrale e critica
proprio la nozione di costume, ed è questa nozione, insieme a quella strettamente imparentata di
“abitudine”, ciò che, dal punto di vista dei contenuti, costituisce l’innovazione semantica più
decisiva rispetto al concetto tradizionale e classico di cultura.
Fin dalle sue manifestazioni più rudimentali e primitive la cultura si configura come un insieme di
forme e processi che si collocano tra gli organismi umani e il mondo esterno.
Per Kroeber il carattere esteriore della cultura si oppone al carattere interiore dell’istinto -> la
cultura, in quanto tradizione, è qualcosa che viene “dato attraverso”, passato di mano in mano
dall’uno all’altro.
Gli studi più recenti sulla teoria della cultura mantengono l’idea della sua esteriorità ma rifiutano
la concezione stratigrafica.
Clifford Geertz → una volta la natura umana era pensata come nascosta dai costumi, i quali erano
ostacoli da rimuovere per cogliere l’umanità nella sua purezza. Nella prospettiva di Kroeber i
costumi non sono più usanze senza senso ma sono inseriti ordinatamente in una cultura. Gli sviluppi
più recenti della teoria antropologica predicano l’impossibilita di cogliere l’uomo nella sua purezza
originaria avulso dai costumi. I costumi foggiano le realtà che sono gli uomini nelle loro differenze
culturali. I costumi sono la vera seconda natura umana in cui va ricercata l’essenza dell’uomo.
L’essenza uomo viene resa compatibile con la variabilità.
Essere uomo = pluralità di forme particolari.
Quindi lo sviluppo cerebrale che caratterizza l’evoluzione umana e avvenuto in un ambiente già
culturale.
Modello interattivo (vs. visione stratigrafica) → la cultura e vitale, non è un’esteriorizzazione di cui
si potrebbe fare a meno. Non è solo utile per una specie fisicamente inerme quale e l’uomo. È
indispensabile per l’uomo, e la base della sopravvivenza biologica dell’uomo.
- Simboli condivisi
Il modello interattivo intende la cultura non soltanto come strumentalità, ma anche e forse
soprattutto, come simbolismo: la cultura incide nella vita dell’uomo e si configura come
“prerequisito” della sua esistenza biologica, psicologica e sociale in virtù non soltanto
dell’apparato tecnologico che sa fornire, ma anche della sostanza simbolica di cui è composta. Il
simbolismo della cultura è la qualità più precipua dell’ambiente in cui gli esseri umani e il loro
cervello si sono formati e continuano a svilupparsi.
Questo modello sottolinea fortemente il carattere della cultura come ambiente vitale degli esseri
umani, ma proprio in base al presupposto dell’interazione ritiene altresì che questo ambiente
impregnato di simbolismo sia a sua volta il prodotto, per molti aspetti inconsapevole, degli
organismi umani.
Il modello implica il rifiuto dell’idea dell’uomo come essere naturale che acquisisce o produce in un
secondo tempo la cultura.
La condivisione dei simboli è in effetti la base della vita sociale, la condizione di possibilità degli
scambi e delle azioni all’interno dei gruppi, la giustificazione più profonda della loro identità e
quindi anche il motivo della loro differenziazione culturale rispetto ad altri gruppi sociali.
Condividendo simboli si produce un “noi” e nello stesso tempo si determinano le differenze tra noi
e gli altri, tra il proprio “noi” e quello degli altri.
Parlando di “magia dei simboli condivisi” allude al fatto che i simboli condivisi agiscono come
presupposti e come condizioni della vita sociale di un particolare gruppo, in quanto vengono
scarsamente o nient’affatto esplicitati, resi oggetto di riflessione o di analisi: essi rimangono sullo
sfondo, anzi sullo sfondo della coscienza sociale, e vengono perlopiù sottratti, per mezzo della
routine della vita quotidiana, alla presa dell’atteggiamento critico. I simboli condivisi si trovano
infatti nei costumi più inveterati, nelle consuetudini più ovvie, negli atteggiamenti in apparenza più
naturali, a cui di solito non si presta attenzione.
I simboli condivisi non vivono soltanto nell’ombra della quotidianità, nelle azioni, nei pensieri, e nei
sentimenti in apparenza più banali (nelle norme dell’igiene e dell’etichetta, nei gusti
dell’abbigliamento o nel senso dell’ordine a tavola). Essi vengono talvolta esaltati, trasfigurati, resi
più potenti, allorché si conferisce loro una più esplicita realtà sovraindividuale, non solo
proclamando la loro indipendenza, ma sottolineando con rituali e credenze la dipendenza degli
uomini da queste entità. La “magia dei simboli condivisi” è anche questo: la trasposizione di
presupposti in entità che dominano esplicitamente la coscienza individuale, e alle quali ci si
riferisce periodicamente per orientare le azioni proprie e altrui, per motivare le scelte morali della
società, per determinare in qualche modo il futuro. Vi possono essere connessioni profonde tra i più
umili rituali della vita quotidiana e le costruzioni religiose più raffinate e complesse, le quali
insistono sul rapporto di dipendenza degli individui e dei gruppi da entità sovraumane. In un caso e
nell’altro è la potenza dei simboli condivisi che agisce e viene esaltata: naturalizzati nel primo e
sovra-umanizzati nel secondo, i simboli condivisi manifestano il loro potere nella misura in cui
risultano intatti o sono considerati intoccabili.
Questa sottrazione dei simboli condivisi alla presa della consapevolezza e alla manipolazione
sociale fa parte di un processo più vasto variamente denominato come entificazione,
sostanzializzazione, autonomizzazione, reificazione, il quale consiste nel conferimento di simboli di
una condizione di realtà autonoma e indipendente. I rituali e le abitudini della vita quotidiana da
un lato, le cerimonie e le credenze religiose dall’altro, rappresentano esiti particolarmente ben
riusciti del processo di reificazione.
La tendenza alla reificazione – la tendenza a trasformare in cose ritenute indipendenti e autonome
i simboli di cui facciamo - è uno dei caratteri fondamentali della cultura. La reificazione è infatti il
processo che consente di consolidare i simboli condivisi e, salvaguardandoli per quanto si può dal
flusso esperienziale del loro impiego, attribuendo loro un’esistenza a parte e stabile, consente pure
di conferire loro il ruolo di presupposti e di condizioni della comunicazione e della vita sociale.
“trucco delle reificazione”: trasformare i simboli condivisi, dunque eminentemente sociali, in
qualcosa che non ha a che fare con la società.
La reificazione è un processo costitutivo; ma, per quanto vitale, essa non può superare del tutto la
concezione di precarietà che caratterizza nel profondo la sostanza simbolica della cultura.
Altrettanto fondamentale della reificazione, la precarietà accompagna costantemente la
produzione culturale.
- Le variazioni e il mutamento p. 29
- Dilatazioni e sconfinamenti concettuali p. 37
- L’occhio dell’antropologia
Per Appadurai l’Antropologia è il suo archivio di realtà vissute che ritrova in tutti tipi di etnografie
di persone che hanno trascorso vite molto diverse dalla sua, nel presente e nel passato.
Si trova spesso a disagio con il sostantivo cultura, mentre è assolutamente affezionato alla forma
aggettivale del sostantivo, e cioè culturale. Gran parte del disagio dovuto al sostantivo ha a che
fare con il preconcetto che la cultura sia un qualche oggetto, una cosa o una sostanza, fisica o
metafisica. Questa sostanziazione sembra riportare la cultura nello spazio discorsivo della razza.
L’aggettivo culturale conduce verso il più fertile campo delle differenze, dei contrasti e delle
comparazioni. La qualità principale del concetto di cultura è il suo valore euristico, che le consente
di evidenziare punti di somiglianza e di contrasto tra tutti i tipi di categorie: classi, generi, ruoli,
gruppi e nazioni.
