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IL CONCETTO DI CULTURA
Quello di cultura è un concetto complesso che nei secoli ha visto e vissuto varie interpretazioni da
filosofi e antropologi.
Prima dell’arrivo dell’antropologia, alla quale si deve il merito di aver studiato il concetto di cultura
in ambito scientifico, quest’ultima veniva comunemente intesa in senso umanistico. La cultura era,
quindi, definita come un percorso di crescita personale ed individuale che vedeva come fine
l’acquisizione di determinate facoltà intellettuali.
Questa accezione umanistica della cultura, benché ancora ampiamente diffusa, non è in grado di
dare una definizione globale al fenomeno, in quanto restringe il campo d’azione alle sole facoltà
umane, oltre a non essere oggettiva ma filtrata da una società occidentale ed eurocentrica.
EDWARD TYLOR
Il primo a tentare di dare una definizione scientifica del concetto di cultura fu l’antropologo inglese
Tylor, secondo il quale per cultura si intende l’insieme degli ambiti dell’agire e del pensare umano.
Inoltre, la cultura, in quanto acquisita dall’uomo facente parte di una determinata società, può
essere dunque appresa, essendo un fatto sociale e non solo teorico. Va considerato che Taylor
aderiva ad una particolare posizione dell’antropologia del tempo, ovvero quella evoluzionista,
secondo la quale le ricerche e le scoperte di Darwin potevano essere applicate alla storia della
cultura, la quale si è dunque evoluta in termini qualitativi da un nucleo primitivo ad uno civilizzato
secondo un criterio di utilità.
FRANZ BOAS
Ad allontanarsi dalla posizione evoluzionista di Taylor, pur mantenendone alcuni concetti chiave, fu
l’antropologo tedesco Boas, secondo il quale la cultura viene definita come l’insieme delle reazioni e
delle attività dell’individuo in relazione all’ambiente, ad altri gruppi e ai membri del gruppo stesso.
La cultura, inoltre, comprende anche i prodotti generati dall’attività umana, ciò che chiamiamo
cultura materiale.
Per Boas la cultura è quindi un fenomeno globale e sociale: globale perché coinvolge tutti gli esseri
umani in quanto appartenenti ad una società e sociale perché viene appresa dal gruppo sociale e
non geneticamente trasmessa.
ALFRED KROEBER
A dare una svolta alla ricerca sulla definizione di cultura fu Alfred Kroeber che, con il determinismo
culturale (la convinzione che la cultura in cui siamo cresciuti determina chi siamo a livello emotivo e
comportamentale), sottolinea come la cultura sia una caratteristica sui generis dell’uomo.
L’uomo, infatti, a differenza degli animali, è in grado di acquisire e accumulare nuove capacità e,
attraverso queste, di sopravvivere e adattarsi all’ambiente circostante. La cultura viene quindi
definita come la totalità delle capacità, delle idee, delle abitudini e dei valori ai quali si aggiungono
tutti i prodotti degli uomini come membri della società.
BRONISLAW MALINOWSKI
Questa idea della cultura come contenitore dei prodotti dell’attività umana venne sviluppata dal
britannico Malinowski. Secondo l’antropologo la cultura va studiata sulla base di forme di
organizzazione e collaborazione fra gli uomini, le cosiddette istituzioni. L’uomo, operando
sull’ambiente circostante, crea un secondo ambiente, artificiale e di conseguenza culturale, che
sopravvive solo attraverso la cooperazione volontaria di individui riuniti in istituzioni. Questo tipo di
approccio viene chiamato da Malinowski stesso analisi funzionale. La cultura è quindi un evento
universale e sistematico poiché risponde a leggi organiche comuni a tutti gli uomini.
LESLIE WHITE
Qualche anno più tardi, l’antropologo inglese White, introdusse il concetto di simbolo, come
distinzione definitiva tra essere umano e animali. Secondo White, la differenza era di livello
qualitativo piuttosto che di grado come sostenevano altri studiosi.
Nonostante l’antropologo non dia una spiegazione precisa sull’origine della facoltà simbolica
nell’uomo, egli individua nel linguaggio articolato la maggiore espressione della capacità simbolica.
L’uomo è, dunque, in grado di fornire significati specifici a determinati fonemi a differenza degli
animali che non hanno la capacità di crearli.
CLIFFORD GEERZ
Una delle definizioni più complesse del concetto di cultura deriva, infine, dall’americano Geerz,
sostenitore di una concezione semiotica della cultura, secondo la quale quest’ultima viene vista
come un testo scritto dai nativi che l’antropologo ha il compito di comprendere. Il compito
dell’antropologia è quindi quello di cercare e attribuire a determinate azioni umane un significato e
interpretarlo in base ad un determinato contesto e cultura.
Secondo Geerz, un’azione (quella che lui chiama thin description), può essere compresa solo se
interpretata in relazione ad un determinato contesto e cultura (la cosiddetta thick description).
