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INTRODUZIONE
Definire cos’è l’antropologia culturale e definire il suo studio
L’antropologia culturale contiene già una dichiarazione “antropos” e “logos”= lo studio
dell’uomo. In realtà tutte le scienze umane si occupano dell’uomo, filosofia, storia, psicologia,
medicina.
Quindi in cosa differisce l’antropologia dalle altre scienze umane?
Differisce dal fatto che si occupa dell’uomo in quanto componente di una comunità, è la
scienza che studia gli uomini e le loro relazioni. In sociologia viene trattata la “metodologia”,
così come in altre scienze, ma in antropologia non si troveranno indicazioni metodologiche
precise perché in questo campo, in particolare nella ricerca sul terreno, si prevedono lo
stabilirsi di relazioni tra il ricercatore e le altre relazioni, per questo motivo è difficile
immaginarne i risultati.
Evans Pritchard
Uno dei più grandi antropologi, britannico, insegnava a Oxford e il suo nome divenne famoso
per le sue ricerche in africa centrale, soprattutto per quelle in una comunità di allevatori del
sudan meridionale. Una delle monografie sui Nua del 1940 fu il primo libro di antropologia
politica.
Una delle caratteristiche delle ricerche sul terreno è quella di non essere prevedibile perché,
mentre uno scienziato che si occupa di enzimi e di cellule ha un’empatia con gli oggetti di
studio che non lo coinvolgeranno mai a livello emotivo, un ricercatore antropologico invece
soggiorna a lungo nella comunità che lo ospita (spesso le domande che gli antropologi pongono
sono stupide) e, dovendosi guadagnare la fiducia della comunità ospitante, ha bisogno di un
coinvolgimento maggiore. Per far si che una persona parli e risponda a domande private il
ricercatore deve guadagnarsi la sua fiducia; non esistono modi per guadagnare la fiducia altrui
perché ogni volta si deve creare una nuova relazione, mai prevedibile e descrivile a priori.
Proprio perché la posizione del ricercatore nei confronti degli altri non è mai neutra, fattori che
possono essere determinanti sono la “provenienza”, oppure il “sesso”.
L’antropologia è quindi una disciplina indisciplinata proprio perché è difficile stabilire a priori un
metodo se non dando dei tratti abbozzati mai troppo netti e rigidi.
Qual è l’oggetto di studi degli antropologi culturali?
È la cultura. Cos’è la cultura?
In senso antropologico la cultura non è qualcosa di appreso sui libri, ma quell’insieme di saperi,
regole e strategie che tutte le società umane hanno sviluppato, in modo diverso ma nessuno
ha sviluppato una cultura superiore alle altre.
Una definizione di cultura costante è da 140 anni quella formulata da Sir Edward Tylor, che
afferma: Lacultura,presa nel suo significato etnografico più ampio, è quell’insieme che include
conosce nze, credenze, arte, morale, legge, costume e ogni altra capacità e usanze
acquisite dall’uomo come appartenente a una società.
Questa definizione è stata anche criticata ma ha un suo pregio: quello di essere abbastanza
vaga da permettere di essere adattata anche a diversi contesti. Ma la parte più importante è
“acquisita dall’uomo come appartenente a una società”. In questa riga ci sono due concetti
importanti: 1) la cultura non è un dato scritto, naturale o genetico, ma è acquisita, non è
propria dell’uomo ma degli uomini. 2) proprio perché acquisita in relazione alla società è
soggetta al cambiamento.
Pier Paolo Pasolini parlava di mutazione antropologica degli italiani. Nessuna cultura è mai
statica. Altra definizione è quella di Ruth Benedict, antropologa americana: “la cultura è ciò che
tiene insieme gli uomini”.
La cultura è ciò che tiene insieme gli uomini. Perché gli uomini allora hanno bisogno della
cultura? Che cosa siamo? siamo animali. Che tipo di animali?
Desmond Morris, etologo, fece un gioco intellettuale, un esperimento ironico e provocatorio:
provare a studiare la specie umana come se fosse una qualunque specie animale. La prima
cosa che un etologo fa quando scopre una specie sconosciuta è quella di classificarla, le forme
di classificazione si basano sull’aspetto fisico. Noi assomigliamo alle scimmie, e cosa ci
distingue? L’intelligenza? Il DNA? Noi non abbiamo pelo. Infatti il saggio di Morris si intitolava
“la scimmia nuda”.
Noi siamo animali che non funzioniano così come sono. Qualunque animale è dotato dalla
natura di tutto ciò che gli serve per sopravvivere nell’ambiente in cui si trova. Tutti i cuccioli di
animali nel giro di poche settimane sono in grado di fare tutto ciò che gli serve per
sopravvivere da soli. Gli umani sono animali incompleti sotto questo punto di vista, cioè non
hanno tutto ciò che gli serve.