In primo luogo, Appadurai ritiene che piuttosto che considerare la cultura una sostanza, è più utile
considerarla una dimensione di fenomeni, una dimensione che si accompagna alla differenza situata
e incarnata. Se si sottolinea la dimensionalità piuttosto che la sostanzialità della cultura, possiamo
pensare quest’ultima come uno strumento euristico utile per parlare della differenza, piuttosto che
come una proprietà degli individui o gruppi.
In secondo luogo, propone di considerare culturali solo quelle differenze che esprimono oppure
formano la base per la mobilitazione di identità collettive. Questa specificazione fornisce un
generico principio di selezione che consente di concentrarsi su una varietà di differenze che hanno
a che fare con l’identità collettiva, sia all’interno, sia all’esterno di qualsiasi gruppo sociale
specifico. mette la mobilitazione dell’identità di gruppo al cuore dell’aggettivo culturale.
Sintesi: propone un approccio aggettivale che sottolinea la dimensione contestuale, euristica e
comparativa della cultura che ci orienta al concetto di cultura come differenza, soprattutto nel
campo nell’identità di gruppo.
Tipo di relazione tra cultura e identità di gruppo che Appadurai articola: la parola cultura, nel suo
senso non marcato, può continuare ad essere usare per fare riferimento alle molteplici differenze
che oggi caratterizzano il mondo, differenze a vari livelli, con diverse valenze, e con conseguenze
più o meno ampie in campo sociale. Propone tuttavia di restringere cultura, come termine
marcato, al sottoinsieme di differenze che viene mobilitato per articolare il confine della
differenza. Per quanto riguarda il mantenimento del confine, la cultura diviene quindi una
questione di identità collettiva costituita da alcune differenze tra altre.
Sintesi 2: dalla cultura in quanto sostanza alla cultura in quanto dimensione della differenza, alla
cultura come identità collettiva basata sulla differenza, alla cultura come processo di
naturalizzazione di un sottoinsieme di differenze che sono mobilitate per articolare l’identità di
gruppo.
Culturalismo Si usa il termine culturalismo per designare un tratto di quei movimenti che
implicano consapevolmente le identità nel loro formarsi. È la politica dell’identità mobilitata al
livello dello Stato nazionale/deliberata mobilitazione delle differenze culturali al servizio di più
vaste politiche nazionali o trasnazionali.
La violenza etnica cui assistiamo in molte zone del mondo è parte di una trasformazione più vasta
che è indicata con il termine culturalismo.
Il culturalismo è spesso associato a memorie extraterritoriali, a volte all’esilio e all’asilo politico, e
quasi sempre a lotte per un maggiore riconoscimento da parte degli esistenti Stati nazionali o da
parte di vari organismi trasnazionali.
I movimenti culturalisti spesso si fondano sugli eventi, reali o potenziali, della migrazione o della
secessione. Sono sensibilissimi ai temi dell’identità, della cultura e dell’eredità. È questa
mobilitazione deliberata, strategica e populista del materiale culturale che giustifica la loro
denominazione come movimenti culturalisti. I movimenti culturalisti, che riguardino afro-americani
negli USA, pakistani in Gran Bretagna, algerini in Francia, nativi hawaiani, sikh o francofoni del
Canada, tendono tutti a essere antinazionali e metaculturali. In senso lato, il culturalismo è la
forma che la differenza culturale tende ad assumere in un’epoca di mediazione di massa,
emigrazione e globalizzazione.
Tim Ingold, Abitare o costruire
Saggio parzialmente autobiografico. Ingold tenta di descrivere i suoi tentativi di trovare un modo
soddisfacente di comprendere le relazioni tra gli esseri umani e l’ambiente. Si occupa in particolare
del significato dell’architettura, o di quella parte dell’ambiente che convenzionalmente si descrive
come “costruito”.
Un ambiente non è mai dato ma è sempre in costruzione. Questo fatto ha delle implicazioni
importanti per le nostre idee sulla somiglianza e le differenze tra gli esseri umani e gli animali, in
riferimento ai modi in cui gli uni e gli altri si costruiscono dei mondi.
In anni recenti ha cambiato idea su alcune cose, e questo è il motivo per cui il saggio è
parzialmente autobiografico. Era sicuro che i modelli sviluppati dagli ecologi e dai biologi evolutivi
per spiegare le relazioni tra organismi e ambiente potessero essere applicati anche agli esseri
umani come alle altre specie, tuttavia gli ea chiaro che questi modelli non lasciavano spazio a ciò
che sembrava la più importante caratteristica dell’attività umana – il fatto che essa è motivata e
intenzionale. azione umana intenzionale
Significato dell’ambiente costruito: come possiamo distinguere un ambiente che è stato costruito
da uno che non lo è?
Possiamo definire l’ambiente costruito “qualsiasi alterazione fisica dell’ambiente naturale, dal
focolaio alle città, per mezzo di una costruzione umana”. Ma perché i prodotti dell’attività di
costruzione dovrebbero differire di principio dalle costruzioni degli altri animali? In altre parole,
che diritto abbiamo di identificare convenzionalmente l’artificiale con ciò che è “fatto dall’uomo”?
Tesi: immaginiamo la conchiglia di un mollusco, la tana di un castoro e una casa umana. Tutti e tre
sono stati presi come esempio di un certo tipo di architettura. Alcuni autori applicherebbero il
concetto di “architettura” alla sola casa, altri includerebbero la tana del castoro – come esempio di
“architettura animale” – ma escluderebbero la conchiglia, altri accetterebbero tutti e tre gli
esempi.
Ingold sosteneva che la differenza tra tana e casa non sta nella costruzione della cosa stessa, ma
nelle origini del progetto che ne governa la costruzione. Il progetto della tana è incorporato nello
stesso programma che sottende lo sviluppo del comportamento del castoro: il castoro non è il
progettista della tana più di quanto non lo sia il mollusco per la sua conchiglia. È un mero esecutore
di un progetto che si è evoluto, insieme alla morfologia e al comportamento del castoro, attraverso
un processo di variazione e di selezione naturale. In altre parole, sia il castoro, nella sua forma
esteriore e fenotipica, che la sua tana sono “espressioni” dello stesso genotipo. Gli esseri umani
invece sono gli autori dei loro progetti, costruiti attraverso processi di selezione, di selezione
intenzionale di idee. “A differenza della più elaborata costruzione animale, le costruzioni umane
comportano decisioni e scelte, sempre e inevitabilmente, e pertanto comportano un progetto”. È a
questo progetto, argomentava, che ci riferiamo quando diciamo che una casa è costruita, piuttosto
che semplicemente formata. Addirittura, estese questa tesi al dominio degli utensili. Gli strumenti
vengono costruiti laddove ce ne si fa un’immagine prima della loro esecuzione materiale.
Es. pietra che diventa un martello: cooptazione ci sono due tipi di fare: co-optativo e
costruttivo. Nel fare co-optativo, un oggetto già esistente viene adattato a un’immagine
concettuale di un possibile uso futuro, nella mente dell’utente. Nel fare costruttivo, questa
procedura è capovolta, in quanto l’oggetto viene fisicamente modellato per conformarsi
esattamente a un’immagine preesistente.
Umwelt
Jakob von Uexküll, opponendosi alla biologia meccanicistica del tempo, sostenne che considerare
l’animale come un mero assemblaggio di organi sensori e motori significa dimenticare il soggetto
che usa tali organi come strumenti, rispettivamente per la percezione e l’azione p. 51
Per von Uexküll, l’Umwelt – cioè il mondo costituito dalle attività vitali specifiche dell’animale –
doveva essere chiaramente separato dall’ambiente, nel senso del contesto che circonda l’animale
come esso appare a un osservatore umano esterno. Noi esseri umani non possiamo accedere
direttamente alle Umwelten di altre creature, ma attraverso un attento studio possiamo
immaginare come potrebbe essere. Non è però vero il contrario: l’animale non umano, poiché non
può distaccare la propria coscienza dalle proprie attività vitali, continuamente sprofondato nel suo
Umwelt, non può vedere gli oggetti come tali, perciò essi sono sé stessi.
