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Storia sociale

da

dell’arte
di Arnold Hauser

Storia dell’arte Einaudi 1


Storia sociale
da

dell’arte
di Arnold Hauser

Storia dell’arte Einaudi 1


Edizione di riferimento:
Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Volume pri-
mo. Preistoria. Antichità. Medioevo, trad. it. di Anna
Bovero, Einaudi, Torino 1955, 1956 e 1987
Titolo originale:
Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C. H. Beck,
München

Storia dell’arte Einaudi 2


Edizione di riferimento:
Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Volume pri-
mo. Preistoria. Antichità. Medioevo, trad. it. di Anna
Bovero, Einaudi, Torino 1955, 1956 e 1987
Titolo originale:
Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C. H. Beck,
München

Storia dell’arte Einaudi 2


Edizione di riferimento:
Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Volume pri-
mo. Preistoria. Antichità. Medioevo, trad. it. di Anna
Bovero, Einaudi, Torino 1955, 1956 e 1987
Titolo originale:
Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C. H. Beck,
München

Storia dell’arte Einaudi 2


Edizione di riferimento:
Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Volume se-
condo. Rinascimento Manierismo Barocco, trad. it. di
Anna Bovero, Einaudi, Torino 1955, 1956 e 1987
Titolo originale:
Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C. H. Beck,
München

Storia dell’arte Einaudi 2


Edizione di riferimento:
Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Volume terzo.
Rococò Neoclassicismo Romanticismo, trad. it. di
Anna Bovero, Einaudi, Torino 1956 e 1987
Titolo originale:
Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C. H. Beck,
München

Storia dell’arte Einaudi 2


Edizione di riferimento:
Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Volume ter-
zo. Rococò Neoclassicismo Romanticismo e Volume
quarto. Arte moderna e contemporanea, trad. it. di
Anna Bovero, Einaudi, Torino 1956 e 1987
Titolo originale:
Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C. H. Beck,
München

Storia dell’arte Einaudi 2


Edizione di riferimento:
Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Volume quar-
to. Arte moderna e contemporanea, trad. it. di Anna
Bovero, Einaudi, Torino 1955, 1956 e 1987
Titolo originale:
Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C. H. Beck,
München

Storia dell’arte Einaudi 2


Indice

la preistoria

I. L’età paleolitica. Magia e naturalismo 4


II. L’età neolitica. Animismo e geometrismo 12
III. L’artista stregone e sacerdote. L’arte come
professione e attività domestica 23

civiltà urbane dell’antico oriente

I. Elementi statici e dinamici nell’arte


dell’antico Oriente 31
II. La posizione dell’artista e l’organizzazione
del lavoro artistico in Egitto 35
III. L’arte stereotipa del Regno Medio 42
IV. Il naturalismo dell’epoca di Echnatòn 49
V. La Mesopotamia 56
VI. Creta 59

l’antichità classica

I. I tempi eroici e i tempi di Omero 65


II. L’arcaismo e l’arte alle corti dei tiranni 79
III. Classicità e democrazia 94
IV. L’illuminismo greco 104

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Indice

l’antichità classica

V. L’ellenismo 4

VI. L’impero romano e la tarda antichità 12

VII. Poeti e artisti nell’antichità 19

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Indice

il medioevo

I. Lo spiritualismo dell’arte paleocristiana 4

II. L'arte del cesaropapismo bizantino 13

III. Cause e conseguenze dell’iconoclastia 21

IV. Dalle invasioni barbariche al Rinascimento


carolingio 27

V. Poeti e pubblico dell’epica 42

VI. L’organizzazione del lavoro nei conventi 54

VII. Feudalesimo e arte romanica 62

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Indice

il medioevo

VIII. Il romanticismo cortese e cavalleresco 4

IX. Il dualismo dell’età gotica 45

X. Cantieri e Arti 59

XI. L’arte borghese del gotico tardo 69

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Indice

IL RINASCIMENTO

I. Il concetto di Rinascimento 4

II. Pubblico di corte e pubblico borghese


nel Quattrocento 18

III. La posizione sociale dell’artista


nel Rinascimento 56

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Indice

IL RINASCIMENTO

IV. La classicità del Cinquecento 4

IL MANIERISMO

I. Il concetto di Manierismo 18

II. L’età del realismo politico 28

III. La seconda disfatta della cavalleria 67

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Indice

IL BAROCCO

i. Il concetto di Barocco 4

ii. Il Barocco delle corti cattoliche 16

iii. Il Barocco della borghesia protestante 43

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Indice

rococò neoclassicismo romanticismo

i. La fine dell’arte aulica 4

ii. Il nuovo pubblico della letteratura 43

iii. Gli inizi del dramma borghese 95

iv. La Germania e l’illuminismo 113

v. La Rivoluzione e l’arte 148

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Indice

ROCOCÒ NEOCLASSICISMO ROMANTICISMO

VI. Il Romanticismo in Germania e nell’Europa


occidentale 4

ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA

I. La generazione del 1830 76

II. Il Secondo Impero 141

III. Il romanzo sociale in Inghilterra e in Russia 193

IV. L’impressionismo 261

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la preistoria

Capitolo primo

L’età paleolitica.
Magia e naturalismo

Antichissima è la leggenda dell’età dell’oro. Non


conosciamo esattamente l’origine sociologica del culto
del passato; che può avere le sue radici nella solidarietà
familiare e tribale o nello sforzo di gruppi privilegiati di
fondare i loro privilegi sull’origine. Comunque, l’idea
che il migliore debba essere anche il piú antico è ancor
oggi cosí forte che storici dell’arte e archeologi non arre-
trano neppure davanti alla falsificazione storica, pur di
riuscire a presentare come originario lo stile che prefe-
riscono. Come primissima testimonianza dell’attività
artistica, gli uni designano l’arte severamente formale
volta a stilizzare e idealizzare la vita, gli altri invece il
naturalismo, che coglie e mantiene l’essere naturale delle
cose; vedendo gli uni nell’arte un mezzo per dominare
e soggiogare la realtà, gli altri uno strumento della devo-
zione alla natura. In altre parole, essi attribuiscono il
pregio di una maggiore antichità o alle forme geometri-
co-ornamentali, o alle espressioni di un naturalismo
mimetico, secondo le proprie inclinazioni autocratiche
e conservatrici, o liberali e progressive1. In ogni caso, i
monumenti indicano, in modo chiaro e sempre piú strin-
gente col procedere dell’indagine, la priorità del natu-
ralismo, cosí che diventa sempre piú difficile sostenere
la teoria di un’arte originariamente lontana dalla natu-
ra e stilizzatrice della realtà2.
Ma ciò che è piú notevole nel naturalismo preistori-

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co non è che esso sia piú antico dello stile geometrico,


che sembra tanto piú primitivo; bensí che vi si possano
già riconoscere tutti gli stadi tipici di sviluppo che appa-
riranno poi nella storia dell’arte moderna; poiché esso
non è affatto quel fenomeno puramente istintivo, inca-
pace di sviluppi, astorico, descritto dagli studiosi fana-
tici del geometrismo e del rigorismo formale.
Abbiamo a che fare con un’arte che da una lineare
fedeltà alla natura, ancora un po’ rigida e minuziosa nel
modellare le singole forme, si evolve verso una tecnica
fluida e arguta, quasi impressionistica, e sa rendere con
efficacia l’impressione visiva in modo sempre piú pitto-
rico, rapido e apparentemente improvvisato. La corret-
tezza del disegno s’innalza fino a un virtuosismo che si
propone di dominare positure ed aspetti sempre piú dif-
ficili, movimenti e conversioni sempre piú fugaci, scor-
ci e tagli sempre piú arditi. Questo naturalismo non è
una formula rigida e immota, ma una forma mobile e
viva che si accinge a riprodurre il vero con i mezzi piú
diversi e assolve il suo compito ora con maggiore, ora
con minore abilità. Lo stato di natura cieco e istintivo
è già superato da un pezzo, ma il grado di civiltà che crea
formule rigide e salde è ancor di là da venire.
Questo fenomeno, forse il piú singolare di tutta la
storia dell’arte, è tanto piú sconcertante in quanto non
trova riscontro nei disegni infantili, né, di solito, nel-
l’arte dei selvaggi. I disegni dei bambini e l’arte dei sel-
vaggi son frutto della ragione, non dei sensi; mostrano
quel che il bimbo e il selvaggio sanno, non quello che
vedono realmente. Entrambi offrono dell’oggetto una
sintesi teorica, non una visione organica. Combinano la
veduta frontale con quella di fianco o dall’alto, non tra-
lasciano nulla di quanto giudicano attributo importante
dell’oggetto, esagerano le proporzioni di ciò che ha un
valore biologico o causale e trascurano tutto ciò che –
per quanto possa essere, in sé e per sé, imponente e sug-

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gestivo – non svolge una funzione diretta nel contesto


oggettivo. È viceversa caratteristica del naturalismo
paleolitico la capacità di rendere l’impressione visiva in
una forma cosí immediata, pura, libera, esente da
aggiunte o limitazioni intellettuali, che rimane un esem-
pio unico fino al moderno impressionismo. Qui noi tro-
viamo studi di movimento che già richiamano le nostre
istantanee fotografiche, e che ritroviamo soltanto nelle
figure di un Degas o di un Toulouse-Lautrec; al punto
che, ad un occhio non esercitato dall’impressionismo,
molto in queste pitture deve apparire mal disegnato e
incomprensibile. I pittori del paleolitico sapevano anco-
ra vedere a occhio nudo sfumature, che noi abbiamo sco-
perto soltanto con l’aiuto di complicati strumenti. L’età
neolitica ne avrà già perduto la nozione, e fin d’allora
l’uomo saprà sostituire saldi concetti alle immediate
impressioni dei sensi. Ma l’uomo paleolitico dipinge
ancora ciò che realmente vede, e non piú di quello che
può afferrare con un’occhiata in un momento determi-
nato. Ignora l’eterogeneità ottica degli elementi figura-
tivi e il razionalismo della loro composizione: contras-
segni stilistici a noi ben noti dai disegni dei bambini e
dall’arte dei selvaggi; soprattutto l’uso di comporre un
volto disegnandone il contorno di profilo e gli occhi di
fronte. La pittura paleolitica possiede, apparentemente
senza sforzo, quell’unità dell’intuizione sensibile a cui
l’arte moderna giunge soltanto dopo una lotta secolare;
essa può migliorare i propri metodi, ma non li muta, e
il dualismo fra visibile e invisibile, fra visione e cono-
scenza le resta affatto estraneo.
Quale la causa, quale lo scopo di quest’arte? Espri-
meva la gioia della vita, che incitava a conservarla e ripe-
terla in immagini? O appagava l’istinto del gioco e il
gusto decorativo, l’impulso a coprire superfici vuote con
linee e forme, figure e ornamenti? Era il frutto dell’o-
zio, o aveva un fine pratico determinato? Dobbiamo

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vedere in essa un trastullo o uno strumento, una droga,


un piacere, o un’arma nella lotta per la vita? Sappiamo
che fu l’arte di cacciatori primitivi, che, in uno stadio
di economia improduttiva e parassitaria, raccoglievano
o catturavano il loro cibo e non lo producevano; secon-
do ogni apparenza, vivevano in forme sociali fluide, non
articolate, in piccole orde isolate, nello stadio di un indi-
vidualismo primitivo; probabilmente non credevano
negli dei, né nell’aldilà, né in alcun genere di sopravvi-
venza. In quell’epoca di pura prassi, tutto gravitava evi-
dentemente intorno ai mezzi di sussistenza, e nulla ci
autorizza a supporre che l’arte servisse ad altro che a
procurarli direttamente. Tutto indica in essa lo stru-
mento di una prassi magica, e come tale essa aveva una
funzione assolutamente pragmatica, volta in tutto e per
tutto a fini economici immediati. Ma questa magia non
aveva nulla in comune con quello che noi intendiamo per
religione; a quanto pare, non conosceva preghiere, non
venerava potenze sacre, e nessuna credenza, comunque
costituita, la collegava a spiriti ultraterreni; essa non cor-
rispondeva quindi alle condizioni che sono state consi-
derate come il requisito minimo di una religione3. Era
una tecnica senza misteri, un metodo pratico, l’uso con-
creto di mezzi e di procedimenti lontani da ogni carat-
tere mistico ed esoterico; proprio come noi, per esem-
pio, disponiamo trappole per i topi, concimiamo il ter-
reno o prendiamo un sonnifero. Le immagini facevano
parte dell’apparato di questa magia; erano la «trappola»
in cui la selvaggina doveva cadere, o piuttosto la trap-
pola con l’animale già catturato: perché l’immagine era
insieme rappresentazione e cosa rappresentata, deside-
rio e appagamento. Nell’immagine da lui dipinta il cac-
ciatore paleolitico credeva di possedere la cosa stessa,
credeva, riproducendolo, di acquistare un potere sul-
l’oggetto. Egli credeva che l’animale vero subisse l’uc-
cisione eseguita sull’animale dipinto. La rappresenta-

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zione figurata non era, secondo la sua idea, che l’anti-


cipazione dell’effetto desiderato; l’avvenimento reale
doveva seguire il modello magico; o piuttosto esservi già
contenuto, poiché le due cose erano separate soltanto dal
mezzo, ritenuto inessenziale, dello spazio e del tempo.
Non si trattava, dunque, di sostituzioni simboliche, ma
di vere azioni dirette ad uno scopo, atti reali che otte-
nevano effetti reali. Non il pensiero uccideva, non la
fede operava il miracolo, ma l’azione effettiva, l’imma-
gine concreta, realmente colpita, aveva effetto magico.
Quando l’uomo paleolitico dipingeva un animale sulla
roccia, si procurava un animale vero. Per lui il mondo
delle finzioni e delle immagini, la sfera dell’arte e della
pura imitazione, non significavano ancora un campo
specifico, distinto e separato dalla realtà empirica; egli
non confrontava ancora i due mondi, ma vedeva nell’u-
no l’immediata, integrale prosecuzione dell’altro. Il suo
orientamento di fronte all’arte doveva esser simile a
quello dell’indiano Sioux di Lévy-Brühl: egli diceva di
aver visto uno studioso che eseguiva degli schizzi: – So
che quest’uomo ha fatto nel suo libro molti dei nostri
bisonti; c’ero, quando l’ha fatto; da allora non abbiamo
piú bisonti4 –. L’idea che la sfera dell’arte continui
immediatamente la realtà comune non svanisce mai del
tutto, anche se, piú tardi, prevarrà nell’arte la volontà
di contrapporsi al mondo. La leggenda di Pigmalione,
che s’innamora della statua da lui creata, ha origine da
questa mentalità. Testimonia di un orientamento simi-
le il Cinese o il Giapponese che dipinge un ramo o un
fiore, e il dipinto non vuol compendiare o idealizzare,
esaltare o correggere la vita, come le opere dell’arte
occidentale, ma vuol essere semplicemente un ramo-
scello o un fiore di piú sull’albero della realtà. Tra-
smettono questa concezione anche gli aneddoti e le leg-
gende sugli artisti, dove si narra che le figure di un qua-
dro, varcando una porta, entrano nel paesaggio vero,

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nella vita reale. In tutti questi esempi si cancellano i con-


fini tra arte e realtà, ma la continuità dei due campi nelle
opere d’arte dei tempi storici è una finzione nella fin-
zione; mentre nella pittura paleolitica è un semplice
fatto, e prova che l’arte è ancora tutta al servizio della
vita.
Ogni altra spiegazione dell’arte paleolitica – ad
esempio la sua interpretazione come forma decorativa
o espressiva – è insostenibile. Vi si oppone tutta una
serie di indizi, e principalmente la posizione dei dipin-
ti nelle caverne, spesso in angoli completamente nasco-
sti, difficilmente accessibili, affatto oscuri, dove non
avrebbero mai potuto servire come «decorazione». Vi
contrasta anche la sovrapposizione delle pitture, al
modo di palinsesti, che distrugge ogni effetto decorati-
vo, dove pure al pittore non mancava certo lo spazio.
Tale disposizione indica appunto che i dipinti non furo-
no eseguiti per la gioia degli occhi, ma perseguivano uno
scopo per cui importava ch’essi fossero collocati in certe
caverne e in certe parti determinate di esse – eviden-
temente in luoghi particolarmente adatti all’incantesi-
mo. Non è possibile parlare di intento decorativo o di
esigenza estetica di espressione e comunicazione, qui
dove le pitture venivano piuttosto celate che esposte.
Come fu giustamente osservato, ci sono due motivi
distinti, da cui derivano opere d’arte: alcune vengono
create semplicemente per esistere, altre per esser vedu-
te5. L’arte religiosa, intesa soltanto a onorare Iddio, e,
in grado maggiore o minore, ogni creazione in cui l’ar-
tista mira solo ad alleviare il proprio animo, ha in comu-
ne con l’arte magica dell’era paleolitica il carattere
segreto. L’artista paleolitico, che mirava solo all’effet-
to magico, avrà tuttavia provato una certa soddisfazio-
ne estetica nel suo lavoro, anche se considerava la qua-
lità estetica solo come un mezzo. Il rapporto fra mimi-
ca e magia nelle danze cultuali dei selvaggi riflette nel

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modo piú chiaro il caso in questione: come in quelle


danze il piacere della finzione mimica si amalgama
indissolubilmente con la pratica degli incanti, cosí
anche il pittore preistorico, pur dedito al fine magico,
avrà rappresentato con gusto e soddisfazione gli animali
nei loro atteggiamenti caratteristici.
La miglior prova che quest’arte perseguiva conscia-
mente e intenzionalmente un effetto magico, e non este-
tico, è il fatto che gli animali sono spesso rappresentati
trafitti da spiedi e frecce, quando, una volta dipinti, non
sian colpiti con armi vere. Senza dubbio si trattava di
un’uccisione in effigie. Dei rapporti fra l’arte paleolitica
e le pratiche magiche testimoniano anche i gruppi di
figure umane camuffate da animali, che evidentemente,
per la maggior parte, eseguono danze. In queste pitture
– anzitutto in quelle di Trois-Frères – troviamo masche-
re ferine che, senza uno scopo magico, sarebbero sem-
plicemente incomprensibili6. Il rapporto della pittura
paleolitica con la magia ci aiuta anche a spiegarne il
naturalismo. Una rappresentazione che mira a creare
un alter ego del modello, cioè non solo a indicare, imi-
tare, simulare l’oggetto, ma letteralmente a sostituirlo,
non può essere che naturalistica. L’animale da evocare
magicamente doveva presentarsi come il riscontro esat-
to dell’animale dipinto: poteva fare la sua apparizione
solo se la sua copia era fedele e genuina. Già per il suo
scopo magico, quest’arte doveva essere fedele alla natu-
ra. L’immagine poco fedele non era soltanto sbagliata,
ma irreale, senza senso e senza scopo. Si ritiene che l’era
della magia, la prima che serbi testimonianza di opere
d’arte, sia stata preceduta da uno stadio pre-magico7.
L’età aurea della magia, con la sua tecnica già chiusa in
formule e il suo rigido rituale, dev’essere stata prepara-
ta da un periodo di pratica sregolata, di puri tentativi
ed esperimenti. Le formule magiche dovettero far buona
prova, dimostrarsi efficaci, prima di poter essere sche-

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matizzate. Non furono certo il frutto di pura specula-


zione; trovate indirettamente, dovettero evolversi per
gradi. Forse l’uomo scoprí per caso il nesso fra l’origi-
nale e l’immagine dipinta, ma la scoperta dovette sog-
giogarlo. Forse proprio quest’esperienza suscitò la
magia, col suo assioma dell’interdipendenza dei simili.
Comunque, le due antichissime idee che, come fu osser-
vato8, sono i primi presupposti dell’arte, l’idea della
somiglianza e dell’imitazione, e quella della produzione
dal nulla, ossia della potenza creativa, debbono essersi
formate al tempo degli esperimenti e delle scoperte pre-
magiche. I contorni di mani, trovati in molti luoghi
accanto alle pitture delle caverne, e che sono evidente-
mente semplici calchi od impronte, forse per la prima
volta hanno introdotto nella coscienza dell’uomo l’idea
del foggiare – poiein – e gli hanno suggerito che una cosa
inanimata e fittizia potesse essere in tutto e per tutto
simile a una cosa viva e reale. Da principio questo gioco
non ebbe certo nulla in comune con l’arte né con la
magia; ma dovette prima diventare un mezzo magico,
per poter diventare in seguito una forma dell’arte. Poi-
ché l’abisso fra quelle impronte di mani e le piú antiche
figure d’animali appare talmente smisurato (mentre
mancano del tutto documenti da inserire come forme di
transizione), che non possiamo pensare a un’evoluzione
diretta e continua delle forme artistiche da quelle del
gioco, ma dobbiamo concludere che s’interpose un ele-
mento nuovo, proveniente dall’esterno, e cioè proprio
la funzione magica dell’effigie. Tuttavia anche quelle
forme pre-magiche, quei giochi, avevano già una ten-
denza al naturalismo, all’imitazione, se pur ancora mec-
canica, della realtà, e non possono certo considerarsi
come la manifestazione di un principio astrattamente
decorativo.

Storia dell’arte Einaudi 11


Capitolo secondo

L’età neolitica.
Animismo e geometrismo

Lo stile naturalistico dura per tutta l’era paleolitica,


cioè per molte migliaia d’anni; una svolta – il primo
mutamento stilistico nella storia dell’arte – si manifesta
soltanto con la transizione dal paleolitico al neolitico.
Soltanto allora la visione naturalistica, aperta alla varietà
delle esperienze, cede il passo a una stilizzazione geo-
metrica, a un’arte che tende ad estraniarsi dalla ric-
chezza della realtà empirica. Invece del verismo, che
aderisce con amore e pazienza al carattere del modello,
d’ora in poi troviamo dappertutto segni schematici e
convenzionali, quasi geroglifici che alludono all’oggetto,
anziché rappresentarlo. Anziché la vita concreta nella
sua pienezza, l’arte mira a fissare l’idea, il concetto, la
sostanza delle cose, a crear simboli, non riproduzioni. Le
incisioni rupestri dell’età neolitica accennano alla figu-
ra umana con due o tre semplici elementi geometrici: ad
esempio, una retta verticale per il tronco, due semicer-
chi, volti l’uno verso l’alto e l’altro verso il basso, per le
braccia e le gambe. I menhir, in cui si vollero vedere
ritratti abbreviati di defunti9, mostrano nella plastica
un’astrazione altrettanto spinta. Sulla superficie piatta
di questi «monumenti funebri» solo un trattino separa
la testa, che non ha con la natura neppure l’affinità
minima della rotondità, dal tronco, cioè dalla parte
bislunga della pietra; gli occhi sono segnati con due
punti, il naso è incluso in una semplice figura geometrica

Storia dell’arte Einaudi 12


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

insieme con la bocca o coi sopraccigli. L’attributo delle


armi caratterizza l’uomo; due emisferi al posto dei seni,
la donna.
Il mutamento di stile, che porta a quest’arte com-
pletamente astratta, dipende da una svolta della civiltà,
che rappresenta forse la cesura piú profonda della sto-
ria umana. Con essa l’ambiente materiale e l’intima
costituzione dell’uomo preistorico mutano cosí radical-
mente, che tutto quanto precede può sembrare pura-
mente animale e istintivo, e quel che segue, evoluzione
costante, conscia dei propri fini. Ecco il passo decisivo,
rivoluzionario: l’uomo, invece di campar da parassita sui
doni della natura, invece di raccogliere o catturare, pro-
duce ormai i mezzi di sussistenza. Allevando gli anima-
li, coltivando la terra, egli comincia a trionfare della
natura, e a rendersi indipendente dai capricci del desti-
no, dalla fortuna, dal caso. Ora l’uomo comincia a prov-
vedere metodicamente alle proprie necessità; si mette a
lavorare e ad amministrare; si crea riserve di cibo, divie-
ne previdente, elabora le forme primitive del capitale.
Con questi primi elementi – terre dissodate, animali
domestici, arnesi e provviste – comincia anche la diffe-
renziazione della società in strati e classi, in privilegia-
ti e paria, sfruttatori e sfruttati. Si comincia a organiz-
zare il lavoro, si dividono i compiti, le attività si diffe-
renziano: allevamento e agricoltura, produzione primi-
tiva e artigianato, mestieri specializzati e arti casalinghe,
lavori maschili e femminili, coltivazione e difesa del
campo tendono progressivamente a separarsi.
Ma col passaggio dalla civiltà dei raccoglitori e dei
cacciatori a quella dei pastori e dei piantatori muta non
solo il contenuto, ma tutto il ritmo della vita. Le orde
vaganti diventano comunità sedentarie; e quindi i grup-
pi socialmente amorfi e facilmente disgregati cedono il
posto a collettività organizzate. Con ragione V. Gordon
Childe raccomanda di non considerare il passaggio allo

Storia dell’arte Einaudi 13


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

stato sedentario come una svolta troppo netta e improv-


visa, e pensa che anche il cacciatore paleolitico abitasse
nella stessa caverna, spesso per intere generazioni; d’al-
tra parte la primitiva economia agricola e pastorale – poi-
ché, dopo un certo periodo, campi e prati si esaurivano
– era legata a periodici mutamenti di sede10. Ma anzi-
tutto non dobbiamo dimenticare che, col progredire dei
metodi agricoli, l’esaurimento del terreno divenne un
fenomeno sempre piú raro; e in secondo luogo il conta-
dino e il pastore – restassero per breve o per lungo
tempo sullo stesso terreno – dovevano essere legati alla
propria sede, al pezzo di terra che li nutriva, con un vin-
colo ben piú saldo del cacciatore errabondo, tornasse
pure quest’ultimo regolarmente alla sua caverna. E tale
vincolo sviluppò uno stile di vita affatto diverso dall’e-
sistenza inquieta, instabile, dei predatori paleolitici. In
contrasto con l’irregolarità anarchica dei raccoglitori e
dei cacciatori, la nuova economia introdusse una vita
relativamente statica; invece dell’improvvisata economia
di rapina, invece del campare alla giornata e consumare
immediatamente quel che capita tra le mani, ecco l’e-
conomia metodica, regolata in anticipo, a lunga scaden-
za, e in vista di diverse eventualità; dallo stadio della
dispersione sociale e dell’anarchia ci si avvia verso la
cooperazione, dallo stadio della «ricerca individuale del
cibo»11, verso un’organizzazione collettivistica – anche
se non proprio comunistica – verso una società con inte-
ressi, compiti, iniziative comuni; superato lo stadio dei
rapporti casuali di dominio, i singoli gruppi si trasfor-
mano in comunità piú o meno accentrate, dirette in
modo piú o meno unitario; da un’esistenza priva di un
centro, ignara di istituzioni comunque caratterizzate, si
sviluppa una vita che gravita intorno alla casa e alla fat-
toria, al campo e ai pascoli, alla colonia e al santuario.
Riti e pratiche cultuali sostituiscono magia e sorti-
legio. L’età paleolitica rappresentava un momento reli-

Storia dell’arte Einaudi 14


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

gioso della civiltà: l’uomo era assillato dalla paura della


morte e della fame, cercava di difendersi da nemici,
carestie, dolore, morte per mezzo di pratiche magiche,
ma non collegava il bene o il male che gli toccava con
una potenza che si celasse dietro gli avvenimenti,
dispensatrice di fortuna e di sventura. Solo il contadi-
no o il pastore comincia a sentire e a concepire la pro-
pria sorte come guidata da forze intelligenti, che ese-
guono un piano. La coscienza di dipendere dalla volu-
bilità del tempo, dalla pioggia e dal sole, dal fulmine e
dalla grandine, dalla peste, dalla siccità, dall’abbondan-
za e dalla povertà della terra, dalla maggiore o minor
fecondità del bestiame, suscita l’idea di spiriti e demo-
ni d’ogni sorta – benevoli e maligni – che dispensano
benedizione e maledizione; l’idea dell’ignoto e dell’oc-
culto, della strapotenza e del prodigio, del soprannatu-
rale e del numinoso. Il mondo si divide in due mondi e
anche l’uomo si sente diviso. Siamo alla fase dell’ani-
mismo, della religione degli spiriti, della credenza nel-
l’anima e del culto dei morti. Ma con la fede e il culto
sorge il bisogno di idoli, amuleti, simboli sacri, ex voto,
suppellettili funerarie e sepolcri monumentali. Si comin-
cia a distinguere un’arte sacra e un’arte profana, la
prima ieratica e figurativa, l’altra mondana e decorati-
va. Cosí come troviamo i resti di idoli scolpiti e di un’ar-
te sacra e sepolcrale compaiono tracce di una ceramica
profana: caratterizzata per lo piú, come sostenne il Sem-
per, da forme bizzarre, sviluppatesi direttamente dallo
spirito e dalla tecnica artigiana.
Per l’animismo il mondo si divide in reale e surrea-
le: c’è un mondo fenomenico visibile e un mondo degli
spiriti invisibile; c’è un corpo mortale e un’anima
immortale. Gli usi e i riti funebri non lasciano dubbi:
già l’uomo dell’età neolitica comincia a immaginarsi l’a-
nima come una sostanza che si svincola dal corpo. La
visione magica del mondo è monistica, vede la realtà

Storia dell’arte Einaudi 15


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

nella forma di un contesto semplice, di una continuità


perfetta; l’animismo è dualistico, inquadra il suo sapere
e la sua fede in un cosmo bipartito. La magia è sensistica
e si attiene al concreto, l’animismo è dualistico e incli-
ne all’astrazione. Là il pensiero è rivolto alla vita reale,
qui alla vita soprannaturale. Ecco perché l’arte paleoli-
tica ritrae le cose con naturalezza e con fedeltà, mentre
l’arte neolitica contrappone alla realtà dell’esperienza
consueta un mondo superiore stilizzato e idealizzato12.
Ma cosí l’arte diventa intellettualistica e razionale: intro-
duce simboli e sigilli, astrazioni e sigle, tipi e segni con-
venzionali al posto di immagini e figure concrete, sop-
pianta l’esperienza sensibile col pensiero e l’interpreta-
zione, con la regola e il modello; insiste ed esagera, svisa
e snatura. L’opera d’arte non è piú soltanto l’immagine
di una cosa, ma di un’idea; non è piú soltanto un ricor-
do, ma un simbolo: insomma, gli elementi concettuali e
non sensoriali della rappresentazione soppiantano quel-
li sensibili e irrazionali. E cosí la riproduzione si tra-
sforma a poco a poco in un segno pittografico, la ric-
chezza delle immagini si perde in uno stenogramma
privo o quasi di valore figurativo.
In ultima analisi, due cause determinano il muta-
mento di stile dell’età neolitica, il trapasso dall’econo-
mia dei cacciatori e raccoglitori, parassitaria e consun-
tiva, a quella, produttiva e costruttiva, dei pastori e dei
contadini; e la sostituzione dell’immagine monistica,
che la magia si era fatta del mondo, col sentimento dua-
listico della vita, proprio dell’animismo: visione condi-
zionata, a sua volta, dalla nuova economia. Il pittore
paleolitico era un cacciatore e doveva essere quindi un
buon osservatore; doveva saper riconoscere, dalle mini-
me tracce caratteristiche, sedi e migrazioni degli animali;
doveva avere occhio acuto per cogliere somiglianze e dif-
ferenze, udito fine per indizi e suoni; tutti i suoi sensi
dovevano tendere all’esterno, alla realtà concreta. Lo

Storia dell’arte Einaudi 16


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

stesso orientamento e le stesse facoltà si fanno valere


anche nell’arte naturalistica. Al contadino neolitico non
occorrono piú i sensi acuti del cacciatore; la sensibilità
e la capacità d’osservazione si atrofizzano; e acquistano
valore altre attitudini – specialmente la tendenza all’a-
strazione, e al pensiero razionale –, come nell’attività
economica, cosí nell’arte, formalistica, severamente sin-
tetica e stilizzatrice. Quest’arte si distingue dall’imita-
zione naturalistica soprattutto perché rappresenta l’og-
getto reale non come la perfetta immagine di un mondo
omogeneo, ma come il confronto di due mondi. Con la
sua volontà formale si oppone all’apparenza consueta
delle cose; non è piú l’imitatrice, ma l’antagonista della
natura; non fornisce un prolungamento della realtà, ma
le contrappone una forma autonoma e normativa. Que-
sto dualismo che sorge con la fede animistica, e che si
configurerà poi in cento sistemi filosofici, trova espres-
sione nell’antitesi di idea e realtà, spirito e corpo, anima
e forma, e sarà d’ora in poi inseparabile dal concetto di
arte. Fra i due opposti momenti di tale antagonismo si
produrrà talvolta un equilibrio, ma la loro tensione si
avverte in tutti gli stili dell’arte occidentale, siano essi
rigorosamente formali o naturalistici.
Il formalismo geometrico-ornamentale esercita, a
partire dal neolitico, un dominio cosí lungo e incontra-
stato, quale nessuna tendenza artistica dei tempi stori-
ci, e meno che mai il rigorismo formale, sarà piú in
grado di esplicare. Se prescindiamo dall’arte
cretese-micenea, questo stile domina tutta la civiltà del
bronzo e del ferro, tutto l’antico Oriente e la Grecia
arcaica; un’era che va press’a poco dal 5000 al 500 a. C.
In confronto, paiono effimeri tutti gli stili piú tardi e,
in particolare, tutti i geometrismi e i classicismi si ridu-
cono a semplici episodi Ma che cosa sostiene cosí a
lungo questa concezione artistica costretta in schemi
rigidi, dominata dai principî della forma astratta? Come

Storia dell’arte Einaudi 17


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

poté sopravvivere a sistemi economici, sociali e politici


cosí diversi? Alla concezione artistica, complessiva-
mente unitaria, dello stile geometrico, corrisponde, salvo
differenze particolari, una fondamentale unità sociolo-
gica che domina tutta l’epoca: la tendenza cioè a un’or-
ganizzazione economica rigidamente conservatrice, a
una struttura autocratica del potere, all’ispirazione iera-
tica di una società tutta permeata di spirito cultuale e
religioso, in contrasto sia col disordinato e primitivo
individualismo dell’orda cacciatrice, sia con la vita socia-
le differenziata, consciamente individualistica, animata
dallo spirito di concorrenza, che caratterizza la borghe-
sia antica e moderna. Il senso della vita dei cacciatori-
predatori, che campavano alla giornata, era anarchico e
dinamico: e analogamente l’arte era diretta ad espande-
re, dilatare e differenziare l’esperienza. I contadini, che
si adoperano, a conservare, consolidare, assicurare i
mezzi di produzione, hanno una visione statica e tradi-
zionale del mondo; le forme della vita sono impersona-
li e stazionarie, e le forme artistiche che vi corrispon-
dono sono convenzionali e immutabili. È perfettamen-
te naturale che lo sviluppo di forme salde, rigide e ferme
s’accompagni in tutti i campi della vita civile ai metodi
di lavoro, essenzialmente collettivi e tradizionali, propri
della vita rurale. Già Hörnes sottolinea l’ostinato spiri-
to conservatore che «caratterizza lo stile in sé, come l’e-
conomia di una civiltà agricola inferiore»13. E Gordon
Childe, per caratterizzare questo spirito, fa notare uno
strano fenomeno: tutte le ceramiche di un villaggio neo-
litico sono uguali14. La civiltà dei contadini che si svi-
luppa al riparo dalle fluttuazioni economiche delle città,
resta piú a lungo fedele alle rigide consuetudini tra-
mandate di generazione in generazione; e l’artigianato
rurale moderno presenta ancora certi tratti formalistici
affini allo stile geometrico della preistoria.
Il mutamento dal naturalismo paleolitico al geome-

Storia dell’arte Einaudi 18


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

trismo neolitico non si compie senza passare attraverso


forme intermedie. Mentre ancora fioriva il naturalismo,
accanto alla tendenza impressionistica della Francia
meridionale e della Spagna settentrionale, troviamo, in
un gruppo di pitture spagnole, un carattere espressioni-
stico piuttosto che impressionistico. Sembra che gli
autori di tali opere abbiano rivolto tutta la loro atten-
zione ai gesti e al dinamismo dei corpi e che, per espri-
merli in modo piú intenso e suggestivo, alterino a bella
posta le proporzioni delle membra, disegnando lunghe
gambe caricaturali, toraci inverosimilmente sottili, brac-
cia contorte e giunture slogate.
Ma questo espressionismo, come piú tardi ogni stile
consimile, non tradisce una volontà artistica opposta
per principio al naturalismo: anche se gli accenti esage-
rati e i lineamenti che questa esagerazione semplifica
offrono alla stilizzazione e alla schematizzazione un
punto di partenza piú favorevole che non le proporzio-
ni e le forme del tutto corrette. Ma il vero trapasso al
geometrismo neolitico appare solo in quella graduale
semplificazione e stereotipizzazione dei contorni, che
Henri Breuil constata nell’ultima fase paleolitica e che
designa come la «convenzionalizzazione» delle forme
naturalistiche15.
Egli descrive il processo per cui il disegno naturali-
stico diventa sempre piú trascurato, sempre piú astrat-
to, rigido e stilizzato, e su questa osservazione fonda la
sua teoria delle forme geometriche sorte dal naturalismo:
questo processo, anche se, considerato di per se stesso,
si svolge senza salti e discontinuità, dipende tuttavia da
condizioni esterne. La schematizzazione segue due diret-
trici: l’una si sforza di trovare forme chiare e facilmen-
te comprensibili; l’altra, di creare forme decorative sem-
plici e piacevoli. E cosí, alla fine dell’età paleolitica, tro-
viamo già sviluppate le tre forme fondamentali della
rappresentazione artistica: l’imitativa, l’informativa, la

Storia dell’arte Einaudi 19


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

decorativa; in altre parole, la riproduzione naturalistica,


il segno pittografico e l’ornamento astratto.
Le forme di transizione dal naturalismo al geome-
trismo corrispondono ai gradi intermedi fra l’economia
parassitaria e quella produttiva. Probabilmente, già alcu-
ne tribú cacciatrici cominciarono a conservare certi
bulbi, a risparmiare certi animali prediletti – piú tardi
forse animali totemici –, dando l’avvio all’agricoltura e
all’allevamento16. Non si tratta quindi di un mutamen-
to improvviso né in arte né in economia; fu piuttosto,
nei due campi, un rinnovamento graduale.
E tra le forme di transizione dei due campi sussiste
la stessa interdipendenza che lega la vita parassitaria del
cacciatore al naturalismo, l’agricoltura produttiva al geo-
metrismo. D’altronde, la storia economica e sociale degli
odierni selvaggi ci offre un’analogia, da cui possiamo
concludere che si tratta di un rapporto tipico. I Bosci-
mani, cacciatori e nomadi come l’uomo paleolitico, dun-
que allo stadio della «ricerca individuale del cibo», igno-
rano qualsiasi forma di cooperazione sociale, non cre-
dono a spiriti né a demoni, si dedicano al rozzo sortile-
gio e alla magia, e hanno un’arte naturalistica, somi-
gliantissima alla pittura paleolitica; mentre i negri della
costa occidentale dell’Africa, che praticano l’agricoltu-
ra, vivono in comunità rurali e credono nell’animismo,
sono rigidamente formalisti e hanno un’arte astratta e
geometrica, come i neolitici17.
Sulle condizioni economiche e sociali dell’uno e del-
l’altro stile, concretamente possiamo soltanto asserire
che il naturalismo è connesso con forme di vita anar-
chiche e individualistiche, con una certa mancanza di
tradizioni e convenzioni fisse, con una visione del
mondo tutta profana; il geometrismo, invece, con una
tendenza all’organizzazione unitaria, con istituzioni
durevoli, e con una visione del mondo orientata, nelle
sue grandi linee, verso l’aldilà; tutto ciò che va oltre la

Storia dell’arte Einaudi 20


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

constatazione di questi rapporti, per lo piú si fonda su


equivoci. E cosí è della correlazione, che Wilhelm Hau-
senstein cerca di istituire fra lo stile geometrico e l’eco-
nomia comunistica delle primitive «democrazie agra-
rie»18. Nei due fenomeni egli constata una tendenza
autoritaria, egualitaria, pianificatrice; ma trascura il
fatto che questi concetti non hanno lo stesso significa-
to in arte e in economia, e che, formulando i concetti
con cosí scarso rigore, è possibile collegare il medesimo
stile con forme sociali diversissime, e lo stesso sistema
sociale con gli stili piú diversi. Ciò che s’intende per
«autorità» in senso politico può riferirsi altrettanto bene
a ordinamenti sociali autocratici o socialisti, feudali o
comunisti; i confini dello stile geometrico sono molto
piú angusti, non comprendendo neppure tutta l’arte
delle civiltà autocratiche, e tanto meno, quindi, l’arte
del socialismo. Viceversa, il concetto di «eguaglianza»
è piú stretto in rapporto alla società che in rapporto
all’arte. Nell’accezione politico-sociale contrasta con
qualsiasi principio autocratico; nel campo dell’arte, in
cui può significare soltanto impersonalità e ostilità all’in-
dividuale, possiamo collegarlo coi piú diversi ordina-
menti sociali, ma proprio allo spirito democratico e
socialista corrisponde pochissimo. Insomma, non c’è
alcun rapporto diretto fra «pianificazione» sociale e
artistica: fra l’intento pianificatore che, in campo eco-
nomico e sociale, elimina la libera e illimitata concor-
renza e quello che obbliga a seguire rigorosamente un
modello artistico, elaborato fin nei minimi particolari,
si può, tutt’al piú, istituire un rapporto metaforico; in
sé e per sé rappresentano due principî completamente
diversi, ed è lecito pensare che in una economia e in una
società pianificata possa prevalere un’arte che, libera da
norme costrittive, si sbizzarrisca in forme individuali e
improvvisate. Per l’interpretazione sociologica della
creazione spirituale non c’è pericolo maggiore di simili

Storia dell’arte Einaudi 21


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

confusioni, in cui si incorre di frequente. Nulla di piú


facile che istituire suggestivi rapporti fra i vari stili arti-
stici e le forme sociali di volta in volta contemporanee,
rapporti che, in definitiva, poggiano su una metafora; e
nulla di piú seducente del lustro che promettono tali
ardite analogie. Ma esse sono trappole non meno fatali
per la verità delle illusioni enumerate da Bacone, e meri-
tano d’essere aggiunte alla sua lista come idola aequivo-
cationis.

Storia dell’arte Einaudi 22


Capitolo terzo

L’artista stregone e sacerdote.


L’arte come professione e attività domestica

Molto probabilmente, nell’età paleolitica, i pittori


d’animali erano cacciatori professionali – come si può
indurre quasi con sicurezza dalla loro intima conoscen-
za del soggetto – e non è verosimile che, nella loro qua-
lità di «artisti», o comunque venissero considerati, fos-
sero completamente esenti dai doveri dell’approvvigio-
namento19. Ma certi indizi confermano che si era già for-
mata una differenziazione professionale, limitata forse
a questo campo. Se, come noi crediamo, la rappresen-
tazione degli animali serviva effettivamente a fini magi-
ci, chi era capace di produrre queste opere doveva esse-
re ritenuto in possesso di doti magiche e onorato come
stregone; e a questo fatto poteva riconnettersi una posi-
zione di privilegio e l’esenzione, almeno parziale, degli
obblighi dell’approvvigionamento. D’altronde, anche la
tecnica evoluta delle pitture paleolitiche rivela che non
sono opera di dilettanti, ma di persone del mestiere, che
avevano impiegato una parte notevole della loro vita nel
tirocinio e nella pratica dell’arte e formavano una cate-
goria professionale a sé. I molti «schizzi», «abbozzi» ed
«esercizi scolastici» corretti, che si sono rinvenuti accan-
to agli altri documenti, fanno anzi pensare ad una sorta
di attività artistica specializzata, con scuole, maestri,
orientamenti e tradizioni locali20. L’artista-mago sembra
quindi il primo rappresentante della specializzazione e
della divisione del lavoro. In ogni caso, egli emerge per

Storia dell’arte Einaudi 23


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

primo, accanto al mago guaritore, dalla massa indiffe-


renziata, e, come possessore di doti speciali, spiana la via
al vero e proprio sacerdozio, che pretenderà non solo a
facoltà e conoscenze straordinarie, ma anche ad una
sorta di carisma, e si sottrarrà al lavoro ordinario. Ma
già una parziale esenzione dagli obblighi dell’approvvi-
gionamento diretto fa pensare a condizioni relativa-
mente progredite; perché significa che il gruppo può
ormai permettersi il lusso di mantenere qualche ozioso.
Finché i rapporti sociali dipendono unicamente dall’ap-
provvigionamento, è pienamente valida la teoria che
vede nell’arte un prodotto della ricchezza; in questo
stadio dell’evoluzione, la presenza di opere d’arte indi-
ca, di fatto, una certa abbondanza di mezzi e una rela-
tiva libertà da preoccupazioni alimentari immediate. Ma
non si può applicarla senz’altro a rapporti piú evoluti,
perché, se è vero che l’esistenza di pittori e di scultori
presuppone sempre un certo eccedente, che la società
dev’essere disposta a dividere con questi specialisti
«improduttivi», questo principio non può essere appli-
cato nel senso di quella sociologia primitiva che fa sem-
plicemente coincidere le epoche di rigoglio artistico coi
periodi economicamente floridi.
Quando, nell’età neolitica, l’arte si distinse in sacra
e profana, passò probabilmente in mano di due gruppi
diversi. I compiti dell’arte sepolcrale e della modella-
zione degli idoli, come l’esecuzione delle danze cultua-
li, che – se dai risultati dell’indagine antropologica è leci-
to trarre qualche conclusione per la preistoria – è diven-
tata, nell’epoca dell’animismo, l’arte principale21, dove-
vano essere affidati soltanto a uomini, soprattutto maghi
e sacerdoti. L’arte profana invece, ridotta a mestiere e
chiamata ad assolvere compiti puramente decorativi,
doveva essere interamente affidata alle donne, come
parte dell’industria casalinga. Hörnes collega il caratte-
re geometrico dell’arte neolitica soprattutto con l’ele-

Storia dell’arte Einaudi 24


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

mento femminile. «Lo stile geometrico, – egli dice, – è


in primo luogo uno stile femminile, ha carattere fem-
mineo e reca i segni di ciò che è ormai docile e castiga-
to»22. L’osservazione in sé può essere giusta, ma la spie-
gazione si fonda su un equivoco. «L’ornato geometrico,
– scrive ancora Hörnes, – piú che a quello dell’uomo,
appare consono allo spirito della donna, casalingo, ordi-
nato fino alla pedanteria e pieno di superstiziosa previ-
denza. Considerato da un punto di vista puramente
estetico, è una maniera artistica gretta, vuota e limita-
ta, nonostante ogni lusso e varietà; ma, pur nei suoi limi-
ti, sana e valida, piacevole per la diligenza e l’esteriore
eleganza; è l’espressione artistica della natura femmini-
le»23. In questo linguaggio metaforico, sarebbe altret-
tanto possibile riferire lo stile geometrico al rigore e alla
disciplina, allo spirito ascetico e dominatore del maschio.
Il parziale assorbimento dell’arte nell’industria
domestica e nel lavoro casalingo, cioè il collegamento
dell’attività artistica con altre attività, significa un passo
indietro dal punto di vista della divisione del lavoro e
della differenziazione professionale. Poiché la divisione
delle funzioni ha luogo, tutt’al piú, fra i sessi, e non fra
categorie professionali. Se quindi le civiltà agricole pro-
muovono, nell’insieme, la specializzazione, pongono
momentaneamente fine all’attività artistica professio-
nale. E il mutamento è cosí radicale, che non solo i rami
dell’attività artistica che toccano in sorte alla donna, ma
anche quelli che restano prerogativa dell’uomo, vengo-
no esercitati come occupazione accessoria. È vero che,
in quest’epoca, tutta l’industria – salvo, forse, l’arte
dell’armaiolo – è una «occupazione accessoria» 24; ma
non dobbiamo dimenticare che l’attività artistica, diver-
samente da ogni altro mestiere, ha dietro di sé uno svi-
luppo autonomo e soltanto ora diventa un passatempo
piú o meno dilettantesco. È difficile dire se la scompar-
sa degli artisti «professionali» sia una causa o un effet-

Storia dell’arte Einaudi 25


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

to della semplificazione e della schematizzazione for-


male. Certo, lo stile geometrico, coi suoi motivi semplici
e convenzionali, non esige le doti specifiche e la prepa-
razione profonda dello stile naturalistico; ma, a sua
volta, il dilettantismo che esso rende possibile contri-
buisce al progressivo irrozzimento delle forme.
Agricoltura e pastorizia implicano lunghi periodi
d’ozio. Il lavoro dei campi è limitato a certe stagioni,
l’inverno è lungo e senza impegni specifici. L’arte neo-
litica ha il carattere di un’«arte rustica», non soltanto
perché le sue forme impersonali e inclini alla rigidezza
corrispondono allo spirito conformista e conservatore
della campagna, ma anche perché essa è il prodotto del-
l’ozio campagnolo. Tuttavia non è un’«arte popolare»,
come l’arte rustica odierna. Non lo è, in ogni caso, fin-
ché non è ancora giunta a compimento la separazione in
classi delle società agricole: perché l’espressione «arte
popolare», come è stato osservato, ha un senso soltan-
to se opposta ad «arte aulica»; ma l’arte di una massa
non ancora divisa in «classi dominanti e soggette, in ceti
superiori pieni di esigenze e ceti inferiori modesti», non
può chiamarsi «arte popolare», proprio perché è la sola25.
E quando la differenziazione è compiuta, l’arte rustica
dei neolitici non è piú «arte popolare», perché i prodotti
dell’arte figurativa sono destinati alla classe possidente
ed eseguiti da questa, cioè per lo piú dalle sue donne.
Penelope, che siede al telaio con le ancelle, è ancora, in
certo qual modo, la ricca contadina e l’erede dell’arte
femminile neolitica. Il lavoro manuale, piú tardi consi-
derato degradante, è ancora decorosissimo, almeno come
attività femminile e domestica.
I documenti artistici dell’epoca preistorica sono par-
ticolarmente importanti per la sociologia dell’arte, e non
solo perché dipendenti in maggiore misura dalle condi-
zioni sociali, ma perché i rapporti fra la struttura socia-
le e le forme artistiche vi si possono riconoscere piú chia-

Storia dell’arte Einaudi 26


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ramente che nei prodotti artistici di tempi piú tardi.


Comunque, la transizione all’età neolitica resta per la
storia dell’arte l’esempio piú evidente del rapporto fra
una trasformazione stilistica e la contemporanea tra-
sformazione delle condizioni economico-sociali. Le cul-
ture preistoriche mostrano i segni del loro condiziona-
mento sociale piú chiaramente delle culture successive,
in cui le forme tramandate da un’epoca piú antica, e in
parte già fossilizzate, si amalgamano spesso in modo
indiscernibile con le forme nuove e ancor vive. Quanto
piú evoluta è l’epoca su cui si esercita la nostra indagi-
ne, tanto piú complicata è la rete dei rapporti, e meno
evidente il sostrato sociale a cui si collegano. Quanto piú
vecchia è una maniera, uno stile, un genere, tanto piú
lunghi sono i tratti in cui lo sviluppo si compie secondo
leggi proprie, immanenti, «non turbate» dall’esterno; e
quanto piú durano queste fasi piú o meno autonome del-
l’evoluzione, e tanto piú difficile diventa l’interpreta-
zione sociologica dei singoli elementi del complesso for-
male. Ciò appare già nell’epoca che segue all’età neoli-
tica, quando le civiltà rurali si trasformano in civiltà
urbane piú dinamiche, fondate sull’industria e sul com-
mercio; struttura relativamente cosí complicata, che l’in-
terpretazione sociologica di certi fenomeni non riesce
piú del tutto soddisfacente. La tradizione dell’arte geo-
metrico-ornamentale è ormai cosí salda, che non può
essere facilmente sradicata, e dura a lungo, senza che se
ne possa addurre una speciale ragione sociologica. Ma
quando, come nella preistoria, tutto è ancora immedia-
tamente connesso con la vita, quando non ci sono anco-
ra forme autonome, né divisione di principio fra vecchio
e nuovo, tradizione e innovazione, la motivazione socio-
logica dei fenomeni culturali è ancora relativamente
facile e chiara.

Storia dell’arte Einaudi 27


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

1
Quest’antitesi forma anche il substrato delle trattazioni, fonda-
mentali per l’archeologia, in cui alois riegl (Stilfragen, Berlin 1893;
trad. it., Problemi di stile, Milano 1963) discute la teoria del Semper
dell’origine dell’arte dallo spirito della tecnica. Per gottfried semper
(Der Stil in den technischen und tektonischen Künsten, 1860) l’arte non
é che un derivato del mestiere e la quintessenza di quelle forme deco-
rative che risultano dalla natura del materiale, dai processi della lavo-
razione e dall’uso a cui è destinato l’oggetto. Riegl sottolinea invece
che, all’origine di ogni arte, anche se ornamentale, sta l’imitazione della
natura, e che nella storia dell’arte le forme geometricamente stilizzate
non sono un fenomeno iniziale, ma relativamente tardo, frutto di una
sensibilità artistica già molto raffinata. Come risultato delle sue ricer-
che, alla teoria meccanico-materialistica del Semper, ch’egli chiama
«darwinismo trapiantato nel campo della vita spirituale», Riegl con-
trappone la sua teoria dell’«idea creatrice», secondo cui le forme arti-
stiche non sono semplicemente dettate dalla materia prima e dagli
arnesi, ma s’inventano e si ottengono proprio nella lotta dell’«intento
artistico» contro le condizioni materiali. È un principio di metodo fon-
damentale per tutta l’estetica quello che Riegl introduce qui discuten-
do la dialettica di spirito e materia, contenuto espressivo e mezzi d’e-
spressione, volontà e substrato della volontà, e che gli permette, se non
d’infirmare la teoria del Semper, certo d’integrarla sostanzialmente.
L’appartenenza all’una o all’altra delle due scuole opposte si mani-
festa dappertutto nelle opinioni dei singoli studiosi di archeologia.
alexander conze (Zur Geschichte der Anfänge griechischer Kunst, in
«Sitzungsberichte der Wiener Akademie», 1870, 1873; «Sitzungsbe-
richte der Berliner Akademie», 1896; Ursprung der bildenden Kunst,
1897), julius lange (Darstellungen des Menschen in der älteren griechi-
schen Kunst, 1899), emanuel löwy (Die Naturwiedergabe in der älteren
griechischen Kunst, 1900), wilhelm wundt (Elemente der Völkerpsy-
chologie, 1912), karl lambrecht (Bericht über den Berliner Kongress für
Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft, 1913) sono tutti inclini,
come accademici conservatori, a collegare l’essenza e l’inizio dell’arte
ai principî dell’ornato geometrico e della funzionalità artigiana. E
anche se, come Löwy o Conze nei suoi ultimi anni, ammettono la prio-
rità del naturalismo, cercano tuttavia di limitare l’importanza dell’am-
missione, in quanto anche nei monumenti del primitivo naturalismo
vogliono ritrovare i caratteri piú importanti dell’arte cosiddetta «arcai-
ca»: la frontalità, l’assenza di prospettiva e di spazio, la rinunzia ai
gruppi e l’integrazione degli elementi figurativi. ernst grosse (Die
Anfänge der Kunst, 1894), salomon reinach (Répertoire de l’art qua-
ternaire, 1913; La sculpture en Europe, «L’Anthropologie», v-vii, 1894-
96), henry breuil (La caverne d’Altamira, 1906; L’âge des peintures
d’Altamira, «Revue préhistorique», 1, 1906, pp. 237-49) e i suoi segua-

Storia dell’arte Einaudi 28


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ci, g. h. luquet (Les origines de l’art figuré, «Jahrbuch für prähistori-


sche und ethnographische Kunst», 1926, pp. 1 sgg.; L’art primitif,
1930; Le réalisme dans l’art paléolithique, «L’Anthropologie», xxxiii,
1923, pp. 17-48), hugo obermaier (El hombre fósil, 1916; Urgeschich-
te der Menscheit, 1931; Altamira, 1929), herbert kühn (Kunst und
Kultur der Vorzeit Europas, 1929; Die Kunst der Primitiven, 1923), m.
c. burkitt (Prehistory, 1921; The Old Stone Age, 1933), v. gordon chil-
de (Man Makes Himself, 1936; trad. it., L’uomo crea se stesso, Torino
1952) riconoscono invece senza riserve il primato dell’arte naturalisti-
ca e insistono proprio sulla sua tendenza «non arcaica», tutta pervasa
di spontanea vivacità.
2
Nella posizione piú difficile si trova adam van scheltema (Die
Kunst unserer Vorzeit, 1936), come teorico fra i piú retrivi, ma, per l’o-
biettività dell’informazione, competentissimo archeologo.
3
e. b. tylor, Primitive Culture, 1913, I, p. 424.
4
LÉVY-bruhl, Les Fonctions mentales dans les sociétés inférieures,
1910, p. 42.
5
walter benjamin, L’oeuvre d’art à l’époque de sa reproduction
mécanisée, «Zeitschrift für Sozialforschung», v, 1936, p. 45.
6
Per l’interpretazione dell’arte paleolitica come magia, cfr. h.
obermaier in Reallexikon der Vorgeschichte, 1926, VII, p. 145; id.,
Altamira, pp. 19-20; h. obermaier - h. kühn, Bushman Art, 1930, p.
57; h. kühn, Kunst und Kultur der Vorzeit cit., pp. 457-475; m. c.
burkitt, Prehistory cit., pp. 309-13.
7
alfred vierkandt, Die Anfänge der Kunst, «Globus», 1907; k.
beth, Religion und Magie, 2a ed., 1927.
8
g.-h. luquet, Les origines de l’art figuré, ipek, 1926.
9
carl schuchhardt, Alteuropa, 1926, p. 62.
10
v. gordon childe, Man Makes Himself cit., p. 80.
11
karl bücher, Die Entstehung der Volkswirtschaft, I, 1919, p. 27.
12
Il contrasto fra la concezione magica e quella animistica in rap-
porto all’arte è trattato estesamente da herbert kühn, nella sua Kunst
und Kultur der Vorzeit.
13
h. hörnes - o. menghin, Urgeschichte der bildenden Kunst in
Europa, 3a ed., 1925, p. 90.
14
v. gordon childe, Man Makes Himself cit., p. 109.
15
henri breuil, Stylisation des dessins à l’âge du renne, «L’Anth-
ropologie», viii, 1906, pp. 125 sgg.; cfr. m. c. burkitt, The Old Stone
Age, pp. 170-73.
16
heinrich schurtz, Die Anfänge des Landbesitzes, «Zeitschrift für
Sozialwissenschaft», iii, 1900.
17
Cfr. h. obermaier - h. kühn, Bushman Art, 1930; h. kühn, Die
Kunst der Primitiven, 1923; herbert read, Art and Society, 1936; l.
adam, Primitive Art, 1940.

Storia dell’arte Einaudi 29


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

18
wilhelm hausenstein, Bild und Gemeinschaft, 1920. Già appar-
so sotto il titolo Versuch einer Soziologie der bildenden Kunst, in «Archiv
für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», vol. XXXVI, 1913.
19
Cfr. f. m. heichelheim, Wirtschaftsgeschichte des Altertums,
1938, pp. 23-24.
20
h. obermaier, Urgeschichte der Menschheit, 1931, p. 209; m. c.
burkitt, The Old Stone Age cit., pp. 215-16.
21
h. hörnes - o. menghin, Urgeschichte der bildenden Kunst in
Europa cit., p. 574.
22
Ibid., p. 108.
23
Ibid., p. 40.
24
f. m. heichelheim, Wirtschaftsgeschichte des Altertums cit., pp.
82-83.
25
h. hörnes - o. menghin, Urgeschichte der bildenden Kunst in
Europa cit., p. 58o.

Storia dell’arte Einaudi 30


civiltà urbane dell’antico oriente

Capitolo primo

Elementi statici e dinamici nell’arte


dell’antico Oriente

La fine dell’età neolitica apporta una trasformazio-


ne quasi altrettanto generale, un rivolgimento sociale ed
economico quasi altrettanto profondo di quello che ne
aveva segnato l’inizio. Là, troviamo il passaggio dal puro
consumo alla produzione, dall’individualismo primitivo
alla cooperazione; qui, l’inizio del commercio e dell’ar-
tigianato indipendente, il sorgere delle città e dei mer-
cati, l’agglomerarsi e il differenziarsi della popolazione.
Nei due casi, siamo di fronte ad un rivolgimento com-
pleto, anche se la trasformazione si compie, qui come
allora, al modo di un rinnovamento graduale piuttosto
che di un sovvertimento improvviso. Nella maggior
parte delle istituzioni e delle consuetudini dell’antico
Oriente, nel potere autocratico, nella parziale conser-
vazione dell’economia naturale, nella vita quotidiana
permeata di elementi cultuali e religiosi, e nel rigore for-
malistico dell’arte, continuano i costumi e gli usi neoli-
tici, accanto alle nuove forme della vita cittadina. Nei
villaggi dell’Egitto e della Mesopotamia, il contadino
continua, nel quadro dell’economia domestica, la sua
vita, fissata ab antiquo, indipendente dall’inquieta atti-
vità urbana; e se il suo influsso declina costantemente,
lo spirito delle sue tradizioni si lascia riconoscere anche
nei prodotti culturali piú tardi e maggiormente diffe-
renziati per influsso della civiltà cittadina.

Storia dell’arte Einaudi 31


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Il mutamento decisivo per il nuovo stile di vita si


manifesta anzitutto nel fatto che la produzione prima-
ria non è piú l’occupazione preminente e storicamente
piú avanzata, ma è al servizio del commercio e dell’at-
tività artigiana. L’accrescimento della ricchezza l’accu-
mulazione in poche mani di terreni e provviste libera-
mente disponibili, creano bisogni nuovi, piú intensi e
piú vari, di prodotti industriali, e determinano una mag-
gior divisione del lavoro. Chi sa creare immagini di spi-
riti, dei e uomini, suppellettile decorata e oggetti d’or-
namento esce dalla cornice casalinga e diventa uno spe-
cialista che vive del proprio mestiere. Non è piú il mago
ispirato, né il membro dell’azienda domestica fornito di
abili dita, ma l’artigiano che scalpella statue, dipinge
quadri, modella vasi, cosí come altri fanno accette o
scarpe; e, del resto, non è molto piú apprezzato del fab-
bro o del calzolaio. La perfezione artigiana del lavoro,
il sicuro dominio della materia ribelle e la cura impec-
cabile dell’esecuzione – cosí sorprendente nell’arte egi-
ziana, in confronto con la trascuratezza geniale o dilet-
tantesca di età piú antiche1 – è una conseguenza della
specializzazione professionale dell’artista e un risultato
della vita cittadina, con la crescente emulazione e la for-
mazione – nei centri culturali della città, nel recinto del
tempio e alla corte del re – di una clientela di amatori
esperti ed esigenti.
La città, con la sua popolazione accentrata e gli sti-
moli intellettuali provocati dallo stretto contatto dei
diversi ceti, col suo mercato fluttuante e lo spirito anti-
tradizionalistico che esso porta con sé, col suo esteso
commercio e i suoi mercanti esperti di paesi e popoli
stranieri, con la sua economia monetaria – sia pure anco-
ra rudimentale – e gli spostamenti di ricchezza deter-
minati dalla natura stessa del denaro, costituí certo un
fatto rivoluzionario in ogni campo della civiltà: nell’ar-
te suscitò uno stile piú dinamico e individualistico, piú

Storia dell’arte Einaudi 32


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

libero da forme e tipi tradizionali, di quel che non fosse


l’antico geometrismo. Il noto – e spesso fin troppo sot-
tolineato – tradizionalismo dell’antica arte orientale, la
lentezza della sua evoluzione generale e la longevità
delle singole tendenze, ridussero, ma non eliminarono,
l’effetto dinamico della vita urbana. Poiché, se con-
frontiamo il corso dell’arte egiziana con quelle epoche
in cui «tutte le ceramiche di un villaggio erano uguali»,
e le singole fasi dell’evoluzione culturale dovevano esse-
re calcolate in migliaia di anni, avvertiremo la presenza
di fenomeni stilistici, la cui diversità viene spesso tra-
scurata a causa dei loro caratteri inconsueti e della con-
seguente difficoltà di distinguerli. Ma si falsa l’essenza
di quest’arte quando si vuole dedurla da un unico prin-
cipio e si trascura in essa la presenza e il contrasto di ele-
menti statici e dinamici, conservatori e progressivi, for-
malistici e antiformalistici. Per intenderla esattamente,
occorre sentire, dietro le rigide forme della tradizione,
le forze vive dell’individualismo sperimentatore e del
naturalismo espansivo; forze che scaturiscono dal senti-
mento cittadino della vita e dissolvono la stasi della
civiltà neolitica; ma questa impressione non deve indur-
ci a sottovalutare lo spirito d’inerzia nella storia del-
l’antico Oriente. Lo schematismo imperante nella civiltà
rurale neolitica continua ad operare, almeno nelle prime
fasi dell’Oriente antico, e produce sempre nuove varian-
ti degli antichi modelli; non solo, ma le forze sociali
dominanti, anzitutto la monarchia e il clero, contribui-
scono a mantenere intatti i rapporti esistenti e insieme
a conservare quanto piú possibile immutate le forme tra-
dizionali del culto e dell’arte.
La costrizione cui deve sottostare il lavoro dell’arti-
sta è cosí inesorabile che, secondo le teorie dell’estetica
liberale oggi in voga, dovrebbe frustrare senz’altro ogni
schietta attività spirituale. Eppure, proprio qui nell’an-
tico Oriente, sotto la piú dura oppressione, sorgono

Storia dell’arte Einaudi 33


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

alcune fra le piú grandiose opere d’arte. Esse provano


che la libertà personale dell’artista non ha alcun diretto
influsso sulla qualità estetica delle sue creazioni. Ogni
volontà artistica deve aprirsi la strada fra le maglie di
una fitta rete; ogni opera d’arte scaturisce dalla tensio-
ne fra i propositi dell’artista e le resistenze che egli
incontra – da parte dei motivi vietati, dei pregiudizi
sociali, dell’insufficienza critica del pubblico –; resi-
stenze che quei propositi hanno già accolto e intima-
mente assimilato, o con cui sono in aperto e inconcilia-
bile contrasto. Se le resistenze non si possono superare
in una certa direzione, allora l’invenzione, la volontà
espressiva e creatrice dell’artista si rivolgono a una meta
accessibile, senza che, per lo piú, egli stesso s’accorga di
compiere una sostituzione. Interamente libero e spedi-
to egli non è neppure nella piú liberale democrazia:
anche qui lo vincolano innumerevoli riguardi estranei
all’arte; personalmente, il diverso grado di libertà può
essere per lui importantissimo, ma in linea di principio
non c’è differenza fra il diktat di un despota e le con-
venzioni della società piú liberale. Se la costrizione in
sé e per sé si opponesse allo spirito dell’arte, capolavo-
ri perfetti potrebbero sorgere soltanto nell’anarchia tota-
le. Ma in realtà i presupposti da cui dipende la qualità
estetica di un’opera trascendono l’alternativa di libertà
e illibertà politica. Non meno falso del punto di vista
anarchico è perciò anche l’altro estremo: la tesi per cui
i vincoli che limitano la libertà di movimento dell’arti-
sta sarebbero in sé e per sé propizi e fecondi, di modo
che per esempio, la libertà dell’artista moderno sarebbe
responsabile degli insuccessi dell’arte piú recente, e si
potrebbero e dovrebbero creare artificialmente obblighi
e vincoli, come pretese garanzie di «stile» vero.

Storia dell’arte Einaudi 34


Capitolo secondo

La posizione dell’artista e l’organizzazione


del lavoro artistico in Egitto

I primi, e per molto tempo i soli, a dare lavoro e pane


agli artisti sono i sacerdoti e i principi; e le principali sedi
di lavoro per essi, per tutta la durata delle antiche civiltà
orientali, sono il tempio e il palazzo. Qui essi lavorano
volontariamente o per forza, come operai liberi o come
schiavi perpetui. Qui si compie la parte di gran lunga piú
vasta e piú valida della produzione artistica. I beni
immobili cominciarono ad accumularsi in mano a guer-
rieri e predoni, conquistatori e oppressori, capi e prin-
cipi; ma le prime ricchezze razionalmente amministrate
dovettero essere i beni dei templi, cioè le proprietà degli
dei, istituite dai principi e gestite dai sacerdoti. E cosí,
con ogni probabilità, furono i sacerdoti i primi com-
mittenti regolari di opere d’arte; e i re non fecero che
seguirne l’esempio. Fuori dell’industria casalinga, l’arte
dell’antico Oriente si limitò, in un primo tempo, ad
assolvere i compiti assegnati da tali committenti. Si trat-
tava soprattutto di offerte votive agli dei, monumenti
regali, oggetti necessari per il culto del dio o del sovra-
no, mezzi di propaganda che servivano a glorificare gli
immortali o a celebrare la memoria dei loro vicari ter-
reni. Clero e monarchia s’inserivano in uno stesso siste-
ma ieratico, e i compiti che assegnavano all’arte, com-
piti di salvazione e di glorificazione, confluivano nel
culto dei morti, quintessenza di ogni religione primiti-

Storia dell’arte Einaudi 35


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

va. Entrambi esigevano dall’arte immagini solenni, rap-


presentative, alteramente stilizzate; entrambi agivano su
di essa nel senso della stabilità sociale, perché servisse
ai loro fini conservatori. Entrambi cercavano d’evitare
innovazioni artistiche, come ogni altro genere di rifor-
me, poiché temevano qualsiasi mutamento e dichiara-
vano sacre e inviolabili le regole tradizionali dell’arte,
come i dogmi della religione e le antiche forme del culto.
I sacerdoti divinizzavano i re, per inserirli nell’ambito
della loro autorità; e i re offrivano templi agli dei e ai
sacerdoti, per accrescere la propria gloria. Ognuno di
loro voleva trarre profitto dal prestigio dell’altro, e nel-
l’artista cercava un alleato nella lotta per la conserva-
zione del potere. In tali circostanze, come già in quelle
della preistoria, non avrebbe senso parlare di un’arte
autonoma, determinata da motivi puramente estetici e
rivolta a fini puramente estetici. Le opere della grande
arte, della scultura monumentale e della pittura murale,
non furono create per se stesse e per la loro bellezza.
Non si ordinavano statue per erigerle davanti ai templi
o sulla piazza – come nell’antichità classica o nel Rina-
scimento –; per la maggior parte, stavano nell’oscurità
dei santuari e in fondo ai sepolcri2.
In Egitto la domanda di opere figurative, soprattut-
to dell’arte sepolcrale, è cosí grande fin dall’inizio, da
far ritenere che la formazione di un ceto di artisti pro-
fessionali debba risalire ad un’epoca abbastanza remo-
ta. Ma il carattere subordinato ed eteronomo dell’arte
è cosí spiccato, essa si risolve cosí interamente nei com-
piti pratici, che la persona dell’artista sparisce quasi del
tutto nell’opera. Il pittore e lo scultore sono e rimango-
no anonimi artigiani, senza alcun risalto personale.
Conosciamo pochissimi nomi di artisti egizi, e poiché i
maestri non firmavano3, non possiamo neppure riferire
quei pochi nomi a gruppi in sé omogenei di opere4. Ci
sono pervenute – specialmente da Tell-el-Amarna – pit-

Storia dell’arte Einaudi 36


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ture che rappresentano botteghe di scultori, e persino la


scena di uno scultore che lavora a un’opera identifica-
bile, al ritratto della regina Teje5, ma la persona dell’ar-
tista e l’attribuzione delle opere rimaste è in ogni caso
incerta. È vero che la decorazione parietale di una
tomba rappresenta, talvolta, anche un pittore o uno
scultore, e ce ne conserva il nome, e si può pensare che
l’artista abbia voluto cosí eternare se stesso6: ma questo
non è neppure certo, né d’altra parte, la notizia può ser-
virci gran che, per la penuria di altri dati sulla storia del-
l’arte egiziana. In nessun caso si riesce a definire il pro-
filo di una personalità artistica. Quei presunti autori-
tratti non informano in modo soddisfacente neppure su
quel che l’artista in questione pensasse di sé e del valo-
re dell’opera sua. È difficile dire se si debbano inter-
pretare semplicemente come scene di genere in cui il
maestro intendeva ritrarre le circostanze del suo lavoro
quotidiano, o come il suo desiderio di erigersi un monu-
mento, all’ombra dei sovrani e dei grandi del regno, per
sete d’immortalità e di gloria, per sopravvivere nella
memoria degli uomini.
È vero che in Egitto noi apprendiamo i nomi di
capi-architetti e di capi-scultori, che dovevano godere di
speciali onori, come alti funzionari, di corte; ma in gene-
rale l’artista rimane un oscuro artigiano, e tutt’al piú si
apprezza in lui l’esecutore delle opere, non la persona-
lità creatrice. Solo per l’architetto si può parlare di lavo-
ro intellettuale ormai distinto dal lavoro manuale; lo
scultore e il pittore non sono che artigiani. La migliore
idea di quanto fosse subordinata, in Egitto, la condi-
zione sociale dell’artista, si può avere dai libri scolasti-
ci dei dotti scribi, che parlano con disprezzo del suo vol-
gare mestiere7. In confronto alla stima tributata agli
scribi, la posizione del pittore e dello scultore non pare
molto onorevole, specie nei primi periodi della storia egi-
ziana. Già qui si avverte quella svalutazione delle arti

Storia dell’arte Einaudi 37


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

figurative nei confronti della letteratura, chiaramente


testimoniata dall’antichità classica. E qui, nell’antico
Oriente, la valutazione sociale doveva dipendere, ancor
piú strettamente che presso i Greci e i Romani, da quel
concetto primitivo di prestigio per cui si riteneva degra-
dante il lavoro manuale8. Comunque, col progredire
della civiltà crebbe la considerazione per l’artista. Già
durante il Regno Nuovo molti artisti appartengono ai
ceti superiori, e in molte famiglie ci si mantiene fedeli
per piú generazioni alla professione artistica; il che, in
sé e per sé, può significare una coscienza professionale
relativamente elevata. Ma anche ora, nella vita sociale,
la parte dell’artista è piuttosto secondaria, se la con-
frontiamo con la funzione dell’artista-mago della prei-
storia.
Il tempio e la reggia erano certo i principali, ma non
i soli cantieri del lavoro artigiano; c’erano botteghe
anche nei latifondi e nei bazar delle maggiori città9.
Questi ultimi riunivano molte piccole officine indipen-
denti, che – diversamente dalle aziende del tempio, del
palazzo e del latifondo – impiegavano esclusivamente
lavoratori liberi. Questa associazione mirava, sia a faci-
litare la cooperazione dei diversi artigiani, sia a fabbri-
care e vendere le merci in uno stesso luogo, e a rendere
l’artigiano indipendente dal mercante10. Nelle officine
del tempio, della reggia, dei ricchi, gli artigiani lavora-
no ancora nel quadro di una unità economica chiusa,
autarchica, che si differenzia dall’unità economica rura-
le dell’età neolitica solo perché è immensamente piú
vasta e tutta fondata su lavoro estraneo, spesso servile.
Di fronte all’una e all’altra, il sistema del bazar, con la
sua separazione del lavoro professionale dall’economia
domestica, rappresenta una novità rivoluzionaria; con-
tiene in germe l’industria indipendente e regolare, che
non si limita piú a lavori occasionali, ma viene esercita-
ta come professione esclusiva e produce per il mercato

Storia dell’arte Einaudi 38


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

libero. Questo sistema, non solo trasforma il produtto-


re primitivo in un artigiano, ma lo fa uscire dall’ambito
dell’azienda domestica. Lo stesso effetto ha il sistema,
forse altrettanto antico, del lavoro a domicilio, che, pur
lasciando l’operaio a casa propria, lo fa produrre per un
avventore invece che per se stesso e lo separa intima-
mente dall’azienda familiare. Cosí è spezzato il princi-
pio dell’economia domestica, che limita la produzione al
soddisfacimento delle proprie necessità.
Nel corso di questa evoluzione, a poco a poco l’uo-
mo si assume anche quei lavori manuali ed artigianali
riservati un tempo alla donna; come la fabbricazione di
ceramiche, di oggetti ornamentali e perfino di tessuti11.
Erodoto si meraviglia che in Egitto stiano al telaio gli
uomini, sia pure schiavi; ma questo fenomeno corri-
spondeva a una tendenza generale di sviluppo per cui
finalmente il mestiere divenne esclusivo dominio dei
maschi. Questo fenomeno non è dunque un aspetto del-
l’asservimento maschile – come nella leggenda di Erco-
le all’arcolaio di Onfale –, ma della separazione del
mestiere dall’attività domestica e della crescente diffi-
coltà del maneggio degli strumenti.
Le grandi botteghe annesse alla reggia e al tempio
furono anche le scuole in cui si formavano le nuove
generazioni di artisti. Si ha la tendenza a considerare le
botteghe dipendenti dai templi come le principali depo-
sitarie della tradizione: opinione non da tutti accettata,
mettendosi talvolta in dubbio che l’influsso sacerdotale
fosse determinante nella pratica dell’arte12. In ogni caso,
l’importanza pedagogica di una bottega era tanto mag-
giore quanto piú lunga la sua tradizione; e per questo
aspetto è probabile che alcune botteghe annesse ai tem-
pli fossero superiori a quelle della reggia: benché la
corte, come centro intellettuale del paese, fosse in grado
di esercitare una specie di dittatura in fatto di gusto. Del
resto, sia nelle botteghe del tempio sia in quelle della

Storia dell’arte Einaudi 39


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

reggia, l’arte aveva lo stesso carattere scolastico e acca-


demico. La presenza, fin dall’inizio, di regole impegna-
tive, di modelli validi per tutti, e di metodi uniformi di
lavoro, indica un’attività artistica diretta da pochi cen-
tri dominanti. Questa tradizione accademica, alquanto
fossilizzata e ristretta, portava con sé, da un lato, un’ab-
bondanza di prodotti mediocri, ma nello stesso tempo
assicurava alla produzione quel livello relativamente
alto, cosí caratteristico dell’arte egiziana13. Quanta cura
e abilità pedagogica dedicassero gli Egizi all’educazione
dei giovani artisti, risulta anche dai mezzi d’insegna-
mento che ci sono stati conservati: calchi di gesso dal
vero, particolari anatomici riprodotti a scopo didattico,
e soprattutto quelle curiose rappresentazioni che mostra-
vano agli allievi il farsi di un’opera in tutte le fasi del
lavoro.
In Egitto il lavoro era cosí ben organizzato, cosí
grande la cura nel provvedersi di aiuti da impiegare in
vario modo, cosí specializzate e ben combinate fra loro
le varie attività, da far pensare ai metodi dei cantieri
medievali, e da offuscare, sotto certi aspetti, ogni suc-
cessiva prassi artistica regolata da criteri individualisti-
ci. Fin dall’inizio si manifesta una tendenza alla stan-
dardizzazione della produzione, tendenza che andava
incontro alla pratica di bottega. Soprattutto la progres-
siva razionalizzazione dei procedimenti tecnici contri-
buiva ad esercitare un’azione livellatrice anche sulla pro-
duzione artistica. Col crescere della domanda, ci si abi-
tuò a lavorare su schizzi, modelli, tipi fissi, sviluppan-
do una tecnica quasi meccanica, da seguirsi come una
ricetta, per comporre facilmente i diversi oggetti d’arte
con elementi attinti ad un repertorio stereotipo14. L’ap-
plicazione di un metodo cosí razionalistico era possibi-
le soltanto grazie all’abitudine di proporre agli artisti
press’a poco sempre gli stessi compiti, di ordinare sem-
pre gli stessi ex voto, gli stessi idoli e gli stessi monu-

Storia dell’arte Einaudi 40


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

menti sepolcrali, gli stessi tipi di immagini regali e di


ritratti di privati. E poiché in Egitto l’invenzione di
motivi originali non fu mai particolarmente apprezzata,
anzi per lo piú era strettamente proibita, tutta l’ambi-
zione degli artisti si rivolse alla fermezza ed esattezza
dell’esecuzione, notevole anche nelle opere minori, che
ci compensa della scarsa originalità inventiva. L’esigen-
za di una forma finale cosí pulita, tornita, levigata, spie-
ga anche come in Egitto la produttività delle botteghe
d’arte, pur cosí razionalmente organizzate, fosse relati-
vamente scarsa. Già il fatto di prediligere nella scultu-
ra lavori in pietra, in cui si poteva affidare agli aiuti sol-
tanto la sgrossatura del blocco, mentre il maestro si
riservava il lavoro piú sottile dei particolari e l’ultima
rifinitura, poneva forti limiti alla produzione15.

Storia dell’arte Einaudi 41


Capitolo terzo

L’arte stereotipa del Regno Medio

Quanto poco lo spirito conservatore e conformisti-


co dipenda dai caratteri razziali del popolo egiziano, e
come sia anch’esso un fenomeno storico che si trasfor-
ma con l’evoluzione generale, appare nel modo piú chia-
ro dal fatto che proprio l’arte dei periodi piú antichi è
meno «arcaica» e stilizzata di quella dei periodi piú
tardi. Nei bassorilievi della tarda epoca predinastica e
in quelli delle prime dinastie c’è ancora una libertà for-
male e compositiva, che andrà in seguito perduta e sarà
riconquistata soltanto nel segno di una completa rivo-
luzione spirituale. Gli ultimi capolavori del Regno Anti-
co, lo Scriba del Louvre o il Sindaco del villaggio del
Cairo, hanno ancora una freschezza e una vivacità, che
non ritroveremo piú fino ai giorni di Amenhotep IV.
Forse in Egitto la creazione artistica non fu mai piú cosí
libera e spontanea come in quel primo stadio evolutivo.
Qui evidentemente le particolari condizioni della nuova
civiltà urbana, i rapporti sociali piú differenziati, la spe-
cializzazione artigiana e lo spirito emancipato del com-
mercio, operarono nel senso dell’individualismo con
maggior immediatezza e continuità che non piú tardi,
quando tale azione fu ostacolata e spesso frustrata dalle
forze conservatrici impegnate a mantenere la propria
signoria. Solo nel Regno Medio, quando si fa innanzi l’a-
ristocrazia feudale con la sua forte coscienza di classe,
si sviluppano le rigide convenzioni dell’arte aulica e reli-

Storia dell’arte Einaudi 42


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

giosa, che sbarrano la strada ad ogni espressione spon-


tanea. Lo stile schematico della rappresentazione cul-
tuale era già noto all’età neolitica, ma del tutto nuove
sono le forme rigidamente cerimoniali dell’arte aulica,
apparse qui per la prima volta nella storia della civiltà
umana. Si riflette in esse l’idea di un ordine sociale piú
alto, sovraindividuale, di un mondo che deve alla gra-
zia del re la sua grandezza e il suo splendore. Sono
forme anti-individualistiche, statiche e convenzionali,
perché esprimono una visione del mondo per cui l’ori-
gine, la classe, l’appartenenza a una stirpe o ad un grup-
po, è cosa ben piú reale dell’esistenza e del carattere
individuale, e le regole del galateo e della morale sono
piú immediatamente evidenti di qualunque sentimento,
pensiero, volontà del singolo. Tutti i beni e le attratti-
ve della vita si ricollegano, per i privilegiati di quella
società, alla loro separazione dagli altri ceti, e tutte le
loro massime diventano, in maggiore o minor misura,
regole d’etichetta e di decoro. Questo decoro, questa eti-
chetta e tutta l’autostilizzazione della classe dominante
esigono che non ci si faccia ritrarre come veramente si
è, ma come si deve apparire secondo certi modelli tra-
dizionali, sottratti alla realtà presente, venerandi per la
loro antichità. L’etichetta è la legge suprema, non solo
per i comuni mortali, ma anche per il re; e nella conce-
zione di questa società anche gli dei accettano le forme
del cerimoniale di corte16.
I ritratti dei re diventano immagini del tutto uffi-
ciali; le caratteristiche individuali dell’epoca arcaica
scompaiono quasi senza lasciar traccia. Infine, non c’è
piú nessuna differenza fra le locuzioni impersonali delle
epigrafi celebrative e l’aspetto stereotipo dei lineamen-
ti. I testi autobiografici e celebrativi, con cui i re e i
grandi corredano le loro statue e le rappresentazioni
delle loro imprese, sono fin dall’inizio di un’infinita
monotonia nonostante l’abbondanza dei monumenti che

Storia dell’arte Einaudi 43


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ci sono pervenuti, vi cerchiamo invano motivi indivi-


duali ed espressioni di vita personale17. Il fatto che le
sculture del Regno Antico siano piú ricche di tratti indi-
viduali che non le note biografiche contemporanee, si
spiega, fra l’altro, col persistere di una funzione magica
che ricorda l’arte paleolitica, funzione estranea alla let-
teratura. Nel ritratto il Ka, spirito tutelare del defunto,
doveva ritrovare il corpo in cui un tempo abitava, nel
suo vero e fedele aspetto; la naturalezza della raffigura-
zione si spiega soprattutto con questo fine magico-reli-
gioso. Ma nel Regno Medio, dove il fine ufficiale delle
opere prevale sul loro significato religioso, i ritratti per-
dono, col loro carattere magico, anche il loro carattere
naturalistico. La statua è anzitutto il monumento di un
re, e soltanto in secondo luogo il ritratto di un indivi-
duo. Come le iscrizioni autobiografiche riflettono
soprattutto le forme tradizionali in cui un re deve espri-
mersi parlando di sé, cosí anche i ritratti del Regno
Medio non fanno che incarnare quello che, secondo l’e-
tichetta di corte, dovrebbe essere l’aspetto ideale di un
re. Ma anche i ministri e i cortigiani del sovrano cerca-
no di apparire altrettanto solenni, calmi e misurati. E
come le autobiografie di un suddito fedele non fanno
che menzionare ciò che ha attinenza col re, la luce che
proviene dalla sua grazia, cosí anche nell’arte figurativa
tutto gravita, come in un sistema solare, intorno alla per-
sona del re.
Il formalismo del Regno Medio non si spiega come
uno stadio naturale di uno sviluppo continuo e ininter-
rotto; il ritorno all’arcaismo primitivo, di origine neoli-
tica, ha cause esterne, che non la storia dell’arte, ma sol-
tanto l’indagine sociologica è in grado di chiarire18. Se
teniamo presenti le grandi opere naturalistiche dell’epo-
ca arcaica e la costante attitudine degli Egizi all’osser-
vazione esatta e alla fedele riproduzione della natura,
non possiamo non scorgere una precisa intenzione nella

Storia dell’arte Einaudi 44


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

loro deviazione dall’esperienza. Mai nella storia dell’ar-


te la scelta fra naturalismo e astrazione è cosí chiara-
mente frutto, non di capacità, ma di volontà, in quanto
l’artista non si regola solo secondo criteri estetici, e l’ar-
te deve secondare la tendenza della prassi. I noti calchi
di gesso – forse maschere mortuarie leggermente ritoc-
cate – scoperti a Tell-el-Amarna nella bottega dello scul-
tore Thutmose, provano che l’artista egiziano era in
grado di vedere le cose molto diversamente da come
usava rappresentarle; e poiché lo sappiamo abilissimo nel
ritrarre fedelmente ciò che era in grado di vedere, è leci-
to supporre ch’egli deviasse consciamente e di proposi-
to dall’aspetto naturale, che pure egli vedeva quale appa-
re in queste maschere19. Basta confrontare la modella-
zione delle diverse parti del corpo, per vedere chiara-
mente che c’era un antagonismo di fini, e che l’artista si
muoveva contemporaneamente in due mondi diversi:
un mondo artistico e un mondo extra-artistico.
Ciò che piú colpisce nell’arte egiziana, e non solo
nelle fasi di severa stilizzazione, ma – in maggiore o
minor misura – anche in quelle naturalistiche, è il razio-
nalismo della rappresentazione. Gli Egizi non si libera-
rono mai del tutto dall’«immagine concettuale» dell’ar-
te neolitica, dell’iconografia dei primitivi e dei disegni
infantili; e non superarono mai la rappresentazione
«integrante», che compone la figura di un oggetto di
diversi elementi, collegati nel pensiero, ma otticamente
incongruenti, anzi spesso contraddittori. Essi rinuncia-
no all’illusionismo che cerca di riprodurre – nella rap-
presentazione – l’unicità e totalità dell’impressione visi-
va; per la chiarezza, rinunciano alla prospettiva, agli
scorci, alle intersezioni di piani, fino a fare di questa
rinuncia un rigido tabú, piú forte della loro inclinazio-
ne al naturalismo. Per la tenace sopravvivenza di un sif-
fatto tabú, divenuto ormai esteriore e astratto, e per la
facilità con cui può essere talvolta conciliato con una

Storia dell’arte Einaudi 45


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

tendenza artistica di per sé piú libera, si pensi alla pit-


tura dell’Asia orientale, sotto molti riguardi piú vicina
alla nostra concezione dell’arte, e che pure continua a
vietare le ombre, come un effetto troppo brutale. E
anche gli Egizi dovevano avere il senso che ogni tenta-
tivo d’ingannare lo spettatore ha in sé qualcosa di bru-
tale e di volgare, e che i mezzi dell’arte astratta, stiliz-
zatrice, rigorosamente formale, sono piú «nobili» degli
effetti illusionistici del naturalismo.
Fra tutti i principî formali razionalistici dell’arte
dell’antico Oriente e specialmente dell’Egitto, quello
della frontalità è il piú eminente e caratteristico. Con ciò
noi intendiamo quel canone, scoperto da Julius Lange e
Adolf Erman, per cui la figura umana, in qualunque
posizione sia rappresentata, volge allo spettatore tutto
il busto, che si potrebbe dividere, con una verticale, in
due parti uguali. La disposizione assiale, che permette
la piú ampia visione del corpo, tende evidentemente ad
assicurare l’impressione piú chiara e piú semplice, onde
impedire ogni malinteso o confusione, ogni occulta-
mento degli elementi della figura. Ricondurre l’impo-
stazione frontale a un’iniziale imperizia può, in una
certa misura, essere giusto; ma l’ostinato attaccamento
a questo tipo di rappresentazione anche in epoche stili-
stiche in cui non si può piú parlare di una limitazione
involontaria dei propositi artistici, esige tutt’altra spie-
gazione.
Nella rappresentazione frontale del busto è sottoli-
neato il rapporto con lo spettatore. L’arte paleolitica non
conosce la posizione frontale, come non conosce pub-
blico di sorta; il suo naturalismo non è che un altro
modo di ignorarlo. Invece l’arte dell’antico Oriente si
rivolge direttamente a un soggetto recettivo; è un’arte
di rappresentanza, che esige e tributa rispetto. Il suo
rivolgersi allo spettatore è un atto di ossequio, di corte-
sia, di etichetta. Ogni arte aulica e celebrativa implica

Storia dell’arte Einaudi 46


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

in certo qual modo la posizione frontale, che guarda allo


spettatore, al committente, al signore da dilettare e da
servire20. L’opera d’arte gli si rivolge come ad una per-
sona colta, a un iniziato, di fronte al quale sarebbero
fuori posto le arti volgari dell’illusione. Questo atteg-
giamento trova la sua tarda, ma pur sempre chiara
espressione nelle convenzioni del teatro classico di corte,
dove l’attore, senza riguardi alle esigenze dell’illusione
scenica, si rivolge direttamente allo spettatore, lo apo-
strofa – per cosí dire – con ogni parola e ogni gesto, e
non solo evita di «volgergli le spalle», ma sottolinea
con ogni mezzo possibile che si tratta soltanto di una fin-
zione, di un trattenimento preparato secondo le regole
del gioco. Il teatro naturalistico rappresenta il passaggio
al polo opposto di quest’arte «frontale»: al film, che,
attivando lo spettatore, e facendolo presenziare diretta-
mente agli avvenimenti invece di presentarglieli, come se
assistesse ai fatti per caso e cogliesse gli attori in fla-
grante, riduce al minimo le finzioni e le convenzioni del
teatro. Nel suo solido illusionismo, nella sua immedia-
tezza profana e indiscreta, che soggioga e violenta lo
spettatore, si esprime chiaramente la concezione del-
l’arte propria delle democrazie, degli ordinamenti libe-
rali, antiautoritari, livellatori delle differenze ideologi-
che; cosí come nell’arte delle autocrazie e delle aristo-
crazie già l’amore della cornice, della ribalta, del podio,
del piedistallo mostra che si tratta di artefatti commis-
sionati, e che il committente è un iniziato, un esperto,
che non occorre ingannare.
Oltre alla posizione frontale, l’arte egiziana presen-
ta tutta una serie di formule costanti, che, pur essendo
meno appariscenti, esprimono con altrettanta forza la
convenzionalità della maggior parte dei principî stilisti-
ci validi specialmente per il Regno Medio. Cosí, anzi-
tutto, è di regola ritrarre le gambe di una figura sempre
di profilo e tutt’e due dalla parte interna, cioè dalla parte

Storia dell’arte Einaudi 47


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

dell’alluce; vale inoltre la prescrizione che la gamba


avanzata e il braccio teso – forse per evitare il disturbo
di intersezioni – siano i piú lontani dallo spettatore; infi-
ne è d’uso rivolger sempre verso di lui il lato destro delle
figure. Queste tradizioni, leggi e regole, furono osser-
vate col massimo scrupolo, in tutto il loro rigido for-
malismo, dal clero e dalla corte, dalla feudalità e dalla
burocrazia del Regno Medio. I feudatari erano piccoli
re, che, in fatto di formalità, cercavano di superare lo
stesso Faraone; e l’alta burocrazia, ancora ermetica-
mente chiusa alla classe media, era tutta permeata di spi-
rito gerarchico e di sentimenti conservatori. Soltanto col
Regno Nuovo, sorto dal caos dell’invasione degli Hyk-
sos, mutano i rapporti sociali. L’Egitto, finora isolato e
chiuso in sé con le sue tradizioni nazionali, diventa un
paese non solo materialmente e intellettualmente flori-
do, ma di larghe vedute, che crea gli inizi di una civiltà
sovranazionale. L’arte egiziana non solo soggioga tutti
i paesi rivieraschi del Mediterraneo e tutto il vicino
Oriente, ma accoglie a sua volta stimoli da ogni parte e
scopre che anche al di là dei suoi confini, delle sue tra-
dizioni e convenzioni, c’è un mondo21.

Storia dell’arte Einaudi 48


Capitolo quarto

Il naturalismo dell’epoca di Echnatòn

Amenhotep IV, che legò il suo nome al grande rivol-


gimento spirituale, non è solo – come tutti sanno – il
grande riformatore religioso, lo scopritore dell’idea
monoteistica; non è solo, come fu chiamato, il «primo
profeta» e il «primo individualista» della storia univer-
sale22, ma è anche il primo consapevole rinnovatore del-
l’arte, il primo che fa del naturalismo il proprio pro-
gramma e lo contrappone come una conquista allo stile
arcaico. Bek, il suo capo-scultore, aggiunge ai propri
titoli le parole: «l’allievo di Sua Maestà»23. Ciò che l’ar-
te gli deve e che gli artisti hanno appreso da lui, è – evi-
dentemente – il nuovo amore della verità, la nuova, ner-
vosa sensibilità, che conduce a quello che si potrebbe
definire l’impressionismo dell’arte egiziana. Alla sua
lotta contro le tradizioni religiose fossilizzate e svuota-
te di ogni senso, corrisponde il superamento del rigido
stile accademico da parte dei suoi artisti. Sotto la sua
influenza il formalismo del Regno Medio lascia il posto,
nella religione come nell’arte, all’amore della vita e della
natura, al piacere di nuove scoperte. Si scelgono nuovi
motivi, si cercano nuovi tipi, si favorisce la rappresen-
tazione di situazioni nuove e inconsuete, si tende a
descrivere la vita intima e individuale: piú ancora, si
cerca di introdurre nei ritratti una tensione spirituale,
una superiore finezza dei sensi e una vivacità nervosa

Storia dell’arte Einaudi 49


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

quasi anormale. Appaiono i primi spunti del disegno


prospettico, tentativi di composizioni unitarie di grup-
po, un interesse piú vivo per il paesaggio, una certa pre-
ferenza per le descrizioni di genere, e – come conse-
guenza dell’ostilità per l’antico stile monumentale – un
gusto spiccato per le forme gentili e delicate dell’arte
minore. Ora è sorprendente osservare come, nonostan-
te tutte le innovazioni, quest’arte rimanga, in tutto e per
tutto, arte aulica, cerimoniale e protocollare. Nei moti-
vi si esprime un nuovo mondo, nelle fisionomie si riflet-
te uno spirito nuovo, una sensibilità nuova: ma la fron-
talità, la rappresentazione «integrante», i rapporti e le
proporzioni determinati dal rango sociale delle figure, e
in aperto contrasto con l’esperienza, sono – con quasi
tutte le altre regole della correttezza formale – ancora in
vigore.
Abbiamo a che fare – nonostante la tendenza natu-
ralistica dell’epoca – con un’arte che è ancora in tutto e
per tutto arte di corte, e che fa pensare, sotto molti
rispetti, al rococò, che, com’è noto, è anch’esso per-
meato di tendenze antiformalistiche, individualistiche,
rivoluzionarie, e resta non pertanto un’arte interamen-
te aulica, cerimoniale e convenzionale. Vediamo
Amenhotep IV nel cerchio della sua famiglia, in scene e
situazioni della vita quotidiana, in una prossimità e inti-
mità umana senza precedenti: ma egli si muove ancor
sempre in piani squadrati, rivolge allo spettatore l’inte-
ra superficie del petto ed è grande il doppio dei comu-
ni mortali; la rappresentazione è ancor sempre arte ari-
stocratica, monumento regale, immagine ufficiale. Il
monarca, è vero, non è piú raffigurato come un dio, libe-
ro da ogni scoria terrena, ma è ancor sempre soggetto
all’etichetta di corte. C’è qualche esempio di figura che
protende il braccio piú vicino allo spettatore, invece di
quello piú lontano; troviamo dappertutto mani e piedi
anatomicamente piú corretti, giunture piú naturalmen-

Storia dell’arte Einaudi 50


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

te snodate; ma, sotto altri rispetti, l’arte sembra ancor


piú preziosa di quel che non fosse prima della grande
riforma.
Il naturalismo del Regno Nuovo possiede mezzi
espressivi cosí ricchi e sottili, che presuppongono certo
un lungo passato, una lunga preparazione e un lungo per-
fezionamento. Di dove vengono? In qual forma si man-
tennero in vita, prima di sbocciare sotto il regno di Ech-
natòn? Che cosa li salvò dalla rovina, durante il rigore
formalistico del Regno Medio? La risposta è semplice:
il naturalismo era sempre stato latente nell’arte egizia-
na, come corrente sotterranea; e ha lasciato tracce
inconfondibili accanto allo stile ufficiale, almeno negli
elementi accessori di quell’arte solennemente simbolica.
L’egittologo W. Spiegelberg distingue questa corrente
dal resto dell’attività artistica, istituisce per essa una
categoria speciale e la chiama «arte popolare» egiziana.
Ma non è chiaro se con ciò egli intenda un’arte fatta dal
popolo o per il popolo; un’arte rustica o un’arte urbana
destinata al popolo; e se, quando parla di «popolo», egli
intenda le grandi masse di contadini e operai o i citta-
dini del medio ceto, commercianti e funzionari. Se il
«popolo», che è rimasto alla produzione primitiva e nel-
l’ambito dell’economia rurale, entra in considerazione
come elemento creatore nelle fasi piú recenti della sto-
ria egiziana, ciò accade, tutt’al piú, per l’artigianato, cioè
per un ramo dell’arte che influisce sempre meno sull’e-
voluzione stilistica, e che probabilmente non aveva gran
peso neppure nel Regno Antico. Gli artigiani e gli arti-
sti della reggia e del tempio vengono, sí, dal popolo, ma,
come produttori d’arte per la classe dominante, hanno
ben poco in comune con le idee della loro classe d’ori-
gine. Nelle monarchie dispotiche dell’antico Oriente, il
popolo, escluso dai privilegi della proprietà e del pote-
re, conta – come pubblico delle opere d’arte – altret-
tanto poco e forse ancor meno che in epoche piú tarde.

Storia dell’arte Einaudi 51


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Pittura e scultura sono generi costosi, sempre e dapper-


tutto appannaggio dei ceti privilegiati, e nell’antico
Oriente forse piú esclusivamente che in seguito. Il popo-
lo non aveva certo capacità d’acquisto sufficiente per
fornire lavoro agli artisti e per procurarsi opere d’arte.
Seppelliva i suoi morti nella sabbia, senza erigere loro
sepolcri duraturi. Neppure il ceto medio, piú agiato,
aveva un peso decisivo sul mercato artistico, accanto ai
grandi feudatari e all’alta burocrazia; in ogni caso, non
era un elemento in grado d’influire sul destino dell’arte
contro il gusto e i desideri del ceto dominante.
Già durante il Regno Antico, accanto alla nobiltà e
ai contadini, doveva esistere un ceto medio occupato
nell’industria e nel commercio. Nel Regno Medio que-
sto ceto s’irrobustisce notevolmente24. La carriera buro-
cratica, che ora gli si apre, offre buone occasioni di ele-
varsi, anche se da principio queste occasioni sono rela-
tivamente modeste. Nel commercio e nell’industria è
consuetudine che il figlio succeda al padre nella profes-
sione, e questo contribuisce alla formazione di una clas-
se media piú nettamente delineata25. Flinders Petrie,
pur mettendo in dubbio che una classe media agiata esi-
stesse già nel Regno Medio, ammette, per il Nuovo, una
burocrazia già molto danarosa26. Poiché l’Egitto è diven-
tato, in questo frattempo, non solo uno stato militare
che nell’esercito offriva una promettente carriera ai
nuovi elementi che salivano dal basso, ma anche uno
stato burocratico sempre piú fortemente accentrato, che
doveva sostituire nell’amministrazione la nobiltà feuda-
le in via di sparizione con una folla di funzionari della
Corona, e foggiare una media burocrazia traendola dalle
file degli antichi commercianti e industriali. Da questi
militari e impiegati subalterni uscí in gran parte il nuovo
ceto medio urbano, che cominciava a svolgere un certo
ruolo come committente di opere d’arte. Ma, pur pos-
sedendo case e tombe ornate di oggetti artistici, non

Storia dell’arte Einaudi 52


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

avrà avuto un gusto né aspirazioni essenzialmente diver-


se da quelle del ceto dominante che cercava di emulare:
ed è probabile che dovesse semplicemente accontentar-
si di opere piú modeste. Comunque, noi non abbiamo
alcun monumento di epoca dinastica che si possa consi-
derare come esempio di un’arte popolare per sé stante,
indipendente da quella della corte, dei templi e delle
residenze nobiliari. Può darsi che il medio ceto urbano,
nonostante la soggezione intellettuale in cui si trovava,
abbia a sua volta influito sulla visione estetica del ceto
dominante, depositario dei valori culturali. E forse si
può stabilire un rapporto fra questa influenza dal basso
e l’individualismo e il naturalismo di Echnatòn; ma è
certo che il popolo e il ceto medio non produssero né
richiesero un’arte indipendente, distinta dallo stile uffi-
ciale dei ceti superiori.
Non ci sono dunque, in Egitto, due specie di arte:
non c’è un’«arte popolare» accanto all’arte dei signori.
Se c’è una frattura attraverso tutta la produzione arti-
stica dell’Egitto, essa non si apre fra due gruppi distin-
ti di opere, ma attraverso le singole opere. Accanto allo
stile convenzionale e severo, rigido e cerimoniale, monu-
mentale e solenne, troviamo dappertutto i segni di una
disposizione piú libera, piú spontanea, piú naturale.
Questo dualismo si esprime piú nettamente là dove, in
una stessa composizione, due figure riflettono i due
diversi stili. E opere di questo genere – come la nota
scena d’interno dove la padrona è effigiata nello stile
aulico convenzionale, cioè di prospetto, e una serva,
invece, in atteggiamento liberissimo, di fianco, con un
parziale abbandono della simmetria frontale – mostra-
no subito chiaramente che l’impiego dei diversi stili
dipende solo ed esclusivamente dalla natura del sogget-
to. I membri della classe dominante sono sempre raffi-
gurati in stile aulico, e il basso popolo, sovente, in stile
volgarmente naturalistico. A determinare lo stile non è,

Storia dell’arte Einaudi 53


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

quindi, la coscienza di classe degli artisti – che, anche


se la possedevano, non erano in grado di esprimerla –,
né quella del pubblico, completamente in balía della
corte, della nobiltà e del clero; ma soltanto, come si è
detto, il tema proposto. Le scenette che mostrano ope-
rai, domestici e schiavi al lavoro quotidiano, e appar-
tengono alla suppellettile funeraria dei notabili, sono
trattate come naturalistici quadretti di genere; le statue
degli dei, invece, anche quando servono alle esigenze piú
modeste, non deviano dallo stile ufficiale dell’arte auli-
ca. Piú volte, nel corso della storia dell’arte e della let-
teratura, vedremo che lo stile muta a seconda del sog-
getto. Cosí, in Shakespeare, i diversi modi della carat-
terizzazione – e precisamente il principio che lo induce
a far parlare in prosa volgare i servi e i buffoni, in versi
elaborati gli eroi e i gran signori – corrispondono a que-
sta distinzione «egiziana» in funzione del tema. I per-
sonaggi di Shakespeare non parlano il linguaggio reale
di ogni singola classe e professione, come le figure del
dramma moderno, delineate tutte naturalisticamente,
alta o bassa che sia la loro posizione sociale; ma i mem-
bri della classe dominante sono stilizzati e si esprimono
in un linguaggio del tutto irreale; i popolani invece sono
macchiette, e parlano l’idioma della strada, delle oste-
rie e delle officine.
Heinrich Schäfer ritiene che il rispetto o la viola-
zione del principio di frontalità dipenda dal fatto se le
figure sono quiete o in moto27. Benché, in complesso,
questa osservazione sia giusta, non si può dimenticare
che i re e i grandi vengono per lo piú raffigurati in quie-
te solenne, e la gente del popolo, invece, quasi sempre
in moto e in faccende. D’altronde, i rappresentanti del
ceto signorile appaiono di prospetto – e ciò invalida la
teoria – anche quando agiscono, come nelle scene di bat-
taglia e di caccia.
È molto piú legittimo parlare, di un’arte di provin-

Storia dell’arte Einaudi 54


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

cia accanto all’arte della capitale egiziana, anziché di


un’arte popolare accanto all’arte aulica. Le opere d’ar-
te che contano sorgono sempre – e col procedere del
tempo sempre piú esclusivamente – alla corte del re o
nelle sue vicinanze; prima a Menfi, poi a Tebe, infine a
Tell-el-Amarna. Ciò che si fa in provincia, lontano dalla
capitale e dai grandi santuari, è relativamente trascura-
bile, e arranca a stento dietro l’evoluzione dell’arte28. È
un bene culturale «decaduto», non già qualcosa che
salga dal basso, dal popolo. Anche quest’arte provincia-
le, che non è quindi lecito considerare come la conti-
nuazione dell’antica arte rustica, è destinata alla nobiltà
terriera, e deve la sua esistenza all’allontanamento del-
l’aristocrazia feudale dalla corte, che è in corso fin dalla
sesta dinastia. Da questi elementi, staccatisi dalla capi-
tale, si forma la nuova nobiltà di provincia con la sua cul-
tura regionale arretrata e la sua arte provinciale di secon-
da mano.

Storia dell’arte Einaudi 55


Capitolo quinto

La Mesopotamia

L’arte della Mesopotamia, la cui economia è fonda-


ta in prevalenza sul commercio e sull’industria, sul dena-
ro e sul credito, appare – strano a dirsi – piú costretta,
piú immobile, meno viva di quella dell’Egitto, pur tanto
piú legato all’economia naturale ed agricola. Il codice di
Hammurabi, che risale al terzo millennio a. C., dimo-
stra che commercio e artigianato, contabilità e gestione
del credito avevano raggiunto fin d’allora – in Babilo-
nia – un notevole sviluppo; e si praticavano transazioni
bancarie relativamente complicate, come pagamenti a
terzi e il mutuo conguaglio dei conti29. Scambi com-
merciali e finanza erano assai piú sviluppati che in Egit-
to, tanto che l’antico Babilonese poté essere definito, nei
confronti dell’Egiziano, come homo oeconomicus30. La
maggior costrizione formale dell’arte babilonese, nono-
stante l’economia piú dinamica, piú cittadina, contrad-
dice alla tesi sociologica, altrove sempre valida, che col-
lega il severo stile geometrico col tradizionalismo del-
l’economia agricola, e il libero naturalismo con la piú
dinamica economia urbana. Forse a Babilonia il dispo-
tismo piú rigido, lo spirito religioso piú intollerante,
pregiudicarono l’azione liberatrice della città; oppure, a
spegnere in germe ogni impulso individualistico e natu-
ralistico, bastò il fatto che non c’era arte se non al ser-
vizio del re e del tempio, e nessuno, all’infuori del sovra-

Storia dell’arte Einaudi 56


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

no e del clero, poteva influire sul suo sviluppo. In ogni


caso, l’artigianato rurale e la plastica minore, di carat-
tere piú popolare, ebbero, nel Paese dei Due Fiumi,
ancor meno importanza che nelle altre civiltà dell’anti-
co Oriente31, e l’attività artistica vi fu ancora piú ano-
nima che, per esempio, in Egitto. Non conosciamo quasi
nomi di artisti babilonesi, e l’unico punto di riferimen-
to per seguire l’evoluzione di quell’arte resta per noi la
cronologia dei re32. Qui fra arte e mestiere non c’era
distinzione né di nome né di fatto; il codice di Ham-
murabi nomina l’architetto e lo scultore accanto al fab-
bro e al calzolaio.
Nell’astratto razionalismo della rappresentazione,
l’arte babilonese e assira è ancora piú conseguente del-
l’egiziana. La figura umana non solo è collocata in posi-
zione rigidamente frontale, con la testa di profilo per
maggior evidenza di linee, ma le parti caratteristiche del
volto, il naso e l’occhio, vengono notevolmente ingran-
dite, mentre sono assai ridotti i tratti meno interessan-
ti, come la fronte e il mento33. Nella scultura monu-
mentale assira l’antinaturalistico principio di frontalità
si fa valere specialmente nei leoni e nei tori alati posti
a guardia dei portali. Non vi è alcun genere dell’arte egi-
ziana in cui lo stilismo sia cosí sovrano, la rinuncia a ogni
specie d’illusionismo cosí assoluta come in queste figu-
re, che, viste di fianco, hanno quattro gambe in movi-
mento, viste di fronte, due gambe immobili, e cioè cin-
que gambe in tutto; e sono la contaminatio di due ani-
mali. La clamorosa offesa alla natura ha qui origini pura-
mente razionali. L’artista voleva, senza dubbio, che lo
spettatore potesse vedere da ogni parte una figura in sé
conchiusa, formalmente e concettualmente perfetta.
Solo molto tardi, nell’viii e nel vii secolo a. C., l’ar-
te assira subisce qualcosa come un’evoluzione verso il
naturalismo. Nei bassorilievi con le battaglie e le cacce
di Assurbanipal, gli animali sono straordinariamente

Storia dell’arte Einaudi 57


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

naturali e vivaci; ma le figure umane sono pur sempre


fisse e stilizzate e ostentano ancora le stesse chiome e le
stesse barbe rigide e artificiose di duemila anni prima.
Siamo di fronte a un dualismo stilistico simile a quello
egiziano dei tempi di Echnatòn, e abbiamo a che fare
con la stessa differenza, nella trattazione delle figure
umane e animali, che si poteva osservare già nell’età
paleolitica, e che dovremo constatare piú di una volta
nel corso della storia dell’arte. Il paleolitico ritraeva l’a-
nimale in modo piú naturalistico, perché tutto il suo
mondo gravitava intorno ad esso; altrettanto faranno
epoche piú tarde, perché non lo riterranno degno di sti-
lizzazione.

Storia dell’arte Einaudi 58


Capitolo sesto

Creta

In tutta la cerchia dell’antica arte orientale non c’è,


per la sociologia, problema piú arduo dell’arte cretese.
Non soltanto essa si distingue dall’arte egiziana e meso-
potamica, ma rappresenta un’eccezione in tutto il perio-
do che va dalla fine del paleolitico sino agli inizi della
classicità greca. Nell’epoca dell’astratto geometrismo,
cosí vasta che lo sguardo vi si perde, in questo mondo
immutabile di tradizioni severe e di rigide forme, Creta
ci offre l’immagine di una vita colorata, incoercibile, bal-
danzosa, senza che vi possiamo trovare rapporti econo-
mici e sociali diversi da quelli del mondo circostante.
Anche qui regnano despoti e feudatari, anche qui tutta
la civiltà sta sotto il segno dell’autocrazia, proprio come
in Egitto e in Mesopotamia: e tuttavia, quale diversa
concezione dell’arte! Che libertà di tendenze artisti-
che, di fronte al vincolo opprimente delle convenzioni
in tutto il resto dell’antico Oriente! Come spiegare que-
sta differenza? Ci sono molte spiegazioni possibili, ma
– anche per l’indecifrabilità della scrittura cretese – nes-
suna pienamente valida e definitiva. Forse in parte la
differenza è dovuta al fatto che religione e culto hanno
avuto un’importanza relativamente secondaria nella vita
pubblica dei Cretesi. A Creta non si sono trovati tem-
pli di sorta, né monumentali simulacri di dei; i loro pic-
coli idoli e i simboli cultuali rivelano un influsso della

Storia dell’arte Einaudi 59


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

religione assai meno vasto e profondo di quel che usia-


mo constatare nell’antico Oriente. Ma alla libertà del-
l’arte cretese contribuisce anche la funzione straordina-
riamente importante delle città e del commercio nella
vita economica dell’isola. È vero che in Babilonia tro-
viamo un analogo predominio del commercio, senza
poterne osservare analoghi effetti sull’arte; ma in nes-
sun luogo dell’antico Oriente le istituzioni urbane pote-
rono svilupparsi come a Creta. Qui c’erano numerosis-
sime e svariate formazioni municipali: accanto a Cnos-
so e a Festo – capitali e residenze di sovrani – città spic-
catamente industriali come Gournià, e piccole borgate
come Preso34. Ma l’originalità dell’arte cretese deve anzi-
tutto dipendere dal fatto che nell’Egeide, a differenza
degli altri paesi, il commercio – specialmente estero – era
in mano alla classe dominante. Lo spirito inquieto e
innovatore dei mercanti poteva quindi affermarsi piú
liberamente che in Egitto o in Babilonia.
Pure anche questa non è che arte di re e di signori.
Esprime la gioia di vivere, gli agi, il lusso di autocrati e
di un’esigua classe dominante. Le testimonianze dei
monumenti evocano una vita splendida, una corte fasto-
sa, magnifiche dimore signorili, ricche città, immensi
latifondi, e la vita amara di larghe masse rurali in stato
di servitú. Come in Egitto e in Babilonia, l’arte ha un
carattere affatto cortigiano; ma l’elemento rococò, il
gusto per ciò che è raffinato e scherzoso, elegante e
delicato, si fa valere piú energicamente. Hörnes sottoli-
nea a ragione i tratti cavallereschi della civiltà minoica,
accennando alla parte che avevano nella vita dei Crete-
si i cortei e gli spettacoli, le giostre e i tornei, le donne
e la loro civetteria35. Questi modi cortigiani e cavallere-
schi, in contrasto con lo stile severo degli antichi baro-
ni conquistatori e proprietari di terre, favoriscono –
come piú tardi nel Medioevo – forme di vita piú libere,
spontanee ed elastiche, e in armonia con esse promuo-

Storia dell’arte Einaudi 60


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

vono un’arte piú individualistica, stilisticamente piú


libera e piú fedele al vero.
Ma, secondo un’altra interpretazione, l’arte cretese
non sarebbe, in realtà, piú naturalistica dell’arte – ad
esempio – egiziana; fa quest’effetto, si dice, non tanto
per lo stile, quanto per l’ardita scelta dei temi, la rinun-
cia alla solennità cerimoniale e la predilezione per la
scena profana, l’episodio, la vivacità e il movimento36.
Ma la «disposizione casuale» degli elementi compositi-
vi, di cui si parla, nello stesso contesto, come di un ele-
mento essenziale all’arte cretese, mostra che le sue carat-
teristiche non si riassumono nella scelta dei temi e dei
motivi. In questa «disposizione casuale», in questa com-
posizione piú libera, sciolta, pittorica, si esprime, in
contrasto con la costrizione orientale dell’arte egiziana
e babilonese, una libertà inventiva che si potrebbe quasi
definire «europea»; e, contro il principio stilistico del-
l’accentramento e della subordinazione, un’idea dell’ar-
te che favorisce l’affollarsi e l’avvicendarsi dei motivi37.
L’arte cretese predilige a tal punto la semplice giustap-
posizione, che non solo nei gruppi e nelle scene, ma
anche nella decorazione dei vasi, invece di ornati geo-
metricamente chiusi troviamo per ogni dove un capric-
cioso pullulare di motivi sparsi38. E questa libertà d’in-
venzione è tanto piú significativa in quanto i Cretesi,
come sappiamo, conoscevano benissimo i prodotti del-
l’arte egiziana; e la rinunzia a quella monumentalità,
solennità e rigidezza, è una prova che la grandiosità egi-
ziana non corrispondeva al loro gusto e alle loro aspira-
zioni artistiche.
Tuttavia anche l’arte cretese ha le sue convenzioni
antinaturalistiche e le sue formule astratte; essa trascu-
ra quasi sempre la prospettiva, le ombre mancano del
tutto, i colori sono per lo piú limitati a tinte piatte, e la
figura umana è sempre piú stilizzata di quella animale.
Ma anche qui il rapporto fra gli elementi naturalistici e

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antinaturalistici non è prestabilito e costante, ma si tra-


sforma nel corso dello sviluppo39. L’arte cretese – anche
se la fedeltà alla natura costituisce il suo tratto princi-
pale e permanente – percorre press’a poco questa para-
bola: da uno stile ancora geometrizzante, di derivazio-
ne neolitica, attraverso un estremo naturalismo, a una
stilizzazione arcaicizzante e un po’ accademica. Soltan-
to verso la metà del secondo millennio, alla fine del
medio evo minoico, Creta trova il suo caratteristico
naturalismo e tocca l’apogeo della sua evoluzione arti-
stica. Nella seconda metà del millennio l’arte cretese
perde molto della sua freschezza e spontaneità; le forme
diventano sempre piú schematiche e convenzionali, sem-
pre piú rigide e astratte. Gli studiosi inclini all’inter-
pretazione razziale dei fenomeni storici usano far risa-
lire la ricomparsa del geometrismo all’influsso delle stir-
pi elleniche che penetravano dal Nord nella Grecia con-
tinentale, cioè agli stessi elementi etnici che crearono il
piú tardo geometrismo greco40. Altri contestano la neces-
sità di tale spiegazione e cercano le ragioni del muta-
mento stilistico nell’evoluzione stessa delle forme41.
Di solito, per sottolineare l’originalità dell’arte cre-
tese di fronte all’arte egiziana e mesopotamica, si parla
della sua «modernità»; ma ciò che s’intende con questo
termine è forse quel che vi è di piú discutibile in essa.
Il gusto dei Cretesi, nonostante tutta la loro originalità
e il loro virtuosismo, non era precisamente raffinato e
sicuro. I loro modi artistici sono troppo facili e com-
piacenti per lasciare un’impressione profonda e duratu-
ra. Gli affreschi cretesi, con le loro tinte da acquerello
e il loro disegno fin troppo semplice, ricordano le deco-
razioni dei transatlantici di lusso e delle piscine42. Se l’ar-
te moderna ha accolto molti stimoli da Creta, Creta
stessa ha anticipato qualcosa dell’«arte industriale» dei
nostri tempi. La «modernità» dell’arte cretese non è
senza rapporto con la fabbricazione in serie e la produ-

Storia dell’arte Einaudi 62


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zione di massa, destinata all’intensa esportazione. Piú


tardi i Greci, nonostante un’industrializzazione altret-
tanto estesa della produzione artistica, hanno saputo
evitare il pericolo della schematizzazione; ma questo
prova soltanto che nella storia dell’arte non sempre le
stesse cause hanno gli stessi effetti, o forse le cause sono
troppo numerose, e spesso l’analisi scientifica non rie-
sce ad esaurirle.

1
Cfr. ludwig curtius, Die antike Kunst, I, 1923, p. 71.
2
j. h. breasted, A History of Egypt, 1909, p. 102.
3
a. erman - h. ranke, Ägypten und ägyptisches Leben im Altertum,
1923, p. 503.
4
röder, Ägyptische Kunst, in max ebert, Reallexikon der Vorge-
schichte, VII, 1926, p. 168.
5
ludwig borchardt, Der Porträtkopf der Königin Teje, 1911.
6
a. erman - h. ranke, Ägypten und ägyptisches Leben im Altertum
cit., p. 504.
7
Ibid.
8
Cfr. t. veblen, The Theory of the Leisure Class, III, 1899, Con-
spicuous Leisure [trad. it., La teoria della classe agiata, Torino 1949].
9
s. r. k. glanville, Daily Life in Ancient Egypt, 1930, p. 33.
10
max weber, Wirtschaftsgeschichte, 1923, p. 147.
11
Cfr. w. m. flinders petrie, Social Life in Ancient Egypt, 1923,
p. 27.
12
h. schäfer, Von ägyptischer Kunst, 1903, 3a ed., p. 59.
13
Ibid., p. 68.
14
f. m. heichelheim, Wirtschaftsgeschichte des Altertums, 1938,
p. 151.
15
l. curtius, Die antike Kunst cit.
16
Cfr. w. spigelberg, Geschichte der ägyptischen Kunst, 1903, p. 22.
17
georg misch, Geschichte der Autobiographie, I, 1931, 2a ed., p. 10.
18
w. spiegelberg, Geschichte der ägyptischen Kunst cit., p. 5.
19
Cfr. h. schäfer, Von ägyptischer Kunst cit., p.57.
20
w. hausenstein ha già attirato l’attenzione sul rapporto della
frontalità con la struttura sociale delle civiltà «feudali e ieratiche», in
«Archiv für Sozialwissenshaft», vol. XXWI, 1913, pp. 759-60.
21
richard thurnwald, Staat und Wirtschaft im alten Ägypten,
«Zeitschrift für Sozialwissenshaft», vol. IV, 1901, p. 699.

Storia dell’arte Einaudi 63


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22
j. h. breasted, A History of Egypt cit., pp. 356, 377.
23
Ibid., p. 378.
24
eduard meyer, Die wirtschaftliche Entwicklung des Altertums.
Kleine Schriften, I, 1924, p. 94.
25
j. h. breasted, A History of Egypt cit., p. 169.
26
flinders petrie, Social Life in Ancient Egypt cit., p. 21.
27
h. schäfer, Von ägyptischer Kunst cit., p. 62.
28
röder, Ägyptische Kunst, in max ebert, Reallexikon der Vorge-
schichte cit., p. 168; cfr. h. schäfer, Von ägyptischer Kunst cit., p. 6o.
29
o. neurath, Antike Wirtschaftsgeschichte, 1926, 3a ed., pagine
12-13.
30
walter otto, Kulturgeschichte des Altertums, 1925, p. 27.
31
eckhard unger, Vorderasiatische Kunst, in max ebert, Real-
lexikon der Vorgeschichte, VII, 1926, p. 171.
32
bruno meissner, Babylonien und Assyrien, I, 1920, p. 274.
33
Ibid., p. 316.
34
g. glotz, La civilisation égéenne, 1923, pp. 162-64 [trad. it., La
civiltà egea, Torino 1952].
35
h. hörnes - o. menghin, Urgeschichte der bildenden Kunst, 1925,
p. 391.
36
g. rodenwaldt, Die Kunst der Antike, 1927, pp. 14-15.
37
l. curtius vede nell’arte cretese «la prima manifestazione di un
nuovo spirito europeo, che... nella sua appassionata versatilità si distin-
gue nettamente da quello orientale» (Die antike Kunst cit., II, p. 56);
g. karo invece parla del suo «carattere non greco, anzi non europeo»
(in m. ebert, Reallexikon cit., VII, p. 93).
38
Cfr. g. kato, Die Schachtgräber von Mykenai, 1930, p. 288; g.
a. s. snijder, Kretische Kunst, 1936, pp. 47, 119.
39
Cfr. d. g. hogarth, The Twilight of History, 1926, p. 8.
40
h. hörnes - o. menghin, Urgeschichte der bildenden Kunst in
Europa cit., pp. 378, 382; c. schuchhardt, Alteuropa, 1926, p. 228.
41
g. rodenwaldt, Nordischer Einfluss im Mykenischen?, «Jahrbu-
ch des Deutschen Archäologischen Instituts», suppl. xxxv, 1920, p. 13.
42
Sulla discutibilità del gusto cretese, cfr. g. glotz, La civilisation
égéenne cit., p. 354, e a. r. burn, Minoans, Philistines and Greeks,
1930, p. 94.

Storia dell’arte Einaudi 64


l’antichità classica

Capitolo primo

I tempi eroici e i tempi di Omero

Per noi l’epos omerico è la piú antica poesia in lin-


gua greca; ma certo i poemi omerici non furono i primi
poemi greci, e non solo perché la loro struttura è trop-
po complicata per un inizio, e il loro contenuto è trop-
po composito, ma anche perché, nella leggenda perso-
nale di Omero, ci sono molti tratti inconciliabili con
l’immagine del presumibile autore di quei poemi e con
la sua concezione del mondo, illuminata, scettica e spes-
so frivola. La figura dell’antico aedo, del cieco di Chio,
è in gran parte la sintesi di reminiscenze che risalgono
al poeta come vate, veggente sacerdotale e ispirato. La
sua cecità non è che il segno esteriore dell’intima luce
che lo invade e gli fa vedere cose che gli altri non pos-
sono vedere. Certo, in questa infermità fisica – come
nello zoppicare del divino fabbro Efesto – si esprime
anche l’idea primitiva che gli autori di poemi, opere
figurative e altri prodotti dell’arte, escono dalle file
degli inabili alla guerra e alla lotta. Per il resto, la leg-
genda di Omero coincide quasi completamente col mito
del poeta, che, apparizione ancora semidivina, capace di
prodigi e di profezie, si concreta nella figura di Orfeo,
il cantore che ricevette la lira da Apollo e fu iniziato
all’arte del canto dalla Musa stessa; colui che sapeva
commuovere non solo uomini e bestie, ma anche alberi
e rupi, e con la sua musica sottrasse Euridice al bando
della morte. «Omero» non possiede piú questa virtú

Storia dell’arte Einaudi 65


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magica, ma conserva i tratti del veggente ispirato e la


coscienza del sacro e misterioso vincolo con la Musa, a
cui si rivolge in confidenti invocazioni.
La poesia della Grecia preistorica, come ogni poesia
primitiva, consisteva probabilmente in scongiuri ed ora-
coli, formule d’augurio e di preghiera, canti di guerra e
di lavoro. Tutti questi generi avevano un tratto comu-
ne: erano poesia collettiva e sacrale. Ai cantori di scon-
giuri e di oracoli, agli inventori di nenie funebri e di
canti guerreschi era estranea ogni nota individuale; la
loro poesia, anonima e destinata a tutta la comunità,
esprimeva idee e sentimenti comuni a tutti. A questa
poesia impersonale e sacrale corrispondono, nell’arte
figurativa, quei feticci, quelle pietre, quei tronchi d’al-
bero che non si possono ancora chiamare sculture, e
dove la forma umana è appena accennata, venerati ab
antiquo nei templi greci. Come le prime formule d’in-
cantesimo e gli antichissimi canti rituali, essi sono arte
comunitaria primitiva; l’espressione artistica, ancora
assai rozza e impacciata, di una società quasi indiffe-
renziata. Non sappiamo nulla della condizione sociale
degli esecutori, quale parte svolgessero nella vita del
gruppo e in quale stima li tenessero i contemporanei;
probabilmente non erano cosí onorati come gli artisti-
maghi dell’età paleolitica, o i sacerdoti e i vati della
neolitica. Ma anche gli artisti figurativi avevano i loro
antenati mitici. Si narra che Dedalo sapeva infondere
vita al legno e far drizzare e muovere la pietra; ch’egli
fabbricasse ali a sé e al figlio per varcare il mare a volo,
non è, per la leggenda, piú meraviglioso del fatto che
sapesse intagliare statue e progettare il Labirinto. Egli
non è certo l’unico, ma forse soltanto l’ultimo artista-
mago. Comunque, il tema di Icaro che precipita in mare,
perché gli si è fusa la cera delle ali, ha tutto l’aspetto di
un simbolo, e sembra significare che con Dedalo tra-
montò l’era dei maghi.

