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ANTROPOLOGIA CULTURALE: DOMANDE E RISPOSTE

L’ANTROPOLOGIA?
Il termine antropologia deriva dal greco e significa letteralmente “studio del
genere umano”; questa definizione risulta però: vaga, in quanto molte sono
le discipline che si occupano dell’uomo, e imprecisa, dal momento che non
chiarifica il vero oggetto di studio dell’antropologia. Questa materia si
occupa dello studio del genere umano dal punto di vista culturale (specifica
del concetto). Nasce, come oggetto di studio, nel periodo coloniale, quando i
colonialisti iniziarono a confrontarsi con le popolazioni (barbare e primitive,
così venivano definite) che abitavano quei luoghi riscoperti. Alla fine del 700,
nel periodo dell’illuminismo, scienziati e studiosi iniziano a lavorare ad una
teoria unitaria del genere umano e verso la fine dell’800 nasce l’antropologia
culturale come materia di studio, dal crescente interesse nei confronti nei
confronti dei popoli esotici. L’antropologo e il colonialista sono però due
figure differenti, i primi avevano come obiettivo, stabilire i rapporti di
reciproca comprensione con le popolazioni studiate. Oggi il compito
dell’antropologo non è solo studiare le popolazioni delle isole perdute, ma
anche quelle delle città urbane dell’occidente, e tutti i fenomeni che
riguardano il genere umano (i fenomeni migratori, i conflitti etnici, il
commercio di organi, la prostituzione). Inizialmente, lo studio dell’uomo era
prevalentemente a distanza, attraverso le testimonianze di viaggiatori ed
esploratori. Tra la fine dell’19 e l’inizio del 20 secolo, gli antropologi
iniziarono a recarsi direttamente nei territori che volevano studiare,
inaugurando la ricerca sul campo che prevedeva l’acquisizione delle
conoscenze attraverso l’osservazione diretta. Fare antropologia significa
quindi voler affrontare l’incontro con esseri umani con abitudini e concezioni
del mondo diversi dai propri. La ricerca antropologica non mira a cogliere le
culture in una loro improbabile interezza; gli antropologici, infatti, studiano
solo determinanti aspetti della cultura, ma per farlo non possono non
concentrarsi solo sull’aspetto prescelto, come se il resto non gli interessasse
(essi considerano infatti un fenomeno in relazione a tutti gli altri). Un
elemento chiave della ricerca antropologica è l’etnografia, mezzo che
permette all’antropologo, attraverso prospettive e tecniche particolari, di
incontrare realtà culturali diverse da quelle degli studiosi. L’etnografia è
parte costitutiva e organica dell’antropologia, offre materia di riflessione alla
teoria, dando forma allo stesso stile di ragionamento dell’antropologia
stessa. I pensieri dell’antropologo s’impregnano dei pensieri dei suoi
interlocutori, per cui la visione della società, che quest’ultimo sta studiando,
sarà determinata dalla visione che ne hanno i suoi componenti. Il compito
principale degli antropologi sul campo è quello di raccogliere dati, che sono
frutto di ascolto e osservazione. Vivendo in mezzo alle persone,
l’antropologo è in grado di catturare: gesti, sguardi, emozioni, idee e opinioni
che altrimenti non verrebbero mai esplicitati. Vivendo a stretto contatto con
i soggetti della ricerca praticano un’osservazione partecipante. Attraverso
quest’osservazione l’antropologo impara a vedere il mondo dal loro punto di
vista, iniziando a stare dentro una forma di vita diversa da quella di
appartenenza. Dal momento che l’antropologo entra in un mondo diverso da
quello a lui noto, non significa che non possa far ritorno mentalmente al
proprio; anzi per la ricerca sul campo questo andare e venire tra i due mondi
è essenziale. Fin dagli inizi l’antropologia si è presentata come un sapere
universalista, che considera tutte le forma di produzione culturale come
degne di attenzione, e utili alla conoscenza del genere umano. Questo tipo di
attenzione si traduce in un’impresa etnografica generalizzata.