Es. abitanti di una quercia p. 52
Lo stesso albero figura in modi diversi per i rispettivi Umwelten dei suoi molteplici abitanti. Ma in
nessuno di essi esiste come un albero.
Le differenti percezioni degli umani non sono legate, come lo sono per l’animale, al modus
operandi dell’organismo. Gli esseri umani non costruiscono il mondo in un certo modo in virtù di ciò
che sono, ma in virtù delle loro concezioni delle possibilità. E queste possibilità sono solo limitate
dal potere dell’immaginazione.
Mentre l’animale non umano percepisce gli oggetti in quanto immediatamente disponibili per l’uso,
agli esseri umani essi appaiono inizialmente come fenomeni i cui usi potenziali debbono essere
assegnati, prima di utilizzarli.
2. COMPARAZIONE/ETNOGRAFIA
[“cugini incrociati” in antropologia, si intendono i figli della sorella del padre e quelli del
fratello della madre di Ego
“cugini paralleli” si intendono i figli del fratello del padre e quelli della sorella della madre
“patrilaterale” o “matrilaterale” si specifica se il rapporto di parentela passa attraverso il padre
o la madre di Ego]
Remotti, dopo aver “provato” la prospettiva delle somiglianze di famiglia wittigensteiniane nello
studio dei centri politico-rituali, ha posto al centro della problematica comparativa la dimensione
connessionista che, a suo giudizio, dovrebbe non solo evitare le impasses del comparativismo
classificatorio e tipologizzante, ma assegnare allo sguardo comparativo dell’antropologia una
validità metodica fondamentale.
In Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, secondo Remotti, gli antropologi avrebbero sempre
messo in pratica uno sguardo wittigensteiniano, orientato a cogliere non le analogie e le ricorrenze
in quanto tali, ma i principi che trasversalmente interessano l’organizzazione delle culture e delle
società. Per Remotti vale l’idea di stabilire dei “fasci di relazioni” tra fenomeni, “reti di
connessioni”, che l’antropologia “va tessendo nei più svariati contesti”.
La nozione di “rete di connessione” è per Remotti estremamente feconda in quanto da un lato pone
un freno alla polverizzazione della realtà umana subentrata in risposta al lungo imperio delle
tipologie rigide; e dall’altro ci ricorda che una rete non è una totalità, ma solo una parte di
quest’ultima, e quindi che i “fasci di relazioni” che ni andiamo costruendo nelle nostre descrizioni
delle culture sono “sempre di numero decisamente inferiore a quelli potenzialmente costruibili”.
La fecondità della nozione di rete, in contrapposizione a quella di tipologia, consiste dunque nel
farci percepire che finché riusciremo a stabilire tali reti e tali connessioni il compito
dell’antropologia non verrà meno.
La prospettiva connessionista nasce dallo scettiscismo di fronte alla possibilità di praticare
comparazioni fondate su un’idea di causazione lineare tra elementi e di poter racchiudere la realtà
in tipologie esaustive. Da questo punto di vista il connessionismo, pur non abbandonando un’idea di
oggettività come elemento intrinseco e necessario al discorso antropologico, sposta tale idea sul
versante delle categorie e dei modelli cognitivi, cioè del nostro “vedere come”.
3. PERCEZIONE/CONOSCENZA
- La relatività linguistica
Una delle affermazioni più nette della posizione secondo cui il modo in cui pensiamo al mondo è
influenzato dalla lingua che usiamo è contenuta in un articolo scritto da Sapir nel 1929 “La
posizione della linguistica come scienza”. In questo scritto egli afferma che gli esseri umani sono
alla mercé della particolare lingua che parlano.
Questa posizione fu ribadita un decennio dopo da Whorf, che la formulò come “principio di
relatività linguistica”; con questo termine egli indicava il fatto che “gli utenti di grammatiche
profondamente diverse sono indirizzati dalle loro grammatiche verso tipi di osservazioni diversi e
valutazioni diverse di atti di osservazione esternamente simili, e non sono quindi equivalenti in
quanto osservatori, ma devono arrivare a visioni del mondo in qualche modo differenti.
I recenti contributi allo studio delle metafore rappresentano un’ulteriore versione dell’ipotesi
Sapir-Whorf: le metafore infatti vi sono analizzate come meccanismi in grado di fornire schemi
concettuali attraverso i quali comprendiamo il mondo.
George Lakoff e Mark Johnson p. 122
Una delle più forti critiche alla relatività linguistica giunse dalle ricerche che si occuparono dello
studio translinguistico dei termini di colore. I risultati ottenuti da Berlin e Kay si basavano sullo
studio empirico della terminologia di colore in venti lingue. Quanto ai dati relativi a un numero di
lingue ancora più ampio (78 secondo Kay e Mcdaniel), erano stati desunti invece dalla consultazione
di ricerche e materiale bibliografico. Gli autori sostennero che vi fossero dei vincoli universali 1) sul
modo in cui le lingue codificano e organizzano i propri termini fondamentali di colore ( basic colors
terms) e 2) sul modo in cui le lingue cambiano nel tempo aggiungendo nuovi termini di colore
fondamentali al loro lessico. Scoprirono così che esistevano undici categorie percettive universali.
“Linguaggio” fa riferimento alla facoltà umana di comunicare facendo uso di particolari tipi di segni
organizzati in particolari tipi di unità.
“Lingua” denota un particolare prodotto sociostorico
Nelle indagini gli antropologi hanno bisogno di essere consapevoli delle variazioni.
I sociolinguisti preferiscono utilizzare il termine di varietà (e anche varietà linguistica o varietà di
lingua) che va inteso come insieme di forme comunicative e di norme che ne governano l’uso,
limitato a un particolare gruppo o comunità e talora persino a particolari attività.
- Iniziazioni e imitazioni
Nella stagione secca del 1970, nel nord della Sierra Leone, poco dopo aver cominciato il suo lavoro
sul campo nel villaggio kuranko di Firawa, ebbe la fortuna di assistere alle celebrazioni pubbliche
associate con i riti di iniziazione femminile (fine per le ragazzine della condizione di bambine).
Rituale che ha luogo nelle boscaglie, le ragazzine vengono allontanate dal villaggio. 3 settimane in
cui vengono istruite dalle donne anziane e in cui aspettano che guariscano le ferite della
clitoridectomia.
Imitazione degli uomini da parte delle donne ha assistito a pratiche imitative durante le
iniziazioni kuranko inversioni di ruoli nelle iniziazioni
Imitazioni del comportamento maschile, mimare le espressioni impassibili*, imitare i cacciatori.
L’imitazione presumibilmente incoraggia una coscienza di cosa sia essere uomo. Però, nella misura
in cui queste pratiche del corpo non sono precedute da alcuna dichiarazione verbale d’intenzione,
sono ambigue. Le imitazioni sono quindi aperte all’interpretazione, e il significato che possono
assumere per l’imitatore o l’osservatore è indeterminato. È perfettamente possibile che le
imitazioni siano esperite o considerate in modi diversi come un modo di “prendere a prestito” le
virtù maschili, un modo per prendersi gioco degli uomini. Quest’ambiguità, e il fatto che le
interpretazioni che sorgono tendono a confondere le convenzioni quotidiane su genere e ruolo, può
spiegare il silenzio delle donne kuranko sul problema del significato**: le imitazioni significano tutto
o niente.
*impassibilità è collegata a qualità morali come il controllo delle emozioni e l’accettazione della
separazione prassi corporea che induce o suggerisce valori morali, impartisce
sapere/insegnamenti
**Impiegava il suo tempo a chiedere alla gente di dirgli che stesse succedendo, cosa significasse
tutto ciò. Ritenere che ogni atto significhi qualcosa è una forma stravagante di astrazione.
