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Antropologia culturale, di Emily A. Schultz e Robert H.

Lavenda

1. Prefazione: la prospettiva antropologica

L'antropologia è lo studio integrato della natura, della società e del passato dell'umanità. Si tratta di una
disciplina che mira a descrivere ampiamente che cosa significhi essere umani, tenendo presente che le vite
sono caratterizzate da complicati intrecci e diversità.
Gli aspetti fondamentali dell'antropologia sono:
• l'olismo (principio filosofico e metodologico per il quale i sistemi complessi sono irriducibili alla
mera somma delle loro parti), sul quale si fonda lo sforzo di integrare tutto ciò che si conosce a
proposito degli esseri umani e delle loro attività; questo sulla base del fatto che tutti gli aspetti della
vita si intersecano tra loro, plasmandosi a vicenda fino a integrarsi;
• l a comparazione, che richiede di prendere in esame elementi di somiglianza e di differenza nel
massimo numero possibile di società umane;
• l'evoluzione (biologica e culturale), in base alla quale l'antropologo colloca le proprie osservazioni in
una cornice che tenga conto dei mutamenti spazio-temporali;
• la ricerca sul campo.
La cultura è l'insieme delle idee e dei comportamenti che gli esseri umani acquisiscono in quanto membri
della società e che usano per adattarsi al mondo in cui vivono e per trasformarlo. Essa, inoltre, è ciò che ha
esercitato l'influenza più profonda sulla natura e sulla società. I membri di un particolare gruppo sociale si
comportano in un certo modo non sulla base di caratteristiche genetiche innate, ma perché hanno osservato
gli altri, interagito con essi e imparato a mettere in atto il medesimo comportamento. Gli esseri umani, in
quanto privi di istinti animali automatici funzionali alla protezione, dipendono per la propria sopravvivenza
dall'apprendimento più di qualsiasi altra specie. Sono dunque organismi bio-culturali, giacché dotati di
caratteristiche biologiche che permettono la cultura e di una cultura che rende possibile la sopravvivenza
biologica.

L'antropologia è una materia interdisciplinare, spazia infatti dalle scienze naturali a quelle umanistiche.
Quella nordamericana è stata tradizionalmente suddivisa in quattro branche.
• L'antropologia biologica, che considera gli esseri umani alla stregua di organismi biologici e che
tenta di scoprire quali caratteristiche li differenziano da altri organismi e quali li accomunano, è nata
come tentativo di classificare tutte le popolazioni del mondo in razze distinte in base a caratteristiche
fisiche (es. colore della pelle) e oggi comprende la paleoantropologia e la primatologia.
• L'antropologia culturale (detta anche antropologia socio-culturale, antropologia sociale o
etnologia) dimostra come le diversità delle credenze e dei comportamenti nei vari gruppi umani sia
plasmata da insiemi di comportamenti appresi e di idee che gli uomini acquisiscono in quanto
membri della società. A prescindere dalla loro specializzazione (es. organizzazione sociale, vita
materiale, sussistenza ed economia o visioni del mondo), gli antropologi culturali di solito ricercano
sul campo, frequentando la popolazione a cui sono interessati (metodo dell'osservazione
partecipante), per poi procedere a un'etnografia o un'etnologia.
• L'antropologia linguistica (descrittiva, comparativa e storica) affronta la diversità culturale
mettendo in relazione le varie forme del linguaggio (il sistema di simboli vocali arbitrari che
vengono utilizzati per codificare la propria esperienza del mondo) con i rispettivi contesi culturali.
• L'archeologia (preistorica e storica), ovvero un'antropologia culturale del passato umano che implica
l'analisi di resti materiali di società antiche, è tesa a ricostruire la diffusione delle invenzioni culturali
nel corso del tempo da un sito a un altro e, di conseguenza, a formulare ipotesi sulla natura e sul
grado di contatto sociale tra popoli differenti in epoche remote.
• L'antropologia applicata è la branca dell'antropologia finalizzata all'elaborazione di soluzioni a
problemi pratici.
• L'antropologia medica, nata come forma di antropologia applicata, si pone a cavallo tra quella
biologica e quella culturale. Si occupa della salute umana, vale a dire delle patologie (disease) e
dell'esperienza soggettiva della malattia (illness). Inoltre l'antropologia medica critica presta
attenzione al modo in cui le divisioni sociali basate su classe, genere ed etnicità possano impedire
l'accesso alle cure mediche o rendere le persone più vulnerabili alla patologia e alla sofferenza.
2. Il concetto di cultura

La cultura non viene reinventata a ogni generazione, piuttosto viene appresa dagli altri membri del gruppo
sociale e poi eventualmente modificata. Essa è appresa, condivisa, basata su modelli, adattativa e simbolica:
• I l processo di apprendimento plasmato culturalmente e socialmente è definito attraverso la
socializzazione e l'inculturazione. Il primo termine indica il processo tramite cui gli esseri umani
imparano a vivere con i membri del loro stesso gruppo e a sapersi rapportare con le regole di
comportamento stabilite dalla società; il secondo indica il processo attraverso qui gli uomini devono
imparare a venire a patti con i modi di pensare e di sentire che sono considerati appropriati nelle
rispettive culture.
• La socializzazione/inculturazione, che produce un sé socialmente e culturalmente costruito capace
di funzionare con successo nella società, è condivisa e appresa. L'antropologo Pierre Bourdieu ha
chiamato habitus il tipo di apprendimento culturale che consiste in un assorbimento inconsapevole e
che è fortemente influenzato dalle nostre interazioni con la cultura materiale.
• Le culture umane si presentano caratterizzate da modelli, ossia credenze e pratiche connesse tra loro
che compaiono ripetutamente in aree diverse delle vita sociale. I modelli sono rintracciabili nel
tempo e variano nello spazio. Tale variazione permette di distinguere tradizioni culturali differenti.
• La cultura è adattamento perché è apprendendo le pratiche culturali di coloro che li circondano che
gli uomini giungono a padroneggiare i modi di agire e di pensare necessari ad assicurarne la
sopravvivenza come organismi biologici. Inoltre tali modi di vivere sono sempre fondati sugli
artefatti e sulle caratteristiche proprie di un particolare scenario locale. La culture e il cervello umano
sono co-evoluti, dal momento che ciascuna componente ha fornito caratteristiche chiave
dell'ambiente a cui l'altra doveva necessariamente adattarsi.
• La cultura ha carattere simbolico e un simbolo è qualcosa che sta per qualcos'altro. È la dipendenza
dall'apprendimento simbolico che distingue la cultura umana dall'apprendimento non simbolico al
quale si affidano le altre specie. Rick Potts ritiene che la moderna cultura simbolica, e le istituzioni
che da essa dipendono, discendano da più elementari abilità che sono emerse nel nostro passato
evolutivo. In questo modo per l'Homo sapiens la cultura non è solo fondamentale per l'adattamento
ma è divenuta anche il modo in cui i diversi gruppi umani si sono differenziati tra di loro.

La nostra eredità bio-culturale ci ha resi una specie avente la facoltà di usare sia la cultura intesa come
insieme di significati, sia la cultura materiale per superare le limitazioni biologiche. Questo riconoscimento
pone dinanzi alla questione se l'uomo possieda il libero arbitrio o se, al contrario, il suo comportamento sia
completamente determinato. Gli esseri umani che tentano di esercitare una qualche forma di controllo sulle
loro vite sono detti “agenti”, coloro che esercitano l'agency, una capacità d'azione che si esprime attraverso
l'elaborazione di interpretazioni, la formulazione di obiettivi e la preparazione di ciò che serve a perseguirli.
Gli agenti, tuttavia, non possono sfuggire al contesto culturale e storico entro il quale agiscono. È quindi
necessario stabilire in che modo si rapportano cultura, storia ed agency. L'olismo stabilisce che la realtà ha
una natura complessa che non si presta a essere dissezionata in singoli elementi isolati tra loro; occorre
invece riconoscere le relazioni e le connessioni che sussistono tra tali elementi, i quali, compenetrandosi a
vicenda, si definiscono reciprocamente. Bisogna considerare, infatti, che gli esseri umani si sviluppano e
vivono in gruppi plasmati da modelli culturali e che sono influenzati dalle esperienze condivise. Per
comprendere appieno questo concetto, che si basa sulla relazione tra le parti, è utile introdurre il termine di
co-evoluzione (il rapporto tra processi biologici e culturali), il quale suggerisce che gli organismi umani, il
loro ambiente fisico, i loro manufatti e le loro pratiche simboliche si co-determinano a vicenda.
L'etnocentrismo è l'opinione secondo la quale il proprio modo di vita è naturale e giusto, l'unico per essere
pienamente umani. Questo tipo di atteggiamento può condurre al razzismo, alla guerra e al genocidio, ossia
il tentativo deliberato di sterminare un intero gruppo basandosi su caratteristiche culturali. La verità
incorporata in qualunque tradizione culturale, tuttavia, è destinata a essere parziale, approssimativa e aperta a
ulteriori sviluppi.
I l relativismo culturale è definito come la comprensione di un'altra cultura nei suoi propri termini in
maniera sufficientemente empatica da farla apparire come un progetto di vita coerente e dotato di senso. Il
fine del relativismo consiste nel promuovere questo tipo di comprensione delle diverse pratiche culturali.
Qualsiasi procedimento (anche fisicamente doloroso) può apparire del tutto accettabile se inserito in uno
specifico contesto di significato.
3. La ricerca etnografica sul campo