Proprio per questo motivo, le culture sono dinamiche, ovvero cambiano nel tempo a seconda delle
esigenze dell’uomo.
CULTURA E CREATIVITÁ
La cultura è creativa dato che è capace di modificare sé stessa attraverso l’invenzione di segni e
significati. Per creatività si intende l’azione di fare il nuovo attraverso l’attività dell’intelletto che,
posto ad una situazione problematica, viene stimolato a conferire un senso al problema irrisolto. Da
questa condizione deriva l’operazione di creazione di conoscenza.
È stato quindi possibile, grazie a questa caratteristica della cultura e attraverso il metodo
stratigrafico, definire l’esistenza di una cultura egemonica che si impone su una cultura subalterna.
- L’uomo, dal punto di vista geografico, non è mai stato abbastanza isolato da poter creare
diversi tipi genetici;
- Le civiltà sono sistemi aperti che interagiscono tra loro;
- I caratteri dominanti di alcuni popoli dipendono da un basso numero di geni, selezionati da
fattori ambientali;
- Gli uomini condividono più del 99% della struttura biochimica e che le differenze consistono
solo nei fenotipi.
Queste credenze facevano fronte a precise esigenze politiche, soprattutto nel periodo di
colonizzazione. Nella coscienza popolare, non si era radicato, tuttavia, un atteggiamento di tipo
razziale, tanto che in Africa orientale, gli italiani crearono nuclei familiari misti, circostanze che
portarono il regime fascista ad emanare le leggi di Apartheid.
FILOGENESI E ONTOGENESI
La filogenesi dal punto di vista biologico è il processo evolutivo degli organismi vegetali e animali.
L’etimologia della parola filogenesi deriva dal greco e combina il termine “filo”, ovvero classe e
“genesi”, ovvero creazione. La filogenesi è dunque descrivibile come la storia dell’evoluzione della
vita.
Un’immagine esplicativa è la pianta (o albero cespuglioso) del biologo tedesco Haeckel, nella quale il
tronco centrare rappresenta l’origine comune alle tre diramazioni, delle quali quella di sinistra è per
le forme di vita vegetali, mentre quella di destra degli esseri umani.
È possibile notare come tra filogenesi e ontogenesi ci sia un rapporto tra reciprocità. Negli istanti
successivi alla fecondazione, infatti, le cellule sono indifferenziate. Solo attraverso un processo
geneticamente previsto si giunge alla specializzazione cellulare.
È possibile, dunque, affermare, che lo sviluppo ontogenico dell’uomo riassume le tappe della
filogenesi umana.
IMMAGINI DELL’ESSERE UMANO ALLA LUCE DELLA TEORIA DELL’EVOLUZIONE
Nel corso del Ventesimo secolo l’antropologia fu ampiamente influenzata dalle scienze sociali, come
si può notare dal fatto che le teorie di Darwin venivano applicate in ambiti diversi da quelli naturali,
mirando a soddisfare più di un’ideologia politica. Oltre a questo fenomeno, si assisté ad una
intensificazione delle ricerche sul campo.
Gli esseri vegetali e animali, non essendo in grado di controllare le nascite, provocano una necessaria
lotta per l’esistenza tra individui della stessa specie: vincerà chi dimostrerà di avere particolari
qualità in grado di consentire la sopravvivenza, qualità che verranno trasmesse ai discendenti per lo
stesso fine. Questa concorrenza è chiamata selezione naturale.
Dalla lettura di un libro di economia, Darwin si rese conto di come la selezione naturale potesse agire
su tutti gli organismi viventi. Nell’Origine della specie, Darwin non si spinse ad affrontare
l’argomento dell’evoluzione umana, ma decise di parlarne nel momento in cui altri studiosi
intrapresero l’argomento.
Darwin sosteneva che l’uomo si è sviluppato da forme di vita inferiori, ma, a distinguerlo da questi, è
la presenza della mente.
Prima di Darwin sono stati in molti a tentare di delineare una teoria evoluzionista.
Aristotele riteneva che le specie fossero immutabili e quindi non soggette all’evoluzione. In modo
similare, il pensiero cristiano ignorò quasi completamente il problema, supportando però la teoria
della fissità della specie, secondo la quale gli organismi viventi attuali sono uguali a quelli creati da
Dio. Solo attraverso lo studio dei fossili nel Diciottesimo secolo, venne dimostrata l’esistenza di
organismi diversi da quelli viventi all’epoca. Georges Cuvier formulò, invece, la teoria delle catastrofi,
secondo la quale in origine esisteva un gran numero di specie viventi la cui scomparsa fu dovuta ad
eventi catastrofici.