Storia dell’arte Einaudi 66


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Con l’inizio dei tempi eroici muta radicalmente la


funzione sociale della poesia e la posizione sociale del
poeta. La visione profana e individualistica dell’aristo-
crazia guerriera infonde alla poesia un nuovo contenu-
to e assegna nuovi compiti al poeta. Questi esce dall’a-
nonimato e dall’inaccessibilità del sacerdozio, e la poe-
sia perde il suo carattere sacrale e collettivo. Nei prin-
cipati arcaici del secolo xii, i re e i nobili, gli «eroi» da
cui l’epoca prende nome, sono ladroni e corsari, che si
definiscono orgogliosamente «saccheggiatori di città»; i
loro canti sono mondani ed empi, e la leggenda troiana,
la corona della loro gloria, non è che la trasfigurazione
poetica del saccheggio e della pirateria. Il loro spirito dis-
soluto e irriverente è una conseguenza del continuo
stato di guerra, delle continue vittorie e del brusco muta-
mento delle condizioni di cultura e di civiltà. Come vin-
citori di un popolo piú colto, come profittatori di una
civiltà molto piú progredita della loro, si emancipano
dalle strettoie della religione avita, ma disprezzano
anche i precetti e i divieti religiosi del popolo vinto, per
il fatto stesso che si è lasciato vincere. Tutto spinge quei
guerrieri errabondi a un individualismo sfrenato, incu-
rante di ogni tradizione e di ogni diritto. Per loro tutto
diventa oggetto di contesa e occasione di avventura,
poiché nel loro mondo tutto fa capo alla forza fisica, al
valore, all’abilità e all’astuzia individuale.
Il momento sociologicamente decisivo è il passaggio
dall’organizzazione impersonale della tribú primitiva a
una specie di monarchia feudale, che si basa sulla fedeltà
personale dei vassalli verso il loro signore, e non solo è
indipendente da vincoli familiari, ma interferisce nei
vincoli di parentela e dissolve radicalmente i doveri
verso i consanguinei. L’etica sociale del feudalesimo si
volge contro la solidarietà del sangue e della stirpe; indi-
vidualizza e razionalizza i rapporti morali2. La graduale
dissoluzione della tribú si manifesta chiaramente nei

Storia dell’arte Einaudi 67


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

conflitti fra consanguinei, sempre piú frequenti a parti-


re dall’età eroica. La fedeltà del vassallo, del suddito, del
cittadino si sviluppa progressivamente e alla fine diven-
ta piú forte della voce del sangue. È un processo che
dura per secoli e si conclude, dopo gli episodi di reazio-
ne promossi dagli aristocratici, gelosi dei diritti della
stirpe, solo con la vittoria della democrazia. La tragedia
greca dell’epoca classica è ancora piena del conflitto tra
lo stato fondato sulla stirpe e quello fondato sul popo-
lo, e l’Antigone sofoclea gravita intorno allo stesso pro-
blema della fedeltà che è già il punto centrale dell’Ilia-
de. Nell’età eroica non si giunge ancora all’urto violen-
to, perché il problema non è ancora legato ad una crisi
dell’ordinamento sociale dominante. Ma ne risulta
un’inversione dei valori morali, e infine la vittoria di un
individualismo sfrenato, che rispetta soltanto un codice
d’onore da predoni.
La poesia dei tempi eroici, conformemente a questa
evoluzione, non è piú poesia di popolo e di masse, liri-
ca corale o di gruppo, ma canto singolo sul destino indi-
viduale. Non ha piú il compito di infiammare alla bat-
taglia, ma lo scopo d’intrattenere gli eroi dopo la vitto-
ria, di citarli per nome e di lodarli, di bandirne ed eter-
narne la fama. Il carme eroico deve la sua origine alla
sete di gloria della nobiltà guerriera, ed è questa sete che
deve innanzitutto soddisfare: tutto il resto ha, per il suo
pubblico, un’importanza secondaria. E in una certa
misura tutta l’arte dell’antichità classica è in funzione
dell’aspirazione alla gloria, del desiderio di essere esal-
tati nel presente e nell’avvenire3. La storia di Erostra-
to, che incendia il tempio di Artemide Efesia per immor-
talare il proprio nome, dà un’idea della forza sempre
intatta di questa passione, che tuttavia, in seguito, non
sarebbe stata piú cosí produttiva come al tempo degli
eroi. Gli autori dei carmi eroici sono panegiristi e
dispensatori di gloria: su questa funzione si fonda la loro

Storia dell’arte Einaudi 68


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esistenza, e da essa attingono la loro ispirazione. Ogget-


to della loro poesia non sono piú desideri e speranze,
cerimonie magiche, e atti del culto animistico, ma rac-
conti di combattimenti sostenuti e di bottino conqui-
stato. Con la loro funzione sacra, i poemi perdono anche
il loro carattere lirico; diventano epici, e in questa forma
sono la piú antica poesia profana, sciolta dal culto, di cui
si abbia notizia in Europa. In origine dovettero essere
qualcosa come resoconti di guerra, cronache di eventi
bellici; e forse da principio si limitavano alle «ultime
notizie» sulle fortunate imprese militari e sulle spedi-
zioni piratesche della stirpe. «Al canto piú nuovo, la
lode piú alta», dice anche Omero (Od., I, 351-52), e
Demodoco e Femio cantano dei fatti piú recenti. Ma
quei cantori non sono piú semplici cronisti; la narrazio-
ne delle battaglie si è trasformata nel frattempo in un
genere fra storico e leggendario, assumendo caratteri di
ballata, misti di elementi epici, drammatici e lirici. Già
i carmi eroici, i pezzi di cui si comporrà l’epos, debbo-
no aver avuto questa forma ibrida, anche se l’elemento
epico restava in essi determinante.
Il carme eroico non solo tratta di una persona sin-
gola, ma è recitato da un singolo, e non piú da una
comunità o da un coro4. Poeti ed esecutori saranno stati,
da principio, i guerrieri e gli eroi stessi; in altri termini,
non solo il pubblico, ma anche gli autori della nuova poe-
sia appartengono al ceto dominante: sono dilettanti di
nobile stirpe, e talvolta principi. – La scena descritta nel
Beowulf, in cui il re dei Danesi ordina ad uno dei suoi
eroi d’intonare un canto sulla battaglia testè vinta,
potrebbe su per giú adattarsi anche all’età eroica della
Grecia5. Ai dilettanti cavallereschi subentrano tuttavia
ben presto poeti e cantori di corte – gli aedi – che pre-
sentano il carme eroico in una forma già piú elaborata
ed efficace, perché affinata dall’esercizio. Intonano i
loro canti ai banchetti comuni del re e dei suoi guerrie-

Storia dell’arte Einaudi 69


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ri; cosí fanno Demodoco, alla corte del re dei Feaci, e


Femio nel palazzo di Odisseo a Itaca. Sono aedi di
mestiere, ma – nello stesso tempo – cortigiani e vassal-
li del re; nonostante il loro mestiere, passano per persone
rispettabili; appartengono alla società di corte e gli eroi
li trattano da uguali. Conducono la vita profana del cor-
tigiano e, anche se «un dio seminò i canti nell’anima»
loro (Od., XXII, 347-48), e se conservano il ricordo del-
l’origine divina della loro arte, sono versati quanto il
loro pubblico nel rude mestiere delle armi; e hanno
molto di piú in comune con esso che coi loro antenati
spirituali, i veggenti e i maghi della preistoria.
Della condizione sociale dei poeti e degli aedi l’epos
omerico non ci dà un quadro unitario. L’uno appartie-
ne alla casa del principe, l’altro sta a mezza strada tra
l’aedo di corte e il cantastorie popolare6. Può darsi che
anche qui si confondano le condizioni dell’età eroica
con quelle che videro la composizione e l’ultima reda-
zione dei poemi epici, cioè dell’età omerica stessa. In
ogni caso, è lecito supporre che fin dai tempi piú anti-
chi, accanto agli aedi della nobile società di corte, ci fos-
sero anche cantanti girovaghi, che intrattenevano il
pubblico sulle piazze e nelle terme, forse con storie
meno grandiose e solenni delle avventure eroiche7. Di
queste storie l’epos non ci consente di farci un’idea pre-
cisa, a meno che non si vogliano far risalire a quelle nar-
razioni popolari aneddoti come quello dell’adulterio di
Afrodite8.
Nell’arte figurativa gli Achei continuano la tradi-
zione cretese-micenea, e anche lo stato sociale dell’arti-
sta presso di loro non dovette differire gran che da quel-
lo dell’artista-operaio di Creta. Non è certo pensabile
che uno scultore o un pittore sia mai uscito dalla nobiltà
achea, né che abbia appartenuto alla società di corte.
Anzi, il fatto che principi e nobili si dilettassero di poe-
sia e che i poeti di professione fossero esperti nel mestie-

Storia dell’arte Einaudi 70


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

re delle armi, contribuiva ad accrescere ulteriormente la


distanza fra il lavoro manuale dell’artista e l’opera intel-
lettuale del poeta; e questo nuovo tratto, piú di qualsiasi
altro, innalza il valore sociale del poeta dei tempi eroi-
ci al di sopra di quello dello scriba nell’antico Oriente.
L’invasione dorica segna la fine dell’epoca che aveva
subito tradotto in canti e in leggende le sue imprese e
avventure guerresche. I Dori sono un rozzo e prosaico
popolo di contadini che non canta le proprie vittorie; e
i discendenti degli eroi, cacciati dai Dori, dopo essere
emigrati sulle coste dell’Asia Minore, non vanno piú in
cerca di avventure. Essi trasformano le loro monarchie
militari in pacifiche aristocrazie di possidenti e com-
mercianti, in cui anche quelli che una volta erano i re
non sono piú che privati latifondisti. E se finora le case
principesche e il loro seguito conducevano vita lussuo-
sa a spese di tutta la popolazione, ora i beni si riparti-
scono in piú mani e di conseguenza diminuisce il fasto
dei ceti dominanti9. Il loro tenore di vita si fa meno pre-
tenzioso e gl’incarichi ch’essi affidano a scultori e pit-
tori nella nuova patria sono dapprima molto scarsi e
modesti. Tanto piú grande è la poesia di quel tempo. I
fuggiaschi portano con sé nella Jonia i loro carmi eroi-
ci, e là, fra popoli stranieri, sotto l’influsso di civiltà stra-
niere, nel corso di tre secoli nasce l’epos. Sotto la forma
jonica definitiva possiamo ancora riconoscere l’antica
materia eolica, possiamo stabilire la differenza delle
fonti, possiamo constatare l’ineguale qualità delle singole
parti e l’irregolarità dei passaggi, ma non sappiamo con
certezza che cosa debba l’arte dell’epos al carme eroico,
né come si ripartisca fra i diversi poeti, le loro diverse
scuole e generazioni, il merito di questo successo incom-
parabile. Soprattutto non sappiamo se questa o quella
personalità indipendente sia intervenuta nel lavoro col-
lettivo in modo determinante per la forma conclusiva
dell’opera; o se quel che vi è di singolare e di unico nei

Storia dell’arte Einaudi 71


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

poemi vada considerato come il risultato di molte idee


particolari ed eterogenee, di tradizioni continuamente
riprese e perfezionate, e se dobbiamo quindi ringrazia-
re il «genio della collettività».
La poesia, che, durante l’età eroica, differenziando-
si il poeta dal sacerdote, aveva assunto forme piú per-
sonali ed era esercitata individualmente, mostra di
nuovo una tendenza collettivistica. L’epos non è piú l’o-
pera di singoli poeti, ma di intere scuole, e probabil-
mente d’intere corporazioni poetiche. È l’opera, se non
di una comunità etnica, di una comunità di lavoro, cioè
di un gruppo di artisti spiritualmente solidali, uniti fra
loro da tradizioni e metodi comuni. Cosí comincia una
nuova organizzazione del lavoro artistico, completa-
mente ignota ai poeti piú antichi, un modo di produ-
zione seguito finora soltanto nelle arti figurative, e che
permette – anche nella letteratura – la divisione del
lavoro fra docenti e allievi, maestri ed aiuti.
L’aedo cantava i suoi versi nell’aula regia, davanti a
un pubblico di principi e di nobili; il rapsodo recita
passi dell’epopea nelle sedi dei nobili, nelle case dei
signori, ma anche nelle feste popolari, nelle fiere, nelle
botteghe e nelle terme. Quanto piú la poesia diventa
popolare, quanto piú largo è il pubblico a cui si rivolge,
e tanto meno stilizzata si fa la sua dizione, che si avvi-
cina sempre piú alla chiarezza del linguaggio abituale; il
metro e la recitazione succedono alla lira e al canto. Que-
sto processo di popolarizzazione si conclude soltanto
nella madrepatria, a cui la leggenda ritorna nella sua
nuova forma di epopea, e dove l’epos, diffuso dai rapso-
di, viene ulteriormente elaborato dagli epigoni e tra-
sformato dai tragici. La recitazione dei poemi epici nelle
feste popolari è di precetto fin dai tempi della tiranni-
de e della prima democrazia. Già nel secolo vi una legge
prescrive la recitazione degli interi poemi omerici – pro-
babilmente ad opera di rapsodi destinati ad alternarsi –

Storia dell’arte Einaudi 72


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

durante la festa quadriennale delle Panatenee. L’aedo


glorificava i re e i loro vassalli; il rapsodo esalta il pas-
sato nazionale. L’aedo cantava gli avvenimenti del gior-
no, il rapsodo ricorda fatti storico-leggendari. Poetare e
recitar poemi non sono ancora due professioni distinte,
ma non è necessario che sia il poeta stesso a declamare 10.
Il rapsodo è un fenomeno di transizione fra il poeta e
l’attore. I molti dialoghi che l’epopea mette in bocca ai
suoi personaggi, e che esigono dal recitante effetti tea-
trali, gettano un ponte fra la recitazione epica e la rap-
presentazione drammatica11. L’Omero della leggenda sta
fra Demodoco e gli Omeridi, l’aedo e i rapsodi. È un
veggente sacerdotale e un attore girovago, a un tempo
figlio delle Muse e cantore mendico. La sua figura non
ha alcuna precisione storica, e non fa che riassumere e
personificare lo sviluppo che dal carme eroico delle corti
arcaiche conduce all’epos jonico.
Secondo ogni verosimiglianza, i rapsodi sapevano
già scrivere; anche se declamatori che sapevano tutto
Omero a memoria appaiono ancora in epoca molto
tarda, l’ininterrotta recitazione senza il sostegno di un
testo avrebbe finito per disgregare interamente i poemi.
Noi dobbiamo concepire i rapsodi come abili ed esper-
ti letterati, la cui attività professionale consisteva piut-
tosto nel conservare che nell’accrescere i poemi tradi-
zionali. Già il nome di Omeridi e la volontà di appog-
giarsi a una leggendaria discendenza dal maestro prova
il carattere conservatore e quasi tribale della loro cor-
porazione. Contro questa concezione è stato fatto osser-
vare che gli appellativi delle corporazioni: «Omeridi»,
«Asclepiadi», «Dedalidi», vanno considerati come sim-
boli arbitrariamente scelti; chi li portava, né credeva a
una discendenza comune, né voleva farvi credere12; ma
altri ha fatto presente che da principio le singole pro-
fessioni erano state monopolio delle diverse stirpi13.
Comunque stiano le cose su questo punto, i rapsodi for-

Storia dell’arte Einaudi 73


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

mavano una categoria professionale chiusa, separata da


altri gruppi, di letterati altamente specializzati, educati
secondo antiche tradizioni, ed estranei a qualunque
«poesia popolare». L’«epos popolare» greco è un’in-
venzione della filosofia romantica; nulla è meno «popo-
lare» dei poemi omerici, e non solo nella loro forma
matura, ma fin dai loro inizi. Essi, è vero, non sono piú
poesia di corte, ma il carme eroico lo era in tutto e per
tutto: temi, stile, pubblico, tutto in esso aveva un carat-
tere aulico-cavalleresco. Si mette persino in dubbio che
in Grecia il carme eroico sia mai diventato poesia popo-
lare, e si respinge l’analogia col poema nibelungico, che,
dopo una prima fase aulica, fu portato fra il popolo da
menestrelli girovaghi e attraversò un periodo popolare-
sco prima di giungere alla sua forma definitiva, ritor-
nando alle origini14. Secondo questa concezione, l’epos
omerico continua immediatamente la poesia aulica dei
tempi eroici15. Gli Achei e gli Eoli avrebbero portato con
sé nella nuova patria non solo i loro carmi eroici, ma
anche i loro cantori; e questi trasmisero direttamente ai
poeti dell’epos i canti che essi avevano cantato alle corti
dei principi. Non ballate popolari tessale, ma canti auli-
ci e celebrativi, destinati non già alle masse, ma al deli-
cato orecchio di conoscitori, sarebbero quindi il nocciolo
della poesia omerica. Solo molto tardi la leggenda eroi-
ca diventerà popolare, nella forma dell’epos pienamen-
te sviluppato, e solo in questa forma giungerà per la
prima volta fra il popolo ellenico.
Contro tutte le idee romantiche circa la natura del-
l’arte e dell’artista – idee fondamentali nell’estetica del-
l’Ottocento – l’epos omerico, questo impareggiabile
paradigma della poesia, non si può considerare né come
la creazione di un individuo, né come un prodotto della
poesia popolare; ma deve ritenersi anonima poesia d’ar-
te, opera collettiva di eleganti poeti aulici e dotti lette-
rati, dove i confini fra i contributi delle singole perso-

Storia dell’arte Einaudi 74


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

nalità, scuole e generazioni, sono fluidi e inafferrabili.


Cosí i poemi si mostrano a noi sotto una nuova luce, pur
senza cedere il loro segreto. I romantici chiamavano il
loro lato enigmatico «poesia ingenua e popolare»; per
noi l’enigma è quell’indefinibile forza poetica che dai piú
disparati elementi – visione e dottrina, ispirazione e
tradizione, doti proprie e acquisite – produce una caden-
za cosí dolce, fluida e ininterrotta, un mondo cosí fitto
e omogeneo d’immagini, un’unità cosí perfetta nei per-
sonaggi – di vita e di significato.
La visione omerica del mondo è ancora tutta aristo-
cratica, anche se non piú propriamente feudale; al
mondo feudale appartengono solo i suoi temi piú anti-
chi. Il carme eroico si rivolgeva ancora esclusivamente
a principi e nobili, e solo essi lo interessavano: i loro
costumi, le norme e gli scopi della loro vita. Certo, nel-
l’epos il mondo non è piú cosí ristretto, ma l’uomo del
popolo è ancora senza nome, il comune guerriero senza
importanza. In tutto Omero non c’è un solo caso in cui
un plebeo si elevi sul proprio stato16. L’epos non eserci-
ta una vera critica né sulla monarchia né sull’aristocra-
zia; Tersite, il solo a protestare contro i re, è il prototi-
po dell’uomo incivile, che ignora l’urbanità dei costumi
e le buone maniere. Ma anche se ai tratti che sono stati
definiti «borghesi» delle similitudini omeriche17 non
corrisponde ancora uno spirito borghese, l’epos non
riflette piú tali e quali gli ideali eroici della leggenda. C’è
già una sensibile tensione fra la visione umana dei suoi
poeti e il modo di vita dei suoi rozzi eroi. E l’«Omero
non eroico» non appare soltanto nell’Odissea. Odisseo
non è il primo che appartenga a un mondo piú vicino al
poeta, diverso da quello di Achille; già il nobile, mite,
generoso Ettore comincia a soppiantare l’eroe impetuo-
so e violento nel cuore dell’aedo18. Ma tutto ciò prova
soltanto che lo spirito dell’aristocrazia si va trasfor-
mando, e non che i poeti dell’epos traggano i loro cri-

Storia dell’arte Einaudi 75


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

teri morali dalle idee di un pubblico nuovo, estraneo alla


nobiltà. In ogni caso, quella a cui essi si rivolgono non
è piú la nobiltà terriera e militare, ma una pacifica ari-
stocrazia urbana.
Veramente popolare, nata e cresciuta nell’ambiente
contadino, è soltanto l’opera di Esiodo. Certo, neppu-
re questa è «poesia popolare», diffusa fra il popolo, e
non è neppure tale da poter gareggiare con gli aneddo-
ti correnti nelle chiacchiere dei bagni; tuttavia, temi, cri-
teri e scopi sono quelli dei contadini, delle plebi oppres-
se dall’aristocrazia terriera. L’importanza storica del-
l’opera esiodea sta nel fatto ch’essa è la prima espres-
sione poetica di una tensione sociale, di un contrasto di
classi. Anche se la sua parola è conciliante, tranquilliz-
zante, consolatrice – il tempo delle lotte di classe e delle
rivolte è ancora lontano –, è pur sempre, nella lettera-
tura, la prima voce chiara del popolo lavoratore, la prima
voce che si levi per la giustizia sociale, contro l’arbitrio
e la violenza. Accade qui, per la prima volta, che il
poeta, invece dei compiti cultuali-religiosi e aulico-cele-
brativi toccatigli finora, assuma una missione politico-
educativa e diventi maestro, consigliere e campione del-
l’oppresso.

È difficile istituire un rapporto storico fra lo stile


della poesia omerica e il geometrismo contemporaneo.
Il raffinato, elegante linguaggio dell’epos non presenta
affinità evidenti con l’arido schematismo dell’arte geo-
metrica. Né si può dire riuscito il tentativo di rintrac-
ciare in Omero i principî di quell’arte19; poiché, a parte
il fatto che le simmetrie e ripetizioni – a cui si riduce,
nella poesia, l’elemento geometrico – si possono con-
statare solo in singoli episodi dei poemi omerici, anche
là essi non costituiscono che lo strato piú esterno della
struttura formale, mentre il geometrismo è l’intima

Storia dell’arte Einaudi 76


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

essenza della composizione figurativa. Questa discor-


danza è semplicemente dovuta al fatto che l’epos si svi-
luppa in Asia Minore, nel crogiolo in cui si fondono la
civiltà egea e le civiltà orientali, nel centro del com-
mercio mondiale del tempo; mentre il geometrismo delle
arti figurative è di casa in Grecia, presso i contadini
dorici e beoti. Lo stile dei poemi omerici è il linguaggio
di una popolazione urbana, mista di elementi interna-
zionali, mentre il geometrismo è l’espressione di un
popolo di contadini e di pastori, chiuso ad ogni influs-
so esterno. La sintesi delle due tendenze, da cui risulta
l’arte greca successiva, si compie soltanto dopo la fusio-
ne economica delle regioni costiere dell’Egeide, cioè ad
uno stadio evolutivo che sarà raggiunto solo dopo la fine
dell’epoca geometrica.
Intorno alla fine del decimo secolo, dopo circa due-
cento anni di ristagno e d’imbarbarimento, il primo stile
geometrico segna, in Occidente, l’inizio di una nuova
evoluzione artistica. In un primo tempo, troviamo dap-
pertutto le stesse forme pesanti, goffe, spiacevoli, lo
stesso linguaggio sommario e schematico; poi, lenta-
mente, si delineano e si differenziano gli stili locali. Il
piú noto, e artisticamente piú pregevole, è lo stile del
Dipylon, fiorente in Attica fra il 900 e il 700: un lin-
guaggio ormai raffinato, già quasi di maniera, con locu-
zioni leggiadre, rilisciate, già ridotte a formule. Esso
mostra come persino un’arte rustica, attraverso un lungo
e ininterrotto esercizio, possa assumere un certo pre-
ziosismo; e come una forma decorativa, organicamente
determinata dalla struttura dell’oggetto da decorare,
possa trasformarsi col tempo in uno «stile decorativo
pseudotettonico»20, in cui l’astrazione dalla realtà – la
deformazione violenta e spesso gratuita della natura –
non cerca piú neppure di giustificarsi con la forma del-
l’oggetto. Per esempio, sui frammenti di un vaso del
Dipylon, conservato al Louvre, c’è una «lamentazione

Storia dell’arte Einaudi 77


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

funebre», con la salma composta nella bara, le prefiche


intorno al letto di morte, o meglio al di sopra, a mo’ di
fregio; ai due lati e sotto il tema principale – iscritto in
un rettangolo affatto indipendente dalla rotondità del
vaso – ci sono uomini dolenti, che possono – a piacere
– essere considerati come parte della scena o come puro
ornamento: il tutto serrato in una rete che ricorda i
lavori all’uncinetto. Le figure dalle lunghe gambe sono
tutte uguali, fanno tutte lo stesso gesto con le braccia,
disegnando un triangolo il cui vertice inferiore è la vita
di vespa delle figure stesse. Non c’è profondità né ordi-
ne spaziale; i corpi non hanno volume, né peso; tutto è
disegno in superficie e gioco di linee, tutto costretto in
strisce, cerchi, scacchi, fregi, quadrati e triangoli. Dal-
l’età neolitica è forse questa la piú forte e intransigente
stilizzazione del vero; certo, molto piú unitaria e coe-
rente di quella dell’arte egiziana.

Storia dell’arte Einaudi 78


Capitolo secondo

L’arcaismo e l’arte alle corti dei tiranni

Solo intorno al 700 a. C., quando anche in Grecia


la vita rurale comincia a trasformarsi in vita urbana, si
scioglie la rigidezza delle forme geometriche. Il nuovo
stile arcaico, che succede al geometrismo, nasce già dalla
sintesi fra l’arte dell’Oriente e quella dell’Occidente,
della Jonia ad economia urbana e della madrepatria anco-
ra quasi interamente dominata dall’economia rurale.
Tra la fine dell’epoca micenea e il principio del perio-
do arcaico, in Grecia non ci sono palazzi, non ci sono
templi, non c’è un’arte monumentale; di quest’epoca
non possediamo che i resti di un’attività artistica ridot-
ta alla pura ceramica. Con l’arcaismo, lo stile del com-
mercio in pieno rigoglio, delle città arricchite e della for-
tunata colonizzazione, si apre un nuovo periodo di archi-
tettura imponente e di scultura monumentale. È l’arte
di una società la cui élite sale dal livello del contadino a
quello del magnate urbano, di un’aristocrazia che comin-
cia a consumare le proprie rendite in città, a occuparsi
d’industria e di commercio.
Da quest’arte scompare ogni angustia, ogni staticità
campagnola; è un’arte cittadina, tanto nei compiti
monumentali a cui deve assolvere, quanto nello spirito
innovatore, aperto agl’influssi stranieri. Certo, è legata
anch’essa a una serie di principî formali astratti, soprat-
tutto alla visione frontale, alla simmetria, alla forma

Storia dell’arte Einaudi 79


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

cubica elementare e alle «quattro vedute fondamentali»


(E Löwy), di modo che non si può affermare che il geo-
metrismo sia stato definitivamente superato prima del-
l’inizio dell’età classica. Ma, entro questi limiti, l’arte
arcaica dimostra tendenze molto varie e spesso – dal
punto di vista naturalistico – molto progressive. Infat-
ti, sia lo stile elegante, agile, sapiente delle kórai joni-
che, sia le forme grevi, energiche, dinamiche delle prime
sculture doriche, pur nella loro costrizione arcaica, ten-
dono all’espansione e alla differenziazione dei mezzi
espressivi.
Nelle regioni orientali predomina l’elemento jonico;
lo sviluppo tende al raffinamento, alla formula, al vir-
tuosismo, segue cioè un ideale stilistico che trova il suo
compimento nell’arte di corte dell’epoca dei tiranni.
Qui la figura femminile, come già a Creta, è il tema prin-
cipale, e l’arte della costa e delle isole joniche non trova
mai un’espressione cosí piena come in quelle statue di
fanciulle elegantemente vestite, accuratamente accon-
ciate, riccamente adorne e dal fine sorriso che – a giu-
dicare dall’abbondanza dei ritrovamenti – dovevano
affollare i templi come immagini votive. Gli artisti arcai-
ci, come i loro predecessori cretesi, non rappresentano
mai la donna nuda; invece che nelle forme scoperte, essi
cercano i loro effetti plastici negli sviluppi del costume
e del corpo che si disegna sotto le pieghe della veste. L’a-
ristocrazia rifugge dalla rappresentazione del nudo che,
«come la morte, è democratico» (Julius Lange); e se pur
tollera il nudo virile, lo tollera, da principio, solo come
richiamo ai ludi atletici, al culto della perfezione fisica
e al mito del sangue. Olimpia, dove quelle statue di
efebi furono erette, era il principale centro propagandi-
stico dei Greci; là si foggiava l’opinione pubblica del
paese, e l’aristocrazia vi acquistava coscienza della pro-
pria unità nazionale.
L’arcaismo dei secoli vii e vi è l’arte della nobiltà

Storia dell’arte Einaudi 80


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ancora molto ricca e padrona assoluta dell’apparato sta-


tale, ma già minacciata nella sua potenza politica ed
economica. Dall’inizio dell’epoca arcaica, a poco a poco
la borghesia urbana le strappa l’egemonia economica,
mentre i grossi guadagni della nuova economia moneta-
ria portano alla svalutazione delle rendite fondiarie. Sol-
tanto in questa situazione critica l’aristocrazia comincia
a riflettere su se stessa21; solo ora essa comincia a sotto-
lineare le proprie caratteristiche, per compensare in
qualche modo la propria insufficienza nella contesa coi
ceti inferiori. I segni di razza e di classe, di cui prima
era appena cosciente, e che considerava come ovvi e
naturali, ora tende ad avvalorarli come particolari virtú
e prerogative, come legittimo fondamento di speciali
privilegi. E ora soltanto, nel momento del pericolo,
sorge il programma di una condotta di vita i cui principî,
quando l’esistenza era ancora tranquilla e materialmen-
te sicura, non erano mai stati codificati e forse neppure
seguiti con tanta rigidezza. Solo ora si pongono le basi
dell’etica aristocratica: il concetto dell’areté, sintesi di
prestanza fisica e di disciplina militare, che si richiama
all’origine, alla razza, alla tradizione; la kalokagathía,
ideale equilibrio fra il corpo e lo spirito, fra le qualità
fisiche e morali; la sophrosyne, ideale dominio di sé,
disciplina e misura.
Certo, anche in Grecia, l’epos trova dappertutto
ascoltatori compresi e diligenti imitatori; ma la lirica
indigena corale e gnomica, in diretto rapporto coi pro-
blemi dell’ora, suscita – nella nobiltà che lotta per la pro-
pria sopravvivenza – piú interesse dell’antiquata leg-
genda degli eroi. Fin dall’inizio poeti gnomici come
Solone, elegiaci come Tirteo e Teognide, lirici corali
come Simonide e Pindaro si rivolgono alla nobiltà con
severi precetti morali, consigli e ammonimenti, e non
piú con piacevoli storie d’avventure. La loro poesia è
espressione soggettiva di sentimenti, propaganda politi-

Storia dell’arte Einaudi 81


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ca e filosofia morale ad un tempo; e ad essi spetta l’uf-


ficio, non di divertire, ma di educare e guidare spiri-
tualmente i membri del loro popolo e della loro classe.
È loro compito tener viva nella nobiltà la coscienza del
pericolo e ricordarle l’antico splendore. Teognide, l’i-
spirato panegirista dell’ethos aristocratico, nutre anco-
ra il piú profondo disprezzo per la nuova plutocrazia e,
in contrasto con lo spirito economico di marca plebea,
celebra le nobili virtú della liberalità e della «grandez-
za»; ma già in lui si avverte la crisi del concetto di areté,
poiché egli consiglia, sia pure a malincuore, di adattar-
si ai nuovi rapporti creati dall’economia monetaria, e
compromette quindi l’intero sistema della morale ari-
stocratica. Da questa crisi procede anche la visione tra-
gica di Pindaro, il massimo poeta della nobiltà; e questa
crisi, fonte della sua poesia, è anche la fonte vera della
tragedia. Certo i tragici, prima di prendere possesso del-
l’eredità pindarica, debbono purificarla dalle scorie – il
culto ristretto della famiglia, l’unilaterale ideale sporti-
vo, i «complimenti a maestri di ginnastica e palafrenie-
ri»22 – e liberare la concezione tragica della vita – nello
spirito di un pubblico ormai piú largo e composito – dal-
l’angustia della visione pindarica.
Il nobile Pindaro scrive per la cerchia ristretta dei
suoi pari, e tali li considera anche se, poeta di profes-
sione, egli esercita l’arte sua per guadagno. E poiché nei
suoi versi egli sostiene di esprimere soltanto la propria
opinione e pretende di essere ricompensato per una pre-
stazione che però fornirebbe anche gratis, ha l’aria del
dilettante che fa poesia esclusivamente per il proprio pia-
cere e per il bene della propria classe. Questo dilettan-
tismo fittizio suscita a prima vista l’impressione che
l’attività poetica voglia liberarsi del suo carattere pro-
fessionale, proprio mentre – in realtà – si compie il
passo decisivo verso la figura del letterato di professio-
ne. Già Simonide scrive versi su ordinazione e per qual-

Storia dell’arte Einaudi 82


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

siasi committente, proprio al modo dei sofisti che, piú


tardi, metteranno in vendita i loro argomenti; egli è il
loro precursore proprio in ciò per cui saranno piú
disprezzati23. Fra gli aristocratici vi sono anche veri
dilettanti, che partecipano, in via occasionale, alla com-
posizione e all’esecuzione dei cori; ma di regola sia i
poeti che gli esecutori sono artisti di professione, che
rappresentano, rispetto agli stadi precedenti, un’ulte-
riore differenziazione professionale. Il rapsodo era poeta
e declamatore ad un tempo; ora le funzioni si dividono:
il poeta non è piú cantore e il cantore non è piú poeta.
Questa divisione del lavoro mette piú che mai in evi-
denza la specializzazione della loro arte, dove il canto-
re ha perso anche quell’apparenza di dilettantismo che
sopravvive nel poeta vincolato dai suoi principî. I coreu-
ti formano un ceto professionale largamente diffuso e
ben organizzato, di modo che i poeti possono spedire i
carmi ordinati nella certezza che in nessun luogo diffi-
coltà tecniche si frapporranno alla loro esecuzione.
Come un direttore odierno è certo di trovare un’orche-
stra idonea in ogni grande città, cosí allora si poteva con-
tare dappertutto su un coro esercitato per le solennità
pubbliche e private. Questi cori erano mantenuti dai
membri della nobiltà e costituivano uno strumento di cui
potevano disporre illimitatamente.
L’etica nobiliare e l’ideale di bellezza fisica e spiri-
tuale dell’aristocrazia determinano anche le forme della
scultura e della pittura, anche se in queste forse non si
esprimono con la chiarezza con cui si esprimono nella
poesia. Le statue di nobili efebi vincitori ad Olimpia,
generalmente designate come «statue di Apollo», o le
figure dei frontoni di Egina, con la loro ostentata pre-
stanza e il loro fiero portamento, corrispondono esatta-
mente allo stile aristocratico ed eroicizzante, alla distan-
za arcaica delle odi pindariche. Soggetto della scultura
e della poesia è lo stesso ideale agonistico, lo stesso tipo

Storia dell’arte Einaudi 83


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

umano aristocraticamente selezionato ed atleticamente


perfetto. La partecipazione ai giochi olimpici è riserva-
ta alla nobiltà; essa sola dispone dei mezzi per prepa-
rarvisi e prendervi parte. La prima lista dei vincitori è
dell’anno 776 a. C.; la prima statua fu eretta, secondo
Pausania, nel 563. Fra queste due date cade l’epoca
migliore dell’aristocrazia. Che le statue dei vincitori
siano state istituite allo scopo di rianimare il fervore di
una generazione piú debole, meno ambiziosa, piú
meschina?
Le statue di atleti non miravano affatto alla somi-
glianza; erano ritratti ideali che, a quanto pare, servi-
vano soltanto a ricordare le vittorie e a diffondere la
fama dei giochi. È probabile che talvolta l’artista non
avesse neppure veduto il vincitore, e che dovesse ese-
guire la statua sulla base di una descrizione approssi-
mativa del modello24. La notizia riportata da Plinio,
secondo cui gli atleti potevano pretendere ad una statua
somigliante dopo la loro terza vittoria, deve riferirsi ad
un’epoca piú tarda. Nell’età arcaica, con ogni probabi-
lità, le statue non erano mai «somiglianti»; piú tardi è
possibile che si facesse la stessa distinzione che si fa oggi,
quando un piccolo premio resta affatto impersonale, un
grande premio, invece, reca il nome del vincitore e i par-
ticolari della gara. All’età arcaica, in ogni caso, era igno-
ta l’idea del ritratto come l’intendiamo noi moderni, per
quanto grandi abbiano potuto essere i progressi dell’in-
dividualismo nel corso di quel periodo.
Con lo sviluppo della vita urbana, l’intensificarsi
dei rapporti commerciali e l’affermarsi dell’idea di con-
correnza, la concezione individualistica si afferma in
ogni campo della vita spirituale. Anche l’economia del-
l’antico Oriente si era sviluppata in una cornice urbana,
e si fondava anch’essa in gran parte sul commercio e sul-
l’industria, ma, anche dove non era monopolio della
reggia e del tempio, era pur sempre tale da lasciar poco

Storia dell’arte Einaudi 84


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

spazio al gioco della competizione individuale. Nella


Jonia e in Grecia domina invece, almeno fra i cittadini
liberi, l’economia della libera concorrenza. L’inizio del-
l’individualismo economico mette fine alla redazione
dei poemi epici, e nello stesso tempo, col sorgere della
lirica, il soggettivismo comincia ad affermarsi anche
nella poesia; e non solo nei temi, nel carattere di per sé
piú personale del contenuto lirico nei confronti di quel-
lo epico, ma anche nella pretesa del poeta di essere rico-
nosciuto come autore delle proprie poesie. L’idea della
proprietà privata intellettuale si annunzia e mette radi-
ci. La poesia dei rapsodi era produzione collettiva, pro-
prietà comune e indivisa della scuola, della compagnia,
del gruppo; nessuno di loro considerava proprietà per-
sonale i poemi che recitava. I poeti dell’età arcaica, e
non soltanto i lirici del sentimento soggettivo, come
Alceo e Saffo, ma anche gli autori della lirica gnomica
e corale, parlano in prima persona all’uditorio. I generi
poetici inclinano a forme piú o meno individuali; in
tutte il poeta si esprime direttamente o si rivolge diret-
tamente al suo pubblico.
In quest’epoca, verso il 700 a. C., cominciano ad
apparire le prime opere firmate dell’arte figurativa: apre
la serie il vaso di Aristonothos, la piú antica opera fir-
mata. Nel secolo vi appaiono le prime personalità arti-
stiche chiaramente definite, una specie fino allora igno-
ta25. Né la preistoria, né l’antico Oriente, né l’epoca geo-
metrica dei Greci avevano mai saputo che cosa fossero
stile individuale, fini e ambizioni personali dell’artista;
in ogni caso, non avevano mai manifestato inclinazioni
del genere. Soliloqui come le poesie di Archiloco o di
Saffo, l’esigenza espressa da Aristonothos di essere
distinto da altri artisti, i tentativi di ripetere cose già
dette in modo diverso, se pur non sempre migliore, sono
fenomeni assolutamente nuovi, prodromi di uno svilup-
po che, se si prescinde dall’alto Medioevo, continuerà

Storia dell’arte Einaudi 85


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ininterrotto fino ai giorni nostri. Ma questa tendenza


deve vincere forti resistenze, specialmente nelle regioni
di cultura dorica, L’aristocrazia è di per sé ostile all’in-
dividualismo, e fonda i suoi privilegi su caratteri comu-
ni alla classe alla stirpe. Ma la nobiltà dorica dell’età
arcaica è ancor meno accessibile alle idee ed aspirazioni
individualistiche di quel che non sia la nobiltà in gene-
re e, in ispecie, di quel che non fosse la nobiltà dell’età
eroica o delle città mercantili della Jonia. L’eroe è sti-
molato dalla gloria, il mercante dal guadagno; entrambi
sono individualisti. Ma per la nobiltà terriera dorica gli
antichi ideali eroici da lungo tempo hanno perduto il
loro valore, e, d’altro canto, l’economia monetaria e
mercantile rappresenta un pericolo piú che un vantag-
gio. È naturale ch’essa preferisca trincerarsi dietro le tra-
dizioni della propria classe e cerchi d’impedire i pro-
gressi dell’evoluzione individualistica.
La tirannide, che alla fine del secolo vii usurpa il
potere, dapprima nelle maggiori città ioniche, poi in
tutta la Grecia, segna la vittoria decisiva dell’indivi-
dualismo sull’ideologia della stirpe, e, anche per questo
rispetto, è una forma di transizione alla democrazia, di
cui, nonostante il suo carattere antidemocratico, antici-
pa numerose conquiste. È vero che essa si rifà, col suo
sistema di accentramento monarchico, ad una fase anco-
ra pre-aristocratica, ma nello stesso tempo intraprende
la dissoluzione dello stato tribale, limita lo sfruttamen-
to del popolo da parte della nobiltà terriera e realizza a
pieno la trasformazione della produzione domestica e
naturale in economia monetaria e mercantile, determi-
nando la vittoria del mercante sul proprietario di terre.
I tiranni sono anch’essi grandi mercanti, spesso di nobi-
le origine, che approfittano dei conflitti sempre piú
numerosi fra classi abbienti e proletariato, fra oligarchia
e contadini, per impadronirsi del potere politico con
l’aiuto della loro ricchezza. Sono principi-mercanti, che

Storia dell’arte Einaudi 86


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

tengono una corte altrettanto splendida; e forse ancor


piú ricca di attrattive artistiche, di quella dei principi-
corsari dell’età eroica. Ma sono anche intenditori di cui
giustamente è stato detto che precorrono i principi del
Rinascimento, e che sono stati definiti «antenati dei
Medici»26. Come gli usurpatori del Rinascimento italia-
no, essi debbono far dimenticare l’illegittimità del loro
potere con la concessione di tangibili vantaggi e con la
magnificenza esteriore27; cosí si spiegano il liberalismo
economico e il mecenatismo che caratterizzano il loro
governo. L’arte, per loro, non è solo uno strumento di
gloria e di propaganda, ma è anche l’oppio che stordi-
sce i sudditi. Tale è l’origine del loro mecenatismo,
anche se spesso la loro politica artistica va unita ad uno
schietto amore per l’arte e ad una autentica compren-
sione. Le corti dei tiranni sono i principali centri cultu-
rali, ove confluisce la produzione artistica del tempo.
Quasi tutti i maggiori poeti sono al loro servizio: alla
corte di Gerone, a Siracusa, troviamo Bacchilide, Pin-
daro, Epicarmo, Eschilo; Simonide ad Atene, presso
Pisistrato; a Samo, Anacreonte è il poeta aulico di Poli-
crate, come Arione, a Corinto, lo è di Periandro. Pur
essendo fiorita presso le corti, l’arte delle tirannidi non
presenta caratteristiche spiccatamente auliche. Lo spi-
rito del tempo, razionalistico e individualistico, non per-
mette il risorgere delle forme solennemente rappresen-
tative e rigidamente convenzionali, che in generale
caratterizzano lo stile delle corti. A tale stile, nell’arte
di quest’epoca, risale, tutt’al piú, il gioioso sensualismo,
l’intellettualismo raffinato e la ricercata eleganza del-
l’espressione, tratti già visibili nell’anteriore tradizione
jonica e che le corti dei tiranni si limitarono a sviluppa-
re ancor piú28.
L’arte delle tirannidi, confrontata con quella di
tempi piú antichi, ci colpisce soprattutto per la povertà
dei tratti sacrali. Le opere sembrano quasi totalmente

Storia dell’arte Einaudi 87


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

libere da vincoli ieratici, e affatto esteriore il loro rap-


porto con la religione. Che si tratti di un idolo divino,
di un monumento sepolcrale, di un ex voto, l’uso cul-
tuale è solo il pretesto della loro esistenza; il loro vero
scopo e significato è la riproduzione piú perfetta possi-
bile del corpo umano, l’interpretazione della sua bellez-
za, la resa della sua forma sensibile, del tutto libera da
riferimenti magici e simbolici. Può darsi che la produ-
zione delle statue di atleti fosse collegata ad atti di culto,
che le kórai joniche servissero come doni votivi, ma
basta guardarle per convincersi che non potevano avere
nulla a che fare con sentimenti religiosi, e ben poco con
le tradizioni del culto. Basta confrontarle con qualunque
opera dell’antico Oriente, per rendersi conto della
libertà, anzi dell’arbitrio della raffigurazione. L’opera
orientale, idolo o ritratto, è in funzione del culto. Anche
le scene tratte dalla vita quotidiana sono in rapporto con
la fede nell’immortalità e col culto dei morti. Questo
rapporto fra culto ed arte sussiste per un certo tempo
anche fra i Greci (anche se fin dall’inizio meno stretto),
e non c’è dubbio che le statue dei loro primi tempi fos-
sero semplici doni votivi; cosa che Pausania afferma –
strano a dirsi – per tutti i monumenti dell’Acropoli29.
Ma proprio durante la tarda epoca arcaica l’intimo
legame fra, arte e religione si scioglie, e d’ora in poi la
produzione di opere profane cresce costantemente a sca-
pito dell’arte sacra. La religione continua pertanto a
vivere e ad operare, benché l’arte non sia piú al suo ser-
vizio. Anzi, nell’epoca della tirannide, si prepara un
rinascimento religioso che fa sorgere dappertutto nuove
fedi estatiche, nuovi misteri, nuove sette. Ma il loro
primo sviluppo è sotterraneo, ed esse non si affacciano
alla superficie dell’arte. E cosí non è piú l’arte a riceve-
re ordinazioni e stimoli dalla religione, ma è lo zelo reli-
gioso che viene stimolato dalla nuova maestria artistica
del tempo. Il costume di offrire agli dei, come doni

Storia dell’arte Einaudi 88


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

votivi, immagini di esseri viventi, riceve nuova spinta


dall’abilità degli artisti, che le rende sempre piú impo-
nenti, piú fedeli, piú attraenti e piú grate agli dei; i san-
tuari si riempiono di sculture30. Ma l’artista non dipen-
de piú dal clero, non è piú sotto la sua tutela e non ne
riceve ordinazioni. I suoi committenti sono le città, i
tiranni e, per lavori piú modesti, i ricchi privati; le opere
che egli esegue per loro non hanno funzioni magiche o
salutari, e, anche quando servono a fini sacri, non si pre-
sentano con la pretesa di essere sacre.
Eccoci di fronte ad un’idea completamente nuova
dell’arte: essa non è piú mezzo ad un fine, ma ha in se
stessa fine e scopo. Da principio ogni forma spirituale
si esaurisce nella sua utilità pratica; ma le forme dello
spirito hanno l’attitudine e la tendenza a svincolarsi
dalla loro destinazione originaria e a rendersi indipen-
denti, cioè gratuite ed autonome. Appena l’uomo si
sente sicuro e libero dalle preoccupazioni immediate
dell’esistenza, comincia a giocare con gli strumenti dello
spirito, che, nel bisogno, ha creato come armi e arnesi.
Comincia a indagare le cause, a cercare spiegazioni, a
scrutare rapporti che hanno poco o nulla in comune con
la sua lotta per l’esistenza. Dalla conoscenza pratica
nasce la ricerca disinteressata; i mezzi per domare la
natura diventano metodi per scoprire un’astratta verità.
E cosí, dall’arte che non è se non un elemento della
magia e del culto, uno strumento di propaganda e di apo-
logia, un mezzo per influire sugli dei, sui demoni e sugli
uomini, nasce la forma pura, autonoma, «disinteressa-
ta», un’arte in funzione di se medesima e della bellez-
za. Cosí infine dai precetti e dai divieti, dagli obblighi
e dai tabú, che in origine dovevano rendere possibile la
convivenza sociale degli uomini e garantire il loro reci-
proco accordo, nascono gli imperativi di un’etica
«pura», l’avvio alla formazione della personalità mora-
le. Il passaggio dall’attività pratica all’attività ideale,

Storia dell’arte Einaudi 89


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

dalla forma condizionata alla forma astratta, nella scien-


za come nell’arte e nella morale, è opera dello spirito
greco; come prima non c’è scienza pura, indagine teo-
retica, conoscenza razionale, cosí non c’è arte nel senso
nostro, cioè nel senso che permette di accogliere e gode-
re le creazioni artistiche come pura forma. Ma questo
passaggio dalla concezione per cui l’arte non è che un’ar-
ma nella lotta per la vita – e solo come tale ha senso e
valore – alla concezione per cui essa è indipendente da
ogni scopo pratico, da ogni utilità, da ogni interesse
eteronomo, come puro gioco di linee e di colori, puro
ritmo e armonia, pura imitazione e variazione della
realtà, segna forse la piú profonda trasformazione che si
sia mai prodotta nella storia dell’arte.
Nei secoli vii e vi a. C., e cioè nello stesso tempo in
cui scoprono la scienza come ricerca pura, i Greci della
Jonia creano anche le prime opere di un’arte pura, disin-
teressata, il primo accenno dell’«art pour l’art». Certo,
questo mutamento non si compie nello spazio di una
generazione, e neppure nel corso di tutto il periodo
della tirannide e dell’arcaismo; e forse non è una tra-
sformazione che si possa esaurire in termini cronologi-
ci. Quella che viene alla luce, è forse una tendenza anti-
ca quanto l’arte. Anche nelle primissime creazioni arti-
stiche questo o quel tratto può essere stato arte «pura»,
indipendente da ogni fine o intenzione pratica: già negli
oggetti della piú antica arte magica, cultuale e politico-
propagandistica, questo o quello schizzo, questa o quel-
la variante, poté nascere come puro gioco formale, che
trascurava per un attimo i compiti pratici. Insomma, chi
può dire quanta parte avessero ancora la magia, la pro-
paganda e il culto dei morti nella statua di un dio o di
un re egiziano, e quanto fosse già pura forma estetica,
autonoma, libera dalla lotta con la vita e con la morte?
Ma grande o piccola che fosse la parte di questo ele-
mento estetico autonomo nelle creazioni preistoriche e

Storia dell’arte Einaudi 90


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

protostoriche, fino all’arcaismo greco ogni arte fu, essen-


zialmente, arte in funzione di scopi. Il sereno giocar con
le forme, la facoltà di far dei mezzi un fine, la possibi-
lità di adoperare l’arte solo per rappresentare la realtà e
non per dominarla e modificarla, è la scoperta dei Greci
di quest’epoca. E se con ciò non fa che venire in luce
un’antichissima tendenza, il fatto ch’essa si affermi e
s’imponga e che d’ora in poi le opere d’arte siano crea-
te per se stesse, è di per sé della massima importanza,
anche se le forme che si pretendono autonome possono
essere sociologicamente determinate e servire celata-
mente a un fine pratico.
Lo sviluppo autonomo delle singole facoltà creatrici
presuppone la formalizzazione delle funzioni spirituali;
ma questa comincia quando si giudicano gli atti non piú
soltanto nella loro utilità pratica, ma anche nella loro
intrinseca perfezione. Cosí, quando si ammira il nemi-
co per la sua abilità o il suo coraggio, anziché negare
senz’altro il valore di una qualità che per noi può esse-
re rovinosa, si fa il primo passo verso una concezione
imparziale e formale dei valori: questa si manifesta,
chiarissima, nello sport, la paradigmatica «forma di
gioco» della lotta. Ma «forme di gioco» sono anche l’ar-
te, la scienza «pura» e in un certo senso anche la mora-
le, quando vengano esercitate come attività pura, a sé
stante, indipendente da ogni condizione esteriore.
Quando esse si separano l’una dall’altra e dal comples-
so della vita, la saggezza unitaria, il sapere indifferen-
ziato, la conchiusa immagine del mondo propria delle
piú antiche civiltà, si spezza in tre sfere di attività spi-
rituale: etico-religiosa, scientifica, artistica. Questa auto-
nomia delle sfere si manifesta in tutta la sua evidenza
nella filosofia naturale della scuola jonica dei secoli vii
e vi a. C. Qui, per la prima volta, troviamo forme di
pensiero piú o meno libere da considerazioni, riguardi e
mire pratiche. Certo, anche i popoli delle civiltà preel-

Storia dell’arte Einaudi 91


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

leniche facevano le loro osservazioni scientifiche, giun-


gendo a conclusioni e calcoli giusti; ma tutto il loro
sapere e la loro perizia erano permeati di riferimenti
magici, di fantasie mitiche, di dogmi religiosi, e sempre
legati all’idea di un’utilità. Presso i Greci noi troviamo
per la prima volta una scienza non solo razionalmente
organizzata, indipendente dalla fede e dalla supersti-
zione, ma, fino a un certo segno, libera da preoccupa-
zioni pratiche. Nell’arte il confine tra forma pratica e
forma pura è meno evidente, e la svolta non è chiara-
mente localizzabile anche se, con ogni probabilità, si
verificò anch’essa nel secolo vii, nelle regioni di civiltà
jonica. A rigore, già i poemi omerici appartengono al
mondo delle forme autonome: poiché non sono piú reli-
gione, scienza e poesia insieme, non comprendono piú
tutto ciò che vale la pena di conoscere, vedere e sapere
in una data epoca, ma sono soltanto, o quasi soltanto,
poesia. Comunque, la tendenza all’autonomia si afferma
anche nell’arte, come nella scienza, sullo scorcio del
secolo vii.
Perché la svolta verso l’autonomia delle forme si
verificò proprio in quel periodo e in quelle regioni? Tro-
viamo subito una risposta nel fenomeno della coloniz-
zazione e nelle ripercussioni che ebbe sui Greci la vita
in mezzo a popoli e civiltà straniere. L’elemento stra-
niero, che li circonda da ogni parte nell’Asia Minore, li
rende consapevoli della loro originalità; ma questa con-
sapevolezza e la conseguente accentuazione del proprio
essere, la scoperta e l’affinamento delle proprie caratte-
ristiche individuali, conduce involontariamente all’idea
della spontaneità e dell’autonomia. L’occhio che ha
appreso a riconoscere le differenze di mentalità tra i
diversi popoli, scopre a poco a poco anche la differenza
fra gli elementi di cui si compone la concezione del
mondo di ciascuno di essi. Se la dea della fecondità, il
dio del tuono o il genio della guerra sono rappresentati

Storia dell’arte Einaudi 92


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

diversamente da ciascuno di essi, l’attenzione comincia


a dirigersi sulla rappresentazione in sé, e prima o poi ci
si cimenta alla maniera altrui, ma senza collegare alla
rappresentazione la fede degli altri, anzi senza fede di
sorta. Di qui alla concezione della forma autonoma, scis-
sa dall’immagine unitaria del mondo, il passo è breve.
La coscienza dell’io, che integra e trascende l’occasione
attuale, è il primo grande risultato dell’astrazione; l’e-
mancipazione delle singole forme spirituali dalla loro
funzione nel complesso della vita e nella visione unita-
ria del mondo è un’ulteriore conquista.
La capacità di astrazione del pensiero, che conduce
all’autonomia delle forme, è promossa – oltre che dalle
circostanze e dalle esperienze della colonizzazione – dai
mezzi e dai metodi dell’economia monetaria. L’astrat-
tezza dei mezzi di scambio, la riduzione dei diversi beni
a un denominatore comune, lo scindersi dello scambio
nei due atti distinti della compra e della vendita, sono
tutti fattori che avvezzano l’uomo al pensiero astratto
e gli rendono familiare l’idea di una stessa forma per
diversi contenuti e di uno stesso contenuto in forme
diverse. Chi è già in grado di distinguere contenuto e
forma, non tarderà a concepirli come reciprocamente
indipendenti e a scorgere nella forma un principio auto-
nomo. Lo sviluppo di questa idea è favorito anch’esso
dall’accumulazione della ricchezza e dalla specializza-
zione professionale connesse all’economia monetaria.
Che si affranchino determinati elementi della società per
la creazione di forme autonome – cioè «inutili» e
«improduttive» – è segno di ricchezza, di mano d’ope-
ra esuberante e di ozio. L’arte si libera dalla magia e
dalla religione, dalla scienza e dalla pratica, solo quan-
do la classe dominante può concedersi il lusso di un’ar-
te gratuita.

Storia dell’arte Einaudi 93


Capitolo terzo

Classicità e democrazia

L’arte della Grecia classica presenta, a tutta prima,


un problema sociologico insolitamente arduo. La demo-
crazia, liberale e individualistica, e lo stile classico, rigo-
roso e schematico, sembrano inconciliabili. Ma una inda-
gine piú accurata rivela che né la democrazia dell’Ate-
ne classica è cosí radicale e intransigente, né l’arte della
democrazia ateniese è cosí rigorosamente «classica»
come potrebbe sembrare a prima vista. Il secolo v a. C.
è uno di quei periodi della storia dell’arte in cui matu-
rano le piú feconde conquiste del naturalismo. Non è
solo la classicità ancora arcaica delle sculture di Olim-
pia e dell’opera di Mirone: tutto il secolo, tranne brevi
pause, progredisce costantemente verso la natura. La
classicità greca si distingue dai classicismi tardivi e deri-
vati proprio per questo, che in essa l’amore della natu-
ra è forte quasi come l’aspirazione alla misura e all’or-
dine. Ma questo antagonismo dei principî informatori
dell’arte corrisponde alla tensione che domina le forme
sociali e politiche del tempo, e soprattutto al rapporto
contraddittorio dell’idea democratica col problema del-
l’individualismo. La democrazia è individualistica, in
quanto lascia libero corso alle forze in gara, stima cia-
scuno secondo il suo valore personale e lo sprona al mas-
simo rendimento; ma nello stesso tempo è antindivi-
dualistica, in quanto livella le disuguaglianze sociali e

Storia dell’arte Einaudi 94


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

annulla i privilegi della nascita. Ci troviamo ormai ad


uno stadio culturale cosí differenziato, che l’alternativa
fra l’individualismo e l’idea della comunità non si può
piú formulare in termini chiari ed univoci; l’uno e l’al-
tra sono indissolubilmente congiunti. Data la complica-
zione dei rapporti, anche la valutazione sociologica degli
elementi stilistici diventa piú difficile che negli stadi
anteriori. I diversi ceti, nei loro interessi e nei loro
scopi, non si lasciano piú definire cosí nettamente come
l’antica nobiltà terriera e il proletariato contadino nei
loro rapporti reciproci. Non solo le simpatie del ceto
medio sono divise, non solo la borghesia urbana assume
una posizione intermedia fra nobili e popolani, e aspira
tanto al livellamento democratico, quanto alla creazio-
ne di nuovi privilegi capitalistici; ma anche la nobiltà,
per il suo orientamento plutocratico, perde l’antica unità
e coerenza ideale, e s’avvicina al razionalismo della bor-
ghesia priva di tradizioni.
Né i tiranni né il popolo riuscirono a spezzare la
potenza dei nobili; lo stato tribale fu soppresso e si
affermarono, almeno formalmente, le fondamentali isti-
tuzioni democratiche; ma l’influsso della nobiltà perdurò
con poche restrizioni. Confrontata con i dispotismi
orientali, l’Atene del secolo v può considerarsi demo-
cratica, ma accanto alle democrazie moderne sembra
una roccaforte dell’aristocrazia. Si governa in nome del
popolo, ma secondo lo spirito della nobiltà. Per lo piú,
le vittorie e le realizzazioni politiche della democrazia
si devono a uomini di stirpe aristocratica; Milziade,
Temistocle, Pericle provengono da famiglie di antica
nobiltà. Solo nell’ultimo quarto del secolo membri del
ceto medio prendono realmente parte alla direzione
degli affari pubblici; ma l’aristocrazia conserva la pro-
pria egemonia nello stato. Deve, peraltro, dissimulare il
suo predominio e fare alla borghesia continue conces-
sioni, per lo piú soltanto formali. Che sia costretta a

Storia dell’arte Einaudi 95


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

tanto, è senza dubbio un certo progresso; ma la demo-


crazia politica non trapassa mai – neppure alla fine del
secolo – in democrazia economica; tutt’al piú, alla
nobiltà di sangue subentra un’aristocrazia del censo, e
lo stato aristocratico organizzato secondo i criteri tribali
cede il posto a uno stato plutocratico fondato sulle ren-
dite. Inoltre, Atene è una democrazia imperialistica:
conduce una politica di guerra, di cui godono i vantag-
gi i cittadini optimo iure e i capitalisti, a spese degli
schiavi e dei ceti esclusi dai profitti di guerra. Nel
migliore dei casi, i progressi della democrazia significa-
no un allargamento della classe che vive di rendita.
Poeti e filosofi non amano la borghesia, né ricca né
povera; appoggiano la nobiltà, anche se sono di origine
borghese. Tutti i grandi spiriti dei secoli v e iv, ad ecce-
zione dei sofisti e di Euripide, stanno nel campo del-
l’aristocrazia e della reazione. Aristocratici sono Pin-
daro, Eschilo, Eraclito, Parmenide, Empedocle, Ero-
doto, Tucidide; e Sofocle e Platone, benché figli di bor-
ghesi, sono del tutto solidali con la nobiltà. Perfino
Eschilo, il piú incline alla democrazia, si oppone, nei
suoi anni tardi, ad un’evoluzione, a suo giudizio, trop-
po progressiva31. Anche i commediografi del tempo –
benché la commedia sia di per sé un genere democrati-
co32 – hanno un orientamento reazionario; e nulla è piú
significativo per le condizioni di Atene del fatto che un
avversario della democrazia come Aristofane non solo
riesca sempre vincitore nei concorsi, ma riscuota gran-
di successi nel pubblico33. Queste tendenze conserva-
trici, se ritardano i progressi del naturalismo, non pos-
sono arrestarli. Ma dell’intima connessione fra natura-
lismo e politica progressista da un lato, rigorismo for-
male e spirito conservatore dall’altro, troviamo la prova
in Aristofane, che delle tragedie di Euripide critica ad
un tempo – e per le stesse ragioni – la violazione degli
antichi ideali di vita aristocratica e dell’antico «ideali-

Storia dell’arte Einaudi 96


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

smo» artistico. Secondo Aristotele, Sofocle stesso dice-


va di rappresentare gli uomini come dovrebbero essere,
mentre Euripide li rappresentava come sono (Poet.,
1460 b, 33-35). Ma queste parole non sono che una
diversa formulazione del concetto aristotelico, secondo
cui le figure di Polignoto e i caratteri di Omero «sono
migliori di quel che noi siamo in realtà» (Poet., 1448 a,
5-15), sicché probabilmente il detto attribuito a Sofo-
cle non è autentico. Comunque, – sia stato Sofocle il
primo a formularla, oppure Aristofane, o Aristotele, o
altri – la definizione dello stile classico come «ideali-
smo» e dell’arte classica come rappresentazione di un
mondo perfetto, di un’umanità migliore, caratterizza
bene la forma mentis aristocratica predominante in quel-
l’epoca. L’idealismo estetico della cultura aristocratica
si fa sentire anzitutto nella scelta dei soggetti. L’aristo-
crazia preferisce, anzi sceglie esclusivamente, i temi del-
l’antico mito ellenico, le storie degli dei o degli eroi; i
motivi del presente e della vita quotidiana le sembrano
volgari e insignificanti. Sulle prime, lo stile naturalisti-
co suscita la sua avversione solo indirettamente, in
quanto è lo stile corrente per trattare i temi moderni;
ma quando, ed è il caso di Euripide, essa lo vede cimen-
tarsi coi grandi soggetti storici, lo aborre ancor piú che
nei generi popolareschi, dove almeno è adeguato alla tri-
vialità dei soggetti.
La tragedia è la creazione piú caratteristica della
democrazia ateniese; in nessun altro genere si esprimo-
no con tanta chiarezza e immediatezza le intime con-
traddizioni della sua struttura sociale. La sua forma este-
riore, il suo rivolgersi a un gran pubblico, è democrati-
co; ma aristocratico è il contenuto, il mito eroico e il
senso eroico-tragico della vita. Fin dall’inizio la tragedia
si rivolge ad un pubblico piú numeroso e piú vario di
quello del carme eroico, destinato ai nobili conviti, e
forse anche di quello dell’epos; d’altra parte, essa è tutta

Storia dell’arte Einaudi 97


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ispirata all’etica della grandezza individuale, dell’uomo


nobile, fuor del comune, incarnazione dell’aristocratica
kalokagathía. Essa deve la propria origine al contrapporsi
del corifeo al coro e al trapasso dalla forma corale del
canto alla forma dialogica del dramma, e cioè a motivi
essenzialmente individualistici; la sua efficacia presup-
pone, d’altra parte, un forte senso della comunità, un
vasto livellamento di ceti relativamente estesi; e può
attuarsi nella sua forma genuina solo come esperienza di
massa.
Certo, anche la tragedia si rivolge ad un pubblico
scelto che, nel migliore dei casi, è formato dall’insieme
dei cittadini optimo jure, e non ha quindi una composi-
zione molto piú democratica delle classi dominanti nella
polis. Ma lo spirito del teatro ufficiale è ancor meno
popolare del suo pubblico, poiché nella scelta dei dram-
mi e sulla distribuzione dei premi non hanno un influs-
so decisivo neppure quelle masse, già selezionate in anti-
cipo, che assistono alle rappresentazioni. Ciò compete
esclusivamente ai ricchi, che provvedono alla liturgia, e
alla giuria, che non è che l’organo esecutivo dei magi-
strati e nei suoi giudizi si lascia guidare soprattutto da
considerazioni politiche. Il libero accesso e il compenso
offerto agli spettatori per il tempo trascorso a teatro –
provvidenze generalmente esaltate come il massimo
trionfo della democrazia – sono invece tali da vietare a
priori ogni influsso delle masse sul destino del teatro;
poiché solo un teatro che dipenda dai propri introiti può
essere veramente popolare. La concezione, messa in
voga dal classicismo e dal romanticismo, del teatro atti-
co come prototipo del teatro nazionale, e del suo pub-
blico come ideale di un intero popolo riunito in una
comune idealità artistica, è una deformazione della
verità storica34. I ludi scenici della democrazia ateniese
non erano affatto teatro popolare; classici e romantici
poterono crederlo solo perché nel teatro essi vedevano

Storia dell’arte Einaudi 98


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

soprattutto un istituto culturale. Il vero teatro popola-


re dell’antichità classica fu il mimo, che non riceveva
sovvenzioni e quindi neppure direttive dall’alto, e attin-
geva i propri criteri solo dall’immediata esperienza del
pubblico. Esso non offriva drammi sapientemente
costruiti, con azioni tragiche ed eroiche, nobili e subli-
mi, ma brevi scene a mo’ di bozzetti naturalisticamen-
te disegnati, con temi e tipi tratti dalla semplice vita
quotidiana. Qui troviamo per la prima volta un’arte
fatta non solo per il popolo, ma – almeno in una certa
misura – dal popolo stesso. Anche se – com’è possibile
– i mimi erano attori di professione, erano pur sempre
attori popolari, e non avevano nulla a che fare con l’é-
lite culturale, almeno finché non diventarono di moda
in società. Venivano dal popolo, ne condividevano i
gusti e attingevano dalla sua saggezza pratica. Non vole-
vano istruire né educare gli ascoltatori, ma soltanto
intrattenerli. Questo teatro naturalistico e senza prete-
se aveva dietro di sé uno sviluppo assai piú lungo e con-
tinuo, e poteva presentare una produzione assai piú
ricca e varia del teatro classico ufficiale; ma le sue pro-
duzioni sono andate quasi interamente perdute. Se si
fossero conservate, avremmo forse una diversa idea della
letteratura e, verosimilmente, di tutta la civiltà greca.
Non solo il mimo è assai piú antico della tragedia, ma
probabilmente risale alla preistoria, e il suo sviluppo si
ricollega direttamente alle danze magico-mimiche, ai riti
della vegetazione, ai sortilegi della caccia e al culto dei
morti. La tragedia, che nasce dal ditirambo, genere in
sé non drammatico, deve quasi certamente al mimo la
forma drammatica; e cioè la metamorfosi dei figuranti
nei personaggi fittizi dell’azione e la trasposizione del
passato epico nel presente. In essa, d’altronde, l’ele-
mento drammatico rimane subordinato all’elemento liri-
co-didascalico; già la sopravvivenza del coro prova che
la tragedia non mira esclusivamente all’effetto dram-

Storia dell’arte Einaudi 99


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

matico e deve servire anche a fini diversi dal diverti-


mento del pubblico.
Nei ludi scenici la polis possiede il piú prezioso stru-
mento di propaganda, e non è certo disposta ad abban-
donarlo all’arbitrio dei poeti. I tragici sono degli sti-
pendiati dello stato e suoi fornitori; questo li remunera
per le opere rappresentate, ma naturalmente fa rappre-
sentare solo quelle opere che corrispondono alla sua
politica e agli interessi dei ceti dominanti. Le tragedie
sono opere di tendenza né vogliono dissimularlo: trat-
tano questioni di attualità politica e s’imperniano su
problemi piú o meno direttamente connessi con la que-
stione piú scottante del momento, il rapporto fra lo
stato tribale e lo stato popolare. Se, come si racconta,
Frinico fu punito perché fece oggetto di un dramma la
presa recente di Mileto, ciò accadde, con ogni probabi-
lità, perché la trattazione del tema non rispondeva alla
concezione ufficiale, non perché egli avesse violato il
principio dell’«art pour l’art»35. L’idea di un teatro libe-
ro da ogni rapporto con la vita e con la politica era lon-
tanissima dalla concezione artistica del tempo. La tra-
gedia greca era «teatro politico» nel senso piú stretto
della parola; la fervida preghiera per la prosperità dello
stato attico nel finale delle Eumenidi mostra a che cosa
soprattutto essa mirasse. In stretto rapporto con questa
politicizzazione del teatro è il fatto che il poeta viene
nuovamente considerato come il custode di una sublime
verità e come l’educatore del suo popolo a un’umanità
superiore. Poiché le rappresentazioni fanno parte delle
feste organizzate dallo stato, e poiché la tragedia è
diventata l’interprete autorevole del mito, egli torna ad
avvicinarsi al sacerdote e al mago della preistoria.
L’insediamento del culto di Dioniso a Sicione ad
opera di Clistene è una mossa politica con cui il tiranno
cerca di soppiantare il culto di Adrasto, caro alla nobiltà;
e le Dionisie introdotte ad Atene da Pisistrato sono

Storia dell’arte Einaudi 100


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

feste politico-religiose, dove il fattore politico è di gran


lunga prevalente; ma le istituzioni e le riforme cultuali
dei tiranni si fondano su veri sentimenti e bisogni reli-
giosi del popolo, e a questa disposizione sentimentale
debbono – in parte – il loro successo. La democrazia,
come già la tirannide, si serve della religione soprattut-
to per legare le masse al nuovo stato. Per questa allean-
za di politica e religione, la tragedia si rivela l’interme-
diaria ideale, proprio perché sta a metà strada fra la reli-
gione e l’arte, fra il razionale e l’irrazionale, fra il dio-
nisiaco e l’apollineo. Il momento razionale, il nesso cau-
sale dell’azione drammatica, svolge nella tragedia fin
dall’inizio una parte quasi altrettanto importante di
quella svolta dall’elemento irrazionale, dall’emozione
tragico-religiosa. Ma via via che l’arte classica diventa
piú matura, il principio razionale prende il sopravvento
sull’altro. Infine tutto quel che è torbido ed oscuro,
mistico ed estatico, incontrollato e inconscio, entra nella
luce meridiana delle forme sensibili; e dovunque si cerca
la coerenza dei personaggi, il nesso causale, il fonda-
mento logico. Il dramma, il genere piú razionalistico, in
cui la motivazione serrata e conseguente è della massi-
ma importanza, è anche la forma piú classica. Qui si
vede chiaramente quanta parte abbiano nell’arte classi-
ca il naturalismo e il razionalismo, e come i due principî
possano accordarsi tra loro.
Nell’arte figurativa naturalismo e stilizzazione sono
ancor piú strettamente collegati che nel dramma, dove
la tragedia incline al rigorismo formale e il mimo veri-
stico formano due generi distinti, e il naturalismo della
tragedia si limita alla verosimiglianza logica dell’azione
e alla plausibilità psicologica dei caratteri. Nella scultu-
ra e nella pittura, invece, anche il brutto, il comune, il
triviale sono temi importanti della rappresentazione.
Nei frontoni del tempio di Zeus ad Olimpia, il docu-
mento piú rappresentativo della prima arte classica, tro-

Storia dell’arte Einaudi 101


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

viamo un vecchio con la pelle del ventre floscia e cascan-


te, e un Lapita dalla brutta faccia negroide. La scelta dei
motivi non è piú esclusivamente dominata dal principio
della kalokagathía. La pittura vascolare dell’epoca si
esercita nella prospettiva e negli scorci, e si libera anche
degli ultimi resti del geometrismo e della frontalità arcai-
ca. Gli sforzi di Mirone si appuntano già a ritrarre il
gesto vivace e spontaneo. Tutta la sua attenzione è rivol-
ta al movimento, allo slancio improvviso, all’atteggia-
mento teso e dinamico. Egli cerca di fissare il moto fug-
gevole, l’impressione istantanea. Per rappresentare il
discobolo, sceglie il momento piú labile, piú intenso, piú
acuto: l’attimo precedente il lancio del disco. Qui, per
la prima volta dall’età paleolitica, viene colto il valore
del «momento pregnante». Comincia la storia dell’illu-
sionismo occidentale, e finisce quella della rappresenta-
zione ideale, concettuale, conforme a certe «vedute»
fondamentali. Siamo, in altri termini, in una fase in cui
la forma, per quanto bella, equilibrata, decorativa, non
basta piú a giustificare alcun fallo contro le leggi dell’e-
sperienza. Le conquiste del naturalismo non s’inseri-
scono piú in un sistema di tradizioni immutabili; la rap-
presentazione dev’essere sempre e comunque fedele e
sono le tradizioni a dover cedere, quando appaiono
inconciliabili con la fedeltà della rappresentazione.
La vita è divenuta dinamica, sciolta, libera da rigi-
de tradizioni e pregiudizi, come non mai dopo la fine
dell’era paleolitica. Sono cadute tutte le restrizioni este-
riori e istituzionali della libertà individuale: non piú
despoti, o tiranni; né clero ereditario, né chiesa auto-
noma, né libri sacri; né dogmi rivelati; nessun esplicito
monopolio economico e nessuna limitazione formale
della libera concorrenza; tutto favorisce lo sviluppo di
un’arte mondana che, amante della vita, apprezza l’at-
timo fuggente. Ma accanto a questa tendenza dinamica
e progressiva agiscono ancora le antiche forze conser-

Storia dell’arte Einaudi 102


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

vatrici; la nobiltà, che si aggrappa ai suoi privilegi e cerca


di mantenere, con lo stato tribale autoritario, l’antica
economia di monopolio, cerca anche di salvaguardare
nell’arte il valore delle forme rigide, statiche, arcaiche.
E cosí tutta la storia dell’arte classica si configura come
l’alterno predominio dei due opposti stili. Dopo il mosso
inizio del secolo, la soluzione di Policleto introduce una
pausa; poi, nelle sculture del Partenone, si realizza una
sintesi delle due tendenze, che, verso la fine del secolo,
cede a una nuova ondata naturalistica. Ma la contrap-
posizione troppo netta delle due correnti stilistiche
sarebbe, anche nei casi estremi, una semplificazione
inopportuna della realtà storica, tanto piú complessa e
sottilmente ramificata. Naturalismo e stilizzazione, nel-
l’arte classica, sono quasi sempre indissolubili, anche se
il loro equilibrio non è sempre cosí perfetto come nel
Banchetto degli Dei nel fregio del Partenone o, per cita-
re un’opera piú modesta, in quell’Atena pensosa del
museo dell’Acropoli, che, nel suo pieno abbandono pur
nel dominio assoluto della forma, nel suo completo supe-
ramento di ogni sforzo, spasimo ed eccesso, nella sua
libertà e nella sua leggerezza, nella sua calma e nel suo
riserbo, non ha confronti al di fuori dell’arte classica.
Ma sarebbe un grave errore vedere nelle condizioni
sociali dell’Atene contemporanea le premesse necessarie,
o anche soltanto le premesse ideali, della nascita di
un’arte simile e cosí alta. Il valore artistico non ha alcun
equivalente sociologico; tutt’al piú, la sociologia può
ricondurre alla loro origine gli elementi di cui si com-
pone un’opera d’arte, ma questi elementi possono esse-
re gli stessi in opere di qualità diversissima.

Storia dell’arte Einaudi 103


Capitolo quarto

L’illuminismo greco

Via via che il secolo s’avvicina alla fine, prevalgono


nell’arte gli elementi naturalistici, individualistici, sog-
gettivi ed emotivi. Si passa dal tipico al caratteristico,
dalla concentrazione alla molteplicità dei temi, dalla
sobrietà all’esuberanza. Nella letteratura comincia l’e-
poca della biografia, nell’arte figurativa quella del ritrat-
to. Lo stile della tragedia si avvicina al tono del discor-
so comune e assume il colorito impressionistico della liri-
ca. I caratteri interessano piú dell’azione, le nature com-
plicate ed eccentriche piacciono piú di quelle semplici e
normali. Nelle arti figurative si pone l’accento sul volu-
me e sulla prospettiva, si prediligono la veduta di tre
quarti, lo scorcio, l’intersezione dei piani. Le steli fune-
rarie rappresentano scene raccolte, intime, casalinghe; la
pittura vascolare ricerca l’idillio, la tenerezza, la grazia.
A ciò corrisponde, nel campo filosofico, la rivolu-
zione spirituale dei sofisti, che, nella seconda metà del
secolo v, sovvertono l’immagine del mondo ancora fon-
data sulle premesse della civiltà aristocratica. Questo
movimento, che affonda le sue radici in quelle stesse
condizioni – economia monetaria, urbanesimo e bor-
ghesia – che determinano la svolta naturalistica dell’ar-
te, contrappone alla kalokagathía nobiliare un nuovo
ideale di cultura, e pone le basi di un’educazione, che,
anziché coltivare le qualità irrazionali della physis, si

Storia dell’arte Einaudi 104


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

propone di formare i cittadini consapevoli, perspicaci ed


eloquenti. Le nuove virtú borghesi, che subentrano agli
ideali cavallereschi ed agonali della nobiltà, si fondano
sulla scienza, sul pensiero logico, sull’educazione della
mente e dell’eloquio. Per la prima volta nella storia del-
l’umanità, si mira a coltivare l’intelletto. Basta ram-
mentare Pindaro e il suo scherno per i «dotti» per misu-
rare tutta la distanza che separa il mondo dei sofisti da
quello dei maestri di ginnastica spartani. Qui, nel mondo
dei sofisti, sorge per la prima volta l’idea di un’intelli-
ghenzia che non è piú un ceto professionale circoscritto,
come il clero dei tempi preistorici o protostorici, o come
i rapsodi dell’età omerica, ma un vivaio d’uomini abba-
stanza vasto per garantire la formazione delle nuove
generazioni che saranno chiamate a dirigere la polis.
I sofisti partono dal presupposto dell’illimitata edu-
cabilità dell’uomo, e in contrasto con l’antica teoria
mistica del sangue, credono che si possa insegnare la
«virtú». Col loro ideale di educazione nasce il concetto
occidentale di cultura, fondato sulla consapevolezza,
sulla capacità di esame e di critica36. Con loro comincia
la storia del razionalismo, la critica dei dogmi, dei miti,
delle tradizioni e delle convenzioni. Con loro nasce l’i-
dea del relativismo storico, la consapevolezza del con-
dizionamento storico delle verità scientifiche, delle
norme etiche e degli articoli di fede. Essi sono i primi
che in tutti i valori e in tutti gli ordinamenti: nella
scienza, nel diritto, nella morale, nel mito, nell’imma-
gine degli dei, vedono forme storiche, create dallo spi-
rito e dalla mano dell’uomo. Scoprono la relatività del
vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto, del bene e del
male; riconoscono l’origine pragmatica delle valutazio-
ni umane, e sono i precursori di tutte le tendenze uma-
nistiche e illuministiche. Il loro razionalismo e relativi-
smo è del resto connesso con lo stesso stile economico,
con le stesse tendenze della libera concorrenza e della

Storia dell’arte Einaudi 105


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

corsa al guadagno, da cui nasceranno la concezione rina-


scimentale della natura, l’illuminismo del secolo xviii e
il materialismo del xix. Il capitalismo antico apre ai
sofisti prospettive simili a quelle che il capitalismo
moderno apre ai loro successori.
Nella seconda metà del secolo v, l’arte è sotto l’in-
flusso delle stesse esperienze che determinano le idee dei
sofisti; ma un movimento spirituale come la sofistica, col
suo stimolante umanesimo, non poteva non esercitare un
influsso diretto sulla visione degli artisti e dei poeti. E,
nel secolo iv, non c’è genere artistico in cui non sia dato
di avvertirlo. Ma dove meglio si rivela il nuovo spirito
è nel tipo atletico che, con Prassitele e Lisippo, sosti-
tuisce l’ideale virile di Policleto. L’Hermes e l’Apoxyo-
menos non hanno piú nulla di eroico, nulla di aristocra-
ticamente rigido e sdegnoso, e sembrano danzatori piú
che atleti. Il loro spirito si esprime in tutto l’atteggia-
mento, freme di vita il loro corpo, i nervi vibrano sotto
l’epidermide. Il loro aspetto reca i segni di quell’«irri-
petibilità» che i sofisti osservano e sottolineano nei pro-
dotti dello spirito. Il loro essere è carico di dinamismo,
pieno di forza latente e di movimento. Non permettono
allo spettatore di fissarsi su una veduta, perché non
obbediscono piú ad alcuna «veduta fondamentale»; inve-
ce, accentuando l’incompiutezza e la provvisorietà dei
singoli profili, lo costringono a mutare continuamente la
propria posizione, facendo a poco a poco il giro della
figura, fino a constatare la relatività di ogni profilo sin-
golo. Ma anche questo non è che un parallelo della dot-
trina sofistica, secondo cui ogni verità, ogni norma, ogni
valore ha una struttura prospettica e muta col mutare del
punto di vista. Soltanto ora l’arte si scioglie dagli ultimi
vincoli del geometrismo, e scompaiono le ultime tracce
della frontalità. L’Apoxyomenos è già tutto assorto in se
stesso, nel proprio essere, e ignora lo spettatore. Nel-
l’individualismo e nel relativismo dei sofisti, nell’illu-

Storia dell’arte Einaudi 106


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

sionismo e nel soggettivismo dell’arte ad essi contem-


poranea si esprime il medesimo spirito del liberalismo
economico e della democrazia, lo stesso abito mentale di
una generazione che non attribuisce piú alcun valore
all’antico decoro aristocratico, alla solennità e grandio-
sità dell’aspetto, perché deve tutto a se stessa e nulla agli
antenati, e che manifesta i suoi sentimenti e le sue pas-
sioni con una sincerità senza riserve, perché è penetra-
ta dell’idea dell’uomo come misura di tutte le cose.
Il mondo intellettuale dei sofisti trova la sua espres-
sione piú completa e artisticamente piú alta in Euripi-
de, l’unico vero poeta dell’illuminismo greco. I sogget-
ti mitici sembrano per lui solo un pretesto per trattare
le piú attuali questioni filosofiche e i piú scottanti pro-
blemi della vita cittadina. Francamente e liberamente,
egli discute le relazioni fra i sessi, il matrimonio, la con-
dizione della donna e dello schiavo, e fa della leggenda
di Medea quasi un dramma borghese37. La sua eroina in
rivolta contro il marito è forse piú vicina alle donne di
Hebbel e di Ibsen che alle eroine della tragedia ante-
riore. Che c’è di comune tra queste e una donna che
dichiara volerci piú coraggio per mettere al mondo i
figli che per compiere eroiche gesta in guerra? Ma l’im-
minente dissoluzione della tragedia non si annunzia sol-
tanto nella visione anti-eroica: l’interpretazione scetti-
ca del fato e la teodicea negativa di Euripide ne sono
altri segni. Eschilo e Sofocle credevano ancora «all’im-
manente giustizia del corso del mondo»; per Euripide,
l’uomo non è ormai che un trastullo del caso38. Alla
profonda commozione che prendeva lo spettatore al
compiersi della volontà divina, subentrano ora la mera-
viglia per la stranezza del destino umano e lo sgomento
davanti al repentino mutar della fortuna. Da questa
visione, in tutto conforme al relativismo dei sofisti, pro-
cede l’amore del fortuito e del bizzarro, cosí caratteri-
stico di Euripide e di tutta la produzione successiva. Il

Storia dell’arte Einaudi 107


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

gusto per le peripezie del destino spiega pure la predi-


lezione per la tragedia a «lieto fine». In Eschilo l’esito
felice è ancora un residuo del mistero primitivo, dove al
martirio del dio segue la resurrezione39, ed è quindi l’e-
spressione di un ottimismo profondamente religioso. In
Euripide, invece, il lieto fine non è per nulla edifican-
te, essendo un dono dello stesso cieco caso che ha get-
tato l’eroe nella sventura. In Eschilo, la conciliazione
finale lasciava intatta la tragicità degli avvenimenti, in
Euripide la abolisce almeno in parte. Il naturalismo psi-
cologico che domina il dramma euripideo finisce per
dissolvere il senso tragico-eroico della vita. Il semplice
fatto che si discuta dell’esistenza o meno della colpa
rende impossibile la commozione tragica. Gli eroi di
Eschilo sono colpevoli perché una maledizione pesa su
di loro40: questa maledizione è qualcosa di oggettivo e
incontrovertibile. L’idea della sofferenza dell’innocen-
te e dell’ingiustizia del fato non affiora neppure. Solo
in Euripide il punto di vista soggettivo viene accolto, si
accusa e si giustifica, si discute sul diritto e sulla respon-
sabilità. Soltanto ora i caratteri tragici assumono quel-
l’elemento patologico che permette allo spettatore di
ritenerli ad un tempo colpevoli e innocenti. L’elemento
patologico adempie a un duplice compito: soddisfa il
gusto dell’epoca per lo straordinario e serve alla giusti-
ficazione psicologica dell’eroe. Nel dibattere il proble-
ma della colpa e i motivi dell’azione tragica, si manife-
sta un altro aspetto del dramma euripideo, che provie-
ne anch’esso dalla sofistica: il gusto retorico. Ma questo
gusto, come quello per la sentenza filosofica, cosí carat-
teristico di Euripide, tradisce l’incipiente declino del
livello estetico, o piuttosto l’irruzione troppo brusca
nella poesia di materiale nuovo, non elaborato artisti-
camente.
La personalità poetica di Euripide, confrontata a
quella dei suoi predecessori, appare affatto moderna;

Storia dell’arte Einaudi 108


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

anche come tipo sociale, egli si ricollega ai sofisti. È let-


terato e filosofo, democratico e amico del popolo, poli-
tico e riformatore; ma, come i suoi maestri, è senza
classe, non ha radici sociali. Già nell’epoca delle tiran-
nidi abbiamo incontrato poeti come Simonide, che eser-
citavano la loro professione per lucro, vendevano i loro
versi, conducevano una vita raminga, senza una stabile
posizione, trattati dai padroni come ospiti e servitori a
un tempo; letterati di mestiere, ma ben lungi dal for-
mare un ceto professionale indipendente. Non solo man-
cava uno strumento di diffusione delle loro opere cor-
rispondente alla stampa, ma mancava altresí una doman-
da diffusa di prodotti poetici che avrebbe potuto con-
durre a qualcosa come un mercato libero. Il numero
degli interessati era cosí esiguo, che sarebbe stato assur-
do pensare ad un’indipendenza economica dei poeti.
Socialmente, i sofisti sono i successori diretti dei poeti
dell’epoca delle tirannidi: sono anch’essi sempre in viag-
gio, conducono una esistenza irregolare, economica-
mente incerta; però non sono piú parassiti, non si rivol-
gono piú a un piccolo numero di protettori, ma a una
cerchia di clienti relativamente vasta, impersonale e
neutra. Non soltanto essi non appartengono ad una clas-
se determinata, ma neppure vi aderiscono: gruppo socia-
le senza precedenti. La loro filosofia è democratica, le
loro simpatie vanno ai conculcati e agli oppressi, ma essi
si guadagnano la vita insegnando alla gioventú nobile e
facoltosa; i poveri non possono pagare né usufruire del
loro insegnamento. Essi sono dunque i primi rappre-
sentanti di quell’«intellighenzia fluttuante»41, social-
mente apolide, perché non s’inserisce interamente nel
quadro di nessuna classe, perché nessuna può accoglier-
la interamente in sé. In tutto il suo habitus sociale, Euri-
pide appartiene a questa intellighenzia libera e senza
radici, continuamente oscillante fra le varie classi; social-
mente, egli prova tutt’al piú delle simpatie, ma nessuna

Storia dell’arte Einaudi 109


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

solidarietà. Eschilo crede ancora nella possibilità di con-


ciliare la democrazia col suo ideale aristocratico della
personalità, benché abbandoni la democrazia proprio
nella fase decisiva dello sviluppo; mentre Sofocle fin da
principio, sacrifica l’idea dello stato popolare democra-
tico agli ideali dell’etica nobiliare; e nella lotta fra il
diritto familiare privato e il potere assoluto ed eguali-
tario dello stato parteggia risolutamente per l’idea tri-
bale. Nell’Orestiade Eschilo mostra ancora un esempio
raccapricciante di vendetta42; Sofocle, nell’Antigone,
prende già partito per l’eroina che insorge contro lo
stato democratico, e, nel Filottete, esprime senza amba-
gi la sua ostilità contro l’astuzia senza scrupoli e l’abi-
lità «borghese» di Odisseo43. Euripide è un sincero
democratico, ma ciò significa, praticamente, che egli è
contro l’antico stato aristocratico, piuttosto che a favo-
re del nuovo stato borghese. Il suo spirito indipenden-
te si manifesta in un atteggiamento scettico di fronte
allo stato in generale44.
La figura del poeta moderno, che in Euripide trova
il primo rappresentante, si rivela in due tratti caratteri-
stici: l’insuccesso artistico e la geniale inesperienza del
mondo. Nel corso di cinquant’anni, con una produzio-
ne enorme (ci sono stati tramandati i testi completi di
diciannove drammi, frammenti di cinquantacinque e i
titoli di novantadue), Euripide non ebbe piú di quattro
premi; egli non fu dunque un drammaturgo fortunato;
e certo non fu né il primo né il solo, ma, comunque, il
primo grande poeta di cui ci sia noto l’insuccesso. Ciò
avvenne non perché prima di lui ci fossero piú intendi-
tori, ma perché c’erano meno poeti; la padronanza mec-
canica della tecnica bastava ad assicurare il successo. Al
tempo di Euripide questo stato di cose è ormai supera-
to; almeno per il teatro, si produce troppo, non già trop-
po poco. Ma il pubblico dell’epoca non è fatto solo d’in-
tenditori. Il suo gusto infallibile è una favola, come

Storia dell’arte Einaudi 110


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

quella che lo finge democraticamente composto di tutta


la popolazione della polis. I tiranni di Sicilia e di Mace-
donia, presso cui Euripide e lo stesso Eschilo, tanto piú
fortunato, trovarono rifugio dai raffinati ateniesi, si
dimostrarono un pubblico migliore. L’altro tratto di
sapore moderno, che Euripide introduce nella storia
della letteratura, è la rinuncia apparentemente sponta-
nea ad avere una parte nella vita pubblica. Euripide
non fu un soldato come Eschilo, non ebbe dignità sacer-
dotali come Sofocle, e perciò si parla di lui come del
primo poeta che visse tra i libri, in solitudine. Se dob-
biamo credere al ritratto che ce lo rappresenta coi capel-
li incolti, gli occhi stanchi e la piega amara della bocca,
e se non erriamo a scorgervi un contrasto fra corpo e spi-
rito e l’espressione di un’anima inquieta e insoddisfat-
ta, egli fu forse il primo poeta infelice, vittima della sua
poesia.
Non solo l’idea del genio in senso moderno è estra-
nea all’antichità classica, ma i suoi poeti, i suoi artisti
non hanno in sé nulla di «geniale». Presso di loro, gli
elementi razionali e tecnici dell’arte prevalgono sugli
elementi irrazionali e intuitivi. La teoria platonica del-
l’entusiasmo sottolinea – è vero – che i poeti debbono
le loro opere a un’ispirazione divina, e non alla perizia
tecnica. Ma quest’idea non conduce a una esaltazione
del poeta, anzi accresce il distacco tra il poeta e la sua
opera, facendo di lui un semplice strumento dell’inten-
zione divina45. Mentre il concetto moderno del genio
consiste essenzialmente nell’idea di un’intima unione fra
l’artista e l’opera, o, se un distacco si ammette, nell’i-
dea che il genio sia superiore alla sua opera e non mai
del tutto contenuto in essa. Quindi la solitudine, l’in-
capacità di comunicarsi interamente: elemento tragico
del genio quale noi lo concepiamo. E non solo questo,
ma anche l’altro elemento tragico dell’artista moderno
– quello di essere misconosciuto dai contemporanei, e il

Storia dell’arte Einaudi 111


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

suo disperato appello alla posterità – è praticamente


ignoto all’antichità classica46; prima di Euripide, in ogni
caso, non si vede traccia né dell’uno né dell’altro.
Lo scarso successo di Euripide si dovette soprattut-
to alla mancanza, nell’antichità classica, di un ceto medio
colto. L’antica nobiltà non trovava nessun piacere nei
suoi drammi per ragioni ideologiche; il nuovo pubblico
borghese, per ragioni culturali. Euripide, col suo radi-
calismo filosofico, è un caso unico anche fra i poeti della
tarda classicità; questi, come i poeti e i filosofi della
prima classicità, sono di tendenze affatto conservatrici,
benché il naturalismo, sviluppatosi con la vita urbana e
l’economia monetaria, tocchi nella loro arte un livello
difficilmente conciliabile col loro conservatorismo poli-
tico. Come politici e uomini di parte, si attengono alla
dottrina conservatrice, ma come artisti vengono trasci-
nati dalla tendenza progressiva dell’epoca, e rappresen-
tano cosí un fenomeno del tutto nuovo nella storia socia-
le dell’arte. La struttura intellettuale eccezionalmente
complessa del secolo iv trova la sua piú chiara espres-
sione in Platone, nel carattere progressivo dell’arte sua
e nella natura conservatrice della sua filosofia, nel natu-
ralismo dei suoi mezzi espressivi – tratti dal mimo ple-
beo – e nell’idealismo della sua dottrina, radicata nel
senso aristocratico della vita. Pochi rappresentanti della
letteratura greca hanno preso cosí decisamente partito
per gli ideali della cultura aristocratica: la kalokagathía
non ha trovato neppure in Pindaro un piú ispirato apo-
logeta, né la sophrosyne in Sofocle. L’élite intellettuale,
a cui egli vorrebbe affidare la guida dello stato, appar-
tiene all’antico ceto privilegiato; egli è persuaso che la
plebe non abbia alcun diritto a farne parte. La sua teo-
ria delle idee è la classica espressione filosofica del con-
servatorismo, il modello di tutti gli idealismi reazionari.
Ogni idealismo, ogni separazione del mondo delle
idee eterne, dei valori assoluti, delle norme pure, da

Storia dell’arte Einaudi 112


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

quello dell’esperienza e della prassi, implica in una certa


misura un ripiegamento nella pura contemplazione e la
rinuncia a trasformare la realtà47. Un simile atteggia-
mento finisce sempre per favorire le minoranze domi-
nanti, che non a torto si vedono minacciate dal positi-
vismo, di cui la maggioranza non ha nulla da temere. La
dottrina platonica delle idee adempie, nell’Atene del
secolo iv, alla stessa funzione sociale dell’idealismo tede-
sco nel Sette e nell’Ottocento; coi suoi argomenti con-
tro il realismo e il relativismo fornisce le armi piú vali-
de alla reazione. Al conservatorismo politico si ricolle-
ga anche l’estetica arcaicizzante di Platone, che respin-
ge la nuova tendenza illusionistica delle arti figurative
(Soph., 234 b), predilige la classicità dell’epoca di Peri-
cle e ammira l’arte degli Egizi, dominata dalla forma e
retta da leggi apparentemente immutabili. Egli si oppo-
ne al nuovo qui come dovunque, e fiuta in ogni novità
anarchia e decadenza48.
Platone bandisce il poeta dal suo stato ideale, per-
ché il poeta rimane attaccato alla realtà empirica, all’im-
pressione sensibile del mondo fenomenico, cioè a una
mezza verità o a una verità apparente, e materializza e
falsa le idee pure, che sono puro spirito e dover essere,
non appena cerca di coglierle e di esprimerle coi suoi
mezzi sensibili e grossolani. Questa prima «iconoclastia»
della storia – fino a Platone non c’è ostilità di sorta verso
l’arte – questa preoccupazione di fronte ai possibili
effetti dell’arte, appartiene alla stessa epoca in cui
appaiono i primi segni di quella visione estetizzante del
mondo, in cui l’arte non soltanto ha un suo posto, ma
già minaccia di dilatarsi a spese delle altre forme cultu-
rali e di ingoiarle. I due fenomeni sono strettamente
congiunti. L’arte non è temibile, finché rimane mezzo,
in sé neutrale, di propaganda, utilizzabile a piacere, e
una forma espressiva limitata al proprio campo; solo
quando la cultura estetica assume uno sviluppo tale che

Storia dell’arte Einaudi 113


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

il piacere della forma comporta una totale indifferenza


per i contenuti, si scopre che essa può diventare un
veleno occulto, un nemico entro le mura. È solo nel
secolo iv – tempo di guerre e di sconfitte, di congiun-
ture belliche e postbelliche, in cui si formano grandi
patrimoni e si affermano nuovi strati sociali che, dota-
ti di forte potere d’acquisto, investono parte dei loro
guadagni in opere d’arte, e tendono a fare del loro pos-
sesso una questione di prestigio – è solo allora che si
comincia a sopravvalutare l’arte, a orientarsi verso i
valori estetici, e con criteri estetici affrontare i proble-
mi della vita; e solo come reazione a questo estetismo si
spiega l’atteggiamento ostile di Platone. A renderlo cosí
aspro non sarebbe certo bastata la nozione teorica che
il linguaggio dell’arte è legato a forme sensibili.
L’estendersi della cultura estetica a nuovi strati
sociali porta con sé il riconoscimento di nuovi valori arti-
stici, immediatamente connessi con la vita; e altri ne
mette fuori corso, nati dalla tradizione culturale del ceto
superiore, finora senza concorrenti. Il Wilamowitz-Möl-
lendorf collega tutta la teoria aristotelica del timore e
della pietà con questi mutamenti nella composizione del
pubblico, e l’interpreta come segno dell’incipiente pre-
dominio dell’elemento affettivo nel dramma e come
espressione del «sentimento filisteo» di chi va a teatro
per «sottrarre alcune ore alla miseria della vita quoti-
diana» e piangere di gusto49. La scelta dei soggetti si
allarga a nuovi campi, sorgono motivi e generi nuovi:
questo fenomeno cosí caratteristico per l’arte del seco-
lo iv dipende principalmente da due fattori propri dello
spirito del tempo: da un lato la nuova emotività, che si
manifesta in un generale bisogno di stimoli piú intensi
e solo in parte coincide col sentimentalismo filisteo del
nuovo pubblico teatrale; dall’altro, l’abolizione dei tabú
che escludevano i nuovi motivi dall’ambito di ciò che era
lecito rappresentare. A un primo gruppo di questi moti-

Storia dell’arte Einaudi 114


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

vi appartengono il ritratto e la biografia; all’altro il nudo


femminile. A questo mutamento del gusto, determina-
to dall’ascesa dei nuovi strati sociali, si riconnette la cre-
scente predilezione per le divinità piú giovanili e impul-
sive, quali Apollo, Afrodite, Artemide, a scapito delle
piú anziane e dignitose, come Zeus, Hera e Atena50. Infi-
ne, si può ricondurre all’avvento dei nuovi ricchi uno dei
tratti piú notevoli dell’arte del secolo: l’emancipazione
della scultura dall’architettura. Sino alla fine del secolo
v quasi tutta la produzione scultorea è legata all’archi-
tettura; le statue, anche quando non sono parte inte-
grante dell’edificio, debbono adattarsi a una cornice
architettonica. Ma via via che l’iniziativa privata suben-
tra all’attività statale, si moltiplicano le sculture di for-
mato minore, di carattere piú intimo e piú facilmente
trasportabili. Nel secolo iv, ad Atene, cessa la costru-
zione di grandi templi; e l’architettura non offre piú
grandi occasioni agli scultori. I grandi edifici sorgono in
Oriente, dove anche la scultura monumentale continua
a svilupparsi.

1
h. m. chadwick, The Heroic Age, 1912, pp. 450 sgg.; a. r. burn,
The World of Hesiod, 1936, pp. 8 sgg.
2
h. m. chadwick, The Heroic Age cit., pp. 347-48, 365; george
thomson, Aeschylus and Athens, 1941, p. 62 [trad. it., Eschilo e Atene,
Torino 1949].
3
«C’è una cosa che i migliori preferiscono ad ogni altra: la fama
eterna alle cose passeggere», dice anche Eraclito, frammento 29, in h.
diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, I, 1934, 5a ed., p. 157.
4
Del resto, forse neppure nell’età preistorica si recitava esclusi-
vamente in forma corale.
5
h. m. chadwick, The Heroic Age cit., p. 87.
6
w. schmid - o. stählin, Geschichte der griechischen Literatur, I,
1, 1929, p. 59, in i. müller, Handbuch der Altertumswissenschaft.
7
Ibid., p. 6o.
8
Ibid., p. 664.
9
Cfr. o. neurath, Antike Wirtschaftsgeschichte, 1926, 3a ed., p. 24.

Storia dell’arte Einaudi 115


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

10
w. schmid - o. stählin, Geschichte der griechischen Literatur cit.,
I, i, p. 157.
11
Cfr. herman reich, Der Mimus, I, 1903, p. 547.
12
e. a. gardner, Early Athens, in The Cambridge Ancient History,
III, 1929, p. 585.
13
g. thomson, nell’esporre questa teoria (Aeschylus and Athens cit.,
p. 45), si richiama a v. grönbeck, Culture of the Teutons, 1931.
14
h. m. chadwick, The Heroic Age cit., p. 228.
15
Ibid., p. 234.
16
a. r. burn, Minoans, Philistines and Greeks, 1930, p. 200.
17
paul cauer, Grundfragen der Homerkritik, 1909, 2a ed., pp.
420-23.
18
schmid-stählin, Geschichte der griechischen Literatur cit., I, 1,
pp. 79-81.
19
u. von wilamowitz - möllendorff, Die griechische Literatur des
Altertums, 1912, 3a ed., p. 17.
20
bernhard schweitzer, Untersuchungen zur Chronologie und
Geschichte der geometrischen Stile in Griechenland, «Athen. Mitteilun-
gen», XLIII, 1918, p. 112.
21
Cfr. w. jäger, Paideia. Die Formung des griechischen Menschen,
1934, p. 249 [trad. it., Paideia, Firenze 1953].
22
u. von wilamowitz - möllendorff, Einleitung in die griechische
Tragödie, 1921, p. 105.
23
Cfr. edgar zilsel, Die Entstehung des Geniebegriffs, 1926, p. 19.
24
jakob burckhardt, Griechische Kulturgeschichte, IV, 1902, p. 115.
25
ludwig curtius pensa che dal vi secolo in poi «ogni importan-
te scultura greca portava sul basamento l’epigrafe che, oltre al nome
del donatore e a quello del dio a cui l’opera era dedicata,... conteneva
di regola il nome o i nomi degli artisti» (Die Antike Kunst, 1938, II, 1,
p. 246).
26
w. jäger, Paideia ecc. cit., p. 301; cfr. c. m. bowra, Sociologi-
cal Remarks on Greek Poetry, «Zeitschrift für Sozialforschung», VI,
1937, p. 393.
27
b. schweitzer, Der bildende Künstler und der Begriff des Kün-
stlerischen in der Antike, 1925, p. 45.
28
t. b. l. webster, Greek Art and literature 530-4oo B. C., 1939,
vuole scorgere nel sensualismo la speciale tendenza stilistica della corte
di Policrate, nell’intellettualismo quella della corte di Pisistrato.
29
Periegesis, V, 21.
30
j. d. beazley, Early Greek Art, in Cambridge Ancient History, IV,
1926, p. 589.
31
g. thomson, Aeschylus and Athens cit., p. 353.
32
gilbert murray, A History of Ancient Greek Literature, 1937,
p. 279.

Storia dell’arte Einaudi 116


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

33
Neppure victor ehrenberg, The People of Aristophanes. A Socio-
logy of Old Attic Comedy, 1943 [trad. it., II mondo di Aristofane, Firen-
ze 1953], riesce a persuaderci dei sentimenti democratici del poeta.
34
Cfr. adolf römer, Über den literarisch-ästhetischen Bildungsstand
des attischen Theaterpublikums, «Abhandlungen der philosophisch-phi-
lologischen Klasse der königlichen bayerischen Akademie der Wissen-
schaft», vol. XXII, 1905.
35
Cfr. j. harrison, Ancient Art & Ritual, 1913, p. 165.
36
w. jager, Paideia ecc. cit., p. 366.
37
Ibid., p. 434.
38
m. pohlenz, Die grieckische Tragödie, 1, 1930, pp. 236, 456.
39
g. thomson, Aeschylus and Athens cit., p. 347.
40
w. jäger, Paideia ecc. cit., pp. 437-38.
41
Il termine è di alfred weber, Die Not der geistigen Arbeiter, in
«Schriften des Vereins für Sozialpolitik», 1920.
42
u. wilamowitz-mölendorff, Griechische Tragödien, II, 1907,
5 ed., p. 137.
a

43
t. b. l. webster, Introduction to Sophokles, 1936, p. 41.
44
g. murray, A History of Ancient Greek Literatur cit., p. 253.
45
e. zilsel, Die Entstehung des Geniebegriffs cit., pp. 14-15.
46
Ibid., p. 78.
47
Cfr. k. mannheim, Wissenssoziologie, in vierkandt, Handwör-
terbuch der Soziologie, 1931, p. 672.
48
p. m. schuhl, Platon et l’art de son temps, 1933, pp. 14, 21.
49
u. wilamowitz-mölendorff, Einleitung in die griechische Tragö-
die, p. 111.
50
l. whibley, A Companion to Greek Studies, 1931, p. 301.

Storia dell’arte Einaudi 117


Capitolo quinto

L’ellenismo

Nell’età ellenistica, cioè nei trecento anni dopo Ales-


sandro il Grande, il baricentro dell’evoluzione si sposta
dalla Grecia all’Oriente. Ma gli influssi sono reciproci,
e ci troviamo di fronte – per la prima volta nella storia
umana – a una civiltà mista veramente internazionale.
È soprattutto questo livellamento delle culture nazionali
che dà all’ellenismo il suo carattere eminentemente
moderno. Ma la fusione fra le tendenze particolari non
si produce solo su questo piano, e le cesure troppo aspre
non scompaiono soltanto fra Occidente e Oriente, fra
Greci e Barbari, ma anche fra i diversi ceti, se non fra
le classi. Nonostante le differenze economiche crescen-
ti, l’accumulazione sempre piú concentrata del capitale
e il costante aumento del proletariato1, insomma, nono-
stante l’acuirsi dei contrasti di classe, si compie un certo
livellamento sociale, che annulla i privilegi della nasci-
ta. Giunge cosí a termine un processo in atto già dalla
fine della monarchia tribale, e fatale alle differenze di
casta. Il passo decisivo è opera dei sofisti, che sviluppa-
no un concetto affatto nuovo dell’areté, indipendente
dal ceto e dall’origine, perché sia accessibile a ogni
greco. La nuova tappa sulla via del livellamento è rap-
presentata dalla Stoa, che cerca di liberare i valori umani
anche dai segni della razza e della nazionalità. Con la sua
libertà dai pregiudizi nazionali, essa non fa che sancire
una situazione già in atto grazie al governo dei Diado-

Storia dell’arte Einaudi 4


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

chi, proprio come il liberalismo dei sofisti non era che


un riflesso della situazione creata dalla borghesia citta-
dina, industriale e commerciale.
Già il fatto che ogni abitante dell’impero, con un
semplice mutamento di residenza, possa diventare cit-
tadino di una qualsiasi città, significa la fine dell’idea
della polis come comunità politica. I cittadini sono ora
i membri di una comunità economica; e traggono van-
taggio dalla libertà di movimento, e non dall’apparte-
nenza a un gruppo tradizionale. L’interesse comune non
è piú determinato dalla razza o dalla nazionalità, ma dal-
l’uguaglianza delle possibilità personali. Siamo giunti
alla fase economica del capitalismo sopranazionale. Lo
stato favorisce la selezione secondo l’abilità economica,
perché gli elementi che si affermano nella lotta per l’e-
sistenza si dimostrano anche i piú idonei all’organizza-
zione interna dell’impero mondiale. L’antica aristocra-
zia, con la sua tendenza alla separazione e all’isolamen-
to, coi suoi sforzi per conservare la purezza etnica e la
cultura tradizionale, è del tutto inadatta all’organizza-
zione e all’amministrazione di un siffatto impero. Il
nuovo stato l’abbandona al suo destino e sollecita la for-
mazione di un ceto dirigente borghese, sorretto unica-
mente dalla potenza economica, senza prevenzioni di
razza o di casta. Questo, per il suo dinamismo econo-
mico, la mancanza di tradizioni rigide e ormai prive di
senso, il razionalismo improvvisatore, è molto vicino,
nella sua visione della vita, all’antico ceto medio, e si
rivela il miglior cemento per l’unione politica ed econo-
mica dei popoli del mondo ellenistico.
Il razionalismo, promosso energicamente dallo stato,
si afferma in tutti i campi della vita civile; non solo livel-
lando razze e caste, e rimuovendo tutte le tradizioni che
inceppano l’economia liberistica, ma anche nell’orga-
nizzazione sopranazionale dell’attività scientifica e arti-
stica, in quel commercium litterarum et artium che rac-

Storia dell’arte Einaudi 5


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

coglie i letterati e i dotti del mondo civile in una gran-


de comunità di lavoro, crea centri di ricerche, musei e
biblioteche, e attua pienamente i principî della divisio-
ne del lavoro anche nel campo intellettuale. Dappertut-
to sorgono, al posto dei gruppi tradizionali, comunità di
lavoro fondate su criteri pratici, e anche la produzione
intellettuale si regola sulla concorrenza e sul rendimen-
to, anziché su ragioni etiche e affettive. Come il gran-
de stato ellenistico spedisce di qua e di là i suoi funzio-
nari senza badare all’origine e alla tradizione2, come il
commercio capitalistico, emancipa i suoi soggetti dal
luogo di nascita e dalla patria, cosí anche gli artisti e gli
scienziati vengono sradicati e riuniti nei grandi centri di
cultura internazionale.
Già i sofisti del secolo v, anzi già i poeti e gli artisti
dell’età tirannica, si staccavano dalle città dov’erano
nati e cresciuti, e conducevano un’esistenza libera e
vagabonda. Ma ciò significava semplicemente che si
erano liberati da certi legami, senza sostituirli con altri.
Soltanto l’ellenismo sviluppa, al posto dell’antica fedeltà
alla polis, una nuova solidarietà che abbraccia tutto il
mondo colto. Nel campo della ricerca scientifica, que-
sto senso di solidarietà permette una cooperazione fra
studiosi senza precedenti, una distribuzione dei compi-
ti e un’integrazione dei risultati, insomma un razionali-
smo dei metodi di lavoro orientato esclusivamente verso
il rendimento, e direttamente dedotto dai principî del-
l’economia razionale. Julius Kärst osserva che si mani-
festa fin d’ora quella «reificazione» della vita spiritua-
le, che generalmente consideriamo come una caratteri-
stica del tecnicismo del nostro tempo3. I fattori perso-
nali passano in secondo piano, i compiti sono fraziona-
ti e distribuiti senza riguardo alle inclinazioni e attitu-
dini dei singoli. Esemplari per questa organizzazione
tecnica del lavoro intellettuale, che collega e subordina
meccanicamente l’una all’altra le prestazioni individua-

Storia dell’arte Einaudi 6


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

li, sono l’apparato amministrativo, la burocrazia cen-


tralizzata e la gerarchia dei funzionari, che uno stato
gigantesco deve sviluppare e mantenere4. Le conse-
guenze inevitabili di questa specializzazione e sperso-
nalizzazione della ricerca sono la tendenza all’erudizio-
ne pura e il pericolo dell’eclettismo. L’una e l’altro fanno
la loro apparizione nella storia della cultura occidentale
con l’età ellenistica, e, forse piú di tutti gli altri suoi
aspetti, fanno pensare allo spirito del nostro tempo. L’e-
clettismo è un tratto fondamentale non solo della scien-
za, ma anche dell’arte ellenistica. L’orientamento stori-
co, il gusto antiquario, la comprensione per le diverse
tendenze artistiche del passato, portano con sé una
recettività indiscriminata, che riceve sempre nuovi
impulsi dalla fondazione di raccolte d’arte e di musei.
Collezioni principesche e private esistevano anche
prima, ma solo ora si comincia a raccogliere sistemati-
camente e secondo un piano. Solo ora si tende a costi-
tuire gliptoteche «complete», che rispecchino l’intera
evoluzione dell’arte greca; e, dove mancano originali
importanti, si colmano le lacune con le copie. In questa
scientificità del metodo, le collezioni ellenistiche pre-
corrono i musei e le gallerie moderne.
Neppure nelle epoche precedenti lo stile artistico fu
sempre del tutto unitario, e spesso un’arte aristocratica,
formalmente rigoristica, convisse con un’arte piú popo-
lare e piú sciolta; o un’arte sacra tradizionalista con
un’arte profana progressiva. Ma soltanto l’ellenismo
vide sorgere dallo stesso terreno sociale tendenze di stile
e di gusto affatto diverse e opere d’arte stilisticamente
diversissime, eppure destinate a una stessa classe e a uno
stesso ambiente culturale. Il «naturalismo», il «baroc-
co», il «rococò» e il «classicismo» alessandrino nascono
e si sviluppano l’uno dopo l’altro, ma da ultimo sussi-
stono l’uno accanto all’altro; e fin da principio il pate-
tico e l’intimo, il solenne e il bozzettistico, il colossale

Storia dell’arte Einaudi 7


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

e l’idillico si dividono i favori del pubblico. L’autono-


mia dell’arte, scoperta nel secolo vi, coerentemente svol-
ta nel v, trasformata in estetismo nel iv, si riduce ora a
un gioco arbitrario di virtuosismi formali, a un astratto
cimento delle facoltà espressive, a una libertà che, ben-
ché sappia ancor maturare opere elette, sconvolge e sva-
luta i criteri classici. La dissoluzione dei principî dello
stile classico è in stretto rapporto coi mutamenti nella
struttura sociale del ceto dei consumatori e intenditori
d’arte. Via via che questo ceto si differenzia, correnti
stilistiche sempre piú eterogenee sorgono l’una accanto
all’altra. Il principale mutamento nella composizione
del pubblico è determinato dal fatto che l’antico ceto
medio – finora poco influente in questo campo – si fa
innanzi come acquirente di opere d’arte. Evidentemen-
te i suoi criteri estetici sono diversi da quelli della
nobiltà, benché esso cerchi in molti modi, e spesso con
la massima ambizione, di adeguarsi al gusto dell’élite.
Un altro fattore determinante nel complesso del merca-
to artistico sono i principi con le loro corti; a loro volta,
essi propongono all’arte esigenze nuove, affatto diverse
da quelle dei nobili e dei borghesi, benché gli uni e gli
altri cerchino di appropriarsi le maniere dei principi e di
imitare, nei loro modesti limiti, lo stile teatrale e pom-
poso delle corti. Cosí la tradizione classica si mescola da
un lato col naturalismo bozzettistico del gusto borghe-
se, dall’altro col barocco lussureggiante del gusto auli-
co. All’arricchimento eclettico del patrimonio formale
contribuisce infine la stessa organizzazione capitalistica
della produzione d’arte, che, facendo leva sull’estetismo
del tempo, crea una domanda di opere d’arte che muta
secondo la moda e si rinnova periodicamente. Accanto
alle botteghe dei ceramisti, che in parte lavorano già con
sistemi industriali, comincia la produzione su vasta scala
di copie dei capolavori della scultura. Senza dubbio, le
stesse botteghe e le stesse persone producevano anche

Storia dell’arte Einaudi 8


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

opere originali. Ma è naturale che gli scultori, eserci-


tando quel mestiere di copisti, si lasciassero facilmente
sedurre dal puro virtuosismo stilistico.
All’eclettismo dell’epoca corrisponde la confusione
delle arti e dei generi, altro fenomeno caratteristico
della tarda classicità, di cui tuttavia gli inizi già si tro-
vano nel secolo iv. Esso si manifesta soprattutto nello
stile pittorico della scultura lisippea e prassitelica; ma si
può constatare anche altrove, in primo luogo nel dram-
ma, che già in Euripide brulica di elementi lirici e reto-
rici. In questi sconfinamenti si esprime la stessa ten-
denza espansiva dell’arte, a cui debbono il loro succes-
so il ritratto, il paesaggio e la natura morta, temi un
tempo ignoti o eccezionali, e impiegati tuttora – alme-
no in parte – solo come accessori. Si afferma in essi quel-
lo stesso attaccamento alle cose e agli oggetti, che domi-
na lo spirito economico dell’epoca, legato al concetto di
merce. L’uomo, finora soggetto quasi esclusivo della
rappresentazione artistica, cede ora dappertutto ai temi
del mondo delle cose. La «reificazione», che si afferma
nell’organizzazione del lavoro intellettuale, si esprime
cosí anche nei temi dell’arte. E non solo la natura morta
e il paesaggio, ma anche il ritratto veristico, che tratta
l’uomo come un pezzo di natura, è un sintomo di quel-
la tendenza.
Alla fioritura della ritrattistica corrisponde, in let-
teratura, la sempre maggiore predilezione per la biogra-
fia e l’autobiografia5. Il valore del «documento umano»
cresce nella misura in cui l’acume psicologico diventa
un’arma sempre piú indispensabile della concorrenza
economica. Il crescente interesse per l’elemento biogra-
fico si riconnette anche al progresso della riflessione
filosofica su se stessi, al culto degli eroi – ravvivato dai
tempi di Alessandro – e, in una certa misura, al piú vivo
interesse personale che lega tra di loro i membri della
nuova società aulica6. Al gusto per la psicologia debbo-

Storia dell’arte Einaudi 9


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

no la loro origine altri due generi: il romanzo e la com-


media «borghese». Nella letteratura greca, le storie
inventate, soprattutto storie d’amore, che si svolgono
nel mondo di quella stessa gente per cui sono scritte, non
già in quello remoto della leggenda, sono una creazione
dell’ellenismo7. Cosí è della commedia menandrea, che
contiene tutto ciò che è rimasto vivo – dopo la scom-
parsa della democrazia cittadina e del culto dionisiaco -
– dell’antica commedia politica e della tragedia euripi-
dea. I personaggi appartengono al medio ceto e alle clas-
si piú umili, l’azione s’impernia sull’amore, sul denaro,
sull’eredità: padri avari, figli scappati, etère avide, paras-
siti imbroglioni, servi astuti, bambini esposti, gemelli
scambiati, genitori perduti e ritrovati. Il tema amoroso
non può mai mancare. Anche qui Euripide precorre l’el-
lenismo. L’amore come centro del conflitto drammati-
co era, prima di lui, affatto ignoto, ed è lui che lo acqui-
sisce al dramma, anche se sarà soltanto l’ellenismo a
farne la leva principale dell’azione8. Il tema erotico è
forse quel che vi è di piú borghese nella commedia bor-
ghese, dove gli amanti non lottano piú contro dei e
demoni, ma contro il meccanismo sociale: genitori osti-
li, ricchi rivali, lettere perfide, clausole testamentarie.
Tutto questo gioco d’intrighi amorosi è in stretto rap-
porto col «disincantamento»9 e con la razionalizzazione
della vita, col pieno sviluppo dell’economia monetaria e
col predominio dello spirito mercantile.
Ora infine anche la borghesia ha il suo teatro. In
ogni piccola città esso ha la sua modesta sede; ma nelle
grandi città si serve di quei nuovi, splendidi edifici di
pietra e di marmo, i cui ruderi sono giunti fino a noi, e
a cui corre il nostro pensiero quando si parla di teatro
greco, mentre in realtà non furono destinati a Eschilo e
a Sofocle, ma a quell’Euripide ai suoi tempi cosí disprez-
zato e ai suoi tardi emuli: cioè la variopinta compagnia
a cui appartenevano non solo Menandro ed Eronda, ma

Storia dell’arte Einaudi 10


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ogni sorta di acrobati e flautisti, saltimbanchi e pagliac-


ci, come troveremo, tanti secoli dopo, tra i rivali di
Shakespeare.

Storia dell’arte Einaudi 11


Capitolo sesto

L’impero romano e la tarda antichità

All’ellenismo succede l’egemonia mondiale dell’arte


romana; a partire dall’epoca imperiale, è questa, e non
piú quella greca, che segna le linee decisive dello svi-
luppo. L’ampolloso barocco e il lezioso rococò alessan-
drino sono giunti a un punto morto, e non fanno che
ripetere le loro formule trite, mentre Roma, sotto la
guida dei Cesari, crea, di pari passo con l’unitaria ammi-
nistrazione dell’impero, un’«arte imperiale» 10 piú o
meno unitaria; arte che, per la sua modernità, finisce per
imporsi dovunque. Dopo lo stile augusteo, ancora for-
temente grecizzante, benché già piú «borghese», asciut-
to e sobrio, l’elemento romano emerge sempre di piú
nell’età flavia e traianea, e prevale nel tardo impero. A
Roma il successo dell’arte greca si limitò fin dall’inizio
ai circoli aristocratici e colti; il ceto medio la capiva
poco, e il popolo, naturalmente, ancor meno. Negli ulti-
mi secoli dell’impero d’Occidente, quando l’aristocrazia
perde la sua posizione dominante e abbandona le città,
quando i generali e i Cesari vengono spesso dalla bassa
forza e dal fondo delle province, e il principale movi-
mento religioso dell’epoca penetra dall’infima plebe nei
ceti piú elevati, uno spirito popolaresco, provinciale si
afferma anche nell’arte, e a poco a poco soppianta gli
ideali classici11. Specie nella ritrattistica plastica, ci si rifà
all’antica tradizione etrusco-italica, sempre viva nelle
immagini di cera degli antenati che ornavano gli atri

Storia dell’arte Einaudi 12


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

delle case12. Chiamare «popolari» questi ritratti sarebbe


troppo, perché il culto delle imagines restò legato ai
funerali aristocratici e non poté mai penetrare larga-
mente fra il popolo13, anche se, negli ultimi tempi della
repubblica, le grandi famiglie plebee usufruivano del
privilegio patrizio di poter portare nei cortei funebri le
immagini degli avi14 (Polibio, Storie, 6, 53; Plinio, Let-
tere, 3, 5; Giovenale, Satire, 8). Ma l’arte del ritratto
(indipendentemente dalla sua diffusione) è per lo piú,
presso i Romani, destinata a scopi privati, a differenza
che presso i Greci, che se ne servivano solo quando si
trattava di onorare pubblicamente un cittadino, erigen-
dogli una statua. Questa circostanza spiega anzitutto lo
spontaneo, immediato naturalismo del ritratto romano,
che finí per prevalere anche nello stile delle opere desti-
nate a scopi pubblici. Ma l’evoluzione non è omogenea.
Sussistono fino alla fine due diverse tendenze: lo stile
grecizzante e idealistico, classicamente generico, tea-
tralmente patetico dell’aristocrazia aulica; e quello indi-
geno, prosaicamente veristico, delle classi medie, piú
solide. La corrente popolare non sopraffà dovunque
nella stessa misura l’arte dell’élite, che da ultimo si rifu-
gia in un linguaggio impressionistico, probabilmente
incomprensibile ai ceti inferiori, prima di cedere del
tutto di fronte alla semplicità plebea ed espressionistica
della tarda romanità.
Nell’età augustea, sotto il prevalente influsso greco,
la scultura è l’arte principale; ma in seguito la pittura
passa sempre piú in primo piano, fino a sostituire com-
pletamente la scultura architettonica e monumentale. A
partire dal secolo iii non si copiano piú statue greche, e
nei due secoli seguenti la pittura domina nella decora-
zione degli interni15. La pittura è l’arte tardo-romana e
cristiana per eccellenza, come la scultura è stata l’arte
classica kat’exochén. Ma è anche l’arte popolare, l’arte
che parla a tutti, nel linguaggio di tutti. Mai come ora

Storia dell’arte Einaudi 13


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

la pittura era stata cosí attiva, mai era stata usata a


scopi cosí comuni ed effimeri16. Ora chiunque voglia
rivolgersi al pubblico, informarlo di grandi avvenimen-
ti, persuaderlo del proprio diritto e agitarlo per la pro-
pria causa, non ha mezzo migliore della pittura. Il gene-
rale fa recare nel corteo trionfale cartelloni dipinti che
raccontano le sue gesta, rappresentano le città conqui-
state, mostrano al popolo l’umiliazione del nemico.
Accusatori e difensori nelle azioni giudiziarie ricorrono
all’evidenza dell’immagine dipinta per chiarire al giudi-
ce e all’uditorio il caso in discussione, lo svolgimento del
misfatto o l’alibi dell’accusato. I credenti offrono ex
voto, che illustrano lo scampato pericolo con tutti i par-
ticolari che li riguardano. Tiberio Sempronio Gracco
dedica alla dea della Libertà le rappresentazioni figura-
te delle scene che si sono svolte a Benevento, all’ingresso
dei suoi soldati vittoriosi; Traiano fa scolpire in pietra
le storie delle sue conquiste; il fornaio, il lavoro della sua
bottega con ogni particolare17. L’immagine è tutto: noti-
ziario, articolo di fondo, mezzo di propaganda, cartel-
lone, giornale illustrato, cronaca figurata, disegno ani-
mato, documentario, dramma cinematografico. In que-
sto amore per l’immagine, oltre al piacere dell’aneddo-
to, all’interesse per la notizia autentica, la testimonian-
za e il documento, si esprime una primitiva, insaziabile
curiosità, una preferenza puerile per tutto ciò che è illu-
strazione. Sono tutti fogli tratti da un libro di figure per
adulti, talvolta – come nelle spire ascendenti della colon-
na traiana – da un «rotolo figurato»18 che suggerisce,
svolgendosi, la continuità degli eventi e precorre il
nostro film. C’è, senza dubbio, qualcosa di molto pro-
saico, e in sé niente affatto artistico, nel desiderio a cui
quelle pitture e quei rilievi corrispondono. È somma-
mente ingenuo voler provare tutto, voler vedere tutto
coi propri occhi, come a esserci stati; è sommamente pri-
mitivo non voler nulla di seconda mano, nulla in quella

Storia dell’arte Einaudi 14


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

forma mediata e traslata in cui le età piú raffinate scor-


gono appunto l’essenza dell’arte.
Ma da questo stile da cinematografo o da «museo
delle statue di cera» – che certo in origine corrisponde-
va solo al gusto dei ceti incolti – dall’amore del parti-
colare aneddotico, «interessante perché vero», dal ten-
tativo di ritrarre con la massima evidenza e completez-
za un fatto degno di essere ricordato, si sviluppa lo stile
epico dell’arte figurativa: lo stile della cristianità e del-
l’Occidente. L’arte dell’antico Oriente e della Grecia è
plastica, monumentale, commemorativa, statica o quasi,
antiepica e antidrammatica; l’arte di Roma e dell’Occi-
dente cristiano è illustrativa, epico-illusionistica, dram-
matica, cinematografica. In Oriente e in Grecia trovia-
mo quasi esclusivamente immagini solenni, figure stati-
che, isolate; a Roma, in Occidente, prevale il soggetto
storico, la narrazione per immagini, in cui un fenome-
no essenzialmente temporale è oggettivato e rappresen-
tato con mezzi ottico-spaziali. L’arte greca e l’arte roma-
na ellenizzante assolvono questo compito, quando non
possono evitarlo, con una particolare impostazione, che
Lessing chiama del «momento pregnante» e che riassu-
me i tempi successivi dell’azione in un solo quadro, sta-
tico in sé, ma ricco di possibilità dinamiche. Lessing
vede in questo metodo il metodo dell’arte figurativa in
generale; ma in realtà è solo quello della Grecia classica
e dell’età moderna, a cui Franz Wickhoff contrappone
la rappresentazione affatto diversa della tarda romanità
e del Medioevo cristiano, rappresentazione che egli chia-
ma «continua» in contrasto con l’altra, «isolante»19.
Egli allude, in sostanza, a uno stile che tende al rac-
conto, all’illustrazione «cinematografica», e che allinea
senza cesure le fasi successive di un’azione nello stesso
scenario o nello stesso paesaggio, ripetendo sempre la
figura principale, cosí che le singole scene si susseguo-
no come gli episodi dei racconti figurati nei fogli umo-

Storia dell’arte Einaudi 15


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ristici, e ricordano le sequenze del cinema. Ma nel film


il movimento è reale, qui invece è fittizio e le impres-
sioni successive possono paragonarsi ai singoli foto-
grammi, ma non all’immagine che si muove sullo scher-
mo. Tuttavia, nell’uno e nell’altro caso, l’intenzione
dell’artista è la stessa. Vi si manifesta la stessa ricerca
di completezza e d’immediatezza, ma soprattutto il
senso dell’immagine come mezzo espressivo piú minuto,
immediato e spontaneo della parola.
L’altra forma d’arte della tarda romanità è lo stile
impressionistico, che, di fronte allo stile epico della rap-
presentazione continua, ha un’intonazione piuttosto liri-
ca e cerca di fissare la singola impressione ottica nella
sua soggettiva labilità. Il Wickhoff vede in questo meto-
do la premessa e l’integrazione organica della rappre-
sentazione continua20; ma una cosí stretta connessione
fra i due stili non sembra giustificata. Essi compaiono
in momenti diversi e in diverse condizioni esteriori e
interiori: l’impressionismo del secolo i d. C. è l’ultimo
raffinato germoglio dell’arte classica; mentre la rappre-
sentazione continua nasce nel secolo ii, come espressio-
ne, dapprima volgare e rozza, di una volontà artistica
essenzialmente estranea al gusto classico. Nascono da
strati sociali diversi e raramente li vediamo uniti nella
stessa opera d’arte. Quando appare la rappresentazione
continua, è già finita l’epoca migliore dell’impressioni-
smo antico, e solo esteriorità tecniche di esso persisto-
no ancora per un certo tempo nella tradizione artigiana,
finché cadono anch’esse in disuso e in oblio. La rap-
presentazione continua e in genere lo stile epico, rivol-
to soprattutto a valorizzare l’azione del soggetto, non
integrano, anzi soffocano e annientano la tecnica pitto-
rica dell’impressionismo. La maniera continua risponde
a un intento artistico essenzialmente antinaturalistico e
scompare nei due grandi periodi del naturalismo – l’ar-
te greca e l’arte moderna – quasi senza lasciar traccia.

Storia dell’arte Einaudi 16


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Assurda è l’affermazione del Wickhoff, per cui essa


dominerebbe tutta l’arte occidentale dal ii al xvi seco-
lo. Già nel tardo gotico essa non è piú la regola, e, a par-
tire dal primo Rinascimento, diventa un’eccezione.
Comunque, l’illusionismo epico della maniera continua
non ha alcun rapporto intrinseco con l’illusionismo otti-
co dello stile impressionistico.
Ma anche l’impressionismo, se pur per altre vie, con-
duce alla dissoluzione dell’arte antica. Dipingendo figu-
re piú leggere, ariose, piatte e sommarie, quasi le sma-
terializza; ed esse, ridotte a semplici pretesti di fenomeni
coloristici e atmosferici, perdono il loro peso corporeo,
la solidità della struttura, la consistenza fisica, e hanno
già l’aria di esprimere qualcosa di ideale e trascendente21.
L’impressionismo naturalistico e materialistico prepara
cosí il proprio opposto, l’espressionismo spiritualistico22,
e fa pensare all’espressionismo della pittura paleolitica,
che a sua volta, come sappiamo, introduce il suo con-
trario, il geometrismo neolitico. Dai due casi emerge
con uguale chiarezza come le forme stilistiche siano
ambigue e polivalenti, e come possano fungere da veicoli
delle concezioni e delle mentalità piú diverse.
L’impressionismo, come si esprime, ad esempio, nel
quarto stile pompeiano, con la sua tecnica raffinata e
allusiva, è la piú raffinata espressione artistica dell’alta
società romana; ma come appare nelle catacombe cri-
stiane, con le sue figure senza peso né volume, è lo stile
tipico del cristiano che si distoglie dal mondo e rinun-
cia a ogni cosa terrena e materiale.
La rappresentazione di figure nell’antichità classica
parte dalla frontalità per tornare alla frontalità; dalla
veduta unica e dalla rigidità arcaiche, attraverso il libe-
ro movimento dell’arte classica e le convulsioni del
barocchismo ellenistico, si giunge di nuovo alla veduta
frontale piatta, solenne e simmetrica23. Da uno stato di
dipendenza ieratica, attraverso l’autonomia e l’esteti-

Storia dell’arte Einaudi 17


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

smo, torniamo al vincolo religioso; dalla rappresenta-


zione di un ordine sociale autoritario, attraverso la
democrazia e il liberalesimo, all’espressione di una nuova
autorità spirituale. Se si debba considerare quest’ultima
fase come la conclusione storica dell’arte classica, accet-
tando l’opinione del Droysen, che l’antichità avrebbe
superato se stessa e il paganesimo per forza propria; o
se proprio in essa si debba scorgere il principio di una
nuova era, è un problema di classificazione e periodiz-
zazione. In ogni caso, non c’è dubbio che si possa sta-
bilire una certa continuità – come fra il colonato e il feu-
dalesimo – fra l’arte della tarda romanità e quella del
Medioevo cristiano24.

Storia dell’arte Einaudi 18


Capitolo settimo

Poeti e artisti nell’antichità

Dal principio alla fine dell’evo antico poco o nulla


muta nel modo di giudicare l’artista in confronto al
poeta. A quest’ultimo di quando in quando si tributano
speciali onori: è ritenuto un veggente, un profeta, un
dispensatore di gloria e un interprete di miti; l’artista,
invece, è e rimane il «vile meccanico», il banausos, cui
nulla è dovuto oltre il salario. A creare questa differen-
za concorrono diverse cause: anzitutto l’artista vien paga-
to e non ne fa mistero, mentre il poeta, anche al tempo
della sua peggior soggezione, è considerato ospite e amico
del suo protettore; inoltre, il lavoro del pittore e dello
scultore sporca le mani, e sporchi sono i materiali e gli
arnesi ch’essi debbono usare, mentre il poeta ha le vesti
e le mani pulite – e questo, per un’epoca non ancor
dominata dalla tecnica, ha maggior peso di quanto si
possa immaginare – ma, soprattutto, l’artista deve fare
un lavoro manuale e sottoporsi a un compito faticoso, a
uno sforzo fisico, mentre la fatica del poeta non dà nel-
l’occhio a nessuno. La scarsa considerazione verso chi
deve lavorare per vivere, il disprezzo di ogni attività
remunerata e in generale di ogni lavoro produttivo, nasce
dal fatto che ogni attività di questo genere, in contrasto
con le occupazioni signorili del governo, della guerra e
della palestra, sa di sottomissione, servizio e obbedien-
za25. Nell’epoca in cui agricoltura e allevamento, ormai

Storia dell’arte Einaudi 19


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

pienamente sviluppati, sono affidati alla donna, la guer-


ra diventa l’occupazione principale dell’uomo, e la cac-
cia il suo principale svago. Entrambe richiedono forza ed
esercizio, ardire e destrezza, e sono quindi onorevolissi-
me; mentre ogni lavoro minuto, paziente, estenuante
passa per un segno di debolezza, ed è quindi spregevole.
E, per trapasso di idee, ogni attività produttiva, ogni
occupazione che serva per vivere, è considerata avvilen-
te. Tocca agli schiavi, perché è disprezzata; ma non è
(come si è potuto ritenere) disprezzata perché tocca agli
schiavi. L’associazione del lavoro fisico col lavoro servi-
le contribuisce tutt’al piú al consolidamento del primiti-
vo concetto di prestigio, ma questo è evidentemente
anteriore all’istituto della schiavitú.
L’antichità classica perviene a risolvere l’intima con-
traddizione fra il disprezzo del lavoro manuale e l’alta
valutazione dell’arte come strumento di culto e di pro-
paganda, separando l’opera dalla persona dell’artista,
cioè onorandola pur disprezzandone l’autore26. Se con-
frontiamo con questa concezione quella moderna, che
innalza l’artista sull’opera, quando non possa mantene-
re la finzione dell’artista perfettamente riflesso dall’o-
pera, noi vediamo quanto diverga la valutazione odier-
na del lavoro da quella dell’antichità. La differenza è
enorme, benché gli uomini, come afferma il Veblen,
non si siano liberati neanche oggi dal concetto primiti-
vo dell’ozio onorevole27. Ma certo piú profondamente
del nostro tempo ne era compresa l’antichità. Finché
dura in Grecia il predominio dell’aristocrazia guerriera,
dura intatto il concetto dell’onore primitivo, parassita e
brigantesco, e, alla fine di quel predominio, è sostituito
da un concetto analogo: quello della vittoria nell’agone.
Come sola occupazione nobile e degna vale, quando si
posano le armi, la gara sportiva. Cosí il nuovo ideale si
ricollega all’idea di una lotta che occupa tutta la vita ed
esige che i suoi fedeli vivano di rendita.