La ricerca etnografica sul campo consiste in un prolungato periodo di stretto coinvolgimento con le persone
di cui l'antropologo intende studiare il modo di vita. La raccolta di dati che ne deriva si definisce
osservazione partecipante, la quale consente allo studioso di interpretare ciò che le persone dicono e fanno
in base alle loro credenze e valori culturali, alle intenzioni sociali e al più ampio contesto politico entro cui si
svolge la loro vita, arrivando, così, a una comprensione olistica della cultura e della condizione umana.
L'approccio positivista è un metodo di ricerca tradizionalmente scientifico adottato dalle scienze sociali e
basato sull'idea che i fatti vadano separati dai valori. Alla base di tale approccio vi è la convinzione che si
possa usare un unico metodo scientifico per indagare la realtà e giungere in questo modo a una teoria del
tutto, producendo una conoscenza oggettiva che vale universalmente in ogni epoca e luogo. Il campo di
ricerca dell'etnografo diviene un “laboratorio” entro cui si raccolgono resoconti accurati e sistematici dei
modi di vita dei popoli considerati. L'etnografia che ne risulta consiste in un insieme di fatti oggettivi che
escludono un coinvolgimento personale. L'approccio positivista è stato messo in discussione negli anni 1970-
1980, quando gli antropologi hanno dimostrato come osservatori diversi, partendo da assunti diversi,
producessero conoscenze diverse sulla stessa società. Occorre considerare il modo in cui il retroterra degli
etnografi plasma il loro lavoro sul campo e le dimensioni etiche e politiche che essi stabiliscono con i loro
informatori. Il concetto di campo come “laboratorio” si rivela inefficace giacché l'oggetto di studio sono altri
esseri umani, verso i quali si hanno obblighi etici e con i quali si rischia di incorrere in complicazioni
generate da fattori politici. Ai fini della comprensione interculturale è dunque necessario un coinvolgimento
umano e una raccolta di dati inter-soggettivi.
L'approccio riflessivo si basa sulla riflessività (pensiero critico sul proprio modo di pensare, riflessione sulla
propria riflessione). Questo tipo di ricerca sul campo prende in considerazione una gamma più vasta di
informazioni contestuali, presta infatti maggiore attenzione al contesto etico e politico della ricerca, al
retroterra culturale dei ricercatori, al coinvolgimento degli informatori e alle relazioni collaborative che si
instaurano. La conoscenza etnografica va considerata come conoscenza situata (contestualizzata), la quale
comporta che l'etnografo renda esplicita la sua identità, così che si possano definire le modalità di interazione
che quest'ultimo è in grado di intrattenere con i propri informatori. Qualsiasi etnografia deve essere
considerata come una conoscenza situata, prodotta sulla base di conoscenze parziali di specifici etnografi che
lavorano con specifici informatori, le cui relazioni reciproche sono plasmate da particolari contesti.
L a ricerca sul campo multisituata si è affermata in seguito agli anni 1980-1990, allorché si è sentita
l'esigenza di situare la propria opera in un contesto globale. Si tratta di un tipo di ricerca relativa a processi
culturali che non sono circoscrivibili entro confini sociali, etnici, religiosi nazionali. Gli antropologi hanno
iniziato a considerare gli ordinamenti sociali e le concezioni culturali non come pratiche senza tempo, ma
come prodotti della risposta attiva alle pressioni esterne, e fare ricerca sul campo spostandosi da un sito
all'altro. Gli etnografi che accumulano una serie di prospettive parziali, derivanti dal fatto che cambiano gli
scenari e i soggetti con cui lavorano, mettono in pratica ciò che Donna Haraway chiama posizionamento
mobile. Adottando una varietà di punti di vista situati e confrontandosi con altri studiosi diventa possibile
rivelare contraddizioni e stabilire analogie tra differenze che cono fonte di forte oggettività.
La dialettica della ricerca sul campo consiste in un processo di costruzione di un ponte di comprensione tra
l'antropologo e gli informatori, tale che l'uno incominci a comprendere l'altro. È necessario un tipo di
interpretazione che non riduca gli informatori a oggetti e questo è possibile adottando una forma
interpretativa basata sulla riflessività. Il fine è quello di arrivare a comprendere il sé culturale, passando per
la comprensione dell'altro culturale. Nella dialettica della ricerca sul campo sia gli antropologi sia gli
informatori sono agenti attivi: ciascuna parte si sforza di capire ciò che l'altro sta cercando di dire (la ricerca
antropologica sul campo è traduzione). È da questa attività reciproca che emerge una conoscenza nuova e
ibrida, prodotta dal comune tentativo di comprensione che scaturisce dalla collaborazione tra una parte e
l'altra. Gli antropologi che si rifiutano di contestare (o di essere contestati) disumanizzano tanto se stessi
quanto gli informatori. Pertanto occorre evitare sia l'etnocentrismo sia la spersonalizzazione. Gli incidenti
nella comunicazione, inoltre, conducono a un approfondimento delle proprie intuizioni e a un ampliamento
della comprensione reciproca.
Dato che i significati culturali vengono costruiti inter-soggettivamente nel corso della ricerca, i fatti culturali
non parlano da sé, bensì solo quando vengono interpretati e situati in un contesto di significato che li renda
intelligibili. Non esiste alcuna conoscenza oggettiva quando gli esseri umani sono al medesimo tempo
soggetti e oggetti di studio. Il resoconto etnografico è e deve essere incompiuto, in quanto gli esseri umani
sono sistemi aperti e disomogenei.
4. Lo sviluppo storico dell'antropologia

Gli antropologi incominciarono, a partire dal diciannovesimo secolo, a classificare le culture umane in
diverse categorie basate su quelle che ritenevano essere le loro similitudini o differenze. Con il passare del
tempo sono stati messi in dubbio gli scopi delle classificazioni e le categorie sono state modificate o
eliminate, rispecchiando i mutamenti del mondo e l'evolversi degli interessi degli antropologi.

4.1. Le origini dell'etnografia: il colonialismo e le tipologie evoluzioniste (1800)


Inizialmente l'antropologia si affermò come disciplina tesa ad analizzare le società sotto il dominio coloniale.
Lo sviluppo dell'antropologia è infatti profondamente legato alla storia dell'imperialismo europeo (ed euro-
americano). Il colonialismo, basato sull'economica politica (termine olistico che enfatizza la centralità
dell'interesse materiale e l'uso del potere per proteggere tale interesse), costituisce un sistema sociale nel
quale la conquista politica di una società da parte di un'altra sfocia nella “dominazione culturale
accompagnata a un mutamento sociale imposto” (Beidelman). In questo modo la vita indigena è stata alterata
per sempre: alcuni nativi hanno dato delle risposte entusiastiche, altri hanno finito per essere accomodanti,
seppur con risentimento, e altri ancora hanno optato per forme violente di rifiuto o hanno preso iniziative
volte a proteggersi dalle pressioni esterne. All'epoca era largamente diffusa la tesi secondo la quale i popoli
del mondo non occidentali fossero “senza storia”, persone, vale a dire, che avevano continuato a vivere come
avevano sempre vissuto finché il contatto con l'occidente non li aveva obbligati a cambiare. Secondo Talal
Asad, il primo ad affrontare in maniera diretta le connessioni esistenti tra l'antropologia e il colonialismo, “il
processo del potere europeo globale ha svolto un ruolo centrale nel compito antropologico di registrare e
analizzare il modo di vita delle popolazioni assoggettate”. Gli antropologi europei erano apprezzati per il
sapere esperto e potenzialmente utile alla gestione coloniale che potevano offrire, ma erano talvolta visti con
sospetto poiché tale sapere avrebbe anche potuto contraddire gli obiettivi amministrativi. I modelli culturali
che osserviamo sono stati ovunque condizionati dall'arrivo degli europei, dal capitalismo e dal colonialismo.
Il diciannovesimo secolo era dominato dalle tipologie (sistemi di classificazione delle società) evoluzioniste,
che identificavano le differenze tra sé e gli altri come mancanze. L'evoluzionismo culturale unilineare è
una teoria secondo cui tutte le civiltà attraversano degli stadi successivi fino a giungere alla civiltà. Tale
teoria vedeva ciascuna società come un differente stadio dell'evoluzione e con essa nacque la prima
importante tipologia antropologica delle forme sociali. Tale tipologia si componeva di tre categorie, le quali
recavano con sé delle implicazioni morali e una classificazione in razze:
• Selvaggi: cacciatori-raccoglitori
• Barbari: gruppi che avevano addomesticato piante e animali, ma che non avevano ancora inventato
la scrittura e lo stato
• Civiltà (Europa del XIX secolo)

