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1 – Cultura/ Culture

Il concetto di cultura è stato uno degli snodi più importanti fra 800 e900. Esistono due concetti di “cultura”:
1. Classico  si riferisce alla formazione individuale e differenzia gli individui all’interno di una società
fra colti e incolti, o fra “più colti” e “meno colti”
2. Proprio delle scienze sociali  si riferisce a una condizione che riguarda gli individui in quanto
membri di una società particolare o di un gruppo che condivide forme di vita e visioni del mondo
“cultura maori”, “cultura pastorale”…

L’antropologia culturale si è legata al concetto di questa seconda accezione. La cultura così intesa risulta
rintracciabile in tutta l’umanità giustificando l’impresa di una conoscenza particolareggiata delle differenti
forme di vita e visioni del mondo diffuse in ogni angolo del pianeta. L’istituzione di un “archivio di realtà
vissute” in cui si incontrano persone che hanno trascorso vite molto diverse dalla nostra, sarebbe
sufficiente per attribuire dignità e rilevanza a una disciplina che ha tuttavia ambizione di mostrare la
centralità della stessa nel definire l’essere umano. La cultura in senso antropologico non è fatta soltanto di
usi e costumi, è costitutiva dell’essere umano.

Questa rilevanza costitutiva si afferma nel 900. Le neuroscienze hanno mostrato come nello sviluppo e nella
crescita di ogni singolo individuo risultano determinanti le informazioni esterne (sociali, ambientali,
culturali) nel configurare le connessioni sinaptiche e attrezzare in termini cognitivi gli esseri umani affinché
possano essere nel mondo e svolgervi il loro ruolo. Il passaggio dai costumi alla cultura ha aperto la strada a
una visione organica. Questo aspetto di sistematicità è rilevato dagli esordi 800eschi della disciplina. Tale
sistematicità della cultura evidenzia come essa non solo non sia ornamentale ma neppure un assemblaggio
casuale. Non esiste un unico grande assemblaggio sistemico comune a tutti gli esseri umani, ma esistono
molti assemblaggi sistemici che gli antropologi culturali han denominato “culture”.

L’antropologo di origine indiana Arjun Appadurai esprime un disagio nell’utilizzo del concetto di cultura,
ritiene che l’uso dell’aggettivo “culturale” al posto del sostantivo “cultura” possa aiutare a continuare ciò
che han sempre fatto stando però alla larga non tanto dal concetto di cultura, ma dal preconcetto che la
cultura sia un qualche oggetto, una cosa o una sostanza fisica e metafisica. Non è il concetto di cultura a
fare problema, ma il preconcetto. Per Appadurai l’aggettivo permette di ribadire la centralità della
dimensione culturale.

Il concetto di cultura in antropologia


Francesco Remotti

Concezioni diverse di “Cultura”: esistono due concezioni fondamentalmente diverse di “cultura”: una
classica e tradizionale, che afferma un ideale di formazione individuale e l’altra moderna e scientifica, nel
senso che è stata fatta calere dalle moderne scienze sociali. La prima indica un dover essere per alcuni
individui di alcune società, la seconda illustra una condizione che riguarda i membri di qualsivoglia gruppo
sociale. La prima concezione affiora in espressioni come “uomo di cultura”, la seconda in espressioni quali
“la cultura maori”, “la cultura dei giovani”.

Radice comune alle due concezioni: entrambe si fondano su una metafora agricola: “cultura” deriva dal
latino colere che significa “abitare”, “coltivare”, “ornare”, “venerare”. Alla base vi è l’idea di un intervento
modificatore, trasmessa subito dal gesto di chi si insedia in un luogo per abitarvi e per ciò stesso lo
trasforma, così come lavora e forma l’ambiente circostante al fine di coltivarlo. Cultura è pure la cura rivolta
al corpo, alle facoltà o alle divinità. Quando Cicerone afferma che “cultura animi philosophia est”, intende
la filosofia come un intervento radicale sull’animo umano, il quale lo trasforma come se fosse il terreno del
contadino, da incolto a colto. Da questi accenni traspaiono due elementi, i quali valgono a
contraddistinguere la concezione classica:
1. La cultura separa aristocraticamente l’individuo che si sottopone al suo esercizio dal volgo incolto e
lo sottrae ai mores (costumi) della sua società
2. Questa stessa cultura immette l’individuo in una società diversa da quella locale, in una comunità di
dotti, in una repubblica delle scienze e delle lettere caratterizzata da valori di ordine universale.

La cultura intesa in senso classico si rivela quindi incompatibile con i costumi locali e particolari; e proprio
per questo si combina con l’idea di una società astratta e liberata dai condizionamenti locali e temporali,
che grazie a questa cultura senza costumi ritiene di poter realizzare la vera humanitas.
Differenza essenziale tra la concezione classica e moderna è data dall’assenza o presenza dei costumi come
contenuti specifici della cultura. Se la cultura in senso classico era costituita da ideali e verità, valori non
condizionati dai mores, e se la sua acquisizione coincideva con una liberazione dagli abiti e dalle
consuetudini locali, la cultura in senso moderno è costituita dai costumi e un’analisi in termini culturali
comporta il riconoscimento della loro importanza e della loro incidenza in una molteplicità di ambiti del
comportamento umano.

Una delle prime espressioni della concezione moderna è rintracciabile nell’Essai sur les moeurs di François
Marie Voltaire. Alla metà del 700 l’Europa sta completando il proprio giro attorno al mondo. Avvengono le
tre spedizioni nel Pacifico meridionale di James Cook e tra i pensatori della seconda metà del secolo, per cui
le relazioni di viaggio si configurano come fonti imprescindibili per la considerazione del mondo umano
nelle sue forme, la figura di maggior spicco è Herder. Tipico di Herder è il desiderio di rimanere in una sorta
di viaggio attraverso gli uomini, raccogliendo informazioni da ogni parte della terra. Alla base di questi
atteggiamenti vi è la percezione della pluralità irriducibile delle forme di vita che l’umanità può assumere.
I lumi o la cultura non sono dunque circoscrivibili all’Europa del XVIII secolo. “Anche gli abitanti della
California e della Terra del Fuoco hanno imparato a fare e usare archi e frecce, hanno un linguaggio e
concetti, esercizi e arti che hanno imparato come li abbiamo imparati noi, e pertanto anch’essi sono
veramente inculturati e illuminati, sia pur in misura minima”. Dalle zone marginali del pensiero tedesco
vediamo emergere questo concetto entografico di cultura, concetto che assume ruolo determinante
nell’etnografo Gustav Klemm. L’inglese Edward B. Tylor, al quale dobbiamo la prima definizione organica di
cultura in senso antropologico, conosceva e apprezzava il lavoro etnografico di Klemm, di cui condivideva la
tesi della centralità della cultura nella storia. Definizione con cui Tylor inizia Primitive culture del 1871: “la
cultura o la civiltà intesa nel suo più ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la
conoscenza, le credenze, l’arte, la morale,, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine
acquisita dall’uomo come membro di una società”

a. Imprescindibilità della dimensione etnografica, che dilata i confini della nozione di cultura fino a
renderla coestensiva con quella di umanità.
b. Idea che la cultura sia un insieme che ingloba diverse attività (e non soltanto quelle più
propriamente razionali e intellettuali)
c. Il carattere acquisito (non geneticamente trasmesso) di questo insieme e delle attività che lo
compongono
d. La connessione del concetto di cultura con quello di società nel senso che l’acquisizione della
cultura avviene per il fatto stesso di far parte di un gruppo sociale.

Abiti, costumi, esteriorità: anche la sociologia e la psicologia sociale hanno contribuito alla definizione di
questo concetto: ma né la sociologia né la psicologia sociale han offerto un contributo teorico decisivo
quale quello dell’antropologia culturale. Le origini etnografiche di questo concetto hanno portato a
individuare come contenuti della cultura soprattutto i costumi, ovvero quegli aspetti o dimensioni del
comportamento umano che sono sì dotati di regolarità, nel senso della ripetibilità, ma di una regolarità
variabile, nel senso che è tipico dei costumi variare da luogo a luogo e da tempo a tempo, tra società e
società e all’interno di una stessa società, tra i momenti diversi della sua storia. Nella definizione tyloriana
troviamo in posizione centrale la nozione di costume insieme a quella imparentata di “abitudine”, ciò che
dal punto di vista dei contenuti costituisce l’innovazione semantica più decisiva rispetto al concetto
tradizionale e classico di cultura. Considerati privi di cultura, costumi e abitudini sono sempre apparsi
strani, bizzarri, senza un fondamento che non fosse quello ovvio della ripetitività. L’aver dato a questi
contenuti la forma della cultura ha significato il riconoscimento dell’esistenza di un senso di un
fondamento, alla luce dei quali si dovrebbe considerare tanto la variabilità quanto la regolarità di costumi e
abitudini. Una volta accennato e diffuso il concetto antropologico di cultura nelle scienze sociali, la nozione
di costume ha perso terreno e si è eclissata: da diversi decenni non si impiega più l’espressione “usi e
costumi”, soppiantata dal ricorso al concetto di cultura. Ponendo a confronto “usi e costumi” e “cultura”, i
primi rappresentano per così dire la facciata esterna, mentre la seconda si riferisce a elementi strutturali
costitutivi e interni.
Al fine di illustrare il concetto antropologico di cultura Alfred Kroeber fa ricorso a un esempio significativo:
si tratta di gruppi umani e animali. Mentre tutti i mammiferi artici presentano un folto pelo, l’uomo copre il
suo corpo con pellicce sottratte agli altri animali. Il processo di adattamento di questi ultimi ha interessato
un numero molto elevato di generazioni, mentre l’adattamento umano è stato molto rapido. Le
modificazioni nel caso degli altri mammiferi sono organiche, mentre nel caso dell’uomo lascano inalterato il
suo corpo. Vi è però un risvolto della medaglia, mentre le generazioni di mammiferi artici che si succedono
nello stesso ambiente trattengono nei propri organismi e in quelli dei propri discendenti le forme di
adattamento collaudate, i discendenti dell’eschimese nasce nudo e fisicamente inerme tanto quanto lui e il
suo centesimo ascendente. Il coinvolgimento dell’organismo nei processi di adattamento è per un verso un
vincolo frenante ma per un altro è una garanzia di perpetuità.

Il non coinvolgimento dell’organismo nei processi e nelle forme di adattamento culturale è la ragione del
carattere di esteriorità della cultura. Fin dalle sue manifestazioni più rudimentali e primitive la cultura si
configura come un insieme di forme e processi che si collocano tra gli organismi umani e il mondo esterno.
Anche le analisi di André Leroi-Gourhan appaiono assai pertinenti. Tutti gli utensili di cui gli esseri umani si
sono avvalsi a cominciare dalle epoche più lontane, costituiscono un prolungamento verso l’esterno, anzi,
nell’esterno di potenzialità e facoltà sia fisiche che mentali: la pietra scheggiata, il bastone da scavo, il
propulsore, sono esteriorizzazioni extra organiche che aumentano di molto le possibilità dell’adattamento
umano all’ambiente.
Accanto alla tecnologia affiora inevitabilmente l’altro grande ambito della cultura umana, il linguaggio. Per
Kroeber “il linguaggio è qualcosa di completamente acquisito e non ereditario, esterno e non interno, un
prodotto sociale e non il frutto di uno sviluppo organico. Per sottolineare il carattere esteriore del
linguaggio Kroeber analizza l’exemplum fictum del neonato francese, se portato in Cina subito dopo la
nascita, la lingua non è iscritta nell’organismo di quell’individuo, mentre vi sono incisi i caratteri che
renderanno i suoi occhi azzurri e i suoi capelli biondi. Gourhan nota come anche la parola e l’attività
simbolica conoscano un processo di esteriorizzazione che si rende evidente con l’invenzione dei vari sistemi
di scrittura.

L’esteriorità della cultura può essere concepita in una pluralità di modi. Per Kroeber il carattere esteriore
della cultura si oppone al carattere interiore dell’istinto: se quest’ultimo è qualcosa di inciso internamente,
un modello indelebile, la cultura è qualcosa che viene dato, passato di mano in mano dall’uno all’altro.

Il differente peso della cultura e la sua imprescindibilità biologica: sviluppi più recenti relativi alla teoria
della cultura hanno più mantenuto l’idea del suo carattere esteriore. Per Clifford Geertz la cultura è un
insieme di fonti estrinseche di informazione, nel senso che si trovano all’esterno dei confini dell’organismo,
e per Roger Keesing gli individui percepiscono spesso la propria cultura come una realtà esterna. Ma il
mantenimento dell’esteriorità si coniuga in questi teorici con il rifiuto di una concezione stratigrafica della
cultura. Per diversi momenti della filosofia moderna occidentale – che Geertz vede rappresentati
dall’illuminismo – la natura umana, permanente e stabile, risulta nascosta da uno strato di “costumi” che la
ricoprono: l’obiettivo è di eliminare analiticamente lo strato dei costumi per scoprire ciò che l’uomo
effettivamente è. Questa natura si rivela nella sua purezza e autenticità soltanto quando è liberata
dall’impurità dei costumi. Costumi, abitudini e usanze, confinati negli strati più superficiali, appaiono in
questa prospettiva come stravaganze, la cui incidenza in una ricerca antropologica, diretta appunto
all’essenza dell’umanità, si rivela quasi del tutto negativa: strati superficiali e leggeri, ostacoli o schermi che
la sagacia del pensatore deve essere in grado di rimuovere.

L’elaborazione in ambito etnografico del concetto di cultura ha appesantito molto lo strato dei costumi.
Nella prospettiva primo-novecentesca di Kroeber il peso della realtà umana viene equamente ripartito tra
la sua componente o livello culturale: gli abiti culturali non sono più stranezze senza senso, sono invece
strumentali o funzionali, forme e modelli. Con gli sviluppi più recenti della teoria antropologica della
cultura, il peso della realtà umana si sposta invece decisamente sul versante dei costumi e delle abitudini. Si
predica allora l’irreperibilità dell’uomo al di là delle sue usanze, l’impossibilità di scoprirlo nudo nella sua
purezza originaria e preculturale. I costumi non nascondono di certo l’uomo e nemmeno si limitano a
completarne e a perfezionarne la figura, bensì foggiano direttamente quella variegata e strana realtà che
sono gli uomini nelle loro differenze culturali. I costumi sono la realtà dell’uomo e la sua seconda natura:
non al di là dei costumi, ma nei o tra i costumi va ricercata l’essenza dell’uomo. Con questi sviluppi i
costumi acquisiscono il peso maggiore nella configurazione della realtà umana; in tal modo l’essenza
dell’uomo viene separata dal principio dell’unità e della stabilità e considerata compatibile con la
variabilità. L’essere dell’uomo non è una struttura che si ritrova intatta in ogni tempo e luogo; esso coincide
con la pluralità delle forme particolari e locali mediante cui inevitabilmente gli esseri umani si realizzano.

In questa prospettiva i costumi, gli abiti, la cultura conservano pur sempre il carattere dell’esteriorità; ma
ciò che è al di qua dell’esteriorità – ovvero le strutture pure e autentiche – perde la sua autonomia, a
vantaggio dell’esteriorità extraorganica, che prende in carico il senso e il peso dell’umanità. L’esteriorità dei
costumi perde il senso della superficialità. Nella più pronunciata prospettiva culturale, esteriorità non
comporta superficialità, perché nell’esteriorità si sviluppano processi e si realizzano forme che non si
limitano ad aggiungersi ai processi e alle forme organiche.

L’accrescimento e l’espansione della cultura al di là dei confini con l’organico sono dovuti allo
smantellamento della visione stratigrafica. Ma le condizioni che le rendono possibili vanno rintracciate in
alcune scoperte che a partire dagli anni Venti del 900 sono state compiute in ambito paleoantropologico.
Con l’Australopithecus africanus ci si è resi conto che gli ominidi, antenati dell’Homo sapiens disponevano
di una forma di cultura, nonostante il loro cervello fosse un terzo di quello attuale per dimensioni  la
cultura appare come qualcosa di esterno rispetto agli organismi individuali, ma essa interviene ben prima
che l’evoluzione organica produca l’uomo quale esso è oggi. Più ancora dell’antropologia culturale, è stata
la paleoantropologia a porre in crisi i rapporti di successione lineare tra evoluzione organica e evoluzione
culturale. Si tratta di concepire i rapporti tra le due componenti in modo meno semplicistico e secondo
un’interazione più profonda, tale per cui la cultura non interviene a cose fatte sul piano organico, ma si
innesta direttamente nell’evoluzione organica come sua componente imprescindibile.

Dall’inizio della stazione eretta allo sviluppo attuale della massa celebrale si estende un lunghissimo periodo
di alcuni milioni di anni, durante i quali gli antenati dell’Homo sapiens sfruttano le mani, che la stazione
eretta rende libere dalla funzione locomotoria, per la costruzione di utensili, ma anche l’esteriorizzazione
della capacità simbolica del linguaggio. È ovvio che quella cultura – utensili e parole – è il prodotto di un
cervello; ma il modello d’interazione profonda tra la componente organica e quella culturale suggerisce che
anche il cervello sia a sua volta prodotto di quella cultura.

Per una specie fisicamente inerme sul piano organico come l’uomo, si è molto indotti a ritenere che la
cultura sia qualcosa di utile. Per un ominide privo di armi di difesa e offesa (zanne, artigli…), la capacità di
costruire utensili fu senz’altro un grosso vantaggio evolutivo. Il prolungamento extraorganico della mano ha
consentito una manipolazione e un controllo ambientale superiori. Ma l’incidenza della cultura è più
profonda di quanto possano farci presagire l’idea di utilità e la testimonianza degli utensili preistorici. Con
lo smantellamento della visione stratigrafica, il modello interattivo concepisce l’incidenza della cultura non
in termini di utilità per un animale indifeso, ma di indispensabilità per un essere la cui formazione e il cui
sviluppo dipendono sempre dalla sua esteriorizzazione culturale. Per Geertz privati della cultura, gli uomini
non sarebbero semplicemente animali che incontrerebbero maggiori difficoltà nel loro adattamento, ma
sarebbero inguaribili mostruosità con pochissimi istinti utili: ancor meno sentimenti riconoscibili e nessun
intelletto: casi mentali disperati. Il funzionamento del nostro cervello è inconcepibile in un vuoto culturale
 l’incapacità del nostro apparato nervoso e celebrale a dirigere il nostro comportamento e a organizzare
la nostra esperienza “senza la guida fornita dal sistema di simboli e significanti”. La cultura non è un aiuto; è
la base della stessa sopravvivenza biologica dell’uomo.

Simboli condivisi: il modello interattivo qui sopra esposto intende la cultura non soltanto come
strumentalità, ma soprattutto come simbolismo: la cultura incide nella vita dell’uomo e si configura come
prerequisito della sua esistenza biologica in virtù non soltanto dell’apparato tecnologico, ma anche della
sostanza simbolica di cui è composta. Il modello interattivo sottolinea il carattere della cultura come
ambiente vitale degli esseri umani, ma proprio in base al presupposto dell’interazione ritiene che questo
ambiente impregnato di simbolismo sia a sua volta il prodotto degli organismi umani. È indubbio che
l’intervento della dimensione simbolica abbia costituito una fase decisiva di non ritorno. Affidarsi sempre
più alla cultura e sempre meno alla base genetica per orientare gli esseri umani nel mondo ha comportato
uno iato tra quello che ci dice sul nostro corpo (le informazioni genetiche inadeguate) e quello che
dobbiamo sapere per funzionare: si tratta di un vuoto che dobbiamo riempire noi stessi e lo riempiamo con
le informazioni fornite dalla nostra cultura. E queste informazioni culturali sono contenute, conservate,
trasmette e rinnovate dalla sostanza simbolica della cultura. Come non vi è uomo naturale che poi inventa,
scopre o produce la cultura, non vi è neppure l’individuo che formatosi per conto proprio, entra nella
società. Le due concezioni si corrispondono piuttosto bene: all’essere naturale e preculturale fa riscontro
l’individuo presociale e naturale. L’interazione organismo/cultura implica l’interazione sociale, lo scambio di
azioni, informazioni e prodotti. Ed è nel contesto sociale che si formano tanto i simboli quanto gli individui
che li usano. Il comportamento culturale dell’uomo appare sempre mediato dall’uso di simboli. Ma dato
che il simbolismo è un sistema condiviso di accordi o di vincoli culturali, pure il comportamento sociale
deve essere invocato per spiegare come e perché gli esseri umani siano culturali. Il simbolismo rinvia alla
società poiché esso consiste in una condivisione di accordi, convenzioni, limiti, presupposti e associazioni o
distinzioni. Simbolismo e vita sociale vanno a collocarsi alle origini più profonde della cultura umana e
impediscono di pensare a uno sviluppo culturale scandito da una fase prioritaria, tutta dominata dalla
cultura materiale.
La condivisione dei simboli è la base della vita sociale. Condividendo simboli si produce un “noi” e nello
stesso tempo si determinano le differenze tra noi e gli altri, tra il proprio noi e quello degli altri.

Reificazione e precarietà: l’“in più” culturale: Roger Keesing ha parlato di magia dei simboli condivisi,
intendendo che agiscono come presupposti e come condizioni della vita sociale di un particolare gruppo, in
quanto vengono scarsamente esplicitati, resi oggetto di riflessione o di analisi: essi rimangono sullo sfondo,
anzi sul fondo della coscienza sociale. I simboli condivisi si trovano nei costumi più inveterati, nelle
consuetudini più ovvie, negli atteggiamenti più naturali, a cui non si presta attenzione.

Proprio per questo stare sullo sfondo i simboli condivisi esercitano la loro influenza sugli uomini e
plasmando il loro modo di agire, di pensare e di sentire. Un potere così misterioso perché si trova al di fuori
del raggio della coscienza e quindi del controllo deli individui. Ma i simboli condivisi non vivono soltanto
nell’ombra della quotidianità. Vengono talvolta esaltati allorché si conferisce loro una più esplicita realtà
sovraindividuale, sottolineando con rituali e credenze la dipendenza degli uomini da questa entità. La magia
dei simboli è anche questo: la trasposizione di presupposti che dominano esplicitamente la coscienza
individuale e alle quali ci si riferisce periodicamente per orientare azioni proprie e altrui, per motivare le
scelte morali della società. Vi possono essere connessioni profonde tra i più umili rituali della vita
quotidiana e le costruzioni religiose più raffinate e complesse, che insistono sul rapporto di dipendenza
degli individui e dei gruppi da entità sovrumane. In un caso e nell’altro è la potenza dei simboli che agisce e
viene esaltata: naturalizzati nel primo e sovra-umanizzati nel secondo.

Questa sottrazione dei simboli alla presa della consapevolezza e alla manipolazione sociale fa parte di un
processo più vasto denominato reificazione, che consiste nel conferimento ai simboli di una condizione di
realtà autonoma e indipendente. Le abitudini della vita quotidiana da un lato e le cerimonie e credenze
dall’altro rappresentano esiti ben riusciti del processo di reificazione.
La reificazione è il processo che consente di consolidare i simboli condivisi e di conferire loro il ruolo di
presupposti e di condizioni della comunicazione e della vita sociale. Il trucco della reificazione dei simboli
condivisi consiste quindi nella negazione del loro carattere sociale, ma è un trucco vitale per fornire
presupposti al funzionamento della vita delle società, alla sopravvivenza degli individui.

Se è legittimo ammettere l’esistenza del processo di reificazione in ogni lingua e in ogni cultura, è tuttavia
concepibile che gli esiti del processo possano variare da cultura a cultura, nel senso che la trama simbolica
di ogni cultura è intessuta – risulta di qui più fitta e di là più rada. Anche nelle culture in apparenza più
semplici è come se vi fosse sempre un in più culturale. La sostanza simbolica reificata è ciò che determina
questo surplus. La reificazione è la risposta più globale alle esigenze della cultura come realtà in sé  è
dunque una risposta alla precarietà. Il riconoscimento della precarietà dovrebbe inglobare il
riconoscimento per quanto parziale e camuffato della propria precarietà da parte delle singole culture.
Accettare totalmente la precarietà da parte di una cultura è come rinegare se stessa, abdicare alle sue
funzioni. Il riconoscimento della precarietà si traduce nei tentativi di farvi fronte. Per la sua radicale
precarietà e per il riconoscimento che in modo più o meno celato l’accompagna, ogni sua attività è
accompagnata da un “in più” di contenuto culturale (miti, credenze, rituali), la cui funzione è quella di
convincere e assicurare circa la validità delle soluzioni adottate. È un po’ come se la cultura contenesse in sé
stessa o producesse da sé stessa dei livelli metà culturali.

Le variazioni e il mutamento: il carattere insuperabile della precarietà è dovuto al fatto che qualunque
forma culturale esiste solo in quanto vi sono degli individui che interagendo la realizzano. Se lo scenario
della rappresentazione culturale non è la società astrattamente intesa, ma la vita sociale effettiva di
individui e di gruppi, la precarietà della cultura si riproduce. Un quartetto di Beethoven un rituale
matrimoniale nepalese, una tecnica artigianale valdostana, non verranno mai eseguiti nello stesso modo
nemmeno dagli stessi individui. Anche se gli scarti sono minimi, ogni realizzazione culturale comporta una
modificazione. Lo stesso processo di riproduzione della cultura non può dunque fare a meno di ospitare un
grado più o meno elevato di precarietà sotto forma di variazioni individuali. Le variazioni nella cultura non
sono circostanze insignificanti rispetto al riprodursi di un modello inalterabile nella sua integrità. Se è vero
che la cultura esiste solo in quanto effettivamente usata, le variazioni individuali non sono mere derivazioni
ma momenti e modalità di effettiva realizzazione della cultura. La cultura, come la lingua, si realizza
attraverso le variazioni individuali. Ferdinand De Saussure, pur distinguendo tanto nettamente tra langue (il
sistema sociale della lingua) e parole (la realizzazione individuale), riconosce che la lingua non è una
sostanza, non è un’entità, ma una forma che esiste soltanto nei soggetti parlanti. Se si tace la lingua muore,
se si tace e non si agisce una cultura scompare. Se si parla e si agisce la lingua e la cultura vengono
riprodotte. La riproduzione è un’inesorabile modificazione. Attribuendo la massima importanza alle
variazioni individuali, Darwin era pervenuto al riconoscimento del carattere convenzionale e arbitrario del
concetto di specie. Un esito simile è emerso in antropologia.