Storia dell’arte Einaudi 20


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Per il ceto dominante in Grecia e per i suoi filosofi


la «pienezza dell’ozio» è la premessa di ogni cosa bella
e buona, è il solo bene che renda la vita degna di esser
vissuta. Soltanto l’ozioso può conseguire la saggezza, la
libertà interiore, dominare e godere la vita. È evidente
la dipendenza di questo ideale dalla condotta di vita del
ceto abbiente. Nel concetto della kalokagathía, della
perfetta educazione fisica e spirituale, nel disprezzo di
ogni cultura unilaterale e di ogni ristretta specializza-
zione, si esprime chiaramente l’ideale di una vita fuori
di ogni vincolo di professione. Ma quando Platone, nelle
Leggi (643 e), sottolinea il contrasto fra la paideia che
arricchisce tutto l’uomo e l’abilità professionale, egli dà
evidentemente espressione, oltre che all’antica idea ari-
stocratica della kalokagathía, anche alla propria ostilità
alla nuova borghesia democratica che si nasconde dietro
la differenziazione professionale. Agli occhi di Platone
ogni specialità, ogni occupazione nettamente circoscrit-
ta è banausica, ma questa banausia è un tratto caratteri-
stico della società democratica28.
La vittoria del costume borghese sul costume ari-
stocratico, nel corso del secolo iv e dell’età ellenistica,
comporta la parziale trasformazione dell’antica idea di
prestigio; ma nemmeno ora si rispetta il lavoro per se
stesso o gli si attribuisce un valore educativo nel senso
della nostra etica borghese; lo si scusa, indulgendo a chi
sa far denari. Già il Burckhardt osserva che in Grecia
non solo l’aristocrazia, ma anche la borghesia disprezza
il lavoro, in contrasto con la borghesia medievale che fin
dall’inizio lo tiene in grande stima, e anziché adottare
il concetto di onore della nobiltà, impone ad essa il pro-
prio concetto di onore professionale. Decisive per il
valore che un popolo annette al lavoro sono, per il
Burckhardt, le circostanze in cui si sono foggiati i suoi
ideali di vita. Quelli dell’Occidente odierno derivano
dalla borghesia medievale, che supera via via la nobiltà

Storia dell’arte Einaudi 21


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

in beni materiali e spirituali. Quelli dei Greci invece


derivavano dall’età eroica, da un mondo ignaro del prin-
cipio di utilità, e costituivano un patrimonio a cui si
attennero ancora per secoli29. Solo quando gli ideali ago-
nistici cessano di operare, a un momento cioè che coin-
cide con la fine della polis, si annuncia una valutazione
affatto nuova del lavoro e quindi dell’arte figurativa; ma
l’antichità non era destinata a compiere il passo decisi-
vo nel senso di questa trasformazione.
Nell’Atene classica la posizione economica e sociale
di scultori e pittori è pressoché la stessa che nei tempi
eroici e omerici, nonostante la straordinaria importan-
za acquistata dalle opere d’arte per la polis vittoriosa e
per l’orgogliosa esibizione della sua potenza. Si continua
a considerare l’arte come pura abilità manuale, e l’arti-
sta come un comune operaio, che non ha nulla che fare
coi valori spirituali piú elevati, con la scienza e con la
cultura. Egli è pur sempre mal pagato, senza sede fissa,
e mena la vita instabile dei vagabondi, per lo piú stra-
niero senza diritti nella città che gli dà lavoro. Bernhard
Schweitzer spiega la posizione immutata dell’artista con
le condizioni economiche, sempre ugualmente sfavore-
voli, in cui egli lavora per tutta l’epoca della libertà
greca30. In Grecia lo stato cittadino è, e rimane, il solo
grande committente di opere d’arte; non ha quasi con-
correnti, poiché non c’è privato che, per i costi relati-
vamente alti dei prodotti artistici, gli si possa opporre o
affiancare. Fra gli artisti, invece, c’è un’accanita con-
correnza, che non è minimamente compensata dalla gara
fra le città. Un mercato libero (che potrebbe valorizzarli)
non sussiste né all’interno delle singole città, né nella
loro competizione reciproca.
Il mutamento nella condizione dell’artista, che si
osserva al tempo di Alessandro il Grande, è in stretto
rapporto con la propaganda messa in opera per il con-
quistatore. Il culto dell’individuo, che si sviluppa dal

Storia dell’arte Einaudi 22


nuovo culto degli eroi, torna a favore dell’artista, che
dispensa la gloria e la riceve. Le esigenze delle corti dei
Diadochi e la ricchezza che si accumula nelle mani dei
privati aumentano la richiesta, e quindi il pregio del-
l’arte e la considerazione in cui è tenuto l’artista. La cul-
tura filosofica e letteraria penetra anche nella cerchia
degli artisti; essi cominciano a emanciparsi dall’artigia-
nato e a formare un ceto a sé di fronte ai lavoratori
manuali. I ricordi e gli aneddoti tratti dalla vita degli
artisti mostrano benissimo il grande mutamento dell’e-
poca classica. Il pittore Parrasio, firmando le sue opere,
dà prova di un’arroganza inconcepibile ancora poco
tempo prima. Zeusi, si acquista, con la propria arte, una
ricchezza quale nessun artista aveva mai posseduto.
Apelle non è soltanto il pittore di corte, ma anche l’a-
mico di Alessandro il Grande. Cominciano a correre
aneddoti sull’eccentricità di pittori e scultori, e infine
possiamo osservare fenomeni che ricordano l’omaggio
tributato all’artista nei tempi moderni31. A tutto ciò si
aggiunge – anzi vi è sottinteso – quella che Schweitzer
chiama «la scoperta del genio artistico» e che risale alla
filosofia di Plotino32. Questi scorge nel bello un tratto
essenziale del divino; secondo la sua metafisica, la realtà
spezzata e frammentaria riacquista solo attraverso la
bellezza e nelle forme dell’arte quella totalità che ha per-
duto allontanandosi da Dio33. Grande è il prestigio che
doveva venire all’artista dalla diffusione di una simile
dottrina. Il magico alone del veggente ispirato dal dio
torna ad avvolgerlo come nella preistoria. Egli appare di
nuovo l’invasato, l’essere carismatico iniziato ai miste-
ri com’era stato ai tempi della magia. L’atto dell’artista
creatore prende l’aspetto della unio mystica e si sottrae
sempre piú al mondo della ratio. Fin dal primo secolo
Dione Crisostomo paragona l’artista al Demiurgo; il
neoplatonismo sviluppa questo parallelo e sottolinea il
momento creativo nell’opera dell’artista.

Storia dell’arte Einaudi 23


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Si spiega cosí l’atteggiamento contrastante verso l’ar-


tista proprio di epoche piú tarde, soprattutto dell’impero
romano e della tarda antichità. Roma repubblicana e
l’impero agli inizi valutavano ancora il lavoro manuale
e la professione dell’artista come la Grecia eroica e quel-
la oligarchica e democratica. Ma a Roma, dove i piú anti-
chi ricordi risalivano a una popolazione agricola, il
disprezzo del lavoro non discendeva direttamente dal-
l’originaria casta guerriera: doveva passare per un’età in
cui anche i ricchi e gli uomini politici avevano lavorato
nei campi34, per riallacciarsi a idee la cui continuità sto-
rica era da gran tempo interrotta. Comunque, il belli-
coso popolo di contadini, che domina Roma nei secoli
iii e ii è, nonostante la sua familiarità col lavoro, tutt’al-
tro che ben disposto verso l’arte e gli artisti. Solo con
la trasformazione della civiltà attraverso l’economia
monetaria e urbana, e con l’influsso greco, comincia a
mutare l’importanza sociale del poeta, e poi, a poco a
poco, anche quella dell’artista. Ma solo nell’età augustea
il mutamento diviene piú sensibile e si manifesta da un
lato nella figura del «vate», dall’altro nell’ampiezza e
nella forma assunta dal mecenatismo privato accanto a
quello della corte. Tuttavia l’arte continua a essere
apprezzata meno della poesia35. Durante l’impero, i pit-
tori dilettanti diventano sempre piú numerosi fra i patri-
zi, e la moda trova seguaci persino tra gli imperatori:
Nerone, Adriano, Marco Aurelio, Alessandro Severo,
Valentiniano I, tutti dipingono. Ma la scultura, forse
perché piú faticosa, e per le piú complesse esigenze tec-
niche, continua a essere considerata un’attività volgare.
E anche la pittura è considerata un’occupazione rispet-
tabile solo quando non viene esercitata per denaro. Pit-
tori ormai celebri non si fanno piú pagare i loro lavori,
e Plutarco, per esempio, distingue Polignoto dal volgo
solo perché ha affrescato un edificio pubblico senza esi-
gere alcun compenso.

Storia dell’arte Einaudi 24


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Seneca mantiene ancora l’antica distinzione tra l’o-


pera d’arte e l’artista. «Si prega e si sacrifica davanti alle
immagini degli dei, – egli dice, – ma si disprezza lo scul-
tore che le ha fatte»36. Ed è nota l’affermazione analo-
ga di Plutarco: «Nessun giovane d’alto sentire, davanti
allo Zeus di Olimpia o all’Hera di Argo, vorrebbe diven-
tare un Fidia o un Policleto». È un linguaggio abba-
stanza chiaro contro gli artisti; ma poi si dice che il
nostro giovane non vorrebbe essere neppure Anacreon-
te, o Filemone, o Archiloco; poiché, se anche – dice Plu-
tarco – godiamo delle opere, i loro creatori non merita-
no di essere emulati37. L’equiparazione del poeta con lo
scultore è un tratto assolutamente estraneo alla classi-
cità, e mostra l’incoerenza del tardo Impero di fronte a
tutti questi problemi. Il poeta condivide la sorte dello
scultore, perché anch’egli è soltanto uno specialista e
segue le regole precise di una dottrina, che traduce l’i-
spirazione divina in una tecnica razionale. E lo stesso
dissidio che pervade le idee di Plutarco, si ritrova nel
Sogno di Luciano, dove la Scultura è rappresentata come
una donna sudicia e volgare, la Retorica come una splen-
dida creatura eterea; ma, contrariamente a Plutarco, si
asserisce che insieme con le statue degli dei si onorano
anche i loro autori38. Il riconoscimento della personalità
artistica, nella misura in cui traspare in queste dichia-
razioni, è evidentemente in rapporto con l’estetismo
imperiale, e indirettamente forse anche col neoplatoni-
smo e con dottrine filosofiche affini; ma la simultanea
condanna dell’artista – una voce che non si spegne mai
accanto all’altra – prova che l’antichità, anche nell’epo-
ca piú tarda, rimane legata alla concezione preistorica
che fa consistere il prestigio nell’«ozio ostentativo»
(Veblen), e, nonostante la sua cultura estetica, è sem-
plicemente incapace di concepire un’idea come quella
del «genio», propria del Rinascimento e dell’età moder-
na. Poiché solo con questo concetto diventa indifferen-

Storia dell’arte Einaudi 25


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

te in quale forma e con quali mezzi si esprima la perso-


nalità, purché riesca a esprimersi, o anche solo ad accen-
nare ciò che non riesce a esprimere.

1
k. j. beloch, Griechische Geschichte, 2a ed., IV, 1, 1925, pp.
323-25; m. rostovtzeff, The Social and Economic History of the Hel-
lenistic World, I, 1941, pp. 2o6-7.
2
o. neurath, Antike Wirtschaftsgeschichte cit., p. 49.
julius kärst, Geschichte des Hellenismus, II, 2a ed., 1926, pp.
166-67.
4
Ibid., p. 163.
5
georg misch, Geschichte der Autobiographie, I, 1931, 2a ed., pp.
96 sgg.
6
Ibid., pp. 105, 113, 179.
7
u. wilamowitz-möllendorff, Die griechische Literatur, pp.
185-87.
8
e. bethe, Die griechische Poesie, in gercke-norden, Einleitung in
die Altertumswissenschaft, I, 3, 1924, p. 38.
9
Il termine, in questa accezione, proviene da Max Weber.
10
franz wickhoff, Römische Kunst. Die Wiener Genesis, in Sch-
riften, III, 1912, p. 23.
11
arnold schober, Zur Entstehung und Bedeutung der provin-
zialrömischen Kunst, «Jahresberichte des Österreichischen Archäologi-
schen Instituts», XXVI, 1930, pp. 49-51; silvio ferri, Arte romana
sul Reno, 1931, p. 268.
12
Cfr. guido kaschnitz-weinberg, Studien zur etruskischen und
frührömischen Porträtkunst, «Mitteilungen des Deutschen Archäologi-
schen Instituts. Römische Abteilung», vol. XLI, 1926, pp. 178 sgg.
13
t. mommsen, Römisches Staatsrecht, 1887, 3a ed., I, p. 442; III,
p. 465.
14
a. zadoks-jitta, Ancestral Portraiture in Rome, 1932, p. 34.
15
herbert koch, Spätantike Kunst, in Probleme der Spätantike,
Vorträge auf dem 17. Deutschen Historikertag, 1930, pagine 41-42.
16
g. rodenwaldt, Die Kunst der Antike, 1927, p. 67.
17
th. birt, Zur Kulturgeschichte Roms, 1917, 3a ed., p. 138.
18
Ibid.
19
Römische Kunst ecc. cit., passim, specialmente pp. 14-16.
20
Ibid.
21
Cfr. max dvoRák, Katakombenmalereien: Anfänge der christlichen
Kunst, in Kunstgeschichte als Geistesgeschichte, 1924, pagine 16-17.
22
lntorno all’espressionismo dell’arte tardo-romana cfr. rudolf

Storia dell’arte Einaudi 26


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

kautzsch, Die bildende Kunst der Gegenwart und die Kunst der sinken-
den Antike, 192o.
23
Cfr. h. koch, Spätantike Kunst ecc. cit., pp. 49, 53; g.
rodenwaldt, Die Kunst ecc. cit., p. 87; m. dvorák, Katakombenmale-
reien ecc. cit., p. 21.
24
max weber, Die sozialen Gründe des Untergangs der antiken Kul-
tur, in Gesammelte Aufsätze zur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, 1924,
pp. 307-8.
25
t. veblen, The Theory 0f the Leisure Class cit.
26
e. zilsel, Die Entstehung des Geniebegriffs cit., p. 35.
27
Ibid., p. 36.
28
j. burckhardt, Griechische Kulturgeschichte cit., IV, pagine
125-26.
29
Ibid., pp. 123-24.
30
b. schweitzer, Der bildende Künstler und der Begriff des Kün-
stlerischen cit., p. 47.
31
j. p. mahaffy, Social Life in Greece from Homer to Menander,
1888, p. 439.
32
Der bildende Künstler ecc. cit., pp. 6o, 124 sgg.
33
Enneadi, V, 8, 9.
34
o. neurath, Antike Wirtschaftsgeschichte cit., p. 68.
35
e. zilsel, Die Entstehung des Geniebegriffs cit., p. 26.
36
lattanzio, Div. Inst., II, 2, 14.
37
plutarco, Pericle, 2, 1.
38
l. friedländer, Darstellungen aus der Sittengeschiehte Roms, III,
10a ed., 1923, p. 103; b. schweitzer, Der bildende Künstler ecc. cit.,
p. 30.

Storia dell’arte Einaudi 27


Capitolo primo

Lo spiritualismo dell’arte paleocristiana

Fittizia è l’unità dello sviluppo storico del Medioevo;


di fatto, esso si scinde in tre epoche culturali ben distin-
te: il feudalesimo terriero dell’alto Medioevo, la caval-
leria cortese e la borghesia cittadina del tardo Medioe-
vo. Le cesure tra queste fasi sono in ogni caso piú
profonde di quelle che si possono osservare al principio
e alla fine di tutta l’epoca. Feudalesimo, cavalleria, bor-
ghesia non solo sono divisi fra loro piú nettamente che
non Antichità e Medioevo, o Medioevo e Rinascimen-
to, ma le trasformazioni che le separano – la nascita del
vassallaggio cavalleresco e la trasformazione dell’econo-
mia curtense nell’economia monetaria delle città, il
risveglio della sensibilità lirica e lo sviluppo del natura-
lismo gotico, l’emancipazione della borghesia e gli inizi
del nuovo capitalismo – sono, per la genesi del senso
moderno della vita, anche piú importanti delle conqui-
ste intellettuali della Rinascita.
La maggior parte degli elementi che si considerano
caratteristici dell’arte medievale, e soprattutto la ten-
denza a semplificare e stilizzare, la rinuncia alla profon-
dità e alla prospettiva, l’arbitrio nelle proporzioni e nei
gesti, sono indicativi solo per l’alto Medioevo e perdo-
no il loro valore all’inizio dell’età comunale. L’unico
tratto fondamentale che conserva valore per l’arte e per
la cultura anche dopo quella svolta, è la visione metafi-
sica del mondo. Nel passaggio dall’alto al pieno Medioe-

Storia dell’arte Einaudi 4


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

vo, l’arte perde la sua rigidezza e il suo impaccio, ma


conserva il suo carattere profondamente religioso e spi-
ritualizzato, e resta anche in seguito l’espressione di
una società tutta pervasa dal cristianesimo e organizza-
ta ieraticamente. La sua continuità è garantita dall’ege-
monia spirituale del clero, assoluta nonostante tutte le
eresie e le sette, e dal credito inconcusso della Chiesa
dispensatrice di salvezza.
Ma la visione trascendente propria del Medioevo non
è data già a priori col cristianesimo; l’arte paleocristia-
na non ha ancora nulla della trasparenza metafisica
essenziale allo stile romanico e gotico. La spiritualità di
quell’arte, in cui già si volle riconoscere la sostanza della
concezione medievale1 in realtà è ancora quel generale,
vago spiritualismo che impregnava già l’estremo paga-
nesimo. Essa non contiene ancora alcun sistema sopran-
naturale in sé conchiuso e in grado di sostituire l’ordi-
ne naturale delle cose; al massimo vi si esprime un accre-
sciuto interesse e una piú fine sensibilità per i moti del-
l’anima umana. Le forme della tarda antichità e dell’ar-
te paleocristiana sono significative solo in senso psico-
logico, non metafisico; sono espressionistiche, non divi-
natorie. I grandi occhi sbarrati dei tardi ritratti romani
esprimono una vita psichica intensa, intellettuale e affet-
tiva; ma questa vita psichica è senza sfondo metafisico
e in sé non ha nulla a che fare col cristianesimo. Essa
dipende da condizioni che non è stato il cristianesimo a
creare. La tensione che trova nel messaggio cristiano la
sua soluzione, si annunzia già con l’ellenismo; la rispo-
sta del cristianesimo alle domande che si poneva quel
tempo inquieto fu pronta, ma per una formulazione arti-
stica di essa dovettero lavorar molte generazioni: non fu
cosa trovata a un tratto, insieme con la dottrina.
L’arte cristiana dei primi secoli non è che una deri-
vazione, se non proprio una degenerazione, della tarda
romanità. L’affinità fra le due correnti è cosí grande, che

Storia dell’arte Einaudi 5


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

il vero mutamento di stile dev’essere avvenuto nel pas-


saggio dall’età classica a quella post-classica, non dal
paganesimo al cristianesimo. Le opere del basso Impe-
ro, specie quelle del tempo di Costantino, anticipano già
essenzialmente l’arte paleocristiana: lo stesso impulso a
spiritualizzare e ad astrarre; la stessa predilezione per la
forma piatta, incorporea come un’ombra; la stessa ten-
denza alla frontalità, alla solennità e alla gerarchia; la
stessa indifferenza alla vita organica e vegetativa; la
stessa insensibilità per tutto ciò che è soltanto caratte-
ristico, singolare e pittoresco; in breve, la stessa volontà
artistica diretta all’ideale anziché al sensibile, che tro-
viamo negli affreschi delle catacombe, nei mosaici delle
chiese romane, nei codici miniati paleocristiani. Il pro-
cesso che, dalla rappresentazione minuta e circostanzia-
ta dell’epoca alessandrina conduce alla concisione espo-
sitiva della decadenza e allo schematismo dei simboli
paleocristiani, s’inizia con l’Impero. Di qui si può vede-
re, quasi passo per passo, come l’elemento ideale pre-
valga sempre piú su quello formale, e come, a poco a
poco, le forme si mutino in una sorta di ideogrammi. La
via che allontana l’arte cristiana dall’oggettività e dal
realismo classico si biforca. Da un lato si sviluppa un
simbolismo che non mira tanto a rappresentare, quanto
a evocare e manifestare la presenza dell’Essere Santo, e
trasforma ogni particolare in simbolo soteriologico. Solo
il valore ideale, che da tale simbolismo deriva agli ele-
menti dell’opera, spiega la maggior parte delle caratte-
ristiche, di per sé incomprensibili, dell’arte paleocri-
stiana; anzitutto l’alterazione delle proporzioni natura-
li, che si adeguano all’importanza spirituale degli ogget-
ti rappresentati; la cosiddetta «prospettiva invertita»2,
per cui la figura principale, piú lontana dallo spettato-
re, appare piú grande delle figure secondarie disposte in
primo piano; la veduta frontale a scopo di ostensione
solenne; il trattamento sommario degli accessori inani-

Storia dell’arte Einaudi 6


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

mati; e cosí via. L’altra corrente porta a uno stile epico-


illustrativo che vuole rappresentare al vivo scene, fatti,
avvenimenti aneddotici. I bassorilievi, gli affreschi, i
mosaici paleocristiani, quando non sono immagini di
devozione, vogliono essere racconti: Bibbia scolpita e
agiografia dipinta. Quel che importa all’artista è l’espo-
sizione precisa, la chiarezza dei riferimenti. Nell’evan-
geliario di Rossano una miniatura mostra Giuda che
restituisce i denari; il Gran Sacerdote, sotto il baldac-
chino, copre parzialmente una delle colonne anteriori,
benché lo si debba immaginare seduto dietro di essa.
L’evidenza del gesto di ripulsa importava al pittore piú
di cose senza alcun rapporto col fatto3.
È un’arte semplice e popolare, almeno ai suoi inizi,
che per molti aspetti ci rammenta le note scene della
Colonna traiana. A questo stile si adattarono gradual-
mente anche i circoli ufficiali, cosí che infine l’arte
paleocristiana, che rispondeva in primo luogo al gusto
degli umili, si distinse da quella dell’élite non tanto per
le sue tendenze, quanto per la qualità. Poiché probabil-
mente le pitture delle catacombe sono, per la maggior
parte, opera di semplici artigiani, dilettanti e scombic-
cheratori, chiamati a quel compito piú dai loro principî
che dal loro talento. Ma la degenerazione del gusto e
della tecnica si manifestò anche negli ambienti d’antica
cultura. Siamo di fronte a una frattura simile a quella
che noi stessi avvertimmo nel trapasso dall’impressioni-
smo all’espressionismo. L’arte costantiniana, accanto a
quella del secolo i, ci sembra rozza come, per esempio,
un quadro di Rouault accanto a un’opera di Manet. Nei
due casi il mutamento stilistico fu la conseguenza del
mutamento nell’animus di una società iperurbanizzata,
cosmopolita, dilacerata dalle contraddizioni economi-
che, tormentata da presagi di rovina e disposta a spera-
re solo in un aiuto ultraterreno; di una società che, nel
suo pessimismo catastrofico, annetteva molta piú impor-

Storia dell’arte Einaudi 7


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

tanza al nuovo contenuto spirituale che alle antiche raf-


finatezze formali. Negli ultimi tempi di Roma questo
stato d’animo si rispecchia ugualmente nitido nell’arte
pagana e in quella cristiana, con la sola differenza che
le opere destinate ai Romani illustri e facoltosi si dove-
vano ad artisti veri, probabilmente non inclini a lavorare
per la povera comunità dei cristiani. E ciò neppure quan-
do erano personalmente vicini alle idee cristiane e si
sarebbero adattati a un piccolo compenso, o magari
avrebbero lavorato gratis; perché i cristiani avrebbero
voluto ch’essi smettessero di fare idoli pagani; conces-
sione tanto piú difficile per un artista, quanto piú era
eccellente e apprezzato.
Quegli studiosi, che già nell’arte paleocristiana voglio-
no riconoscere l’immagine metafisica del mondo propria
del Medioevo, interpretano generalmente tutto ciò che in
essa appare deficiente, nei confronti dell’arte classica,
come una rinunzia cosciente e volontaria e muovono
dalla teoria dell’«intento artistico» per considerare ogni
insufficienza di mezzi mimetici ed espressivi come una
conquista spirituale e un guadagno. Ogni volta che uno
stile non sembra in grado di assolvere un determinato
compito, essi cominciano col domandarsi se quello stile
tendeva proprio ad assolvere quel compito; e senza dub-
bio è questo uno degli spunti piú fecondi nella teoria del-
l’intento artistico; ma vale solo come ipotesi di lavoro e
non va spinta oltre i propri limiti. In ogni caso è errato
interpretare la teoria in modo tale da eliminare senz’al-
tro ogni tensione fra volere e potere4. E proprio nell’ar-
te paleocristiana la presenza di quella tensione è indiscu-
tibile. Poiché spesso non è che insufficienza e povertà,
rinunzia involontaria alla forma corretta e primitivo erro-
re del disegno, ciò che in essa viene apprezzato come sem-
plificazione voluta e sintesi sovrana, esaltazione conscia
dei propri fini e sublimazione ideale della realtà.
L’arte paleocristiana supera l’incertezza formale e

Storia dell’arte Einaudi 8


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

l’impaccio solo dopo l’editto di Milano, quando diven-


ta l’arte ufficiale dello stato e della corte, degli ambien-
ti aristocratici e colti. Ora, in opere come il mosaico
absidale di Santa Pudenziana, essa riacquista perfino
qualcosa di quella kalokagathía di cui ancora poco prima
non voleva sentir parlare, ostile com’era al sensualismo
classico. L’idea che soltanto l’anima è bella, e il corpo,
come ogni cosa materiale, è brutto e abominevole, viene
respinta nello sfondo, almeno per un certo tempo, dopo
il riconoscimento del cristianesimo. La Chiesa, ormai
potente e ricca, fa rappresentare Cristo e i discepoli in
aspetto solenne e dignitoso, quasi patrizi romani, digni-
tari imperiali o senatori influenti. Rispetto all’arte anti-
ca, questa è ancor meno originale dell’arte cristiana pri-
mitiva. Si può definire piuttosto come il primo di quei
Rinascimenti che nel Medioevo si susseguono quasi inin-
terrotti e da allora divengono un tema ricorrente nella
storia dell’arte.
Durante i primi secoli dell’era cristiana la vita, nel-
l’Impero, rimase press’a poco immutata; si svolgeva nelle
stesse forme economiche e sociali, secondo le stesse tra-
dizioni e istituzioni. I modi della proprietà e l’organiz-
zazione del lavoro, le fonti della cultura e i metodi d’in-
segnamento non sono sostanzialmente mutati: sarebbe
strano un improvviso mutare dell’arte. Tutt’al piú, le
forme della civiltà antica, in seguito al nuovo orienta-
mento cristiano, hanno perduto la coerenza originaria,
pur restando il solo linguaggio che si possa usare per farsi
intendere. Neppure l’arte cristiana disponeva di altre
forme; e le utilizzò come si utilizza il vocabolario di una
lingua: non perché le volesse conservare, ma semplice-
mente perché «c’erano»5. Il vecchio linguaggio, come
avviene di solito delle forme e delle istituzioni consoli-
date, si mantenne intatto piú a lungo dello spirito donde
era sorto. Lo spirito già da gran tempo era cristiano, ma
ci si esprimeva pur sempre secondo le antiche forme

Storia dell’arte Einaudi 9


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

della filosofia, dell’arte e della poesia. Ne derivò fin dal


principio, per la civiltà cristiana, un dissidio ignoto al
mondo orientale e classico. Le forme e i contenuti erano
nati e s’erano sviluppati insieme; la visione cristiana,
invece, si componeva di una nuova impostazione spiri-
tuale ancora indifferenziata e di forme di pensiero e di
sensibilità proprie di una civiltà raffinata, giunta all’e-
strema maturità intellettuale ed estetica.
Dapprima l’ideale cristiano non muta l’aspetto este-
riore, ma la funzione sociale dell’arte. Per l’antichità
classica, l’opera d’arte aveva un valore prevalentemen-
te estetico; per il cristianesimo, essa ha un significato
affatto diverso. Fra gli elementi dell’eredità classica, il
primo a perdersi fu l’autonomia della forma. Per il
Medioevo, di fronte alla religione, come non c’è una
scienza, cosí non c’è un’arte autonoma e indifferente alla
fede. Anzi l’arte, almeno per quanto concerne l’effetto
sulle masse, è lo strumento piú prezioso per l’opera edu-
cativa della Chiesa. «Pictura est quaedam litteratura
illitterato», diceva Strabone; e cosí anche Durando:
«Pictura et ornamenta in ecclesia sunt laicorum lectio-
nes et scripturae». Per l’alto Medioevo l’arte sarebbe
affatto superflua, se tutti sapessero leggere e seguire i
ragionamenti astratti: da principio essa è solo una con-
cessione fatta alla moltitudine ignorante, che facilmen-
te soggiace alle impressioni dei sensi. Ma come «pura
gioia dell’occhio», come dice san Nilo, non sarà piú
considerata per molto tempo. Lo scopo morale e dida-
scalico è il tratto piú caratteristico dell’interpretazione
cristiana. Anche presso i Greci e i Romani l’opera d’ar-
te spesso non era che uno strumento di propaganda, ma
non fu mai considerata come un semplice mezzo didat-
tico. In questo la divergenza si manifesta fin dall’inizio.
Solo nel secolo v, con la fine dell’Impero d’Occi-
dente, comincia il radicale mutamento delle forme. Sol-
tanto ora l’espressionismo tardoromano si trasforma in

Storia dell’arte Einaudi 10


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

«linguaggio trascendente»6. Soltanto ora si compie l’e-


mancipazione dell’arte dalla realtà; ma in modo cosí
totale che la rinuncia all’imitazione del vero spesso
ricorda il geometrismo greco delle origini. Anche qui la
composizione viene subordinata a un ordine decorati-
vo; ma questo non è piú semplicemente l’espressione di
un’armonia decorativa, ma anche di un ordine piú alto,
di un’armonia universale. Né ci si ferma alla pura deco-
razione, al regolare allineamento delle figure, all’ordi-
namento simmetrico dei gruppi, all’accordo ritmico dei
gesti, all’accostamento decorativo dei colori; tutti que-
sti criteri non sono che la premessa del nuovo sistema
formale, cosí come infine ci appare a Santa Maria Mag-
giore, nei mosaici della navata. Ecco scene che si svol-
gono in un ambiente senz’aria e senza luce, in uno spa-
zio senza profondità, né prospettiva, né atmosfera, con
figure piatte, non modellate, senza peso né ombra. L’il-
lusione di un concreto rapporto spaziale non viene piú
neppure cercata; le figure sono sempre piú isolate, e i
loro rapporti sono puramente ideali. Si fanno sempre
piú statiche e inanimate e appaiono sempre piú solen-
ni, spiritualizzate, remote dalla vita e dalla terra. Per
la maggior parte, i mezzi con cui si ottiene questo effet-
to – la riduzione della profondità spaziale, la piattezza
e la frontalità delle figure, il gusto della sobrietà e della
semplicità – erano già presenti nell’arte tardoromana e
nell’arte cristiana primitiva, ma soltanto ora si con-
giungono come elementi di un nuovo stile. Là appari-
vano ancora sporadicamente, cercavano una giustifica-
zione particolare7 e si trovavano sempre in aperto, irri-
mediabile conflitto con tradizioni e reminiscenze natu-
ralistiche; qui la fuga dal mondo è consumata, tutto è
diventato forma rigida, inanimata, fredda, ma anche
vita, la piú intensa ed essenziale; morte dell’Adamo
carnale e vita nuova dello spirito. Qui tutto riflette le
parole di Paolo: «E vivo, non piú io, ma Cristo vive in

Storia dell’arte Einaudi 11


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

me» (Gal., 2, 20). L’antica gioia del senso è finita.


Scomparso l’antico splendore, lo stato romano è in rovi-
na; la Chiesa celebra il suo trionfo, non piú nello spiri-
to romano del dominio, ma nel segno di una potenza
che dichiara di non essere di questo mondo. E solo ora,
che la Chiesa è divenuta pienamente sovrana, si crea
uno stile che non ha praticamente piú nulla in comune
con l’antichità classica.

Storia dell’arte Einaudi 12


Capitolo secondo

L’arte del cesaropapismo bizantino

La civiltà dell’Oriente greco non è stata spezzata


dalle invasioni barbariche come quella dell’Occidente.
L’economia urbana e mercantile, pressoché distrutta
nell’Impero romano d’Occidente, in Oriente continuò
a fiorire, piú vitale che mai. La popolazione di Costan-
tinopoli già nel secolo v superava il milione, e ciò che i
contemporanei narravano della sua ricchezza e del suo
splendore suona come un racconto di fate. Per tutto il
Medioevo, Bisanzio fu la terra meravigliosa dei tesori
senza fondo, dei palazzi scintillanti d’oro e delle feste
senza fine; e al mondo intero era esempio di eleganza e
di maestà. I mezzi per sostenere quella magnificenza sca-
turivano dal commercio e dagli scambi. Molto piú del-
l’antica Roma, Bisanzio era una metropoli nel senso
moderno: una città cosmopolita per popolazione e costu-
mi, centro d’industrie e di esportazioni, mercato e scalo
internazionale8, e per giunta una città schiettamente
orientale, a cui sarebbe riuscito incomprensibile il disde-
gno degli occidentali per il commercio. La corte stessa,
con i suoi monopoli, rappresentava una grande impresa
industriale e commerciale. Ed è soprattutto per la restri-
zione che la libertà economica subí a opera di questi
monopoli che la vera fonte della ricchezza privata, nono-
stante la struttura capitalistica dell’economia bizantina,
non fu il commercio, ma la proprietà terriera9. I grandi
profitti commerciali non andavano a vantaggio dei pri-

Storia dell’arte Einaudi 13


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

vati, ma dello stato e della casa imperiale. Le restrizio-


ni imposte all’iniziativa privata non consistevano sol-
tanto nel fatto che, a partire da Giustiniano, la fabbri-
cazione di certe sete e il commercio dei principali gene-
ri alimentari furono riservati allo stato, ma si estende-
vano anche all’ordinamento dei mestieri, per cui spet-
tava all’amministrazione cittadina e alle corporazioni
l’intero regolamento della produzione e degli scambi10.
Ma il monopolio statale delle industrie e dei commerci
piú redditizi era ben lungi dal bastare alle esigenze del
fisco; l’amministrazione delle finanze toglieva alle
imprese private la maggior parte del guadagno in con-
tanti sotto forma di imposte, contributi, dazi, licenze
d’esercizio e cosí via. Cosí il capitale mobile privato non
acquistò mai vera forza. La politica economica autocra-
tica della Corona poteva lasciare libertà al possidente di
provincia nelle sue terre, ma in città ogni cosa era vigi-
lata e regolata con la massima severità dall’autorità cen-
trale11. Bisanzio lavorava, grazie agli introiti regolari
delle imposte e alla razionale direzione delle aziende
statali, con un bilancio in perfetto pareggio, e dispone-
va inoltre di una riserva monetaria che, a differenza
degli stati occidentali dell’alto e del pieno Medioevo, le
permetteva di domare ogni tendenza particolaristica o
ribelle. La potenza dell’imperatore poggiava su un forte
esercito di mercenari e su un’efficiente burocrazia, che
non avrebbero potuto sussistere senza le entrate rego-
lari dello stato. Ad esse Bisanzio dovette la sua stabilità,
e l’imperatore la propria libertà economica e la propria
indipendenza dai grandi proprietari terrieri.
Queste condizioni spiegano perché lo spirito dina-
mico, progressivo, innovatore, generalmente connesso al
commercio e agli scambi, all’economia urbana e mone-
taria, non abbia potuto penetrare a Bisanzio. La vita cit-
tadina, che di solito promuove l’uguaglianza e l’eman-
cipazione, funge qui da supporto di una cultura ristret-

Storia dell’arte Einaudi 14


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ta, conservatrice. Grazie alla politica costantiniana in


favore delle città, fin da principio Bisanzio ebbe una
struttura sociale diversa dalle città del mondo antico,
dell’alto e del basso Medioevo. Specialmente la legge che
condizionava la proprietà di terreni in certe parti del-
l’Impero alla proprietà di una casa a Costantinopoli,
provocò l’emigrazione dei proprietari di terre verso la
città; e cosí si sviluppò una particolare aristocrazia urba-
na che fu sempre piú fedele all’imperatore della nobiltà
occidentale12. Questo ceto economicamente soddisfatto
e conservatore agí in senso stabilizzante anche sul resto
della popolazione, e contribuí alla nascita e all’afferma-
zione di una cultura caratteristica di una monarchia
assoluta, con la sua tendenza all’uniformità, alla con-
venzione, alla stasi, proprio in una città commerciale e
tendenzialmente irrequieta come Costantinopoli.
La forma politica dell’impero bizantino fu il cesaro-
papismo, che raccoglieva il potere temporale e spirituale
nelle mani di un autocrate. La supremazia dell’imperatore
sulla Chiesa si fondava sulla dottrina, elaborata dai Padri
e sancita dalle leggi giustinianee, del diritto divino, desti-
nato a sostituire l’antico mito dell’origine divina del re,
inconciliabile con la fede cristiana. Se l’imperatore non
poteva essere «divino», poteva essere tuttavia il rappre-
sentante di Dio in terra o, come Giustiniano si faceva
volentieri chiamare, il suo archipresbyteros. Non ci fu
mai, in Occidente, uno stato cosí teocratico, mai nella
storia moderna il servizio del principe fu parte cosí essen-
ziale del servizio di Dio. In Occidente gli imperatori
erano soltanto sovrani temporali, ed ebbero sempre nella
Chiesa una rivale, quando non un’aperta avversaria. In
Oriente, invece, essi erano al vertice di tutt’e tre le gerar-
chie: Chiesa, esercito e amministrazione13, e considera-
vano anche la Chiesa come un «dicastero statale».
L’autocrazia, spirituale e temporale, dell’imperatore
d’Oriente, spesso esigentissima per la fedeltà dei sudditi,

Storia dell’arte Einaudi 15


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

doveva apparire in modo da eccitare la fantasia della


gente, rivestirsi di forme imponenti e trincerarsi dietro
un mistico cerimoniale. La corte ellenistico-orientale,
con la sua solennità inaccessibile e la rigidissima eti-
chetta che vietava ogni improvvisazione, era la cornice
adatta per un effetto di questo genere. Ma a Bisanzio la
corte, ancor piú che ai tempi dell’ellenismo, fu il centro
di tutta la vita intellettuale e sociale. E prima di tutto,
la corte era non solo il maggiore, ma di fatto l’unico
committente di lavori artistici di un certo impegno, poi-
ché da essa venivano i piú importanti incarichi anche per
le chiese. Solo a Versailles l’arte fu di nuovo cosí total-
mente aulica. Ma forse non fu mai cosí interamente
regale, cosí sottratta all’influsso dell’aristocrazia; e non
divenne mai, come a Bisanzio, la rigida, inerte immagi-
ne del conformismo ecclesiastico e politico. In nessun
luogo l’aristocrazia fu cosí soggetta al monarca, cosí
interamente ed esclusivamente ceto di burocrati e impie-
gati creato dall’imperatore e accessibile solo ai suoi favo-
riti; non quindi casta chiusa o nobiltà ereditaria, anzi
neppure nobiltà nel senso stretto della parola. L’auto-
cratismo dell’imperatore non permetteva l’affermarsi di
privilegi ereditari. La classe dei grandi e degli influenti
coincideva sempre con la burocrazia; si avevano privi-
legi solo finché si era in servizio. Perciò, trattandosi di
Bisanzio, bisognerebbe parlare solo di Grandi del regno,
e non di una casta nobiliare. Il senato, rappresentanza
politica del ceto superiore, veniva reclutato, da princi-
pio, solo tra i funzionari, e soltanto piú tardi, quando la
proprietà fondiaria ebbe conseguito una posizione pri-
vilegiata, anche fra i proprietari di terre14. Ma nono-
stante i favori goduti da costoro rispetto agli industria-
li e ai mercanti, non si può parlare di una nobiltà feu-
dale, e neppure di una nobiltà ereditaria15. Fra la ric-
chezza e la dignità sociale, la carriera burocratica era l’a-
nello necessario. I ricchi latifondisti – ed essi soli erano

Storia dell’arte Einaudi 16


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

veramente ricchi – dovevano procurarsi un titolo uffi-


ciale, magari comprandolo, per essere annoverati tra i
Grandi; i funzionari, a loro volta, tendevano alla sicu-
rezza economica attraverso l’acquisto di beni fondiari.
E si giunse a una fusione cosí perfetta delle due classi
dirigenti, che – da ultimo – tutti i latifondisti erano fun-
zionari, e tutti i funzionari latifondisti16.
Ma l’arte aulica bizantina non avrebbe mai potuto
diventare l’arte cristiana per eccellenza, se la Chiesa
stessa non fosse diventata un’autorità assoluta e non si
fosse sentita signora del mondo. In altre parole: lo stile
bizantino poté affermarsi dovunque ci fosse arte cri-
stiana, solo perché la Chiesa cattolica pretendeva in
Occidente alla stessa potenza che l’imperatore posse-
deva a Bisanzio. Lo scopo dell’arte era identico nei due
casi: espressione di autorità assoluta, di grandezza
sovrumana, di mistica inaccessibilità. La tendenza a
una rappresentazione prestigiosa dei personaggi a cui si
tributa rispetto e venerazione, tendenza che comincia
ad affermarsi fin dal basso Impero, culmina nell’arte
bizantina. Anche qui, come già nell’antico Oriente, l’e-
spediente principale è la frontalità. Si mette in moto un
duplice meccanismo psichico: da un lato il rigido atteg-
giamento della figura rappresentata frontalmente indu-
ce in chi guarda una disposizione spirituale corrispon-
dente; dall’altro, l’artista esprime, in questo atteggia-
mento, la propria venerazione per lo spettatore che egli
immagina sempre nella persona del basileus, suo com-
mittente e protettore. Questa venerazione è il signifi-
cato della frontalità anche quando, o meglio – per il
funzionamento simultaneo dei due meccanismi – pro-
prio quando il sovrano medesimo è il personaggio rap-
presentato, e si verifica il paradosso che l’atteggiamen-
to rispettoso venga assunto proprio dalla persona a cui
va il rispetto dell’artista. Il meccanismo psicologico di
questa auto-oggettivazione non è altro che quello per

Storia dell’arte Einaudi 17


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

cui il re rispetta rigorosamente l’etichetta che gravita


intorno alla sua persona. In certo qual modo, grazie alla
frontalità, ogni figura assume un carattere ufficiale. Il
formalismo del rituale aulico ed ecclesiastico, la solen-
ne gravità della vita regolata da criteri ascetici e dispo-
tici, la tendenza simbolico-cerimoniale della gerarchia
ecclesiastica e mondana, pongono all’arte le stesse esi-
genze e si esprimono nello stesso stile. L’arte rappre-
senta Cristo come un re, Maria come una regina; l’uno
e l’altra indossano vesti preziose e regali, e siedono
freddi, inespressivi e distanti sul loro trono. Il lungo
corteo dei martiri e dei santi si avvicina a loro in lenti
ritmi solenni, come il seguito dell’imperatore e del-
l’imperatrice nelle cerimonie di corte. Gli angeli assi-
stono e formano processioni severamente ordinate,
come i dignitari ecclesiastici nelle feste religiose. Tutto
è grande e possente, ogni elemento umano, soggettivo,
arbitrario è soppresso. Un rituale intangibile vieta a
quelle figure di muoversi liberamente, di uscire dalle
file, persino di volgere lo sguardo. Nei mosaici dedica-
tori di San Vitale troviamo il paradigma, artisticamen-
te insuperato, di una vita assorta nella celebrazione.
Nessun’altra arte, classica o classicheggiante, idealisti-
ca o astratta, ha piú saputo esprimere ritmo e forma con
tanta immediata purezza. Piú nulla di complicato, di
sfumato o trascolorante nella penombra: tutto è sem-
plice, chiaro, distinto; tutto è contenuto in forti con-
torni ininterrotti, in colori puri, senza gradazioni. La
situazione epico-aneddotica si è trasformata senza resi-
dui in una scena ufficiale. Giustiniano e Teodora col
loro seguito recano offerte: un tema insolito come moti-
vo principale per il presbiterio di una chiesa. Ma, come
in quest’arte cesaropapistica le scene sacre acquistano
il carattere di cerimonie di corte, cosí le solennità della
corte s’inquadrano senza difficoltà nella cornice del
rituale ecclesiastico.

Storia dell’arte Einaudi 18


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Nell’architettura, specie nella disposizione interna


delle chiese, si esprime lo stesso spirito «regale», auto-
ritario e solenne che domina i mosaici delle pareti. Fin
dall’inizio la chiesa cristiana si distingue dal tempio
antico per essere soprattutto la casa della comunità, e
non solo la casa del dio; e il centro ideale dell’architet-
tura si sposta dall’esterno all’interno dell’edificio. Ma
sarebbe errato scorgere in questo l’espressione di un
principio democratico e interpretare la chiesa, fin dal-
l’inizio, come un genere architettonico piú popolare del
tempio. Già nell’architettura romana l’attenzione si spo-
sta dall’esterno all’interno, il che, in sé e per sé, non dice
nulla sulla funzione sociale dell’edificio. La struttura
basilicale, che la chiesa paleocristiana desume dagli edi-
fici pubblici romani, divisa internamente in sezioni di
diverso grado e valore, dove il coro – riservato al clero
– è separato dallo spazio restante, aperto a tutti, corri-
sponde a una tendenza aristocratica piuttosto che demo-
cratica. Ma l’architettura bizantina, che integra con la
cupola lo schema della basilica paleocristiana, rafforza
l’elemento «antidemocratico» della suddivisione dello
spazio interno in zone nettamente circoscritte. La cupo-
la, corona dell’intero edificio, accentua e sottolinea la
cesura tra le varie parti dell’interno.
La miniatura presenta all’incirca lo stesso stile dei
mosaici, solenne, pomposo, astratto; ma è piú vivace e
spontanea nell’espressione, piú libera e varia nei suoi
temi, della grande decorazione parietale. Vi si possono
distinguere due correnti: quella delle grandi, lussuose
miniature a piena pagina, che si ispirano allo stile degli
eleganti manoscritti alessandrini; e quella dei libri piú
modesti, destinati all’uso dei conventi, dove le illustra-
zioni si limitano spesso a disegni in margine e corri-
spondono, col loro naturalismo orientale, al gusto piú
semplice dei monaci17. I mezzi relativamente modesti
che la miniatura richiede, permettono una produzione

Storia dell’arte Einaudi 19


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

anche per gente meno altolocata e di gusti piú liberali


di quel che non siano i committenti dei costosi mosaici.
La tecnica piú scorrevole, piú semplice, favorisce fin dal-
l’inizio una certa libertà e si presta a esperimenti indi-
viduali, piú che non il complesso e difficile procedi-
mento musivo. Tutto lo stile della miniatura è quindi piú
naturale e piú schietto di quello solenne delle chiese18; e
questo spiega perché le botteghe degli scrivani siano
divenute, durante l’iconoclastia, il rifugio dell’arte orto-
dossa e popolare19.
Ma semplificheremmo erroneamente la realtà storica
se nell’arte bizantina, o anche solo nel mosaico, voles-
simo negare ogni traccia di naturalismo. I ritratti che
essa inserisce nelle sue rigide composizioni, sono spesso
di una fedeltà sorprendente; e ciò che piú meraviglia in
quest’arte è forse proprio la sua capacità di armonizza-
re questi contrasti. I ritratti della coppia imperiale e del
vescovo Massimiano nei mosaici di San Vitale sono per-
suasivi, vivaci e parlanti come i migliori ritratti del basso
Impero. Pare che a Bisanzio, come a Roma, e nono-
stante ogni restrizione stilistica, non si sapesse rinun-
ciare alla caratterizzazione fisiognomica. Si potevano
impostare le figure di fronte, allinearle secondo un ordi-
ne astratto, irrigidirle nella solennità cerimoniale; ma,
dove si trattava di ritrarre personaggi ben noti, non si
poteva prescindere dal caratteristico. Ci troviamo di
fronte, in ogni caso, ad una fase già avanzata dell’arte
paleocristiana20, che si avvia a una nuova differenzia-
zione e cerca la sua strada nella direzione della minor
resistenza.

Storia dell’arte Einaudi 20


Capitolo terzo

Cause e conseguenze dell’iconoclastia

Le disgraziate guerre dei secoli vi, vii e vii, che richie-


sero la collaborazione dei proprietari di terre per la con-
tinua reintegrazione dell’esercito, rafforzarono la poten-
za di quella classe e condussero anche in Oriente a una
specie di feudalesimo. Mancava, è vero, quella recipro-
ca dipendenza di signori e vassalli che caratterizza il
sistema feudale in Occidente, ma anche qui l’imperato-
re si trovò a dipendere piú o meno dai proprietari ter-
rieri, non appena non ebbe piú i mezzi necessari per
mantenere un esercito mercenario21. Tuttavia il sistema
della concessione di possessi fondiari come ricompensa
per servigi militari si sviluppò solo in piccola scala nel-
l’Impero d’Oriente. Qui il benefizio non toccava, come
in Occidente, a magnati e cavalieri, ma a contadini e
semplici soldati. Naturalmente i latifondisti cercavano
di riassorbire queste terre, come avevano fatto in Occi-
dente con la proprietà dei contadini liberi; e anche qui
i contadini, per i gravami fiscali spesso insopportabili,
si mettevano sotto la protezione dei grandi, come in
Occidente avveniva per mancanza di sicurezza civile. Da
parte loro gli imperatori, almeno in un primo tempo, si
opposero con ogni mezzo all’estensione del latifondo, e
questo – in primo luogo – per non cadere essi stessi in
balia dei grandi proprietari. Il loro principale sforzo,
durante la lunga, disperata lotta contro Persiani, Avari,
Slavi e Arabi, fu rivolto all’esercito: ogni altra conside-

Storia dell’arte Einaudi 21


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

razione passava in secondo piano. Anche il divieto di


adorare le immagini non fu che una delle loro misure di
guerra.
Propriamente l’iconoclastia non fu un movimento
ostile all’arte; non perseguitò l’arte in generale, ma solo
un determinato tipo di arte: si rivolse soltanto contro le
rappresentazioni di contenuto religioso, mentre le pit-
ture decorative furono tollerate anche al tempo della piú
selvaggia persecuzione. La lotta aveva soprattutto uno
sfondo politico; l’ostilità all’arte, in quanto tale, non fu
che un motivo secondario e relativamente trascurabile,
forse il piú trascurabile di tutti. Alle origini del movi-
mento esso ebbe, in ogni caso, la parte minore, anche
se contribuí poi in misura non disprezzabile alla diffu-
sione dell’idea iconoclastica. Certo l’orrore per la figu-
razione del divino, come la repulsione per tutto ciò che
ricordasse il culto degli idoli, non era piú cosí forte, per
i tardi Bizantini amanti dell’arte, come per i primi cri-
stiani. Prima che il cristianesimo fosse riconosciuto dallo
stato, la Chiesa aveva combattuto per ragioni di princi-
pio contro l’uso delle immagini nel culto, e anche nei
cimiteri le aveva tollerate solo con gravi restrizioni.
Anche qui erano proibiti i ritratti, si evitavano le scul-
ture, e le pitture erano limitate a rappresentazioni sim-
boliche. In generale si rifuggiva dall’adornare le chiese
con opere d’arte. Clemente Alessandrino sottolinea che
il secondo comandamento riguarda le immagini di ogni
specie; e questa è la norma per la Chiesa primitiva e per
i Padri. Ma dopo l’editto di Milano non c’era piú da
temere ricadute nel culto degli idoli, e l’arte, anche se
non senza resistenze e limitazioni, poté mettersi al ser-
vizio della Chiesa. Ancora nel secolo iii, Eusebio dichia-
rava contraria alla Scrittura e idolatrica la rappresenta-
zione di Cristo, e immagini isolate di Cristo sono rela-
tivamente rare anche nel secolo successivo. Solo nel
secolo v s’intensifica la produzione di questo genere. Ma

Storia dell’arte Einaudi 22


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

poi l’immagine del Salvatore diventa un oggetto di culto


e infine una specie di protezione magica contro il Mali-
gno22. Un’altra fonte dell’iconoclastia, indirettamente
collegata all’orrore degli idoli, è l’avversione dei primi
cristiani all’estetismo sensuale dell’antichità classica.
Questo motivo spiritualistico è formulato in mille guise
dagli antichi cristiani, e trova la sua espressione forse piú
caratteristica in Asterio di Amasia, che respinge ogni
rappresentazione del Santo, perché un’immagine non
può fare a meno di sottolineare gli elementi materiali e
sensibili. «Non dipingere il Cristo, – ammoniva, – gli
basta l’umiliazione dell’incarnazione, a cui si è sottopo-
sto spontaneamente e per amor nostro; anzi accogli il
Verbo incorporeo nell’anima tua»23.
Molto piú importante di tutti questi motivi fu la
lotta contro l’idolatria, a cui il culto delle immagini,
aveva condotto in Oriente. Ma non era neppure questo
che piú premeva a Leone III Isaurico; la purezza della
religione gli stava a cuore assai meno dell’azione «illu-
ministica», ch’egli si riprometteva vietando il culto delle
icone. E anche piú importante dev’essere stata per lui
la considerazione di quei cospicui e dotti circoli ch’egli
sperava di conquistarsi con quel divieto». L’influsso dei
Pauliciani aveva diffuso in quei circoli una tendenza
alla «riforma», e qua e là s’erano levate voci che respin-
gevano l’intero sistema sacramentale, il rituale «pagano»
e la costituzione ufficiale del clero. Ma nulla appariva
loro piú pagano dell’idolatria connessa alle immagini
sacre, e almeno in questo la dinastia puritana degli Isau-
ri, di origine contadina, concordava perfettamente con
quei notabili25. Ad agevolare la diffusione dell’iconocla-
stia, contribuirono moltissimo i successi militari degli
Arabi, che non conoscevano icone. L’opinione mao-
mettana, trovò seguaci, come sempre ne trova il suc-
cesso. Fare a meno delle icone, come gli Arabi, diven-
ne una moda a Bisanzio. Molti attribuivano la fortuna

Storia dell’arte Einaudi 23


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

del nemico alla sua ripugnanza per le immagini, e pen-


savano di potergli semplicemente rubare il segreto. Altri
forse volevano mitigare l’animo dell’avversario adot-
tandone il costume. I piú, probabilmente, eran d’avvi-
so che la rinuncia al culto delle immagini non poteva
recare alcun danno.
Ma il movente principale e, in ultima analisi, decisi-
vo dell’iconoclastia fu la lotta impegnata dagli impera-
tori e dai loro fidi contro la potenza sempre piú grande
dei monaci. In Oriente questi non esercitavano certo
sulla vita spirituale degli alti ceti un influsso cosí gran-
de come in Occidente. La cultura laica, a Bisanzio,
aveva una sua tradizione, direttamente legata all’anti-
chità classica; e non aveva bisogno della mediazione
dei monaci. Tanto piú intimi erano i rapporti fra que-
sti ultimi e il popolo; e si formava cosí un fronte comu-
ne che, in certe condizioni, poteva diventare pericolo-
so per il governo. Già i monasteri erano mete di pelle-
grinaggio, a cui la gente affluiva coi suoi dubbi, con le
sue pene, recando suppliche e doni. La massima attrat-
tiva dei conventi erano le icone miracolose; un’icona
celebre era una fonte inesauribile di gloria e di ricchez-
za per il convento che la possedeva. I monaci si mostra-
vano condiscendenti verso gli usi della religione popo-
lare, il culto dei santi e delle reliquie, la venerazione
delle immagini, per accrescere non solo le loro entrate,
ma la loro autorità.
Leone III si sentiva ostacolato nel suo proposito di
fondare un forte stato militare soprattutto dalla Chiesa
e dai monaci. Fra i maggiori latifondisti erano i princi-
pi della Chiesa e i conventi, esenti da tasse. Non solo,
ma i conventi, data la popolarità della vita monastica,
sottraevano molte forze giovanili all’esercito, alla buro-
crazia e all’agricoltura; e al fisco, per le continue dona-
zioni e fondazioni pie, toglievano considerevoli introi-
ti26. L’imperatore, vietando il culto delle icone, li privò

Storia dell’arte Einaudi 24


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

del piú efficace mezzo di propaganda27. Il provvedi-


mento colpí in loro i produttori, i possessori e i custodi
delle immagini, ma soprattutto i difensori del magico
alone che ne avvolgeva la santità. L’imperatore doveva
dissiparlo, se voleva conseguire i suoi intenti totalitari.
A questa spiegazione del fenomeno iconoclastico la sto-
riografia «idealistica» obietta che la persecuzione comin-
ciò solo tre o quattro decenni dopo il divieto del culto
delle icone, e che, sotto Leone III, non s’intrapresero
contro i monaci ostilità dirette28. Come se non fosse
bastato il divieto a colpirli sensibilmente! Un assalto
diretto non era necessario, né giustificato, prima che si
opponessero al divieto; ma non appena ciò avvenne, si
passò alle persecuzioni personali.
L’iconoclastia non fu un movimento puritano, plato-
nico o tolstoiano, diretto contro l’arte in quanto tale.
Non determinò un arresto dell’attività artistica, ma solo
un nuovo orientamento; si direbbe anzi che abbia pro-
dotto un effetto stimolante sulla produzione, che era
caduta ormai in un meccanico e monotono formalismo.
I temi puramente ornamentali, a cui i pittori dovevano
attenersi, li ricondussero verso lo stile ellenistico, e l’af-
francamento dalle esigenze del clero permise di trattare
con piú freschezza i temi naturali29. Quando questi temi
si svilupparono in scene di caccia e di giardino, anche la
figura umana divenne piú libera e mossa, meno piatta e
frontale. La seconda fioritura dell’arte bizantina nei
secoli ix e x, che mantenne le conquiste naturalistiche
di quello stile profano trasponendole nella pittura sacra,
potrebbe essere quindi considerata, a ragione, come una
conseguenza dell’iconoclastia30. Comunque, l’arte bizan-
tina ricadde presto in forme stereotipe. Questa volta la
corrente conservatrice non partiva dalla corte, ma dai
conventi, e cioè proprio dai luoghi che già erano stati la
sede della tendenza piú libera, meno convenzionale, piú
popolare. Come un tempo l’arte aulica, ora quella mona-

Storia dell’arte Einaudi 25


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

stica cerca un canone saldo, coerente, intangibile. L’or-


todossia dei monaci, vittoriosa nella contesa delle imma-
gini, è diventata conservatrice in seguito alla vittoria;
tanto che le icone greco-orientali del secolo xvii non dif-
feriscono essenzialmente da quelle dell’xi.

Storia dell’arte Einaudi 26


Capitolo quarto

Dalle invasioni barbariche al Rinascimento


carolingio

L’arte barbarica, in confronto a quella romano-cri-


stiana, è un fenomeno regressivo: stilisticamente, è sullo
stesso piano dell’età del ferro. Mai concezioni cosí
profondamente contrastanti si trovarono geografica-
mente vicine come allora, quando a Bisanzio l’arte rap-
presentava figure, sia pure entro rigidi schemi, con alto
virtuosismo tecnico; mentre nell’Occidente, occupato da
stirpi germaniche e celtiche, dominava un geometrismo
astratto e puramente decorativo. Per quanto fantasiosa
e complicata, col suo molteplice intrico di motivi (nastri,
trecce e spirali, corpi incrociati di animali e figure umane
contorte), quest’arte decorativa, dal punto di vista del-
l’evoluzione storica generale, non oltrepassa l’epoca di
La Tène. Essa rivela il suo carattere primitivo soprat-
tutto nella straordinaria povertà di figure – la figura
umana appare solo nelle miniature irlandesi e anglosas-
soni – ma anche nella rinuncia a dare agli oggetti rap-
presentati una sia pur minima consistenza corporea.
Nonostante l’esplosivo dinamismo formale, spesso effi-
cacissimo, è e rimane arte minore, meticoloso artigia-
nato, mania di gioco. Ciò che il suo «goticismo segreto»
ha in comune col gotico vero è, caso mai, la tensione del-
l’astratto gioco di forze, ma non certo la sostanza, non
lo spirito. Sia che in questo gioco lineare si esprima una
particolarità germanica o, come è piú verosimile, un
decorativismo scitico e sarmatico di cui i Germani furo-

Storia dell’arte Einaudi 27


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

no soltanto il tramite31, siamo di fronte a un fenomeno


che significa la completa dissoluzione della visione clas-
sica e forma «il piú stridente contrasto con ogni senso
artistico mediterraneo»32.
L’arte barbarica fu un’arte «popolare», come sostie-
ne il Dehio? Fu un’arte rustica: l’arte delle stirpi conta-
dine che inondarono l’Occidente, di un popolo ancora
al livello della produzione primitiva. Se si vuole consi-
derare popolare ogni arte rustica, o se per arte popola-
re s’intende un’arte relativamente semplice, destinata a
un pubblico culturalmente indifferenziato, l’arte barba-
rica fu un’arte popolare. Non lo fu, se si vuol designa-
re, con questo termine, un’attività non professionale e
non specializzata. La maggior parte degli oggetti che ci
sono pervenuti presuppongono un’abilità artistica assai
superiore a ogni dilettantismo; non si può pensare che
siano frutto di attività saltuarie, ma anzi di profonda
preparazione e di lunga pratica. È probabile che i Ger-
mani non avessero ancora molti artigiani specializzati,
e senza dubbio l’artigianato era ancora in gran parte
un’attività casalinga; ma la produzione di ornamenti
come quelli a noi pervenuti non può essere stata un’oc-
cupazione marginale per i loro autori33.
Per lo piú i Germani erano liberi coltivatori che lavo-
ravano personalmente i loro campi, ma erano anche –
in parte – signori di terre che lasciavano condurre ai loro
servi. Al tempo delle invasioni, in ogni caso, non si
poteva piú parlare di terre in comune34. Si possono tra-
scurare le differenze sociali solo perché tutta la civiltà
era ancora allo stadio dell’economia agricola. Anche
qui, come dappertutto a partire dall’età neolitica, il geo-
metrismo corrisponde a una società rurale, ma anche
qui, come in tutti gli altri casi, non presuppone l’idea
di una proprietà collettiva. Di fronte all’arte rustica di
altri tempi e di altri popoli, l’arte barbarica non ha
nulla di particolare; è singolare tuttavia che il geome-

Storia dell’arte Einaudi 28


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

trismo dei contadini germanici non solo si perpetui, ma


si intensifichi – attraverso l’estensione dei propri prin-
cipî formali alla figura umana – nella miniatura dei
monaci irlandesi. Qui l’astrazione raggiunge, e talvolta
supera, quella del geometrismo protogreco. Non solo il
puro fregio, non solo la pianta e l’animale, ma anche le
forme umane vengon tradotte in segni calligrafici e per-
dono ogni ricordo della loro sostanza corporea e della
loro natura organica.
Perché mai un’arte cosí esperta e raffinata come quel-
la dei dotti monaci, e destinata a un pubblico dotto,
rimase allo stadio dell’arte barbarica? La ragione prin-
cipale è forse che l’Irlanda non fu mai una provincia
romana e quindi non ebbe contatti diretti con l’arte
classica. Con ogni probabilità, la maggior parte dei
monaci irlandesi non ebbe mai occasione di vedere scul-
ture provenienti da Roma, e neppure codici miniati
romani o bizantini dovevano giungere troppo spesso in
Irlanda: non abbastanza spesso, in ogni caso, per fon-
dare una tradizione artistica. Cosí l’astratto formalismo
barbarico non urtò contro resistenze cosí forti come
quelle che sul continente provocava l’arte romana. A
spiegare il «rustico» geometrismo di quelle miniature
concorre anche lo speciale carattere della vita monasti-
ca irlandese, diversa dal monachesimo continentale e
specialmente da quello bizantino. I monasteri greci si
trovavano in vicinanza delle città e prendevano parte
attiva alla vita urbana, agli scambi, alle correnti della
cultura internazionale, agli avvenimenti scientifici e arti-
stici; i monaci si dedicavano solo a lavori fisici leggeri e
il loro tenore di vita era ben diverso da quello del con-
tadino. Mezzi contadini, invece, sono ancora i monaci
irlandesi. Lo stesso Patrizio era figlio di un medio pro-
prietario, dunque un rusticus, e nelle sue fondazioni
monastiche seguiva alla lettera l’aspra regola benedetti-
na. Cosa strana, la piú antica poesia irlandese, frutto

Storia dell’arte Einaudi 29


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

della stessa civiltà che ci diede quelle antichissime minia-


ture, rivela un vivacissimo senso della natura, per cui si
può quasi parlare – piú che di una precisa osservazione
naturalistica – di un impressionismo nervoso e reattivo.
Non è facile capire come possano appartenere a una
medesima civiltà due fenomeni cosí diversi come quel-
le miniature, in cui ogni forma naturale diventa un ghi-
rigoro, e descrizioni come questa: «Lieve sussurro, dolce
sussurro, soave musica dell’universo, tenera voce di un
cuculo in cima agli alberi; gioca il pulviscolo nel raggio
del sole, i giovenchi sono innamorati... del monte»35.
Non si può spiegare questo contrasto se non con un dise-
guale sviluppo delle varie arti, che è un fenomeno fre-
quente; e anche qui siamo di fronte a uno di quei perio-
di storici le cui diverse manifestazioni artistiche non si
possono ridurre a un comune denominatore stilistico. Il
naturalismo di un’epoca, maggiore o minore a seconda
delle varie arti, non dipende solo dal livello generale
della cultura (anche se la struttura sociale è uniforme),
ma anche dal tipo, dall’età e dalle speciali tradizioni
delle varie arti e dei vari generi. Tradurre un’esperien-
za della natura in parole e ritmi, oppure in linee e colo-
ri, non è per nulla la stessa cosa. Un’epoca può riuscire
nell’un caso e fallire nell’altro; nel primo conserverà
con la natura un rapporto relativamente libero e fresco,
mentre nell’altro lo stesso rapporto è ormai diventato
convenzionale e schematico. Gli Irlandesi, che sapeva-
no trovare immagini poetiche come questa: «L’uccel-
letto dalla punta del becco giallo e lustro lancia un
fischio; il merlo dal folto dell’albero giallo manda un
richiamo oltre Loch Laig»36, e parlare dei «calzari dei
cigni» e dei «mantelli invernali dei corvi»37, disegnava-
no e dipingevano uccelli di cui sarebbe difficile dire se
siano pulcini o aquilotti. Il perfetto parallelismo stilisti-
co in arti e generi diversi presuppone una civiltà in cui
l’arte non deve piú lottare per i suoi mezzi espressivi,

Storia dell’arte Einaudi 30


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ma è relativamente libera di scegliere fra diverse forme


possibili. È certo che, nell’età paleolitica, all’evoluto
naturalismo pittorico non corrispose nulla di simile nella
poesia: se poesia ci fu. Nell’antica Irlanda, invece, le
metafore linguistiche hanno creato immagini di vita
naturale inaccessibili alla pittura, ancora inesperta, e
tutta rivolta al decorativismo dell’epoca barbarica. Per
la poesia gli Irlandesi dipendevano da tutt’altra tradi-
zione. Ai poeti dovevano essere ben noti idilli latini o
di derivazione latina, mentre i pittori, per lo piú, cono-
scevano solo il geometrismo delle rustiche stirpi celtiche
o germaniche. Poeti e pittori, del resto, dovevano appar-
tenere a diversi ceti sociali e culturali, e questa diffe-
renza si esprime anche nel loro atteggiamento di fronte
alla natura. Sappiamo che i miniatori erano semplici
monaci; mentre possiamo supporre che gli autori dei
poemi epici o degli idilli fossero poeti di professione,
appartenenti al ceto – tenuto in grande onore – dei
poeti aulici, o a quello dei bardi, forse meno apprezza-
ti, ma, per la loro dottrina, compresi anch’essi nell’alta
società38. L’idea dell’origine popolare39 di quei poemi
risale alla concezione romantica per cui «naturale» e
«popolare» sono concetti intercambiabili, quando in
realtà sono piuttosto concetti opposti. La stessa visione
immediata della natura, che troviamo nella lirica irlan-
dese, appare nel passo seguente tratto dalla vita di un
santo, e cioè da un’opera letteraria che non ha certo
nulla a che fare con la poesia popolare. Il passo narra di
un bambino che, giocando sulla costa, cade in acqua, ma
viene salvato dal santo, e passa a descriverlo mentre
gioca con le onde, su un banco di sabbia in mezzo al
mare: «Allora le onde giungevano fino a lui e gli ride-
vano intorno, ed egli rideva alle onde e toccava con la
mano la spuma delle loro creste, e leccava la spuma,
come spuma di latte appena munto»40.
Dopo le invasioni dei barbari sorgerà – in Occiden-

Storia dell’arte Einaudi 31


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

te – una nuova società, con una nuova aristocrazia e una


nuova classe colta. Ma, nel frattempo, la cultura scen-
de a un livello ignoto all’antichità classica, e rimane ste-
rile per secoli. L’antica civiltà non finisce con una frat-
tura improvvisa; economia, società e arte romana deca-
dono e muoiono solo a poco a poco, e il trapasso al
Medioevo avviene per gradi, quasi insensibilmente. La
continuità si manifesta specialmente nella sopravviven-
za delle forme economiche del basso Impero41; il fon-
damento della produzione resta l’economia agricola con
la grande proprietà e il colonato42. Si continua ad abi-
tare nelle vecchie sedi, e si restaurano, in parte, anche
le città devastate. Continua l’uso del latino, resta in
vigore il diritto romano e resiste soprattutto l’autorità
della Chiesa cattolica, che, con la sua struttura, funge
da modello ad ogni governo. Scompaiono, peraltro, l’e-
sercito romano e l’antica amministrazione. Il nuovo
stato cerca di salvare le istituzioni – gestione delle finan-
ze, sistema giudiziario, polizia – ma le cariche, almeno
le piú importanti, sono occupate da gente nuova; e dalla
nuova burocrazia si sviluppa, in larga misura, la nuova
aristocrazia.
Le conquiste dei Germani affrettano il passaggio dal-
l’antico stato tribale alla monarchia assoluta. La fonda-
zione di nuovi stati determina mutamenti che permet-
tono ai re vittoriosi di affrancarsi dall’assemblea degli
uomini liberi, elevandosi sul popolo e sulla nobiltà,
secondo l’esempio degli imperatori romani. Essi consi-
derano i paesi conquistati come possedimenti personali
e i loro seguaci come semplici sudditi, di cui dispongo-
no a piacimento. Ma ciò non basta ad assicurare la loro
autorità. Ognuno degli antichi capi-tribú poteva affer-
marsi come un rivale, ogni membro della vecchia ari-
stocrazia poteva diventar pericoloso. I re si liberarono
dal pericolo sterminando quasi completamente la vecchia
nobiltà tribale, che aveva già subito perdite enormi nelle

Storia dell’arte Einaudi 32


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

guerre di conquista. È forse eccessivo affermare che di


essa non sia rimasto proprio nulla43, e che non ci fosse-
ro piú famiglie nobili al di fuori dei Merovingi44; ma
certo i superstiti non erano piú pericolosi per il re. E tut-
tavia, fin dal tempo dei Merovingi, la nobiltà torna a
essere numerosa. Come si è formata? E di quali ele-
menti? Oltre ai resti della nobiltà tribale germanica, ne
facevano parte i membri della classe senatoria romana –
certo non molto numerosi – che vivevano nelle regioni
occupate. Comunque, molti degli antichi possidenti
gallo-romani conservarono beni e privilegi, benché il
favore dei re andasse alla nuova nobiltà. Questa nobiltà,
burocratica e militare, non era solo la parte piú influen-
te, ma anche la parte piú numerosa dell’aristocrazia
franca. Dopo la fondazione del nuovo stato, la sola via
per accedere a nuovi onori passava attraverso il servizio
del re; chi lo serviva contava piú degli altri, e apparte-
neva di diritto all’aristocrazia. Ma questa non era anco-
ra una vera nobiltà, perché i privilegi si potevano per-
dere, non erano ereditari, e non si fondavano sulla nasci-
ta e sull’origine, ma sull’ufficio e sulla proprietà45. Senza
contare che questa aristocrazia era ben lontana dal for-
mare un coerente gruppo etnico; si componeva di ele-
menti gallici, romani e germanici, e i Franchi, almeno di
fronte ai Romani, non godevano di alcun vantaggio.
Per questo riguardo, la spregiudicatezza dei re andava
fino al punto di permettere, e magari agevolare, a gente
di bassa estrazione, perfino a schiavi fuggiaschi, l’ac-
cesso ai massimi onori46. Per l’autorità regia essi erano
certo meno pericolosi dei membri delle antiche stirpi, e
spesso piú idonei ai nuovi compiti.
Fin dal secolo vi alcuni funzionari, e soprattutto i piú
alti impiegati, i «conti», ricevettero, oltre ai loro stipen-
di, assegnazioni di terre dalla Corona. Inizialmente il
possesso era assicurato solo per un certo numero d’anni,
ma poi fu una concessione a vita, e infine proprietà ere-

Storia dell’arte Einaudi 33


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ditaria. Gregorio di Tours – che è la nostra fonte per i rap-


porti sociali nell’epoca merovingia – non menziona anco-
ra concessioni in cambio di servigi militari, cioè, dona-
zioni di carattere feudale47. Il beneficium merovingio è
ancora un dono e non un pegno. Ma alle concessioni di
terre si unirono ben presto privilegi e immunità. Via via
che lo stato si rivelava incapace di proteggere la vita e i
beni dei sudditi, i grandi proprietari assumevano le sue
funzioni, e si arrogavano, nei loro territori, poteri sovra-
ni. Cosí, moltiplicandosi le concessioni, diminuiva non
solo la proprietà dei re, ma anche l’area in cui lo stato
aveva effettiva autorità. Infine il re fu sovrano solo sulle
proprie terre, spesso meno estese di quelle dei suoi piú
potenti sudditi. Questa forma politica corrispondeva del
resto allo sviluppo generale, che spostava il baricentro
della vita sociale dalla città verso la campagna.
A differenza della città, la campagna non è un terre-
no favorevole all’arte, specie a quella che non si limita
alla pura decorazione. Qui mancano le occasioni ade-
guate, il pubblico e i mezzi necessari. La prima causa del
ristagno artistico sotto i re Merovingi è certo la deca-
denza delle città e la mancanza di una stabile sede rega-
le. Si conclude ora quella metamorfosi della civiltà urba-
na in civiltà rurale che aveva avuto inizio nel tardo
Impero. L’economia monetaria delle città antiche è
regredita all’economia domestica e naturale dei latifon-
di, che ora tendono ad affrancarsi dagli organismi estra-
nei, come le città e i mercati. Ma non sarebbe giusto
affermare che l’autarchia feudale sia semplicemente la
conseguenza del declino delle città; se queste, coi loro
mercati, decaddero, è anche proprio perché i proprieta-
ri di terre, non riuscendo – per la scarsità del denaro –
a vendere i loro prodotti, si accinsero, nei limiti del pos-
sibile, a produrre ciò che occorreva loro e nulla di piú.
La rovina delle città spopolate giunse a tal punto che i
re dovettero ritirarsi nei loro domini, poiché nelle città

Storia dell’arte Einaudi 34


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

non riuscivano a scovare i mezzi di sussistenza necessa-


ri per sé e per il loro seguito, né a far fronte alle spese.
Per lo piú le città superavano questa crisi solo quando
erano sedi vescovili; ma anche in questo caso solo a
stento, ed è sintomatico che in Occidente, durante tutta
l’epoca franca, non sia nata neppure una città di rilie-
vo, mentre gli Arabi fondavano metropoli come Bagdad
e Córdova48. Anche città che furono residenze reali tem-
poranee, come Parigi, Orléans, Soissons, Reims, erano
relativamente piccole e scarsamente popolate. In nessu-
na di esse si sviluppò una vita di corte. In nessun luogo
si manifestò il bisogno di edifici e monumenti. Anche i
monasteri erano ancora troppo poveri per surrogare –
sotto questo rispetto – la corte e la città. Non c’era quin-
di città, né corte, né monastero dove potesse esplicarsi
una regolare attività artistica.
Nel secolo v c’era ancora dappertutto un’aristocrazia
colta, esperta di letteratura e d’arte; essa scompare quasi
del tutto nel vi; la nuova nobiltà franca non si cura
minimamente della cultura. E non solo la nobiltà, ma
anche la Chiesa attraversa un periodo d’incuria. Ci sono
spesso alti dignitari ecclesiastici che non sanno leggere,
e Gregorio di Tours, il nostro informatore, scrive in un
latino piuttosto incolto: segno che la lingua della Chie-
sa nel secolo vii è già lingua morta49. Le scuole laiche
decadono e si chiudono a poco a poco. Presto non resta-
no che le scuole delle cattedrali, che i vescovi debbono
mantenere per assicurare la continuità del clero. Cosí la
Chiesa si conquista quel monopolio sull’istruzione a cui
deve il suo influsso preponderante nella società occi-
dentale50. Lo stato è clericalizzato già per il semplice
fatto che la Chiesa prepara ed educa i suoi funzionari;
e i ceti colti laici si adeguano involontariamente al modo
di pensare ecclesiastico, perché le scuole delle cattedra-
li e, piú tardi, quelle dei conventi sono i soli istituti dove
possono mandare i loro figli.

Storia dell’arte Einaudi 35


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

La Chiesa resta, inoltre, la massima committente di


opere d’arte. I vescovi continuano a far costruire chiese,
dando lavoro a capimastri, carpentieri, falegnami, vetrai,
decoratori e anche scultori e pittori. Poiché non ci è
rimasto quasi nulla, non possiamo farci un’idea precisa di
questa attività artistica: ma se è lecito dalle poche minia-
ture che ci sono state conservate, trarre conclusioni gene-
rali, essa si limitava a continuare abbastanza pedissequa-
mente l’arte del basso Impero e a ripetere l’arte barbari-
ca. Non c’è piú nessuno, in Occidente, che sia capace di
rappresentare plasticamente un corpo; tutto si riduce a
decorazione piatta, gioco di linee, calligrafismo. I moti-
vi di questa decorazione, conforme al generale carattere
rustico, sono le forme dell’arte contadina: circoli e spirali,
intrecci di nastri e di lacci, pesci, uccelli e – sola innova-
zione rispetto all’arte barbarica – foglie e viticci. Sono
anche i motivi dell’oreficeria, a cui appartiene la maggior
parte degli oggetti conservati. Il loro numero relativa-
mente grande ci mostra quali sono gli interessi artistici
di questa società primitiva, per cui l’arte significa anzi-
tutto ornamento, eleganza, suppellettile fastosa e ricchi
gioielli. Essa serve soltanto – ciò che, in forma sublima-
ta, si verifica anche in civiltà molto piú evolute – all’o-
stentazione della potenza e della ricchezza.
Con l’incoronazione imperiale di Carlo Magno, il
carattere della monarchia franca muta radicalmente.
L’autorità secolare dei Merovingi si trasforma in teo-
crazia, e il re dei Franchi diventa il protettore della cri-
stianità.
I Carolingi restaurano l’indebolita autorità del regno
franco, ma non possono fiaccare la forza dell’aristocra-
zia, proprio perché le debbono parte del loro potere. A
partire dal secolo ix, i conti e i magnati diventano vas-
salli del re, ma i loro interessi sono spesso cosí opposti a
quelli della Corona che essi non possono mantenere a
lungo la fedeltà giurata al sovrano. La loro potenza e la

Storia dell’arte Einaudi 36


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

loro ricchezza non crescono, ma diminuiscono col raffor-


zamento dello stato. Affidando ai nobili l’amministra-
zione del paese, il governo centrale chiede i servigi di un
ceto che prima o poi si trasformerà in suo rivale, e che
agisce con tanto maggiore libertà, in quanto manca quasi
del tutto una gerarchia burocratica, con medi e piccoli
impiegati. Contro l’arbitrio dei conti, il re può fare ben
poco; in primo luogo, non può dimetterli, perché non
sono funzionari comuni, ma individui a cui i contadini
si sentono in certo qual modo legati; da generazioni,
sono i piú ricchi e cospicui del paese, e di fronte a loro i
nuovi funzionari parrebbero intrusi51. Re e stato non
possono evitare che sempre piú spesso i contadini ceda-
no la loro terra ai magnati, da cui, come da protettori,
torneranno a riceverla in usufrutto. L’evoluzione stori-
ca conduce irresistibilmente alla formazione dei grandi
latifondi e dei principati territoriali; e, benché questa
meta sia ancor molto lontana, ai tempi di Carlo Magno
l’autorità regia appare già cosí indebolita che il monarca
deve nuovamente mostrarsi piú potente di quel che in
realtà non sia. Egli deve presentarsi come il capo supre-
mo del nuovo stato, sacro e profano insieme, e fare della
sua corte il centro della moda e della cultura del regno.
Della corte di Aquisgrana, che accoglie un’accademia
di poesia, un’officina artistica annessa al Palazzo e i piú
insigni dotti del tempo, Carlo Magno fa una casa delle
Muse, prototipo delle corti principesche europee: cosa
del tutto nuova, anche di fronte al mecenatismo delle
corti imperiali di Roma e di Bisanzio. Dopo Adriano e
Marco Aurelio, accade ora per la prima volta che un
principe dell’Occidente, non solo dimostri un vero inte-
resse per la scienza, l’arte e la letteratura, ma segua un
proprio programma culturale. In realtà l’imperatore,
istituendo scuole di lettere, mira solo indirettamente al
rinnovamento della cultura; il suo vero scopo è la for-
mazione di un personale idoneo all’amministrazione. In

Storia dell’arte Einaudi 37


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

quegli istituti la letteratura latina è considerata anzitut-


to come una collezione di modelli di stile, e la si studia
per esercitarsi nell’uso della lingua ufficiale. Per quan-
to riguarda gli istituti medesimi, oggi si dubita che ci sia
stata una vera e propria scuola di palazzo, in cui, come
si diceva un tempo, si educavano i figli delle grandi
famiglie; opinione che deriverebbe da un’interpretazio-
ne errata dei testi, che con scholares, secondo quanto ora
si afferma, non indicano gli alunni di una schola palati-
na, ma le guardie dell’imperatore, giovani aristocratici
che venivano addestrati a corte come futuri soldati e
funzionari52. C’era invece senza dubbio, alla corte di
Carlo Magno, un circolo letterario di poeti e di dotti,
con sedute e concorsi regolari, che formavano una vera
accademia: e possiamo tenere per certo che alla corte
fosse annessa un’officina palatina, da cui uscivano codi-
ci miniati e oggetti d’arte.
Tutto il programma culturale di Carlo Magno si inse-
riva in una generale aspirazione di risuscitare l’antichità
classica. Egli dovette concepire quest’idea durante la
campagna d’Italia: e, pur dipendendo strettamente dalla
concezione politica di un rinnovamento dell’impero
romano, rappresenta la prima assimilazione, non soltan-
to vasta, ma creativa, della civiltà antica. È insostenibi-
le la tesi secondo cui il Medioevo non fu mai consape-
vole della distanza che lo separava dalla classicità e se ne
considerò sempre il diretto continuatore53. Il Rinasci-
mento carolingio si distingue dalla civiltà paleocristiana
proprio perché non continua semplicemente la tradizio-
ne romana, ma la riscopre. Per la prima volta l’antichità
classica diventa un’esperienza culturale, cui s’accompa-
gna la coscienza d’aver ritrovato, anzi riconquistato, un
bene perduto. Solo da questa esperienza nasce l’uomo
occidentale54, che non possiede la cultura antica, ma aspi-
ra a possederla. L’età di Carlo Magno si accontenta di
ricevere di seconda mano l’eredità classica. L’arte roma-

Storia dell’arte Einaudi 38


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

na dei secoli iv e v, l’arte bizantina dei secoli seguenti


rappresentano il patrimonio di motivi e di forme da cui
essa attinge modelli e ispirazione. E sebbene, nel suo
baldo spirito rinascimentale, cerchi soprattutto d’imita-
re i modi grandiosi, vivaci, orgogliosi dei Romani, può
accedere all’antichità classica solo attraverso la media-
zione dell’arte cristiana. Il segno piú evidente di questa
frattura è nel fatto che la scultura monumentale di Roma,
incomprensibile ai primi cristiani, rimane chiusa anche
al Rinascimento carolingio. Perciò il Dehio ritiene che
questa assimilazione carolingia non sia un vero Rinasci-
mento, ma soltanto la continuazione della tarda anti-
chità55. Eppure l’arte carolingia rappresenta un’innova-
zione decisiva, perché, come constata il Dehio stesso56,
supera lo stile piatto e decorativo dei Barbari e rende alla
figura umana la sua realtà tridimensionale. Già questo
tratto fa pensare all’arte classica piuttosto che all’arte
paleocristiana. Non solo, nell’arte carolingia, riappare la
figura, ignota agli artigiani barbarici; ma si afferma una
concezione parzialmente illusionistica, assai diversa da
quella dell’arte paleocristiana. Essa non rinnova solo la
sensibilità plastica e monumentale, ma anche l’impres-
sionismo pittorico dell’antichità. Oltre alle immagini
dedicatorie degli evangeliari imperiali, grandiose nel dise-
gno e pompose nel colore, possediamo gli schizzi a penna
del salterio di Utrecht, raffinatissimi nel segno vibrante
e nervoso, che, pur risalendo a modelli dell’Oriente cri-
stiano57, non hanno pari, dall’ellenismo in poi, per deli-
cata sensibilità e forza espressiva. Non solo stupisce l’e-
sistenza di una maniera cosí vivace accanto al freddo,
ampio, imponente stile aulico, ma anche la sua qualità di
gran lunga superiore a quella della miniatura aulica, tanto
piú ambiziosa nella tecnica, nei mezzi e nel formato. Un
manoscritto come il salterio di Utrecht, coi suoi disegni
semplici, improvvisati e monocromi, non poteva soddi-
sfare la corte avida di lusso e di splendidi codici; ed era

Storia dell’arte Einaudi 39


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

evidentemente destinato a un ambiente piú modesto,


che badava all’illustrazione piú che alla ricchezza orna-
mentale. Qui, ancor piú che per l’arte bizantina, siamo
costretti a distinguere, secondo le dimensioni e la tecni-
ca delle miniature, i manoscritti miniati «aristocratici»
con illustrazioni multicolori a piena pagina, dai mano-
scritti «popolari», provvisti di semplici disegni in mar-
gine58. Anche qui, come altrove, la diversa qualità delle
opere non può essere dedotta dalle condizioni sociali del
lavoro artistico, ma la maggior libertà d’azione dell’arti-
sta nell’arte non ufficiale può aver molto contribuito alla
spontaneità e all’immediatezza della rappresentazione.
Come l’esecuzione minuziosa e complessa determina una
certa staticità, cosí la maniera volante, sommaria dei
disegni a penna e «a buon mercato» favorisce il dinami-
smo impressionistico.
Il largo stile pittorico delle miniature a piena pagina
e a stesure unite di colore era generalmente considera-
to come l’indirizzo della scuola palatina di Aquisgrana,
o di Ingelheim, o di altri centri, mentre si attribuiva il
mobile e sensitivo impressionismo del salterio di Utre-
cht allo stile locale della scuola di Reims, soggetta a
influssi anglosassoni. Ma da quando si è potuto dimo-
strare che dalle botteghe di Reims e dintorni uscirono
anche numerosi manoscritti di lusso eseguiti con gran-
de minuzia59, la delimitazione geografica degli stili non
appare piú cosí valida. La differenza degli stili, piutto-
sto che con la nazionalità degli esecutori e le tradizioni
locali delle officine, va spiegata con la diversa condi-
zione sociale dei committenti. Prescindendo da certe
analogie stilistiche, è probabile che nella medesima offi-
cina siano stati eseguiti manoscritti diversissimi, ora nel
pretenzioso stile aulico e classicheggiante, ora nella sem-
plice maniera monastica dello schizzo.
Il centro principale dell’attività artistica era senza
dubbio l’officina palatina; di qui si diffuse il movimen-

Storia dell’arte Einaudi 40


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

to «rinascimentale», e di qui pare che siano stati orga-


nizzati gli scriptoria dei conventi60. È vero che questi ulti-
mi assumeranno solo piú tardi una funzione direttiva. È
però probabile che molti monaci abbiano lavorato, ai
tempi di Carlo Magno, nell’officina palatina, come piú
tardi molti laici saranno attivi nei conventi. Numerosi
scriptoria per altro dovevano già essere in attività nel-
l’epoca carolingia: ciò che si può inferire non solo dal
numero relativamente grande dei manoscritti conserva-
ti, ma anche dal loro livello artistico assai vario. Ci sor-
prende, fra l’altro, la qualità media degli intagli in avo-
rio ben superiore a quella delle miniature che ci sono
rimaste. La maggiore difficoltà tecnica determina una
produzione piú alta: evidentemente non si danno a lavo-
rare materiali preziosi ai dilettanti che trovano impiego
negli scriptoria61. Ma i prodotti di tutte queste botteghe,
siano essi dipinti, intagli o lavori in metallo, hanno un
carattere comune: il formato relativamente piccolo. È un
carattere a prima vista inconciliabile con la tendenza alla
solennità e alla monumentalità antiche proprie dell’arte
aulica, che tende alla grandiosità esteriore come alla
grandiosità intrinseca. Si è pensato che la predilezione
dell’arte carolingia per il formato ridotto sia dovuta al
carattere incerto e instabile della vita di allora, per molti
aspetti ancora nomade; e si è ricordato che i popoli
nomadi non hanno un’arte monumentale, ma creano
oggetti d’ornamento quanto piú possibile piccoli e facil-
mente trasportabili62. In verità, il carattere «nomade»
della civiltà carolingia si limita all’importanza seconda-
ria delle città e ai continui spostamenti della residenza
regale; ma tanto basta, se non a spiegare completamen-
te, almeno a rendere piú comprensibile il piccolo for-
mato degli oggetti d’arte.

Storia dell’arte Einaudi 41


Capitolo quinto
Poeti e pubblico dell’epica

Come narra Eginardo, Carlo Magno fece raccogliere


e trascrivere gli «antichi canti barbarici» di faide e di
guerre. Evidentemente essi celebravano gli eroi dell’età
delle invasioni, Teodorico, Ermanerico, Attila e i loro
prodi, e in parte erano già stati elaborati in epopee piú
o meno ampie. Ai tempi di Carlo Magno, il canto eroi-
co non rispondeva piú al gusto della gente raffinata, che
ormai amava poesie classiche e dotte. Anche il re dove-
va nutrire per gli antichi canti eroici un interesse pura-
mente storico; che li abbia fatti trascrivere prova solo
che minacciavano di scomparire. Ma anche la raccolta
di Carlo è andata perduta. Gli uomini della generazio-
ne successiva, Ludovico il Pio e i suoi contemporanei,
non vollero piú saperne di quella poesia. La forma epica
dovette adattarsi alla materia biblica ed esprimere la
concezione cristiana per non sparire del tutto dalla let-
teratura. È probabile che anche la raccolta fatta per
Carlo sia stata redatta da chierici, e anche prima, a giu-
dicare dal Beowulf, furono chierici a redigere le storie
degli eroi. Ma la poesia eroica, oltre che nella letteratu-
ra monastica, dev’essersi conservata in un’altra forma,
piú vicina all’originaria, prima di risorgere nell’epica
delle corti cavalleresche. Essa dev’essersi rivolta a un
pubblico piú vasto di quello della poesia libresca dei
chierici e forse anche di quello dell’originario canto eroi-
co. Scacciata dalla corte e dalle case dei grandi, se in
qualche luogo poté durare, e di fatto durò, fu solo pres-

Storia dell’arte Einaudi 42


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

so i ceti piú modesti. È comunque certo che essa diven-


ne popolare soltanto ora, nei secoli tra la fine dell’età
eroica e il principio dell’età cavalleresca. Ma neanche ora
si trasformò in poesia popolare nel vero senso della paro-
la; restò nelle mani di poeti di professione, che, nono-
stante la loro popolarità, non avevano praticamente
nulla in comune con lo spontaneo e impersonale poeta-
re del popolo.
L’«epos popolare» della storiografia romantica non
ebbe, in origine, alcun rapporto col popolo. Il canto
eroico e celebrativo, da cui proviene l’epos, era la piú
schietta poesia di casta che una classe dominante abbia
mai creato. Non erano creati, cantati o diffusi dal popo-
lo, né a esso diretti, né intonati al suo modo di sentire.
Erano in tutto e per tutto poesia d’arte, d’ispirazione
nobiliare. Trattavano i fatti e le avventure di una clas-
se dirigente guerriera, lusingando la sua smodata ambi-
zione, rispecchiando la sua eroica coscienza di sé e la sua
morale tragico-eroica; e non solo si rivolgevano a essa
come al solo pubblico da prendere in considerazione, ma
da essa attingevano, almeno inizialmente, anche i poeti.
Gli antichi Germani, è vero, avevano avuto prima, ed
ebbero contemporaneamente a questa poesia nobiliare,
una poesia ch’era di tutti: formule rituali, scongiuri,
indovinelli, massime, canti accompagnatori per la danza
e il lavoro e cori per banchetti e funerali. Queste forme
costituivano il patrimonio comune, pressoché ancora
indifferenziato, di tutto il popolo, senza che perciò l’e-
secuzione fosse necessariamente comune63. Sembra inve-
ce che il canto eroico e celebrativo sia stato inventato
solo all’epoca delle migrazioni; il suo carattere aristo-
cratico si spiega coi rivolgimenti sociali che furono pro-
dotti dall’invasione vittoriosa e posero fine a una cultura
relativamente uniforme. Con la stratificazione sociale
che successe alle nuove conquiste, l’estensione dei pos-
sessi e la fondazione di stati, si sviluppò, accanto alle

Storia dell’arte Einaudi 43


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

forme poetiche comuni, una poesia di classe a cui die-


dero probabilmente impulso i nuovi elementi della
nobiltà. Non solo essa fu il possesso esclusivo di un ceto
chiuso e privilegiato, che ostentava il suo carattere di
casta; ma fu anche, a differenza dell’antica poesia comu-
ne, arte colta, esperta, individuale, opera di specialisti
a servizio della classe dominante.
I primi poeti che emersero individualmente all’epo-
ca delle migrazioni e degli eroi furono anch’essi, con
ogni probabilità, guerrieri e appartennero al seguito del
re64; almeno nel Beowulf principi e signori si dedicano
alla poesia. Ma presto quegli illustri dilettanti e poeti
occasionali vengono sostituiti da poeti di professione,
che d’ora in poi fanno parte del saldo complesso di una
corte principesca e per lo piú non sono guerrieri. Lo
skop, cioè il poeta aulico della Germania occidentale e
meridionale, ci si presenta subito come poeta di profes-
sione, uno specialista. Lo hofskald dei Germani setten-
trionali è ancora guerriero, oltre che poeta, e, come
uomo di fiducia e consigliere dei principi, conserva trat-
ti caratteristici del saggio e sapiente cantore dei tempi
preistorici. Fatto tanto piú singolare, il concetto della
creazione personale è, presso lo hofskald, assai piú evo-
luto che non nel poeta aulico degli altri Germani, che
recita canti ora suoi, ora altrui, senza sottolineare la dif-
ferenza e senza che il pubblico domandi chi sia l’auto-
re. La lode degli ascoltatori riguarda sempre la recita-
zione. Tra i Norvegesi, invece, poeta e declamatore
sono nettamente distinti; si conosce, anzi si esalta il
vanto di essere autore, e si attribuisce gran pregio all’o-
riginalità dell’invenzione. Insieme con le opere, si con-
servano anche i nomi degli autori; fenomeno che altro-
ve si verificherà solo con la comparsa del chierico scrit-
tore, ed è forse in rapporto – nel Nord – col prestigio
di cui il poeta gode in quanto guerriero.
Poeti di professione dovevano esserci già presso gli

Storia dell’arte Einaudi 44


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Ostrogoti. Cassiodoro dice che Teodorico nell’anno 507


mandò un cantore e arpista a Clodoveo, re dei Franchi.
Che cantori di questo genere fossero attivi alla corte di
Attila, lo sappiamo dalla descrizione di Prisco. Se già
coprissero l’ufficio di poeti, non risulta dal racconto. E
neppure ci è dato sapere con precisione in che stima li
tenessero i Germani dell’età eroica. Si afferma che poeti
e cantori appartenevano alla società di corte ed erano
amici del principe; ma nello stesso tempo si osserva che
nel Beowulf, per esempio, non vengono citati per nome
neppure una volta, e quindi il loro prestigio non poteva
essere troppo alto. Quel che sappiamo con certezza è che
in Inghilterra, fin dal secolo viii, il poeta aulico ebbe una
posizione e un ufficio stabile65; e questa istituzione deve
essersi diffusa, prima o poi, fra tutti i Germani. Ma non
durò a lungo, perché presto sentiamo parlare del canto-
re girovago, che va di corte in corte, di castello in castel-
lo, per intrattenere l’alta società. Questo mutamento,
del resto, non ha conseguenze cosí profonde come si
potrebbe pensare; le poesie serbano il loro carattere
aulico, anche se i principi e gli eroi a cui sono dirette
cambiano di volta in volta. Comunque, il carattere pro-
fessionale e specialistico è piú accentuato nel cantore
girovago che nel poeta aulico a impiego fisso, il cui rap-
porto con la società di corte resta sempre ambiguo. Ma
non dobbiamo confondere il poeta aulico girovago col
comune vagabondo e musicante, quale ci apparirà piú
tardi. La distanza fra i due diminuisce soltanto quando
il cantore profano perde il favore delle corti e deve cer-
carsi il pubblico alle cantonate, nelle osterie e alle fiere.
Al banchetto serale di Attilla, secondo il racconto di
Prisco, ai canti di guerra e di lode seguivano i lazzi dei
pagliacci, che per noi sono, da un lato, gli eredi degli
antichi mimi, e dall’altro gli antenati dei giullari medie-
vali. Forse da principio il genere serio e il genere gioco-
so non erano cosí nettamente separati come piú tardi,

Storia dell’arte Einaudi 45


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

quando il cantore, come funzionario di corte, si allon-


tanò sempre piú dai mimi, per riavvicinarsi a loro quan-
do diverrà poeta girovago. Fra le cause della crisi a cui
soccombono i poeti aulici dell’ottavo e del nono secolo
– oltre all’ostilità del clero66 e al declino delle piccole
corti principesche67 – importantissima è la concorrenza
dei mimi68. Il nobile poeta di canti eroici scompare coi
sentimenti eroici del suo pubblico, ma la poesia eroica
sopravvive all’epoca e alla società che l’hanno prodotta.
Dopo l’estinzione della cultura aristocratica e guerriera,
quella ristretta poesia di classe si trasforma in arte di
tutti. Che questo spostamento dall’alto in basso abbia
potuto verificarsi, e che la stessa poesia potesse, quasi
contemporaneamente, essere intesa e goduta dall’ari-
stocrazia e dal popolo, si può spiegare soltanto con un
dislivello culturale – fra i signori e il popolo – assai infe-
riore a quello che sarà piú tardi. I signori vivevano
bensí, fin dall’inizio, in una sfera diversa da quella del
popolo, ma questo distacco non era ancora al centro
della loro coscienza69.
La teoria romantica della poesia eroica come poesia
popolare non fu che un tentativo di spiegare l’elemento
storico dell’epopea. Il romanticismo non si era ancora
reso conto della funzione propagandistica dell’arte; e
mai avrebbe sospettato che la poesia potesse avere un
interesse pratico per la nobiltà guerriera dei tempi eroi-
ci. Mai, nel suo «idealismo», avrebbe potuto ammette-
re che quegli eroi, con la loro poesia, intendessero solo
creare a se stessi un monumento o accrescere il presti-
gio del loro clan, e che quindi il loro interesse per la tra-
smissione poetica dei grandi avvenimenti non fosse
puramente ideale. E poiché, d’altra parte, non poteva
supporre che gli autori dei canti eroici e dell’epos attin-
gessero dalle cronache – un’idea a cui si è addivenuti
solo oggi – non gli restava che spiegare l’origine dei
motivi storici dell’epos con una tradizione derivata

Storia dell’arte Einaudi 46


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

immediatamente dai fatti e trasmessa oralmente per


generazioni, fino a svilupparsi nella favola compiuta dei
poemi epici. La sopravvivenza delle storie eroiche attra-
verso la tradizione popolare era del resto la spiegazione
piú semplice della vita sotterranea dell’epos nell’inter-
vallo fra le due epoche della sua fioritura letteraria, al
tempo delle invasioni barbariche e nell’età cavalleresca.
Del resto, per i romantici, anche questi fenomeni – i
poemi elaborati e compiuti – non erano che tappe di uno
sviluppo continuo e omogeneo. Ciò che piú importava
nella comprensione di tutto il processo, non erano i sin-
goli momenti storici, ma la crescita ininterrotta, la tra-
dizione vivente, la vita della saga.
Jakob Grimm, nel suo misticismo folcloristico, giun-
se fino a ritenere impensabile che un’epopea popolare
fosse «composta»; egli credeva che si facesse da sé, che
germogliasse e crescesse come una pianta. Tutto il
romanticismo era d’accordo nel ritenere che l’epos eroi-
co non potesse avere nulla in comune con l’attività poe-
tica individuale e riflessa, elaborata seguendo una tec-
nica acquisita, ma fosse l’opera del popolo creatore,
ingenuo, spontaneo e inconsapevole. Da un lato si spie-
gava la poesia popolare come un’improvvisazione col-
lettiva, dall’altro come un lento, costante processo orga-
nico, con cui era affatto inconciliabile l’idea di salti bru-
schi e intenzionali, attribuibili a singoli individui. L’e-
pos popolare «cresceva» finché la saga eroica veniva tra-
smessa da una generazione all’altra, e cessava di cre-
scere solo quando entrava nella letteratura. Qui il ter-
mine «saga eroica» indica la forma in cui l’epos è anco-
ra interamente proprietà del popolo, e a cui il poeta
epico deve la miglior parte dell’opera sua. Ma il pro-
blema, anche nei casi in cui si può ammettere una tra-
dizione orale dei fatti storici, non è di stabilire in quale
misura il poeta abbia utilizzato la materia tradizionale,
ma quanto di essa possa ancora chiamarsi «saga». L’i-

Storia dell’arte Einaudi 47


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

dea di una tradizione che, senza l’intervento meditato


e cosciente di un poeta, sarebbe in grado di creare una
lunga e coerente favola epica, e metterebbe chiunque in
condizioni di narrare in modo esauriente e ordinato la
favola stessa, diventata comune possesso del popolo, è
assurda da cima a fondo. Una favola finita, coerente e
conchiusa, per quanto rozza ne sia la forma, non è piú
una saga, ma un’opera di poesia, e chi la racconta per
la prima volta ne è il poeta70. Come ha dimostrato
Andreas Heusler, è un grave errore credere che le sto-
rie degli eroi dapprima corrano di bocca in bocca come
saghe informi e anonime, finché un poeta di professio-
ne se ne impadronisce e ne fa un poema. Una saga eroi-
ca nasce subito come canto, come poema, che viene poi
sempre ripreso e rielaborato; l’epos è solo una forma
tarda, che in certi casi soppianta la piú breve versione
originaria, pur senza differirne essenzialmente71. La
saga veramente ingenua, non letteraria, consta solo di
motivi sporadici, sconnessi, improvvisati, di episodi
storici poco coerenti tra loro, di brevi leggende locali
non ancora sviluppate. Ecco le pietre che possono rap-
presentare il contributo del popolo, dell’impersonale
poeta popolare, ma che praticamente non contengono
nulla di quel che fa di un canto eroico un canto eroico
e di un’epopea un’epopea.
Joseph Bédier, per l’epopea francese, nega non solo
la presenza di una saga immediatamente connessa agli
avvenimenti storici, ma anche l’esistenza dei canti eroi-
ci o di versioni dell’epopea anteriori al secolo x. Anche
per lui, come per tutti gli studiosi della saga dal roman-
ticismo in poi, il problema consiste nell’origine degli ele-
menti storici dell’epopea. Se, com’egli afferma, non ci
fu niente di simile a uno sviluppo spontaneo della saga,
quale ponte superò i secoli, fra le gesta di Carlo Magno
e l’epopea carolingia? Come passarono i motivi storici
nelle chansons de geste? Come divennero note le perso-

Storia dell’arte Einaudi 48


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ne e i fatti del secolo viii ai poeti del x e dell’xi? A que-


ste domande, secondo Bédier, non si è mai data una
risposta soddisfacente; che le saghe abbiano cominciato
a formarsi già fra i contemporanei degli eroi, è una
risposta dettata dall’imbarazzo, che risolve con una
costruzione del tutto arbitraria il problema di spiegare
perché i poeti abbiano scelto a eroi delle loro opere per-
sonaggi storici morti da piú di cent’anni72.
Già Gaston Paris aveva contestato la tradizione
orale, ma non aveva potuto superare l’intervallo tra i
fatti storici e l’epos, se non per mezzo dei canti eroici
della teoria di Wolf e Lachinann73. Bédier nega, come
già Pio Rajna74, che siano mai esistiti simili canti eroici,
almeno in lingua francese, e riconduce l’elemento stori-
co dell’epopea al dotto contributo dei chierici. Egli cerca
di provare che le chansons de geste nacquero lungo le vie
dei pellegrinaggi e che i giullari, che le recitavano alle
folle raccolte presso le abbazie, erano in certo qual modo
i portavoce dei monaci. Questi cioè, per fare réclame ai
loro conventi e alle loro chiese, si sforzavano di diffon-
dere le storie dei santi e degli eroi che vi erano sepolti
o di cui si conservavano le reliquie, e si servivano, a que-
sto scopo, dell’arte dei giullari. Di quei personaggi ser-
bavano notizie le cronache dei monasteri, unica fonte,
secondo il Bédier, dei dati storici che sono alla base dei
poemi. Cosí la Chanson de Roland, dove i monaci fanno
di Carlo Magno il primo pellegrino a Compostella, sareb-
be nata come una saga locale nei conventi sulla via di
Roncisvalle, e dagli annali di quei conventi avrebbe
attinto la sua materia75.
Alla teoria del Bédier si obbiettò che nella Chanson
de Roland, fra tanti nomi di santi e di città spagnole, non
si accenna a san Giacomo né alla sua tomba, celebre
meta di pellegrinaggi. Dov’è dunque la pubblicità, se il
poeta non nomina la meta del viaggio? L’obbiezione non
è molto fondata, perché può darsi che del poema, pre-

Storia dell’arte Einaudi 49


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

sto universalmente diffuso e prediletto, noi possediamo


una redazione che non abbia piú alcun interesse a nomi-
nare il santuario di Compostella. Comunque, nell’epica
francese è evidente la mano del chierico, come è inne-
gabile il tono del giullare. Qui vediamo all’opera, con-
giunte, tutte le forze che nelle terre di lingua tedesca e
anglosassone hanno contribuito allo scadere del canto
eroico dal livello dell’arte aulica a quello dell’arte popo-
lare: i monaci e i mimi, il poeta e il pubblico degli umili,
l’interesse religioso e il gusto del commovente e del pic-
cante, che passano sempre piú in primo piano. Bédier sa
benissimo che i pellegrinaggi non bastano a spiegare
ogni cosa, e sottolinea che per comprendere le chansons
de geste, le Crociate in Oriente e in Occidente, gli idea-
li e i sentimenti della società feudale e cavalleresca sono
necessari quanto il mondo ideale dei monaci e il mondo
sentimentale dei pellegrini. Senza il pellegrino e il frate,
esse sono incomprensibili, ma lo sono anche senza il
cavaliere, il borghese o il contadino e, soprattutto, senza
il giullare76.
Che cos’è propriamente il giullare? Chi è? Da che
deriva? In che si distingue dai suoi predecessori? Lo si
definisce come un incrocio fra il cantore aulico dell’al-
to Medioevo e il mimo classico77. Dall’antichità, il mimo
ha sempre continuato a prosperare; scomparse anche le
ultime tracce della cultura classica, gli epigoni dei mimi
vagavano ancora nei territori dell’Impero e intrattene-
vano le folle con la loro arte modesta, facile, incolta78. I
paesi germanici nell’alto Medioevo sono affollati di
mimi; ma fino al secolo ix poeti e cantori delle corti se
ne tengono rigorosamente lontani. Solo quando, in
seguito al Rinascimento carolingio e al clericalismo della
generazione successiva, poeti e cantori perdono il loro
nobile uditorio e si urtano, nelle sfere inferiori, alla con-
correnza dei mimi, sono costretti, in una certa misura,
a diventare mimi essi stessi79. Ora si muovono entram-

Storia dell’arte Einaudi 50


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

bi – cantore e commediante – nello stesso ambiente, e


si mescolano e influenzano reciprocamente, finché non
si possono quasi piú distinguere. Cosí scompaiono il
mimo e lo skop, e resta solo il giullare, sorprendente per
la sua versatilità. Al posto del nobile poeta aulico, alta-
mente specializzato, ecco il volgare giocoliere, che non
è piú soltanto cantore e poeta, ma anche ballerino e
musico, drammaturgo e attore, pagliaccio e acrobata,
prestigiatore e domatore d’orsi; è, insomma, il buffone
pubblico e maître de plaisir del tempo. È finita l’epoca
dello specialismo, della distinzione, della gravità digni-
tosa: il poeta di corte è diventato il buffone da trivio, e
la sua degradazione sociale ha su di lui un effetto cosí
violento che – da questo choc – non si riavrà mai del
tutto. D’ora in poi egli appartiene al mondo degli spo-
stati, vagabondi e prostitute, chierici fuggiaschi e stu-
denti cacciati, ciarlatani e mendicanti. È stato chiama-
to il «giornalista del tempo»80, ma egli coltiva tutti i
generi: la canzone da ballo e la satira, la favola e il
mimo, la leggenda e l’epopea. In questa compagnia, l’e-
popea assume lineamenti affatto nuovi; e acquista a trat-
ti un carattere pungente e pieno di effetto, che era del
tutto estraneo all’antica poesia epica. Il giullare lascia il
tono cupo e patetico, tragico ed eroico dello Hilde-
brandslied; vuole divertire anche con l’epos, e cerca
anche qui l’espressione drastica, l’effetto finale, l’argu-
zia81. La Chanson de Roland, confrontata coi monumen-
ti della piú antica poesia eroica, rivela a ogni passo il
gusto popolaresco e piccante del giullare.
Pio Rajna dice di essere giunto quasi alla fine della
sua indagine sull’epopea francese, senza sentire neppu-
re una volta il bisogno di servirsi dell’espressione «canto
eroico». Karl Lachmann, invece, avrebbe potuto scri-
vere che, senza quel concetto, non sarebbe stato in
grado di dire nulla di essenziale sull’argomento. I roman-
tici avevano scomposto l’epopea in saga e canto, perché

Storia dell’arte Einaudi 51


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

pensavano che nell’epica dei poeti di professione le forze


irrazionali della storia non apparissero in forma abba-
stanza immediata. Ma il nostro tempo preferisce sotto-
lineare nell’epopea, come nell’arte in generale, la capa-
cità cosciente e la cultura, perché intende l’elemento
razionale meglio di quello sentimentale e impulsivo. I
poemi hanno la loro leggenda, la loro storia eroica: le
opere di poesia non vivono solo nella forma che dànno
loro i poeti, ma anche in quella che dà loro la posterità.
Ogni epoca si fa il suo Omero, il suo poema nibelungi-
co, la sua Chanson de Roland; essa se li ricrea, in quan-
to li interpreta secondo il suo modo di sentire. Ma le
interpretazioni girano, per cosí dire, a poco a poco intor-
no all’opera, piuttosto che avvicinarsi a essa in linea
retta. L’interpretazione piú tarda non è senz’altro la
«piú giusta»; ma ogni serio tentativo di interpretazione,
dettato dallo spirito vivo del presente, approfondisce ed
estende il senso dell’opera. È utile ogni teoria che ci
mostra l’epopea da un nuovo punto di vista storica-
mente valido; perché ciò che piú importa non è la verità
storica, «quel che realmente è accaduto», ma la con-
quista di un nuovo, immediato accesso all’oggetto. L’in-
terpretazione romantica della saga e della poesia eroica
ha chiarito che i poeti dell’epos, anche quando erano
artisti originali, non disponevano della loro materia con
assoluta libertà e si sentivano vincolati dalla forma
acquisita e tradizionale molto piú strettamente dei poeti
di epoche successive. La teoria dei canti eroici ha messo
di nuovo in luce la composizione aperta, per addizioni
successive, del poema epico, e ha aperto la via a inten-
dere il suo carattere sociale, richiamando l’attenzione
sulla sua origine dai canti guerreschi e celebrativi. Infi-
ne la teoria del contributo dei chierici e dei giullari ha
messo in luce, da un lato, il suo aspetto popolare e non
romantico, e dall’altro, quello ecclesiastico e dotto. Solo
dopo tutti questi tentativi di interpretazione era possi-

Storia dell’arte Einaudi 52


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

bile considerare l’epopea come «poesia ereditaria»82, che


sta nel mezzo fra la libera poesia d’arte e la poesia popo-
lare ligia alla tradizione.

Storia dell’arte Einaudi 53


Capitolo sesto

L’organizzazione del lavoro nei conventi

Scomparso Carlo Magno, il centro culturale dell’Im-


pero non è piú la corte. Scienza, arte, letteratura ven-
gono ormai dai conventi; nelle loro biblioteche, nei loro
scriptoria e nelle loro officine si compie la parte piú
importante della produzione intellettuale. Alla loro dili-
genza e alla loro ricchezza l’arte dell’Occidente cristia-
no deve la sua prima fioritura. Moltiplicatisi i centri cul-
turali per lo sviluppo dei conventi, le tendenze artisti-
che cominciano a differenziarsi nettamente. Non si deve
credere che i monasteri fossero del tutto isolati; servi-
vano a collegarli, se pur non molto strettamente, la
comune dipendenza da Roma, l’influsso generale del
monachesimo irlandese e anglosassone e, piú tardi, le
congregazioni di riforma degli ordini83. Già il Bédier ha
accennato ai loro contatti col mondo laico e alla loro
funzione nei pellegrinaggi, in cui fungono da punti d’in-
contro fra pellegrini, mercanti e giullari. Ma nonostan-
te questi rapporti con l’esterno, i conventi restano unità
sostanzialmente autonome, raccolte in se stesse, e piú
tenacemente fedeli alle loro tradizioni di quel che non
fosse prima la corte, sensibile al variare delle mode, o
di quel che sarà, piú tardi, la società borghese.
La regola benedettina prescriveva il lavoro manuale
come quello intellettuale, e metteva l’accento soprat-
tutto sul primo. Come il feudo, cosí il convento cerca-
va di sviluppare per quanto possibile un’economia autar-

Storia dell’arte Einaudi 54


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

chica, producendo tutto il necessario. L’attività dei


monaci si estendeva dal lavoro nei campi e negli orti
all’artigianato. Fin dal principio i lavori piú pesanti
furono sbrigati in gran parte dai contadini liberi e dai
servi e, piú tardi, anche dai frati laici; ma l’artigianato,
specie nei primi tempi, era esercitato soprattutto dai
monaci; e proprio attraverso l’organizzazione del lavo-
ro artigiano il monachesimo ha esercitato il piú profon-
do influsso sullo sviluppo dell’arte e della cultura medie-
vale. Se la produzione artistica procede in forma piú
ordinata, con una certa divisione del lavoro, con meto-
di piú o meno razionali, e se anche elementi della clas-
se superiore attendono al suo esercizio, è tutto merito
degli ordini monastici. È noto che nei conventi dell’al-
to Medioevo prevalevano gli aristocratici; certi conven-
ti eran quasi esclusivamente riservati a loro84. Cosí per-
sone che altrimenti non avrebbero mai preso in mano un
pennello sporco, uno scalpello o una cazzuola, entraro-
no direttamente in contatto con le arti figurative. Certo,
il disprezzo per il lavoro manuale è ancora molto diffu-
so nel Medioevo, e l’idea del «signore» resta a lungo
inscindibile da quella della vita oziosa; ma non c’è dub-
bio che ora, contrariamente a quel che accadeva nel-
l’antichità, accanto alla vita signorile, legata a un ozio
illimitato, anche la vita laboriosa acquista un suo valo-
re positivo, e questo nuovo atteggiamento verso il lavo-
ro si ricollega, fra l’altro, alla popolarità della vita mona-
stica. Ancora nel tardo Medioevo, nell’etica borghese
del lavoro, quale si esprime, ad esempio, negli statuti
delle corporazioni, riecheggia lo spirito della regola con-
ventuale. Non si può dimenticare, d’altronde, che nei
conventi il lavoro viene ancora considerato, in parte,
come penitenza e punizione85; e anche san Tommaso
parla di viles artifices (Comm. in Polit., 3. 1. 4). Di una
nobilitazione della vita ad opera del lavoro non è anco-
ra possibile parlare.

Storia dell’arte Einaudi 55


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Dai monaci l’Occidente ha appreso a lavorare con


metodo; l’industria del Medioevo è in gran parte opera
loro. Gli artigiani, ancora abbastanza numerosi nelle
città come eredi dell’antica industria romana86, lavora-
rono – fino alla rinascita dell’economia urbana – in limi-
ti molto modesti, e diedero uno scarso contributo allo
sviluppo delle tecniche industriali. Certo, artigiani spe-
cializzati erano attivi anche presso i palazzi reali e nei
maggiori feudi; ma essi appartenevano alla casa del re o
alla servitú, e il loro lavoro conservava un carattere di
attività domestica, ispirata alla tradizione piuttosto che
a finalità razionali. Solo nei conventi l’artigianato si
svincola dall’ambito domestico. È nei conventi che si
apprende a far economia di tempo, a dividere e utiliz-
zare razionalmente la giornata, a misurare lo scorrere
delle ore e ad annunciarle col tocco della campana87. La
divisione del lavoro diventa il principio fondamentale
della produzione, mantenuto non soltanto entro la cinta
del chiostro, ma in una certa misura anche nei rapporti
fra i diversi conventi.
Fuori dei monasteri, l’attività artistica era coltivata
soltanto nei domini del re e presso le maggiori corti feu-
dali, e anche là solo nelle forme piú semplici. Ed è pro-
prio in questa attività che i conventi si segnalarono in
modo particolare. Fra i loro piú antichi titoli di gloria
c’era la copia e l’illustrazione dei manoscritti88. L’isti-
tuzione delle biblioteche e degli scriptoria, che Cassio-
doro aveva introdotto a Vivarium, fu imitata dalla mag-
gior parte dei conventi benedettini. Gli amanuensi e i
miniatori di Tours, Fleury, Corbie, Treviri, Colonia,
Ratisbona, Reichenau, Sant’Albans, Winchester, erano
celebri fin dall’alto Medioevo. Presso i benedettini, gli
scriptoria erano grandi laboratori comuni; presso altri
ordini, come i cistercensi e i certosini, piccole celle. La
produzione di tipo industriale e l’attività del singolo
potevano quindi sussistere l’una accanto all’altra. Sem-

Storia dell’arte Einaudi 56


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

bra inoltre che il lavoro dei copisti e degli alluminatori


fosse ovunque specializzato secondo i vari compiti. Si
distinguevano, oltre i pittori (miniatores), i maestri esper-
ti in calligrafia (antiquarii), gli aiutanti (scriptores) e i pit-
tori d’iniziali (rubricatores). Oltre ai monaci, gli scripto-
ria impiegavano amanuensi salariati, cioè laici che lavo-
ravano un po’ a casa propria, un po’ in convento. L’il-
lustrazione dei libri era arte monastica per eccellenza;
ma i frati si occupavano anche d’architettura, scultura
e pittura, erano orefici e smaltisti, tessevano sete e araz-
zi, istituivano fonderie di campane e legatorie, fabbri-
che di vetri e di ceramiche. Alcuni monasteri divenne-
ro veri e propri centri industriali; e se inizialmente Cor-
bie aveva soltanto quattro officine principali con ven-
totto operai, già nel secolo ix troviamo a St-Riquier vie
intere riservate alle officine degli armaioli, altre ai sel-
lai, ai rilegatori, ai calzolai, e cosí via89.
Non solo nell’agricoltura, lavoro fisicamente gravo-
so, in cui i monaci, crescendo le loro ricchezze, agivano
sempre piú come proprietari e amministratori e sempre
meno come contadini; ma anche negli altri rami della
produzione essi sbrigavano solo una parte del lavoro
manuale e si dedicavano piuttosto all’organizzazione
delle aziende. Si è potuto constatare che, anche della
copia dei manoscritti, si occupavano assai meno di quel
che si pensasse; e, a giudicare dall’aumento delle biblio-
teche, non piú di un cinquantesimo del tempo comples-
sivo di lavoro di tutti i monaci di un convento era impie-
gato nella trascrizione dei manoscritti90. Frati laici e
lavoratori esterni furono certamente impiegati nei
mestieri fisicamente faticosi, soprattutto nell’edilizia;
in minor misura, nell’artigianato industriale. Ma poiché
c’era una continua richiesta da parte delle chiese e delle
corti, bisogna ritenere che anche in questo ramo i con-
venti fossero pronti a impiegare operai e artisti esperti.
Oltre i monaci, gli operai liberi e i servi delle corti feu-

Storia dell’arte Einaudi 57


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

dali, ci furono sempre artigiani e artisti che costituiva-


no gli elementi di un mercato libero, benché limitato,
del lavoro. Erano girovaghi, che trovavano impiego ora
nei conventi, ora nelle sedi vescovili e alle corti feuda-
li, ed è certo che i frati li impiegavano regolarmente. È
attestato che l’abbazia di San Gallo e il convento di
Saint Emmeran a Ratisbona chiamarono molti artigiani
ambulanti per costruire i loro reliquiari. Nei grandi can-
tieri delle chiese era uso generale chiamare architetti,
lapicidi, maestri del legno e del metallo, da paesi vicini
e lontani, specialmente da Bisanzio e dall’Italia91. Ma
l’impiego di lavoranti forestieri, se è vera la notizia delle
«ricette segrete» gelosamente custodite nei conventi,
deve aver suscitato, talvolta, qualche difficoltà. Che
questi segreti esistessero o meno, le officine dei conventi
non erano soltanto aziende industriali, ma spesso anche
sedi di esperimenti e di ricerche tecniche. Alla fine del
secolo xi il benedettino Teofilo, nelle sue note (Schedu-
la diversarum artium), poteva descrivere tutta una serie
di invenzioni fatte nei conventi, come la produzione del
vetro, le vetrate dipinte a fuoco, le misture dei colori a
olio e cosí via92.
Del resto, anche gli artisti e gli artigiani ambulanti
uscivano in gran parte dalle officine dei monasteri, che
erano le «scuole d’arte» di allora e curavano special-
mente l’addestramento dei giovani93. In molti conventi,
come Fulda e Hildesheim, si istituirono laboratori arti-
giani, destinati a istruire la mano d’opera necessaria
tanto ai conventi e ai vescovadi, quanto ai feudi e alle
corti94. Ottima scuola d’arte fu il convento di Solignac,
fondato da sant’Eligio, il piú celebre orafo del secolo vii.
Un altro alto ecclesiastico che, a quanto si dice, si rese
benemerito anche come educatore di artefici, fu il vesco-
vo Bernward: illuminato patrono dell’architettura e della
lavorazione del bronzo, ideò le porte di bronzo per la
cattedrale di Hildesheim. Di altri ecclesiastici, meno

Storia dell’arte Einaudi 58


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

altolocati, che furono artisti, spesso non sappiamo che


i nomi, ignorando completamente il loro contributo per-
sonale all’arte del Medioevo. Nel caso del monaco Tuo-
tilo le notizie si sono condensate nella leggenda di un
artista, ma è stato osservato che si tratta di una pura e
semplice personificazione della vita artistica del con-
vento di San Gallo, e di un pendant medievale del mito
greco di Dedalo95.
Importantissimo è il contributo dei monaci allo svi-
luppo dell’architettura sacra. Fino alla fioritura delle
città, quando sorgono i cantieri delle cattedrali, essa è
quasi interamente in mano di ecclesiastici, anche se si
può supporre che gli artisti e gli operai addetti alla
costruzione delle chiese non fossero tutti frati. Comun-
que, a capo delle maggiori imprese architettoniche tro-
viamo quasi sempre ecclesiastici; anche se, con ogni pro-
babilità, essi furono i fabbricieri piuttosto che gli archi-
tetti96. L’attività edilizia dei singoli conventi era troppo
discontinua, perché i monaci, legati a determinati chio-
stri, potessero scegliere la professione di architetto. Essa
era aperta solo ai laici, liberi nei loro movimenti. Ma
anche qui vi sono eccezioni. È noto, per esempio, che il
monaco Hilduard fu architetto della chiesa abbaziale del
Saint-Père a Chartres. Sappiamo pure che san Bernar-
do di Clairvaux mise a disposizione di altri conventi un
frate del suo ordine, l’architetto Achard; e Isembert, il
costruttore della cattedrale di Saintes, gettò ponti, oltre
che in quella città, a La Rochelle e in Inghilterra97. Ma
siano stati questi casi piú o meno frequenti, le arti mino-
ri, meno gravose, rispondevano assai meglio dell’archi-
tettura allo spirito del lavoro monastico.
La sopravvalutazione del contributo monastico alla
storia dell’arte risale al romanticismo, e fa parte di quel-
la leggenda del Medioevo che sopravvive ancora oggi, e
che rende difficile accostarsi spregiudicatamente alla
realtà storica. La formazione delle grandi chiese medie-

Storia dell’arte Einaudi 59


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

vali fu interpretata romanticamente, come quella dei


poemi eroici. Si volle applicare anche qui il principio di
quell’accrescimento organico, quasi vegetale, che si cre-
deva di riconoscere nella poesia popolare; anche in que-
sto campo si contestò ogni progetto specifico e ogni
linea direttiva; e si negò l’esistenza di architetti a cui si
potessero attribuire quelle fabbriche, cosí come si nega-
va, per i poemi epici, l’esistenza di un poeta individua-
le. In altre parole, si voleva considerare decisiva nel-
l’arte, non la sapienza e la meditazione dell’artista, ma
l’opera ingenua e puramente tradizionale dell’artigiano.
Alla leggenda romantica del Medioevo appartiene anche
l’anonimato dell’artista. Nel suo ambiguo atteggiamen-
to di fronte all’individualismo moderno, il romanticismo
presentava la creazione anonima come il segno della
vera grandezza, e indugiava con speciale amore sull’im-
magine dell’ignoto frate che creava l’opera sua unica-
mente a gloria di Dio, nell’ombra della sua cella e senza
minimamente curarsi della propria personalità. Ma, con
buona pace dei romantici, quando ci è noto qualche
nome d’artista medievale, si tratta quasi esclusivamen-
te di monaci, e i nomi scompaiono proprio quando l’e-
sercizio dell’arte passa dalle mani dei chierici in quelle
dei laici. La spiegazione è semplice: erano i chierici a
decidere se il nome di un artista dovesse comparire su
un monumento d’arte sacra, e naturalmente davano la
preferenza ai religiosi. Ma anche i cronisti che solevano
annotare quei nomi, e che eran tutti monaci, si curava-
no di menzionare un artista solo quando si trattava di
un confratello. Certo se si pensa all’antichità classica o
al Rinascimento, salta all’occhio il carattere impersona-
le dell’opera d’arte e la discrezione dell’artista medie-
vale. Perché, anche quando si fa il nome d’un artista e
questi collega alla propria opera un’ambizione persona-
le, è estraneo, a lui come al suo tempo, il concetto del-
l’originalità. Ma il romanticismo esagera quando parla

Storia dell’arte Einaudi 60


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

di un’arte medievale essenzialmente anonima. La minia-


tura, in tutto il corso del suo sviluppo, fornisce innu-
merevoli esempi di opere firmate98. Per i monumenti
architettonici medievali, nonostante il gran numero di
opere distrutte e di documenti smarriti, si sono potuti
accertare venticinquemila nomi 99. Ma non si deve
dimenticare che, dove le iscrizioni fanno seguire al nome
il predicato fecit, molto spesso s’intende, secondo lo
stile medievale, il fabbriciere o il committente, e non già
l’architetto; vescovi, abati e altri dignitari ecclesiastici,
a cui si attribuiscono queste costruzioni, non sono per
lo piú che i «presidenti del comitato», e non gli archi-
tetti, né i dirigenti del cantiere100.
Ma quale che fosse la parte dei religiosi nella costru-
zione delle loro chiese, e comunque fosse distribuito il
lavoro tra monaci e laici, le varie funzioni potevano divi-
dersi fino a un certo limite. Può darsi che il capitolo del
duomo o la fabbriceria del convento decidesse collegial-
mente sulla sorte dei progetti, e forse i lavori artigiani nel
loro complesso erano compiuti dai membri di un gruppo
che operava collettivamente; ma i singoli atti del processo
creativo potevano essere compiuti soltanto da pochi arti-
sti consapevoli dei loro fini. Una struttura cosí compli-
cata come una chiesa medievale non poteva sorgere al
modo di una canzone popolare, che, in ultima analisi,
proviene anch’essa da un individuo, anche se ignoto, ma
nasce senza un disegno e si accresce, come un cristallo,
per addizioni esterne. Non è tanto l’idea dell’opera d’ar-
te come creazione collettiva che è romantica e scientifi-
camente incontrollabile: anche l’opera del singolo artista
risulta dai contributi di piú facoltà intellettuali, in parte
indipendenti, la cui fusione è spesso fittizia ed esterio-
re. Ingenua e romantica è l’idea che un’opera d’arte, fin
nei suoi ultimi elementi, sia la creazione indifferenziata
di un gruppo, e non abbia bisogno di un piano unitario
e consapevole, per quanto soggetto a mutamenti.