4.2. Le tipologie socio-strutturali (1900)


L'evoluzionismo unilineare aveva giustificato le ambizioni globali dell'Europa e fatto apparire giusto e
inevitabile il governo coloniale, tuttavia si rivelò inadeguato ad affrontare le necessità pratiche dei governanti
una volta assunto il potere. Un'amministrazione efficace dei popoli sottomessi richiedeva informazioni
accurate sul loro conto. Gli antropologi, allora, e specialmente quelli britannici, elaborarono un nuovo modo
di classificare le forme della società umana. La loro attenzione si focalizzò sulla struttura socio-politica dei
popoli sottomessi. Nel 1940 Evans-Pritchard e Fortes distinsero le società a seconda che fossero o meno
organizzate in uno stato. I temi dell'evoluzione e del cambiamento passarono in secondo piano allorché gli
antropologi sociali si preoccuparono di capire in che modo venissero mantenute nel tempo le strutture
tradizionali delle società in cui lavoravano. Anche la classificazione delle strutture politiche di Lewellen non
si proponeva di formulare ipotesi sulle relazioni evolutive, bensì di focalizzarsi sulle differenze e le similarità
strutturali del momento (in risposta alle esigenze del colonialismo), lavorando quindi su di un piano non più
diacronico ma sincronico.
L o struttural-funzionalismo (Parsons) si propone di individuare la struttura di fondo della società e di
comprenderla mostrando le funzioni assolte dalle sue parti. Si riallaccia al funzionalismo di Durkheim, il
quale riconduce ogni fenomeno alla funzione che esso ha all'interno dell'insieme di cui è parte, la società. In
altri termini, la teoria struttural-funzionalista esplora come funzionano di giorno in giorno particolari forme
sociali al fine di riprodurre la struttura tradizionale della società. Questa prospettiva coincide con un
maggiore interesse per il motivo per cui le cose rimangono uguali nel tempo piuttosto che per il modo in cui
esse cambiano.
4.3. Franz Boas e la critica delle tipologie
La critica boasiana nei confronti delle tipologie si basa sul fatto che:
• i cambiamenti avvenuti nel tempo non hanno seguito una progressione di stadi uniformi tra i popoli
indiani dell'America settentrionale;
• le nuove forme culturali sono più spesso mutuate da società vicine che non inventate in modo
indipendente;
• il prestito culturale mette a sua volta in luce la porosità dei confini che separano le diverse società.
Boas inoltre critica la teoria struttural-funzionalista sulla base del fatto che le società non sono tipi sociali
circoscritti e atemporali caratterizzati da strutture costanti.
I seguaci di Boas, fautore del particolarismo storico, si focalizzarono sui modelli attraverso i quali il
prestito culturale avviene nel corso del tempo (studio delle aree culturali) ed elaborarono elenchi di tratti
culturali (caratteristiche specifiche di un particolare gruppo), determinando il loro grado di diffusione da una
società all'altra. Definirono, dunque, l'area culturale come la zona di prestito (di diffusione) di un certo tratto
culturale.

4.4. La biologia della variabilità umana e l'abolizione della “razza”


Mentre la macroevoluzione riguarda i mutamenti evolutivi e lungo termine (la genesi delle specie e la loro
diversificazione nello spazio), la microevoluzione si concentra sui cambiamenti evolutivi a breve termine,
che si verificano nell'ambito di una data specie nell'arco di un numero relativamente ridotto di generazioni.
Dopo la Seconda guerra mondiale gli antropologi biologici abbandonarono l'antropologia fisica basata sul
concetto di razza e abbracciarono i metodi della genetica di popolazione al fine di affrontare questioni
concernenti i modelli di variazione biologica della specie umana nel suo complesso. Gli esseri umani, che
appartengono tutti a una stessa specie in quanto aventi la facoltà di riprodursi qualunque sia la loro
provenienza, non sono suddivisi in una serie di unità geneticamente distinte. La differenze che sussistono tra
di essi sono piuttosto dovute a particolari fenotipi, la cui distribuzione si modifica gradualmente da un luogo
all'altro. Il modello della variazione graduale della frequenza geografica di un fenotipo nelle popolazioni
umane è detto cline. I clini non sono gruppi, ciascuno di essi è una mappa della distribuzione di un singolo
tratto. L'analisi clinale mette alla prova il concetto biologico di razza e scopre che in natura non vi è nulla
che lo confermi e che anzi non è altro se non un costrutto simbolico basato sull'elaborazione culturale di
poche e superficiali differenze fenotipiche. Nel corso degli anni 1960-1970 gli antropologi sostituirono alla
spiegazione razziale delle differenze sociali spiegazioni di ordine culturale.

4.5. Le realtà post-coloniali


Durante la Guerra fredda (tra il 1948 e il 1989) nacquero nuove categorie che classificavano gli stati
nazionali in Primo mondo (o sviluppato), Secondo mondo e Terzo Mondo (o sottosviluppato).
Molti stati sono ex-colonie, i cui confini sono stati negoziati da altri e spesso includono una cittadinanza
eterogenea, composta da gruppi che prima della colonizzazione non condividevano un senso di identità
nazionale. Ancora nel XX secolo si riteneva che l'esito finale verso cui convergono tutti gli stati nazionali
fosse una forma di società analoga ai moderni stati europei e nordamericani (come se il merito di questi
ultimi, con il colonialismo, fosse stato di avviare le società arretrate sulla strada della prosperità). Il periodo
coloniale ha provocato conseguenze distruttive, tra cui la disomogenea diffusione del capitalismo e le
inuguaglianze che ne risultano. Lo sviluppo del mondo ricco ha prodotto il sottosviluppo di quello povero
attraverso la colonizzazione delle terre, lo sfruttamento della popolazione e l'espropriazione delle ricchezze.

4.6. La globalizzazione
Dopo la fine della Guerra fredda, emersero movimenti sociali che si estendevano oltre le località tradizionali
e che spesso superavano le istituzioni formali dei governi nazionali e si affermò il neoliberismo (il cui fine
era quello di far confluire gli stati nazionali entro la sfera di influenza di un economica capitalista globale).
Con la globalizzazione (consistente nel rimodellamento delle condizioni di vita locali a opera di potenti forze
globali che agiscono con sempre maggiore intensità) non è più possibile supporre che le persone e le culture
siano solidamente legate a specifiche localizzazioni geografiche. La ricerca antropologica odierna su tale
fenomeno tenta infatti di spiegare le modalità tramite cui il globale si articola nel locale.
Di recente, i flussi globali di tecnologie e merci hanno inoltre spinto gli etnografi a estendere i loro interessi
a campi inediti quali l'ingegneria informatica, la scienza e la medicina.
5. Il linguaggio umano

Il linguaggio è un fenomeno bio-culturale, un sistema, modellato e storicamente trasmesso, di simboli


arbitrari che gli esseri umani usano per codificare e comunicare la loro esperienza del mondo e degli altri.
Relativamente all'antropologia, il linguaggio è uno strumento per comunicare sul campo, costituisce un
oggetto di studio specifico e rivela diverse informazioni sulle culture. Alcune scuole di teoria antropologica
hanno basato le proprie concettualizzazioni relative alla culture su idee mutuate dalla linguistica. Da ciò sono
derivati il principio del relativismo linguistico, secondo cui la lingua ha il potere di plasmare il modo in cui
le persone vedono il mondo, e quello del determinismo linguistico, che riduce in modo totalizzante i
modelli del pensiero e della cultura a quelli della grammatica e delle lingua che si parla.
Se si vuole ottenere una comprensione olistica del linguaggio, il sistema linguistico non può prescindere del
contesto culturale dal quale è stato estratto: ciascuna lingua umana è adeguata per i bisogni di coloro che la
parlano, dato il loro particolare modo di vita. Le lingue sono associate a specifici gruppi di persone (le
comunità linguistiche), ma non tutti i componenti di una stessa comunità possiedono un'identica conoscenza
della lingua che condividono.
Le caratteristiche costitutive del linguaggio umano, o design features (Charles Hockett, 1966) sono:
• l'apertura (la capacità di creare e comprendere messaggi, di capire la stessa cosa da diversi punti di
vista);
• il distanziamento (la capacità di parlare di oggetti assenti o inesistenti e di eventi passati e futuri);
• l'arbitrarietà (l'assenza, nel linguaggio, di qualsiasi nesso obbligato tra suono e significato);
• la dualità di strutturazione (un livello di suono composto da fonemi e uno grammaticale composto da
morfemi);
• la semanticità (l'associazione dei segnali linguistici con aspetti del mondo sociale, culturale e fisico
di una comunità);
• la prevaricazione (la capacità di elaborare enunciati o domande che violano le convenzioni).
Le componenti del linguaggio sono:
• la fonologia (lo studio dei suoni di una lingua)
• la morfologia (lo studio del modo in cui si costruiscono le parole)
• la sintassi (lo studio della struttura della frase)
• la semantica (lo studio del significato che comprende la sinonimia, l'omofonia, l'antinomia, la
denotazione e la connotazione)
• la pragmatica (lo studio della lingua nel suo conteso d'uso, il quale può essere linguistico e non
linguistico).
L'etno-pragmatica è lo studio dell'uso del linguaggio che si basa sull'etnografia per illuminare i modi in cui
il discorso è costituito dall'interazione sociale e, insieme, la costituisce. Questo genere di studio si basa sulla
pratica, l'attività umana nella quale le regole di grammatica, i valori culturali e l'azione fisica si combinano
tra loro. Tale prospettiva situa la fonte del significato nell'attività sociale quotidiana ordinaria, o habitus,
piuttosto che nella grammatica. Persone mutuamente coinvolte nell'interazione danno forma a pratiche
comunicative che implicano il linguaggio verbale, ma comprendono anche valori e conoscenze abituali
condivise che potrebbero anche non venire mai espresse a parole. La conoscenza linguistica è caratterizzata
da eteroglossia, termine che denota l'uso simultaneo di diversi tipi di discorso o di altri segni. Essa descrive
una molteplicità di norme e forme linguistiche coesistenti, molte delle quali sono ancorate a più di un
sottogruppo sociale. Il significato di ciò che diciamo è il risultato sia delle proprietà formali del linguaggio
sia dalla situazione contestuale.
I l pidgin è una lingua secondaria, priva di parlanti nativi, che rispecchia il contesto nel quale ha avuto
origine (spesso quello della conquista coloniale) e che si sviluppa nel corso di un'unica generazione tra i
membri di una società che parlano lingue madri distinte. La lingua creola, invece, è la lingua principale di
una comunità linguistica che ha avuto origine dalla combinazione di diverse lingue.
L e ideologie del linguaggio sono regole non scritte, condivise dai membri di una comunità linguistica,
relative ai tipi di linguaggio a cui si attribuisce valore. Esse emergono dalla storia politica, sociale e culturale
dei gruppi a cui appartengono e coincidono con i modi in cui viene rappresentata l'intersezione tra le forme
sociali e le forme del parlato. Si tratta di marcatori di conflitti tra gruppi portatori di interessi differenti, che
si rivelano in ciò che le persone dicono e nel modo in cui lo dicono. La maniera in cui le persone controllano
il proprio modo di parlare così da allinearlo a una particolare ideologia del linguaggio rivela come queste
ideologie siano attive ed efficaci nel trasformare la realtà materiale che commentano.
6. Il gioco, l'arte, il mito e i rituali