La prima vera teoria dell’evoluzione fu formulata nel 1801 da De Lamarck, secondo il quale la natura
aveva creato degli organismi semplici che si erano via via evoluti attraverso l’adattamento
all’ambiente circostante. Alla base di questa teoria ci sono due principi:
I due teorici più importanti nell’epoca di Darwin, erano, invece, Lewis Morgan e Edward Tylor. Il
pensiero di Morgan si fonda sulla teoria secondo la quale tutti gli uomini hanno l’abilità di costruire
ed inventare e, grazie a questa capacitò, sono in grado di modificare l’ambiente circostante. In una
ricostruzione dell’evoluzione umana, l’antropologo, la suddivide in tre momenti principali:
In linea con la teoria di Morgan, Tylor suddivise l’umanità in due gruppi a seconda dello sviluppo che
li aveva interessati:
- Tribù inferiori
- Nazioni civili superiori
LINGUE E CULTURE
Presentando al suo interno diversi livelli di interpretazione e lettura, lo studioso Antonio Gramsci,
suddivide la cultura in egemonica e sub-alterna, con la conseguenza immediata che, apportando
questa distinzione, si può dire che la cultura può non essere condivisa e rischia di non essere
compresa. In questo contesto, risulta fondamentale quello che è un bisogno innato all’uomo, quello
di comunicare attraverso un determinato linguaggio.
A fondamento di questo, nel Ventesimo secolo, iniziò a consolidarsi l’idea dell’importanza della
ricerca antropologica sul campo, fondata sulla convinzione di Malinowski e Boas, dai quali ha origine
l’antropologia linguistica, che l’immedesimazione e l’indagine sulla psicologia dei popoli fossero
fondamentali per una quasi totale comprensione delle diverse culture.
I new media digitali, inoltre, creano il non-luogo del cyberspazio, ovvero uno spazio non
appartenente ad un’area geopolitica. Questo ha portato al processo inverso di tribalizzazione,
attraverso cui viene rimossa ogni tipo di distanza, virtualmente parlano, tra gruppi e individui
fisicamente lontani. Oltre a questo, i new media concentrano la propria attenzione sul singolo
individuo, che diventa un’entità anonima e sconosciuta agli altri utenti.
Un’altra importante conseguenza della globalizzazione è la diversa relazione tra gli Stati che si è
creata negli anni. Se, infatti, i new media hanno favorito la nascita e crescita di trasporti veloci,
l’unità della lingua inglese e delle tre monete fondamentali, dall’altro si assiste ad un fenomeno di
interazione transnazionale tra individui, fattore che determina una dissoluzione virtuale dei confini
statali.
Alla rottura dei confini statali contribuisce anche il fattore della decentralizzazione delle fonti di
informazione. Il consumatore, posto davanti ad una scelta, decide di non limitare le proprie
interazioni ma, al contrario, può scegliere con chi interagire. Questo fenomeno è stato conseguenza
di un diverso concetto di consumo, legato non più esclusivamente ai beni materiali quanto piuttosto
al bisogno di ottenere sempre più maggior numero di informazioni.
Nel momento in cui la globalizzazione è diventata una vera e propria realtà nel rapporto tra gli stati,
questi ultimi si sono resi conto di come fosse impossibile contenere la necessità di interazioni tra
culture, con la creazione di comunità virtuali.
Il concetto di consumo non si riferisce più, nell’era della globalizzazione, a beni materiali, quanto
piuttosto alla possibilità di reperibilità di informazioni. A differenza dei vecchi media, come la
televisione, i quali facevano grande uso di pubblicità per generare una società opulenta e volta al
consumismo, i nuovi media abbattono il fattore antieconomico del consumismo, rendendo
l’informazione protagonista della scena, ecologica e che presuppone il coinvolgimento diretto del
soggetto.
Nonostante i grandi cambiamenti apportati dai mass media attraverso un linguaggio mediato,
rimane fondamentale, nella quotidianità, il linguaggio verbale, che può essere visto come archetipo
di tutti i mezzi di comunicazione. La comunicazione mediata, o anche memoria devitalizzata su
supporto, predilige l’isolamento dell’individuo e la creazione di comunità virtuali non ben
identificabili e proprio per questo motivo risulta essere volatile. Nel momento in cui l’individuo entra
nel cosiddetto cyberspazio, diventa dipendente da un’entità artificiale che ridisegna il mondo
attorno a lui, mondo in cui l’utente ha l’illusione di essere in controllo delle proprie decisioni. In
questo modo si rinuncia alo sviluppo di un dialogo interiore che porta alla piena conoscenza e
consapevolezza di sé.
Al contrario, un approccio di tipo orale presuppone un contatto reciproco tra due o più esseri umani.
Per comprendere la comunicazione orale, però, è necessario comprenderne la natura. Si distinguono
quindi due stati della parola: verbale e mentale.
Il sistema orale, o memoria vivente, prevede la partecipazione di almeno due individui, in un tempo
presente, diverso dai mass media perché l’emittente è in contatto diretto con un numero limitato di
riceventi, in uno spazio identificabile.