La vita della cultura appare quindi come un immenso oceano di variazioni individuali, cioè di fenomeni
fortuiti che simili a onde del mare si muovono avanti e indietro in un flusso senza scopo. La stragrande
maggioranza di queste variazioni sono subliminali, nel senso che non vengono colte o registrate. Ma le
variazioni individuali hanno anche effetti di accumulo, progressi insensibili che si manifestano con tendenze
all’uniformità. Il mutamento comincia ad apparire quando dalla massa confusa delle variazioni individuali si
determina una direzione, un orientamento. La maggior parte delle variazioni casuali presenti nella cultura
scompaiono con l’individuo che le manifesta: quelle che non scompaiono, che vengono raccolte da altri
membri della società, tendono a essere cumulative.

Nella vita della cultura opera una sorta di setaccio storico, assai simile alla selezione in campo biologico. Ma
proprio il fatto che di solito gli individui riescono a percepire la forma e l’orientamento delle correnti
culturali soltanto quanto queste hanno raggiunto un certo termine e gli individui non vi sono più immersi
dovrebbe indurre a sottolineare l’importanza della massa fluida delle variazioni individuali. Il carattere
anonimo e casuale delle variazioni non deve far dimenticare che esse sono il magma vitale della cultura,
non un’imperfezione sociale, ma una necessità adattiva: una risorsa decisiva a cui attingere per il
mutamento culturale.

Dilatazioni e sconfinamenti concettuali: il concetto antropologico di cultura adottato dalle scienze sociali del
900 è nato tra i costumi e in particolare tra i costumi dei cosiddetti primitivi delle società senza scrittura. Le
sue origini etnografiche l’hanno tenuto lontano dai dibattiti filosofici sulla ragione; e questa separazione ha
fatto si che il concetto antropologico di cultura risultasse applicabile nello studio delle società considerate
come tradizionali. A segnare il confine tra la cultura intesa come comportamento tradizionale e la ragione
intesa come procedimento di pensiero in grado di trasformare i rapporti sociali e di liberarli dai gravami dei
costumi, è stato posto il processo di modernizzazione: sul versante della cultura gli antropologi con le loro
società dominate dai costumi e dalle tradizioni, e sul versante opposto filosofi e sociologi in mezzo a una
società modernizzata e razionalizzata. Ma i due concetti non sono rimasti immobili, si sono avvicinati con
effetti di condizionamento reciproco. La razionalità è infatti defluita verso la cultura tradizionale,
eliminando da essa un certo alone di misteriosa sacralità. Per l’altro verso il concetto di cultura ha
approfittato delle crepe prodottesi nel concetto di ragione; e infatti la cultura contribuisce a sottolineare la
natura o il condizionamento di costume del pensiero che si autodefinisce razionale, il suo essere una
credenza e il suo essere particolare. Lo sconfinamento della cultura verso la ragione smentisce le pretese di
universalità di quest’ultima. Sconfessato nella sua pretesa, il pensiero razionale finisce per configurarsi
come il pensiero di una cultura, come una possibilità che va considerata tra le altre. Nello sconfinamento
verso la ragione, il concetto antropologico di cultura, se per un verso priva questa orma di pensiero della
sua pretesa di universalità e di unicità, per l’altro le prospetta la possibilità di confrontarsi e di dialogare con
le altre forme di pensiero altrettanto culturali.

Come i filosofi hanno rivendicato la ragione per non spartire la cultura con i primitivi, così gli antropologi
rivendicano perlopiù il simbolismo e il significato per non spartire la cultura con i primati e altri animali. Ma
piuttosto che erigere barriere difensive, può risultare di grande interesse riflettere sul mutamento di
prospettiva che a questo proposito ha caratterizzato il pensiero di Lévi-Strauss. Se nel 1949 riteneva che
questa distinzione fosse segnata da un confine invalicabile, poi ammette che la linea di demarcazione
appare più tenue. L’uso e la costruzione di utensili, l’esistenza di complessi procedimenti di comunicazione,
l’impiego di veri e propri simboli anche tra gli animali inducono Lévi-Strauss a chiedersi se l’opposizione tra
natura e cultura lungi dall’essere un dato oggettivo dell’ordine del mondo, non sia piuttosto una creazione
artificiale della cultura umana, un’opera difensiva che questa avrebbe scavato intorno a sé, recidendo i
legami con le altre manifestazioni della vita, al fine di affermare la propria esistenza e rivendicare la propria
originalità.
La dimensione culturale
Arjun Appadurai

L’occhio dell’antropologia: mi trovo spesso a disagio con il sostantivo “cultura”, mentre sono affezionato al
termine “culturale. Se implica una sostanza mentale, il termine Cultura privilegia di fatto quell’idea di
condivisione, accordo e compiutezza che contrasta fortemente con quel che sappiamo sui dislivelli di
conoscenza e sul prestigio differenziale degli stili di vita, e distoglie l’attenzione dalle concezioni e
dall’azione di coloro che sono emarginati o dominati. Se invece è vista come una sostanza fisica, la cultura
comincia a sapere di qualche verità di biologismo, inclusa la razza, che abbiamo sicuramente superato come
categoria scientifica. L’aggettivo culturale conduce invece verso il più fertile campo delle differenze, dei
contrasti e delle comparazioni. Il tratto più prezioso del concetto di cultura è il concetto di differenza, una
proprietà più contrastiva che sostantiva di certe cose. Ogniqualvolta indichiamo una pratica, una
distinzione, un concetto, un oggetto o un’ideologia come dotati di una dimensione culturale, stiamo
sottolineando l’idea di differenza situata, cioè in rapporto a qualcosa di locale. Ponendo la mobilitazione
delle identità di gruppo al cuore dell’aggettivo culturale, sembra che io stia iniziando ad avvicinare la parola
cultura all’idea di etnicità. La parola cultura nel suo senso non marcato può continuare a essere usata per
fare riferimento alle molteplici differenze che oggi caratterizzano il mondo, differenze a vari livelli, con
diverse valenze, e con conseguenze più o meno ampie in campo sociale. Per quanto riguarda il
mantenimento del confine, la cultura diviene quindi una questione di identità collettiva costituita da alcune
differenze tra altre. Ma così non stiamo equiparando etnicità e cultura? Si e no. Si perché in questa
accezione cultura sottolineerebbe non solo il possesso di certi attributi, ma la consapevolezza di quegli
attributi e la loro naturalizzazione in quanto essenziali all’identità collettiva. Ma questo processo è anche
diverso dall’etnicità almeno in una sua accezione antiquata, perché non dipende dalla propagazione di
sentimenti primordiali a unità sempre più estese, in un qualche processo unidirezionale, e non commette
neppure l’errore di presupporre che le unità sociali più ampie si basino semplicemente sui sentimenti di
famiglia e parentela per dare forza emotiva a identità collettive di vaste dimensioni.

In tutto il mondo molti gruppi dovendo far fronte all’azione di Stati interessati a recintare le loro diversità
etniche entro raggruppamenti rigidi e chiusi di categorie culturali alle quali gli individui sono spesso
assegnati contro la loro volontà, si stanno deliberatamente mobilitando secondo criteri identitari. Il
culturalismo è la politica dell’identità mobilitata al livello dello stato nazione.

L’apparente rinascita a livello mondiale dei nazionalismi e dei separatismi etnici non è in realtà quel
tribalismo cui troppo spesso fan riferimento giornalisti ed esperti. La violenza etnica cui assistiamo è invece
parte di una trasformazione più vasta che è indicata dal termine culturalismo = deliberata mobilitazione
delle differenze culturali al servizio di più vaste politiche nazionali o transnazionali. È spesso associato
all’esilio e all’asilo politico, e quasi sempre a lotte per un maggiore riconoscimento da parte degli esistenti
Stati nazionali o da parte di vari organismi transnazionali. I movimenti culturalisti afroamericani negli USA,
pakistani in Gran Bretagna, algerini in Francia, sikh o francofoni in Canada, tendono tutti a essere
antinazionali e metaculturali. In senso lato, il culturalismo è la forma che la differenza culturale tende ad
assumere in un’epoca di mediazione di massa, emigrazione e globalizzazione.

Abitare o Costruire
Tim Ingold

Edificare ambienti, costruire dei mondi: Un ambiente non è mai dato, ma è sempre in costruzione. Come
possiamo distinguere un ambiente che è stato costruito da uno che non lo è? Che diritto abbiamo di
identificare convenzionalmente l’artificiale con ciò che è fatto dall’uomo?
Es: il castoro lavora sodo per costruire la sua tana: la tana è il prodotto del suo essere propriamente
“castoro”. Analogamente la casa è il prodotto delle attività dei costruttori umani. Dovremmo allora
concludere che la tana del castoro è un’espressione della “castorità” allo stesso modo in cui una casa è
espressione umana? Dovunque siano, i castori costruiscono le stesse tante e per quel che ne sappiamo, han
sempre costruito le stesse tane. Gli esseri umani costruiscono invece case diverse e anche se certe forme
esistono da molto tempo, è documentato che anche queste forme hanno subito importanti cambiamenti
nel corso della storia. Il progetto della tana è incorporato nello stesso programma che sottende lo sviluppo
del comportamento del castoro: il castoro non è il progettista della tana più di quanto non lo sia il mollusco
per la sua conchiglia. È un mero esecutore di un progetto che si è evoluto, insieme alla morfologia e al
comportamento del castoro. In altre parole, sia il castoro nella sua forma esteriore e fenotipica, che la sua
tana sono “espressioni” dello stesso genotipo.
Gli esseri umani invece sono gli autori dei loro progetti, costruiti attraverso processi di decisione, di
selezione internazionale di idee.

In realtà gli esseri umani non costruiscono il mondo in un certo modo in virtù di ciò che sono, ma in virtù
delle loro concezioni delle possibilità. E queste possibilità sono solo limitate dal potere dell’immaginazione.
Negli animali non umani, ogni filo della rete è una relazione tra esso e qualche oggetto o caratteristica
dell’ambiente, una relazione che viene stabilita attraverso la sua immersione pratica nel mondo e dagli
orientamenti corporei che ciò implica. Per l’essere umano invece, la rete – e le relazioni di cui essa consiste
– sono iscritte in un piano separato di rappresentazioni mentali, formando un arazzo di significati che
ricopre il mondo degli oggetti ambientali. Mentre l’animale non umano percepisce questi oggetti in quanto
immediatamente disponibili per l’uso, agli esseri umani essi appaiono inizialmente come fenomeni i cui usi
potenziali debbono essere assegnati prima di utilizzarli.

La casa come organismo: le case sono organismi viventi. Come gli alberi, esse hanno storie di vita, che
consistono nel dispiegamento delle loro relazioni con le componenti umane e non umane dei loro ambienti.
Nella misura in cui prevale la componente umana, le caratteristiche dell’ambiente sembreranno più
costruite; nella misura in cui prevale la componente non umana, lo sembreranno meno.
Costruire allora è un processo che continua per tutti il tempo che un ambiente viene abitato. Non comincia
con un progetto preformato, per finire con un artefatto finito. La forma finale non è che un momento
passeggero nella vita di ciascuna forma, un momento in cui essa viene associata a un obiettivo umano e
dissociata dal flusso continuo dell’attività internazionale. Ciò vale ugualmente per il pensiero di costruire. È
nel processo stesso dell’abitare che costruiamo.

2 – Comparazione/ Etnografia
La comparazione è un aspetto non solo della disciplina antropologica, ma anche della cultura e del modo in
cui essa viene costruita. Nella vita quotidiana infatti, gli esseri umani procedono inevitabilmente per
comparazione, quando cercano e riconoscono le affinità e le divergenze tra oggetti e tra concetti oppure
quando riconducono l’ignoto a categorie familiari. Dal canto suo, l’etnografia esprime il fondamento
empirico dell’Antropologia culturale.

Nella fase iniziale del percorso dell’antropologia culturale come disciplina accademica, cioè nella seconda
metà dell’800, lo sforzo comparativo fu posto al servizio di una missione scientifica che intendeva
individuare le leggi dell’evoluzione socioculturale, ma questa operazione fu presto sottoposta a critiche. Il
destinatario delle critiche dell’antropologia culturale non era l’evoluzionismo darwinista ma l’evoluzione
sociale, soprattutto per via del suo uso del metodo comparativo. Il comparativismo evoluzionista prendeva
in esame oggetti culturali materiali e immateriali, dai manufatti alle istituzioni giuridiche, allo scopo di
classificarli in un’unica scala universale che andava dal primitivo al civilizzato. I parametri di valutazione
erano profondamente condizionati dal punto di vista dell’osservatore e non tenevano conto della specificità
storica né dei significati localmente attribuiti ai fenomeni culturali. Boas propose di abbandonare la storia
universale per focalizzare l’attenzione sull’irriducibile specificità dei tratti culturali e della loro storia in aree
geografiche limitate. Nacque così il metodo storico o particolarismo storico in antropologia. Nel corso del
900 il rifiuto di gerarchizzazione differenti forme di umanità nei termini dell’evoluzionismo sociale, insieme
al rigetto di ogni forma di etnocentrismo, è diventato sempre più chiaramente un elemento distintivo
dell’Antropologia culturale.

La consacrazione del metodo etnografico come tratto distintivo dell’antropologia è datata 1922 ed è
collegata alla figura di Bronislav Malinowski, un antropologo polacco naturalizzato inglese. In quell’anno,
Malinowsi pubblicò il suo volume più famoso, Argonauti del pacifico occidentale, con un’introduzione che
divenne una sorta di manifesto del metodo etnografico. In tal sede l’antropologo raccomandava la
frequentazione intensa e prolungata del contesto di ricerca e forniva alcune coordinate operative
relativamente al modo di costruire e ordinare il materiale etnografico. In tempi più recenti, il dibattito
interno alla disciplina ha messo in dubbio la praticabilità e l’adeguatezza del modello malinowskiano di
fieldwork soprattutto sull’onda del postmodernismo. Il saggio di Jean-Pierre Olivier de Sardan, pubblicato
nel 1995, emerge nel pieno di questo clima, con l’obiettivo di individuare gli aspetti chiave della ricerca
antropologica, di mettere in luce i dubbi e le difficoltà che gli antropologi incontrano mentre fanno
etnografia e di ribadire la centralità dell’esperienza sul campo.

Il metodo comparativo
Ugo Fabietti

Comparazione come spiegazione: la dimensione comparativa è legata al discorso dell’antropologia in


quanto sapere specifico. Nonostante la stessa idea di una antropologia come sapere comparativo abbia
subito mutamenti profondi, la comparazione tra culture resta un progetto della disciplina. Tutto per
l’antropologia può essere comparato. Il suo progetto è vasto come il mondo e di estende orizzontalmente
nello spazio come verticalmente nel tempo.

Il progetto comparativo presuppone una elaborazione concettuale che renda gli oggetti adeguati al
progetto stesso. Bisogna cioè che qualunque riflessione di tipo comparativo, dalla più spontanea alla più
sistematica, elabori i criteri della comparazione stessa. Tali criteri non sono sempre coerenti. Anzi, il più
delle volte non lo sono affatto. Tuttavia, ogni progetto comparativo esige che per comparare si definiscano i
termini stessi della comparazione. Il legame tra programma di ricerca comparativa e oggetti da comparare
può essere esemplificato dal progetto dell’evoluzionismo ottocentesco, con il suo particolare modo di
rappresentare la cultura. La cultura infatti intesa come insieme complesso di natura cumulativa, risultava
scomponibile in parti ed elementi separabili e descrivibili. Il progetto comparativo dell’evoluzionismo non fu
la corrente di riflessione che per prima affrontò la sfida comparativa.

Abbiamo però affermato che il progetto comparativo dell’antropologia ha subito da allora modificazioni
anche piuttosto notevoli. Con il tempo lo stile comparativo ès tato segnato da una considerazione sempre
maggiore dei significati indigeni o del punto di vista nativo. Ai suoi inizi il sapere antropologico fu
caratterizzato da molti assunti oggi difficilmente difendibili, ma altri assunti han continuato sin da allora a
costituire una specie di rumore di fondo del discorso della disciplina. Un di questi punti è il nesso che lega
comparazione e spiegazione. Vi è una concezione della comparazione che si ritiene finalizzata alla
spiegazione dei fatti che sono di interesse per l’antropologia. Proponendosi di rendere conto di determinati
fenomeni, l’antropologia ha lungamente cercato di produrne una spiegazione in termini di relazioni causali.
È vero che la spiegazione di un fenomeno può consistere nella sua descrizione, ma in antropologia si è fatto
il ricorso alla comparazione.

I primi antropologi, molto spesso digiuni di contatti diretti con le popolazioni di cui scrivevano,
anteponevano un ideale di antropologia come scienza oggettiva a quello di antropologia come esperienza
etnografica, incontro, dialogo e conoscenza attraverso la condivisione di significati. Avevano pertanto
un’attitudine particolare riguardo ai fatti. Per loro i fatti erano attendibili se lo era la fonte che li riportava.
Meglio se si trattava di una testimonianza oculare. In queste condizioni i fatti sono gli stessi dati che
vengono desunti, così come li registra l’occhio dell’osservatore, dai più diversi contesti culturali. In questa
prospettiva la spiegazione dipende dalla comparazione perché un certo costume può essere collocato in un
tempo. Questo tempo in cui è collocato il fatto da spiegare è posteriore o antecedente a un altro tempo, a
seconda cioè che si tratti di un tempo in cui è collocato un altro fatto, o nel quale si crede che sia situato un
fatto ancora diverso nel quale evolve il fatto stesso che deve essere spiegato.

Benché per questo stile di comparazione i fatti non rappresentino un problema, proprio in quanto
selezionati in funzione di una certa tesi, sono anche in questo caso delle costruzioni create astraendo dalle
proprietà che l’occhio dell’osservatore presume siano presenti nell’esperienza. Prima Tylor, e poco dopo di
lui Durkheim, introdussero però cambiamenti significativi nell’uso della comparazione.

Durkheim fa riferimento al cosiddetto metodo delle correlazioni statistiche, o delle variazioni concomitanti,
come metodo scientificamente fondante della sociologia comparativa. Tale metodo era già stato utilizzato
da Tylor in un suo lavoro del 1889. Il metodo era alla base di una ricerca su circa trecento società finalizzata
a stabilire una correlazione tra alcuni riti relativi al parto, il tipo di discendenza e alcune istituzioni. Lo scopo
di questo lavoro era quello di mostrare che se questi elementi si presentavano congiuntamente in un certo
numero di casi era lecito supporre che quando qualcuno di essi veniva segnalato isolatamente dovevano
essere necessariamente presenti anche gli altri. Qui la comparazione tra fatti non era più finalizzata alla
ricostruzione della loro stessa evoluzione. Si fondava piuttosto sull’accostamento di insiemi costituiti da
fatti correlati tra loro dalla compresenza all’interno del medesimo contesto.

Tale tipo di comparazione aveva finalità predittive e rispondeva allo sforzo di proporre un’idea
dell’antropologia come scienza. Il metodo delle correlazioni statistiche lega la comparazione stessa all’idea
di causalità e di predittività. Il metodo delle correlazioni/variazioni ha goduto di notevole fortuna
nell’antropologia.

Comparazioni controllate: nel 1965 Evans-Pitchard spostò l’accento sulla ricerca delle differenze. Per lui
infatti, più che le somiglianze, l’antropologia doveva spiegare le differenze. Cita a questo riguardo il suo
caso personale di antropologo incapace di stabilire delle comparazioni degne in relazione alle popolazioni
delle regioni nilotiche da lui studiate. Di conseguenza il metodo comparativo non ha dato i frutti sperati.
Evans-Pitchard è così consapevole del fatto che l’antropologia procede a un progressivo avvicinamento ai
significati indigeni. Più questo avvicinamento prosegue meno sembrano possibili le generalizzazioni.
Propende allora per una immagine della ricerca antropologica come metodologicamente più simile alle
scienze storiche che non alle scienze naturali. Propone l’esercizio di un metodo comparativo su scala
limitata che prenda in conto società di un solo tipo (cacciatori, nomadi) o tematiche circoscritte. Nella
prospettiva di Evans-Pitchard si intravede un cambiamento della stessa dimensione comparativa: essa non
è più la condizione di metodo per la formulazione di leggi generali, ma uno strumento di migliore
comprensione della specificità sociale e culturale.

Classificazioni polietetiche e reti di connessioni: Verso la fine degli anni Cinquanta, Edmund R. Leach pose
un problema cruciale circa la validità della comparazione.
“La comparazione è un processo analogo a quello della raccolta delle farfalle: si avvale della classificazione,
della sistemazione delle cose in base ai tipi e ai sottotipi. Sono certo che un’analisi di questo genere abbia la
sua utilità, ma sono anche convinto che presenti gravi limitazioni.

La critica di Leach si rivolgeva a un tipo specifico di comparazione e non può essere generalizzata. Negli
ultimi trent’anni le pretese comparativiste dell’antropologia sono state fatte oggetto di attacchi sempre più
decisi. Tali critiche provengono anche da coloro che hanno contribuito a conferire un senso nuovo alla
prospettiva comparativa. Tra questi vi è Rodney Needham che, già agli inizi degli anni 70, operò uno
smantellamento della parentela. Egli criticò la pretesa di poter considerare la nozione di parentela come
una nozione di grado di ricoprire un’area omogenea e definita di fenomeni empirici. Partiva dal fatto che
non vi sono ovunque classi di fenomeni omogenei a cui poter attribuire la qualifica di “fenomeni di
parentela”. Ciò che noi, sulla base del rilevamento di specifici dati empirici, chiamiamo parentela non trova
corrispondenza nelle società diverse dalla nostra. Per Needham la tendenza a definire universalmente le
categorie dell’area della parentela derivava sostanzialmente da due fattori: dall’eccessivo attaccamento ai
fatti empirici e dall’accettazione di un’idea del tutto non realistica di come si formano le classificazioni.

In qualunque società esistono diritti che possono non essere tutti trasmessi con un principio sempre
identico. Tali diritti o funzioni componenti possono essere la trasmissione del nome, della residenza,
dell’eredità dei beni materiali e spirituali e dell’appartenenza al gruppo. Ciascuna di queste prerogative può
seguire un modo diverso di trasmissione, per cui non potremmo dire che una società è patrilineare oppure
matrilineare solo se tutte queste prerogative fossero trasmesse in base allo stesso principio. Siccome però
questo non si dà, ecco che sorge il problema di che cosa farsene di definizioni come “società patrilineari”,
“società matrilineari”.

Le comparazioni degli antropologi tendono a produrre tipologie solo apparentemente fondate su


classificazioni di tipo monotetico: queste sono classificazioni che nascono dall’elaborazione di categorie
basate sull’assunto che determinate proprietà siano presenti in maniera costante, come nel caso della
discendenza patrilineare. Leach aveva messo in guardia contro questo tipo di comparazioni perché una
classificazione monotetica se ne possono aggiungere quante se ne vuole, con l’effetto di distinguere sempre
nuove società, quasi ad infinitum.

Di fronte al vicolo cieco rappresentato dalle classificazioni monotetiche, Needham sceglie di considerare
classificazioni politetiche, classi composte da individui che non condividono tutti uno o più tratti specifici,
ma che ne condividono alcuni variamente distribuiti. Somiglianza seriale: classificazioni politetiche che
corrispondono meglio all’esigenza di un’antropologia che mira a comparare in maniera “debole”,
stabilendo connessioni piuttosto che comparazioni nel senso tradizionale del termine, ricordano le
somiglianze di famiglia di Ludwig Wittgenstein. Nessun individuo possiede le stesse identiche caratteristiche
di un altro. Anzi, certi individui non ne possiedono alcuna in comune. Ma in mezzo a questi vi sono individui
che ne possiedono alcune che fanno sì che anche individui tra loro del tutto diversi risultino evidentemente
appartenenti alla stessa famiglia.
Es: Isabella ha occhi marroni e capelli castano scuri ed è di statura media. Sua sorella Elena ha occhi verdi e
capelli castano chiari ed è alta e sottile. Quindi Isabella ed Elena, almeno nei tratti scelti, non si
assomigliano. Tuttavia, in mezzo a loro c’è una terza sorella, Margherita, che ha occhi marroni, capelli
castano chiari ed è alta e sottile. Chi guardasse una fotografia di Isabella Elena e Margherita non potrebbe
non notare un’”aria di famiglia” che le accomuna. Secondo Wittgenstein questo è il modo in cui gli esseri
umani costruiscono le loro classificazioni.

Stando così le cose, è chiaro che le classificazioni riflettono non una realtà oggettiva, ma dei principi
d’organizzazione che stanno dalla parte de soggetto che classifica. Il fatto che esistano elementi attorno ai
quali, più che attorno ad altri, si costituiscono queste classificazioni, è argomento di quella che viene
chiamata “teoria dei prototipi”, cioè elementi che servono appunto da modello per le nostre costruzioni
classificatorie. Le stesse classificazioni politetiche presentano anch’esse la caratteristica di dipendere dai
condizionamenti culturali, e quindi di non essere garanti di comparazioni fondate su dati oggettivi. Ciò che
rende incomparabili le società è il fatto che le loro somiglianze sono il frutto di sviluppi storici indipendenti,
non di una comune evoluzione.

Con Needham pare dunque tramontare ogni possibilità di comparazione allo scopo di costituire dei tipi.
Questo perché, come sosteneva Leach, analisi di tal genere hanno sicuramente una loro utilità, ma
presentano anche gravi limitazioni. Se Needham si dimostra scettico nei confronti della comparazione, egli
si rivela fiducioso nel fatto che il riconoscimento dei limiti delle nostre capacità di categorizzazione e di
classificazione sia in grado di aprirci la via al riconoscimento degli stessi limiti politetici, che caratterizzano il
nostro modo di cogliere la realtà. Sembra che noi possiamo capire meglio gli altri nel momento in cui siamo
consapevoli dei nostri limiti, i quali sono anche i limiti di coloro che vogliamo conoscere.