Pico della Mirandola cercò di interpretare questa condizione: durante la genesi dio crea giorno
dopo giorno tutte le specie diverse e a ciascuna affida un destino. L’ultimo giorno dio crea
l’uomo, ma i destini erano finiti. Dio quindi dice all’uomo: sii tu il creatore del tuo destino. In
una chiave teologica l’interpretazione era giusta. Questo vuoto che la nautra assegna all’uomo,
lui lo riempie con la cultura.
Le culture non sono un dato fisso e fermo, la gente le modifica e le reinventa perché cambiano
le condizioni storiche, politiche e ambientali. Questa grande adattabilità dell’uomo l’ha fatto
l’unico animale in grado di vivere ovunque. Questa non specializzazione è stata l’arma vincente
degli esseri umani, hanno dovuto riempire con le culture, ma proprio perché se le sono
inventate strada facendo ce ne sono di molto diverse.
“L’uomo è un animale sospeso tra ragnatele di significati che lui stesso ha creato”.
Gli uomini sono creatori e allo stesso tempo vittime della loro cultura. Essa è il prodotto degli
esseri umani, ma allo stesso tempo è anche una gabbia, un vincolo, una ragnatela all’interno
della quale rimangono intrappolati. C’è un continuo rapporto dialettico tra gli esseri umani e la
loro cultura. La nostra cultura è simbolica, leggiamo un mondo e lo interpretiamo a seconda
degli occhiali culturali che utilizziamo e creiamo dei simboli di riferimento condivisi come il
linguaggio. Allo stesso tempo questi simboli vengono trasmessi di generazione in generazione
e ad essa siamo collegati.
La visione olistica
Lo sguardo dell’antropologo deve in qualche modo abbracciare un po’ tutti gli aspetti di una
società, non si può studiare solo una parte della società estraendola dal “tutto” perché tutte le
componenti sono connesse e si influenzano a vicenda. Non si può entrare in una rete e
studiarne un solo nodo. Entro da quel nodo per leggere l’intera rete e poi torno a quel noto per
studiarlo e analizzarlo in relazione al tutto.
L’esperienza antropologica oscilla continuamente fra i due parametri: quello olistico e quello
orientato al particolare.
Uno degli strumenti più importanti degli antropologi è il “relativismo culturale”. Il relativismo
culturale è un atteggiamento, un approccio. Si intende un atteggiamento secondo cui ogni
espressione culturale diversa dalla nostra deve essere spiegata all’interno del quadro simbolico
della società che la produce. Quando ci si trova di fronte ad una espressione culturale ci sono
due approcci possibili: da un lato si può pensare che qualunque atteggiamento diverso dal
nostro sia sbagliato: etnocentrismo, oppure porsi la domanda, utilizzare lo strumento “dubbio”
per chiedersi il “perché” dei comportamenti. A questo punto il curioso ricercatore andrà a
cercare, a sondare. Chiedersi il perché non implica per forza l’accettazione di ogni cultura,
significa solo prendere atto che ogni cultura è diversa.
Clifford Geertz sintetizzò bene affermando: “i problemi essendo esistenziali sono universali, le
soluzioni, essendo umane, sono diverse”.
Come risolvere i problemi? Il vuoto che la natura ci lascia l’abbiamo riempito con la cultura, ma
proprio perché è un vuoto, ognuno lo può riempire con una cultura differente. Allora dobbiamo
prendere atto che c’è una diversità e non dobbiamo pensare che la nostra cultura sia superiore
o migliore, possiamo dire che ci piace di più ma soprattutto dobbiamo pensare che anche la
nostra cultura è in continua trasformazione e non naturale, spesso ciò che ci sembra naturale
non è altro che un’abitudine consolidata.
L’etnocentrismo appartiene a tutte le società.
Il nome che molte popolazioni si sono date significa “gli uomini”, il che implica che gli altri sono
meno uomini se non “non uomini”. Esempio di relativismo: Amadou Hampate Ba paragona le
tre grandi religioni monoteiste ad una famiglia poligama in cui le tre religioni sono figli delle
varie mogli. Il padre è uno e ogni moglie ha cresciuto i propri figli secondo la proprio visione
del marito.
Oltre ad un approccio olistico, esistono altri punti di osservazione quando ci si accinge a
studiare una società: uno è un punto di vista etico e l’altro emico.
• Punto di vista etico: un punto di vista che ha la presunzione di voler essere oggettivo. È il
punto di vista di chi è esterno rispetto alla comunità in cui studia
• Punto di vista emico: punto di vista di chi fa parte della società, degli attori della società
che percepisce lo stesso fatto osservato con una prospettiva interna.
L’osservatore deve sempre tenere presente che nel momento in cui si accinge ad osservare una
società ha sempre due punti di vista a sua disposizione e che quello che lui può inoltre
osservare è la differenza di percezione fra i due punti di vista. A volte i due punti possono
coincidere, altre volte invece possono essere molto diverse. Il punto di vista emico è quello che
viene definito il punto di vista alternativo a quello dell’osservatore.