Storia dell’arte Einaudi 61


Capitolo settimo

Feudalesimo e arte romanica

L’arte romanica fu monastica, ma anche aristocra-


tica. È forse qui che si rispecchia nel modo piú evi-
dente la solidarietà spirituale fra clero e nobiltà. Come
le cariche sacerdotali nell’antica Roma, cosí nella Chie-
sa medievale i posti piú importanti erano riservati ai
membri dell’aristocrazia101; ma se abati e vescovi erano
intimamente legati alla nobiltà feudale, non era tanto
per la loro origine aristocratica, quanto per i loro inte-
ressi economici e politici. Essi dovevano i loro beni e
la loro potenza allo stesso ordine sociale su cui pog-
giavano le prerogative dei laici. Fra le due aristocrazie
esisteva, se pur non sempre esplicita, una costante
alleanza. Gli ordini monastici, i cui abati disponevano
di enormi ricchezze e di legioni di sottoposti, e dalle
cui file uscirono i papi piú energici, i consiglieri piú
autorevoli e i piú pericolosi rivali degli imperatori e dei
re, non erano meno estranei e distanti dalle masse di
quel che non fosse la nobiltà laica. Il loro costume feu-
dale mutò soltanto per l’influsso ascetico della riforma
cluniacense; ma di un orientamento piú democratico
non si può parlare che dopo la fondazione degli ordi-
ni mendicanti. I conventi, in mezzo alle loro vaste
terre, sui declivi dei monti che dominano il paese, con
le loro muraglie scoscese, massicce, a guisa di baluar-
di, sono inaccessibili come le fortezze e i castelli dei
principi e dei baroni: nulla di piú naturale che anche

Storia dell’arte Einaudi 62


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

l’arte prodotta nei conventi corrisponda allo spirito


della nobiltà secolare.
La nuova nobiltà, che si è sviluppata dall’aristocra-
zia dei guerrieri e funzionari franchi, e che alla fine del
secolo ix, è già completamente feudalizzata, si pone ora
alla testa della società e diventa l’unico potere effetti-
vo. Gli antichi funzionari del re sono diventati una
potente, superba, riottosa nobiltà ereditaria, ormai
dimentica della sua origine burocratica, con privilegi
che sembrano risalire a tempi immemorabili. Nel corso
degli anni, il rapporto col re si è completamente inver-
tito; in origine la corona era ereditaria e ogni sovrano
poteva scegliere a suo talento consiglieri e funzionari;
ora invece è ereditario il privilegio della nobiltà, e sono
i re a essere eletti102. Gli stati romano-germanici del-
l’alto Medioevo si trovavano di fronte a difficoltà in
parte già sensibili nella tarda antichità, e che fin d’al-
lora si era cercato di superare con misure tendenzial-
mente feudali, quali il colonato, i tributi in natura, le
funzioni fiscali affidate dallo stato ai proprietari di
terre. La mancanza del denaro necessario a mantenere
un conveniente apparato amministrativo e un esercito
efficiente, il pericolo delle invasioni e la difficoltà di
difendere regioni molto estese esistevano fin dagli ulti-
mi tempi di Roma; nuove difficoltà si aggiunsero nel
Medioevo per la mancanza di funzionari esperti, per il
maggiore e costante pericolo di attacchi e la necessità,
soprattutto contro gli Arabi, di una nuova arma, la
cavalleria corazzata; corpo che, per l’armamento costo-
so e per l’addestramento piuttosto lento dei nuovi con-
tingenti, imponeva allo stato gravami insopportabili. Il
feudalesimo è l’istituzione con cui il secolo ix cercò di
risolvere queste difficoltà, soprattutto quella di creare
un esercito di cavalieri pesantemente armati. In man-
canza di altri mezzi, il servizio militare venne pagato
con la concessione di terre, immunità e diritti sovrani,

Storia dell’arte Einaudi 63


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

come i poteri fiscali e giudiziari; tali privilegi formaro-


no la base del nuovo sistema. Il beneficium, cioè il dono
occasionale di terre del dominio regale in compenso di
servigi resi, o la loro concessione in usufrutto come sti-
pendio per regolari prestazioni burocratiche o militari,
esisteva fin dal tempo dei Merovingi. Nuovo è il carat-
tere feudale delle concessioni e il vassallaggio, cioè il
rapporto contrattuale e il vincolo di fedeltà, il sistema
di servigi e impegni reciproci, il principio della mutua
fede e della lealtà personale che subentra ormai all’an-
tica sudditanza. Il feudo, che in origine era solo un pos-
sesso in usufrutto per un tempo limitato, nel corso del
secolo ix diventa ereditario.
La creazione della cavalleria feudale, con l’investitu-
ra ereditaria come base su cui si fonda il servigio, rap-
presenta una delle innovazioni piú rivoluzionarie della
storia occidentale; essa trasforma un organo dell’autorità
centrale in una potenza a sé, quasi illimitata, entro lo
stato. Cosí finisce la monarchia assoluta del Medioevo.
D’ora in poi, il re ha tanto potere quanto gliene dànno
le sue terre private, e un’autorità di cui potrebbe dispor-
re anche se le avesse in feudo. L’epoca immediatamen-
te successiva ignora lo stato nel senso moderno; ignora
l’unità amministrativa, la solidarietà civile, il vincolo
giuridico dei sudditi103. Il feudalesimo è una piramide
sociale che culmina in un punto astratto. Il re guerreg-
gia, ma non governa; governano i grandi proprietari di
terre, e non come funzionari e stipendiati, favoriti e par-
venus, beneficiari e prebendari, ma come signori indi-
pendenti, che fondano i loro privilegi, non sull’autorità
che ha dal principe la sua legittima origine, ma unica-
mente sulla loro effettiva e diretta potenza personale. La
casta dominante avoca a sé tutte le prerogative di gover-
no, l’intero apparato amministrativo, tutti i posti di
comando nell’esercito, i piú alti gradi della gerarchia
ecclesiastica, e acquista nello stato un influsso quale

Storia dell’arte Einaudi 64


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

forse nessun’altra classe aveva mai posseduto. Neppure


l’aristocrazia greca nel suo massimo fiore assicurava ai
suoi membri tanta libertà personale quanta ne offrí ai
signori feudali l’indebolita monarchia dell’alto Medioe-
vo. A ragione i secoli dominati da questa nobiltà sono
stati chiamati l’epoca aristocratica della storia euro-
pea104; in nessun altro periodo le forme della civiltà occi-
dentale dipesero cosí esclusivamente dalle concezioni,
dagli ideali sociali e dall’orientamento economico di un
solo ceto relativamente ristretto.
Nell’alto Medioevo, nella generale scarsità di denaro
e di traffici, quando la proprietà fondiaria costituisce l’u-
nica fonte di reddito e l’unica forma di ricchezza, il feu-
dalesimo è la naturale soluzione dei problemi connessi
al governo e alla difesa del paese. Il ritorno alla civiltà
rurale, già avviato alla fine dell’antichità, è ormai un
fatto compiuto; l’economia è un’economia agricola, la
vita è vita di campagna. Le città hanno perso la loro
importanza e la loro forza di attrazione; la stragrande
maggioranza della popolazione è ridotta a vivere in pic-
cole sedi sparse, isolate l’una dall’altra. Socievolezza
urbana, commercio e scambi sono scomparsi; la vita ha
assunto forme piú semplici, provinciali. L’unità sociale
ed economica in cui tutto s’inquadra è la corte feudale;
si è disappreso a muoversi entro confini piú vasti, a
pensare in categorie piú comprensive. Poiché mancano
per lo piú denaro e traffici, città e mercati, non resta che
rendersi indipendenti dall’esterno e rinunciare tanto
all’acquisto di prodotti forestieri quanto alla vendita
dei propri. Si determina cosí una situazione in cui si può
dire che manchi ogni stimolo a produrre piú di quanto
richiedano i propri bisogni. È noto che Karl Bücher ha
chiamato questo sistema «economia domestica chiusa»
e l’ha caratterizzata come un’autarchia del tutto priva
di denaro e di scambi105. Come sappiamo, un quadro cosí
rigido non corrisponde interamente alla realtà; la tesi di

Storia dell’arte Einaudi 65


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

un’economia puramente domestica e autosufficiente si


è dimostrata, per il Medioevo, insostenibile106, e a ragio-
ne si è proposta la formula di «economia senza merca-
ti» piuttosto che di «economia senza scambi»107. Ma il
Bücher non ha fatto che accentuare i caratteri dell’eco-
nomia medievale, senza peraltro inventarli; perché nes-
suno può contestare nell’epoca feudale la tendenza
all’autarchia. È di regola consumare i beni là dove sono
stati prodotti, benché sussistano molte eccezioni e gli
scambi non cessino mai del tutto. In ogni caso, è per-
fettamente legittimo distinguere, secondo l’indicazione
di Marx, la produzione dell’alto Medioevo, limitata al
consumo, dalla piú tarda produzione di merci; e la cate-
goria dell’«economia domestica chiusa», concepita come
tipo ideale e non come realtà concreta, si rivela indi-
spensabile alla caratterizzazione dell’economia feudale.
Il tratto piú caratteristico di questa economia, e quel-
lo per cui essa può culturalmente orientare lo spirito del
tempo, è senza dubbio la mancanza di ogni stimolo alla
sovrapproduzione, e quindi la fedeltà ai metodi tradi-
zionali e al ritmo consueto della produzione, senza inven-
zioni tecniche o innovazioni organizzative. È stato osser-
vato108 – che essa è una pura «economia di spesa», che
tanto produce quanto consuma e come tale non ha idea
del risparmio e del lucro, non sa di calcoli né di specula-
zioni, e ignora il metodico impiego delle forze disponi-
bili. Al tradizionalismo e all’irrazionalismo di questa eco-
nomia corrisponde la staticità delle forme sociali e l’ir-
removibilità delle barriere fra i diversi ceti. Gli «stati»
in cui la società è divisa appaiono non solo ragionevoli,
ma anche voluti da Dio, e non c’è praticamente nessuna
possibilità di elevarsi da uno «stato» all’altro; ogni ten-
tativo di superare i confini fra le classi equivale alla ribel-
lione contro una legge divina. Il principio della concor-
renza intellettuale, l’ambizione di sviluppare e afferma-
re la propria individualità, non potrebbe sorgere in una

Storia dell’arte Einaudi 66


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

società irrigidita nelle sue caste, come il principio della


concorrenza commerciale in un’economia senza mercati,
senza premi di produzione, senza prospettive di guada-
gno. Alla staticità economica e sociale corrisponde anche
nella scienza, nell’arte, nella letteratura, un rigido, immo-
bile conservatorismo, fermo ai valori riconosciuti. Lo
stesso principio di immobilità che fissa l’economia e la
società alle loro tradizioni, rallenta anche lo sviluppo del
pensiero scientifico e dell’esperienza artistica, e imprime
alla storia dell’arte romanica quell’andamento calmo,
quasi pesante, che per quasi due secoli impedirà ogni vero
mutamento stilistico. E come nell’economia è affatto
assente lo spirito del razionalismo, l’idea di una produ-
zione metodica e l’attitudine al calcolo e alla speculazio-
ne, come nella vita pratica si trascura generalmente l’e-
sattezza delle cifre e delle date, la precisazione delle
quantità, cosí il pensiero ignora totalmente le categorie
che si fondano sui concetti di merce, moneta e profitto.
All’economia precapitalistica e prerazionalistica corri-
sponde uno spirito preindividualistico, tanto piú facile da
spiegare, in quanto l’individualismo implica il principio
della concorrenza.
Il concetto di progresso è del tutto ignoto all’alto
Medioevo, che, insensibile al valore del nuovo, cerca di
conservare fedelmente l’antica tradizione. E non solo gli
è estraneo il concetto di progresso proprio della scienza
moderna109, ma anche nell’interpretazione di verità note
e garantite dall’autorità, quel che piú importa non è l’o-
riginalità dell’interpretazione, ma la conferma e il con-
solidamento delle verità stesse. Senza scopo e senza
senso appare lo sforzo di riscoprire quel che è già stato
trovato, di dare una nuova forma a ciò che già ne ha una,
di interpretare diversamente la verità. I valori supremi
sono fissi e chiusi in forme definitive: sarebbe traco-
tanza volerle mutare. Lo scopo è il possesso dei valori,
non la fecondità dello spirito. È un’epoca ferma, sicura

Storia dell’arte Einaudi 67


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

in se stessa, di robusta fede, che non dubita delle sue


verità e delle sue leggi morali, non conosce dissidi spi-
rituali né conflitti di coscienza, non sente desiderio del
nuovo, né sazietà del vecchio. In ogni caso essa non
favorisce né sollecita pensieri e inclinazioni del genere.
La Chiesa dell’alto Medioevo, plenipotenziaria e
mandataria della classe dominante in tutti i problemi spi-
rituali, soffocò in germe ogni dubbio sull’assoluta vali-
dità dei comandamenti e dei precetti che scaturivano
dall’idea che questo mondo è voluto da Dio e garanti-
vano l’ordine esistente. La cultura, in cui ogni aspetto
dell’esistenza era in diretto rapporto con la fede e le
verità soteriologiche, era caratterizzata dalla dipenden-
za di tutta la vita spirituale – dell’arte e della scienza,
del pensiero e della volontà – dall’autorità della Chiesa.
La concezione metafisica e religiosa del mondo, in cui
ogni cosa terrena è in rapporto con l’ultraterreno, e ogni
cosa umana col divino, dove tutto ha un senso trascen-
dente ed esprime la volontà divina, è utilizzata dalla
Chiesa per conferire validità assoluta alla teocrazia
gerarchica che si attua nel sacerdozio sacramentale. Dal
primato della fede sulla scienza essa derivò il diritto di
stabilire d’autorità e inappellabilmente le direttrici e i
limiti della cultura. Solo come «cultura autoritaria e
coatta»110, solo sotto la minaccia di sanzioni, quali pote-
va infliggere la Chiesa, in possesso di tutti gli strumen-
ti di salvazione, poteva svilupparsi e affermarsi una
visione del mondo cosí conchiusa e omogenea come
quella dell’alto Medioevo. Gli angusti limiti posti dal
feudalesimo, con l’aiuto della Chiesa, al pensiero e alla
volontà del tempo, spiegano l’assolutismo del sistema
metafisico, che si opponeva brutalmente a ogni manife-
stazione filosofica originale, come il sistema sociale a
ogni libertà; e imponeva al mondo dello spirito gli stes-
si principî d’autorità e di gerarchia che si esprimevano
nelle forme dell’assetto sociale.

Storia dell’arte Einaudi 68


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Il programma culturale assolutistico della Chiesa si


realizza pienamente solo dopo la fine del secolo x, quan-
do si affermano, col movimento cluniacense, un nuovo
spiritualismo e una nuova intransigenza intellettuale.
Ora il clero, perseguendo i propri fini totalitari, ali-
menta uno stato d’animo apocalittico di fuga dal mondo
e desiderio di morte, mantiene gli animi in un’esalta-
zione religiosa, predica la fine del mondo e il Giudizio
universale, organizza pellegrinaggi e crociate, scomuni-
ca re e imperatori. In questo spirito autoritario e mili-
tante la Chiesa conduce a termine l’edificazione della
civiltà medievale, che solo ora, sullo scorcio del secolo,
appare in tutta la sua coerenza e singolarità111. Ora sor-
gono le prime grandi chiese romaniche, le prime grandi
creazioni dell’arte medievale in senso stretto. Il secolo
xi è un’epoca d’oro per l’architettura sacra, mentre fio-
risce la filosofia scolastica, e, in Francia, l’epopea d’i-
spirazione ecclesiastica. Questo rigoglio intellettuale, e
specialmente il fiorire dell’architettura, sarebbe incon-
cepibile senza l’enorme incremento del patrimonio eccle-
siastico. L’epoca delle riforme monastiche è anche il
tempo delle grandi donazioni e fondazioni a favore dei
conventi112. Non solo cresce la ricchezza dei monasteri,
ma anche quella dei vescovati, specialmente in Germa-
nia, dove i re cercano di ottenere l’alleanza dei principi
della Chiesa contro i vassalli ribelli. Grazie ai loro doni,
accanto alle grandi abbazie sorgono le prime cattedrali.
In questo periodo, come già sappiamo, i re non hanno
residenza stabile, e alloggiano con la loro corte ora pres-
so un vescovo, ora in un’abbazia del regno113. In man-
canza di una capitale, essi non esplicano direttamente
alcuna attività edilizia, ma soddisfano la loro passione
di costruttori favorendo le iniziative dei vescovi. A
ragione, in Germania, si considerano e si chiamano «cat-
tedrali imperiali» le grandi chiese episcopali di quel
tempo.

Storia dell’arte Einaudi 69


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Queste chiese romaniche, in armonia con lo spirito


dei fondatori, sono costruzioni imponenti e massicce,
espressione di potenza e di mezzi illimitati. Sono state
chiamate «fortezze di Dio», e difatti sono grandi, salde
e massicce come le fortezze e i castelli di allora: troppo
grandi per le comunità dei fedeli. Ma non vengono
innalzate per i credenti, bensí a gloria di Dio, e, come
le costruzioni sacre dell’antico Oriente, e nessun’altra
architettura nella stessa misura, assolvono una funzione
rappresentativa. Anche Santa Sofia era immensa, ma la
sua grandezza aveva un certo qual fondamento pratico,
poiché essa era la primaziale di una metropoli; mentre
le chiese romaniche sorgono tutt’al piú in cittadine pic-
cole e tranquille, dato che non ci sono piú grandi città
in Occidente.
Sarebbe facile ricondurre, non solo le proporzioni, ma
anche le forme grevi, ampie e possenti dell’architettura
romanica, alla potenza politica dei loro costruttori, e
considerarle come l’espressione di un aspro dominio di
classe e di un inflessibile spirito di casta. Ma ciò signifi-
cherebbe confondere le cose anziché spiegarle. Se si vuol
comprendere la solennità dell’arte romanica, il suo volu-
me opprimente, la sua calma severità, bisognerà pensare
al suo «arcaismo», al suo ritorno alle forme semplici, sti-
lizzate, geometriche: fenomeno che è in rapporto con cir-
costanze molto piú concrete e tangibili del generale orien-
tamento autoritario del tempo. L’arte del periodo roma-
nico è piú semplice e omogenea, meno eclettica e diffe-
renziata di quella dell’epoca bizantina o carolingia, sia
perché non è piú arte aulica, sia perché, fin dal tempo di
Carlo Magno, le città dell’Occidente, soprattutto in
seguito alla penetrazione degli Arabi nel Mediterraneo e
alla interruzione del commercio fra Oriente e Occiden-
te, hanno subìto un ulteriore regresso.
Ciò significa, in altre parole, che la produzione arti-
stica non dipende piú dal gusto raffinato, e mutevole

Storia dell’arte Einaudi 70


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

della corte, né dallo spirito inquieto della città. Per


molti aspetti essa è forse piú rozza e primitiva della pro-
duzione artistica dell’epoca immediatamente preceden-
te, ma contiene un numero molto minore di elementi
inassimilati, o non sufficientemente elaborati, dell’arte
bizantina e, soprattutto, dell’arte carolingia. Non parla
piú il linguaggio della passiva imitazione, ma quello di
un rinnovamento religioso.
Abbiamo di nuovo a che fare con un’arte dove il
sacro e il profano quasi si confondono, e di fronte alla
quale i contemporanei non potevano sempre rendersi
conto della differenza tra il fine ecclesiastico e il fine
mondano. In ogni caso, essi sentivano molto meno net-
tamente di noi la frattura tra le due sfere, anche se, in
quest’epoca relativamente tarda, non si può piú parlare
di una perfetta sintesi di arte, vita e religione, come
voleva il romanticismo. Perché, sebbene il Medioevo cri-
stiano fosse molto piú profondamente e ingenuamente
religioso dell’antichità classica, tuttavia il rapporto fra
vita religiosa e vita sociale era piú stretto presso i Greci
e i Romani che presso i popoli cristiani del Medioevo.
L’antichità era piú vicina ai tempi preistorici almeno in
questo, che per essa stato, stirpe e famiglia non signifi-
cavano soltanto gruppi sociali, ma unità culturali ed enti
religiosi. I cristiani del Medioevo invece distinguevano
già le forme naturali della vita associata dai rapporti tra-
scendenti della religione114. L’unificazione a posteriori
dei due ordini nell’idea dello stato voluto da Dio non fu
mai cosí intima da far sí che i gruppi politici e i vincoli
del sangue acquistassero un carattere religioso nella
coscienza del popolo.
La natura sacrale dell’arte romanica non significa che
la vita del tempo fosse penetrata di religiosità in tutte
le sue manifestazioni (ciò che non corrisponderebbe
affatto alla realtà); essa si spiega piuttosto con la situa-
zione prodottasi in seguito al disgregamento della società

Storia dell’arte Einaudi 71


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

di corte, delle amministrazioni municipali e del potere


centrale: disgregamento che ha fatto della Chiesa pres-
soché la sola committente di opere d’arte. A ciò si
aggiunga che, in seguito alla totale clericalizzazione della
cultura, l’arte era considerata non piú come un oggetto
di godimento estetico, ma anch’essa come «servizio di
Dio, offerta, sacrificio»115. Qui il Medioevo è piú vici-
no dell’antichità classica alla mentalità primitiva. Ma ciò
non vuol dire che il linguaggio dell’arte romanica fosse
piú comprensibile alle masse di quello dell’antichità o
dell’alto Medioevo. Se l’arte carolingia, dipendendo dal
gusto raffinato della corte, era estranea al popolo, ora
l’arte è il patrimonio di una aristocrazia ecclesiastica,
che, per quanto piú vasta della cerchia dei letterati pala-
tini intorno a Carlo Magno, non comprende neppure
tutto il clero. Come strumento della propaganda eccle-
siastica suo compito è quello di ispirare alle folle una
religiosità solenne ma tutto sommato indeterminata. Gli
ingenui fedeli non potevano certo comprendere o
apprezzare il simbolismo spesso difficile o la raffinatez-
za formale delle scene sacre. Benché piú sobrie e sugge-
stive, le forme romaniche non erano piú popolari o piú
ingenue di quelle della piú antica arte cristiana. La sem-
plificazione delle forme non implicava nessuna conces-
sione al gusto e alla possibilità di comprensione delle
masse, ma si ricollegava all’orientamento estetico di una
classe dominante piú fiera della propria autorità che
della propria cultura.
Conforme al ritmico avvicendarsi degli stili, dopo il
geometrismo delle origini e il naturalismo della tarda
antichità, l’astrazione paleocristiana e l’eclettismo caro-
lingio, l’arte romanica torna a un formalismo lontano
dalle apparenze naturalistiche. La civiltà feudale, essen-
zialmente antiindividualistica, predilige anche nell’arte
ciò che è generale e uniforme; e tende a un’immagine del
mondo in cui tutto è tipico: le fisionomie come i pan-

Storia dell’arte Einaudi 72


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

neggi, le grandi mani gesticolanti come gli alberelli a


forma di palma e le rocce che paiono di latta. Questa
tipicità e monumentalità dell’arte romanica si afferma-
no nell’esaltazione della forma cubica e nell’inserimen-
to della plastica nell’architettura. Le sculture delle chie-
se romaniche sono membri dell’edificio, pilastri e colon-
ne, parti integranti dei muri o del portale. La cornice
architettonica è essenziale per le figure. Non solo ani-
mali e fogliami, ma anche la forma umana adempie a una
funzione ornamentale nel complesso dell’opera; si piega
e si torce, si stende e si contrae, secondo il posto asse-
gnatole. La subordinazione di ogni particolare è cosí
rilevante, che è difficile distinguere fra arte pura e arte
applicata, fra l’opera dello scultore e quella dell’artigia-
no116. Anche qui è facile istituire un parallelo con le
forme politiche. E sarebbe semplicissimo riferire allo spi-
rito autoritario del tempo la funzionale coerenza degli
elementi di un edificio romanico e la loro subordina-
zione all’unità architettonica, e ricondurre l’una e l’al-
tra a quel principio unitario che domina la società e
s’incarna in organismi collettivi come la Chiesa univer-
sale e gli ordini monastici, il feudalesimo e l’economia
curtense. Ma una simile interpretazione cadrebbe facil-
mente in un equivoco. Le sculture di una chiesa roma-
nica «dipendono» dall’architettura in tutt’altro senso
che i contadini e i vassalli dal feudatario.
Senza dubbio il rigorismo formale e l’astrazione dalla
realtà sono le caratteristiche principali dello stile roma-
nico: ma non sono le sole. Come in filosofia c’è una ten-
denza mistica operante accanto alla scolastica, come fra
i monaci lo spirito militante non esclude l’inclinazione
alla vita contemplativa e, nella riforma degli ordini,
accanto al rigido dogmatismo si esprime una religiosità
impetuosa, indomabile, portata all’estasi; cosí nell’arte,
accanto al formalismo e alla tipologia astratta si afferma
una corrente di veemente espressionismo. Ma questa

Storia dell’arte Einaudi 73


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

maggiore libertà nello stile romanico si manifesta sol-


tanto nella seconda metà dell’epoca, quando, nel secolo
xi, l’economia rinasce e si rinnova la vita delle città117.
Per quanto sostanzialmente modesti, questi inizi prean-
nunziano un mutamento che apre la via all’individuali-
smo e al liberalismo moderno. Da principio, esterior-
mente, non muta gran che: la tendenza fondamentale
dell’arte resta antinaturalistica e ieratica. Eppure un
primo passo verso la dissoluzione dei vincoli medievali
si compie proprio in questo secolo xi cosí straordinaria-
mente fecondo, con le sue nuove città e mercati, i suoi
nuovi ordini e scuole, le prime crociate e i primi stati
normanni, gli inizi della scultura monumentale cristia-
na e i prodromi dell’architettura gotica. Non a caso que-
sto fervore di vita coincide proprio con l’epoca in cui
l’autarchia economica dell’alto Medioevo, dopo una sta-
bilità plurisecolare, comincia a cedere il passo a un’eco-
nomia di traffici.
Nell’arte il mutamento è lentissimo. La statuaria è
bensí cosa nuova, dimenticata dopo il tramonto della
civiltà antica; ma il suo linguaggio formale rimane essen-
zialmente legato alle convenzioni della piú antica pittu-
ra romanica; e quanto al protogotico normanno del seco-
lo xi, è giustamente considerato come una varietà del
romanico. Ma il verticalismo architettonico e il vigore
espressivo delle figure non lasciano dubbi circa la ten-
denza a un’arte piú dinamica. Nelle deformazioni con
cui si cerca di raggiungere l’effetto – alterazione delle
proporzioni naturali, ingrandimento eccessivo delle parti
espressive del volto e del corpo, soprattutto degli occhi
e delle mani, esagerazione dei gesti, profondità ostentata
degli inchini, braccia scagliate in alto e gambe incrocia-
te come in una danza – non si tratta piú semplicemen-
te del fenomeno che, come è stato affermato, sarebbe
presente in ogni arte primitiva, e per cui «le parti del
corpo in cui piú si manifestano la volontà e il sentimento

Storia dell’arte Einaudi 74


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

sono rappresentate come piú grandi e piú forti delle


altre»118. Siamo piuttosto di fronte a un aperto espres-
sionismo dinamico119. L’arte che si getta impetuosa-
mente in questa nuova maniera deriva il suo ardore
dallo spiritualismo e dall’attivismo cluniacense. La dina-
mica del «barocco tardo-romanico» si ricollega a Cluny
e alla riforma monastica, come il pathos secentesco ai
gesuiti e alla reazione cattolica. Nella plastica e nella pit-
tura, nelle sculture di Autun e Vézelay, Moissac e Souil-
lac, come nelle figure degli evangelisti nell’evangeliario
di Amiens e in quello di Ottone, si esprime lo stesso spi-
rito di ascetica riforma, lo stesso stato d’animo apoca-
littico. Gli apostoli e i profeti che si raccolgono intorno
a Cristo sui timpani delle chiese, figure snelle, fragili,
consunte dall’ardore della fede, gli eletti e i beati, gli
angeli e i santi dei Giudizi e delle Ascensioni, sono gli
asceti spiritualizzati che i creatori di quest’arte, i pii
monaci dei chiostri, si propongono a modello.
Già le grandi composizioni figurate dell’arte tardo-
romanica nascono spesso da una sfrenata fantasia visio-
naria; ma nelle composizioni ornamentali, come nel pila-
stro zoomorfo dell’abbazia di Souillac, questa fantasia
tocca l’astrusità del delirio. Uomini, bestie, chimere,
mostri si confondono in un unico fiotto di vita pullu-
lante, in un caotico brulichio di corpi umani e ferini, che
per molti aspetti ricorda i viluppi lineari della miniatu-
ra irlandese e dimostra che la tradizione di quest’arte
non si è ancora spenta; ma dimostra anche come sia
mutata dai tempi del suo fiore, e come il rigore geome-
trico dell’alto Medioevo sia stato travolto dal dinamismo
del secolo xi.
Ora soltanto si realizza pienamente ciò che noi inten-
diamo per arte cristiana e medievale. Ora soltanto è del
tutto manifesto il senso trascendente delle immagini.
Fenomeni come l’eccessiva lunghezza dei corpi o i gesti
spasmodici non possono piú spiegarsi razionalmente,

Storia dell’arte Einaudi 75


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

come l’alterazione paleocristiana dei canoni naturali,


logico risultato della gerarchia spirituale delle figure.
Allora l’affiorare di un mondo trascendente induceva a
deformare il vero, ma le leggi naturali restavano sostan-
zialmente valide; ora invece esse hanno perso ogni valo-
re e con esse decadono gli antichi ideali di bellezza.
Nell’arte paleocristiana le deviazioni dalla realtà sensi-
bile non superavano mai i limiti della possibilità biolo-
gica e della correttezza formale; ora queste deviazioni
sono del tutto inconciliabili coi criteri classici di verità
e di bellezza, e vien meno «ogni specifico valore plasti-
co delle figure»120. Il richiamo al trascendente domina
ormai al punto che le singole forme non hanno piú in sé
alcun valore; non sono che simboli e segni. Ed esse non
si limitano piú a esprimere il mondo trascendente con
mezzi negativi, accennando alla realtà soprannaturale
dagli squarci aperti nella realtà naturale e negando l’or-
dinamento di quest’ultima; ma rappresentano l’irrazio-
nale e l’oltremondano in modo positivo e diretto. Se si
confrontano queste figure senza peso, nello spasimo del-
l’estasi, con le robuste, equilibrate, eroiche figure del-
l’antichità classica – come si è confrontato, ad esempio,
il San Pietro di Moissac col Doriforo121 – appare evi-
dente la peculiarità dell’arte medievale. Di fronte all’ar-
te classica, che si limita esclusivamente alla bellezza fisi-
ca, alla realtà sensibile, alla regolarità formale, ed evita
ogni accenno agli elementi psichici e intellettuali, l’arte
romanica appare unicamente intenta all’espressione del-
l’anima, e le sue leggi non seguono la logica dell’espe-
rienza sensibile, ma quella della visione interiore. In
questo elemento visionario è l’essenza del tardo roma-
nico, e si spiegano cosí la spettrale lunghezza delle figu-
re, il loro atteggiamento contratto, i loro movimenti da
marionette.
Il gusto dell’arte romanica per l’illustrazione cresce
continuamente; e alla fine non è meno intenso del suo

Storia dell’arte Einaudi 76


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

interesse decorativo. L’inquietudine spirituale si mani-


festa anche nella progressiva estensione del repertorio
figurativo e conduce al saccheggio dell’intero contenu-
to delle Sacre Scritture. I nuovi soggetti, specie il Giu-
dizio finale e la Passione, caratterizzano, non meno
dello stile, lo spirito del tempo. Il tema principe della
scultura tardoromanica è il Giudizio universale: il sog-
getto che essa predilige per le lunette dei portali. Pro-
dotto della psicosi millenaristica, è insieme la piú forte
espressione dell’autorità della Chiesa. Qui si giudica l’u-
manità, che, secondo l’accusa o l’intercessione della
Chiesa, viene condannata o assolta. Per intimidire le
menti, l’arte non poteva immaginare mezzo piú effica-
ce di questo quadro d’infinito orrore e di eterna beati-
tudine. La popolarità dell’altro grande soggetto roma-
nico, la Passione, segna una svolta verso l’emozionali-
smo, anche se la trattazione si mantiene ancora, per lo
piú, nei limiti del vecchio stile, impassibile e solenne-
mente rappresentativo. Le «Passioni» romaniche sono
a metà strada fra l’antica ripugnanza a rappresentare la
sofferenza e l’umiliazione di Dio e la curiosità morbosa
che insisterà – piú tardi – sulle piaghe del Salvatore. Per
i primi cristiani, educati nello spirito dell’antichità clas-
sica, l’immagine del Salvatore morente sulla croce dei
delinquenti presentava qualcosa di ostico. L’arte caro-
lingia accetta, sí, la Crocifissione dall’Oriente, ma si
rifiuta di mostrare un Cristo tormentato e umiliato; lo
spirito feudale non sa conciliare l’altezza divina con la
sofferenza fisica. Nelle scene romaniche della Passione,
il Crocifisso non pende quasi mai dalla croce, ma vi sta
ritto; e di regola è rappresentato con gli occhi aperti, non
di rado incoronato, e spesso anche vestito122. Quella
società aristocratica doveva vincere la propria ripu-
gnanza, non solo religiosa, ma anche sociale, per la rap-
presentazione del nudo, prima di potersi abituare alla
vista del Cristo svestito. Anche piú tardi, l’arte medie-

Storia dell’arte Einaudi 77


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

vale evita di mostrare corpi nudi, se il tema non lo esige


espressamente123. Al Cristo eroico e regale, che appare
– anche sulla croce – vincitore di ogni cosa transeunte
e terrestre, corrisponde l’immagine della Madonna: non
è la Madre di Dio col suo amore e col suo dolore, a cui
ci abituerà il gotico, ma una celeste regina superiore a
ogni cosa umana.
La gioia con cui l’arte romanica piú tarda può immer-
gersi nell’illustrazione di una materia epica, si manife-
sta nel modo piú immediato nell’Arazzo di Bayeux,
opera che, per quanto destinata a una chiesa, esprime
una concezione dell’arte ben diversa da quella ecclesia-
stica. Esso narra la conquista dell’Inghilterra ad opera
dei Normanni, in uno stile mirabilmente fluido, con
varietà di episodi e con un sorprendente amore per il
particolare aneddotico. Vi si afferma una maniera
descrittiva, che, in certo qual modo, precorre la com-
posizione ciclica dell’arte gotica, e che è in netto con-
trasto con la concezione sintetica del romanico. È chia-
ro che non si tratta di un prodotto dell’arte monastica,
ma di un’opera che esce da una bottega piú o meno indi-
pendente dalla Chiesa. La tradizione che attribuisce il
ricamo alla regina Matilde riposa senza dubbio su una
leggenda, perché l’opera è stata certamente eseguita da
artefici esperti e specializzati; ma la leggenda ci ripor-
ta, se non altro, all’origine profana del lavoro. Nessun
altro prodotto romanico ci dà un’idea cosí completa dei
mezzi di cui poteva disporre l’arte profana del tempo.
Tanto piú deplorevole ci appare la perdita di opere ana-
loghe, che non erano evidentemente conservate con la
cura con cui erano conservati i prodotti dell’arte sacra.
Non sappiamo quale ampiezza abbia raggiunto la pro-
duzione artistica profana; non sarà stata neppure para-
gonabile a quella ecclesiastica, ma, almeno nell’epoca
tardoromanica, a cui appartiene anche l’arazzo di
Bayeux, era senza dubbio piú notevole di quel che si

Storia dell’arte Einaudi 78


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

potrebbe supporre a giudicare dai pochi monumenti


superstiti.
Quanto sia difficile, sulla base di ciò che possediamo,
parlare dell’arte profana di quest’epoca, appare piú che
mai dal ritratto, che oscilla, per cosí dire, in una zona
incerta fra l’arte sacra e profana. Si ignora ancora il
ritratto individualizzante, che sottolinea i tratti perso-
nali del modello. Il ritratto romanico non è che una
parte di una composizione rituale o di un monumento;
lo troviamo nelle immagini dedicatorie delle Bibbie
manoscritte, o nei sepolcri delle chiese. Ma l’immagine
dedicatoria, che, oltre al committente o al promotore del
manoscritto, rappresenta spesso anche l’amanuense e il
pittore124, apre la via, pur nella sua solennità, a un gene-
re molto personale, benché, per ora, trattato schemati-
camente: l’autoritratto. Ancor piú evidente è l’intimo
contrasto nei ritratti scolpiti dei monumenti funebri.
Nell’arte cimiteriale dei primi cristiani la persona del
defunto, o non compariva affatto, o solo con estrema
discrezione; nei sepolcri romanici è l’oggetto principale
della rappresentazione125. Lo spirito di casta della società
feudale si oppone ancora all’accentuazione dei caratte-
ri individuali, pur cominciando ad accettare l’idea del
monumento personale.

Storia dell’arte Einaudi 79


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

1
m. dvo¤ák, Katakombenmalereien. Die Anfänge der christlichen
Kunst, in Kunstgeschichte als Geistesgeschichte, 1924.
2
oskar wulff, Die umgekehrte Perspektive und die Niedersicht, in
Kunstwissenschaftliche Beiträge A. Schmarsow gewidmet, 1907; id., Die
Kunst des Kindes, 1927.
3
wilhelm neuss, Die Kunst der alten Christen, 1926, pp. 117-118.
Riproduzione in h. pierce - r. tyler, L’Art byzantin, II, 1934, tav.
143.
4
Cfr. e. von garger, Über Wertungsschwierigkeiten bei mittelalter-
licher Kunst. Kritische Berichte zur kanstgeschichtlichen Literatur,
1932-33, p. 104.
5
m. dvo¤ák, Idealismus und Naturalismus in der gotischen Skulptur und
Malerei, 1918, p. 32 (qui in connessione con la tarda arte carolingia).
6
rudolf koemstedt, Vormittelalterliche Malerei, 1929, passim. Cfr.
per quanto segue, pp. 14-18 e 20-23.
7
Ibid., p. 40.
8
henri pirenne, Le mouvement économique et social, in Histoire du
Moyen Age, ed. da g. glotz, VIII, 1933, p. 20.
9
steven runciman, Byzantine Civilisation, 1933, p. 204.
10
lujo brentano, Die byzantinische Volkswirtschaft, «Schmollers
Jahrbuch», XLI, 1917, fasc. 2, p. 29.
11
georg ostrogorsky, Die wirtschaftlichen und sozialen Entwick-
lungsgrundlagen des byzantinischen Reiches, «Vierteljahrsschrift für
Sozial- und Wirtschaftsgeschichte», xxii, 1929, p. 134.
12
richard laqueur, Das Kaisertum und die Gesellschaft des Reiches,
in Probleme der Spätantike. 17. Deutscher Historikertag, 1930, p. 10.
13
j. b. bury, History of the Later Roman Empire, I, 1889, pp.
186-87.
14
georg grupp, Kulturgeschichte des Mittelatters, III, 1924, p. 185.
15
Solo a partire dal sesto secolo si può notare un «indebolimento
dell’autorità statale ad opera della nobiltà». h. sieveking, Mittlere
Wirtschaftgeschichte, 1921, p. 19.
16
g. ostrogorsky, Die wirtschaftlichen ecc. cit., p. 136.
17
charles diehl, La Peinture byzantine, 1933, p. 41. Cfr. anche
emile mâle, Art et artistes du moyen âge, 1927, p. 9.
18
c. diehl, Manuel d’art byzantin, I, 1925, p. 231.
19
n. kondakoff, Histoire de l’art byzantin considéré principalement
dans les miniatures, I, 1886, p. 34.
20
r. koemstedt, Vormittelalterliche Malerei cit., p. 28.
21
l. brentano, Die byzantinische Volkswirtschaft cit., pagine 41-42.
22
Cfr. e. j. martin, A History of Iconoclastic Controversy, 1930, pp.
18-21.
23
Citato da karl schwarzlose, Der Bilderstreit, ein Kampf der grie-
chischen Kirche um ihre Eigenart und ihre Freiheit, 1890, p. 7.

Storia dell’arte Einaudi 80


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

24
g. grupp, Kulturgeschichte des Mittelalters cit., I, 1921, p. 352.
25
carl brinkmann, Wirtschafts- und Sozialgeschichte, 1927, p. 24.
26
o. m. dalton, Byzantine Art and Archaeology, 1911, p. 13; carl
neumann, Byzantinische Kultur und Renaissancekultur, «Historische
Zeitschrift», 1903, p. 222.
27
k. schwarzlose, Der Bilderstreit ecc. cit., p. 241.
28
louis bréhier, La Querelle des images, 1904, pp. 41-42; e. j. mar-
tin, A History of Iconoclastic Controversy cit., pp. 28, 54.
29
Cfr. o. m. dalton, Byzantine Art and Archaeology cit., pp. 14-15;
o. wulff, Altchristliche und byzantinische Kunst, II, 1918, p. 363.
30
c. diehl, La Peinture byzantine cit., p. 21.
31
schuchhardt, Alteuropa cit., pp. 265 sgg.
32
vitzthum-volbach, Die Malerei und Plastik des Mittelalters in Ita-
lien, 1924, pp. 15-16.
33
georg dehio, Geschichte der deutschen Kunst, I, 4a ed., 1930,
p. 15.
34
alfons dopsoh, Die Wirtschaftsentwicklung der Karolingerzeit,
1912-13. id., Wirtschaftliche und sozialische Grundlagen der europäi-
schen Kulturentwicklung, 1918-24.
35
kuno meyer, Bruchstücke der älteren Lyrik Irlands, «Abhandlun-
gen der Preussischen Akademie der Wissenschaft, Philosophisch-Histo-
rische Klasse», 1919, n. 7, p. 65.
36
Ibid., p. 66.
37
Ibid., p. 68.
38
Ibid., p. 4.
39
eleanor hull, A Text Book of Irish Literature, I, 1906, pp.
219-20.
40
Citato da p. w. joice, A Social History of Ancient Ireland, II, 1913,
p. 503.
41
a. dopsch, Wirtschaftliche und soziale Grundlagen cit., I, pp. 103,
185-87.
42
ferdinand lot, La Fin du monde antique et le début du moyen âge,
1927, p. 421.
43
Ibid., p. 411.
44
a. dopsch, Wirtschaftliche und soziale Grundlagen cit., II, p. 98.
45
henri pirenne, A History of Europe from the Invasion to the XVI
Cent., 1939, p. 69.
46
samuel dill, Roman Society in Gaul in the Merovingian Age,
1926, p. 215.
47
Ibid., p. 224.
48
f. lot, La Civilisation mérovingienne, in Histoire du Moyen Age,
ed. da g. glotz, I, 1928, p. 362.
49
Ibid., p. 380.
50
h. pirenne, A History of Europe cit., p. 58.

Storia dell’arte Einaudi 81


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

51
Ibid., pp. 111-12.
52
f. lot, La Fin du monde antique ecc. cit., p. 438.
53
gaston paris, Esquisse historique de la littérature française au
moyen âge, 1907, p. 75.
54
c. h. becker, Vom Werden und Wesen der islamischen Welt,
«Islamstudien», i, 1924, p. 34.
55
georg dehio, Geschichte der deutschen Kunst cit., p. 63.
56
Ibid., p. 6o.
57
h. gräven, Die Vorlage des Utrechtspsalters, «Repertorium für
Kunstwissenschaft», xxi, 1898, pp. 28 sgg.
58
roger hinks, Carolingian Art, 1935, p. 117.
59
georg swarzenski, Die karolingische Malerei und Plastik in Reims,
«Jahrbuch der königlichen Preussischen Kunstsammlungen», xxiii, 1902.
60
louis réau - gustave cohen, L’Art du moyen âge et la civilisa-
tion française, 1935, pp. 264-65; r. hinks, Carolingian Art cit., p. 109.
61
georg dehio, Geschichte der deutschen Kunst cit., p. 63.
62
r. hinks, Carolingian Art cit., pp. 105, 209.
63
andreas heusler, Die altgermanische Dichtung, 1929, p. 107; id.,
in j. hoops, Reallexikon der germanischen Altertumskunde, I, 1911-13,
p. 459.
64
hermann-schneider, Germanische Heldensage, I, 1928, pp. 11, 32.
65
h. m. chadwick, The Heroic Age cit., p. 93.
66
koberstein-bartsch, Geschichte der deutschen National-Literatur,
I, 1872, 5a ed., pp. 17, 41-42.
67
rudolf koegel, Geschichte der deutschen Literatur, I, i, 1894, p.
146.
68
a. heusler, Die altgermanische Dichtung cit., in hoops, Real-
lexikon, I, p. 462.
69
w. p. ker, Epic and Romance, 2a ed., 1908, p. 7.
70
h. schneider, Germanische Heldensage cit., p. 10.
71
a. heusler, Die altgermanische Dichtung, p. 153.
72
joseph bédier, Les Légendes épiques, I, 1914, p. 152.
73
Cfr. «Romania», xiii, p. 602.
74
pio rajna, Le origini dell’epopea francese, 1884, pp. 469-85.
75
j. bédiér, Les Légendes épiques cit., III, 1921, pp. 382, 390.
76
Ibid., IV, 1921, p. 432.
77
wilhelm hertz, Spielmannsbuch, 1886, p. iv.
78
hermann reich, Der Mimus, 1903, passim.
79
edmond faral, Les Jongleurs en France au moyen âge, 1910, p. 5.
80
wilhelm scherer, Geschichte der deutschen Literatur, 1902, 9a
ed., p. 6o.
81
Ibid., p. 61.
82
h. schneider, Germanische Heldensage cit., p. 36.
83
c. h. haskins, The Renaissance of the 12th Century, 1927, p. 33.

Storia dell’arte Einaudi 82


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

84
alois schulte, Der Adel und die deutsche Kirche im Mittelalter,
1910.
85
ernst troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und
Gruppen, 1912, p. 118; g. grupp, Kulturgeschichte des Mittelalters cit.,
I, p. 109.
86
a. dopsch, Wirtschaftlichen und sozialen Grundlagen, II, p. 427.
87
lewis mumford, Technics and Civilization, 1934, p. 13; cfr. wer-
ner sombart, Der moderne Kapitalismus, II, i, 1924, 6a ed., p. 127; h.
sieveking, Wirtschaftsgeschichte, II, 1921, p. 98.
88
Cfr. per quanto segue j. w. thompson, The Medieval Library,
1939, pp. 594-99, 612.
89
p. boissonade, Le Travail dans l’Europe chrétienne au moyen âge,
1921, p. 129.
90
g. g. coulton, Medieval Panorama, 1938, p. 267.
91
j. kulischer, Allgemeine Wirtschaftsgeschichte, I, 1928, p. 75.
92
Ibid., pp. 70-71.
93
viollet-le-duc, Dictionnaire raisonné, I, 1865, p. 128.
94
k. t. von inama - sternegg, Deutsche Wirtschaftgeschichte, I,
1909, 2a ed., p. 571.
95
julius von schlosser, Quellenbuch zur Kunstgeschichte des
abendländischen Mittelalters, 1896, p. xix.
96
wilhelm vöge, Die Anfänge des monumentalen Stiles im Mittelal-
ter, 1894, p. 289.
97
Recueil de textes relatif à l’histoire de l’architecture et à la condition
des architectes en France au moyen âge. XIIe-XIIIe siècles, publ. par V. Mor-
tet - P. Deschamps, 1929, p. xxx.
98
f. de mély, Les Primitifs et leurs signatures, 1913.
99
id., Nos vieilles cathédrales et leurs maîtres d’oeuvres, «Revue
Archéologique», xi, 1920, p. 291; xii, p. 95.
100
martin s. briggs, The Architect in History, 1927, p. 55.
101
a. schulte, Der Adel und die deutsche Kirche im Mittelalter cit.,
p. 221.
102
heinrich von eicken, Geschichte und System der mittelalterlichen
Weltanschauung, 1887, 224.
103
e. troeltsch, Die Soziallehren ecc. cit., p. 242.
104
johannes bühler, Die Kultur des Mittelalters, 1931, p. 95.
105
karl bücher, Die Entstehung der Volkswirtschaft, I, 1919, pp.
92 sgg.
106
georg von below, Probleme der Wirtschaftsgeschichte, 192o, pp.
178-79, 194 sgg.; a. dopsch, Wirtschaftliche und soziale Grundlagen cit.,
II, pp. 405-6.
107
h. pirenne, Le mouvement économique cit., p. 13.
108
werner sombart, Der moderne Kapitalismus, I, 1916, 2a ed., p. 31.
109
j. bühler, Die Kultur des Mittelalters cit., pp. 261-62.

Storia dell’arte Einaudi 83


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

110
e. troeltsch, Die Soziallehren ecc. cit., p. 223.
111
Cfr. oswald spengler, Der Untergang des Abendlandes, I, 1918,
p. 262.
112
h. pirenne, A History of Europe cit., p. 171.
113
g. dehio, Geschichte der deutschen Kunst cit., p. 73.
114
e. troeltsch, Die Soziallehren ecc. cit., p. 215.
115
g. dehio, Geschichte der deutschen Kunst cit., p. 73.
116
Ibid., p. 144.
117
a. fliche, La Civilisation occidentale aux Xe et XIe siècles, in
Histoire du Moyen Age. Ed. da g. glotz, II, 1930, pp. 597-6o9.
118
anton springer, Die Psalterillustrationen im frühen Mittelalter,
«Abhandlungen der königlichen Sächsischen Gesellschaft der Wis-
senschaft», viii, 1883, p. 195.
119
h. beenken, Romanische Skulptur in Deutschland, 1924, p. 17.
120
g. von luecken, Burgundische Skulpturen des 11. und 12. Jahrhun-
derts, «Jahrbuch der Kunstwissenschaft», 1923, p. 108.
121
g. kaschnitz - weinberg, Spätrömische Porträts, «Die Antike»,
II, 1926, p. 37.
122
g. dehio, Geschichte der deutschen Kunst cit., pp. 193-94.
123
julius baum, Die Malerei und Plastik des Mittelalters in Deutsch-
land, Frankreich und Britannien, 1930, p. 76.
124
j. prochno, Das Schreiber- und Dedikationsbild in der deutschen
Buchmalerei, I, 1929, passim.
125
g. dehio, Geschichte der deutschen Kunst cit., p. 183.

Storia dell’arte Einaudi 84


il medioevo

Capitolo ottavo

Il romanticismo cortese e cavalleresco

Il sorgere del gotico segna la svolta piú profonda


nella storia dell’arte moderna. L’ideale stilistico valido
ancora oggi, coi suoi criteri di fedeltà al vero e d’inten-
sità affettiva, di sensualità e di sensibilità, ha qui la sua
origine. Di fronte a questo modo di sentire e di espri-
mersi, l’arte dell’alto Medioevo appare non solo rigida
e impacciata – come il gotico di fronte al Rinascimento
– ma anche rozza e sgradevole. Solo il gotico ci ripre-
senta opere d’arte in cui le figure hanno proporzioni nor-
mali, si muovono con naturalezza e sono «belle» nel
senso proprio della parola. Anch’esse non ci fanno mai
dimenticare che si tratta di un’arte da gran tempo supe-
rata, ma, almeno in certi casi, suscitano un immediato
piacere, che non dipende soltanto dalla nostra cultura e
predisposizione. Come si è operato questo radicale cam-
biamento? Come è nata l’arte nuova, cosí vicina alla
nostra sensibilità? A quale intrinseco mutamento del-
l’economia e della società si ricollega il nuovo stile? La
risposta a questi quesiti non rivelerà alcuna svolta
improvvisa; per quanto diverso, nel suo complesso, dal-
l’alto Medioevo, il periodo gotico, all’inizio, pare sem-
plicemente continuare e compiere quell’epoca di transi-
zione che, nel secolo xi, scosse il sistema economico e
sociale del feudalesimo e la staticità dell’arte e della cul-
tura romanica. A quest’epoca risalgono gli inizi dell’e-
conomia monetaria e di scambio e i primi segni di rina-

Storia dell’arte Einaudi 4


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

scita della borghesia urbana occupata nell’industria e nei


traffici.
Chi osserva il fenomeno ha l’impressione che si ripe-
ta la rivoluzione economica dell’antichità, da cui nacque
la civiltà urbana della Grecia. In ogni caso, il nuovo
mondo occidentale sembra economicamente piú affine
alla polis che al mondo dell’alto Medioevo. Come già
nell’antichità, il centro della vita sociale torna a spostarsi
dal contado alla città; di qui partono tutti gli stimoli e
qui confluiscono tutte le vie. Se finora i conventi erano
le tappe che via via si toccavano nei viaggi, ora sono di
nuovo le città i luoghi dove ci si incontra e si entra in
contatto col mondo. Ma esse si distinguono dalle anti-
che poleis soprattutto perché queste ultime erano essen-
zialmente centri politici, mentre le città medievali sono
quasi soltanto mercati, in cui la dinamizzazione della
vita è ancor piú rapida e radicale che nelle comunità
urbane dell’evo antico.
Non è facile dire quale sia l’origine diretta di questa
nuova vita cittadina, e che cosa venga prima: la produ-
zione industriale e l’estensione del commercio, o la
disponibilità di denaro e l’inurbamento. Può darsi che
il mercato si ampliasse, perché era cresciuta la capacità
d’acquisto della popolazione, e l’aumento della rendita
fondiaria agevolava il fiorire delle industrie1; ma è altret-
tanto possibile che questo aumento derivasse dai nuovi
mercati, dai nuovi e maggiori bisogni delle città. Ma
comunque procedesse l’evoluzione, decisivo per la sto-
ria della civiltà è il sorgere dei nuovi ceti professionali:
artigiani e mercanti2. Artigiani e mercanti c’erano anche
prima; e un artigianato privato non si trovava soltanto
nelle fattorie e nei castelli, nelle tenute dei monasteri e
nelle officine dei vescovati, e cioè nel quadro dell’eco-
nomia curtense: perché molto presto una parte della
popolazione rurale s’era applicata a produrre manufatti
per il mercato libero. Ma questa piccola industria con-

Storia dell’arte Einaudi 5


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tadina non costituiva una produzione regolare, e per lo


piú veniva esercitata solo quando il podere non bastava
a mantenere la famiglia3. Quanto agli scambi, si tratta-
va solo di un commercio occasionale. La gente compra-
va e vendeva secondo la necessità e l’occasione, ma non
c’erano mercanti di mestiere, se non isolati e dediti al
commercio con l’estero; non c’era, comunque, alcun
gruppo a sé che si potesse designare come classe mer-
cantile. In generale, i produttori stessi curavano la ven-
dita dei loro prodotti. Ma, a cominciare dal secolo xii,
accanto ai produttori rurali troviamo un artigianato
urbano indipendente e regolarmente attivo, e un ceto di
mercanti professionali.
«Economia urbana» si contrappone, nelle classifica-
zioni di Bücher, alla produzione intesa a coprire il fab-
bisogno immediato del gruppo: significa cioè «produ-
zione per il cliente», cioè di beni che non vengono con-
sumati nell’azienda che li ha prodotti. Essa si distingue
dallo stadio successivo dell’«economia nazionale» perché
lo scambio delle merci procede pur sempre in forma
diretta, cioè i beni per lo piú passano immediatamente
dal produttore al consumatore, e di regola non c’è una
produzione di scorte e per il mercato libero, ma solo su
diretta ordinazione e per clienti ben noti. È questo il
primo stadio che separa la produzione dal consumo
immediato, ma siamo ancora ben lontani dall’assoluta
astrattezza della produzione di merci, per cui general-
mente i beni debbono passare attraverso molte mani
prima di giungere al consumatore. Questa fondamenta-
le differenza fra l’«economia urbana» medievale e la
moderna «economia nazionale» permane anche se cer-
chiamo di avvicinare il «tipo ideale» dell’economia urba-
na di Bücher alla realtà storica concreta, e, anziché pen-
sare a una pura produzione per clienti, di cui non si può
parlare neppure per il Medioevo, ci limitiamo a suppor-
re – fra produttori e consumatori – un rapporto piú

Storia dell’arte Einaudi 6


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

diretto di quello moderno, e teniamo presente che il


produttore non si trova di fronte a un mercato del tutto
ignoto e indeterminato, come sarà piú tardi. Il caratte-
re della produzione «urbana» si riflette naturalmente
anche nell’arte; se comporta, in confronto con l’epoca
romanica, una maggiore indipendenza dell’artista, tut-
tavia non determina il fenomeno moderno dell’artista
incompreso, straniato dal pubblico, operante nel vuoto,
fuori del tempo.
Il «rischio del capitale», che è la vera differenza tra
la produzione per committenti e quella di magazzino, è
sopportato ancora quasi esclusivamente dal mercante, o,
in ogni caso, egli dipende piú di ogni altro dai casi
imprevedibili del mercato. Egli rappresenta lo spirito
dell’economia monetaria nella sua forma piú pura, e il
tipo piú evoluto della nuova società tutta intesa al gua-
dagno. È soprattutto merito suo se, accanto alla pro-
prietà terriera, finora unica forma importante di ric-
chezza, si costituisce il capitale mobile degli affari. Fino-
ra la riserva di metalli preziosi era tesaurizzata quasi
esclusivamente in forma di oggetti utili, specialmente
coppe e piatti d’oro e d’argento. Le poche monete dispo-
nibili, per lo piú in possesso della Chiesa, non circola-
vano; a farle fruttare non si pensava affatto. I conven-
ti, precursori dell’economia razionale, prestavano bensí
ad usura4. Ma erano solo affari occasionali; il capitale
finanziario, per quanto se ne può parlare nell’alto
Medioevo, era infruttifero. È il commercio a ridare
impulso al capitale inerte. Grazie ad esso il denaro, non
solo diventa il mezzo universale di scambio e di paga-
mento, la forma prediletta di formazione della ricchez-
za, ma ricomincia a «lavorare», ridiventa produttivo:
infatti serve all’acquisto di materie prime e di utensili,
e permette di accumulare le merci ai fini della specula-
zione; e costituisce il substrato delle operazioni di cre-
dito e delle transazioni bancarie. Ma con ciò appaiono

Storia dell’arte Einaudi 7


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

anche i primi caratteri della mentalità capitalistica5. Poi-


ché la ricchezza diventa piú mobile, ed è piú facile con-
vertirla, trasferirla e accumularla, gli individui comin-
ciano a liberarsi da ogni soggezione naturale e sociale;
si elevano piú facilmente da una classe all’altra e hanno
piú voglia e coraggio di far valere la propria personalità.
Il denaro, che permette la misura, lo scambio e l’astra-
zione dei valori, e rende neutra e impersonale la pro-
prietà, fa sí che anche l’appartenenza degli individui ai
vari gruppi sociali dipenda dal fattore impersonale e
astratto del loro sempre variabile potere finanziario; e
finisce cosí per distruggere il rigido sistema delle caste.
Il prestigio determinato dal censo è generalmente colle-
gato al livellamento dei soggetti economici, ma poiché
l’acquisto della ricchezza dipende da qualità schietta-
mente personali – intelligenza, fiuto, senso della realtà,
abilità nelle combinazioni – e non dalla nascita, dalla
posizione e dai privilegi, l’individuo guadagna in pre-
stigio personale quello che ha perduto come rappresen-
tante di un determinato ceto. Sono ormai le sue qualità
positive, e non piú le qualità irrazionali della nascita, a
dargli credito.
L’economia monetaria delle città minaccia di rovina
l’intero sistema economico feudale. Quella del feudo,
come sappiamo, era un’economia senza mercati, che, per
l’impossibilità di vendere i propri prodotti, si limitava
a produrre secondo il bisogno. Ma appena si trovò la
possibilità di valorizzare i prodotti eccedenti, quell’e-
conomia tradizionalistica, sterile e senza ambizioni, si
destò a nuova vita. Si passò a metodi produttivi piú
intensi e piú razionali, e si fece di tutto per produrre piú
di quanto si consumasse. Ma poiché la parte spettante
ai proprietari terrieri dei proventi delle loro terre era piú
o meno strettamente limitata dalla tradizione e dal
costume, la nuova eccedenza favorí anzitutto i contadi-
ni. Intanto i signori avevano sempre piú bisogno di

Storia dell’arte Einaudi 8


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

denaro, e non solo per l’aumento dei prezzi connesso


allo sviluppo del commercio, ma anche per la seducen-
te offerta di articoli sempre piú nuovi e preziosi. Dalla
fine del secolo xi le esigenze sono enormemente cre-
sciute, e si è raffinato il gusto in fatto di vestiario, di
armi, di arredamento; ora non ci si contenta piú di una
rozza praticità senza pretese, e in ogni oggetto d’uso si
vuol possedere un oggetto di valore. Poiché le entrate
della nobiltà terriera restano stazionarie, questa situa-
zione non può non dar origine a un disagio economico,
a cui da principio si apre come sola via di scampo la colo-
nizzazione dei terreni incolti. I proprietari cercano di
affittare gli appezzamenti disponibili, fra cui anche quel-
li disertati dai contadini, e di trasformare in pagamenti
in denaro le antiche prestazioni in natura. Perché, se essi
hanno soprattutto bisogno di denaro, cominciano a ren-
dersi conto che, in quest’epoca d’incipiente razionali-
smo, coltivare la proprietà con i servi della gleba spesso
non è piú redditizio. Si fa strada in loro l’idea che il
lavoro libero frutta molto di piú del lavoro servile, e che
la gente preferisce assumersi carichi piú gravosi, ma sta-
biliti in precedenza, anziché impegni indefiniti, anche
se in realtà piú lievi6. Essi sanno ricavare tutto il van-
taggio possibile dalla critica situazione: liberando i con-
tadini, non solo acquistano fittavoli piú attivi dei servi
della gleba, ma incassano, in cambio di questo favore,
somme considerevoli. Spesso non riescono a cavarsela
neppure cosí, e, per tenere il passo coi tempi, debbono
contrarre prestiti su prestiti e, finalmente, cedere parte
delle loro terre ai borghesi, desiderosi di acquistarle e in
grado di pagarle.
Comprando quei beni, la borghesia vuole anzitutto
consolidare la sua posizione sociale ancora dubbia; la
proprietà terriera è come un ponte per salire ai ceti
superiori. In questo periodo, il mercante o l’artigiano
svincolato dalla terra è un fenomeno in sé e per sé pro-

Storia dell’arte Einaudi 9


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

blematico. Egli ha un posto intermedio fra i nobili e i


contadini; da un lato è libero, come lo è solo il nobile;
ma dall’altro viene dalla plebe come l’ultimo servo della
gleba. Anzi, nonostante la sua libertà, è in certo qual
modo inferiore al contadino, e passa, nei suoi confron-
ti, per uno spostato senza radici7. In un tempo in cui sola
condizione legittima è il vincolo personale col suolo,
egli vive su un terreno che non gli appartiene, che non
coltiva, e che è pronto a lasciare in qualsiasi momento.
Gode di privilegi che finora erano stati appannaggio
della nobiltà terriera, ma deve acquistarseli col denaro.
Materialmente indipendente, talvolta piú agiato dei
nobili, non sa impiegare la sua ricchezza secondo le
regole della vita aristocratica: è un villan rifatto.
Disprezzato e invidiato da nobili e da contadini, gli
occorrerà molto tempo per uscire da questa pericolosa
condizione. Solo nel Duecento la borghesia urbana sarà
considerata una classe importante, per quanto non anco-
ra del tutto rispettabile. Da questo momento alla ribal-
ta della vita sociale, assume quella posizione di «terzo
stato» che determinerà il corso della storia moderna e
imprimerà il suo carattere all’Occidente. Dalla costitu-
zione della borghesia come classe fino alla fine dell’an-
cien régime non si operano piú grandi mutamenti nella
struttura della società occidentale8, ma ogni mutamen-
to è opera della borghesia.
L’immediata conseguenza dell’economia urbana e
mercantile è la tendenza al livellamento delle antiche
differenze sociali; senonché il denaro suscita nuove
distinzioni. Dapprima esso è un ponte fra i ceti separati
dal diritto del sangue, ma a sua volta diventa uno stru-
mento di differenziazione sociale e finisce per suddivi-
dere la stessa borghesia, agli inizi ancora omogenea. I
contrasti di classe, che cosí si determinano, ricoprono,
incrociano o inaspriscono le antiche differenze di ceto.
Tutti quelli che hanno la stessa professione – cavalieri o

Storia dell’arte Einaudi 10


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

chierici, contadini o mercanti o artigiani – oppure lo


stesso tipo di proprietà – commercianti piú o meno ric-
chi, padroni di grandi o di piccole aziende, maestri indi-
pendenti e i loro compagni di bottega – ora sono pari,
ma si contrappongono come rivali inesorabili. E questi
nuovi antagonismi cominciano ad essere sentiti piú acu-
tamente delle antiche divisioni. Alla fine tutta la società
è in fermento; i vecchi confini si perdono, i nuovi sono
netti, ma si spostano continuamente. Fra la nobiltà e i
servi della gleba si è insinuata una nuova classe che rice-
ve rinforzi dalle due parti. L’abisso fra libero e servo non
è piú cosí profondo; in parte i servi si mutano in fitta-
voli, in parte fuggono in città e diventano operai liberi.
Per la prima volta essi possono disporre di se stessi e con-
cludere contratti di lavoro9. La sostituzione del canone
d’affitto all’antica prestazione in natura comporta nuove
libertà finora inimmaginabili. A parte il fatto che ora il
lavoratore può disporre come vuole del suo salario – e ciò
non può non rafforzare la sua coscienza di sé – ha piú
tempo libero di prima e può passarlo come meglio crede10.
Ne derivano incalcolabili conseguenze culturali, benché
un influsso diretto degli elementi plebei sulla cultura si
verifichi solo lentamente e non nella stessa misura in tutti
i campi. Salvo in certi generi letterari, come il fabliau, la
poesia continua a rivolgersi esclusivamente ai ceti supe-
riori. E per quanto le corti accolgano molti poeti di ori-
gine borghese, questi di solito si fanno portavoce della
cavalleria e rappresentanti del gusto aristocratico. Quale
committente e compratore di opere d’arte il borghese sin-
golo non ha ancora un peso, ma gli artisti e gli artigiani
sono quasi tutti borghesi, come i membri delle corpora-
zioni cittadine, che esercitano un notevole influsso sul-
l’arte, specie sulla costruzione delle chiese e degli edifi-
ci pubblici.
Urbana e borghese è l’arte delle cattedrali gotiche, in
confronto dell’arte romanica, monastica e nobiliare;

Storia dell’arte Einaudi 11


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

urbana e borghese anche nel senso che i laici svolgono


una parte sempre maggiore nella costruzione delle cat-
tedrali, mentre l’influsso del clero sull’arte diminuisce in
proporzione11; urbana e borghese, infine, perché quelle
opere sono inconcepibili senza la ricchezza delle città e
perché nessun principe della Chiesa avrebbe potuto
sostenerne il costo. Ma non solo l’arte delle cattedrali
rivela i segni della mentalità nuova; tutta la civiltà caval-
leresca è in certo qual modo un compromesso fra l’anti-
ca visione feudale e gerarchica e il nuovo orientamento
borghese e liberale. L’influsso della borghesia si mani-
festa specialmente nella secolarizzazione della cultura.
L’arte non è piú il misterioso linguaggio di un piccolo
gruppo d’iniziati, ma una forma di espressione quasi uni-
versalmente comprensibile. Lo stesso cristianesimo non
è piú soltanto una religione di chierici, ma diventa sem-
pre piú decisamente una religione popolare. Sugli ele-
menti rituali e dogmatici prevale il contenuto morale12.
La religione si fa piú umana e piú commossa; e anche la
tolleranza verso i «nobili pagani» – uno dei pochi effet-
ti tangibili delle crociate – è una manifestazione del
nuovo spirito religioso, piú libero, ma piú intimo. Il
misticismo, gli ordini mendicanti, le eresie del secolo xii
sono tutti sintomi dello stesso processo.
L’orientamento laico della cultura dipende anzitutto
dalla città in quanto centro commerciale. Qui, dove la
gente confluisce da ogni parte, dove i mercanti di pro-
vince e di nazioni lontane si scambiano merci e, senza
dubbio, anche idee, si produce una circolazione intellet-
tuale ignota a tutto l’alto Medioevo. Coi traffici inter-
nazionali si ravviva anche il commercio artistico13. Fino-
ra le opere d’arte, soprattutto manoscritti miniati e pro-
dotti d’artigianato, passavano dall’uno all’altro solo come
doni occasionali o in seguito a ordinazioni dirette.
Talvolta oggetti d’arte venivano semplicemente sot-
tratti a un paese e trasferiti in un altro. Cosí, ad esem-

Storia dell’arte Einaudi 12


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pio, Carlo Magno trasportò ad Acquisgrana colonne e


altri frammenti architettonici tolti agli edifici di Raven-
na. Ma, a partire dal secolo xii, fra Oriente e Occi-
dente, fra Mezzogiorno e Settentrione, si istituisce un
commercio artistico piú o meno regolare, e l’Europa del
Nord si limita quasi esclusivamente all’importazione. In
ogni campo della vita si vede sottentrare all’antico cam-
panilismo una tendenza all’universalità, un tratto inter-
nazionale e cosmopolita. In contrasto con la stabilità
dell’alto Medioevo, una gran parte della popolazione è
in continuo movimento: cavalieri che prendono la
croce, credenti che si fanno pellegrini, mercanti in viag-
gio di città in città, contadini che disertano la zolla,
operai e artisti, dottori e studenti, vaganti di cantiere
in cantiere, di università in università; e fra di loro
comincia a svilupparsi una specie di romanticismo del
vagabondaggio.
A parte il fatto che il commercio fra persone di tra-
dizioni e costumi diversi suole indebolire la fede avita
e le vecchie abitudini mentali, l’educazione necessaria a
un uomo d’affari doveva progressivamente emancipar-
lo dalla tutela intellettuale della Chiesa. Le conoscenze
richieste per l’esercizio del commercio: leggere, scrive-
re e far di conto, venivano impartite, almeno all’inizio,
dai chierici, ma non avevano nulla a che fare con la cul-
tura clericale, con la grammatica latina e la retorica. Il
commercio estero esigeva una certa conoscenza delle
lingue, ma non del latino. Ne seguí che il volgare trovò
accesso in tutte le scuole per i laici, aperte in ogni gran-
de città fin dal secolo xii14. Ma l’insegnamento nella lin-
gua viva annullò il monopolio dei religiosi sull’istruzio-
ne, e determinò la secolarizzazione della cultura, al
punto che già nel Duecento c’erano laici istruiti che
non sapevano piú il latino15.
La trasformazione della struttura sociale nel secolo xii
è dovuta, in ultima istanza, al sopravvento che la divi-

Storia dell’arte Einaudi 13


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sione in ceti professionali prende sulla divisione in caste.


Anche la cavalleria ha carattere professionale, benché
poi si trasformi in un ceto ereditario. Inizialmente si
compone di soldati di mestiere, e include elementi di ori-
gine diversissima. Un tempo erano stati guerrieri anche
i principi e i baroni, i conti e i grandi proprietari terrieri,
e avevano ricevuto i loro possedimenti soprattutto in
cambio di servizi militari. Ma nel frattempo l’impegno
militare implicito nelle donazioni ha perduto ogni effi-
cacia; e fra la gente d’antica nobiltà gli esperti nelle armi
sono (e forse erano fin da principio) troppo poco nume-
rosi per bastare alle esigenze delle guerre e delle faide
ininterrotte. Ora chi voleva guerreggiare – e chi, fra i
signori, non lo voleva? – doveva assicurarsi l’aiuto di
milizie piú fidate e numerose di quel che non fosse il suo
antico seguito. A ciò venne educata la cavalleria, uscita
per lo piú dai ranghi dei ministeriales. La gente che tro-
viamo al servizio di ogni feudatario, comprendeva gli
amministratori delle terre e i castaldi, gli impiegati di
corte e i sovrintendenti alle officine, i membri del segui-
to e della guardia, soprattutto scudieri, staffieri e sot-
tufficiali. Da quest’ultimo gruppo venne la maggior
parte della cavalleria. Per lo piú, i cavalieri erano dun-
que di origine servile. I liberi, ben diversi dai ministe-
riales, erano discendenti dell’antica classe militare, che
non avevano mai posseduto un feudo o erano decaduti
al livello di mercenari. Ma i ministeriales formavano
almeno i tre quarti della cavalleria16, e la minoranza resi-
dua non si distingueva da loro, perché la coscienza di
classe, prima che la truppa fosse fatta nobile, mancava
ai liberi come ai servi. Un netto confine sussisteva, a
quel tempo, solo fra il signore e il contadino, fra i ric-
chi e la povera gente, e il criterio della nobiltà non risie-
deva in qualifiche giuridiche, ma in uno stile di vita17.
E a questo riguardo non c’era alcuna differenza fra i
compagni d’arme, liberi o servi, del feudatario; fino alla

Storia dell’arte Einaudi 14


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

costituzione della cavalleria, i due gruppi facevano parte


del seguito.
Principi e grandi proprietari avevano bisogno di guer-
rieri a cavallo e di vassalli devoti; ma questi, perduran-
do l’economia naturale, potevano essere compensati sol-
tanto con feudi. In ogni caso, principi e grandi proprie-
tari erano pronti a concedere tutte le terre superflue, pur
di accrescere il numero dei loro vassalli. Tali concessio-
ni cominciano nel secolo xi, e nel xii i guerrieri del
seguito sono ormai sazi di beni feudali. Il diritto al
feudo è il primo passo dei ministeriales verso lo stato
nobiliare. Per il resto si ripete anche qui il noto proces-
so di formazione della nobiltà. Ai guerrieri, in cambio
di servigi resi o da rendere, vengono destinati poderi da
cui possono trarre di che vivere; dapprima essi non pos-
sono disporre liberamente di queste proprietà18, ma poi
il feudo diventa ereditario e il titolare si affranca dal
signore. Cosí il ceto professionale degli uomini del segui-
to si trasforma nel ceto ereditario dei cavalieri. Ma essi
restano pur sempre una nobiltà inferiore e conservano
un atteggiamento servile verso l’alta aristocrazia. Non
si sentono rivali dei loro signori, come i membri del-
l’antica nobiltà feudale, che sono tutti naturali preten-
denti alla corona e costituiscono per il principe un
costante pericolo. Tutt’al piú, per un buon compenso,
passano al servizio del partito avverso. La loro inco-
stanza spiega la posizione preminente attribuita alla
fedeltà del vassallo nel sistema etico della cavalleria.
La grande novità della storia sociale dell’epoca con-
siste nel fatto che le barriere della nobiltà si aprono, e
che il povero diavolo del seguito col suo piccolo podere
appartiene ormai allo stesso ceto dei cavalieri a cui
appartiene il suo ricco e potente signore. Il ministerialis
di ieri, che si trovava su un gradino sociale ancora piú
basso del contadino libero, è divenuto nobile, e passa da
uno degli emisferi del mondo medievale – l’emisfero di

Storia dell’arte Einaudi 15


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

coloro che non hanno alcun diritto – all’altro: l’emisfe-


ro, da tutti ambito, dei privilegiati. A ben guardare,
anche il sorgere della nobiltà cavalleresca non è che un
aspetto del generale movimento della società, di quel
processo di ascesa che trasforma gli uomini liberi in bor-
ghesi, e i servi della gleba in liberi salariati e fittavoli
indipendenti.
Se davvero, come sembra, i ministeriales costituirono
la parte preponderante della cavalleria, il carattere di
questa classe e il contenuto di tutta la cultura cavalle-
resca dovettero subire l’influsso della loro mentalità19.
Sullo scorcio del secolo xii e all’inizio del xiii la caval-
leria comincia a diventare un ceto chiuso, a cui non si
può accedere dall’esterno. D’ora in poi, possono diven-
tare cavalieri solo i figli di cavalieri. Per essere conside-
rati nobili, non basta piú il diritto al feudo, e neppure
l’alto tenore di vita, ma occorrono le precise condizioni
e tutto il rituale dell’investitura20. L’accesso alla nobiltà
viene cosí nuovamente sbarrato, e probabilmente non si
sbaglia a supporre che furono proprio i cavalieri nuovi
di zecca a propugnare col massimo zelo questa serrata.
Comunque, il momento in cui la cavalleria si trasforma
in ceto ereditario e diventa una casta militare chiusa è
senza dubbio il momento piú importante nella sua sto-
ria e uno dei momenti piú decisivi in quella della nobiltà.
Non solo perché d’ora in poi i cavalieri fanno parte
integrante della nobiltà, e sono in netta maggioranza
rispetto agli antichi nobili, ma perché ora soltanto, e
proprio per opera loro, si foggia l’ideale cavalleresco, la
coscienza di classe e l’ideologia di classe della nobiltà.
Soltanto ora, in ogni caso, i principî della condotta e del-
l’etica nobiliare acquistano quella chiarezza e quell’in-
transigenza con cui si presentano nell’epopea e nella
lirica cavalleresca. È un fenomeno ben noto, che spes-
so si ripete nella storia delle classi sociali, quello per cui
i nuovi membri di un ceto privilegiato ne difendano con

Storia dell’arte Einaudi 16


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

piú rigore i principî; e delle idee, che uniscono e distin-


guono il gruppo, siano piú coscienti di coloro che in esse
sono cresciuti. L’homo novus è sempre incline a com-
pensare a usura il proprio senso d’inferiorità e a inasprire
i presupposti morali dei privilegi di cui gode. Cosí acca-
de in questo caso: la nuova cavalleria, sorta dagli umili
ministeriales, è piú rigida e intollerante – nelle questio-
ni in cui è in gioco l’onore di casta – dell’antica aristo-
crazia di nascita. Ciò che a quest’ultima appare natura-
le e ovvio, diventa – per chi viene dal nulla – un avve-
nimento e un problema, e il senso di appartenere alla
classe dominante, ormai inavvertito nella vecchia
nobiltà, costituisce per lui una grande e nuova espe-
rienza21. Là dove il nobile di antica schiatta agisce quasi
per istinto e con perfetta naturalezza, il cavaliere scor-
ge un compito speciale, una difficoltà, l’occasione di un
atto eroico e la necessità di far forza su se stesso: sente
cioè qualcosa d’insolito e d’innaturale. E anche là dove
il gran signore non si cura minimamente di distinguersi
dagli altri, il cavaliere esige dai membri della sua classe
che si distinguano a ogni costo dai comuni mortali. L’i-
dealismo romantico e l’eroismo riflesso e «sentimenta-
le» della cavalleria, questo idealismo ed eroismo di
seconda mano, nascono soprattutto dalla consapevolez-
za e dall’ambizione con cui la nuova nobiltà sviluppa il
suo concetto dell’onore. Tanto zelo è solo indizio di
un’incertezza e di una debolezza che l’antica nobiltà non
conosce o, almeno, non conobbe finché non subí l’in-
flusso della nuova cavalleria, intimamente malsicura.
Questo squilibrio interiore della cavalleria si manifesta
soprattutto nell’ambivalenza dei suoi rapporti con le
forme convenzionali del costume aristocratico. Mentre
essa si attacca alle esteriorità ed esaspera il formalismo
della vita aristocratica, considera l’intima nobiltà del-
l’animo al di sopra della nobiltà esteriore e formale della
nascita e del tenore di vita. Sentendosi subordinata,

Storia dell’arte Einaudi 17


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

esagera il valore delle pure forme; ma, nella coscienza


delle attitudini e delle virtú che possiede come o piú del-
l’antica aristocrazia, torna ad abbassare il valore delle
forme e della stirpe.
La tendenza a collocare la nobiltà dell’animo al diso-
pra di quella della stirpe è anche un segno della completa
assimilazione del cristianesimo da parte dei guerrieri
feudali, è cioè il risultato finale di un processo che con-
duce dal rozzo uomo d’arme dell’età barbarica al cava-
liere di Dio del pieno Medioevo. La Chiesa favorí la for-
mazione della nuova nobiltà cavalleresca con tutti i
mezzi di cui disponeva, consolidò la sua importanza
sociale mediante l’ordinazione, le assegnò la protezione
dei deboli e degli oppressi, e ne fece il campione di Cri-
sto, conferendole cosí una specie di dignità religiosa. Il
vero scopo della Chiesa era evidentemente quello di
arginare il processo di secolarizzazione che partiva dalla
città, processo che minacciava di essere accelerato dalla
cavalleria, per lo piú senza mezzi e relativamente libera
da ogni vincolo. Ma le tendenze mondane di quest’ulti-
ma erano cosí forti, che nel suo atteggiamento verso la
dottrina della Chiesa, nonostante i vantaggi connessi
con l’ortodossia, giunse al massimo a soluzioni di com-
promesso. Tutte le creazioni della civiltà cavalleresca, il
sistema etico, la nuova concezione dell’amore, e la nuova
poesia, mostrano lo stesso antagonismo fra tendenze
mondane e religiose, sensuali e spirituali.
Il sistema etico della cavalleria, come quello dell’a-
ristocrazia greca, è permeato dall’idea della kaloka-
gathía. Non è pensabile alcuna virtú cavalleresca senza
la forza fisica e l’esercizio fisico, e tanto meno in con-
trasto con essi, come le virtú del cristianesimo primiti-
vo. Nelle singole parti del sistema che, ad analizzarle
attentamente, comprendono le virtú stoiche, cavallere-
sche, eroiche e aristocratiche in senso stretto, il valore
delle doti fisiche e di quelle spirituali è in ognuna diver-

Storia dell’arte Einaudi 18


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

so, ma in nessuna di queste categorie il fisico perde del


tutto la sua importanza. Il primo gruppo contiene essen-
zialmente, come è stato affermato del resto per tutto il
sistema22, i noti principî della morale classica in veste
cristiana. Forza d’animo, tenacia, misura e dominio di
sé costituivano già i concetti fondamentali dell’etica ari-
stotelica, e piú tardi, in forma piú rigida, di quella stoi-
ca; la cavalleria li ha semplicemente ricevuti dall’anti-
chità attraverso la mediazione della letteratura latina
del Medioevo. Le virtú eroiche, specie il disprezzo del
pericolo, del dolore e della morte, l’assoluta osservan-
za della parola data, la sete di gloria e di onore, sono
già in gran pregio nella prima età feudale; l’etica caval-
leresca non ha fatto che mitigare l’ideale eroico di quel-
l’epoca, infondendogli un colorito sentimentale, ma è
rimasta fedele al principio. Il nuovo senso della vita si
afferma – nella forma piú pura e immediata – nelle
virtú propriamente «cavalleresche» e «gentili»: da un
lato la generosità verso i vinti, la protezione del debo-
le e il culto della donna, cortesia e galanteria; dall’al-
tro, le caratteristiche del moderno gentiluomo, libera-
le e disinteressato, superiore ai vantaggi materiali, spor-
tivamente corretto e gelosissimo del proprio decoro.
Sebbene la morale cavalleresca non sia del tutto indi-
pendente dall’emancipata mentalità borghese, tuttavia,
nel culto di queste nobili virtú, è in netto contrasto con
lo spirito borghese del guadagno. La cavalleria si sente
minacciata nella sua esistenza materiale dall’economia
monetaria borghese, e si volge con odio e con disprez-
zo contro il razionalismo economico del mercante, con-
tro il calcolo e la speculazione, contro l’attitudine a
risparmiare e a contrattare. Antiborghese è tutto il suo
tenore di vita, ispirato dal principio noblesse oblige, la
sua prodigalità, il suo gusto per la cerimonia, il suo
disprezzo di ogni lavoro manuale e di ogni regolare
attività di lucro.

Storia dell’arte Einaudi 19


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Molto piú difficile dell’analisi storica del sistema


etico cavalleresco è spiegare storicamente le due altre
grandi creazioni culturali della cavalleria: il nuovo idea-
le amoroso e la nuova lirica amorosa. È evidente fin da
principio che esse sono in stretto rapporto con la vita di
corte. Le corti non sono soltanto il loro sfondo, ma
anche il terreno che le alimenta. Ora però sono le corti
minori, quelle dei principi e dei feudatari, e non piú
quelle dei re, a determinare lo sviluppo generale. La cor-
nice piú modesta spiega anzitutto il carattere relativa-
mente piú libero, individuale e vario, della cultura caval-
leresca. Qui tutto è meno solenne, meno ufficiale, tutto
incomparabilmente piú agile ed elastico che non nelle
corti regali che erano state un tempo i centri della cul-
tura. Anche in queste piccole corti dominano conven-
zioni abbastanza rigide; aulico e convenzionale furono
sempre e sono tuttora equivalenti, perché appartiene
all’essenza della civiltà cortese indicare vie battute e
porre limiti precisi all’arbitrio individuale, ribelle alle
forme. Anche i rappresentanti di questa piú libera civiltà
cortese debbono il loro prestigio, non già a doti parti-
colari che li distinguono da altri membri della corte, ma
al contegno comune a tutti. Essere originali, in questo
mondo dominato dalle forme, equivale ad una scortesia
inammissibile23. Appartenere al circolo di corte è in sé
il maggior premio e onore; ostentare la propria origina-
lità è come disprezzare quel privilegio. Cosí tutta la
civiltà dell’epoca resta legata a convenzioni piú o meno
rigide. Come sono stilizzate le buone maniere, l’espres-
sione dei sentimenti, anzi i sentimenti stessi, cosí lo
sono anche le forme della poesia e dell’arte, le rappre-
sentazioni della natura e i tropi della lirica, la curva fal-
cata e il gentile sorriso delle figure gotiche.
La cultura della cavalleria medievale è la prima mani-
festazione moderna di una cultura organizzata dalle
corti, la prima in cui fra il signore, i cortigiani e i poeti

Storia dell’arte Einaudi 20


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ci sia una vera comunione spirituale. Le corti delle Muse


non sono soltanto strumenti di propaganda e istituzio-
ni culturali sovvenzionate dai principi, ma rappresenta-
no organismi complessi in cui quelli che inventano le
belle forme di vita e quelli che le mettono in pratica
mirano allo stesso fine. Ma una simile comunione è pos-
sibile solo dove ai poeti che salgono dal basso è aperto
l’accesso ai piú alti strati della società, dove tra i poeti
e il loro pubblico c’è una grande somiglianza di vita (che
sarebbe stata inconcepibile un tempo), e dove cortesia
e scortesia non implicano solo una differenza di condi-
zione, ma di educazione: dove quindi non si è necessa-
riamente «gentili» per nascita e grado, ma lo si diventa
per istruzione e carattere. È evidente che questo cano-
ne dei valori fu stabilito per la prima volta da una
nobiltà professionale, che ricordava ancora come fosse
venuta in possesso dei suoi privilegi, e non da una
nobiltà di sangue, che quei privilegi aveva sempre
avuto24. Ma con lo sviluppo della kalokagathía cavalle-
resca, cioè del nuovo concetto di civiltà, secondo cui i
valori estetici e intellettuali sono nello stesso tempo
valori morali e sociali, si produce un nuovo iato fra cul-
tura ecclesiastica e laica. La funzione di guida, soprat-
tutto nella letteratura, passa dal clero, unilaterale nella
sua concezione del mondo, alla cavalleria. La letteratu-
ra monastica perde la sua funzione storica di guida, e il
monaco non è piú la figura rappresentativa del tempo;
la quintessenza ne è ora il cavaliere, com’è rappresenta-
to a Bamberga, nobile, fiero, vigile, perfetta espressio-
ne della cultura fisica e spirituale.
La civiltà cortese del Medioevo si distingue da ogni
altra – anche da quella delle corti ellenistiche, pur for-
temente influenzata dalla donna25 – soprattutto per il
suo carattere spiccatamente femminile; e non solo per-
ché le donne prendono parte alla vita intellettuale e
contribuiscono a orientare la poesia, ma perché, sotto

Storia dell’arte Einaudi 21


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

molti rispetti, è femminile anche il pensiero e il senti-


mento degli uomini. Mentre gli antichi poemi eroici, e
le stesse chansons de geste, erano destinate a un uditorio
maschile, la poesia amorosa provenzale e i romanzi bre-
toni del ciclo di Artú si rivolgono anzitutto alle donne26.
Eleonora d’Aquitania, Maria di Champagne, Ermen-
garda di Narbona, o comunque si chiamino le protettrici
dei poeti, non sono soltanto gran dame, coi loro «salot-
ti» letterari, esperte e promotrici di poesia, ma sono
spesso loro a parlare per bocca dei poeti. E non basta
dire che gli uomini debbono alle donne la loro educa-
zione estetica e morale, che esse sono la sorgente, l’ar-
gomento e il pubblico della poesia. La donna, nell’evo
antico semplice proprietà dell’uomo, preda di guerra,
oggetto di contesa e schiava, nell’alto Medioevo ancora
soggetta all’arbitrio della famiglia e del signore, ora
acquista una dignità che non è cosí facile comprendere.
Perché, anche se la superiore cultura delle donne potes-
se spiegarsi col fatto che gli uomini sono continuamen-
te impegnati nel servizio militare, e con la progressiva
secolarizzazione della cultura, rimarrebbe pur sempre da
chiarire come mai la cultura goda di tanto rispetto da
consentire alle donne di dominare – attraverso di essa
– la società. Non fornisce una spiegazione soddisfacen-
te neppure il nuovo diritto, che prevede, per certi casi,
la successione al trono in linea femminile e il trapasso
dei grandi feudi nelle mani di donne, e che, in linea di
massima, può aver contribuito al maggior prestigio del
loro sesso27. E tanto meno può servire da spiegazione la
concezione cavalleresca dell’amore, che non è la pre-
messa, ma un sintomo della nuova posizione della donna
nella società.
La poesia cortese e cavalleresca non ha scoperto l’a-
more, ma gli ha dato un nuovo significato. Nella lette-
ratura antica, specie dopo la fine del periodo classico, il
motivo erotico conquista sempre maggiore spazio, ma

Storia dell’arte Einaudi 22


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

non acquista mai l’importanza che gli viene attribuita


nella poesia cavalleresca del Medioevo28. Nell’Iliade l’a-
zione s’impernia bensí su due donne, ma non sull’amo-
re. Elena e Briseide potrebbero essere sostituite da qual-
siasi altro oggetto di lite, e non muterebbe per questo
la sostanza dell’opera. Nell’Odissea l’episodio di Nausi-
caa ha un particolare valore affettivo, ma è appunto un
episodio isolato, e nulla piú. Il rapporto dell’eroe con
Penelope è ancora sul piano dell’Iliade: la donna è un
oggetto di proprietà e fa parte della casa. Presso i lirici
greci dell’età preclassica e classica si tratta ancora e sem-
pre dell’amore sensuale; fonte di gioia o di dolore, e pur
sempre confinato nella sua propria sfera e resta senza
influenza sul complesso della personalità. Euripide è il
primo poeta che fa dell’amore il motivo capitale di un’a-
zione complicata e di un conflitto drammatico. Da lui
la commedia antica e la commedia nuova ricevono il
fecondo motivo, che entra cosí nella letteratura elleni-
stica, dove acquista tratti romantici e sentimentali, spe-
cialmente nelle Argonautiche di Apollonio. Ma anche
qui l’amore appare tutt’al piú come sentimento soave o
traboccante passione, e non mai come un superiore prin-
cipio educativo, una potenza etica e un tramite all’e-
sperienza del mondo, come nella poesia cavalleresca. È
noto quanto debbano Enea e Didone agli amanti di
Apollonio, e che cosa abbiano significato per il Medioe-
vo, e quindi per tutta la letteratura moderna, le piú
famose fra le antiche eroine dell’amore, Didone e
Medea. L’ellenismo ha scoperto il fascino delle storie
amorose, e ha creato i primi idilli romantici, le storie di
Amore e Psiche, Ero e Leandro, Dafni e Cloe. Ma, a
prescindere dall’epoca ellenistica, l’amore come motivo
romantico non trova posto nella letteratura fino alla
cavalleria; la trattazione sentimentale dell’amore e la
tensione prodotta dall’incertezza sulla sorte finale degli
amanti, non sono tra gli effetti poetici ricercati dall’an-

Storia dell’arte Einaudi 23


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tichità classica o dall’alto Medioevo. L’antichità predi-


ligeva miti e storie di eroi, l’alto Medioevo storie di eroi
e di santi; qualunque parte vi avesse l’amore, era privo
di ogni alone romantico. Perché anche i poeti che lo
prendevano sul serio condividevano, nel migliore dei
casi, l’opinione di Ovidio, per cui l’amore è una malat-
tia che toglie la ragione, paralizza la volontà e rende
miseri e vili29.
Ciò che contraddistingue la poesia cavalleresca nei
confronti dell’antichità e dell’alto Medioevo, è soprat-
tutto il fatto che l’amore, per quanto spiritualizzato, non
vi si eleva a principio filosofico, come in Platone o nei
neoplatonici, ma conserva il suo carattere sensuale ed
erotico; e proprio in quanto tale opera la rinascita della
personalità morale. Nuovo, nella poesia cavalleresca, è
il culto consapevole dell’amore, il senso che l’amore va
protetto e alimentato; nuova è la credenza che l’amore
sia la fonte di ogni bontà e bellezza e che ogni atto
turpe, ogni bassa inclinazione sia un tradimento verso
l’amata. Nuovo è l’intimo e dolce affetto, la pia devo-
zione, che l’amante prova in ogni pensiero per la sua
donna; nuova l’infinita, inappagata e inappagabile, per-
ché illimitata, sete d’amore. Nuova è la felicità dell’a-
more, che è indipendente dalla soddisfazione del desi-
derio e resta suprema beatitudine anche nel piú duro
insuccesso. Nuovo infine è l’intenerimento e la femmi-
nilizzazione dell’uomo innamorato. Già il fatto che l’uo-
mo faccia la parte del corteggiatore capovolge il primi-
tivo rapporto fra i sessi. Le età arcaiche ed eroiche, in
cui bottini di schiave e ratti di fanciulle sono all’ordine
del giorno, ignorano il corteggiamento. Che, del resto,
contrasta anche con l’uso del popolo. Qui è la donna, e
non l’uomo, che canta canzoni d’amore30. Ancora nelle
chansons de geste sono le donne a fare gli approcci; solo
alla cavalleria questo comportamento appare scortese e
sconveniente. Cortese è appunto la ritrosia femminile e

Storia dell’arte Einaudi 24


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

lo spasimare dell’uomo. Cortese e cavalleresca è l’infi-


nita pazienza e la perfetta abnegazione dell’uomo, che
sopprime la propria volontà e il proprio essere davanti
alla volontà e all’essere superiore della donna. Cortese
è la rassegnazione di fronte all’inaccessibilità dell’og-
getto adorato, l’abbandono alle pene d’amore, l’esibi-
zionismo e il masochismo sentimentale dell’uomo: tutte
caratteristiche del moderno romanticismo amoroso, che
appaiono qui per la prima volta. L’amante nostalgico e
rassegnato, l’amore che non esige accoglimento e adem-
pimento, anzi si esalta per il suo carattere negativo,
l’«amore di ciò che è lontano», senza un oggetto tangi-
bile e definito: cosí comincia la storia della poesia
moderna.
Come si può spiegare la nascita di questo singolare
ideale amoroso, apparentemente inconciliabile con lo
spirito eroico del tempo? Come può un signore, un guer-
riero, un eroe reprimere tutto il suo orgoglio, tutto il suo
impeto, e davanti a una donna mendicare l’amore, anzi
la grazia di poterlo confessare, accettando, in compen-
so della sua dedizione e fedeltà, uno sguardo benevolo,
una parola gentile, un sorriso? La situazione è tanto piú
strana, perché proprio in questo rigoroso Medioevo l’a-
mante confessa apertamente la sua inclinazione, tutt’al-
tro che casta, per una donna maritata, e che, per giun-
ta, è generalmente la moglie del suo signore e ospite. Ma
l’inversione dei rapporti raggiunge il colmo quando il
menestrello squattrinato e vagabondo si dichiara, fran-
co e libero come un nobile, alla moglie del suo signore
e protettore, e da lei spera e chiede quanto chiedereb-
bero principi e cavalieri.
Nel tentativo di risolvere questo problema, viene
naturale supporre che nelle promesse di fedeltà e nel-
l’omaggio erotico si esprimano soltanto i concetti giuri-
dici generali del feudalesimo, e che la concezione corte-
se e cavalleresca dell’amore non sia che la trasposizione

Storia dell’arte Einaudi 25


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

del rapporto politico di vassallaggio nel rapporto con la


donna. Quest’idea della servitú d’amore come imitazio-
ne del vassallaggio si trova già accennata nei primi studi
critici sulla poesia trovadorica31; ma la piú decisa ver-
sione, secondo cui l’amore cortese e cavalleresco deriva
solo dal servigio, e il vassallaggio amoroso non è che una
metafora, è di piú fresca data, ed è stata formulata per
la prima volta da Eduard Wechssler32. In opposizione
alla piú antica teoria idealistica sull’origine del vassal-
laggio – per cui il rapporto sociale derivava da quello
etico e il vincolo feudale dipendeva non solo dall’incli-
nazione personale del signore verso il vassallo, ma anche
dalla fiducia e dall’amore del vassallo per il suo signo-
re33 – la tesi del Wechssler parte dal presupposto che
l’«amore» del vassallo per il signore come per la dama
non sia altro che la sublimazione della sua sudditanza.
Secondo lui, la canzone d’amore esprime solo l’omaggio
dell’uomo del seguito e non è che una forma di panegi-
rico34. In effetti la poesia cavalleresca prende a prestito
dal costume feudale non solo forme, immagini e para-
goni, e il trovatore non si dichiara soltanto devoto servo
e fedele vassallo della donna amata, ma spinge la metafo-
ra al punto di affermare davanti a lei anche i propri dirit-
ti di vassallo, e di pretendere a sua volta fedeltà, favo-
re, protezione e aiuto. È chiaro che queste pretese non
sono che formule convenzionali di corte.
Il principale argomento per spiegare come fosse pas-
sata la canzone di omaggio dal signore alla dama, era
quello che principi e baroni, implicati nelle guerre, erano
– spesso e a lungo – assenti dalle corti e dai castelli e,
durante la loro assenza, il potere feudale veniva eserci-
tato dalle donne. Nulla di piú naturale che i poeti al ser-
vizio della corte cantassero le lodi della dama, in forme
sempre piú galanti, atte a lusingare la sua vanità fem-
minile. Non dobbiamo respingere interamente la tesi del
Wechssler, che tutto il servigio della dama, cioè il culto

Storia dell’arte Einaudi 26


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dell’amore cortese e le forme galanti della lirica d’amo-


re cavalleresca siano state in realtà promosse dalle donne
e che gli uomini non fungessero che da strumenti. L’ar-
gomento piú grave che è stato opposto a quelli di Wechs-
sler, è che proprio il piú antico trovatore, il primo a pre-
sentare la sua dichiarazione d’amore come un omaggio
feudale, Guglielmo IX conte di Poitiers, non era un
vassallo, ma un gran principe. L’obiezione non persua-
de del tutto, perché la dichiarazione di omaggio, che nel
caso del conte di Poitiers può non essere stata che un’i-
dea poetica, poté, o piuttosto dovette, per la maggior
parte dei trovatori successivi, poggiare su rapporti reali.
Senza questo fondamento reale, la trovata poetica (che
del resto, anche nel suo inventore, era condizionata, se
non da circostanze personali, dalle condizioni generali
del tempo) non avrebbe mai potuto diffondersi tanto e
conservarsi cosí a lungo.
Si riferisse a rapporti reali o fittizi, fin dall’inizio il
linguaggio della lirica cavalleresca si presenta come una
rigida convenzione letteraria. La lirica trovadorica è
«poesia di società», dove anche le esperienze vere deb-
bono rivestire le rigide forme della moda imperante.
Tutte le poesie cantano la donna amata nello stesso
modo, le attribuiscono gli stessi caratteri, vedono in lei
l’incarnazione di uno stesso tipo di virtú e di bellezza;
nella composizione ricorrono sempre le stesse formule
retoriche, come se il poeta fosse uno solo35. La moda let-
teraria è cosí tirannica, cosí assoluta la convenzione di
corte, che spesso abbiamo l’impressione che agli occhi
del poeta non appaia una donna determinata, indivi-
dualmente caratterizzabile, ma un’astratta immagine
ideale, e che il sentimento s’ispiri a un modello lettera-
rio piuttosto che a una creatura viva. E soprattutto que-
sta impressione indusse il Wechssler a interpretare come
una finzione tutto l’amore cortese e a riconoscere solo
in casi eccezionali nei sentimenti descritti nelle poesie

Storia dell’arte Einaudi 27


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

d’amore un’esperienza vissuta. Secondo lui di positivo


non c’è che l’elogio della dama; per lo piú l’amore del
poeta è solo finzione convenzionale, lode stereotipa. Le
dame volevano essere cantate e lodate anche per la loro
bellezza. Nessuno badava alla sincerità dell’amore ch’es-
sa ispirava. Il tono sentimentale del corteggiamento era
«consapevole illusione», concertato gioco di società,
pura convenzione. La descrizione di sentimenti forti e
schietti, pensa Wechssler, non sarebbe stata certo gra-
dita alla signora e alla società di corte; avrebbe offeso
la decenza e la misura36. Era senz’altro escluso che la
signora ricambiasse l’amore del poeta, perché, a parte la
differenza sociale fra la dama e il cantore, anche solo
l’apparenza dell’adulterio sarebbe stata duramente puni-
ta dal consorte37. Il poeta per lo piú dichiarava il suo
amore solo per deplorare la crudeltà della dama; ma il
rimprovero equivaleva in realtà a un elogio, e doveva
testimoniare della condotta esemplare della signora38.
Per provare l’infondatezza di questa teoria ci si è
richiamati all’alto valore artistico della lirica d’amore, e
si è parlato, alla maniera delle vecchie scuole, della sin-
cerità di ogni vera arte. Ma la qualità estetica, e anche
il valore sentimentale di un’opera d’arte trascendono i
criteri di schiettezza e artificio, spontaneità e ricerca-
tezza, esperienza viva e cultura; perché in nessun caso
si può stabilire che cosa abbia veramente sentito l’arti-
sta, e se l’impressione del lettore corrisponda a un reale
sentimento dell’autore. Si obbietta che quelle liriche, se
non fossero state che adulazioni pagate, come afferma
Wechssler, non avrebbero potuto interessare un vasto
pubblico39. Ma si sottovaluta cosí il potere della moda
in una società di corte dominata dalle convenzioni,
società che del resto, pur essendo presente in tutti i paesi
civili dell’Occidente, non costituiva in nessun luogo un
«vasto» pubblico. Né il pregio artistico, né il successo
della poesia cortese sono di per sé argomenti contro il

Storia dell’arte Einaudi 28


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

suo carattere fittizio; e nondimeno non si può accettar


senza riserve la teoria del Wechssler. Certo l’amore
cavalleresco non è che una varietà del rapporto di vas-
sallaggio, e perciò «insincero», ma non è una finzione
cosciente, una mascheratura voluta. Il nucleo erotico è
schietto, benché travestito. Troppo a lungo durarono gli
ideali e la poesia trovadorica, per essere pura finzione.
Si è osservato che nella storia della letteratura non man-
cano esempi di vicende sentimentali persuasive, e non-
dimeno fittizie40; ma qui il fenomeno durerebbe per
generazioni.
Benché il vassallaggio domini tutta la struttura socia-
le dell’epoca, se i ministeriales non si fossero elevati al
grado di cavalieri, se i poeti non avessero assunto nuova
dignità presso le corti, non si potrebbe spiegare perché
improvvisamente questo tema sia venuto ad assorbire
in sé tutto il contenuto sentimentale della poesia. La
situazione economica e sociale della cavalleria – in corso
di costituzione e in parte priva di mezzi – e la funzio-
ne di questo ceto eterogeneo come fermento dello svi-
luppo, ci aiutano a comprendere la nuova concezione
dell’amore come ci aiuta a comprenderla la generale
struttura giuridica del feudalesimo. C’erano molti figli
di cavalieri, cadetti per cui non bastava piú il feudo
paterno, che andavano squattrinati per il mondo a gua-
dagnarsi la vita, magari come cantori erranti, assumen-
do, dov’era possibile, un servizio stabile alla corte di un
gran signore41. Spesso il troubadour, il Minnesänger era
di umile origine; ma poiché un giullare dotato, protet-
to da un gran signore, poteva facilmente elevarsi fino
al grado di cavaliere, la diversità dell’origine non aveva
gran peso. Questi elementi, impoveriti e sradicati, o
venuti dal basso, erano per forza di cose i rappresen-
tanti piú avanzati della civiltà cavalleresca. Poveri e
spostati, si sentivano liberi dagli obblighi dell’antica
nobiltà feudale e, senza timore di abbassarsi, potevano

Storia dell’arte Einaudi 29


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

osare innovazioni contro le quali, in un ceto piú salda-


mente radicato, sarebbero sorti innumerevoli dubbi. Il
nuovo culto dell’amore e l’esercizio della nuova poesia
sentimentale di corte fu opera, per lo piú, di questi ele-
menti sociali relativamente fluttuanti42. Furono essi a
formulare la dichiarazione di omaggio verso la dama
nelle forme della lirica amorosa, in un linguaggio di
corte, ma non del tutto fittizio, e ad affiancare il ser-
vigio della donna al servigio del signore; furono essi a
interpretare l’omaggio come amore e l’amore come
omaggio. In questa trasposizione della situazione eco-
nomica e sociale nelle forme erotiche dell’amore ope-
rarono senza dubbio anche motivi psicologico-sessuali,
ma anch’essi sociologicamente condizionati.
Dappertutto, alle corti e nei castelli, ci sono molti
uomini e pochissime donne. Quelli del seguito, che vivo-
no alla corte del signore, per lo piú sono celibi. Le fan-
ciulle delle famiglie nobili vengono educate nei conven-
ti e non si riesce mai a vederle. La principessa, o la
castellana, è il centro; tutto si raccoglie intorno a lei.
Cavalieri e poeti di corte, tutti rendono omaggio alla
dama nobile e colta, ricca e potente, spesso anche gio-
vane e graziosa. I quotidiani rapporti fra una schiera di
giovani celibi e una donna cosí desiderabile, in un
mondo cosí chiuso e isolato, l’involontaria presenza alle
tenerezze coniugali, il pensiero sempre presente che la
donna appartiene a uno e a uno solo, non può non susci-
tare una tensione erotica, che per lo piú, non potendo
trovare altro sbocco, si sublima nell’espressione dell’a-
more cortese. La storia comincia cosí: molti dei giovani
che circondano la signora sono venuti a corte, sono
entrati in casa ancora fanciulli, e hanno subito l’influs-
so di quella donna negli anni piú importanti per lo svi-
luppo di un ragazzo43. Tutto il sistema dell’educazione
cavalleresca favorisce il sorgere di forti vincoli erotici.
Fino a quattordici anni il ragazzo è guidato esclusiva-

Storia dell’arte Einaudi 30


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mente dalle donne. Dopo gli anni dell’infanzia, trascor-


si sotto la tutela della madre, è la signora della corte a
sorvegliare la sua educazione. Per sette anni egli è al suo
seguito, la serve in casa, l’accompagna per la strada, è
introdotto da lei all’arte della vita di corte e alla cono-
scenza degli usi cortesi. Tutto l’entusiasmo dell’adole-
scente si concentra su quella donna, e la fantasia foggia
a sua immagine l’oggetto ideale dell’amore.
Lo scoperto idealismo dell’amore cortese e cavallere-
sco non può ingannarci sul suo latente carattere sen-
suale, né celarne l’origine, la ribellione al comandamen-
to religioso della continenza. Il successo della Chiesa
nella lotta contro l’amore fisico rimase sempre assai
inferiore all’ideale44; ma ora che vacillano i confini fra
categorie sociali e con essi i criteri dei valori morali, la
sensualità repressa irrompe con raddoppiata violenza e
invade i costumi, non solo delle corti, ma, in parte,
anche del clero. In tutta la storia dell’Occidente non c’è
letteratura in cui si parli tanto di bellezza fisica e di
nudità, di vestirsi e spogliarsi, di fanciulle e donne che
bagnano e lavano l’eroe, di notti nuziali e di amplessi,
di visite in camera e inviti a letto, come nella poesia
cavalleresca del costumatissimo Medioevo. Persino un’o-
pera cosí seria e di cosí alti fini morali come il Parzival
di Wolfram è piena di episodi che toccano l’oscenità.
Tutta l’epoca vive in una costante tensione erotica;
basta pensare allo strano costume, ben noto, dei tornei,
per cui gli eroi portavano sulla pelle il velo o la camicia
della donna amata, e all’effetto magico attribuito a que-
sto talismano, per farsi un’idea della natura di quell’e-
rotismo. Nulla riflette cosí chiaramente gli intimi con-
trasti del mondo sentimentale della cavalleria, quanto
l’ambivalenza del suo atteggiamento verso l’amore, dove
la piú alta spiritualità si congiunge alla sensualità piú
intensa. Ma per quanto illuminante possa essere l’ana-
lisi psicologica di questa duplicità dei sentimenti, il dato

Storia dell’arte Einaudi 31


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

psicologico presuppone circostanze storiche che vanno


spiegate a loro volta, e che possono essere spiegate solo
sociologicamente. Il meccanismo psichico dell’impegno
assunto verso la donna altrui, e l’esaltazione di questo
sentimento attraverso la libertà della confessione, non
avrebbe mai potuto scattare, qualora non si fosse atte-
nuata l’efficacia degli antichi tabú religiosi e sociali e se
l’ascesa di una nuova, emancipata aristocrazia non aves-
se creato il terreno ideale per la diffusione delle incli-
nazioni erotiche. Come spesso accade, anche in questo
caso la psicologia non è che sociologia dissimulata, non
condotta fino in fondo. Ma la maggior parte degli stu-
diosi, di fronte al mutamento di stile che l’avvento della
cavalleria porta con sé in tutti i campi dell’arte e della
cultura, non si accontentano né della spiegazione psico-
logica né di quella sociologica, e vanno in cerca di influs-
si storici diretti e di dirette imitazioni letterarie.
Alcuni, Konrad Burdach in testa, riconducono la
novità dell’amore cavalleresco e della poesia trovadori-
ca a un’origine araba45. E in effetti c’è tutta una serie di
motivi comuni alla lirica provenzale e alla poesia aulica
islamica, soprattutto l’entusiastica esaltazione dell’a-
more sessuale e l’orgoglio della pena amorosa; ma nulla
veramente prova che i tratti comuni – che del resto
sono ben lungi dall’esaurire l’idea dell’amore cortese –
derivino alla poesia trovadorica dalla letteratura araba46.
Uno dei principali motivi che ci fanno dubitare di que-
sto influsso immediato, è il fatto che i canti dei poeti
arabi si riferiscono per lo piú a una schiava, e manca del
tutto l’identificazione della signora con l’amata, essen-
ziale nella concezione cavalleresca47. Altrettanto inso-
stenibile è la teoria classicista. Perché, per quanto le can-
zoni provenzali siano ricche di singoli motivi, immagi-
ni e concetti che risalgono alla letteratura classica –
soprattutto a Ovidio e a Tibullo – lo spirito di questi
poeti pagani è loro del tutto estraneo48. La poesia d’a-

Storia dell’arte Einaudi 32


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

more cavalleresca, pur cosí sensuale, è affatto medieva-


le e cristiana, e ben lontana dal realismo degli elegiaci
romani. Là si tratta sempre di una reale esperienza amo-
rosa; sappiamo invece che per i trovatori non si tratta-
va, in parte, che di una metafora, di un pretesto poeti-
co, di una generica tensione affettiva senza un vero
oggetto. Ma, per quanto convenzionale sia il motivo di
cui si serve il poeta per tentare le corde del suo cuore,
il suo rapimento, che leva la donna al cielo, l’attenzio-
ne ch’egli dedica ai moti dell’animo, la passione con cui
scruta i propri sentimenti e analizza l’esperienza inte-
riore sono sinceri e affatto nuovi rispetto alla tradizio-
ne classica.
La meno persuasiva di tutte le teorie sull’origine let-
teraria della lirica trovadorica è quella che la fa deriva-
re dal canto popolare49. La forma originaria della can-
zone cortese sarebbe una ballata popolare, una maggio-
lata, la cosiddetta chanson de la mal mariée, col solito
motivo della giovane sposa che una volta l’anno, in mag-
gio, si libera dalle catene coniugali e si prende per un
solo giorno un giovane amante. Nulla, tranne il rappor-
to di questo tema con la primavera, «il preludio natu-
rale»50 e il carattere adulterino dell’amore descritto51,
corrisponde qui ai motivi trovadorici; e anche questi
tratti, secondo ogni apparenza, provengono dalla lette-
ratura di corte, e solo di là sembrano essere passati nella
poesia popolare. Non c’è traccia infatti di canto popo-
lare con «preludio naturale»52 anteriore alla poesia cor-
tese. I sostenitori di questa teoria, specialmente Gaston
Paris e Alfred Jeanroy, procedono con lo stesso metodo
con cui i romantici credevano di poter provare la spon-
taneità dell’«epos popolare». Dai documenti letterari
conservati – tutt’altro che popolari e relativamente tardi
– cominciano a indurre un antico, «originario» stadio di
poesia popolare, e da questo stadio, arbitrariamente
costruito, non documentato e probabilmente mai esisti-

Storia dell’arte Einaudi 33


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

to, fanno poi derivare le poesie da cui sono partiti53. Ciò


nonostante si può benissimo pensare che nella poesia
cortese e cavalleresca siano penetrati motivi popolari,
briciole di saggezza popolare, proverbi e locuzioni, come
del resto questa poesia assorbe molto del «pulviscolo
poetico» diffuso nella lingua e proveniente dalla lette-
ratura antica54, ma l’assunto che la canzone cortese si sia
sviluppata dal canto popolare non è dimostrato e sarà
difficilmente dimostrabile. Può darsi che in Francia,
anche prima della poesia cortese, ci fosse una lirica amo-
rosa popolare, ma – in ogni caso – essa è completamen-
te scomparsa; e nulla ci autorizza a riconoscere nelle
forme raffinate e scolasticamente complicate della poe-
sia cortese che si esauriscono spesso in un abilissimo
gioco di idee e sentimenti, i vestigi di quella perduta,
certo ingenua poesia popolare55.
Pare che sulla lirica d’amore cortese abbia influito
soprattutto la poesia latina dei chierici. Ma il concetto
cavalleresco dell’amore nel suo complesso non fu certo
delineato dai chierici, benché i poeti laici abbiano ripre-
so da essi alcuni dei suoi principali elementi. Una tra-
dizione pre-cavalleresca, ecclesiastica, del servigio d’a-
more, quale si credeva di poter supporre56, non c’è stata.
Le epistole fra chierici e monache ci mostrano, fin dal
secolo xi, rapporti singolarmente appassionati, oscillan-
ti fra l’amicizia e l’amore; e vi si può riconoscere quel-
la mescolanza di tratti spiritualistici e sensuali che ci è
già nota dall’amore cavalleresco; ma anche questi docu-
menti non sono che un sintomo di quella generale rivo-
luzione degli spiriti che s’inizia con la crisi del feudale-
simo e si compie nella cultura cavalleresca. Perciò poe-
sia cortese e letteratura clericale si dovrebbero conside-
rare fenomeni paralleli, anziché parlare di influssi e imi-
tazioni57. Per quanto riguarda il lato tecnico della loro
arte, certo i poeti cavallereschi hanno appreso molto dai
chierici, e indubbiamente, nei loro primi tentativi poe-

Storia dell’arte Einaudi 34


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tici, ebbero nelle orecchie le forme e i ritmi dei canti


liturgici. Ci sono punti di contatto anche fra la poesia
d’amore cavalleresca e l’autobiografia ecclesiastica del
tempo, che, rispetto agli schizzi autobiografici piú anti-
chi, presenta un carattere del tutto nuovo, e direi quasi
moderno, ma anche questi punti di contatto, soprattut-
to l’accresciuta sensibilità e l’analisi piú precisa degli
stati d’animo, dipendono dal generale rivolgimento della
società e dalla nuova valutazione dell’individuo58 e, nella
letteratura sacra e in quella profana, risalgono a una
comune radice storica e sociale. Il lato spirituale dell’a-
more cortese è senza dubbio di origine cristiana; ma
troubadours e Minnesänger non debbono averlo desunto
soltanto dalla poesia dei chierici: tutta la vita affettiva
della cristianità era dominata da tale spiritualismo. Il
culto della donna poteva essere facilmente concepito
secondo il modello del culto dei Santi59; ma la deriva-
zione del servigio d’Amore dal servigio di Maria, carat-
teristica trovata romantica60, manca di ogni fondamen-
to storico. La venerazione di Maria è ancora poco svi-
luppata nell’alto Medioevo; e in ogni caso, gli inizi della
poesia trovadorica sono piú antichi del culto mariano.
Anziché ispirare il nuovo ideale amoroso, è il culto della
Vergine ad assumere i tratti dell’amore cortese e caval-
leresco. Da ultimo, neppure la dipendenza della conce-
zione cavalleresca dell’amore dai mistici, come Bernar-
do di Clairvaux e Ugo di San Vittore, è cosí sicura come
si volle credere61.
Ma, comunque influenzata e determinata, la poesia
trovadorica è poesia laica, radicalmente opposta allo spi-
rito ascetico e gerarchico della Chiesa, e con essa il
poeta profano prende definitivamente il posto del chie-
rico poetante. Finisce cosí un periodo di circa tre seco-
li, in cui i monasteri erano stati pressoché le sole sedi
della poesia. Anche durante l’egemonia intellettuale dei
monaci la nobiltà aveva continuato a essere una parte del

Storia dell’arte Einaudi 35


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pubblico letterario; ma di fronte a questa funzione pura-


mente passiva del laicato, la comparsa del cavaliere poeta
è un fenomeno cosí nuovo che si potrebbe considerare
come una delle cesure piú profonde della storia lettera-
ria. Certo non dobbiamo semplificare e generalizzare il
processo di ricambio sociale che mette il cavaliere alla
testa dell’evoluzione civile. Accanto al trovatore c’è pur
sempre il giullare professionale, e tale si riduce qualche
volta anche il cavaliere, quando deve campare con la
propria arte, pur rappresentando nei confronti del giul-
lare un ceto a sé. Accanto al trovatore e al menestrello
c’è ancora, naturalmente, il chierico poeta, benché abbia
perduto la sua funzione storica di guida. E, infine, ci
sono i vagantes, straordinariamente importanti per l’e-
volversi della storia e dell’arte, che conducono una vita
molto simile a quella dei giullari vagabondi, e vengono
spesso scambiati con quelli, ma che, nella coscienza della
propria cultura, cercano ansiosamente di distinguersi
dai piú umili concorrenti. I poeti dell’epoca si distri-
buiscono pressoché fra tutti i ceti sociali; ci sono fra loro
re e principi (Enrico VI, Guglielmo d’Aquitania), mem-
bri dell’alta aristocrazia (Jaufré Rudel, Bertran de Born),
della piccola nobiltà (Walther von der Vogelweide) e
ministeriales (Wolfram von Eschenbach), borghesi (Mar-
cabru, Bernart de Ventadour) e chierici di ogni catego-
ria. Fra i quattrocento nomi conosciuti ci sono anche
diciassette donne.
Con le antiche storie di eroi, che, dopo la formazio-
ne della cavalleria, dalle fiere, dai sagrati e dalle locan-
de risalgono fino ai ceti superiori e svegliano l’interesse
di tutte le corti, tornano a essere apprezzati anche i giul-
lari del popolo. Essi restano ancora molto al di sotto del
poeta cavaliere o chierico, che non vuole esser confuso
con loro, come i poeti e gli attori del teatro di Dioniso
ad Atene non volevano essere confusi coi mimi, o gli
skop barbarici coi buffoni. Ma una volta i poeti di diver-

Storia dell’arte Einaudi 36


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sa origine sociale trattavano anche argomenti diversi, e


questo bastava a differenziarli. Ora invece, poiché il tro-
vatore tratta la stessa materia del giullare, deve cercare
di elevarsi sui cantori comuni per il modo di elaborarla.
Il trobar clus, che viene ora di moda, l’oscurità enigma-
tica e voluta, l’accumulazione delle difficoltà nella tec-
nica e nel contenuto, non è che un mezzo per escludere
i ceti inferiori, incolti, dal godimento artistico dell’alta
società distinguendosi nello stesso tempo dalla marma-
glia dei buffoni e degli istrioni. Una volontà or piú or
meno manifesta di distinzione sociale basta quasi sem-
pre a spiegare il gusto dell’arte difficile e complicata; il
fascino estetico del significato occulto, delle associazio-
ni sforzate, del modo slegato e rapsodico, dei simboli
non immediatamente evidenti e che non si lasciano mai
esaurire completamente, della musica difficile da ricor-
dare, delle «melodie di cui non si sa fin dall’inizio come
finiranno», insomma tutto il fascino dei piaceri e dei
paradisi segreti. Possiamo valutare tutta l’importanza di
questa tendenza aristocratica nei trovatori e nella loro
scuola, se pensiamo che Dante apprezzava su tutti gli
altri poeti provenzali Arnaut Daniel, il piú oscuro e
complicato di tutti62.
L’umile giullare, pur restando in sottordine, gode di
eccezionali privilegi come collega del poeta cavalleresco;
altrimenti non gli sarebbe mai stato concesso di parlare
apertamente di sé, dei suoi sentimenti personali, cioè,
per dirla in altre parole, di passare dall’epica alla lirica.
Soltanto la nuova posizione sociale del poeta ha reso
possibile il soggettivismo poetico, la confessione lirica e
tutta l’ostentata analisi dei sentimenti. E solo in quan-
to partecipava del prestigio sociale del cavaliere, il poeta
poté far nuovamente valere i suoi diritti d’autore e di
proprietà. Se il mestiere non fosse stato esercitato anche
da individui di elevata condizione, non avrebbe potuto
affermarsi cosí presto l’uso di nominarsi nelle proprie

Storia dell’arte Einaudi 37


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

opere. Marcabru fa il proprio nome in venti delle qua-


rantatre poesie superstiti, Arnaut Daniel quasi in tutte63.
I giullari, che s’incontrano di nuovo in ogni corte e
che d’ora in poi, anche nelle corti piú modeste fanno
parte del seguito, erano esperti dicitori, cantavano e
recitavano. Le poesie che declamavano erano opera
loro? Probabilmente, come i mimi loro antenati, comin-
ciarono con l’improvvisare, e fino alla metà del secolo
xii furono senza dubbio poeti e cantori a un tempo. Ma
poi dovette subentrare la specializzazione, e pare che
almeno una parte dei giullari si limitasse a recitare le
opere altrui. Principi e nobili fecero il loro tirocinio
poetico presso i giullari, che certo li aiutarono, in qua-
lità di esperti, a risolvere le difficoltà tecniche. Fin da
principio i cantori plebei erano al servizio degli illustri
dilettanti, e piú tardi probabilmente anche i cavalieri
decaduti servirono nello stesso modo i gran signori.
Talvolta i poeti di professione cui arrideva il successo
esigevano i servigi di giullari piú poveri. I ricchi dilet-
tanti e i trovatori piú illustri non recitavano personal-
mente le loro composizioni, ma le facevano recitare da
giullari pagati64. Sorge cosí fra gli artisti una speciale
divisione del lavoro che, almeno da principio, sottoli-
nea fortemente la distanza sociale fra il trovatore ari-
stocratico e il comune giullare. Ma questa distanza
diminuisce poi a poco a poco, e, come risultato di que-
sto livellamento, cominciamo a trovare, specialmente
nella Francia del Nord, un tipo di poeta già molto simi-
le allo scrittore moderno; non compone piú versi da
declamare, ma scrive libri da leggere. Ai suoi tempi si
cantano ancora gli antichi poemi eroici, si recitano le
chansons de geste, e – con ogni probabilità – si legge
ancora in pubblico l’antica epopea aulica; ma i roman-
zi d’amore e d’avventure vengono scritti per la lettura
privata, soprattutto per quella delle dame. Si è defini-
to questo prevalere delle donne nella composizione del

Storia dell’arte Einaudi 38


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pubblico come il mutamento piú significativo nella sto-


ria della letteratura occidentale65. Ma altrettanto impor-
tante per il futuro è la nuova forma di recezione: la let-
tura. Perché solo dove la poesia diventa lettura, essa
può diventare passione, bisogno quotidiano, abitudine.
Soltanto ora la poesia diventa «letteratura», e il suo
godimento non è piú legato alle ore solenni della vita,
a festività e circostanze particolari, ma può diventare
un passatempo consueto. Cosí la poesia perde anche
l’ultimo resto del suo carattere sacrale e diventa pura
«finzione», invenzione a cui non è piú necessario cre-
dere per trovare in essa un interesse estetico. Ecco per-
ché Chrétien de Troyes è caratterizzato come il poeta
che non soltanto non crede piú ai misteri delle saghe
celtiche, ma non afferra piú neppure il loro vero signi-
ficato. La consuetudine della lettura trasforma il devo-
to ascoltatore in lettore scettico, ma anche in esperto
conoscitore; per cui dalla cerchia degli uditori e dei let-
tori nasce quel che si può chiamare un pubblico lette-
rario. E la fame di letture di questo pubblico suscita,
fra l’altro, il noto fenomeno della letteratura di moda,
di quella letteratura effimera che ha il suo primo esem-
pio nel romanzo d’amore cortese.
La lettura determina – rispetto alla recitazione e alla
declamazione – una tecnica narrativa affatto nuova;
esige e permette l’uso di effetti sinora del tutto ignoti.
L’opera destinata al canto o alla declamazione impiega
per lo piú, come mezzo compositivo, la semplice giu-
stapposizione; e si compone di singoli canti, episodi,
strofe, piú o meno in sé conclusi. La recitazione può
essere interrotta pressoché in qualsiasi punto, e l’effet-
to complessivo non viene essenzialmente intaccato quan-
do si tralasciano singole parti. L’unità di un’opera sif-
fatta non è garantita dalla composizione, ma dalla coe-
renza della visione del mondo e del senso della vita che
pervade tutte le parti. Cosí è costruita anche la Chan-

Storia dell’arte Einaudi 39


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

son de Roland66. Invece Chrétien de Troyes ottiene spe-


ciali effetti di tensione con ritardi, digressioni e sorpre-
se, che non risultano dalle singole parti, bensí dai rap-
porti tra le varie parti, dalla loro successione e contrap-
posizione. Ma il poeta del romanzo d’amore e d’avven-
ture non segue questo metodo solo perché, come è stato
affermato67, ha a che fare con un pubblico piú difficile
di quello della Chanson de Roland, ma anche perché scri-
ve per lettori e non per ascoltatori, e quindi può e deve
prefiggersi effetti che sarebbero stati impensabili con
una recitazione sempre necessariamente breve e spesso
arbitrariamente interrotta. Qui ha inizio la letteratura
moderna; non soltanto perché sono queste le prime sto-
rie romantiche dell’Occidente, le prime opere narrative
in cui l’amore soverchia tutto il resto, il lirismo som-
merge ogni cosa e la sensibilità del poeta è il vero crite-
rio della qualità artistica, ma anche perché, per para-
frasare un noto concetto della drammaturgia, esse sono
i primi récits bien faits.
L’evoluzione, che nell’epoca della poesia cortese pro-
cede dal trovatore cavalleresco e dal giullare popolano
come da due tipi sociali completamente diversi, dappri-
ma tende a riavvicinarli, ma poi, verso la fine del Due-
cento, torna a separarli, e il risultato è che troviamo, sia
il menestrello a impiego fisso, il poeta di corte in senso
stretto, sia il giullare nuovamente decaduto e senza
padrone. Da quando le corti cominciano a tenere poeti
e cantori stabili, con incarico ufficiale, i giullari ambu-
lanti perdono la clientela dell’alta società e tornano a
rivolgersi, come prima dell’epoca cavalleresca, al pub-
blico degli umili68. I poeti di corte con impiego fisso ten-
dono invece a diventare, in consapevole contrasto coi
giullari ambulanti, veri e propri letterati, con tutta la
vanità e l’alterigia dei futuri umanisti. Il favore e la libe-
ralità dei grandi signori non bastano piú a soddisfarli;
essi pretendono, nei confronti dei loro protettori, al

Storia dell’arte Einaudi 40


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ruolo di maestri69. I principi del resto non li mantengo-


no piú soltanto per divertire gli ospiti, ma per avere in
loro compagni, confidenti e consiglieri. Sono anch’essi
ministeriales, come rivela il nome di menestrels, ma assai
piú stimati; sono l’autorità suprema in tutte le questio-
ni del buon gusto, degli usi di corte e dell’onore caval-
leresco70. Sono i veri precursori dei poeti e degli umani-
sti del Rinascimento, o lo sono almeno nella stessa misu-
ra dei loro antagonisti, i vagantes, a cui il Burckhardt
attribuisce questa funzione71.
Il vagans è un chierico o scolaro che va in giro come
cantore ambulante, un frate fuggiasco o uno studente
fallito; e cioè uno spostato, un bohémien. È un prodot-
to della stessa trasformazione economica, un sintomo
della stessa dinamica sociale che ha generato la borghe-
sia cittadina e la cavalleria di mestiere; ma presenta già
alcuni aspetti tipici del moderno intellettuale avulso
dalla società: privo di ogni rispetto per la Chiesa e per
le classi dominanti, è un ribelle e un libertino, che insor-
ge per principio contro ogni tradizione e costume. In
fondo, è una vittima della crisi sociale, un fenomeno di
transizione, esempio tipico del passaggio di larghi stra-
ti della popolazione da gruppi rigidamente chiusi, che
dominano tutta la vita dei loro membri, a gruppi piú
aperti, che offrono maggior libertà, ma minor protezio-
ne. In seguito alla rinascita delle città e al concentra-
mento della popolazione, e soprattutto alla fioritura
delle università, si può osservare un nuovo fenomeno:
il proletariato intellettuale72. La sicurezza economica
viene a cessare anche per una parte del clero. Prima la
Chiesa aveva potuto provvedere a tutti gli alunni delle
scuole episcopali e conventuali, ma ora che – con la
maggior libertà personale e il generale desiderio di ele-
varsi – scuole e università si riempiono di giovani pove-
ri, la Chiesa non è piú disposta a occuparsene e a trovar
loro una sistemazione. Molti giovani, che spesso non rie-

Storia dell’arte Einaudi 41


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

scono neppure a terminare gli studi, menano l’esistenza


vagabonda dei mendicanti e dei comici. Nulla di piú
naturale che siano sempre pronti, col veleno e col fiele
dei loro versi, a vendicarsi della società che li trascura.
I vagantes scrivono in latino; sono i giullari dei signo-
ri ecclesiastici, e non dei laici. Per tutto il resto, non c’è
molta differenza fra la vita di uno scolaro vagabondo e
quella di un giullare. Anche la differenza di cultura non
dev’essere stata cosí forte come generalmente si pensa;
insomma, chierici o studenti falliti erano colti solo a
metà, come i mimi e i jongleurs73. Ciò nonostante le loro
opere, almeno nella tendenza, costituiscono una poesia
dotta e di classe, che si rivolge a un pubblico relativa-
mente ristretto e istruito. E benché questi vagabondi
siano spesso costretti a intrattenere anche circoli profa-
ni e a poetare in volgare, si mantengono rigorosamente
distinti dai comuni giullari74.
La poesia dei vagantes e la poesia di scuola non si pos-
sono sempre esattamente distinguere75. Una parte con-
siderevole della lirica amorosa in latino è – nel Medioe-
vo – opera di studenti, e in parte non è che poesia di
scuola, e cioè produzione poetica nata dall’insegnamen-
to. Numerosi fra i piú ardenti canti d’amore sono sem-
plici esercitazioni scolastiche; il loro contenuto di espe-
rienza vissuta non può quindi essere stato molto ricco.
Ma la lirica latina del Medioevo non è tutta qui. Con-
viene ammettere che almeno una parte dei canti convi-
viali, se non anche delle canzoni d’amore, sia nata nei
conventi. Inoltre, componimenti quali Il concilio d’a-
more di Remiremont o Il contrasto di Fillide e Flora, vanno
probabilmente attribuiti all’alto clero. Se ne deduce che
nel Medioevo quasi tutti gli strati del clero collaboraro-
no alla poesia latina d’argomento profano.
La lirica amorosa dei vagantes si distingue da quella
dei trovatori soprattutto perché parla delle donne con
piú dispregio che entusiasmo e tratta l’amore fisico con

Storia dell’arte Einaudi 42


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

un’immediatezza quasi brutale. Ma anche in questo dob-


biamo scorgere solo un segno dell’irriverenza con cui i
vagantes trattano tutto ciò che la convenzione vuole che
si rispetti; e non già, come si è pensato, una specie di
vendetta per la continenza, che probabilmente essi non
esercitarono mai. Nella poesia goliardica la donna appa-
re nella stessa cruda luce dei fabliaux. Questa analogia
non può essere casuale, ma fa piuttosto supporre che i
vagantes abbiano contribuito alla genesi di tutta la let-
teratura misogina e antiromantica. Conferma quest’i-
potesi il fatto che nei fabliaux lo scherno non risparmia
nessuno, sia monaco o cavaliere, cittadino o villano.
All’occasione il poeta vagante intrattiene anche il bor-
ghese, anzi a volte scorge in lui un alleato nella sua
guerriglia contro i potenti della società, eppure lo
disprezza. Sarebbe tuttavia un grave errore ritenere i
fabliaux, nonostante il loro tono impertinente, la loro
forma incolta e il loro acerbo verismo, una letteratura
in tutto e per tutto popolare e supporli rivolti a un pub-
blico puramente borghese. Gli autori dei fabliaux sono
certamente borghesi, come lo spirito che li anima, razio-
nalistico, scettico, antiromantico, pronto a ironizzare su
se stesso; ma come il pubblico borghese si diletta ai
romanzi cavallereschi oltre che alle allegre storie del
proprio ambiente, cosí il pubblico nobiliare presta volen-
tieri orecchio agli audaci racconti dei giullari accanto alle
gesta eroiche e romantiche della poesia cortese. I
fabliaux non sono una letteratura specificamente bor-
ghese nello stesso senso in cui il canto eroico è una let-
teratura della nobiltà guerriera o i romanzi d’amore
sono una letteratura della cavalleria cortese. Sono piut-
tosto una letteratura autocritica e distaccata, e l’ironia
che il borghese vi esercita su se stesso la rende gradita
ai ceti superiori. D’altronde il gusto del pubblico nobi-
le per la letteratura amena dei ceti borghesi non signi-
fica che la nobiltà la metta sullo stesso piano dei roman-

Storia dell’arte Einaudi 43


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

zi cavallereschi; essa vi trova diletto, come alle esibizioni


dei mimi, degli istrioni e dei conduttori d’orsi.
Nel tardo Medioevo la poesia s’imborghesisce sempre
piú, e con essa e col pubblico s’imborghesisce il poeta.
Oltre il «maestro cantore», borghese per condizione e
mentalità, il Medioevo non produce nuovi tipi, limi-
tandosi a variare quelli esistenti; il loro albero genealo-
gico presenta all’incirca questo aspetto:

Storia dell’arte Einaudi 44


Capitolo nono

Il dualismo dell’età gotica

In generale, la mobilità intellettuale dell’età gotica si


può studiare meglio nell’arte figurativa che nella poesia;
non solo perché l’esercizio dell’arte figurativa resta lega-
to, per tutto il Medioevo, a un ceto professionale rela-
tivamente unitario e quindi si evolve quasi senza solu-
zione di continuità, mentre la produzione poetica passa
da un ceto all’altro e si sviluppa, per cosí dire, a scosse
e a scatti in singole tappe spesso discontinue; ma anche
perché lo spirito della borghesia, che è l’elemento pro-
pulsore della nuova società turbata nel suo equilibrio, si
afferma piú rapidamente e radicalmente nell’arte figu-
rativa che nella poesia. In quest’ultima, solo generi iso-
lati e periferici rispetto alla massa della produzione espri-
mono immediatamente la gioia di vivere, il realismo, il
gusto mondano della borghesia, mentre questo orienta-
mento domina quasi tutte le forme dell’arte figurativa.
Qui la grande svolta dello spirito occidentale, il ritorno
dal regno di Dio alla natura, dalle cose ultime alle pros-
sime, dai tremendi misteri escatologici ai problemi piú
innocui del mondo delle creature, è piú evidente che
nelle forme ufficiali della poesia; e qui si comincia a
osservare che l’interesse dell’arte va spostandosi dai
grandi simboli e dalle grandi concezioni metafisiche alla
rappresentazione dell’immediato e del vissuto, dell’in-
dividuale e del sensibile. Il vivente e l’organico, di cui,
dalla fine dell’evo antico, si era smarrito il senso e il

Storia dell’arte Einaudi 45


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

valore, torna a essere adeguatamente apprezzato, e le


singole cose della realtà empirica non hanno piú bisogno
di una legittimazione oltremondana, soprannaturale, per
diventare oggetto dell’arte.
Nulla illumina il senso di questo mutamento meglio
delle parole di san Tommaso: «Dio si rallegra di tutte le
cose, perché ognuna è in armonia col Suo Essere». C’è
già tutta la giustificazione teologica del naturalismo arti-
stico. Ogni realtà, per quanto piccola, per quanto pas-
seggera, è in diretto rapporto con Dio; ogni cosa espri-
me a suo modo il divino, e quindi ogni cosa ha un suo
valore e un suo significato per l’arte. E anche se, per il
momento, le cose meritano attenzione solo in quanto
testimoniano di Dio, e debbono disporsi in rigido ordi-
ne gerarchico, secondo il loro grado di partecipazione al
divino, la semplice idea che nessun grado dell’essere, per
quanto basso, sia del tutto insignificante o abbandona-
to da Dio, e perciò indegno dell’attenzione dell’artista,
segna l’inizio di una nuova epoca. Anche nell’arte, sul-
l’antica immagine di un Dio fuori del mondo prevale l’i-
dea di una potenza divina operante nelle cose stesse. Il
Dio che «imprime il moto dall’esterno» corrispondeva,
alla concezione autocratica propria del primo feudalesi-
mo; il Dio presente e attivo in ogni ordine della natura
corrisponde a un mondo piú aperto, che non esclude piú
la possibilità dell’ascesa sociale. La gerarchia metafisica
delle cose riflette pur sempre una società articolata in
caste, ma il liberalismo del tempo si manifesta già nel
fatto che anche l’infimo grado dell’essere è considerato
insostituibile nella sua specifica natura. Prima le classi
erano divise da un abisso insuperabile, ora sono in con-
tatto; e il mondo, come materia dell’arte, forma anch’es-
so una realtà continua, benché esattamente graduata.
Non si può certo parlare, in pieno Medioevo, di un
naturalismo che livelli e uniformi ogni cosa, e riduca
l’intera realtà a una somma di dati sensibili; come non

Storia dell’arte Einaudi 46


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

si può parlare di una totale eliminazione del dominio


feudale da parte dell’ordine borghese, o del tramonto
della dittatura spirituale della Chiesa e dell’elabora-
zione di una cultura autonoma e mondana. Si può sol-
tanto parlare, per l’arte come per tutti gli altri campi,
di un equilibrio fra individualismo e universalismo, di
un compromesso fra libertà e costrizione. Il naturali-
smo gotico è un equilibrio instabile tra l’affermazione
e la negazione dei valori mondani, come tutta la caval-
leria è in se stessa una contraddizione, e tutta la vita
religiosa dell’epoca oscilla fra dogmatismo e interiorità,
fede clericale e pietà laica, ortodossia e soggettivismo.
È lo stesso intimo dissidio, la stessa polarità spiritua-
le, che si manifesta negli antagonismi sociali, religiosi
e artistici.
Il dualismo gotico si esprime soprattutto nel senti-
mento della natura. Questa non è piú il mondo mate-
riale, muto e inanimato, come lo concepiva l’alto
Medioevo, secondo l’immagine giudaico-cristiana di Dio
e la concezione di un Signore invisibile e spirituale,
Creatore del mondo. L’assoluta trascendenza di Dio
aveva condotto alla svalutazione della natura, come ora
il panteismo conduce alla sua riabilitazione. Fino a san
Francesco, soltanto l’uomo era stato «fratello» dell’uo-
mo; d’ora in poi lo è ogni creatura76. Anche questa nuova
idea dell’amore corrisponde alla tendenza liberale dello
spirito del tempo. Nella natura non si cercano piú sol-
tanto analogie e simboli di una realtà soprannaturale, ma
le tracce del proprio io, i riflessi del proprio sentimen-
to77. Il prato in fiore, il fiume gelato, la primavera e l’au-
tunno, il mattino e la sera, diventano momenti dell’a-
nima. Ma, nonostante questa corrispondenza, manca
ancora la visione individuale della natura: le immagini
tratte dal vero sono rigide e stereotipe, prive di sfuma-
ture o d’intimità personale78. I paesaggi primaverili o
invernali della poesia amorosa si ripetono cento volte e

Storia dell’arte Einaudi 47


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

finiscono per diventare formule vuote e convenzionali.