La prospettiva connessionista nasce comunque dallo scetticismo di fronte alla possibilità di praticare
comparazioni fondate su un’idea di causazione lineare tra elementi. Da questo punto di vista, pur non
abbandonando un’idea di oggettività come elemento intrinseco e necessario del discorso antropologico
sposta tale idea sul versante delle categorie e dei modelli cognitivi del nostro “vedere come”. Il
connessionismo rappresenta di conseguenza un ulteriore passo verso una concezione del sapere
antropologico come fondato non più sull’idea di un soggetto osservante e classificante in base a principi
inscritti nella realtà delle cose, ma come prodotto di un’attività costruttiva dipendente da forme categoriali
del soggetto, le quali possono dipendere da fattori cognitivi, tanto naturali quanto culturali.

Comparazione come traduzione: tentativi compiuti in direzione di una valutazione contestuale dei
fenomeni culturali comparabili hanno portato a forme di comparazione fondate su processi di traduzione.
Ogni comparazione che sia consapevole della dimensione pratica dell’agire umano in contesti specifici
finisce per imbattersi in un problema di traduzione. Ward Goodenoguh comparò alcuni casi etnografici
empirici che a suo giudizio dovevano fornire la base per le definizioni di portata generale. Pur dichiarandosi
fedele all’idea di una antropologia come scienza comparativa, Goodenough si interroga sul senso della
comparazione in maniera non dissimile nella sostanza da quanto farà poco dopo di lui Needham a
proposito dell’idea di parentela.

Emerge dunque il problema della definizione degli oggetti che si intendono studiare: chiedersi che cosa sia
il matrimonio tra i nayar dell’India o tra i truk della Micronesia è un po’ come chiedersi “come posso
descrivere quel particolare fenomeno che, osservato tra nayar e truk, io sono portato a chiamare
matrimonio?”. Il matrimonio instaura una serie di legami funzionali tra i coniugi e si plasmano diritti e
doveri nei confronti della prole: esclusività sessuale, cooperazione economica, coabitazione, procreazione
ed educazione dei figli.

Simili definizioni sono tuttavia una proiezione etnocentrica, in quanto definiscono la famiglia come qualcosa
che è il più vicino possibile all’idea che noi abbiamo di essa. Noi siamo vittime del nostro etnocentrismo,
prendendo una unità significativamente funzionante della nostra società e trattando il più simile
equivalente funzionale rinvenuto altrove come se fosse la stessa cosa. Goodenough procede quindi alla
ricerca di un metodo comparativo che renda possibile formulare una definizione di matrimonio in termini
non etnocentrici. L’unico principio che ritiene possibilw individuare come possibile definizione universale di
matrimonio è un principio correlato con la riproduzione sessuale, e che richiede una transazione. Questo
principio è quello dell’accesso sessuale. Per Goodenough tutto ciò è conseguenza di alcune caratteristiche
specificatamente umane:

a. La tendenza a stabilire delle relazioni di tipo continuativo su base affettiva che deriva dal fatto che
b. Presso gli uomini i piccoli hanno bisogno di contatto più prolungato con gli adulti. Ciò si traduce
c. Nella tendenza a sviluppare un attaccamento nei confronti di quegli individui con i quali esistono
relazioni sessuali, con l’effetto
d. Di sviluppare un atteggiamento combattivo e competitivo per l’accesso alle donne.
e. Uomini e donne tendono a sviluppare relazioni continuative con due categorie di persone:
a. Quelle con cui sono associate durante l’infanzia come membri dello stesso gruppo
domestico  la fratellanza si stabilisce nello stesso momento in cui si stabilisce la relazione
di maternità e paternità.
b. Quelli con cui stabiliscono relazioni sessuali in età postpuberale. Per stabilite una relazione
continuativa di tipo sessuale occorre una transazione specifica, attraverso la quale viene
messo in gioco l’unico elemento che non è contemplato da altre forme di transizione, che
invece implicano coresidenza, cooperazione ecc. questa transizione è quella relativa alla
sfera del sesso e della riproduzione.

A questo punto possiamo tentare di dare una definizione di matrimonio: una transizione che si risolve in un
accordo in cui una persona stabilisce un diritto continuativo ad accedere sessualmente a una donna e nel
quale la donna in questione è considerata suscettibile di avere figli. Questa definizione consente di rendere
conto di matrimoni come quello tra donne nel Dahomey precoloniale (Benin) dove la donna-marito
controllava l’accesso degli uomini alla donna-moglie; o della donna moglie di più fratelli tra gli iravas
dell’India; o ancora dei matrimoni con lo spirito presso i nuer del Sudan, dove un uomo prende moglie per il
fratello o figlio defunti e in cui la prole risulta essere prole legittima del fratello o figlio. Le relazioni coniugali
stabilite da un matrimonio possono includere molti diritti e privilegi relativi a questioni diverse da quella
sessuale, ma questi sono irrilevanti alla definizione del matrimonio.

Dalla ricostruzione delle analisi comparative di Goodenough risulta che la comparazione contestualizzante
finché esercitata su casi molti diversi, porta con sé un problema di traduzione. Dobbiamo perciò avere la
possibilità di riconoscere i significati contestuali delle istituzioni e questi significati hanno bisogno di esser
tradotti per poter essere comparati.

L’etnografia e la politica del campo


Jean-Pierre Olivier de Sardan

L’inchiesta di tipo antropologico vuole avvicinarsi il più possibile alle situazioni naturali dei soggetti – vita
quotidiana, conversazioni –, in una situazione di interazione prolungata delle conoscenze in situ,
contestualizzate, trasversali, volte a render conto del “punto di vista dell’attore”, delle pratiche consuete e
dei loro significati autoctoni. La ricerca sul campo è una questione di abilità e procede a colpi di intuizioni. Il
carattere iniziatico del campo non è solo una faccenda di mito e rito, è anche una faccenda di
apprendimento pratico, nel senso che chi apprende impara soprattutto facendo. Bisogna aver imparato a
padroneggiare i codici locali di cortesia e buona creanza per sentirsi a proprio agio nelle chiacchierate e
conversazioni improvvisate, che sono spesso le più ricche di informazioni. Bisogna aver dovuto
improvvisare con goffaggine per diventare poco alla volta capaci di improvvisare con abilità. Bisogna sul
campo aver perduto tempo per capire che questi tempi morti erano necessari.

La ricerca sul campo, o ricerca etnografica o ricerca socio-antropologica, si basa sulla combinazione di
quattro forme di produzione di dati: l’osservazione partecipante (inserimento prolungato del ricercatore
nell’ambiente di vita delle persone oggetto della ricerca), il colloquio (le interazioni discorsive), le procedure
di censimento (ricorso a dispositivi costruiti per l’indagine sistematica) e la raccolta di fonti scritte.

L’osservazione partecipante: divisa in

- Osservazione registrata – dati e corpus


- Osservazione latente – impregnazione

Attraverso un soggiorno prolungato presso i soggetti di una ricerca l’antropologo in carne e ossa si scontra
con la realtà che in senso stretto, più vicino possibile a quelli che la vivono, e in interazione permanente con
essi. Possiamo scomporre questa situazione di base in due tipi di situazioni: quelle che rientrano nel campo
dell’osservazione (ricercatore è testimone) e quelle che rientrano nel campo dell’interazione (ricercatore è
coattore). Le situazioni normali combinano secondo dosaggi diversi l’una e l’altra componente.

In tutti i casi le informazioni acquisite possono essere registrate dal ricercatore o restare informali o latenti.
Se le osservazioni e le interazioni sono registrate si trasformano in dati e corpus. Altrimenti rimangono
nell’ordine dell’impregnazione.
a. I dati e il corpus: se il ricercatore si dà da fare per moltiplicare le sue osservazioni, è per
conservarne traccia più a lungo possibile. Deve dunque procedere a prendere appunti. Tramite tali
procedure produrrà dei dati e costituirà dei corpus che saranno oggetto di spoglio e trattati
ulteriormente. Questi corpus non sono degli archivi, assumono la forma concreta del taccuino in cui
l’antropologo registra quello che vede e che sente. Di qui l’importanza di questi taccuini: solo quello
che vi è scritto continuerà a esistere sotto forma di dati, farà funzione di corpus e potrà in seguito
essere spogliato, trattato e restituito. I dati sono la trasformazione in tracce oggettivate di pezzi di
realtà come sono stati selezionati e percepiti dal ricercatore. Certo l’osservazione pura e ingenua
non esiste ed è da molto tempo che il positivismo scientista ha perso la partita nelle scienze sociali.
Ma non dobbiamo sottovalutare l’intento empirico dell’antropologia. Il desiderio di conoscenza del
ricercatore e la sua formazione alla ricerca possono avere la meglio almeno parzialmente sui suoi
pregiudizi e le sue emozioni.

Il ricercatore è un osservatore, ma anche un ascoltatore. I dialoghi delle persone tra di loro hanno
lo stesso valore di quelli che lui ha con loro. Questi ultimi non sono trascurabili. Il ricercatore è
impegnato in molteplici interazioni. Lungi dall’essere mero testimone, è costantemente immerso in
relazioni sociali verbali e non, semplici e complesse: conversazioni, chiacchiere, giochi, formalità,
sollecitazioni. L’antropologo evolve nel registro della comunicazione banale, incontra gli attori locali
in situazioni quotidiane, nel mondo del loro atteggiamento naturale. Numerosi argomenti o atti del
registro della comunicazione banale di cui l’antropologo è parte rientrano nel campo della sua
curiosità professionale. Talvolta questi argomenti o atti sono modificati poco o nulla dalla
partecipazione del ricercatore all’interazione. Talvolta ne sono modificati in modo significativo. Si
ritorna così al problema di prima. Come per la semplice osservazione, il ricercatore si sforza ogni
volta che ciò possa essere utile, di trasformare le interazioni pertinenti in dati, di organizzare la
traccia, la descrizione, il ricordo sul taccuino, sia che queste interazioni siano dipendenti dal ruolo
assegnato all’antropologo nel gioco locale sia che non lo siano.

b. L’impregnazione: il ricercatore sul campo osserva e interagisce anche senza prestarvi troppa
attenzione, senza avere l’impressione di lavorare, e dunque senza prendere appunti, né durante né
dopo. Non is sente sempre in servizio. Vivendo osserva suo malgrado, e tali osservazioni vengono
registrate nel suo inconscio, il suo subconscio, la sua soggettività, il suo io. Non si trasformano in
corpus. Nonostante ciò giocano un ruolo indiretto ma importante, in questa familiarizzazione
dell’antropologo con la cultura locale. I rapporti di buon vicinato o la giovialità delle chiacchierate
serali, le battute scherzose scambiare con la vicina, il giro nel bistrot, la festa di battesimo del
bambino dell’affittacamere, tutto ciò accade al di fuori delle ore di lavoro. Eppure, è così che
s’impara a padroneggiare i codici della buona creanza (e questo interverrà molto indirettamente e
inconsciamente, ma molto efficacemente, nel modo di condurre i colloqui); è così che s’impara a
sapere di cosa è fatta la vita di tutti i giorni e di cosa si parla nel villaggio. Questa padronanza che un
ricercatore acquisisce del sistema di senso del gruppo presso cui fa l’inchiesta si acquisisce per una
buona parte in modo inconscio come la lingua, attraverso la pratica.

I colloqui: la produzione da parte del ricercatore di dati sulla base di discorsi autoctoni che lui stesso avrà
sollecitato resta un elemento centrale di ogni ricerca sul campo. Perché l’osservazione partecipante non
permette di accedere a numerose informazioni pure necessarie alla ricerca: per questo si deve ricorrere al
sapere o al ricordo degli attori locali. Il colloquio resta un mezzo privilegiato, spesso più economico, per
produrre dei dati discorsivi che danno accesso alle rappresentazioni emiche (emic), autoctone, indigene,
locali. Esistono diversi tipi di colloquio:

1. Consulenza e racconto: in generale i colloqui oscillano tra due poli: la consulenza e il racconto. Colui
che talvolta chiamiamo informatore è quindi ora un consulente, ora un narratore, spesso entrambe
le cose. Invitato a dire ò che pensa o conosce rispetto a questo o quell’argomento, si suppone che
rifletta almeno parzialmente un sapere comune e condiviso con altri attori locali. È la sua
competenza sulla società locale o su uno dei segmenti di essa ad essere sollecitata. Questa
competenza non significa che egli sia considerato un esperto.

2. Il colloquio come conversazione: avvicinare al massimo il colloquio guidato a una situazione di


banale interazione quotidiana è una strategia ricorrente del colloquio etnografico, che mira a
ridurre al minimo l’artificialità della situazione di colloquio e l’imposizione da parte del ricercatore
di norme metacomunicative di disturbo. Il dialogo, elemento costitutivo di ogni conversazione, non
è qui considerato come un’esigenza ideologica. È una costruzione metodologica, mirante a creare,
se ve n’è bisogno, una situazione d’ascolto tale che l’informatore dell’antropologo possa disporre di
una reale libertà di parola e non si senta in condizione di interrogatorio. Si tratta di avvicinare il più
possibile il colloquio a un modo di comunicazione riconosciuto nella cultura locale. Il colloquio sul
campo tende così a situarsi agli antipodi della situazione di somministrazione di questionari. Le
domande che il ricercatore si pone sono specifiche della sua problematica, il suo linguaggio. Non
hanno pertinenza se non nel suo universo di senso. Non hanno spontaneamente senso per il suo
interlocutore. Bisogna dunque trasformarle in domande che abbiano senso per lui.

3. La ricorsività del colloquio: un colloquio di ricerca deve anche permettere di formulare nuove
domande. Ammettere i giri di parole e le digressioni dell’interlocutore, come le sue esitazioni o le
sue contraddizioni, non è una questione di mettere a proprio agio, è una questione di
atteggiamento epistemologico. Quando u interlocutore è fuori tema, o quando le sue risposte sono
confuse, il ricercatore tenderà ancor più l’orecchio e lungi dal disdegnare l’aneddoto, lo solleciterà,
perché esso parla, aprendo nuove piste. Si potrebbe parlare di ricorsività del colloquio sul campo,
in quanto si tratta di basarsi su ciò che è stato detto per produrre nuove domande.

4. Il colloquio come “negoziazione invisibile”: l’intervistato non ha gli stessi interessi del ricercatore né
le stesse rappresentazioni di quel che è il colloquio. In un certo senso ciascuno cerca di manipolare
l’altro. L’informatore è lungi dall’essere una pedina mossa dal ricercatore o una vittima intrappolata
dalla sua curiosità. Non rinuncia a utilizzare strategie attive miranti a trarre profitto dal colloquio
(aumento di prestigio, retribuzione economica, speranza di ulteriori appoggi) o strategie di difesa
miranti a ridurre al minimo i rischi della parola (dar poche informazioni o informazioni errate,
sbarazzarsi quanto prima di un tipo importuno). Il problema del ricercatore, ed è questo il dilemma
che fa capo al double bind (doppio legame), è che deve allo stesso tempo mantenere il controllo del
colloquio (poiché si tratta per lui di far progredire la sua ricerca) e lasciare l’interlocutore esprimersi
come gli pare e a modo suo (condizione per il successo del colloquio).
Il realismo simbolico del colloquio  il ricercatore è in qualche modo professionalmente tenuto ad
accordare credito ai discorsi del suo interlocutore (per quanto estranei o sospetti possano apparire
nell’universo del ricercatore). Non si tratta semplicemente di un’astuzia del ricercatore. È una
condizione d’accesso alla logica e all’universo di senso di coloro che l’antropologo studia, ed è
prendendo questo sul serio che può combattere i propri pregiudizi e i propri preconcetti.

5. Il colloquio e la durata: l’inserimento del colloquio inuna dimensione diacronica costituisce un’altra
forma di contrasto con la prospettiva del colloquio come miniera di informazioni. Un colloquio è,
almeno potenzialmente, l’inizio di una serie di colloqui, di una relazione. Non è un incartamento
chiuso, ma una pratica aperta, che si può sempre arricchire.
I procedimenti di censimento: sia nel quadro dell’osservazione che in quello del colloquio guidato, si fa
talvolta appello a delle particolari operazioni di produzione di dati = procedimenti di censimento. Si tratta di
produrre sistematicamente dei dati intensivi in numero finito: conteggi, inventari, nomenclature, piani,
liste, genealogie…

Le fonti scritte: non devono essere dimenticare o sminuite. Dobbiamo evocarle, per ricordarle, senza
dilungarci.

a. Alcune fonti sono raccolte in parte prima della ricerca sul campo (come la letteratura scientifica
sull’ambito considerato – antropologia, storia, ecc. – e la letteratura “grigia” – rapporti, valutazioni,
perizie, ecc. – e in questo caso permettono una familiarizzazione, o meglio l’elaborazione di ipotesi
esplorative e di domande particolari.
b. Altre, sono inscindibili dalla ricerca sul campo, e sono a esse integrate (produzioni scritte degli attori
– quaderni di scuola, lettere, diari personali, volantini, ecc., gli archivi locali, la stampa locale)
c. Altre infine possono costituire corpus autonomi, distinti e complementari a quelli prodotti dalla
ricerca sul campo (stampa, archivi).

La politica del campo:

1. La triangolazione: è il principio di base di ogni inchiesta, che sia poliziesca o etnografica: le


informazioni devono avere dei riscontri. Ogni informazione proveniente da un’unica persona è da
verificare: questo vale per un alibi come per una rappresentazione rituale. Con la triangolazione
semplice il ricercatore fa un confronto incrociato tra gli informatori, per non essere prigioniero di
un’unica fonte. Ma si potrebbe parlare di triangolazione complessa, dal momento che si tenta di
analizzare la scelta di tali molteplici informatori. Intende far variare gli informatori in funzione del
loro rapporto con il problema trattato. Vuole incrociare i punti di vista quando ritiene che la loro
differenza produca senso. Quindi si tratta più di confermare o di verificare delle informazioni per
arrivare a una versione veritiera, quanto piuttosto di ricercare dei discorsi in contrasto, di rendere
l’eterogeneità delle argomentazioni un oggetto di studio di basarsi sulle variazioni piuttosto che
volerle cancellare o appiattire, in una parola di costruire una strategia di studio sulla ricerca delle
differenze significative.
Si giunge così al concetto di gruppo strategico = aggregazione di individui che hanno globalmente,
di fronte a uno stesso problema, uno stesso atteggiamento, determinato in larga misura da un
rapporto sociale simile rispetto al problema.

2. L’iterazione: la ricerca sul campo procede per iterazione, cioè per andate e ritorni, va e vieni. Nella
sua forma più semplice e concreta, l’iterazione ricorda i va e vieni di un ricercatore sul campo. La
dinamica dell’inchiesta crea così il proprio cammino, in partenza largamente imprevedibile,
illegittimo per un intervistatore, ma dove si riflettono le reti reali dell’ambiente studiato. Le persone
della ricerca sul campo non sono persone astratte dalle loro condizioni di esistenza. La ricerca sul
campo si adegua dunque ai diversi circuiti sociali e locali, alla loro complessità. Non ha niente di
lineare. L’iterazione è però anche in un senso più astratto un va e vieni tra problematica e dati,
interpretazione e risultati.

3. La saturazione: e allora quand’è che si può metter fine alla fase del campo? Ci si accorge
abbastanza presto quando, su un problema, decresce la produttività delle osservazioni e dei
colloqui. La durata di questo processo dipende dalle proprietà empiriche di questo ambito dalle
caratteristiche del tema di ricerca che il ricercatore si è dato in questa società locale.

4. Il gruppo sociale testimone: varia secondo i temi della ricerca e può essere di dimensioni diverse
benché sempre ridotte: una famiglia, un villaggio, una banda di giovani, un laboratorio, un
quartiere, una città. In ogni caso, una certa durata della conoscenza reciproca in un gruppo, una
rete o una società è una condizione dell’osservatore partecipante. La trappola in cui molti son
caduti è ovviamente quella di rinchiudersi in questo gruppo testimone e limitarsi a produrre
monografie esaustive di microcomunità. Il lavoro anteriore presso il gruppo testimone permette
allora di rendere redditizio un lavoro estensivo, fornendo un calibro di riferimento.

5. Gli informatori privilegiati: l’informatore privilegiato può chiaramente essere considerato come un
caso estremo di gruppo sociale testimone ristretto a un solo individuo. In numerosi casi la strategia
del ricorso a un informatore privilegiato nasconde un punto di vista culturalista che fa di un solo
individuo considerato esperto il depositario di un’intera cultura. Questo punto di vista si combina
con una strategia di ricerca pigra.

La gestione dei “fattori di disturbo”: la ricerca sul campo ha le sue perturbazioni. La politica del campo viene
condotta navigando a vista tra questi fattori di disturbo. L’obiettivo del ricercatore è di padroneggiarli o
controllarli.

a. L’incliccaggio: l’inserimento del ricercatore in una società non si fa mai con società nel suo insieme,
ma attraverso dei gruppi particolari. Si inserisce in certe reti e non in altre. Questo effetto
perturbante è tanto temibile quanto inevitabile. Il ricercatore piò sempre essere assimilato, spesso
suo malgrado, ma talvolta con la sua complicità, a una “clique” o fazione locale, il che comporta due
inconvenienti. Da un lato il rischio di diventare troppo la voce della clique d’adozione, dall’altro il
pericolo di vedersi chiudere la porta in faccia dalle altre cliques locali. È sicuramente uno dei
principali problemi della ricerca sul campo. Il ricorso a un interprete, che è sempre anche un
informatore privilegiato, introduce delle forme particolari di incliccaggio; il ricercatore dipende
dalle affinità e ostilità proprie al suo interprete.

Conclusione, plausibilità e validità: la ricerca sul campo, nei paesi del Nord come nei paesi del Sud, nel
cuore delle culture occidentali come nel cuore delle culture orientali, in città come in campagna, rimane
regolata dal progetto scientifico di descrivere, comprendere e comparare delle logiche d’azione e di
rappresentazione – e i loro sistemi di vincoli – che non corrispondono alle norme abituali dell’universo del
ricercatore. Il saper fare del ricercatore consiste nel non soccombere a questi malintesi e nel riuscire a
trasformare l’esotico o il pittoresco in qualcosa di banale o familiare.

3 – Percezione/Conoscenza

Sia la cultura, intesa in senso antropologico, sia l’antropologia culturale, intesa come linguaggio scientifico
della diversità culturale, non possono prescindere dalla centralità del linguaggio e dalla molteplicità delle
lingue parlate. Se la cultura è l’insieme delle capacità e delle abitudini apprese dall’essere umano in quanto
membro di una società, allora la lingua è sicuramente una delle componenti più importanti di tale
assemblaggio denominato appunto “cultura”. Gli antropologi del linguaggio condividono i programmi di
ricerca dei sociolinguisti, attenti quindi alle varietà interne alle comunità dei parlanti e ai repertori linguistici
in esse rintracciabili piuttosto che agli aspetti formali e astratti. Particolare attenzione viene rivolta alla
lingua come strumento d’azione sociale, anche alla luce dei fenomeni di contatto linguistico e di
mescolanza fra le lingue. Risulta determinante l’attenzione degli antropologi culturali agli aspetti semantici
della lingua e agli aspetti pragmatici della comunicazione umana, consapevoli di quanto la complessa
questione della traducibilità delle culture passi inesorabilmente attraverso l’altrettanto complessa
questione della traducibilità linguistica.
La diversità linguistica
Alessandro Duranti

La lingua nella cultura: la tradizione boasiana: a partire dalla fondazione dell’American Ethnological Society
nel 1842 l’antropologia negli USA fu concepita come disciplina olistica, che studiava dati fisici (biologici),
linguistici (filologici), culturali e archeologici delle popolazioni umane. Lo studioso che più di ogni altro
rappresentò nella teoria di ricerca l’ottica olistica dell’antropologia fu Franz Boas. L’esperienza di ricerca
presso gli eschimesi e gli indiani kwakiutl della Cost del Nordovest lo indusse allo studio del linguaggio e
delle lingue indiane: sosteneva che non è possibile comprendere davvero una cultura senza avere un
accesso diretto alla sua lingua.

L’idea boasiana secondo cui la lingua è necessaria al pensiero umano, diventò una tesi fondamentale
dell’antropologia culturale americana della prima metà del XX secolo. Questo modo di considerare il ruolo
della lingua nella cultura faceva sì che i sistemi linguistici potessero essere analizzati in quanto guide ai
sistemi culturali. Trascrivere le descrizioni fornite dai nativi di cerimonie e altri aspetti della cultura
tradizionale era parte integrante di quell’antropologia del salvataggio messa in atto da Boas, e aveva ovvie
implicazioni: come altri antropologi della sua epoca, si preoccupava della rapida scomparsa o del
traumatico mutamento subito dalle lingue e dalle culture indigene d’America e desiderava conservarle e
documentarle finché erano ancora in vita persone in grado di parlare correttamente le lingue e dunque di
descrivere la propria tradizione culturale. Trascrivendo testi nativi e traducendoli, Boas rimase affascinato
dai modi diversi in cui lingue differenti classificano il mondo e l’esperienza umana. Utilizzò perciò
quest’osservazione come una prova ulteriore a favore del relativismo culturale, tesi secondo cui ciascuna
cultura dovrebbe esser compresa in base ai suoi stessi principi, e non come parte di un ampio disegno di
progressiva elevazione intellettuale e morale, alla sommità del quale vi erano di solito gli europei o i loro
discendenti.

Lo sviluppo di distinzioni lessicali dovrebbe esser ricondotto a una motivazione culturale. Si tratta di
un’intuizione che sarebbe stata in seguito modificata da Sapir e Whorf, che sostennero che se una lingua
codifica una particolare esperienza del mondo, il farne uso può predisporre i parlanti a vedere il mondo
sulla base dell’intuizione che essa ne offre.