I l gioco è un inquadramento (o conteso orientativo) che viene coscientemente adottato dai giocatori, che
risulta in piacevole e che ha una relazione sistematica con il non-gioco, in quanto allude a esso trasformando
oggetti, ruoli, azioni e relazioni tra fini e mezzi. Robert Fagen lo considera un prodotto della selezione
naturale, in quanto funzionale ai fini dello sviluppo cognitivo e motorio e all'acquisizione di strumenti per
fronteggiare le difficoltà dell'età adulta. Secondo Gregory Beateson entrare/uscire dalla dimensione del gioco
richiede meta-comunicazione (comunicazione concernente il processo comunicativo stesso), la quale può
essere di due tipi. Il framing (“inquadramento”) definisce certi comportamenti come gioco oppure come vita
ordinaria: all'interno del frame (“cornice”) del gioco il principio d'identità non vale, ovverosia la stessa cosa
viene trattata in modi diversi. Vi è poi il tipo di meta-comunicazione basato sulla riflessività: il gioco
costituisce un modo per speculare su ciò che potrebbe essere anziché su ciò che dovrebbe essere o che è,
offrendo l'opportunità di riflettere sulle dimensioni sociali e culturali del mondo.
Lo sport è un genere di gioco fisico basato su delle regole e sulla rivalità. È un componente della cultura e,
in quanto tale, è modellato ritualmente. Esso, inoltre, è immerso nell'ordine sociale dominante: rispecchia i
valori di fondo del contesto culturale in cui è praticato e nel momento in cui lo si traduce in un nuovo
contesto culturale, viene trasformato. Secondo Janet Lever la caratteristica universale dello sport nello stato
nazionale è quella di favorire la coesione sociale, l'unità politica e la fedeltà alla nazione.
L'arte è un “giocare con la forma, che produce una quale trasformazione-rappresentazione esteticamente
riuscita” (Alexander Alland). Il duplice termine trasformazione-rappresentazione riguarda il processo nel
quale l'esperienza viene trasformata mentre la si rappresenta simbolicamente. Si tratta di una sorta di gioco,
soggetto a restrizioni culturalmente appropriate in termini di forma e contenuto, che si propone di suscitare
una reazione estetica. Le valutazioni estetiche sono giudizi di valore modellati dalla cultura: si riconosce
l'arte nelle altre culture in base alla sua somiglianza con ciò che si definisce come arte nella propria cultura.
La distinzione tra “arte” e “non-arte”, dunque, non è universale. Shelly Errington distingue l'arte
intenzionale (art by intention) dall'arte per appropriazione (art by appropriation), costituita dagli oggetti
con un valore di esposizione che sono divenuti opere d'arte perché alcune persone hanno deciso che
appartenevano alla categoria dell'arte. Per Errington l'arte vuole che qualcuno intenda che quegli oggetti
siano arte, ma quel qualcuno non deve esserne il creatore.
Il mito è una narrazione (solitamente attinente alla sfera del sacro) che racconta il modo in cui i vari aspetti
del mondo sono così come li conosciamo e che, per risultare persuasiva, deve offrire spiegazioni plausibili
per l'esperienza della cultura, della società e della storia umana. Il suo potere deriva dall'abilità di dare
significato alla vita delle persone, le quali rinunciano a immaginare e ad attuare le proprie concezioni
alternative del mondo. Le verità dei miti sembrano auto-evidenti giacché integrano le esperienze personali
entro un insieme più ampio di concezioni relative al modo in cui funziona il mondo. Il mito è dunque teso a
mantenere prevedibile la vita sociale. Si tratta, infatti, di narrazioni astoriche usate per validare relazioni di
potere che fanno apparire l'ordine sociale come naturale o preesistente. Quando la codificazione del mito è
esplicita e la deviazione dal codice è condannata si parla di ortodossia (o dottrina corretta).
Malinowksi riteneva che per capire i miti fosse necessario comprendere il contesto sociale nel quale erano
incorporati. Li considerava, infatti, come statuti o giustificazioni dell'assetto sociale esistente, la cui
mutazione avrebbe comportato anche la mutazione del mito, tale da giustificare il nuovo ordinamento.
Lévi-Strauss affermava che i miti hanno strutture significative che vanno studiate in quanto tali, a
prescindere dagli usi che se ne possono fare. Dal suo punto di vista essi fungono da strumenti che permettono
di superare contraddizioni logiche e opposizioni in un certo contesto storico, in un certo punto della storia.
Il rituale è: (1) una pratica sociale ripetitiva composta da una sequenza di attività simboliche; (2) separato
dalla routine sociale della vita quotidiana; (3) aderente a uno schema culturalmente definito e caratteristico;
(4) collegato a uno specifico insieme di idee spesso codificate in un mito; (5) eseguito da coloro che
asseriscono di essere autorizzati a farlo da un'entità che si trova al di fuori di loro.
I riti di passaggio presentano, secondo Arnold Van Gennep, strutture molto simili: hanno inizio con un
periodo di separazione dai simboli e dalle pratiche della vita quotidiana; comportano poi un periodo di
transizione (caratterizzato da liminabilità, lo stato ambiguo delle persone che non si trovano più nella
vecchia vita né ancora in quella nuova); si concludono con la riaggregazione, durante la quale la persona è
reintrodotta nella società in una nuova posizione. Nonostante gioco e rito siano entrambi forme della meta-
comunicazione, mentre il primo è segnato dal concetto di “inautenticità”, il secondo è preso per verità, in
quanto collegato al mito. Quando quasi ogni atto della vita quotidiana è ritualizzato si parla di ortoprassi.
7. Visioni del mondo e religione

Le visioni del mondo sono immagini, create dai membri di una società, in cui viene racchiusa una realtà e
attraverso cui si spiega l'esperienza. Il primo passo da compiere per studiare tali visioni è considerare i
simboli, i quali segnalano la presenza di un importante dominio dell'esperienza. Sherry Ortner ritiene che i
simboli riassuntivi rappresentino un intero dominio semantico e invitino a considerare i vari elementi al suo
interno e che i simboli elaborativi rappresentino soltanto un elemento di un dominio e invitino a collocare
tale elemento in un più ampio contesto semantico.
Le visioni del mondo si basano su metafore chiave, le quali si associano all'ordine, alla regolarità e alla
prevedibilità. Le metafore sociali sono a fondamento di una visione del mondo il cui modello è l'ordine
sociale (si ritiene che il macrocosmo e il microcosmo funzionino sulla base degli stessi principi). Le
metafore organiche sono a fondamento di una visione del mondo in cui l'immagine del corpo viene
applicata alle strutture e alle istituzioni sociali (funzionalismo). Infine, le metafore tecnologiche usano le
macchine costruite dagli esseri umani come predicati metaforici.
John Bowen definisce la religione come un insieme di idee (credenze) e pratiche (azioni) che postulano una
realtà al di là di quella immediatamente accessibile ai sensi. A.F.C Wallace ha proposto un insieme di
“categorie minime del comportamento religioso”:
• preghiera;
• esercizio fisiologico, comprendente metodi per manipolare fisicamente gli stati psicologici in modo
da indurre una condizione spirituale estatica (es. droghe, deprivazione sensoriale, mortificazione
della carne tramite il dolore, veglia prolungata, deprivazione di cibo);
• esortazione → aspettativa secondo cui le persone maggiormente in grado di stabilire una relazione
con le potenze invisibili devono usare tali capacità nell'interesse spirituale degli altri;
• mana → potere impersonale di natura sovrumana che si crede possa trasferirsi da un oggetto che lo
contiene a un altro che non lo contiene;
• tabù;
• feste;
• sacrificio.

Chi aderisce a una visione religiosa del mondo è fortemente convinto dell'esistenza e dell'attivo
coinvolgimento nella sua vita di essere o forze normalmente invisibili. Queste persone, al fine di parlare
della propria esperienza con Dio, con gli spiriti o con la stregoneria, faranno uso di un linguaggio metaforico
e poetico per farsi comprendere dagli altri. Le metafore sociali fanno si che i membri di una società
considerino le forze operanti nell'universo come esseri personificati dotati di molti degli attributi propri degli
agenti umani che operano nella società a loro nota. L'implicazione maggiore che discende da questo tipo di
metafora è che le forze operanti nell'universo siano personificate, sicché le persone che cercano di
influenzarle devono trattarle nello stesso modo in cui trattano i potenti. Per mantenersi in contatto con tali
forze è necessario che la religione venga istituzionalizzata tramite la creazione di posizioni sociali destinate a
specialisti, i quali controllano e incarnano la corretta pratica religiosa. Gli sciamani sono professionisti della
religione che si crede abbiano il potere di entrare in contatto con le potenze invisibili per conto di individui o
gruppi e che possano anche conseguire risultati negativi (come la malattia o la morte). I sacerdoti, invece,
sono professionisti della religione che praticano rituali religiosi a beneficio del gruppo Essi non hanno
necessariamente contatto diretto con le forze cosmiche, spesso il loro ruolo principale consiste nel mediare
tale contatto, garantendo che la necessaria attività rituale sia svolta in modo appropriato. Mentre gli sciamani
sono obbligati ad assumere quel ruolo, in quanto impostogli dagli spiriti stessi, i sacerdoti devono la loro
capacità di agire alla gerarchia dell'istituzione religiosa.
I cambiamenti drastici dell'esperienza inducono le persone a creare nuove interpretazioni capaci di aiutarle
ad affrontare tali mutamenti. Spesso questo conduce al sincretismo, ossia la sintesi fra vecchie e nuove
pratiche. Quando i gruppi difendono (nativismo) o trasformano (sincretismo) la propria visione della vita a
fronte di una pressione/intromissione esterna, gli antropologi parlano di rivitalizzazione (il tentativo
deliberato e organizzato di creare una cultura più soddisfacente in tempo di crisi).
Per divenire immagine ufficiale della realtà, una visione del mondo dev'essere in grado di dare senso alle
esperienze personali e sociali delle persone. Quando tuttavia la persuasione non basta subentra il potere.
Quando una visione del mondo è appoggiata da chi ha potere all'interno della società si può parlare di
ideologia, la quale giustifica gli ordinamenti sociali cui sono soggette le persone. Le visioni del mondo
vengono quindi usate come strumenti di potere facendo uso dei simboli intesi come verità auto-evidenti.
8. Potere e cultura