Quest’universalismo che caratterizza l’antropologia si oppone al concetto di
etnocentrismo, è la tendenza a giudicare le altre culture ed interpretarle in
base ai criteri della propria, proiettando su di esse il proprio concetto di
evoluzione, di progresso, di sviluppo e di benessere, basandosi su una
visione critica unilaterale. L’antropologia non è però del tutto libera
dall’etnocentrismo, ma si sforza di produrre modelli di analisi che siano in
grado di tener conto tanto dell’unità quanto della diversità dei fenomeni che
essa osserva. L’antropologia adotta degli stili comparativi che gli permettono
di ricavare delle costanti dal confronto tra fenomeni differenti:
 Il primo stile comparativo si esercita su società storicamente
interrelate o geograficamente vicine, il vantaggio di questo metodo è
la precisione descrittiva, il limite invece è l’incapacità di consentire
grandi generalizzazioni
 Il secondo metodo, prende in considerazione società prive di legami e
cerca attraverso l’accostamento di fenomeni simili di pervenire
elaborazioni più ampie di quanto non faccia il primo metodo, il limite
che presenta è però la mancanza di una precisione analitica.
Tutto il lavoro dell’antropologo s’impianta su una cultura dell’ascolto, il
carattere dialogico della disciplina permette a due universi culturali diversi
di trovare uno spazio d’incontro comune. È fondamentale anche un lavoro
di traduzione, non inteso solo dal punto di vista linguistico ma soprattutto di
quello concettuale. Il lavoro dell’antropologia non vuole preservare le
culture in un’autenticità astratta e la sua funzione critica non si esaurisce
nella difesa di culture considerate più deboli. Ma consiste dell’individuare le
trasformazioni delle culture nei contesti storici che le hanno poste in
contatto con le forze del colonialismo. L’antropologia è un sapere
pluriparadigmatico: in antropologia, a differenza delle altre scienze, più
paradigmi costituiscono contemporaneamente i punti di riferimento per gli
studiosi di questa disciplina; questa è la conseguenza delle radici
etnografiche della disciplina, che si fonda sull’incontro e sul dialogo.

LA CULTURA
La cultura è il complesso di idee, simboli, comportamenti e di disposizioni
storicamente tramandati e condivisi da un certo numero di persone;
attraverso cui essi si accostano al mondo, in senso sia pratico che
intellettuale. La cultura si manifesta nelle singole società come cultura
specifica di coloro che nascono in quella data società; tuttavia, la cultura è
un fattore comune a tutto il genere umano. Aristotele affermava che l’uomo
nasce incompleto, in quanto ha bisogno per molto tempo della cura di esseri
umani più grandi. Gli esseri umani sono determinati, e dipenderà da quello
che gli è stato insegnato dal gruppo in cui sono cresciuti come si
comporteranno. L’uomo infatti deve adottare una serie di codici
comportamentali sia fisici che morali per vivere in mezzo ai suoi simili. Quelli
che noi seguiamo sono modelli di comportamento e di pensiero, questi si
introiettano nell’uomo grazie all’educazione e possono essere divisi in:
 Modelli per, cioè modelli che funzionano da guida per il
comportamento
 Modelli di, attraverso cui pensiamo qualcosa e lo consideriamo
paradigma di come dovrebbero essere le cose.