Altri casi:
- Valore della moderazione è inculcato attraverso tabù che vietano di chiedere o nominare il cibo
nella capanna dell’iniziazione
- Per i novizi il divieto di parlare senza aspettare il proprio turno, muoversi o gridare durante le
operazioni è direttamente collegato con le virtù di mantenere segreti, promesse e giuramenti,
di pazienza e di cautela
- L’importanza data all’ascoltare gli anziani durante i periodi di segregazione nella boscaglia è
collegata alla virtù di rispettare gli anziani, i cui consigli assicurano una buona vita sociale e
anche fisica
- La notte insonne che gli iniziati devono passare in una casa piena di fumo alla vigilia del loro
ritorno dalla boscaglia dopo l’iniziazione è un modo di instillare in loro le virtù della
sopportazione delle avversità e dell’essere vigili, mentre la segregazione forzata è connessa al
valore dell’autocontrollo e all’indipendenza
- Indossare nuovi abiti suggerisce nella mente dell’iniziato l’assunzione di un nuovo status
- Le imitazioni degli uomini da parte delle donne sono a volte spiegate, in maniera simile, come
un modo per le donne di prendere su di sé le virtù “maschili” di forza d’animo e coraggio che
sentono di non possedere
Questi esempi indicano, come nell’iniziazione kuranko, ciò che viene fatto col corpo è la base di ciò
che viene detto e pensato.
Resoconto di cosa significano e perché si svolgono queste performance imitative
Non si possono spiegare le imitazioni in occasione delle iniziazioni o dei rituali in termini di
coinvolgimento individuale o sentimenti. Quando suggerii alle donne kuranko che agire come gli
uomini potesse essere un modo di sfogare il loro risentimento nei confronti del potere maschile
nella vita di tutti i giorni, restarono confuse.
Il carattere regolare e convenzionale di queste pratiche corporee non è necessariamente il risultato
dell’obbedienza a regole o intenzioni consce ma piuttosto una conseguenza del mondo in cui i corpi
delle persone sono plasmati da abitudini inculcate all’interno di un ambiente condiviso e articolate
in movenze che sono “collettivamente orchestrate senza essere il prodotto dell’azione
organizzatrice di un direttore d’orchestra”. Queste “disposizioni durature” sorgono in un ambiente
di attività pratiche quotidiane che Pierre Bourdieu chiama habitus.
L’iniziazione kuranko è in primo luogo uno sconvolgimento nell’habitus, ed è questo, più che
qualunque precetto, regola o regia, che mette in moto quelle modificazioni sociali e personali il cui
aspetto corporeo manifesto è l’inversione di ruoli. Secondo Jackson, questo sconvolgimento
dell’habitus in cui le donne hanno campo libero nel villaggio e gli uomini devono cavarsela da soli o
stare in casa come donne atterrite, apre alle persone possibilità di comportamento che portano
incarnate, ma normalmente non hanno l’inclinazione a esprimere. Inoltre, crede che sia grazie alla
forza di queste possibilità straordinarie che le persone controllano e ricreano il loro mondo, il loro
habitus.
Perché queste particolari possibilità socialmente vengono messe in atto e pubblicamente
interpretate?
Si può postulare che il rito di iniziazione massimizzi le informazioni disponibili nell’ambiente
complessivo per assicurare il completamento del suo compito vitale: creare adulti e in tal modo
ricreare l’ordine sociale.
I riti di iniziazione coinvolgono una “mimesi pratica” in cui vengono incorporati e ricombinati
elementi da diversi campi, senza copioni, proverbi, suggerimenti, scopi consci o nemmeno
emozioni.
Molte delle intuizioni di maggior valore di Jackson sulla vita sociale kuranko sono arrivare
dall’imitazione ed esercizio di abilità pratiche: zappare in campagna, ballare, accendere un fuoco,
intrecciare una stuoia, consultare un indovino. Per smettere l’abitudine di usare un modello di
comunicazione lineare per capire le pratiche corporee, è necessario adottare come strategia
metodologica il prender parte senza secondo fini e il mettersi letteralmente al posto delle altre
persone: abitare il loro mondo. Stare in disparte rispetto all’azione, dare per scontato un punto di
vista, e fare infinite domande come aveva fatto nel corso delle iniziazioni femminili ha portato a un
quadro viziato e ha aumentato il problema fenomenologico di come avrebbe potuto conoscere
l’esperienza dell’altro. Invece, partecipare in modo corporeo a compiti pratici di tutti i giorni è
stata una tecnica creativa che spesso lo ha aiutato a cogliere il senso di un’attività usando il suo
corpo come facevano gli altri.
Mentre le parole e concetti distinguono e dividono, la corporeità unisce e forma la base per una
comprensione empatica, persino universale.
Descola, in una sezione della sua opera Oltre Natura e Cultura, riconosce l’evidenza potente e
spontanea delle pratiche che necessitano di indagini etnografiche minuziose e partecipate tese a
individuare specifici habitus. Nonostante ciò, ritiene si debba mantenere l’ambizione, in qualità di
antropologi culturali, di ricercare le “strutture di inquadramento” capaci di spiegare le regolarità e
la coerenza dei differenti modi, culturalmente determinati, di abitare e percepire il mondo. In
altre parole, Descola propone di riesumare lo studio de quelle che il suo maestro, Lévi-Strauss,
denomina “strutture”, ma facendolo con un linguaggio e una strumentazione nuova e una minore
propensione all’astrazione. Occorre quindi rintracciare “schemi elementari della pratica”, un
“piccolo nucleo di schemi interiorizzati” dai quali gli habitus prendono origine. L’antropologo
culturale dovrebbe essere particolarmente abile a individuare quei particolari schemi (gli schemi
ordinatori dell’esperienza) che permettono a ciascun essere umano di avere l’idea di condividere
con altre persone “una stessa cultura, una stessa cosmologia”.
- Schematismi
La stimolazione euristica fornita dai modelli connessionisti così come la moltiplicazione degli studi
che si basano sulla formazione dei concetti classificatori e l’apprendimento del saper-fare hanno
portato psicologi e antropologi a interessarsi in modo più sistematico al ruolo delle strutture
astratte che organizzano le conoscenze e l’azione pratica senza mobilitare immagini mentali o un
sapere esplicativo, strutture oggi raggruppate sotto il nome generico di “schemi”.
Distinzione tra:
- Schemi cognitivi universali
- Schemi cognitivi che provengono da una competenza culturale acquisita o dai casi della storia
individuale sono soprattutto questi che detengono l’attenzione di coloro che si interessano
alla diversità degli usi del mondo dal momento che è in parte per effetto di questi meccanismi
che i comportamenti umani differiscono. Gli schemi collettivi interessano più da vicino gli
etnologi poiché costituiscono uno dei principali mezzi per costruire sei significati culturali
condivisi. Possiamo definirli come disposizioni psichiche, sensorio-motrici ed emozionali,
interiorizzate grazie all’esperienza acquisita all’interno dell’ambiente sociale dato, e che
permettono l’esercizio di almeno tre tipi di competenza:
1. Strutturare in modo selettivo il flusso della percezione dando una preminenza significativa
ad alcuni tratti e processi osservabili nell’ambiente;
2. Organizzare tanto l’attività pratica quanto l’espressione del pensiero e delle emozioni
secondo scenari relativamente standardizzati;
3. Fornire un quadro per interpretazioni tipiche dei comportamenti o avvenimenti
Gli schemi collettivi possono essere:
- Spiegabili -> suscettibili di essere formulati in modo più o meno sintetico come modelli
vernacolari da coloro che li mettono in pratica. Molti fra essi non si trasmettono come un
insieme di precetti ma sono poco a poco interiorizzati senza essere particolarmente inculcati,
cosa che non impedisce che siano oggettivabili con un certo grado di sistematicità quando le
circostanze lo esigono.