Ma è già significativo che la natura sia oggetto d’inte-
resse, e appaia di per sé degna di rappresentazione.
L’occhio deve aprirsi alla natura, prima di potervi sco-
prire tratti individuali.
Assai piú coerente e piú chiaro che nelle immagini di
paesaggio, il naturalismo gotico si esprime nella rappre-
sentazione dell’uomo. In questo campo, ci troviamo
dovunque di fronte a una concezione dell’arte affatto
nuova, del tutto opposta alla stereotipia e all’astrazione
romanica. Qui l’interesse si accentra sull’individuale e
sul caratteristico, e non solo nelle statue dei re a Reims,
e nei ritratti dei fondatori a Naumburg; l’espressione
fresca, viva e parlante di questi ritratti è già presente,
in qualche modo, nelle statue del portale occidentale di
Chartres79. Anche qui il segno è cosí preciso da farci sen-
tire con certezza che si tratta di studi eseguiti su model-
li reali. L’artista deve aver conosciuto personalmente
quel vecchio semplice, dall’aspetto di contadino, con gli
zigomi forti, il naso breve e largo e gli occhi un po’ obli-
qui. Ma lo strano è che queste figure, ancora cosí grevi
e ottuse, cosí lontane dalla mobilità che assumeranno
nell’epoca cortese e cavalleresca, siano già mirabilmen-
te caratterizzate. La sensibilità per l’individuale è uno
dei primi sintomi della nuova dinamica spirituale. Stu-
pisce vedere come a un’arte avvezza a considerare la spe-
cie umana nella sua totalità e uniformità e a distingue-
re solo tra eletti e dannati, ma incurante di ogni diffe-
renza individuale, subentri d’improvviso la tendenza a
sottolineare i tratti individuali delle figure e a fissare ciò
che è unico e irripetibile in ciascuna di esse80; come a un
tratto spunti l’amore della vita consueta e quotidiana;
come s’impari di nuovo a osservare, a veder «giusto», e
a trovar piacere in tutto ciò che è triviale e casuale. E
nulla è piú significativo per la trasformazione stilistica
in corso del fatto che persino un idealista come Dante

Storia dell’arte Einaudi 48


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

trovi, nell’osservazione del particolare caratteristico e


minuto, la fonte di un’altissima poesia.
Che cos’è propriamente accaduto? In sostanza, que-
sto: l’arte unilaterale, spiritualistica dell’alto Medioevo,
che rinunciava a ogni somiglianza con la realtà imme-
diata, a ogni conferma dell’esperienza, ha ceduto il passo
a una visione che fa dipendere la validità di ogni espres-
sione artistica (anche quando si tratta dell’oggetto piú
trascendente, piú ideale, piú divino) da un’ampia corri-
spondenza alla realtà naturale e sensibile. Appare cosí
trasformato l’intero rapporto fra spirito e natura. La
natura non è piú caratterizzata dalla sua mancanza di
spiritualità, ma dalla sua trasparenza spirituale, dalla
sua capacità di esprimere lo spirito (anche se non da una
spiritualità in proprio). Questo mutamento ha potuto
prodursi solo perché si è modificata la concezione stes-
sa della verità, che ha assunto, al posto della sua primi-
tiva forma unilaterale, una forma bilaterale; solo perché,
in altri termini, si sono aperte due vie distinte alla verità
o piuttosto si sono scoperte due distinte verità. Che la
rappresentazione di un oggetto o di un rapporto vero in
sé, per essere artisticamente giusta, debba conformarsi
all’esperienza dei sensi, che quindi il valore artistico e
ideale di un’immagine non debbano necessariamente
coincidere, è un concetto nuovo, completamente igno-
to all’alto Medioevo, e in sostanza, non è che la dottri-
na della «doppia verità» (ben nota alla filosofia del
tempo) applicata all’arte. Il dissidio prodotto dalla rot-
tura delle antiche tradizioni feudali e dall’incipiente
emancipazione dello spirito dalla Chiesa trova la sua
massima espressione in questa dottrina, che sarebbe
apparsa mostruosa a ogni cultura precedente. Che cosa
avrebbe potuto essere piú inconcepibile, per un’epoca
salda nella sua fede, dell’idea che due fonti distinte del
vero – fede e scienza, autorità e ragione, teologia e filo-
sofia – potessero contraddirsi, e tuttavia, ciascuna a suo

Storia dell’arte Einaudi 49


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

modo, testimoniare di una verità? La dottrina apriva


una via irta di pericoli, ma era la sola via d’uscita per
un’epoca in cui la fede non era piú indiscussa e la scien-
za non aveva ancora radici abbastanza salde; per un’e-
poca che non voleva sacrificare la sua scienza alla fede,
né la sua fede alla scienza, e soltanto sulla loro sintesi
poteva edificare la sua civiltà.
L’idealismo dell’arte gotica era insieme un naturali-
smo che cercava di foggiare correttamente, anche sotto
l’aspetto empirico, le figure ideali di origine oltremon-
dana, come l’idealismo filosofico dell’epoca poneva l’i-
dea non sopra, ma nella singola cosa, senza rinunciare né
all’una né all’altra. Tradotto nel linguaggio della dispu-
ta sugli universali, questo significava che i concetti gene-
rali erano concepiti come immanenti ai fatti empirici e
che non si riconosceva loro esistenza oggettiva se non in
questa forma. Questo nominalismo temperato, come è
definito nella storia della filosofia, si fondava quindi su
una visione del mondo ancora idealistica e soprannatu-
rale, ma era piú lontano dall’idealismo assoluto – cioè dal
«realismo» della disputa degli universali – che dal nomi-
nalismo estremo del periodo successivo, che negava l’e-
sistenza obiettiva delle idee in qualsiasi forma, e consi-
derava veramente reali solo i fatti empirici individuali,
concreti, unici e irripetibili. Perché il passo decisivo
ebbe luogo quando si cominciò a tener conto delle cose
singole nella ricerca della verità. Chi diceva «cosa sin-
gola», e faceva entrare in gioco la sostanzialità della
singola esistenza, diceva già individualismo e relativismo
e ammetteva almeno la parziale dipendenza della verità
da principî temporali e mondani.
Il problema intorno a cui si svolse la disputa degli uni-
versali non è solo il problema centrale della filosofia, il
problema per eccellenza, di cui tutte le questioni fon-
damentali – empirismo e idealismo, relativismo e asso-
lutismo, individualismo e universalismo, storicismo e

Storia dell’arte Einaudi 50


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

antistoricismo – non sono che le varianti; ma è qualco-


sa di piú di un semplice problema filosofico, è la quin-
tessenza delle questioni vitali che nascono da ogni siste-
ma culturale e davanti a cui si è costretti a prender posi-
zione non appena si diventa consapevoli della propria
esistenza spirituale. Il nominalismo temperato, che non
nega la realtà delle idee, ma le considera inseparabili
dalle cose della realtà empirica, è la chiave di tutto il
dualismo gotico, cosí degli antagonismi della struttura
economica e sociale, come delle intime contraddizioni
del naturalismo e dell’idealismo artistico. La funzione
del nominalismo corrisponde qui esattamente a quella
della sofistica nella storia dell’arte e della cultura anti-
ca. L’uno e l’altra rientrano tra le dottrine filosofiche
tipiche delle epoche antitradizionalistiche e liberali.
L’uno e l’altra sono filosofie illuministiche, che conce-
piscono le norme già considerate universali ed eterne,
come valori relativi, cioè mutevoli e transitori, e nega-
no i valori «puri», assoluti, indipendenti da speciali pre-
messe.
La dislocazione delle basi filosofiche del mondo
medievale, il trapasso della metafisica dal realismo al
nominalismo, diventa comprensibile solo in rapporto
con lo sfondo sociologico. Perché, come il realismo cor-
rispondeva a un ordine sociale sostanzialmente antide-
mocratico, a una gerarchia in cui solo i vertici contava-
no, a un’organizzazione assolutistica superindividuale
che costringeva la vita nei vincoli della Chiesa e del feu-
dalesimo, senza lasciare al singolo la minima libertà di
movimento; cosí il nominalismo corrisponde alla disso-
luzione delle forme collettive di tipo autoritario e all’af-
fermazione di una vita sociale individualmente articola-
ta e varia contro il principio dell’incondizionata subor-
dinazione. Il realismo esprime una visione statica e con-
servatrice; il nominalismo, una visione dinamica, pro-
gressiva, liberale. Il nominalismo, che a ogni cosa singola

Storia dell’arte Einaudi 51


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

assicura una partecipazione all’Essere, corrisponde a un


ordine di vita in cui anche quelli che si trovano sugli ulti-
mi gradini della scala sociale hanno una possibilità di
salire e di elevarsi.
Il dualismo che domina il rapporto dell’arte gotica
con la natura affiora anche nella soluzione dei problemi
compositivi. È vero che il gotico supera la forma di
composizione ornamentale dell’arte romanica, per lo piú
ispirata al principio della coordinazione, e la sostituisce
con una forma piú vicina all’arte classica, e guidata dal
principio di concentrazione; ma d’altro canto divide la
scena – che nell’arte romanica era dominata, se non
altro, da un’unità decorativa – in composizioni parziali
che, prese una per una, mostrano di sottoporsi al crite-
rio classico di unità e subordinazione, ma, nel loro insie-
me, rivelano un’accumulazione piuttosto indiscrimina-
ta di motivi. Cosí, nonostante lo sforzo di alleggerire la
folta composizione romanica, e di rappresentare scene
concluse nel tempo e nello spazio, invece di collegare le
singole forme secondo criteri puramente concettuali o
decorativi, predomina anche nel gotico un modo di com-
porre aggiuntivo, opposto all’unità spaziale e temporale
dell’opera d’arte classica.
Il principio della rappresentazione «continua», la
tendenza all’indugio «cinematografico» sulle singole fasi
dell’avvenimento e la disposizione a sacrificare il
«momento pregnante» a favore dell’ampiezza narrativa,
caratterizzano una tendenza che, apparsa per la prima
volta nell’arte tardoromana, non è stata mai del tutto
abbandonata nel Medioevo, e che torna ora a predomi-
nare nella forma della composizione ciclica. Questo prin-
cipio trova la sua espressione piú grossolana nel dram-
ma medievale, che, in considerazione della sua tenden-
za ad avvicendare e variare, è stato definito, in opposi-
zione al dramma classico (dominato dal principio
dell’«unità di luogo»), «dramma di movimento»81. I

Storia dell’arte Einaudi 52


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

misteri della Passione – con tutti i loro quadri giustap-


posti, centinaia di attori e un’azione spesso protratta per
molti giorni – che seguono l’avvenimento passo per
passo, indugiano su ogni episodio con insaziabile curio-
sità e sono piú interessati alla successione degli eventi
che alla singola situazione drammatica, questi «drammi
cinematografici» del Medioevo sono per certi aspetti le
creazioni piú caratteristiche dell’arte gotica, pur essen-
do forse le piú insignificanti per qualità. La nuova ten-
denza artistica per cui le cattedrali gotiche rimasero cosí
spesso incompiute, la loro forma sostanzialmente aper-
ta, per cui anche un edificio completo a noi – come già
a Goethe – pare in realtà non finito, cioè infinito, con-
cepito in un eterno divenire – quell’aspirazione allo
sconfinato, quell’incapacità di placarsi e di concludere,
sono espresse dai misteri della Passione in forma molto
ingenua, ma appunto per ciò tanto piú chiara. Il dina-
mismo del tempo, l’inquietudine che dissolve i modi tra-
dizionali di pensare e di sentire, la tendenza nominali-
stica verso la molteplicità delle cose singole, mutevoli e
passeggere, si manifesta nel modo piú immediato nel
«dramma di movimento».
Il dualismo che appare nelle tendenze economiche,
sociali, religiose e filosofiche, nel rapporto tra economia
di consumo ed economia di profitto, tra feudalesimo e
borghesia, trascendenza e immanenza, realismo e nomi-
nalismo, e domina cosí il rapporto dello stile gotico con
la natura come i suoi criteri compositivi, ci si presenta
anche nel razionalismo e nell’irrazionalismo dell’arte
gotica, e soprattutto dell’architettura. L’Ottocento, che
cercò di spiegare il carattere di questa architettura
secondo lo spirito della propria visione tecnologica, ne
rilevò soprattutto i caratteri razionali. Gottfried Sem-
per la definí una «pura traduzione della filosofia scola-
stica»82, e Viollet-le-Duc non vi scorse che l’applicazio-
ne e l’illustrazione di leggi matematiche83; entrambi la

Storia dell’arte Einaudi 53


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

considerarono, in sostanza, come un’arte in cui domina


una necessità astratta e del tutto opposta all’irraziona-
lità dei motivi estetici. Entrambi la interpretarono, e
con loro tutto l’Ottocento, come «un’arte di calcolo e
di ingegneria», che attinge l’ispirazione dal pratico e dal-
l’utile e nelle sue forme esprime unicamente la necessità
tecnica e la possibilità costruttiva. Si vollero dedurre i
principî formali dell’architettura gotica, soprattutto l’i-
nebriante verticalismo, dalla volta a crociera, cioè da
un’invenzione tecnica. Questa teoria tecnicistica si adat-
tava benissimo all’estetica razionalistica del secolo, per
cui, in una vera opera d’arte, non c’era nulla da muta-
re; e per cui un edificio gotico, con la sua logica rigoro-
sa e la sua stretta funzionalità, appariva come il proto-
tipo di un complesso artistico dove nulla si poteva toglie-
re e nulla aggiungere senza totalmente distruggerlo84. È
incomprensibile come questa teoria potesse essere appli-
cata proprio all’architettura gotica, quando proprio la
storia della costruzione degli edifici gotici, cosí ricca di
peripezie, fornisce la miglior prova che nella forma defi-
nitiva di un’opera d’arte il caso, o ciò che appare casua-
le in rapporto al progetto originario, ha una parte altret-
tanto grande quanto l’idea prima.
Secondo il Dehio, l’invenzione della volta a crociera
costituisce il momento propriamente creativo nella gene-
si del gotico, e le singole forme artistiche non sono che
le conseguenze di tale conquista tecnica. Soltanto Ernst
Gall inverte il rapporto e assume l’idea formale della
struttura verticale come l’elemento primario, e l’esecu-
zione tecnica di quell’idea solo come elemento stru-
mentale e derivato, artisticamente e storicamente secon-
dario85. Da allora è stato fatto osservare, anche da parte
di altri, che l’utilità pratica della maggior parte delle
«conquiste tecniche» del gotico non va sopravvalutata;
in particolare la funzione costruttiva della crociera è
puramente illusoria, e in origine la volta a crociera e il

Storia dell’arte Einaudi 54


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sistema dei contrafforti avevano uno scopo essenzial-


mente decorativo86. In questa controversia fra raziona-
listi e irrazionalisti si tratta, in fondo, dello stesso con-
trasto che opponeva già Semper e Riegl87. Da un lato si
vuol derivare la forma artistica dal problema pratico e
dalla sua soluzione tecnica, dall’altro si fa notare che
spesso l’idea artistica si afferma in una certa opposizio-
ne ai mezzi tecnici dati, e che la stessa soluzione tecni-
ca è, almeno in parte, una creazione della volontà for-
male. Dai due lati si commette, con segni invertiti, lo
stesso errore: e se il tecnicismo di Viollet-le-Duc fu giu-
stamente definito «meccanica romanticizzata» 88, è
altrettanto lecito considerare l’estetismo di Riegl e di
Gall come una ipostatizzazione altrettanto romantica,
non piú della costrizione, ma del libero intento dell’ar-
tista. In nessuna fase della genesi di un’opera d’arte
intento formale e tecnica sono dati indipendentemente
l’uno dall’altro, ma risultano sempre compenetrati in un
insieme, da cui possono essere separati solo teorica-
mente. L’estrapolazione di uno dei due elementi come
variabile indipendente significa l’ingiustificata, irrazio-
nale esaltazione di quell’elemento sull’altro, ed è proprio
di una mentalità «romantica». La successione psicolo-
gica dei due principî nell’atto della creazione è di scar-
so significato per il loro effettivo rapporto reciproco
poiché dipende da un numero cosí elevato di fattori
incalcolabili che siamo costretti a considerarla come
«accidentale». Di fatto, è possibile che «la crociera sia
nata per ragioni puramente tecniche e poi se ne sia sco-
perto l’uso artistico»89; ma è altrettanto possibile che
l’invenzione tecnica sia stata preceduta da una visione
formale, e che da questa visione formale, magari senza
saperlo, l’architetto sia stato guidato nelle sue conside-
razioni tecniche. La questione è scientificamente inso-
lubile. Ma si può sempre stabilire con certezza come
questi principî si ricolleghino allo sfondo sociale delle

Storia dell’arte Einaudi 55


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

creazioni artistiche, e spiegare perché si accordino o si


contraddicano. Quando la civiltà, come nell’alto
Medioevo, procede – nell’insieme – senza conflitti, fra
intento artistico e tecnica non sussiste quasi mai un con-
trasto di principio; le forme artistiche dicono quel che
dice la tecnica e i due fattori sono ugualmente raziona-
li o irrazionali. Ma in epoche come il gotico, quando
tutta la civiltà è lacerata da antagonismi, accade spesso
che nell’arte gli elementi spirituali e materiali parlino
due linguaggi diversi e che, come nel nostro caso, la tec-
nica sia razionale, ma irrazionali i principî formali.
La chiesa romanica è una forma spaziale in sé con-
chiusa, con uno spazio interno relativamente ampio,
solenne, quieto, su cui lo sguardo può riposare in asso-
luta passività. Invece la chiesa gotica è in uno stato di
divenire, come se nascesse davanti ai nostri occhi; è un
processo, non un risultato. La risoluzione di tutto il
sistema materiale in un gioco di forze, la dissoluzione di
tutto ciò che è rigido e statico in una dialettica di fun-
zioni e subordinazioni, quello zampillare e salire, quel-
la circolazione e trasformazione delle energie è come un
dramma che si svolge e si decide davanti ai nostri occhi.
E l’effetto dinamico è cosí predominante, che ogni altra
cosa appare solo un mezzo a quel fine. Perciò l’incom-
piutezza non intacca minimamente l’efficacia di un sif-
fatto edificio, anzi gli aggiunge forza e fascino. La forma
aperta, propria di ogni stile dinamico – com’è noto,
anche del barocco – non fa che accentuare l’impressio-
ne di movimento infinito e ininterrotto e la provviso-
rietà di ogni sosta e di ogni conclusione. La predilezio-
ne moderna per l’incompiuto, l’abbozzato, il frammen-
tario, ha qui la sua origine. Dal gotico in poi ogni gran-
de arte – eccettuate le poche, effimere manifestazioni di
classicismo – ha in sé qualcosa di frammentario, un’in-
compiutezza intrinseca o esteriore, un arresto – volon-
tario o involontario – prima dell’ultima parola. Per lo

Storia dell’arte Einaudi 56


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

spettatore o per il lettore, resta sempre qualcosa da fare.


L’artista moderno evita di pronunciare l’ultima parola,
perché sente l’inadeguatezza di ogni parola. Sentimen-
to ignoto prima del gotico.
Ma un edificio gotico non è solo un sistema dinami-
co in se stesso: mette in moto anche chi lo guarda e tra-
sforma l’atto della fruizione artistica in un processo con
una direzione determinata e uno sviluppo graduale. Un
edificio gotico non si lascia mai abbracciare da un solo
punto di vista e non offre da nessuna parte una visione
conclusa e soddisfacente della struttura complessiva; ma
costringe lo spettatore a mutare continuamente di posi-
zione, e solo nella forma di un movimento, di un atto,
di una ricostruzione, gli consente di farsi un’idea del-
l’opera intera90. L’arte greca nell’epoca della democrazia,
in condizioni sociali analoghe, ha suscitato nello spetta-
tore un’attività analoga. Anche allora lo spettatore era
strappato alla tranquilla contemplazione dell’opera d’ar-
te e costretto a partecipare interiormente al movimen-
to del tema rappresentato. La dissoluzione della forma
cubica chiusa e l’emancipazione della plastica dall’ar-
chitettura sono i primi passi del gotico sulla via di quel-
la rotazione delle figure, con cui l’arte classica metteva
in moto l’osservatore. Anche qui il passo decisivo è la
soppressione della frontalità. Questo principio è defini-
tivamente abbandonato; d’ora in poi esso riemerge solo
per brevissimi periodi e forse solo due volte in tutto: al
principio del Cinquecento e sullo scorcio del Settecen-
to. La frontalità, col rigorismo che comporta per l’arte,
sarà d’ora in poi un programma erudito e arcaicizzante
e mai pienamente realizzabile. Anche per questo rispet-
to l’arte gotica è all’origine di una tradizione destinata
a durare ininterrotta fino ai nostri giorni, e superiore –
per significato e portata – a ogni altra tradizione piú
tarda.
Nonostante le somiglianze tra l’illuminismo greco e

Storia dell’arte Einaudi 57


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’illuminismo medievale e le conseguenze che ne deri-


vano per l’arte, il gotico riesce per la prima volta a sosti-
tuire la tradizione antica con qualcosa di affatto nuovo,
opposto e tuttavia non inferiore alla classicità. Solo col
gotico l’antichità è effettivamente superata. La trascen-
denza del gotico era già propria dell’arte romanica, per
molti aspetti piú spiritualizzata di ogni arte piú tarda,
ma formalmente piú vicina alla classicità della pur tanto
piú sensuale e mondana arte gotica. Il gotico è domina-
to da un carattere che cerchiamo invano nell’arte roma-
nica, e che rappresenta la vera novità nei confronti del-
l’antichità classica: la sua sensibilità, che è la forma
tutta particolare in cui si compenetrano lo spiritualismo
cristiano e il sensualismo realistico dell’età gotica. L’in-
tensità affettiva del gotico, in sé, non è nuova; anche la
tarda classicità era commossa, anzi patetica, e anche
l’ellenismo voleva commuovere e rapire, inebriare e
sconvolgere i sensi; ma nuova è l’intimità espressiva che
a ogni opera dell’arte gotica e post-gotica dà un carat-
tere di confessione. E qui ci troviamo nuovamente di
fronte a quel dualismo che pervade tutte le manifesta-
zioni del gotico. Il «carattere di confessione» dell’arte
moderna, che presuppone la genuinità e unicità dell’e-
sperienza, dovrà – d’ora in poi – aprirsi la strada con-
tro una routine sempre piú impersonale e piú piatta.
Perché non appena l’arte supera l’ultimo residuo di pri-
mitiva imperizia, non appena cessa di dover lottare per
la conquista dei mezzi espressivi, affiora subito il peri-
colo di una tecnica sempre pronta a qualunque uso. Col
gotico comincia il lirismo dell’arte moderna, ma comin-
cia anche il moderno virtuosismo.

Storia dell’arte Einaudi 58


Capitolo decimo

Cantieri e Arti

Nei secoli xii e xiii il cantiere era la comunità degli


artisti e degli artigiani addetti alla costruzione di una
grande chiesa, per lo piú di una cattedrale, sotto una
direzione artistica e amministrativa imposta o approva-
ta dai fabbricieri. L’«operaio» (magister operis), a cui
toccava provvedere i materiali e le maestranze, e l’ar-
chitetto (magister lapidum) responsabile del lavoro arti-
stico, della distribuzione dei compiti e della coordina-
zione delle singole attività, furono certo, in molti casi,
una persona sola; ma di regola tali funzioni toccavano a
due individui distinti. Fra il direttore artistico e il diret-
tore amministrativo dovevano esserci rapporti simili a
quelli fra il regista e il direttore di produzione, e del
resto il collettivo di lavoro del film è l’unico perfetto
parallelo del cantiere edilizio. Ma c’è una differenza
essenziale fra i due: di solito il regista lavora con un per-
sonale diverso per ogni film, mentre le variazioni nel
personale di un cantiere non sempre coincidevano col
variare degli incarichi. Una parte degli operai costitui-
va il personale stabile del cantiere e rimaneva fedele
all’architetto anche dopo l’esecuzione di un incarico;
una parte si avvicendava nel corso stesso dei lavori.
Si sa che gli artigiani costituivano gruppi di lavoro
già presso gli Egizi91; Greci e Romani arruolavano nelle
maggiori imprese intere corporazioni di lapicidi; ma
nessuna di queste associazioni aveva il carattere del

Storia dell’arte Einaudi 59


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cantiere edile conchiuso in sé e con amministrazione


propria. Un simile gruppo professionale autonomo
sarebbe stato inconciliabile con lo spirito dell’antichità.
E se nell’alto Medioevo ci fu qualcosa di simile a un
cantiere, non fu che il lavoro comune delle officine di
un monastero impegnate in una determinata costruzio-
ne; mancava uno dei caratteri essenziali delle associa-
zioni piú tarde: la mobilità. È vero che i cantieri del-
l’età gotica, quando la costruzione delle chiese andava
per le lunghe, si fermavano spesso per generazioni nello
stesso luogo; ma quando il lavoro era terminato o inter-
rotto, se ne andavano, sotto la guida dell’architetto, ad
assumere nuovi incarichi92. Ma la libertà di movimen-
to, cosí importante per tutta l’arte di allora, non si
manifestava tanto negli spostamenti dei gruppi, quan-
to nella vita errabonda dei singoli artigiani che anda-
vano e venivano, passando da un’associazione all’altra.
Già nelle officine dei conventi troviamo mano d’opera
estranea e avventizia, se pure la maggioranza degli ope-
rai ivi impiegati erano frati del convento stesso, che
opponevano una forte resistenza agli influssi esterni.
Ma non appena la produzione passa dal convento al can-
tiere e se ne impadroniscono i laici, cessa la stabilità del
lavoro, e quindi la continuità e relativa lentezza dello
sviluppo artistico. Da allora stimoli di ogni provenien-
za vengono accolti e diffusi per ogni dove.
I fabbricieri dell’epoca romanica dovevano general-
mente contentarsi delle prestazioni dei servi e dei vas-
salli; ma quando poterono disporre di denaro, divenne
piú facile impiegar mano d’opera libera e forestiera e
cominciò a formarsi un mercato interregionale del lavo-
ro. L’estensione e il ritmo dell’attività edilizia sono
regolati d’ora in poi dalla disponibilità di liquido, e se
la costruzione delle chiese gotiche si protrae talvolta
per secoli, ciò si deve anzitutto alla periodica scarsità di
denaro. Quando ce n’era, si costruiva rapidamente e

Storia dell’arte Einaudi 60


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

senza interruzione; ma, in tempi di magra, l’attività edi-


lizia subiva rallentamenti e ogni tanto cessava del tutto.
E cosí si sviluppano, a seconda dei mezzi finanziari
disponibili, due forme distinte di organizzazione del
lavoro: un’azienda edilizia regolarmente funzionante,
con personale pressoché stabile; e una produzione inter-
mittente e irregolare, con un numero ora maggiore ora
minore di artisti e artigiani93.
Quando, col risorgere delle città e lo sviluppo dell’e-
conomia monetaria, l’elemento laico prese il sopravven-
to nell’edilizia, gli mancava ancora un’organizzazione
atta a sostituir la disciplina della bottega monastica.
Inoltre la costruzione di una cattedrale gotica era in sé
impresa piú lunga e complicata di quella di una chiesa
romanica; vi si impiegava un maggior numero di operai
e l’esecuzione esigeva un tempo assai piú lungo, per
ragioni intrinseche e, come si è detto sopra, spesso anche
estrinseche. Queste circostanze esigevano una discipli-
na severa, diversa dai metodi tradizionali. La soluzione
fu il cantiere, con le sue precise disposizioni circa l’am-
missione, la retribuzione e l’istruzione della mano d’o-
pera, con la sua gerarchia che comprendeva l’architet-
to, i maestri muratori e i manovali, la restrizione del
diritto alla proprietà artistica individuale e la totale
subordinazione del singolo alle esigenze del lavoro arti-
stico comune. Si mirava ad attuare senza attriti la divi-
sione e l’integrazione del lavoro, la massima specializ-
zazione e il perfetto accordo delle attività singole. Ma
per ciò era necessario un orientamento veramente comu-
ne. Soltanto con la volontaria subordinazione delle ten-
denze personali all’intento dell’architetto, con un
costante e intimo contatto fra il direttore artistico e
ciascuno dei suoi collaboratori, era possibile ottenere il
desiderato livellamento delle differenze individuali
senza distruggere la qualità artistica delle singole pre-
stazioni. Ma come fu possibile una divisione del lavoro

Storia dell’arte Einaudi 61


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di questo genere in un processo spirituale cosí comples-


so come la creazione artistica?
A questo proposito ci sono due posizioni radical-
mente opposte, simili solo per il loro carattere romanti-
co. L’una è incline a scorgere nella collettività della pro-
duzione artistica la condizione stessa del massimo suc-
cesso; per l’altra, invece, l’atomizzazione dei compiti e
la limitazione della libertà individuale mettono per lo
meno in pericolo la realizzazione di vere opere d’arte.
La posizione positiva si riferisce soprattutto all’arte
medievale, la negativa, per lo piú, al cinematografo. I
due punti di vista, nonostante l’opposizione dei risulta-
ti, si fondano sulla stessa concezione dell’essenza del-
l’attività artistica: entrambi scorgono nell’opera d’arte
il prodotto di un atto creativo unitario, indifferenziato,
indivisibile, quasi divino. Il romanticismo ottocentesco
personificò lo spirito collettivo del cantiere in una spe-
cie di anima popolare o di gruppo, individualizzando
cosí qualcosa di essenzialmente non individuale, e facen-
do nascer l’opera – creazione comune di una collettività
– da quest’anima di gruppo concepita come unitaria e
individuale. I critici del film, invece, non dissimulano la
collettività, e cioè la struttura composita del lavoro cine-
matografico, e sottolineano anzi il suo carattere imper-
sonale, o, come suol dirsi, «meccanico», ma proprio
perciò, per l’impersonalità e l’atomizzazione del pro-
cesso creativo, contestano il valore artistico dei risulta-
ti. Essi dimenticano soltanto che anche il modo di lavo-
ro del singolo artista indipendente è ben lontano dal-
l’essere cosí unitario e organico, come vuole l’estetica
romantica. Ogni processo spirituale un tantino com-
plesso – e la creazione artistica è senza dubbio dei piú
complicati – consta di tutta una serie di funzioni piú o
meno indipendenti – coscienti e inconscie, razionali e
irrazionali – e l’intelletto critico dell’artista deve vagliar-
ne i risultati e sottoporli a una redazione conclusiva allo

Storia dell’arte Einaudi 62


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

stesso modo come il capo del cantiere esamina, correg-


ge e armonizza le prestazioni dei singoli operai. L’unità
perfetta delle facoltà e delle funzioni psichiche è una
fantasia romantica non meno insostenibile dell’ipotesi di
un’anima popolare e di gruppo intesa come realtà per sé
stante, al di fuori delle anime individuali. Queste, se si
vuole, son parti e rifrazioni di un’anima collettiva, ma
quest’anima collettiva esiste solo nelle sue componenti
e rifrazioni. Cosí anche l’anima individuale si estrinse-
ca per lo piú solo nelle sue funzioni singole; l’unità delle
sue attitudini – tranne che nello stato di estasi, che non
ha a che fare con l’arte – dev’essere conquistata con fati-
ca e sforzo, non è un dono dell’attimo fuggente.
Il cantiere come associazione di lavoro corrisponde
a un’epoca in cui la Chiesa e le comunità cittadine eran
pressoché i soli interessati alle opere d’arte. Era una
clientela relativamente ristretta, con esigenze soltanto
periodiche e, per lo piú, presto soddisfatte. L’artista
doveva mutare sovente di luogo per trovare impiego e
attività. Ma non doveva girare per il mondo solo e
senz’appoggi: il cantiere a cui poteva aggregarsi posse-
deva l’elasticità richiesta dalle circostanze; s’impianta-
va in un luogo e vi restava finché c’era lavoro, se ne
andava appena non c’era piú nulla da fare, per stabilir-
si nuovamente dove trovava nuova occupazione. Per
quei tempi, esso offriva un ampio margine di sicurez-
za; un abile operaio poteva restarvi quanto voleva, ma
era libero di passare a un altro cantiere o, se gli piace-
va la vita sedentaria, di aggregarsi a una grande Opera
del Duomo, come quelle di Chartres, Reims, Parigi,
Strasburgo, Colonia o Vienna. Solo quando la capacità
d’acquisto della borghesia cittadina crebbe al punto
che i suoi membri poterono costituire, anche in quan-
to privati, una clientela costante per i prodotti dell’ar-
te, l’artista poté svincolarsi dal cantiere e stabilirsi in
una città come maestro indipendente94. Ciò avvenne

Storia dell’arte Einaudi 63


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

solo nel corso del Trecento; ma da principio furono solo


i pittori e gli scultori a emanciparsi dal cantiere e a
diventare imprenditori in proprio. Per quasi due seco-
li i lapicidi rimasero ancor legati ai cantieri, perché solo
verso la fine del Quattrocento il singolo cittadino
cominciò ad agire come impresario edile, a cui ci si
poteva appoggiare. Allora anche i lapicidi abbandona-
no la comunità del cantiere e si aggregano alle Arti, a
cui scultori e pittori appartenevano già da lungo tempo.
La concentrazione degli artisti nelle città e la concor-
renza che ne derivò, resero necessarie fin da principio
misure economiche collettive, che si potevano applica-
re nel modo migliore nel quadro della corporazione,
organizzazione autonoma, che gli altri mestieri si eran
già data da secoli. Nel Medioevo le Arti sorsero dovun-
que un gruppo professionale si sentiva minacciato nella
sua esistenza economica dall’afflusso di elementi fore-
stieri. Esse miravano a escludere o almeno a limitare la
concorrenza. La democrazia interna, da principio ancor
viva, prese subito – verso l’esterno – l’aspetto del piú
intollerante protezionismo. I regolamenti avevano il
solo scopo di proteggere il produttore, e non certo il
consumatore, come voleva l’apparenza e come ancor
oggi vorrebbe far credere l’idealizzazione romantica
delle Arti. L’abolizione della libera concorrenza implicò
fin da principio gravi danni per i consumatori. Anche
i requisiti minimi posti alla qualità dei prodotti indu-
striali non erano prescritti per altruismo, ma formulati
con sufficiente avvedutezza per assicurare uno smercio
regolare e costante95. Ma il romanticismo, che cercò di
contrapporre le Arti allo spirito industriale e mercanti-
le dell’epoca liberale, non si limitò a negarne il carat-
tere fondamentalmente monopolistico e il predominio
in esse di fini egoistici: nell’organizzazione corporativa
del lavoro, nelle norme vigenti per la qualità della merce
e nelle misure pubbliche di controllo volle scorgere un

Storia dell’arte Einaudi 64


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mezzo rivolto a «dare al mestiere la nobiltà dell’arte»96.


In opposizione a questo «idealismo», il Sombart affer-
ma a ragione che «la massa degli artigiani non ha mai
raggiunto un alto livello artistico» e che mestiere e pro-
duzione artistica sono sempre state due cose ben distin-
te97. Ma, anche se gli statuti delle corporazioni posso-
no aver contribuito alla miglior qualità dei prodotti
industriali – che in realtà non avevano nulla a che fare
con l’arte – essi costituivano, per l’artista, nello stesso
tempo remore e stimoli. Ma l’Arte, per quanto illibe-
rale, fu un reale progresso sul cantiere, proprio dal
punto di vista della libertà artistica.
Cantiere e Arte si distinguono soprattutto perché il
primo è una organizzazione gerarchica di salariati ai fini
di un lavoro comune, mentre l’altra, almeno in origine,
è una associazione ugualitaria di imprenditori autonomi.
Il cantiere è un istituto collettivo, in cui nessuno è libe-
ro, neppure l’impresario o l’architetto, che deve sempre
regolarsi secondo un programma formulato dall’auto-
rità ecclesiastica e generalmente elaborato fin nei mini-
mi particolari. Invece, nelle singole botteghe che fanno
capo all’Arte, il maestro è padrone, non solo d’impiegare
come vuole il suo tempo, ma anche nella scelta dei mezzi
artistici. Gli statuti delle Arti, benché molto stretti, si
limitano per lo piú alle prescrizioni tecniche e non si
estendono alle questioni propriamente artistiche, a dif-
ferenza delle direttive a cui dovevano attenersi gli arti-
sti dei cantieri. Le norme corporative, se restringono la
libertà di movimento dei maestri, non prescrivono che
cosa essi debbano fare o non fare, entro certi limiti per
lo piú considerati come ovvi. La personalità artistica non
è ancora sentita come tale, la bottega è tuttora organiz-
zata come ogni altra azienda artigiana, e il pittore non
si sente per nulla sminuito dal fatto di appartenere alla
stessa corporazione dei sellai; ma nel maestro indipen-
dente, abbandonato a se stesso, solo responsabile del-

Storia dell’arte Einaudi 65


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’opera sua, il tardo Medioevo preannunzia già il libero


artista moderno98.
Nulla definisce la tendenza di sviluppo dell’arte
medievale meglio del progressivo allontanamento del
luogo di lavoro degli artisti dalla piazza della chiesa. Nel
periodo romanico tutto il lavoro artistico si svolge sul-
l’edificio stesso. La decorazione pittorica delle chiese
consiste esclusivamente di affreschi, che naturalmente
si possono eseguire solo in loco. Ma anche la decorazio-
ne plastica nasce sulle impalcature: lo scultore lavora
après la pose, cioè sbozza e scalpella la pietra dopo che
il muratore l’ha incastrata nella parete. I cantieri, che
sorgono nel secolo xii, determinano, anche per questo
rispetto, un cambiamento, come è già stato osservato da
Viollet-le-Duc. Il cantiere offre allo scultore un labora-
torio piú comodo e tecnicamente meglio attrezzato del-
l’impalcatura. Per lo piú egli esegue le sue sculture dal
principio alla fine nell’atelier; non piú in chiesa, ma
accanto alla chiesa. All’edificio si applicano solo i pezzi
già finiti. Il mutamento non fu certo cosí brusco come
suppone Viollet-le-Duc99. Il sopravvento della tavola
dipinta sull’affresco ha nel campo della pittura lo stes-
so significato. L’ultima fase dello sviluppo è nella defi-
nitiva separazione del laboratorio dall’edificio. Pittori e
scultori abbandonano la piazza della chiesa per ritirarsi
nelle loro botteghe, e talvolta non vedono neppure le
chiese per cui debbono eseguire ancone o cibori.
Tutta una serie di caratteri stilistici del gotico tardo
dipende dalla separazione del laboratorio dal luogo a cui
l’opera è destinata. Con lo spostamento della produzio-
ne artistica dal cantiere alla bottega, è soprattutto in rap-
porto il tratto piú «moderno» dell’arte del tardo
Medioevo: la modestia borghese dei suoi prodotti, le
loro dimensioni ridotte e senza pretese. I borghesi, in
quanto privati cittadini, non fanno ancora costruire
chiese e manieri, né ordinano cappelle sepolcrali o cicli

Storia dell’arte Einaudi 66


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di affreschi, ma solo cibori e pale d’altare; ma li ordi-


nano a centinaia e a migliaia. Questi generi corrispon-
dono cosí al potere d’acquisto come al gusto della bor-
ghesia, e corrispondono anche all’attività di piccola
industria degli artisti indipendenti. Nell’angusto spazio
della bottega cittadina, coi pochi aiuti di cui il maestro
dispone, si possono assolvere solo ordinazioni relativa-
mente modeste. Queste circostanze favoriscono pure
l’uso del legno, leggero, agevole e a buon mercato. È dif-
ficile dire se la modestia del formato e del materiale sia
la conseguenza di un mutamento di stile, o se il nuovo
stile, piú vario, flessibile ed espressivo, sia la conse-
guenza di queste condizioni materiali. Le piccole dimen-
sioni e il materiale meno ostico invitano, in ogni caso,
a innovazioni ed esperimenti, e favoriscono fin da prin-
cipio la tendenza a uno stile piú dinamico, piú espansi-
vo, piú ricco di temi100. Non solo le statue lignee dei
cibori, ma anche i monumenti di pietra abbandonano i
modi grandiosi, grevi, solenni, per uno stile piú minu-
to, leggero, intimo; ma ciò di per sé non prova nulla con-
tro l’influsso del materiale sullo stile; nulla di piú natu-
rale che si affermi anche nella pietra lo stile della scul-
tura in legno in un periodo in cui questa prende il
sopravvento. Comunque sia, le forme artistiche tendo-
no – in ogni formato e in ogni materiale – alla gentilez-
za, alla raffinatezza, alla leggiadria. Assistiamo qui alla
prima vittoria del virtuosismo moderno, della tecnica
troppo facile, dei mezzi troppo agevoli, che non offro-
no resistenza. Ma questo virtuosismo non è, in un certo
senso, che un sintomo di quel processo che condurrà, nel
gotico tardo, e cioè nell’epoca dell’economia monetaria
pienamente sviluppata e della produzione mercantile,
all’industrializzazione della pittura e della scultura, e a
un gusto per cui il dipinto è un ornamento della parete,
e la statua un oggetto d’arredamento.
Si può, anzi si deve star contenti a questa corri-

Storia dell’arte Einaudi 67


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

spondenza fra storia degli stili e storia dell’organizza-


zione del lavoro. Sarebbe ozioso chiedersi quale sia l’e-
lemento primario e quale il secondario. Basta indicare
che alla fine del Medioevo artisti sedentari, industria di
bottega, materiali docili e a buon prezzo si accompa-
gnano al piccolo formato e a forme leggiadre, strane e
capricciose.

Storia dell’arte Einaudi 68


Capitolo undicesimo

L’arte borghese del gotico tardo

Il tardo Medioevo non vede soltanto il successo della


borghesia: è un’epoca borghese. L’economia monetaria
e mercantile, che determina l’intera evoluzione a parti-
re dai secoli centrali del Medioevo, conduce all’indi-
pendenza politica e culturale, e piú tardi all’egemonia
intellettuale della borghesia urbana. Come nell’econo-
mia, cosí anche nell’arte e nella cultura questo ceto rap-
presenta la tendenza piú progressiva e piú feconda. Ma
la borghesia del tardo Medioevo è un organismo socia-
le straordinariamente complesso, diviso nei piú vari
gruppi d’interessi, e di cui sarebbe difficile segnare i
confini sia verso l’alto che verso il basso. L’antica
uniformità, gli scopi economici comuni e le tendenze
politiche egualitarie hanno ceduto il passo a una ten-
denza irresistibile che conduce alla differenziazione
secondo il censo. Non solo alta e piccola borghesia, com-
mercio e artigianato, capitale e lavoro si separano sem-
pre piú nettamente; ma si formano anche numerosi stadi
di transizione fra l’impresa capitalistica e la piccola indu-
stria da un lato, il padrone indipendente e il proletaria-
to operaio dall’altro. Nei secoli xii e xiii la borghesia lot-
tava ancora per l’esistenza materiale e la libertà; ora
lotta per conservare i propri privilegi contro i nuovi ele-
menti che vengono dal basso. Il ceto progressivo in lotta
per il progresso sociale, si è trasformato in una classe
sazia, conservatrice.

Storia dell’arte Einaudi 69


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

L’inquietudine che nel secolo xii aveva scosso le basi


del feudalesimo e aveva poi sempre continuato a cre-
scere, raggiunge il suo acme nelle rivolte e nelle lotte
salariali del tardo Medioevo. Tutta la società è divenu-
ta instabile. La borghesia, sazia e sicura com’è, aspira al
prestigio della nobiltà e cerca d’imitare i costumi ari-
stocratici; la nobiltà cerca a sua volta di adattarsi allo
spirito economico e affaristico, alla visione razionalisti-
ca della borghesia. Ne consegue un vasto livellamento
sociale: da un lato l’ascesa delle classi medie, dall’altro
il declino dell’aristocrazia. Si accorcia la distanza fra gli
strati superiori della borghesia e gli strati inferiori e
meno agiati della nobiltà: mentre le differenze econo-
miche diventano sempre piú insuperabili. Implacabile
diventa l’odio del cavaliere povero verso il ricco bor-
ghese, irriducibile l’opposizione fra il salariato senza
diritti e il padrone privilegiato.
Ma anche in alto l’edificio sociale mostra pericolose
crepe; la spina dorsale della vecchia e potente feudalità,
che sfidava i principi, è spezzata. Col trapasso dall’eco-
nomia naturale all’economia monetaria, anche l’alta
nobiltà piú o meno indipendente si trasforma in una
clientela del re. In seguito alla dissoluzione della servitú
della gleba e alla trasformazione delle terre feudali in
poderi dati in affitto o coltivati da braccianti liberi, i
proprietari possono essere diventati piú poveri o piú
ricchi, ma non dispongono piú degli uomini con cui
potevano guerreggiare coi re. La nobiltà feudale scom-
pare, ed è sostituita dalla nobiltà di corte, che trae i suoi
privilegi dal servizio del re. Anche prima, senza dubbio,
il seguito del principe si componeva di nobili, ma essi
erano indipendenti dalla corte o potevano rendersene
indipendenti in qualsiasi momento. Tutta la vita dei
nuovi cortigiani dipende invece dal favore e dalla gra-
zia del monarca. I nobili diventano funzionari di corte,
e i funzionari nobili. L’antica nobiltà di spada si mesco-

Storia dell’arte Einaudi 70


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

la con la nuova nobiltà di diploma, e nella nuova ari-


stocrazia mista, tra cortigiana e burocratica, che esse
finiscono per costituire, non sono sempre i membri del-
l’antica nobiltà ad avere la parte piú importante. I re
preferiscono scegliere tra i borghesi i loro legali e i loro
economisti, i loro segretari e i loro banchieri; il valore
professionale determina la scelta. Anche qui prevalgo-
no le direttive dell’economia monetaria: il criterio della
concorrenza, l’indifferenza dei mezzi atti a un determi-
nato fine, la trasformazione delle relazioni personali in
rapporti oggettivi. Il nuovo stato, tendenzialmente asso-
lutistico, non si fonda piú sulla fedeltà dei vassalli e sulla
lealtà, ma sulla dipendenza materiale di una burocrazia
stipendiata e di un esercito mercenario permanente. Ma
questa metamorfosi diventa possibile solo quando i
nuovi criteri dell’economia monetaria cittadina si sono
estesi a tutta l’amministrazione statale, e quando si pos-
sono trovare i mezzi necessari al mantenimento di un
sistema cosí costoso.
La nobiltà si trasforma – nella sua struttura – insie-
me con lo stato, ma conserva il rapporto col proprio pas-
sato. Decade invece del tutto la cavalleria come unico
ceto guerriero e come portatrice della cultura laica. È un
processo lungo, e gli ideali cavallereschi non perdono
dall’oggi al domani il loro seducente splendore, almeno
agli occhi della borghesia. Ma sotto sotto, tutto prepa-
ra la disfatta di Don Chisciotte. Si è voluto attribuire
la decadenza della cavalleria alla nuova tecnica militare
del tardo Medioevo, e si è fatto notare che la cavalleria
pesante, dovunque si scontrò con la nuova fanteria mer-
cenaria o con le brigate contadine, subí gravi batoste.
Essa fuggí davanti agli arcieri inglesi, ai lanzi svizzeri,
all’esercito nazionale polacco-lituano, cioè davanti a ogni
armamento diverso dal proprio, davanti a ogni forza
militare che non accettava le sue regole di guerra. Ma la
nuova tecnica militare non fu la vera causa delle scon-

Storia dell’arte Einaudi 71


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

fitte della cavalleria; anche questa tecnica non era che


un segno, una espressione del razionalismo del nuovo
mondo borghese, in cui la cavalleria non riusciva a ritro-
varsi. L’arma da fuoco, il carattere anonimo della fan-
teria, la rigida disciplina degli eserciti di massa, tutto ciò
implicava la meccanizzazione e razionalizzazione della
guerra, e l’inattualità dell’impostazione individuale ed
eroica della cavalleria. Le battaglie di Crécy, Poitiers,
Azincourt, Nicopoli, Varna, Sempach non furono per-
dute per ragioni tecniche, ma perché i cavalieri, anziché
un vero esercito, formavano unità staccate e indiscipli-
nate di avventurieri, e tenevano alla gloria personale piú
che alla vittoria comune101. Che l’invenzione delle armi
da fuoco e l’impiego di fanterie mercenarie abbian
democratizzato il servizio militare e reso quindi inutile
la cavalleria è una tesi nota, ma che non può essere
accettata senza forti limitazioni. È stato fatto giusta-
mente notare102, contro questa teoria, che le armi caval-
leresche non furono soppiantate e rese inutili dalla cara-
bina e dall’archibugio, senza contare che i fanti per lo
piú combattevano con archi e spiedi, e non con armi da
fuoco. Anzi, il tardo Medioevo segnò l’apogeo dello svi-
luppo degli armamenti pesanti della cavalleria, che fino
alla guerra dei Trent’anni conservò la sua importanza,
spesso decisiva, accanto alla fanteria. Non è vero, del
resto, che le fanterie fossero costituite esclusivamente di
contadini; nei loro ranghi troviamo figli di borghesi e
gentiluomini. La cavalleria è diventata un anacronismo,
non perché sono invecchiate le sue armi, ma perché è
invecchiato il suo «idealismo» e il suo irrazionalismo. Il
cavaliere non capiva le molle della nuova economia,
della nuova società, del nuovo stato; e il borghese, col
suo denaro e il suo «spirito di merciaio», continuava a
sembrargli un’anomalia. Il borghese sapeva invece come
regolarsi col cavaliere. Partecipava con piacere alla
mascherata dei tornei cavallereschi e delle corti d’amo-

Storia dell’arte Einaudi 72


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

re, ma tutto questo, per lui, non era che un gioco; negli
affari era freddo, duro e senza illusioni, insomma tutt’al-
tro che cavalleresco.
Molto piú intimamente che con la nobiltà feudale, la
borghesia si mescola con le «grandi famiglie» cittadine.
A poco a poco i «nuovi ricchi» vengono considerati dal-
l’antico patriziato come suoi pari, e infine pienamente
assimilati per via di matrimoni. Non ogni ricco cittadi-
no è senz’altro un patrizio; tuttavia non è mai stato cosí
facile per un plebeo farsi strada fra l’aristocrazia col solo
aiuto della sua ricchezza. L’antica nobiltà cittadina e i
nuovi capitalisti si dividono il governo della città e costi-
tuiscono la nuova classe dirigente, caratterizzata soprat-
tutto dall’eleggibilità al consiglio comunale. Fanno parte
di questo ceto anche le famiglie i cui membri, pur non
avendo un seggio in consiglio, tuttavia, per la loro posi-
zione economica, sono considerati pari grado dei consi-
glieri e possono entrare nelle loro famiglie attraverso
matrimoni. Questi notabili, che, direttamente o indi-
rettamente, ricoprono le cariche cittadine, formano
ormai una casta rigidamente chiusa; i loro costumi
hanno un carattere del tutto aristocratico e il loro domi-
nio si fonda su un monopolio degli uffici e delle dignità
quasi altrettanto esclusivo di quello dell’antica nobiltà
feudale. Lo scopo e il senso vero del dominio di questa
classe è tuttavia il monopolio economico. Dappertutto,
e specie nei grossi affari d’esportazione, essi dominano
il mercato, già solo in quanto sono i possessori delle scor-
te di materie prime. Si trasformano da industriali in
commercianti, e fanno lavorare altri per sé; essi si limi-
tano a provvedere le materie prime e a pagare un sala-
rio fisso per il lavoro. L’originaria uguaglianza degli
artigiani organizzati nelle Arti cede cosí il passo a una
differenziazione graduata secondo la potenza politica e
i mezzi finanziari103. Da principio i piccoli maestri ven-
gono scacciati dalle Arti maggiori, poi anch’essi si pre-

Storia dell’arte Einaudi 73


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

muniscono contro l’afflusso dal basso e proibiscono ai


compagni piú poveri di giungere al grado di maestri. I
piccoli artigiani perdono a poco a poco ogni influsso sul
governo cittadino, specie sulla distribuzione dei grava-
mi e dei privilegi economici, e alla fine si adattano alla
sorte di una piccola borghesia diseredata. I compagni
scendono al livello di salariati permanenti, e, cacciati
dalle Arti, si riuniscono in nuove compagnie. Cosí fin
dal Trecento si sviluppa una particolare classe di lavo-
ratori, che, esclusa da ogni possibilità di ascesa, costi-
tuisce ormai il substrato della nuova forma di produ-
zione, già molto simile alla moderna industria104.
Se si possa fin d’ora parlare di capitalismo, dipende
dalla definizione che si dà di questo termine. Se per eco-
nomia capitalistica s’intende l’allentarsi dei vincoli asso-
ciativi, il progressivo espandersi della produzione oltre
i confini, ma anche oltre la sicurezza offerta dalle cor-
porazioni; cioè un’attività economica e affaristica eser-
citata in proprio e guidata dal principio della concor-
renza e dal criterio del profitto, non si può non asse-
gnare già il pieno Medioevo all’età capitalistica. Se si
ritiene inadeguata questa definizione e si considera come
caratteristica essenziale del capitalismo lo sfruttamento
– da parte delle imprese – di mano d’opera estranea e il
dominio del mercato del lavoro attraverso la proprietà
dei mezzi di produzione, e cioè la trasformazione del
lavoro da servizio in merce, occorre datare gli inizi del-
l’era capitalistica dal xiv e dal xv secolo. Certo non si
può ancora parlare – neppure per il tardo Medioevo –
di una vera accumulazione del capitale, di grandi riser-
ve liquide nel senso moderno, e neppure di un’economia
coerentemente razionalistica, regolata solo ed esclusiva-
mente dal principio del rendimento. Ma la tendenza al
capitalismo è innegabile fin d’ora. L’individualismo eco-
nomico, il graduale estinguersi dell’idea di comunità, la
fredda praticità delle relazioni personali guadagna ter-

Storia dell’arte Einaudi 74


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

reno dovunque; per quanto ancora lontana dalla realiz-


zazione integrale del concetto di capitalismo, l’epoca è
sotto il segno della nuova forma economica e sotto il
dominio della borghesia, in quanto rappresentante del
nuovo modo di produzione.
Nel pieno Medioevo la borghesia urbana non parte-
cipava ancora direttamente alla creazione della cultura;
gli elementi borghesi erano, come artisti, poeti e pensa-
tori, i delegati del clero e della nobiltà, esecutori e media-
tori di una concezione che non aveva radici nella loro
mentalità. La situazione muta radicalmente nel tardo
Medioevo; i costumi cavallereschi, il gusto di corte, le
tradizioni ecclesiastiche restano, sotto molti rispetti, nor-
mativi anche per l’arte e la cultura borghese, ma ora la
borghesia è la vera portatrice della cultura: le opere d’ar-
te sono ordinate per lo piú da privati cittadini, non da
re o principi della Chiesa, come nell’alto Medioevo, o
dalle corti e dai municipi, come nell’età gotica. Nobiltà
e clero continuano a esercitare la funzione di fondatori
e fabbricieri, ma il loro influsso non è piú creativo: gli
stimoli innovatori provengono ormai quasi sempre dalla
borghesia. La concezione artistica di un ceto cosí com-
plesso e scisso da cosí profondi contrasti non poteva
naturalmente essere unitaria: non si deve pensare, per
esempio, che fosse in tutto e per tutto popolare. Per
quanto i fini artistici e i criteri di valore della borghesia
fossero diversi da quelli del clero e della nobiltà, proprio
ingenui e popolari, e cioè comprensibili senza premesse
culturali, non erano. Il gusto di un mercante poteva esse-
re piú «volgare», realistico e materiale di quello di un
fabbriciere della prima età gotica, ma non era per que-
sto molto piú semplice, né meno estraneo alla concezio-
ne del basso popolo. Spesso le forme di un dipinto o di
una scultura tardogotica ispirata al gusto borghese erano
anche piú raffinate e capricciose delle forme corrispon-
denti di un’opera gotica piú antica.

Storia dell’arte Einaudi 75


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Il carattere popolare del gusto si rivela piuttosto nella


letteratura, che anche ora – come quasi sempre quando
si tratta di un «patrimonio culturale decaduto» – pene-
tra in strati sociali piú bassi che non possa fare l’arte
figurativa, coi suoi prodotti accessibili solo ai ricchi.
Ma anche il carattere popolare delle opere letterarie non
è che la manifestazione di uno spirito meno prevenuto,
piú disposto a liberarsi dai pregiudizi morali ed estetici
della cavalleria; non troviamo mai una vera poesia popo-
lare; mai si afferma la spontanea arte del popolo, indi-
pendente dalla tradizione letteraria dei ceti superiori.
L’apologo medievale è sempre stato considerato dalla
storia della letteratura e dal folclore come la diretta
espressione dell’anima popolare. Secondo la teoria
romantica, accolta fino a poco fa da tutti, le storie di ani-
mali, tramandate oralmente, passarono dal semplice
popolo analfabeta nella letteratura, dove rappresente-
rebbero una sedimentazione tarda, e parzialmente defor-
mata, delle forme popolari originarie. In realtà il pro-
cesso sembra essersi svolto in senso inverso. Non cono-
sciamo apologhi popolari piú antichi del Roman de
Renart; quelli francesi, finnici, ucraini derivano già tutti
dall’apologo letterario, da cui discende, con ogni pro-
babilità, anche la poesia favolistica del Medioevo105. Lo
stesso vale per la canzone popolare del tardo Medioevo:
che non è se non un tardo rampollo della lirica dei tro-
vatori e dei vagantes, la semplificazione e popolarizza-
zione della canzone amorosa letteraria. Essa fu diffusa
dai giullari piú umili che «suonavano e cantavano per la
danza e recitavano appunto le canzoni che vengono con-
siderate come le canzoni popolari dei secoli xiv, xv e
xvi, e che erano cantate in coro anche dai danzatori...
Molto di ciò che elaborava la poesia latina di allora
passò – attraverso di loro – nel canto popolare»106. Che,
infine, i cosiddetti «libri popolari» del tardo Medioevo
non siano che la versione volgare e prosaica degli anti-

Storia dell’arte Einaudi 76


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

chi romanzi cortesi, è cosa abbastanza nota e non occor-


re insistervi.
In un solo genere letterario, nel dramma, ci trovia-
mo di fronte a qualcosa che può considerarsi una poesia
popolare tardogotica. Neppure qui possiamo parlare di
una creazione originale del «popolo», ma almeno della
continuazione di una schietta tradizione popolare, tra-
mandatasi nel mimo fin dalla piú remota antichità e rac-
colta nel Medioevo dal dramma sacro e profano. Insie-
me con la tradizione del mimo sono passati nel teatro
medievale numerosi motivi della poesia d’arte, soprat-
tutto della commedia romana; ma anch’essi avevano
radici cosí profonde nel terreno popolare, che per lo piú
non fanno che rendere al popolo quel ch’era già suo. Ma
specialmente il teatro religioso del Medioevo è vera arte
popolare, perché non solo gli spettatori, ma anche gli
attori provenivano da ogni ceto sociale. I membri della
compagnia sono chierici, mercanti, artigiani, in parte
gente qualunque; dilettanti insomma, ben diversi dagli
attori del teatro profano, che sono mimi, danzatori e
cantori di mestiere. Lo spirito del dilettantismo, che non
riuscí mai ad affermarsi nelle arti figurative fino all’e-
poca moderna, si fa valere nella poesia medievale a ogni
avvicendarsi degli elementi portatori di cultura. Anche
i trovatori sono, da principio, dilettanti, e solo a poco a
poco si trasformano in poeti di mestiere. Dopo il tra-
monto della cultura cortese, gran parte di questi poeti,
che vivevano di impieghi piú o meno regolari presso le
corti, resta disoccupata e sparisce a poco a poco. Per il
momento la borghesia non è abbastanza ricca, né ha tali
pretese letterarie, da accoglierli e mantenerli tutti. Ai
giullari subentrano – almeno in parte – nuovi dilettan-
ti che continuano ad attendere alle loro occupazioni
borghesi dedicando le ore d’ozio alla poesia. Essi por-
tano nella poesia lo spirito del loro mestiere, anzi sot-
tolineano ed esagerano gli elementi tecnici e artigianali

Storia dell’arte Einaudi 77


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

della creazione poetica, quasi a riscattare il loro dilet-


tantismo che mal si adatta al solido stile della vita arti-
giana. Come gli attori del dramma religioso, anch’essi si
associano in corporazioni, sottoponendosi a mille rego-
le, precetti e divieti, che per molti rispetti ricordano gli
statuti delle Arti. E questo carattere artigiano non si
manifesta solo nella poesia degli artigiani dilettanti, ma
anche nelle opere di quei poeti di mestiere che, nello
stesso spirito, si chiamano «maestri» e «maestri canto-
ri», e si sentono infinitamente superiori agli umili giul-
lari. Essi si foggiano difficoltà artificiali, soprattutto
nella tecnica del verso, per eclissare, col loro virtuosismo
e la loro dottrina, la massa incolta dei giullari. Questa
poesia di scuola, che si ricollega, sia dal punto di vista
formale, sia da quello del contenuto, all’ormai antiqua-
ta poesia cortese, non solo è la forma artistica piú lon-
tana dalla tendenza naturalistica del gotico tardo – e
quindi la meno popolare –, ma è anche il genere lette-
rario meno fecondo del tempo.
Il naturalismo dell’arte gotica nel suo fiore corri-
sponde in certo qual modo a quello della Grecia classi-
ca; l’imitazione della realtà si muove anche qui nei limi-
ti di severe forme compositive e rinuncia ai particolari
che possono mettere in pericolo l’unità della composi-
zione. Il naturalismo tardogotico spezza (come l’arte del
iv secolo a. C. e dell’ellenismo), questa unità formale,
e si dedica all’imitazione della realtà con una noncu-
ranza spesso brutale per la struttura formale. Non già
il naturalismo in sé è proprio dell’arte tardogotica, ma
la scoperta del valore intrinseco di questo naturalismo,
che è ormai sovente fine a se stesso e non è piú – o non
è piú del tutto – al servizio di un significato simbolico
e soprannaturale. I significati trascendenti non manca-
no neppure qui, ma l’opera d’arte è prima di tutto
un’immagine, e non un simbolo che si serve delle forme
naturali come di semplici mezzi. La natura in sé non è

Storia dell’arte Einaudi 78


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ancora piena di significato, ma è già abbastanza inte-


ressante per essere studiata e rappresentata per se
medesima. Nella letteratura borghese del tardo Medioe-
vo – apologo e farsa, romanzo in prosa e novella – si
manifesta già un naturalismo tutto profano, gustoso e
robusto, in radicale contrasto con l’idealismo dei
romanzi cavallereschi e coi sentimenti sublimati della
lirica d’amore aristocratica. Qui per la prima volta i
caratteri sono vivi e veri: e comincia il predominio della
psicologia nella letteratura. Tratti di carattere esatta-
mente osservati appaiono già nella precedente lettera-
tura medievale – la Divina Commedia ne è piena – ma,
sia per Dante che per Wolfram von Eschenbach, quel-
lo che piú importa non è l’individualità psicologica, ma
il valore simbolico dei personaggi; che non hanno il loro
significato e la loro giustificazione in sé, ma rispec-
chiano un significato che trascende di gran lunga la
loro esistenza individuale. Le descrizioni di caratteri
nella letteratura del tardo Medioevo si distinguono dai
modi piú antichi per il fatto che i poeti non scoprono
piú come per caso i singoli tratti delle loro figure, ma
li cercano, li raccolgono, li spiano. Ma proprio questa
vigilanza psicologica è, piú di ogni altra cosa, un pro-
dotto della vita urbana e dell’economia mercantile.
L’accentrarsi in una città di tanta gente diversa, la ric-
chezza e il frequente avvicendarsi dei tipi che s’incon-
trano ogni giorno, bastano già di per sé ad acuire lo
sguardo per le peculiarità dei caratteri; ma il vero impul-
so all’osservazione psicologica è l’esigenza – essenziale
nel mercante – di conoscere gli uomini e di saper
apprezzare giustamente chi è in rapporto d’affari con
lui. La nuova economia urbana, che strappa l’uomo alla
stasi delle consuetudini e delle tradizioni, immergen-
dolo in una realtà dinamica, in un mondo in cui muta-
no di continuo attori e condizioni, spiega anche la
nuova curiosità dell’uomo per le cose del suo ambien-

Storia dell’arte Einaudi 79


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

te. Poiché questo è ormai il vero teatro della sua vita,


in esso egli dovrà far buona prova, e dovrà quindi cono-
scerlo a fondo. Cosí ogni particolare della vita diventa
oggetto di osservazione e di rappresentazione: non sol-
tanto l’uomo, ma gli animali e le piante, non soltanto
la natura viva, ma la casa e le suppellettili, la foggia del
vestire e gli arnesi diventano motivi in sé validi del-
l’arte.
L’uomo di quest’epoca borghese che è il tardo
Medioevo, considera il mondo con altri occhi e da un
punto di vista diverso da quello dei suoi antenati, tutti
rivolti alla vita futura. Egli è, per cosí dire, al margine
della via su cui scorre variopinta, inesauribile, inconte-
nibile la vita; e non solo tutto ciò che vi si svolge gli sem-
bra degnissimo di osservazione, ma egli stesso si sente
coinvolto in quella vita e in quell’attività. «Paesaggio dei
viaggi»107 è il tema pittorico piú adeguato dell’epoca, e
nell’altare di Gand la processione dei pellegrini è, in
certo qual modo, il paradigma della sua visione del
mondo. L’arte tardogotica torna sempre a rappresenta-
re il viandante, chi passa e chi parte: dappertutto cerca
di suscitare l’illusione della via, e sempre le sue figure
sono sospinte dal desiderio del movimento, dall’amore
del vagabondaggio108. Le immagini passano davanti allo
spettatore come le scene di una processione: lo spetta-
tore è spettatore e attore a un tempo. E questo metter-
si «al margine della via», sopprimendo la netta divisio-
ne fra ribalta e uditorio, è l’espressione tutta particola-
re, che potremmo quasi definire «cinematografica», del
senso dinamico della vita proprio dell’epoca. Anche lo
spettatore è sul palco, e la platea è insieme lo scenario.
Palcoscenico e platea, realtà estetica ed empirica si toc-
cano, formano un mondo solo, continuo: il principio di
frontalità è del tutto abolito, l’arte mira all’illusione
completa. Davanti all’opera non si è piú esclusi, come
chi abiti in un altro mondo, ma si è tratti nella sua

Storia dell’arte Einaudi 80


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sfera; e solo identificando l’ambiente della scena con


quello in cui ci si trova si raggiunge la perfetta illusione
dello spazio. Ora che la cornice del quadro è sentita
come la cornice di una finestra attraverso la quale si apre
lo sguardo sul mondo, e induce in chi guarda l’impres-
sione di uno spazio continuo al di qua e al di là della
«finestra», solo ora lo spazio pittorico acquista profon-
dità e realtà. È dunque merito della nuova visione «cine-
matografica», condizionata dal senso dinamico della
vita, se il tardo Medioevo è in grado di rappresentare lo
spazio reale – lo spazio come noi l’intendiamo – ciò che
non era riuscito all’antichità né all’alto Medioevo. Ed è
soprattutto a questa spazialità che le opere tardogotiche
debbono il loro aspetto naturalistico. Benché lo spazio
illusorio del tardo Medioevo, confrontato con la conce-
zione rinascimentale della prospettiva, sia ancora piut-
tosto inesatto e incoerente, si manifesta già, nella nuova
rappresentazione dello spazio, il nuovo realismo della
borghesia.
La cultura cortese e cavalleresca non cessa nel frat-
tempo di esistere e di operare, e non solo indiretta-
mente, attraverso le forme della cultura borghese, che
hanno in essa, per piú rispetti, le loro radici, ma anche
nelle forme sue proprie, che in alcuni centri, e soprat-
tutto alla corte di Borgogna, hanno una tarda ma rigo-
gliosa fioritura. Qui si può e si deve ancora parlare di
una cultura aulica e aristocratica opposta a quella bor-
ghese. La poesia si muove ancora nelle forme della vita
cavalleresca, e l’arte è ancor sempre al servizio della
società di corte. Anche la pittura dei van Eyck, che ci
sembra cosí borghese, si sviluppa nella vita di corte, ed
è destinata ai circoli della corte e alla borghesia illustre
in rapporto con essi109. Ma stupisce – e rivela nel modo
piú chiaro il trionfo dello spirito borghese sullo spirito
cavalleresco – che il naturalismo prevalga anche nell’ar-
te aulica, e persino nella sua forma piú lussuosa, la

Storia dell’arte Einaudi 81


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

miniatura. I libri d’ore dipinti per i duchi di Borgogna


e per il duca di Berry non solo rappresentano l’inizio del
«quadro di costume», e cioè del genere pittorico per
eccellenza «borghese», ma per certi aspetti sono l’ori-
gine di tutta la pittura borghese, dal ritratto al paesag-
gio110. Insieme con lo spirito dell’antica arte ecclesiasti-
ca e aulica, scompaiono a poco a poco anche le forme
esteriori: l’affresco monumentale è sconfitto dal quadro
di cavalletto, l’aristocratica miniatura dalla stampa. E la
forma che prevale non è soltanto meno costosa, «piú
democratica», ma piú intima, piú affine all’animo bor-
ghese. Solo il quadro su tavola libera dall’architettura il
dipinto, facendone un arredo della casa privata.
Ma la tavola dipinta è ancora destinata al personag-
gio esigente e facoltoso; l’arte della gente modesta, dei
piccoli borghesi, se non dei contadini e dei proletari, è
la stampa. Xilografia e incisione in rame sono i primi
prodotti popolari, relativamente a buon mercato, del-
l’arte figurativa. La riproduzione meccanica permette di
raggiungere lo scopo conseguito dalla poesia con la reci-
ta ripetuta di fronte a vasti uditori. La stampa è il
riscontro popolare dell’aristocratica miniatura; quel
ch’erano i codici miniati per principi e gran signori,
sono per i borghesi le incisioni, singole o raccolte in
fascicoli, messe in vendita nelle fiere e alle porte delle
chiese. La tendenza a diffondere l’arte fra il popolo è ora
cosí forte, che la xilografia, piú grossolana e a buon
mercato, trionfa non solo sulla miniatura, ma anche sul-
l’incisione in rame, piú fine e piú costosa111. Non si può
dire quanto abbia influito sullo sviluppo dell’arte moder-
na la diffusione di queste stampe. Una cosa è certa: se
l’opera d’arte perde a poco a poco quel carattere magi-
co, quell’«aura» che possedeva ancora nell’alto Medioe-
vo, e mostra una tendenza che corrisponde al «disin-
cantamento della realtà» operato dal razionalismo bor-
ghese, ciò avviene anche perché ormai essa non è piú

Storia dell’arte Einaudi 82


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

unica, ma si può cambiare e sostituire, grazie alla ripro-


duzione meccanica112. Un epifenomeno della tecnica e
dello sfruttamento della stampa è anche la natura sem-
pre meno personale dei rapporti fra l’artista e il pubbli-
co. La stampa, prodotta meccanicamente, circolante in
molti esemplari e diffusa quasi sempre per mezzo di
intermediari, ha, rispetto all’opera d’arte originale, un
esplicito carattere di merce. E se il lavoro di bottega,
dove i garzoni si dedicavano alle copie, tende già alla
«produzione di merci», la stampa, coi molteplici esem-
plari di una stessa immagine, costituisce un perfetto
esempio della produzione di scorte, e proprio in un
campo che prima conosceva solo il lavoro su ordinazio-
ne. Nel secolo xv sorgono officine in cui si copiano in
serie anche i manoscritti, illustrandoli con rapidi schiz-
zi a penna; e gli esemplari finiti vengono esposti come
in una libreria. Anche pittori e scultori cominciano a
produrre scorte, e cosí il principio della produzione
impersonale si afferma dappertutto nell’arte. Per il
Medioevo, che insisteva sul mestiere e non sulla genia-
lità dell’artista, la meccanizzazione della produzione
non era cosí difficile da conciliare con l’essenza dell’ar-
te come lo è per i tempi moderni, e come sarebbe stato
per il Rinascimento, se la tradizione medievale dell’ar-
te come attività artigiana non avesse posto alcun limite
alla diffusione del suo concetto di genialità.

1
max weber, Wirtschaftsgeschichte, 1923, p. 124.
2
k. bücher, Die Entstehung der Volkswirtschaft cit., p. 397.
3
Ibid., pp. 139 sgg.
4
r. génestal, Le rôle des monastères comme établissements de cré-
dit, 1901.
5
Cfr. per quanto segue georg simmel, Philosophie des Geldes,
1900, passim e e. troeltsch, Die Soziallehren ecc. cit., p. 244.
6
alfred rambaud, Histoire de la civilisation française, I, 1885, p. 259.

Storia dell’arte Einaudi 83


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

7
h. pirenne, Les Villes du moyen âge, 1927, p. 192.
8
Cfr. charles seignobos, Essai d’une histoire comparée des peuples
d’Europe, 1938, p. 152; h. pirenne, Les Villes cit., p. 192.
9
p. boissonnade, Le travail ecc. cit., p. 311.
10
w. cunningham, Essay on Western Civilisation in its Economic
Aspects. Ancient Times, 1911, p. 74.
11
albert hauck, Kirchengeschichte Deutschlands, IV, 1913, pp.
569-70.
12
gioacchino volpe, Eretici e moti ereticali dall’XI al XVI sec. nei
loro motivi e riferimenti sociali, «Il Rinnovamento», i, 1907, 1, p.
666.
13
Cfr. per quanto segue i. bühler, Die Kultur des Mittelalters cit.,
p. 228.
14
h. pirenne, History of Europe cit., p. 238; id., Les Villes cit., p. 201.
15
j. w. thompson, The Literacy of the Laity in the Middle Ages, 1939,
p. 133.
16
hans naumann, Deutsche Kultur im Zeitalter des Rittertums, 1938,
p. 4. Sulla differenza delle condizioni in Germania e in Francia a que-
sto riguardo: louis reynaud, Les origines de l’influence française en Alle-
magne, 1913, pp. 167 sgg.
17
marc bloch, La Ministérialité en France et en Allemagne, «Revue
historique de droit français et étranger», 1928, p. 80.
18
viktor ernst, Mittelfreie, 1920, p. 40.
19
paul kluckhohn, Ministerialität und Ritterdichtung, «Zeitschrift
für deutsches Altertum», vol. LII, 1910, p. 137.
20
marc bloch, La Société féodale, II, 1940, p. 49 [trad. it. La società
feudale, Torino 1949].
21
alfred von martin, Kultursoziologie des Mittelalters, in Handwör-
terbuch der Soziologie, ed. da A. Vierkandt, 1931, p. 379; j. bühler,
Die Kultur des Mittelalters cit., p. 101.
22
gustav ehrismann, Die Grundlagen des ritterlichen Tugendsystems,
«Zeitschrift für deutsches Altertum.», vol. LVI, 1919, pp. 137 sgg.
23
hans naumann, Ritterliche Standeskultur um 12oo, in Höfische
Kultur, ed. con. Günther Müller, 1929, p. 35.
24
hennig brinkmann, Die Anfänge des modernen Dramas, 1933, p.
9, n. 8.
25
erwin rhode, Der griechische Roman, 1900, 2a ed., pp. 68 e sgg.
26
h. o. taylor, The Medieval Mind, I, 1925, p. 581.
27
e. wechssler, Das Kulturproblem des Minnesangs, 1909, p. 72.
28
Cfr. per quanto segue alfred körte, Die hellenistische Dichtung,
1925, pp. 166-67.
29
wilibald schröter, Ovid und die Troubadours, 1908, p. 109.
30
e. k. chambers, Some Aspects of Medieval Lyric, in Early English
Lyrics, a cura di E. K. Chambers e F. Sidgwick, 1907, pp. 26o-61.

Storia dell’arte Einaudi 84


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

31
m. fauriel, Histoire de la poésie provençale, I, 1947, pp. 503 sgg.;
e. henrici, Zur Geschichte der mittelhochdeutschen Lyrik, 1876.
32
e. wechssler, Frauendienst und Vasallität, «Zeitschrift für franzö-
siche Sprache und Literatur», vol. XXIV, 1902; id., Das Kulturproblem
des Minnesangs, 1909.
33
jacques flach, Les origines de l’ancienne France. II : Les origines
communales, la féodalité et la chevalerie, 1893.
34
e. wechssler, Das Kulturproblem cit., p. 113.
35
friedrich dietz, Die Poesie der Troubadours, 1826, p. 126.
36
e. wechssler, Das Kulturproblem cit., p. 214.
37
Ibid., p. 154.
38
Ibid., p. 182.
39
i. feuerlicht, Vom Ursprung der Minne, «Archivum Romani-
cum», xxiii, 1939, p. 36.
40
alfred jeanroy, La poésie lyrique des troubadours, I, 1934, p. 89.
41
p. kluckhohn, Ministerialität ecc. cit., p. 15
42
m. fauriel, Histoire de la poésie provençale cit., I, p. 532.
43
Cfr. per quanto segue: i. feuerlicht, Vom Ursprung ecc. cit., pp.
9-11; e. henrici, Zur Geschichte ecc. cit., p. 43; friedrich neumann,
Hohe Minne, «Zeitschrift für Deutschkunde», 1925, p. 85.
44
h. von eicken, Geschichte und System ecc. cit., p. 468.
45
konrad burdach, Über den Ursprung des mittelalterlichen Minne-
sangs, Liebesromans und Frauendienstes, «Sitzungsberichte der Preussi-
schen Akademie der Wissenschaft», 1918. Gli elementi di questa teo-
ria si trovano già in sismondi, De la littérature du Midi de l’Europe, I,
1813, p. 93.
46
a. pillet, Zur Ursprungsfrage der altprovenzalischen Lyrik, «Sch-
riften der Königsberger Gelehrten Gesellschaft, Geisteswissenschaf-
tliche Hefte», 1928, n. 4, p. 359.
47
josef hell, Die arabische Dichtung im Rahmen der Weltliteratur.
Erlanger Rektoratsrede, 1927.
48
Cfr. d. scheludko, Beiträge zur Entstehungsgeschichte der altpro-
venzalischen Lyrik. Klassich-lateinische Theorie, «Archivum Romani-
cum», xi, 1927, pp. 309 sgg.
49
alfred jeanroy, Les origines de la poésie lyrique en France au
moyen âge, 3a ed., 1925; gaston paris, Les origines de la poésie lyrique
en France au moyen âge, «Journal des Savants», 1892.
50
g. paris, Les origines cit., pp. 424, 685, 688.
51
Ibid., pp. 425-26.
52
wilhelm ganzenmüller, Das Naturgefühl im Mittelalter, 1914,
p. 243.
53
hennig brinkmann, Entstehungsgeschichte des Minnesangs, 1926, p. 45.
54
werner mulertt, Über die Frage nach der Herkunft der Trouba-
dourkunst, «Neuphilologische Mitteilungen», xxii, 1921, pp. 22-23.

Storia dell’arte Einaudi 85


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

55
k. burdach, Über den Ursprung ecc. cit., p. 1010.
56
h. brinkmann, Entstehungsgeschichte des Minnesangs cit., p. 17.
57
f. r. schröter, Der Minnesang, «Germ.-Roman. Monatsschr.»,
xxi, 1933, p. 186.
58
f. von bezold, Über die Anfänge der Selbstbiographie und ihre
Entwicklung im Mittelalter, in Aus Mittelalter und Renaissance, 1918,
p. 216.
59
e. wechssler, Das Kulturproblem cit., p. 305.
60
a. w. schlegel, Vorlesungen über dramatische Kunst cit., I, 14.
61
etienne gilson, La Théologie mystique de Saint Bernard, 1934,
p. 215.
62
bédier-hazard, Histoire de la littérature française, I, 1923, p. 46.
63
e. wechssler, Das Kulturproblem cit., p. 93.
64
edmond faral, Les Jongleurs en France au moyen âge, 1910, pp.
73-74.
65
a. thibaudet, Le Liseur de romans, 1925, p. xi.
66
karl vossler, Frankreichs Kultur im Spiegel seiner Spra-
chentwicklung, 1921, 3a ed., p. 59 [trad. it., Civiltà e lingua di Francia,
Bari 1948].
67
Ibid.
68
emile freymond, Jongleurs und Menestrels, 1883, p. 48.
69
j. bédier, Les Fabliaux, 1925, 4a ed., pp. 418, 421.
70
e. faral, Les Jongleurs ecc. cit., p. 114.
71
holm süssmilch, Die lateinische Vagantenpoesie des 12. und 13.
Jahrhunderts als Kulturerscheinung, 1917, p. 16; cfr. la recensione di
wolfgang stammler in «Mitteilungen aus der historischen Literatur»,
vol. XLVIII, 1920, pp. 85 sgg., e georg von below, Über historische
Periodisierungen, 1925, p. 33.
72
Carmina Burana, ed. da alfons hilka e otto schumann, II
(Kommentar), 1930, p. 82.
73
j. bédier, Les Fabliaux cit., p. 395.
74
hennig brinkmann, Werden und Wesen der Vaganten, «Preussi-
sche Jahrbücher», 1924, p. 195.
75
Cfr. per quanto segue hilka-schumann, Carmina Burana, II, pp.
84-85.
76
max scheler, Wesen und Formen der Sympathie, 1923, pp.
99-100.
77
w. ganzenmüller, Das Naturgefühl ecc. cit., p. 225.
78
alfred biese, Die Entwicklung des Naturgefühls im Mittelalter und
in der Neuzeit, 1888, p. 116.
79
wilhelm vöge, Die Bahnbrecher des Naturstudiums um 1200,
«Zeitschrift für bildende Kunst», n. s. xxv, 1914, pp. 193 e sgg.
80
henri focillon, Origines monumentales du portrait français, in
Mélanges offerts à M. Nicolas Jorga, 1933, p. 271.

Storia dell’arte Einaudi 86


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

81
arnulf perger, Einortsdrama and Bewegungsdrama, 1929.
82
gottfried semper, Der Stil in den technischen und tektonischen
Künsten, I, 186o, p. 19.
83
viollet-le-duc, Dictionnaire raisonné de l’architecture française
du XIe au XVIe siècle, I, 1865, p. 153.
84
«Dans un bel édifice du commencement du xiiie siècle... il n’y a
pas un ornement à enlever». viollet-le-duc, Dictionnaire raisonné ecc.
cit., I, p. 146.
85
ernst gall, Niederrheinische und normannische Architektur im
Zeitalter der Frühgotik, 1915; id., Die gotische Baukunst in Frankreich und
Deutschland, I, 1925.
86
victor sabouret, Le voûtes nervurées: rôle simplement décoratif des
nervures, «Le Génie Civil», 1928; pol abraham, Viollet-le-Duc et le
rationalisme médiéval, 1934, pp. 45, 6o; h. focillon, L’art d’Occident,
1938, pp. 144, 146.
87
Cfr. dagobert frey, Gotik und Renaissance, 1929, p. 67.
88
pol abraham, Viollet-le-Duc ecc. cit., p. 102.
89
paul frankl, Meinungen über Herkunft und Wesen der Gotik, in
walter timmling, Kunstgeschichte und Kunstwissenschaft, 1923, p. 21.
90
Cfr. ludwig coellen, Der Stil der bildenden Kunst, 1921, p. 305.
91
richard thurnwald, Staat und Wirtschaft im alten Ägypten,
«Zeitschrift für Sozialwissenschaft», iv, 1901, p. 789.
92
carl heideloff, Die Bauhütte des Mittelalters in Deutschland,
1844, p. 19.
93
g. knoop - g. p. jones, The Medieval Mason, 1933, pp. 44-45.
94
Cfr. hans huth, Künstler und Werkstatt der Spätgotik, 1923, p. 5.
95
h. von lösch, Die Kölner Zunfturkunden, I, 1907, pp. 99 sgg.
96
otto von gierke, Das deutsche Genossenschaftsrecht, I, 1868, pp.
199, 226.
97
werner sombart, Der moderne Kapitalismus cit., I, p. 85.
98
wilhelm pinder, Die deutsche Plastik vom ausgehenden Mittelal-
ter bis zum Ende der Renaissance, 1914, pp. 16-17.
99
wilhelm vöge, Die Anfänge des monumentalen Stiles cit., p. 271.
100
w. pinder, Die deutsche Plastik ecc. cit., p. 19.
101
f. j. c. hearnshaw, Chivalry and its Place in History, in Chivalry,
ed. da Edgar Prestage, 1928, p. 26.
102
max lenz, Recensione a lamprecht, Deutsche Geschichte, 5
voll., in «Historische Zeitschrift», vol. LXXVII, 1896, pp. 411-413.
103
w. sombart, Der Moderne Kapitalismus cit., p. 8o.
104
karl kautsky, Die Vorläufer des neuern Sozialismus, I, 1895, pp.
47, 50.
105
bédier-hazard, Histoire de la littérature française cit., p. 29.
106
w. scherer, Geschichte der deutschen Literatur cit., p. 254.
107
w. pinder, Die deutsche Plastik ecc. cit., p. 144.

Storia dell’arte Einaudi 87


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

108
h. schrade, Künstler und Welt im deutschen Spätmittelalter,
«Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenshaft und Geistesge-
schichte», ix, 1931, pp. 16-40.
109
j. huizinga, Herbst des Mittelalters, 1928, p. 389 [trad. it., L’au-
tunno del Medioevo, Firenze 1942].
110
h. karlinger, Die Kunst der Gotik, 1926, 2a ed., p. 124.
111
g. dehio, Geschichte der deutschen Kunst cit., II, p. 274.
112
walter benjamin, L’oeuvre d’art à l’époque de sa reproduction
mécanisée, «Zeitschrift für Sozialforschung», v, 1936, 1, pp. 4o-66.

Storia dell’arte Einaudi 88


il rinascimento

Capitolo primo

Il concetto di Rinascimento

Quanto di arbitrario ci sia nell’uso di dividere il


Medioevo dall’età moderna e quanto fluido sia il con-
cetto di Rinascimento, lo si avverte soprattutto nella dif-
ficoltà che si incontra nell’inserire nell’una o nell’altra
categoria personalità come Petrarca e Boccaccio, Gen-
tile da Fabriano e il Pisanello, Jean Fouquet e Jan van
Eyck. Se si vuole, Dante e Giotto appartengono già al
Rinascimento, Shakespeare e Molière, ancora al Medioe-
vo. Né si può metter senz’altro da parte l’opinione che
la vera e propria svolta si compia solo nel Settecento e
l’età moderna cominci con l’Illuminismo, l’idea del pro-
gresso e l’industrializzazione1. Converrà piuttosto anti-
cipare questa fondamentale cesura situandola fra la
prima e la seconda metà del Medioevo, cioè alla fine del
secolo xii, quando rinasce l’economia monetaria, sorgo-
no le nuove città e la moderna borghesia acquista i suoi
caratteristici lineamenti: in nessun modo comunque sarà
da porre nel Quattrocento, epoca in cui molte cose giun-
gono a maturazione, ma non comincia quasi nulla di
nuovo. La nostra concezione naturalistica e scientifica
è in sostanza una creazione del Rinascimento, ma il
primo impulso a quel nuovo orientamento, nel quale
questa nuova concezione ha la sua radice, è stato dato
dal nominalismo medievale. L’interesse per l’individua-
lità, la ricerca della legge naturale, il senso della fedeltà
alla natura nell’arte e nella letteratura non cominciano

Storia dell’arte Einaudi 4


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

affatto con il Rinascimento. Il naturalismo quattrocen-


tesco non fa che continuare il naturalismo gotico, in cui
già è manifesta l’interpretazione individuale delle cose
individuali. E se gli apologeti del Rinascimento voglio-
no vederne un preannuncio o una prefigurazione in tutto
quanto nel Medioevo è spontaneo, progressivo e perso-
nale, se per il Burckhardt già la poesia dei vagantes è una
prima manifestazione rinascimentale, e Walter Pater
scorge un’espressione del Rinascimento in un’opera
ancor cosí intimamente medievale come il chante-fable
di Aucassin et Nicolette, questo modo di interpretare
non fa che mettere in luce, sia pure dal lato opposto,
l’intima connessione e continuità esistenti fra Medioe-
vo e Rinascimento.
Nel suo quadro del Rinascimento, il Burckhardt insi-
ste soprattutto sul naturalismo e indica nel volgersi alla
realtà empirica, nella «scoperta del mondo e dell’uomo»
l’elemento essenziale della «rinascita». Cosí egli, come
i piú dei suoi seguaci, non ha visto che nell’arte rina-
scimentale non il naturalismo in sé e per sé era nuovo,
bensí solo il suo aspetto scientifico, metodico, integra-
le; che non l’osservazione e l’analisi della realtà supe-
ravano i concetti medievali, ma solo la coerente consa-
pevolezza con cui il dato empirico era registrato e ana-
lizzato; che il fatto rilevante del Rinascimento è stato
insomma non che l’artista sia diventato un osservatore
della natura, bensí che l’opera d’arte sia diventata uno
«studio della natura». Il naturalismo gotico comincia
quando le rappresentazioni dell’arte cessano di essere
esclusivamente simboli e acquistano senso e valore
anche senza un preciso rapporto con la realtà trascen-
dente, come pure riproduzioni delle cose terrene. Le
sculture di Chartres e di Reims – per quanto fosse
ancora cosí palese in esse la visione oltremondana – si
distinsero dalle opere romaniche per il loro senso imma-
nente, separabile dalla loro significazione metafisica.

Storia dell’arte Einaudi 5


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

violento perverso, quale lo dipinge la storia del costume


rinascimentale; e se questo «malvagio tiranno» sia mai
stato altro che il sedimento di reminiscenze lasciato
dalle letture classiche degli umanisti12.
In questa concezione sensualistica del Rinascimento
amoralismo ed estetismo s’intrecciavano in una manie-
ra piú propria della psicologia ottocentesca che di quel-
la rinascimentale. La visione estetica del mondo, che fu
tipica dell’età romantica, non si esauriva affatto in un
culto dell’arte e dell’artista, implicava anzi una nuova
impostazione, secondo criteri estetici, di tutti i proble-
mi della vita. Ogni dato reale diveniva per essa il sub-
strato di un’esperienza artistica, e la vita stessa un’ope-
ra d’arte, in cui ogni elemento non era che uno stimolo
per i sensi. I peccatori, i tiranni e i malvagi del Rina-
scimento apparivano ad essa come grandi, pittoresche,
impressionanti figure, protagonisti adatti al colorito
sfondo dell’epoca. Quella generazione che, ebbra di bel-
lezza e avida di morte, voleva morire «incoronata di
pampini», era ben pronta e disposta a perdonare ogni
cosa di un’epoca che si avvolgeva nell’oro e nella por-
pora, trasformava la vita in una splendida festa, e in cui,
come si pretendeva, anche il semplice popolo si entu-
siasmava per le piú squisite opere d’arte. La realtà sto-
rica corrispondeva ben poco a questo sogno d’esteti, e
ancor meno all’immagine del superuomo in figura di
tiranno. Il Rinascimento fu duro e freddo, pratico e
tutt’altro che romantico; anche sotto questo rispetto
non differiva troppo dal tardo Medioevo.
I caratteri che l’individualismo liberale e l’estetismo
sensualistico hanno attribuito al Rinascimento, in parte
non gli si adattano affatto, in parte convengono anche
al tardo Medioevo. Pare che il limite sia qui piuttosto
geografico e nazionale che storico. Nei casi discutibili
– ad esempio, quelli del Pisanello e dei van Eyck – si
riferiranno al Rinascimento i fenomeni del Sud, al

Storia dell’arte Einaudi 6


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Medioevo quelli del Settentrione. Le spaziose rappre-


sentazioni dell’arte italiana, con il libero movimento
delle loro figure pur nell’impianto unitario della costru-
zione, appaiono rinascimentali; l’angustia spaziale della
pittura fiamminga, le sue figure timide, un po’ goffe, i
suoi accessori meticolosamente accumulati, la sua leg-
giadra tecnica militaristica, danno invece senz’altro
l’impressione di qualcosa di medievale. Ma se anche qui
si può concedere un certo peso ai fattori costanti dello
sviluppo, cioè al carattere etnico e nazionale dei grup-
pi che guidano la cultura, non si dovrebbe dimenticare
che l’ammissione di un fattore di questo genere signi-
fica in sostanza una rinunzia al proprio ufficio di sto-
rici: ed è rinuncia questa cui si deve consentire piú
tardi possibile. Per lo piú si scopre infatti che tali fat-
tori presunti costanti non sono che sedimentazioni di
certi stadi dello sviluppo storico, o il frettoloso surro-
gato di condizioni storiche che non si sono indagate, ma
che sono perfettamente indagabili. Comunque, il carat-
tere individuale delle razze e delle nazioni ha nelle sin-
gole epoche della storia un significato di volta in volta
diverso. Nel Medioevo è insignificante, poiché in quel-
l’epoca la grande collettività cristiana è cosa ben piú
reale che non l’individualità dei singoli popoli. Ma sul
finire del Medioevo, al feudalesimo, comune a tutto
l’Occidente, e alla cavalleria internazionale, alla Chie-
sa universale e alla sua cultura unitaria, subentrano la
borghesia nazionale con il suo patriottismo cittadino, le
sue forme economiche e sociali diverse da luogo a luogo,
le anguste sfere d’interessi delle città e delle province,
il particolarismo dei principati e le varietà del volgare.
Solo allora il carattere nazionale ed etnico emerge piú
decisamente come fattore distintivo; e il Rinascimento
appare come quella forma storica particolare in cui lo
spirito della nazione italiana si individua dal fondo del-
l’unità culturale europea.

Storia dell’arte Einaudi 7


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Col Rinascimento le cose cambiano solo nel senso che


il simbolismo metafisico svanisce del tutto e l’artista si
limita sempre piú risolutamente e coscientemente a rap-
presentare il mondo sensibile. Nella misura in cui la
società e l’economia si sciolgono dalle catene della dot-
trina ecclesiastica, anche l’arte si volge sempre piú libe-
ra all’immediata realtà; ma il naturalismo non è certo
una novità del Rinascimento, cosí come non lo è l’eco-
nomia mercantile.
Fu il liberalismo ottocentesco ad affermare che il
Rinascimento ha scoperto la natura: in realtà quando
esso contrappose al Medioevo quest’epoca schietta e
amante della natura, lo fece anzitutto per polemica con-
tro il Romanticismo. Quando il Burckhardt sostiene che
la «scoperta del mondo e dell’uomo» è opera del Rina-
scimento, la sua tesi è un attacco alla reazione romanti-
ca e insieme una difesa contro la propaganda ch’essa
conduceva servendosi del Medioevo. La teoria dello
spontaneo naturalismo rinascimentale ha la stessa fonte
di quella che considera conquiste del Quattrocento la
lotta contro lo spirito di autorità e di gerarchia, l’idea-
le della libertà di pensiero e di coscienza, l’emancipa-
zione dell’individuo e il principio democratico. In que-
sto quadro la luce dei tempi nuovi contrasta dappertut-
to con le tenebre medievali.
Il rapporto di questo concetto del Rinascimento con
l’ideologia del liberalismo, appare, ancor piú chiara-
mente che in Burckhardt, in Michelet; a lui si deve la
formula della «découverte du monde et de l’homme»2.
Già il modo in cui egli sceglie i suoi eroi – unendo Rabe-
lais, Montaigne, Shakespeare e Cervantes a Colombo,
Copernico, Lutero e Calvino3; il fatto che persino in
Brunelleschi egli veda solo il distruttore del gotico, e
consideri il Rinascimento essenzialmente come l’inizio
di quel processo evolutivo che si concluderà con la vit-
toria dell’idea di libertà e ragione, mostra che ciò che

Storia dell’arte Einaudi 8


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

gl’importava era anzitutto trovarvi l’albero genealogico


del liberalismo. Anche per lui si trattava della lotta con-
tro il clericalismo e di quella lotta per il libero pensiero
che già aveva rivelato agli illuministi del secolo xviii il
loro contrasto con il Medioevo e la loro affinità con il
Rinascimento. Infatti tanto per Bayle (Dict. hist. et crit.,
IV) quanto per Voltaire (Essai sur les moeurs et l’esprit des
nations, cap. 121), il Rinascimento era indiscutibilmen-
te irreligioso, e tale si è continuato a considerarlo fino
ad oggi, benché in realtà fosse soltanto anticlericale,
antiscolastico, antiascetico, ma niente affatto miscre-
dente. Le idee sulla salvezza, sulla vita futura, sulla
redenzione, sul peccato originale, che impegnavano tutta
la vita spirituale dell’uomo medievale, diventano, sí,
«puramente secondarie» nel Rinascimento4, ma dell’as-
senza di ogni sentimento religioso non si può certo par-
lare. Perché «se si tenta, – come nota Ernst Walser, –
di considerare con metodo puramente induttivo la vita
e il pensiero delle personalità piú significative del Quat-
trocento, come Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini,
Leonardo Bruni, Lorenzo Valla, Lorenzo il Magnifico o
Luigi Pulci, di regola si dà il caso strano che quelli che
si considerano i segni caratteristici [dell’irreligiosità del
Rinascimento] non si ritrovano nella persona studia-
ta...»5. Il Rinascimento non era neppur cosí ostile all’au-
torità, come affermarono illuministi e liberali. Si attac-
cavano i chierici, ma si risparmiava la Chiesa come isti-
tuzione, e nella misura in cui la sua autorità si restrin-
geva, la si sostituiva con quella degli antichi.
Il radicalismo della concezione illuministica del Rina-
scimento si acuì ancora verso la metà del secolo scorso,
per influsso delle lotte per la libertà6. La battaglia con-
tro la reazione ricorreva al ricordo delle repubbliche ita-
liane del Rinascimento e incoraggiava l’idea che il loro
splendore culturale fosse in rapporto con l’emancipa-
zione dei loro cittadini7. In Francia fu il giornalismo

Storia dell’arte Einaudi 9


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

antinapoleonico, in Italia quello anticlericale ad aiutare


l’acuirsi e il diffondersi di questa concezione8, e ad essa
poi si attennero tanto gli storici borghesi-liberali quan-
to quelli socialisti. Il Rinascimento ancor oggi si celebra
nei due campi come la grande lotta della ragione per la
libertà e come il trionfo dello spirito individuale9, men-
tre, in verità, né l’idea del «libero esame» fu un porta-
to del Rinascimento10, né l’idea della personalità era
completamente estranea al Medioevo; l’individualismo
del Rinascimento era nuovo, non come fenomeno, ma
solo come programma cosciente, come strumento di
lotta e grido di guerra.
Nel suo concetto di Rinascimento il Burckhardt col-
lega l’individualismo a una visione sensuale della vita,
l’idea dell’autodeterminazione della personalità all’ac-
centuata protesta contro l’ascesi medievale, l’esaltazio-
ne della natura al nuovo vangelo della gioia di vivere e
dell’«emancipazione della carne». Da questa connessio-
ne di concetti sorge – in parte sotto l’influsso dell’im-
moralismo romantico di Heinse e anticipando Nietz-
sche e il suo amorale culto dell’eroe11 – l’immagine ben
nota del Rinascimento come età senza scrupoli, violen-
ta e gaudente, un’immagine i cui tratti libertini non
hanno veramente alcun diretto rapporto con la visione
liberale del Rinascimento, ma sarebbero inconcepibili
senza il liberalismo e l’individualismo ottocentesco.
Infatti è proprio dal disagio della morale borghese e
dalla ribellione contro di essa, che venne quella corren-
te di esuberante paganesimo che trovava nella rappre-
sentazione degli eccessi del Rinascimento un surrogato
a piaceri mancati. In tale quadro il condottiere, con la sua
demoniaca brama di piaceri e la sua sfrenata volontà di
potenza, diventava il prototipo del peccatore irresisti-
bile, che nella fantasia dei moderni consumava tutte le
impossibili mostruosità del sogno borghese. Ci si è
domandato con ragione se sia esistito in realtà questo

Storia dell’arte Einaudi 10


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

I tratti piú caratteristici dell’arte del Quattrocento


italiano sono la libertà e scioltezza nei modi espressivi,
originali sia rispetto al Medioevo sia rispetto al Nord,
la grazia e l’eleganza, il rilievo statuario, la linea ampia,
piena di vita. Tutto vi è chiaro e sereno, ritmico e melo-
dico. La rigida, misurata solennità dell’arte medievale
svanisce per cedere il posto a un linguaggio libero, lim-
pido, ben articolato; e in confronto persino l’arte fran-
co-borgognona dell’epoca pare abbia «un tono fonda-
mentalmente fosco, un fasto barbarico, forme bizzarre
e sovraccariche»13. Con il suo vivo senso per i rapporti
semplici e grandiosi, per la misura e l’ordine, la plasti-
cità monumentale e la salda costruzione, il Quattrocen-
to anticipa – nonostante occasionali durezze e una certa
dispersione che spesso ancora non riesce a superare – i
principî stilistici del pieno Rinascimento. E proprio que-
sta immanenza del «classico» nel preclassico divide net-
tamente le creazioni del primo Rinascimento italiano
dall’arte del tardo Medioevo e dalla contemporanea arte
del Nord. Quello «stile ideale» che unisce Giotto a Raf-
faello, domina l’arte di Donatello e di Masaccio, di
Andrea del Castagno e di Piero della Francesca, di
Signorelli e del Perugino; e nessun artista italiano del
primo Rinascimento sfugge del tutto al suo influsso.
L’elemento essenziale di questa concezione artistica è il
principio dell’unità, la forza dell’effetto complessivo –
o almeno la tendenza all’unità e l’aspirazione a un effet-
to unitario, pur moltiplicando forme e colori. Di fronte
alle creazioni artistiche del tardo Medioevo, un’opera
del Rinascimento par sempre una cosa di getto, nella
quale un carattere di continuità lega l’insieme, e la rap-
presentazione, per quanto ricca, appare sostanzialmen-
te come qualcosa di semplice e di omogeneo.
La forma tipica dell’arte gotica è invece l’addizione.
Sia che l’opera consti di piú parti relativamente indi-
pendenti, o che di parti non si possa propriamente par-

Storia dell’arte Einaudi 11


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

lare, che si tratti di pittura o di scultura, di poema o di


dramma, prevale sempre l’espansione sull’accentramen-
to, la coordinazione sulla subordinazione, la serie aper-
ta sulla chiusa forma geometrica. Le opere gotiche, o le
parti di esse, sono come tappe e momenti di una via che
ci porta a una visione per cosí dire panoramica della
realtà, quasi una rassegna, e non già un’immagine uni-
laterale, coerente, dominata da un unico ed esclusivo
punto di vista. La pittura predilige la rappresentazione
ciclica, il dramma tende a mettere in scena tutti gli epi-
sodi della vicenda e favorisce, anziché l’accentrarsi del-
l’azione in pochi momenti critici, il succedersi delle
scene, dei personaggi e dei temi. Quel che conta nell’arte
gotica non è il punto di vista soggettivo, non la volontà
creatrice, che si afferma nel piegare decisamente a sé la
materia, ma proprio la ricchezza dei motivi che si tro-
vano dispersi nella realtà e di cui artista e pubblico non
arrivano mai a saziarsi. L’arte gotica conduce l’occhio da
un particolare all’altro e, come si è notato, lo porta a leg-
gere l’una dopo l’altra le parti della scena; l’arte del
Rinascimento, invece, non consente indugi sul partico-
lare, non lascia separare alcun elemento dal complesso
figurativo, obbliga anzi a cogliere simultaneamente tutte
le parti14. Come la prospettiva centrale nella pittura,
cosí nel dramma l’unità spaziale e temporale della scena
è il mezzo specifico della visione simultanea. Il nuovo
modo di concepire lo spazio, e quindi l’arte in genera-
le, si rivela soprattutto nella consapevolezza improvvi-
sa dell’incompatibilità dell’illusione artistica con lo sce-
nario medievale, fatto di quadri indipendenti 15. Il
Medioevo, che pensava lo spazio come un aggregato di
elementi e quindi scomponibile in questi, non solo pre-
sentava l’una accanto all’altra le diverse scene di un
dramma, ma permetteva agli attori di rimaner sul palco
per tutta la durata della rappresentazione, cioè anche
quando non erano di scena. Infatti lo spettatore, come

Storia dell’arte Einaudi 12


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

non guardava il tratto di palcoscenico sul quale in un


certo momento non si recitava, cosí trascurava la pre-
senza degli attori che in quel momento non agissero. Al
Rinascimento pare impossibile che si possa sezionare in
questo modo l’attenzione. Il mutamento di sensibilità si
palesa in modo inequivocabile nello Scaligero, che trova
appunto ridicolo che «i personaggi non lascino mai il pal-
coscenico e quelli che tacciono non sian considerati pre-
senti»16. Per la nuova estetica l’opera d’arte costituisce
un tutto indivisibile: l’intero campo d’azione del palco-
scenico deve offrirsi allo spettatore alla prima occhiata,
appunto come lo spazio di un dipinto costruito secondo
la prospettiva centrale17. Ma l’evolversi dell’arte dalla
successione alla simultaneità implica una minor com-
prensione per quelle «regole del gioco» tacitamente
accettate su cui, in ultima analisi, riposa ogni illusione
artistica. Perché, se il Rinascimento trova assurdo che
sulla scena «si faccia come se non si potesse udire ciò che
l’uno dice dell’altro»18, benché i personaggi siano gli uni
accanto agli altri, questo può considerarsi segno di un
piú evoluto verismo, ma senza dubbio implica un certo
declino dell’immaginazione. Comunque, l’arte del Rina-
scimento deve soprattutto a questa unitarietà della rap-
presentazione l’effetto di totalità, cioè l’apparenza di un
mondo naturale, equilibrato, autonomo, e quindi la sua
maggior verità rispetto al Medioevo. L’evidenza della
rappresentazione, la sua verosimiglianza, la sua forza di
persuasione risiedono anche qui – come spesso avviene
– nell’intima logica dell’immagine, nella concordanza
di tutti gli elementi, ben piú che nella loro corrispon-
denza con la realtà esteriore.
L’Italia con la sua arte unitariamente concepita anti-
cipa il classicismo rinascimentale, come anticipa l’evo-
luzione capitalistica dell’Occidente con il suo razionali-
smo economico. Infatti il Quattrocento è essenzialmen-
te italiano, mentre sono comuni a tutta l’Europa il Cin-

Storia dell’arte Einaudi 13


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

quecento e il Manierismo. La nuova cultura artistica si


afferma prima in Italia, perché questo paese precede
l’Occidente anche sul piano economico e sociale: di qui
infatti s’inizia la rinascita dell’economia, qui trovano la
loro organizzazione tecnica, soprattutto per quanto
riguarda il finanziamento e i trasporti, le Crociate19; qui
comincia a svilupparsi la libera concorrenza in contra-
sto con la struttura corporativa del Medioevo, e qui
nasce la prima organizzazione bancaria d’Europa20. Non
solo, ma qui la borghesia urbana si emancipa prima che
altrove anche perché fin dall’inizio feudalesimo e caval-
leria vi erano meno sviluppati che al Nord, e la nobiltà
terriera molto presto si è trasferita in città, assimilandosi
completamente all’aristocrazia del denaro; infine, qui
dove i monumenti superstiti sono visibili a tutti non si
è mai interamente perduta la tradizione classica. Si sa
quale importanza sia stata attribuita a quest’ultimo fat-
tore nelle teorie sull’origine del Rinascimento. Sembra-
va infatti la cosa piú semplice ricondurre a un unico,
diretto influsso esteriore l’inizio di quel nuovo stile cosí
difficilmente definibile. Si dimenticava per altro che
nella storia un influsso esterno non è mai la ragione
ultima di un mutamento spirituale, perché un influsso
diventa attivo solo quando già esistono le premesse per
accoglierlo. La sua stessa attualità dev’essere spiegata:
non è quindi un influsso a poter spiegare come diventi-
no attuali i fenomeni concomitanti. Se dunque l’anti-
chità da un certo momento cominciò a essere ben altri-
menti efficace che prima non fosse, occorre anzitutto
chiederci perché sia avvenuto questo mutamento, per-
ché a un tratto la stessa cosa abbia prodotto reazioni
nuove. Ma questa domanda è altrettanto ampia, gene-
rica e difficile quanto quella iniziale, cioè perché e come
il Rinascimento sia diverso dal Medioevo. La sensibilità
all’antico fu solo un sintomo, essa aveva radici profon-
de in fenomeni sociali, esattamente come il rifiuto del-

Storia dell’arte Einaudi 14


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

l’antico al principio dell’era cristiana. Ma neppure il


suo valore di sintomo dovrà esser sopravvalutato. Certo
gli uomini dell’epoca avevano chiara coscienza di una
rinascita e, con essa, il senso del rinnovamento provo-
cato dallo spirito classico, ma questo lo aveva anche il
Trecento21. Invece di citar Dante e Petrarca come pre-
cursori, sarà meglio – come hanno fatto gli avversari
della teoria classicista – rintracciare l’origine medievale
di questa idea di rinascita e dedurne la continuità fra
Medioevo e Rinascimento.
I piú noti sostenitori di uno sviluppo ininterrotto dal
Medioevo al Rinascimento assegnano un valore decisi-
vo al movimento francescano, collegando la sensibilità
lirica, il senso della natura e l’individualismo, di Dante
e di Giotto, e anche dei maestri piú tardi, con il sog-
gettivismo e l’interiorità del nuovo spirito religioso; e
contestano che la «scoperta» dell’antichità classica abbia
potuto provocare, nel Quattrocento, una frattura nel-
l’evoluzione che già era in corso22. Questa connessione
del Rinascimento con la cultura della cristianità medie-
vale e il passaggio senza fratture dal Medioevo ai tempi
nuovi, è stata sostenuta anche partendo da altre posi-
zioni. Per Konrad Burdach il cosiddetto fondamento
pagano del Rinascimento è pura leggenda23, e Carl Neu-
mann non solo afferma che esso sorge «dalle immense
energie suscitate dall’educazione cristiana», che l’indi-
vidualismo e il realismo del Quattrocento sono «l’ulti-
ma parola dell’uomo medievale giunto a maturità», ma
sostiene anche che l’imitazione dell’arte e della lettera-
tura classiche, che già aveva portato all’irrigidimento
della civiltà bizantina, anche nel Rinascimento fu piú
una remora che uno stimolo24. Infine Louis Courajod
giunge a negare ogni intimo rapporto fra antichità clas-
sica e Rinascimento, e interpreta questo come lo spon-
taneo rinnovarsi del gotico franco-fiammingo25. Neppur
questi studiosi, però, che pure affermano la prosecuzio-

Storia dell’arte Einaudi 15


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ne senza fratture del Medioevo nel Rinascimento, si


rendono conto che la connessione delle due epoche sta
essenzialmente nella continuità del loro sviluppo eco-
nomico-sociale, né intendono che lo spirito francescano,
messo in evidenza dal Thode, l’individualismo medie-
vale del Neumann, o il naturalismo del Courajod hanno
la loro origine prima in quel dinamismo sociale che segna
la fine dell’economia curtense e muta il volto dell’Occi-
dente.
Il Rinascimento intensifica questo processo di svi-
luppo dell’economia e della società medievale verso il
capitalismo solo per l’indirizzo razionalistico che vi
porta, indirizzo che d’ora in poi sarà predominante in
tutta la vita intellettuale e materiale. E ad esso si ispi-
rano anche i principî che di qui in avanti saranno nor-
mativi per l’arte: la coerente unità dello spazio e delle
proporzioni, l’accentrarsi della rappresentazione su di un
solo tema principale e l’ordinarsi della composizione in
una forma immediatamente afferrabile. Vi si esprime la
stessa avversione per tutto quel che sfugge al calcolo e
alla prova, che si ritrova nell’economia del tempo, che
appezza il metodo, il calcolo, la convenienza; lo stesso
spirito che pervade l’organizzazione del lavoro, la tec-
nica commerciale e bancaria, la contabilità a partita
doppia, i metodi di governo, la diplomazia e la strate-
gia26. Tutta l’evoluzione artistica s’inserisce nel genera-
le processo razionalizzatore. L’irrazionale perde ogni
efficacia. «Bello» appare l’accordo logico fra le singole
parti di un tutto, l’armonia dei rapporti che si esprime
in numeri, il ritmo matematico della composizione, la
scomparsa delle contraddizioni nei rapporti tra le figu-
re e lo spazio e tra le singole parti di esso. E dato che la
prospettiva centrale non è in sostanza che la riduzione
dello spazio in termini matematici, e la giusta propor-
zione un ordinare in sistema le singole forme di un qua-
dro, cosí a poco a poco tutti i criteri del valore artistico

Storia dell’arte Einaudi 16


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

e le leggi dell’arte si subordinano a motivi razionali.


Questa tendenza non è affatto peculiare dell’arte italia-
na; ma al Nord assume aspetti piú grossolani che in Ita-
lia, si fa piú materiale, piú ingenua. Un caratteristico
esempio transalpino della nuova concezione artistica è
la Madonna londinese di Robert Campin: nel fondo,
l’orlo superiore di un parafuoco è anche il nimbo della
Vergine. Il pittore sfrutta una coincidenza formale per
accordare con la realtà consueta un elemento irraziona-
le e irreale, e sebbene sia evidente ch’egli è fermamen-
te persuaso tanto della realtà soprasensibile del nimbo
quanto della realtà sensibile del parafuoco, il solo fatto
ch’egli creda di far piú attraente l’opera sua dando al
fenomeno una giustificazione naturale, è il segno di
un’epoca nuova, se pur già da tempo in gestazione.