Grazie a questi modelli culturali, gli esseri umani si accostano al mondo, ogni
atto è guidato dalla cultura, che è operativa (mette in condizione l’uomo di
agire seconda i propri obiettivi). La cultura come abbiamo detto è un
complesso di modelli acquisiti e tramandati, ma questi modelli possono
essere anche selezionati; le nuove generazioni, che agiscono secondo un
principio di selezione, ereditano e acquisiscono modelli di altre culture,
selezionandoli al fine d’introdurre nuovi elementi o di bloccarne di vecchi
ormai incompatibili con quelli del presente. Le culture non sono quindi
entità statiche e fisse, ma un insieme di idee e comportamenti che
cambiano nel tempo. Le culture sono prodotte storiche, risultato d’incontri,
cessioni, prestiti e selezioni. L’antropologo Balandier ha definito questo
processo ‘la dialettica della dinamica interna e della dinamica esterna’ e con
esso intendeva che le culture si modificavano tanto secondo logiche proprie
quanto in relazione ad elementi di provenienza esterna. È quindi impossibile
per le culture restare identiche a loro stesse, in quanto sono sempre
sottoposte ad influenze esterne. Quando parliamo di culture X e culture Y
siamo portati ad avere un’immagine omogenea di esse; in realtà all’interno
di una stessa comunità esistono diversi modi di percepire il mondo, queste
differenze hanno spesso a che fare con il concetto di potere, posizione
sociale e istruzione. i modelli culturali di riferimento risultano spesso diversi
in base ai dislivelli interni alla società. In base a queste consapevolezze non
possiamo quindi affermare che le culture siano costruite da modelli culturali
distribuiti in maniera uniforme. Gramsci conia due espressioni he traducono
questo concetto: cultura egemonica e cultura subalterna; anche Keesing,
antropologo australiano, ribadì un’idea analoga: egli sostiene che quando si
studiano rappresentazioni e comportamenti appartenenti ad una cultura
sono i comportamenti degli individui più rilevanti di quella determinata
società; lui lo definisce come controllo culturale (tener presente del modo in
cui viene distribuita la cultura). La cultura esiste grazie alla capacità
comunicativa degli esseri umani; i modelli devono essere condivisi tra i
componenti di un gruppo, devono cioè essere riconoscibili da tutti e quindi
essere comunicabili. La cultura ha una natura creativa, che gli permette di
combinare in sequenze riconoscibili ma innovative i segni della cultura
stessa. La caratteristica creativa della natura ha riscontro in due
caratteristiche:
 L’universalità semantica: tutte le lingue sono in grado di produrre
informazione relative a eventi.
 La produttività infinita:
 La creazione di nuovi significati che modificano il nostro modo di
intendere le cose, rappresentare il mondo, e agire su esso.
La cultura non ha confini netti, ma ha dei nuclei forti che la distinguono dalle
altre, ma che al contempo la assimilano ad esse.
IL RELATIVISMO CULTURALE: il concetto di relativismo culturale nasce con
Claude Levi Strauss, disse “l’antropologo tende ad essere critico a casa
propria e conformista a casa degli altri”. Il relativismo culturale è un
atteggiamento conforme alla cultura antropologica, e consiste nel ritenere
che i valori e i comportamenti, per poter essere compresi, debbano essere
considerati all’interno del contesto complessivo in cui prende vita.
L’antropologia è relativista perché sostiene che le esperienze culturali degli
altri non possono essere giudicate attraverso i modelli dell’osservatore.
Questo ha portato molti antropologi a spiegare in modo scientifico pratiche
o idee che noi consideriamo incomprensibili. Questo non significa però che
queste siano persone disposte a giustificare qualsiasi cosa, il relativismo
culturale è infatti un atteggiamento intellettuale che mira a comprendere, e
comprendere non significa giustificare, ma collocare il senso delle cose nel
loro contesto di appartenenza.
RAZZA: Nonostante la varietà del genere umano ci sono caratteristiche
unitarie; tutti i gruppi fanno parte di una sola specie, tutti gli uomini sono
produttori di cultura o ad esempio tutte le lingue parlate possono essere
paragonate dal punto di vista della complessità strutturale della
grammatica. Non si può parlare però di razza umana, questo concetto è
infatti una costruzione culturale, non sostenuta da nessun criterio
scientificamente fondato. Il concetto di razza è infatti culturalmente
costruito e veicolo di stereotipi diffusi in base ai quali la società basa e fonda
distinzioni al suo interno.
VISONE DEL MOSAICO LINGUISTICO PALNETARIO: questo concetto nasce
dalle idee di Alfredo Trombetti, il quale riteneva che il genere umano fosse
comparso in un determinato punto della terra e che li si fosse sviluppata la
prima forma di linguaggio. Quest’idea è stata poi sviluppata da un gruppo di
antropologi che ha elaborato questa visione unitaria della lingua; queste
posizioni sono state definite unitariste, questi studiosi hanno lavorato sulle
similitudini fonetiche e morfologiche, prendendo anche in considerazione
che le produzioni linguistiche più recenti possano essersi sviluppate anche
attraverso vari fattori e non solo dalla discendenza delle lingue più antiche.