- Non riflessivi -> non affiorano alla coscienza e dobbiamo quindi desumere la loro esistenza e il
modo con il quale organizzano il sapere e l’esperienza a partire dai loro soli effetti. Si
manifestano in modi molto differenti. Alcuni sono altamente tematici e si adattano a una
grande varietà di situazioni (schemi integratori), mentre altri non sono attivati se non in
circostanze molto particolari (schemi specializzati).
Gli schemi specializzati formano la trama della nostra esistenza quotidiana poiché organizzano
la maggior parte delle nostre azioni, dalle tecniche del corpo o gli scenari di espressioni delle
emozioni fino all’uso degli stereotipi culturali e la formazione dei giudizi classificatori.
Gli schemi integratori sono dispositivi più complessi. Tutto lascia pensare che è la loro funzione
mediatrice che, in gran parte, contribuisce a dare a ciascuno di noi il sentimento di avere in
comune con gli altri individui una stessa cultura e una stessa cosmologia.
Come individuare questi schemi che imprimono il loro segno sui comportamenti e le pratiche di
una collettività in modo tale che questa si offra all’osservatore come immediatamente
distintiva? Devono essere presi come dominanti gli schemi che sono attivati nel maggior numero
di situazioni, sia nel trattamento degli umani che in quello dei non-umani.
André-Georges Haudricourt distingueva due forme di “trattamento della natura e dell’altro”:
1. Azione indiretta negativa -> è volta a favorire le condizioni di crescita dell’essere
addomesticato modificandone al meglio il suo ambiente e non esercitando su di lui un
controllo diretto
2. Azione diretta positiva -> esige un contatto permanente con l’animale, che dipende per la
sua alimentazione e la sua protezione dall’intervento dell’uomo
Secondo Haudricourt l’opposizione tra l’azione indiretta negativa e l’azione diretta positiva è
ugualmente percepibile nei comportamenti verso gli umani. p.164
- Differenziazione, stabilizzazione, analogie
Mettere in evidenza gli schemi della pratica propri a un aggregato di umani non è cosa facile.
Consolidati durante gli anni di formazione, gli schemi della pratica permettono di adattarsi a
situazioni inedite che saranno percepite come casi particolari di situazioni già conosciute. Come
tutte le abitudini precocemente acquisite, gli schemi sono quindi più rinforzati dall’esperienza che
riformati da questa.
Ruolo che giocano gli affetti nel processo di schematizzazione: un’emozione intensa suscitata da un
avvenimento contribuisce a rinforzare le connessioni neuronali che il suo apprendimento attiva.
I riti costituiscono indici preziosi del modo in cui una collettività concepisce e organizza la sua
relazione con il mondo e con l’altro perché rivelano sotto una forma condensata gli schemi di
interazione e principi di strutturazione della praxis più diffusi della vita comune.
Il ruolo degli affetti nella stabilizzazione degli schemi non è manifesto solamente nei contesti
rituali: ogni avvenimento, importante per le emozioni che suscita, contribuisce con forza
all’apprendimento e al rafforzamento dei modelli di relazione e di interazione.
4. COSMO-LOGIE/SOCIO-LOGIE
- Mitologia e cosmologia
- Temporalità
Ossio ci mostra che secondo Esiodo il tempo e una sequenza caratterizzata da un processo di
decadenza da uno stato iniziale di perfezione.
Nell’India antica il ciclo intero, Mahayuga, comprende 4 età ognuna preceduta da una fase
nascente e da una di declino. Esso si concludeva con una totale dissoluzione, poi iniziava un nuovo
ciclo.
Nelle culture precolombiane il passato era schematizzato come sequenza di età, ognuna associata a
un livello dell’evoluzione umana. La piena umanità era raggiunta nell’ultima età. Il punto di rottura
fra le età era un evento pauroso. Presso aztechi e maya questi eventi erano cataclismi provocati
dall’intervento di tutti gli elementi naturali. Per prevenire questi cataclismi gli aztechi ricorrevano
a sacrifici umani. Per gli inca ogni divisione era parachuti, cioè cataclisma. Per sottrarsi ad essi
però avevano istituito una monarchia divina per cui il cataclisma era associato a un re divino
capace di ripristinare l’ordine.
Cristo fu assimilato alla figura del re divino inca quindi l’attrazione esercitata dal cristianesimo
sulle popolazioni indigene e stata dovuta alla sua associazione con l’idea di ordine.
L’autore si propone di esplorare le distinzioni esistenti tra le cose che si vendono, quelle che si
donano, e quelle, infine che non bisogno né vendere né donare, ma custodire e trasmettere.
Per esplorare questo argomento è necessario reimmergersi nella storia stessa dell’antropologia e si
viene rinviati a uno dei grandi momenti di questa storia e a un testo imprescindibile, il Saggio sul
dono di Marcel Mauss (1921).
Contesto in cui è stata scritta l’opera:
Mauss dopo la Prima guerra mondiale aveva perso molti amici. Era socialista.
Aveva visitato la Russia sotto il potere comunista ed era divenuto ostile al bolscevismo perché
voleva creare un’economia che uscisse dal mercato e per il ricorso alla violenza per trasformare la
società. Mauss nel saggio critica il liberalismo e la società che si chiude sulla fredda ragione del
commerciante. Nel 1921 scrive un programma socialdemocratico che prevede che lo stato fornisca
un aiuto materiale e una protezione sociale che il salario non permette. Chiede anche a ricchi e
potenti di mostrare quella generosità interessata praticata dai capi melanesiani o kwakiutl.
Che cos’è un dono per Mauss?
È un atto che insatura un doppio rapporto tra colui che dona e colui che accetta, tra donatore e
donatario. Donare, significa condividere volontariamente ciò che si ha o ciò che si è. Un dono
forzato non è un dono. Il dono volontario avvicina colui che dono a colui che riceve. Ma allo stesso
tempo, il dono crea, presso colui che l’accetta, un debito, degli obblighi. Il dono provoca quindi
due cose al contempo. Avvicina e allontana le due parti. Instaura un’asimmetria, una gerarchia, tra
colui che dona e colui che riceve. Sin dall’inizio, Mauss pone come principio di analisi il fatto che il
dono non è un atto suscettibile di essere studiato in modo isolato, ma fa parte di un insieme di
rapporti che si allacciano tra gli individui e i gruppi per via della concatenazione di tre obblighi:
quello di donare, quello di accettare il dono e quello di donare a propria volta quando il dono è
stato accettato.
Levi-Strauss ha riconosciuto in Mauss il precursore dello strutturalismo perché ha posto il dono
come primo momento di una catena di azioni.
Levi-Strauss “critica” Mauss per aver accettato come spiegazione scientifica dell’obbligo di donare
a propria volta una spiegazione indigena, cioè quella dei maori: i maori credevano nell’esistenza di
uno spirito presente nella cosa che si dona che spingerà colui che ha ricevuto il dono a restituire
l’oggetto o uno equivalente. Questo e il punto debole in Mauss perché per spiegare i primi due
obblighi, quello di donare e quello di accettare il dono, aveva avanzato ragioni sociologiche: si è
obbligati a donare perché donare obbliga e si è obbligati ad accettare perché rifiutare farebbe
entrare in conflitto con colui che offre.
Invece per spiegare il terzo obbligo egli pone l’accento su ragioni ideologiche.
Sembrerebbe che per Mauss gli oggetti donati siano abitati da due spiriti: spirito di colui che per
primo ha posseduto l’oggetto e lo ha donato, e spirito proprio dell’oggetto che lo fa agire come una
persona.
L’oggetto donato quindi non e completamente alienato. Resta legato al proprietario.
E inalienabile e alienato allo stesso tempo. Come e possibile?
L’oggetto donato e investito di: diritto di proprietà inalienabile e diritto all’uso inalienabile.