La relatività linguistica: una delle affermazioni più nette della posizione secondo cui il modo in cui pensiamo
al mondo è influenzato dalla lingua che usiamo è contenuta in un articolo scritto da Sapir. Gli esseri umani
sono alla mercé della particolare lingua che parlano. Questa posizione fu ribadita anche da Whorf, che la
formulò come “Principio di relatività linguistica” indicava il fatto che gli utenti di grammatiche
profondamente diverse sono indirizzati dalle loro grammatiche verso tipi di osservazione diversi e
valutazioni diverse di atti di osservazione esternamente simili, e non sono quindi equivalenti in quanto
osservatori, ma devono arrivare a visioni del mondo in qualche modo differenti. Per Whorf la struttura
grammaticale di qualunque lingua contiene una teoria della struttura dell’universo o una metafisica.
Il problema di stabilire se la lingua influenza o meno il pensiero, e in quale misura, continuerà a restare un
tema importante nell’ambito dell’antropologia del linguaggio.

La lingua come guida al mondo: le metafore: i recenti contributi allo studio delle metafore rappresentano
un’ulteriore versione dell’ipotesi Sapir-Whorf: le metafore infatti vi sono analizzate come meccanismi in
grado di fornire schemi concettuali attraverso i quali comprendiamo il mondo.
1) il nostro linguaggio quotidiano è ben più ricco di metafore di quanto potremmo credere
2) le metafore sono mezzi per configurare un tipo di esperienza nei termini di un’altra
3) le metafore implicano alcune teorie (o meglio “teorie folk”) sul mondo o sull’esperienza che facciamo di
esso.
Questi concetti metaforici generalizzati ci consentono di creare connessioni fra ambiti dell’esperienza e di
ritrovare una coerenza tra eventi irrelati o non necessariamente simili. Una metafora è accettabile come
caratterizzazione della nostra esperienza in parte perché si accorda con altri, più generali concetti e forme
metaforiche, creando una totalità coerente.

Termini di colore e relatività linguistica: una delle più forti critiche alla relatività linguistica giunse dalle
ricerche che si occuparono dello studio translinguistico dei termini di colore. I risultati ottenuti da Berlin e
Kay si basavano sullo studio empirico della terminologia di colore in venti lingue. Gli autori sostennero che
vi fossero dei vincoli universali:
1) sul modo in cui le lingue codificano i propri termini fondamentali di colore
2) sul modo in cui le lingue cambiano nel tempo aggiungendo nuovi termini fondamentali al loro lessico.
Scoprirono così che esistevano undici categorie percettive universali. Le stesse undici categorie possono
essere interpretate cronologicamente sulla base di una scala evolutiva. Scoprendo una tendenza naturale a
dare un nome ad alcune distinzioni di colore, essi mettevano in crisi la nozione secondo cui i segni linguistici
hanno una natura arbitraria (convenzionale), diffusasi a partire dall’opera di Saussure. Se lingue prive di
qualunque parentela genetica presentano sistemi di classificazione simili, debbono esistere dei principi di
codificazione linguistica che sono indipendenti dalla lingua.

Linguaggio, lingue e varietà linguistiche: è importante distinguere fra linguaggio e una lingua. Il primo
termine fa riferimento alla facoltà umana di comunicare facendo uso di particolari tipi di segni (suoni, gesti)
organizzati in particolari tipi di unità (sequenze), mentre il secondo denota un particolare prodotto socio
storico identificabile mediante un’etichetta come inglese, tok pisin, polacco, swahili, cinese, lingua dei segni
d’America. Ogniqualvolta sottoponiamo una lingua a una ricerca sistematica, scopriamo che essa mette in
luce una notevole variazione fra diversi parlanti e situazioni, non possiamo esser certi che quanto stiamo
descrivendo riferendoci a un piccolo numero di parlanti o persino a un gruppo più ampio di persone abbia
una distribuzione sociale più ampia di quel gruppo. Vi son luoghi in Melanesia, in cui è possibile identificare
moltissime lingue diverse in un territorio piccolo si ipotizza che in Papua Nuova Guinea ci siano più di 750
lingue. Ciò significa che nelle nostre indagini abbiamo bisogno di esser consapevoli delle variazioni e
dobbiamo esser pronti a utilizzare o mettere a punto metodi che ci consentano di cogliere il rapporto fra
gruppo di persone che studiamo e le reti più ampie entro cui operano. Il fatto che la gente chiami lingua
una determinata varietà opponendola a un dialetto può semplicemente essere il risultato di una
stigmatizzazione sociale o di una decisione politica, in virtù della quale si assegna a un particolare dialetto lo
statuto di lingua standard. Per queste ragioni i sociolinguisti preferiscono utilizzare il termine varietà che va
inteso come insieme di forme comunicative e di norme che ne governano l’uso, limitato a un particolare
gruppo o comunità.

Comunità di parlanti: dall’idealizzazione all’eteroglossia: sia gli antropologi del linguaggio che i sociolinguisti
son interessati alla definizione della comunità di parlanti (speech community), intesa come gruppo reale di
persone che condividono qualcosa del modo in cui utilizzano la lingua. Alla base della ricerca vi è un’idea di
ordine e di uniformità, e la variazione è di solito messa da parte, considerata come eccezione alla regola.
Chomsky, che si inscrive nel solco di questa tradizione, ritiene perciò che ci dev’essere una proprietà della
mente umana che consente a “una persona di acquisire una lingua a partire dalle condizioni di
un’esperienza pura e uniforme”. Solo dopo aver creato e regole e i principi che governano simile comunità
idealizzata si dovrebbero introdurre condizioni più complesse. Il tipo idealizzato di esperienza menzionato
da Chomsky viene studiato analizzando le intuizioni di un parlante nativo che giudica se una determinata
forma linguistica o frase sia o meno accettabile, se suoni corretta. I giudizi di accettabilità perciò forniscono
la base per le generalizzazioni compiute dai linguisti riguardo a particolari grammatiche.

In un’ottica sociologica e antropologica il problema insito in tale approccio non è tanto nell’idealizzazione in
sé quanto in alcune delle sue implicazioni e conseguenze. Problema: la connotazione di purismo linguistico
di cui è investita una teoria linguistica basata unicamente sull’idealizzazione; Chomsky afferma che una
comunità di parlanti all’interno della quale la gente faccia uso di un miscuglio di due lingue, non sarebbe
abbastanza pura per poter fungere da oggetto di studio ideale della linguistica teorica; ma un’affermazione
simile potrebbe voler dire che la linguistica escluderà dal proprio studio la maggior parte, se non tutte le
comunità del mondo. Perché allora non far uso delle nostre istanze teoriche e del nostro sapere scientifico
per riuscire ad abbandonare del tutto l’idea che sarebbe meglio e più facile se tutti quanti parlassimo la
stessa lingua, lo stesso dialetto, nello stesso stile?

Si tratta di un percorso indicatoci dalle ricerche di molti studiosi contemporanei, compresi quanti si ispirano
all’opera del linguista, filosofo e critico letterario Mikhail Bachtin. Bachtin affermò che l’omogeneità
linguistica ipotizzata dalla maggior parte dei linguisti è una costruzione ideologica, legata allo sviluppo degli
Stati europei e agli sforzi di creare un’identità nazionale mediante una lingua nazionale che doveva ricevere
un unico nome: tedesco, francese, russo, italiano simile nozione unificata di una lingua non ha alcun
rapporto necessario con l’uso linguistico reale: nella realtà della vita quotidiana il discorso di qualunque
individui è pieno di numerose voci diverse, o personaggi costruiti attraverso la lingua, qualità che Bachtin
chiama raznorecie, termine tradotto in italiano come eteroglossia.

I molteplici fattori sociali, culturali, cognitivi e biologici responsabili della nascita di una lingua eteroglotta
agiscono assieme dando vita a un’ininterrotta tensione fra quelle che Bachtin chiamò le forze centripete e
centrifughe della lingua. Delle forze centripete fanno parte i poteri politici e istituzionali, che tentano di
imporre una varietà o codice a scapito di altri. Com’è accaduto per esempio con l’inglese in Scozia nel XII e
XVI secolo, con il dialetto toscano in Italia nel XIV secolo. Si tratta di forze centripete perché tentano di
costringere i parlanti ad adottare un’identità linguistica unificata. Le forze centrifughe invece allontanano i
parlanti da un centro comune, favorendo la differenziazione: sono le forze che vengono impersonate di
solito da persone marginali, alla periferia del sistema sociale.

Lo studio sull’uso del prestigio del catalano a Barcellona ci presenta un caso in cui è possibile osservare in
che modo una lingua di una minoranza possa sopravvivere come simbolo di identità etnica e misura del
prestigio personale. Nonostante i secoli di controllo politico da parte del governo centrale spagnolo e la
graduale imposizione della lingua di Stato, il castigliano, come lingua dell’istruzione scolastica, il catalano è
sopravvissuto in Catalogna come prima lingua di buona parte della popolazione, continuando a godere di
uno status elevato ciò è dovuto al fatto che in Catalogna assistiamo a un rovesciamento dei rapporti di
potere usuali fra lingue maggioritarie e minoritarie: la lingua minoritaria, il catalano, non è la lingua dotata
di minor prestigio, ma la lingua della borghesia dominante sul piano economico; al contrario il castigliano è
la lingua dei lavoratori immigrati provenienti dall’Andalusia e da altre zone meno ricche del paese. Ciò
significa che le forze centrifughe in Catalogna sono rappresentate da una popolazione nativa che è più ricca
della popolazione di immigrati che parla il castigliano come prima lingua. La lingua trae la propria forza da
chi la parla, piuttosto che dal luogo in cui è parlata. Nella sua forma più invadente l’autorità viene prodotta
non nelle scuole e in altre istituzioni, ma nel discriminare fra quartieri operai e quartieri residenziali.

La conoscenza del corpo


Michael Jackson

Iniziazioni e imitazioni: c’è sempre il rischio, in antropologia, di trattare le persone che studiamo come
oggetti, semplici mezzi per perseguire i nostri fini intellettuali. Nel Nord della Sierra Leone, poco dopo aver
cominciato il mio lavoro nel villaggio kuranko di Firawa, ebbi la fortuna di assistere alle celebrazioni
pubbliche associate ai riti di iniziazione femminile. Il giorno che le ragazze lasciarono il villaggio me ne stavo
seduto con gli altri uomini, parlando e guardando gruppi di performer, soprattutto donne e ragazzine che
erano arrivate alla casa proprio come le iniziande il giorno prima. L’imitazione degli uomini era un motivo
ricorrente. Diverse giovani donne marciavano su e giù portando in spala vecchi fucili, altre indossavano i
pantaloni in tela grezza e i berretti con le nappe dei cacciatori. Nei miei taccuini, in mezzo a descrizioni
dettagliate di ciò che vedevo, elencavo domande inquisitorie che non era possibile formulare in kuranko,
figuriamoci dar loro risposta. Determinato a esser fedele ad almeno un aspetto della forma del rituale – il
suo carattere non lineare, di mosaico – presi in prestito il mio modello interpretativo dallo studio strutturale
del mito, affermando che le iniziazioni potevano esser viste come un mito messo in scena piuttosto che
espresso con parole, recitato piuttosto che raccontato. Notando che i significati rituali spesso non sono
verbalizzati e forse non possono esserlo, applicai un metodo di analisi che riduce gli atti a parole e dà agli
oggetti uno specifico vocabolario. E pur ammettendo che il rituale spesso rende il linguaggio ridondante e le
domande superflue, parafrasai i movimenti del rituale e tradussi le sue azioni in parole.

Non riuscii a prendere alla lettera i commenti dei kuranko e accettare che le performance a cui avevo
assistito erano solo per divertimento o, nelle parole del mio assistente, per nessun’altra ragione che non
per far partecipare tutti. In secondo luogo, non riuscii ad accettare che gli esseri umani non agiscono
necessariamente in base a opinioni o impiegano criteri epistemologici nel trovare significati per le loro
azioni. Nella misura in cui le azioni rituali kuranko per loro hanno senso a livello dell’esperienza immediata
e non pretendono di esser vere nei termini di qualche teoria sistematica della conoscenza, chi siamo noi per
negare la loro enfasi sul valore d’uso e potte domande inappropriate su cosa sia vero? È probabilmente la
separatezza dell’osservatore dagli atti rituali che gli fa pensare che gli atti facciano riferimento o richiedano
una giustificazione in un campo oltre la loro portata effettiva. Nel mio approccio all’iniziazione stavo
chiaramente applicando una distinzione che i kuranko non riconoscono: tra lavoro pragmatico e attività
rituale. Ritenevo gli elementi ludici nelle performance rituali esattamente comparabili alle performance
teatrali nella mia società dove i movimenti seguono un copione, sono diretti e variamente interpretati.

I dintorni di un modo di agire: nel caso delle performance imitative che ho descritto, ogni elemento
corporeo può esser osservato anche in altri campi della vita sociale kuranko. Le inquietanti imitazioni del
comportamento maschile da parte delle donne sono mischiate a elementi che sono evidenti prestiti dai
rituali funebri. Altri elementi ci rimandano alla boscaglia: l’imitazione dei cacciatori da parte delle donne. Si
possono dunque riconoscere le seguenti trasposizioni: dal campo maschile a quello femminile; dai riti
funebri a quelli di iniziazione; dalla boscaglia al villaggio. Le imitazioni sono fatte da donne non
immediatamente collegate alle novizie. In questo modo sono come le donne che imitano al funerale di un
uomo il modo in cui questi camminava, danzava, parlava e si muoveva. Spesso mogli dei figli del morto,
queste donne simulano dolore e infelicità per conto dei famigliari del defunto, che non hanno alcun ruolo
nei riti pubblici.

Le forme di uso del corpo sono condizionate dalle nostre relazioni con li altri, proprio come il modo in cui
disposizioni corporee che siamo arrivati a considerare maschili o femminili sono incoraggiate e rinforzate in
noi come schemi mutuamente esclusivi dai nostri genitori o coetanei. Gli schemi di uso corporeo sono
radicati attraverso le nostre interazioni con gli oggetti, come per il modo in cui lavorare a una scrivania o
con un macchinario impone e rinforza degli schemi posturali che finiamo per considerare appartenenti a
impiegati sedentari e lavoratori di fabbrica, rispettivamente. Le rappresentazioni collettive come quelle di
genere e classe son sempre correlate a schemi di uso corporeo generati all’interno dell’habitus. Inoltre, le
idee stereotipe e le abitudini corporee tendono a rinforzarsi a vicenda in modi che rimangono stabiliti
finché l’ambiente su cui queste abitudini sono fondate rimane fisso.

L’iniziazione kuranko è in primo luogo uno sconvolgimento dell’habitus, ed è questo, più che qualunque
altro precetto, regola o regia, che mette in moto quelle modificazioni sociali e personali il cui aspetto
corporeo manifesto è l’inversione dei ruoli. Il mio ragionamento è che questo sconvolgimento dell’habitus,
in cui le donne hanno campo libero nel villaggio e gli uomini devono cavarsela da soli o stare in casa come
donne atterrite, apre alle persone la possibilità di comportamento che portano incarnate, ma normalmente
non hanno inclinazione ad esprimere. Credo sia grazie alla forza di queste possibilità straordinarie che le
persone controllano e ricreano il loro mondo, il loro habitus.
Veniamo allora alla questione del perché queste particolari possibilità siano socialmente messe in atto e
pubblicamente interpretate. Possiamo postulare che il rito di iniziazione massimizzi le informazioni
disponibili nell’ambiente complessivo per assicurare il completamento del suo compito vitale: creare adulti
e in tal modo ricreare l’ordine sociale. Questo processo non coinvolge necessariamente un sapere verbale o
concettuale. Piuttosto possiamo dire che le persone sono plasmate e plasmano un habitus che solo un
ignaro osservatore esterno prenderebbe per un oggetto di conoscenza. L’intenzionalità per i kuranko è
quindi più un’in-tensione corporea, un protendersi, una disposizione abituale verso il mondo, che una
volontà concettuale. Anche se tutti siamo influenzati da predisposizioni comuni, è l’individuo che incarna
queste predisposizioni come rappresentazioni mimetiche. Nella misura in cui permettono a ogni individuo
di giocare una parte attiva in un progetto che ricrea efficacemente il mondo, i riti di iniziazione
massimizzano tanto la partecipazione quanto l’informazione, permettendo a ogni persona di scoprire nella
sua personalità un modo di produrre, dopo il caos momentaneo, qualcosa che contribuirà al rinnovamento
dell’ordine sociale. In questo processo ogni persona crea da sé un mondo a partire da elementi che
ordinariamente non gli sono considerati appropriati, per esempio donne che portano vestiti o armi degli
uomini. Tuttavia, curiosamente, il principio della complementarietà dei sessi nella società kuranko può
sopravvivere solo se gli uomini e le donne kuranko riconoscono l’altro in se stessi e se stessi nell’altro. La
mimesi aiuta così a mettere in rilievo una reciprocità di punti di vista. La libertà va quindi visa come la
realizzazione e sperimentazione del proprio potenziale all’interno di questo universo dato, non oltre o al di
sopra di esso.

La mia tesi è che i particolari modi d’uso del corpo durante l’iniziazione tendano a generare immagini nella
mente la cui forma è immediatamente determinata dallo schema d’uso corporeo. Questo non significa dire
che tutte le forme mentali dovrebbero essere ridotte a pratiche corporee; piuttosto che all’interno del
campo unitario corpo-mente-habitus è possibile intervenire ed effettuare cambiamenti a partire da uno
qualsiasi di questi punti. Da un punto di vista essenziale possiamo dire che le pratiche corporee mediano la
realizzazione personale di valori sociali, una comprensione immediata di precetti generali come verità di
buon senso. Un simile punto di vista è coerente con la tendenza africana ad attuare la comprensione
tramite tecniche corporee, a procedere attraverso la consapevolezza corporea verso abilità verbali e punti
di vista etici.

Accendere un fuoco: nei primi tempi in cui vivevo in un villaggio kuranko mi accendevo il fuoco da solo, per
bollire l’acqua da bere o per lavarmi. Ma consideravo una faccenda così banale poco attinente con il io
lavoro di ricerca, e il mio modo di mettere insieme un fuoco era trascurato e dispendioso di legna. Gli
abitanti del villaggio scherzavano sul mio modo di accendere il fuoco ma non mi criticavano né mi
rimproveravano. Poi un giorno osservai il modo in cui le donne kuranko accendevano il fuoco e se ne
prendevano cura e cominciai a imitare la loro tecnica, che comprendeva un attento posizionamento delle
pietre, senza mai usare più di tre legni alla volta. Quando mi sforzai di fare un fuoco in questo modo mi resi
conto dell’intelligenza di questa tecnica. Questa mimesi pratica mi ha premesso di avere un quadro di come
le persone economizzavano sia il combustibile che le energie; mi ha fatto percepire la stretta parentela tra il
risparmio di sforzi e la grazia nei movimenti; mi ha fatto realizzare il buon senso che sta alla base anche del
compito pi elementare in un villaggio kuranko.

Gli schemi della pratica


Philippe Descola

I saperi delle cose comuni:comprendere come dei modelli di relazione e di comportamento possano
orientare le pratiche senza affiorare alla coscienza è divenuto un compito meno difficile, in ragione di ciò
che abbiamo acquisito riguardo all’intelligibilità dei processi e di derivazione analogica che governano la
costruzione degli schemi mentali. Questi vantaggi derivano essis tessi da un cambiamento di prospettiva
nello studio della cognizione. Ora, un tale modello offriva una rappresentazione poco soddisfacente del
processo mentale che permette di riconoscere alcuni oggetti e di includerli all’istante in una classe
tassonomica. Avviene quindi uno spostamento nello studio dei concetti classificatori verso una posizione
ispirata alla psicologia della Gestalt, secondo la quale questi concetti devono esser compresi come
configurazioni globali di tratti caratteristici non come liste scomponibili di attributi.

Lontano dall’esser scomponibile in serie di definizioni del tipo di quelle che fornisce un dizionario, i concetti
classificatori si fondano quindi su frammenti del sapere tacito che poggia sulle proprietà che la nostra
conoscenza teorica e pratica del mondo ci porta a imputare agli oggetti ai quali questi concetti si
riferiscono. L’importanza degli aspetti non linguistici della cognizione è stata rilevata dagli studi sempre più
numerosi sull’apprendimento delle attività pratiche, sia che queste derivino da un know-how specializzato
o da un apprendimento meccanico di compiti quotidiani. Operazioni anche banali come la guida
dell’automobile o la preparazione di un pasto non mobilitano tanto delle conoscenze esplicite quanto una
combinazione di attitudini motrici acquisite e di esperienze diverse sintetizzate in una competenza; esse
provengono dal sapere come più che dal sapere che.

Alcuni di questi schemi pratici impiegano più tempo a stabilirsi di altri in ragione della quantità di
informazioni diverse che devono organizzare. La caccia ne offre un buon esempio. Sono gli uomini di più di
40 anni a portare la maggior parte della selvaggina. Questo avviene anche se qualsiasi adolescente possiede
una conoscenza naturalistica e una destrezza tecnica degna di ammirazione. Avrà bisogno di aspettare
ancora vent’anni per esser sicuro di riportare della selvaggina a ogni battuta di caccia. Cosa apprende
esattamente in questo lasso di tempo? L’essenziale di ciò che acquisisce consiste in un’attitudine sempre
meglio padroneggiata a interconnettere una gran quantità di informazioni eterogenee che si strutturano in
modo tale che permettono una risposta efficace e immediata a ogni tipo di situazione incontrata. Sulla
natura di questa competenza di cui solo l’effetto è misurabile, un non-cacciatore è ridotto a congetture,
perché quasi niente di tutto questo può essere espresso in modo adeguato dal linguaggio.

Eppure, qualche progresso è stato registrato nella comprensione delle condizioni materiali richieste per
l’esercizio di una cognizione non proposizionale. Le neuroscienze ci hanno insegnato che il cervello non
funziona in modo compartimentato così come pensava l’antica teoria della facoltà, e che ogni processo
percettivo e cognitivo suppone ‘attivazione in parallelo di reti neuronali distribuite nel sistema nervoso, reti
la cui stabilizzazione e differenziazione avvengono a poco a poco durante i primi anni di ontogenesi in
correlazione stretta con gli stimoli ricevuti dall’ambiente circostante. Dopo qualche anno, inoltre, i modelli
connessionisti sviluppati nell’intelligenza artificiale hanno iniziato a dar prova della loro efficacia. I modelli
connessionisti non funzionano a partire da liste di istruzioni che permettono di realizzare con il calcolo
predicativo una serie di operazioni specificate dai dati iniziali immagazzinati nella memoria; essi sono
costituiti da un insieme di reti elettroniche le cui interconnessioni si stabiliscono selettivamente in funzione
della natura e dell’intensità degli stimoli ricevuti. Ciò significa che possono riconoscere delle regolarità nel
loro ambiente e rimodellare di conseguenza la loro organizzazione interna, non creando delle regole
esplicite adattate alla regolarità riconosciuta, ma modificandone le soglie di connessione tra i processi in
modo che la struttura del dispositivo di conoscenza rifletta la struttura presente nell’input. Anche se i
modelli connessionisti si avvicinano all’ideale della tabula rasa, non escludono il principio che sia dato
all’inizio dell’ontogenesi un piccolo nucleo di meccanismi specializzati proveniente dall’evoluzione
filogenetica. Insomma imitano il funzionamento delle reti neuronali, sono capaci di apprendimento,
reagiscono rapidamente ad alcune situazioni complesse.

Schematismi: i modelli connessionisti hanno portato psicologi e antropologi a interessarsi in modo più
sistematico al ruolo delle strutture astratte che organizzano le conoscenze, strutture oggi raggruppate sotto
il nome generico di schemi. È necessario distinguere gli schemi cognitivi ritenuti universali da quelli che
provengono da una competenza culturale acquisita o dai casi della storia individuale. L’esistenza dei primi è
ancora in discussione.
Sono soprattutto gli schemi acquisiti che detengono l’attenzione di coloro che si interessano alla diversità
degli usi del mondo dal momento che è in parte per effetto di questi meccanismi che i comportamenti
umani differiscono. Essi variano prima di tutto da individuo a individuo in ragione dell’influenza di schemi
idiosincratici. Gli schemi collettivi interessano più da vicino gli etnologi poiché costituiscono uno dei
principali mezzi per costruire dei significati culturali condivisi. Possiamo definirli come disposizioni
psichiche, sensorio-motrici ed emozionali, interiorizzate grazie all’esperienza acquisita all’interno
dell’ambito sociale dato, e che permettono l’esercizio di almeno tre tipi di competenza:

1. Strutturare in modo selettivo il flusso della percezione dando una preminenza significativa ad alcuni
tratti osservabili
2. Organizzare tanto l’attività pratica quanto l’espressione del pensiero e delle emozioni secondo
scenari standardizzati
3. Fornire un quadro per interpretazioni tipiche di comportamenti o avvenimenti comunicabili
all’interno della comunità dove le abitudini di vita che esse esprimono sono accettate come
normali.

Differenziazione, stabilizzazione, analogie: mettere in evidenza gli schemi della pratica propri a un
aggregato di umani non è cosa facile. Il modo in cui un gruppo umano schematizza la sua esperienza non si
presta a descrizioni così semplici; esso è sicuramente rilevabile nelle etnografie, ma bisogna poterlo rilevare
a partire da indici eterogenei e identificare i suoi principi operativi senza lasciarsi accecare da codificazioni
apparenti. Distinguiamo questa schematizzazione negli usi più che nei precetti che li giustificano, nei
comportamenti verso i parenti, per esempio, come le regole di parentela, nei dispositivi rituali e nei casi di
situazioni internazionali che mettono in atto, come nella letteratura dei miti o delle formule rituali, nelle
tecniche del corpo, nelle forme di apprendimento o di uso dello spazio.