TEORIE ANTROPOLOGICHE Antropologia: intesa come antropologia fisica, disciplina che si
occupa di studiare le
caratteristiche ergonomiche. Appartiene al settore della biologia.
Etnografia: non è una disciplina ma una pratica. È quell’attività che qualunque ricercatore fa:
trascrivere quello che vede, oltre alla scrittura vi sono anche pratiche come filmare, registrare,
in pratica “documentare”. Non è un’elaborazione dei dati ma semplicemente un rapporto.
La confusione può avvenire fra antropologia culturale, antropologia sociale ed etnologia: di per
sé sono la stessa cosa. I termini nascono da tre diverse tradizioni: i francesi hanno sempre
chiamato ethnologie questa disciplina. Gli inglesi l’hanno chiamata social anthropology perché
erano focalizzati sullo studio sugli aspetti sociali, sullo studio dell’organizzazione della società.
Gli americani l’hanno chiamata culture anthropology.
In italia vengono utilizzati tutti e tre i termini.
La differenza fra l’etnografia e l’antropologia è che la prima è la registrazione dei dati, ma
questi dati hanno senso solo se vengono poi elaborati attraverso la “comparazione”. La
comparazione serve anche a vedere se esistono oltre alle particolarità e alle differenze anche
dei tratti comuni. Il passaggio dalla registrazione dei dati ad un’elaborazione teorica è quella
che segna il passaggio dall’etnografia all’antropologia.
Col passare del tempo e col mutare dei rapporti sociali, anche il modo di concepire la società e
di osservare l’altro, cambia. Le scienze umanistiche sono attraversate dalla storia, non solo per
via di ciò che studiano, ma sono loro stesse attraversate dalla storia in quanto scienze. Ecco
perché esistono cambiamenti di modelli teorici nel tempo o nello spazio.
Un po’ di storia...
L’antropologia nasce a fine ‘800 in Gran Bretagna in piena epoca Vittoriana. Avevano
sviluppato un interesse per la diversità. Sviluppano questa attenzione sulla base dei resoconti
come missionari, viaggiatori, marinai, mercanti, esploratori che riportavano ciò che vedevano
nei loro viaggi. James frazer, morgan otallor sono i padri dell’antropologia moderna.
Inizia a farsi strada l’idea che certe civiltà diverse può essere interessante, sia per scopi nobili
che meno nobili. Questi antropologi “on chair” iniziano a osservare la diversità influenzati dalla
teoria di Darwin. Darwin all’ultimo si accorge che la sua teoria rischia di essere mutuata da
discipline non prettamente biologiche, infatti egli spiega: “la teoria dell’evoluzione vale per le
specie, non per le società umane e vale per l’aspetto biologico e non per aspetti sociali e
culturali”. Questo allarme non è stato seguito, infatti la prima prospettiva antropologica è
quella che viene definita come evoluzionismo culturale o sociale.
Si basa sull’idea di una scala. Noi vediamo che ci sono popolazioni con diversi gradi evolutivi:
chi vive nelle foreste, come seminomade, con capanne, nelle città, si comincia così a pensare
che ci siano delle gradazioni di cultura che mettono in cima alla scala gli inglesi. Questa
concezione si basava su una prospettiva razziale.
L’evoluzionismo ha avuto un grande merito e un grande difetto: oggi nessuno a livello
scientifico oserebbe riferirsi ad una prospettiva evoluzionistica ma il merito stava nel fatto che
la sua teoria di fondo metteva si in fondo alla scala certe società, ma le vedeva in una
prospettiva in cui in quanto ultimi di una catena, potevano sempre migliorare, imparare,
dovevano ancora evolversi, erano solo indietro in un percorso. Questo significava dire per la
prima volta che il perfetto gentleman londinese apparteneva allo stesso ceppo dell’aborigeno
australiano e quindi che un aborigeno australiano poteva diventare un perfetto gentleman
inglese. Mentre prima si pensava che gli aborigeni fossero condannati alla barbarie per sempre,
questa teoria porta una visione in cui è previsto un miglioramento. Da qui nasce anche l’epoca
coloniale, che era vista come un’opera di civilizzazione.
Il difetto di questa prospettiva è che prevedeva un’unica linea di sviluppo, riteneva inevitabile
che tutti sarebbero diventati gentleman inglesi, non prevedeva altri modi di divenire.
Più o meno in quegli anni si diffonde una teoria che viene dai geografi culturali chiamata
diffusionismo. Nasce il Germania che ha una forte ideologia nazionalista, un’ideologia costruita
sul libro di Tacito “i germani”. Nasce così un’idea ancorata al genius loci. L’idea non è più quella
di una scala, ma concepiscono dei centri di radiazione. Ci sono stati popoli che durante la storia
hanno avuto un genius loci più forte, e questi centri irradiavano cultura. In questa chiave la
linguistica fa risalire la lingua tedesca alle popolazioni indo-ariane (perché non si poteva dire
che erano latini e greci). Anche il diffusionismo ha pregi e difetti. Non ha avuto molto seguito
perché la visione era un po’ statica.