Mauss non si è occupato di tutte le forme di dono. Ha privilegiato quelle che ha definito
“prestazioni totali”, che impegnano gruppi o persone che rappresentano gruppi. Si è occupato dei
doni socialmente necessari per produrre e riprodurre dei rapporti sociali, di parentela, rituali, di
potere, ossia delle condizioni sociali dell’esistenza degli individui e dei gruppi in una determinata
società. Egli considera queste prestazioni “totali” perché il dono è un atto a più dimensioni e lega
in sé molti aspetti della società, inoltre i doni provocando controdoni mobilitano ricchezze ed
energia di molti gruppi mettendo in movimento tutta la società.
Esistono due tipi di prestazione totale:
1. Tipo non agonistico al termine di una serie di doni reciproci donatore e donatario si
trovano in una parità di status (ognuno è superiore e inferiore all’altro). I controdoni non
annullano i debiti creati dai doni. Creano debiti che bilanciano e non annullano i primi.
Doni e controdoni quindi alimentano continuamente obblighi. Questo circolo finisce per
ridistribuire le risorse di cui i gruppi dispongono.
2. Tipo agonistico il potlatch segue una logica completamente diversa. Mauss sottolinea
come sia una vera e propria “guerra di ricchezze”, condotta per conservare status, potere,
in cui lo spirito di rivalità ha la meglio su quello di generosità. È una pratica di potere, che
implica l’accumulo di grandi quantità di oggetti preziosi e di beni di sussistenza per
ridistribuirli in occasione di festini e di competizioni cerimoniali, o distruggerli con
ostentazione.
Cose che non bisogna vendere né donare, ma che bisogna custodire, per esempio gli oggetti
sacri. Essi spesso si presentano come doni, doni che dei o spiriti avrebbero fatto agli antenati
degli uomini, e che i loro discendenti, gli uomini attuali, devono custodire gelosamente e non
devono vendere né donare. Si presentano e sono vissuti come elementi essenziali dell’identità
dei gruppi e degli individui che li custodiscono. È una fonte di potere nella e sulla società e, a
differenza dell’oggetto di valore, si presenta come inalienabile e inalienato.
Secondo l’autore, per creare una società sono necessarie tre basi e tre principi. Bisogna donare
certe cose, bisogna venderne o scambiarne altre e bisogna sempre custodirne alcune. Nelle nostre
società, vendere e compare sono divenute le attività dominanti. Vendere significa separare
completamente le cose dalle persone. Donare significa mantenere sempre qualcosa della persona
che dona nella cosa donata. Custodire significa non separare le cose dalle persone perché
nell’unione si afferma un’identità storica che bisogna trasmettere, almeno fino a quando è
riproducibile.
Gli oggetti si presentano in tre diversi contesti, cioè come cose alienabili e inalienate (per esempio
gli oggetti sacri e i testi giuridici), perché le tre operazioni – vendere, donare e custodire per
trasmettere – sono diverse.
Beduini Awlad ‘Ali che abitano la fascia costiera lungo il bordo settentrionale del Deserto libico (o
Deserto Occidentale, termine che gli egiziani preferiscono). Essi pensano al territorio in cui vivono
principalmente nei termini delle persone e dei gruppi che lo abitano. Si definiscono sulla base di
alcuni principi-chiave di organizzazione sociale: la genealogia e un ordine tribale fondato sulla
vicinanza degli agnati (i parenti paterni) e legato a un codice morale, quello dell’onore e della
modestia. Il loro universo è ordinato da questi principi ideologici che definiscono le identità degli
individui e la qualità delle loro relazioni con gli altri. Tali principi sono riuniti nella nozione che gli
Awlad ‘Ali hanno di “sangue”.
[*nelle società patrilineari gli individui si ascrivono a un gruppo di discendenza determinato dalla
sola linea di ascendenza paterna. Nelle società matrilineari gli individui si ascrivono a un gruppo di
discendenza determinato dalla sola linea di ascendenza materna. sistemi unilineari. Questi
sistemi permettono l’identificazione di un antenato comune a molti individui, i quali possono agire
socialmente come gruppo coeso e solidale. Tale sistema alla base di gruppi di discendenza
denominati in antropologia lignaggi e clan e di unità politiche definite con il nome co il nome
tecnico di “tribù”.]
L’importanza del sangue nell’identità sociale è evidente nell’identificazione dei beduini con la
famiglia, il lignaggio e la tribù.
Il mondo sociale degli Awlad ‘Ali si divide tra parenti e stranieri/estranei.
L’ideologia beduina della parentela è basata su due proposizioni fondamentali:
1. tutti coloro che sono in relazione di sangue condividono una sostanza che li identifica.
2. gli individui che condividono il sangue si sentono vicini
Il termine per parentela è garaba, dalla radice che significa “essere vicino”. La visione che i
beduini hanno delle relazioni sociali è dominata da questa ideologia dei naturali, positivi e
irrevocabili vincoli di sangue. I bambini assumono l’affiliazione tribale del padre, anche se
l’affiliazione della madre influenza il loro status.
Una donna conserva la sua affiliazione tribale per tutta la vita e dovrebbe schierarsi con i propri
parenti paterni nel caso in cui questi abbiano dispute con i parenti del marito.
La donna beduina p. 209 i suoi parenti, non suo marito, sono responsabili per lei
Si pensa che questi legami di parentela siano basati sul sentimento. Il senso di vicinanza,
identificazione, interesse comune e lealtà si esprime nel modo in cui le donne parlano dei loro
parenti materni.
Il matrimonio presenta seri problemi di coerenza per un sistema ideologico che antepone
l’agnazione a qualsiasi altro criterio di affiliazione al gruppo.
Il modo per risolvere il problema del matrimonio è di fonderlo con l’identità e la vicinanza del
sangue condiviso. Il matrimonio tra cugini paralleli* patrilaterali può essere quello preferito perché
è il solo tipo coerente con le idee beduine sull’importanza dell’agnazione. p. 210-211
*cugini i cui padri sono fratelli o le cui madri sono sorelle. Si differenziano dai cugini incrociati i cui
genitori consanguinei, che determinano la relazione, sono di sesso differente. In molte società, il
matrimonio preferenziale è quello fra cugini incrociati.
- Identificazione e condivisione
Avere in comune il sangue permette ai parenti paterni di identificarsi l’un l’altro. Tali parenti
condividono interessi e onore; idealmente condividono anche luogo di residenza, proprietà e mezzi
di sussistenza forte identificazione con i parenti paterni. In molti contesti gli individui agiscono
come se ciò che riguarda tali parenti riguardasse anche loro. Un affronto o un atto disonorevole da
parte di una persona ha effetti sull’intero gruppo, non solo sull’individuo.
La gente spesso descrive l’esistenza di legami interpersonali utilizzando l’espressione: “Noi
andiamo da loro e loro vengono da noi”, andare e venire si riferisce alla reciprocità sia nelle visite
quotidiane che nelle visite rituali in occasioni particolari. La mancata frequentazione è interpretata
come segno che la relazione è terminata e che il legame è stato interrotto.
L’andirivieni è accompagnato dallo scambio di doni, animali da macellare, denaro e servizi.
Offrendo doni, sia in forma di beni materiali che di servizi, la gente condivide ciò che ha.
Condividere pensieri ed emozioni, specialmente quelli che non si conformano agli ideali dell’onore
e della modestia, è anche un indice significativo di vicinanza sociale.
- Autonomia e gerarchia
Gli Awlad ‘Ali attraverso mezzi ideologici riescono a conciliare il valore fondamentale
dell’eguaglianza con il sistema gerarchico in cui vivono. Essi ritengono che le basi di uno status
superiore, del controllo delle risorse e del controllo che le persone possono esercitare sugli altri
siano morali. Gli individui devono raggiungere una posizione sociale mettendo in pratica gli ideali
culturali richiesti dal codice dell’onore, il cui valore supremo è l’autonomia.