Consolidati durante gli anni di formazione, gli schemi della pratica permettono di adattarsi a situazioni
inedite. Gli schemi sono quindi più rinforzati dall’esperienza che riformati da questa. L’integrazione
dell’esperienza in schemi duraturi avviene soprattutto in occasione di circostanze che focalizzano
l’attenzione, poiché queste risaltano sulla routine quotidiana lasciando il loro segno sui sentimenti e anche
sui corpi. I riti costituiscono quindi indici preziosi del modo in cui una collettività concepisce e organizza la
sua relazione con il mondo e con l’altro, non solamente perché rivelano sotto una forma condensata gli
schemi di interazione e principi di strutturazione della praxis più diffusi nella vita comune, ma anche perché
essi forniscono l’inizio di una garanzia del fatto che le interpretazioni che l’analista disegna incontrano
anche l’esperienza vissuta da coloro che vi trovano un quadro favorevole all’interiorizzazione dei modelli di
azione.

4 – Cosmo-logie/ Socio-logie
Due forme di logos declinate al plurale, le cosmo-logie e le socio-logie. Accostate, portano alla luce la
duplice natura dell’antropologia come disciplina dedicata alla cultura e alla società: da questa duplicità
derivano le due denominazioni più diffuse della disciplina, l’antropologia culturale e l’antropologia sociale,
che nel corso del 900 hanno avuto storie scientifico-intellettuali distinte ma apparentate e che oggi possono
essere considerate alla stregua di sinonimi.
Cosmologie
Michael Herzfeld

Vivere nel cosmo: la cosmologia si riferisce al posto che occupiamo nell’universo. Ha a che fare in modo
cruciale con la definizione dei confini tra natura e cultura. Quando gli antropologi si interessavano di più
alle forme di pensiero supposte semplici o primitive, essa implicava qualsiasi cosa che appartenesse al
dominio della religione e alla categoria spregiativa di superstizione. Però il termine abbraccia sai la religione
che la scienza, rivelandosi molto più utile agli obiettivi di un’antropologia esaustiva, più di quanto non lo
siano queste due categorie trattate separatamente. Iniziamo con la scienza. Per i fisici, il cosmo rappresenta
la totalità delle cose fisiche: non soltanto la materia, ma anche lo spazio, il tempo, e in generale tuto ciò che
è pertinente da un punto di vista fisico.

“Tradizionalmente i misteri dell’universo sono stati terreno di competenza di teologi e preti. I fisici non
vedono sé stessi come gli autori della cosmologia di una qualche religione secolare: per loro la religione
riguarda la credenza più che la conoscenza. Ma ritengono la propria professione come la rivelazione di una
verità fondamentale.”

Non appena l’enfasi si sposta in questo modo dalla struttura delle idee al ruolo culturalmente definito degli
agenti sociali, emergono le distinzioni tra i diversi modi di ragionamento come espressioni della particolare
cosmologia cartesiana che ci ha consegnato il concetto di oggettività: l’oggettivismo. I fisici credono che
mentre la distribuzione della razionalità tra gli umani è disuguale, la natura obbedisce a leggi immutabili
alle quali gli umani stessi possono adattare le loro idee nella misura in cui posseggono tale capacità di
essere razionali. Questa ricerca di un’eroica perfezione intellettuale in cui la conoscenza pura e
disinteressata trascende il qui e ora della realtà sociale, si contrappone a ciò che da qualche tempo
sappiamo realmente circa la produzione sociale della scienza. Si tratta di una visione dell’universo che non
esige credenze, ma che esige l’accettazione pragmatica del processo attraverso il quale gli scienziati isolano
il proprio lavoro da qualsiasi interesse per il significato o dalle conseguenze sociali e politiche di ciò che
fanno.

Elemento cruciale per la comprensione di ciò che la cosmologia scientifica potrebbe avere in comune con la
dottrina religiosa, è il fondamentale concetto di ordine, il quale è essenzialmente un costrutto sociale.
Tramite la cosmologia, le persone considerano l’universo come un’entità organizzata: piuttosto che un
cumulo di componenti fisici ordinati in maniera casuale, esso è una disposizione altamente organizzata di
materia ed energia strutturata su diversi livelli di dimensione e complessità. Questo è ciò che è stato
indicato come l’ordine del mondo. Il tentativo di ricondurre l’apparente organizzazione casuale
dell’universo a un senso di ordine, si fonda su supposizioni relative alla natura. E se la contaminazione –
religiosa – è da intendersi una faccenda fuori luogo, affermazioni del tipo abbiamo un 70% di probabilità di
pioggia devono ugualmente essere considerate dimostrazioni dell’umana propensione di dedurre l’ordine
dall’apparente caos dell’esistenza.

L’ordine è l’elemento di maggior interesse dei sistemi cosmologici, dagli schemi religiosi di popoli distanti
nello spazio geografico e temporale fino alle argomentazioni della fisica e della chimica moderne. È con
Durkheim e i suoi collaboratori che lo studio approfondito e comparativo delle cosmologie come ambito
specifico di ricerca ha avuto inizio nei primi anni del ventesimo secolo. Durkheim indica che un’istituzione
umana non può basarsi su un errore e su una menzogna. Il suo ragionamento si fondava sul presupposto
dell’esistenza di facoltà umane di raziocinio comuni e universali, anticipando così l’approfondita trattazione
della cosmologia che emerge oggi: se ciò non fosse basato sulla natura delle cose, nei fatti avrebbe
incontrato una resistenza rispetto alla quale non avrebbe mai potuto trionfare. Durkheim ha perciò
intrapreso lo studio delle religioni primitive con la sicurezza che esse siano aderenti al reale e lo esprimano.
Inoltre, i primi sistemi di rappresentazione con i quali gli uomini hanno figurato se stessi e il mondo a se
stessi erano di origine religiosa. Questo conduce a osservare che non c’è religione che non sia in pari tempo
una cosmologia e una speculazione sul divino. La tradizione durkehimiana è rimasta radicata ai presupposti
evoluzionisti da cui i suoi sostenitori hanno tentato in tutti i modi di prendere le distanze. Per Durkheim la
mancanza della differenziazione dei ruoli nelle cosiddette società primitive (la solidarietà meccanica
attraverso cui l’arte, la politica e le credenze sono state tutte inglobate in una singola struttura sociale che
ha definito le modalità con cui è stata assegnata un’espressione collettiva a questi ambiti di esperienza) non
ha lasciato spazio al ruolo dell’agentività individuale.

Per Durkheim in una situazione di solidarietà meccanica la religione pervade l’intera vita sociale e questo si
verifica perché la vita sociale consiste pressoché esclusivamente in credenze e pratiche comuni che
derivano da un’adesione unanime di straordinaria intensità. La specializzazione dei ruoli e degli ambiti
dell’attività culturale è stata il prodotto della modernità, una fase dello sviluppo umano in cui si è supposto
che la creazione di sfere separate come l’arte, l’economia, l’attività politica e la pratica religiosa
rispecchiasse una corrispondente differenziazione delle strutture sociali, oltre a quella basilare della
parentela.

Teodicee popolari e dottrinali: gli esseri umani devono sempre assegnare la responsabilità e la colpa. Non si
tratta semplicemente di una questione di legalità, si tratta anche di un importante aspetto della costruzione
di un mondo che sia per noi vivibile: se dobbiamo in ogni caso ammettere la colpa delle terribili condizioni
del nostro mondo, dovremmo giudicare la nostra esistenza intollerabile. Gli esseri umani cercano una
rassicurazione di fronte al caos. I tentativi di predire la probabilità di disastri aerei, degli uragani e di ogni
forma di malattia rivestono questo ruolo intellettualmente riduttivo ma socialmente creativo. In molte
società le persone elaborano quell’aspetto della cosmologia, conosciuto come teodicea: giustizia divina,
ma, in termini più specifici, la spiegazione dottrinale di ciò che si abbatte su di noi, come la dilagante
ingiustizia del mondo in cui abitiamo.

Molti degli stratagemmi esplicativi messi in atto per eludere la colpa finiscono sotto il titolo di stregoneria
(witchcraft), che nella sua accezione classica permette alla gente di incolpare gli altri in maniera non
circostanziata: la stregoneria, diversamente dalla fattucchieria (sorcery) non implica un atto volontario di
malvagità, e in molte società le affermazioni generiche che esso sia esercitato, non sempre sono
accompagnate da accuse nei confronti di persone specifiche. Questo permette agli individui di eludere la
colpa per le loro varie disgrazie e allo stesso tempo di evitare di turbare l’armonia sociale, possono sempre
ricorrere a specifiche accuse di fattucchieria. Le accuse di stregoneria si basano su un principio
fondamentale della teodicea: c’è un male generale nel mondo, e alcuni individui sono sufficientemente
sfortunati da esserne i latori. Coloro che stregano deliberatamente gli altri certamente saranno condannati,
ma coloro che sono stati accusati di averlo fatto di solito rivendicheranno di essere stati privi di tali
intenzioni. In molte versioni del cristianesimo alcune interpretazioni della dottrina del peccato originale
presentano una teodicea generica per spiegare la persistenza di presenze maligne nella vita sociale quali
l’invidia, il pettegolezzo e il sortilegio: proprio perché i reali motivi degli altri risultano insondabili, una
teoria generale che spieghi la presenza in questo mondo di un male causale, appare come un modo
attraente di evitare una profonda colpevolezza, senza però escludere interamente gli altri dalla comunità
morale.

Mitologia e cosmologia: è opportuno chiedersi non soltanto come sono organizzati i miti, ma chi ne fa uso e
per quali fini. Quello di mito è un concetto preoccupante per l’antropologia moderna- dato che il termine è
spesso associato alle nozioni di finzione o falsa credenza, la distinzione tra narrazioni storiche e narrazioni
mitiche dipende sia dalle scelte ideologiche che dalle definizioni che entrano in uso. Nel XIX secolo i primi
antropologi hanno pensato il mito in termini evoluzionisti. Si trattava, tuttavia di un evoluzionismo
colonialista: essi hanno ritenuto il mito principalmente come l’espressione della superstizione. Dalla
tradizione iniziata da Durkheim emergono due importanti approcci per lo studio del mito.
1) Accento sul fatto che essi hanno il carattere di statuti sociali e che pertanto agiscono in qualità di
modelli comportamentali per gli individui
2) Accento sulle procedure intellettuali che si celano dietro ai miti

La visione funzionalista del mito come carta fondante delle realtà sociali e politiche ha ceduto il posto a una
serie di asserzioni altrettanto funzionaliste è il caso della tesi di Lévi-Strauss, secondo la quale i miti
costituiscono meccanismi per la soppressione del tempo. Lévi-Strauss indica che una delle principali
caratteristiche dei miti è la loro atemporalità. In antitesi con la storia, il mito ha a che fare con eventi
reversibili, mentre la storia con quelli irreversibili. Per Lévi-Strauss la mitologia è statica, ritroviamo gli stessi
eventi mitici combinati più e più volte, essi agiscono in un sistema chiuso in contraddizione con la storia che
è un sistema aperto. Sia per Lévi-Strauss la distinzione tra mito e storia riproduce una pi ampia distinzione
sociale tra primitivo e arcaico e società moderne da un lato e industriali – soprattutto le società letterate –
dall’altro. Come si è verificato anche per Durkheim, questa prospettiva eurocentrica ha limitato l’utilità
delle loro analisi. Qualunque sia la debolezza delle argomentazioni funzionaliste esse hanno avuto almeno il
merito di sottrarre le narrazioni classificate come miti al dominio dell’irrazionale e della superstizione.

Tempo e atemporalità: la mortalità, inevitabile condizione della vita umana, è il fulcro attorno al quale
sesso ruota la cosmologia. Frazer osservò che la monarchia divina era impostata in modo che la figura del
monarca simbolico morisse, ma che fosse sostituita da un simulacro. L’individuazione e la diversità sono
state pagate al prezzo della mortalità: la storia di Adamo ed Eva per esempio è in larga misura un racconto
morale sulla corruzione derivata dall’introduzione della temporalità. Tuttavia, mortalità significa anche che
esistono dei morti – gli antenati – l’accesso ai quali può significare un accrescimento del potere.

Rituale e ordine cosmologico: i rituali possono essere ritenuti come un modo per opporsi alla
degenerazione tramite la routine. La ripetizione e la ridondanza, oltre che la semplificazione del linguaggio
e un livello molto basso di riferimento alle cose del mondo sociale reale, caratterizzano la maggior parte
delle forme di quello che potremmo ritenere un rituale. Sebbene alcuni rituali siano finalizzati al
cambiamento di specifiche situazioni essi agiscono, in senso cosmologico, allo scopo di ripristinare l’ordine.
I riti interessano perciò la sfera dell’immutabilità cosmologica: i cambiamenti che inglobano sono la
ricalibratura di un dettaglio locale in virtù del grandioso ordine delle cose. Ma ciò che più conta è:

“il rituale è un particolare momento con una fase iniziale, una centrale e una finale, una storia completa o
un capitolo dell’opera monumentale che costituisce la società. Questa possibilità ci permette di prendere le
distanze dalla terribile indifferenza racchiusa nella linea continua che nasce da routine sociali senza un inizio
né una fine”.

Esso fornisce pertanto uno strumento per porre sotto certe forme di controllo collettivo il tentativo umano
di procrastinare la morte per creare situazioni di eccezionalità nell’incessante monotonia dell’esistenza, che
servono gli interessi del potere. E fornisce anche uno spazio in cui individualizzare la propria vita, anche se
presso molte società ciò si verifica soltanto nei termini stabiliti dalla religione o dalla gerarchia laica. Il
rituale si riferisce inoltre al tempo: al suo passaggio, al suo significato, alla sua inesorabile associazione con
la decadenza e la morte, oltre che con le immagini di rinascita, di reincarnazione o rinnovamento. I rituali
possono mostrare le debolezze o le contraddizioni della società. Esponendo l’autorità alla ribelle
insubordinazione all’interno di un quadro rituale, i rituali sono stati effettivamente utili al mantenimento
dello status quo; l’equivalente internazionale era il pettegolezzo, in cui la moralità era mantenuta da una
costante, o meglio, ritualistica, insistenza sulle sue infrazioni inevitabilmente frequenti. Questa visione del
rituale come meccanismo di stabilità è dura a morire.
Donare, Scambiare, Custodire: come si creano le società
Maurice Godelier

Scopo: Esplorare le distinzioni esistenti tra le cose che si vendono, quelle che si donano e quelle che non
bisogna né vendere né donare, ma custodire e trasmettere. Per esplorare questo argomento, bisogna
reimmergersi nella storia stessa dell’antropologia, e si viene rinviati a un testo imprescindibile, il Saggio sul
dono di Marcel Mauss, pubblicato nel 1921.
Era subito dopo la prima guerra mondiale, e Mauss aveva perso la metà degli amici. Socialista, aveva
sostenuto Jaurés, uno dei principali dirigenti del movimento socialista europeo, che era stato assassinato
per essersi opposto alla guerra. Noto professore universitario, Mauss scriveva tutte le settimane sul
giornale popolare L’Humanité. Dopo la guerra aveva visitato la Russia, sotto il potere comunista, divenendo
ostile al bolscevismo per due ragioni: perché voleva creare un’economia che sfuggisse al mercato e per il
sistematico ricorso alla violenza per trasformare la società. Tuttavia, Mauss nel Saggio sul dono critica il
liberalismo e rifiuta che la società si chiuda sempre più in ciò che chiama “la fredda ragione del
commerciante, del banchiere e del capitalista”. Ma chiede anche ai ricchi e potenti di mostrare la stessa
generosità interessata praticata dai capi malesiani o dai nobili kwakiutl e che in Europa era stata praticata
dai capi celti e germanici.

Cos’è un dono per Mauss? È un atto che instaura un doppio rapporto tra colui che dona e colui che accetta,
tra donatore e donatario. Donare significa condividere volontariamente ciò che si ha o ciò che si è. Un dono
forzato non è un dono. Il dono volontario avvicina colui che dona a colui che riceve. Ma allo stesso tempo. Il
dono crea presso colui che lo accetta un debito, degli obblighi. Il dono provoca due cose: avvicina e
allontana le due parti. Instaura una gerarchia tra colui che dona e colui che riceve. Non è un atto
suscettibile di esser studiato in modo isolato, ma fa parte di un insieme di rapporti che si allacciano tra gli
individui e gruppi per via della concatenazione di tre obblighi:

1. Donare
2. Accettare il dono
3. Donare a propria volta quando il dono è stato accettato

C’era un punto debole in Mauss: per spiegare i primi due obblighi aveva avanzato delle ragioni sociologiche.
Secondo lui, si è obbligati a donare perché donare obbliga, e si è obbligati ad accettare perché rifiutare
significherebbe rischiare di entrare in conflitto con colui che offre. Ma quando si esamina il terzo obbligo,
propone un altro tipo di spiegazione, che mette questa volta l’accento su ragioni ideologiche, e
all’occorrenza sulle credenze mistico-religiose. Ciò che spinge a donare a propria volta è l’azione di uno
“spirito” presente all’interno della cosa ricevuta che la spingerebbe a tornare tra le mani del proprietario
originale.

Mauss cercherebbe di mettere in evidenza il fatto che l’oggetto non era completamente alienato, che
restava al proprietario ed era quindi al contempo inalienabile e alienato. Come spiegare questa dualità? Ha
fatto ricorso alle rappresentazioni religiose delle società. La spiegazione mi sembra invecce altrove:
l’oggetto donato sarebbe investito di due principi di diritto complementari, un diritto di proprietà
inalienabile e un diritto all’uso inalienabile, ed è il gioco tra questi due principi a ciarire la logica degli
scambi kula. Mauss non si è occupato di tutte le forme di dono. Ha privilegiato quelle che ha definito
prestazioni totali, che impegnano gruppi o persone che rappresentano gruppi. Mauss non si è occupato dei
doni tra amici, e nemmeno del dono che dio può fare della prorpia vita per salvare l’umanità. Considera
queste prestazioni totali in due modi diversi:

a. Un tipo non agonistico al termine di una serie di doni reciproci ogni lignaggio si trova allo stesso
tempo superiore all’altro in quanto donatore e inferiore in quanto donatario. I due si trovano
quindi in una parità di status. I controdoni non annullano i debiti creati dai doni, creano altri debiti
che bilanciano e non annullano i primi. In virtù di questa logica, doni e controdoni alimentano
continuamente degli obblighi e debiti che generano flussi di servizi, aiuto e solidarietà reciproci. I
debiti non si annullano mai di colpo, si estinguono lentamente nel corso del tempo. Questo genere
di doni-controdoni finisce col ridistribuire le risorse di cui gruppi che compongono la società
dispongono. Secondo questa logica, una donna vale una donna, la morte di un guerriero viene
compensata dalla morte di un altro guerriero.
b. Un tipo agonistico  il potlach segue questa logica. Mauss sottolinea come questa pratica sia una
vera e propria guerra di ricchezze, per conquistare o conservare titoli, status e potere. Si ha qui a
che fare con un’altra economia e morale del dono. I potlach degli Indiani della Costa
nordoccidentale venivano praticati per legittimare agli occhi di tutti il possesso e la trasmissione di
un titolo già acquisito o per rendere manifesto il diritto di acquisizione. È quindi una pratica di
potere che implica l’accumulo di grandi quantità di oggetti preziosi e di beni di sussistenza per
ridistribuirli in occasione di festini e di competizioni cerimoniali, o distruggerli con ostentazione.
L’altra differenza risiede nel fatto che nel potlach un debito può essere annullato da un controdono.
Un debito viene annullato quando si dona di più di quanto ricevuto.

Mauss voleva capire perché una cosa donata poteva essere restituita al donatore o determinare un
controdono in ritorno. Già nel 1921 pur lodando la ricchezza di dati etnografici raccolti da Malinowski,
rimpiangeva il fatto che essi non chiarissero sufficientemente la pratica dei doni e controdoni del kula. Il
meccanismo consiste nel mettere in circolazione un braccialetto con la speranza di ottenere in cambio, un
giorno, una collana di valore equivalente o viceversa. Vediamo come in questo meccanismo non sia mai lo
stesso oggetto né lo stesso tipo di oggetto a rimpiazzare quello donato, è perciò impossibile, nel caso del
kula, avanzare l’idea cara ai maori secondo cui lo spirito presente nella cosa indurrebbe la persona che l’ha
ricevuta in dono a restituirla al proprietario originario.

Sfortunatamente non è quanto è stato trovato. Infatti Malinowski aveva tralasciato due concetti indigeni
chiave che chiariscono il modo in cui il kula viene praticato e spiegano perché il proprietario dell’oggetto
appaia sempre presente nella cosa donata. Sono concetti di kitoum e keda. Kitoum = oggetti di valore,
proprietà di lignaggio o di un individuo (canoe, conchiglie levigate, lame di asce...) che i proprietari possono
usare in vari contesti e per usi distinti. Ma possono anche porli su un percorso di circolazione kula, in un
keda. Una collana che entra in un kula, essendo passata dalle mani del proprietario a un primo donatario di
kitoum, diventa un vaygu’a, un oggetto che ormai può essere usato solo per scambi kula. Continua tuttavia
a essere proprietà del primo donatore, che può in ogni momento reclamarlo a colui che lo possiede
provvisoriamente e ritirarlo dal kula. Ciò che è stato ceduto nel regalare l’oggetto non è il diritto di
proprietà, ma il diritto all’uso, il diritto di utilizzare l’oggetto per fare altri doni. Nessuno di coloro a cui
l’oggetto passerà tra le mani potrà utilizzarlo come kotoum e rimpiegarlo. Ciò nonostante, l’oggetto non
torna mai al proprietario iniziale: ciò che torna al posto di una collana è un bracciale di valore equivalente
che il proprietario cede in cambio della collana. Il bracciale, divenuto anch’esso vaygu’a, percorre in senso
inverso tutta la catena di intermediari per giungere tra le mani del proprietario della collana, che se ne
approprierà nuovamente come kitoum, atto che chiude il percorso di circolazione di scambi keda.  beni
preziosi sono alienati pur restando proprietà inalienabile del donatore originario. Ma il diritto non spiega
perché la norma venga applicata agli oggetti preziosi ma non a quelli sacri. È quindi tempo di oltrepassare il
confine che Mauss non aveva superato.

Veniamo alle cose che non bisogna ne vendere ne donare, ma custodire, come gli oggetti sacri. Essi si
presentano come doni che dei o spiriti avrebbero fatto agli antenati degli uomini. Questi possono utilizzarli
a proprio beneficio o a beneficio dei membri della società. Ma possono anche servirsene per nuocere a
loro. L’oggetto sacro è quindi un fonte di potere nelal società e si presenta come inalienabile e inalienato. Il
mio studio in Nuova Guinea mi ha fornito l’occasione di osservare ciò a cui l’oggeto sacro può servire.
Presso i baruya, un certo numero di clan possiede dei kwaimatnié, pacchetti contenenti oggetti che non si
guardano mai e avvolti in striscioline di corteccia rossa. I baruya si definiscono “Figli del Sole”. I kwaimatnié
sono conservati segretamente nelle case dei maestri di iniziazione dei ragazzi, i rappresentanti dei clan che
intervengono nei diversi stadi dell’iniziazione. All’età di nove anni i bambini vengono brutalmente separati
dalle madri e dal mondo delle donne per esser chiusi nelle case dei maestri che dominano i villaggi. Là
vengono in presenza di oggetti sacri quali flauti, rombi e i kwaimatnié.

1. Flauti = in origine proprietà delel donne, alle quali un antenato degli uomini li ha rubati.
Contenevano e contengono il potere delle donne di fare figli.
2. Kwaimatnié = circondati da striscioline di corteccia, contengono una pietra nera e un appuntito
osso d’aquila, l’uccello del Sole. Per i baruya la pietra conteneva alcuni poteri della stella Venere.
Perché per loro Venere è la metamorfosi di una donna baruya che gli antenati del tempo del sogno
avevano offerto, per placarlo, al Serpente Pitone, dio della pioggia e signore del tuono.
3. Rombi = oggetti che gli spiriti della foresta avrebbero un tempo donato a un antenato e che
racchiudono poteri di morte, quello di uccidere la selvaggina o un nemico.

Così negli oggetti sacri che solo alcuni uomini possono maneggiare, si trovano riuniti due tipi di potere:
potere femminili, poteri di vita di cui gli uomini avrebbero, nell’immaginario, espropriato le donne, e poteri
maschili, poteri di morte e di guerra ricevuti direttamente dagli spiriti della foresta. Ma agli occhi dei
baruya, le donne rimangono sempre le proprietarie dei poteri di cui gli uomini le hanno spossessate. È
questo il motivo per cui gli uomini devono separare con la forza i giovani dal mondo delle donne e iniziarli ai
segreti dei poteri di cui hanno espropriato le donne.

Infine un oggetto sacro è un oggetto materiale che rappresenta il non rappresentabile, che rimanda gli
uomini all’origine delle cose ed è testimone della legittimità dell’ordine cosmico e sociale succeduto al
tempo e agli eventi delle origini. Non è necessariamente bello- è più che bello, è sublime. Pone l’umanità in
presenza delle forze che ordinano il mondo al di là del visibile. Si presenta come una sintesi materiale delle
componenti immaginarie e simboliche presenti nei rapporti che organizzano le società reali. Nell’oggetto
sacro gli uomini che lo hanno fabbricato sono al contempo presenti e assenti, presenti in una forma tale che
dissimula il fatto che gli uomini sono all’origine stessa di ciò che li domina e che adorano.

L’identità nella relazione


Lila Abu-Lughod

Asl: il sangue delle origini: il sangue lega le persone del passato e allo stesso tempo le unisce nel presente. È
fondamentale per al definizione dell’identità culturale. La nobiltà di origine o di ascendenza (asl) è un
motivo di grande preoccupazione per gli Awlad Ali del Deserto libico. I clan migrarono in Egitto dalla Libia.
Alcune fonti collocano la loro migrazione in Egitto alla fine del XII secolo. Sono rimasti marginali rispetto alla
società agraria della valle del Nilo, il centro economico e demografico dell’Egitto. I beduini del Deserto
Occidentale costituiscono molto meno dell’1% della popolazione totale dell’Egitto. Nonostante molti
cambiamenti avvenuti nella società, l’obiettivo dell’assimilazione non è stato raggiunto. Al contrario, gran
parte dell’identità e del senso di sé beduini si esprime nel distinguersi dai non beduini o nel contrapporsi a
loro.