Nei primi del 900 nasce la scuola americana. Negli stati uniti i primi studi si sviluppano sulle
popolazioni native americane. La culture anthropology puntava l’accento sui cosiddetti tratti
culturali, vedere quali sono gli aspetti culturali più evidenti di ogni società: sul modo di
pensare, sulle storie locali. L’antropologia americana nasce quasi tutta da antropologi tedeschi.
Non si pensa più che le culture siano statiche ma che abbiano avuto anche loro una loro storia.
Proprio per questo bisogna capire in che modo la storia ha modellato la cultura.
La scuola francese ha un padre nobile Émile Durkheim che pone l’accento sul rapporto fra
cultura e società. La domanda che d si fa è: che cosa tiene insieme gli uomini? Secondo D
esiste una sorta di coscienza collettiva che precede la società, la società è un prodotto
culturale. Questa impostazione da il via agli studi della scuola francese. L’accento iniziale è sul
capire come si forma una società. D dice che ci sono società in cui la solidarietà meccanica è
dettata da condizioni ascritte come le condizioni di parentela. La famiglia da delle strutture
mentali e sociali che precedono l’individuo. La visione è quella di un uomo profondamente
influenzato dalla società, imprigionato da essa.
Nelle società primitive la solidarietà è meccanica, non è una scelta, mentre in quelle complesse
diventa organica, diventa una scelta, un progetto. In questa visione c’è l’influenza di Rousseu.
Un’altra importante spinta la da Marcel Mauss che scrive un saggio sul “dono”. Lui si fa una
domanda: perché gli esseri umani donano? Secondo moss il dono è quello che crea la società,
che da il via ad essa. Bisogna che qualcuno faccia un atto di solidarietà perché la società possa
nascere.
Moss dice a proposito del dono: il dono è un fatto sociale totale. “fatto sociale totale” significa
che è uno di quei momenti culturali che nel suo agire all’interno della società, coinvolge tutti gli
aspetti della società. È un evento che può essere più o meno
centrale, ma mette in gioco i diversi aspetti della società. Quest’idea diventa una delle chiavi di
lettura della scuola sociologica francese anche se poi divento etnologica.
Tutto questo avviene a cavallo fra 800 e 900 finchè non subentra il signor Malinowski il qualche
insegnava in Gran Bretagna e decide di partire e andare a vedere sul posto che cosa fanno i
primitivi. M non si accontenta del funzionalismo, vuole vedere di persona. Dice che bisogna
capire come quella cultura pensa, come loro vedono il mondo. Parte per un isola della
Melanesia restandoci a lungo dando il via all’antropologia moderna: quella basata
sull’osservazione partecipante.
Antropologo nativo: gente che è nata in quel posto che poi ha studiato e fa ricerca in quel
posto. Vantaggio di aver vissuto la stessa esperienza, lo svantaggio è l’oggettività.
Oltre alla svolta metodologica M da una sterzata teoria fondamentale: abbatte l’evoluzionismo
col funzionalismo. Una teoria basata sulle funzioni e sulla funzionalità. M dice che le scoeità
umane hanno diverse funzioni (economiche, religiose, artistiche, ecc), ci sono varie
componenti che collaborano tutte per mantenere insieme la società. L’idea era quella di tenere
conto di tutte le varie funzionalità come interconnesse fra loro e facenti parte del
funzionamento dell’intera società. Se le società funzionano sono tutte alla pari fra loro.
IL CORPO INNATURALE
Le prime percezioni che noi abbiamo della realtà che cerchiamo di conoscere sono dati di tipo
sensoriale. La prima cosa che vediamo di un individuo è il corpo, perciò il corpo è il primo dato
che viene percepito. Tutta l’esperienza antropologica oscilla fra due poli principali: il particolare
e l’universale.
Esistono elementi che possono essere considerati universali? Ci sono poi elementi che sono
rari, particolari. Per fare esempi, una disciplina universale è la filosofia perché si occupa
dell’uomo in quanto tale, cioè a livello generale, universale. L’antropologia si occupa dell’uomo
in quanto membro di una società e quindi entra nel particolare. Il problema è poi vedere se
quel particolare può diventare universale.
Nei libri di antropologia c’è una sola regola condivisa da pressoché tutto il genere umano:
l’evitazione dell’incesto. È una delle poche regole che coinvolge quasi tutto il genere umano. Si
trovano ben pochi percetti universali. Se prendiamo in considerazione il corpo umano,
possiamo considerarlo universale? Dipende da come lo prendiamo: dal punto di vista biologico
è universale, vi possono essere differenze estetiche, ma nell’essenza il corpo umano è uguale
per tutti.