La capacità di agire implica potere, il quale consiste in una capacità trasformativa. Se determinate scelte
condizionano un intero gruppo sociale si parla di potere sociale (oggetto di studio dell'antropologia politica),
il quale, secondo Eric Woolf, si suddivide in tre modalità:
• il potere interpersonale indica la capacità di un individuo di imporre la propria volontà a un altro;
• il potere organizzativo indica la capacità di unità sociali di limitare l'azione di altre in particolari
contesi;
• il potere strutturale organizza gli assetti sociali e controlla la divisione del lavoro sociale.
Le circostanze materiali della vita quotidiana danno origine a campi di potere che incanalano e inibiscono
l'agency e la creatività culturale. Gli esseri umani possono talora esercitare il potere in modo creativo per
eludere o sovvertire tali restrizioni. In una società il potere opera in base a principi che sono creazioni
culturali arbitrarie influenzate dalla storia e che variano da un contesto sociale all'altro. All'inizio gli
antropologi politici ritenevano che il prototipo del potere sociale “civilizzato” fosse lo stato. Dal loro punto
di vista l'assenza di esso si traduceva in anarchia (nella lotta di tutti contro tutti definita da Hobbes) e, di
conseguenza, le forme di sfruttamento derivanti dal monopolio della forza da parte dello stato erano il prezzo
da pagare per l'ordine sociale. Le persone erano dunque visti come agenti liberi (dotati di free agency)
collaborativi solo se costretti a farlo. Questa visione del potere si basava sul concetto di coercizione e
considerava l'attività politica come una competizione fra liberi agenti individuali per il controllo politico.
Tuttavia è stato dimostrato che il potere si esercita sia con mezzi coercitivi sia attraverso la persuasione: gli
individui possono sottomettersi al potere istituzionalizzato sia perché temono di essere puniti sia perché
ritengono sia la cosa giusta da fare.

• Ideologia (def. marxista): visione del mondo che giustifica l'assetto sociale nel quale si vive.
• Dominio (def. gramsciana): governo coercitivo (spesso instabile e insufficiente).
• Egemonia (def. gramsciana): governo esercitato tramite persuasione, grazie alle abilità di
comunicazione e al carisma personale dei leader che rinunciano alla forza coercitiva.
• Bio-potere/bio-politica (Foucault): forma di potere nata nel XIX secolo che si esercita sui corpi dei
cittadini in quanto esseri viventi e sul corpo sociale stesso; tipo di politica che si occupa dei soggetti
come membri di una popolazione nell'ambito della quale i comportamenti sessuali e riproduttivi
possono essere plasmati dal potere statale.
• Governamentalità (Foucault): arte del governare appropriata per la bio-politica e atta a promuovere
il benessere della popolazione tramite l'uso di informazioni codificate in forma statistica.

Nelle società senza stato, in cui il potere è visto come entità indipendente dal diretto controllo umano e fa
parte dell'ordine naturale delle cose: (1) si può attingere a parte di quel potere attraverso metodi tradizionali e
riti; (2) si ha una visione del mondo che considera l'universo costituito da forze differenti in equilibrio tra
loro; (3) non sono ammessi mezzi coercitivi in quanto la violenza minaccia di distruggere l'equilibrio
universale; (4) ci si accosta al potere tramite la preghiera e la supplica; (5) gli individui sono liberi nel senso
che possono rifiutare di essere costretti contro la propria volontà a confermarsi ai desideri di qualcun altro
(esercitano, cioè, il potere della resistenza); (6) le decisioni sulle questioni che riguardano il gruppo si
prendono in base al consenso, a cui si giunge tramite la persuasione; (7) non esistono gerarchie giacché
l'insorgere di un potere statale gerarchico condannerebbe l'autonomia individuale, sconvolgendo l'armonioso
equilibro tra esseri umani e forze del mondo circostante.
Nessun sistema sociale riesce mai a imporsi totalmente: nonostante i singoli esseri umani non siano agenti
liberi (svincolati da responsabilità sociali), sono comunque dotati del potere della resistenza. È necessario
tenere conto del potere dell'immaginazione, con il quale chiunque può conferire significato al mondo. Il
potere che le persone hanno di conferire alle proprie esperienze significati da loro scelti suggerisce che il
potere coercitivo di chi li domina sia limitato. I dominati possono dunque costruire quelli che il politologo
James Scott chiama “verbali segreti”, ossia racconti nuovi e plausibili della loro esperienza della
dominazione che, se diffusi, hanno la possibilità di scardinare la coercizione stessa.
Si tratta di una contrattazione della realtà, ossia di una negoziazione socio-politica attraverso la quale le
persone attingono a elementi condivisi di una cultura e di una storia per persuadere gli altri della loro
posizione.
9. Necessità materiali e pratiche economiche

Le strategie di sussistenza sono le diverse modalità di produzione, distribuzione, e consumo che i membri
di una società utilizzano per assicurarsi il soddisfacimento dei bisogni materiali fondamentali, legati alla
sopravvivenza.
• I raccoglitori di cibo (coloro che raccolgono, pescano o cacciano) adottano strategie che dipendono
dalla ricchezza degli ambienti in cui vivono e, sulla base di ciò, possono essere su piccola scala o
complessi.
• I produttori di cibo (coloro che dipendono dalla domesticazione di piante e animali) sono i pastori e
gli agricoltori. Questi ultimi esercitano tre tipi di agricoltura: estensiva, intensiva o industriale
meccanizzata.

La nostra sopravvivenza dipende strettamente dalla cultura. Wilk ha definito l'antropologia economica
come il ramo della disciplina che affronta problematiche relative alla natura umana connesse alle decisioni di
vita quotidiana e lavorativa. Wilk e Cliggett hanno identificato tre campi teorici, ognuno dei quali si basa su
un diverso insieme di assunti concernenti la natura umana:
• modello dell'interesse personale (Illuminismo) → l'analisi si concentra sugli individui, i quali,
essendo innanzitutto interessati al proprio benessere (l'egoismo è un dato naturale), devono
massimizzare la propria utilità (o soddisfazione) in condizioni di scarsità;
• modello sociale → l'analisi si concentra sulle istituzioni e sul modo in cui le persone formano gruppi
(con i quali tendono a identificarsi) ed esercitano il potere; l'economia, da questo punto di vista,
consiste negli specifici processi culturali che i membri della società usano per procurarsi le risorse
materiali;
• modello morale → l'analisi parte dal presupposto che le motivazioni delle persone siano plasmate
da sistemi di credenze e valori guidati da una visione modellata culturalmente dell'universo e del
posto in esso occupato dall'uomo; gli individui, sulla base di ciò, sono socializzati e inculturati a tali
valori e interiorizzano un certa morale.

La distribuzione consiste nell'allocazione di beni e servizi.