Il senso di identità collettiva dei beduini si definisce per opposizione agli egiziani o ai contadini, raggruppati
insieme come la gente nella valle del Nilo. Dal punto di vista dei beduini le differenze vanno al di là della
lingua e del vestiario, si estendono fino ai fondamenti dell’origine. Il sangue nel senso della genealogia, è la
base dell’identità degli Awlad Ali. Coloro che possono collegarsi genealogicamente a una qualsiasi delle
tribù del Deserto Occidentale sono arab (arabi non egiziani). Gli Awlad Ali si riferiscono a se stessi più
spesso come arab che come badu (beduini). Il termine suggerisce anche la loro affinità con tutti i
musulmani di lingua araba del Medio Oriente e del Nord Africa che essi presumono essere, a causa della
comune origine, uguali a loro. Il sangue è ciò che autentica l’origine o la genealogia e come tale è cruciale
per l’identità dei beduini e per la loro differenziazione dagli egiziani ritenuti privi di radici o nobili origini. Si
ritiene che nobili origini conferiscano qualità morali e carattere. I beduini attribuiscono valore a una
costellazione di qualità che potrebbero essere racchiuse nell’espressione compendiosa “codice d’onore”.
Un esempio della mancanza d’onore degli egiziani era l’insistenza nel voler stipulare contratti – per gli arabi,
spiegavano, è sufficiente la parola. La virtù araba più apprezzata è la generosità, espressa dall’ospitalità.
Nessun ospite neanche un viandante può andarsene senza essere invitato a bere il tè.

La temerarietà e il coraggio sono qualità considerate naturali negli uomini e nelle donne beduine in quanto
si accompagnano alle nobili origini. Gli uomini beduini mantengono fede ai loro valori guerreschi portando
le armi e ricorrendo anche alla violenza quando vengono sfidati o insultati. Una segregazione sessuale
troppo blanda e l’intimità che mariti e mogli mostrano in pubblico sono interpretate come segno della
debolezza degli uomini egiziani e dell’immoralità delle loro donne.

Garaba: il sangue della parentela: il concetto di sangue è centrale per l’identità beduina anche in un
secondo senso: attraverso il suo primato ideologico nel presente, come mezzo per determinare la
collocazione sociale e i vincoli personali. Gli Awlad Ali concepiscono se stessi soprattutto in termini di tribù,
sono unità ambiguamente segmentate definite dalla consanguineità o dai legami con un comune antenato
patrilineare. L’organizzazione sociale tribale è un altro punto su cui gli Awlad Ali si differenziano fieramente
dai loro vicini egiziani. Che sdegnano in quanto popolo. L’importanza del sangue nell’identità sociale è
evidente nell’identificazione dei beduini con la famiglia, il lignaggio e la tribù. I bambini assumono
l’affiliazione tribale del padre, anche se l’affiliazione della madre influenza il loro status. In caso di divorzio,
la madre non ha alcun diritto di tenersi i bambini, sebbene possa portare temporaneamente con sé i
bambini non svezzati e possa fondare un gruppo domestico distinto con i figli maschi adulti.

Molto è stato scritto sulle strette relazioni tra gli uomini, specialmente tra fratelli nelle società patrilineari e
patrilocali. Una donna conserva la sua affiliazione tribale per tutta la vita e dovrebbe schierarsi con i propri
parenti paterni nel caso in cui questi abbiano dispute con i parenti del marito. Nell’accampamento del
marito la gente si rivolge alla donna chiamandola con la sua affiliazione tribale, e lei può considerarsi una
forestiera anche dopo vent’anni di matrimonio. Le donne conservano i legami con i loro parenti paterni
anche dopo il matrimonio, per ragioni sia affettive sia strategiche. Una donna rimane dipendente dal
sostegno morale, giuridico e spesso economico di suo padre, dei fratelli e di altri aprenti maschili. Solo loro
possono garantire i suoi diritti matrimoniali. Una donna tagliata fuori dalla sua famiglia natale è vulnerabile
agli abusi del marito e della società, ma una donna sposata è ben protetta dall’appoggio dei suoi parenti
paterni. Quando viene maltrattata o offesa, può sostenere di non esser costretta a sopportare perché
dietro di lei ci sono degli uomini. Quando è arrabbiata mette qualcosa in un fagotto e se ne torna
all’accampamento della sua famiglia. Ma poiché è identificata con i suoi parenti paterni, il suo
comportamento ha effetti sul loro onore e sulla loro reputazione. I suoi parenti sono in definitiva
responsabili per lei e hanno diritto di punire tutti i suoi errori, compreso l’adulterio. Si pensa che questi
legami di parentela, sebbene strategicamente utili, siano basati sul sentimento.

Il senso di vicinanza, identificazione, interesse comune e lealtà si esprime nel modo in cui le donne parlano
dei loro parenti paterni, nei loro atteggiamenti verso le visite che fanno a casa e anche verso le visite che
ricevono dai parenti. Le donne si preoccupano di avere notizie dei loro parenti. Si precipitano fuori casa
tutte le volte che si celebra o si piange un evento. Il matrimonio presenta seri problemi di coerenza per un
sistema ideologico che antepone l’agnazione a qualsiasi altro criterio di affiliazione al gruppo. L’adesione
degli Awlad Ali a questo sistema si esprime nel disprezzo per la propensione osservata tra gli egiziani a
risiedere in unità familiari nucleari, un segno vergognoso della sopravvalutazione dei legami coniugali
rispetto a quelli agnatici. Il modo per risolvere il problema del matrimonio è di fonderlo con l’identità e la
vicinanza del sangue condiviso. Il matrimonio tra cugini paralleli patrilaterali può essere quello preferito
perché è il solo tipo coerente con le idee beduine sull’importanza dell’agnazione. La frequenza effettiva dei
matrimoni tra cugini varia in relazione a un certo numero di circostanze che sono troppo complesse per
essere esplorare qui, ma che sono state dibattute nella letteratura teorica. Le donne vedono numerosi
vantaggi in questa combinazione matrimoniale. Se sposano un parente paterno si sentono più sicure e
potenti, come mogli, perché rimangono tra le persone che hanno il dovere di proteggerle. Non dipendono
tanto dai mariti, poiché il loro diritto al sostegno deriva dal loro diritto al patrimonio comune

I legami materni e la vita familiare: oltre all’agnazione, i due legami più importanti tra gli individui sono la
parentela materna e la coresidenza. La distinzione tra aprenti materni e paterni non è sempre netta. Il
matrimonio tra cugini paralleli patrilaterali fonde legami materni e paterni. La densità dei vincoli
sovrapposti creata dal matrimonio all’interno del lignaggio e dai ripetuti scambi di donne tra due stessi
lignaggi nel corso di parecchie generazioni sfuma il problema della conformità del comportamento e del
sentimento alle regole giuridiche.

Nella società beduina i rapporti tra madri e figli sono estremamente stretti e affettuosi lungo tutta la vita.
Basato su un’iniziale dipendenza e su una successiva cura reciproca, il vincolo madre-figlio è dato per
scontato e rappresenta la sola eccezione indiscutibile e manifesta alla regola che stabilisce l’equivalenza tra
vicinanza e agnazione. Una volta che i figli son cresciuti, dopo aver vissuto ed essere giunti a identificarsi
con i parenti paterni, essi sentono l’affetto o un’unione con i parenti materni come un’estensione del loro
affetto per le madri. Se amano la loro madre, ameranno anche quelli con cui lei si identifica ed è
identificata.

L’altro tipo di relazione stretta nella società beduina è quella tra persone non imparentate che vivono
insieme. Gli Awlad Ali giustificano lo sviluppo di vincoli stretti tra individui che non sono parenti materni né
provengono dalla stessa tribù o che, sebbene siano della stessa tribù sono genealogicamente lontani.
Poiché parenti vicini nella genealogia idealmente vivono vicini, coresidenza e parentela paterna sono
fortemente associate. Il vincolo definito dal vivere insieme o dal condividere la vita si chiama ishra.
Nonostante sia caratterizzato da precarietà, richiama i legami di tipo parentale definiti da persistenti
sentimenti di vicinanza, così come dalla più o meno temporanea identificazione e dagli annessi obblighi di
sostegno e unità- il vincolo è simboleggiato dal concetto di condivisione del cibo, che nella cultura beduina
significa assenza di ostilità.

Identificazione e condivisione: avere in comune il sangue significa avere relazioni sociali strette solo perché
il sangue condiviso, nella concezione degli Awlad Ali, permette ai parenti paterni di identificarsi l’uno con
l’altro. Questa forte identificazione con i parenti paterni si manifesta in parecchi modi. In molti contesti gli
individui agiscono come se ciò che riguarda itali aprenti riguardasse anche loro; un insulto a una persona è
interpretato come un insulto all’intero gruppo di parentela, proprio come l’insulto a un parente paterno è
interpretato come un insulto a sé. Gli atti vergognosi di un membro gettano il disonore sul resto della
famiglia, proprio come ognuno beneficia delle glorie di un agnate o di un antenato patrilineare importante.
Un affronto a un individuo o un atto disonorevole da parte di una persona ha effetti sull’intero gruppo non
solo sull’individuo.
Le persone sono percepite come rappresentanti quasi interscambiabili del loro gruppo di parentela.
Quando un padrone di casa onora un ospite, è implicito che stia onorando l’interno gruppo di aprenti di
costui, il che spiega perché talvolta vengono uccise pecore per ospiti donne o per individui non
particolarmente importanti.

La forma peggiore di disordine è la morte. Non andare in un accampamento in cui è morto qualcuno se si
ha un qualche legame con lui o coi suoi parenti o coresidenti, significa recidere il vincolo. Le donne parlano
di andare a piangere con qualcuno, suggerendo che lo percepiscono come una condivisione di esperienza.
Ciò che condividono è un dolore, non solo partecipandovi, ma anche rinnovando in prima persona, in
compagnia della persona che al momento è in preda allo strazio, l’esperienza del proprio dolore per la
morte di una persona amata. Si può applicare lo stesso processo alle occasioni felici che celebrano nozze,
circoncisioni, ritorni dal pellegrinaggio e rilasci dalla prigione.
La famiglia è il prototipo delle relazioni gerarchiche. Il patriarca controlla le risorse; le persone che
dipendono da lui sono più deboli, più giovani e non controllano risorse autonomamente. Ma anche altre
relazioni all’interno della famiglia sono disuguali, per esempio quella tra fratelli maggiori e fratelli minori,
dove i fratelli maggiori hanno la precedenza. La relazione di disuguaglianza tra i sessi è di solito funzione
delle relazioni familiari che esistono tra loro. I padri hanno autorità sulle figlie e sui figli. I fratelli maggiori
hanno autorità sulle sorelle minori, sebbene, da bambini, le sorelle maggiori si prendono cura dei fratelli
minori e possan dar loro ordini.

La famiglia come modello della gerarchia sociale: il linguaggio familiare minimizza il potenziale conflitto
delle relazioni di diseguaglianza e suggerisce qualcosa in più rispetto alla semplice dicotomia
dominio/subordinazione. Esso sostituisce la complementarietà all’opposizione e introduce le potenti
nozioni di unità e identità, enfatizzando i legami tra i membri della famiglia: legami d’amore e di identità.
Indica che chi ha potere ha obblighi e responsabilità di protezione e cura del debole. I membri più deboli,
simboleggiati dal neonato indifeso dipendono da chi è forte. Questa responsabilità è motivata nel
linguaggio familiare non solo dal senso di dovere ma anche da interessamento e affetto. Due specifiche
relazioni famigliari forniscono il modello per questa estensione metaforica: padre/figlio e fratello
maggiore/fratello minore.

La relazione famigliare padre/figlio fornisce il modello per altre relazioni di diseguaglianza, compresa quella
tra anziani e giovani del lignaggio e quella tra patroni e clienti. Gli anziani del lignaggio sono tutti
riconosciuto da uno dei due termini per “fratello del padre” a meno che non siano della generazione
precedente, nel quale caso ci si riferisce loro come a un “nonno”.
Come padri, sebbene in minor misura, queste persone hanno responsabilità di fornire ai loro discendenti
l’accesso alle risorse del lignaggio e ai mezzi per sposarsi. I giovani del lignaggio contribuiscono con il loro
lavoro in quanto questo mantiene e aumenta il patrimonio che un giorno erediteranno.
Le relazioni patrono/cliente condividono elementi sia delle relazioni padre/figlio che di quelle fratello
maggiore/fratello minore. Come nel caso del padre e figlio, il patrono è responsabile dei suoi clienti, che a
loro volta dipendono da lui per le necessità fondamentali della vita e gli forniscono sia sostegno politico che
lavoro. Ma come nel caso dei fratelli, i clienti non possono succedere ai loro patroni, nonostante abbiano
un crescente coinvolgimento negli affari economici e sociali della famiglia patrona da cui derivano il loro
sostegno finanziario e a cui partecipano come partner, in base alle loro capacità.

5 – Identità/Appartenenze
La razza: un errore scientifico e un abominio sociale
Gianfranco Biondi, Olga Rickards

La nascita della biologia moderna è fissata al XVIII secolo, quando Carlo Linneo ha definito le modalità per
classificare gli esseri viventi e su quella base ha fondato la Tassonomia: la disciplina che definisce i rapporti
di parentela tra le diverse entità e dalla metà del XIX secolo anche la loro storia evolutiva. Questo sistema
vale anche per il mondo inorganico, a noi facciamo riferimento solo a quello organico. In quell’alba della
Biologia, sebbene mancasse ancora un secolo alla promulgazione della teoria evolutiva di Charles Darwin,
l’essere umano è stato considerato un animale tra gli altri.

Linneo era un creazionista ed è vissuto in un’epoca in cui era molto diffusa tra gli studiosi la credenza che
per l’essere umano si dovesse definire un regno tassonomico diverso da quelli animale, vegetale e
minerale. L’evidenza sperimentale in questo caso, la somiglianza morfologica tra noi e gli altri primati, ha
permesso a Linneo di superare il pregiudizio ideologico e di interpretare compiutamente il ruolo di
scienziato. E l’evidenza sperimentale ha consentito agli scienziati attuali di affermare che il concetto
tassonomico di razza non può essere applicato alla nostra specie: in noi, la razza è stata falsificata. Le razze
umane non esistono e l’uso del termine è scientificamente errato. La razza in Biologia non è altro che la
categoria tassonomica sottospecifica e come le altre – specie, genere, famiglia, ordine, classe, phylum,
regno e dominio – deve identificare il rapporto di parentela o antenato-discendente che unisce gli individui
o i gruppi. La gran parte delle specie viventi può essere suddivisa all’interno di razze, ma non la nostra.

Il termine razza è stato coniato nel 500 per indicare la discendenza ma è entrato nella letteratura scientifica
solo a metà 700 con l’opera histoire naturelle di Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, pubblicata tra il
1749-1789. Linneo infatti nel suo Sistema naturae non lo aveva utilizzato, preferendogli la parola varietà. La
suddivisione dell’umanità in razze rispondeva alla necessità di mettere ordine nella variabilità morfologica
osservata nella nostra specie e i caratteri prevalentemente utilizzati dagli studiosi riguardavano il volume e
la forma del cranio, posti in correlazione diretta con l’intelletto e il colore della pelle.

In epoca pregenetica, fino a metà del 900, la variabilità biologica poteva essere analizzata solo a partire
dalla morfologia ma la manifestazione di quei tratti è determinata dall’interazione tra geni e l’ambiente ed
è pertanto di natura ecologica. La morfologia consente di individuare la connessione che esiste tra le
popolazioni e gli ambienti in cui vivono. I loro rapporti ecologici appunto. Essa invece non permette di
ricostruire le relazioni di parentela tra i vari gruppi umani, che è il compito della Sistematica. La diversità
ambientale induce morfologie differenziate anche in presenza di rilevanti somiglianze genetiche e sono
queste ultime che rendono conto del livello di parentela tra i popoli.

La Tassonomia serve a descrivere la sequenza parentale antenato-discendente e la Razziologia costruita nel


tempo su base morfologica, ha fallito questo compito nell’uomo. Diversamente, l’Ecologia rende conto
dell’indissolubile legame tra la vita e il luogo dove essa si è sviluppata. L’Ecologia occupa il medesimo livello
di importanza della Tassonomia ma è un’altra cosa. La Razziologia non ci ha fornito il quadro della parentela
tra le popolazioni umane, come il suo compito scientifico avrebbe imposto, ma quello della condivisione
ambientale. Questa è la spiegazione teorica dell’affermazione le razze umane non esistono. La falsificazione
scientifica della razza è stata possibile solo nella seconda metà del 900, dopo che la Genetica si è affermata
come disciplina biologica. Durante gli anni 60 del 900 la Genetica e la Biologia molecolare si sono sviluppate
come scienze autonome e la loro influenza sugli studi antropologici ha determinato la nascita
dell’Antropologia molecolare. Il nuovo approccio metodologico è stato da subito rivolto all’analisi del
paradigma razziale per verificarne la consistenza scientifica.

Nel corso dell’800 e nella prima metà del 900 la Razziologia purtroppo è stata usata solo per ordinare
scientificamente la variabilità osservata nell’umanità, ma anche per definire la gerarchia di tipo intellettivo
e morale all’interno della quale disporre i popoli. La razza è assurta a ruolo di alibi e di alibi autore ole in
quanto spacciato per scientifico, per il dominio dei popoli “superiori” su quelli “inferiori”: etichette decise
sempre da noi europei o di origine europea. In Italia il fascismo ha eretto a pratica il razzismo biologico per
giustificare nell’opinione pubblica la persecuzione antisemita e la guerra di dominio coloniale.

Solo alla fine del secondo conflitto mondiale è iniziato nel mondo occidentale un movimento al più alto
livello istituzionale per chiarire e denunciare l’alibi pseudo-scientifico del razzismo. E che la Razziologia era
stata costruita su tratti esteriori del corpo la cui genesi concorrono sia le informazioni contenute nel DNA
che l’ambiente, e la loro trasmissione ereditaria permette di risalire con precisione al territorio a cui si sono
adattate le popolazioni, ma con scarso successo ai loro rapporti di parentela. L’uomo non può essere
suddiviso in categorie discrete perché non esistono e non sono esistite popolazioni geneticamente
omogenee o pure. Se le razze fossero delle reali categorie tassonomiche permetterebbero di ricostruire la
filogenesi delle popolazioni umane secondo lo schema antenato-discendente. Il concetto di razza fallisce
questo scopo e consente solo di tracciare la storia ecologica dell’umanità. Il concetto di razza deve essere
rifiutato non tanto per le sue improprie contaminazioni razziste, ma perché, come dimostrato dalla ricerca
empirica, esso non ha valore scientifico per analizzare la variabilità biologica della nostra specie.
L’Etnia e le minoranze etniche
Anne-Christine Taylor, Patrick Williams, Jean-Paul Razon

Il concetto di Etnia: il termine etnia designa un insieme linguistico, culturale e territoriale di una certa
grandezza essendo il termine tribù generalmente riservato a gruppi di dimensioni più ridotte. L’idea di
etnicità alimenta una rigogliosa letteratura che ci restituisce la portata reale della sfida politica che essa è
nel frattempo diventata; ma il passaggio da etnia a etnicità è lontano dall’essere semplice, tanto sul piano
della teoria quanto su quello della pratica. Derivata dal greco ethnos, neolatinizzato, poi francesizzato e
anglicizzato, l’espressione etnia resta per molto tempo in uso esclusivamente ecclesiastico. Essa denota, in
opposizione ai cristiani, i popoli pagani o gentili, che nel linguaggio secolare si chiameranno nazioni o
popoli, poi a partire dal XIX secolo, razza e tribù, mentre alla fine del XVIII secolo la scienza incaricata della
loro descrizione assume il nome di etnologia o etnografia. Agli inizi del XX secolo, a questi termini fanno
concorrenza diversi neologismi come il francese ethnie o i termini tedesco etnicum ed ethnikos.

Nazione è ormai destinato agli “Stati civilizzati” dell’Occidente, popolo in quanto soggetto di un destino
storico è troppo nobile per i selvaggi, razza basata ora sui criteri puramente fisici è troppo generale. L’etnia
si definisce perciò come una somma di tratti negativi. Il suo emergere risponde così alle esigenze di
inquadramento amministrativo e intellettuale della colonizzazione. Mentre in Germania e nei Paesi Slavi e
nell’Europa del Nord i derivati di ethnos mettono l’accento sul sentimento di appartenenza a una
collettività, in Francia il criterio determinante dell’etnia è la comunanza linguistica. Il sostantivo non esiste
in inglese, l’espressione ethnic group è di recente formazione, e designa nello specifico una minoranza
culturale. Tuttavia, l’espressione tribe o people che l’inglese continua a utilizzare, partecipa bene al
medesimo approccio naturalista reificante.

Gli africanisti soprattutto hanno preso coscienza che le etnie definite tradizionali sono delle creazioni
coloniali, imposte tramite traduzioni arbitrarie, sono linguaggio dotto, degli stereotipi diffusi nelle
popolazioni vicine. Ci si è accorti che la cristallizzazione di “etnie” rinvia sempre a dei processi di
dominazione politica, economica o ideologica di un gruppo sull’altro. Il termine “etnia” non designerebbe in
definitiva che un certo livello di organizzazione sociale, di cui niente giustifica l’enorme privilegio
epistemologico e ancor meno la reificazione. Sempre motivati dalla denuncia delle ingiustizie sociali ed
economiche, i movimenti etnistici hanno tuttavia adottato la visione sostantivista del fatto etnico, che la
scienza ora si sforza di sfidare l’intero problema è capire se l’etnicità rivendicata è di natura veramente
distinta da quella che le è imposta. Per alcuni, le ideologie etniciste non servono che a chiudere le
minoranze nell’arcaismo. Ricercatori più sensibili ai valori del pluralismo culturale, vedono in esse, al
contrario, un formidabile serbatoio di alternative ideologiche nella misura in cui la definizione di etnicità è
ormai forgiata dall’interno, anziché essere attribuita dall’esterno.

Etnie minoritarie: problemi antropologici: associate l’una all’altra, le nozioni di “etnia e di “minoranza”
evocano quelle legate di gruppo e di relazione. Il gruppo può esser definito secondo criteri obiettivi interni
(comunanza di origine, di cultura, di religione, legami di parentela che uniscono i membri tra di loro) o
esterni (percorso storico comune, condizione all’interno della società globale, ruolo economico, ecc.) e
secondo criteri soggettivi che possono ugualmente essere interni (sentimento di appartenenza, legami di
solidarietà che uniscono i membri, ecc.) o esterni (controllo imposto sul gruppo dalla società circostante).
Esistono minoranze che sono diventate tali sul loro stesso territorio (indiani dell’America del Nord), altre
che, in origine, erano straniere nel paese in cui vivevano, come i discendenti dei deportati (neri d’America),
i rifugiati o gli esiliati (originari del Sudest asiatico) o gli immigrati (lavoratori stranieri dei paesi
industrializzati). L’immigrazione può costituire una risposta a una situazione economica o politica. Certe
minoranze s’identificano con il territorio che esse occupano e non sono “minoritarie” se non politicamente
(curdi, sahrawi): c’è una “nazione” o una “nazionalità”, ma non uno Stato. Negli altri casi, la relazione con
un territorio, statale o no, è inerente all’esistenza minoritaria: gli albanesi che sono per definizione
maggioritari in Albania, e maggioritari nella provincia del Kosovo, costituiscono una delle minoranze
jugoslave. Esistono infine delle minoranze molto disperse, senza base territoriale comune (zingari).
All’interno di uno stesso paese si potranno trovare delle minoranze aventi la stessa origine dei membri della
società dominante o aventi un’origine differente: in Giappone, gli ainu sono emersi dallo strato di
popolamento più antico, i barakumin sono degli esclusi della società giapponese, i coreani sono dei
lavoratori immigrati. Il gruppo minoritario non poggia la sua esistenza sull’opposizione a gruppi equivalenti,
ma sul suo rapporto con la società globale, che non si dichiara di natura etnica.
L’etnia minoritaria è considerata dalla società globale come portatrice di caratteristiche che si discostano
dalla norma che essa definisce, incarnandosi spesso nello Stato-nazione.

Etnie minoritarie: problemi giuridici e politici: non esistono etnie minoritarie in sé; esse sono tali in
rapporto ad altri gruppi ai quali sono associate all’interno di un insieme retto dalle stesse leggi (Stato).
Questa incorporazione è spesso all’origine delle difficoltà di affermazione e di esistenza: le etnie minoritarie
soffrono per l’usurpazione e gli abusi della società globale essendo i loro propri interessi subordinati agli
scopi egemonici degli Stati-nazione. Questa dominazione culturale, economica e politica si traduce nella
negazione dell’identità delle etnie minoritarie, nel controllo dei loro territori, delle loro risorse, perfino
nello spostamento dei loro membri.

Riguardo le leggi o i comportamenti, alcuni gruppi (pigmei,) sono oggetto di discriminazioni diverse, da
parte di tutti o di una parte dei membri della società circostante o sono sottoposti a regolamenti “nazionali”
che urtano decisamente contro le loro tradizioni e impediscono il funzionamento armonioso del loro
percorso economico e sociale (popolazioni nomadi, maasai del Kenya). Esistono altre minoranze che,
disponendo soltanto di un’autonomia nominale, sono esposte a spoliazioni territoriali o a forme di
assoggettamento che minacciano la loro esistenza (indiani dell’Amazzonia) o rivendicano la restituzione di
tutto o parte dei loro antichi territori (kanak della Nuova Caledonia, aborigeni australiani). La natura e la
portata delle rivendicazioni delle etnie minoritarie possono variare molto, in funzione degli oltraggi inflitti ai
loro diritti, dei tempi recenti o remoti in cui è avvenuta la loro integrazione forzata nella società globale ecc.
queste rivendicazioni possono limitarsi al conseguimento di garanzie giuridiche di fronte ad alcune minacce,
possono mirare alla concessione di diritti particolari, in materia economica, sociale, politica, o al contrario, a
un’uguaglianza di diritti con i cittadini dello Stato-nazione dominante; esse possono infine essere
apportatrici di un’esigenza più radicale, di autonomia o di indipendenza.