La vitalità fisica della parola ha origine dal suo stato mentale. La parola può, dunque, diventare gesto
sonoro proprio perché generata dalla mente. La parola mentale, infatti, non ha esistenza autonoma.
Vi sono, tuttavia, parole mentali che non si concretizzano attraverso il suono, ma attraverso i gesti
delle mani, come la scrittura. Quest’ultima viene legittimata solo nel caso in cui il discorso in
questione è già stato udito. Per questo motivo si può affermare che, mentre il discorso udito
richiama alla mente, la scrittura forma la memoria.
DIFFERENZE, DISUGUAGLIANZE E GERARCHIE
Per disuguaglianze si intende un comune senso di inequità e di ingiustizia verso determinate forme
di grandezza. Le disuguaglianze sono influenzate a livello inter e intranazionale da fattori che ne
modificano le caratteristiche e le dinamiche. Le disuguaglianze sono presenti in diversi ambiti sociali
e culturali:
- Speranze di vita: nei paesi ad elevato indice di sviluppo umano la vita media è di circa 80
anni, mentre, nei paesi a basso indice di sviluppo umano, questa arriva a circa 60 anni;
- Istruzione: se nei paesi europei supera i 15 anni di età, in altri paesi arriva a 1,5 anni per le
donne (una sorta di disuguaglianza nella disuguaglianza);
- Reddito: agli inizi degli anni ’90 il 20% più ricco della popolazione mondiale riceveva l’80%
del reddito mondiale, mentre il 20% meno abbiente riceveva l’1,4% del reddito mondiale.
Negli anni 2000, invece, il 10% della popolazione mondiale riceveva un reddito pari al
patrimonio delle 10 più ricche del mondo (circa 200 miliardi), mentre il 10% più ricco del
mondo riceveva oltre 20 mila miliardi.
Il rapporto tra disuguaglianze di reddito e altre disuguaglianze varia a seconda dei paesi presi
in considerazione e delle forme di misurazione. Si può dire, però, che c’è un’elevata forma di
interdipendenza tra questi due fattori: più sono elevate disuguaglianze di reddito più sono
marcate le altre disuguaglianze.
Nel mondo globalizzato, a partire dagli anni ’80, si è assistito ad un aumento delle disuguaglianze di
reddito ai due estremi della piramide, con la conseguenza della comparsa di disuguaglianze nuove e
già esistenti.
FEMMINILE E MASCHILE
Come sappiamo, alla nascita, gli esseri umani sono incompleti, a differenza degli animali che sono
iperspecializzati per vivere in un determinato ambiente. La non specializzazione, tuttavia, permette
agli esseri umani di adattarsi all’ambiente circostante attraverso un processo culturale, che permette
di acquisire le abilità necessarie alla sopravvivenza.
Alla nascita, oltre ad essere incompleto, l’essere umano è solo biologicamente descrivibile come
maschio o femmina, grazie alle differenze degli apparati riproduttivi. Ciò vuol dire che, alla nascita,
l’essere maschio o femmina, non implica essere uomo o donna dal punto di vista socioculturale. Il
sesso è dunque un attributo biologico, mentre il genere è una figura socioculturale.
Per le donne i riti di passaggio possono sì essere prove di sforzo fisico o di dolore ma, nella maggior
parte dei casi, il rito di passaggio d’eccellenza e la gravidanza. Nonostante quello di mettere al
mondo ed allattare possa essere considerato naturale, non è naturale per una donna crescere i
propri figli, in virtù del fatto che l’uomo, conscio della differenza biologica a livello muscolo
scheletrico, si è auto assegnato un ruolo politico e sociale.
Il genere, quella sfera socioculturale, può essere dunque descritto come quel processo di
costruzione sociale dei corpi sessuati nel quale tutte le agenzie di socializzazione interagiscono. Il
genere è dunque staccato da quell’attributo biologico che è il sesso, proprio in virtù del fatto che
l’identità di genere viene razionalmente costruita e mantenuta attraverso un processo storico,
dinamico e sociale che genera un essere personalmente donna o uomo.
CAPITOLO 2
DEFINIZIONI DI RAZZISMO
Per razzismo si intende quella concezione o ideologia basata sulla convinzione che esistano razze
umane biologicamente e storicamente superiori ad altre.
La necessità di dividere e distinguere il genere umano in razze è presente già da tempi remoti, come
testimoniano i Greci e i Romani, che reputavano barbari tutti coloro che non parlavano la loro lingua.
Per i romani, infatti, l’appartenenza ad una razza era determinata da tre principali fattori: la
cittadinanza, il grado di civiltà e la lingua. Aristotele stesso giustificava la schiavitù poiché fatto
naturale, in virtù del fatto che alcuni erano predisposti al comando ed altri all’obbedienza.