L’autonomia o libertà è il criterio in base al quale si misura lo status e determina la gerarchia
sociale. È l’elemento costante che plasma l’ideologia beduina della vita sociale, in cui eguaglianza
non è niente altro che eguaglianza di autonomia, cioè eguaglianza di libertà dal dominio o dalla
dipendenza da altri. Questo principio è chiaro nell’organizzazione politica beduina, il modello del
lignaggio segmentario. A nessun leader è attribuita un’autorità sull’intera confederazione di
segmenti tribali.
Nonostante la retorica riguardante l’equivalenza giuridica e l’eguaglianza degli agnati esistono
enormi disuguaglianze di status e di autorità all’interno del lignaggio così come all’interno della
tribù. La distinzione prima è tra anziani e giovani. Gli anziani controllano le risorse quali i pozzi e la
terra e combinano i matrimoni per i giovani.
La diseguaglianza tra il patriarca e le persone che da lui dipendono all’interno della famiglia stessa
è allo stesso modo una diseguaglianza nella relativa indipendenza. La famiglia è il prototipo delle
relazioni gerarchiche. Il patriarca controlla le risorse. I fratelli maggiori hanno la precedenza. I
padri hanno autorità sulle figlie come sui figli. I fratelli maggiori hanno autorità sulle sorelle minori.
Marito e moglie non sono mai uguali.
L’origine della nostra specie e stata descritta mediante due modelli morfologici:
1. Multiregionalismo → alcune popolazioni della specie Homo ergaster sono uscite dall’Africa e si
sono evolute indipendentemente nel Vecchio Mondo in diverse specie intermedie fino a dare origine
alla nostra.
Errore: pensare che evoluzioni differenti possano aver prodotto la stessa specie. Le mutazioni sono
casuali quindi non è verosimile che gruppi separati possano essere interessati da mutazioni
identiche.
2. “Fuori dall’Africa” → la nascita dell’essere umano è avvenuta una sola volta in Africa poche
centinaia di migliaia di anni fa. Dopo l’uomo ha colonizzato il resto del Vecchio Mondo. La vita
dell’uomo è così breve che è impossibile la divisione in razze.
Stretta parentela tra africani ed europei -> è stato dimostrato che ciò è dipeso dal fatto che i
gruppi di Homo Sapiens che hanno colonizzato l’Europa sono emigrati dall’Africa dopo quelli che
hanno preso la via per l’Oriente. Vale a dire che per un tempo più a lungo gli africani e noi siamo
stati un’unica popolazione.
La comunità antropologica ha potuto falsificare il concetto di razza nell’uomo ed espellerlo dalle
sue ricerche e dai suoi manuali perché esso costituiva un argomento scientifico, tanto che per
moltissime altre specie viventi non solo era, ma ancora è, assolutamente idoneo a descrivere la
parentela sottospecifica.
Nel corso dell’Ottocento e della prima metà del Novecento la Razziologia è stata usata non solo per
ordinare scientificamente, ma anche per definire una gerarchia di tipo intellettivo e morale
all’interno della quale disporre i popoli. La razza è assurta a ruolo di alibi, e di alibi autorevole in
quanto spacciato per scientifico, per il dominio dei popoli “superiori” su quelli “inferiori”.
In Italia il fascismo ha eretto a pratica il razzismo biologico per giustificare nell’opinione pubblica
la persecuzione antisemita e a guerra di dominio coloniale. concetto di razza che si è prestato a
sostenere il razzismo
Solo alla fine della Seconda guerra mondiale è iniziato nel mondo occidentale il movimento di
falsificazione del concetto di razza.
- Il concetto di etnia
Etnia= termine che designa un insieme linguistico, culturale e territoriale di una certa grandezza,
essendo il termine tribù generalmente riservato a gruppi di dimensioni più ridotte.
L’espressione etnia resta per molto tempo di uso esclusivamente ecclesiastico. Essa denota, in
opposizione ai cristiani, i popoli pagani, che nel linguaggio secolare si chiameranno dapprima
nazioni o popoli, poi, a partire dal XIX secolo, razza e tribù, mentre alla fine del XVIII secolo, la
scienza incaricata della loro descrizione assume il nome di etnologia o etnografia.
Gli africanisti hanno preso coscienza che le etnie sono delle creazioni coloniali, imposte tramite
traduzioni arbitrarie in linguaggio dotto, degli stereotipi diffusi nelle popolazioni vicine. Ci si è
accorti che, da allora, la cristallizzazione di “etnie”, rinvia sempre a dei processi di dominazione
politica, economica o ideologica di un gruppo sull’altro; ancora oggi, il discorso etnicista tenuto
dalle classi dirigenti degli Stati neocoloniali, come dai media occidentali, serve soprattutto a
eliminare i movimenti di rivolta.
Il termine “etnia” non designerebbe, in definitiva, che un certo livello di organizzazione sociale, di
cui niente giustifica l’enorme privilegio epistemologico e ancor meno la reificazione.
Per molteplici ragioni l’etnicità è diventato un valore positivo di identità.
- Salvare i figli
Gli sfollati del Sudest asiatico costituirono il gruppo di rifugiati più importante fra quelli entrati
negli Stati Uniti in quegli anni di limbo morale.
Man mano che la maggior parte delle famiglie cambogiane-americane povere si adattava alle
esigenze di vita nell’America urbana, il conflitto tra genitori e figli diventava una questione sempre
più ricorrente in alcune di esse. I conflitti con i figli derivavano di solito dalla perdita di autorità
morale dei genitori e dai tentativi dei figli stessi di sviluppare una propria identità di fronte alle
drammatiche contraddizioni che sorgevano tra le aspettative dei genitori e l’influenza della società
americana nel suo complesso. Molti ragazzi cambogiani avevano l’impressione che non avrebbero
potuto imparare come essere moderni seguendo il modello dei loro genitori. Di conseguenza i figli
di genitori rifugiati cercavano con ogni mezzo di liberarsi da codici di famiglia cambogiani che ai
loro occhi appariva antiquati e insignificanti, mentre l’esposizione quotidiana alla cultura
consumistica, alla televisione, alla scuola e alle gang di strada esercitava un’influenza molto forte
sulla formazione della loro identità individuale.
- Ragazze a rischio
La perdita del controllo sulla sessualità delle figlie è il fatto che provoca più angoscia nei genitori
cambogiani. Ragazzi e ragazze erano trattati in modo diverso per quanto riguarda il comportamento
sessuale. Mentre la promiscuità di un ragazzo poteva anche essere interpretata come virilità, le
ragazze dovevano conservare la loro purezza sessuale perché era ciò su cui si basava l’onore della
famiglia. Le avventure sessuali dei ragazzi erano tollerate, ma le ragazze che uscivano con i ragazzi
o praticavano sesso prima del matrimonio causavano l’umiliazione dei genitori perché significava
che questi avevano perso il controllo sulle proprie figlie e quindi, non riuscendo a salvaguardare la
virtù familiare, finivano per essere disprezzati da tutta la comunità.
Il controllo sulle figlie e i maltrattamenti nei loro confronti erano il primo catalizzatore delle
critiche degli operatori sociali ai genitori cambogiani e alla loro cultura.
Gli appuntamenti fra adolescenti americani inoltre erano un modo per mostrare popolarità,
ricchezza e fascino. Al contrario la concezione khmer di corteggiamento era simile a quella
americana dell’Ottocento, richiedeva che il potenziale pretendente venisse a dichiararsi, che
esibisse un comportamento rispettoso verso i genitori della ragazza e che si mostrasse di una
qualche utilità in casa loro. I genitori fissavano barriere sociali e sessuali fino al matrimonio della
ragazza.
Nei conflitti per il controllo del comportamento dei figli adolescenti, la cultura finì per essere un
elemento che poteva essere usato, da operatori sociali e avvocati, per dimostrare che gruppi
immigrati come i cambogiani dovevano essere giudicati in modo diverso da altri gruppi che
risiedevano in America.