Una spiegazione dei significati sessuali


Sherry Beth Ortner, Harriet Whitehead

Da tempo è riconosciuto che i “ruoli sessuali” – la diversa partecipazione degli uomini e delle donne alle
istituzioni sociali, economiche, politiche e religiose – variano da cultura a cultura. Il grado e la qualità
dell’asimmetria sociale tra i sessi sono variabili tra le culture. Ciò che non è stato universalmente
riconosciuto è il pregiudizio che il maschio e la femmina sono oggetti naturali piuttosto che costruzioni
culturali. Questo testo adotta un presupposto radicalmente diverso ciò che il genere è, ciò che gli uomini e
le donne sono, quali tipi di relazioni si instaurano o si dovrebbero instaurare tra loro, tutte queste nozioni
non riflettono semplicemente dei dati biologici o sono elaborate a partire da questi ultimi, ma sono
soprattutto prodotti dei processi sociali e culturali. Alcune culture sostengono che le differenze tra il
maschio e la femmina sono quasi del tutto biologicamente fondate, mentre altre danno alle differenze
biologiche pochissima enfasi. Fino a non molto tempo fa in pochi si erano preoccupati di identificare in
modo sistematico i processi culturali di sesso e genere.

Vari autori cominciano con l’interrogarsi su che cosa significhino maschio e femmina, sesso e riproduzione
in contesti sociali e culturali dati, piuttosto che assumerne in primo luogo, che si conosca il loro significato il
genere, la sessualità e la riproduzione sono considerati simboli e come tutti i simboli vengono investiti di
significato dalla società in questione.
Caratteristiche generali delle ideologie di genere: Non tutte le culture elaborano nozioni di virilità e di
muliebrità in termini di dualismo simmetrico. Nella maggior parte dei casi, le differenze tra uomini e donne
sono proprio concettualizzare in termini di insiemi di opposizioni binarie metaforicamente associate.
Inoltre, ci sono opposizioni che si ripetono con una certa frequenza dal punto di vista transculturale nelle
ideologie di genere, e in questa sede si vuole richiamare l’attenzione riflettere su alcune di esse. In vari
studi si presenta una versione dell’opposizione “natura-cultura”. Strathern e Llewelyn-Davies individuano
echi di questa tendenza nella lor documentazione, entrambe le autrici suggeriscono che la dimensione più
rilevante circa l’opposizione tra i sessi tra le popolazioni da esse analizzate (popolazione della Nuova Guinea
e i masaai africani) è il contrasto tra ciò che Strathern chiama “interesse personale” e il “bene sociale”. Le
donne sono considerate inclini a un maggior coinvolgimento negli interessi privati e particolaristici, che
giovano a loro stesse, e forse ai loro figli, senza prendere in considerazione più vaste conseguenze sociali,
mentre si ritiene che gli uomini abbiano un orientamento più universalistico, più interessato al benessere di
tutta la società. È probabile che questa associazione esista in un gran numero di culture in tutto il mondo e
sia collegata a una distinzione sociologica tra sessi assai diffusa: gli uomini controllano la “sfera pubblica” in
cui si manifestano e si amministrano gli interessi “universalistici” e le donne sono collocate o relegate alla
“sfera domestica”, incaricare del benessere delle loro famiglie.

Un’ulteriore variazione dei temi che scaturisce dall0interrelazione delle sfere d’azione degli uomini e delle
donne si può notare nella tendenza generale a definire gli uomini in termini di categorie di status e di ruolo
(guerriero, cacciatore, statista, anziano e simili) che hanno poco a che fare con le loro relazioni con le
donne. Le donne al contrario tendono ad esser definite con appellativi che rimandano ai ruoli parentali
(moglie, madre, sorella) che risultano incentrati sul rapporto che esse hanno con gli uomini. In ciò che
sembra essere un’estensione del modo androcentrico di definire le donne dal punto di vista relazionale, si
scoprono molti casi in cui esiste una chiara separazione concettuale tra un “mondo degli uomini” e un
“mondo dei rapporti eterosessuali”. Associati a questo modello sono i temi della riproduzione unisessuale
maschile o almeno il controllo rituale maschile sulla riproduzione femminile. Anche i rapporti omosessuali
tra individui maschi tendono a essere una questione culturale, sia come ideale positivo sia come minaccia
culturalmente enfatizzata.

Gli stessi assi che dividono e distinguono il maschio dalla femmina, intersecano anche le categorie di
genere, determinando al loro interno distinzioni e gradazioni sia Strathern che Shore spiegano chiaramente
questo modello. Strathern rileva una serie di opposizioni che distinguono il maschio dalla femmina: non
soltanto la distinzione tra l’interesse per il bene sociale e una tendenza verso l’interesse personale privato,
ma anche distinzioni parallele tra investitori e consumatori, prestigioso e “spazzatura”, successo e
insuccesso. Queste stesse categorie regolano anche gli status tra gli uomini (uomini “grandi” o prestigiosi vs
uomini “spazzatura”), e almeno in certe circostanze tra le donne (coloro che contribuiscono agli
investimenti dei loro mariti vs coloro che consumano le risorse famigliari e basta). Molti degli assi relativi
alle distinzioni di genere in realtà non sono esclusivi della sfera di genere, ma sono condivisi da altre
importanti sfere della vita sociale.
6 – Mobilità/Migrazioni
Lo sguardo comparativo dell’antropologia ha messo in luce molteplici forme di mobilità territoriale
sviluppatesi nel corso del tempo, modi di adattamento a specifiche condizioni storiche ed ecologiche non
esclusivamente riducibili alla figura del migrante internazionale o del rifugiato dominanti nelle cronache
attuali. Celebri studi sono stati dedicati a popolazioni il cui modo di vita si è strettamente legato alla pratica
della pastorizia nomade o a comunità itineranti di cacciatori-raccoglitori. In questi casi, sistemi produttivi
fondati sulla mobilità dei gruppi costruiscono anche uno specifico senso del tempo e dello spazio, sistemi di
rappresentazioni, forme di relazioni sociali e familiari, nozioni di persona.

Questa specifica attenzione disciplinare permette di relativizzare un ordine “sedentario” reso oggigiorno
universale dalla generalizzazione dello Stato-nazione come unità politica standard del sistema
internazionale, in cui confini e spazi chiusi in luogo di forme territoriali aperte definiscono l’identità delle
persone, secondo un’equazione che fa coincidere territorio, Stato, popolazione. In questo processo di
universalizzazione, dispiegatosi nel corso del XX secolo, gli antropologi hanno prestato particolare
attenzione proprio a quei gruppi marginali che hanno costruito forme di giudizi e ostilità proiettata su
questi ultimi dal sistema degli Stati, si pensi solo alle accuse di improduttività, irrazionalità economica o in
altri casi di sovra-sfruttamento delle risorse naturali rivolto ai pastori nomadi, con conseguenti politiche
coercitive volte alla loro sedentarizzazione.

È sempre un ordine sedentario quello che va oggigiorno a determinare le figure contemporanee del
migrante e del rifugiato, che proietta su queste le proprie rappresentazioni, che ne regolamenta le forme
accettate e non accettate di mobilità. La soluzione proposta è quella di focalizzarsi sugli emigranti stessi,
sulle loro scelte e sui percorsi costruendo un’analisi di rete capace di comprendere il complesso sistema di
relazioni che congiunge luoghi e ambienti diversi in cui gli emigranti sono coinvolti. Questo campo di
riflessione costringe a mettere in discussione i concetti i base dell’analisi socioculturale, secondo una
prospettiva basata sul movimento.

L’emigrazione e lo studio degli africani in città


Philipp Mayer, Iona Mayer

I sistemi urbani africani possono e dovrebbero essere studiati come sistemi urbani in se stessi
indipendentemente dal fatto che i loro membri emigrati siano reclutati da un ambiente rurale (tribale) in
cui continuano ancora a disperdersi. Un minatore africano è un minatore. Le sue attività sul luogo di lavoro
e le relazioni che in questo campo egli stabilisce devono essere considerate in rapporto a un contesto
industriale e non a un contesto tribale. Per lo studio delle città africane il principio operativo di ignorare ciò
che accade al di fuori sembrerebbe essere ineccepibile.

Sembra evidente che in regioni di emigrazione di lavoro ci sia motivo di studiare la stessa emigrazione come
un elemento supplementare per lo studio delle città e dei sistemi urbani. Che i medesimi individui possano
operare a una estremità come membri del sindacato e all’altra estremità come membri di gruppi di età, è
un fatto che il senso comune ci impedisce di ignorare. Lo studio delle strutture durevoli sembra perciò
richiedere l’analisi di questo fattore supplementare, se si vuole richiedere giustizia alla realtà sociale. Il
fenomeno sociale dell’emigrazione diffusa deve avere delle implicazioni teoriche su cui è necessario
lavorare.

Come ha sostenuto Nadel, l’unità diagnostica di una struttura propriamente detta risiede nel fatto che tutti i
ruoli in essa definiti hanno delle relazioni logiche tra di loro. Sarebbe difficile scoprire dei collegamenti logici
tra tutti i ruoli tribali e tutti i ruoli urbani di tute quelle diverse persone che circolano attraverso il tipo di
campo che abbiamo descritto, e in modo particolare in questo caso, dal momento che la città attinge
emigranti da una serie di fonti diverse e separate. In una situazione come questa, l’intero campo di
emigrazione consiste nella città più tutte quelle aree da cui essa attrae emigranti. I flussi migratori
normalmente vanno e vengono attraverso i confini degli Stati. Sembra allora che non sia ragionevolmente
possibile sperare di studiare un campo che comprenda la città più l’hinterland rurale, con la sua circolazione
di personale, come una “struttura sociale”, e che quindi sia giustificato ricercare un metodo alternativo di
approccio. Un metodo alternativo sarebbe quello di iniziare dallo studio degli emigranti stessi, tracciandone
le reti di relazione dal punto di vista personale o egocentrato, osservando le loro parti nei vari sistemi
strutturali.

Probabilmente il luogo in cui è più facile e pratico iniziare lo studio degli emigranti è la città, per al più
densa concentrazione di emigranti rispetto alla parte rurale e per la disponibilità di gruppi differenti
(provenienti da diversi settori rurali) utile per l’analisi comparativa.

Modelli di alternanza e di cambiamento: in alcune ricerche urbane i doppi ruoli dell’emigrante di lavoro
sono stati ricomposti sul piano teorico con l’uso del concetto di alternanza o di movimento avanti e indietro
nel tempo. Così Ego, che si trova ora in città, quest’anno svolge ruoli nella società urbana; il prossimo anno,
tornerà in campagna e svolgerà ruoli nella società tribale, e così via.
In esplicito contrasto con i modelli dell’alternanza si è posto un altro tipo di modelli che possiamo chiamare
del “cambiamento unidirezionale”. Qui l’idea è che l’emigrante sotto influenza della città, possa
gradualmente abbandonare insieme sia i ruoli che le norme tribali.
Risulta implicata una differenza tra i due modelli, poiché l’uno si fonda sulla “cultura” e l’altro sulle
“relazioni sociali”. Il modello di alternanza postula un’alternanza tra campi sociali. È questa una delle
ragioni per cui il secondo modello indirizza il ricercatore più verso lo studio sincronico e il primo più verso
quello diacronico.

Un individuo anche quando si trova in citta, può ancora comportarsi in modo alternante: può muoversi a
seconda della situazione contingente; può seguire volentieri modelli tribali nella sua vita domestica urbana,
anche se non può farlo sul lavoro e anche s enei rapporti con la direzione bianca delle miniere non
approverebbe un sistema di rappresentanza tribale. Questo principio operativo è stato definito “selezione
situazionale”: l’individuo seleziona modelli di comportamento appropriati all’insieme di relazioni in cui la
situazione lo pone in un dato momento. Un individuo può essere alternativamente “urbanizzato” in alcune
situazioni e “tribale” in altre.

Nello studio di un qualsiasi gruppo di emigranti in città, dunque, un problema cruciale sembrerebbe essere
quello di determinare quanto l’attrazione dell’hinterland si indebolisca, ammesso che ciò si verifichi. Nella
misura in cui si indebolisce, la personalità sociale dell’emigrante cambia in qualche modo. Se si indebolisce
a sufficienza, il suo ruolo come emigrante si esaurisce. Il concetto di alternanza, in entrambe le forme a cui
abbiamo accennato, non è realmente sufficiente a dar conto di come gli individui nati in campagna possano
diventare abitanti della città nel senso dello spostamento del centro di gravità delle loro relazioni personali
nelle città. Il concentrarsi sui soli legami intraurbani non permette di valutare per induzione quanto
l’attrazione dell’hinterland possa essersi indebolita. Il coinvolgimento attivo nei sistemi sociali urbani non è
indice di un non coinvolgimento nei sistemi extraurbani.

Emigranti e “africani urbani”: in ciò che è stato detto a proposito del concetto di urbanizzazione e
dell’abbandono o del rifiuto dei legami extraurbani, è implicita un’antitesi tra due tipi di persone che vivono
fianco a fianco in città: l’emigrante e l’africano “urbano”. L’opposizione tra africani urbani ed emigranti non
è rilevante in tutte e situazioni. La loro importanza come gruppi di riferimento è ridotta al minimo sul lavoro
e quando si spostano nella parte bianca della città; raggiunge il massimo nelle situazioni in cui si trovano
interamente tra compagni africani, durante il tempo libero, nei luoghi in cui dormono e conducono la loro
vita sociale. Mentre alcuni nascono “urbani” e altri conquistano l’”urbanizzazione”, di nessuno si può dire
che l’urbanizzazione sia loro imposta. C’è un potere di scelta; alcuni tra gli emigranti cominciano a
cambiare, ma altri volontariamente si incapsulano in qualcosa che è il più vicino possibile alle relazioni
tribali da cui la loro emigrazione avrebbe potuto liberarli. Lo studio dell’urbanizzazione degli emigranti è lo
studio di tali scelte e delle cause determinanti che le sottendono.

Da rifugiati a cittadini
Aihwa Ong

Dinamiche dello stato e ambiguità dei rifugiati: di sicuro è stata una delle figure più scottanti della fine del
XX secolo, ma nonostante i reportage giornalistici e le storie di vita dei rifugiati, poca attenzione è stata
posta allo studio delle loro esperienze di dislocamento, regolamentazione e inserimento all’estero. Si presta
invece molta più attenzione alla minaccia che essi sembrano costituire per lo Stato-nazione. Anche gli
antropologi hanno adottato un modello di opposizione tra rifugiato e Stato, considerando la condizione di
rifugiato come una condizione sociale che è fondamentalmente opposta alla nozione di cittadino radicato e
che rappresenta quindi una sfida alla sovranità dello Stato e all’ordine globale degli Stati-nazione.

Questo accento sulla nazione e su ciò che è altro rispetto a essa tende a eclissare i processi reali che
ritrasformano i rifugiati in cittadini. È vero, ci sono milioni di rifugiati abbandonati nelle terre di nessuno,
ma ci sono anche rifugiati che ogni giorno vengono reinseriti in nuovi paesi. I singoli stati non reagiscono ai
flussi in modo standard, ma nella loro risposta alle pressioni dei rifugiati per entrare nel paese si rifanno a
politiche precedenti e a interessi del momento. Dopo la seconda guerra mondiale le politiche americane in
tema di rifugiati mostrano un’inversione nello status morale dei rifugiati provenienti dai vari paesi. Invece di
considerare i rifugiati e i cittadini come del tutto contrapposti e definitivamente inconciliabili, questo studio
analizza il modo in cui il rifugiato e il cittadino costituiscono l’effetto politico di processi istituzionali
profondamente impregnati di valori socioculturali. Quali sono le istituzioni e i meccanismi sociali che
trasformano le persone in rifugiati e in che modo regolamentano e riterritorializzano gli sfollati?

La maggior parte delle persone tende a far coincidere la cittadinanza con il possesso di un insieme di diritti.
Questa nozione di cittadinanza come nazionalità è fondamentale e distingue i cittadini dagli stranieri che
vivono senza permesso in un dato paese e da latri residenti illegali. L’imperativo morale di offrire asilo ai
rifugiati è stata una caratteristica della politica degli USA fin dal 1945 – e contemporaneamente una rottura
rispetto alle politiche precedenti che privilegiavano la razza, la lingua e l’assimilazione rispetto alla
preoccupazione per le sofferenze umane. Dal 1945 l’ascesa americana a potenza globale ha costretto il
Congresso ad abbandonare le politiche isolazionistiche e a compensare il vergognoso abbandono in cui
erano stati lasciati i rifugiati ebrei negli anni antecedenti alla guerra.

Nel 1965, quando divenne chiaro che i rifugiati dai paesi comunisti erano nuovi immigrati e non semplici
esiliati politici che prima o poi sarebbero rientrati nel loro paese, i rifugiati furono formalmente riconosciuti
come categoria speciale di immigrati. Lo status di rifugiato secondo una definizione rigorosa, viene
conferito solo quando le richieste di ingresso vengono presentate al di fuori degli USA, ai funzionari
dell’immigrazione che si trovano in stati terzi. Questa politica ha fatto sì che dagli anni 50 a oggi, più del
90% dei rifugiati ammessi negli USA provenissero dai paesi comunisti. Tale cortesia calcolata ha sfavorito gli
esuli politici provenienti da paesi come Haiti, El Salvador o il Cile. Così molti di quei futuri rifugiati sono stati
costretti a entrare nel paese illegalmente come stranieri e a chiedere asilo assoggettandosi in questo modo
alla discrezionalità dei dirigenti del servizio immigrazione, da sempre incaricato di mantenere sigillati i
confini.

Amministrazioni successive hanno cercato di trasformare chiunque arrivasse dai regimi comunisti in un
combattente per la libertà. Questo fervente anticomunismo provocò un aumento significativo delle quote
fissate per gli immigrati provenienti dall’Asia e dall’Africa che rientravano nel programma di riunificazione
familiare del 1965. Molti cinesi furono così finalmente in grado di lasciare la cosiddetta Cina Rossa per
raggiungere, dopo una separazione durata diverse generazioni, le proprie famiglie residenti negli USA. Ma
nel momento in cui i rifugiati decidevano di diventare residenti permanenti, perdevano la loro aura di
combattenti per la libertà. Nel corso degli anni 70 l’immagine dei rifugiati come attivisti politici contro il
comunismo globale iniziò a sbiadire e nel clima di crescente distensione si prestò maggiore attenzione al
controllo dell’afflusso di rifugiati che finirono per rappresentare un pericolo più che un’opportunità. Persino
i rifugiati provenienti dai paesi comunisti avevano perso l’aura morale che li aveva contraddistinti in
passato, e i nuovi migranti reggevano male il confronto con l’élite intellettuale europea che, verso la metà
del 900, era sfuggita al nazismo, al comunismo e alla guerra. I rifugiati vennero sempre più visti come
effetto secondario di conflitti regionali e di economie sottosviluppate che sembravano aver ben poco a che
fare con gli interessi americani. Diversi organismi statali hanno avuto un ruolo centrale nella gestione dei
rifugiati e quegli stessi organismi attraverso i loro obiettivi, le loro strategie e le loro pratiche, hanno finito
per plasmare le norme in base alle quali pensare e trattare i rifugiati.

7 – Globalizzazione
All’inizio degli anni 90 del secolo scorso il termine globalizzazione ha alimentato due generi di rilievi: chi ne
sottolineava la novità e col termine intendeva marcare una frattura storica occorsa in quel periodo, in virtù
dell’effetto combinato dell’espansione globale del capitalismo finanziario, delle innovazioni tecnologiche
nel sistema dei trasporti e delle telecomunicazioni e dei processi di deregolamentazione degli spazi statali;
chi ne sottolineava invece le continuità, in forma di nuova accelerazione o nuova fase, con il processo
storico di espansione del capitalismo su scala globale. Il dibattito antropologico non ha in questo fatto
eccezione. In questo dibattito sono riecheggiati perlomeno tre assi di analisi, ripresi nella discussione
sviluppata da Jean-Paul Loup Amselle.

1. Il tema delle trasformazioni: una disciplina che si è specificatamente occupata delle società extra
occidentali collocate entro un quadro generale di tradizione, e per lungo tempo si è definita
secondo questa linea di demarcazione, non poteva che riflettere sui cambiamenti sviluppatisi a
partire dall’ampio ridisegno delle forme di integrazione di ogni società locale entro un contesto più
ampio prodottosi coi fenomeni legati alla globalizzazione.
2. Il tema degli oggetti di studio: l’accelerazione dei fenomeni di globalizzazione ha reso più
difficilmente definibili i tradizionali oggetti di studio degli antropologi: comunità e gruppi locali,
villaggi, gruppi etnici e tribali, tutti diluiti entro contenitori quali le nazioni o i rapporti
transnazionali.
3. Il tema della metodologia: anche l’ultimo rifugio delle definizioni più tradizionali di antropologia, la
pratica della ricerca sul campo in contesti specifici e circoscritti come carattere distintivo della
disciplina, è sfidata dalle accelerazioni globali e dalla mobilità assunta dai soggetti studiati.

Storia dello zucchero


Sidney Wilfred Mintz
La maggior parte della gente nella regione caraibica, discendente della popolazione aborigena amerinda e
di coloro che vennero nei Caraibi dall’Europa, dall’Africa e dall’Asia, vive in zone rurali e si dedica
all’agricoltura. Le popolazioni caraibiche si sono sempre trovate coinvolte in un mondo più vasto di quello
che si presentava alla loro esperienza immediata. La regione caraibica, infatti, è stata sin dal 1492 impigliata
nella matassa del controllo imperiale filata da Amsterdam, Londra, Parigi, Madrid e in altri centri del potere
mondiale europeo e nordamericano. Colui che lavora nei settori rurali di queste piccole società insulari è
inevitabilmente propenso a vedere tali reti di controllo e di dipendenza dal punto di vista dei Caraibi:
guardando al di là della vita locale piuttosto che all’interno di essa. Questa prospettiva dall’interno, ha gli
stessi svantaggi di quella europea tipica degli osservatori della passata generazione.
Facendo ricerca nei Caraibi ci si richiede in quali modi il mondo esterno e quello europeo siano diventati
interconnessi o addirittura congiunti; quali forze abbiano mantenuto questa interdipendenza e come i
profitti fluissero nella direzione stabilita da coloro che esercitavano il potere. Nel caso dei Caraibi essi sono
stati per lungo tempo prodotti tropicali: spezie (zenzero, pepe di Giamaica, noce moscata e macis), basi per
bevande (caffè e cacao) e soprattutto zucchero e rum. Il bene richiesto in modo particolare da tutte le parti
del mondo e in tutte le epoche è stato lo zucchero; un prodotto che ancora oggi sembra mantenere una
posizione di dominio nel settore commerciale dei dolcificanti. Caraibi hanno sempre avuto una parte
importante nell’economia mondiale di questo prodotto. Quando si cerca di mettere in relazione il consumo
con la produzione per collegare la colonia con la metropoli ci si scontra con la possibilità che l’una o l’altra
sfugga dalla messa a fuoco. Sia che uno si concentri il più possibile sull’Europa per comprendere meglio le
colonie come produttori e l’Europa come consumatore o viceversa, l’altra controparte nella relazione
sembra meno chiara. Lo zucchero non era prodotto per i Portoricani: essi consumavano soltanto una
frazione del prodotto finito. Portorico aveva prodotto canna da zucchero per 4 secoli sempre
essenzialmente per consumatori residenti altrove, a Siviglia o a Boston o in qualche altro posto. Eppure nei
Caraibi lo zucchero era consumato dappertutto. La gente masticava la canna ed era esperta non solo dei tipi
che meglio si addicevano a questo uso ma anche su come masticarla. La gente riusciva sempre ad allungare
le mani su alcune e le mangiava appena colte, quando sono migliori. Era un nutrimento quasi giornaliero
per i bambini per i quali raccattare qualche pezzo di canna rappresentava un vero e proprio festino.

Nessuno pensava a come da quelle fibrose e gigantesche canne si potesse giungere a ottenere il cibo bianco
e granuloso che chiamiamo zucchero. Ciò di cui la popolazione locale era consapevole era il fatto che
esisteva un mercato dello zucchero; sebbene anche più della metà fosse analfabeta, essi avevano un
interesse comprensibilmente vivo per i prezzi dello zucchero sul mercato mondiale. Nel corso dei diversi
secoli, la produzione saccarifera mondiale ha mostrato e ancora mostra la più notevole curva di crescita tra
tuti i prodotti alimentari apparsi sul mercato mondiale. Fu solo quando cominciai a conoscere meglio la
storia caraibica e le relazioni tra produttori nelle colonie e banchieri, imprenditori e gruppi diversi di
consumatori nella metropoli che cominciai a domandarmi che cola la “domanda” realmente fosse, fino a
che punto potesse essere considerata come naturale e che cosa si intendesse con parole come “gusto”,
“preferenza” e “buono”. Gli abitanti di Barrio Jauca non erano agricoltori per i quali la produzione di beni
agricoli costituiva un fatto commerciale, né erano contadini tradizionali che aravano un suolo che era loro o
che potevano trattare come fosse loro e in base a questi caratteri definirsi nei termini di uno stile di vita
particolare. Erano braccianti agricoli che non possedevano né la terra né alcun’altra proprietà produttiva e
che dovevano vendere il loro lavoro per mangiare. Erano dei lavoratori salariati che vivevano come operai e
lavoravano in una fabbrica costituita dal campo. Costoro compravano nei negozi quasi tutte le cose di cui
avevano bisogno e queste cose provenivano per la maggior parte da altri luoghi. Tutto ciò che
consumavano era stato prodotto da qualcun altro. Al mistero che accompagna quelle trasformazioni
tecniche si deve aggiungere il mistero che accompagna la divisione della manodopera per mezzo della
quale esse furono compiute. Quando i luoghi della manifattura e del consumo sono separati in termini di
spazio e di tempo, quando i produttori e i consumatori sono sconosciuti gli uni agli altri, come i processi di
produzione e d’uso stessi. Il mistero diventa ancora più profondo.