CRITERIO DELL AREE CULTURALI: nel corso del 900 gli antropologi iniziarono
a sistematizzare le conoscenze acquisiste attraverso il criterio delle aree
culturali. Un’area culturale è una regione geografica al cui interno sembra
plausibile comprendere una serie di elementi sociali, culturali e linguistici. La
suddivisone del mondo per aree culturali deve essere considerata come
puramente indicativi; le aree culturali erano infatti modelli costruiti dagli
antropologi. Il rischio di prendere troppo sul serio la ripartizione del mondo
è quello di essenzializzare queste aree e le società che ne fanno parte.
SOCIETA’ AD ORLAITA’ DIFFUSA E RISTRETTA: Le culture come la nostra,
sono dette culture a oralità ristretta; oggi anche dove l’analfabetismo è
fortemente presente, la scrittura esercita la sua influenza più potente. Fino a
non molto tempo fa esistevano quelle a oralità primaria. Erano società che
non conoscevano nessuna forma di scrittura. Nelle culture fortemente
impregnate di oralità precedono attraverso formule fisse ed espressioni
stereotipate che potessero agevolare la memorizzazione. Queste formule
fisse ripetitive diventano quindi i necessari supporti per comunicare con altri
o per trasmettere conoscenze da una generazione all’altra. Una differenza
tra culture orali e culture scritte è la presenza, nelle prime, di tecniche
elaborate di conservazione della memoria, che creano effetti omeostatici
con l’obbiettivo di eliminare tutto quello che non ha interesse per il
presente. Un secondo dato cruciale delle culture orali, è la dimensione
dell’esperienza; Alexander Luria, nelle sue ricerche, esplora l’attività psico-
cognitiva dei soggetti in relazione al contesto d’esperienza. Presentò ai pre-
letterati figure geometriche, chiedendo a loro di denominarle. Le risposte
che ottenne non furono i nomi delle figure ma piuttosto oggetti a loro
conosciti che avevano quella forma li.
IL REGRESSO ALL’ORALITA’ DIFFUSA E LE LINGUE VERBOMOTORIE: a partire
dagli anni 70 in poi si è assistito ad una grande diffusione dei media su scala
planetaria, la televisione diventa un mezzo di diffusione della cultura. Le
ricerche hanno messo in evidenza come il linguaggio televisivo e dei media
abbia comportato un regresso sul piano della ricchezza lessicale e delle
conoscenze linguistiche. In assenza di scrittura, le parole non hanno una
vera e propria esistenza visiva, sono solo eventi che accadono in un tempo
preciso; la loro efficacia sembra quindi essere legata al solo momento in cui
vengono pronunciate. Per accentuane la forza, queste parole vengono
accompagnate da una gestualità ben precisa, questa gli attribuisce la
denominazione di lingue verbomotorie, coniata da Michel Jousse, che indica
il legame che c’è tra il ritmo del discorso orale e i gesti. L’attenzione
dell’antropologia nei confronti dei media, nello specifico nella televisione, è
da guardare nella prospettiva che quest’ultima diventa mezzo di diffusione
dell’immagine delle culture in tutto il mondo.
TEMPO E SPAZIO: tempo e spazio sono dimensioni costitutive di qualunque
modo di pensare, e la loro percezione è la funzione primaria della nostra
attività mentale. Queste categorie rivestono però significati diversi in
contesti culturali diversi. La nostra idea di tempo è abbastanza recente ed è
strettamente legata alla produttività, Martin Nilsson sostiene che nelle
società primitive il tempo veniva concepito come puntiforme; i riferimenti
temporali non corrispondevano, come funziona per noi, a frazioni
appartenenti ad un flusso temporale omogeneo e quantificabile ma ad
eventi naturali o sociali. L’idea che il tempo sia un’entità uniforme e
misurabile non è universale, in molte società infatti il tempo non è un dato
regolatore della vita, ma è piuttosto un tempo non quantizzato ma carico di
significati speciali (tempo qualitativo). Lo spazio riveste valenze qualitative
che lo rendono diversamente significante per l’essere umano; lo spazio è
una dimensione che, deve essere in qualche modo addomesticata. Nelle
culture umane si presenta costantemente la necessità di concepire un luogo
nello spazio, che diventi punto di riferimento e sicurezza.