L'economica neoclassica tenta di spiegare formalmente il funzionamento dell'impresa capitalistica con
particolare attenzione alla distribuzione. Mentre le relazioni economiche feudali distribuivano beni e servizi
agli individui e ai gruppi sociali in base al loro status, nel capitalismo la distribuzione ha iniziato ad essere
negoziata fra compratori e venditori sul mercato, nel quale avvengono gli scambi economici: ognuno ha
qualcosa da vendere (anche la disponibilità a lavorare) ed è un potenziale acquirente dei beni disposti da
altri. La distribuzione si basa, quindi, sulle forme si scambio, le quali possono essere varie. È infatti
etnocentrico ritenere che quella di matrice capitalistica sia la forma di scambio ideale rappresentante il
prototipo della razionalità umana. Essa non è altro che un invenzione recente nella storia umana ed è basata
su specifiche modalità che sono coerenti con i valori e le istituzioni delle società capitalistiche occidentali.
Marshall Sahlins, basandosi sull'opera di Karl Polanyi, ha proposto tre diverse forme si scambio:
1. L a reciprocità è la forma di scambio più antica ed è caratteristica delle società egualitarie. La
reciprocità generalizzata si ha quando lo scambio viene effettuato senza attendersi un immediato
contraccambio e senza specificarne il valore; la reciprocità equilibrata si ha quando ci si aspetta un
contraccambio di uguale valore in un dato limite di tempo; infine la reciprocità negativa è uno
scambio di beni e servizi in cui una delle due parti tenta di ottenere qualcosa senza dare nulla in
cambio e senza subire sanzioni.
2. La redistribuzione richiede una forma di organizzazione sociale centralizzata in quanto coloro che
occupano la posizione centrale ricevono contributi economici dai membri del gruppo per poi
redistribuire i beni in maniera che tutti possano beneficiarne.
3. L o scambio di mercato, inventato dalla società capitalistica, è la forma di scambio più recente e
consiste in uno scambio di beni (commercio) che viene regolato da un mezzo polivalente di scambio
e da uno standard di valore (denaro) ed effettuato tramite un meccanismo di domanda-offerta-prezzo
(mercato).
La produzione è la trasformazione di materie prime naturali in modo tale da renderle utilizzabili dall'uomo.
Alcuni antropologi economici, rifacendosi al pensiero di Karl Marx, considerano la produzione come la forza
motrice dell'attività economica, in quanto fornisce i beni ai quali la domanda deve adeguarsi e determina i
livelli di consumo. Il lavoro è l'attività che collega i gruppi sociali umani al mondo materiale ed è sempre
lavoro sociale. Gli uomini, per assicurarsi la sopravvivenza materiale, riproducono modelli di
organizzazione sociale, di pensiero e di produzione. Marx classificò i diversi modi attraverso cui i diversi
gruppi umani effettuano la produzione, ossia i modi di produzione, definiti da Eric Woolf come un insieme
di rapporti sociali specifico e storicamente determinato tramite il quale il lavoro viene impiegato per estrarre
energia dalla natura tramite strumenti, abilità, organizzazione e conoscenze (mezzi di produzione). Le
relazioni sociali che connettono gli uomini che usano un determinato mezzo di produzione nell'ambito di un
particolare modo di produzione si chiamano rapporti di produzione.
I modi di produzione fondamentali secondo Woolf sono:
• il modo basato sulla parentela (il lavoro sociale si esplica in base alle relazioni di parentela);
• il modo tributario (il produttore primario accede ai mezzi di produzione ma deve versare un tributo);
• il modo capitalistico (i mezzi di produzione appartengono ai capitalisti, i lavoratori devono vendere
il proprio lavoro).
I modi di produzione riguardano tanto le attività produttive materiali quanto le forme dell'organizzazione
sociale e politica. Molti antropologi sostengono infatti che le società possano essere classificate sulla base
dei loro modi di produzione, i quali, inoltre, contengono in sé il potenziale per un conflitto tra classi di
persone che ricevono in maniera differenziata benefici e perdite dal sistema produttivo. Ciò che è bene per
una classe può non esserlo per le altre. I modi di produzione descritti da Woolf descrivono, da un lato, la
strategia di sussistenza di una società e, dall'altro, la sua organizzazione socio-politica. I diversi modi di
produzione favoriscono delle classi a discapito delle altre: i poveri non sono tali a causa di qualche
inferiorità, ma in quanto impossibilitati ad avanzare dato che il modo di produzione è stato costruito in
maniera tale da impedire loro di vincere. Di conseguenza essi mettono in evidenza le linee di frattura lungo
le quali possono svilupparsi tensioni e conflitti. La teoria della produzione è quindi applicabile alla vita
socio-culturale: se un dato modo di produzione deve persistere nel tempo, allora anche i mezzi e i rapporti di
produzione dovranno persistere. A questo proposito gli esseri umani producono e riproducono le
interpretazioni del processo produttivo e dei rispettivi ruoli in quel processo (le ideologie).
Marshall Sahlins coniò l'espressione “società opulenta” al fine di contestare il tradizionale assunto
occidentale secondo cui la vita dei raccoglitori sarebbe caratterizzata da scarsità e quasi-inedia. Si ha
abbondanza (o opulenza) quando si dispone di più di quanto è necessario per soddisfare i bisogni di
consumo. I modi per creare abbondanza sono due: produrre molto, ed è il caso delle società capitaliste
occidentali, oppure desiderare poco.

Il consumo è l'utilizzo di beni materiali necessari alla sopravvivenza. Storicamente tre diversi approcci sono
stati sviluppati per analizzare i modelli di consumo nelle diverse società.
1. L a spiegazione interna (Malinoswki) parte da un'antropologia funzionalista per spiegare che si
producono beni materiali per soddisfare i bisogni fondamentali, a cui la cultura risponde, a proprio
modo, con una qualche forma di istituzione corrispondente. Questo tipo di approccio, tuttavia, non è
sufficiente per spiegare perché le società condividono gli stessi modelli di consumo.
2. La spiegazione esterna dell'ecologia culturale sostiene che i modelli di consumo dipendono dalle
particolari risorse esterne disponibili nell'eco-zona a cui una certa società deve adattarsi. Le prove
etnografiche hanno dimostrato che questa spiegazione, proprio come la prima, è inadeguata perché
ignora il ruolo della cultura nel definire i bisogni umani e nel provvedere al loro soddisfacimento
secondo una propria logica, indipendente dalla biologia, dalla psicologia e dalla pressione ecologica.
3. La spiegazione culturale sostiene che i bisogni di consumo sono selettivi, determinati da influenze
culturali. Certe preferenze di consumo, anche quelle che possono apparire irrazionali, assumono un
significato quando vengono considerate nel contesto delle altre preferenze e dei divieti di consumo
presenti nella medesima cultura. Le prime due spiegazioni ignoravano o negavano la possibilità
dell'agency umana.
10. I sistemi di parentela

La vita umana è vita di gruppo e i modi in cui ci si organizza si prestano a variazioni creative. Ogni
individuo è nato in una società già definita, in cui certe connessioni sociali sono più probabili di altre. La
relazionalità è l'insieme dei legami socialmente riconosciuti che connettono in vario modo le persone. Tali
relazioni sono inglobate in strutture di potere e di significato, dalle quali vengono plasmate. Per oltre un
secolo gli antropologi si sono concentrati su una forma di relazionalità basata su una sostanza condivisa
(corporea o spirituale) e sulla sua trasmissione (es. sangue). Quando scoprirono che in molte parti del mondo
si collegava la condivisione di una sostanza al concepimento, gli antropologi si convinsero che tutti gli
uomini basano i sistemi di parentela sulla biologia e sulla riproduzione (etnocentrismo). Il concetto di
relazionalità, tuttavia, non si può ridurre alle connessioni genealogiche: gli esseri umani si sforzano si
stabilire (o di appartenere a) collettività organizzate su scala regionale, nazionale o globale, nelle quali si
creano legami di solidarietà che non hanno niente a che vedere con il sangue o il sesso. I rapporti sociali
creati dagli uomini sono finalizzati alla coesione e all'ordine e si estendono al di là dei legami della
relazionalità quotidiana. A volte, inoltre, i legami con persone non formalmente imparentate possono essere
più forti. L'apertura dell'interdipendenza umana permette l'estensione dei legami di relazionalità. Anderson
ha coniato l'espressione comunità immaginata per riferirsi a costruzioni culturali, sociali e storiche che non
sono altro che il prodotto di pratiche abituali condivise e di immagini simboliche di un'identità comune.
I sistemi formali di parentela sono sistemi di rapporti sociali fondati su relazioni procreative prototipiche.
Le relazioni basate sull'accoppiamento, sulla nascita e sull'accudimento si definiscono rispettivamente:
matrimonio, discendenza e adozione. Ciascuna cultura enfatizza in modo selettivo, attraverso la parentela,
certi aspetti dell'esperienza piuttosto che altri. In altre parole la parentela è un'interpretazione culturale
selettiva delle comuni esperienze umane di accoppiamento, nascita e accudimento, che si traduce in una serie
di principi che permettono alle persone di considerarsi parte di un determinato gruppo, sulla base di regole di
residenza, discendenza, successione ed eredità. I sistemi di parentela, dunque, non si riducono a un mero
fatto biologico e stabiliscono sia i gruppi sociali sia la posizione reciproca delle persone facenti parte di tali
gruppi e aventi una serie di obblighi e di diritti l'una nei confronti dell'altra.
L a discendenza è il principio culturale che definisce le categorie sociali attraverso legami genitore-figlio
riconosciuti. Questo aspetto centrale della parentela comporta la trasmissione dell'appartenenza e l'inclusione
delle persone in gruppi. Nella discendenza bilaterale (o discendenza cognatica) il gruppo di discendenza è
formato da persone che si considerano imparentate tra loro attraverso legami stabiliti in misura eguale per
linea materna e paterna. Un gruppo parentale bilaterale raro è costituito dalle persone che si ritengono
imparentate tra loro grazie al legame con un antenato comune; il parentado bilaterale è più comune ed è
costituito da tutti i parenti di una persona (Ego) o di un gruppo di fratelli (siblings)
Nella discendenza unilineare i rapporti di discendenza si fanno risalire o alla madre o al padre. Nei sistemi
patrilineari l'individuo appartiene a un gruppo formato tramite legami stabiliti per linea maschile (il lignaggio
del padre); in quelli matrilineari, al contrario, vigono i legami stabiliti per linea femminile (lignaggio della
madre). Ciò significa che in una società patrilineare uomini e donne appartengono a un patrilignaggio,
mentre in una società matrilineare a un matrilignaggio. I lignaggi sono gruppi di discendenza formati da
membri consanguinei che ritengono di poter ricostruire tale discendenza a partire da antenati noti. Essi,
inoltre, hanno un'organizzazione di tipo corporato (il lignaggio gode di una singola personalità giuridica). Il
clan, invece, è un più ampio gruppo di discendenza i cui membri ritengono di avere un antenato comune
(talvolta mitico), anche se non sono in grado di specificare i legami genealogici. Nelle società in cui si
riscontra il sistema dei lignaggi, quest'ultimo diventa il fondamento della vita sociale.
Nonostante la varietà dei sistemi di parentela esistenti, gli antropologi hanno individuato sei principali
sistemi terminologici di parentela (basati sul modo in cui vengono classificati i cugini). Tali sistemi
rispecchiano le soluzioni date ai problemi strutturali che le società organizzate in base alla parentela devono
affrontare e delineano la struttura dei diritti e degli obblighi assegnati ai diversi membri della società. I criteri
per stabilire la parentela sono: generazione, genere, affinità (legame matrimoniale), collateralità,
biforcazione, età relativa.
Adozione è il termine usato per riferirsi a quelle pratiche che permettono alle persone di trasformare
relazioni basate sull'accudimento in relazioni di parentela. Si tratta di un modo per incorporare un estraneo
nel proprio gruppo di parentela, convertendo supposti status ascritti (posizioni sociali assegnate dalla
nascita) in status acquisiti (posizioni sociali che una persona può ottenere nel corso della sua vita).
11. Matrimonio e famiglia