Storia dell’arte Einaudi 17


Capitolo secondo

Pubblico di corte e pubblico borghese


nel Quattrocento

L’arte del Rinascimento ha il suo pubblico nella bor-


ghesia urbana e nella società delle corti principesche.
Quanto al gusto, i due ceti hanno molti punti di con-
tatto, nonostante l’originaria differenza. L’arte borghe-
se conserva ancora elementi cortesi del gotico; e, in piú,
con il rinnovarsi dei costumi cavallereschi, che del resto
mai avevano perduto una loro attrattiva per i ceti infe-
riori, nuove forme di tipico gusto cortese vengono accol-
te dalla borghesia. D’altro canto neppure gli ambienti di
corte possono sottrarsi al dominante realismo razionali-
stico della borghesia e finiscono per collaborare al costi-
tuirsi di una visione del mondo e dell’arte che ha le sue
piú profonde radici nella vita urbana. Alla fine del Quat-
trocento le due correnti sono cosí commiste, che anche
un’arte profondamente borghese, come quella fiorenti-
na, finisce per assumere un carattere piú o meno aulico.
Ma questo fenomeno non fa che riflettere la generale
evoluzione e lascia intravvedere il cammino che dalla
democrazia comunale porta al principato assoluto.
Già nel secolo xi sorgono in Italia piccole repubbli-
che marinare, come Venezia, Amalfi, Pisa e Genova,
indipendenti dai feudatari circostanti. Nel secolo
seguente si costituiscono altri liberi Comuni, fra gli altri
Milano, Lucca, Firenze, Verona, e si formano organismi
statali socialmente piuttosto indifferenziati, retti dal

Storia dell’arte Einaudi 18


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

principio dell’uguaglianza fra i cittadini, che esercitano


il commercio o le industrie. Ma presto divampa la lotta
fra i Comuni e i feudatari del contado, lotta che finisce
con la vittoria dei cittadini. La nobiltà terriera s’inurba
e cerca di adeguarsi alla struttura sociale ed economica
della città. Ma quasi contemporaneamente s’accende
anche un’altra lotta, assai piú dura e non cosí presto
decisa. È la duplice lotta di classe, da un lato fra l’alta
e la piccola borghesia, dall’altro fra la borghesia nel suo
complesso e il proletariato. La cittadinanza, che nella
lotta contro il nemico comune, la nobiltà, era ancora
unita, non appena l’avversario pare sconfitto si scinde
in gruppi mossi da opposti interessi, che si fan guerra nel
modo piú spietato. Le primitive democrazie già alla fine
del secolo xii si sono trasformate in autocrazie militari.
Non sappiamo esattamente quale sia stata la causa di tale
evoluzione né si può dire con sicurezza se siano state le
faide delle furenti fazioni nobiliari, o i conflitti di clas-
se all’interno della borghesia, o forse i due fenomeni
insieme, a rendere necessaria l’istituzione del «podestà»,
di un magistrato cioè superiore ai partiti; dappertutto,
comunque, a un periodo di lotte di parte, prima o poi
succede la signoria. I signori o eran membri di locali
dinastie, come gli Estensi a Ferrara; o vicari imperiali,
come i Visconti a Milano; o condottieri, come il loro suc-
cessore, Francesco Sforza; o nipoti di papi, come i Ria-
rio a Forlí e i Farnese a Parma; o cittadini autorevoli,
come i Medici a Firenze, i Bentivoglio a Bologna, i
Baglioni a Perugia. In molti luoghi la signoria si fa ere-
ditaria fin dal Duecento; altrove, specie a Firenze e a
Venezia, si mantiene l’antico ordinamento repubblica-
no, almeno nella forma; ma dappertutto il sorgere delle
Signorie segna la fine dell’antica libertà. Il libero Comu-
ne appare una forma politica antiquata27. I cittadini,
impegnati negli affari, non sono piú avvezzi alle armi e
affidano la guerra a impresari militari e a soldati di

Storia dell’arte Einaudi 19


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

mestiere, come sono appunto i condottieri e le loro trup-


pe. Dappertutto il signore è il comandante diretto o
indiretto delle truppe28.
La storia di Firenze è tipica per tutte le città italia-
ne dove non si giunge ancora a una soluzione dinastica
e quindi non si sviluppa una vita di corte. Non che l’e-
conomia capitalistica a Firenze si sia sviluppata prima
che in molte altre città, ma qui i singoli stadi dell’evo-
luzione si distinguono piú nettamente e le cause dei
conflitti di classe che ne conseguono risultano con piú
evidenza che altrove29. Anzitutto nel caso di Firenze si
può seguire con piú esattezza che in altri Comuni il pro-
cesso attraverso il quale l’alta borghesia, per mezzo delle
Arti, giunge a impadronirsi del potere politico, usando-
lo poi per accrescere la sua preponderanza economica.
Dopo la morte di Federico II le Arti, protette dai Guel-
fi, conquistano il Comune e strappano il governo al
podestà. Si costituisce il «primo popolo», «la prima
associazione politica consciamente illegittima e rivolu-
zionaria»30 che elegge il proprio «capitano». Formal-
mente questi è sottoposto al podestà, ma di fatto è il piú
influente funzionario dello stato: non solo dispone di
tutta la milizia popolare, non solo decide tutte le con-
troversie in materia di tasse, ma esercita anche «una spe-
cie di diritto tribunizio di protezione e di inchiesta» in
tutti i casi di lagnanze contro la prepotenza di un nobi-
le31. Cosí si spezza il predominio della gente di spada e
la nobiltà feudale viene esclusa dal governo della repub-
blica. È la prima decisiva vittoria della borghesia nella
storia moderna, un avvenimento che ricorda il trionfo
della democrazia greca sulla tirannide. Dieci anni dopo
la nobiltà riesce a riprendersi il potere, ma ormai la bor-
ghesia non ha che da affidarsi alla corrente del tempo,
che la risolleva sempre sulle onde tempestose. Verso il
1270 si ha la prima alleanza fra l’aristocrazia del sangue
e quella del denaro, e si prepara cosí il regime di quel

Storia dell’arte Einaudi 20


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ceto plutocratico che determinerà tutta la storia di


Firenze.
Intorno al 1280 l’alta borghesia dispone interamen-
te del potere, ch’essa esercita principalmente attraver-
so il consiglio dei Priori delle Arti. Questi dominano
tutto il meccanismo politico e tutto l’apparato ammini-
strativo e, poiché formalmente sono i rappresentanti
delle Arti, Firenze può dirsi una città corporativa32. Le
corporazioni economiche si son trasformate intanto in
leghe politiche. Tutti i diritti effettivi del cittadino si
fondano ormai sull’appartenenza a una delle corpora-
zioni legalmente riconosciute. Chi non appartiene ad
alcuna organizzazione professionale non è cittadino di
pieno diritto. I magnati sono esclusi dal priorato, qua-
lora non esercitino un’industria come i borghesi, o alme-
no pro forma non appartengano a un’Arte. Il che certo
non vuol dire che tutti i cittadini di pieno diritto abbia-
no politicamente lo stesso peso; la signoria delle Arti non
è che la dittatura della borghesia capitalistica raccolta
nelle sette Arti maggiori. Come veramente sia nata la
distinzione di grado fra le Arti non sappiamo; certo è
che la si trova già definita nei primi documenti della sto-
ria economica fiorentina33. I conflitti qui non scoppia-
no, come per lo piú nelle città tedesche, fra le Arti e il
ceto, non organizzato, dei patrizi, ma fra l’uno e l’altro
gruppo delle Arti34. Di fronte a quello del Nord, il patri-
ziato di Firenze ha fin dall’inizio il vantaggio d’essere
fortemente organizzato, alla pari dei ceti medi. Le Arti,
in cui sono associati il commercio all’ingrosso, la gran-
de industria e le banche, si sviluppano in vere società di
imprenditori, in cartelli. Data la grande potenza di que-
ste Arti l’alta borghesia può servirsi dell’intero appara-
to dell’organizzazione corporativa per opprimere le clas-
si inferiori e anzitutto per ribassare i salari.
Il Trecento è pieno dei conflitti di classe fra la bor-
ghesia che è padrona delle Arti e il proletariato che ne

Storia dell’arte Einaudi 21


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

è escluso. Questo è toccato nel punto piú sensibile dal


divieto d’associazione che ostacola ogni azione colletti-
va per la difesa degli interessi e qualifica come atto rivo-
luzionario ogni movimento di sciopero. L’operaio è ora
il suddito, privo di ogni diritto, di uno stato classista in
cui la classe capitalistica, priva di scrupoli morali, è piú
inumana di quanto sia mai stata prima o dopo nella sto-
ria occidentale35. La condizione è tanto piú disperata, in
quanto non si ha assolutamente coscienza che si tratta
di vera e propria lotta di classe, non si intende il prole-
tariato come una classe sociale e si definiscono i salariati
senza mezzi semplicemente come i «poveri», «che ci
debbono pur essere». La floridezza economica, che in
parte si deve a questa oppressione dei ceti inferiori, fra
il 1328 e il ’38 tocca l’apogeo; poi segue la bancarotta
dei Bardi e dei Peruzzi che provoca una grave crisi
finanziaria e un generale ristagno. Il prestigio dell’oli-
garchia ne subisce un contraccolpo gravissimo: essa deve
piegarsi prima alla signoria del duca d’Atene, poi a un
governo popolare essenzialmente piccolo-borghese – il
primo del genere in Firenze. Come già era accaduto ad
Atene tanti secoli prima, poeti e scrittori parteggiano
per la classe signorile, parlando con il massimo disprez-
zo – come fanno Boccaccio e Villani – del regime dei
bottegai e dei manovali. I quarant’anni successivi, fino
alla repressione del tumulto dei Ciompi, sono l’unico
momento davvero democratico della storia di Firenze –
breve intermezzo fra due lunghi periodi di plutocrazia.
Veramente, anche ora è soltanto la volontà del medio
ceto che riesce a imporsi, le grandi masse operaie deb-
bono ricorrere ancora agli scioperi e alle rivolte. Il
tumulto dei Ciompi del 1378 è il solo di tali moti rivo-
luzionari di cui si abbia precisa notizia; e certo è anche
il piú importante. Soltanto con esso si raggiungono le
condizioni fondamentali della democrazia economica. Il
popolo caccia i priori, crea tre nuove Arti che rappre-

Storia dell’arte Einaudi 22


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

sentano gli operai e i piccoli borghesi, e instaura un


governo popolare che procede anzitutto a una revisione
delle tasse. Il tumulto, che in sostanza è una sollevazio-
ne del quarto stato e tende a una dittatura del proleta-
riato36, in due mesi viene sconfitto dagli elementi mode-
rati, coalizzati con l’alta borghesia, ma ancora per tre
anni assicura ai ceti inferiori l’effettiva partecipazione
al governo. La storia di questo tempo non solo prova che
gli interessi del proletariato erano inconciliabili con quel-
li della piccola borghesia, ma permette di riconoscere
quale grave errore abbia commesso la classe operaia,
proponendosi un mutamento rivoluzionario della pro-
duzione nel quadro ormai antiquato delle Arti37. I gran-
di commercianti invece e i grandi industriali riconob-
bero assai piú rapidamente che le Arti eran diventate un
ostacolo al progresso e cercarono di affrancarsene. Cosí
esse verranno assumendo funzioni sempre piú culturali
e sempre meno politiche, finché non saranno del tutto
sacrificate alla libera concorrenza.
Rovesciato il governo popolare, si ritorna al punto di
prima. Torna a predominare il «popolo grasso», con l’u-
nica differenza che il potere non è piú esercitato dal-
l’intera classe, ma solo da alcune potenti famiglie e che
il loro predominio non verrà piú seriamente minaccia-
to. Nel secolo seguente, appena si avverte un moto sov-
versivo, anche minimamente pericoloso per la classe
dominante, lo si reprime subito e, in verità, senza fati-
ca38. Dopo il dominio relativamente breve degli Alber-
ti, dei Capponi, degli Uzzano, degli Albizzi e della loro
fazione, il potere passa infine ai Medici. D’ora in poi
parlare di democrazia sarà ancor meno giustificato.
Anche se finora solo una parte della borghesia godeva
di veri diritti politici e privilegi economici, questo ceto
tuttavia, almeno nell’ambito proprio, esercitava il pote-
re con una certa equità e in complesso con mezzi cor-
retti. I Medici invece sopprimono anche questa demo-

Storia dell’arte Einaudi 23


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

crazia pur cosí limitata, snaturandola intimamente. Ora,


quando si tratta degli interessi della classe dominante,
non si mutano piú le istituzioni, ma semplicemente se
ne abusa; si manipolano le elezioni, si corrompono o si
intimidiscono i funzionari, si fan muovere i priori come
marionette. Si parla di democrazia, ma è in realtà la dit-
tatura non ufficiale del capo di una ditta familiare, che
si spaccia per un semplice cittadino e si nasconde dietro
le forme impersonali di un’apparente repubblica. Nel
1433 Cosimo è costretto dai suoi rivali all’esilio, fatto
ben noto nella storia fiorentina; ma l’anno dopo, torna-
to in città, riprende a esercitare il suo potere senza il
minimo impedimento. Si fa rieleggere gonfaloniere per
due mesi, dopo aver già due volte ricoperto tale ufficio;
cosí che la sua attività pubblica di governo ha in tutto
la durata di sei mesi. In realtà, attraverso uomini di
paglia, stando fra le quinte, egli domina la città senza
dignità speciali, né titoli, né uffici, né autorità, sempli-
cemente con mezzi illegali. Cosí a Firenze già nel Quat-
trocento all’oligarchia succede una larvata tirannide, da
cui nasce piú tardi senz’alcun attrito il principato vero
e proprio39. Il fatto che i Medici nella lotta contro i loro
rivali si alleino alla piccola borghesia, non muta nulla
nella sostanza. La signoria medicea può anche camuffarsi
in forme patriarcali, ma per natura è piú faziosa e arbi-
traria del governo oligarchico. Lo stato continua ad esse-
re il sostegno di interessi privati; la democrazia di Cosi-
mo sta tutta nel fatto ch’egli lascia che altri governi per
lui e, se possibile, impiega energie fresche e giovani40.
Con la calma e la stabilità, benché imposte a forza
alla maggioranza della popolazione, cominciò per Firen-
ze, dall’inizio del Quattrocento, una nuova floridezza
economica, che durante la vita di Cosimo non fu inter-
rotta da alcuna crisi importante. Qua e là ci furono
sospensioni di lavoro, ma insignificanti e di breve dura-
ta. Firenze toccò l’acme della sua potenza economica. Di

Storia dell’arte Einaudi 24


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

qui s’inviavano ogni anno sedicimila pezze di stoffa a


Venezia, in transito; inoltre gli esportatori fiorentini
usavano anche il porto di Pisa, ormai soggiogata, e dal
1421 quello di Livorno, acquistato per centomila fiori-
ni. È naturale che Firenze andasse fiera della sua poten-
za e che il ceto dominante, che ne traeva gran profitto,
ci tenesse, come già la borghesia ateniese, a far mostra
del proprio potere e della propria ricchezza. Dal 1425
Ghiberti lavora alla splendida porta orientale del Batti-
stero; nell’anno dell’acquisto di Livorno, s’incarica Bru-
nelleschi di progettare la cupola del duomo. Firenze
deve diventare una seconda Atene. I mercanti fiorenti-
ni si fanno boriosi, vogliono affrancarsi dall’estero, pen-
sano all’autarchia, cioè a elevare il consumo interno ade-
guandolo alla produzione41.
L’originaria struttura del capitalismo italiano è
sostanzialmente mutata nel corso del Tre e del Quat-
trocento. Sulla primitiva avidità di guadagno è venuta
prevalendo l’idea della convenienza, del metodo, del
calcolo, e il razionalismo, che fin dagli inizi distingueva
l’economia di profitto, si è fatto assoluto. Lo spirito di
intraprendenza dei pionieri ha perduto i suoi caratteri
romantici, avventurosi, pirateschi; il predone è diven-
tato un organizzatore e un computista, un mercante
previdente nei calcoli e circospetto nella condotta degli
affari. Nell’economia del Rinascimento non era nuovo
in sé il principio di organizzare razionalmente l’attività
economica, né il semplice fatto di abbandonare pronta-
mente un sistema tradizionale di produzione non appe-
na se ne sperimentasse uno migliore, piú rispondente
allo scopo; nuova invece fu la sistematica coerenza con
cui la tradizione venne sacrificata alla razionalità, la
spregiudicatezza con cui ogni fattore della vita econo-
mica venne obiettivamente valutato e trasformato in
una partita di contabilità. Solo questa completa razio-
nalizzazione permise di far fronte ai nuovi compiti crea-

Storia dell’arte Einaudi 25


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ti dall’aumento degli scambi. L’incremento della pro-


duzione esigeva un piú intenso sfruttamento della mano
d’opera, una piú precisa divisione del lavoro e la gra-
duale meccanizzazione dei metodi: non si trattava sol-
tanto d’introdurre macchine, ma anche di rendere
impersonale il lavoro umano, valutando il lavoratore
unicamente a seconda del rendimento. Nulla meglio
rivela la mentalità economica del nuovo tempo di que-
sto realismo che riduce l’uomo al suo rendimento e que-
sto al suo valore in denaro, al salario; il realismo per cui,
in altre parole, l’operaio si riduce a semplice elemento
di un complicato sistema d’investimenti e profitti, di
possibilità di guadagno o di perdita, di attività e passi-
vità. Ma il razionalismo del tempo si esprime anche e
soprattutto nel carattere in complesso commerciale che
ha assunto ormai l’economia della città, un tempo essen-
zialmente artigiana. E questa trasformazione consiste
non soltanto nel fatto che nell’attività dell’imprendito-
re il fattore manuale perde importanza e prevalgono
invece il calcolo e la speculazione42; ma anche nell’af-
fermarsi del principio per cui non è necessario produr-
re altre merci per produrre altri valori. Ciò che è carat-
teristico della nuova economia è quel senso che essa ha
della natura fittizia, mutevole, del prezzo di mercato
sempre legato alle congiunture, la consapevolezza che il
valore di una merce non è affatto una costante, anzi flut-
tua di continuo, e che il suo livello non dipende dalla
buona o dalla cattiva volontà del mercante, ma da con-
giunture obiettive. Come dimostra il concetto del «giu-
sto prezzo» e gli scrupoli sul dare a interesse, nel
Medioevo si considerava il valore come una qualità
sostanziale, stabilmente inerente alla merce; solo con il
costituirsi di un’economia commerciale se ne scopre la
reale natura, la sostanziale relatività e il carattere estra-
neo ad ogni considerazione morale.
Nello spirito capitalistico del Rinascimento entrano

Storia dell’arte Einaudi 26


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

insieme la passione degli affari e le cosiddette «virtú


borghesi»: amor del guadagno e operosità, frugalità e
rispettabilità43. Ma anche il nuovo sistema etico non fa
che rispecchiare la generale tendenza razionalizzatrice.
Il borghese infatti segue positive considerazioni d’inte-
resse anche là dove pare che si tratti solo del suo pre-
stigio; e per rispettabilità egli intende solidità commer-
ciale e buon nome; lealtà, nel suo linguaggio, significa
solvibilità. Soltanto nella seconda metà del Quattro-
cento questi principî di vita positiva e razionale cedono
all’ideale del rentier e solo allora la vita del borghese assu-
me caratteri signorili. Il processo si svolge in tre tappe.
Al «tempo eroico del capitalismo» l’aspetto saliente del-
l’imprenditore è quello del combattivo predone, del-
l’audace avventuriero che fida solo in se stesso e non si
adatta alla relativa sicurezza dell’economia medievale.
L’abitante delle città a quei tempi combatte realmente
contro la nobiltà nemica, i Comuni rivali e le inospiti
città marinare. Quando a queste lotte segue una relati-
va tranquillità e i traffici convogliati per vie sicure per-
mettono ed esigono una produzione piú sistematica e piú
intensa, il tipo del borghese perde a poco a poco i suoi
caratteri romantici; tutta la sua vita si disciplina in una
regola ragionevole, coerente, metodica. Ma, conseguita
la sicurezza economica, la disciplina della morale bor-
ghese si allenta, e si cede con soddisfazione crescente
agli ideali dell’ozio e della bella vita. Il borghese si avvi-
cina a uno stile di vita irrazionale proprio quando i prin-
cipi, che ormai pensano secondo criteri fiscali, comin-
ciano ad ispirarsi a norme non diverse da quelle profes-
sionali di un solido mercante, probo e solvibile44. La
corte e la borghesia s’incontrano a mezza strada. I prin-
cipi diventano sempre piú progressisti, mostrandosi
anche nella loro attività culturale non meno innovatori
dell’alta borghesia; questa per contro si fa sempre piú
conservatrice e favorisce un’arte che torna agli ideali

Storia dell’arte Einaudi 27


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

della cavalleria e dello spiritualismo gotico, o per meglio


dire – poiché essi non sono mai scomparsi del tutto dal-
l’arte – torna a metterli in rilievo.
Giotto è il primo maestro del naturalismo in Italia.
Gli antichi autori, Villani, Boccaccio, e anche Vasari,
non senza ragione sottolineano l’irresistibile efficacia
della sua fedeltà al vero sui contemporanei; e non per
nulla contrappongono il suo stile alla rigidezza e all’ar-
tificio della maniera bizantina, allora ancor largamente
diffusa. Noi siamo abituati a confrontare la chiarezza e
la semplicità, la logica e la precisione del suo linguaggio
con il naturalismo ulteriore, piú frivolo e meschino; ci
sfugge cosí l’immenso progresso che l’arte di Giotto ha
significato nella rappresentazione immediata delle cose,
com’egli cioè abbia saputo dar forma e narrare tutto
quello che prima di lui era semplicemente inesprimibile
con mezzi pittorici. Cosí egli è divenuto per noi il rap-
presentante della grande forma classica, severamente
regolare, mentre in realtà egli fu anzitutto il maestro di
un’arte borghese, semplice, logica, sobria, che trae la sua
classicità dall’ordine e dalla sintesi che sa imporre alle
impressioni immediate, dalla sua visione razionale e
semplificatrice della realtà e non già da un astratto idea-
lismo. Si è voluto scoprire nell’opera sua una volontà di
ricreare l’antico, ma egli in realtà non volle esser che un
narratore breve e preciso, e il suo rigore formale non si
deve interpretare come fredda astrazione, ma come inci-
siva drammaticità. La sua visione artistica nasce da un
mondo borghese relativamente ancor modesto, sebbene
già ben consolidato in senso capitalistico. La sua attività
si svolge nel periodo di floridezza economica che sta fra
l’avvento delle Arti al potere e la bancarotta dei Bardi
e dei Peruzzi, in quel primo grande periodo di civiltà
borghese che vide sorgere gli edifici piú splendidi della
Firenze medievale: Santa Maria Novella e Santa Croce,
Palazzo Vecchio, il Duomo e il Campanile. L’arte di

Storia dell’arte Einaudi 28


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Giotto è rigorosa e obiettiva come la mentalità dei suoi


committenti che vogliono prosperare e dominare, ma
non danno ancora uno speciale valore alla pompa e allo
sfarzo. L’arte fiorentina dopo di lui è diventata piú
naturale nel senso moderno, perché piú scientifica; ma
nel Rinascimento nessun artista è stato mai piú onesto
di lui nello sforzo di essere vero e diretto nella rappre-
sentazione del reale.
Tutto il Trecento è sotto il segno del naturalismo
giottesco. Veramente qua e là ci sono ancora manife-
stazioni di stile arretrato che non sanno liberarsi dalle
forme stereotipe dell’antica tradizione pre-giottesca; ci
sono correnti in ritardo, anzi reazionarie, che si atten-
gono allo stile ieratico del Medioevo, ma l’orientamen-
to naturalistico è quello prevalente nel gusto dell’epoca.
La prima grande rielaborazione del naturalismo giotte-
sco avviene a Siena, donde esso penetra nel Nord, spe-
cialmente per il tramite di Simone Martini e dei suoi
affreschi nel Palazzo papale di Avignone45. Per un
momento Siena è alla testa dell’evoluzione artistica,
mentre Firenze perde assai terreno. Giotto muore nel
1337; la crisi finanziaria provocata dai grandi fallimen-
ti comincia nel 1339; la squallida tirannide del duca
d’Atene è degli anni 1342-43; nel 1346 ha luogo una
grave sommossa; il 1348 è l’anno della grande pestilen-
za, che infuria a Firenze ancor piú tremenda che altro-
ve; fra la peste e il tumulto dei Ciompi, sono anni
inquieti, pieni di torbidi e di rivolte; per l’arte è un
tempo sterile. A Siena, dove la media borghesia ha mag-
gior peso e dove le tradizioni sociali e religiose hanno
radici piú profonde, l’evoluzione culturale non è turba-
ta da crisi o da catastrofi, e il sentimento religioso può
rivestire forme piú adeguate al tempo e suscettibili di
maggiore sviluppo, appunto perché è ancora un senti-
mento vivo. Il maggior progresso sulla via aperta da
Giotto lo fa il senese Ambrogio Lorenzetti, il creatore

Storia dell’arte Einaudi 29


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

del paesaggio naturalistico e della veduta illusionistica di


città. Di fronte allo spazio di Giotto, che è, sí, unitario
e continuo, ma non mai piú profondo di uno scenario,
egli crea, nella sua veduta di Siena, una prospettiva che
supera ogni precedente del genere, non solo per la sua
ampiezza, ma anche per il naturale collegamento delle
diverse parti in un unico spazio. L’immagine di Siena è
cosí fedele, che si riconosce ancora la parte della città
che serví come tema al pittore; e sembra di poter cam-
minare per quelle vie che fra i palazzi dei nobili e le case
dei borghesi, fra le botteghe e i fondachi si snodano su
per la collina.
A Firenze l’evoluzione da principio non solo è piú
lenta, ma anche meno unitaria che a Siena46. Essa si
muove essenzialmente nel solco del naturalismo, ma
certo non sempre nella stessa direzione dei Lorenzetti e
della loro pittura d’ambiente. Taddeo Gaddi, Bernardo
Daddi, Spinello Aretino sono narratori ingenui quanto
Ambrogio Lorenzetti; anch’essi con la loro tendenza
all’ampiezza si rifanno alla tradizione giottesca e perse-
guono soprattutto la profondità spaziale. Ma, accanto a
questa corrente, a Firenze ce n’è un’altra importante,
quella di Andrea Orcagna, Nardo di Cione e scolari,
che, invece dell’intimo e spontaneo modo lorenzettiano,
rimangono fedeli alla solennità ieratica del pieno
Medioevo, conservandone la rigida simmetria e il ritmo
severo, il decorativismo piatto e la frontalità, il princi-
pio dell’allineamento e dell’addizione. Tuttavia si è giu-
stamente contestata la tesi che in tutto ciò sia da vede-
re soltanto una reazione al naturalismo47 e si è ricorda-
to che il naturalismo in pittura non sta tutto nella
profondità spaziale e nella forma libera dagli schemi
geometrici: tra le sue conquiste sono anche quei «valo-
ri tattili», che il Berenson pregia appunto anche nel-
l’Orcagna48. Per il plastico rilievo e il peso statuario che
dà alle sue figure, l’Orcagna rappresenta nella storia

Storia dell’arte Einaudi 30


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

dell’arte una corrente progressiva quanto quella dei


Lorenzetti o di Taddeo Gaddi, con la loro ricerca di
ampiezza e profondità spaziale. La supposizione che qui
si tratti di un arcaismo programmatico, da connettere
all’influsso dei Domenicani, è smentita nel modo piú
palese dagli affreschi della Cappella degli Spagnoli nel
chiostro di Santa Maria Novella: per quanto dedicate
alla gloria dell’ordine domenicano, queste pitture sono,
per molti aspetti, tra le opere piú evolute dell’epoca.
Nel Quattrocento Siena perde la sua posizione di
guida nella storia dell’arte. In primo piano torna Firen-
ze, all’acme ora della sua potenza economica. Questa
situazione invero, se non è la causa immediata della pre-
senza e della singolarità dei suoi grandi maestri, spiega
comunque l’ininterrotto flusso delle ordinazioni e quin-
di l’emulazione attraverso la quale essi si fanno strada.
Ora Firenze è, con Venezia – che tuttavia ha uno svi-
luppo tutto particolare e resta un’eccezione – l’unico
luogo in Italia dove si esplichi una cospicua attività
artistica di tendenze moderne, in complesso indipen-
dente dallo stile tardogotico e aulico dell’Occidente
europeo. Nella Firenze borghese da principio l’arte
cavalleresca, importata di Francia, trova limitata com-
prensione, mentre viene adottata alle corti dell’alta Ita-
lia. Anche geograficamente questa regione è piú vicina
all’Occidente, anzi confina direttamente con territori di
lingua francese. I romanzi cavallereschi di Francia vi si
diffondono già nella seconda metà del Duecento e non
solo vengono tradotti – come negli altri paesi d’Euro-
pa – e imitati nell’idioma del paese, ma anche ripresi e
sviluppati nella lingua originale. Si scrivono poemi epici
in francese, come liriche nella lingua dei trovatori49. Le
grandi città mercantili dell’Italia centrale non sono
certo isolate dall’Occidente e dal Nord, e i loro mer-
canti, che reggono i traffici con la Francia e le Fiandre,
introducono gli elementi della cultura cavalleresca

Storia dell’arte Einaudi 31


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

anche in Toscana; ma qui manca un pubblico vera-


mente interessato sia ad una vera epopea cavalleresca,
che ad una pittura ispirata al romanticismo
cortese-cavalleresco. Invece alle corti dei principi pada-
ni, a Milano, Verona, Padova, Ravenna e in molte altre
città minori, dove dinasti e tiranni si uniformano stret-
tamente agli esempi di Francia, non solo si continua a
leggere con immutato entusiasmo il romanzo cavallere-
sco francese, non solo lo si copia e lo si imita, ma lo si
illustra nel gusto d’oltralpe50. L’attività pittorica di que-
ste corti per altro non si limita ai manoscritti miniati,
ma si esercita anche in grandi cicli decorativi, che ugual-
mente traggono ispirazione dagli ideali cavallereschi di
quei romanzi e attingono argomenti dalla stessa vita di
corte: battaglie e tornei, cacce e cavalcate, scene di
gioco e di danza, favole mitologiche, soggetti biblici e
storici, immagini di eroi antichi e moderni, allegorie
delle Virtú cardinali, delle Arti liberali e soprattutto
dell’amore, figurato o adombrato in mille modi. Que-
ste pitture seguono, nell’impostazione generale, i modi
dell’arazzo da cui principalmente derivano, e al pari di
questo mirano a un effetto di festoso splendore, soprat-
tutto con lo sfarzo delle vesti e il contegno di cerimo-
nia dei personaggi. Le figure sono rappresentate in pose
convenzionali, ma non senza una relativa giustezza
d’osservazione e una notevole disinvoltura di disegno:
cosa che si comprende se si pensa che tale pittura ha le
sue radici in quello stesso naturalismo gotico da cui
deriva anche l’arte borghese del tardo Medioevo. Basta
pensare al Pisanello per intendere quanto il naturalismo
rinascimentale deve a questi affreschi, ai loro sfondi di
verzura, a quelle piante e a quegli animali colti con
tanta vivacità e dipinti con tanta sapienza. I pochi
esempi che ancora si conservano in Italia di piú antica
pittura decorativa profana forse non risalgono oltre il
primo Quattrocento, ma i cicli trecenteschi non dove-

Storia dell’arte Einaudi 32


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

vano essere sostanzialmente diversi. Tali resti si trova-


no in Piemonte e in Lombardia, e tra essi sono da ricor-
dare quelli del castello della Manta, presso Saluzzo, e
di casa Borromeo a Milano. Da fonti contemporanee
sappiamo tuttavia che anche molte altre sedi principe-
sche dell’alta Italia possedevano una ricca e fastosa
decorazione pittorica; tra queste, la rocca di Cangran-
de a Verona e il castello dei Carraresi a Padova51.
A differenza di quanto accadeva alle corti, nelle città
a governo comunale l’arte del Trecento era di carattere
prevalentemente sacro. Solo nel Quattrocento ne muta-
no lo spirito e lo stile; solo ora, rispondendo alle nuove
esigenze dei privati e al generale orientamento raziona-
listico, essa prende carattere mondano. Non solo si
diffondono nuovi generi, come la pittura di storia e il
ritratto, ma anche i soggetti sacri si riempiono di moti-
vi profani. Certo anche cosí l’arte dei Comuni mantie-
ne con la Chiesa e con la religione legami piú stretti che
non l’arte delle Signorie e, almeno in questo, la bor-
ghesia è piú conservatrice della società di corte. Ma a
metà del secolo anche nei Comuni, specialmente a Firen-
ze, si possono notare nell’arte elementi cortesi e caval-
lereschi. I romanzi, diffusi dai giullari, penetrano fra la
gente piú umile e in forma popolare giungono anche
nelle città toscane; frattanto essi perdono il loro ideali-
smo originario diventando semplice letteratura amena52.
È questa anzitutto a destar l’interesse dei pittori locali
con i suoi soggetti romanzeschi; vi si aggiunga poi il
diretto influsso di artisti come Domenico Veneziano e
Gentile da Fabriano, che provenendo dall’alta Italia
diffondono a Firenze il gusto di corte delle regioni set-
tentrionali. Infine l’alta borghesia, ormai ricca e poten-
te, comincia a far propri i costumi del mondo aristocra-
tico e nella materia del romanzo cavalleresco non vede
piú soltanto qualcosa di esotico, ma anche, in certo
senso, dei modelli di vita.

Storia dell’arte Einaudi 33


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

All’inizio del Quattrocento questa evoluzione in


senso aulico si nota appena. I maestri della prima gene-
razione, sopra tutti Masaccio e Donatello, son piú vici-
ni all’arte severa di Giotto, tutta intesa all’unità dello
spazio e al rilievo statuario delle figure, che non al gusto
prezioso delle corti o, anche, alle forme leggiadre e spes-
so indisciplinate della pittura trecentesca. Dopo le scos-
se della crisi finanziaria, della peste e del tumulto dei
Ciompi, questa generazione deve, si può dire, rifarsi dal
principio. La borghesia, nei costumi come nel gusto, si
mostra ora piú semplice, piú sobria e puritana di prima.
A Firenze torna a dominare una mentalità obiettiva e
realistica, aliena dal romanzesco; e contro la concezio-
ne aristocratica e cortese dell’arte un nuovo, fresco,
robusto naturalismo riesce ad affermarsi, man mano che
la borghesia torna a consolidarsi. Quella di Masaccio e
di Donatello giovane è l’arte di una società ancora in
lotta, benché profondamente ottimista e sicura della
vittoria, è l’arte di un nuovo tempo eroico del capitali-
smo, di una nuova epoca di conquistatori. Come nei
provvedimenti politici di quegli anni, cosí nel grandio-
so realismo dell’arte si esprime un fiducioso, se pur non
sempre sereno, senso di forza. Scompare la fatua sensi-
bilità, il capriccioso linearismo, il decorativismo calli-
grafico della pittura trecentesca. Le figure ridiventan piú
solide, ferme, massicce, stan piú salde sulle gambe, si
muovono piú libere e naturali nello spazio. Piuttosto
compatte che fragili, rudi piuttosto che leggiadre, espri-
mono forza, energia, dignità e serietà. Il senso del
mondo e della vita in quest’arte è sostanzialmente anti-
gotico, cioè alieno dalla metafisica e dal simbolismo,
dal romanzo e dal cerimoniale. Questa, almeno, è la
tendenza prevalente, anche se non l’unica. La cultura
artistica del Quattrocento italiano in effetti è già cosí
complicata, vi partecipano ceti cosí diversi per origine
e per educazione, che è impossibile chiuderla in una

Storia dell’arte Einaudi 34


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

definizione che sia unitaria e possa valere per tutti i suoi


aspetti. Accanto allo stile «rinascimentale», classica-
mente statuario, di Masaccio e di Donatello, sopravvi-
ve la tradizione dello spiritualismo gotico, del decorati-
vismo medievale: e non solo nell’arte dell’Angelico o di
Lorenzo Monaco, ma anche nelle opere di artisti pur cosí
innovatori come Andrea del Castagno e Paolo Uccello.
In una società cosí economicamente differenziata e spi-
ritualmente complessa come quella del Rinascimento,
una tendenza stilistica non scompare dall’oggi al doma-
ni, anche quando il ceto a cui in origine eran destinati
i suoi prodotti perde la sua potenza economica e politi-
ca e deve cedere a un altro ceto la sua egemonia cultu-
rale o, mantenendola, ne muta l’orientamento. Lo stile
spiritualistico del Medioevo poteva anche apparire anti-
quato e brutto alla maggioranza della borghesia, ma era
ancor quello che meglio rispondeva al sentimento reli-
gioso di una minoranza assai considerevole. In ogni
civiltà evoluta accade che ceti sociali assai diversi fra
loro e artisti ugualmente diversi, legati a questi ceti,
generazioni differenti di consumatori e di produttori
d’arte, giovani e vecchi, precursori ed epigoni vivano gli
uni accanto agli altri, gli uni distinti dagli altri; ma in
una civiltà relativamente antica come il Rinascimento le
singole tendenze non arrivano a esprimersi in gruppi
definiti, esponenti di una sola tendenza, senza conta-
minazioni. La presenza di antitetiche tendenze non può
spiegarsi soltanto con la contiguità delle generazioni, «la
coesistenza degli uomini di età diversa»53; spesso i dis-
sidi si verificano all’interno di una stessa generazione:
Donatello e l’Angelico, Masaccio e Domenico Venezia-
no son quasi coetanei, mentre Piero della Francesca, che
è l’artista piú affine a Masaccio, è distinto da lui dallo
spazio di una mezza generazione. Le antinomie si rive-
lano anche nello spirito del singolo. In un artista come
l’Angelico, Chiesa e mondo, Gotico e Rinascimento si

Storia dell’arte Einaudi 35


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ritrovano indissolubilmente legati tra di loro, come nel


Castagno, in Pesellino e nel Gozzoli razionalismo e fan-
tasia romanzesca, gusto borghese e gusto aulico. È molto
incerto il confine fra gli epigoni del gotico e i precurso-
ri di quel gusto romanzesco caro alla borghesia, che per
tanti aspetti è ancora affine al gotico.
Il naturalismo, che costituisce la tendenza fonda-
mentale dell’arte quattrocentesca, piú volte cambia stra-
da, in corrispondenza con gli sviluppi dell’evoluzione
sociale. Il naturalismo di Masaccio, monumentale, anti-
goticamente semplice, teso anzitutto alla chiarezza dei
rapporti spaziali e delle proporzioni, quello ridondante
del Gozzoli, quasi pittura di genere, e la sensibilità psi-
cologica del Botticelli corrispondono a tre diversi stadi
nella storia della borghesia, che dalla semplicità delle ori-
gini assurge via via a vera aristocrazia del denaro. Un
motivo colto direttamente sul vero come l’«ignudo che
triema» di Masaccio nella scena del battesimo alla cap-
pella Brancacci è una rarità al principio del Quattro-
cento, ma verso la metà del secolo sarebbe del tutto nor-
male. Allora infatti questo gusto per ciò che è indivi-
duale, caratteristico e curioso, assume per la prima volta
grande importanza e nasce allora l’idea di un mondo
composto da petits faits vrais, che finora la storia dell’arte
aveva ignorato. Episodi della vita d’ogni giorno, scene
di strada e interni domestici, stanze di puerpere e fidan-
zamenti, la nascita di Maria e la Visitazione viste come
scene di società, san Girolamo in un interno di casa bor-
ghese e le storie dei santi che si svolgono in mezzo al
trambusto delle città mercantili: ecco i soggetti del
nuovo naturalismo. Ma sarebbe errato presumere che
con tali figurazioni si volesse significare che «i santi non
sono che uomini», e che la predilezione per i temi di vita
borghese fosse un segno di modestia; al contrario, si era
fieri e soddisfatti di mostrar ogni particolare di quell’e-
sistenza. Tuttavia i ricchi borghesi che ora s’interessa-

Storia dell’arte Einaudi 36


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

no all’arte benché non disconoscano affatto la propria


importanza, non vogliono apparire piú di quel che sono.
Solo dopo la metà del secolo appaiono segni di un
mutamento. Piero della Francesca rivela già una certa
inclinazione alla solenne frontalità e una preferenza per
le forme auliche e di cerimonia. D’altronde egli lavora
molto per i principi e subisce direttamente l’influsso
delle convenzioni di corte. A Firenze però l’arte si man-
tiene, fino alla fine del secolo, libera in complesso da
convenzioni e da eccessivi formalismi, anche se indulge
sempre piú a leggiadrie e preziosismi e tende innegabil-
mente a un tono sempre piú elegante e squisito. È vero
comunque che il pubblico di Antonio Pollaiolo e di
Andrea del Verrocchio, del Botticelli e del Ghirlandaio
non ha piú nulla in comune con quella borghesia puri-
tana per cui avevano lavorato Masaccio e Donatello gio-
vane.
La differenza che corre fra Cosimo e Lorenzo de’
Medici, la diversità dei principî secondo cui essi eserci-
tano il potere e organizzano la loro vita privata ci danno
la misura della distanza che separa le due generazioni.
Come, dai tempi di Cosimo, la repubblica, sia pur solo
apparentemente democratica, si è venuta trasformando
in vero e proprio principato, come il «primo cittadino»
e il suo seguito sono diventati un principe e una corte,
cosí pure dall’antica borghesia proba e intenta al profitto
si è sviluppata una classe che vive di rendita, disprezza
il lavoro e il guadagno e vuole godersi nell’ozio la ric-
chezza ereditata dai padri. Cosimo era ancora essen-
zialmente un uomo d’affari; amava l’arte e la filosofia,
si faceva costruir belle case e ville, si circondava di arti-
sti e di dotti, e, quando occorreva, non ignorava nem-
meno il cerimoniale; ma il centro della sua vita erano la
banca e l’ufficio. Lorenzo non ha piú interesse agli affa-
ri del nonno e degli avi, li trascura e li manda in rovi-
na; lo interessano solo gli affari di stato, i rapporti con

Storia dell’arte Einaudi 37


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

i monarchi d’Europa, la sua corte principesca, il suo


ruolo di guida intellettuale, l’accademia neoplatonica e
quella artistica, la sua attività di poeta e di mecenate.
Esteriormente tutto ciò si svolge ancora in forme bor-
ghesi e patriarcali. Lorenzo non permette che alla sua
persona e alla sua casa si attribuiscano pubblici onori; i
ritratti dei membri della famiglia servono sempre a usi
privati, non altrimenti da quelli di ogni cospicuo citta-
dino, e non sono destinati al pubblico, come, cent’anni
piú tardi, le statue dei granduchi54.
Il tardo Quattrocento è stato definito come la cultu-
ra di una «seconda generazione», la generazione cioè dei
figli viziati e dei ricchi eredi; e il contrasto con la prima
metà del secolo parve cosí deciso, che si credette di
poter parlare di una cosciente reazione, di una voluta
«restaurazione del gotico» e insomma di un «antirina-
scimento»55. A questa tesi si obiettò giustamente che la
tendenza che essa indicava come un ritorno al gotico
non fa la sua comparsa solo nella seconda metà del Quat-
trocento, ne costituisce invece un aspetto piú o meno
palese, ma costante56. Ma per quanto sia innegabile il
perdurare anche nel Quattrocento delle tradizioni
medievali e un persistente contrasto tra spirito borghe-
se e ideali gotici, non si può disconoscere che nella bor-
ghesia fino a metà del secolo è prevalente un atteggia-
mento intellettuale avverso al gotico, realistico e anti-
romantico, liberale e democratico; e che solo al tempo
di Lorenzo lo spiritualismo, il gusto delle convenzioni e
le tendenze conservatrici prendono il sopravvento. Tut-
tavia non ci si può immaginare l’evoluzione come una
rinuncia improvvisa e totale dello spirito borghese alla
sua struttura dinamica e dialettica. Il dominio delle ten-
denze conservatrici, spiritualistiche, cavalleresche e cor-
tigiane nella seconda metà del Quattrocento incontra
naturalmente contrasti e opposizioni, non meno che la
prevalenza, nella prima metà del secolo, dello spirito

Storia dell’arte Einaudi 38


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

innovatore della borghesia. Come in quei primi anni


accanto agli ambienti progressisti ce n’erano altri che
servivano a ritardare il generale sviluppo, cosí ora accan-
to ai gruppi conservatori qua e là si affermano elemen-
ti progressivi.
Il ritiro degli antichi ceti, ormai sazi, dalla vita eco-
nomica attiva e il farsi avanti di elementi nuovi, finora
esclusi dalla possibilità di grandi profitti, verso i posti
vacanti, o, in altre parole, l’assurgere di ceti poveri alla
condizione di agiati e degli agiati a quella di aristocra-
tici rappresenta il ritmo costante dell’evoluzione capi-
talistica57. I ceti colti, ieri ancora inclini a innovare, oggi
sentono e pensano da conservatori; ma prima che pos-
sano trasformare l’intera vita intellettuale secondo la
loro nuova mentalità, ecco che riesce a impadronirsi
degli strumenti della cultura, da cui ancora durante la
precedente generazione era escluso, un altro ceto forte
di una sua capacità dinamica, che a sua volta, alla gene-
razione successiva, si porrà come remora al naturale svi-
luppo, prima di cedere definitivamente ad altri. Nella
seconda metà del Quattrocento sono veramente gli ele-
menti conservatori a dare il tono a Firenze, ma l’avvi-
cendamento sociale non è affatto cessato; ci sono sem-
pre, notevolmente attive, forze dinamiche che evitano
l’irrigidirsi dell’arte nel preziosismo aulico, nell’artificio
e nella convenzionalità. Malgrado l’inclinazione a sotti-
gliezze manierate e a un’eleganza spesso vacua, conti-
nuano ad affermarsi nuovi impulsi naturalistici. Anche
se assume molti aspetti aulici, e prende toni formalisti-
ci e artificiosi, l’arte di questo tempo non si preclude mai
la possibilità di rinnovare e ampliare la sua visione.
Rimane un’arte innamorata della realtà, aperta a nuove
esperienze: espressione di una società forse un po’ affet-
tata e schizzinosa, ma non certo contraria ad accogliere
nuovi impulsi. Da questo miscuglio di realismo e con-
venzione, di razionalismo e romanticismo escono a un

Storia dell’arte Einaudi 39


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

tempo la rispettabilità borghese del Ghirlandaio e l’ari-


stocratica raffinatezza di Desiderio, il robusto senso del
reale del Verrocchio e la poetica fantasia di Piero di
Cosimo, la lieta amabilità del Pesellino e la malinconi-
ca bizzarria di Botticelli. Le cause sociali di questo muta-
mento stilistico verso la metà del secolo sono da cerca-
re in parte nella diminuzione della clientela. La signo-
ria medicea, con la sua oppressione fiscale ha sensibil-
mente ridotto il volume degli affari, costringendo molti
imprenditori a lasciare Firenze trasportando altrove le
loro aziende58. Sintomi del declino industriale, quali l’e-
migrazione dei lavoratori e il regresso della produzione,
si fanno già sentire ai tempi di Cosimo59. Sempre piú la
ricchezza si accentra in poche mani. Il pubblico dei
committenti d’arte, che nella prima metà del secolo ten-
deva sempre piú ad estendersi fra i privati cittadini,
mostra ora una tendenza a restringersi. Le ordinazioni
provengono principalmente dai Medici e da poche altre
famiglie; la produzione, già per questo fenomeno, assu-
me un carattere piú esclusivo e raffinato.
Nei Comuni italiani, durante gli ultimi due secoli,
diretti committenti di architetture ecclesiastiche e di
opere d’arte non erano per lo piú i prelati, ma i laici che
ne rappresentavano e ne curavano gli interessi, cioè da
un lato il Comune, le grandi Corporazioni e le confra-
ternite religiose, dall’altro le fondazioni private, le
famiglie ricche e illustri60. L’attività edilizia e artistica
dei Comuni giunse all’apice nel Trecento, col primo fio-
rire dell’economia urbana; in quel tempo l’ambizione
dei cittadini si manifestava ancora in forme collettive
e solo piú tardi cominciò a esplicarsi in iniziative indi-
viduali. I Comuni italiani in questa attività artistica
profusero tesori, come già le poleis greche. E non solo
Firenze e Siena, ma anche Comuni minori, come Lucca
e Pisa, vollero non essere da meno e quasi si dissan-
guarono in questa orgogliosa rivalità di costruttori.

Storia dell’arte Einaudi 40


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Nella maggior parte dei casi i signori cittadini, giun-


gendo al potere, proseguirono l’attività artistica dei
Comuni e, se possibile, la superarono in prodigalità.
Fecero cosí la piú efficace propaganda a se stessi e al
loro governo, lusingando la vanità dei cittadini e rega-
lando opere d’arte a quegli stessi che poi, di regola,
dovevano pagarle. Questo, ad esempio, avvenne per la
costruzione del duomo di Milano, mentre le spese per
la Certosa di Pavia vennero sostenute dalla cassa privata
dei Visconti e degli Sforza61.
In Italia le Arti non si limitarono, come in altri paesi,
a costruire e abbellire i loro oratori e le loro sedi socia-
li, ma parteciparono alle imprese artistiche del Comune,
specie alla costruzione delle grandi chiese. Tali compiti
del resto erano fin da principio di competenza delle
Arti, che sempre piú li vennero sviluppando, via via che
diminuiva il loro influsso politico ed economico. Ma di
solito esse si limitavano a fornire dei comitati di esper-
ti e degli organi di controllo alle autorità comunali cosí
come queste spesso non facevano che amministrare
donazioni private. In nessun modo le Arti possono con-
siderarsi alla stregua di fabbricieri, e neppure sono da
ritenere promotrici di tutte le imprese artistiche da loro
dirette; per lo piú amministravano soltanto le somme
messe a disposizione per gli edifici e, al massimo, le inte-
gravano con prestiti o con contributi volontari di mem-
bri dell’Arte62. Per la sorveglianza delle opere loro affi-
date, le corporazioni eleggevano propri comitati edilizi
che potevano contare da quattro a dodici membri («ope-
rai»), a seconda dell’impresa. Tali comitati bandivano
concorsi, affidavano gl’incarichi, approvavano i proget-
ti, sorvegliavano i lavori, procuravano i materiali e cor-
rispondevano i salari. Quando la stima di certe presta-
zioni artistiche o tecniche richiedeva una particolare
competenza, essi nominavano un comitato di esperti63.
Con simili poteri e attribuzioni l’Arte della Lana, a

Storia dell’arte Einaudi 41


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Firenze, condusse la costruzione del Duomo e del Cam-


panile, l’Arte di Calimala i lavori del Battistero e della
chiesa di San Miniato, l’Arte della Seta la costruzione
dell’Ospedale degli Innocenti. Quale fosse la procedura
consueta dei concorsi, si ricava chiaramente dalla storia
delle porte bronzee del Battistero. Nell’anno 1401 l’Ar-
te di Calimala bandí per esse un pubblico concorso. Fra
i concorrenti, si designarono sei artisti per un vaglio
ulteriore: fra essi Brunelleschi, Ghiberti e Jacopo della
Quercia. Si diede loro un anno per eseguire un rilievo
di bronzo, il cui soggetto, a giudicar dall’analogia tema-
tica nei lavori conservati, deve essere stato esattamen-
te prescritto. Alle spese vive e al mantenimento degli
artisti durante il periodo di prova provvide l’Arte stes-
sa. Sui modelli presentati deliberò infine un collegio di
giudici nominato dall’Arte, composto da trentaquattro
artisti di grido.
Al principio le ordinazioni della borghesia consiste-
vano soprattutto in doni per chiese e conventi; solo
verso la metà del secolo si cominciò a ordinare in mag-
gior numero opere profane per uso privato. Da allora
anche le case dei ricchi cittadini, non solo i castelli e i
palazzi dei principi e dei nobili, cominciano a ornarsi di
quadri e di statue. Anche qui evidentemente considera-
zioni di prestigio, il desiderio di brillare e di farsi un
monumento, giocano un ruolo non minore, e forse piú
rilevante, dell’esigenza estetica. Certo, questi moventi
non erano estranei nemmeno alle donazioni di opere
d’arte alle chiese. Ma le condizioni sono ora mutate, cosí
che i piú cospicui cittadini, gli Strozzi, i Quaratesi, i
Rucellai si curano molto piú dei loro Palazzi che delle
cappelle di famiglia. Giovanni Rucellai è forse il tipo piú
rappresentativo di questi nuovi mecenati interessati
soprattutto all’arte profana64. Di famiglia patrizia arric-
chitasi nell’industria della lana, egli appartiene a quella
generazione gaudente che, sotto Lorenzo de’ Medici,

Storia dell’arte Einaudi 42


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

comincia a ritirarsi dagli affari. Nelle sue note autobio-


grafiche, uno dei celebri zibaldoni del tempo, egli scri-
ve che per cinquant’anni altro non ha fatto che guada-
gnare e spendere e ha compreso che lo spendere è anche
piú piacevole del guadagnare. Delle sue fondazioni eccle-
siastiche egli dice che gli hanno dato e gli danno la mas-
sima soddisfazione, perché tornano a gloria di Dio e a
onore della città e anche perpetuano la sua memoria. Ma
Giovanni Rucellai non si limita a doni e a fabbriche, è
anche un collezionista: possiede opere di Andrea del
Castagno, Paolo Uccello, Domenico Veneziano, Anto-
nio Pollaiolo, Verrocchio, Desiderio da Settignano e
altri. Questo trasformarsi dell’amatore d’arte da dona-
tore in collezionista lo vediamo anche meglio con i
Medici. Cosimo è ancora soprattutto il fabbriciere delle
chiese di San Marco, Santa Croce, San Lorenzo e della
Badia di Fiesole; suo figlio Piero è già un collezionista
sistematico, e Lorenzo è esclusivamente un collezionista.
C’è una correlazione storica fra la figura del colle-
zionista e quella dell’artista che lavora indipendente-
mente dalle ordinazioni; nel corso del Rinascimento essi
appaiono contemporaneamente, l’uno accanto all’altro.
L’apparizione non è tuttavia repentina, è anzi il risul-
tato di un lento processo. L’arte del Quattrocento con-
serva ancora nell’insieme un carattere artigianale per cui
di volta in volta si adegua alla natura della commissio-
ne, cosí che spesso bisogna cercare l’origine dell’opera
non nell’impulso creativo, nella soggettiva volontà di
espressione e nell’idea spontanea dell’artista, ma nelle
precise richieste del cliente. Quindi, a determinare il
mercato artistico non è ancora l’offerta, ma la doman-
da65. Ogni opera ha ancora la sua destinazione ben pre-
cisa e la sua concreta connessione con la vita pratica. Si
ordina una pala d’altare per una cappella ben nota al pit-
tore, un quadro di devozione per un ambiente determi-
nato, il ritratto di un congiunto per una certa parete;

Storia dell’arte Einaudi 43


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ogni scultura è progettata in vista di una collocazione


ben definita, ogni mobile di pregio è disegnato per una
determinata stanza. In questi nostri tempi di grande
libertà artistica si ammette come un articolo di fede che
la costrizione dall’esterno, a cui allora l’artista doveva,
ma anche sapeva, sottostare, fosse un fattore indubbia-
mente favorevole e addirittura benefico. I risultati paio-
no giustificare quest’opinione, ma gli artisti la pensava-
no altrimenti. E difatti essi cercarono di liberarsi da ogni
vincolo, non appena le condizioni del mercato lo per-
misero. E questo accadde appunto quando al semplice
committente subentrò l’amatore, l’esperto, il collezio-
nista, cioè quel moderno tipo di cliente che non ordinava
piú quel che gli occorreva, ma comprava quel che gli
veniva offerto. La sua apparizione sul mercato artistico
significò la fine della produzione determinata unica-
mente da committenti e compratori, e assicurò alla libe-
ra offerta possibilità nuove e insospettate.
Dopo l’antichità classica, il Quattrocento è la prima
epoca che di nuovo offra una produzione rilevante d’ar-
te profana, e non soltanto esempi numerosi dei generi
già noti, come affreschi e quadri di cavalletto, arazzi,
ricami, oreficerie e armature, ma anche molti di gene-
ri nuovi, creati anzitutto per abbellire la casa del ricco
borghese, che al fastoso tono di rappresentanza delle
corti preferisce per l’abitazione un tono confortevole e
intimo: ecco quindi spalliere lignee, riccamente ornate,
da fissare ai muri, cassoni dipinti e intagliati, lettiere
di splendido lavoro, piccoli quadri di devozione in leg-
giadre cornici circolari («tondi»), deschi da parto figu-
rati, oltre alle solite maioliche e ai molti altri prodotti
dell’artigianato. In tutto questo ancora si mantiene una
grande affinità fra arte e artigianato, fra pura opera
d’arte e semplice suppellettile; le cose cambiano solo
dopo che viene riconosciuta l’autonomia della grande
arte, libera da ogni fine pratico, e questa viene con-

Storia dell’arte Einaudi 44


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

trapposta al carattere meccanico dell’artigianato. Solo


allora l’artista si differenzia dall’artigiano e il pittore
comincia a fare i suoi quadri con animo diverso da quel-
lo con cui dipinge cassoni e pannelli decorativi, ban-
diere e gualdrappe, piatti e boccali. Ma allora egli
comincia pure a sentirsi libero dai desideri del com-
mittente, e a trasformarsi da produttore per il cliente
in produttore di merce, aprendo cosí la via all’amato-
re, all’esperto e al collezionista. Questo d’altro canto
presuppone nell’acquirente una concezione formalisti-
ca dell’opera, sí che l’apprezzi a prescindere da una pre-
cisa destinazione pratica, insomma una, sia pur embrio-
nale, concezione dell’«art pour l’art». Concomitante
all’apparizione del collezionista è l’altro fenomeno
nuovo del mercato artistico, conseguenza diretta del
rapporto impersonale che si stabilisce tra compratore e
opera d’arte, tra compratore e artista. Nel Quattro-
cento, quando la raccolta sistematica d’arte è un caso
sporadico, il commercio a sé di opere d’arte, scisso dalla
produzione, si può dir sconosciuto; esso nasce soltanto
nel secolo seguente, quando diventa abituale la ricerca
di opere del passato e l’acquisto di opere di contempo-
ranei celebri66. Il primo mercante d’arte di cui ci sia
noto il nome compare ai primi del Cinquecento: è il fio-
rentino Giovan Battista della Palla. Nella sua città nata-
le egli dà commissioni agli artisti e compra anche pres-
so i privati per conto del re di Francia. Presto si dà
anche il caso di mercanti che commissionano opere per
speculazione, rivendendole con profitto67. Nell’età
comunale i cittadini ricchi e illustri volevano assicurar-
si almeno la gloria, dato che, per riguardo verso i con-
cittadini, non potevano mettersi in mostra con il loro
tenore di vita e dovevano anzi vivere con moderazione
evitando ogni lusso eccessivo. I doni alle chiese erano
il miglior modo per acquistarsi fama eterna, senza incor-
rere nel biasimo pubblico. Ciò spiega in parte la spro-

Storia dell’arte Einaudi 45


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

porzione fra l’arte sacra e quella profana ancora nella


prima metà del Quattrocento, quando cioè la pietà non
era piú il maggior movente delle donazioni. Castello
Quaratesi voleva far costruire a sue spese la facciata
della chiesa di Santa Croce, ma quando non gli fu con-
cesso di apporvi il suo stemma non volle piú saperne di
mettere in opera il progetto68. Persino ai Medici parve
saggio coprire il loro mecenatismo con un’apparenza di
devozione. Certo, Cosimo era ancora preoccupato piú
di nascondere che di mettere in mostra le sue persona-
li iniziative artistiche. I Pazzi, i Brancacci, i Bardi, i
Sassetti, i Tornabuoni, gli Strozzi, i Rucellai perpetua-
rono il loro nome costruendo e decorando le loro cap-
pelle di famiglia. Per questo si servirono dei migliori
artisti del tempo. La cappella dei Pazzi fu costruita dal
Brunelleschi, le cappelle Brancacci, Sassetti, Torna-
buoni, Strozzi vennero decorate da pittori come Masac-
cio, Baldovinetti, Ghirlandaio e Filippino Lippi. È
molto dubbio che fra tutti questi mecenati fossero i
Medici i piú generosi e intelligenti. Fra i due piú illu-
stri della casa, comunque, pare che sia stato Cosimo ad
avere il gusto piú saldo ed equilibrato. O forse l’equi-
librio si doveva al tempo? Egli impiegò Donatello, Bru-
nelleschi, Ghiberti, Michelozzo, Fra’ Angelico, Luca
della Robbia, Benozzo Gozzoli, Filippo Lippi. Ma
Donatello, il piú grande di tutti, ebbe in Roberto Mar-
telli un amico e protettore ben piú fervido. Perché mai
avrebbe lasciato piú volte Firenze, se Cosimo avesse
saputo apprezzare convenientemente il suo valore?
Cosimo fu grande amico di Donatello e di tutti i pitto-
ri e gli scultori, dicono i ricordi di Vespasiano da Bistic-
ci; e poiché gli parve che per questi ultimi ci fosse poco
lavoro e gli rincresceva che Donatello dovesse restare
inattivo, gli ordinò i pulpiti di San Lorenzo e le porte
della sacrestia69. Ma perché in quel tempo aureo delle
arti un Donatello doveva correr pericolo di restare ino-

Storia dell’arte Einaudi 46


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

peroso? Perché un incarico a Donatello doveva esser


considerato un favore?
Altrettanto, o piú difficile ancora, è dare una giusta
valutazione del gusto di Lorenzo in fatto d’arte. Gli si
attribuì sempre a merito personale l’altezza e la varietà
degl’ingegni che lo circondavano; e si considerò quella
ricca vitalità che si esprime nell’opera dei poeti, filoso-
fi e artisti suoi favoriti come irradiata dalla sua perso-
na. Da Voltaire in poi il suo tempo si annovera fra le
epoche felici dell’umanità, insieme con l’età di Pericle,
il principato di Augusto e il Grand Siècle. Egli stesso fu
poeta, filosofo, collezionista e fondò la prima accademia
d’arte. Si sa qual parte il neoplatonismo avesse nella sua
vita e quanto questo movimento dovesse a lui personal-
mente. Sono noti i particolari dell’amicizia fra Lorenzo
e gli artisti del suo ambiente. È noto che il Verrocchio
restaurò per lui cose antiche, Giuliano da Sangallo gli
costruì la villa di Poggio a Caiano e la sacrestia di Santo
Spirito; per lui lavorò molto Antonio Pollaiolo, amici
intimi gli erano Botticelli e Filippino Lippi. Ma quali
altri nomi mancano a questa lista! Lorenzo non solo
rinunziò ai servigi di Benedetto da Maiano, il creatore
di palazzo Strozzi, e del Perugino, che durante il suo
governo passò molti anni a Firenze, ma rinunciò anche
all’opera di Leonardo, il maggior artista dopo Donatel-
lo, che, a quanto sembra, incompreso, dovette lasciar
Firenze ed emigrare i Milano. Egli era lontanissimo del
neoplatonismo70, e questo forse spiega l’indifferenza del
Magnifico per lui. Il neoplatonismo, come del resto già
l’idealismo platonico, comportava un atteggiamento
puramente contemplativo di fronte al mondo, e, come
ogni filosofia che ponga come soli principî della vita le
idee pure, esso significava la rinunzia ad ogni interven-
to nelle cose della «comune» realtà. Il destino di questa
realtà veniva rimesso a coloro che di fatto detenevano
il potere poiché il vero filosofo, secondo il Ficino, aspi-

Storia dell’arte Einaudi 47


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ra a morire alle cose della terra e a vivere soltanto nel


mondo eterno delle idee71. È naturale che una filosofia
come questa fosse grata a un uomo come Lorenzo che
osteggiò ogni forma di attività politica dei cittadini e
distrusse l’ultimo resto delle libertà democratiche72.
D’altronde la dottrina di Platone, cosí facile a tradursi
e diluirsi in poesia, doveva anche di per se stessa rispon-
dere al suo gusto.
La natura del mecenatismo di Lorenzo si rivela chia-
rissima nei rapporti con Bertoldo. L’autore delle picco-
le sculture, eleganti ma alquanto superficiali, gli era piú
caro di tutti gli altri artisti contemporanei. Abitava in
casa sua, sedeva ogni giorno alla sua tavola, lo accom-
pagnava nei viaggi, era il suo confidente il suo consi-
gliere artistico e il direttore dell’accademia da lui fon-
data. Pieno di spirito e di tatto, anche nei rapporti ami-
chevoli Bertoldo sapeva tenere le distanze; di fine cul-
tura, aveva il dono di intuire perfettamente i gusti e i
desideri del suo protettore. Era uomo di alto valore per-
sonale, eppure pronto a una completa subordinazione:
insomma, l’ideale dell’artista di corte73. Lorenzo, certo,
trovava molto gusto ad aiutare Bertoldo nel suo lavoro
«elaborando miti classici e allegorie complicate e strane,
o talvolta anche banali»74, vedeva cosí prendere corpo e
figura la sua cultura umanistica, i suoi sogni mitologici
e le sue fantasie poetiche. Lo stile di Bertoldo, il suo ser-
virsi esclusivamente del bronzo, materiale raffinato,
malleabile e pur cosí duraturo, la predilezione per le
figure piccole, per le composizioni leggiadre ed elegan-
ti: tutti elementi fatti apposta, si direbbe, per compia-
cere al gusto di Lorenzo che senza dubbio prediligeva
l’arte «minore». Molto poco infatti possedeva della
grande scultura fiorentina75; il nucleo della sua raccolta
era costituito da gemme e cammei, da cinque a seimila76.
Era un genere di derivazione classica e già per questo
Lorenzo lo preferiva. A rendergli grata l’arte di Bertol-

Storia dell’arte Einaudi 48


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

do certo contribuiva anche il fatto che si servisse di una


tecnica tipicamente classica e di soggetti tratti dall’an-
tico. Tutta l’attività di Lorenzo collezionista e mecena-
te non era che diletto di gran signore; come la sua rac-
colta conservava molti caratteri di un principesco gabi-
netto di curiosità, cosí tutto il suo gusto, la sua predile-
zione per il leggiadro e il prezioso, per il capriccio e l’ar-
tificio, aveva molti punti di contatto con i gusti
«rococò» di tanti principotti europei.
Nel Quattrocento accanto a Firenze, che fino alla
fine del secolo rimane il massimo centro artistico della
penisola, altri notevoli se ne sviluppano, specialmente
alle corti di Ferrara, Mantova e Urbino. Queste si
modellano sull’esempio delle corti trecentesche dell’al-
ta Italia, da cui derivano i loro ideali cavallereschi e lo
stile di vita formalistico e antiborghese. Tuttavia il
nuovo spirito razionale, pratico, antitradizionale, non
risparmia neppure la vita delle corti. Si continua a leg-
gere gli antichi romanzi di cavalleria, ma con atteggia-
mento nuovo, con distacco un po’ ironico. Non solo
Luigi Pulci nella Firenze mercantile, ma anche il Boiar-
do alla corte di Ferrara tratta la materia cavalleresca nel
nuovo tono disinvolto e semiserio. Gli affreschi dei
castelli e dei palazzi conservano l’intonazione già nota
nel secolo precedente, e ancora vengono preferiti i temi
mitologici e classici, le allegorie delle Virtú e delle Arti
liberali, i personaggi della famiglia regnante e le scene
della vita di corte; ma l’antico repertorio cavalleresco
viene lasciato cadere77. La pittura non si presta alla
trattazione ironica del soggetto. Ci rimangono, del
Quattrocento, in due luoghi illustri, monumenti ben
significativi dell’arte di corte: nel palazzo di Schifanoia
a Ferrara, gli affreschi di Francesco del Cossa, e quelli
di Mantegna a Mantova. Mentre a Ferrara prevalgono
le affinità con l’arte tardogotica francese, a Mantova si
accentuano quelle con il naturalismo italiano; ma in

Storia dell’arte Einaudi 49


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

entrambi i casi la differenza rispetto all’arte borghese


del tempo sta piú nel soggetto che nella forma. Il Cossa
non si distingue sostanzialmente dal Pesellino, e il Man-
tegna ritrae la vita alla corte di Ludovico Gonzaga quasi
con l’immediato naturalismo di un Ghirlandaio, quan-
do dipinge la vita dei patrizi fiorentini. Nel gusto arti-
stico i due diversi ambienti si sono ormai largamente
assimilati.
La funzione della vita di corte è in fondo di propa-
ganda e di prestigio. I principi del Rinascimento non
solo vogliono abbagliare il popolo, ma anche imporsi alla
nobiltà e legarla alla corte78. Ma non possono contare sol-
tanto sul servigi e sulla presenza dei nobili; anzi, posso-
no e vogliono servirsi di chiunque – nobile o plebeo –
sia loro utile79. Quindi le corti del Rinascimento italia-
no si distinguono già nella loro composizione da quelle
del Medioevo; esse accolgono avventurieri fortunati e
mercanti arricchiti, umanisti plebei e artisti maleducati
proprio come se fossero persone di società. In contrasto
con la comunità, fondata su principî morali e quindi
esclusiva, che fu propria del mondo cavalleresco, si svi-
luppa in queste corti una socialità «da salotto» relati-
vamente libera, essenzialmente intellettuale, che, pur
continuando la cultura dei piú raffinati ambienti bor-
ghesi, com’è descritta nel Decameron e nel Paradiso degli
Alberti, non di meno anticipa quei salotti letterari che
nel Sei e nel Settecento avranno tanta parte nella vita
intellettuale d’Europa. Nel «salotto» della corte rina-
scimentale la donna non è ancora il vero centro, benché
essa partecipi fin dall’inizio alla vita letteraria del grup-
po; e anche quando, piú tardi, al tempo dei salotti bor-
ghesi, avrà raggiunto questa posizione predominante
sarà tuttavia un predominio ben diverso da quello dei
tempi della cavalleria. D’altronde, anche l’importanza
culturale che il Quattrocento riconosce alla donna non
è che una manifestazione del razionalismo rinascimen-

Storia dell’arte Einaudi 50


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

tale. Questo le attribuisce una parità intellettuale con


l’uomo, ma non la solleva al di sopra di lui. «Tutte le
cose che possono intendere gli omini, le medesime pos-
sono intendere anche le donne», dice il Cortegiano80; ma
la galanteria che il Castiglione esige dall’uomo di corte
non ha piú nulla a che fare col servigio della dama richie-
sto al cavaliere. Il Rinascimento è un’epoca virile; sono
eccezioni donne come Lucrezia Borgia, che tenne corte
a Nepi, o come Isabella d’Este, che fu il centro delle
corti di Ferrara e di Mantova, e non solo incoraggiò i
poeti del suo ambiente, ma pare sia stata anche esperta
d’arte. Ma quasi dappertutto i maggiori mecenati e pro-
tettori delle arti sono uomini.
La civiltà cavalleresca medievale aveva creato un
nuovo sistema etico, nuovi ideali di eroismo e di uma-
nità; le corti italiane del Rinascimento non mirano cosí
in alto, e nella formulazione di ideali per la vita e nei
rapporti di società non vanno oltre quel concetto di
signorilità che, ulteriormente elaborato nel secolo suc-
cessivo sotto l’influsso spagnolo, si diffonde in Francia
dove costituisce la base di quella civiltà di corte che sarà
esemplare per tutta l’Europa. Quanto all’arte, le corti
del Quattrocento non hanno apportato nessun elemen-
to propriamente originale. Le opere commissionate o
ispirate dai principi di quel tempo non sono né meglio
né peggio di quelle promosse dalla borghesia delle città.
La scelta degli artisti dipende forse piú spesso dalla
situazione locale che dal gusto personale e dalle prefe-
renze dei committenti; non si deve però dimenticare che
Sigismondo Malatesta, uno dei piú crudeli tiranni del
Rinascimento, impiega il piú gran pittore del suo tempo,
Piero della Francesca; e Mantegna, l’artista piú signifi-
cativo della generazione successiva, non lavora per il
grande Lorenzo de’ Medici, ma per un principotto come
Ludovico Gonzaga. Con ciò non si vuol affatto dire che
questi principi fossero infallibili esperti d’arte. Anche

Storia dell’arte Einaudi 51


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

nelle loro collezioni, come in quelle del mecenate bor-


ghese, c’erano opere di secondo e di terzo ordine. La tesi
di una universale intelligenza dell’arte nel Rinascimen-
to si rivela, a una indagine piú serrata, una leggenda
altrettanto insostenibile dell’altra di un livello univer-
salmente alto di tutta la produzione artistica. Neppure
nei ceti elevati si giunse a una relativa uniformità nei
principî del gusto; tanto meno ciò avvenne per i ceti
inferiori. Nulla può illuminarci sul gusto dominante del
tempo, meglio del fatto che il Pinturicchio, decoratore
elegante, ma anche routinier, fu l’artista piú occupato del
suo tempo. Si può almeno parlare di un generale inte-
resse per l’arte, nel senso in cui ne parlano le pubblica-
zioni correnti sul Rinascimento? Ci si appassionava dav-
vero, «in alto e in basso», agli avvenimenti artistici? Era
proprio «tutta Firenze» che si agitava per il progetto
della cupola del duomo? Era proprio «un avvenimento
per tutto il popolo» il compimento di un’opera d’arte?
Di quali ceti si componeva «tutto il popolo»? Anche dei
proletari affamati? Non è molto verosimile. Anche dei
piccoli borghesi? Forse. Ma, in ogni modo, l’interesse
dei piú per le cose dell’arte doveva essere piú che altro
religioso e campanilistico. Non dobbiamo dimenticare
che a quel tempo gli avvenimenti pubblici si svolgeva-
no ancora in gran parte per le vie. Un corteo carnevale-
sco, l’arrivo di un’ambasceria, un funerale certo attira-
vano la folla non meno del cartone di Leonardo esposto
al pubblico, davanti al quale, a quanto si narra, il popo-
lo si affollò per due giorni. I piú non avevano idea del
divario di qualità fra l’arte di Leonardo e quella dei
suoi contemporanei, se pure l’abisso fra qualità e popo-
larità non era allora cosí profondo come oggi. Ma l’a-
bisso cominciava proprio allora a scavarsi; in qualche
caso poteva ancora esser superato in quanto il giudizio
artistico non era ancora divenuto esclusiva prerogativa
degli iniziati. Che gli artisti del Rinascimento godesse-

Storia dell’arte Einaudi 52


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ro di una certa popolarità è indubbio; lo dimostra, non


foss’altro, il gran numero di storie e aneddoti correnti
sul loro conto. Ma questo interesse si rivolgeva proba-
bilmente non all’artista come tale, ma piuttosto al per-
sonaggio che lavorava ad opere destinate al pubblico,
partecipava a pubblici concorsi, esponeva l’opera sua,
riceveva commissioni dalle Arti e già si faceva notare per
le sue «geniali» originalità.
Nel Rinascimento, benché fosse relativamente gran-
de la richiesta di opere d’arte in città come Firenze e
Siena, non si può parlar di arte popolare come si parla
di poesia popolare a proposito degl’inni religiosi, delle
«sacre rappresentazioni» e dei romanzi cavallereschi
scaduti a genere da fiera. C’era probabilmente un’arte
rustica, e anche una larga produzione di roba da pochi
soldi destinata al popolo, ma le vere opere d’arte, ben-
ché non molto care, costavano sempre troppo per la
gran maggioranza. Si è accertato che intorno al 1480 a
Firenze c’erano 84 laboratori per intagli in legno e lavo-
ri d’intarsio, 54 botteghe per decorazioni in marmo e
pietra, 44 officine di orafi e argentieri81; per i pittori e
gli scultori mancano dati relativi a quello stesso perio-
do, ma la matricola dei pittori fiorentini tra il 1409 e il
1499 registra 41 nomi82. Il confronto di queste cifre con
il numero degli artigiani occupati nelle altre industrie,
il fatto, ad esempio, che in Firenze c’erano in uno stes-
so periodo 84 intagliatori in legno e 70 macellai83, basta
per farsi un’idea della richiesta di oggetti d’arte. Gli arti-
sti identificabili, tuttavia, rappresentano solo un terzo
o un quarto dei maestri elencati nei registri84. È proba-
bile che i piú non avessero una spiccata personalità e,
come un Neri di Bicci, si dedicassero soprattutto a una
produzione per cosí dire di serie. Gli affari di simili
aziende, sul cui andamento c’informano esattamente i
ricordi di Neri di Bicci85, provano che il gusto del pub-
blico era lungi dall’essere cosí sicuro come di solito si

Storia dell’arte Einaudi 53


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

proclama. Per lo piú si acquistava roba scadente. Secon-


do quanto si legge nei manuali, si dovrebbe ammettere
che allora il possesso di opere d’arte fosse indispensabi-
le per il decoro, e se ne trovassero abitualmente, alme-
no nelle case dei cittadini agiati. Ma, a quanto pare, non
era cosí. L’Armenini, trattatista della seconda metà del
Cinquecento, dice di conoscer molte case distinte, in cui
non c’è un quadro passabile86.
Quello che noi chiamiamo Rinascimento non fu certo
una civiltà di mercantucci e di artigiani, e nemmeno la
civiltà di una borghesia agiata e mediocremente colta; fu
piuttosto il patrimonio d’idee, gelosamente riservato ed
esclusivo, di una élite imbevuta di cultura latina. Vi
avevano parte principalmente le sfere collegate al movi-
mento umanistico e neoplatonico: classe intellettual-
mente omogenea, in complesso concorde come, ad esem-
pio, non fu mai il clero nella sua totalità. Le opere piú
significative dell’arte eran destinate a tale cerchia. Gli
ambienti piú larghi non ne sapevano nulla, oppure le giu-
dicavano con criteri inadeguati, non estetici, e per sé
s’accontentavano di prodotti di scarso valore. Fu allora
che si determinò quella distanza, insuperabile e decisi-
va per tutto lo sviluppo successivo, fra una minoranza
colta e una maggioranza incolta, distanza che in questa
misura le epoche precedenti avevano ignorato. Non si
può dire neppure della civiltà del Medioevo che abbia
conosciuto un generale livellamento di cultura; nell’an-
tichità poi i ceti colti erano perfettamente consci della
loro superiorità; ma in queste epoche nessuno mai, ad
eccezione di piccoli gruppi occasionali, si propose di
creare una cultura programmaticamente riservata a una
élite e da cui la maggioranza dovesse essere esclusa. Le
cose cambiano appunto nel Rinascimento. Nel Medioe-
vo la lingua della cultura ecclesiastica era il latino, per-
ché la Chiesa era legata direttamente e organicamente
con la tarda civiltà romana; gli umanisti invece scrivo-

Storia dell’arte Einaudi 54


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

no in latino, perché rompono ogni continuità con le cor-


renti culturali popolari, che si esprimono nei diversi
idiomi, e tendono a crearsi un monopolio della cultura,
quasi fossero una casta sacerdotale. Gli artisti si pon-
gono sotto la protezione e la tutela intellettuale di que-
sta cerchia. Insomma, si emancipano dalla Chiesa e dalla
corporazione per soggiacere a un’autorità che pretende
per sé la competenza di entrambe. Infatti ormai gli uma-
nisti non soltanto sono autorità indiscusse in tutte le
questioni iconografiche di tipo storico e mitologico, ma
diventano anche intenditori di questioni formali e tec-
niche. Gli artisti finiscono col sottomettersi al loro giu-
dizio anche per questioni in cui prima valevan soltanto
la tradizione e i precetti della corporazione, e nelle quali
nessun profano poteva interloquire. Il prezzo della loro
indipendenza dalla Chiesa e dalla corporazione, il prez-
zo ch’essi debbono pagare per la loro ascesa sociale, per
l’applauso e la gloria, è l’accettazione degli umanisti
come critici. Questi veramente non hanno tutti la voca-
zione del critico e dell’esperto, ma fra loro si trovano i
primi laici che intuiscano i criteri del valore artistico e
sappiano giudicare dell’opera da un punto di vista pura-
mente estetico. Con loro, in quanto osservatori vera-
mente capaci di giudizio, nasce, si può dire, in un senso
moderno, il pubblico dell’artista87.

Storia dell’arte Einaudi 55


Capitolo terzo

La posizione sociale dell’artista nel Rinascimento

L’accresciuta richiesta di opere d’arte finisce per ele-


vare l’artista dalla condizione di artigiano piccolo-bor-
ghese a quella di libero lavoratore intellettuale. Se tali
potevano essere anche prima gli artisti, ma a condizio-
ne di apparire degli spostati, ora invece cominciano a
formare un ceto economicamente sicuro e socialmente
consolidato, se pur non una classe omogenea. Gli arti-
sti del primo Quattrocento sono ancora gente modesta;
si ritengono artigiani piú raffinati degli altri ma, né per
origine né per educazione, si distinguono dai piccoli
borghesi delle Arti. Andrea del Castagno è figlio di un
contadino, Paolo Uccello di un barbiere, Filippo Lippi
di un macellaio, i Pollaiolo sono appunto figli di un ven-
ditore di polli. Il loro nome è tratto dall’occupazione
paterna, o dal luogo di nascita, o dal nome del maestro,
e all’artista si dà del tu come ai domestici. Egli è sog-
getto alla corporazione e non è certo il suo talento che
gli dà il diritto di esercitare il mestiere, ma il tirocinio
compiuto nel modo prescritto. La sua educazione si
fonda sui comuni rudimenti dell’artigianato; egli non va
a scuola, ma a bottega; non viene istruito teoricamente,
ma praticamente. Dopo aver imparato piú o meno a leg-
gere, scrivere e far di conto, ancor bambino va come
apprendista da un maestro e per lo piú vi resta molti
anni. Sappiamo che ancora per il Perugino, Andrea del
Sarto, Fra’ Bartolomeo il tirocinio durò da otto a dieci

Storia dell’arte Einaudi 56


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

anni. Gli artisti del Quattrocento – fra gli altri Brunel-


leschi, Donatello, Ghiberti, Paolo Uccello, Antonio Pol-
laiolo, Verrocchio, il Ghirlandaio, Botticelli, il Francia
– provenivano in gran parte dall’oreficeria, che giusta-
mente fu detta la scuola d’arte del secolo. Molti sculto-
ri cominciavano a lavorare come scalpellini in cantiere,
o presso gli intagliatori di ornati, come già nel Medioe-
vo i loro predecessori. Donatello è ricevuto nella com-
pagnia di San Luca come «orafo e lapicida» e quel che
egli pensi dell’arte e dell’artigianato lo mostra ottima-
mente il fatto che il gruppo di Giuditta e Oloferne, una
delle ultime e piú importanti opere sue, è stato ideato
per una fontana, destinata al cortile di palazzo Medici.
Ma le piú rinomate botteghe del Quattrocento, nono-
stante l’organizzazione ancor sostanzialmente artigia-
na, seguono già metodi didattici piú individuali. Ciò vale
anzitutto per le botteghe del Verrocchio e dei Pollaiolo
a Firenze, per quella di Francesco Squarcione a Padova
e di Giovanni Bellini a Venezia, dove il capo è ugual-
mente famoso come maestro e come artista. Gli allievi
non vanno piú in una qualsiasi bottega, ma presso un
maestro determinato, che li accoglie tanto piú numero-
si, quanto maggiore è la sua fama di artista. Sono appun-
to questi ragazzi la mano d’opera, se non sempre miglio-
re, certo piú a buon mercato. Sarà questo anche il moti-
vo principale di quell’intensificarsi del discepolato arti-
stico che d’ora in poi si può osservare, e non già l’am-
bizione degli artisti di esser ritenuti buoni maestri.
Il tirocinio, secondo la tradizione ereditata dal
Medioevo, comincia con lavori manuali d’ogni sorta:
macinar colori, pulir pennelli, preparar le tavole e le tele;
si passa poi a trasportare certe composizioni dal carto-
ne al quadro, ad eseguir panneggi e parti secondarie di
figure, e si finisce con l’esecuzione di intere opere sulla
traccia di semplici schizzi e indicazioni verbali. Cosí
l’apprendista diventa aiuto, piú o meno indipendente,

Storia dell’arte Einaudi 57


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

che dev’essere, in genere, tenuto distinto dallo scolaro.


Infatti non tutti gli aiuti di un maestro sono allievi suoi,
né tutti gli allievi rimangono in bottega come aiuti.
L’aiuto è spesso un artista che val quanto il maestro, ma
può essere anche uno strumento impersonale nelle sue
mani. Dalla mutevole combinazione di queste possibilità
e dalla frequente collaborazione fra maestro, aiuti e
discepoli alla stessa opera viene non solo un miscuglio
stilistico spesso difficile da analizzare, ma talvolta anche
un effettivo livellamento delle differenze individuali,
una forma comune, fondata anzitutto sulla tradizione
artigiana. Il caso ben noto nelle biografie rinascimenta-
li – sia esso realtà o finzione – del maestro che rinunzia
alla pittura perché uno dei suoi allievi lo ha superato
(Cimabue-Giotto, Verrocchio-Leonardo, Francia-Raf-
faello) potrebbe rappresentare uno stadio ulteriore dello
sviluppo, quando la comunità della bottega sta ormai per
dissolversi, oppure – come nel caso del Verrocchio e di
Leonardo – potrebbe avere una spiegazione piú realisti-
ca di quella fornita dagli aneddoti. Probabilmente Ver-
rocchio cessa di dipingere, e attende esclusivamente alla
scultura, dopo che si è persuaso di potere lasciare tran-
quillamente le commissioni di pittura a un aiuto come
Leonardo88.
Nella bottega dell’artista quattrocentesco domina
ancora lo spirito collettivo del cantiere e della corpora-
zione; l’opera non è ancora l’espressione di una perso-
nalità indipendente, che accentua la propria originalità
e si chiude a tutto ciò che le è estraneo. L’esigenza di
condur l’opera di propria mano dal principio alla fine e
l’impossibilità di una collaborazione feconda con allievi
e aiuti si rivelano solo in Michelangelo, che anche per
questo aspetto è il primo artista moderno. Per tutto il
Quattrocento il lavoro artistico conserva il suo caratte-
re di collaborazione89. Per realizzare le grandi opere,
soprattutto di scultura, si fondano vasti laboratori di

Storia dell’arte Einaudi 58


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

tipo industriale con molti aiuti e manovali. Cosí nella


bottega del Ghiberti, quando eseguiva le porte del Bat-
tistero, una fra le massime imprese artistiche del Quat-
trocento, lavoravano circa venti aiuti. Fra i pittori, un
Ghirlandaio e un Pinturicchio, per l’esecuzione dei gran-
di cicli di affreschi, impiegavano intere équipes di aiu-
tanti. La bottega del Ghirlandaio, in cui collaborano sta-
bilmente anzitutto i fratelli e il cognato del maestro, è
una delle grandi aziende familiari del secolo, accanto a
quelle dei Della Robbia e dei due Pollaiolo. Alcuni
padroni di botteghe sono impresari piú che artisti e di
solito si assumono le ordinazioni per poi farle eseguire
da un pittore adatto. A questa categoria pare che appar-
tenesse anche Evangelista de Predis a Milano, che fra
gli altri impiegò per qualche tempo Leonardo. Ma tro-
viamo altre forme ancora di lavoro artistico collettivo
nel Quattrocento: ad esempio la bottega tenuta in
società da due artisti, solitamente ancor giovani, che non
potrebbero altrimenti affrontarne le spese. Cosí lavora-
no Donatello e Michelozzo, Fra’ Bartolomeo e Mariot-
to Albertinelli, Andrea del Sarto e il Franciabigio. Sono
ancora nel complesso forme di organizzazione colletti-
va, che impediscono l’atomizzarsi delle tendenze arti-
stiche. Questa solidarietà e continuità di forme si fa sen-
tire in senso verticale, oltre che orizzontale. Le perso-
nalità piú in vista infatti formano lunghe dinastie di
maestri e allievi, come ad esempio la catena Fra’ Ange-
lico - Benozzo Gozzoli - Cosimo Rosselli - Piero di Cosi-
mo - Andrea del Sarto - Pontormo - Bronzino, dove la
linea di sviluppo prende forma di un’ininterrotta tradi-
zione.
Lo spirito che domina ancora nel Quattrocento si
rivela anzitutto negli incarichi di modesto artigianato
spesso assunti dalle botteghe degli artisti. Dai ricordi di
Neri di Bicci sappiamo quali oggetti potessero uscire da
una fiorente bottega di pittore: oltre i quadri, vi si face-

Storia dell’arte Einaudi 59


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

vano stemmi, bandiere, insegne, intarsi, intagli in legno


policromo, modelli per tappezzieri e ricamatori, deco-
razioni per feste e molte altre cose. Antonio Pollaiolo,
anche quando è già illustre come pittore e scultore, con-
tinua a tenere una bottega di orafo, e in essa, oltre a
sculture e oreficerie, si fanno cartoni per arazzi e dise-
gni per incisioni in rame. Il Verrocchio, anche all’apice
della sua carriera, accetta i piú vari lavori di terracotta
e d’intaglio. Donatello per il suo protettore Martelli
non esegue solo il celebre stemma, ma anche uno spec-
chio d’argento. Luca della Robbia fabbrica formelle di
maiolica per chiese e case private, Botticelli fornisce
disegni per ricami e lo Squarcione tiene una bottega di
ricamatore. Il tipo di questi lavori varierà, naturalmen-
te, secondo l’epoca e il nome del singolo artista, e non
s’immagini comunque che il Ghirlandaio e Botticelli
dipingessero le insegne al fornaio o al macellaio della
cantonata; simili incarichi certo non si accettavano piú
nelle loro botteghe. Invece gonfaloni, cassoni nuziali e
deschi da parto, fino alla fine del Quattrocento si riten-
nero lavori non indegni di un artista. Botticelli, Filip-
pino Lippi, Piero di Cosimo ancor nel Cinquecento met-
tono mano a pitture di cassoni. Una svolta fondamen-
tale nella valutazione del lavoro artistico si nota solo a
partire dai tempi di Michelangelo. Per il Vasari incari-
chi di tipo artigiano non possono piú conciliarsi con la
dignità di un artista. Questo significa in pari tempo la
fine della soggezione degli artisti alla corporazione. È
sintomatico l’esito del processo intentato dalla corpora-
zione dei pittori di Genova contro Giovanni Battista
Poggi, a cui si voleva proibire l’esercizio della pittura in
città, perché egli non vi aveva compiuto i prescritti sette
anni di tirocinio. Quell’anno 1590 in cui fu deciso che
gli statuti della corporazione non erano vincolanti per
l’artista che non tenesse bottega aperta, conclude un
processo di trasformazione durato quasi due secoli90.

Storia dell’arte Einaudi 60


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

Anche economicamente nel Quattrocento gli artisti


sono equiparati al ceto piccolo-borghese degli artigiani;
in generale la loro condizione non è brillante, ma nep-
pure veramente precaria. Fra di loro non c’è ancora chi
viva da signore, tuttavia non si può parlare di proleta-
riato artistico. È vero che i pittori nelle dichiarazioni
fiscali si lagnano sempre delle loro angustie economiche,
ma questi documenti non sono certo per lo storico le
fonti piú degne di fede. Masaccio afferma di non poter
nemmeno pagare il suo garzone, e noi sappiamo che
effettivamente egli morí povero e pieno di debiti91. Filip-
po Lippi, secondo Vasari, non aveva da comprarsi un
paio di calze e Paolo Uccello da vecchio dichiara che non
possiede nulla, non può piú lavorare e ha la moglie mala-
ta. Stavano meglio quelli che erano al servizio di una
corte o di un mecenate. Fra’ Angelico, ad esempio, a
Roma riceveva dalla Curia quindici ducati al mese in un
tempo in cui a Firenze, forse un po’ meno cara, si pote-
va viver da signori con trecento ducati all’anno92. Occor-
re notare che i prezzi in genere si mantenevano a un
livello medio e che anche i maestri celebri non eran
pagati molto meglio degli artisti mediocri e degli ottimi
artigiani. Personalità come Donatello avevano proba-
bilmente onorari un po’ piú alti, ma non c’erano anco-
ra veri e propri «prezzi d’amatore»93. Gentile da Fabria-
no per la sua Adorazione dei Magi ebbe 150 fiorini d’oro;
Benozzo Gozzoli, 6o per una pala d’altare; Filippo
Lippi, 40 per una Madonna; ma Botticelli, già 7594.
Come stipendio fisso, Ghiberti, finché lavorò alle porte
del Battistero, guadagnava duecento fiorini l’anno,
quando il cancelliere della Signoria ne guadagnava sei-
cento, con l’obbligo di pagarsi quattro scrivani. Un buon
amanuense allora riceveva trenta fiorini, oltre le spese.
Gli artisti, quindi, non erano proprio mal pagati, se pur
ben lungi dalle remunerazioni dei celebri letterati e
docenti che spesso avevano da cinquecento a duemila

Storia dell’arte Einaudi 61


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

fiorini l’anno95. Tutto il mercato artistico si moveva


ancora entro confini relativamente modesti; gli artisti
già durante il lavoro dovevano richiedere degli anticipi
sul prezzo fissato e d’altro canto i committenti spesso
non potevano pagare se non a rate anche lo stesso mate-
riale96. I principi stessi lottavano con la scarsezza di
denaro liquido e Leonardo si lamenta piú volte con il suo
protettore Ludovico il Moro, perché non gli è stato
pagato l’onorario97. Non ultimo elemento che conferma
il carattere artigiano del lavoro è il regolare contratto
che lega l’artista al committente. Per le opere di mag-
gior impegno tutte le spese, cioè l’acquisto del materia-
le, gli stipendi e spesso anche il mantenimento di aiuti
e garzoni, erano assunte dal committente e il maestro
stesso riceveva un onorario in ragione del tempo ch’egli
impiegava. Per i pittori il lavoro a salario rimase la rego-
la sino alla fine del Quattrocento; solo piú tardi questo
tipo di compenso sarà riservato alle prestazioni pura-
mente artigiane, come restauri e copie98.
Via via che l’arte si svincola dall’artigianato, cam-
biano a poco a poco le clausole dei contratti. In uno del
1485, col Ghirlandaio, viene ancora fissato esplicita-
mente il prezzo dei colori; ma Filippino Lippi, secondo
un contratto del 1487, è tenuto a provvedere da sé il
materiale, e analoga condizione figura in un patto sti-
pulato con Michelangelo nel 1498. Una linea di confine
netta non si può naturalmente stabilire, ma si può dire
in ogni caso che il mutamento si verifica verso la fine del
secolo ed è da connettere soprattutto con la persona di
Michelangelo. Di regola nel Quattrocento si richiedeva
all’artista di nominare un mallevadore che garantisse
per lui l’osservanza del contratto; per Michelangelo tale
garanzia si riduce a una pura formalità. C’è un caso
addirittura in cui l’estensore stesso del documento funge
da garante per le due parti99. Anche le altre clausole si
fanno sempre meno severe per l’artista e meno esatta-

Storia dell’arte Einaudi 62


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

mente circostanziate. In un contratto del 1524 Seba-


stiano del Piombo viene lasciato libero di fare un qua-
dro a suo talento, purché non sia un quadro sacro; e nel
1531 lo stesso collezionista ordina a Michelangelo un’o-
pera che può essere un dipinto o una scultura, come pia-
cerà al maestro.
Nell’Italia del Rinascimento fin dagli inizi gli artisti
ebbero una posizione migliore che negli altri paesi, e
non tanto per le forme piú evolute della vita urbana –
l’ambiente cittadino in sé e per sé non poteva offrire
maggiori possibilità agli artisti che al comune ceto
medio industriale – ma perché i principi e i signori ita-
liani avevano piú modo di impiegarne i talenti e sape-
vano apprezzarli meglio dei potenti d’Oltralpe. La mag-
giore indipendenza dalla corporazione, che è alla base
della condizione privilegiata dell’artista italiano, è anzi-
tutto il risultato del suo lavorare presso corti diverse.
Nel Nord ogni maestro è legato a una città; in Italia
l’artista va spesso di corte in corte, di città in città, e
già questa vita errante implica una minor soggezione
alle prescrizioni corporative, che valgono per i rappor-
ti entro un certo territorio e sono da osservare solo
entro quei confini. Poiché i principi ci tenevano ad
assicurarsi non solo maestri genericamente di valore, ma
anche determinati artisti, spesso forestieri, questi
dovettero essere affrancati dalle limitazioni corporati-
ve. Non si poteva pretendere che mentre eseguivano il
loro incarico badassero ai regolamenti dell’artigianato
locale, preoccupandosi di ottenere un permesso di lavo-
ro dalle autorità delle corporazioni e stessero a chiede-
re quanti aiuti e garzoni potevano impiegare. Finito un
lavoro, si trasferivano, insieme con la loro gente, pres-
so un altro protettore, dove avevano un uguale tratta-
mento di favore. Questi pittori erranti di corte in corte
sfuggirono sempre alla giurisdizione corporativa. Ma i
loro privilegi necessariamente influirono anche sulla

Storia dell’arte Einaudi 63


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

condizione degli artisti stabiliti nelle città, tanto piú che


queste spesso occupavano gli stessi maestri che lavora-
vano alle corti, e dovevano quindi offrire condizioni
non meno favorevoli di quelle, se volevano assicurarseli.
L’artista quindi non si emancipa dalla corporazione
perché abbia acquistato una piú alta dignità, e venga
riconosciuta la sua aspirazione ad essere equiparato ai
poeti e ai dotti, ma perché si ha bisogno dei suoi ser-
vigi e occorre acquistarseli. La dignità qui non è che l’e-
spressione del prezzo di mercato.
L’ascesa sociale degli artisti si manifesta anzitutto
negli onorari. Nell’ultimo quarto del Quattrocento a
Firenze si cominciano a pagare prezzi relativamente alti
per gli affreschi. Giovanni Tornabuoni, nel 1485, per la
decorazione della cappella di famiglia in Santa Maria
Novella, concorda col Ghirlandaio un onorario di 1100
fiorini. Filippino Lippi, per gli affreschi di Santa Maria
sopra Minerva a Roma, riscuote il compenso di 2000
ducati d’oro, che corrispondono circa ad altrettanti fio-
rini. E 3000 ducati riceve Michelangelo per la volta
della Sistina100. Verso la fine del secolo ci sono già molti
artisti che han denaro: Filippino anzi accumula una ric-
chezza notevole. Il Perugino possiede case, Benedetto da
Maiano un podere. A Milano, Leonardo da Vinci ha uno
stipendio annuo di 2000 ducati e in Francia riceve
35000 franchi l’anno101. I celebrati maestri del Cinque-
cento, specialmente Raffaello e Tiziano, dispongono di
entrate considerevoli e menano vita da signori. Le abi-
tudini di Michelangelo sono modeste, ma anch’egli gua-
dagna assai, ed è già ricco quando rifiuta ogni compen-
so per i suoi lavori in San Pietro. A questo aumento
degli onorari, oltre all’accresciuta domanda d’oggetti
d’arte e alla generale ascesa dei prezzi, dovette contri-
buire in misura decisiva il fatto che sullo scorcio del
secolo la Curia pontificia balza in primo piano sul mer-
cato artistico e crea una sensibile concorrenza ai clienti

Storia dell’arte Einaudi 64


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

degli artisti fiorentini. Questi emigrano in gran nume-


ro verso la munifica Roma. Naturalmente traggono pro-
fitto dalle alte offerte della corte papale anche i rimasti
– in verità, solo i piú rinomati, quelli che si cerca di trat-
tenere in patria; per gli altri i prezzi arrancano a fatica
seguendo la situazione generale e ora davvero comin-
ciano ad apparire sostanziali differenze nei compensi102.
La liberazione di pittori e scultori dai vincoli delle
corporazioni e la loro ascesa dal livello degli artigiani a
quello dei poeti e dei dotti è stata attribuita alla loro
alleanza con gli umanisti. Ma la solidarietà degli uma-
nisti si spiega ricordando che i monumenti letterari ed
artistici dell’antichità formavano un’unità indivisibile
agli occhi di quegli entusiasti, persuasi che, presso gli
antichi, poeti e artisti godessero di ugual considerazio-
ne103. Di fatto, non avrebbero potuto concepire che gli
autori di opere da loro ugualmente venerate per la comu-
ne origine, fossero stati valutati diversamente, e indus-
sero i contemporanei – e tutta la posterità, fino all’Ot-
tocento – a credere che l’artista – che in realtà per gli
antichi altro non era che un banauso – dividesse con il
poeta l’onore della grazia divina. È indubbio il contri-
buto dell’umanesimo allo sforzo di emancipazione degli
artisti. L’umanista li conferma nella posizione conqui-
stata grazie alle congiunture del mercato e fornisce loro
le armi per imporsi alla corporazione e per vincere nelle
loro stesse file la resistenza degli elementi conservatori,
meno dotati e quindi piú timidi. La protezione dei let-
terati non è stata quindi la causa vera della loro ascesa
sociale, ma soltanto il sintomo di un’evoluzione che ha
preso il suo abbrivo dalla realtà: dal sorgere cioè delle
nuove Signorie e Principati, e dallo sviluppo e ricchez-
za delle città che hanno ridotto sempre piú la spropor-
zione tra l’offerta e la domanda sul mercato artistico,
fino a un perfetto equilibrio. È noto che le corporazio-
ni sostanzialmente si erano costituite per cercar di vol-

Storia dell’arte Einaudi 65


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

gere tale sproporzione a vantaggio dei produttori; e in


realtà gli organi corporativi chiusero un occhio davanti
alla violazione degli statuti solo quando non ci fu piú il
pericolo della scarsità di lavoro. Al progressivo allonta-
narsi di tale minaccia, e non già al favore degli umani-
sti, gli artisti dovettero la loro indipendenza. L’appog-
gio degli umanisti essi lo ricercarono, non tanto per
spezzare la resistenza delle Arti, quanto per giustifica-
re, agli occhi della classe dirigente imbevuta di umane-
simo, la prosperità economica ormai acquisita, e anche
per assicurarsi i dotti consiglieri che potessero aiutarli a
trattare i soggetti storici e mitologici allora in voga. Gli
umanisti erano per l’artista i garanti del suo valore intel-
lettuale e a loro volta trovavano nell’opera d’arte un effi-
cacissimo mezzo di propaganda per le idee su cui fon-
davano la loro egemonia spirituale. Da questo recipro-
co legame derivò quel concetto unitario dell’arte, che per
noi è del tutto evidente, ma fu ignoto fino al Rinasci-
mento. Non solo Platone parla in modo ben diverso
dell’arte e della poesia, ma neppure nella tarda anti-
chità o nel Medioevo si pensò mai che ci fosse tra arte
e poesia un’affinità piú stretta di quella, ad esempio, cor-
rente fra scienza e poesia, o tra filosofia e arte.
La letteratura artistica del Medioevo si limitava a
ricettari. In tali istruzioni pratiche l’arte non era in
alcun modo distinta dal mestiere. Anche il trattato della
pittura di Cennino Cennini non si scosta dalla menta-
lità e dall’etica della corporazione; esorta l’artista ad
esser diligente, ubbidiente, paziente, e nell’«imitazione»
dei modelli dell’arte scorge la via piú sicura per giunge-
re alla maestria. Si tratta ancora di un orientamento tra-
dizionalmente medievale. Leonardo è il primo che anche
sul piano teorico sostituisce all’imitazione dei maestri lo
studio della natura; ma cosí egli non fa che codificare la
vittoria sulla tradizione, che nella pratica naturalismo e
razionalismo hanno già da lungo tempo conseguito. L’e-

Storia dell’arte Einaudi 66


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

stetica leonardesca, orientata verso il naturalismo,


mostra che frattanto è completamente mutato il rap-
porto fra maestro e scolaro. L’emancipazione dallo spi-
rito artigianale dovette cominciare con la trasformazio-
ne dell’antico sistema didattico, sottraendo l’insegna-
mento al monopolio della corporazione. Questo non si
poteva spezzare – e neppur l’egemonia tradizionale della
bottega – finché la facoltà di esercitare l’arte era subor-
dinata al tirocinio presso un maestro appartenente alla
corporazione104. Si dovette perciò assegnare l’educazio-
ne dei giovani artisti alla scuola e non piú alla bottega,
sostituendo in parte l’insegnamento teorico al pratico,
se si vollero spazzar via gli ostacoli che il vecchio siste-
ma creava ai giovani. Anche il nuovo, veramente, a
poco a poco creò a sua volta legami e ostacoli. Si comin-
cia infatti col sostituire il modello naturale all’autorità
dei maestri, ma si finisce col rigido sistema dell’inse-
gnamento accademico: questo, in luogo dell’antico e
screditato lavoro di maniera, impone ideali nuovi, che,
anche se non meno ristretti, hanno il pregio di un fon-
damento scientifico. Del resto, ad istruire con metodo
scientifico si comincia nelle stesse botteghe. Già ai primi
del Quattrocento i discepoli, durante il tirocinio, impa-
rano, accanto alla tecnica manuale, anche i rudimenti
della geometria, della prospettiva e dell’anatomia e si
abituano a disegnar da modelli vivi e da manichini arti-
colati. Nei loro studi i maestri organizzano corsi di dise-
gno e da questa istituzione si sviluppa sia l’accademia
privata con il suo insegnamento pratico e teorico105, sia
l’accademia pubblica che segna la fine dell’antica comu-
nità della bottega e della tradizione artigiana, in quan-
to in essa il rapporto tra maestri e scolari diviene pura-
mente intellettuale. La pratica di bottega e le accademie
private si mantengono per tutto il Cinquecento, ma per-
dono via via ogni importanza per lo sviluppo dello stile.
La concezione scientifica dell’arte, che costituisce la

Storia dell’arte Einaudi 67


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

base dell’insegnamento accademico, comincia con Leon


Battista Alberti. Egli è il primo a formulare l’idea che
la matematica sia il terreno comune dell’arte e della
scienza, poiché ad essa appartengono tanto la teoria
delle proporzioni, quanto quella della prospettiva. E in
lui si trova per la prima volta consapevolmente realiz-
zata quell’unione, che sul piano della pratica era già
operante in Masaccio e Paolo Uccello, del tecnico che
esperimenta e dell’artista che osserva106. L’uno e l’altro
cercano di conoscere il mondo per via sperimentale, per
indurre dai risultati delle esperienze leggi razionali;
entrambi cercano di indagare e dominare la natura; un
atteggiamento attivo, un poiein, li distingue entrambi
dalla pura contemplazione, dalla scolastica angustia dei
dotti universitari. Ma se il tecnico e l’indagatore della
natura pretendono, per le loro nozioni matematiche, di
appartenere alla sfera intellettuale, anche l’artista, che
spesso fa tutt’uno col tecnico e con lo scienziato, ha
diritto d’aspettarsi che lo si distingua dall’artigiano e che
il suo mezzo espressivo conti fra le «arti liberali».
Leonardo non aggiunge alcuna fondamentale idea
nuova al trattato dell’Alberti, che innalza l’arte al grado
della scienza e affianca l’artista agli umanisti; egli non
fa che accentuare e accrescere le rivendicazioni del suo
predecessore. La pittura, egli afferma, è una specie di
scienza esatta della natura; d’altra parte è superiore alle
scienze, perché queste sono «imitabili», cioè imperso-
nali, l’arte invece è legata all’individuo e alle sue facoltà
innate107. Leonardo sostiene dunque il diritto della pit-
tura ad essere annoverata fra le «arti liberali», non solo
in considerazione della scienza matematica dell’artista,
ma anche del suo talento che non è diverso dal genio
poetico. Egli riprende la definizione simonidea della
pittura come poesia muta e della poesia come pittura
parlante; apre cosí quella lunga controversia sulla dignità
delle arti, che durerà per secoli e in cui ancora Lessing

Storia dell’arte Einaudi 68


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

avrà modo di intervenire. Leonardo dice che se l’esser


muta è per la pittura un difetto, si potrebbe con ugual
diritto rimproverare alla poesia d’esser cieca108. Un arti-
sta che fosse stato piú vicino agli umanisti non si sareb-
be mai spinto a sostenere una tal eresia.
Una valutazione piú alta dell’arte, un superamento
della concezione artigiana del Medioevo, si nota già del
resto nei primi precursori dell’umanesimo. Dante crea
un monumento imperituro ai maestri Cimabue e Giot-
to (Purg., XI, 94-96), e li paragona a poeti come Guido
Guinizelli e Guido Cavalcanti. Il Petrarca nei suoi
sonetti loda il pittore Simone Martini e Filippo Villani,
nell’elogio di Firenze, nomina fra gli uomini famosi della
città anche diversi artisti. Le novelle italiane, anzitutto
quelle del Boccaccio e del Sacchetti, sono ricche di aned-
doti sugli artisti. E se anche l’arte in sé non ha, in que-
sti aneddoti, grande importanza, è pur sempre signifi-
cativo che l’artista in quanto tale appaia abbastanza
interessante per essere tratto fuori dell’anonima esi-
stenza dei comuni artigiani e venga rappresentato con
una sua individuale fisionomia. Già nella prima metà del
Quattrocento cominciano quelle biografie di artisti, che
sono cosí tipiche della Rinascita italiana. Il Brunelleschi
è il primo ad avere una biografia scritta da un contem-
poraneo; tanto onore era fin qui riservato ai principi,
agli eroi e ai santi. Il Ghiberti scrive la prima autobio-
grafia d’artista che si conosca. A gloria del Brunelleschi
il Comune fa erigere un monumento sepolcrale nel
duomo, e Lorenzo vorrebbe riportare in patria da Spo-
leto i resti mortali di Filippo Lippi e seppellirli onore-
volmente. Gli si risponde che si è dolenti, ma Spoleto è
molto piú povera di Firenze di grandi uomini e non si
può pertanto esaudire il suo desiderio. Da tutti questi
fatti risulta chiaro che l’attenzione del pubblico si è
ormai spostata dalle opere alla persona dell’artista. Il
moderno concetto di personalità creatrice comincia a

Storia dell’arte Einaudi 69


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

farsi strada e sono sempre piú frequenti i segni del cre-


scente orgoglio degli artisti. Abbiamo firme di quasi
tutti i pittori importanti del Quattrocento e il Filarete,
ad esempio, raccomanda agli artisti di firmare le loro
opere. Fatto ancor piú notevole, questi pittori ci hanno
lasciato per lo piú il loro autoritratto, anche se non sem-
pre in un quadro a sé. L’artista ritrae se stesso, e talvolta
anche i propri familiari, accanto a donatori e mecenati
come se fosse uno dei tanti assistenti alla scena sacra.
Cosí, in un affresco di Santa Maria Novella, il Ghir-
landaio rappresenta i suoi parenti di fronte alla coppia
dei donatori; e le autorità di Perugia incaricano il Van-
nucci di aggiungere il proprio ritratto agli affreschi del
Cambio. Sempre piú spesso l’artista riceve pubblici rico-
noscimenti. Gentile da Fabriano riceve la toga patrizia
dalla Repubblica veneta; la città di Bologna elegge gon-
faloniere il Francia; Firenze dà a Michelangelo l’alto
titolo di membro del consiglio109.
Uno dei segni piú notevoli della nuova coscienza di
sé e della diversa considerazione che gli artisti hanno per
la propria opera si ha nel loro graduale emanciparsi dal-
l’ordinazione diretta: se essi non eseguono piú gli inca-
richi con l’antica fedeltà, spesso danno mano a lavori che
nessuno ha loro ordinato. È noto, per esempio, che
Filippo Lippi non sempre seguiva nel suo lavoro quel
ritmo continuo e regolare che si pretende per l’attività
artigiana, cosí che a un tratto lasciava in sospeso certe
opere, per cominciarne altre. Questa abitudine di lavo-
rare irregolarmente si fa sempre piú diffusa110, e col
Perugino ci troviamo di fronte addirittura all’astro vizia-
to che tratta male i committenti: né in Palazzo Vecchio
a Firenze, né in Palazzo Ducale a Venezia egli esegue i
lavori assunti, e fa tanto aspettare l’opera promessa per
la cappella della Vergine nel duomo di Orvieto, che il
Comune finisce col passar l’incarico al Signorelli. La gra-
duale ascesa dell’artista si rispecchia nitidissima nella

Storia dell’arte Einaudi 70


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

carriera di Leonardo, che a Firenze è senza dubbio un


uomo apprezzato, ma non molto ricercato come artista;
a Milano, diventa il pittore aulico di Ludovico il Moro,
cui tutto è concesso; quindi assurge al rango di primo
ingegnere militare di Cesare Borgia, e chiude la sua vita
come favorito e amico del re di Francia. Il mutamento
radicale avviene al principio del Cinquecento. Da allo-
ra i maestri celebri non sono piú dei semplici protetti dei
mecenati, ma essi stessi dei gran signori. E da signore,
piú che da artista è, come dice il Vasari, la vita splen-
dida di Raffaello, che a Roma dispone di un suo palaz-
zo e tratta alla pari con principi e cardinali: Baldassar
Castiglione e Agostino Chigi sono suoi amici, la nipote
del cardinal Bibbiena dev’esser la sua sposa. E Tiziano,
se possibile, sale ancor piú in alto. La fama di primo pit-
tore del tempo, la sua vita, il suo grado, i titoli lo ele-
vano al piú alto rango sociale. L’imperatore Carlo V lo
nomina conte palatino e membro della corte imperiale,
lo fa cavaliere dello Speron d’Oro e gli concede, insie-
me col titolo ereditario, tutta una serie di privilegi. I
sovrani si affannano, spesso inutilmente, per ottenere un
ritratto di sua mano; egli, come scrive l’Aretino, ha pro-
venti da principe; per ogni ritratto l’imperatore gli invia
ricchi doni; sua figlia Lavinia riceve una dote cospicua;
Enrico III visita personalmente il vecchio pittore e
quando egli, nel 1576, muore vittima della peste, la
Repubblica lo fa seppellire con i piú grandi onori della
chiesa dei Frari, malgrado il severo divieto, sempre
osservato, di dar sepoltura nelle chiese agli appestati.
Michelangelo infine sale a un’altezza senza precedenti.
La sua importanza è cosí manifesta, ch’egli può rinun-
ziare del tutto a onori pubblici, titoli e distinzioni. Egli
sprezza l’amicizia dei principi e dei papi; può permet-
tersi di avversarli. Non è conte, né consigliere, né
sovrintendente pontificio, ma lo chiamano «divino».
Non vuole che nell’indirizzo delle lettere lo si indichi

Storia dell’arte Einaudi 71


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

come pittore o scultore: è Michelangelo Buonarroti, né


piú né meno; vuole avere come allievi giovani nobili, né
ciò sarà imputato a semplice snobismo; afferma di dipin-
gere «col cervello» e non «colla mano» e piú ancora vor-
rebbe evocare le figure dal blocco di marmo con la pura
magia della sua visione. Evidentemente questo è assai
piú che orgoglio dell’artista che si sente superiore all’ar-
tigiano, al «meccanico», al «filisteo»; è l’espressione
invece del terrore di venire a contatto con la comune
realtà. Ci si rivela cosí il primo artista moderno, solita-
rio, posseduto dal demone – il primo ossessionato dalla
sua idea, che sola esiste per lui; il primo che si senta
profondamente impegnato di fronte al suo genio e che
nelle proprie facoltà di artista scorga una superiore
potenza che si impone alla sua stessa volontà. Qui si
giunge a una altezza sovrana, per cui impallidisce ogni
precedente idea della libertà artistica. A questo punto è
veramente compiuta l’emancipazione dell’artista; ora
egli diventa il genio, quale ci appare dal Rinascimento
in poi. Si compie infine, con un ultimo mutamento, la
sua ascesa: non piú l’arte, ma l’artista stesso diventa
oggetto di venerazione, diventa di moda. Il mondo, di
cui egli doveva celebrare la gloria, ora celebra la sua; il
culto, di cui era strumento, ora viene tributato alla sua
persona; la grazia divina si trasferisce dai suoi protetto-
ri a lui stesso. Veramente c’era sempre stato un rappor-
to reciproco fra la gloria dell’eroe e quella del cantore,
fra la gloria del mecenate e quella dell’artista111; quanto
piú famoso era l’apologeta, tanto piú valida era la fama,
ch’egli creava. Ma ora si è giunti a tal punto che il mece-
nate si innalza nella misura in cui innalza l’artista al di
sopra di sé e lo esalta anziché esserne esaltato. Carlo V
si china a raccogliere il pennello caduto a Tiziano, e ritie-
ne piú che naturale che un tale artista sia servito da un
imperatore. La leggenda dell’artista è completa. Senza
dubbio, c’entra un po’ di civetteria: l’artista è circonfuso

Storia dell’arte Einaudi 72


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

di luce, perché altri brilli del suo riflesso. Ma cesserà mai


del tutto la reciprocità della riconoscenza e della lode,
il tributo di stima e di onore per i servigi reciproci, la
vicendevole salvaguardia degli interessi? Al massimo,
sarà velata.
La fondamentale novità della concezione artistica del
Rinascimento è l’idea del genio e la concezione dell’o-
pera d’arte come creazione dell’autonoma personalità:
questa è superiore alla tradizione, alla scuola, alla rego-
la, all’opera stessa, che anzi trae da essa la propria legge;
in altre parole, essa è piú ricca e piú profonda dell’ope-
ra e non può esprimersi compiutamente in alcuna forma
obiettiva. È una concezione affatto estranea al Medioe-
vo, che non riconosceva alcun particolare valore all’ori-
ginalità e alla spontaneità dello spirito, raccomandava l’i-
mitazione dei maestri e ammetteva il plagio, e tutt’al piú
era sfiorato, ma non certo dominato, dall’idea dell’e-
mulazione. Il genio come dono di Dio, come forza crea-
trice innata e intrasmissibile; la libertà, anzi il dovere
dell’artista di seguire una propria, unica legge che giu-
stifica la sua originalità e la sua ostinazione geniale:
sono tutte idee che sorgono solo con la società rinasci-
mentale. In questa infatti l’intimo dinamismo economi-
co e il profondo spirito di concorrenza aprono all’indi-
viduo assai piú larghe possibilità e d’altro canto la richie-
sta di piú ampi mezzi di propaganda da parte dei ceti
dirigenti provoca un rialzo della domanda sul mercato
artistico. Ma come l’idea moderna di concorrenza ha
lontane radici nel Medioevo, cosí si mantiene vivo a
lungo il concetto medievale di un’arte obiettiva supe-
riore alle inclinazioni individuali, e la concezione sog-
gettiva della personalità artistica si fa strada solo assai
lentamente anche dopo la fine del Medioevo. Il quadro
dell’individualismo rinascimentale è dunque da correg-
gere in due sensi. Ma la tesi del Burckhardt non va
respinta del tutto, perché, sebbene anche nel Medioevo

Storia dell’arte Einaudi 73


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

ci fossero già personalità forti e caratteristiche112, altro


è pensare e agire individualmente, altro esser coscienti
della propria individualità, affermarla e deliberatamen-
te potenziarla. Si può parlare di individualismo in senso
moderno solo quando ci si trova di fronte a una riflessa
coscienza individuale, non di fronte a una semplice rea-
zione soggettiva. La coscienza della propria individua-
lità comincia nel Rinascimento, ma il Rinascimento non
comincia con tale coscienza. Si cerca e si apprezza nel-
l’arte l’espressione della personalità molto prima di esse-
re consapevoli che l’arte si orienta non piú verso un
obiettivo «che cosa», ma verso un soggettivo «come».
Si continua a parlare del suo contenuto di realtà obiet-
tiva, quando già da gran tempo essa è diventata una con-
fessione soggettiva e proprio come espressione soggetti-
va acquista un valore universale. La forza della perso-
nalità, l’energia intellettuale e la spontaneità dell’indi-
viduo costituiscono la grande esperienza del Rinasci-
mento; e il genio, come quintessenza di tali facoltà,
diventa per esso l’ideale in cui si raccoglie l’essenza
dello spirito umano e il suo potere sulla realtà.
Una delle prime conseguenze del concetto di genio è
l’idea di proprietà intellettuale. Nel Medioevo essa
manca, come manca l’aspirazione all’originalità che le è
strettamente collegata. Finché l’arte è tutta volta a rap-
presentare la divinità e l’artista non è che un mezzo
attraverso il quale si palesa l’eterno, soprannaturale ordi-
ne delle cose, non si può parlare né di autonomia del-
l’arte, né di proprietà artistica. È molto facile stabilire
relazioni tra proprietà intellettuale e inizi del capitali-
smo, ma una tale connessione si baserebbe semplice-
mente sull’equivoco. L’idea della produttività e quindi
della proprietà intellettuale è una conseguenza del deca-
dere della civiltà cristiana. Non appena la religione cessa
di dominare e unificare in sé l’intera vita spirituale,
ecco affacciarsi l’idea dell’autonomia delle diverse forme

Storia dell’arte Einaudi 74


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

dello spirito, e quindi anche dell’arte come forma spiri-


tuale che abbia in sé il proprio senso e il proprio fine.
Malgrado ogni piú tardo tentativo di ricondurre all’u-
nitario principio della religione l’intera cultura, e quin-
di anche l’arte, non si riuscirà mai piú a ricostituire l’u-
nità culturale del Medioevo e a negare interamente
all’arte la sua autonomia. Essa ormai, anche se volta a
fini extraestetici, rimane bella e significativa in sé. Ma
non appena si cessa di considerare le singole creazioni
dello spirito come forme diverse di un’unica verità
sostanziale, ecco presentarsi l’idea di assumere come
criterio del loro valore la singolarità e l’originalità. Il
Trecento è tutto sotto il segno di un solo maestro –
Giotto – e della sua tradizione; nel Quattrocento comin-
ciano ad affermarsi tendenze individuali d’ogni sorta.
L’originalità diventa un’arma della concorrenza. La
dinamica sociale s’impadronisce d’un mezzo, ch’essa
non ha creato, ma che adatta ai suoi fini, accrescendo-
ne l’efficacia. Finché il mercato rimane in complesso
favorevole agli artisti, il desiderio di un’espressione per-
sonale ancora non si converte in ricerca di originalità;
questo avviene solo col Manierismo, quando le mutate
condizioni generali turbano sensibilmente il mercato
artistico. Il tipo del «genio originale» tuttavia appare
solo nel Settecento, quando gli artisti, nella transizione
dal mecenatismo ai rischi del libero mercato, si trovano
a dover combattere piú duramente che mai per l’esi-
stenza materiale.
Lo sviluppo piú significativo del concetto di genio si
ha nello spostarsi dell’interesse dal lavoro concreto alla
semplice attitudine, dall’opera alla persona dell’artista,
dal risultato all’intento e all’idea. E solo un’epoca per
la quale l’espressione personale era diventata significa-
tiva in se stessa e rivelatrice dell’attività dello spirito
poteva compiere questo passaggio. Che segni precurso-
ri di tale tendenza esistessero già nel Quattrocento, lo

Storia dell’arte Einaudi 75


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

mostra, fra l’altro, un passo del trattato del Filarete,


dove le forme di un’opera d’arte sono paragonate ai
caratteri di un manoscritto, dai quali si può subito rico-
noscere la mano dello scrittore113. La comprensione e la
crescente predilezione per il disegno, l’abbozzo, lo schiz-
zo, il bozzetto, e in genere per l’incompiuto, sono altri
passi nella stessa direzione. Cosí l’origine del gusto per
il frammento è da ricercare nella concezione soggettiva
dell’arte, nell’attrazione che esercita l’idea del genio; l’a-
bitudine di studiare i torsi antichi ha potuto, al massi-
mo, accrescerla. Il disegno, lo schizzo era pieno d’inte-
resse per il Rinascimento non solo come risultato arti-
stico, ma anche come documento, come testimonianza
di un momento del processo creativo; vi si scorgeva
insomma una forma espressiva particolare, distinta dal-
l’opera finita; vi si apprezzava il fatto che in esso era
colta l’invenzione alla sua origine, quasi non ancor sepa-
rata dal soggetto creatore. Vasari dice che Paolo Uccel-
lo ha lasciato tanti disegni da riempirne casse intere. Del
Medioevo, invece, non ce ne sono quasi pervenuti. A
parte il fatto che l’artista medievale certo non attribui-
va alle idee momentanee la stessa importanza dei mae-
stri piú tardi, e probabilmente non riteneva che valesse
la pena di fissare ogni fuggevole idea, certo altre cause
spiegano la rarità dei disegni medievali: anzitutto il dise-
gno si diffuse universalmente solo quando si poté dispor-
re di carta adatta e facilmente accessibile114, inoltre solo
una parte relativamente piccola dei disegni effettiva-
mente eseguiti ci è pervenuta. Della loro distruzione tut-
tavia il tempo non è il solo responsabile; evidentemen-
te della loro conservazione ci si curava meno allora di
quanto si fece piú tardi, e in questa mancanza d’inte-
resse si rivela appunto la differenza fra la concezione
artistica del Medioevo, sostanzialmente orientato verso
l’obiettività, e quella soggettivistica del Rinascimento.
Per il Medioevo l’opera d’arte aveva solo un valore

Storia dell’arte Einaudi 76


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

oggettivo, per il Rinascimento aveva valore anche come


espressione della personalità. E appunto allora il disegno
assunse valore di forma tipica del creare artistico, per-
ché metteva nella massima evidenza quel che di fram-
mentario, di non finito e di non finibile è inerente a ogni
opera d’arte. L’esaltazione dell’attitudine rispetto all’o-
pera attuata, tratto essenziale del concetto di genio, sta
a significare appunto che non si ritiene che la genialità
possa mai realizzarsi interamente, e questo spiega per-
ché si sia visto nel disegno con le sue lacune una tipica
forma dell’arte.
Dal genio incapace di piena e perfetta comunicazio-
ne, al genio incompreso che si appella alla posterità
contro il giudizio dei contemporanei, non c’era che un
passo. Il Rinascimento non lo compí mai. Non perché
intendesse l’arte meglio dei tempi successivi, in cui
invece ci furono veramente geni incompresi, ma perché
allora la lotta per l’esistenza nel campo dell’arte si svol-
geva in forme ancora relativamente innocue. Tuttavia
il concetto di genio acquista già ora alcuni tratti dia-
lettici e già lascia intravvedere l’apparato difensivo,
che l’artista opporrà sia al volgo incompetente dei «fili-
stei», sia a quello degli acciarponi e dei dilettanti. Con-
tro i primi egli si trincererà dietro la maschera dell’ec-
centrico, contro gli altri accentuerà il carattere innato
del suo talento, l’originalità della sua arte che non si
può imparare. Francisco de Hollanda nel suo trattato
della pittura (1548) osserva che ogni personalità note-
vole ha in sé qualcosa di bizzarro, e sottolinea l’idea,
allora non piú del tutto nuova, che artista vero si nasce.
La teoria del genio ispirato, le cui facoltà sono di natu-
ra sovraindividuale e irrazionale, prova che si sta costi-
tuendo una nuova aristocrazia intellettuale, in cui ognu-
no preferisce rinunziare al merito personale, alla
«virtù» nel senso quattrocentesco, pur di distinguersi
piú nettamente dagli altri.

Storia dell’arte Einaudi 77


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

L’autonomia dell’arte esprime in forma obiettiva,


cioè dal punto di vista dell’opera, quel che il concetto
di genio esprime in forma soggettiva, dal punto di vista
dell’artista. L’autonomia delle creazioni spirituali è il
correlativo della spontaneità dello spirito. Ma per il
Rinascimento l’autonomia dell’arte significa soltanto
l’indipendenza dalla Chiesa e dalla metafisica ch’essa
propone, non già un’autonomia assoluta, totale. L’arte
si libera dai dogmi ecclesiastici, ma aderisce pur sempre
alla visione scientifica del mondo, propria del tempo;
l’artista si emancipa dal clero, ma si vincola ben piú
strettamente alla cerchia umanistica. Tuttavia l’arte non
diventa ancella della scienza, come nel Medioevo era
«ancella della teologia». Piuttosto, essa è e rimane una
sfera privilegiata in cui, lungi dal mondo, lo spirito si
compiace, indugiando in spirituali godimenti di natura
particolarissima. E, quando in essa si muove, l’uomo è
lontano tanto dalla vita pratica quanto dal mondo tra-
scendente della fede. L’arte può servire ai fini della reli-
gione, e trovarsi a risolvere problemi in comune con la
scienza; ma, per quanto essa assolva a funzioni extrar-
tistiche, si può sempre considerare come avente in se
stessa il proprio oggetto. È questo il lato nuovo, cui il
Medioevo non poteva arrivare. Ciò non vuol dire che
prima del Rinascimento non si sentisse o non si godes-
se la qualità formale di un’opera d’arte; ma non se ne
aveva coscienza e, quando alla reazione sentimentale
subentrava la riflessione, si giudicava secondo il sogget-
to, il significato e il valore simbolico. L’interesse del
Medioevo per l’arte riguardava l’argomento; e non solo
per l’arte cristiana contemporanea la considerazione ulti-
ma verteva esclusivamente sul contenuto: la stessa arte
classica era giudicata da un punto di vista puramente
contenutistico115. Il sovvertimento rinascimentale dei
rapporti con l’arte e la letteratura classica non si deve
attribuire alla scoperta di nuovi autori e di nuove opere,

Storia dell’arte Einaudi 78


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

quanto piuttosto allo spostarsi dell’interesse dal conte-


nuto alla forma, si trattasse di nuove scoperte o di monu-
menti già noti116. Ed è significativo che il pubblico ora
fa proprio l’atteggiamento degli artisti e giudica l’arte,
non piú col metro della religione e della vita, ma con
quello dell’arte. L’arte del Medioevo mirava a interpre-
tare la vita, quella del Rinascimento ad arricchirla; l’una
tendeva a elevare l’uomo, l’altra a dilettarlo. Alla sfera
empirica e a quella trascendente, le sole che lo spirito
medievale conoscesse, un’altra se ne aggiunge, in cui sia
le forme dell’esperienza mondana, sia gli archetipi meta-
fisici delle cose acquistano un senso particolare e nuo-
vissimo.
L’idea dell’arte autonoma, disinteressata, godibile in
sé era già familiare all’antichità; il Rinascimento non
fece che trarla dall’oblio medievale. Ma prima di allora
mai si era concepita l’idea che una vita dedita al godi-
mento dell’arte potesse costituire una forma piú alta e
piú nobile d’esistenza. Plotino e i neoplatonici, che pure
avevano attribuito all’arte un alto significato, ne nega-
rono in pari tempo l’autonomia, facendone un puro vei-
colo della conoscenza intellettiva. L’idea, già accennata
in Petrarca117, di un’arte del tutto autonoma e che, ben-
ché indipendente dal resto del mondo spirituale, anzi
proprio in grazia di quella bellezza che ha in sé le sue
ragioni, assurga ad educatrice dell’umanità, è estranea
tanto al Medioevo quanto alla classicità. E tale è tutto
l’estetismo del Rinascimento. È vero che anche nella
tarda antichità era avvenuto che i criteri dell’arte si
estendessero alla vita intera, pure sarebbe impossibile
trovare nei secoli avanti il Rinascimento un episodio
analogo a quello del credente che, sul letto di morte, si
rifiuta di baciare il Crocifisso che gli è presentato, per-
ché è brutto, e ne vuole uno piú bello118.
Il concetto rinascimentale dell’autonomia dell’arte
non è, per altro, rigoroso, puristico; gli artisti cercano

Storia dell’arte Einaudi 79


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

di spezzare i ceppi del pensiero scolastico, ma non hanno


l’ambizione di reggersi da soli, né pensano a fare del-
l’indipendenza dell’arte una questione di principio.
Anzi, essi sottolineano la natura scientifica della loro
attività. Soltanto nel Cinquecento si sciolgono i legami
che facevano di scienza e arte un mezzo omogeneo per
la conoscenza del mondo esterno; solo allora sorge l’idea
di un’arte autonoma anche di fronte alla scienza. In
certe situazioni l’arte pare orientarsi scientificamente,
mentre la scienza per contro pare seguire criteri esteti-
ci. Nel Quattrocento il contenuto di verità dell’arte lo
si commisura con criteri scientifici; nel tardo Cinque-
cento invece e nell’età barocca la concezione scientifica
del mondo viene costruita in gran parte secondo criteri
artistici. La prospettiva dei pittori quattrocenteschi è
una concezione scientifica; l’universo di Keplero e di
Galileo è, in fondo, una visione estetica. Con ragione
Dilthey mette in rilievo un aspetto di «fantasia artisti-
ca» nell’indagine scientifica rinascimentale119, ma con
altrettanta ragione si potrebbe parlare di un contributo
della «fantasia scientifica» alle creazioni dell’arte quat-
trocentesca.
Il prestigio che dotti e scienziati ebbero nel Quat-
trocento sarà uguagliato solo nell’Ottocento. Entrambe
queste epoche diressero i loro sforzi a incoraggiare per
nuove vie e con nuovi mezzi, con nuovi metodi scienti-
fici e invenzioni tecniche, l’espansione dell’economia.
Ciò spiega in parte il primato della scienza e il rispetto
nell’uno e nell’altro secolo per i suoi cultori. Ciò che,
nelle arti figurative, Adolf Hildebrandt e Bernard
Berenson intendono per «forma»120, è un concetto teo-
retico piú che estetico, al pari della «prospettiva» del-
l’Alberti e di Piero della Francesca. Le due categorie
sono in realtà guide per muoversi nel mondo dell’espe-
rienza sensibile, mezzi per chiarire i rapporti spaziali,
strumenti per la conoscenza visiva. La concezione este-

Storia dell’arte Einaudi 80


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

tica dell’Ottocento non può ingannare sul carattere teo-


retico dei suoi principî artistici, come nel Rinascimento
l’amore dell’arte non riesce a celare l’interesse preva-
lentemente scientifico che esso ha per il mondo esterno.
Nei valori spaziali di Hildebrandt, nel geometrismo di
Cézanne, nell’attrazione che la fisiologia esercita sugli
impressionisti, e la psicologia su tutta la moderna nar-
rativa e sul dramma, dovunque ci volgiamo, notiamo lo
sforzo di orizzontarsi nella realtà empirica, di com-
prendere l’immagine del mondo naturale, di accrescere
i dati dell’esperienza, di ordinarli ed elaborarli in un
sistema razionale. Per l’Ottocento l’arte è un mezzo per
conoscere il mondo esterno, una forma di esperienza
della vita, di analisi e d’interpretazione dell’uomo. Ma
questo naturalismo volto a una conoscenza obiettiva
nasce proprio nel Quattrocento; solo allora l’arte com-
pie il suo primo tirocinio scientifico, e ancor oggi vive,
almeno in parte, sul capitale allora tesaurizzato. I suoi
strumenti erano matematica e geometria, ottica e mec-
canica, teoria della luce e dei colori, anatomia e fisiolo-
gia; i suoi problemi erano la natura dello spazio e la
struttura del corpo umano, il movimento e le propor-
zioni, la tecnica dei panneggi e le proprietà dei pigmen-
ti. Ma, ad onta dei suoi tanti aspetti scientifici, il natu-
ralismo del Quattrocento non era che finzione; lo rive-
la chiaramente quella che si può considerare la sua piú
tipica formula espressiva: la prospettiva centrale. In sé
la prospettiva non era una scoperta del Rinascimento121.
Già l’antichità conosceva lo scorcio e riduceva le dimen-
sioni degli oggetti in ragione della loro distanza dall’os-
servatore; ma non riuscí mai a dare dello spazio una rap-
presentazione prospetticamente unitaria, costruita su
un unico punto di vista; non seppe o non volle rappre-
sentare in un’unità continua i diversi oggetti e gli spazi
tra essi interposti. Lo spazio nelle opere antiche risultava
dal comporsi di parti ed elementi disparati, non costi-

Storia dell’arte Einaudi 81


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

tuiva un continuum unitario; riprendendo una distin-


zione del Panofsky, era piuttosto un «aggregato» che un
«sistema spaziale». Solo a partire dal Rinascimento la
pittura si fonda sul presupposto che lo spazio in cui si
trovano le cose sia un elemento infinito, continuo e
omogeneo, e che di regola noi vediamo le cose unitaria-
mente, cioè con un unico e immobile occhio122. Ciò che
di fatto noi percepiamo è invece uno spazio limitato,
discontinuo, composto di elementi eterogenei. La nostra
immagine dello spazio è in realtà deformata e sfocata ai
margini, il suo contenuto si divide in gruppi e pezzi piú
o meno indipendenti; e poiché il nostro campo visivo è
fisiologicamente sferoidale, in parte noi vediamo curve
invece di rette. Perciò è un’ardita astrazione la pro-
spettiva lineare quale ce la presenta l’arte rinascimenta-
le, cioè con l’immagine di uno spazio uniformemente
chiaro e coerentemente costruito in tutte le sue parti,
con un comune punto di concorso delle parallele e un
modulo costante nella misura della «giusta» distanza:
quell’immagine insomma che l’Alberti definì come sezio-
ne trasversale della piramide visiva. La prospettiva cen-
trale ci dà uno spazio matematicamente esatto, ma
psico-fisiologicamente irreale. Solo un’epoca cosí inti-
mamente permeata di scienza, come i secoli tra il Rina-
scimento e la fine dell’Ottocento, poteva considerare
questa visione assolutamente razionale dello spazio come
una traduzione adeguata della reale impressione ottica.
Allora infatti unità e coerenza eran considerate i piú alti
criteri di verità. Solo recentemente abbiamo riacquista-
to la consapevolezza che noi non vediamo la realtà come
un tutto spazialmente unitario e conchiuso, ma che inve-
ce la nostra percezione si compie su gruppi sparsi di
oggetti e da diversi punti di vista: la veduta complessi-
va si costruisce mentre il nostro sguardo si sposta dal-
l’uno all’altro, mediante l’addizione di singole vedute
parziali, con un’operazione analoga in certo modo a

Storia dell’arte Einaudi 82


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

quella di un Lorenzetti nei suoi grandi affreschi di Siena.


Certo la rappresentazione discontinua dello spazio in
questi affreschi oggi persuade piú di quella perfetta-
mente unitaria che i maestri del Quattrocento realizza-
vano sulla scorta della prospettiva centrale123.
Si è ritenuta peculiare del Rinascimento la versatilità
degli ingegni e specialmente l’attitudine, in una sola
persona, all’arte e alla scienza nello stesso tempo. Tut-
tavia il fenomeno di artisti che furono esperti di tecni-
che diverse, di un Giotto, un Orcagna, un Brunelleschi,
un Benedetto da Maiano, un Leonardo da Vinci che
furono insieme architetti, scultori e pittori; di un Pisa-
nello, di un Antonio del Pollaiolo, di un Verrocchio che
furono scultori, pittori, orafi e medaglisti; di un Raf-
faello che, nonostante la piú avanzata specializzazione,
fu ancora pittore e architetto, e di un Michelangelo
scultore, pittore, architetto, si spiega piú con il caratte-
re di «mestiere» proprio delle arti figurative che non con
un ideale rinascimentale di versatilità. Questa, in campo
scientifico e tecnico, è propriamente una virtú medie-
vale; il Quattrocento la eredita insieme con la tradizio-
ne artigiana e se ne allontana poi via via che si allonta-
na dallo spirito di «mestiere». Nel tardo Cinquecento è
sempre piú raro il caso dell’artista che si dedica a tecni-
che diverse. Tuttavia, con la vittoria dell’ideale umani-
stico di cultura e con la concezione dell’«uomo univer-
sale» torna a prevalere una tendenza opposta alla spe-
cializzazione che porta al culto di una versatilità non piú
di natura artigiana, ma dilettantesca. Alla fine del Quat-
trocento le due opposte correnti si trovano di fronte: per
quanto abbia corso l’universalismo umanistico ispirato
dagli alti ceti, che induce gli artisti a completare le loro
capacità tecniche con cognizioni intellettuali, tuttavia si
fa strada il principio della divisione del lavoro e della
specializzazione, che finisce col prevalere anche in arte.
Già Cardano sottolinea che l’occuparsi di molte cose

Storia dell’arte Einaudi 83


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

porta al discredito di un intellettuale. D’altra parte di


contro alla generale tendenza alla specializzazione meri-
ta di essere rilevato il fatto singolare che dei maggiori
architetti del Cinquecento il solo Antonio da Sangallo
si era subito avviato a quella carriera: Bramante in ori-
gine era stato pittore, Raffaello e il Peruzzi restarono tali
nonostante la loro attività di architetti, e Michelangelo
era e rimase soprattutto scultore. Il fatto che ci si avvias-
se relativamente tardi alla professione di architetto e che
per essa la preparazione di molti maestri fosse soprat-
tutto teorica, dimostra quanto rapidamente l’educazio-
ne artigiana venisse soppiantata da quella intellettuale
e accademica; d’altro canto sta ad indicare come l’ar-
chitettura diventi in parte un passatempo da signori,
spesso esercitata come attività accessoria. E infatti i
grandi signori vi si erano sempre dedicati con passione,
non solo come fabbricieri, ma anche come costruttori
dilettanti.
Al Ghiberti erano occorsi decenni per compiere le
porte del Battistero, e Luca della Robbia aveva speso
poco meno di dieci anni intorno alla sua cantoria per il
duomo fiorentino. Invece il metodo del Ghirlandaio si
caratterizza per una geniale tecnica da «fa’ presto», e
Vasari proprio nella facilità e nella prestezza scorge un
segno distintivo dell’autentica natura artistica124. Dilet-
tantismo e virtuosismo, per quanto contraddittori, si
trovano uniti nella figura dell’umanista, che giustamen-
te è stato definito «il virtuoso della vita intellettuale»,
ma si potrebbe altrettanto bene qualificare come l’eter-
no, puro, infaticabile dilettante. Le due caratteristiche
rientrano in quell’ideale della personalità che gli uma-
nisti si sforzano di attuare, e nella paradossale unione si
tradisce appunto la problematica natura della loro vita
di intellettuali. Tale problematicità ha la sua origine nel
modo stesso in cui è intesa la condizione del letterato,
di cui gli umanisti sono i primi rappresentanti, e soprat-

Storia dell’arte Einaudi 84


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

tutto nella loro pretesa a una completa indipendenza,


pretesa che è contraddetta dal fatto che essi sono anco-
ra legati in molte guise. Nel Trecento gli scrittori italiani
provenivano per lo piú dai ceti superiori, dal patriziato
urbano o da facoltose famiglie mercantili. Nobili erano
Cavalcanti e Cino da Pistoia; Petrarca è figlio di un
notaio e notaio è Brunetto Latini; Villani e Sacchetti
erano agiati mercanti, come i genitori del Boccaccio e del
Sercambi. Essi non avevano piú nulla in comune con i
giullari medievali125. Ma gli umanisti non sono una cate-
goria omogenea; non li assimila il ceto o il grado, non la
cultura o la professione; fra di loro si incontrano chie-
rici e laici, ricchi e poveri, alti funzionari e modesti
notai, piccoli mercanti e maestri di scuola, giuristi ed
eruditi126. I rappresentanti dei ceti inferiori vi si fanno
sempre piú numerosi. Il piú celebre, il piú influente, il
piú temuto di tutti è il figlio di un calzolaio. Tutti son
figli della città – ecco almeno un carattere comune.
Molti di loro sono di famiglia povera, alcuni son fanciulli
prodigio che, destinati a una carriera piena di promes-
se, apertasi all’improvviso, si trovano fin dall’inizio in
condizioni eccezionali. Le ambizioni precoci e smodate,
lo studio intenso, spesso assillato dalla povertà, l’ingra-
to lavoro di precettori e segretari, la caccia alla posizio-
ne e alla fama, le esaltate amicizie e i rancori ostinati, il
facile successo o il fallimento immeritato, gli onori e la
fama per gli uni, la vita raminga per gli altri: tutto ciò
non poteva passar sopra di loro senza gravi danni mora-
li. Le condizioni sociali del tempo offrivano a un lette-
rato grandi possibilità, ma minacciavano anche perico-
li, fatti apposta per avvelenare fin dall’inizio l’anima di
un giovane d’ingegno.
Il formarsi, con l’umanesimo, di una classe di lette-
rati, teoricamente almeno, liberi, presuppone una clas-
se agiata relativamente ampia, adatta a costituire un
pubblico letterario. Veramente l’umanesimo ebbe fin

Storia dell’arte Einaudi 85


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

da principio i suoi massimi centri presso le corti e le can-


cellerie di stato, ma la maggior parte dei suoi fautori
eran facoltosi mercanti e altra gente, cui lo sviluppo del
capitalismo aveva dato ricchezza e autorità. La lettera-
tura medievale era ancora destinata a una cerchia ristret-
ta, solitamente ben nota all’autore; gli umanisti sono i
primi che si rivolgono con i loro scritti a un pubblico piú
vasto, in parte sconosciuto. Dai loro tempi ha inizio
qualcosa come un libero mercato letterario e una pub-
blica opinione che, promossa dalla letteratura, ne subi-
sce l’influsso. I loro discorsi e libelli sono le prime forme
della moderna pubblicistica; le loro lettere, che rag-
giungevano cerchie relativamente ampie, sono i giorna-
li del tempo127. L’Aretino è il «primo giornalista», e per
giunta un giornalista ricattatore. La libertà, a cui egli
deve la propria posizione, era possibile solo in un tempo
in cui lo scrittore non dipendeva piú da un mecenate o
da un circolo severamente ristretto di protettori, ma per
le produzioni del suo intelletto poteva trovare tanti
clienti, da non dover piú usare alcun riguardo per nes-
suno. Tutto sommato però, era ancora un pubblico colto
relativamente esiguo quello su cui potevan contare gli
umanisti che, a differenza dei letterati moderni, vive-
vano da parassiti, a meno che la ricchezza familiare non
assicurasse loro una piena indipendenza. Per lo piú essi
non avevano altra possibilità che affidarsi al favore della
corte o al mecenatismo di un autorevole cittadino, e di
solito erano assunti come segretari o precettori. Il vitto
e i regali di un tempo erano ormai sostituiti da stipendi
statali, pensioni, prebende, benefizi; il loro manteni-
mento, piuttosto costoso, rientrava tra le spese di rap-
presentanza della nuova classe dirigente. Invece del can-
tore e del buffone, ora i signori tenevano a corte i pro-
pri storiografi e umanisti, veri e propri professionisti del
panegirico, che di solito rendevano, in forma un po’ piú
elevata, gli stessi servigi dei loro predecessori. Da loro

Storia dell’arte Einaudi 86


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

per altro si esigeva di piú. Infatti, come un tempo l’al-


ta borghesia s’era alleata alla nobiltà di sangue, cosí ora
intendeva allearsi alla nobiltà dell’intelletto. Come quel-
la prima grande alleanza l’aveva resa partecipe dei pri-
vilegi della nascita, questa doveva assicurale la nobiltà
intellettuale.
Irretiti nella finzione della loro libertà, gli umanisti
dovevano sentirsi umiliati di dipendere dalla classe
dominante. Il mecenatismo, quell’istituzione antichissi-
ma e semplice che per un poeta del Medioevo contava
ancora fra le cose piú naturali del mondo, perde ai loro
occhi il suo carattere innocuo. Il rapporto dell’intellet-
tuale con la potenza e la ricchezza si complica sempre
piú. In principio gli umanisti professavano lo stoicismo
dei vagantes e dei monaci mendicanti, negando ogni valo-
re alla ricchezza. Finché furono poveri studenti, maestri,
letterati vagabondi, non si sentirono indotti a mutare
questa opinione, ma quando entrarono in contatto piú
stretto con la classe ricca sorse in loro un insanabile con-
flitto fra le antiche vedute e il nuovo modo di vita128. Il
sofista greco, il retore romano, il chierico medievale
non pensarono mai di uscir dalla propria posizione essen-
zialmente contemplativa – o al piú attiva nell’ambito
pedagogico – per rivaleggiare con le classi dominanti. Gli
umanisti sono i primi intellettuali che aspirano ai privi-
legi della proprietà e del grado, e l’orgoglio dell’intel-
lettuale, fenomeno finora ignoto, è la difesa psicologica
con cui essi reagiscono all’insuccesso. Il loro sforzo di
elevazione sociale viene dapprima incoraggiato e favo-
rito dall’alto, ma alla fine represso. Esiste fin dal prin-
cipio una reciproca diffidenza fra l’orgogliosa classe
colta, ribelle a ogni vincolo, e quella degli uomini d’af-
fari, prosaici e, in fondo, estranei alla sfera intellettua-
le129. Infatti, come l’età di Platone aveva sentito netta-
mente il pericolo implicito nel pensiero dei sofisti, cosí
ora la classe dirigente, con tutta la sua simpatia per l’u-

Storia dell’arte Einaudi 87


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manesimo, non può celare il suo sospetto contro gli


umanisti che, privi di ogni base sociale, costituiscono di
fatto un elemento distruttivo.
Ma il conflitto latente fra l’aristocrazia intellettuale
e quella economica non si manifesta ancora apertamen-
te, almeno fra gli artisti che in questo caso reagiscono
piú lentamente dei loro dotti maestri, in genere dotati
di piú viva coscienza sociale. Tuttavia il problema, se
pur eluso e non formulato, è sempre e dappertutto pre-
sente, e ogni intellettuale, artista o letterato che sia,
corre il rischio o di finire in una bohème di spostati rosi
da risentimenti antisociali, o di arrendersi alla cerchia
degli accademici conservatori e servili. Di fronte a una
simile alternativa, gli umanisti si rifugiano nella torre
d’avorio, per poi soggiacere alla fine a entrambi i peri-
coli cui volevano sfuggire. Tutto l’estetismo moderno li
segue su questa via e si riduce cosí ad essere fuori della
società e, in una condizione passiva, serve gli interessi
dei conservatori, senza poter inserirsi nell’ordine ch’es-
so appoggia. Per indipendenza l’umanista intende assen-
za di vincoli; il suo disinteresse sociale è in realtà un
estraniarsi; la sua fuga dalla vita reale, irresponsabilità.
Per non legarsi, egli si proibisce ogni attività politica, ma
con la sua passività rafforza i potenti: la «trahison des
clercs» verso lo spirito è questa, e non già l’impegno
politico, di cui l’intellettuale fu recentemente incolpa-
to130. L’umanista perde il contatto con la realtà, diven-
ta un romantico che chiama disprezzo del mondo il suo
straniarsi da esso, libertà intellettuale la propria indif-
ferenza, sovranità morale la sua mancanza di responsa-
bilità civile. «Per lui vita vuol dire, – secondo il giudi-
zio di uno studioso del Rinascimento, – scrivere un’e-
letta prosa, tornir versi raffinati, tradurre dal greco in
latino... Ai suoi occhi l’essenziale non è che i Galli siano
stati sconfitti, ma che siano stati scritti i commentari
della loro sconfitta... il valore del fatto cede al valore

Storia dell’arte Einaudi 88


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

dello stile...»131. Gli artisti del Rinascimento non sono


ancora straniati a tal punto dal loro ambiente, ma la loro
vita spirituale è ormai minata ed essi non riescono a
ritrovare quell’equilibrio con cui s’inserivano nell’edifi-
cio sociale del Medioevo. Stanno al bivio tra l’attivismo
e l’estetismo. Oppure hanno già scelto? Comunque, è
perduto per loro quel che per il Medioevo era del tutto
naturale e ingenuo: l’unione della forma artistica con fini
che la trascendono.
Ma fra gli umanisti non vi sono soltanto begli inge-
gni apolitici, fatui parlatori, romantici che fuggono la
realtà; vi sono anche ispirati riformatori, «illuministi»
fanatici e anzitutto instancabili pedagoghi che pensano
con passione al futuro. Pittori e scultori del Rinasci-
mento debbono a questi non soltanto l’astratto esteti-
smo, ma anche l’idea dell’artista come eroe intellettua-
le e la concezione dell’arte come educatrice dell’umanità.
Sono stati loro appunto i primi a fare dell’arte un ele-
mento essenziale della cultura intellettuale e morale.