IL CORPO: l’uomo ha esperienze attraverso il corpo che è mediatore tra noi
e il mondo, Pierre Bordieu l’ha definita come conoscenza attraverso il corpo;
una forma di conoscenza diversa da quella riflessiva e intenzionale. Questa
conoscenza incorporata rimanda al concetto antropologico
dell’incorporazione come mezzo per descrivere il nostro essere nel mondo.
Questo è il concetto alla base dell’habitus , quell’insieme di atteggiamenti
psicofisici attraverso i quali gli esseri umani stanno nel mondo. Questo loro
stare nel mondo è culturalmente orientato, quindi il corpo è culturalmente
disciplinato (guidato quindi da modelli culturali), la società cerca di
imprimere nell’uomo i segni della propria presenza (antropopoiesi cioè la
formazione dell’umano da parte della società). Il corpo è anche veicolo
privilegiato per l’espressione della propria identità, è un luogo di messa in
scena del sé.
CORPO SANO E CORPO MALATO: il corpo può essere uno strumento di
resistenza e risposta alle situazioni esterne: è quindi scontato che l’uomo
tenda ad incorporare il disagio sociale. Questa consapevolezza attribuisce
nuovi significati ai concetti di salute e malattia; gli antropologi chiamano
sistemi medici quelle scale di valori che ogni cultura attribuisce al disagio
psicofisico. In occidente prevale il paradigma biomedico, cioè l’idea che la
malattia fisica abbia solo origini organiche; durante la medicazione il
paziente viene desocializzato e il su corpo divento l’oggetto di esami e
operazioni. Al contrario in molte culture dell’Africa e del Sud America non è
pensabile curare una persona senza considerare il lato mentale, e di
conseguenza quello sociale del soggetto.
INDIVIDUO E PERSONA: il termine individuo indica il singolo in quanto
esemplare unico e diverso; persona invece è la modalità con la quale
l’individuo entra in contatto con la società, è quindi un insieme di elementi
costitutivi, di natura tanto materiale quanto spirituale, dotati di una capacità
d’integrazione. I Sami, una popolazione norvegese, sostiene che la persona
sia composta da nove componenti: il corpo, il sangue, l’ombra, il sudore, il
soffio, la vita, il pensiero, il doppio (una specie di anima) e il destino; e da
attributi quali: il nome, la parte di un antenato, la presenza degli spiriti. Gli
attributi rappresentano la componente sociale, e sono fondamentali nel
determinare il destino dell’individuo.
SESSO E GENERE: il sesso fa riferimento alle caratteristiche biologiche di un
individuo, il genere invece è un costrutto sociale. Il confine più netto in tutte
le società è quello tra maschile e femminile; la differenza tra i tratti sessuali
e la diversa funzione riproduttiva del corpo dev’essere stata da sempre
oggetto di grande attenzione. L’universalità dell’opposizione tra maschile e
femminile non implica però che in tutte le culture si abbiano
rappresentazioni analoghe dei sessi e delle loro relazioni che sono sempre il
frutto di una costruzione sociale. Per gli Inuit, ad esempio, l’identità sessuale
di un individuo per loro non è legata al sesso anatomico, ma all’identità
sessuale dell’anima-nome reincarnata (a lui assegnata al momento della
nascita). Quando l’individuo raggiunge la pubertà deve comunque inserirsi
nei ruoli sociali del suo sesso anatomico, ma la sua identità sarà sempre in
funzione della sua anima nome. Fare una distinzione tra sesso e genere è
molto importante perché tra i due non c’è un rapporto biunivoco. I tratti
della mascolinità e della femminilità non sono intesi ovunque nello stesso
modo, non essendo un prodotto di natura biologica ma piuttosto costruzioni
sociali. Sesso e genere sono infatti dimensioni identitarie distinte. La
divisione e la distinzione dei sessi, sono realizzate attraverso la messa in
opera di simboli, pratiche, e attribuzione di ruoli, ancora oggi si pensa che
uomini e donne abbiano personalità differenti; questa convinzione non è
però sostenuta da nessuna teoria specifica, Mead ha infatti dimostrato
come queste differenze siano determinate più dai modelli e dall’educazione
che da tratti naturali.