Se c’è un’universale è un’attitudine a non lasciare il corpo così com’è. Il corpo diventa quasi
uno strumento di comunicazione sul quale incidiamo dei segno e dei linguaggi. È come se il
corpo nella versione base non ci soddisfacesse. Dobbiamo in qualche modo elaborarlo: vi sono
tanti interventi sul corpo.
I capelli: quasi nessuno lascia che i capelli e le unghie crescano all’infinito. Se per i capelli la
questione fosse solo pratica tutti li taglierebbero corti. Ma i capelli vengono utilizzati per vari
scopi: possono essere scopi estetici, o utilizzati come marcatori d’identità. Molte società
utilizzano la pettinatura come distinzione di un particolare gruppo etnico. A volte le
acconciature cambiano a seconda del momento, così che diventino un linguaggio.
Noi utilizziamo il corpo come una tavola di scrittura, come un foglio bianco in cui decidiamo di
scrivere chi siamo modellando il nostro corpo.
Altro esempio è quello delle pitture corporali: in qualche modo disegniamo sul corpo. Anche i
cosmetici sono modi per pitturare il corpo. Anche in questo caso può essere fatto per
appartenenza, per linguaggio e per motivi puramente estetici. Altro modo per disegnare il
corpo ma in modo più invasivo è il tatuaggio. I dipinti, il trucco e i capelli sono pratiche
revocabili, il tatuaggio invece ha una valenza definitiva. Ciò significa che in certi casi c’è una
scelta più forte, più definiva e netta rispetto al cambiamento del trucco. Una pratica diffusa in
aree ed epoche diverse ha mutato la sua accezione da parte di chi la fa e di chi la vede. Il
termine “tatù” è una parola polinesiana che significa “incidere”. Nasce nell’area polinesiana e
chi ha lanciato il tatuaggio nel mondo sono stati i Maori della Nuova Zelanda. Uno dei primi a
parlare di tatuaggi è il capitano Cook che diffonde l’immagine del tatuaggio descrivendone la
tecnica. I tatuaggi dei Maori avevano diversi significati tra cui quello di incutere paura
all’avversario in caso di scontro. Succede che qualcuno di occidentale che inizia a frequentare i
mari del sud decide di farsi tatuare, infatti il bicipite tatuato è uno stereotipo dei marinai.
L’immagine del tatuaggio comincia così a passare ad un altro significato. I marinai infatti si
tatuavano per affermare che avevano viaggiato. Da qui, siccome molti marinai finivano in
carcere, la tecnica del tatuaggio diventa molto diffusa in carcere fino a diventare anche in
quell’ambito un simbolo. In altri ambiti il tatuaggio diventa anche un segno indelebile, non una
scelta, ma un marchio (ad esempio il tatuaggio che veniva fatto ai deportati). Man mano che il
tatuaggio si diffonde in vari ambiti perde prima di tutto la sua accezione sessuale, non sono più
solo gli uomini a farsi tatuare ma anche le donne e, facendosi strada sempre più disegni
piacevoli a vedersi, il tatuaggio perde la sua accezione originale e diventa un marchio
puramente estetico. In Giappone infatti per le donne diventa simbolo di bellezza. Si nota così
come una stessa tecnica la digerisce a modo suo e la fa diventare cose diverse con significati
diversi e metodi diversi. Importante del tatuaggio non è solo l’iconografia, ma anche la parte
del corpo in cui viene fatto. È una scelta che implica anche il pubblico a cui è rivolto il
messaggio. Fra i neri si diffonde la scarificazione: cicatrici che siano visibili anche sulla pelle
nera.
Esistono ancora altre forme di deformazione del corpo. Ad esempio le “donne giraffa” a cui
viene allungato il collo progressivamente.
Hegel parla dell’effetto volano della cultura: la cultura di un gruppo è molto più lenta a
cambiare di quanto lo siano le strutte e le condizioni sociali. Le culture impiegano sempre
molto più tempo ad adattarsi fino a creare sfasamento. Tutti noi tendiamo ad essere
conformisti e conservatori. Infatti spesso ci vogliono due generazioni perché avvengano gli
adattamenti.
La svolta ad esempio data dalla rivoluzione industriale ha portato ad un rapporto totalmente
diverso tra l’uomo e le risorse. Oggi abbiamo una capacità di sfruttamento delle risorse
nettamente superiore alle risorse che si hanno.
Body building e chirurgia plastica sono altre forme invasive per modellare il corpo.
La pelle è l’ultimo confine tra noi e la natura. Questo limite viene violato volontariamente con
questi metodi.
Altro esempio di violazione dell’intangibilità del corpo è il piercing.
Si passa poi alla mutilazione dei genitali: infibulazione e circoncisione. Due cose molto diverse.
La circoncisione è una pratica che in alcuni casi può essere un elemento che marca l’identità.