I sodalizi sono raggruppamenti (segreti o pubblici), creati per finalità particolari e con varie funzioni, che
possono essere organizzati in base all'età, al sesso, al ruolo economico o all'interesse personale. Molte società
egualitarie hanno sviluppato sodalizi fondati su istituzioni formali di parentela al fine di creare società
immaginate con finalità di più ampia portata. L'appartenenza ai sodalizi spesso segna l'ingresso nell'età
adulta e può collegarsi a riti iniziatici.
I l matrimonio è un'istituzione che, a livello prototipico: trasforma lo status di un uomo e di una donna;
comporta implicazioni in merito alle relazioni sessuali; assicura alla prole una posizione nella società
(perpetuando i modelli sociali); stabilisce connessioni tra i parenti del marito e della moglie; riceve un
riconoscimento simbolico. Se si considera il matrimonio solo come un'azione rituale che si risolve in un
determinato momento, la sua definizione risulta decisamente rigida. Esso va invece considerato come un
processo sociale che si dispiega nel tempo e che si traduce in una varietà di pratiche. Esso dà origine a
connessioni parentali acquisite, le cosiddette relazioni di affinità, le quali si differenziano da quelle
consanguinee, basate sulla discendenza. Alcuni matrimoni sono contratti all'interno di un gruppo sociale
definito (modello dell'endogamia), altri tra partner che appartengono a due gruppi differenti (modello
dell'esogamia). In tutte le società alcuni parenti stretti sono proibiti sia come sposi sia come partner sessuali,
si tratta del modello esogamico noto come tabù dell'incesto.

Esistono diversi modelli matrimoniali:


• la monogamia;
• la poliginia;
• la poliandria adelfica (un gruppo di fratelli sposa la stessa donna);
• la poliandria associata (un gruppo di uomini non necessariamente imparentati è sposato a una stessa
donna);
• il matrimonio secondario (una donna può sposare uno o più mariti secondari rimanendo comunque
sposata a tutti i mariti precedenti e vive con solo uno di loro per volta).
Vi sono, inoltre, vari modelli di residenza post-matrimoniale, la quale può essere:
• neolocale;
• patrilocale;
• matrilocale;
• avuncololocale (gli sposi vivono con il fratello della madre del marito o nei pressi di casa sua);
• ambilocale (gli sposi si spostano dalla casa dei genitori della moglie a quella dei genitori del padre);
• duolocale (mariti e mogli vivono separatamente presso i rispettivi lignaggi).

In molte società il matrimonio è accompagnato dal trasferimento di certi beni di importanza simbolica. La
ricchezza della sposa (bridewealth) è comune soprattutto nelle società patrilineari è consiste nel
trasferimento di beni dal lignaggio dello sposo a quello della sposa, che viene risarcito per la perdita delle
capacità lavorative e procreative di lei. La dote consiste, invece, nel trasferimento di ricchezza familiare,
solitamente dai genitori alla propria figlia, la quale potrà così contribuire alla realizzazione del nuovo gruppo
domestico. La famiglia, nella sua definizione più semplice, è costituita da una donna e dai figli che da lei
dipendono. Alcuni antropologi, tuttavia, preferiscono distinguere questo tipo di famiglia, detta famiglia non
coniugale, da quello che invece prendere in considerazione anche il marito (famiglia coniugale). Altri tipi di
famiglia sono: la famiglia nucleare (famiglia monogamica locale costituita dalla generazione dei genitori e
da quella dei figli non sposati); la famiglia estesa, costituita da tre generazioni (genitori, figli sposati e
nipoti); la famiglia congiunta, in cui fratelli e sorelle vivono con le rispettive mogli/rispettivi mariti.
12. La disuguaglianza sociale

Le società stratificate sono società costituite da sottogruppi ordinati in modo gerarchico, caratterizzate da un
accesso sproporzionato e ineguale alla ricchezza, al prestigio e al potere. La disuguaglianza può emergere da
molteplici categorie: genere, classe, casta, razza, etnicità, nazionalità. Si tratta di invenzioni culturali che
circoscrivono comunità immaginate. Le ultime, più recenti, sono legate al colonialismo e al capitalismo.
Il genere è la costruzione culturale di credenze e comportamenti considerati appropriati per ciascun sesso e,
di solito, tende a subordinare fenotipicamente le femmine ai maschi. A partire dagli anni Settanta le
antropologhe femministe cominciarono ad analizzare i dati etnografici per stabilire se il sesso maschile fosse
una costante universale. Inizialmente tale ipotesi trovò riscontro in una forma di pensiero culturale binario
che opponeva il maschio alla femmina, ma in seguito si capì che i ruoli di uomini e donne variavano
enormemente sul piano storico-culturale. M. Strathern ha sostenuto che le relazioni tra i due sessi in una
certa società vanno considerate solo come un esempio di simbolismo di genere.
Le classi sono gruppi sociali ordinati gerarchicamente e definiti su base economica. La scuola europea, nata
in stati la cui divisione in classi risaliva al Medioevo (e perfino all'epoca romana), sosteneva che le classi
sociali erano gruppi prevalentemente chiusi e consolidati. Anche in seguito alla Rivoluzione industriale e a
quella francese, che promettevano maggiore uguaglianza, la situazione non cambiò: le classi non furono
abolite, ma semplicemente modificate. All'aristocrazia feudale subentrarono i capitalisti borghesi e ai
contadini delle aree rurali gli operai d'industria. Marx in particolare, definì le classi in relazione ai rapporti
che i loro membri detengono con i mezzi di produzione. In molte società la possibilità che emerga solidarietà
tra i contadini e gli operai viene messa a rischio dall'istituzione della clientela, che lega individui di livelli
più bassi a quelli di livelli più alti, percepiti come i propri “patroni”, garanti di sicurezza e protezione. Gli
studiosi statunitensi, invece, hanno teso a definire le classi sociali in termini di livelli di reddito e a sostenere
che esse fossero aperte, porose e permeabili (concezione che rispecchia il “sogno americano”).
La casta è un gruppo, posizionato a un certo livello della società stratificata, che si caratterizza per la sua
chiusura, in quanto l'appartenenza a una casta è ascritta alla nascita (non è possibile la mobilità sociale). Le
divisioni in caste dell'India rispondono a norme di purezza e di contaminazione definite in base
all'occupazione svolta dai loro membri, ai cibi di cui si nutrono e a ciò che stabilisce con chi si possono
sposare. Nel termine “casta” confluiscono il concetto di varna, che si riferisce alla nozione secondo cui la
società indiana è idealmente suddivisa in sacerdoti, guerrieri, agricoltori e mercanti, e il secondo concetto di
jati, che si riferisce a gruppi localizzati, dotati di un nome ed endogamici.
La razza è una categoria relativa alla popolazione umana, i cui confini si presume corrispondano a insiemi
distinti di attributi biologici. Tale concetto si sviluppò nel conteso delle esplorazioni e delle conquiste
europee cominciate nel XV secolo. Gli intellettuali europei desideravano sia spiegare l'esistenza della
diversità, sia giustificare il dominio coloniale. Stabilirono la divisione della specie umana in termini di tipi
naturali (le razze), distinti in base all'aspetto fisico (fenotipo). L'identificazione delle razze si trasformò in
razzismo: la sistematica oppressione di una o più razze socialmente definite a opera di un'altra razza
socialmente definita, in base alla pretesa superiorità biologica innata di chi domina.
L'etnicità è un principio di classificazione sociale usato per creare gruppi etnici basati su caratteristiche
culturali selezionate (es. lingua, la religione). Essa emerge da processi storici che incorporano in un'unica
struttura politica, in condizioni di disuguaglianza, gruppi sociali distinti. In una società stratificata su base
etnica, individui o gruppi possono manipolare l'etnicità per perseguire i propri scopi. Secondo P. Werbner
l'oggettivazione è il processo che genera l'etnicità “normale” o “quotidiana”, la quale si sviluppa attorno a
due questioni chiave: la richiesta di diritti etnici e una domanda di protezione contro il razzismo. La
reificazione, invece, è una forma di assolutismo etnico o razziale negativo, che incoraggia l'eliminazione
violenta di gruppi. È la violenza a differenziare il razzismo dall'etnicità quotidiana.
La nazionalità coincide con il senso di identificazione con uno stato nazionale. La nazione è un gruppo di
persone che si ritiene condividano la stessa storia, lingua e cultura. Dopo la Rivoluzione francese i
governanti ebbero bisogno di trovare una nuova base su cui fondare la legittima autorità statale; diedero così
origine agli stati nazionali, nei quali l'identità nazionale e il territorio politico coincidevano. Da un lato ogni
nazione ha diritto a uno stato, dall'altro uno stato che comprendere popolazioni eterogenee può essere
trasformato in una nazione, a patto che tutti i popoli che vivono entro i suoi confini siano messi nella
condizione di adottare una nazionalità comune. Gli sforzi messi in atto dai funzionari statali per accrescere il
senso di nazionalità si definiscono nazionalismo o costruzione della nazione. Il prototipo dell'identità
nazionale si basa di solito sull'egemonia trasformista, ovvero sul tentativo di definire la nazionalità a partire
dagli attributi del gruppo dominante, in cui vengono integrati alcuni elementi espressamente selezionati delle
pratiche culturali dei gruppi subordinati. Questi ultimi, tuttavia, vengono marginalizzati e svalutati.
13. L'antropologia medica