Le prime teorie razziste iniziarono a svilupparsi dal 1500 in poi, basata sull’idea della superiorità
biologica e culturale della razza bianca. Dal Diciottesimo secolo in poi, l’obiettivo delle teorie razziste
migrò da motivazioni di tipo culturale a interessi nazionalistici di tipo politico ed economico. Fu
proprio in questo periodo che si accettò la tesi poligenetica, secondo la quale l’origine della specie si
configura come un processo non unitario.
Un elemento relativamente nuovo alla preesistente paura dello straniero è il nuovo razzismo,
caratterizzato dalla tabuizzazione del tema razziale in seguito agli eventi della Seconda Guerra
mondiale. Il dinamismo delle teorie razziste, capaci di adattarsi ad ogni tipo di esigenza sociale o
politica che sia, ha permesso, a partire dagli anni Sessanta, la nascita di un nuovo lessico razzista,
evento definito come svolta culturalista o differenzialista del razzismo, ovvero un neo-razzismo volto
ad estremizzare le differenze culturali dei vari gruppi.
Nell’antica Grecia, il termine éthnos veniva utilizzato per indicare quei gruppi umani appartenenti ad
una stessa discendenza. Successivamente con il concetto di etnia si intendeva la condivisione di
comuni caratteri morfologici, culturali e linguistici. L’antropologia moderna, tuttavia, ha tentato di
ridefinire il concetto di etnia, arrivando alla conclusione che un’etnia può essere composta da
individui morfologicamente diversi, purché legati dallo stesso modello culturale.
A partire dal Diciannovesimo secolo, a questa idea di appartenenza comune, è stato affiancato il
concetto di naturalità della comunità, secondo il quale le etnie vengono concepite come entità di un
ristretto numero di individui con caratteristiche immutabili. Questo ha provocato la nascita dell’idea
di gruppo etnico, dalla quale si sono generati una serie di conflitti interni in virtù di una convinzione
sbagliata per la quale l’etnia designerebbe una minoranza culturale.
Nonostante questo, a partire dagli anni 70, si è giunti al riconoscimento del carattere in perenne
divenire delle etnie, arrivando alla descrizione di etnia come un costrutto storico e dinamico.
RAZZISMO DIFFERENZIALISTA
Per razzismo differenzialista si intende quella tenenza a considerare l’uguaglianza di tutte le “razza”
su base culturale che ha, come conseguenza, la difesa della propria cultura e che giustifica
atteggiamenti basati sulla paura della diversità.
Ciò che sopravvive, infatti, del razzismo “tradizionale” viene mascherato dalla convinzione che il
rifiuto del diverso, serva a preservare l’integrità della propria identità culturale, a discapito del
carattere inter e multiculturale delle società stesse che, soprattutto negli ultimi decenni, sono state
interessate dal fenomeno di globalizzazione.
Nonostante questo, il differenzialismo, nella sua accezione positiva e, quindi, lontana dalla
dimensione del razzismo, sottolinea l’importanza di salvaguardare le differenze etniche e culturali.
A questo punto ci si chiede come un’etnia sia in grado di riconoscere sé stessa come popolo.
Il termine popolo indica l’insieme degli individui di uno stesso paese che, condividendo lingua,
religione, origini, sistema legislativo eccetera, costituiscono una collettività etnica. A livello
burocratico, invece, per popolo si intende l’insieme degli individui a quali sono riconosciuti i diritti di
cittadinanza.
Nel corso della storia, il termine popolo ha assunto connotazioni diverse, delle quali si distinguono
due in particolare:
- Popolo come totalità di individui uniti da vincoli giuridico-politici, storico-culturali, religiosi o
etnico-geografici;
- Popolo inteso come quella arte della società che condivide una condizione mancata di
potere e che, sul piano politico, si distingue dalle élite.
In origine, a Roma, il termine popolo indicava l’insieme dei non ottimati (componenti della fazione
aristocratica), mentre, in età repubblicana, stava ad indicare l’insieme dei cives romani, dove la res
publica coincideva con la res populi.
In età medievale, venne data una svolta al termine popolo, con l’idea di un patto tra cittadini e
sovrano, il quale si impegnava a proteggerli da ingiustizia e tirannia.
Il concetto di popolo venne, poi, ripreso da Machiavelli, per il quale diventò fondamentale la
componente del consenso popolare, perché, dice Machiavelli, il popolo non vuole essere comandato
né oppresso e i sovrani desiderano opprimere e comandare il popolo.
Un secolo dopo, Hobbes, trattò in modo più dettagliato il concetto di popolo. Secondo il filosofo, il
popolo poteva nascere solo alla nascita dello Stato e, prima di questo, non c’era altro che una
moltitudine di individui. Solo attraverso il pactum societatis la moltitudine si univa in popolo e, dopo
il pactum subjectionis, dava vita alla società, alienando i propri diritti al sovrano.