Nel caso dell’ebraismo i non ebrei sono non circoncisi. La stessa pratica viene poi ripresa
dall’islam. È in ogni caso una pratica che si può trovare in moltissime civiltà ed ha anche
diverse accezioni. Si trova un gradino ancra sopra il piercing perché si tratta di una vera e
propria asportazione di una parte del corpo.
Del tutto diversa è la mutilazione genitale femminile, l’invasività della circoncisione al confronto
è nulla. Sono estremamente devastanti, lasciano danni permanenti e hanno modalità diverse:
clitoridectomia, escissione e infibulazione. Nessun paese al mondo l’ammette ma viene
comunque largamente praticata.
Viene così naturale porsi la domanda se sia giusto rispettare le culture degli altri. Il problema
non si è mai posto finchè certe cose avvenivano nei paesi d’origine. Nel momento in cui con
l’immigrazione ci si ritrova a vedere praticate mutilazioni in paesi in cui ne la cultura ne la
giurisdizione lo permettono, sorgono problemi che riguardano non solo la branca giuridica ma i
diritti umani.
GLI ENIGMI DEL CIBO
Il corpo umano ha anche una sua essenza biologica, che va alimentata con cibo e bevande.
L’aspetto del cibo ha una doppia valenza: di sostentamento ma non solo. La prima domanda
che viene fatta ad un antropologo quando torna da un viaggio è che cosa mangiasse. La
domanda sorge spontanea perché ci si aspetta che ci siano diverse tipologie di cibo. Se il cibo
fosse solo una questione di sostentamento non ci sarebbe il problema del gusto e
mangeremmo tutto ciò che è commestibile.
Entrà così in ballo il concetto del gusto. Quando parliamo di gusto in senso sociale non si parla
di ciò che piace o no, ma si parla di ciò che è accettato come commestibile, i gusti individuali
sono un’altra cosa. Feuerbach diceva: siamo ciò che mangiamo. Non è sufficiente che una cosa
sia commestibile per essere mangiata. In molte parti del mondo vengono mangiate le
cavallette che sono commestibili. Per sopravvivere mediamente dobbiamo assume intorno alle
2000 calorie al giorno. Noi abbiamo una dieta da neolitico, quella che ha portato
dall’agricoltura all’allevamento. Con questo si intende che non siamo ancora usciti dal neolitico,
non siamo ancora pienamente adattati. Partendo dal presupposto di poter scegliere il cibo vi
sono scelte non legate alla commestibilità. Ad esempio gli americani non mangiano carne di
cavallo e di coniglio perché essi rientrano nella categoria dei “pets”. Non si mangiano certi
animali perché gli abbiamo inglobati nella sfera emotiva. Queste scelte sono culturali. In
occidente non mangiamo gli insetti. Tutti esempi di cose che potremmo mangiare ma non
mangiamo per motivi culturali. Noi siamo, perciò, dei consumatori culturali di cibo, scegliamo
cosa mangiare in base ad abitudini trasmesse.
Altra modalità di scelta di cibo è quella legata ai tabù. La parola tabu polinesiana indicava un
divieto, ma in particolare indica un certo divieto. Ogni linea di discendenza di queste
popolazioni aveva un mito dell’origine e dichiarava di discendere da un qualche animale mitico,
questo animale da cui discendono tutti gli appartenenti ad un certo popolo veniva definito con
il termine “totem” (la visualizzazione dell’antenato mitico). Quando il totem è un animale è
proibito cibarsi di quell’animale. Totem e tabù andavano di pari passo. Questi due concetti sono
da un lato un elemento mitico, sacro a cui diamo un valore il tabù era il divieto di violare quella
norma. Poi il tabù si è esteso a simboleggiare un divieto generale. I tabù possono anche essere
legati alle religioni. Alcuni casi di tabù hanno a che fare con l’alimentazione: ebrei e musulmani
no possono cibarsi di carne suina, gli induisti non possono cibarsi di carne bovina. Molte
filosofie orientali (buddismo) proclamano il vegetarianismo. Si può parlare anche si scelte
ideologiche. Un conto è il vegetarianismo del buddismo, un altro è quello che per scelta decide
di non mangiare carne: in un caso è un imposizione, nel secondo è una scelta.
Marvin Harris (antropologo del materialismo) dice: noi non è vero che non mangiamo una cosa
perché non ci piace, non ci piace perché non l’abbiamo mai mangiata. Non abbiamo i
presupposti culturali perché qualcosa ci piaccia. Con questa fra Harris vuole dire che il gusto
non è un dato naturale, ma il gusto sociale è costruito culturalmente. In una posizione diversa
per certi aspetti, il cibo non serve solo ad appagare l’appetito ma deve avere anche
un’accezione simbolica: “buono da pensare”.
Foraggiamento ottimale: in una società normale io non posso spendere più calorie per
procurarmi il cibo di quelle che quello stesso cibo mi da. Nelle possibilità date gli esseri umani
cercano di ottenere il maggior apporto nutrizionale con la minor spesa di calorie. Ragionando in
termini di foraggiamento ottimale se volessimo le cavallette, per farne un piatto quanto tempo
ci metteremmo? Tantissimo.