LE EMOZIONI: le emozioni sono elementi costitutivi della persona, di
un’interiorità in cui non è sempre facile distinguere tra sentimenti, emozioni
e sensazioni. Gli stati d’animo non sono universali, cioè non sono espressi
ovunque nello stesso modo. Tutti gli stati d’animo non sono il frutto di una
natura geneticamente determinata, ma sono concepiti ed espressi in base ai
modelli culturali introiettati nell’infanzia. I problemi dello studio
antropologico sulle emozioni, non si limita solo alla variabilità della loro
espressione, ma anche al problema della traduzione: hanno quindi lavorato
per far in modo di capire come determinate parole possano avere
espressione. Spesso le emozioni vengono espresse nella dimensione
corporea, ad esempio certi popoli africani per esprimere dolore piegano il
braccio sopra la testa; queste espressioni vengono apprese attraverso
l’osservazione e l’imitazione.
LE CASTE: il termine casta oggi fa riferimento a gruppi sociali ritenuti o
superiori o inferiori ad altri. In antropologia, Casta, è un termine che deriva
dal portoghese e significa casata o stirpe, e veniva applicato alle tribù indù
portoghesi. Questo sistema divideva il popolo in Varna, cioè sacerdoti,
guerrieri, commercianti e contadini. A loro volta i Varna erano suddivisi in
Jat e sotto Jat. Entrambe le categorie sono considerate caste e fanno
idealmente parte di una società più ampia, nella quale sono
economicamente funzionali. Le unioni matrimoniali dovevano però avvenire
all’interno delle categorie, determinando il sistema gerarchico delle caste,
basato su un criterio di maggiore o minore purezza rituale, alla base di tutto
il pensiero indù. Levi- Strauss, individua una similitudine tra la suddivisione
della società in classi e il totemismo. Il totemismo australiano (gruppi
culturali), consisteva nell’associare il nome di una pianta o un animale ad un
gruppo, operando quindi le distinzioni servendosi delle diversità insite nelle
categorie utilizzate (le caste (gruppi naturali) fanno la stessa cosa, operando
però in base all’occupazione, in cui le differenze vengono associate a
differenze naturali presenti fin dalla nascita). Il totemismo è un tipo di culto
comunitario; basato sul totem ( egli fa parte della mia parentela), questa
religione si fonda sul culto dell’antenato.
ETNIA: il termine indica un gruppo umano che condivide la stessa cultura,
lingua, tradizione e territorio. Questo concetto è stato poi revisionato
perché sembra assegnare all’etnia un fondamento naturale. L’etnicità è il
sentimento di appartenenza ad un gruppo definito culturalmente,
linguisticamente, e territorialmente in modo rigido e definito, non
considerando che i generi assoluti dell’essere umano non esistono ma non
sono altro che la manifestazione di un processo di interazione con gli altri.
I CULTI E LA RELIGIONE: il termine religione rimanda a un complesso di
credenze fondate su dogmi e riti, che hanno lo scopo di avvicinare i fedeli a
delle identità soprannaturali. La religione potrebbe essere definita come un
insieme più o meno coerente di pratiche e rappresentazioni che riguardano i
fini ultimi e le preoccupazioni estreme di una società di cui, una forza
superiore all’uomo, si fa garante. La religione sembra avere
prevalentemente due funzioni: quella integrativa, che ha il compito di
spiegare e affermare i valori; e quella protettiva che pretende di difendere la
bontà e la verità di quelli che lei ritiene i valori ultimi della società.