Fu solo con Rousseau che il popolo divenne una realtà politica. L’unica forma di associazione politica
era quella fondata su un patto in cui ogni individuo cedeva i propri diritti a tutta la comunità.
In seguito, il filosofo Herder, intese l’idea di popolo in termini unicamente culturali, come una
grande individualità storico-popolare che doveva essere fedele alla propria identità.
Al filoso Hegel, invece, si deve l’introduzione del concetto di storia come successione degli spiriti dei
popoli, secondo la quale per ogni epoca esiste un popolo che incarna i valori più alti di quel
momento e, in base a questo, può essere considerato dominante.
Infine, con Marx, si abbandonò l’idea di popolo come entità unitaria e, al contrario, sostenne la
necessità di distinguere tra le vari classi, delle quali l’unica unitaria era la più numerosa, ovvero la
classe operaia.
Un atteggiamento di tipo etnocentrico diventa comprensibile nel momento in cui si considera il fatto
che ogni essere umano conosce appieno solo il proprio vissuto e, di conseguenza, concepisce come
naturale solo il proprio ordine culturale.
Una prima critica all’etnocentrismo si ha dall’antropologo Herskovits, il quale si accorse che tale
fenomeno era connesso al processo psicologico di rafforzamento dell’io. L’antropologo, dunque,
formulò a riguardo la teoria del relativismo culturale, secondo la quale i giudizi di valore assumono
validità solo nell’ambito della propria sfera di educazione e formazione.
Chi ha riconosciuto delle qualità positive al metodo relativista, ha riconosciuto che questo dispone al
riconoscimento dell’altro, fornendo allo stesso tempo gli strumenti per il riconoscimento dei propri
limiti.
Chi, al contrario, si mostra contrario, sostiene l’idea che in questo modo vengono distrutte tutte le
qualità identificative delle singole culture. Se estremizzato, l’indirizzo relativista enfatizza in maniera
eccessiva le differenze culturali, fino a rendere incomparabili.
Negli stati democratici, invece, questo rapporto è dialettico e, per comprenderne meglio il
funzionamento, è utile fare un esempio pratico della situazione italiana dal secondo dopoguerra in
poi. In questo periodo, la Chiesa mirava alla conservazione dei propri tradizionali precetti e degli
strumenti mediatici per interagire con le masse. Tuttavia, questo non le impedì di adattarsi alle
nuove forme di comunicazione. Venne, infatti, approvato l’utilizzo della radio, la collaborazione e il
finanziamento di giornali, per opporsi all’imponente fenomeno del laicismo. Le istituzioni
ecclesiastiche si ponevano come agenzie di moralità e il censore veniva considerato difensore della
fede.
Le autorità ecclesiastiche, tuttavia, si accorsero del fatto che l’accesso da parte delle masse ai media,
favoriva la nascita e la crescita di spirito critico individuale, del quale il cattolicesimo italiano non fu
un grande sostenitore. Per questo motivo si parlò di fascismo cattolico.
A partire dagli anni ’60, la posizione dei media cattolici fu segnato da un sostanziale immobilismo.
Nello stesso periodo, andò a formarsi una tendenza più favorevole all’accettazione dei valori
culturali altrui, evidenziata dalla posizione di intellettuali laici all’interno di organizzazioni mediatiche
cattoliche. Secondo la testimonianza di Barnabei, l’influenza dei cattolici sui media italiani fu la
conseguenza di un accordo stipulato tra Democrazia Cristiana e forze laiche, per il quale ai cattolici
sarebbe andata la guida della politica, mentre ai laici il controllo di finanza, informazione, editoria e
industria.
Qualche anno più tardi, Papa Giovanni XXlll, introdusse alcuni fiduciari ecclesiastici in posizioni
strategiche della Rai. Grazie a questo, sotto la direzione di Barnabei, si assisté alla prima
omologazione culturale.
A partire dagli anni ’70, i movimenti laici tentarono di estromettere sempre di più le istituzioni
cattoliche dal circolo delle comunicazioni, invitandole a ritornare all’utilizzo degli strumenti propri
della fede (vangelo).
Con l’avvento dell’era Berlusconi, fu introdotto un modello mediatico impostato sulla prevalenza
delle logiche commerciali. In questo modo, negli anni ’80 e ’90, la posizione della chiesa nei media si
indebolì. Da questo ne derivarono una serie di compromessi tra posizioni cristiane e movimenti
politici volti a restaurare la posizione mediatica delle agenzie ecclesiastiche. Grazie a questo, nel
1990, si assisté ad un rafforzamento dei media cristiani, ormai autonomi e svincolati, con il
potenziamento di giornali cristiani, la creazione di emittenti radio e le 42 riviste missionarie.