Se ci trovassimo in un luogo in cui le cavallette migrano stagionalmente e si devono cacciare in
ogni caso perché rovinano il raccolto, tanto vale mangiarle. Le sclete culturali nascono perciò
da ciò che è più conveniente.
Uno dei tabù più noti è quello del maiale. Il maiale viene associato all’islam. In realtà è un
divieto ebraico. Nel levitico è espressamente detto.
CIBO E TRADIZIONE
L’atto del mangiare del cibo è un “fatto sociale totale”, è uno di quegli elementi culturali che
hanno il pregio di agevolarci nella fase di comparazione. Tutti mangiamo, quindi tutto il genere
umano può mangiare certe cose e non può mangiarne altre. In quanto atto comune, il
mangiare è comparabile perché tutti lo fanno.
La civiltà attribuisce all’atto nutrizionale dei forti valori culturali: siamo consumatori culturali di
cibo. Il cibo si presta molto bene come metafora della cultura perché il cibo è un gran
viaggiatore. Si è visto come il cibo sia fortemente connesso alla religione, l’offerta di cibo agli
dei si può ritrovare in moltissime civiltà nel pianeta, così come il cibo contro gli dei (totem,
tabù). Il cibo viene anche utilizzato per delle cerimonie particolari che si ritrovano nell’area
degli indiani nativi americani e in molte isole della Polinesia. Queste cerimonie si chiamano
Potlatch ed è un’offerta e una distruzione enorme di cibo, a volte anche non di cibo, fatta per
ottenere
prestigio ed ingraziarsi le divinità. Ciò avviene ad esempio nella Nuova Guinea partendo dal
presupposto che chi comanda deve essere generoso, ci si deve rimettere. In questo modo ogni
tot si elegge il capo della tribù e nasce una competizione per questo titolo di prestigio. Come
fare ad apparire migliore agli occhi della propria popolazione? Bisogna iniziare a dimostrare agli
occhi degli elettori chi è più generoso, si svolgono così cerimonie enormi in cui chi offre di più
ottiene il titolo di capo tribù; ciò è dispendioso poiché chi offre dovrà poi restituire tutto a
spese sue. Tutto ciò è associato al fatto che se uno è riuscito ad ottenere più prestiti significa
che è più convincente e quindi più adatto per fare politica. Il Potlatch può anche essere fatto
non col cibo, ma con pelli o coperte, che poi venivano bruciate, un po’ per evitare dislivelli
economici e un po’ per l’ostentazione dell’accumulo e della distruzione. Questa forma di rituale
di distruzione che Mauss chiama “rituale antagonista” in quanto rappresenta un dono non
restituibile che crea una frattura, che è ciò che ci vuole perché il capo non deve essere uguale
a tutti per poter governare, è quindi un grado di frattura socialmente accettato.
Nella nostra cultura lo possiamo ritrovare nei pranzi di nozze. Difficilmente nei pranzi di nozze
si finisce tutto, si tende ad esagerare e si crea una certa gara a chi offre di più. Si trovano
quindi delle forme di spreco che servono a guadagnare prestigio.
Il cibo oltre che atto nutritivo diventa anche elemento di rappresentazione in quanto con
modalità e gradazioni diverse, può essere anche un catalizzatore di costumi. Difficilmente si
mangia e si va via, ci si ingozza insieme e ci sono regole di mangiare. Attorno all’atto del
consumo di cibo si viene a creare anche una sorta di rappresentazione.
Per esempio da noi c’è il Galateo: una serie di norme che regolano l’atto del mangiare e lo
stare in società che sono ritenuti buoni comportamenti da tenere a tavola. Tutte queste regole
sono culturali e vi sono comportamenti diversi. Nelle popolazioni arabe il concludere il pasto col
rutto è un segno di apprezzamento, nella popolazione emica il rutto è segno di aver mangiato
bene ed è socialmente apprezzato.
Il cibo non sempre è così centrale, per molte popolazioni del nord Europa l’atto del mangiare
non ha l’accezione di compagnia. Quando si parla di tradizione o tradizionale si intende
qualcosa che esiste da molto tempo, ma se si sceglie di essere tradizionali bisogna saper
individuare un momento di inizio della tradizione, oppure bisogna considerarlo come qualcosa
di tipico, di nostro.
Il cibo è un grande viaggiatore e ha il pregio di combinarsi e adattarsi facilmente ai costumi. È
tradizionale ciò che consideriamo tradizionale. Libro “l’invenzione della tradizione” metteva in
luce il tipo di attività che le culture mettono in atto che è basato sul costruirsi un passato che
funziona se serve all’oggi, definito l’affiliazione inversa.