Quest’ultima funzione si esplica attraverso riti (sono le azioni che mettono in
scena i concetti), miti (racconti che organizzano i concetti in discorsi) e
simboli (veicolano concetti).
I CULTI: sono le usanze e gli atti per mezzo dei quali il sentimento religioso si
esprime: i culti individuali sono quelli praticati dal singolo individuo come ad
esempio la pregheria, all’interno di un codice socialmente riconosciuto. I
culti sciamani, tipici della società nelle quali il contatto con le presenze
invisibili è assicurato, grazie all’opera di particolari individui. I culti
comunitari sono le pratiche religiose che prevedono la partecipazione di
gruppi organizzati sulla base di età, sesso e funzione sulla base volontaria,
riuniti temporaneamente per questo specifico scopo. I culti ecclesiastici
sono quelli che prevedono l’esistenza di gruppi e individui specializzati nei
culti, in possesso quasi sempre di testi scritti. I culti di rivitalizzazione sono
quelli in cui un gruppo dichiara di puntare al miglioramento delle proprie
condizioni di vita, nei quali i riti e le rappresentazioni hanno lo scopo di
rivitalizzare il senso di identità. I culti millenaristici sono quelli che, nati in
contrasto agli eventi colonialisti, elevano momenti passati di pace. I culti
messianici sono quelli sorti dall’incontro tra il cristianesimo e culti locali,
caratterizzati dalla presenza di una grande personalità.
I TABU’: con questo termine si indicano tutte le proibizioni relative ad esseri
animati o cose. Un tabù prevede: un agente, cioè qualcuno che lo definisce
come tale; una prospettiva, perché ciò che è tabù per un gruppo non è un
tabù per tutti ed infine un contesto.
CREATIVITA’ CULTURALE: questo concetto riguarda la capacità che hanno gli
uomini di creare qualcosa di nuovo dai modelli culturali; la creatività è
quindi la capacità di produrre novità attraverso la combinazione di pratiche
culturali già esistenti. Un esempio di creatività culturale sono le feste, che
segnano un momento di rottura con il corso ordinario della vita; nella festa
di creano gruppi e sottogruppi che sono punti di aggregazione autonoma,
che sviluppano la festa secondo dinamiche casuali. La festa diventa terreno
culturalmente creativo, dove i partecipanti sperimentano la dimensione
comunitaria: l creatività della festa altro non è che la possibilità di compiere
accostamenti simbolici inediti o comunque insoliti, attraverso cui sia
possibile trasmettere concetti e stati d’animo difficilmente esprimibili.
POTERE DELLE RISORSE E LA RISORSA DEL POTERE: per risorsa s’intende un
bene materiale, che sia esso concreto e tangibile, quanto simbolico. Una
risorsa è qualunque cosa il cui controllo consente a un individuo di
perseguire degli scopi. L’acquisizione delle risorse e la loro disponibilità non
sono disgiunti dal concetto di potere, e riguardano la possibilità di un
gruppo o un individuo hanno di imporsi sugli altri. Tutto quello che riguarda
la gestione, la produzione e lo scambio delle risorse riguarda l’economia
(sistema di mercato); quello che invece si occupa delle relazioni di potere è
nel dominio della politica (istituzioni politiche). Con lo sviluppo
dell’etnografia fu subito chiare che tutti i popoli del mondo avevano un loro
modo di produrre risorse. Malinowski condusse una ricerca nelle isole
malesiane, che costituì la base per gli studi antropologici sulle economie
arcaiche. Quello che studiò fu una particolare forma di scambio chiamata
Kula; definita come rituale è legata a regole che apparentemente risultano
prive di un significato economico. Gli abitanti delle isole compiono
periodicamente delle traversate pericolose per incontrare gruppi con i quali
mantengono relazioni di scambio, allo scopo di ribadire le relazioni di
collaborazione. Keda è il termine che si utilizza per indicare il cammino
percorso dagli oggetti che entrano nello scambio Kula. Il sistema Kula è un
sistema multicentrico, dal moment che un individuo può essere coinvolto in
molti Keda. Molti degli oggetti utilizzati provengono dall’occidente, che con
l’arrivo dei coloni erano entrati nei circuiti Kula. La produzione, la
distribuzione e la circolazione delle risorse riguardano quindi l’antropologia
economica; settore dell’antropologia sviluppatosi grazie a Polanyi,
economista che si concentrò sull’economia comparata. Questa visione
dell’economia pone l’accento sulla dimensione sociale di quest’ultima.