Il termine, quindi, deriva dal titolo dei volantini Fondamentali, dove venivano enunciati i punti base e
fondamentali della dottrina cristiana come rivelata dai testi sacri, dei quali si accettava
completamente la verità senza alcun tipo di verifica. La Bibbia, quindi, veniva considerata parola di
Dio stesso e, di conseguenza, autentica e infallibile.
A partire dagli anni ’70, il concetto di fondamentalismo si estese a tutte quelle tendenze che
negavano qualsiasi tipo di ipotesi di evoluzione storica applicata ai principi della fede.
Un secondo aspetto che caratterizza i fondamentalismi religiosi è la Sindrome del Nemico, ovvero il
terrore della perdita delle proprie radici e della propria identità. Come conseguenza si è vista la
nascita e lo sviluppo di gruppi organizzati influenti nella vita politica. La causa si riscontra nella crisi
dei processi di modernizzazione che, se in un primo momento aveva offerto un senso di
appartenenza agli uomini, in un secondo momento, essendo un processo in divenire, li aveva lasciati
in una situazione di destabilizzazione precaria. La religione approfitta di questa situazione, offrendo
appartenenza e identità a patto di aderire alle proprie leggi. Le organizzazioni religiose si pongono
così l’obiettivo di soddisfare le necessità sociali che lo Stato non era in grado di contentare
sottraendo fondi pubblici.
MOVIMENTI FONDAMENTALISTI
Per una migliore comprensione del fondamentalismo, è necessario specificare le differenze tra
quest’ultime e movimenti simili.
FONDAMENTALISMO ISLAMICO
Nonostante il fondamentalismo sia nato in seno al cattolicesimo, se si pensa al fondamentalismo,
secondo una visione distorta principalmente Occidentale, il pensiero va al Medio Oriente Islamico.
La parola islam deriva dalla radice slm che significa “essere incolume” o, nella semantica
maggiormente adottata, “la concreta ed attiva sottomissione alla volontà di Dio”. Un elemento
chiave per comprendere la religione islamica è la condotta del musulmano che si dà completamente
alla volontà di Dio, rendendo l’islam una religione totalizzante.
Anche secondo i musulmani la parola di Dio è il Corano, eterno e universale, nel quale sono presenti
l’insieme di norme, la shari’a, che regolano la vita del musulmano e che ha validità assolta. La
necessità di una rinascita islamica, anche in questo caso dovuta ad una perdita di identità, ha
provocato l’esplosione del fondamentalismo con toni più aggressivi, che rifiuta qualsiasi
compromesso ricorrendo alla violenza contro coloro che non accettano le loro opinioni.
Più recentemente si è assistito alla nascita del movimento integralista dell’ISIS, nata in seguito
all’idea di accorpare differenti sigle islamiche per la formazione di un sono Stato Islamico attraverso
l’applicazione estremizzata della shari’a, che comporta il ricorso alla Jihad, ovvero la Guerra Santa.
Ciò che ha permesso all’ISIS di sopravvivere in tutti questi anni è stato il fatto di essere
un’organizzazione economicamente solida. Lo Stato Islamico cade nel 2017 per opera di una
coalizione russo-siriana affiancata dai Curdi.
I motivi del declino sono tati causati dall’egemonia dei soli pastori protestanti, violente aggressioni e
la debolezza nell’essersi affidati a leader carismatici validi come soli show man che, nella maggior
parte dei casi, hanno ricercato interessi personali.
FONDAMENTALISMO EBRAICO
Il fondamentalismo ebraico unisce agli elementi tipici del movimento una dimensione etnica e un
messianismo salvifico (concezione fondata sul significato assunto dall’avvenire improntato dall’opera
e dalla personalità del messia). La teologia della Terra Promessa diventa, secondo un approccio
fondamentalista, un forte codice simbolico che fornisce ai movimenti radicali gli strumenti per
identificare la propria ebraicità con il possesso dell’intera terra di Israele.
Il conflitto nato con il sionismo ha diviso l’ortodossia ebraica in due correnti:
In questo ambito è possibile individuare due elementi tipici del fondamentalismo: la necessità di un
ritorno al cristianesimo delle origini e il primato delle sacre scritture e della parola di Dio.
FONDAMENTALISMO HINDUISTA
Le tre caratteristiche peculiari del fondamentalismo hinduista sono:
I tratti del fondamentalismo di matrice hinduista sono simili a quelli caratterizzanti i gruppi
ultraortodossi ebraici: le idee centrali sono infatti la Terra, il bisogno di riaffermare un’identità
nazionale da nemici interni ed esterni e il principio dell’inerranza dei testi sacri.
FONDAMENTALISMO BUDDHISTA
Il buddhismo si diffuse circa mille anni fa nello Sri Lanka, ad oggi riconosciuto come paese guida e
sede della scuola buddhista. Lo Sri Lanka riconquista l’indipendenza, dopo essere stato governato da
paesi occidentali, nel 1948 e, da questo momento, entrò in un ciclo di guerre civili che vedeva come
protagonisti la maggioranza cingalese buddhista da un lato e la minoranza tamil d’origine hindu
dall’altra, minoranza che aveva come obiettivo l’autonomia politica.