PARENTELA E MATRIMONIO
La parentela è forse il primo atto politico dell’uomo. Quando parliamo di parentela intendiamo
qualcosa che va al di la della discendenza. La discendenza è legata a qualcosa di naturale, è un
qualcosa che in natura è basato su un atto biologico. Il fatto che sia un atto biologico non vuol
dire che in natura sia regolamentato. Non esiste nulla in natura che dice che per procreare
bisogna sposarsi. Quando invece si parla di matrimonio si parla di qualcosa che va al di la
dell’atto procreativo, il matrimonio è qualcosa che organizza nel tempo le conseguenze dell’atto
procreativo. La nostra incompletezza è tale che per arrivare ad un livello di formazione
sufficiente ad essere autonomi richiede moltissimi anni nell’uomo. Siccome i cuccioli del genere
umano richiedono un’educazione e una formazione prolungate viene la necessità di organizzare
l’unione tra il padre e la madre, fare si
che questo patto perduri nel tempo al fine di protegge nutrire e educare la prole. Questo non è
un dato naturale ma costruito. Il rapporto tra genitori e figli è di discendenza, il matrimonio
invece va oltre la consanguineità, quando ci si sposa ciò avviene al di fuori della famiglia: è
l’unione tra due famiglie diverse perché quando uno si sposa acquisisce dei parenti. In questo
caso il vincolo di parentela non è vincolo di sangue perché c’è un’alleanza di tipo sociale-
politico. Il matrimonio allarga il gruppo al di là della consanguineità.
Teoria delle alleanze.
Prima il genere umano era composto da piccoli gruppi di tipo famigliare, gente che si sposava
all’interno di questo piccolo gruppo, tra cugini. Lo scenario ipotizzato sulla base di periodi
preistorici è quello di piccole bande seminomadi che si contendono i raccolti, le zone di caccia e
le sorgenti d’acqua con microconflittualità fino a quando qualcuno decide di sancire delle forme
di alleanza tra le varie bande. Una delle garanzie per avere una pace è quello dello scambio
delle sorelle: due gruppi danno in sposa le proprie sorelle all’altra banda.
Grazie al matrimonio al di fuori del gruppo ristretto si è sancita la prima alleanza politica della
storia. Il matrimonio permette di sancire alleanze perché difficilmente si andrà a far guerra
dove ci sono familiari. Il matrimonio è quindi ciò che da origine alla parentela, non ha nulla a
che vedere col sangue. In natura non esiste la famiglia, la natura fa si che noi tendiamo a
riprodurci, lungi dal essere una famiglia. Quando si parla di naturalità della famiglia bisogna
fare attenzione perché essa è una costruzione artificiale e come tale assume aspetti e accezioni
diverse nelle spazio e e nel tempo.
È come se l’uomo con la parentela mettesse in ordine la natura. La natura insegna a procreare
ma non come gestire la prole. Quindi bisogna inventare un modo per farlo. La parentela. Se la
famiglia fosse naturale avremmo un solo modello, invece ne abbiamo tantissimi: nessuno è
naturale, tutti sono legittimi nella misura in cui funzionano.
Matrimonio. Il matrimonio nel suo concetto più ampio è qualcosa che tocca vari livelli
dell’esistenza, affettivo, combinato, organizzativo, giuridico, ecc. Gli schemi di parentela di
basano su simboli come triangolo(maschio), cerchio(femmina), = (matrimonio). La famiglia
nucleare è composta da genitori e figli. Al giorno d’oggi si fa coincidere la famiglia con l’unità
residenziale. Poligamico è un termine generico ma che ha preso il sopravvento e si intende
“matrimonio con più persone”. Ma dipende dal soggetto, quindi si distinguono:
- poliginico: più mogli
- poliandrico: più mariti La maggior parte dell’umanità è poliginica. L’eccezione siamo noi
monogamici. Per poliginia si parla di istituzionalizzazione del matrimonio con più mogli. La
famiglia poligamica pone anche problemi di terminologia perché per esempio due figli dello
stesso padre ma madre diversa sono fratelli, ma non nello stesso modo del matrimonio
monogamico dove i due genitori coincidono. Questa è un tipo di fratellanza diversa dalla
nostra. Il matrimonio poliginico implica anche un altro tipo di relazione: la relazione fra le co-
mogli. Si stabilisce per esempio anche un rapporto di tipo parentale fra le co-mogli che è di
solito di gerarchico. Spesso succede che la prima moglie abbia sempre un’autorità maggiore,
ma col passare del tempo sarà sempre la più vecchia e il marito, sposando donne più giovani,
passerà più tempo con loro che con la prima moglie; in cambio la prima moglie si sgrava di
tutti i lavori più pesanti che saranno dati in carico alle più giovani.
Il matrimonio poliginico serve a procreare di più, ove sia necessario e a consentire ad ogni
donna di accedere al matrimonio, almeno in tempi in cui solo gli uomini andavano in guerra e
c’era un incidenza maggiore di donne rispetto agli uomini.

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