1
Cfr. j. huizinga, Das Problem der Renaissance, in Wege der Kul-
turgeschichte, 1930, pp. 134 sgg.; g. m. trevelyan, English Social
History, 1944, p. 97 [trad. it., Storia della società inglese, Torino 1948].
2
j. michelet, Histoire de France, VII, Renaissance, 1855, p. 6.
3
Cfr. adolf philippi, Der Begriff der Renaissance, 1912, p. 111.
4
ernst troeltsch, Renaissance und Reformation, in «Historische
Zeitschrift», vol. CX, 1913, p. 530.
5
ernst walser, Studien zur Weltanschauung der Renaissance, 1920, in
Gesammelte Studien zur Geistesgeschichte der Renaissance, 1932, p. 102.
6
Cfr. karl borinski, Der Streit um die Renaissance und die Ent-
stehungsgeschichte der historischen Beziehungsbegriffe Renaissance und
Mittelalter, in «Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wis-
senschaft», 1919, pp. 1 sgg.
7
karl brandi, Die Renaissance, in Propyläen-Weltgeschichte, IV,
1932, p. 160.
8
werner kägi, Über die Renaissanceforschung Ernst Walsers, in
ernst walser, Gesammelte Studien cit., p. xxviii.

Storia dell’arte Einaudi 89


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9
Cosí, per esempio, anche in georges renard, Histoire du travail
à Florence, II, 1914, p. 219.
10
e. walser, Studien zur Weltanschauung ecc. cit., p.118.
11
Sulla posizione di Nietzsche di fronte a Heinse, cfr. walter bre-
cht, Heinse und der ästhetische Immoralismus, 1911, p. 62.
12
w. kägi, Über die Renaissanceforschung ecc. cit., p. xli.
13
j. huizinga, Herbst des Mittelalters, 1928, p. 468 [trad. it., L’Au-
tunno del Medioevo, Firenze 1942].
14
dagobert frey, Gotik und Renaissance, 1929, p. 38.
15
Cfr., per quanto segue, id., Gothic und Renaissance cit., p. 194.
16
j. c. scaliger, Poëtices libri septem, VI, 1591, 21.
17
Dagobert Frey, nella concezione dello spazio come successione o
come simultaneità, indica la differenza fra la concezione artistica
medievale e quella del Rinascimento; evidentemente si appoggia alla
distinzione di Erwin Panofsky fra «aggregato» e «sistema» spaziale
(Die Perspektive als «symbolische Form», in «Vorträge der Bibliothek
Warburg», Vorträge 1924-23, Leipzig-Berlin 1927; trad. it., La pro-
spettiva come «forma simbolica» e altri scritti, Milano 1961). La tesi del
Panofsky riprende la teoria di Wickhoff sulla rappresentazione «con-
tinua» o «distinguente», che a sua volta può essere stata stimolata dal-
l’idea di Lessing del «momento pregnante».
18
scaliger, Poëtices libri septem cit.
19
jakob strieder, Werden und Wachsen des europäischen Frühkapi-
talismus, in Propyläen-Weltgeschichte, IV, 1932, p. 8.
20
id., Jakob Fugger, 1926, pp. 7-8.
21
werner weisbach, Renaissance als Stilbegriff, in «Historische
Zeitschrift», vol. CXX, 1919, p. 262.
22
henri thode, Franz von Assisi und die Anfänge der Kunst der Renais-
sance, 1885; id., Die Renaissance, in «Bayreuther Blätter», 1899; émile
gebhardt, Origines de la Renaissance en Italie, 1879; id., Italie mystique,
1890; paul sabatier, Vie de Saint François d’Assise, 1893.
23
konrad burdach, Reformation Renaissance Humanismus, 1918, p.
138.
24
carl neumann, Byzantinische Kultur und Renaissancekultur, in
«Historische Zeitschrift», vol. XXI, 1903, pp. 215, 228, 231.
25
louis courajod, Leçons professée à l’École du Louvre, II, 1901,
p. 142.
26
j. strieder, Studien zur Geschichte der kapitalistichen Organisa-
tionsformen, 1914, p. 57.
27
julien luchaire, Les Sociétés italiennes du XIIIe au XVe siècle,
1933, p. 92.
28
max weber, Wirtschaft und Gesellschaft, 1922, p. 573.
29
robert davidsohn, Forschungen zur Geschichte von Florenz, IV,
1908, p. 268.

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30
m. weber, Wirtschaft ecc. cit., p. 562.
31
Ibid., p. 565.
32
alfred doren, Italienische Wirtschaftsgeschichte, I, 1934, p.
358. Cfr., invece, r. davidsohn, Geschichte von Florenz, IV, 2, 1925,
pp. 1-2.
33
a. doren, Studien zu der Florentiner Wirtschaftsgeschichte, I, Die
Florentiner Wollentuchindustrie, 1901, p. 399.
34
id., Studien zu der Florentiner Wirtschaftsgeschichte, II, Das Flo-
rentiner Zunftwesen, 1908, p. 752.
35
id., Die Florentiner Wollentuchindustrie cit., p. 458.
36
r. davrdsohn, Geschichte von Florenz cit., IV, 2, p. 5.
37
Cfr. g. renard, Histoire du travail ecc. cit., pp. 132-33.
38
a. doren, Das Florentiner Zunftwesen cit., p. 726.
39
r. davidsohn, Geschichte von Florenz cit., IV, 2, pp. 6-7.
40
ferdinand schewill, History of Florence, p. 362.
41
a. doren, Die Florentiner Wollentuchindustrie cit., p. 413.
42
werner sombart, Der moderne Kapitalismus, I, 1902, pp. 174
sgg.; georg von below, Die Entstehung des modernen Kapitalismus, in
«Historische Zeitschrift», vol. XCI, 1903, pp. 433-34.
43
w. sombart, Der Bourgeois, 1913.
44
Cfr. jacob burckhardt, Die Kultur der Renaissance, 1908, 10a ed.,
I, pp. 26, 51 [trad. it., La civiltà del Rinascimento, 4a ed., Firenze 1943].
45
m. DVO∑ÁK, Die Illuminatoren des Johann Neumarkt, in «Jahrbu-
ch der kunstshistorischen Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhau-
ses», xxii, 1901, pp. 115 sgg.
46
Cfr., per quanto segue, georg gombosi, Spinello Aretino, 1926,
pp. 7-11.
47
Ibid., pp. 12-14.
48
bernard berenson, The Italian Painters ot the Renaissance, 1930,
p. 76 [trad. it., Pittori italiani del Rinascimento, Milano]; cfr. roberto
salvini, Zur Florentiner Malerei des Trecento, in «Kritische Berichte zur
kunstgeschichtlichen Literatur», vi, 1937.
49
adolfo gaspary, Storia della letteratura italiana, I, 1887, p. 97.
50
w. weisbach, Francesco Pesellino und die Romantik der Renais-
sance, 1901, p. 13.
51
julius von schlosser, Ein veronesisches Bilderbuch und die höfi-
sche Kunst des XIV. Jahrhunderts, in «Jahrbuch der kunsthistorischen
Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses», 1895, vol. XVI, pp.
173 sgg.
52
a. gaspary, Storia della letteratura italiana cit., I, pp. 108-9.
53
wilhelm pinder, Das Problem der Generation, 1926, p. 12 e
passim.
54
wilhelm von bode, Die Kunst der Frührenaissance in Italien, 1923,
p. 80.

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55
richard hamann, Die Frührenaissance der italienischen Malerei,
1909, pp. 2-3, 16-17; id., Geschichte der Kunst, 1932, p. 417.
56
friedrich antal, Studien zur Gotik im Quattrocento, in «Jahr-
buch der Preussischen Kunstsammlungen», vol. XLVI, 1925, pp.
18 sgg.
57
Cfr. henry pirenne, Les périodes de l’histoire sociale du capitali-
sme, in «Bulletins de l’Académie Royale de Belgique», 1914, pp.
259-60, 290 e passim.
58
a. doren, Die Florentiner Wollentuchindustrie cit., p. 438.
59
Ibid., p. 428.
60
Cfr. martin wackernagel, Der Lebensraum des Künstlers in der
Florentiner Renaissance, 1938, p. 214.
61
a. doren, Italienische Wirtschaftsgeschichte cit., I, pp. 561-562.
62
id., Das Florentiner Zunftwesen cit., p. 706.
63
Ibid., pp. 709-10.
64
Cfr., per quanto segue, m. wackernagel, Der Lebensraum ecc.
cit., p. 234.
65
Cfr. ibid., pp. 9-10.
66
Ibid., p. 291.
67
Ibid., pp. 289-90.
68
robert saitschick, Menschen und Kunst der italienischen Renais-
sance, 1903, p. 188.
69
Citato da alfred von reumont, Lorenzo de’ Medici, 1883, II, p.
121.
70
ernst cassirer, Individuum und Kosmos in der Philosophie der
Renaissance, 1927, pp. 177-78 [trad. it., Individuo e Cosmo nella filo-
sofia del Rinascimento, Firenze 1935].
71
richard hönigswald, Denker der italienischen Renaissance, 1938,
p. 25.
72
Cfr. anthony blunt, Artistic Theory in Italy, 1940, p. 21.
73
w. von bode, Bertoldo und Lorenzo de’ Medici, 1925, p. 14.
74
id., Die Kunst der Frührenaissance ecc. cit., p. 81.
75
j. burkhardt, Beiträge zur Kunstgeschichte Italiens, 1911, 2a ed.,
p. 397.
76
lothar brieger, Die grossen Kunstsammler, 1931, p. 62.
77
j. von schlosser, Ein veronesisches Bilderbuch ecc. cit., p. 194.
78
georg voigt, Die Wiederbelebung des klassischen Altertums, 1893,
3a ed., I, p, 445.
79
j. burkhardt, Die Kultur der Renaissance cit., I, p. 53.
80
w b. castiglione, Il Cortegiano, 1. III, cap. XII.
81
m. wackernagel, Der Lebensraum des Künstlers cit., p. 307.
82
Ibid., p. 306.
83
Ibid., p 307.
84
m. wackernagel, Aus dem Florentiner Kunstleben der Renaissan-

Storia dell’arte Einaudi 92


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

cezeit, in Vier Aufsätze über geschichtliche und gegenwärtige Faktoren des


Kunstlebens, 1936, p. 13.
85
thieme-becker, Allgemeines Lexikon der bildenden Künstler, III,
1909.
86
g. b. armenini, De’ veri precetti della pittura, 1586.
87
Cfr. albert dresdner, Die Entstehung der Künstkritik, 1915, pp.
86-87.
88
kenneth clark, Leonardo da Vinci, 1939, pp. 11-12.
89
Cfr., per quanto segue, m. wackernagel, Der Lebensraum des
Künstlers cit., pp. 316 sgg.
90
a. dresdner, Die Entstehung der Kunstkritik cit., 94.
91
gaye, Carteggio inedito d’artisti dei sec. XIV-XVI, I, 1839-1840,
p. 115.
92
maud j. jerrold, Italy in the Renaissance, 1927, p. 35.
93
h. lerner-lehmkuhl, Zur Struktur und Geschichte des florentiner
Kunstmarktes im XV. Jahrhundert, pp. 28-29.
94
Ibid., pp. 38-39.
95
Ibid., p. 50.
96
m. wackernagel, Der Lebensraum des Künstlers cit., p. 355.
97
r. saitschick, Menschen und Kunst ecc. cit., p. 199.
98
paul drey, Die wirtschaftlichen Grundlagen der Malkunst, 1910,
p. 46.
99
Ibid., pp. 20-21.
100
h. lerner-lehmkuhl, Zur Struktur und Geschichte ecc. cit., p. 34.
101
r. saitschick, Menschen und Kunst ecc. cit., p. 197.
102
h. lerner-lehmkuhl, Zur Struktur und Geschichte ecc. cit., p. 54.
103
a. dresdner, Die Entstehung ecc. cit., pp. 77-79.
104
Ibid., p. 95.
105
joseph meder, Die Handzeichnung. Ihre Technik und Entwick-
lung, 1919.
106
leonardo olschki, Geschichte der neusprachlichen wissenschaf-
tlichen Literatur, I, 1919, pp. 107-8.
107
a. dresdner, Die Entstehung ecc. cit., p. 72.
108
j. p. richter, The Literary Work of Leonardo da Vinci, I, 1883,
n. 653.
109
r. saitschick, Menschen und Kunst ecc. cit., pp. 185-86.
110
Cfr. nel Bandello la descrizione del ritmo saltuario di Leonardo
nel condurre l’affresco del Cenacolo. Citato da k. clark, op. cit., pp.
92-93.
111
edgar zilsel, Die Entstehung des Geniebegriffs, 1926, p. 109.
112
Cfr. dietrich schäfer, Weltgeschichte der Neuzeit, 1920, 9a ed.,
pp. 13-14; j. huizinga, Wege der Kulturgeschichte, 1930, p. 130.
113
julius schlosser, Die Kunstliteratur, 1924, p. 139 [trad. it., La
letteratura artistica, Firenze 1935].

Storia dell’arte Einaudi 93


Arnold Hauser Storia sociale dell’arte

114
j. meder, Die Handzeichnung ecc. cit., pp. 169-70.
115
k. borinski, Der Streit um die Renaissance ecc. cit., p. 21.
116
e. walser, Studien ecc. cit., pp. 104-5.
117
k. borinski, Der Streit um die Renaissance ecc. cit., pp. 32.
118
philippe monnier, Le Quattrocento, II, 1901, p. 229.
119
wilhelm dilthey, Weltanschauung und Analyse des Menschen
seit Renaissance und Reformation, in Gesammelte Schriften, II, 1914,
pp. 343 sgg.
120
adolf hildebrand, Das Problem der Form in der Bildenden Kunst,
1893; b. berenson, The Italian Painters ecc. cit.
121
Cfr., per quanto segue, e. panofsxy, Die Perspektive als «sym-
bolische Form», in «Vorträge der Bibliothek Warburg», 1927, p. 270
(trad. it., La prospettiva come «forma simbolica» e altri scritti, Milano
1961).
122
Ibid., p. 260.
123
Cfr. jacques mesnil, Die Kunstlehre der Frührenaissance im Werke
Masaccios, in «Vorträge der Bibliothek Warburg», 1928, p. 127.
124
La rapidità dell’esecuzione viene celebrata anche dall’Aretino
nelle lettere al Tintoretto degli anni 1545 e 1546.
125
e. zilsel, Die Entstehung ecc. cit., pp. 112-13.
126
e. walser, Studien ecc. cit., p. 105.
127
Cfr. j. huizinga, Erasmus, 1924, p. 123 [trad. it., Erasmo, Tori-
no 1941]; karl bücher, Die Anfänge des Zeitungswesens, in Die Ent-
stehung der Volkswirtschaft, 1919, 12a ed., I, p. 233.
128
hans baron, Franciscan Poverty and Civic Wealth as Factors in the
Rise of Humanistic Thought, in «Speculum», xiii, 1938, pp. 12, 18 sgg.;
citato da c. e. trinkaus, Adversity’s Noblemen, 1940, pp. 16-17.
129
alfred von martin, Soziologie der Renaissance, 1932, pagine
58 sgg.
130
julien benda, La trahison des clercs, 1927.
131
p. monnier, Le Quattrocento cit., I, p. 334.

Storia dell’arte Einaudi 94


il rinascimento

Capitolo quarto

La classicità del Cinquecento

Quando, nel 1504, Raffaello giunse a Firenze, Loren-


zo era morto da piú di un decennio, il suo successore era
stato cacciato, e il gonfaloniere Pier Soderini aveva
restaurato con la repubblica un regime borghese. Ma
l’arte era già avviata a uno stile aulicamente solenne e
formalistico, e le direttrici del nuovo gusto convenzio-
nale già erano state formulate e in genere accolte: ormai
la trasformazione poteva procedere sulla via tracciata,
senza bisogno d’ulteriori stimoli esterni. Raffaello quin-
di non ebbe che da continuare nella direzione indicata
dalle opere del Perugino e di Leonardo, e come artista
originale non poté far altro che aggregarsi a quella ten-
denza, in sé conservatrice, perché diretta a un canone
formale astratto e immutabile, ma, in quella congiuntu-
ra storica, progressiva. Del resto, a mettersi su questa
via non gli mancarono neppure stimoli dall’esterno, ben-
ché ormai l’iniziativa non fosse piú di Firenze. Altrove
infatti, quasi dappertutto in Italia, erano al governo
famiglie con ambizioni dinastiche e atteggiamenti prin-
cipeschi; e soprattutto a Roma, intorno al papa, si anda-
va formando una corte vera e propria che si ispirava agli
stessi ideali di fasto aristocratico delle altre e quindi con-
siderava arte e cultura come elementi di prestigio.
Nell’Italia divisa, lo Stato pontificio aveva assunto

Storia dell’arte Einaudi 4


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’egemonia politica. I papi si sentivano eredi dei Cesari


e in parte riuscirono anche a utilizzare ai loro fini di
dominio le fantasie di un rinnovamento dell’antico
splendore romano, pullulanti per tutto il paese. Vera-
mente le loro ambizioni politiche rimasero insoddisfat-
te, ma Roma divenne il centro della civiltà occidentale
e acquistò sugli spiriti un’autorità, che la Controrifor-
ma non fece che approfondire e che si mantenne fin
nella tarda età barocca. Dopo il ritorno dei papi da Avi-
gnone, la città era diventata non solo un centro diplo-
matico, con ambasciatori e incaricati d’affari prove-
nienti da ogni parte del mondo cristiano, ma anche un
importante mercato finanziario dove affluivano e si
spendevano somme favolose. Come potenza finanziaria,
la Curia superava tutti i principi, i signori, i banchieri e
i mercanti dell’alta Italia; poteva quindi spiegare un
maggior fasto e nel campo artistico venne di fatto assu-
mendo la funzione di guida fino allora tenuta da Firen-
ze. Quando i papi erano tornati di Francia, Roma era
tutta rovine, dopo le invasioni barbariche e le devasta-
zioni provocate da secoli di faide nobiliari. I Romani
erano poveri e neppure i grandi dignitari ecclesiastici
disponevano di mezzi tali da consentire una fioritura
artistica che potesse competere con Firenze. Durante il
Quattrocento la capitale pontificia non ebbe artisti pro-
pri: i papi dovettero ricorrere a forestieri. Cosí chiama-
rono a Roma i piú celebri maestri del tempo, fra gli altri
Masaccio, Gentile da Fabriano, Donatello, l’Angelico,
Benozzo Gozzoli, Melozzo da Forlí il Pinturicchio,
Mantegna; ma, finiti i lavori, essi se ne andavano senza
lasciar traccia, se non nell’opera loro. Neppure sotto il
pontificato di Sisto IV (1471-84), quando, per i lavori
di decorazione della cappella papale, per qualche anno
Roma fu veramente un centro di attività artistica, si
costituì una scuola o una tendenza con propri caratteri.
Questa comincia ad esistere soltanto sotto Giulio II

Storia dell’arte Einaudi 5


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

(1503-13), dopo che Bramante, Michelangelo e infine


Raffaello si sono stabiliti a Roma, ponendo il loro genio
al servizio del papa. S’inizia allora quell’incomparabile
attività artistica il cui risultato è la Roma monumenta-
le, quale ancor oggi ci appare: non solo il massimo, ma
l’unico monumento veramente rappresentativo del Cin-
quecento, che poté sorgere solo grazie alle eccezionali
condizioni offerte dalla residenza papale.
Mentre il gusto quattrocentesco era stato in preva-
lenza mondano, la nuova arte che qui vediamo nascere
e definirsi è un’arte ecclesiastica, tuttavia improntata a
solennità maestosa, a potenza e dominio, invece che a
interiorità e misticismo. Alla profondità del sentimento
cristiano e al suo distacco dal mondo subentra una fred-
dezza altera e un’espressione di superiorità fisica e intel-
lettuale. Con ogni chiesa, ogni cappella, ogni pala d’al-
tare, ogni fonte battesimale, pare che i papi vogliano
anzitutto fare un monumento a se stessi e pensino piú
alla gloria propria che a quella di Dio. Sotto Leone X
(1513-1521) la vita di corte giunge all’apogeo. La Curia
romana sembra la corte di un imperatore, le case dei car-
dinali ricordano le corti principesche, e quelle degli altri
dignitari ecclesiastici, le case aristocratiche che cercano
di superarsi a vicenda in splendore. Fra quei principi e
dignitari della Chiesa, i piú hanno tradizioni familiari di
mecenatismo: fanno quindi lavorare gli artisti per
immortalare il proprio nome, sia col dono di opere d’ar-
te alle chiese, sia costruendo e abbellendo i loro palaz-
zi. I ricchi banchieri della città, primo fra tutti Agosti-
no Chigi, amico e protettore di Raffaello, si sforzano di
non essere da meno nel mecenatismo; essi accrescono
l’importanza del mercato artistico romano, ma senza
imprimervi alcun carattere particolare. Diversamente
da quel che accade nelle altre città – prima fra tutte
Firenze – dove la classe dominante è in complesso omo-
genea, l’alta società romana si compone di tre gruppi

Storia dell’arte Einaudi 6


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nettamente distinti1. Il piú importante è la Curia, con i


congiunti del papa, l’alto clero, i diplomatici italiani e
stranieri e le mille altre persone che partecipano della
magnificenza pontificia. Gli appartenenti a questo grup-
po sono generalmente i piú ambiziosi e i piú ricchi pro-
tettori dell’arte. Un secondo gruppo comprende i gran-
di banchieri e i ricchi mercanti, per i quali quella pro-
diga Roma, centro della potenza finanziaria dei papi,
costituisce la migliore occasione immaginabile. Il ban-
chiere Altoviti è fra i piú generosi amici dell’arte in
quell’epoca e per Agostino Chigi lavorano – tranne
Michelangelo, il nemico di Raffaello – tutti gli artisti
celebri del tempo: oltre Raffaello, egli impiega il Sodo-
ma, Baldassare Peruzzi, Sebastiano del Piombo, Giulio
Romano, Francesco Penni, Govanni da Udine e molti
altri. Il terzo gruppo comprende i membri delle antiche
famiglie romane ormai impoverite; escluse o quasi dal
nuovo mecenatismo artistico, esse mantengono il lustro
del nome solo grazie ai matrimoni con i ricchi borghesi
e cioè provocano una fusione sociale simile – sebbene
meno ampia – a quella già avvenuta a Firenze e altrove
in seguito alla partecipazione dell’antica nobiltà agli
affari della borghesia.
Agli inizi del pontificato di Giulio II possiamo accer-
tare la presenza stabile in Roma di otto o dieci artisti al
massimo; venticinque anni dopo, alla compagnia di San
Luca appartengono centoventiquattro pittori, dei quali
però i piú sono semplici artigiani che, attratti dalla
richiesta d’artisti della Curia e dei cittadini ricchi, afflui-
scono da ogni luogo d’Italia2. Se è innegabile che prela-
ti e banchieri ebbero molta importanza come commit-
tenti per lo sviluppo della produzione artistica, è soprat-
tutto determinante per l’arte cinquecentesca e il confi-
gurarsi del suo stile il fatto che Michelangelo quasi esclu-
sivamente e Raffaello per lo piú abbiano lavorato per il
Vaticano. Solo qui, al servizio del papa, si poteva svi-

Storia dell’arte Einaudi 7


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

luppare quella «maniera grande» di fronte alla quale le


tendenze delle altre scuole locali hanno un carattere piú
o meno provinciale. In nessun altro luogo noi troviamo
questo stile elevato, esclusivo, cosí profondamente per-
meato di cultura, cosí totalmente dedito alla soluzione
di elettissimi problemi formali. L’arte del Quattrocen-
to poteva ancora, magari fraintesa, destar l’interesse di
categorie piú vaste; i poveri e gli incolti potevano sen-
tirsene attratti, anche se per motivi non propriamente
estetici: con l’arte nuova le masse non hanno piú rap-
porti. Qual senso avrebbero avuto per loro la Scuola
d’Atene di Raffaello e le Sibille di Michelangelo, anche
se per caso le avessero viste?
Ma appunto in opere come queste si attuò l’arte clas-
sica del Rinascimento, di cui si suole celebrare la vali-
dità universale, ma che in verità si rivolgeva a un pub-
blico piú ristretto che ogni arte precedente. Certamen-
te il suo pubblico era ancor piú limitato di quello della
classicità greca; ma, al pari di questa, la nuova classicità,
ad onta della sua fortissima ambizione stilizzatrice, non
tralasciava, anzi esaltava e compiva, le precedenti con-
quiste del naturalismo. Come le sculture del Partenone
son piú «giuste», piú rispondenti alla comune esperien-
za che non i frontoni del tempio di Zeus a Olimpia; cosí
nelle opere di Raffaello e di Michelangelo si riscontra
una libertà, un’evidenza, una naturalezza maggiore di
quella dei quattrocentisti. In Italia non c’è in tutta la pit-
tura anteriore a Leonardo una figura umana che, para-
gonata a quelle di Raffaello, Fra’ Bartolomeo, Andrea
del Sarto, Tiziano, Michelangelo, non appaia ancora un
po’ angolosa, rigida, impacciata. Per quanto giustamen-
te osservate nei particolari, le figure del Quattrocento
non sono mai ben salde sulle gambe, i loro movimenti
sono intralciati e costretti, le membra scricchiolano e
s’inceppano nelle giunture, i rapporti con lo spazio sono
spesso contraddittori, il modellato è insistito, la luce

Storia dell’arte Einaudi 8


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

artificiosa. Le aspirazioni naturalistiche del Quattro-


cento toccano nel Cinquecento la loro maturazione. Ma
l’unità storico-stilistica della Rinascita non si manifesta
solo nel fatto che il naturalismo del Quattrocento si
continua direttamente e si conclude nel secolo seguen-
te, ma anche in quest’altro fenomeno e cioè che quel
processo di sempre piú forte stilizzazione che porta alla
classicità cinquecentesca ha il suo inizio alla metà del
Quattrocento. Uno dei concetti piú importanti della
classicità, la definizione della bellezza come armonia, è
già formulato dall’Alberti. Egli pensa che la natura del-
l’opera d’arte è tale che nulla vi si possa togliere o
aggiungere senza pregiudicarne la bellezza3. Quest’idea,
che risale ad Aristotele4, e che l’Alberti ha ripreso da
Vitruvio, resta una tesi fondamentale dell’estetica clas-
sicistica. Ma come collegheremo questa relativa unità
della visione artistica – il classicismo che nasce già nel
Quattrocento, il proseguirsi del naturalismo nel Cin-
quecento – con le variazioni sociali del Rinascimento?
Nel suo fiore, esso è ancor sensibile e fedele al vero,
mantiene, anzi accentua, i criteri empirici della verità
artistica, evidentemente perché, come l’età classica della
Grecia, pur con la sua tendenza conservatrice, è ancora
un tempo essenzialmente dinamico, in cui il processo di
ascesa sociale è ancora aperto, né possono ancora svi-
lupparsi convenzioni e tradizioni definitive. Tuttavia lo
sforzo per arrestare il processo di livellamento sociale e
bloccare ogni ulteriore ascesa è già in corso fin da quan-
do la borghesia è giunta alla sua metà e si è confusa con
la nobiltà; a questo punto nel mondo quattrocentesco
cominciano a farsi strada le tendenze classicistiche.
Poiché la conversione dal naturalismo al classicismo
non si compie a un tratto, ma dopo lentissima prepara-
zione, è facile fraintendere l’intero processo della tra-
sformazione stilistica. Se si bada ai prodromi e si parte
da fenomeni di transizione come l’arte di Leonardo e del

Storia dell’arte Einaudi 9


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Perugino, si avrà l’impressione che il mutamento avven-


ga senza cesure, senza salti, quasi per logica necessità;
l’arte del primo Cinquecento apparirà allora nient’altro
che la sintesi delle conquiste quattrocentesche. Insom-
ma, è facile per questa via lasciarsi indurre ad ammet-
tere uno sviluppo endogamo degli stili. Fenomeni come
il passaggio dall’arte antica alla paleocristiana, o dal
romanico al gotico, implicano tanti elementi radical-
mente nuovi, che non si può spiegare immanentistica-
mente lo stile piú recente come semplice antitesi dialet-
tica del precedente o come sintesi delle sue aspirazioni;
si esige una spiegazione che risalga a motivi già fuori del
campo stretto dell’arte e che trascendano quello che è
semplice sviluppo stilistico. Tuttavia il trapasso dal
Quattrocento al Cinquecento è cosa diversa. Qui lo stile
muta quasi senza frattura, proprio come continua è l’e-
voluzione della società. Pure non si tratta di un proces-
so automatico, come fosse una funzione logica con coef-
ficienti interamente noti. Se alla fine del Quattrocento,
per qualche circostanza che noi non possiamo immagi-
nare, la società si fosse sviluppata diversamente – se per
esempio, invece del consolidarsi delle tendenze con-
servatrici, fosse intervenuto un cambiamento econo-
mico, politico o religioso – certo anche l’arte vi avreb-
be corrisposto con un diverso indirizzo, e questo nuovo
stile avrebbe sempre rappresentato una conseguenza
«logica» del Quattrocento, anche se tutt’altra da quel-
la rappresentata dal classicismo. Infatti volendo appli-
care in generale all’evoluzione storica il principio della
logica, bisognerebbe almeno concedere che una costel-
lazione storica può avere piú conseguenze «logiche»
divergenti.

Gli arazzi di Raffaello sono stati chiamati il Parte-


none dell’arte nuova. Se l’analogia si può ammettere,
occorre però che le somiglianze non facciano dimenti-

Storia dell’arte Einaudi 10


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

care l’immensa distanza che corre fra la classicità anti-


ca e quella moderna. Di fronte all’arte greca, la classi-
cità moderna manca di calore e di spontaneità; già nel
Rinascimento essa ha un carattere derivato, retrospet-
tivo, piú o meno neoclassico. Vi si rispecchia una società
che, satura di reminiscenze della romanità eroica e del
Medioevo cavalleresco, suggestionata da un sistema
etico artificioso e dalle convenzioni sociali, mira a sem-
brare quel che realmente essa non è, stilizzando il pro-
prio modo di vita secondo tale finzione. Il Rinascimen-
to nel suo fiore ritrae questa società com’essa vuol veder-
si ed esser veduta. Non c’è un tratto, in quell’arte, che
a un’indagine stringente non riveli l’esaltazione del suo
ideale di vita, aristocratico e conservatore, che si basa
sulla stabilità e la durata. Sotto un certo aspetto, il for-
malismo dell’arte cinquecentesca non è che un corri-
spettivo del formulario dell’etica e del galateo, che la
classe dominante s’impone. Come l’aristocrazia e i cir-
coli di costume aristocratico sottomettono la vita a un
canone formale che la protegga dall’anarchia del senti-
mento, cosí l’arte assoggetta il sentimento alla censura
di salde e astratte forme impersonali. Per quella società,
nella vita come nell’arte, il piú alto precetto è la padro-
nanza di sé, la repressione degli affetti, il freno della
spontaneità, dell’ispirazione, dell’estasi. I sentimenti
ostentati, le lacrime e le smorfie di dolore, i deliqui, il
lamentarsi e il torcersi le mani, insomma quell’emotività
borghese che nel Quattrocento era un residuo del goti-
co tardo, scompare dall’arte cinquecentesca, Cristo non
è piú un martire sofferente, ma torna ad essere il re dei
cieli, superiore a ogni umana debolezza. Maria, senza
lacrime né gesti, contempla il figlio morto, anzi anche
verso il Bambino reprime ogni tenerezza plebea. Misu-
ra è, in ogni cosa, il motto del tempo. I precetti di ordi-
ne e disciplina trovano la piú stretta analogia nei prin-
cipî, cari all’arte, di sobrietà e ritegno. L. B. Alberti ha

Storia dell’arte Einaudi 11


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

preceduto il Cinquecento anche nell’idea dell’economia


artistica: «Chi molto cercherà dignità in sua storia, – egli
dice, – ad costui piacerà la solitudine. Suole ad i prin-
cipi la carestia delle parole tenere maestà dove fanno
intendere suoi precepti; cosí in istoria uno certo com-
petente numero di corpi rende non poca dignità»5. Alla
composizione semplicemente coordinata subentra dap-
pertutto il criterio dell’accentramento e della subordi-
nazione. Ma non bisogna intendere il funzionamento
della causalità sociale in termini semplicistici e credere
quindi che il prevalere dell’autorità sui singoli nella
realtà sociale si traduca senz’altro, nell’arte, nella tiran-
nia di un ordine generale sulle varie parti della compo-
sizione e, per cosí dire, la democrazia dei singoli ele-
menti vi si trasformi in una monarchia dell’idea com-
positiva fondamentale. Equiparare semplicemente il
principio d’autorità nella vita sociale all’idea di subor-
dinazione in arte porterebbe solo a un equivoco. Tutta-
via è naturale che a una società incline a comandare e
sottomettere debba, anche in arte, piacere l’espressione
della volontà, della disciplina e dell’ordine, che soggio-
gano la realtà, piú che seguirla e interpretarla.
E una società siffatta vorrà dare all’arte carattere di
norma e di necessità. Cercherà pertanto una «sublime
regolarità» e attraverso l’arte vorrà provare l’esistenza
di criteri e principî universalmente validi, inconcussi,
intangibili, la presenza di un disegno assoluto e immu-
tabile che governa le vicende del mondo ed è possedu-
to dall’uomo, se non proprio da ogni uomo. In armonia
con tali idee, le forme dell’arte dovranno essere esem-
plari e apparir perfette e definitive, come vuol essere
l’ordine politico del tempo. Nell’arte la classe domi-
nante cercherà anzitutto il simbolo della calma e della
stabilità, ch’essa persegue nella vita. Infatti il primo
Cinquecento, sviluppando la composizione in simmetrie
e rispondenze, costringendo la realtà nello schema di un

Storia dell’arte Einaudi 12


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

triangolo o di un cerchio, non soltanto risolve un pro-


blema formale, ma esprime una tendenza alla stasi e il
desiderio di perpetuarla. In arte la norma è stimata piú
della soggettiva libertà; e il seguirla, qui come nella vita,
appare come la via piú sicura verso la perfezione. Essen-
ziale a questa perfezione è anzitutto la visione totale
delle cose, che si può conseguire non attraverso la sem-
plice addizione, ma solo con una completa integrazione
delle parti in un tutto. Il Quattrocento ha rappresenta-
to il mondo come un interminabile fluire, un divenire
indomabile e infinito; l’uomo vi si è sentito piccolo e
debole e gli si è arreso volontariamente e con gratitudi-
ne. Il Cinquecento vede il mondo come un tutto finito;
la sua vastità è quella stessa, e non piú, che l’uomo com-
prende; ogni perfetta opera d’arte esprime a suo modo
tutta la realtà concepibile.
L’arte del primo Cinquecento è interamente monda-
na; anche nelle scene sacre essa realizza il suo stile idea-
le non già contrapponendo realtà naturale e realtà tra-
scendente, ma creando fra le cose stesse della natura una
distanza, che nella sfera dell’esperienza visiva suggeri-
sce distinzioni di valore simili a quelle che esistono nella
società fra l’aristocrazia e il volgo. La sua armonia riflet-
te l’utopistica immagine di un mondo da cui ogni lotta
è esclusa, non perché vi regni un principio democrati-
co, ma al contrario, uno autocratico. Le sue creazioni
rappresentano una realtà superiore, piú nobile, sottrat-
ta al caduco e al quotidiano. Il suo piú importante prin-
cipio stilistico è quello di limitare la composizione all’es-
senziale. Ma che cos’è questo essenziale? È il tipico, il
rappresentativo, l’eccezionale, che assume efficacia
soprattutto per il potenziamento unilaterale che subisce.
Per contro, non è essenziale ciò che è immediatamente
concreto, accidentale, particolare, individuo, insomma
proprio quello che per l’arte del Quattrocento appariva
piú interessante e sostanziale. L’aristocrazia del primo

Storia dell’arte Einaudi 13


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Cinquecento crea la finzione di un’arte eternamente


valida, «eternamente umana», perché vuol credere eter-
no e immutabile anche il proprio valore. In realtà è
un’arte anche questa legata al tempo, limitata e transi-
toria nei suoi criteri di valore e di bellezza, alla pari di
quella di ogni altra età. Poiché anche l’idea d’eternità è
un prodotto del tempo e la validità di una concezione
assoluta è relativa quanto quella di una concezione
dichiaratamente relativa.
Fra tutti i fattori dell’arte cinquecentesca quello piú
strettamente legato al tempo e alle condizioni sociali e
l’ideale della kalokagathía. Nessun altro rivela con altret-
tanta evidenza come il concetto di bellezza dipenda dal-
l’ideale umano dell’aristocrazia. L’importanza attribui-
ta all’aspetto fisico non è una novità del Cinquecento,
né un segno di mentalità aristocratica – già il secolo pre-
cedente, opponendosi allo spiritualismo medievale,
aveva guardato con occhio appassionato all’aspetto fisi-
co dell’uomo – ma solo nel Cinquecento la bellezza e la
forza fisica divengono espressione perfetta della bellez-
za e del valore spirituale. Il Medioevo sentiva come ter-
mini antitetici e inconciliabili lo spirito incorporeo e il
corpo privo di spiritualità: contrasto or piú or meno
accentuato, ma sempre presente al pensiero degli uomi-
ni. Per il Quattrocento l’inconciliabilità di spirito e
corpo perde significato; il valore spirituale non è anco-
ra incondizionatamente legato alla bellezza fisica, ma
non la esclude. La tensione che tuttavia qui esiste anco-
ra fra doti intellettuali e fisiche scompare del tutto dal-
l’arte del primo Cinquecento. Secondo le premesse di
quest’arte appare, ad esempio, inconcepibile rappresen-
tare gli apostoli come volgari contadini o semplici arti-
giani, al modo del Quattrocento, spesso cosí gustoso.
Santi, profeti, apostoli, martiri sono ormai figure idea-
li, libere e grandi, possenti e dignitose, gravi e pateti-
che, stirpe d’eroi di una bellezza piena, matura, sen-

Storia dell’arte Einaudi 14


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

suale. In Leonardo, accanto a figure di questo genere si


trovano ancora tipi caratteristici, ma a poco a poco appa-
re indegno dell’arte tutto quanto non sia grandioso. Nel
raffaellesco Incendio di Borgo la portatrice d’acqua è
della stirpe delle Madonne e delle Sibille michelangio-
lesche – umanità gigantesca, dal piglio energico, orgo-
gliosa e sicura. Tale è l’imponenza di quelle figure, che
possono anche comparire svestite, nonostante l’antica
avversione nobiliare per il nudo; esse non perdono nulla
della loro grandezza. Nella nobile struttura delle mem-
bra, nella studiata armonia dei gesti, nella sostenuta
dignità dell’atteggiamento si esprime la stessa distin-
zione che in altri casi è data dalla veste, ora greve, fru-
sciante, a pieghe profonde, ora squisitamente ricercata
e sobriamente elegante.
L’ideale umano, che il Castiglione presenta come rag-
giungibile, anzi come già raggiunto, vien qui preso ad
esempio e solo elevato a quel grado che ogni arte classi-
ca impone alle dimensioni dei propri modelli. L’ideale
di corte contiene sostanzialmente tutti i tratti essenzia-
li di quell’immagine dell’uomo, che ci dà l’arte cinque-
centesca. Ciò che il Castiglione anzitutto esige dal per-
fetto uomo di mondo è versatilità, equilibrato sviluppo
delle doti fisiche e intellettuali, elegante disinvoltura
nella pratica delle armi e della società, esperienza di
poesia e di musica, dimestichezza con la pittura e le
scienze. È evidente che nel Cortegiano si riflette soprat-
tutto la ripugnanza dell’aristocrazia a ogni specializza-
zione o lavoro professionale. La kalokagathía delle figu-
re eroiche dell’arte cinquecentesca traduce in immagine
questo ideale umano e sociale. Ma non solo nell’assen-
za di tensione fra spirito e corpo, nella corrispondenza
di bellezza fisica e forza spirituale si rispecchia l’ideale
di corte; esso si rispecchia ancor piú nella scioltezza dei
movimenti, nella disinvoltura, nella calma, nell’indo-
lenza magari, delle figure. Il Cortegiano pone la quin-

Storia dell’arte Einaudi 15


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tessenza della signorilità nel sapersi dominare in ogni cir-


costanza, nell’evitare ogni ostentazione ed esagerazione,
nel non posare, nel comportarsi in società con naturale
nonchalance e disinvolta dignità. Nell’arte cinquecente-
sca non solo ritroviamo i gesti pacati, gli atteggiamenti
calmi, i movimenti liberi, ma anche la forma vera e pro-
pria è mutata: la forma, snella, esangue nell’arte gotica,
la linea spezzata, scattante nel Quattrocento, acquista-
no una fluidità, una sapienza, una sonorità, uno slancio
retorico, e in verità una perfezione, che era stata solo
dell’arte classica. Ora gli artisti non amano piú i movi-
menti brevi, angolosi e affrettati, l’eleganza ostentata e
scoperta, la bellezza gracile, giovanile, acerba delle figu-
re quattrocentesche. Essi celebrano l’apogeo della poten-
za, la maturità degli anni e della bellezza, rappresenta-
no l’essere, non il divenire, lavorano per una società
giunta alla sua meta e ne adottano i principî conserva-
tori. Il Castiglione si augura che il gentiluomo, come nel
contegno, cosí anche nell’abbigliamento eviti di dar nel-
l’occhio indossando abiti sfacciati e variopinti; e lo esor-
ta a vestirsi di nero, come si fa in Spagna, o almeno di
scuro6. Il nuovo gusto che qui si annunzia mette cosí
profonde radici che anche l’arte rifugge dalla chiara
policromia del Quattrocento e si afferma già quella pre-
dilezione per il monocromo, per il bianco e nero, che
domina il gusto moderno. I colori scompaiono prima dal-
l’architettura e dalla scultura, e d’ora in poi si troverà
difficile immaginare la policromia dell’architettura e
della scultura greca. La classicità porta già in sé il germe
del classicismo7.
Questa fase durò poco: non piú di vent’anni. Dopo
la morte di Raffaello è già impossibile parlare di arte
classica come indirizzo stilistico generale. Questa cadu-
cità è la tipica sorte dei classicismi; dalla fine del feu-
dalesimo in poi i periodi di stabilità non sono che epi-
sodi. Il rigore formale del primo Cinquecento è tuttavia

Storia dell’arte Einaudi 16


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rimasto una costante tentazione per le epoche successi-


ve; ma a prescindere da effimeri movimenti, per lo piú
artificiosi e d’importanza puramente culturale, esso non
riuscí mai piú a prevalere. Si è tuttavia rivelato la piú
importante sottocorrente dell’arte moderna; infatti, seb-
bene il rigido formalismo, tendente al tipo e alla norma,
non abbia potuto affermarsi contro il radicale naturali-
smo moderno, il Rinascimento ha però reso impossibile
un ritorno alla forma inorganica, paratattica, additiva
dell’arte medievale. A partire dal Cinquecento un’ope-
ra di pittura e di scultura è per noi un’immagine sinte-
tica della realtà, colta da un unico punto di vista – forma
suscitata dalla tensione fra il vasto mondo e il soggetto
che vi si contrappone come principio d’unità. Questa
polarità fra arte e mondo si venne di tempo in tempo
attenuando, ma non scomparve mai. In essa consiste la
vera eredità del Rinascimento.

1
Cfr., per quanto segue, casimir von chledowski, Rom. Die Men-
schen der Renaissance, 1922, pp. 350-52.
2
hermann dollmayr, Raffaels Werkstätte, in «Jahrbuch der kun-
sthistorischen Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses», xvi,
1895, p. 233.
3
l. b. alberti, De re aedificatoria, VI, 1485, 2.
4
e. müller, Geschichte der Theorie der Kunst bei den Alten, I,
1834, p. 100.
5
l. b. alberti, Della pittura, II.
6
baldassare castiglione, Il Cortegiano, II, 23-28.
7
Cfr. heinrich wölfflin, Die klassische Kunst, 1904, 3a ed., pp.
223-24.

Storia dell’arte Einaudi 17


il manierismo

Capitolo primo

Il concetto di Manierismo

Il Manierismo è giunto cosí tardi alla ribalta della sto-


ria dell’arte, che il giudizio di valore, sostanzialmente
negativo, implicito nel nome, tuttora viene spesso tenu-
to per buono, e difficilmente si formula un concetto di
quello stile che non pretenda di esserne anche un giu-
dizio, che si limiti cioè ad essere pura categoria storica.
Il nome di altri stili, come Gotico e Rinascimento,
Barocco e Neo-Classicismo, ha ormai perduto l’origina-
rio significato di valutazione, positiva o negativa che
fosse; nel caso del Manierismo invece il giudizio nega-
tivo è ancora cosí vivo, che occorre vincere un’intima
resistenza prima di arrischiare l’attributo di «manieri-
stico» per i grandi artisti e scrittori di quel periodo. Solo
distinguendo decisamente il concetto di «manieristico»
da quello di «manierato» lo si può usare come categoria
utile ai fini della storia dell’arte. La categoria descritti-
va e il giudizio di valore, che qui sono da tenere distin-
ti, possono anche coincidere per certe epoche o momen-
ti storici; ma in sé e per sé non hanno quasi nulla di
comune.
Risale al Seicento l’idea dell’arte postclassica come
arte di decadenza, e del Manierismo come un fenome-
no di gretta routine artigiana, legata alla pedissequa imi-
tazione dei grandi maestri. Fu primo il Bellori a formu-
larla nella sua biografia di Annibale Caracci1. Per il

Storia dell’arte Einaudi 18


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Vasari, «maniera» era ancora semplicemente la forma


propria dell’artista, il suo modo di esprimersi legato al
tempo, alla tecnica, al carattere personale: era cioè lo
«stile», nel significato piú ampio della parola. Cosí egli
parla di «grande maniera», attribuendole significato
nettamente positivo. Per il Borghini il termine ha signi-
ficato solo positivo ed infatti egli si rammarica di non
trovare la «maniera» in certi artisti2, e cioè distingue già,
come i moderni, fra stile e mancanza di stile. Solo i clas-
sicisti del Seicento – Bellori e Malvasia – collegano all’i-
dea di «maniera» quella di una pratica d’arte ricercata,
stereotipa, riducibile a un formulario. Per primi essi
scorgono la frattura prodotta dal Manierismo nella sto-
ria e sono consci di quell’estraniarsi dalla classicità, che
si fa sensibile nell’arte dopo il 1520.
Ma perché si produce cosí presto un tal fenomeno?
Perché il pieno Rinascimento rimane una «cresta sotti-
le», come dice il Wölfflin, che, appena raggiunta, è
anche valicata? Anzi, una cresta anche piú sottile di
quanto il Wölfflin induca a pensare. Infatti, non solo le
opere di Michelangelo, ma già quelle di Raffaello hanno
in sé i germi della dissoluzione. La Cacciata di Eliodoro
e La Trasfigurazione sono piene di fermenti anticlassici,
che forzano in piú sensi l’equilibrio del Rinascimento.
Perché fu cosí breve l’assoluto dominio dei principî clas-
sici, dello statico rigorismo formale? Perché la classicità,
l’antico stile della calma e della durata, appare ormai uno
«stadio transitorio»? Perché questa volta si giunge cosí
presto, sia a una imitazione tutta esteriore, sia all’inti-
mo distacco dal modello classico? Forse perché l’assoluto
equilibrio che si espresse nell’arte classica del Cinque-
cento già dall’inizio era piú un desiderio e una finzione
che una solida realtà, e il Rinascimento fino alla fine
rimase un’epoca essenzialmente dinamica, incapace di
acquetarsi completamente in qualunque soluzione.
Comunque, il tentativo di padroneggiare lo spirito insta-

Storia dell’arte Einaudi 19


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

bile del moderno capitalismo e di dominare la natura


dialettica della concezione scientifica del mondo fallí
allora come in epoche piú recenti della storia moderna.
Una durevole stabilità sociale non si è mai piú ottenuta
dopo il Medioevo; e perciò appunto ogni moderno clas-
sicismo non è stato che il risultato di un programma, e
piuttosto che rappresentare un effettivo equilibrio ne ha
solo espresso la speranza. Cosí fu breve anche il labile
equilibrio, creato, sullo scorcio del Quattrocento, dal-
l’alta borghesia soddisfatta e ormai sulla strada di tra-
sformarsi in aristocrazia, e dalla Curia romana, divenu-
ta ormai una potenza capitalistica e politicamente ambi-
ziosa. Crollata l’egemonia economica dell’Italia, scossa
la Chiesa dalla Riforma, invaso il paese da Francesi e
Spagnoli, dopo il sacco di Roma non può sussistere nep-
pur la finzione di un equilibrio e di una stabilità. Pesa
sull’Italia un’aria di catastrofe, che ben presto si propa-
ga – e non soltanto dall’Italia – a tutto l’Occidente.
Lo statico equilibrio delle formule classiche non basta
piú; e tuttavia l’arte vi tien fede, talvolta persino piú
ansiosamente e disperatamente di quanto comporti una
persuasione senza dubbi. La posizione dei giovani arti-
sti di fronte al Rinascimento è ora singolarmente com-
plicata; essi non possono rinunziare senz’altro alle con-
quiste dell’arte classica, anche se ormai a quel mondo
armonico sono completamente estranei. La loro aspira-
zione a una continuità senza fratture dell’evoluzione
artistica non poteva certo giungere a effetto senza la col-
laborazione, sul piano sociale, di un’analoga continuità
di sviluppo. Artisti e pubblico sono ancora sostanzial-
mente gli stessi del Rinascimento, ma già si sentono
mancare il terreno sotto i piedi. Il senso d’incertezza
spiega la natura contraddittoria dei loro rapporti con
l’arte classica. Contraddizione già avvertita dagli scrit-
tori d’arte del Seicento, che tuttavia non riconobbero
che quell’imitare e nello stesso tempo snaturare i model-

Storia dell’arte Einaudi 20


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

li classici era effetto, non di ottusità, ma del nuovo spi-


rito dei manieristi, assolutamente diverso dal classico.
Solo il nostro tempo, che ha rapporti altrettanto
ambigui con i propri antenati, ha saputo intendere l’o-
riginalità del Manierismo e riconoscere nell’imitazione
spesso gretta dei modelli classici un’ipercompensazione
dell’intimo distacco. Solo oggi noi comprendiamo che lo
stile di tutti i maggiori manieristi, il Pontormo e il Par-
migianino come il Bronzino e il Beccafumi, il Tintoret-
to e il Greco come Bruegel e Spranger, tende anzitutto
a dissolvere la regolarità e l’armonia troppo semplice del-
l’arte classica, sostituendo alla sua norma universale
caratteri piú soggettivi e suggestivi. Al rifiuto delle
forme classiche si giunge per molte vie: in certi casi una
nuova esperienza religiosa piú profonda e piú intima e
la visione di un nuovo mondo spirituale, in altri un
intellettualismo esasperato, che deforma consciamente e
volutamente la realtà toccando spesso il bizzarro e l’a-
struso; ma in altri casi ancora si tratta dell’estrema matu-
rità di un gusto raffinato, prezioso, che traduce ogni
cosa in sottigliezza ed eleganza. Ma ogni volta la solu-
zione artistica, sia che si ponga come reazione all’arte
classica, o cerchi di conservarne le conquiste formali, è
un derivato, un composto che in ultima analisi dipende
ancora dalla classicità e nasce quindi da un’esperienza di
cultura, non da un’esperienza di vita. È uno stile del
tutto privo d’ingenuità3, le cui forme s’improntano del-
l’arte precedente piú che dell’intimo contenuto da espri-
mere, e in tal misura da superare ogni altro esempio sto-
rico. La consapevolezza dell’artista non si esercita piú
solamente nella scelta dei mezzi corrispondenti al suo
intento espressivo, ma anche nel decidere la direzione
dell’intento medesimo; in altre parole il programma teo-
rico non riguarda piú soltanto i metodi, ma anche i fini
dell’arte. In questo senso il Manierismo è la prima cor-
rente moderna, la prima che sia legata a un problema di

Storia dell’arte Einaudi 21


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cultura e per la quale il rapporto fra tradizione e inno-


vazione si ponga come un compito da risolvere con
mezzi razionali. Qui la tradizione non è che una difesa
contro l’irrompere troppo impetuoso del nuovo, sentito
come un principio di vita, ma anche di distruzione. Non
s’intende il Manierismo, se non si capisce che la sua imi-
tazione dei modelli classici è una fuga davanti alla minac-
cia del caos, e l’acuito soggettivismo delle sue forme
esprime il timore che la forma possa fallire di fronte alla
vita, l’arte esaurirsi in bellezza senz’anima.
L’attualità del Manierismo, la revisione a cui recen-
temente è stata sottoposta l’arte del Tintoretto, del
Greco, di Bruegel e dell’ultimo Michelangelo è feno-
meno indicativo per la forma mentis odierna quanto l’e-
saltazione del Rinascimento lo fu per la generazione del
Burckhardt, e la riabilitazione del Barocco per quella di
Riegl e di Wölfflin. Per il Burckhardt, il Parmigianino
era antipatico e affettato, e anche Wölfflin scorgeva
ancora nel Manierismo una specie di perturbazione del
sano e naturale processo storico, un intermezzo super-
fluo fra Rinascimento e Barocco. Solo un tempo come
il nostro, nel quale la tensione tra forma e contenuto,
bellezza ed espressione è sentita come un problema vita-
le, poteva esser giusto verso il Manierismo ed enuclear-
ne il particolare carattere di fronte al Rinascimento e al
Barocco. Al Wölfflin mancava ancora la viva, immedia-
ta esperienza dell’arte post-impressionistica, quella che
ha permesso allo DvoŇk di misurare il peso delle ten-
denze spiritualistiche nella storia dell’arte e di ricono-
scere nel Manierismo una loro vittoria. DvoŇk sapeva
benissimo che lo spiritualismo non esaurisce il significato
dell’arte manieristica e che comunque in essa non si
tratta di un totale rifiuto del mondo, come nello spiri-
tualismo trascendente del Medioevo; non gli sfuggiva la
presenza di Bruegel accanto al Greco, di Shakespeare e
di Cervantes accanto al Tasso4. Il suo principale pro-

Storia dell’arte Einaudi 22


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

blema fu appunto quello di trovare il reciproco rappor-


to, il comun denominatore e insieme il criterio distinti-
vo dei diversi aspetti – naturalistici o spiritualistici – che
si presentano all’interno del Manierismo. Gli scritti del
compianto studioso purtroppo non procedono oltre il
riconoscimento di queste due tendenze, da lui designa-
te come «deduttiva» e «induttiva», e ci fanno viva-
mente rimpiangere che proprio a questo punto sia rima-
sta interrotta l’opera della sua vita.
Ma le due opposte correnti del Manierismo – lo spi-
ritualismo mistico del Greco e il naturalismo panteisti-
co di Bruegel – non si presentano sempre come tenden-
ze stilistiche ben distinte, personificate in artisti diver-
si; per lo piú sono inestricabilmente intrecciate: Pon-
tormo e il Rosso, il Tintoretto e il Parmigianino, Mor e
Bruegel, Heemskerck e Callot, sono a un tempo ideali-
sti e realisti con ugual convinzione e quel complesso
inscindibile di naturalismo e spiritualismo, formalismo
e anarchia formale, concretezza e astrazione nell’arte
loro è il fondamento di tutto lo stile che li accomuna.
Ma questa compresenza di correnti eterogenee non
significa, come ancora pensa DvoŇk5, puro soggettivi-
smo e mero arbitrio nella scelta del grado di realismo
della rappresentazione; è piuttosto il segno di quanto sia
scosso ogni criterio di realtà, e il frutto del tentativo
spesso disperato di accordare la spiritualità medievale
con il realismo della Rinascita.
Nulla meglio denuncia questa crisi dell’armonia clas-
sica che il disintegrarsi di quell’unità spaziale, che era
stata la piú significativa espressione della visione arti-
stica rinascimentale. In realtà l’unità della scena, la coe-
renza locale della composizione, la ferma logica della
struttura spaziale erano per il Rinascimento fra i piú
importanti elementi dell’effetto artistico. L’intero siste-
ma del disegno prospettico, tutte le regole delle pro-
porzioni e della struttura non erano che mezzi in vista

Storia dell’arte Einaudi 23


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dell’effetto spaziale. Il Manierismo comincia col dissol-


vere la struttura rinascimentale dello spazio, e scompo-
ne la scena in piú parti, che risultano separate non solo
esteriormente, ma anche nel diverso modo con cui ognu-
na è costruita nel suo interno. In ognuna infatti sono
diversi i valori spaziali, diverse le proporzioni, diverse
le possibilità di movimento: qui si economizza lo spazio,
altrove se ne fa scialo. La dissoluzione dell’unità spaziale
si rivela soprattutto nell’assenza di ogni rapporto logi-
camente definibile fra le proporzioni delle figure e la
loro importanza nel soggetto. Elementi apparentemen-
te accessori spesso risaltano prepotenti, mentre quel che
sembra il vero soggetto è rimpicciolito e ricacciato nello
sfondo. Come se l’artista volesse dire: chissà quali sono
i protagonisti e quali le comparse! L’effetto finale è il
movimento di figure reali in uno spazio irrazionale,
costruito arbitrariamente, la combinazione di particola-
ri veristici in una cornice fantastica, un arbitrario gioco
di coefficienti spaziali, a seconda dell’effetto a cui si
mira. Il correlativo piú stretto di questo mondo ambi-
guo lo si può indicare nel sogno, che sopprime le con-
nessioni reali istituendo fra le cose un rapporto astrat-
to, ma i singoli oggetti ce li presenta con la massima
intensità e il piú acuto verismo. In certi particolari ram-
menta anche il moderno surrealismo, quale si esprime
nelle associazioni d’oggetti di certa pittura, nei fantasmi
del mondo kafkiano, nel «montaggio» dei romanzi di
Joyce e nel modo dispotico di trattare lo spazio nel film.
Senza l’esperienza di queste forme d’arte il Manierismo
non avrebbe assunto per noi l’importanza che ha.
Già la semplice caratterizzazione in termini generali
del Manierismo implica l’accostamento di aspetti molto
diversi, difficilmente riducibili ad un concetto unitario;
tanto piú che è difficile un’esatta delimitazione crono-
logica di questo stile. Il Manierismo rappresenta, sí, lo
stile prevalente fra il terzo decennio e la fine del seco-

Storia dell’arte Einaudi 24


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

lo, ma non domina incontrastato; e specialmente al prin-


cipio e alla fine vi si mescolano tendenze barocche. Le
due linee s’intrecciano già nelle opere tarde di Raffael-
lo e di Michelangelo, nelle quali si ritrovano appunto
l’intento appassionatamente espressionistico del Baroc-
co e insieme l’intellettualistico «surrealismo» dell’arte
manieristica. I due stili postclassici nascono quasi a un
tempo dalla crisi spirituale dei primi decenni del seco-
lo: il Manierismo, come espressione della lotta fra le
opposte tendenze di quel tempo spiritualistico e sen-
suale; il Barocco, come il loro provvisorio, instabile com-
promesso, sulla base del sentimento spontaneo. Dopo il
sacco di Roma le tendenze barocche vengono a poco a
poco represse, e per piú di sessant’anni predomina il
Manierismo. Alcuni studiosi lo concepiscono come una
reazione agli inizi del Barocco, che poi a sua volta lo sop-
pianterà6. La storia dell’arte del Cinquecento non sareb-
be altro, in questo caso, che il rinnovato antagonismo fra
Barocco e Manierismo, con una transitoria prevalenza
di questo e la finale vittoria della corrente barocca. Si
tratta però di una costruzione infondata che fa prece-
dere il Barocco al Manierismo, di cui esagera il caratte-
re di transizione7. Il contrasto fra i due stili in verità è
piuttosto da vedere sul piano sociale che su quello dello
sviluppo artistico. Il Manierismo è l’arte di una classe
colta, essenzialmente aristocratica e cosmopolita; il
primo Barocco esprime una tendenza piú popolare, piú
emotiva, colorita di tratti nazionali. Il Barocco maturo
prevale sul Manierismo, piú esclusivo e raffinato, con
l’espandersi della propaganda ecclesiastica contro la
Riforma e col riaffermarsi del cattolicesimo come reli-
gione popolare. L’arte delle corti secentesche adatta il
Barocco alle proprie esigenze specifiche; ad un tempo ne
esalta i caratteri emotivi in una teatralità grandiosa e ne
sviluppa il latente classicismo per farne espressione di un
rigido e freddo principio di autorità. Nel Cinquecento,

Storia dell’arte Einaudi 25


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tuttavia, lo stile aulico per eccellenza, caro sopra ogni


altro a tutte le grandi corti europee, è il Manierismo.
Manieristi sono a Firenze i pittori medicei, manieristi
quelli di Francesco I a Fontainebleau, di Filippo II a
Madrid, di Rodolfo II a Praga, di Alberto V a Monaco.
Con gli usi e i costumi delle corti italiane, si diffonde in
tutto l’Occidente anche il mecenatismo, e in certi casi,
come a Fontainebleau, raggiunge uno splendore mai
visto. La corte dei Valois, già molto grande e ambizio-
sa, per certi tratti fa addirittura pensare a Versailles8.
Meno fastose, piú raccolte e rispondenti all’intimo intel-
lettualismo del nuovo stile, sono le corti minori, Bron-
zino e Vasari a Firenze, Adriaen de Vries, Bartholomäus
Spranger, Hans von Aachen e Josef Heinz a Praga,
Sustris e Candid a Monaco godono della generosità dei
loro protettori e di un ambiente piú intimo e meno pre-
tenzioso. Persino nei rapporti tra Filippo II e i suoi arti-
sti regna una cordialità sorprendente in quel tetro per-
sonaggio. Non solo egli ammette fra i suoi familiari il
pittore portoghese Coelho, ma un corridoio speciale col-
lega le sue stanze con gli studi degli artisti di corte, e si
dice che egli stesso dipingesse9. Rodolfo II, eletto impe-
ratore, va a rinchiudersi nello Hradschin di Praga, con
i suoi astrologhi, alchimisti e pittori, facendosi dipinger
quadri che nell’erotismo raffinato e nella rapida elegan-
za fanno pensare a un ambiente di festoso rococò, non
alla squallida dimora di un maniaco. I due cugini, Filip-
po e Rodolfo, hanno sempre tempo per artisti e mercanti
d’arte, e sempre denaro per acquisti di tal genere; un’o-
pera d’arte è il mezzo piú sicuro per avvicinarli10. Le col-
lezioni di questi signori hanno un che di geloso e di
segreto; le considerazioni di prestigio e di propaganda
perdono quasi ogni valore di fronte al godimento per-
sonale.
Il Manierismo delle corti, specie nella sua forma piú
tarda, è un generale movimento europeo – il primo gran-

Storia dell’arte Einaudi 26


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

de stile internazionale dopo il gotico. Le ragioni di que-


sta sua generale diffusione sono da ricercare nell’asso-
lutismo che si è esteso a tutto l’Occidente e nel nuovo
tono che viene assumendo la vita delle corti, dove si
affermano tendenze intellettuali e ambizioni artistiche.
Nel Cinquecento la lingua e l’arte italiana acquistano
dappertutto un’autorità che ricorda quella del latino nel
Medioevo; il Manierismo è la forma particolare in cui si
diffondono in Europa le conquiste dell’arte italiana del
Rinascimento. Ma non solo questo suo carattere inter-
nazionale lo accomuna al gotico. Il rinnovamento reli-
gioso, il nuovo misticismo, l’ansia di affrancarsi dalla
materia, il desiderio struggente di redenzione, il disprez-
zo del corpo e l’immergersi nell’esperienza del sopran-
naturale conducono a un «goticismo» di cui le forme
allungate dello stile manieristico sono solo un’espres-
sione esteriore e spesso importuna. Il nuovo spirituali-
smo si palesa piuttosto in una tensione tra elementi spi-
rituali ed elementi corporei che in un completo supera-
mento della kalokagathía classica. Le nuove forme idea-
li non rinunziano al fascino della bellezza fisica, ma i
corpi che esse ritraggono si sforzano sempre di esprimere
lo spirito, e in tanto sforzo si volgono e curvano, si ten-
dono e torcono, in preda a un’esaltazione che ricorda l’e-
stasi dell’arte gotica. Questa, animando la figura umana,
aveva compiuto il primo gran passo sulla via dell’arte
moderna; è ora la volta dei manieristi che distruggono
l’obiettivismo del Rinascimento, accentuando la visione
personale dell’artista e facendo appello all’esperienza
individuale dell’osservatore.

Storia dell’arte Einaudi 27


Capitolo secondo

L’età del realismo politico

Il Manierismo, è l’espressione artistica della crisi che


nel Cinquecento scuote tutto l’Occidente investendo
insieme vita politica, economica e intellettuale. Il rivol-
gimento politico s’inizia con l’invasione dell’Italia a
opera di Francia e Spagna, le prime grandi potenze
imperialistiche dell’età moderna. La potenza della Fran-
cia era il risultato del trionfo della monarchia sulla
nobiltà feudale e della fortunata conclusione della Guer-
ra dei Cento Anni; la Spagna, ora unita quasi casual-
mente all’Impero e ai Paesi Bassi, rappresentava una
potenza senza esempi dal tempo di Carlo Magno in poi.
La gigantesca opera politica con cui Carlo V amalgama
i paesi toccatigli in eredità, viene paragonata all’assimi-
lazione della Germania nel regno dei Franchi, ed è con-
siderata l’ultimo grande tentativo di ricostituire l’unità
della Chiesa e dell’Impero11. Ma quest’idea, dopo la fine
del Medioevo, non aveva alcun fondamento nella realtà
e, invece dell’unità desiderata, ne vennero quegli anta-
gonismi politici, che dominarono la storia d’Europa per
piú di quattro secoli.
Francia e Spagna devastarono e soggiogarono l’Italia,
portandola sull’orlo della disperazione. Quando Carlo
VIII iniziò la sua marcia attraverso la penisola, il ricor-
do delle calate degli imperatori tedeschi nel Medioevo
era ormai del tutto svanito. Gli Italiani guerreggiavano
continuamente fra loro, ma avevano dimenticato che

Storia dell’arte Einaudi 28


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cosa volesse dire dominio straniero. L’improvvisa


aggressione li lasciò come storditi, né riuscirono mai piú
a riaversi dal colpo. I Francesi occuparono prima Napo-
li, poi Milano e infine Firenze. È vero che ben presto
dal Mezzogiorno li cacciarono gli Spagnoli, ma per
decenni la Lombardia rimase il teatro di lotta delle due
grandi potenze rivali. I Francesi vi si mantennero fino
al 1525, quando Francesco I venne battuto a Pavia e
condotto prigioniero in Spagna. Ora Carlo V aveva in
mano tutta l’Italia e non sopportò piú a lungo gli intri-
ghi del papa. Nel 1527 dodicimila lanzichenecchi mar-
ciano su Roma per punire Clemente VII. Si uniscono
all’esercito imperiale al comando del Conestabile di Bor-
bone, invadono la città eterna e dopo otto giorni la
lasciano in rovina. Saccheggiano chiese e conventi, ucci-
dono preti e frati, violentano e maltrattano monache,
trasformano San Pietro in una stalla e il Vaticano in una
caserma. Le basi della civiltà rinascimentale sembrano
distrutte; il papa è impotente, prelati e banchieri non si
sentono piú sicuri a Roma. La scuola di Raffaello, che
aveva dominato la vita artistica della città, si disperde,
e per qualche anno Roma non conta piú nulla per l’ar-
te12. Nel 1530 anche Firenze è preda dell’esercito spa-
gnolo. Carlo V, d’accordo con il papa, vi insedia, come
principe ereditario, Alessandro dei Medici, abolendo
ogni parvenza di repubblica. I torbidi scoppiati a Firen-
ze dopo il sacco di Roma provocando la cacciata dei
Medici, hanno indotto il papa ad affrettare l’alleanza
con l’imperatore. Il capo dello Stato pontificio s’accor-
da con la Spagna, che insedia un viceré a Napoli, un
governatore a Milano; satelliti della Spagna sono a
Firenze i Medici, a Ferrara gli Estensi, a Mantova i
Gonzaga. Nelle due capitali della cultura italiana, Firen-
ze e Roma, si impongono le usanze, la morale, l’eti-
chetta e l’eleganza spagnola. Ma questo dominio intel-
lettuale dei conquistatori, culturalmente arretrati rispet-

Storia dell’arte Einaudi 29


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

to agli Italiani, non penetra molto a fondo, e, comun-


que, l’arte si mantiene fedele alla tradizione nazionale.
Infatti la cultura italiana, anche là dove sembra soggia-
cere allo spagnolismo, segue invece una sua linea di svi-
luppo che deriva dalle premesse del Cinquecento e ha già
in se stessa la tendenza al formalismo aulico13.
Carlo V conquistò l’Italia con l’aiuto del capitale
tedesco e italiano14. L’elezione stessa dell’imperatore fu
piú o meno questione di denaro, risolta da un consorzio
di banchieri che facevano capo ai Fugger. I principi
elettori non erano a buon mercato e il papa pretese non
meno di centomila ducati per il suo appoggio. Da allo-
ra il capitale finanziario dominò il mondo, e da esso
Carlo V trasse gli eserciti per vincere i nemici e tenere
insieme l’impero. Le sue guerre e quelle dei suoi succes-
sori rovinarono, è vero, i maggiori capitalisti del tempo,
ma assicurarono al capitalismo il dominio mondiale.
Massimiliano I ancora non aveva facoltà di applicare
imposte regolari e mantenere un esercito permanente; al
suo tempo chi veramente comandava erano ancora i
grandi feudatari. Solo suo nipote doveva riuscire ad
organizzare le pubbliche finanze secondo i principî della
tecnica capitalistica, a creare una burocrazia accentrata
e un grande esercito mercenario, a trasformare i feuda-
tari in cortigiani e burocrati. Tuttavia le basi dello stato
monarchico accentrato erano antichissime. Da quando
i padroni di terre avevano preferito affittarle piuttosto
che amministrarle personalmente, la loro autorità era via
via diminuita, aprendo la strada al potere centrale15. Da
allora il progresso dell’assolutismo fu soltanto questio-
ne di tempo – e di denaro. Poiché le entrate della Coro-
na in gran parte erano costituite dalle tasse tratte dalla
popolazione non nobile e non privilegiata, era interesse
dello stato favorire la floridezza economica di quei ceti16.
Ma tale considerazione doveva in ogni caso critico cede-
re il passo agli interessi del grande capitale, al cui appog-

Storia dell’arte Einaudi 30


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

gio i re, nonostante gli introiti regolari, non potevano


in alcun modo rinunziare.
Quando Carlo V prese a costituire il suo dominio in
Italia, il pericolo turco, la scoperta delle nuove vie marit-
time e l’incremento economico delle nazioni atlantiche
avevano già spostato il centro del commercio mondiale
dal Mediterraneo all’Occidente. Agli staterelli italiani
subentrano, nell’organizzazione dell’economia mondia-
le, i nuovi stati nazionali, che possono contare su un’am-
ministrazione accentrata e che dispongono di territori e
di mezzi incomparabilmente piú grandi: in questo
momento appunto al capitalismo primitivo si sostituisce
il grande capitalismo moderno. L’afflusso di metalli
nobili dall’America alla Spagna – per importanti che
siano le sue dirette conseguenze – l’aumento del dena-
ro liquido e l’ascesa dei prezzi non bastano a spiegare il
sorgere del grande capitalismo. Per la genesi di questo
gigantesco fenomeno l’interferenza dell’argento ameri-
cano che, seguendo la teoria mercantilistica, si tenta,
benché con scarso successo, di tesaurizzare e trattener
nel paese, è assai meno decisiva del vincolo che si viene
sempre piú stringendo fra potere statale e capitale pri-
vato, vincolo che è alla base delle imprese politiche di
Carlo V e Filippo II.
Si osserva assai presto la tendenza a passare dall’a-
zienda artigiana, con capitale relativamente esiguo, alla
grande impresa industriale, e dallo scambio di merci alla
vera e propria attività finanziaria. Durante il Quattro-
cento, tale tendenza già prevale nei centri economici d’I-
talia e dei Paesi Bassi. Tuttavia solo sullo scorcio del
secolo la grande industria fa passar di moda la modesta
attività artigiana e l’attività finanziaria si scinde da quel-
la commerciale. Lo scatenarsi della libera concorrenza,
mentre determina la fine del sistema corporativo, ottie-
ne che l’attività economica si sposti verso campi sempre
piú vasti e sempre piú lontani dalla produzione. Le pic-

Storia dell’arte Einaudi 31


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cole aziende vengono incorporate nelle grandi, queste


sono condotte dai capitalisti sempre piú dediti alla finan-
za. I fattori decisivi dell’economia si fanno piú impene-
trabili per la massima parte degli uomini, e sempre piú
sottratti al loro influsso. La congiuntura acquista una
realtà misteriosa, ma tanto piú inesorabile; essa è sospe-
sa come una forza superiore, ineluttabile, sul capo degli
uomini. Le classi inferiori e medie vengono a perdere il
loro peso nelle corporazioni e, con esso, il senso della
sicurezza, che del resto anche i capitalisti sentono venir
meno. Se vogliono affermarsi, essi non possono aver
requie; ma l’espansione li trascina in campi sempre piú
pericolosi. La seconda metà del secolo matura una serie
ininterrotta di crisi finanziarie; nel 1557 in Francia e in
Spagna, nel 1575 di nuovo in Spagna, lo stato fa ban-
carotta: catastrofi, che non solo scuotono le basi delle
massime case commerciali, ma significano la rovina di
innumerevoli esistenze piú modeste.
L’affare piú cospicuo e ghiotto è costituito dai pre-
stiti di stato, ma – poiché i principi sono pieni di debi-
ti – è anche il piú rischioso. In tale gioco d’azzardo sono
ampiamente coinvolti, oltre il banchiere e lo speculato-
re di professione, i ceti medi con i loro depositi in banca
e i loro impegni in borsa, istituzione sorta da poco.
Infatti, allorché il denaro dei singoli istituti bancari si
rivela insufficiente alle esigenze dei monarchi, si comin-
ciano a richiedere crediti alle borse di Anversa e di
Lione17. In parte collegate con queste transazioni, si svi-
luppano tutte le forme possibili della speculazione di
borsa: il commercio di effetti, gli affari a termine, l’ar-
bitraggio, l’assicurazione18. Tutto l’Occidente è preso da
una psicosi borsistica, da una febbre di speculazione, che
aumenta ancora, quando in Inghilterra e nei Paesi Bassi
le compagnie d’oltremare offrono al pubblico la possi-
bilità di partecipare ai loro profitti, spesso favolosi. Per
le grandi masse le conseguenze sono catastrofiche: disoc-

Storia dell’arte Einaudi 32


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cupazione, di pari passo con lo spostarsi dell’interesse


dalla produzione agricola a quella industriale, urbanesi-
mo, ascesa dei prezzi e contrazione dei salari si fanno
sentire dappertutto. Il malcontento raggiunge l’acme là
dove per ora s’accumula piú che altrove il capitale, in
Germania; e si accende fra la gente piú danneggiata, i
contadini. La sua esplosione avviene in stretta connes-
sione col movimento religioso delle masse; in parte, per-
ché anche questo è determinato dal dinamismo sociale
dell’epoca; in parte, perché le forze d’opposizione, per
il momento, trovan piú facile raccogliersi intorno al ves-
sillo di un’idea religiosa. Rivoluzione sociale e rivolu-
zione religiosa formano un’unità inscindibile non solo
fra gli anabattisti; voci del tempo, come le invettive di
un Ulrich von Hutten contro l’economia monetaria e
monopolistica, l’usura e la speculazione agraria, insom-
ma contro la Fuggerei19, com’egli la chiama, permettono
di concludere che il malcontento è generalmente anco-
ra in uno stadio caotico, mal definito. Esso accomuna i
ceti a cui importa soprattutto la rivoluzione religiosa,
con altri che evidentemente hanno un interesse mag-
giore, o magari esclusivo, per il sovvertimento sociale.
Ma, comunque sian divisi questi elementi, si è cosí vici-
ni al Medioevo che tutte le idee possibili prendono la
veste di pensieri e sentimenti religiosi come la loro forma
piú naturale. Ciò spiega l’oscura febbre, l’universale,
vaga speranza di redenzione, in cui si esprimono a un
tempo i motivi religiosi e sociali.
Ma per il significato sociologico della Riforma è deci-
sivo il fatto che il movimento abbia preso le mosse dal-
l’indignazione contro la corruzione della Chiesa, e che
a scatenarlo abbiano contribuito come cause immediate
l’avidità del clero, il commercio delle indulgenze e la
simonia. Fra gli oppressi e gli sfruttati si radicò profon-
da l’idea che le parole della Bibbia – la condanna dei ric-
chi e la promessa ai poveri – non si riferissero soltanto

Storia dell’arte Einaudi 33


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

al regno dei cieli. Ma i borghesi, che partecipavano con


entusiasmo alla lotta contro i privilegi feudali del clero,
non solo si ritrassero dal movimento appena raggiunti i
loro scopi, ma si opposero a ogni ulteriore sviluppo che
potesse danneggiare i loro interessi a vantaggio dei ceti
inferiori. Il protestantesimo, sorto su larghissime basi
come movimento popolare, a questo punto si appoggiò
specialmente ai principi e alla borghesia. Sembra che
Lutero, con vero fiuto politico, abbia giudicato cosí sfa-
vorevoli le prospettive delle classi rivoluzionarie, da
decidersi a passare a poco a poco dalla parte dei ceti i
cui interessi erano legati al mantenimento dell’ordine e
dell’autorità. E cosí egli non solo abbandonò le masse,
ma aizzò i principi e la loro gente contro «le masnade
assassine e rapaci dei contadini». È chiaro ch’egli vole-
va evitare a ogni costo il sospetto di connivenza con la
rivoluzione sociale.
La defezione di Lutero ebbe certo effetti disastrosi20.
Che le testimonianze dirette in proposito siano cosí
scarse, si spiega forse col fatto che nessuno, salvo tra gli
anabattisti, poteva far udire la voce dei traditi. Ma la
tetra visione del mondo propria di quel tempo esprime
indirettamente la delusione, certo assai diffusa, per gli
sviluppi della Riforma. Il «ragionevole» comportamen-
to di Lutero era stato un terribile esempio di «politica
realistica». Non era certo la prima volta che l’ideale
religioso veniva a patti con la vita pratica – la storia della
religione cristiana è un continuo compromesso fra quel
che è di Cesare e quel che è di Dio – ma i precedenti
compromessi si erano compiuti per gradi, attraverso pas-
saggi appena percettibili, e, di piú, in tempi in cui i
retroscena della politica di solito rimanevano occulti al
pubblico. La deviazione del protestantesimo, invece, si
compí alla piena luce del giorno, nell’epoca della stam-
pa, dei libelli, del generale interesse e della diffusa com-
petenza in materia politica. Gli spiriti veramente

Storia dell’arte Einaudi 34


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

responsabili del tempo potevano essere del tutto indif-


ferenti alla causa dei contadini, o magari essere legati
a interessi completamente opposti; pure lo spettacolo
del corrompersi di una grande idea doveva turbarli,
anche se ostili alla Riforma. La posizione di Lutero
nella guerra dei contadini non fu che un sintomo del
corso che ogni idea rivoluzionaria avrebbe preso nel-
l’epoca dell’assolutismo21.
Il protestantesimo nella prima metà del secolo, cioè
prima delle guerre di religione, del Concilio di Trento e
della dura Controriforma, rappresentò per l’Occidente
non solo un problema ecclesiastico e confessionale, ma
anche – come la sofistica nell’antichità, l’illuminismo nel
Settecento e il socialismo ai nostri giorni – un proble-
ma di coscienza, a cui nessun uomo moralmente respon-
sabile poteva del tutto sottrarsi. Dopo la Riforma, non
solo ogni buon cattolico fu persuaso della corruzione
della Chiesa e della necessità di purificarla, ma l’effet-
to delle idee venute di Germania fu ben piú profondo:
ci si accorse che il cattolicesimo aveva smarrito ogni
senso d’interiorità, di trascendenza e di rigore, e si sentí
un insopprimibile desiderio di rinnovamento. Ciò che
eccitava ed entusiasmava dappertutto i buoni cristiani,
e specialmente gli idealisti e gli intellettuali d’Italia, era
l’opposizione del movimento riformatore ad ogni mate-
rialismo, la sua dottrina della giustificazione per la fede,
l’idea della comunicazione diretta con Dio e del sacer-
dozio universale. Ma quando il protestantesimo fu adot-
tato dai principi, tutti presi dai loro interessi politici, e
dalla borghesia, che soprattutto si preoccupava dei suoi
interessi economici, e lo si vide avviarsi a una nuova
organizzazione ecclesiastica, quegli idealisti e intellet-
tuali, che avevano considerato la Riforma come un puro
movimento spirituale, si sentirono quanto mai delusi.
Il desiderio di una piú profonda e intima vita religiosa
non fu in nessun luogo piú forte che a Roma, e in nes-

Storia dell’arte Einaudi 35


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sun luogo si vide piú chiaramente quale minaccia la


Riforma tedesca rappresentasse per l’unità della Chiesa,
sebbene tali sentimenti e pensieri non sorgessero proprio
dagli ambienti pontifici. I capi del movimento riforma-
tore cattolico furono per lo piú umanisti illuminati che
vedevano con molta acutezza le infermità della Chiesa
e sapevano che occorreva agire in profondità; ma il loro
radicalismo si arrestava davanti all’assoluta legittimità
del Papato. Sia pur dall’interno, tutti però volevano
riformare la Chiesa, e precisamente convocando un con-
cilio libero e generale, di cui Clemente VII non voleva
sentir parlare: non si sa mai cosa possa nascere da un
concilio. Verso il 1520 si costituí a Roma l’Oratorio del
Divino Amore, un’associazione che doveva essere esem-
pio di pietà e incitamento alla riforma della Chiesa. Vi
appartennero molti dei piú dotti e piú illustri ecclesia-
stici romani, come il Sadoleto, il Giberti, il da Thiene
e il Carafa. Il sacco di Roma pose fine anche a questa
iniziativa: il circolo si disperse, e passò qualche tempo
prima che potesse raccogliere nuovamente le sue forze.
Il movimento continua la sua vita a Venezia, dove lo
sostengono il Contarini, il Sadoleto e il Pole. Qui, come
poi di nuovo a Roma, si aspira alla riconciliazione con
il luteranesimo, salvando a beneficio della Chiesa cat-
tolica il contenuto morale della Riforma, specie la dot-
trina della giustificazione per la fede.
Molto vicini a questo circolo di colti umanisti, tutti
dominati dai problemi religiosi, erano Vittoria Colonna
e i suoi amici, fra i quali, dal 1538, anche Michelange-
lo. Il pittore portoghese Francisco de Hollanda nei suoi
dialoghi sulla pittura (1539) descrive l’entusiasmo reli-
gioso di questi ambienti, nei quali l’aveva introdotto un
amico; e fra l’altro parla delle riunioni nella chiesa di San
Silvestro a Monte Cavallo, dove un teologo allora famo-
so commentava le epistole di san Paolo. Qui, nell’am-
biente di Vittoria Colonna, vennero forse a Michelan-

Storia dell’arte Einaudi 36


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

gelo quelle suggestioni che dovevano determinare il rin-


novamento spirituale che si riflette nella sua ultima
maniera. La sua evoluzione religiosa è tipica manifesta-
zione del trapasso dal Rinascimento alla Controriforma;
ma in lui la crisi si accende di straordinaria passione e
l’opera che la esprime attinge un rigore assoluto. Fin da
giovane Michelangelo s’era mostrato sensibilissimo alle
suggestioni religiose. La personalità e il destino del Savo-
narola avevano lasciato in lui un’impressione incancel-
labile; e per tutta la vita egli tenne di fronte al mondo
un riserbo che doveva avere in quell’esperienza la sua
origine. Invecchiando, la sua devozione divenne sempre
piú profonda, piú ardente, rigida ed esclusiva, fino a
riempirgli tutta l’anima, respingendo non solo gli idea-
li rinascimentali, ma facendolo anche dubitar del senso
e del valore di tutta la sua opera d’artista. Il mutamen-
to non fu improvviso, ma graduale. Già nelle tombe
medicee e nei pennacchi della Sistina possiamo ritrova-
re segni di un’arte che, per certi tratti che vengono a tur-
bare l’armonia, è già manieristica. Nel Giudizio
(1534-41) il nuovo spirito già domina assoluto; qui non
si ha piú un monumento alla bellezza e alla perfezione,
alla forza e alla giovinezza, ma un quadro di smarri-
mento disperato, un’invocazione davanti al caos, che
improvvisamente minaccia d’inghiottire ogni cosa. Un
desiderio di abnegazione, di rinunzia a tutto ciò che è
terrestre, corporeo, sensuale domina l’opera. L’armonia
spaziale del Rinascimento è sparita. La scena si svolge
in uno spazio irreale, discontinuo, non visto come unità
né costruito secondo un unico criterio. L’infrazione
cosciente e ostentata di ogni antico principio ordinato-
re, il deformarsi e il disintegrarsi della visione rinasci-
mentale si rivelano in ogni tratto, e soprattutto nella
rinunzia all’illusione prospettica specialmente evidente
nella mancanza di scorcio delle figure superiori, che in
confronto alle inferiori appaiono quindi troppo grandi22.

Storia dell’arte Einaudi 37


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Il Giudizio della Sistina è la prima grande opera dei


tempi moderni, che non è piú «bella» e rimanda alle
opere medievali, non ancora belle, ma soltanto espressi-
ve. Ma l’affresco di Michelangelo ne differisce assai; è,
con il suo aspetto sconvolto, una protesta contro la
forma bella, perfetta, immacolata; un manifesto che,
nella sua apparenza caotica, ha qualcosa di aggressivo e
di autodistruttivo. Esso nega non solo gli ideali artisti-
ci, che Botticelli e Perugino avevano cercato di attuare
in quello stesso luogo, ma anche i fini già perseguiti da
Michelangelo stesso nelle scene della volta; e respinge
quelle idee di bellezza a cui s’ispira la cappella, come
ogni edificio, ogni immagine della Rinascita. Né questo
è l’esperimento di un eccentrico irresponsabile, ma
opera del piú illustre artista della cristianità, destinata
a ornarne il luogo piú solenne, la parete principale della
cappella privata del pontefice. Qui davvero tramontava
un mondo.
Un passo successivo sulla stessa via rappresentano gli
affreschi della cappella Paolina, La Conversione di Paolo
e La Crocifissione di Pietro (1542-49). Dell’ordine armo-
nico della Rinascita non resta la minima traccia. Nelle
figure c’è quasi un impaccio, una trasognata passività,
come se fossero in preda a una costrizione misteriosa e
inevitabile, a un’oppressione occulta. Spazi vuoti si avvi-
cendano con sinistri affollamenti, squallide zone deser-
tiche stanno accanto a grovigli umani strettamente avvi-
luppati, come in un brutto sogno. Abolita la visione
unitaria e la continuità dello spazio, la profondità non
viene ottenuta gradualmente, ma quasi si spalanca
all’improvviso; le diagonali forano la superficie dipinta,
trivellando lo sfondo di vuoti abissali. Pare che i coef-
ficienti spaziali della composizione ci siano soltanto per
esprimere lo smarrimento delle figure in terra ignota.
Figura e spazio, l’uomo e il mondo non si accordano piú.
I personaggi perdono ogni carattere individuale; i segni

Storia dell’arte Einaudi 38


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dell’età, del sesso, del temperamento sono cancellati,


tutto tende al generale, all’astratto, allo schematico. Il
senso dell’individuo svanisce di fronte a quello terribi-
le dell’essere umano. Compiuti gli affreschi della cap-
pella Paolina, Michelangelo non produsse altre opere di
vasto respiro: la Pietà del duomo di Firenze e la Pietà
Rondanini, insieme coi disegni per una Crocifissione,
sono i soli frutti degli ultimi quindici anni della sua
vita; e anche queste opere non fanno che trarre le con-
seguenze della sua precedente risoluzione. Nella Pietà
Rondanini, come dice Simmel, «non c’è piú materia, a
cui l’anima debba resistere. Il corpo rinunzia ad affer-
marsi, le parvenze sono incorporee»23. Non è quasi piú
un’opera d’arte, ma piuttosto il trapasso dall’opera d’ar-
te alla confessione estatica, una singolarissima visione di
quell’interregno dello spirito, in cui la sfera estetica con-
fina con la metafisica e l’espressione, oscillando fra sen-
sibile e soprasensibile, par che si liberi a forza dallo spi-
rito. E quel che infine si crea è prossimo al nulla, infor-
me, incolore, inarticolato.

Con il fallimento delle trattative condotte dal Con-


tarini alla dieta di Ratisbona nell’anno 1541, finisce il
primo periodo, «umanistico», del movimento riforma-
tore cattolico. Sono contati i giorni dei Sadoleto, dei
Contarini, dei Pole, cosí illuminati, umani e tolleranti.
Prevale su tutta la linea il realismo politico. Gli ideali-
sti si sono mostrati incapaci di dominare la realtà. Paolo
III (1534-49) segna già il trapasso dal clima tollerante del
Rinascimento all’intolleranza della Controriforma. Nel
1542 viene istituita l’Inquisizione, nel 1543 la censura
sulla stampa e nel 1545 si apre il Concilio di Trento.
All’insuccesso di Ratisbona consegue un atteggiamento
militante che conduce alla restaurazione del cattolicesi-
mo per opera dell’autorità e della forza. Nelle file del-
l’alto clero comincia la persecuzione degli umanisti. Il

Storia dell’arte Einaudi 39


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nuovo spirito fanatico, avverso al Rinascimento, si


annunzia da ogni parte, specie nella fondazione di nuovi
ordini religiosi, nella nuova tendenza all’ascetismo, nella
comparsa di nuovi santi, quali san Carlo Borromeo, san
Filippo Neri, san Giovanni della Croce e santa Tere-
sa»24. Ma nulla caratterizza il nuovo indirizzo meglio
della fondazione della Compagnia di Gesú, che doveva
diventare un modello di rigorismo religioso e di disci-
plina ecclesiastica, prima attuazione dell’idea totalitaria.
Con la massima che il fine santifica i mezzi, essa rap-
presenta il supremo trionfo del realismo politico ed
esprime con estrema nettezza il fondamentale carattere
del secolo.
La teoria e il programma del realismo politico hanno
avuto la loro prima formulazione in Machiavelli, e nella
sua opera si trova la chiave di tutta la concezione manie-
ristica, in lotta con quest’idea. Tuttavia non è stato
Machiavelli a inventare il «machiavellismo», la scissio-
ne cioè della prassi politica dagli ideali cristiani: ogni
principotto del Rinascimento era già un machiavellico
compiuto. In lui la dottrina del razionalismo politico ha
avuto solo il suo primo teorico, e la cosciente, calcolata
prassi realistica il primo obiettivo difensore. Machiavelli
non è stato che un esponente e un interprete del suo
tempo. Se la sua teoria non fosse stata altro che la biz-
zarra trovata di un filosofo ingegnoso e crudele, non
avrebbe avuto quell’effetto sconvolgente, eccitante per
la coscienza di ogni uomo morale, che in realtà ha avuto.
E se si fosse trattato soltanto dei metodi politici dei
tirannelli italiani, certo i suoi scritti non avrebbero agi-
tato gli animi piú delle storie raccapriccianti largamen-
te diffuse sul conto di quei tiranni. La storia frattanto
produceva esempi di realismo ben piú probanti dei
misfatti del «condottiere» e dell’avvelenatore, che
Machiavelli assume a prototipo. Infatti, che cos’era
Carlo V, scudo della Chiesa cattolica, che nello stesso

Storia dell’arte Einaudi 40


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tempo minacciava la vita del Santo Padre e faceva deva-


stare la capitale della cristianità, se non un realista senza
scrupoli? E Lutero, il fondatore di quella che doveva
essere la religione popolare per eccellenza, che poi tra-
diva il popolo abbandonandolo ai signori, e lasciava che
la religione dell’interiorità diventasse il credo del ceto
sociale piú abile, piú decisamente mondano? E Ignazio
di Loyola, che avrebbe crocifisso Gesú per la seconda
volta, se i precetti del Risorto, come nel racconto di
Dostoevskij, fossero venuti a minacciare la stabilità della
Chiesa? E ogni principe dell’epoca, che sacrificava il
bene dei sudditi all’interesse dei capitalisti? E infine,
cos’era tutta l’economia capitalistica, se non un’illu-
strazione della teoria del Machiavelli? Non dimostrava
chiaramente che la realtà obbediva a una sua rigida
necessità, che contro la sua logica inesorabile ogni idea
era impotente e che bisognava rassegnarvisi, o lasciarsi
distruggere?
Non c’è pericolo di sopravvalutare l’importanza che
il Machiavelli ebbe per i contemporanei e per le gene-
razioni immediatamente seguenti. Il secolo fu spaven-
tato, intimidito, profondamente sconvolto dall’incontro
con il primo spregiudicato e radicale interprete degli
uomini e della storia, il precursore di Marx, Nietzsche
e Freud. Basta pensare al dramma inglese dell’epoca eli-
sabettiana e giacobita, in cui Machiavelli diventa una
figura stereotipa, la quintessenza di ogni insidia e ipo-
crisia, e il nome proprio «Machiavelli» comincia a tra-
sformarsi in nome comune, per farsi un’idea di quanto
egli abbia occupato la fantasia degli uomini. Non furo-
no le violenze dei tiranni da lui descritte a turbare cosí
le coscienze, non il servilismo dei loro poeti aulici a
riempire il mondo di indignazione, bensí la giustifica-
zione dei loro metodi ad opera di un uomo che accanto
alla filosofia della violenza ammetteva il vangelo della
clemenza, accanto al diritto dell’uomo accorto, quello

Storia dell’arte Einaudi 41


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dell’uomo nobile, accanto alla morale della volpe, quel-


la del leone25. Da quando esistevano signori e sudditi,
padroni e servi, sfruttatori e sfruttati, esistevano pure
due diversi ordini di criteri morali, gli uni per i poten-
ti, gli altri per gli inermi. Il Machiavelli fu semplice-
mente il primo a rivelare alla coscienza questo dualismo
morale degli uomini, e cercò di dare una giustificazione
del fatto che negli affari di stato valgono massime diver-
se da quelle della vita privata, e anzitutto i principî cri-
stiani della fedeltà e della veracità non sono assoluta-
mente vincolanti per lo stato e per i sovrani. Il machia-
vellismo, con la sua dottrina della «doppia morale»26, ha
un solo parallelo nella storia dell’Occidente: quella dot-
trina della «doppia verità», che ha scisso la civiltà del
Medioevo e aperto la via al nominalismo e al naturali-
smo. Si produce ora nel mondo morale una frattura ana-
loga a quella che si era prodotta allora nel mondo intel-
lettuale; ma questa volta la scossa è tanto piú grave,
quanto piú vitali sono i valori in gioco. Ed è una cesu-
ra cosí profonda, che un esperto di letteratura cinque-
centesca, per qualunque scritto di una certa importan-
za, potrà stabilire se l’autore lo abbia composto prima
o dopo aver conosciuto le idee del Machiavelli. E per
conoscerle non era necessario leggere direttamente le
opere di Machiavelli, cosa che pochissimi facevano; l’i-
dea del realismo politico e della «doppia morale» era di
dominio comune, e arrivava alla gente per le vie meno
controllabili. Il Machiavelli ha certamente fatto scuola
in ogni campo; ma si è esagerato poi volendo vedere
discepoli del diavolo anche là dov’essi non sono mai
stati: sembrava che ogni bugiardo parlasse il linguaggio
machiavellico e ogni acume era sospetto.
Il Concilio di Trento divenne la grande scuola del rea-
lismo politico. Con fredda obiettività, prese le misure
che gli sembravano appropriate per adattare le istitu-
zioni della Chiesa e i principî della fede alle condizioni

Storia dell’arte Einaudi 42


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

e alle esigenze della vita moderna. Gli ispiratori del


Concilio vollero segnare un netto confine fra ortodossia
ed eresia. Se ormai la secessione non si poteva evitare,
si doveva almeno impedire l’ulteriore propagarsi del
male. Si riconobbe che, date le circostanze, non conve-
niva velare i contrasti, ma anzi accentuarli, mostrando-
si piú esigenti, anziché longanimi, verso i fedeli. La vit-
toria di questa tendenza segnò la fine dell’unità cristia-
na in Occidente27. Le discussioni tridentine erano dura-
te diciott’anni, e da poco si erano concluse, quando si
verificò un altro mutamento di rotta, dettato da profon-
do realismo, che venne a mitigare sostanzialmente, spe-
cie in fatto d’arte, il rigorismo degli anni del Concilio.
Non c’erano piú da temere malintesi nell’interpretazio-
ne dell’ortodossia; a questo punto si trattava, invece, di
alleviare la tetraggine del cattolicesimo militante, faci-
litando anche con mezzi esteriori la propaganda della
fede, di rendere perciò piú attraenti le forme del culto
e fare della chiesa una casa fastosa e invitante. Erano,
questi, compiti che solo il Barocco poteva assolvere; il
ciclo manieristico invece s’era compiuto intero sotto il
segno del rigorismo tridentino. Ma non si trattava di
incoerenza: erano gli stessi principî del realismo, obiet-
tivo e consapevole dei propri fini, che raccomandavano
in un caso la via della severità ascetica, nell’altro quel-
la della lusinga dei sensi.
La convocazione del Concilio segnò la fine del libe-
ralesimo della Chiesa anche nel campo dell’arte. Le
opere destinate alle chiese vennero sottoposte alla sor-
veglianza dei teologi; e i pittori, specialmente nelle
imprese di una certa importanza, erano obbligati a tener-
si strettamente alle istruzioni dei loro consiglieri eccle-
siastici. Gian Paolo Lomazzo, la massima autorità del
tempo per le questioni di estetica, auspica espressamente
che il pittore ricorra al consiglio del teologo, quando
tratta argomenti religiosi28. Taddeo Zuccari a Capraro-

Storia dell’arte Einaudi 43


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

la si attiene alle prescrizioni ricevute perfino nella scel-


ta dei colori; e il Vasari, mentre lavora nella cappella
Paolina, non solo accetta senza riserve le direttive del
domenicano e cultore d’arte Vincenzo Borghini, ma si
sente a disagio quando non lo ha vicino29. Del resto il
contenuto dottrinale dei cicli d’affreschi e dei quadri
d’altare dei manieristi è per lo piú cosí complicato, che
è necessario supporre una collaborazione del pittore e
del teologo, anche se non attestata. Come al Concilio di
Trento la teologia medievale non solo ha riacquistato i
suoi antichi diritti, ma ha accresciuto ancora piú la sua
importanza, in quanto molte questioni, che il Medioe-
vo aveva permesso alla scolastica di discutere libera-
mente, ora vengono decise d’autorità30, cosí in campo
artistico i committenti ecclesiastici si dimostrano per
molti riguardi molto piú severi nelle prescrizioni agli
artisti che non nel Medioevo, quando di solito era lascia-
ta all’artista una certa libertà. Anzitutto si vieta di col-
locare nelle chiese opere d’arte ispirate o influenzate da
concezioni non ortodosse. Gli artisti debbono attenersi
esattamente alla forma canonica delle storie bibliche e
all’interpretazione ufficiale delle questioni dogmatiche.
Nel Giudizio michelangiolesco, Andrea Gilio biasima il
Cristo imberbe, la mitologica barca di Caronte, i gesti
dei santi che, secondo lui, si comportano come in una
«lotta di tori», la collocazione degli angeli apocalittici
che stanno gli uni accanto agli altri invece che ai quat-
tro angoli del quadro, come suggerisce la Scrittura. Il
Veronese vien citato dal tribunale dell’Inquisizione, per-
ché nel suo Convito in casa di Levi ha aggiunto ai perso-
naggi nominati dal Vangelo ogni sorta di motivi arbi-
trari, come nani, cani, un buffone con un pappagallo, e
roba simile. Le prescrizioni del Concilio proibiscono di
raffigurare nei luoghi sacri nudità o scene eccitanti,
indecorose e profane. Tutti gli scritti sull’arte religiosa
pubblicati dopo il Concilio di Trento – anzitutto il Dia-

Storia dell’arte Einaudi 44


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

logo degli errori dei pittori del Gilio (1564) e il Riposo di


Raffaele Borghini (1584) – riprovano assolutamente il
nudo nell’arte sacra31. Secondo il Gilio, anche là dove il
testo biblico richieda che una figura sia rappresentata
nuda, è bene che l’artista la copra almeno con un peri-
zoma. Carlo Borromeo fa rimuovere da tutti i santuari
della sua diocesi le opere d’arte che gli sembrano inde-
centi. Lo scultore Ammannati, al termine di una vita
coronata dal successo, rinnega i nudi della sua giovi-
nezza, del resto innocentissimi. Ma nulla dimostra l’in-
tolleranza del tempo meglio del trattamento inflitto al
Giudizio di Michelangelo. Nel 1559 Paolo IV incarica
Daniele da Volterra di coprire in quell’affresco le nudità
ritenute particolarmente provocanti. Nel 1566 Pio V ne
fa togliere altri particolari scandalosi. Infine Clemente
VIII vuol far distruggere tutto l’affresco e, a trattener-
lo, occorre una supplica dell’Accademia di San Luca. Ma
ancor piú dell’atteggiamento papale, stupisce che anche
il Vasari, nella seconda, edizione delle sue Vite, con-
danni la nudità di quelle figure come sconveniente al
luogo. Gli anni del Concilio tridentino sono stati indi-
cati come «il tempo in cui nacque la pruderie»32. Com’è
noto, le civiltà aristocratiche o ispirate a una concezio-
ne oltremondana della vita rifuggono dal rappresentare
il nudo; ma di pruderie non possono venir tacciate né l’a-
ristocrazia dell’antichità preclassica, né quella del
Medioevo cristiano. Esse evitavano il nudo, ma non ne
avevan paura; e soprattutto nel loro atteggiamento non
c’era nulla di equivoco, né esse tentavano con la foglia
di fico di velare il sesso e accentuarlo a un tempo. Solo
con il Manierismo si diffonde quest’erotica ambiguità,
che è anch’essa un aspetto dell’intimo dissidio di que-
sta civiltà tutta contrasti, che unisce al sentimento piú
schietto l’affettazione piú insopportabile, alla piú stret-
ta osservanza verso l’autorità il piú arbitrario indivi-
dualismo, alle rappresentazioni piú castigate le piú impu-

Storia dell’arte Einaudi 45


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

diche forme dell’arte. La pruderie qui non è soltanto la


cosciente reazione alla provocante lascivia dell’arte pro-
fana, come la si coltiva per lo piú alle corti; è anche una
forma di lascivia repressa.
Il Concilio di Trento fu avverso ad ogni forma d’ar-
te formalistica o sensuale. E nello spirito di esso, il Gilio
deplora che i pittori non si curino piú del soggetto e
vogliano far brillare soltanto la loro bravura. La stessa
opposizione al virtuosismo e la stessa esigenza di un
immediato contenuto emotivo si manifesta anche nella
riforma della musica sacra operata dal Concilio, soprat-
tutto nella subordinazione, da esso prescritta, della
forma musicale al testo e nell’indicazione del Palestrina
come modello assoluto. Pur con il suo rigorismo mora-
le e il suo dichiarato antiformalismo, il Concilio triden-
tino, a differenza della Riforma, non era affatto ostile
all’arte. Il celebre detto di Erasmo – «ubique regnat
lutheranismus, ibi litterarum est interitus» – non si può
in alcun modo applicare alle decisioni del Concilio. Nella
poesia Lutero vedeva al massimo un’ancilla theologiae,
e nelle opere dell’arte figurativa non riusciva a scoprire
alcun valore. Egli condannava l’«idolatria» della Chie-
sa cattolica esattamente come il culto degli idoli dei
pagani. Né aveva di mira soltanto l’arte sacra rinasci-
mentale, che in realtà per lo piú aveva poco da spartire
con la religione, ma anche il fatto in sé di voler espri-
mere con l’arte il sentimento religioso, scorgendo «ido-
latria» in qualunque immagine ornasse le chiese. La ten-
denza iconoclastica era stata comune alle eresie medie-
vali. Albigesi e valdesi, lollardi e hussiti, avevano ripro-
vato come profanazione della fede il connubio di reli-
gione e arte33. Ma lo scrupolo degli antichi eretici si esa-
spera fino all’iconofobia nei riformatori: il Karlstadt nel
1521, a Wittemberg, fa bruciare le immagini sacre;
Zuinglio, nel 1524, induce i magistrati di Zurigo a far
togliere dalle chiese e distruggere quadri e sculture; Cal-

Storia dell’arte Einaudi 46


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vino non fa differenza tra la venerazione di un’immagi-


ne e il godimento di un’opera d’arte34; e gli anabattisti
sono ostili all’arte, perché ostili alla cultura in genere.
La loro condanna dell’arte non solo è molto piú intran-
sigente e conseguente di quella del Savonarola, che non
era propriamente iconoclastica, ma semplicemente puri-
ficatoria35 , ma anche piú radicale di quella degli icono-
clasti bizantini, diretta, come sappiamo, piú che alle
immagini in sé, a chi ne traeva profitto.
La Controriforma, che riservò all’arte una parte
importantissima nel culto, non volle soltanto mantener-
si fedele alla tradizione cristiana del Medioevo e del
Rinascimento, per accentuare anche in questo il con-
trasto con il protestantesimo, dimostrandosi cioè amica
dell’arte mentre gli eretici le erano ostili; ma volle usar-
la anzitutto come arma contro le dottrine eretiche. L’ar-
te, attraverso l’estetismo del Rinascimento, aveva
immensamente accresciuto il suo valore come mezzo di
propaganda; affinatasi e assurta a un ruolo di primo
piano nella sfera culturale, si prestava talmente alla pro-
paganda indiretta, da offrire alla Controriforma uno
strumento d’efficacia ignota al Medioevo. Per altro è
problema ancora discusso se l’originaria e diretta espres-
sione artistica della Controriforma sia da individuare nel
Manierismo o sia piuttosto da vedere nel Barocco36. Cro-
nologicamente la Controriforma è piú vicina al Manie-
rismo, e nel Manierismo, piú che nel sensuale Barocco,
si manifesta schietto lo spiritualismo tridentino. Ma
quello che è il vero programma artistico della Contro-
riforma, la diffusione cioè del cattolicesimo, per il tra-
mite dell’arte, fra le masse popolari non si attua che nel-
l’età barocca. I membri del Concilio di Trento eviden-
temente formulando il loro programma non avevano
avuto di mira un’arte come quella manieristica, limita-
ta a un’esigua cerchia di intellettuali bensí un’arte popo-
lare, quale fu poi il Barocco. Al tempo del Concilio il

Storia dell’arte Einaudi 47


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Manierismo era certamente lo stile piú diffuso e piú


vivo, ma non presentava affatto le caratteristiche neces-
sarie per i compiti che la Controriforma assegnava all’ar-
te. Se esso ha dovuto cedere al Barocco, la ragione è da
cercare anzitutto nella sua inadeguatezza a soddisfare le
esigenze ecclesiastiche del momento.
Del resto per i manieristi la dottrina tridentina dove-
va costituire un sostegno insufficiente. I precetti del
Concilio in realtà non offrivano all’artista nulla che
potesse adeguatamente sostituire l’antico sistema di rap-
porti col quale l’artista si inseriva nella civiltà cristiana
e nell’ordinamento corporativo. In effetti, a parte il
fatto che quei precetti, piú che consigli, erano divieti, e
che la loro validità era limitata al campo dell’arte sacra,
gli ecclesiastici dovettero comprendere che, data la strut-
tura ormai differenziata dell’arte del tempo, un’eccessi-
va severità poteva facilmente distruggere l’efficacia dei
mezzi di cui essi volevano servirsi. In quelle circostan-
ze non si poteva immaginare un ordinamento esclusiva-
mente ieratico della produzione artistica del genere di
quello medievale. Gli artisti, anche se buoni cristiani,
nature ancora profondamente religiose, non potevano
rinunziare senz’altro agli elementi profani e classici della
loro tradizione; dovevano accettare come insoluta e
apparentemente insolubile l’intima contraddizione tra le
diverse componenti del loro linguaggio. Chi non riusci-
va a sopportare il peso di quel conflitto, si rifugiava nel
virtuosismo stilistico, oppure – è il caso di Michelange-
lo – nelle «braccia di Cristo». Infatti anche la soluzio-
ne di Michelangelo non è che una fuga. Quale artista
medievale si sarebbe lasciato indurre, come lui, dall’e-
sperienza religiosa, ad abbandonare l’attività artistica?
Quanto piú profonda nel Medioevo era la fede, tanto
piú profonda era anche la fonte dell’ispirazione per l’ar-
tista; e non solo perché veramente cristiano, ma perché
veramente creatore. Rinunziando ad essere artistica-

Storia dell’arte Einaudi 48


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mente produttivo, non avrebbe avuto piú ragione d’e-


sistere. Michelangelo invece, anche dopo aver abban-
donato l’arte, conservò un prestigio e un’importanza
grandi non solo agli occhi del mondo, ma anche ai suoi
propri. Quel suo intimo conflitto tra arte e religione non
avrebbe potuto avverarsi nel Medioevo, anzitutto per-
ché un artista non poteva pensare di servire Iddio altri-
menti che con l’arte propria, poi perché il rigido ordine
sociale vietava a un uomo ogni possibilità di esistenza
fuori del suo mestiere. Invece nel Cinquecento era pos-
sibile che un artista fosse ricco e indipendente, come
Michelangelo, o trovasse amatori stravaganti, come il
Parmigianino, o magari fosse disposto a subire un insuc-
cesso dopo l’altro, conducendo una vita incerta, avulsa
dall’ordine sociale, ma fedele alla propria idea, come il
Pontormo.
L’artista di quel tempo aveva perduto quasi tutto ciò
su cui poteva contare l’artista-artigiano del Medioevo e,
per molti aspetti, anche l’artista del Rinascimento, nella
fase in cui non si era ancora del tutto emancipato dal
mestiere: la salda posizione sociale, l’appoggio della cor-
porazione, le chiare relazioni con la Chiesa, il rapporto,
in complesso ancora non problematico, con la tradizio-
ne. La civiltà dell’individualismo gli aveva aperto innu-
merevoli possibilità chiuse all’artista medievale, ma nello
stesso tempo lo aveva gettato nel vuoto della libertà, in
cui spesso rischiava di perdersi. Quando con la crisi spi-
rituale del secolo xvi gli artisti ebbero di fronte aspetti
e tendenze del tutto nuove, si trovarono nella condi-
zione di non poter affidarsi del tutto a una guida ester-
na, né di seguire completamente il loro intimo impulso.
Essi erano divisi fra costrizione e libertà, indifesi di
fronte al caos che minacciava l’ordine del mondo. Con
loro nasce, si può dire, l’artista moderno con il suo tipi-
co dissidio: avido di vita e pronto all’evasione, legato al
suo tempo e spietatamente ribelle, personale fino all’e-

Storia dell’arte Einaudi 49


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sibizionismo e pur sempre restio a rivelarsi fino in


fondo. D’ora in poi fra gli artisti aumenterà di giorno
in giorno il numero dei tipi strani, degli originali, degli
psicopatici. Negli ultimi anni della sua vita il Parmigia-
nino si dedica all’alchimia, diventa malinconico e osten-
ta un aspetto quanto mai trascurato. Il Pontormo, fin da
giovane, soffre di gravi depressioni e con gli anni diven-
ta sempre piú misantropo e chiuso37. Il Rosso finisce sui-
cida; Tasso muore pazzo; il Greco vela le sue finestre38
per veder cose che magari un artista del Rinascimento
non sarebbe stato affatto capace di vedere, e un artista
medievale avrebbe, se mai, veduto anche alla luce del
giorno.
La grande crisi spirituale si ripercuote anche sulla teo-
ria dell’arte trasformandola profondamente. In contra-
sto con il naturalismo o, come si direbbe in termini filo-
sofici, con il «dogmatismo ingenuo» della Rinascita, per
la prima volta il Manierismo propone all’arte il proble-
ma della conoscenza; per la prima volta l’accordo fra arte
e natura viene sentito come problema39. Per il Rinasci-
mento la natura era l’origine della forma, che l’artista
realizzava con un atto di sintesi, raccogliendo e unifi-
cando gli elementi di bellezza sparsi nella natura. La
forma artistica perciò, sebbene creazione del soggetto,
era pensata come già prefigurata nell’oggetto. Il Manie-
rismo lascia cadere questa teoria riproduttiva, mimeti-
ca; secondo la nuova dottrina, l’arte non imita la natu-
ra, ma crea come la natura. Sia per Lomazzo40, che per
Federico Zuccari41, l’arte ha un’origine spontanea nello
spirito. Secondo il Lomazzo, il genio opera nell’arte
come Dio nella natura; e lo Zuccari afferma che l’idea,
il «disegno interno», è la manifestazione del divino nel-
l’anima dell’artista. Per primo lo Zuccari si chiede espli-
citamente donde l’arte tragga il suo contenuto di verità,
donde derivi la rispondenza tra le forme dello spirito e
quelle della realtà, dato che l’«idea» dell’arte non viene

Storia dell’arte Einaudi 50


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tratta dalla natura. Ed egli stesso risponde che le vere


forme delle cose nascono nell’anima dell’artista, in quan-
to partecipe diretto della mente divina. Anche qui, come
già nella scolastica e piú tardi in Cartesio, il criterio della
certezza è rappresentato dalle idee innate o impresse da
Dio nell’anima umana. Dio crea una rispondenza fra la
natura madre delle cose reali e l’uomo autore delle opere
d’arte42. Ma lo Zuccari, piú degli scolastici e anche piú
di Cartesio, insiste sulla spontaneità creativa dello spi-
rito. Già nel Rinascimento la mente umana aveva acqui-
stato consapevolezza della propria virtú creatrice; facen-
dola derivare da Dio, il Manierismo mira soltanto ad
assicurarle una piú alta giustificazione. L’ingenuo rap-
porto di soggetto-oggetto, di artista e natura, a cui si era
tenuto il Rinascimento, ora si è dissolto: il genio si sente
abbandonato a se stesso e bisognoso di integrazione. La
teoria rinascimentale della natura soggettiva e irrazio-
nale della creazione artistica, e anzitutto la tesi che l’ar-
te non si insegna né s’impara, ma artisti si nasce, solo al
tempo del Manierismo è spinta all’estremo, specialmente
da Giordano Bruno che parla non solo della libertà, ma
addirittura dell’assenza di ogni regola nell’operare arti-
stico. «La poesia non nasce da le regole, se non per leg-
gerissimo accidente, – egli dice; – ma le regole deriva-
no da le poesie; e però tanti son geni e specie di vere
regole, quanti son geni e specie de veri poeti»43. Ecco la
dottrina estetica di un tempo che cerca di unire l’ispi-
razione divina dell’artista e l’autonomia del genio.
L’antagonismo fra regola d’arte e spontanea ispira-
zione, disciplina e libertà, obiettività divina e soggetti-
vità umana, si esprime anche nel nuovo carattere che
assumono le accademie. In origine, lo spirito e l’inten-
to delle accademie era liberale; esse erano state per gli
artisti un mezzo per emanciparsi dalla corporazione e
sollevarsi dal rango di artigiani. Prima o poi i membri
delle accademie furono dovunque dispensati dall’obbli-

Storia dell’arte Einaudi 51


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

go di appartenere a un’Arte e di osservarne le restrizio-


ni statutarie. A Firenze fin dal 1571 i membri dell’Ac-
cademia del Disegno godevano questi privilegi. Ma le
accademie, oltre che carattere onorifico, avevano un
fine didattico; dovevano sostituirsi alle corporazioni
non solo come strumenti organizzativi, ma anche come
scuole. In questa funzione, esse si rivelarono nient’altro
che una diversa forma dell’antica istituzione, al pari di
essa angusta e nemica del progresso. L’insegnamento vi
fu sottoposto a regole anche piú rigide che in antico. Il
generale sviluppo tendeva irresistibilmente all’ideale di
un canone didattico che sarà attuato soltanto dal Sei-
cento francese, ma che ha qui la sua origine. Contro-
riforma, spirito autoritario, accademia e Manierismo
rappresentano diversi aspetti dello stesso spirito e non
è un caso se Vasari, il primo manierista consapevole, è
anche il fondatore della prima regolare accademia d’ar-
te. Gli analoghi istituti precedenti avevano avuto un
carattere improvvisato; sorti senza alcun programma
didattico, per lo piú si limitavano a una serie di irrego-
lari corsi serali, con un gruppo fluttuante di maestri e
di scolari. Le accademie dell’epoca manieristica invece
furono istituti perfettamente organizzati44, e soprattut-
to il rapporto fra maestro e scolaro – se pure fondato su
criteri diversi – vi era non meno definito che quello fra
maestro e apprendista nell’antica bottega. Già prima, in
molti luoghi, gli artisti si raccoglievano, oltre che nelle
corporazioni vere e proprie, nelle cosiddette confrater-
nite, associazioni a carattere religioso e assistenziale,
organizzate piú liberamente; ce n’era una anche a Firen-
ze, la Compagnia di San Luca, e su di essa si basò il
Vasari quando, nel 1561, indusse il granduca Cosimo I
a fondare l’Accademia del Disegno. Diversamente da
quanto avveniva nell’organizzazione coercitiva delle cor-
porazioni e in analogia invece al principio elettivo delle
confraternite, l’esser membro dell’Accademia vasariana

Storia dell’arte Einaudi 52


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

era un titolo d’onore, concesso soltanto ad artisti indi-


pendenti e attivi. Una solida e vasta cultura era una delle
premesse indispensabili per esservi ammessi. Il grandu-
ca e Michelangelo furono «capi» dell’istituzione; Vin-
cenzo Borghini ne fu nominato «luogotenente», cioè
presidente di fatto; e ne furono eletti membri trentasei
artisti. I maestri dovevano istruire un certo numero di
giovani, in parte nella loro bottega, in parte nei locali
dell’accademia. Inoltre, ogni anno si eleggevano tre
«visitatori», cioè tre maestri incaricati di seguire il lavo-
ro dei «giovani» nelle diverse botteghe della città. L’in-
segnamento di bottega dunque non cessò; solo quello
teorico di materie ausiliarie, come geometria, prospetti-
va, anatomia, doveva svolgersi in veri e propri corsi
scolastici45. Nel 1593, per iniziativa di Federico Zucca-
ri, l’accademia romana di San Luca fu elevata a scuola
d’arte con una sua sede stabile e un regolare ordina-
mento didattico, e serví poi di modello a tutte le fon-
dazioni piú tarde. Ma anche quest’accademia, come
quella fiorentina, rimase sostanzialmente un’associazio-
ne onorifica senza riuscire ad essere un istituto scolastico
in senso moderno46. Lo Zuccari aveva, sí, idee ben con-
crete – ed esemplari poi per tutto il sistema accademico
– sui compiti di una scuola d’arte e sui metodi da segui-
re, ma l’insegnamento artigianale era ancora cosí profon-
damente radicato nello spirito della sua generazione,
ch’egli non poté realizzare i suoi progetti. Forse nel-
l’accademia romana il fine didattico aveva maggior peso
che a Firenze, dove il fine politico e quello di organiz-
zazione professionale erano predominanti47; ma anche in
essa il risultato fu assai inferiore ai propositi. Nel suo
discorso inaugurale, significativo anche per l’esortazio-
ne alla virtú e alla pietà, lo Zuccari insiste sull’impor-
tanza delle conferenze e delle discussioni su problemi
teorici. Fra i temi dibattuti sta al primo posto la dispu-
ta – di attualità dal Rinascimento in poi – sulla gerar-

Storia dell’arte Einaudi 53


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

chia delle arti e poi la definizione di quello che è il con-


cetto fondamentale, la parola magica, di tutta la teoria
manieristica cioè il concetto di «disegno» (nel senso di
intenzione, progetto, idea dell’artista). Piú tardi le con-
ferenze degli accademici vengono anche pubblicate e lar-
gamente divulgate; di qui nascono le celebri conférences
dell’accademia parigina, che tanta importanza avranno
nella vita artistica dei due secoli seguenti. Ma i compi-
ti delle accademie non si limitavano all’organizzazione
professionale, all’educazione degli artisti e alle discus-
sioni di estetica; già l’istituto vasariano aveva assunto la
funzione di ente consultivo per questioni artistiche d’o-
gni genere: si pronunciava sulla collocazione di certe
opere d’arte, raccomandava artisti, giudicava progetti
edilizi, confermava permessi d’esportazione.
Per tre secoli le accademie guidarono la politica arti-
stica dei governi, la protezione pubblica delle arti, l’e-
ducazione degli artisti, i criteri da seguire nel distribui-
re premi e stipendi, nell’allestire esposizioni e, in parte,
anche la critica. Ad esse soprattutto si deve se alla tra-
dizione organicamente sviluppatasi nei secoli si venne
sostituendo il convenzionale modello classico. Solo il
verismo ottocentesco riuscí a scuotere la loro autorità e
ad aprire nuovi orizzonti alla teoria dell’arte che era
stata classicheggiante fin dagli inizi. In Italia, a dir vero
l’accademia non conobbe mai la rigida e angusta disci-
plina a cui dovette sottostare in Francia; pure, anche in
Italia a poco a poco le accademie vennero assumendo un
carattere piú esclusivo. In principio l’appartenenza a
tali istituti doveva semplicemente distinguere l’artista
dall’artigiano, ma presto la dignità accademica divenne
un mezzo per innalzare una parte degli artisti – quelli
piú colti e materialmente indipendenti – al di sopra
degli incolti e dei poveri. La cultura che le accademie
richiedevano per accogliere un artista si ridusse sempre
piú a un semplice criterio di distinzione sociale. Nel

Storia dell’arte Einaudi 54


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Rinascimento alcuni artisti avevano raggiunto, è vero,


onori eccezionali, ma i piú avevano dovuto accontentarsi
di un’esistenza relativamente modesta, anche se sicura;
ora ogni pittore un po’ noto è un «professore del dise-
gno», e anche un «cavaliere» ormai non è piú una rarità
fra gli artisti. Distinzioni simili sono fatte apposta per
distruggere l’unità sociale della categoria, dividendola in
ceti diversi e fra loro estranei, dove il piú alto finisce per
far tutt’uno con l’alta società, anziché con il resto degli
artisti. Poiché anche dilettanti e profani sono eletti
membri delle accademie artistiche, si crea fra i circoli
colti del pubblico e degli artisti una solidarietà senza pre-
cedenti. L’aristocrazia fiorentina, ad esempio, è larga-
mente rappresentata nell’Accademia del Disegno, e
questa situazione suscita in essa un interesse per le cose
dell’arte che è ben diverso dall’antico mecenatismo. In
altre parole l’istituto accademico che in basso serve a
separare l’artista dal semplice artigiano, in alto getta un
ponte fra l’artista che lavora e produce e il colto pro-
fano.
Questo interferire nel mondo dell’arte di circoli
socialmente diversi si rivela anche nel fatto che gli scrit-
tori d’arte ormai non scrivono piú solo per gli artisti, ma
anche per gli amatori. Borghini, l’autore del celebre
Riposo, lo fa espressamente; ma il fatto che egli senta il
dovere di giustificarsi perché scrive d’arte, pur senza
essere artista, è un sintomo che fra gli artisti c’è ancora
una certa ostilità all’intrusione della critica profana. Ne
L’Aretino (1557) Ludovico Dolce già dibatte a lungo il
problema se chi non pratica l’arte abbia il diritto di giu-
dicarla, e conclude col riconoscere che il profano colto
ha tale diritto, fuorché quando si tratti di questioni
schiettamente tecniche. Seguendo questa concezione,
gli scritti dei nuovi teorici tralasciano ogni problema tec-
nico, differenziandosi in questo dai trattati rinascimen-
tali. Tuttavia, poiché di estetica si occupano ora, per lo

Storia dell’arte Einaudi 55


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

piú, dei non-artisti, è naturale che siano accentuati e


discussi piú che in passato quei caratteri che sono comu-
ni a tutte le arti, indipendentemente dalle singole tec-
niche48. A poco a poco si afferma un’estetica, che non
solo trascura l’importanza del fatto manuale, del mestie-
re, ma attenua il carattere specifico delle varie arti e
tende decisamente a un concetto generale dell’arte. In
ciò appare con la massima evidenza come un fenomeno
sociologico possa influire su pure questioni teoriche.
L’ascesa sociale degli artisti e la diretta partecipazione
dei ceti superiori alla vita artistica porta, sia pure indi-
rettamente, alla negazione dell’autonomia delle tecniche
artistiche, e al formarsi della teoria dell’unità fonda-
mentale dell’arte. Con Federico Zuccari e Lomazzo sono
di nuovo due artisti di professione alla ribalta della let-
teratura artistica, ma l’elemento profano è sulla buona
strada per impadronirsi del campo. La critica d’arte, nel
senso stretto del termine, cioè la discussione, piú o meno
indipendente dalle teorie tecniche e filosofiche, sul valo-
re delle singole opere, è materia che solo piú tardi acqui-
sterà importanza, ma fin dall’inizio è di competenza dei
profani.