Di conseguenza, i tamil si sono organizzati in un movimento di resistenza che trova come suo fine
ultimo la fondazione di uno Stato tamil. In questo contesto, il governo cingalese, trovò nei monaci
buddhisti un potente alleato. I monaci buddhisti, incaricati di un ruolo diverso e nuovo, dovevano
abbandonare la vita ascetica per diventare missionari e veri e propri leader locali. Queste tendenze,
definite riformismo buddhista, erano il risultato di un contatto stretto con la cultura occidentale.
Anche in ambito buddhista, il fondamentalismo nasce sulla base di una tradizione mitica e
sacralizzata, costruita sulla credenza secondo cui il Buddha avrebbe visitato lo Sri Lanka
soffermandosi in 16 luoghi considerati sacri, facendo in modo di far diventare lo Sri Lanka la terra
promessa.
Al contrario, Huntington, afferma che i popoli definiscono la propria identità in base a quanto li
rende diversi dagli altri e che per questo, in seguito all’intensificarsi delle comunicazioni a causa della
globalizzazione, essi danno una maggiore importanza alla cultura che li identifica.
Ad esempio, il sociologo Enzo Pace sostiene che nel momento in cui, nei militanti fondamentalisti si
amplifica la convinzione che esista una vera e reale responsabilità di potenze accusate di voler
imporre un modello societario, la fede può diventare una risorsa strategica nelle politiche d’identità.
Ciò si spiega pensando al fatto che le religioni custodiscono al loro interno la memoria collettiva di
un popolo, la sua storia e i simboli sacri della sua identità. Perciò, quando il bisogno di identificazione
collettiva appare minacciato da fattori esterni, il popolo può aggrapparsi alla religione, legittimando
il conflitto contro tutto ciò che appare estraneo e, di conseguenza, impuro.
- Da un lato, una corrente di pensiero ha definito la religione come una maschera di altre
motivazioni di carattere economico e politico (o comunque materiale), ipotesi legittimata
dall’interpretazione marxista della sovrastruttura rispetto all’unica vera strutta economica e
materiale;
- Dall’altro lato, una corrente che sostiene che i fenomeni religioni, nonostante siano
influenzati da elementi del contesto sociale, devono essere valutati in quanto prettamente
religiosi.
Gli attacchi terroristici realizzati dai fondamentalismi islamici hanno offerto il pretesto per una
guerra endemica indirizzata a sconfiggere il terrorismo ed istaurare democrazie filoccidentali nei
paesi arabi, celando interessi economico-politici e di controllo di aree strategiche.
Le potenze asiatiche e i movimenti islamici sono stati gli unici a rispondere alla minaccia
dell’occidentalizzazione: l’Asia attraverso l’affermazione nel settore economico, mentre i musulmani
nello sviluppo democratico.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
In base all’analisi condotta, è rilevante individuare i molteplici aspetti del fondamentalismo nei vari
ambiti in cui si manifesta.
Nel mondo cristiano, il fondamentalismo assume caratteri estremisti nell’osservazione dei dogmi
religiosi, è connesso alla politica e alla vita sociale ma non arriva all’estremizzazione del
fondamentalismo islamico. Se il fondamentalismo hinduista e buddhista sono legati ad uno specifico
territorio, quello cristiano, islamico ed ebraico imperversano a livello internazionale, permettendo
alle civiltà, attraverso la religione, di affermare la propria presenza in tutti i settori.
È quindi consequenziale comprendere che dove c’è disperazione trovano posto promesse
messianiche e la terza via religiosa. Quello dei fondamentalismi, strettamente connessi al fenomeno
della globalizzazione, è un circolo vizioso che potrebbe essere risolto solo attraverso un’uguale
distribuzione delle ricchezze (redistribuzione del reddito).
Il fondamentalismo religioso, tuttavia, fallisce nel momento in cui adotta metodi violenti, sintomo di
malessere dovuto alla bassa solidarietà sociale e al basso indice di fiducia nel sistema politico. Oltre a
questo, il vero punto debole del fondamentalismo, è il suo punto di forza, ovvero la possibilità di
tradurre un progetto religioso in progetto politico, riducendo la religione a mero strumento della
politica.
Se da una parte vi è una spinta verso il basso a tutelare la propria diversità etnica e culturale,
dall’altra agiscono le manipolazioni politiche ed economiche. In questo modo, l’etnicità diventa vero
e proprio strumento politico, utilizzato per rivendicare l’autonomia territoriale, politica ed
economica di gruppi diversi.
MIGRAZIONI E GLOBALIZZAZIONE