L’economia è quindi un processo istituzionalizzato dipendente quindi dalle
strutture social, Polanyi riconosce all’interno della società tre tipologie di
forme di distribuzione e scambio:
 Quella retta dal principio di reciprocità (basata sulla simmetria)
società in cui prevalgono gli scambi di tipo simmetrico
 Quella fondata sulla ridistribuzione (basata sulla centralità) è presente
un’autorità che concentra su di sé i prodotti che provengono dalla
periferie per poi essere ridistribuiti
 Quella fondata sullo scambio (basata sul mercato) le merci circolano
sulla base della domanda e dell’offerta.
Claude Meillassoux concentrò i suoi studi sulle comunità domestiche; gruppi
di individui consanguinei o coresidenti che contribuiscono all’attività di
sussistenza. Quest’economia è fondata su un accesso paritario al mezzo di
produzione per eccellenza, cioè la terra. Tuttavia all’interno di queste società
vige il principio dell’anzianità sociale come fondamento dell’autorità; gli
anziani (uomini sposati con prole capace di lavorare la terra) detengono il
potere decisionale su quella che risulta essere la risorsa più importante di
tutte: le donne.
Le teorie del potere sviluppate nel 900 in occidente avevano cercato di
cogliere la sostanza del potere; quelle più recenti pongono invece l’accento
sul carattere persuasivo del potere. La ricerca di Foucault non definisce il
potere come sostanza, ma piuttosto cerca di vedere come esso agisce, lo
studioso sostiene che il potere sia ovunque, annidato nei modelli culturali
che introiettiamo e che ci determinano. il potere assume una nuova
connotazione: Weber lo definisce come la probabilità che un soggetto ha di
realizzare i propri scopi nonostante le possibili resistenze. Il potere riproduce
rappresentazioni di sé stesso. Lo studio antropologico del potere ha posto
attenzione alle diverse modalità in cui si crea un’arena politica, cioè uno
spazio astratto occupato da tutti gli elementi che determinano il conflitto
politico. La politica diventa quindi come uno spazio in cui si disputa la partita
per il potere. Si può distinguere tra sistemi politici centralizzati cioè stati (lo
stato è la forma politica oggi dominante, possiede: autorità centralizzata;
apparato burocratico-amministrativo sviluppato, la prerogativa di emanare
leggi, monopolio della forza come mezzo per far rispettare leggi. Le società
organizzate su base statale presentano: un accesso alle risorse differenziato,
una stratificazione sociale, rapporti impersonali che diventano il criterio
regolatore delle relazioni sociali. Molti degli stati presenti in epoca
precoloniale erano stati dinastici, in cui dominavano élite ereditarie.) e
potentati (una condizione politica tra stato e tribù, può essere rappresentato
come un insieme di insediamenti o segmenti che corrispondono ciascuno ad
uno o più gruppi di discendenza. Un potentato può avere un nucleo politico
intratribale o sovratribale ; e sistemi politici non centralizzati cioè bande (la
forma d’organizzazione politica più elementare, oggi meno diffusa; la banda
è caratteristica dei gruppi di cacciatori/raccoglitori nomadi, la struttura
politica della banda è ristretta e informale, priva di una gerarchi decisionale)
e tribù (società in cui sono presenti più gruppi di discendenza che si
considerano l’un l’atro come antenati. L’organizzazione politica delle tribù è
acefala, priva cioè di un potere centrale. Le società tribali coltivano l’idea di
uguaglianza e dell’autonomia individuale, nonostante ciò, sono società
piuttosto instabili e propense alla formazione di distinzioni interne). I

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