8. DIVERSITÀ E RELATIVISMO
- “Protagoristi”
Protagora era stato amico e consulente di Pericle, il quale gli aveva affidato la stesura della
costituzione della nuova città di Turii che, sulle rovine di Sibari, doveva riunire coloni provenienti
da tante parti della Grecia. Era una colonia “panellenica”, cioè, limitatamente al mondo greco di
allora, pluriculturale. È significativo che Pericle, padre della democrazia occidentale, chiami
Protagora, sofista, a redigerne la costituzione. Protagora propugnava per Turii una legislazione che
oggi chiameremmo interculturale, che tenesse in considerazione le leggi delle varie città di
provenienza dei nuovi coloni. Nella quotidianità praticava un relativismo militante, cioè pragmatico
e non ingenuo. Era un relativismo che non temeva di sporcarsi le mani nella politica; anzi, era un
relativismo che considerava la partecipazione politica dei singoli alla democrazia come un modo
per raggiungere la virtù. Relativismo che per Turii, per la prima volta nella storia occidentale,
prevedeva la scuola per tutti i figli dei cittadini a spese della città, che prevedeva cioè la scuola
pubblica (ma non obbligatoria) anche per chi non ne avesse i mezzi.
Predicava che ogni uomo e misura di tutte le cose e ha in se la virtù politica e per questo e degno
di ascolto. La virtù politica si può acquisire.
Però una teoria relativista sarebbe coerente solo se tutti gli uomini fossero relativisti.
Ma il problema di incoerenza del relativismo e lo stesso dell’incoerenza della democrazia: é giusto
ammettere un partito che predica la cancellazione della democrazia? Quindi relativismo e
democrazia sono indissociabili.
Il relativismo diventa il capro espiatorio di una lotta contro le nuove forme di democrazia.
La sfida moderna e quella di costruire democrazie cosmopolite, costruite anche sulla presa in
considerazione delle lotte per le identità.
Non è vero che il relativismo culturale predica l’assenza dei valori → il principio di relatività
culturale non significa che se i membri di una tribù possono comportarsi in un certo modo, questo
garantisce che tutti i gruppi possono comportarsi così.
Relatività culturale significa che l’idoneità di ogni usanza va considerata in relazione alla sua
adattabilità alle abitudini di un gruppo.
L’antropologia non nega da un punto di vista teorico l’esistenza di principi morali assoluti.
L’uso del metodo comparato ci fornisce mezzi scientifici per scoprire questi assoluti: se tutte le
società attuali vietano un comportamento, questo e un forte argomento per ritenere che vi e alla
base la considerazione di un principio morale irrinunciabile.
- Differenza e gerarchia
Viveiros de Castro studi riguardo a quello che egli chiama il multinaturalismo amerindiano. In
molte culture amazzoniche gli uomini e gli animali sono pensati condividere una stessa essenza
umana “rivestita” da corpi diversi. Gli esseri non-umani, nonostante la loro apparenza, sono quindi
persone. La traduzione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo nelle cosmologie
amazzoniche suona come una Dichiarazione Universale degli Esseri Viventi visto che tutti hanno
un’essenza umana.
In queste cosmologie diventano essenziali gli sciamani che riescono a vedere i non umani come
umani.
Secondo molti antropologi il relativismo e quella teoria che sostiene la “molteplicità di
rappresentazioni” circa un unico mondo. Questo e quello che non succede in Amazzonia. Abbiamo
un mondo che prevedere una molteplicità di soggetti, umani e non-umani. Essi vedono il mondo allo
stesso modo ma, avendo corpo diverso, vedono il mondo in modo diverso. Questo non è relativismo,
dice Viveiros de Castro, perché non siamo in presenza di una molteplicità di rappresentazioni ma di
una molteplicità di mondi concepiti a partire da un punto di vista, cioè da un corpo: è quello del
prospettivismo amerindiano.
Viveiros de Castro costruisce il prospettivismo per inversione rispetto al relativismo; il primo
sarebbe caratteristico del multinaturalismo amerindiano, il secondo del multiculturalismo
occidentale, il quale comporta una molteplicità di rappresentazioni soggettive parziali; e arriva a
dire che il prospettivismo non è un relativismo, ma un relazionismo. Anche il relativismo percettivo
di Protagora così sembra un relazionismo. Per il filosofo una cosa è in se tutti i modi in cui è
percepita, ma è percepita in modo diverso a seconda della condizione delle persone e in questo
senso, ogni percezione è vera in relazione alla persona che è nella condizione appropriata per
apprendere quell’aspetto di realtà.
Il prospettivismo, quindi, è quella forma di relativismo che si pone come verità della relatività
invece che come relatività della verità.
Forse in analogia con la teoria della relatività di Einstein gli antropologi hanno coniato l’espressione
“relatività culturale” senza pero considerarne due caratteristiche:
1. Il problema della continuità
Nella concezione di Tyler le culture erano come scatole con confini che le separavano nettamente
le une dalle altre. A questa visione discontinuista oggi si sta sostituendo una visione continuista in
cui le culture sfumano le une sulle altre sovrapponendosi.
Il relativismo classico centrato solo sul soggetto marcava la discontinuità e figurava i rapporti tra
culture come ponti tra entità separate. Il prospettivismo invece è appropriato per una visione
continuista.
2. La sua natura relazionale
L’alterità non rappresenta un’essenza, una qualità intrinseca. E una nozione relativa: si è Altro solo
agli occhi di qualcuno.
- Prospettivismo a scuola
Il dibattito sul pluralismo educativo nelle società multiculturali è sotto le luci della ribalta. Il
tentativo è quello di far convivere più “culture” in una scuola nata per la perpetuazione di una
“cultura”. Il tentativo più avanzato è quello dell’interculturalismo pedagogico, che dice di
proporre un approccio dialogico contro la visione fissista delle culture.
Ma il dialogo che propone non arriva mai a discutere due fenomeni fondamentali:
1. il guscio entro cui il dialogo si svolge: la scuola
2. il principio di libertà di scelta culturale
La forma scuola è una costruzione sociale apparsa in Europa nel XVI e XVII secolo. È una forma
inedita di relazione fra un maestro e uno scolaro ed è distinta da altre relazioni sociali perché è
sempre più autonoma (spossessa gli altri gruppi sociali delle loro competenze).
Nasce per la forma scuola un luogo ad hoc e un tempo ad hoc. Vi si impara l’obbedienza alle regole.
La relazione pedagogica è sottomissione del maestro e dello scolaro a regole impersonali. In uno
spazio chiuso e interamente ordinato al compimento da parte di ciascuno dei propri compiti in un
tempo regolato.
Quale educazione scolastica può sopportare la nuova società multiculturale?
Gli Stati-nazione hanno stabilito l’equazione successo scolastico = assimilazione culturale.
Ma oggi quasi nessuno stato e interamente omogeneo. Gli Stati devono trovare i modi per dare vita
all’unità nazionale in mezzo alla diversità.
Le politiche multiculturali sono quelle politiche che riconoscono ufficialmente le diversità culturali.
E la forma-scuola, allora può diventare fondamentale per la costruzione dei nuovi Stati
multiculturali e per la costruzione della nuova democrazia multiculturale.
La nuova democrazia è quella forma politica che favorisce la libertà di scelta individuale tra
espressioni culturali diverse perché l’identità ha in se anche un elemento di scelta.
Nella nuova democrazia non c’e la corsa all’integrazione che maschera la reale corsa
all’assimilazione.
È la nuova scuola che dovrebbe giocare un ruolo fondamentale, essendo il progetto del
prospettivismo, di questo prospettivismo, del relativismo che tiene conto dei rapporti di potere e
che è dalla parte dei subalterni.
I nuovi “protagoristi”, è questa nuova Turii che vogliono abitare.