L'antropologia medica è la specializzazione dell'antropologia che si interessa alla salute umana, ovvero allo
stato di benessere fisico, emotivo e mentale che viene in gran parte plasmato dalle esperienze e dalle
aspettative culturali, sociali e politiche delle persone. La salute viene compromessa dall'insorgere di una
patologia (disease) o di un'esperienza di malattia (illness), che si riferisce alla concezione che la persona
sofferente ha del proprio disagio. Gli antropologi medici studiano il modo in cui le popolazioni umane
interpretano e affrontano tali condizioni. Le tradizionali forme occidentali di conoscenze e pratiche in questo
ambito rientrano nella biomedicina e sono basate sulla scienza biologica. La sofferenza indica una forma di
disagio fisico, mentale o emotivo sperimentato da individui che possono riconoscersi o meno nelle
concezioni biomediche della malattia. La sickness, invece, si riferisce alle relazioni sociali di malattia e alle
classificazioni di disagio riconosciute dai membri di una particolare comunità culturale. Nel caso in cui le
sickness non coincidano con le disease si parla di cultural-bound sydromes.
L'antropologia medica è un campo bio-culturale perché colloca la malattia e la salute all'interno di contesti
evolutivi sia biologici che culturali. Alla base di questa concezione vi è l'idea secondo cui gli adattamenti
biologici umani agli ambienti fisici sono mediati dalle pratiche culturali. Molti antropologi medici
conducono il loro lavoro ricorrendo alla demografia e all'epidemiologia, che raccoglie informazioni sulla
distribuzione delle malattie. Questi approcci distinguono le malattie epidemiche, a rapida diffusione in un
breve periodo di tempo, da quelle endemiche, sempre presenti all'interno di una data popolazione. Il termine
sindemico, invece, descrive gli effetti combinati di più malattie su una popolazione, effetti che possono
essere esacerbati da fattori sociali e ambientali stressanti. Altri antropologi medici si focalizzano sui concetti
di adattamento (un aggiustamento che aiuta un organismo o un gruppo ad affrontare le sfide ambientali) e,
viceversa, di disadattamento. L'adattamento bio-culturale evidenzia il fatto che le pratiche culturali hanno
influenzato la selezione naturale dei geni che producono effetti sulla salute. Dunque l'interazione tra fattori
biologici, ambientali e culturali può produrre disease o sickness.
Le diverse culture spiegano in modo differente le malattie e le cure. L'approccio biomedico occidentale
accetta solo le cause materiali e considera l'organismo umano come un sé unitario e autonomo. Da questo
punto di vista la cattiva salute è spiegata in termini di una patologia causata da entità materiali localizzate
dentro i corpi umani individuali. Questo assunto, tuttavia, non è universale. In molte parti del mondo si
ritiene che i singoli non possiedano un sé autonomo e chiuso verso l'esterno. Di conseguenza le persone si
considerano vulnerabili alla penetrazioni di fenomeni provenienti dall'esterno, che comprendono sia entità
materiali che immateriali (es. spiriti). L'antropologia medica interpretativa, che si basa sull'idea secondo
cui le esperienze umane sono mediate dalla cultura, si focalizza sul modo in cui le persone danno senso alla
propria sofferenza. A questo proposito si tende di soggettività individuale, ossia di quell'esperienza
percepita interiormente dalla persona e plasmata dai campi di potere. L'antropologia medica interpretativa
insiste sul fatto che i sistemi culturali, anche quelli medici, sono sistemi simbolici: le credenze e le pratiche
adottate possono essere meglio comprese situandole nei loro contesti culturali, politici e simbolici. Lo studio
delle narrazioni di malattia (ilness narratives) permette di capire le prospettive delle esperienze individuali
di malattia plasmate dalla credenze e dalle pratiche non biomediche.
Focalizzarsi sulla soggettività significa individuare il modo in cui le singole persone sono gli agenti delle
loro azioni. I soggetti, tuttavia, non sono mai totalmente liberi di agire secondo le proprie scelte: le azioni
umane sono limitate dalle varie forme di disuguaglianza. Gli uomini sono infatti soggetti a forme
istituzionali di potere: relazioni istituzionali prevedibili plasmano le soggettività individuali, che riflettono
forme consolidate di potere politico. Quando, tuttavia, i modelli sociali e culturali vengono stravolti da eventi
imprevedibili, anche le soggettività individuali ne risentono. I traumi sono gravi sofferenze causate da forze e
agenti al di là del controllo dei singoli individui. In alcuni contesti il trauma sociale o culturale viene
somatizzato, associato cioè a una condizione di malattia e di sofferenza fisica.
L a violenza strutturale è una violenza che deriva dal modo in cui le forze politiche ed economiche
strutturano il rischio di una popolazione di incorrere in varie forme di sofferenza. Essa fa sì che si creino
degli spazi circoscritti, in cui i membri più poveri e con meno potere risultano altamente esposti a rischi. La
diffusione globale dell'economica capitalistica (a partire dalla formazione degli imperi coloniali europei) ha
contribuito a tale fenomeno e ha incoraggiato la diffusione e l'adozione di sistemi biomedici occidentali da
parte di persone non occidentali (medicina cosmopolita). Ovunque questo accada, la biomedicina deve
convivere con sistemi alternativi basati sulle pratiche di gruppi socioculturali locali (sistemi etnomedici),
dando origine al pluralismo medico.
14. La globalizzazione

La globalizzazione è il rimodellamento delle condizioni di vita locali ad opera di potenti forze che agiscono
su scala sempre più vasta e con intensità crescente. A. Appadurai ha individuato i cinque principali flussi
globali: di ricchezza, di tecnologia, di persone, di immagini e di ideologie. La globalizzazione culturale
implica sempre la mescolanza selettiva di caratteristiche globali e locali da parte delle popolazioni locali. I
processi che si vengono a creare a partire da questo incontro tra culture vengono spiegati in modi differenti:
• L'imperialismo culturale afferma che alcune culture ne dominano altre e che quelle subordinate
vengono sostituite con quella di chi detiene il potere. Questa ipotesi, basata sull'omogeneizzazione
culturale del mondo, nega, tuttavia, l'agency dei popoli non occidentali, presupponendoli passivi e
incapaci di porre resistenza. Inoltre dà per scontato che l'occidente non acquisisca le forme culturali
degli altri popoli e ignora che alcune forme e pratiche non occidentali si spostano da una parte
all'altra del mondo, saltando completamente l'Occidente.
• L'ibridazione culturale (mescolanza di culture) interpreta i flussi culturali globali a partire dal
concetto di prestito culturale con modifica, sulla base del quale le persone, che possiedono
un'agency, accettano idee, pratiche e oggetti provenienti dall'esterno, adattandoli alle proprie pratiche
e finalità locali (addomesticazione o indigenizzazione). L'ibridazione culturale, dunque, mette in luce
le forme di prestito culturale che producono qualcosa di nuovo. Il primo aspetto problematico
dell'ibridazione è che non è chiaro se questo concetto liberi gli antropologi dall'idea che esistano
mondi culturali chiusi. Friedman sostiene infatti che le culture sono sempre state ibridate. Le identità
ibride, inoltre, non sono liberatorie quando vengono imposte forzatamente. Va poi considerato che
coloro che celebrano l'ibridazione culturale ignorano che i suoi effetti vengono percepiti in modo
diverso da chi detiene il potere e da chi ne è privo. L'ibridazione viene percepita come minacciosa se
non è tenuta sotto controllo.

I flussi innescati dalla globalizzazione hanno rimesso in discussione la capacità degli stati nazionali di
presidiare efficacemente i propri confini. Nel momento in cui la sovranità nazionale viene messa in
discussione, lo stesso accade anche alle concezioni tradizionali relative alla cittadinanza.
• Diaspora: forma di identità transnazionale che non si focalizza sulla costruzione di uno stato
nazionale.
• Nazionalismo a lunga distanza: forma di identità di trans-confine che si basa sull'impegno da parte
dei membri di una diaspora a sostenere delle battaglie nazionaliste in patria o a mobilitarsi per
ottenere un proprio stato. Benedict Anderson, con questo termine, descriveva gli sforzi compiuti
dagli espatriati per offrire sostegno morale, economico e politico alle battaglie nazionaliste condotte
nei paesi d'origine. In sintesi una “partecipazione senza cittadinanza”.
• Stato di trans-confine: forma di nazionalismo a lunga distanza sulla base del quale le persone che
hanno lasciato il paese e i loro discendenti rivendicano di continuare a far parte dello stato d'origine
pur essendo cittadini di un altro.
• Cittadinanza di trans-confine: gruppo formato dai cittadini di un paese che continuano a vivere in
patria e dalle persone emigrate con i loro discendenti, a prescindere dalla loro attuale cittadinanza.
• Cittadinanza legale: diritti e obblighi di cittadinanza stabiliti e concessi dalle leggi di uno stato.
• Cittadinanza sostanziale: cittadinanza definita dalle azioni intraprese dalle persone, per affermare
la propria appartenenza a uno stato.
• Cittadinanza flessibile: strategie ed espedienti impiegati per cercare di aggirare i differenti sistemi
di regole dei vari stati nazionali o di trarne vantaggio. Per le élite che mettono in atto questo tipo di
strategie il nazionalismo ha perso significato, mentre sembrano aderire a un ethos post-nazionale,
ossia un atteggiamento nei confronti del mondo secondo cui le persone si sottomettono alla
governamentalità del mercato capitalistico, mentre cercano di eludere quella degli stati nazionali.

I dibattiti sui diritti umani si sono intensificati nel momento in cui i flussi globali hanno giustapposto e
almeno implicitamente messo in discussione le diverse concezioni relative a cosa significhi essere umani.
Sono stati sviluppati due tipi principali di argomentazione per parlare della correlazione esistente tra i diritti
umani e la cultura. La prima, basata sull'idea che i diritti umani si oppongano alla cultura, suggerisce che i
mondi culturali siano chiusi e che ogni interferenza internazionale nei confronti di determinate usanze
costituisca essa stessa una violazione di diritto. La seconda parte dal presupposto che un diritto umano
fondamentale sia quello alla cultura e afferma che ogni popolo ha il diritto universale di conservarla.

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