Il mistero non era semplicemente tecnico, ma si riferiva anche al fatto che le persone completamente
sconosciute le une alle altre erano state legate attraverso lo spazio e il tempo non solo da connessioni
politiche ed economiche ma anche dalla catena di legami mantenuta dalla loro produzione. Il come e il
perché lo zucchero abbia raggiunto una posizione di eccezionale importanza presso le popolazioni europee
che un tempo quasi non lo conoscevano, rimangono nonostante tutto ancora poco chiari. Quella fonte di
dolcezza legò l’Europa a diverse regioni coloniali dal XV secolo in poi, mentre il passare dei secoli non
faceva altro che sottolineare ancora di più la sua importanza anche quando le politiche cambiavano. Poiché
lo zucchero sembra soddisfare un particolare desiderio è importante comprendere quali elementi siano alla
base della sua domanda: come e perché aumenti e in quali condizioni ciò non avvenga. Per rispondere a
questi quesiti in un contesto storico specifico prenderò in considerazione la storia dello zucchero in Gran
Bretagna tra il 1650, quando cominciò a essere un prodotto relativamente comune, e il 1900 quando lo
zucchero si era ormai stabilito come parte costante della dieta di ogni famiglia operaia.

Verso il 1680 subito dopo aver sconfitto commercialmente i Portoghesi prima e i Francesi poi, gli Inglesi
abbandonarono i mercati continentali appena conquistati per concentrarsi meglio sul loro mercato interno
in espansione. Le importazioni inglesi di zucchero superarono sempre le importazioni complessive di tutti
gli altri prodotti coloniali. Questi cambiamenti erano accompagnati da una crescita constante delle
piantagioni e da un’incipiente differenziazione dei prodotti stessi che accompagnavano, rispondevano ai
bisogni più elaborati ed eterogenei dei consumatori in madrepatria. Nel frattempo le sorti delle singole
colonie erano tutt’altro che prevedibili. Le piantagioni erano imprese ad alto rischi e per quanto esse
potessero generare enormi profitti per investitori fortunati, le bancarotte erano un fatto consueto; alcuni
dei più audaci imprenditori finirono i loro giorni in prigione come debitori. Un mercato di massa emerse
piuttosto tardi; fino al XVIII secolo lo zucchero rimase realmente il monopolio di una minoranza privilegiata
e venne utilizzato essenzialmente come una sostanza medicinale, come una spezia o elemento decorativo.
“un nuovo gusto per il dolce si venne a manifestare non appena furono disponibili i mezzi per soddisfarlo.
Con il 1750 la più povera delle mogli dei braccianti agricoli aggiungeva zucchero al suo tè”.

Non è sorprendete notare come, con l’aumento dei consumi i centri di produzione si assestassero
gradualmente in posizioni sempre più vicine al mercato interno inglese. Così lo zucchero fino a metà del XVI
secolo fu raffinato nei Paesi Bassi e in particolare ad Anversa, prima che la città fosse saccheggiata per
ordine di Filippo II nel 1576. Dal 1544 in poi, l’Inghilterra incominciò a raffinarsi direttamente lo zucchero e
dopo il 1585 Londra divenne il centro di raffinazione più importante d’Europa. Le ingiunzioni mercantiliste
però non servirono sempre gli interessi della stessa classe. Se a un certo punto la logica mercantilista aveva
protetto i proprietari di piantagioni chiudendo il mercato a produttori di canna stranieri, in un altro
momento essa difese i proprietari delle raffinerie dai produttori stranieri di beni finiti. Il mercantilismo
giunse ai suoi ultimi giorni verso la metà del XIX secolo mentre era ormai la logica del libero scambio a
definire le dinamiche del commercio dello zucchero. A quei tempi lo zucchero e altri beni di consumo simili
erano diventati ormai troppo importanti per permettere ad arcaiche forme di protezionismo di minacciare
la futura reperibilità di risorse necessarie alla metropoli. Lo zucchero smise così di essere un bene di lusso e
una rarità per diventare la prima merce esotica prodotta in vasta scala per le necessità di una classe di
lavoratori proletari.

La connessione inglese tra la produzione e il consumo di zucchero fu saldata nel XVII secolo quando la Gran
Bretagna acquisì Barbados, Giamaica e altre isole dello zucchero, estese il suo traffico di schiavi africani,
irruppe nel dominio portoghese del commercio continentale dello zucchero e cominciò a costruirsi un vasto
mercato interno. Con il XVIII secolo l’espansione dell’economia d’oltremare avvenuta cinquant’anni prima
cominciò a riflettersi in cambiamenti del consumo inglese. In verità, il consumo di beni importati rimase
modesto per gli standard moderni, anche per quelli del XIX secolo. Il significato dello zucchero nella vita dei
britannici cambiò però radicalmente. Alcune statistiche riferentesi ai commerci britannici mostrano come la
percentuale sul valore complessivo delle importazioni relativo ai generi di drogheria (tè, caffè, zucchero,
riso, pepe, ecc) aumentò più del doppio durante il XVIII secolo dal 16,9% nel 1700 al 34,9% nel 1800.

Il XIX secolo prese il via mentre esistevano già vaste fette di popolazione che non solo erano già abituate
allo zucchero (seppur in piccole quantità) ma che erano pronte a consumarne di più. Quel secolo vide la fine
della schiavitù nell’impero britannico; poco dopo quell’evento il protezionismo dello zucchero incominciò a
cedere il passo al libero scambio. Questi fatti accaddero però soltanto dopo accesissime contese tra i diversi
settori delle classi capitaliste britanniche. Per quanto lo zucchero non sia stato la causa diretta di questi
fatti, né possa spiegarli in qualche modo, la sua produzione e il suo consumo sono aspetti importanti di
quanto capitò. La tratta di schiavi destinati alle colonie britanniche terminò nel 1807; la schiavitù stessa fu
abolita tra il 1834 e il 1838. In entrambe le questioni il futuro delle colonie dello zucchero figurava come un
problema importante. A quei tempi diveniva man mano più chiaro che i circuiti commerciali chiusi tipici dei
secoli precedenti non sarebbero durati a lungo. Nel 1838 tutti i ricordi del passato connessi con lo
schiavismo erano ormai stati sradicati dalla produzione saccarifera. Dopo l’abolizione della schiavitù a Cuba,
avvenuta nel 1884, tutto lo zucchero caraibico fu prodotto da manodopera proletaria. Quando il mercato
mondiale dello zucchero si aprì, vi era ancora bisogno di trovare la manodopera; ciò era vero per le aree
coloniali più vecchie dove la schiavitù era appena terminata come per quelle più nuove che stavano
iniziando a produrre la canna soltanto allora. La contesa politica tra le classi capitaliste della metropoli e i
piantatori delle colonie fu in parte sedata facendo ricorso a fonti di manodopera esterne ma politicamente
facilmente accessibili. La sconfitta delle politiche protezionistiche che imponevano una tassazione
preferenziale per lo zucchero delle Indie Occidentali fu controbilanciata da una vittoria nel campo
dell’importazione di manodopera che fu soggetta a una regolamentazione meno rigida così indirettamente
protetto anche se le popolazioni lavoratrici di quella regione non lo furono.

La globalizzazione e il futuro della differenza culturale


Jean-Loup Amselle

L’omogeneizzazione del mondo attuale: la visione secondo cui il nostro pianeta sarebbe in via di
omogeneizzazione sia economica sia culturale ci viene direttamente dai ricercatori americani che ritengono
che il nostro mondo sia sottoposto a un processo di globalizzazione. Di fronte alla crescita degli scambi
commerciali, alla penetrazione delle multinazionali nel mondo intero, al processo di coca-colonizzazione,
insomma alla messa in relazione generalizzata degli abitanti del nostro pianeta attraverso internet, chi
oserebbe contestare che noi siamo entrati nell’era del villaggio o dell’ecumene globale? L’espressione
McWorld sottolinea la congiunzione dei due vessilli della globalizzazione: McDonlad e Macintosh. La
problematica della globalizzazione che riprende in certo modo quella marxista e luxemburghiana del
mercato mondiale e dell’imperialismo, a differenza di quest’ultima dottrina, ha la facoltà di far scomparire
la questione territoriale, per sostituirle con quella delle guerre identitarie. Per centri teorici americani, la
globalizzazione economica si tradurrebbe in un fiorire di guerre identitarie di natura culturale o religiosa.
Samuel P. Huntington che prevede che i conflitti del XXI secolo opporranno quelli che chiama l’occidente e il
“resto”, cioè la civiltà occidentale e la linea islamico-confuciana.

Notiamo in entrambi i casi il ruolo decisivo dell’islam e in particolare delle sue forme più militanti. Questi
studiosi della globalizzazione si situano nel quadro della congiuntura apertasi alla fine della guerra fredda,
simboleggiata dalla caduta del muro di Berlino e che sfocerebbe in un’autentica fine della storia. Se tutti
concordano nel riconoscere l’evidenza della globalizzazione, ci sono voci discordanti sugli effetti
dell’omogeneizzazione del mondo. Se alcuni, come Huntington vedono il futuro sotto forma di una
crescente frequenza di scontri di culture, altri al contrario mettono l’accento su una mescolanza crescente
di queste stesse culture o su una creolizzazione del mondo. Così James Clifford sviluppa l’idea secondo al
quale le diverse culture del pianeta sarebbero soggette a un fenomeno di mobilità generalizzata, dando alle
società contemporanee contorni diasporici. Un’idea simile si trova in Edourad Glissant. Tale idea, mutata
dalla filosofia, dalla linguistica e dalla storia naturale, mette sullo stesso piano i fenomeni di ibridazione del
linguaggio e di incrocio culturale. In Glissant l’idea della creolizzazione del mondo, o più esattamente quella
dell’esistenza di società o di culture creole, è strettamente legata a preoccupazioni di ordine identitario. Per
lui le culture creole o composite sono legate a un quadro geografico preciso, quello delle Antille, regione
del mondo dove la popolazione può definirsi soltanto in relazione alla piantagione schiavista e può riferire
la propria identità soltanto alle navi negriere che l’anno sbarcata sulle isole, nonché alle mescolanze
successive di cui è stata oggetto. In questo senso per Glissant l’identità antillana prefigura la via intrapresa
dalla totalità delle culture del pianeta e annuncia quindi la creolizzazione del mondo. A questo tipo di
cultura, misto per natura, l’autore oppone le culture ataviche, quelle che si sviluppano nel quadro di una
azione stato-centrica come la Francia o quelle che si definiscono in riferimento a un antenato comune reale
o mitico come molte società primitive. Questa dicotomia ispirata a Gilles Deleuze e Felix Guattari, anche se
ha il merito di mettere ben in luce la specificità delle società antillane e di spiegare la focalizzazione degli
studi caraibici sulla tematica dell’identità, presenta comunque l’inconveniente di razzializzare le altre
società, in particolare quelle africane. Definire le società primitive o esotiche in termini di atavismo,
impedisce di riconoscere fenomeni di mescolanza e di creolizzazione.

I fallimenti della globalizzazione: Questa genesi culturale si manifesta in primo luogo nell’obiettivo dei
prodotti commercializzati dalle multinazionali. Contrariamente all’idea erronea di Barber sulla
Mcdonaldizzazione del mondo, questa azienda, come si può constatare frequentandone le succursali nei
diversi paesi, non vende dappertutto gli stessi prodotti. Modifica la sua offerta proponendone qualche
piatto adattato alla tradizione culinaria di ogni paese. Mentre la Coca-Cola viene consumata dai luo del
Kenya in occasione dei matrimoni, ed entra pertanto nella categoria dei beni rituali, negli USA questa
bevanda fa parte della vita quotidiana. Mentre i Macintosh erano stati fino a poco tempo fa abbandonati
dagli americani, questa marca è divenuta un indicatore identitario dei francesi, in particolare degli
intellettuali. È dunque spesso attraverso il consumo di prodotti importati o l’importazione di idee straniere
che si manifesta più intensamente l’identità culturale o nazionale, cosicché l’aumento degli scambi di ogni
sorta su scala mondiale, lungi dal provocare una omogeneizzazione totale delle diverse culture, appare, al
contrario, come una condizione della loro esistenza. Così la globalizzazione permette alle diverse culture di
esprimersi per mezzo dello Stato. Ma come corollario il linguaggio internazionale del consumo costituisce
anche un vincolo maggiore per i diversi sistemi culturali: rappresenta in effetti il medium attraverso il quale
essi sono costretti a esprimersi. Così la scelta di un campione comune come la Coca-Cola, o come un tempo
al Bibbia o il corano, rappresenta il prezzo che le culture devono pagare per penetrare nel mercato
mondiale delle identità.

La globalizzazione e la ricerca sul campo: La teoria della globalizzazione viene oggi utilizzata da alcuni
antropologi come Cliffors per trattare la questione che sta al cuore dell’antropologia, cioè il lavoro sul
campo. Piuttosto che concepire la ricerca sul campo come l’esercizio di un bianco di sesso maschile su un
terreno esotico conservato (fieldwork), converrebbe, secondo questi autori, considerarla come una ricerca
in rete che adotta i caratteri essenzialmente diasporici delle culture contemporanee (network). Sparirebbe
così la distinzione tra il qui (home) e l’altrove (field) che è alla base della combinazione che l’antropologia
occidentale eserciterebbe sull’insieme delle altre culture del pianeta. Ma per questi antropologi i
responsabili di tale situazione non sono solo le barriere geografiche. Essi intendono anche far cadere le
barriere sociali, etniche e culturali al fine di incoraggiare l’accesso alla pratica dell’antropologia di tutte le
minoranze che finora ne sono state tenute fuori: afroamericani, omosessuali ecc. in questa prospettiva, il
lavoro sul campo dovrebbe anche aprirsi ai membri di tali comunità affinché esse stesse favoriscano la
produzione di un sapere espresso dagli autoctoni (homework).

Questa antropologia per tutti o alla portata di tutti, presenta però due grossi inconvenienti. Innanzitutto
questa visione multiculturalistica dell’antropologia ha il torto di dimenticare che questa disciplina ha come
fondamento ultimo la filosofia dei Lumi del XVIII secolo, cioè una concezione universalistica del sapere
umano. In altri termini le categorie utilizzate dagli antropologi sono rigorosamente identiche poiché il
corpus di conoscenze che utilizzano è comune. L’idea stessa di un pluralismo antropologico al di là
dell’esistenza di diverse scuole appare dunque contraddittoria rispetto al fenomeno storico che
rappresenta, nella storia dell’occidente, la comparsa di una prospettiva comparativistica di tipo scientifico.

Il secondo rimprovero che si può rivolgere agli antropologi della globalizzazione è più grave poiché riguarda
la contraddizione che sta al centro del loro ragionamento. È possibile conciliare l’idea della decostruzione
dell’antropologia basata sulla ricerca sul campo come meccanismo di dominazione dell’occidente sul resto
del pianeta, da una parte, con la riproduzione della distinzione tra società primitive e società moderne
implicitamente supposta dalla teoria della globalizzazione, dall’altra? Se, come affermano gli antropologi
postmoderni, la nostra epoca è radicalmente diversa da tutte le precedenti, nel senso che la
contemporaneità consisterebbe in una messa in relazione generalizzata e ina interdipendenza totale
dell’insieme delle culture del pianeta, è proprio perché p esistita una fase della storia dell’umanità in cui
alcune società vivevano chiuse su sé stesse ed erano pertanto passibili del metodo intensivo e localizzato
messo a punto da Malinowski.

L’apertura delle società esotiche: La difficoltà che si ha a superare il metodo malonowskiano è dovuta in
parte al fatto che i suoi discepoli hanno attribuito alle caratteristiche dell’oggetto studiato le scelte di
quest’ultimo. Per gli antropologi africanisti formati da Malinowski, e in particolare per Nadel, il metodo
funzionale corrispondeva al carattere insulare dei trobriandesi e non a una qualsiasi forzatura antropologica
operata dal maestro. Vent’anni dopo Malinowski, Nadel si trova dunque di fronte allo studio antropologico
di una società complessa, cioè di una società in una koiné africano-occidentale della savana, comprendente
una pluralità di lingue e di etnie, le quali sono unite da una religione comune, l’islam, e presentano per
questo un’aria di famiglia.
La realtà sociale nupe avrebbe dovuto spingere Nadel ad abbandonare il funzionalismo a favore di un altro
metodo. Ma i suoi legami sia personali sia istituzionali con Malinowski lo hanno condotto da un lato a
mettere in evidenza l’embricazione del regno nupe in insiemi più vasti e, dall’altro, a identificare il concetto
di cultura tribale e di area culturale.

Il ritorno del diffusionismo: Conviene esporre le società esotiche all’aria aperta al fine di relativizzare le
minacce che peserebbero sul loro futuro. In questo senso, nuove non sono tanto la globalizzazione o la
storicità delle società primitive quanto piuttosto l’apertura metodologica che, da una decina d’anni a
questa parte, ritrova un nuovo vigore sotto l’impatto congiunto dello sviluppo della storia dell’antropologia
e del postmodernismo.

Distensione e irrigidimento delle identità: La mescolanza delle società, delle civiltà è una costante della
storia universale e non può pertanto spiegare il carattere diasporico o itinerante delle culture
contemporanee. Ma il paradosso della mondializzazione attuale è che, lungi dal rendere le identità fluide,
essa le ricolloca e le irrigidisce al punto d far loro assumere la forma di fondamentalismi etnici, nazionali e
religiosi.
Se nell’Africa precoloniale era possibile giocare con la propria identità questo esercizio è oggi molto più
delicato. Allora, l’esistenza di zone tampone tra gli Stati permetteva ai proscritti di un regno di rifugiarsi alla
periferia di tali formazioni politiche e di riorganizzarsi in piccole bande segmentarie suscettibili, in periodi
successivi, di lanciarsi nuovamente in una fase di ricostruzione statale. I dissidenti potevano perciò rifarsi
una identità al riparo dai potenti da cui erano fuggiti. Ai giorni nostri questo fenomeno è ancora possibile,
come hanno dimostrato i rifugiati tutsi dell’Uganda i quali, partiti alla riconquista del Rwanda, hanno nello
slancio abbattuto il vacillante potere zairese e piazzato uno dei loro, egli stesso dissidente, alla sua testa.
L’insieme del processo di ricomposizione politica in corso nell’Africa centrale, che avviene in gran parte su
una base transtatale, testimonia la porosità delle frontiere di quel continente e manifesta pertanto una
certa continuità con il periodo precoloniale.

Dunque la messa in atto di politiche di liberalizzazione su scala mondiale non si traduce affatto, come ci si
sarebbe potuti aspettare, in un trionfo dell’individualismo, ma al contrario nella proliferazione di identità
collettive. Disimpegnandosi e costringendo la società civile a prendersi in carico lo Stato sociale, incoraggia
allo stesso tempo il fiorire di tutta una serie di strutture (associazioni, ONG) la cui missione consiste nel
gestire il sociale al suo posto e che si appoggiano spesso a forme comunitarie. Che si consacri allo studio
delle società domestiche o a quello delle società esotiche, l’antropologia è sempre all’ascolto della
modernità, della surmodernità o della globalizzazione e in un certo senso tutti i fenomeni che essa studia
sono gli anelli di una stessa catena. Da questo punto di vista non esiste nemmeno una rottura tra l’oggetto
passato dell’antropologia e il suo oggetto attuale.
La globalizzazione che è soltanto un altro nome dell’universalità è sempre stato il vero oggetto
dell’antropologia, nel senso che essa avrebbe sempre dovuto dedicarsi a oggetti misti. Solamente la
concezione di Malinowski del campo come luogo chiuso ha potuto portare certi antropologi a immaginare
che l’oggetto dell’antropologia fosse cambiato, cioè che fosse destinato a sparire nel quadro della
globalizzazione. Ma l’oggetto dell’antropologia è sempre stato contemporaneo a se stesso, è l’invenzione
dell’artefatto del campo come laboratorio che ha espulso la modernità e la storia dalle società esotiche per
lasciare tète à tète l’antropologo e la sua popolazione.

8 – Diversità e relativismo
In molti volumi di storia dell’antropologia si è soliti scindere l’origine accademicamente riconosciuta della
disciplina, collocabile nella seconda metà del XIX secolo e riconducibile a B. Tylor, dall’origine di una certa
sensibilità antropologica che permette di risalire fino alla figura di Erodoto. Tylor andrebbe ricordato non
solo per il fatto di aver introdotto una fortunata definizione di cultura in senso antropologico, ma anche per
aver espresso la convinzione che la nascente antropologia potesse fornire un contributo riformista
all’umanità su un piano sociopolitico e culturale. Erodoto è convinto dal canto suo che occorra dar conto,
attraverso il viaggio e l’osservazione diretta, di ciò che oggi definiremmo diversità culturale, giungendo a un
atteggiamento relativisitico secondo il quale le manifestazioni culturali hanno validità e significato solo
all’interno del loro contesto. In che modo questo esito relativistico può connettersi con lo spirito
riformatore auspicato da Tylor?

Protagora, amico di Erodoto, sosteneva che “l’uomo è misura di tutte le cose”. Tale affermazione no ha
avuto molta fortuna nella storia della filosofia occidentale. Un relativismo pericoloso per chi si erge a
paladino e custode di universalismi, assolutismi e fondamentalismi. Protagora ebbe da Pericle il compito di
redigere la Costituzione della città di Turii: una colonia panellenica, ovvero pluriculturale, che necessitava di
una legislazione interculturale. Protagora non ebbe molta fortuna: condannato per empietà, morì
probabilmente in un naufragio. L’auspicio è che l’antropologia culturale possa avere migliore sorte nel
favorire democrazie cosmopolite dove necessariamente occorre coniugare i Diritti Universali dell’Uomo con
la valorizzazione del pluralismo culturale.
Gli antropologi non studiano le identità, ma piuttosto le relazioni. Se è vero che tali relazioni sono immerse
in contesti culturalmente densi, è altrettanto vero che esse devono essere indagate anche tenendo conto
dei rapporti reali di potere. Se il relativismo viene pensato attraverso questa centralità della relazione e
questa molteplicità delle posizioni, allora è possibile cogliere tutta la forza riformista di un atteggiamento
capace di valorizzare la “verità della relatività” piuttosto che la “relatività del vero”.

La nuova Turii
Leonardo Piasere

Protagoristi: La condanna di Protagora del 411 a.C. avviene durante la reazione postdemocratica ad Atene
che porta al potere gli oligarchi. Ma una trentina d’anni prima Protagora era stato amico e consulente di
Pericle, il quale gli aveva affidato la stesura della costituzione della nuova città di Turii che, sulle rovine di
Sibari, doveva riunire coloni provenienti da tante parti della Grecia. Convinto democratico, Protagora
propugnava la legislazione per Turii che oggi chiameremmo interculturale, che tenesse in considerazione le
leggi delle diverse città di provenienza dei nuovi coloni, nonché alcune della Magna Grecia. Pare che
Protagora proponesse un relativismo percettivo indigesto ai più e su cui dovremo ritornare, ma nella
quotidianità praticava un relativismo militante, pragmatico e non ingenuo.

Era un relativismo che per Turii, per la prima volta nella storia occidentale, prevedeva la scuola pubblica
anche per chi non avesse i mezzi. Di fronte a chi preconizzerà che sono filosofi coloro che devono guidare lo
Stato (Platone), e di fronte a chi sancirà che esistono uomini che sono schiavi per natura (Aristotele),
chiaramente uno come Protagora che predica che ogni uomo è misura di tutte le cose e ha in sé la virtù
politica e che per questo è degno di ascolto, e che la stessa virtù politica non deve essere appannaggio di
pochi, ma è insegnabile e quindi è acquistabile, doveva sembrare un pedagogo ben pericoloso. Nei
pamphlet in difesa de relativismo in generale, e quelli scritti da antropologi in particolare, gli autori
rischiano di cadere nella trappola di restare invischiati in una lotta di trincea tesa a “salvare” quanto
l’antropologia ha da decenni acquisito, senza però proporre nuove riflessioni su come “sfruttare” le ricche
incoerenze del relativismo, cioè su come avanzare sulla via della democrazia globale, su come diventare o
continuare a essere protagoristi.

I diritti dell’uomo e i diritti dei popoli: il relativismo culturale nasce nell’antropologia moderna con Franz
Boas e divulgato dalla sua scuola soprattutto fra le due Guerre, anche se apparentemente Boas stesso non
ha mai usato tale espressione. Il relativismo culturale balza sulla scena durante il dibattito che ha
circondato la redazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, quando nel 1947 l’American
Anthopological Association pubblica lo Statement on Human Rights che sarà fatto avere alla Commissione
che all’ONU lavorava alla stesura della Carta. Nel dibattito risorsero da un lato tutte le obiezioni già
evidenziate da Platone e Aristotele: voler fare enunciati universali sulla base di una procedura
epistemologica relativistica è contraddittorio e autoconfutante, dall’altro l’appello degli antropologi
americani a non tener conto solo dell’uomo in quanto individuo, ma anche “dell’uomo in quanto membro
del gruppo sociale di cui fa parte”, come recitava lo Statement. Nato come strumento di critica
all’etnocentrismo occidentale, il relativismo culturale poteva diventare un’ideologica in sintonia per il
mantenimento de rapporti di dominanza/sottomissione di vario tipo. Eppure, una dichiarazione sui diritti
dell’Uomo non può trascendere dalla tensione insita nel fatto che un individuo vive sempre in un gruppo
sociale.

Se l’antropologia culturale vuole essere “il linguaggio scientifico della diversità culturale”, allora gli
antropologi dovrebbero avere un dovere particolare a impegnarsi in questo “cammino di chiarificazione”,
tanto più oggi che si è superato il vecchio concetto di cultura di stampo essenzialista, della cultura-cassetta
con bordi precisamente definiti, della cultura “compatta”, di cui erano ancora impregnati gli antropologi
dello Statement; il concetto di cultura-essenza è abbondantemente superato dalla Dichiarazione sulla
Diversità Culturale, laddove afferma che “La creazione si basa sulle radici della tradizione culturale, ma si
sviluppa in contatto con altre culture”, dando un’enfasi fondamentale al dialogo “interculturale” nella
creazione stessa delle culture.

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