La prima fase, relativamente breve, del Manierismo


fiorentino – all’incirca il decennio 1520-30 – costituisce
una reazione contro l’accademismo rinascimentale. La
corrente accademica per altro si intensifica solo con la
seconda fase che culmina verso la metà del secolo e ha
nel Bronzino e nel Vasari i suoi maggiori esponenti.
Dunque il Manierismo comincia come protesta contro
l’arte del Rinascimento, e i contemporanei sono ben
consci della frattura che con essa si produce nel genera-
le sviluppo dell’arte fiorentina. Già quel che dice il
Vasari del Pontormo sta a dimostrare che la nuova cor-
rente è sentita come qualcosa che rompe col passato. Il
Vasari rileva in particolare che, negli affreschi della cer-

Storia dell’arte Einaudi 56


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tosa di Val d’Ema, il Pontormo imita lo stile di Dürer,


e questo lo giudica come un’aberrazione dagli ideali clas-
sici, tornati in grande onore per lui e per i suoi con-
temporanei, cioè per la generazione nata fra il 1500 e il
1510. In realtà, questo volgersi del Pontormo dai mae-
stri del Rinascimento a Dürer, non è, come crede Vasa-
ri, un semplice fatto di gusto e di forma; è piuttosto l’e-
spressione artistica di un’affinità spirituale che lega la
generazione del Pontormo con la Riforma tedesca. Di
pari passo con lo spirito religioso anche l’arte d’oltralpe
guadagna terreno in Italia, specialmente grazie all’arti-
sta tedesco che piú di ogni altro è vicino al gusto italia-
no, e, grazie alle sue stampe, è popolarissimo nel Sud.
Ma non certo l’affinità con l’arte italiana nello stile di
Dürer interessa il Pontormo e i suoi compagni di ten-
denza, bensí la sua piú profonda e piú intima spiritua-
lità, il suo gotico idealismo, cioè le qualità di cui soprat-
tutto essi sentono la mancanza dell’arte classica italia-
na. Tuttavia l’antitesi di Gotico e Rinascimento, che in
Dürer aveva trovato un suo profondo equilibrio, nella
visione manieristica torna ad essere antinomia inconci-
liata e inconciliabile.
L’antagonismo si manifesta specialmente nel modo di
trattare lo spazio. Il Pontormo, il Rosso, il Beccafumi
mentre esaltano l’effetto spaziale, ora spingendo nel
fondo i singoli gruppi, ora dal fondo traendoli impe-
tuosamente verso il primo piano, tuttavia negano lo spa-
zio, e non solo perché ne annullano l’unità visiva e l’o-
mogeneità strutturale, ma anche perché tendono a com-
porre secondo ritmi bidimensionali contaminando cosí
l’inclinazione alla profondità con una tendenza alla
superficie. Per il Rinascimento, come per ogni civiltà
inquieta, impetuosa, dinamica, lo spazio è la categoria
fondamentale dell’immagine del mondo; nel Manieri-
smo, non è piú tale pur senza essere del tutto svalutato,
a differenza di quanto accade di solito nelle civiltà sta-

Storia dell’arte Einaudi 57


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tiche e conservatrici, tendenti all’evasione dal mondo e


allo spiritualismo, che rinunziano interamente allo spa-
zio e raffigurano i corpi in un isolamento astratto, privo
d’aria e di profondità. La pittura delle civiltà in fase
espansiva, tese alla realtà e all’esperienza, in un primo
tempo colloca i corpi in un serrato contesto spaziale; ne
fa poi, a poco a poco, il substrato stesso dello spazio, e
finisce per risolverli completamente in esso. Per questa
via, dalla classicità greca, attraverso l’arte del secolo iv
a. C., si giunge all’Ellenismo, e dal Quattrocento, attra-
verso il Barocco, all’Impressionismo. L’alto Medioevo
come la Grecia arcaica, ignora, o quasi, spazio e spazia-
lità. Soltanto alla fine del Medioevo questa diventa
fonte di moto e di vita, necessario veicolo della luce e
dell’atmosfera che avvolgono ogni cosa. Ma con l’inizio
dell’evoluzione rinascimentale questa coscienza dello
spazio si trasforma in vera ossessione. Lo Spengler ha
creduto di scorgere nel carattere spaziale inerente alla
visione e al pensiero dell’uomo del Rinascimento – o,
come egli lo chiama, «faustiano»49 – un tratto essenzia-
le di tutte le civiltà dinamiche. In realtà fondo d’oro e
prospettiva, ben piú che due maniere di trattare lo sfon-
do, sono il segno di due posizioni fondamentalmente
diverse di fronte alla realtà. L’una parte dall’uomo, l’al-
tra dal mondo: la prima afferma il primato della figura
sullo spazio, l’altra invece lascia che lo spazio, come ele-
mento primo dell’apparenza e substrato dell’esperienza
sensibile, prevalga sulla sostanzialità dell’uomo, cosí da
assorbirne la figura. Lo spazio esiste prima del corpo che
vi trova il suo luogo, dice Pomponio Gaurico50, che a
questo proposito è il miglior esponente del pensiero
rinascimentale. Il Manierismo si distingue da entrambi
questi atteggiamenti, perché se è vero che cerca di eva-
dere da ogni definizione spaziale, certo non vuole rinun-
ziare all’effetto dinamico della profondità. Il rilievo,
spesso esagerato, e il movimento, per lo piú eccessivo,

Storia dell’arte Einaudi 58


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sembrano fungere da compenso al nuovo carattere irrea-


le assunto dallo spazio, ormai non piú sistema coerente,
ma semplice somma di coefficienti spaziali. La posizio-
ne contraddittoria di fronte al problema dello spazio, in
opere come il Ritorno dei fratelli di Giuseppe dall’Egitto
del Pontormo, ora a Londra, o la Madonna dal collo
lungo del Parmigianino, crea rapporti fantastici, che è
facile interpretare come pura stravaganza, mentre nasco-
no da un indebolito senso della realtà.
A Firenze, con l’affermarsi del principato, la corren-
te manieristica perde assai del suo estroso virtuosismo,
assumendo un accentuato carattere aulico e accademico;
si riconosce in Michelangelo il modello assoluto, ma
nello stesso tempo ci si assoggetta a rigide convenzioni
sociali.
Ora soltanto nel Manierismo fiorentino si accentua
la dipendenza dall’arte classica che finisce per prevale-
re sulla primitiva opposizione ad essa; ciò si spiega
soprattutto con lo spirito autoritario che domina la corte
e favorisce l’imposizione di rigidi criteri anche all’arte.
L’idea di fredda, inaccessibile grandezza, che la duches-
sa Eleonora di Toledo porta con sé dalla patria, trova la
piú immediata espressione nel Bronzino, pittore di corte
nato, con quelle sue forme corrette e cristalline: il suo
ambivalente rapporto con l’arte michelangiolesca e con
il problema spaziale, e specialmente quella sua intima
contraddizione, che fu chiamata disagio dello spirito
sotto la corazza del contegno51 ne fanno il perfetto tipo
del manierista. Nel Parmigianino, meno oppresso dal
rigore della convenzione, la corazza è piú sottile e i
segni dell’intima inquietudine affiorano piú facilmente.
È piú tenero, – piú nervoso, piú morbido del Bronzino;
può abbandonarsi piú del pittore della corte fiorentina;
pure, è altrettanto ricercato e artificioso. In tutta Italia
si sviluppa un raffinato stile aulico, un Super-rococò,
non meno sottile dell’arte francese del Settecento, ma

Storia dell’arte Einaudi 59


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

spesso ben piú ricco e complicato. Solo ora il Manieri-


smo raggiunge quella generale diffusione, quel caratte-
re internazionale, che l’arte del primo Cinquecento non
ha mai avuto. L’artificio prezioso, il capriccio rococò, gli
è essenziale quanto il severo canone michelangiolesco. E,
per quanto poco abbiano in comune i due elementi,
occorre ricordare che il virtuosismo si trova in germe già
in opere michelangiolesche, quali il Genio della vittoria
e le tombe medicee.
Il vero erede di Michelangelo non è il «michelangio-
lesco» Manierismo internazionale, ma il Tintoretto, che,
pur legato a quello stile, in sostanza se ne distingue.
Venezia non ha una corte principesca, né il Tintoretto
lavora per corti straniere, come Tiziano; solo negli ulti-
mi anni riceve incarichi dalla Repubblica. Non la corte
né lo stato, ma le confraternite sono i suoi maggiori com-
mittenti. È difficile dire se fossero le esigenze dei com-
mittenti a determinare il carattere religioso della sua
arte, o se invece egli si cercasse la clientela in ambienti
a lui congeniali; comunque, egli è l’unico artista in Ita-
lia in cui il rinnovamento religioso abbia trovato un’e-
spressione, pari come profondità, benché diversa di
modi, a quella di Michelangelo. Egli lavorò per la Scuo-
la di San Rocco, di cui era membro fin dal 1575, per un
compenso cosí modesto da far pensare che si sia assun-
to l’incarico piú che altro per ragioni affettive. La spi-
ritualità religiosa dell’arte sua, se non vi trovò un incen-
tivo, o magari la sua prima origine, certo poté esplicar-
si grazie all’orientamento tutto particolare della sua
clientela, assai diversa da quella di un Tiziano. Le con-
fraternite o «scuole», costituite su basi religiose, orga-
nizzate per lo piú secondo le professioni, sono caratte-
ristiche della Venezia cinquecentesca; il largo seguito
che esse hanno, è un sintomo dell’approfondirsi della
vita religiosa, che era, nella patria del Contarini, ancor
piú intenso che nel resto d’Italia. Per lo piú i confratel-

Storia dell’arte Einaudi 60


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

li sono gente modesta, e anche questo serve a spiegare


la loro preferenza per l’arte di contenuto strettamente
religioso. Ma le «scuole» sono ricche, e possono per-
mettersi di ornare le loro sedi di importanti e fastosi
dipinti. Man mano che avanza nella decorazione pitto-
rica della Scuola di San Rocco, il Tintoretto si evolve e
diventa il piú grande e rappresentativo pittore della
Controriforma52. Il suo rinnovamento spirituale si com-
pie intorno al 1560, quando il Concilio di Trento s’av-
via alla conclusione e formula i decreti sull’arte. Le gran-
di tele della Scuola di San Rocco, eseguite in due perio-
di, negli anni 1565-67 e 1576-87, rappresentano gli eroi
del Vecchio Testamento, narrano la vita di Cristo ed
esaltano i sacramenti cristiani. Quanto agli argomenti,
dopo gli affreschi di Giotto nella cappella dell’Arena,
esse sono il piú completo ciclo pittorico dell’arte cri-
stiana e, quanto allo spirito, bisogna risalire alle scultu-
re delle cattedrali gotiche per trovare una descrizione
cosí ortodossa del cosmo cristiano. Michelangelo appa-
re un pagano alle prese con i misteri del cristianesimo
rispetto al Tintoretto, che invece è già sicuramente in
possesso della segreta verità, per cui lotta ancora il suo
predecessore. Le scene evangeliche, l’Annunciazione, la
Visitazione, l’Ultima Cena, la Crocifissione, non sono
per lui – come per Michelangelo – soltanto episodi della
tragedia del Redentore, ma i misteri, fatti visibili, della
fede cristiana. Le scene assumono nella sua pittura carat-
tere visionario, e, benché riassumano tutte le conquiste
del naturalismo rinascimentale, appaiono irreali, spiri-
tualizzate, ispirate. Qui nulla separa il naturale dal
soprannaturale, il profano dal sacro. Ma si tratta di un
equilibrio passeggero nell’evoluzione del pittore; il signi-
ficato cristianamente ortodosso delle rappresentazioni
verrà di nuovo perduto. Il mondo delle sue opere tarde
è spesso quello mitico-pagano o, nel migliore dei casi,
quello del Vecchio Testamento, non piú quello del Van-

Storia dell’arte Einaudi 61


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

gelo. Vi si sviluppa un evento cosmico, un dramma pri-


migenio in cui, accanto ai profeti e ai santi, anche Cri-
sto e Dio Padre sono, per cosí dire, comprimari, non già
protagonisti. Nel Mosè che fa zampillare l’acqua dalla
rupe, non solo l’eroe biblico deve rinunziare alla sua
parte di eroe della scena e ritrarsi davanti al prodigio
dello zampillo, ma Dio stesso diventa un corpo celeste
in movimento, ruotante vorticosamente nel congegno
dell’universo. Nella Tentazione e nell’Ascensione si ripe-
te questo spettacolo macrocosmico, troppo spoglio di
riferimenti storici e troppo scarso di suggerimenti
umani, perché lo si possa dire strettamente cristiano e
biblico. In altre opere, quali La fuga in Egitto e le due
Marie, la scena diventa un ideale paesaggio mitologico,
in cui le figure svaniscono quasi del tutto e solo domi-
na lo sfondo.
L’unico vero successore del Tintoretto è il Greco.
Come l’arte del grande manierista veneziano, anche la
sua si sviluppa sostanzialmente al di fuori degli ambien-
ti di corte. Toledo, dove il Greco si stabilisce dopo gli
anni del tirocinio in Italia, è allora la terza città della
Spagna – dopo Madrid, sede della corte, e Siviglia, mas-
simo emporio commerciale – e costituisce il centro della
vita ecclesiastica53. Non è un caso che ne abbia fatto sua
patria l’artista piú profondamente religioso che mai sia
vissuto dopo il Medioevo. Veramente, non mancarono
tentativi da parte del Greco per trovare impiego alla
corte di Madrid54, ma il loro insuccesso è un segno che
fra la cultura aulica e quella religiosa anche in Spagna
già cominciava a determinarsi un contrasto, e che del
resto, per un artista come il Greco, la formula del
Manierismo di corte era ormai troppo angusta. La sua
arte non rinnega l’origine aulica del linguaggio stilisti-
co, ma ne trascende in larghissima misura i limiti. Il sep-
pellimento del conte d’Orgaz rappresenta una cerimonia
secondo un corretto gusto di corte, ma assurge a una

Storia dell’arte Einaudi 62


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sfera ben piú alta di quella sociale e puramente umana.


È, ad un tempo, un’impeccabile scena di cerimonia, ma
anche un dramma fra cielo e terra, sentito nel modo piú
profondo, soave, misterioso. Anche nel Greco, come
nel Tintoretto, a questo momento d’equilibrio succede
un periodo di deformazione, sproporzione e tensione
spasmodica. Il Tintoretto dilatava lo spazio delle sue
scene nell’infinito degli spazi cosmici; nel Greco risal-
tano certe incongruenze tra le figure, che sono in sé
inspiegabili e perseguono un significato trascendente
ogni limite razionale e naturale. Nelle ultime opere, il
Greco s’avvicina a Michelangelo nell’estrema smateria-
lizzazione della realtà. In dipinti come la Visitazione e
lo Sposalizio, che nella sua storia prendono il posto della
Pietà Rondanini, le figure ormai si risolvono tutte nella
luce, e diventano pallide larve che passano lievi in uno
spazio indefinibile, irreale, astratto.
Neppure il Greco ha successori immediati; la solu-
zione che egli ha saputo dare dei piú scottanti problemi
dell’arte rimane senza seguito. In quest’epoca solo il
livello medio appare di generale validità; a differenza di
quanto accadeva nel Medioevo in cui l’unità stilistica
dell’epoca includeva anche le piú perfette creazioni. Lo
spiritualismo del Greco non trova neppure una prose-
cuzione indiretta o un parallelo, come invece trova la
visione cosmica del Manierismo italiano, nell’arte di
Bruegel. Infatti, pur con tanto divario di modi e di
forme, il senso del cosmico è l’elemento predominante
anche in questo artista, benché esso si esprima spesso –
ben diversamente da quanto avviene al Tintoretto –
attraverso le cose piú comuni: un monte, una valle,
un’onda. Nel Tintoretto quel che è usuale svanisce al
soffio del Tutto; in Bruegel il Tutto è immanente agli
oggetti dell’esperienza quotidiana. È questa una forma
nuova di simbolismo, in certa misura opposta alle pre-
cedenti. Nell’arte medievale il simbolo s’imponeva tanto

Storia dell’arte Einaudi 63


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

piú forte quanto piú la scena s’allontanava dalla realtà


empirica, quanto piú era stilizzata e convenzionale; qui,
invece, tanto maggiore è la sua forza quanto piú comu-
ni e aneddotici sono i temi. Le opere medievali, per il
loro simbolismo astratto e convenzionale, non ammet-
tevano che una sola interpretazione; invece, dal Manie-
rismo in poi le grandi creazioni artistiche, dato il carat-
tere dei loro temi, piú prossimo alla vita, sono suscetti-
bili di interpretazioni innumerevoli. I dipinti di Brue-
gel, le opere di Shakespeare e di Cervantes, per essere
intese, devono essere interpretate in modo sempre
nuovo. Il loro naturalismo simbolico, col quale s’inizia
la storia dell’arte moderna, nasce dalla visione manieri-
stica e implica il completo sovvertimento dell’omoge-
neità omerica, la fondamentale separazione fra l’idea e
l’esistenza, l’essenza e la vita, Dio e il mondo. Qui non
basta, come bastava ad Omero, che il mondo sia, per-
ché esso abbia significato; qui l’immagine artistica non
è piú vera solo perché diversa dalla realtà consueta,
come nel Medioevo; qui l’immagine è incompleta e
insensata in sé, ma, appunto in quanto tale, allude a un
mondo perfetto e significativo.
A prima vista par che ben poco accomuni Bruegel alla
maggioranza dei manieristi. Gli mancano i pezzi di bra-
vura, le finezze da virtuoso, le convulsioni e le contor-
sioni, gli arbitri nelle proporzioni e le contraddizioni
nella visione spaziale. Specialmente se ci si fissa sulle
scene rusticane dell’ultimo periodo, egli sembra un robu-
sto verista, che non rientra per nulla nel quadro del
Manierismo, cosí problematico e intellettualmente divi-
so. Ma in realtà Bruegel ha una visione del mondo altret-
tanto frammentaria che i manieristi, un senso della vita
lontano quanto il loro dall’ingenuità e dalla spontaneità.
E con mancanza d’ingenuità qui non si intende soltan-
to quel carattere riflesso che dal Rinascimento in poi è
proprio di ogni arte; ma anche il fatto che l’artista

Storia dell’arte Einaudi 64


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

coscientemente e deliberatamente offre della realtà non


una rappresentazione qualunque, ma quella che gli è
propria, la sua interpretazione, sí che tutte le sue opere
potrebbero riassumersi nell’unico titolo: «Cosí come io
vedo». Questo tratto costituisce la novità sovversiva e
l’essenziale modernità dell’arte di Bruegel e di tutto il
Manierismo. In Bruegel manca solo il capriccioso vir-
tuosismo di moltissimi manieristi, ma non l’individuali-
smo pungente, non la volontà di esprimere anzitutto se
stesso, e in forma nuovissima. Nessuno dimenticherà il
primo incontro con Bruegel. Nell’arte di altri maestri,
specie se piú antichi, ciò che in essa è tipico si palesa sol-
tanto dopo una certa consuetudine all’osservatore ine-
sperto, che per lo piú, da principio, confonde le opere
di artisti diversi. Bruegel è indimenticabile, e inconfon-
dibile anche per un principiante.
La pittura di Bruegel ha in comune col Manierismo
anche il suo carattere non popolare. Si è equivocato su
questo aspetto come, del resto, sul generale significato
del suo stile, che si è considerato un sano, ingenuo veri-
smo senza incrinature. Il pittore si è chiamato «Bruegel
dei contadini» e si è creduto, a torto, che un’arte che
ritrae la vita della povera gente le sia anche destinata;
mentre in realtà è vero piuttosto il contrario. L’imma-
gine della propria vita, la descrizione del proprio
ambiente sociale è di solito ricercata solo dai ceti d’in-
clinazioni e mentalità conservatrici, soddisfatti del loro
posto nella società. I ceti oppressi e intenti a migliora-
re desiderano vedere rappresentate quelle condizioni di
vita a cui aspirano, non quelle da cui cercano di sfuggi-
re. Un’inclinazione sentimentale alla vita semplice la
provano, di solito, solo coloro che hanno superato tale
semplicità. È cosí oggi, e non era altrimenti nel Cin-
quecento. Come, oggi, operai e piccoli borghesi al cine-
matografo vogliono vedere la vita dei ricchi e non le
strettezze della propria, e come i drammi ottocenteschi

Storia dell’arte Einaudi 65


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

d’argomento sociale ottennero il massimo successo, non


già nei teatri popolari, ma nei circoli raffinati delle gran-
di città, cosí anche l’arte di Bruegel era destinata ai ceti
piú elevati, in ogni caso alla città e non certo alla cam-
pagna. È, stato notato che le sue scene rusticane deri-
vano dalla cultura aulica55. I primi segni di un interesse
per la vita campagnola come soggetto dell’arte si nota-
no alle corti, e fin dagli inizi del Quattrocento i libri
d’ore del duca di Berry ci offrono, nei loro calendari,
esempi di tali auliche versioni di scene campestri. Minia-
ture del genere sono uno dei filoni essenziali per l’arte
di Bruegel; l’altro è stato riconosciuto in quegli arazzi,
destinati essi pure alla corte e agli ambienti ad essa vici-
ni, che, accanto alle dame e ai cavalieri occupati alla cac-
cia, alle danze, ai giochi di società, mostrano contadini
al lavoro, taglialegna e vignaiuoli56. L’effetto di queste
scene di costume, tratte dalla vita dei campi e della
natura, in origine non era affatto sentimentale e roman-
tico – come piú tardi, nel Settecento – ma piuttosto
comico e grottesco. La vita della povera gente, contadi-
ni e operai, per quei circoli, per cui si miniavano i libri
d’ore e si tessevano gli arazzi, rappresentava una curio-
sità, una stranezza esotica, non certo qualcosa di uma-
namente vicino e commovente. A queste scene della
vita quotidiana i signori prendevano piacere come ai
fabliaux dei secoli precedenti, che però fin dall’inizio
formarono anche il divertimento dei ceti piú modesti,
mentre le preziose miniature e gli arazzi erano riservati
alle classi elevate. Anche il pubblico di Bruegel appar-
tenne certamente alle classi piú facoltose e piú colte. Fra
il 1562 e il ’63, dopo un soggiorno in Anversa, l’artista
si stabilisce nell’aristocratica e aulica Bruxelles. Con-
temporaneamente egli compie la svolta stilistica decisi-
va per la sua ultima maniera, e si volge a quei temi
rusticani che hanno fatto la sua fama57.

Storia dell’arte Einaudi 66


Capitolo terzo

La seconda disfatta della cavalleria

Verso la fine del Quattrocento si assiste in Italia e


nelle Fiandre ad una rinascita del romanticismo caval-
leresco, con una ripresa d’entusiasmo per la vita eroica
e un rinnovarsi della moda dei romanzi di cavalleria. Il
fenomeno tocca il suo acme in Francia e in Spagna nel
Cinquecento ed è in sostanza un sintomo dell’incipien-
te predominio dello stato autoritario, del degenerare
della democrazia cittadina e del tono aulico che viene
assumendo tutta la civiltà occidentale. Gli ideali e la
morale cavalleresca sono la forma sublimata di cui la
nuova nobiltà, in parte venuta dal basso, e il principa-
to, sulla via dell’assolutismo, vestono la loro ideologia.
L’imperatore Massimiliano è detto «l’ultimo cavaliere»,
ma ha molti successori che possono aspirare a quel tito-
lo; e anche Ignazio di Loyola chiama se stesso «cavalie-
re di Cristo» e organizza il suo ordine secondo i prin-
cipî dell’etica cavalleresca, se pure, ad un tempo, nello
spirito del nuovo realismo politico. Gli ideali cavallere-
schi in sé non sono piú abbastanza saldi; inconciliabili
con la struttura razionalistica della realtà economica e
sociale, la loro vanità nel mondo dei «mulini a vento»
è anche troppo evidente. Dopo un secolo di entusiasmo
per il cavaliere errante, dopo un’orgia di romanzi avven-
turosi, la cavalleria subisce la sua seconda sconfitta. I
grandi poeti del secolo, Shakespeare e Cervantes, non
sono che i portavoce del loro tempo, e proclamano quel

Storia dell’arte Einaudi 67


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

che la realtà rivela ad ogni passo: la cavalleria sopravvi-


ve a se stessa e la sua forza etica si è ridotta a mera fin-
zione.
Il suo culto rinnovato in nessun luogo raggiunse l’in-
tensità che ebbe in Spagna, dove sette secoli di lotta
contro gli Arabi avevano fuso in un nesso indissolubile
i principî della fede e dell’onore con gli interessi e il pre-
stigio della classe dominante; e dove le guerre di con-
quista in Italia, le vittorie sulla Francia, le vaste colo-
nizzazioni e il saccheggio dei tesori americani erano
motivi efficacissimi per una trasfigurazione eroica della
figura e della condizione del guerriero. Ma qui, dove piú
chiaro brillò il ravvivato spirito cavalleresco, fu anche
piú grande il disinganno quando il dominio di quegl’i-
deali si rivelò una finzione. La Spagna vittoriosa, pur
con le sue conquiste e i suoi tesori, dovette cedere alla
supremazia economica dei mercanti olandesi e dei pira-
ti inglesi; non fu quindi piú in grado di provvedere agli
eroi delle sue guerre; il fiero hidalgo divenne un affa-
mato, se pure non un briccone e un vagabondo: nella
realtà i romanzi cavallereschi si rivelarono la prepara-
zione meno adatta alle funzioni che attendevano un
veterano che doveva stabilirsi nel mondo borghese.
La biografia di Cervantes rivela un destino quanto
mai tipico dell’epoca che segna il passaggio dal roman-
ticismo cavalleresco al realismo. Senza conoscerla, è
impossibile apprezzare sociologicamente il Don Quijote.
Il poeta viene da una famiglia senza mezzi, che però
vanta nobiltà cavalleresca; in gioventù la miseria lo
costringe a servire come soldato semplice nell’esercito di
Filippo II e a subire tutti i disagi delle campagne d’Ita-
lia. Partecipa alla battaglia di Lepanto, in cui viene gra-
vemente ferito. Tornando in patria, cade in mano dei
pirati algerini, passa cinque amari anni in schiavitù, fin-
ché, dopo molti vani tentativi di fuga, viene liberato nel
1580. A casa trova la famiglia in estrema indigenza e

Storia dell’arte Einaudi 68


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

carica di debiti. Ma non c’è impiego adeguato nemme-


no per lui, che pure è soldato benemerito, eroe di Lepan-
to, cavaliere fatto schiavo dagli infedeli; egli deve con-
tentarsi dell’ufficio subalterno di piccolo esattore; ha dei
guai finanziari; innocente, o per un lieve trascorso, viene
incarcerato; e infine gli tocca assistere al crollo della
potenza militare spagnola e alla sconfitta per mano degli
Inglesi. La tragedia del cavaliere si ripete in grande nel
destino del popolo cavalleresco per eccellenza. Entram-
bi, com’egli vede sempre piú chiaramente, sono scon-
fitti, perché la cavalleria è storicamente superata, l’ir-
razionale romanticismo è anacronistico in un tempo
nient’affatto romantico. Quando Don Chisciotte attri-
buisce l’inconciliabilità dei suoi ideali con il mondo a un
sortilegio gettato sulla realtà, e non può capire la diver-
genza fra l’ordine soggettivo e quello oggettivo delle
cose, questo significa soltanto ch’egli dormiva mentre
l’intero mondo si veniva trasformando, sí che il mondo
dei suoi sogni gli appare l’unico vero, e stregato, inve-
ce, e pieno di demoni maligni quello reale. Cervantes
riconosce che questa posizione è del tutto priva di ten-
sione e non ammette perciò correzione; egli vede che il
suo idealismo è inattaccabile dalla realtà, sulla quale a
sua volta non può incidere; e che l’assenza di ogni rap-
porto fra l’eroe e l’ambiente che lo circonda condanna
ogni azione al fallimento.
Può darsi che Cervantes all’inizio non fosse conscio
del profondo significato della sua idea, e pensasse vera-
mente a una semplice parodia dei romanzi cavallere-
schi. Ma certo egli riconobbe ben presto che il proble-
ma che lo travagliava non metteva in questione soltan-
to le letture dei suoi contemporanei. La parodia della
vita cavalleresca, d’altronde, da gran tempo non era piú
una novità; già il Pulci si era preso gioco delle storie di
cavalleria, e nel Boiardo e nell’Ariosto si ritrova lo stes-
so atteggiamento ironico di fronte al fascino del cava-

Storia dell’arte Einaudi 69


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

liere. In Italia, dove quel titolo era spesso portato da


gente d’origine borghese, la nuova cavalleria non pen-
sava certo a prendersi molto sul serio. Senza dubbio Cer-
vantes sviluppò il suo atteggiamento scettico in Italia,
patria del liberalesimo e dell’umanesimo; e forse dalla
letteratura italiana gli venne il primo impulso per quel
suo scherzo di validità storica universale. Ma l’opera sua
non doveva riuscire solo una canzonatura degli artificiosi
e stereotipi romanzi alla moda, né una semplice critica
della cavalleria ormai anacronistica, ma anche un’accu-
sa contro la prosaica, deludente realtà, dove all’ideali-
sta non rimane che trincerarsi dietro la sua idea fissa.
Quindi in Cervantes non è la trattazione ironica del
costume cavalleresco che è nuova; ma la stretta relazio-
ne dei due mondi: quello idealistico-romantico e quello
realistico-razionalistico. Nuovo è anche l’insanabile dua-
lismo della sua visione del mondo, quella concezione del-
l’idea inattuabile nella realtà e della realtà irreducibile
all’idea.
Di fronte al problema della cavalleria, Cervantes è
dominato dall’ambiguità che è propria della visione
manieristica. Egli oscilla fra la giustificazione dell’idea-
lismo estraneo al mondo e la ragionevolezza mondana.
Ne risulta, per quanto riguarda il suo eroe, un duplice
atteggiamento, che segnò di per se stesso l’inizio di una
nuova era della letteratura. Finora nella poesia c’erano
solo tipi buoni e cattivi, salvatori e traditori, santi e mal-
fattori; qui invece l’eroe è a un tempo santo e pazzo. Se
il senso dell’umorismo consiste nella facoltà di vedere
contemporaneamente due lati opposti di una cosa, la
scoperta di questo doppio aspetto di un carattere signi-
fica la scoperta dell’umorismo nella poesia, umorismo
sconosciuto prima dell’età manieristica. Non c’è un’a-
nalisi del Manierismo letterario che vada oltre i soliti
schemi di marinismo, gongorismo e simili; ma chi voles-
se farla, dovrebbe prender le mosse da Cervantes58. Nel-

Storia dell’arte Einaudi 70


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’opera sua, oltre al vacillante senso della realtà, a quel-


la costante incertezza dei limiti fra reale e irreale, si
potrebbero studiare ottimamente anche gli altri tratti
essenziali del Manierismo: il senso comico che affiora
dalla tragedia, come il tragico dalla commedia, e la dupli-
ce natura dell’eroe, che ora tocca il ridicolo, ora il subli-
me. E altri tratti ancora: il fenomeno del «cosciente
autoinganno», i diversi accenni dell’autore alla natura
fittizia del suo mondo, gli sconfinamenti continui fra la
realtà propria all’opera e quella esterna, la noncuranza
con cui le figure del romanzo escono dalla loro sfera per
muoversi nel mondo del lettore, la «romantica ironia»
con cui – nella seconda parte del libro – ci si riferisce
alla celebrità, che le figure principali hanno acquistato
nella prima parte: per esempio, i due protagonisti sono
ammessi alla corte ducale, grazie alla loro fama lettera-
ria, e qui Sancio Panza spiega ch’egli è «lo stalliere di
Don Chisciotte, che appare anche nel racconto, e si
chiama Sancio Panza, se non lo hanno scambiato in
culla, cioè in stamperia». Manieristica è l’idea fissa da
cui è posseduto l’eroe, quella specie di costrizione sotto
la quale si muove e il carattere burattinesco che ne deri-
va a tutta la vicenda. Manieristica è la presentazione,
capricciosa e grottesca, la struttura arbitraria, senza
forma né misura; l’insaziabilità del narratore nell’intro-
durre sempre nuovi episodi, commenti e digressioni; i
salti cinematografici, le divagazioni e le sorprese. Manie-
rismo è ancora la commistione degli elementi reali e
fantastici nello stile, il realismo dei particolari inseriti
nell’insieme irreale della concezione, l’unione di carat-
teri cavallereschi e di altri volgarmente picareschi, i dia-
loghi colti dalla vita comune – che Cervantes introduce
per primo nel romanzo59 – accanto ai ritmi artificiosi e
ai leziosi tropi del conceptismo. Manierismo è pure, e in
modo molto significativo, la presentazione dell’opera
come se si formasse e crescesse via via; e cosí le svolte

Storia dell’arte Einaudi 71


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nel corso del racconto; il fatto che una figura cosí impor-
tante e cosí chiaramente indispensabile come Sancio
appaia come un tema aggiunto; e che Cervantes stesso
– a quanto si afferma60 – alla fine non riuscisse piú a
comprendere il suo eroe. Manieristica infine è la discon-
tinuità di tono nell’esposizione, ora delicata e squisita,
ora negletta e cruda, per cui il Don Quijote è stato detto
la piú trasandata fra le grandi opere di poesia61, se pure
non proprio giustamente, poiché ci sono opere di Shake-
speare altrettanto meritevoli di una simile qualifica.
Cervantes e Shakespeare sono quasi coetanei e
muoiono nello stesso anno. Numerosi sono i punti di
contatto fra la visione filosofica e artistica dei due poeti,
ma forse su nessun altro argomento il loro accordo è cosí
significativo come a proposito della cavalleria, che
entrambi ritengono anacronistica e in decadenza. Ma,
pur in questo accordo di fondo, il loro sentimento verso
gli ideali cavallereschi presenta un certo divario, com’e-
ra del resto da aspettarsi data la complessità del feno-
meno. Il drammaturgo Shakespeare è piú favorevole del
romanziere Cervantes all’idea cavalleresca; ma il citta-
dino della nazione inglese, cioè di un paese socialmente
piú evoluto, è piú duro verso la cavalleria come classe
di quanto non sia lo Spagnolo, ancora legato in fondo
alla propria origine aristocratica e al proprio passato
militare. Per altro Shakespeare tiene ad attribuire un
alto rango sociale ai suoi eroi anche in vista di partico-
lari effetti drammatici: essi debbono esser principi, gene-
rali e gran signori, perché risultino teatralmente supe-
riori al resto degli uomini, e al momento della disgrazia
cadano abbastanza dall’alto, di modo che il mutare della
loro sorte faccia un’impressione piú profonda.
Sotto i Tudor, la monarchia si era sviluppata in dispo-
tismo. Alla fine della guerra delle Due Rose, l’alta ari-
stocrazia era quasi annientata, e la piccola nobiltà di
campagna, i proprietari terrieri e la borghesia urbana

Storia dell’arte Einaudi 72


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

volevano anzitutto ordine e pace: ogni governo era


buono, purché forte abbastanza da scongiurare il ritor-
no dell’anarchia. Poco prima dell’ascesa al trono di Eli-
sabetta, ancora una volta il paese era stato provato dagli
orrori della guerra civile; i contrasti religiosi appariva-
no piú acuti che mai, l’amministrazione statale era in
condizioni disperate, la situazione internazionale era
confusa e preoccupante. Il solo fatto che la regina riu-
scisse in parte a superare, in parte a schivare i pericoli
di una tale situazione, le assicurò una certa popolarità
in larghi strati della popolazione. Per le classi privilegiate
e possidenti il suo governo significava anzitutto una
garanzia contro la minaccia di moti rivoluzionari popo-
lari. Ogni preoccupazione del ceto medio per l’accre-
scersi della potenza regale tacque di fronte alla consi-
derazione che la monarchia costituiva un argine contro
le lotte di classe. Elisabetta favorí in ogni modo l’eco-
nomia capitalistica: come quasi tutti i principi di quel
tempo, essa era sempre a corto di denaro, e partecipava
anche direttamente alle imprese dei Drake e dei Raleigh.
L’iniziativa privata cominciò a godere una protezione
senza precedenti; non solo con l’azione di governo, ma
anche con leggi ci si preoccupava di salvaguardarne gli
interessi62. Per l’economia di profitto cominciò un’asce-
sa ininterrotta e questo spirito di intraprendenza si pro-
pagò a tutto il paese. Chiunque aveva modo di fare
qualcosa nel campo economico, si dava alla speculazio-
ne. La ricca borghesia e la nobiltà, sia terriera, sia coin-
teressata in imprese industriali, costituirono la nuova
classe dirigente. La loro alleanza con la Corona fu il
segno dello stabilizzarsi della nuova situazione sociale.
Certo non si deve sopravvalutare l’influsso politico e
intellettuale di questi ceti. La corte, a cui la vecchia ari-
stocrazia dà pur sempre il tono, è il centro della vita pub-
blica; e la Corona preferisce l’alta nobiltà alla borghesia
e alla piccola nobiltà di campagna, purché non gliene

Storia dell’arte Einaudi 73


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

venga danno né pericolo. Del resto, la corte si compo-


ne in parte di gente fatta nobile dai Tudor e salita gra-
zie alla sua ricchezza. I discendenti, ormai rari, dell’an-
tica aristocrazia e gli esquires sono ben disposti al con-
nubio e alla cooperazione economica con la parte ricca
e conservatrice della borghesia. Qui, come in quasi tutta
l’Europa, al livellamento sociale contribuisce largamen-
te il fatto che attraverso i matrimoni figli di borghesi
accedono alla nobiltà, e anche l’adattarsi dei cadetti
delle famiglie nobili alle professioni borghesi. Tuttavia
in Inghilterra, dove il secondo caso è la regola, in sostan-
za è la nobiltà a imborghesirsi, mentre è caratteristica
della Francia l’ascesa della borghesia allo stato nobilia-
re. È decisivo per i rapporti dell’alta borghesia inglese
e della media proprietà terriera con la Corona, il fatto
che la monarchia, dopo faide secolari, ha ristabilito l’or-
dine ed è ormai pronta a garantire la sicurezza delle clas-
si possidenti. Il principio dell’ordine, l’idea dell’autorità
e della sicurezza diventano la base della concezione bor-
ghese, poiché le classi dedite al guadagno si rendono
conto sempre piú chiaramente che per esse nulla è piú
pericoloso di un governo debole e di rivolgimenti socia-
li. «Quando la gerarchia vacilla, s’infirma tutto il siste-
ma» (Troilo e Cressida, I, 3): ecco la quintessenza di que-
sta filosofia sociale. La devozione di Shakespeare e dei
suoi contemporanei verso la Corona si spiega anzitutto
con la paura del caos. L’idea dell’anarchia li perseguita;
l’ordine universale e la distruzione che sempre pare
minacciarlo è un tema fondamentale del pensiero e della
poesia di quei tempi63. Essi rappresentano il disordine
sociale addirittura come un turbamento dell’armonia
dell’universo, e interpretano la musica delle sfere come
il peana degli angeli della pace che hanno domato gli ele-
menti in rivolta.
Shakespeare vede il mondo con gli occhi di un agia-
to borghese, grosso modo liberale nel sentire, scettico e

Storia dell’arte Einaudi 74


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

per molti aspetti deluso. Egli esprime opinioni politiche


che s’ispirano all’idea dei diritti dell’uomo – come li
chiameremmo oggi – condanna le sopraffazioni del pote-
re e l’oppressione del popolo, ma condanna anche ciò
ch’egli chiama l’arroganza e la prepotenza della pleba-
glia e, nella sua apprensione di borghese, pone il prin-
cipio dell’«ordine» al di sopra di ogni considerazione
umanitaria. I critici conservatori per lo piú sono d’ac-
cordo nell’affermare che Shakespeare disprezza il popo-
lo e odia la «canaglia» della strada; parecchi socialisti
invece, che vorrebbero trarlo dalla loro, non ritengono
che si possa parlare in questo caso di odio e di disprez-
zo, né che sia da pretendere da un poeta del Cinque-
cento la solidarietà di uno scrittore d’oggi verso il pro-
letariato, che, d’altronde, nel senso moderno della paro-
la, non esisteva affatto64. Gli argomenti di Tolstoj e di
Shaw, che attribuiscono a Shakespeare le opinioni poli-
tiche dei suoi aristocratici eroi, soprattutto di Coriola-
no, non sono certo persuasivi, sebbene non sia da tra-
scurare il palese compiacimento di Shakespeare per le
ingiurie dirette al popolo; non bisogna tuttavia dimen-
ticare quanto l’ingiuria per se stessa fosse grata al tea-
tro elisabettiano. Certamente, Shakespeare non appro-
va i pregiudizi di Coriolano, ma il deplorevole acceca-
mento del suo aristocratico eroe non arriva a spegnere
in lui l’ammirazione per la sua imponente figura, per lo
«splendido uomo». Egli abbassa lo sguardo sulle grandi
masse popolari con una superiorità in cui – come già
Coleridge ebbe a notare – si mescolano disprezzo e
indulgente benevolenza. In complesso, il suo atteggia-
mento corrisponde a quello degli umanisti, di cui ripe-
te fedelmente le frasi abituali sulle moltitudini «incol-
te», «politicamente immature», «incostanti». Ma che
questo suo atteggiamento non abbia un’origine esclusi-
vamente culturale appare subito chiaro, quando si pensi
che in Inghilterra l’aristocrazia, fin dall’inizio piú lega-

Storia dell’arte Einaudi 75


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ta all’umanesimo, si mostra verso il popolo piú benevo-


la e comprensiva della borghesia, piú direttamente
minacciata dalle pretese economiche del proletariato;
per esempio, nelle opere di Beaumont e di Flechter, i piú
vicini all’aristocrazia fra i colleghi di Shakespeare, il
popolo appare in luce piú favorevole che nella maggior
parte degli altri drammi elisabettiani65. Ma, alta o bassa
che sia la stima di Shakespeare per le qualità intellettuali
e morali delle masse, poca o molta la sua simpatia per-
sonale per il popolo «maleodorante» e «buono», sareb-
be un semplificare troppo la realtà considerarlo un sem-
plice strumento della reazione. Marx ed Engels seppe-
ro vedere per Shakespeare, come per Balzac, quello che
è veramente l’aspetto essenziale. Nonostante la loro
posizione fondamentalmente conservatrice, i due poeti
ebbero una funzione progressista, poiché entrambi ave-
vano compreso la caducità e la crisi di una situazione di
cui invece i loro contemporanei erano soddisfatti. Qua-
lunque fosse il pensiero di Shakespeare sulla monarchia,
la borghesia, il proletariato, il semplice fatto che in un’e-
poca di ascesa nazionale e di floridezza economica – cosí
proficua anche per lui – egli esprima una visione tragi-
ca e cosí profondamente pessimistica, rivela in lui un
forte senso di responsabilità sociale e la convinzione
che anche allora non proprio tutto era per il meglio.
Certo egli non era un sovversivo, e neppure una tempra
di lottatore, ma apparteneva al campo di quel sano razio-
nalismo che seppe impedire la rinascita della nobiltà
feudale; proprio come Balzac che, con la sua spietata
analisi della psicologia borghese, senza volerlo e senza
saperlo, si trovò fra i precursori del moderno socialismo.
Dai drammi storici si deduce abbastanza chiaramen-
te che Shakespeare, nella lotta che all’alta nobiltà feu-
dale contrappose Corona, borghesia e piccola nobiltà,
non fu certo per gli arroganti e crudeli ribelli. Interessi
e inclinazioni lo univano con la borghesia e la nobiltà

Storia dell’arte Einaudi 76


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

imborghesita di tendenze liberali, ceti che di fronte


all’antica nobiltà feudale formavano pur sempre un
gruppo progressivo. I mercanti Antonio e Timone, ric-
chi, distinti, generosi, dalle maniere raffinate e dal trat-
to signorile, ci danno forse l’immagine piú rispondente
del suo ideale umano. Ma, benché attratto dallo stile dei
signori, Shakespeare non manca mai di parteggiare per
il buon senso, l’equità e il sentimento spontaneo, ogni-
qualvolta queste virtú borghesi vengano a conflitto con
gli oscuri motivi di un irrazionale romanticismo caval-
leresco, della superstizione o di un torbido misticismo.
Cordelia rappresenta la piú schietta incarnazione di tali
virtú proprio in mezzo all’ambiente feudale che la cir-
conda66. Infatti, per quanto Shakespeare, come dram-
maturgo, sappia apprezzare il valore decorativo della
cavalleria, non può approvarne lo sfrenato edonismo, il
fatuo culto dell’eroe, l’individualismo selvaggio e indo-
mabile. Sir John Falstaff, Sir Toby Belch, Sir Andrew
Aguecheek sono impudenti parassiti; Achille, Aiace,
Hotspur, vanitosi e rissosi fanfaroni; i Percy, i Glen-
dower, i Mortimer, spietati ed egoisti – e Lear è il
despota feudale di uno stato in cui domina esclusiva l’e-
tica dell’eroismo cavalleresco, e dove nulla di quel che
è soave, intimo e modesto può sopravvivere.
Si è creduto di poter ricostruire interamente il pen-
siero del poeta sulla cavalleria, basandosi sulla figura di
Falstaff. Ma questi non è che uno dei tipi di cavaliere
che si trovano in Shakespeare: è il cavaliere cui lo svi-
luppo economico ha tolto ogni base sociale e che l’im-
borghesimento ha corrotto; ma, pur ridottosi un oppor-
tunista cinico, vorrebbe ostentare l’altruismo dell’eroi-
co idealista. Egli compendia in sé Don Chisciotte e San-
cio, ma, a differenza dell’eroe di Cervantes, è soltanto
una caricatura. A un tipo piú schiettamente donchi-
sciottesco appartengono invece figure come Bruto,
Amleto, Timone e, specialmente, Troilo67. L’idealismo

Storia dell’arte Einaudi 77


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

staccato da ogni realtà, l’ingenuità, la credulità sono


caratteri che li accomunano a Don Chisciotte; mentre è
esclusivo della visione shakespeariana il tremendo risve-
glio dall’errore e l’abisso di pena che li attende alla sco-
perta, troppo tarda, della verità.
L’atteggiamento di Shakespeare verso la cavalleria è
in realtà complicato e non del tutto coerente. Il declino
della cavalleria, che nei drammi storici egli descrive con
piena soddisfazione, piú tardi si trasfigura in tragedia
dell’idealismo: questo non perché il poeta si sia fatto piú
benevolo verso la cavalleria, ma perché ormai ha supe-
rato anche il realismo «anti-cavalleresco», e il machia-
vellismo in esso implicito. Si era visto dove aveva por-
tato il dominio di questa dottrina. Marlowe era ancora
affascinato dal Machiavelli, e il giovane poeta del Ric-
cardo III evidentemente ne era piú entusiasta dello
Shakespeare maturo, per il quale il machiavellismo è
diventato un incubo, proprio come per i suoi contem-
poranei. È impossibile definire la posizione di Shake-
speare di fronte ai problemi sociali e politici del suo
tempo, senza tener conto dei diversi momenti del suo
sviluppo. Sullo scorcio del secolo, all’epoca della piena
maturità e del maggior successo, la sua visione del
mondo muta radicalmente e con essa mutano del tutto
il suo giudizio sulla situazione sociale e il suo sentire di
fronte ai diversi ceti. Sono ormai scossi il primitivo con-
senso alle condizioni del suo tempo, il suo ottimismo
verso il futuro e, anche se tiene fede al principio del-
l’ordine e continua ad apprezzare la stabilità e ad avver-
sare l’ideale eroico della cavalleria feudale, tuttavia egli
pare aver perduto ogni fiducia nell’assolutismo machia-
vellico e nella spregiudicata economia di profitto. Si è
voluto mettere in relazione il nuovo pessimismo di
Shakespeare con la tragedia del conte di Essex, in cui
fu implicato anche il protettore del poeta, Southampton;
e altri dolorosi avvenimenti della storia del tempo, come

Storia dell’arte Einaudi 78


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’inimicizia fra Elisabetta e Maria Stuarda, la persecu-


zione dei puritani, la graduale trasformazione dell’In-
ghilterra in stato poliziesco, la fine del regno – relati-
vamente liberale – di Elisabetta e il nuovo assolutismo
di Giacomo I, l’acuirsi del contrasto fra la monarchia e
il ceto medio, incline al puritanesimo, sono stati indicati
come possibili cause di questo rivolgimento68. Certo, la
crisi che ne scuote l’equilibrio matura nell’autore una
visione morale di cui è tipica soprattutto la simpatia che
d’ora in poi ispira il personaggio sconfitto nella vita
pubblica assai piú che l’uomo fortunato o il vincitore.
Bruto, l’uomo politicamente inetto e sfortunato, è par-
ticolarmente vicino al cuore del poeta69. Una simile
inversione di giudizi non può spiegarsi semplicemente
con un mutamento di stato d’animo, un’esperienza sol-
tanto privata, o una revisione puramente intellettuale di
convinzioni precedenti. Il pessimismo shakespeariano ha
una portata che trascende l’individuo e reca i segni di
una tragedia storica.
L’atteggiamento di Shakespeare verso il pubblico del
suo tempo non è in fondo che un riflesso del suo orien-
tamento sociale; ma il mutare delle sue simpatie si può
seguire meglio in questo gioco concreto di rapporti che
non nell’astratta generalizzazione. Possiamo dividere la
sua carriera letteraria in fasi sufficientemente indivi-
duate, a seconda che, fra il pubblico, egli dedica speciale
attenzione a un ceto piuttosto che a un altro e ne asse-
conda il gusto. L’autore di Venere e Adone e di Lucrezia
è un poeta che s’attiene ancora completamente al gusto
umanistico in voga, e lavora per gli aristocratici ambien-
ti della corte, affidando la propria fama alla forma epica:
evidentemente il dramma è per lui un genere inferiore,
seguendo in questo le idee di corte, che preferiscono la
lirica e l’epica e considerano il dramma, col suo piú
largo pubblico, una forma plebea. Quando, terminata la
guerra delle Due Rose, i nobili inglesi presero a seguire

Storia dell’arte Einaudi 79


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’esempio dei loro pari d’Italia e di Francia, dedicando-


si alle lettere, in Inghilterra come negli altri paesi la
corte divenne il centro della vita letteraria. Aulica e
dilettantesca è la letteratura inglese del Rinascimento,
a differenza di quella medievale, che era stata aulica solo
in parte e coltivata per lo piú da poeti di mestiere.
Wyatt, Surrey, Sidney sono illustri dilettanti, ma anche
gli scrittori di professione subiscono per lo piú l’ascen-
dente di colti aristocratici. Quanto all’origine di questi
letterati, sappiamo che Marlowe era figlio di un calzo-
laio; Peele, di un argentiere; Dekker, di un sarto; che
Ben Johnson dapprima segue il mestiere del padre e fa
il muratore; ma sono relativamente pochi gli scrittori
venuti dai ceti piú modesti; la maggioranza viene dalla
gentry, dal ceto dei funzionari o dei ricchi mercanti70.
Nessuna letteratura, per origine e tendenza, può dirsi
animata da spirito di classe piú di quella elisabettiana,
che mira principalmente a foggiare veri gentiluomini e
si volge anzitutto ai circoli direttamente interessati a
questo scopo. Parve strano che, in un momento in cui
l’antica nobiltà era in gran parte estinta e la nuova solo
da poco s’era staccata dalla borghesia, si desse tanto peso
all’origine e alle maniere aristocratiche71; ma sappiamo
che, appunto quando è recente, una classe nobiliare si
mostra molto piú esigente verso i suoi membri. Nell’e-
poca elisabettiana la cultura letteraria è uno dei requi-
siti piú importanti per un nobile. La letteratura ha gran-
de voga ed è elegante parlare di poesia e discutere di pro-
blemi letterari. Lo stile artificioso della poesia in voga
viene trasferito nella conversazione corrente; la regina
stessa si esprime in quello stile affettato, e chi non sa
fare altrettanto è ritenuto un ignorante, come uno che
non parli il francese72. La letteratura diventa un gioco di
società. I componimenti epici e specialmente lirici, cioè
gli innumerevoli sonetti e canzoni degli illustri dilettanti
circolano manoscritti nei loro ambienti; e non vengono

Storia dell’arte Einaudi 80


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

stampati, per meglio sottolineare che l’autore non è


poeta di mestiere, non mette in vendita l’opera sua e
desidera senz’altro limitarne la diffusione.
Un poeta epico o lirico, anche se poeta professiona-
le, è qui apprezzato piú di un drammaturgo; gli è piú
facile trovare un protettore e può contare su un aiuto piú
generoso. Eppure, l’esistenza materiale del drammatur-
go, che scrive per i teatri pubblici, cari a ogni ceto, è piú
sicura di quella del poeta che dipende da un protettore
privato. I drammi, è vero, sono pagati male – Shake-
speare non diventa ricco per i suoi drammi, ma perché
azionista di un’impresa teatrale – ma assicurano un’en-
trata regolare, grazie alla continua richiesta. Cosí, quasi
tutti gli scrittori del tempo lavorano, almeno occasio-
nalmente, anche per la scena; tutti tentano la fortuna nel
teatro, sebbene spesso se ne vergognino – cosa tanto piú
strana, in quanto il teatro elisabettiano trae origine dalla
vita di corte o da quella quasi di corte delle case aristo-
cratiche. Gli attori girovaghi di provincia e quelli stabili
della capitale sono i diretti discendenti dei buffoni che
servivano in quelle case. Alla fine del Medioevo le gran-
di famiglie signorili avevano propri attori, stabili o
impiegati occasionalmente, cosí come disponevano di
giullari; in origine si trattava probabilmente delle stes-
se persone. Durante le feste, soprattutto a Natale, o in
solennità familiari, specialmente per nozze, recitavano
commedie, per lo piú di circostanza. Portavano la livrea
e le insegne del loro signore, esattamente come le altre
persone del seguito e della servitú. Questo rapporto di
servizio formalmente si mantenne anche quando giulla-
ri e mimi di casa avevano ormai costituito indipenden-
ti compagnie teatrali. La protezione degli antichi signo-
ri li metteva in certo modo al sicuro dall’ostilità delle
autorità cittadine, e assicurava loro un’entrata supple-
mentare. Il protettore infatti passava una piccola rendita
annua e si valeva dei loro servigi, con un compenso

Storia dell’arte Einaudi 81


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

aggiunto, ogni volta che, in occasione di una festa, vole-


va organizzare in casa sua uno spettacolo teatrale73. Que-
sti attori di palazzo e di corte formano dunque l’anello
di congiunzione fra il giullare o il mimo medievale e l’at-
tore moderno. Le antiche famiglie infatti vennero a
poco a poco estinguendosi, le grandi case via via si
disgregarono – i comici dovettero sostenersi da soli; ma
l’impulso decisivo alla formazione delle regolari compa-
gnie teatrali venne tuttavia dal rapido sviluppo della
vita culturale sotto i Tudor e dal suo accentrarsi a
corte74.
Già al tempo di Elisabetta comincia la caccia sfrena-
ta al protettore. La dedica di un libro, e il compenso per
tanto onore, diventano un affare d’occasione, che non
presuppone il minimo attaccamento né vera stima. Gli
scrittori gareggiano in smaccate adulazioni, ch’essi indi-
rizzano, per giunta, a gente spesso completamente estra-
nea a loro; frattanto i doni dei protettori diventano
sempre piú meschini e sempre meno sicuri. L’antico
vincolo patriarcale fra i mecenati e i loro protetti si
avvia alla dissoluzione75. A questo punto anche Shake-
speare coglie l’occasione per passare al teatro. È diffici-
le dire se la decisione sia dovuta solo alla preoccupazio-
ne di assicurarsi l’esistenza, o ad essa abbia contribuito
anche l’accresciuto prestigio del teatro, distogliendo l’in-
teresse e la simpatia del poeta dai ristretti circoli ari-
stocratici e orientandoli verso ambienti piú vasti; pro-
babilmente la decisione nacque dall’insieme di questi
motivi. S’inizia cosí la seconda fase dell’arte shake-
speariana. Le nuove opere non hanno piú il tono idilli-
co, classicheggiante e affettato dei primi componimen-
ti, ma rispondono pur sempre al gusto dell’alta società.
Sono in parte orgogliose cronache, scene grandiose di
vita politica che esaltano l’idea della monarchia; in parte
sono gaie commedie sfrenatamente romantiche, piene di
ottimismo e di gioia di vivere, che si svolgono in un

Storia dell’arte Einaudi 82


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mondo puramente fittizio dove le pene quotidiane sono


ignorate. Sullo scorcio del secolo comincia il terzo perio-
do dell’evoluzione shakespeariana: le tragedie. Il poeta
si è assai allontanato dall’«eufuismo» e dal romanticismo
giocoso dell’alta società; ma pare che si sia straniato
anche dalle classi medie. Le sue grandi tragedie non
sono destinate a un ceto particolare, ma al grande pub-
blico composito dei teatri londinesi. Della gaiezza d’un
tempo non v’è piú traccia; anche le cosiddette comme-
die di questo periodo sono piene di malinconia. Segue
poi l’ultima fase: un tempo di rassegnazione e di acque-
tamento, con le tragicommedie che tornano all’intona-
zione romantica. Shakespeare è sempre piú lontano dalla
borghesia, che si fa di giorno in giorno piú miope e
gretta nel suo puritanesimo. Gli attacchi dell’autorità
civile ed ecclesiastica contro il teatro si fanno sempre piú
violenti: attori e drammaturghi debbono cercarsi di
nuovo protettori e patroni nell’ambiente della corte e
della nobiltà, piegandosi sempre piú al loro gusto. La
corrente rappresentata da Beaumont e da Flechter pren-
de il sopravvento; in certa misura vi aderisce anche
Shakespeare. Egli torna a scrivere opere, in cui non solo
predominano i motivi romantico-fiabeschi, ma che per
molti aspetti ricordano i balletti e le mascherate della
corte. Cinque anni prima di morire, al culmine dell’ar-
te sua, Shakespeare si ritira dal teatro e cessa intera-
mente la sua attività di drammaturgo. Dobbiamo pen-
sare che la piú grandiosa opera drammatica, che mai
poeta abbia creato, sia stata un dono della sorte a un
uomo il cui primo pensiero era quello di fornire merce
esitabile alla sua impresa teatrale, e che perciò avrebbe
cessato di produrne una volta assicurata a sé e ai suoi
un’esistenza tranquilla? O, piuttosto, si deve pensare
che il poeta abbia cessato di scrivere quando sentí che
non c’era piú un pubblico a cui valesse la pena di rivol-
gersi?

Storia dell’arte Einaudi 83


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Comunque si risponda a questa domanda, sia stata


l’agiatezza, o invece il disgusto ad allontanare Shake-
speare dal teatro, è assodato che per quasi tutta la sua
carriera egli incontrò il vivo favore del pubblico, seb-
bene nelle diverse fasi del suo sviluppo egli mostrasse di
preferire ora un ceto ora un altro e forse alla fine non
potesse identificassi completamente con nessuno. In
ogni caso, nella storia del teatro egli fu il primo grande
poeta – se non il solo – che seppe rivolgersi a un pub-
blico vasto e in cui entravano, si può dire, tutti i ceti
sociali, e seppe incontrare pieno consenso. La tragedia
greca era un fenomeno troppo complesso e troppi fattori
eterogenei entravano nell’interesse che il pubblico vi
portava, perché si possa giudicare della sua sola effica-
cia estetica: religione e politica contribuivano al suo
successo almeno quanto l’arte. Il suo pubblico poi, limi-
tato ai cittadini di pieno diritto, era piú omogeneo che
non quello del teatro elisabettiano; si aggiunga infine
che le rappresentazioni erano spettacoli solenni, relati-
vamente poco frequenti, cosí che la reale attrazione
della tragedia sulle moltitudini non fu mai veramente
messa alla prova. Il dramma medievale, d’altra parte, se
presentava condizioni sceniche e d’allestimento simili a
quelle del teatro elisabettiano, non dispose di opere
veramente importanti, e quindi il suo favore presso le
masse non costituisce per la sociologia dell’arte un pro-
blema analogo a quello dei drammi di Shakespeare. Per
i quali il vero problema non è che il piú grande poeta del
tempo fosse anche il drammaturgo piú popolare, e che
fra i contemporanei riscotessero il massimo successo
proprio le opere che oggi amiamo di piú76, ma che il giu-
dizio del grosso pubblico fosse questa volta piú giusto
di quello della gente colta ed esperta. La gloria lettera-
ria di Shakespeare raggiunse il culmine verso il 1598 e
cominciò a diminuire proprio quando egli ebbe rag-
giunto la piena maturità; ma anche allora il pubblico del

Storia dell’arte Einaudi 84


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

teatro gli rimase fedele e non gli negò mai quel primato
che già prima gli aveva riconosciuto.
Contro l’opinione che considera quello di Shake-
speare un teatro di massa, si è obiettato che la capacità
delle sale di spettacolo a quell’epoca era relativamente
esigua77. Ma la piccolezza dei teatri – che, d’altronde, era
compensata dalla frequenza quotidiana delle rappresen-
tazioni – non muta nulla al fatto che l’uditorio era com-
posto dai piú diversi ceti della popolazione londinese. I
frequentatori della platea non erano certamente i padro-
ni assoluti del teatro, ma c’erano e non si potevano in
nessun modo trascurare. Inoltre erano abbastanza nume-
rosi. I ceti superiori, se in proporzione al loro numero
complessivo frequentavano molto numerosi il teatro,
erano però sempre in minoranza rispetto ai popolani
che proporzionalmente lo frequentavano meno ma costi-
tuivano pur sempre la stragrande maggioranza della
popolazione. Questa conclusione è autorizzata anche
dai prezzi d’ingresso, stabiliti principalmente in base alle
possibilità dei meno abbienti78. In ogni caso era un pub-
blico assai vario per censo, grado sociale, cultura che
Shakespeare aveva di fronte; vi confluivano i clienti
delle osterie, i colti rappresentanti dell’alta società e i
membri delle classi medie, non specialmente colte, ma
neppure del tutto rozze. E se non era piú il pubblico dei
mimi ambulanti che stipava i teatri della Londra elisa-
bettiana, era ancora il pubblico di un teatro popolare,
proprio nel senso piú ampio che i romantici attribuiva-
no al termine.
Questa coincidenza di qualità e popolarità nel dram-
ma shakespeariano era dovuta a un rapporto intimo e
profondo o piú semplicemente a un malinteso? Sembra,
comunque, che il pubblico gustasse, nei drammi di
Shakespeare, non solo i colpi di scena, l’azione impe-
tuosa e cruenta, gli scherzi grossi e le sonore tirate, ma
anche i particolari poetici piú delicati e profondi; altri-

Storia dell’arte Einaudi 85


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

menti questi non avrebbero potuto occupare tanto spa-


zio. Può darsi benissimo che il pubblico della platea non
sentisse in questi casi che la semplice suggestione delle
voci e dello stato d’animo generale, come può accadere
in un pubblico appassionato e ingenuo. Ma sono que-
stioni oziose, insolubili. Né maggiore senso ha doman-
darsi se Shakespeare si servisse con buona coscienza
artistica o a malincuore di quegli effetti, che apparen-
temente egli usava per amore degli uditori piú umili.
Certo le differenze di cultura fra il pubblico non dove-
vano esser cosí grandi, da dover presumere che solo i piú
rozzi prendessero gusto all’azione violenta e agli scher-
zi a doppio senso. Le diatribe di Shakespeare contro la
platea sono ingannevoli; senza dubbio c’entrava un po’
di affettazione e fors’anche il desiderio di lusingare la
parte piú distinta dell’uditorio79. Neppure la differenza
fra teatri «pubblici» e «privati» sembra che fosse cosí
grande come si credeva un tempo; l’Amleto ebbe suc-
cesso negli uni e negli altri, e alle regole dell’arte classi-
ca era indifferente il pubblico di entrambi80. Comunque,
anche per Shakespeare, quel che noi intendiamo per
coscienza artistica non si deve contrapporre alle esigen-
ze pratiche del suo teatro nel modo reciso con cui fu con-
trapposta spesso dalla vecchia critica81. Shakespeare non
scrive i suoi drammi perché voglia fissare un’esperienza
o risolvere un problema; non è che in lui venga posto
dapprima il tema e in un secondo tempo vengano cer-
cate la forma e le possibilità concrete di esecuzione. Ci
sono prima di tutto le esigenze del teatro ed egli si sfor-
za di soddisfarle. Egli scrive i suoi drammi perché il suo
teatro ne ha bisogno. D’altra parte, nonostante lo stret-
to legame di Shakespeare con la vita del teatro, non si
deve esagerare con la teoria che riassume nel «buon tea-
tro» tutto il suo genio. È vero che i drammi erano anzi-
tutto destinati a un teatro popolare, ma era un teatro
dell’epoca umanistica, in cui si leggeva anche molto. È

Storia dell’arte Einaudi 86


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

stato osservato che per lo piú i drammi shakespeariani


superano di troppo le due ore e mezzo normali per uno
spettacolo perché fossero rappresentati senza tagli
(magari la rappresentazione saltava i passi lirici piú pre-
gevoli?) La ragione di tale lunghezza è evidente: il poeta
non pensava solo alla scena, ma anche alla pubblicazio-
ne in volume82. Errate sono dunque le due concezioni,
sia quella che fa risalire tutta la grandezza di Shake-
speare alle esigenze del mestiere, e all’orientamento
popolare dell’arte sua, sia quella opposta che considera
tutto quel che di trito, di cattivo gusto, di trasandato c’è
nelle sue opere, una concessione fatta alla gran massa del
pubblico.
Certo della grandezza di Shakespeare, come in gene-
re dell’assoluto valore artistico, non si può dare sempli-
cemente una spiegazione sociologica. Ma del fatto che
ai tempi di Shakespeare esistesse un teatro popolare, che
accomunava i piú diversi ceti nel godimento delle stes-
se opere, di questo dobbiamo poterci rendere ragione.
Ai problemi religiosi Shakespeare, come per lo piú i
drammaturghi elisabettiani, è del tutto indifferente. Né
si può parlare per il suo pubblico di un comune senti-
mento sociale. La coscienza dell’unità nazionale comin-
cia appena allora a formarsi e non influisce ancora sulla
cultura. Questo accomunamento dei vari ceti nel teatro
può avvenire solo grazie al dinamismo della vita socia-
le, che mantiene fluide le divisioni di classe e, sebbene
non cancelli affatto la distinzione tra una classe e l’al-
tra, permette che i singoli possano spostarsi da una cate-
goria all’altra. Nell’Inghilterra elisabettiana le singole
classi sociali presentano distinzioni meno nette che nel
resto dell’Occidente; soprattutto le differenze culturali
qui sono minori che, ad esempio, nell’Italia del Rina-
scimento. In Italia l’Umanesimo aveva segnato, tra i
vari ambienti sociali, confini piú decisi che in Inghil-
terra, paese simile per la struttura economica e sociale,

Storia dell’arte Einaudi 87


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ma «piú giovane», e si comprende cosí come nell’Italia


rinascimentale non fosse potuta sorgere alcuna istitu-
zione culturale paragonabile, per generale interesse, al
teatro inglese. Questo risulta da un livellamento senza
esempi fuori dell’Inghilterra. E in questo senso l’analo-
gia, spesso esagerata, fra la scena elisabettiana e il cine-
matografo è realmente istruttiva. Al cinematografo si va
per vedere un film: colti o incolti, si sa quel che ciò signi-
fichi e che cosa ci si debba aspettare. Oggi questo non
accade per il dramma. Ma ai tempi di Elisabetta la gente
andava a teatro, come oggi noi andiamo al cinemato-
grafo; ed era sostanzialmente concorde nelle sue prete-
se di fronte allo spettacolo, per quanto diverse queste
fossero in altri campi. Tale comunanza di criteri tra i
vari ceti nel giudicare ciò che era divertente e commo-
vente rese possibile l’arte di Shakespeare, anche se certo
non la creò; ne determinò il carattere, se non la qualità.
Non solo il contenuto e le tendenze, ma anche la
forma del dramma shakespeariano è legata alla struttu-
ra politica e sociale dell’epoca. Essa nasce dall’espe-
rienza fondamentale del realismo politico, che insegna
come l’idea pura, senza contraffazioni né compromessi,
non sia attuabile in terra: la sua purezza deve essere
sacrificata alla realtà, se non si vuole che questa riman-
ga del tutto estranea all’idea. Certo questo dualismo di
idea e mondo sensibile non è una scoperta d’ora: lo
conoscevano già il Medioevo e l’antichità classica. Forse
all’epos omerico questo contrasto è ancor del tutto estra-
neo, e neppure la tragedia greca dibatte propriamente il
conflitto di questi due mondi. Essa rappresenta piutto-
sto la condizione cui sono costretti i mortali dall’inter-
vento delle potenze divine. La situazione tragica non
nasce dal fatto che l’eroe si senta mosso dal sopranna-
turale, né essa porta a un accostamento al mondo delle
idee, a una piú profonda penetrazione dell’idea stessa.
Le due sfere non si toccano neppure in Platone, che non

Storia dell’arte Einaudi 88


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

solo conosce l’antagonismo fra idea e realtà, ma lo pone


a fondamento del suo sistema. L’idealista d’inclinazio-
ni aristocratiche di fronte alla realtà persiste in una pas-
sività contemplativa e confina l’idea in una lontananza
inaccessibile. Il contrasto fra mondo e oltremondo, fra
esistenza corporea ed esistenza spirituale, fra incom-
piutezza e perfezione dell’essere fu sentito nel Medioe-
vo piú profondamente che in ogni altro tempo; e tutta-
via la coscienza di tale contrasto non generò nell’uomo
medievale alcun tragico dissidio. Il santo rinunzia al
mondo; non cerca di attuare il divino sulla terra, ma di
prepararsi a vivere in Dio. Secondo la dottrina della
Chiesa, compito del mondo non è d’elevarsi all’oltre-
mondano, ma d’esser lo sgabello sotto i piedi di Dio. Per
il Medioevo non ci sono che distanze piú o meno gran-
di da Dio, ma nessun conflitto è possibile con Lui. Da
un tal punto di vista, sarebbe del tutto insensata una
posizione morale che volesse giustificare il contrasto
con l’idea divina e dare ascolto alla voce del mondo
contro la voce del cielo. Cosí si spiega come il Medioe-
vo non abbia tragedia e come anche la tragedia classica
sia fondamentalmente diversa da quel che noi intendia-
mo per dramma a soluzione tragica. Solo l’età del reali-
smo politico scopre la forma di dramma tragico corri-
spondente alla nostra concezione e trasferisce il conflit-
to dall’azione entro l’anima dell’eroe; infatti solo un’e-
poca in grado di comprendere la problematica dell’agi-
re realistico, direttamente ispirato dalla realtà, può attri-
buire un valore morale alla condotta che ottempera alle
esigenze del mondo, anche se contraria all’ideale.
L’anello di congiunzione fra i misteri medievali, privi
di conflitto tragico e di movimento drammatico, e le
nuove tragedie sono le moralités del tardo Medioevo. In
esse si esprime per la prima volta la lotta spirituale che
nel dramma elisabettiano assurge a tragico conflitto di
coscienza83. Shakespeare e i suoi contemporanei arric-

Storia dell’arte Einaudi 89


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

chiscono la rappresentazione di questa lotta con altri


motivi: la fatalità del conflitto, l’assoluta impossibilità
di una soluzione, la vittoria morale dell’eroe soccom-
bente. Questa vittoria diventa possibile soltanto attra-
verso la moderna concezione del destino, distinta dal-
l’antica soprattutto per il fatto che l’eroe consente alla
propria sorte e l’accetta come qualcosa che ha un suo
senso. Tragico, nel senso moderno, diventa infatti un
destino solo se accettato. È innegabile l’affinità spiri-
tuale di quest’idea con il concetto protestante della pre-
destinazione; se anche, come è probabile, non si tratta
di dipendenza diretta, c’è comunque un parallelismo
che illumina nel suo pieno significato il contemporaneo
affermarsi della Riforma e della tragedia moderna.
Nell’età del Rinascimento e del Manierismo si hanno,
nei paesi civili d’Europa, tre forme di teatro piú o meno
indipendenti: 1) la sacra rappresentazione, che si va
esaurendo dappertutto, salvo che in Spagna; 2) il dram-
ma dotto, diffuso per ogni dove con l’Umanesimo, ma
in nessun luogo popolare; 3) il teatro popolare, che dà
luogo a forme diverse, che vanno dalla commedia del-
l’arte al dramma shakespeariano, e che risultano ora piú
ora meno letterarie, ma sempre in qualche modo con-
nesse con il teatro medievale. Il dramma umanistico
porta tre importanti innovazioni: trasforma lo spettacolo
medievale, che era principalmente balletto e pantomima,
in opera essenzialmente letteraria; isola, per aumentare
l’illusione, la scena dallo spazio riservato al pubblico;
infine sintetizza l’azione nello spazio e nel tempo, cioè
sostituisce alla prolissità epica del Medioevo la sintesi
drammatica del Rinascimento84. Di queste innovazioni
Shakespeare accoglie solo la prima, conservando, entro
certi limiti, la continuità fra palcoscenico e platea pro-
pria del Medioevo, l’epica prolissità del dramma reli-
gioso e il dinamismo della vicenda. In questo l’opera sua
è piú conservatrice del dramma umanistico, né trova un

Storia dell’arte Einaudi 90


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vero seguito nel teatro moderno. Sia la tragédie classique,


sia il dramma borghese del Settecento, e il dramma clas-
sico tedesco, come pure il teatro verista dell’Ottocento
– da Scribe e Dumas figlio fino a Ibsen e Shaw – sono
piú affini, almeno formalmente, al dramma umanistico
che al tipo shakespeariano, scarsamente rigoroso nella
struttura e relativamente modesto nell’illusione scenica.
Questo trova nel film l’unico vero erede, anche se il
film, naturalmente, ne mantiene solo in parte i principî
formali, quali la composizione aggiuntiva, l’azione
discontinua, il brusco susseguirsi delle scene, la grande
libertà e varietà nel trattare lo spazio e il tempo; ma
ancor meno che nel dramma si può parlare per il film di
rinunzia all’illusione scenica. La tradizione popolare del
teatro medievale, ancor viva in Shakespeare e nei suoi
contemporanei, è stata distrutta dall’umanesimo, dal
Manierismo e dal Barocco; negli autori piú tardi non ne
sopravvive che un pallido ricordo; quello che la ram-
menta nel cinematografo evidentemente non è un’ere-
dità shakespeariana, ma solo il risultato delle possibilità
di una tecnica in grado di risolvere le difficoltà, su cui
il teatro shakespeariano ingenuamente o crudamente
sorvolava.
Peculiare del teatro di Shakespeare è la stretta ade-
renza alla tradizione popolare, e insieme l’evitare que-
gli aspetti che porteranno poi al dramma borghese. A
differenza di molti suoi contemporanei, non assume a
protagonisti figure borghesi, tratte dalla vita comune, e
neppure è incline al sentimentalismo moraleggiante di
quei drammaturghi. Già Marlowe introduce figure di
protagonisti come Barabas, l’usuraio, e Faustus, il dot-
tore, che nel dramma umanistico avrebbero potuto esse-
re tutt’al piú figure secondarie. Gli eroi di Shakespea-
re, dai modi aristocratici anche quando appartengono
alla borghesia, costituiscono certamente, per la storia
sociale, un regresso, anche in confronto a Marlowe. Già

Storia dell’arte Einaudi 91


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

fra i contemporanei piú giovani di Shakespeare, ci sono


drammaturghi come Thomas Heywood e Thomas
Dekker, che descrivono nell’opera loro il mondo delle
classi medie e ne interpretano la mentalità. Scelgono i
loro eroi fra mercanti e artigiani, dipingono la vita e i
costumi familiari, ricercano effetti melodrammatici e
mirano a ricavare una morale, amano le tinte forti e gli
ambienti crudamente realistici, come bordelli, manico-
mi e cosí via. A Woman Killed with Kindness di
Heywood, è a quei tempi il paradigma della tragedia
amorosa e «borghese»; l’eroe è un gentiluomo che al suo
infortunio coniugale reagisce in maniera niente affatto
eroica né cavalleresca. È un lavoro a tesi, che si imper-
nia sull’adulterio – questione scottante, a quanto pare,
in quel tempo – come ’Tis a Pity She’s a Whore di Ford
che tratta il tema popolare dell’incesto, o The Change-
ling di Middleton che indaga la psicologia del peccato.
In tutti questi drammi, fra cui anche l’anonimo lavoro
a forti tinte Arden of Feversham, è tipicamente «bor-
ghese» l’interesse per il delitto che, per l’uomo ango-
sciosamente attaccato al principio dell’ordine, significa
semplicemente il caos. In Shakespeare misfatto e pec-
cato non assumono mai questa tinta criminale: i suoi
malvagi sono fenomeni della natura e non potrebbero
respirare nell’aria chiusa dei drammi borghesi di
Heywood, Dekker, Middleton e Ford. E tuttavia il
carattere fondamentale dell’arte shakespeariana è asso-
lutamente naturalistico. Non solo nel senso che egli tra-
scura i principî di unità, l’economia e l’ordine del dram-
ma classico, ma anche perché lavora a una continua
espansione e complicazione dei suoi temi. Naturalistico
soprattutto in Shakespeare è il disegno dei caratteri, la
differenziata psicologia delle sue figure e la misura
umana dei suoi eroi, pieni di contraddizioni e debolez-
ze. Si pensi a Lear, vecchio stolido, a Otello, ragazzone
ingenuo, a Coriolano, scolaretto testardo e vanitoso, ad

Storia dell’arte Einaudi 92


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Amleto, debole, asmatico e grasso, a Cesare, epilettico,


sordo da un orecchio, superstizioso, vano, incoerente,
suggestionabile, e pur cosí grande che nessuno può sot-
trarsi alla sua forza. Shakespeare accresce il naturalismo
dei suoi personaggi attraverso quei suoi petits faits vrais
che realizza con una penetrazione da miniaturista, come
la scena del principe Enrico, che dopo la battaglia ordi-
na la birra, o di Coriolano che si asciuga la fronte suda-
ta, o di Troilo che, dopo la prima notte d’amore, dice a
Cressida di guardarsi dall’aria fredda del mattino: «You
will catch cold and curse me» («T’infredderai e mi male-
dirai»).
Il naturalismo shakespeariano tuttavia ha limiti fin
troppo evidenti. Sempre i tratti individuali vi si mesco-
lano con quelli convenzionali, quelli ricercati con altri
ingenui, il lineamento piú raffinato con quello elemen-
tare e crudo. Fra i mezzi espressivi di cui dispone, tal-
volta sceglie oculatamente, conscio del proprio fine, ma
per lo piú agisce senza riflessione né senso critico. Il peg-
gior errore della piú antica esegesi shakespeariana fu di
aver voluto ogni volta ravvisare nei modi del poeta solu-
zioni meditate, accuratamente predisposte e costruite
con sapienza, cercando specialmente di spiegare ogni
tratto di un carattere con intimi motivi psicologici,
quando spesso questi tratti erano semplicemente ripre-
si tali e quali dalle fonti, oppure erano stati scelti solo
perché rappresentavano la soluzione piú semplice, piú
comoda e piú rapida di una difficoltà, che il dramma-
turgo non reputava degna di maggior fatica85. Il con-
venzionalismo della psicologia shakespeariana risalta
soprattutto nell’uso ripetuto di figure stereotipe, tratte
dalla letteratura precedente. Non solo le commedie gio-
vanili conservano i tipi invariabili della commedia clas-
sica e del mimo, ma è noto che la figura di Amleto, appa-
rentemente cosí complicata e originale, è anch’essa una
figura tradizionale, il «melanconico», che era di gran

Storia dell’arte Einaudi 93


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

moda e ricorreva frequentissimo nella letteratura del


tempo. Ma il naturalismo psicologico di Shakespeare
presenta dei limiti anche sotto altri riguardi. Il difetto
di unità e di coerenza nel disegno dei caratteri, i cam-
biamenti senza motivo e le contraddizioni nel loro svi-
luppo, la descrizione e la spiegazione, che i personaggi
fanno di se stessi nel monologo o nel discorso «a parte»,
la mancanza di prospettiva nei giudizi che essi danno su
di sé e sugli antagonisti, i loro commenti, sempre da
prendersi alla lettera, i molti discorsi irrilevanti senza
alcun nesso con il carattere di chi li pronunzia, la disat-
tenzione del poeta che a volte dimentica chi veramente
parli – se Gloster o Lear, anzi se Timone o Lear – e non
di rado fa dire parole che hanno una funzione puramente
lirica, suggestiva e musicale, e spesso ancora parla egli
stesso per bocca dei suoi personaggi: tutte queste sono
infrazioni alle regole di quella psicologia di cui appunto
Shakespeare è il primo grande maestro. Eppure la sua
sagacia e la sua profondità psicologica restano intatte,
pur fra tante sbadataggini. I suoi caratteri – e anche que-
sto lo accomuna a Balzac – hanno una verità interiore
cosí penetrante, una sostanza cosí profonda, che pur
continuano a vivere e a respirare, nonostante le forza-
ture e gli errori del disegno. Ma non c’è violazione della
verità psicologica ricorrente tra gli altri elisabettiani che
non si ritrovi in Shakespeare; egli è incomparabilmente
piú grande di loro, ma non diverso. La sua grandezza
non ha nulla della perfezione irreprensibile dei classici.
Non ha di loro il carattere esemplare, ma neppure l’o-
mogenea unità né la monotonia. Si è sempre sentito e
sottolineato il carattere eccezionale del fenomeno shake-
speariano e il contrasto fra il suo stile drammatico e la
forma classica. A cominciare da Voltaire, anzi da John-
son, si riconobbe che qui era all’opera una selvaggia
forza di natura, indifferente e irriducibile alle regole, che
si esprimeva in una forma drammatica totalmente diver-

Storia dell’arte Einaudi 94


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sa dalla tragedia classica. Chiunque avesse il senso delle


differenze stilistiche vide che qui si trattava di due tipi
di un unico genere; ma non sempre si riconobbe che la
diversità era d’ordine storico e sociologico. La differenza
sociologia si palesa soltanto quando si cerca di spiegar-
si perché delle due forme drammatiche l’una sia invalsa
in Inghilterra e l’altra in Francia, e come la composi-
zione del pubblico abbia determinato là la vittoria del
dramma shakespeariano, qui della tragédie classique.
Fu difficile comprendere il peculiare stile di Shake-
speare, soprattutto perché ci si ostinava a vedere in lui
semplicemente il poeta del Rinascimento inglese. Per
spiegarsi questo equivoco occorre tener presente che
alcuni tratti rinascimentali – individualistici e umanistici
– esistono innegabilmente nell’arte sua, e d’altra parte
nel secolo scorso ogni letteratura nazionale dell’Occi-
dente aveva l’ambizione di vantare un proprio movi-
mento rinascimentale. E chi in Inghilterra avrebbe potu-
to rappresentarlo piú degnamente di Shakespeare, la cui
vitalità indomabile rispondeva benissimo all’idea cor-
rente di Rinascimento? Restava tuttavia da spiegare
l’arbitrio, la dismisura, l’esuberanza dello stile shake-
speariano. Fu per questo oscuro residuo, cosí difficile da
spiegare in quei termini, che, quando circa un cinquan-
tennio fa si sottopose a revisione il concetto di Baroc-
co, e la rivalutazione di quell’arte diede luogo quasi a
una moda, molti aderirono di buon grado all’interpre-
tazione del dramma shakespeariano come fenomeno
barocco86. Se si considerano caratteristiche peculiari del
Barocco pathos, irruenza, esagerazione, è facile eviden-
temente fare di Shakespeare un poeta barocco. Tutta-
via è impossibile istituire un concreto parallelo fra la
maniera di comporre dei grandi secentisti – Bernini,
Rubens, Rembrandt – e quella di Shakespeare. Ad esem-
pio, il riferimento a Shakespeare delle categorie del
Wölfflin – pittoricismo, profondità spaziale, scarsa chia-

Storia dell’arte Einaudi 95


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rezza, forma aperta – o si arresta a generalità insignifi-


canti, o si fonda unicamente sull’equivoco. Natural-
mente l’arte shakespeariana contiene anche elementi
barocchi, come quella di Michelangelo; ma il creatore di
Otello non è un artista barocco, come non lo è l’autore
delle tombe medicee. Sono entrambi casi a sé, in cui ele-
menti del Rinascimento, del Manierismo e del Barocco
si mescolano in un modo tutto particolare; ma in Miche-
langelo predomina il carattere rinascimentale, in Shake-
speare la tendenza manieristica. Già l’indissolubile amal-
gama di verità e convenzione induce a prendere come
punto di partenza il Manierismo per interpretare la
forma shakespeariana. La legittimità di tale procedi-
mento trova conferma anche nel costante miscuglio di
motivi tragici e comici, nella natura composita dei tropi,
e nello stridente contrasto fra concreto e astratto, fra
elementi sensuali e intellettuali che la sua lingua pre-
senta. E altre conferme si possono trovare nella ridon-
danza spesso forzata della composizione, come ad esem-
pio la ripetizione del motivo dell’ingratitudine filiale
nel Lear, nell’accentuazione dell’aspetto illogico, imper-
scrutabile, insensato della vita, nell’idea dell’esistenza
umana come finzione teatrale, sogno, stato di costrizio-
ne e inibizione. Manieristico, e comprensibile solo se
visto attraverso quel gusto, è l’artificio, il lezio, l’affet-
tazione, la smania di originalità della lingua di Shake-
speare. Manieristico è il suo «eufuismo», la metafora
spesso sovraccarica e confusa, l’accumularsi delle anti-
tesi, delle assonanze e dei giochi di parole, la predile-
zione per lo stile complicato, strano, enigmatico. Manie-
ristico è quell’elemento stravagante, bizzarro, parados-
sale, da cui nessun’opera di Shakespeare è del tutto
immune: e ne sono esempi il gioco erotico che nasce
nelle commedie dal travestimento maschile delle fan-
ciulle, l’amante dalla testa d’asino nel Sogno d’una notte
di mezza estate, la figura di un negro come protagonista

Storia dell’arte Einaudi 96


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

in Otello, l’arcigno personaggio di Malvolio ne La dodi-


cesima notte, le streghe e la foresta in marcia del Mac-
beth, le scene di pazzia in Lear e in Amleto, il sinistro
tono da Giudizio Universale in Timone di Atene, la sta-
tua parlante nel Racconto d’inverno, il mondo magico
nella Tempesta, e cosí via. Tutto ciò fa parte dello stile
shakespeariano, sebbene non esaurisca affatto l’arte del
poeta.

1
bellori, Vita dei pittori ecc., 1672; cfr. w. weisbach, Der Manie-
rismus, in «Zeitschrift für bildende Kunst», 1918-19, vol. LIV, pp.
162-63.
2
r. borghini, Il Riposo, 1584; Cfr. a. blunt, Artistic Theory in Italy
cit., p. 154.
3
w. pinder, Zur Physiognomik des Manierismus, in Die Wissenschaft
am Scheidewege. Ludwig-Klages-Festschrift, 1932, p. 149.
4
m. DVO¤ÁK, Über Greco und den Manierismus, in Kunstgeschichte
als Geistesgeschichte, 1924, p. 271.
5
id., Pieter Bruegel der Ältere, ibid., p. 222.
6
w. pinder, Das Problem der Generation cit., p. 140; id., Die deut-
sche Plastik vom ausgebenden Mittelalter bis zum Ende der Renaissance,
II, 1928, p. 252.
7
Ciò accade soprattutto per w. weisbach, Der Manierismus cit., p.
162, e margarete hörner, Der Manierismus als künstliche Anschauung-
sform, in «Zeitschrift für Ästhetik», vol. XXII, 1926, p. 200.
8
ernest lavisse, Histoire de France, V, 1, 1903, p. 208.
9
ludwig pfandl, Spanische Kultur und Sitte des XVI. und XVII.
Jahrhunderts, 1924, p. 5.
10
l. brieger, Die Grossen Kunstsammler cit., pp. 109-10.
11
h. dollmayr, Raffaels Werkstätte cit., p. 363.
12
h. a. l. fisher, A History of Europe, 1936, p. 525 [trad. it., Sto-
ria d’Europa, Bari 1938].
13
Cfr. benedetto croce, La Spagna nella vita italiana del Rinasci-
mento, 1917, p. 241.
14
richard ehrenberg, Das Zeitalter der Fugger, 1896, I, p. 415.
15
franz oppenheimer, The State, 1923, pp. 244-45.
16
Cfr. w. cunningham, Western Civilisation in its Economic Aspects.
Mediaeval and Modern Times, 1900, p. 174.
17
r. ehrenberg, Das Zeitalter der Fugger cit., II, p. 320.

Storia dell’arte Einaudi 97


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

18
henri sée, Les origines du capitalisme moderne, 1926, pagine 38-39.
19
f. von bezold, Staat und Gesellschaft des Reformationszeitalters,
in Staat und Gesellschaft der neuern Zeit - Die Kultur der Gegenwart, II,
5/4 1908, p. 91.
20
e. belfort bax, The Social Side of the German Reformation, II,
The Peasant War in Germany 1525-26, 1899, pp. 275 sgg.
21
friedrich engels, Der deutsche Bauernkrieg, passim.
22
walter friedländer, Die Entstehung des antiklassischen Stils in der
italienischen Malerei um 1520, in «Repertorium für Kunstwissen-
schaft», vol. XLVI, 1925, p. 58,
23
georg simmel, Michelangelo, in Philosophische Kultur, 1919, 2a
ed., p. 159.
24
Cfr. nikolaus pevsner, Gegenreformation und Manierismus in
«Repertorium für Kunstwissenschaft», vol. XLVI, 1925, p. 248.
25
machiavelli, Il Principe, cap. xviii.
26
Cfr. pasquale villari, Machiavelli e i suoi tempi, III, 1914, p. 374.
27
albert ehrhard, Katholisches Christentum und Kirche West-Euro-
pas in der Neuzeit, in Geschichte der christlichen Religionen Kultur der
Gegenwart, I, 4/1, 1909, 2a ed., p. 313.
28
g. p. lomazzo, Idea del tempio della pittura, 1590, cap. VIII, 184,
p. 263.
29
charles dejob, De l’influence du Concile de Trente, 1884.
30
r. v. laurence, The Church and the Reformation, in Cambridge
Modern History, II, 1903, p. 685.
31
émile mâle, L’Art religieux après le Concile de Trente, 1932, p. 2.
32
j. schlosser, Die Kunstliteratur cit, p. 383.
33
eugène müntz, Le Protestantisme et l’art, in «Revue des Revues»,
1900, marzo, pp. 481-82.
34
Ibid., p. 486.
35
gustave gruyer, Les Illustrations des écrits de Jérôme Savonarola
publiés in Italie au XVe et XVIe siècle et les paroles du Savonarola sur l’art,
1879; josef schnitzer, Savonarola, II, 1924, pp. 809 sgg.
36
w. weisbach, Der Barock als Kunst der Gegenreformation, 1921;
n. pevsner, Gegenreformation und Manierismus cit.
37
fritz goldschmidt, Pontormo, Rosso und Bronzino, 1911, p. 13.
38
Da una lettera del pittore Giulio Clovio. Cft. h. kehrer, Kunst-
schronik vol. XXXIV, 1923, p. 784.
39
e. panofsky, Idea. Ein Beitrag zur Begriffsgeschichte der älteren Kun-
stheorie, 1924 [trad. it., Idea, contributo alla storia dell’estetica, Firenze
1952], p. 45.
40
g. p. lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, scultura et architet-
tura, 1584; id., Idea del tempio della pittura cit., 1590.
41
federico zuccari, L’idea de’ pittori scultori e architetti, 1607.
42
e. panofsky, Idea cit., p. 49.

Storia dell’arte Einaudi 98


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

43
giordano bruno, Eroici furori, in Opere italiane, ed. Paolo de
Lagarde, 1888, 1, p. 625.
44
n. pevsner, Academies of Art, 1940, p. 13.
45
Ibid., pp. 47-48.
46
Cfr. a. dresdner, Die Entstehung ecc. cit., p. 96.
47
n. pevsnex, Academies of Arts cit., p. 66.
48
j. schlosser, Die Kunstliteratur cit., p. 338; a. dresdner, Die Ent-
stehung ecc. cit., p. 98.
49
oswald spengler, Der Untergang des Abendlandes, I, 1918, pp.
262-63.
50
pomponius gauricus, De scultura, 1504; citato da e. panofsky,
Perspektive cit., p. 280.
51
w. pinder, Zur Physiognomik des Manierismus cit.
52
Cfr. e. von bercken - a. l. mayer, Tintoretto, 1923, I, p. 7.
53
l. pfandl, Spanische Kultur ecc. cit., p. 137.
54
o. grautoff, Spanien, in pevsner - grautoff, Barockmalerei in den
romanischen Ländern, in Handbuch der Kunstwissenschaft, 1928, p. 223.
55
gustav glück, Bruegel und der Ursprung seiner Kunst, in Aus drei
Jahrhunderten europäischer Malerei, 1933, p. 154.
56
Ibid., p. 163.
57
Cfr. c. de tolnay, P. Bruegel l’Ancien, 1935, p. 42.
58
Max DvoŇk e Wilhelm Pinder hanno accennato al carattere
manieristico delle opere di Shakespeare e di Cervantes, senza però
approfondirne l’analisi.
59
j. f. kelly, Cervantes und Shakespeare, 1916, p. 20.
60
miguel de unamuno, Vida de Don Quijote y Sancho, 1914.
61
w. p. ker, Collected Essays, 1925, II, p. 38.
62
w. cunningham, The Growth of English Industry and Commerce
in Modern Times: The Mercantile System, 1921, p. 98.
63
e. m. w. tillyard, The Elizabethan World Picture, 1943, p. 12.
64
t. a. jackson, Marx and Shakespeare, in «International Literatu-
re», 1936, n. 2, p. 91.
65
Cfr. a. a. smirnov, Shakespeare. A Marxist Interpretation, in Cri-
tics Group Series, 1937, pp. 59-60.
66
sergei dinamov, King Lear, in «International Literature», 1935,
n. 6, p. 61.
67
Cfr. wyndham lewis, The Lion and the Fox, 1927, p. 237.
68
max j. wolff, Shakespeare, 1908, 11, pp. 56-58.
69
Cfr. john palmer, Political Characters of Shakespeare, 1945, p. viii.
70
phoebe sheavyn, The Literary Profession in the Elizabethan Age,
1909, p. 160.
71
david daiches, Literature and Society, 1938, p. 90.
72
j. r. green, A Short History of the English People, 1936, p. 400.
73
e. k. chambers, The Elizabethan Stage, 1923.

Storia dell’arte Einaudi 99


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

74
c. j. sisson, The Theatres and Companies, in A Companion to
Shakespeare Studies, ed. di H. Granville-Barker e G. B. Harrison, 1944,
p. 11.
75
p. sheawn, The Literary Profession ecc. cit., pp. 10-12, 21-22, 29.
76
alfred harbage, Shakespeare’s Audience, 1941, p. 136.
77
j. dover wilson, The Essential Shakespeare, 1943, p. 30.
78
a. harbage, Shakespeare’s Audience cit., p. 90.
79
c. j. sisson, The Theatres and Companies ecc. cit., p. 39.
80
h. j. c. grierson, Cross Currents in English Literature of the 17th
Century, 1929, p. 173; a. c. bradley, Shakespeare’s Theatre and Audien-
ce, 1909, p. 364.
81
Cfr. robert bridges, On the Influence of the Audience, in The
Works of Shakespeare, Shakespeare Head Press, vol. X, 1907.
82
l. l. schücking, Die Charakterprobleme bei Shakespeare, 1932, 3a
ed., p. 13.
83
Cfr. allardyce nicoll, British Drama, 1945, 3 ed., p. 42.
84
Cfr. hennig brinkmann, Anfänge des modernen Dramas in Deut-
schland, 1933, p. 24.
85
Cfr. l. l. schücking, Die Charakterprobleme bei Shakespeare, pas-
sim; e. e. stoll, Art and Artifice in Shakespeare, 1934.
86
o. walzel, Shakespeares dramatische Baukunst, in «Jahrbuch der
Deutschen Shakespeare-Gesellschaft», vol. LII, 1916; l. l. schücking,
The Baroque Character of the Elizabethan Hero, in The Annual Shake-
speare Lecture, 1938; wilhelm michels, Barockstil in Shakespeare und
Calderón, in «Revue Hispanique», 1929, LXXV, pp. 370-458.

Storia dell’arte Einaudi 100


il barocco

Capitolo primo

Il concetto di Barocco

La visione del mondo che si esprime nel Manierismo


è in sé essenzialmente disarmonica, ma ugualmente dif-
fusa in tutto l’Occidente; quella del Barocco invece è piú
omogenea in sé, ma svolgendosi nelle diverse regioni di
civiltà europea si diversifica profondamente. Come il
Gotico, il Manierismo era un generale fenomeno euro-
peo, sia pure limitato a sfere piú ristrette rispetto all’ar-
te cristiana medievale; il Barocco invece comprende in
sé tendenze artistiche cosí divergenti, cosí variamente
configurate nei singoli paesi e nelle singole sfere cultu-
rali, che si dubita di poterle ridurre a un denominatore
comune. Non solo il Barocco delle corti e della Chiesa
cattolica è completamente diverso da quello delle città
borghesi e protestanti, non solo l’arte di un Bernini e di
un Rubens rappresenta un mondo tanto diverso, per spi-
riti e forme, da quello di un Rembrandt e di un van
Goyen, ma all’interno di queste due grandi correnti sti-
listiche si affermano altre distinzioni non meno rile-
vanti. La piú importante è quella che nell’ambito del
Barocco aulico-cattolico enuclea una corrente sensuali-
stica, monumentale, decorativa, «barocca» nel senso
corrente e uno stile «classico» piú severo e formalmen-
te piú rigoroso. Nel Barocco fin da principio è presente
la tendenza «classicistica», accertabile come sotto-cor-

Storia dell’arte Einaudi 4


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rente in tutte le particolari forme nazionali; ma solo


intorno al 166o in Francia, in particolari condizioni
sociali e politiche, essa prende il sopravvento. Accanto
alle due forme basilari del Barocco di Chiesa e di corte,
si riscontra nei paesi cattolici una corrente veristica, nei
primi tempi autonoma; la rappresentano soprattutto il
Caravaggio, Louis Le Nain e Ribera, ma piú tardi ne
sarà permeata la pittura dei migliori. Essa finirà col pre-
valere in Olanda, cosí come il classicismo prevarrà in
Francia; in entrambe queste correnti si esprimono nel
modo piú schietto le premesse sociali dell’arte barocca.
Dall’arte gotica in poi, la fisionomia di ogni epoca
artistica si fa sempre piú complicata: i contrasti spirituali
si fanno sempre maggiori e correlativamente tanto piú
eterogenei risultano i vari elementi dell’arte. Ma ante-
riormente all’età barocca si poteva sempre affermare
che l’arte tendeva fondamentalmente al verismo o inve-
ce all’idealizzazione, alla sintesi oppure all’analisi, al
classicismo o all’anticlassicismo; ora invece non c’è uno
stile omogeneo in senso stretto, ma l’arte è a un tempo
veristica e classicheggiante, analitica e sintetica. Assi-
stiamo al contemporaneo fiorire di tendenze del tutto
contrastanti, vediamo in campi opposti Caravaggio e
Poussin, Rubens e Hals, Rembrandt e van Dyck.
Solo da poco il nome di Barocco si è esteso a tutta
l’arte del Seicento. Nel secolo xviii, quando si comin-
ciò a delinearne il concetto, esso si riferiva esclusiva-
mente a quelle manifestazioni dell’arte che all’estetica
classicheggiante di allora apparivano eccessive, confuse,
bizzarre1. Il classicismo non rientrava in questo concet-
to, che proprio cosí inteso conservò validità sin quasi alla
fine dell’Ottocento. E non soltanto la posizione teorica
di Winckelmann, di Lessing e di Goethe, ma, in fondo,
anche quella di Burckhardt si fonda ancora sulla conce-
zione classicistica; tutti respingono il Barocco, perché

Storia dell’arte Einaudi 5


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

«irregolare», «arbitrario», e lo fanno in nome di un’e-


stetica che conta fra i suoi modelli proprio un artista
barocco, quale Poussin. Burckhardt e i piú recenti puri-
sti – Croce, ad esempio – incapaci di svincolarsi dalle
strettoie del razionalismo settecentesco, nel Barocco rie-
scono a vedere soltanto i caratteri illogici e gli elemen-
ti strutturalmente irrazionali come le colonne e i pilastri
che non sostengono nulla, o gli architravi e le pareti che
si curvano e si torcono come se fossero di cartone; nei
dipinti, l’artificiosa illuminazione, le figure atteggiate
come sulla scena; nelle sculture, il loro carattere illusio-
nistico, quegli effetti di superficie propri della pittura e
che – si afferma – dovrebbero esserle riservati. Eppure
a chiarire il senso e il valore di tali opere potrebbe basta-
re l’esperienza dell’arte di un Rodin. Ma per lo piú le
riserve di fronte al Barocco coinvolgono anche l’im-
pressionismo, e se Croce tuona contro il «cattivo gusto»
del Seicento2, sostiene nel contempo pregiudizi accade-
mici antiquati.
La revisione e la rivalutazione dell’arte barocca, nel
senso odierno del termine, opera essenzialmente del
Wölfflin e del Riegl, sarebbe inconcepibile senza l’assi-
milazione dell’impressionismo. Anzitutto le categorie
istituite dal Wölfflin per il Barocco non sono altro che
un’estensione delle idee dell’impressionismo all’arte
secentesca – o meglio a una parte sola di essa, poiché
anche Wölfflin può giungere a una definizione univoca
del Barocco solo a prezzo di trascurare sostanzialmente
il classicismo secentesco. Naturalmente, in conseguen-
za di questa esclusione risalta molto piú vivamente il
Barocco non classicheggiante. Ed è per questo che l’ar-
te del Seicento appare in Wölfflin quasi esclusivamen-
te come l’antitesi dialettica dell’arte cinquecentesca, e
non come la sua prosecuzione. Wölfflin sottovaluta l’im-
portanza degli elementi soggettivi nel Rinascimento e li

Storia dell’arte Einaudi 6


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sopravvaluta invece nell’età barocca. Egli ritrova nel-


l’arte del Seicento l’inizio della tendenza impressioni-
stica, «il piú importante mutamento di rotta nella sto-
ria dell’arte»3; ma non si accorge che il soggettivizzarsi
di tutta la visione artistica, il trasformarsi dell’immagi-
ne da «tattile» in «visiva», lo spostarsi dell’attenzione
dall’essere all’apparenza, il nuovo concepire il mondo
come impressione ed esperienza, la funzione primaria
assunta dall’aspetto soggettivo, l’accentuazione del
carattere transitorio insito in ogni impressione ottica,
sono tutti fenomeni che, se nell’arte barocca trovano la
loro conclusione, vengono però largamente preparati dal
Rinascimento e dal Manierismo. Wölfflin, a cui non
interessano le premesse extra-artistiche di questa con-
cezione dinamica del mondo, e per cui tutto il decorso
della storia dell’arte è una funzione chiusa in sé, quasi
logica, trascura, insieme con le determinazioni sociolo-
giche, la vera origine del nuovo stile. Infatti, se è pur
vero in generale che una scoperta – come, ad esempio,
quella della ruota che, girando, perde, nell’impressione
soggettiva di chi guarda, i suoi raggi – implica per il Sei-
cento una diversa immagine del mondo, non si deve tut-
tavia dimenticare che l’avvio a questa e a simili scoper-
te, con la dissoluzione del simbolismo e la sostituzione
ad esso di una immagine sempre piú schiettamente visi-
va della realtà, risale all’età gotica ed è da collegare con
la vittoria del pensiero nominalistico sul «realismo».
Wölfflin sviluppa il suo sistema valendosi di cinque
coppie di concetti, in ognuna delle quali un carattere del
Rinascimento viene contrapposto a uno del barocco e
tutte, ad eccezione di una, indicano l’evolversi da una
concezione artistica piú rigida a una piú libera. Queste
categorie sono: 1) Lineare e pittorico; 2) Visione in
superficie e visione in profondità; 3) Forma chiusa e
forma aperta; 4) Chiarezza assoluta e chiarezza relativa;

Storia dell’arte Einaudi 7


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

5) Molteplicità e unità. Per il Wölfflin essenziale del


Barocco è l’aspirazione al «pittorico», cioè il risolversi
della salda forma plastica e lineare in un’immagine
mossa, fluttuante, inafferrabile; il cancellarsi dei limiti
e dei contorni per suscitare l’impressione dello sconfi-
nato, dell’immenso, dell’infinito; il mutarsi dell’essere
statico, rigido, obiettivo in un divenire, una funzione,
un reciproco influsso tra soggetto e oggetto. La tenden-
za ad abbandonare la superficie per la profondità espri-
me lo stesso dinamismo, la stessa opposizione a ogni
stasi, a ogni cosa definitivamente stabilita entro saldi
confini, per cui lo spazio si concepisce come un proces-
so, un divenire, una funzione. Il mezzo che l’arte baroc-
ca preferisce per conseguire i suoi effetti di profondità
spaziale è l’uso di enormi primi piani, di figure portate
vicinissime a chi guarda, en repoussoir, e della brusca
riduzione prospettica degli elementi di sfondo. Cosí lo
spazio non solo acquista una intrinseca mobilità, ma chi
guarda, grazie al punto di vista straordinariamente rav-
vicinato, sente la spazialità del quadro come una forma
di esistenza sua propria, che dipenda e sia creata da lui.
L’inclinazione del Barocco a sostituire il relativo all’as-
soluto, la libertà al rigore, si rivela tuttavia piú forte che
mai nella predilezione per la forma «aperta», struttu-
ralmente irrazionale. La rappresentazione concepita
secondo la composizione chiusa, «classica», rimane una
realtà in sé definita, in cui tutti gli elementi sono con-
catenati e si richiamano l’un l’altro, e non v’è eccesso o
difetto in quell’insieme.
Le composizioni dell’arte barocca, invece, paiono
sempre piú o meno incompiute e sconnesse; sembra che
possano proseguirsi in ogni senso e che sempre rinviino
a qualcosa che sta oltre di loro. Solidità e durevolezza
vacillano; la stabilità che si esprime con le orizzontali e
le verticali, l’idea di equilibrio e di simmetria, il princi-

Storia dell’arte Einaudi 8


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pio delle superfici piene e dell’adattamento alla cornice


perdono ogni valore; una parte della composizione è
sempre piú accentuata dell’altra; invece delle vedute
«schiette» di fronte e di profilo, l’occhio incontra sem-
pre visuali apparentemente fortuite, improvvisate ed
effimere. «In ultima istanza, – dice Wölfflin, – si tende
a mostrar la pittura non come un pezzo di mondo per
sé stante, ma come uno spettacolo transitorio, al quale
chi guarda ha la fortuna di partecipare proprio per un
istante... Si tratta di far apparire tutto il quadro come
non voluto»4 .
L’intento dell’arte barocca è, in altre parole, «cine-
matografico»; le scene sembrano colte di sorpresa e spia-
te, ogni segno che possa tradire una considerazione per
il pubblico si cancella, pare che tutto si presenti a caso.
Con questa apparenza d’improvvisazione si riconnette
anche la relativa mancanza di chiarezza. Le torsioni fre-
quenti e spesso violente, l’eccessivo ridursi delle pro-
porzioni nella fuga prospettica, l’indifferenza alle linee
direttrici date dalla cornice, le discontinuità della mate-
ria pittorica e l’ineguale trattazione dei temi, non sono
che mezzi per render piú difficile una lucida visione
della scena. Senza dubbio la crescente antipatia per
tutto quel che è troppo chiaro ed evidente è in parte il
naturale frutto dell’evoluzione che nello sviluppo inin-
terrotto di una cultura artistica porta dal semplice al
complicato, dal chiaro al meno chiaro, dal palese al vela-
to e all’occulto. Ogni pubblico progredito per cultura,
gusto, esigenze, aspira a un’arte piú eccitante. Ma accan-
to allo stimolo della novità, della difficoltà, della com-
plicazione si rivela qui anzitutto lo sforzo di suscitare
negli animi il senso dell’inesauribile, dell’inafferrabile,
dell’infinito; ed è una tendenza che domina tutta l’arte
barocca.

Storia dell’arte Einaudi 9


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Tutti questi elementi attestano, in contrasto con l’ar-


te classica, un fondamentale desiderio di libertà, un
impulso verso l’infinito e l’arbitrario; uno solo dei carat-
teri stilistici discussi dal Wölfflin – l’aspirazione all’u-
nità – rivela un’accresciuta volontà di sintesi e quindi di
un piú severo criterio compositivo. Se, come pensa
Wölfflin, una chiara logica governasse il corso dell’evo-
luzione, al gusto del pittorico e della profondità spazia-
le, all’assenza di struttura e alla nebulosità dovrebbe
associarsi una tendenza a moltiplicare, accumulare e
coordinare i motivi; nella realtà invece quasi sempre le
opere barocche rivelano un intento di sintesi e di subor-
dinazione. In ciò – e Wölfflin non si cura di notarlo –
il Barocco è la prosecuzione, non già la negazione del
classicismo rinascimentale. Sin dal Quattrocento si era
manifestata una tendenza alla sintesi e alla subordina-
zione, in contrasto al modo aggiuntivo della composi-
zione medievale; il razionalismo del tempo si era espres-
so in arte nella concezione unitaria e nell’impostazione
coerente delle opere. Secondo l’opinione predominante,
l’opera poteva riuscire suggestiva solo se lo spettatore di
fronte ad essa poteva conservare inalterato il suo punto
di vista e specialmente il suo criterio della verità natu-
rale. Ma la sintesi artistica del Rinascimento si limitava
alla coerenza logica dell’insieme, e la sua totalità non era
in sostanza che un aggregato, una somma di elementi
singoli, ancora chiaramente riconoscibili. Questa relati-
va autonomia delle parti cessa nell’arte barocca. In una
composizione di Leonardo o di Raffaello si possono
ancora godere gli elementi isolati; in un dipinto di
Rubens o di Rembrandt non c’è particolare che abbia
senso per se stesso. Certo le opere dei maestri barocchi
sono piú ricche e complicate di quelle del Rinascimen-
to, ma sono anche piú sintetiche, di un respiro piú vasto,
profondo, ininterrotto. La sintesi qui non è un risulta-

Storia dell’arte Einaudi 10


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

to, ma l’a priori della creazione artistica; l’autore si acco-


sta al soggetto con una visione sintetica che finisce col
sommergere ogni particolare isolato. Già il Burckhardt
riconosceva come carattere essenziale del Barocco il
fatto che le singole forme perdano il loro proprio signi-
ficato; e Riegl sottolinea ripetutamente quanto sia assur-
do e «brutto», cioè sproporzionato, il particolare nelle
opere di quell’arte. Come nell’architettura essa predili-
ge gli ordini giganti e, a differenza del Rinascimento,
che sottolineava la divisione dei piani con cornici oriz-
zontali, sommerge tale divisione in un’intelaiatura di
pilastri e colonne, cosí in generale tende a subordinare
i particolari al tema dominante, mirando a un unico
effetto. Perciò nel dipinto spesso predomina una sola
diagonale, o un solo colore; nella statua, una sola curva;
nella musica, la voce del solista.
In questo processo di sviluppo dal rigore alla libertà,
dal semplice al complicato, dalla forma chiusa a quella
aperta, Wölfflin vuol riconoscere un fenomeno tipico,
che ricorre sempre uguale nella storia dell’arte. Gli svi-
luppi stilistici dell’arte imperiale romana, del gotico
tardo, del Seicento e dell’impressionismo sono per lui
fenomeni paralleli; a un’arte classica col suo obiettivo
rigore formale seguirebbe ogni volta una specie di Baroc-
co, cioè un sensualismo soggettivo e una dissoluzione piú
o meno radicale della forma. La polarità di queste due
forme stilistiche gli pare senz’altro la formula fonda-
mentale della storia dell’arte. Egli crede che, se mai esi-
sta una legge universale di periodicità, in questo appun-
to la vediamo palesarsi. E da questo ricorrere degli stili
tipici egli deriva la sua tesi che la storia dell’arte sia
governata da un’intima logica, da una sua propria neces-
sità. Il metodo di Wölfflin, che ignora la sociologia,
sfocia in un dogmatismo antistorico e in una costruzio-
ne completamente arbitraria. In realtà il Barocco elle-

Storia dell’arte Einaudi 11


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nistico, quello tardogotico, l’impressionismo e il Baroc-


co vero e proprio hanno dei caratteri comuni solo in
quanto le loro premesse sociali presentano analogie. Ma
se anche nel susseguirsi di classicità e barocchismo fosse
da scorgere una legge universale, non si potrà mai spie-
gare con cause immanenti, cioè puramente formali, per-
ché in un determinato momento l’evoluzione proceda
dal rigore verso la libertà, e non verso un maggior rigo-
re. Non c’è alcun «acme» nell’evoluzione; si raggiunge
una vetta e si compie una svolta quando nella storia i
rapporti generali – sociali, economici e politici – cessa-
no di evolversi in una certa direzione e ne prendono
un’altra. Un mutamento stilistico può essere determi-
nato solo dall’esterno, non da una necessità sua propria.
All’arte classicheggiante dell’età barocca, le categorie
del Wölfflin sono, per lo piú, inapplicabili. Poussin e
Claudio di Lorena non sono «pittorici» e neppure
«nebulosi», né l’arte loro difetta di struttura. Anche l’u-
nità delle loro opere è cosa ben diversa dall’esagerata e
volontaria tensione di un Rubens, dalla sua violenta
imposizione di una forma unitaria. Ma è ancora possi-
bile parlare di unità stilistica per l’arte barocca? Vera-
mente, di un unitario «stile del tempo» che domini tutta
un’epoca non si dovrebbe parlare mai, perché ci sono
sempre tanti stili diversi, quanti sono i gruppi sociali da
cui ci viene la produzione artistica. Persino per epoche
nelle quali la produzione significativa viene da un solo
ceto, e all’infuori di questa non ci è pervenuto altro,
dovremmo domandarci se il tempo non abbia seppellito
o distrutto l’arte di altri gruppi. Ad esempio, sappiamo
che nell’antichità classica, accanto alla grande tragedia,
c’era un mimo popolare, di importanza certo assai mag-
giore di quanto si potrebbe pensare dai frammenti super-
stiti. Anche nel Medioevo l’arte profana e popolare ebbe
certo maggior rilievo di quanto facciano supporre gli

Storia dell’arte Einaudi 12


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

esemplari a noi pervenuti. Dunque, anche in quei tempi


di assoluto predominio di una classe, la produzione arti-
stica non era del tutto omogenea; e molto meno lo era
in un secolo come il decimosettimo, in cui esistevano
ormai vari gruppi culturali, con orientamenti sociali,
economici, religiosi diversissimi e altrettanto diverse
esigenze artistiche. La Curia romana mirava a un’arte
essenzialmente differente da quella della corte di Ver-
sailles, e ciò che tra esse pur c’era di comune non pote-
va certo conciliarsi con le aspirazioni artistiche dell’O-
landa calvinista e borghese. Certi elementi comuni si
possono tuttavia stabilire. Infatti l’evoluzione, se favo-
risce il differenziarsi delle inclinazioni intellettuali, con-
tribuisce sempre anche alla loro integrazione, facilitan-
do il diffondersi dei prodotti della cultura e i reciproci
influssi fra le varie civiltà; inoltre la nuova scienza della
natura e la nuova filosofia d’orientamento scientifico,
creazioni importantissime della cultura secentesca, furo-
no sin dall’inizio patrimonio internazionale; il generale
senso del mondo che vi si espresse esercitò il suo domi-
nio anche su tutti gli aspetti dell’arte contemporanea.
La nuova visione scientifica del mondo prese l’avvio
dalla scoperta di Copernico. La teoria della terra che gira
intorno al sole, sostituendo quella per cui finora l’uni-
verso girava intorno alla terra, mutò definitivamente
l’antica posizione assegnata all’uomo dalla Provvidenza.
Infatti, appena la terra non poté piú considerarsi il cen-
tro dell’universo, anche l’uomo cessò di essere il fine
ultimo della creazione. Ma con la teoria copernicana
non soltanto il cosmo cessò di volgersi intorno alla terra
e all’uomo, ma fu privo di centro, riducendosi a una
somma di parti simili e di ugual valore, la cui unità ripo-
sava esclusivamente sulla validità universale della legge
di natura. Da allora l’universo fu a un tempo infinito e
pure unitario, sistema continuo e cooperante, fondato su

Storia dell’arte Einaudi 13


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

un unico principio, un tutto organico e vitale, un mec-


canismo ordinato ed efficiente: una perfetta orologeria,
per usare le parole del tempo. Con la concezione della
legge naturale immune da eccezioni nacque l’idea di una
nuova necessità, affatto distinta da quella teologica. Ma
cosí veniva scossa non solo la concezione della libera
volontà di Dio, ma anche quella del diritto dell’uomo
alla grazia e della sua partecipazione al soprannaturale
e al divino. L’uomo divenne un fattore piccolo e insi-
gnificante in quel mondo ormai disincantato. Ma la cosa
piú notevole fu che egli da questa mutata situazione
acquistò nuova fiducia in sé e nuovo orgoglio. La con-
sapevolezza di essere in grado d’intendere la vastità, la
possanza dispotica dell’universo, di poterne calcolare le
leggi conquistando in tal modo la natura, divenne fonte
di uno sconfinato orgoglio fino allora ignoto.
Trasformatasi cosí in un mondo omogeneo e continuo
l’antica dualistica realtà cristiana, alla precedente visio-
ne antropocentrica si venne sostituendo la coscienza
cosmica, cioè l’idea di un complesso infinito di attività
includente l’uomo e la ragione ultima della sua esisten-
za. Tale continuità era inconciliabile con l’idea medie-
vale di Dio, di un Dio personale esistente fuori del siste-
ma dell’universo; la concezione immanentistica, che
aveva sostituito il trascendentalismo medievale, ammet-
teva soltanto una potenza divina operante dall’interno.
Come teoria sistematicamente sviluppata era certo cosa
nuova, ma lo stesso panteismo, che ne era la quintes-
senza, come quasi tutti gli elementi di progresso nel
pensiero del Rinascimento e dell’età barocca, risaliva agli
inizi dell’economia monetaria, al tardo Medioevo comu-
nale e borghese e alla vittoria del nominalismo. «Il sor-
gere del moderno panteismo europeo, – afferma Dilthey,
– è opera... della rivoluzione spirituale che segue al gran-
de secolo decimoterzo e occupa quasi trecento anni»5. Al

Storia dell’arte Einaudi 14


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

termine di questa evoluzione il terrore del giudice uni-


versale cede al «brivido metafisico», all’angoscia di
Pascal davanti al «silence éternel des espaces infinis»,
allo stupore per il lungo, ininterrotto respiro dell’uni-
verso.
Questo brivido, l’eco degli spazi infiniti, l’intima
unità dell’essere pervadono tutta l’arte barocca. E sim-
bolo dell’universo diventa l’opera d’arte nella sua tota-
lità, in quanto organismo coerente, vivo in ogni sua
parte. Ognuna infatti, come i corpi celesti, rimanda a
un’infinita, ininterrotta concatenazione; ognuna con-
tiene la legge del tutto, in ognuna agisce la stessa forza,
lo stesso spirito. Le repentine diagonali, gli improvvisi
scorci prospettici, gli effetti di luce accentuati, tutto
esprime una possente, insaziabile brama d’infinito. Ogni
linea conduce l’occhio lontano, ogni forma in movi-
mento pare che voglia sorpassare se stessa, ogni motivo
rivela una tensione, uno sforzo, come se l’artista non
fosse mai del tutto sicuro di riuscire veramente a espri-
mere l’infinito. Anche dietro la calma del pittore di
genere olandese si sente il turbamento dell’infinito, la
continua minaccia all’armonia del finito. Senza dubbio
è questo un carattere costante: ma basta, perché si possa
parlare di unità di stile nel Barocco? Non è ugualmen-
te vano definire il Barocco con questa aspirazione all’in-
finito, come voler derivare l’arte gotica soltanto dallo
spiritualismo del Medioevo?

Storia dell’arte Einaudi 15


Capitolo secondo

Il Barocco delle corti cattoliche

Verso la fine del Cinquecento nella storia dell’arte


italiana si verifica una svolta sorprendente; il freddo,
complicato, intellettualistico Manierismo cede il posto
a uno stile sensuale, fortemente affettivo, universal-
mente comprensibile: il Barocco. Cosí, contro l’esclusi-
vismo aristocratico del periodo precedente reagiscono,
a un tempo, una concezione artistica sostanzialmente
popolare e il nuovo atteggiamento dei ceti colti domi-
nanti, piú solleciti ora delle grandi masse. Il Caravaggio,
pittore della realtà, e i Carracci, pittori del sentimento,
rappresentano le due tendenze. In entrambe ci si muove
su un piano di cultura meno elevato rispetto a quello,
assai alto, del Manierismo. Anche la scuola dei Carrac-
ci infatti imita dai grandi maestri del Rinascimento quel
che è relativamente semplice, e vuol esprimere pensieri
e sentimenti generalmente poco complicati. Dei tre Car-
racci, solo Agostino può dirsi veramente «colto»; quan-
to al Caravaggio, è il tipico bohémien ostile alla cultu-
ra, alieno da ogni speculazione e da ogni teoria.
L’importanza storica dei Carracci è grandissima; da
loro inizia tutta la moderna «arte sacra». Essi trasfor-
mano il difficile, involuto simbolismo dei manieristi in
quelle semplici e chiare allegorie da cui discende il
moderno quadro di devozione, con i suoi simboli e le sue

Storia dell’arte Einaudi 16


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

formule costanti: la croce, la gloria, il giglio, il teschio,


lo sguardo celestiale, l’estasi d’amore e di dolore. Solo
ora l’arte sacra si differenzia definitivamente da quella
profana. Nel Rinascimento e nel Medioevo c’erano
ancora innumerevoli forme intermedie fra le opere d’ar-
te a destinazione puramente ecclesiastica e quelle a desti-
nazione profana; lo stile carraccesco determina una divi-
sione fondamentale6. L’iconografia dell’arte cattolica si
fissa e si schematizza: l’Annunciazione, la Natività, il
Battesimo, l’Ascensione, il Calvario, la Samaritana al
pozzo, il «Noli me tangere» e molte altre scene della
Scrittura assumono quella forma che in complesso è tut-
tora di rigore per il quadro sacro. L’arte ecclesiastica
acquista un tono ufficiale perdendo sempre piú ogni
carattere spontaneo, soggettivo; essa è determinata in
misura sempre maggiore dal culto, sempre meno dalla
fede. La Chiesa conosce fin troppo bene il pericolo che
per essa rappresenta lo spirito soggettivo della Riforma;
essa desidera che, come i teologi nei loro scritti, l’arte
nelle sue opere esprima la dottrina ortodossa senza pos-
sibilità di malintesi o di interpretazioni arbitrarie. Di
fronte al pericolo di un’arte libera, una produzione ste-
reotipa le sembra il minor male.
Da principio il successo arrise anche al Caravaggio;
sugli artisti del secolo egli influì fors’anche piú profon-
damente dei Carracci. Ma il suo audace, schietto, aspro
verismo non poteva soddisfare a lungo il gusto degli
illustri committenti ecclesiastici; essi deploravano in lui
la mancanza di quella «grandezza» e «nobiltà» che ai
loro occhi era essenziale per una pittura religiosa; con-
testavano i suoi quadri – senza paragone i migliori che
si dipingessero in Italia in quel tempo – e li rifiutarono
piú volte, perché ne vedevano solo la forma contraria
alle convenzioni, ma non eran capaci di intendere la
profonda religiosità di un maestro che si esprimeva in

Storia dell’arte Einaudi 17


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

un linguaggio veramente popolare. La sfortuna del Cara-


vaggio è tanto piú notevole per il sociologo, perché,
almeno dal Medioevo in poi, egli è forse il primo gran-
de artista che sia messo al bando per la sua originalità;
anzi, provoca l’opposizione dei contemporanei proprio
per quello che costituirà piú tardi la sua gloria. Ma se
veramente il Caravaggio è il primo artista moderno che
sia rifiutato a causa del suo valore, l’età barocca segna
una svolta importante nei rapporti fra arte e pubblico:
segna la fine della «civiltà estetica» che si era aperta con
il Rinascimento, e l’inizio di quella piú rigida divisione
tra forma e contenuto, per cui la perfezione formale non
vale piú a scusare la deviazione ideologica.
Lo spirito aristocratico della Chiesa si tradisce a ogni
passo, nonostante il suo desiderio di un’azione su larghi
strati. Per la propaganda della fede, la Curia vorrebbe
creare un’«arte popolare», però tale carattere vuole limi-
tato alla semplicità delle idee e delle forme; essa desidera
evitare l’immediatezza plebea del linguaggio. I sacri per-
sonaggi debbono parlare ai fedeli nel modo piú efficace
possibile, ma non debbono mai abbassarsi al loro stesso
livello. Le opere d’arte debbono sollecitare, persuadere,
conquidere, ma con linguaggio scelto ed elevato. Per rag-
giungere il fine propagandistico, non sempre l’arte può
evitare un’intonazione piú democratica, o magari ple-
bea; spesso gli effetti sono tanto piú rozzi quanto piú
schietto e profondo è il sentimento religioso da cui l’o-
pera nasce. Ma alla Chiesa non importa tanto l’ap-
profondirsi, quanto il diffondersi della fede. Quanto
piú mondane si fanno le sue mire, tanto piú s’indeboli-
sce nei fedeli il sentimento religioso. Non che l’influsso
della religione si restringa, al contrario: la devozione
prende sempre piú tempo nella vita quotidiana, ma
diventa un’abitudine esteriore e perde il suo carattere
severamente oltremondano7. Sappiamo che Rubens

Storia dell’arte Einaudi 18


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

andava a messa ogni mattina; e Bernini non soltanto


faceva la comunione due volte la settimana, ma ogni
anno, seguendo il precetto di sant’Ignazio, si ritirava
nella solitudine di un chiostro per dedicarsi ad esercizi
spirituali. Ma chi potrà affermare che questi artisti fos-
sero davvero piú religiosi dei loro predecessori?
Con l’arte barocca all’antica fuga dal mondo suben-
tra un atteggiamento di consenso verso la vita: si tratta
anzitutto di un sintomo della stanchezza, che soprav-
viene dopo le lunghe guerre di religione, e della dispo-
sizione al compromesso che succede all’intransigenza
confessionale del periodo tridentino. La Chiesa cessa di
lottare contro le esigenze della realtà storica e cerca di
adattarvisi come può. Essa si fa sempre piú tollerante
con i fedeli, sebbene continui a perseguitare implaca-
bilmente gli «eretici». Ai suoi seguaci concede tutte le
libertà; non solo permette, ma incoraggia l’attenzione
alle cose del mondo, legittimando il gusto degli interes-
si e dei piaceri mondani. Quasi dappertutto essa diven-
ta Chiesa nazionale e strumento dello stato, il che impli-
ca senz’altro una larga subordinazione dei fini religiosi
agli interessi politici. Persino a Roma le considerazioni
religiose debbono cedere di fronte a quelle politiche. Già
Sisto V fa concessioni alla Francia malfida, per limitare
l’onnipotenza dell’ortodossa Spagna; e gli altri papi del-
l’età barocca renderanno sempre piú evidente l’indiriz-
zo profano della politica pontificia.
A Roma tocca ormai lo splendido ruolo non solo di
residenza papale, ma di metropoli del mondo cattolico.
Il carattere pomposo e solenne dell’arte aulica prevale
anche in quella ecclesiastica. Il Manierismo aveva dovu-
to essere severo, ascetico, alieno dal mondo; il Barocco
può seguire una via piú libera e sensuale. La lotta con il
protestantesimo è cessata; la Chiesa cattolica ha rinun-
ziato alle terre perdute e si sente ormai sicura in quelle

Storia dell’arte Einaudi 19


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

che ha conservato. A Roma si apre ora un periodo di


produzione artistica ricchissima, lussureggiante, folle-
mente prodiga. Mai si era visto un tal rigoglio di chiese
e cappelle, soffitti dipinti e pale d’altare, statue di santi
e monumenti funebri, reliquiari ed ex voto. E non sol-
tanto l’arte sacra fiorisce col rifiorire del cattolicesimo.
I papi costruiscono non soltanto splendide chiese, ma
sontuosi palazzi, ville, giardini. E i cardinali nipoti, che
vivono ormai come principi reali, dispiegano un lusso
altrettanto prodigo nelle loro costruzioni. Il cattolicesi-
mo, che ha nel papa e negli alti prelati i suoi rappresen-
tanti, si fa sempre piú ufficiale e aulico, mentre il pro-
testantesimo diventa sempre piú borghese8. Le api aral-
diche dei Barberini si vedono dappertutto nella Roma
barocca, come l’aquila napoleonica nella Parigi imperia-
le. Né i Barberini sono un’eccezione tra le famiglie papa-
li; oltre a loro e agli altrettanti celebri Farnese e Bor-
ghese, i Ludovisi, i Pamphili, i Chigi, i Rospigliosi sono
fra i piú attivi mecenati dell’epoca.
Il pontificato di un Barberini, Urbano VIII, fece di
Roma la città barocca che noi conosciamo. Almeno
durante la prima metà di quel pontificato, Roma domi-
na tutta la vita artistica d’Italia ed è il centro di tutta
l’arte occidentale. Il barocco romano è internazionale,
come lo era stato il gotico francese; assorbe tutte le
forze esistenti e unifica tutte le correnti vive nell’unico
stile che rifletta l’Europa del Seicento. L’arte barocca
s’impone definitivamente a Roma verso il 1620. I
manieristi – in primo luogo Federico Zuccari e il Cava-
lier d’Arpino – continuano a dipingere, ma sono ormai
antiquati, e l’evoluzione storica ha già superato anche il
Caravaggio e i Carracci. I grandi nomi sono ora Pietro
da Cortona, Bernini e Rubens. Essi segnano il passag-
gio a una nuova fase che non ha piú il suo centro in Ita-
lia ma nell’Europa occidentale e settentrionale. L’arte di

Storia dell’arte Einaudi 20


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Pietro da Cortona, il principale frescante del Seicento


romano, ha la sua prosecuzione, oltre i confini d’Italia,
nello stile decorativo, impetuoso ed esuberante, che
abbellisce gli interni dei palazzi di Francia. Ma qui Ber-
nini, benché vi sia accolto come un principe, urta con-
tro la resistenza nazionale, che gli impedisce di esegui-
re il suo progetto per il Louvre. Verso la metà del seco-
lo, il duca di Bouillon chiama Parigi la capitale del
mondo9; ed effettivamente la Francia non solo ha la
direzione politica dell’Europa, ma assume anche la fun-
zione di guida della cultura e del gusto. Mentre scema
l’autorità della Curia e Roma s’impoverisce, il centro
dell’arte si sposta dall’Italia verso il paese che va perfe-
zionando la piú progredita forma politica del tempo, la
monarchia assoluta, e dove la produzione artistica può
disporre di mezzi larghissimi.
La vittoria dell’assolutismo fu in certa misura una
conseguenza delle guerre di religione. Alla fine del Cin-
quecento la Francia era cosí indebolita dai continui mas-
sacri, dalle eterne pestilenze e carestie, che si voleva la
tranquillità e la pace a ogni costo, auspicando la politi-
ca della mano forte, o almeno accettandola. Questa poli-
tica si rivolse soprattutto contro l’antica nobiltà, sem-
pre pronta a cospirare contro la Corona, e di cui biso-
gnava spezzare la resistenza se si voleva governare senza
ostacoli. Invece presso la borghesia – che prospera solo
con la pace interna ed è sempre disposta ad appoggiare
la «politica della mano forte» – l’assolutismo trovò un’a-
desione entusiastica, che il re e il governo seppero anche
ricompensare. Ora piú che mai si largheggiò nella prati-
ca, ormai antica, di concedere ai borghesi patenti di
nobiltà. Questo era sempre stato il premio con cui i prin-
cipi solevano ripagare servigi particolari; ma se il
Medioevo aveva posto un limite a quest’uso, a partire
dal Cinquecento i diplomi di nobiltà si moltiplicarono a

Storia dell’arte Einaudi 21


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dismisura. Francesco I premia con un titolo nobiliare


non solo i servigi militari, ma anche quelli civili, e nelle
patenti di nobiltà trova una fonte di lucro. A poco a
poco l’assunzione a certi uffici implica senz’altro il dirit-
to a un titolo, e nel Seicento si contano già nella Giu-
stizia, nelle Finanze e nell’Amministrazione quattromi-
la uffici che assicurano ai titolari nobiltà ereditaria10.
Cosí un numero sempre maggiore di borghesi entra a far
parte dell’aristocrazia, e la nobiltà di sangue fin dal Sei-
cento rimane in minoranza. Le ininterrotte campagne
militari, le guerre civili, le rivolte hanno in parte ster-
minato in parte rovinato finanziariamente ed esaurito le
vecchie famiglie nobili. Per molti l’unica possibilità di
vita era il posto a corte, dove potevano elemosinare pre-
bende e pensioni. È vero che gran parte dell’antica
nobiltà terriera continuava a vivere sulle proprie terre,
ma per lo piú menava un’esistenza assai meschina. Gli
aristocratici impoveriti non avevano piú mezzi per riac-
quistare la ricchezza, e ad essi il re non voleva neppure
riservare una particolare funzione nello stato11. Lo svi-
luppo degli eserciti permanenti aveva diminuita la loro
importanza militare; gli uffici, per lo piú, erano occupati
da borghesi; e lavorare, cioè darsi all’industria e al com-
mercio, pareva contrario al decoro.
Ma non è semplice il rapporto fra monarchia assolu-
ta e nobiltà. Questa viene perseguitata soltanto se ribel-
le, non per se stessa e, anzi, continua a costituire la spina
dorsale della nazione. I suoi privilegi, tranne quelli pret-
tamente politici, sono mantenuti; e in primo luogo essa
conserva i diritti feudali sui contadini e la completa
immunità fiscale. Dunque l’assolutismo non ha affatto
abolito l’antica gerarchia sociale; pur modificando i rap-
porti delle varie classi con il re, ha lasciato immutati
quelli delle classi fra di loro12. Il re continua a sentirsi
parte della nobiltà e gli piace chiamarsi il primo gen-

Storia dell’arte Einaudi 22


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tilhomme del paese. Egli compensa l’aristocrazia del pre-


stigio perduto per l’avvento dei nuovi titolati diffon-
dendo con tutti i mezzi dell’arte e della letteratura uffi-
ciali la leggenda del suo valore, proponendola ad esem-
pio per costumi e intelletto. La distanza fra aristocrazia
e plebe, come fra la nobiltà di sangue e quella patenta-
ta, viene artificiosamente accresciuta e anche piú forte-
mente sentita. Ne deriva una nuova moda degli ideali
aristocratici e una ripresa dell’antica morale cavallere-
sco-romantica. Il vero gentiluomo è ora l’honnête homme
che appartiene all’aristocrazia di sangue e professa gli
ideali cavallereschi. Eroismo e fedeltà, misura e conte-
gno, generosità e cortesia sono le virtú ch’egli deve eser-
citare. E ammantato di esse appare al pubblico il bel
mondo in cui vive il re, con la sua corte. Si finge di cre-
derle realmente valide, spesso ingannando se stesso nella
parte di cavaliere di una nuova Tavola Rotonda. Di qui
la falsità della vita di corte, puro gioco di società, abba-
gliante messinscena. Fedeltà ed eroismo sono i nomi
che la propaganda poetica dà alla soggezione servile,
quando si tratta degli interessi dello stato e della volontà
del monarca. Cortesia sta ad indicare per lo piú il far
buon viso a cattivo gioco, e generosità designa l’atteg-
giamento che assumono i signori per scordare di essere
ormai dei mendicanti. Misura e contegno sono le sole
virtù autentiche che la vita nobiliare e aulica ha susci-
tato. Il gentiluomo, padrone di sé, non ostenta i suoi
sentimenti e le sue passioni; egli si adatta alla norma pre-
scritta dal suo grado, non vuol commuovere o persua-
dere, ma figurare e imporsi. È impersonale, riservato,
freddo e duro, ritiene plebeo ogni esibizionismo, mor-
bosa, irresponsabile e torbida ogni passione. Non ci si
abbandona in presenza altrui, e tanto meno in presenza
del re: questa è la regola fondamentale della morale di
corte. Non ci si confida, si cerca di esser piacevoli e di

Storia dell’arte Einaudi 23


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sostenere nel modo piú perfetto possibile il proprio


ruolo. L’etichetta di corte è retta dagli stessi principî for-
mali, si attiene allo stesso stile, che ispira l’architettura
dei castelli del re e la potatura dei suoi giardini.
Ma come tutte le manifestazioni del barocco france-
se, anche la vita di corte si evolve da una relativa libertà
verso una disciplina sempre piú rigida. La familiarità nei
rapporti fra il re e il suo seguito, ancor cosí caratteristi-
ca della corte di Luigi XIII, scompare sotto i successo-
ri13. L’irruente, ardito gentiluomo di un tempo, diventa
un cortigiano mansueto e ben educato. L’antico quadro
variopinto e mutevole cede il posto a una generale mono-
tonia. Si cancellano le distinzioni fra le singole catego-
rie della nobiltà di corte; non vi sono piú che cortigia-
ni, piccoli tutti e insignificanti di fronte al re. «Les
grands mémes y sont petits» dice La Bruyère. La cultu-
ra barocca risponde sempre piú al carattere autoritario
di una cultura di corte. Si reputa bello, buono, intelli-
gente, raffinato, elegante quel che a corte è definito
come tale. Anche i salotti perdono l’antica importanza,
la corte diventa il foro dove si decide in fatto di gusto.
Qui soprattutto maturano le direttive della grande arte
di cerimonia, qui si forma quella grande manière che con-
ferisce alla realtà un aspetto ideale, splendido, solenne,
e diventa esemplare per l’arte ufficiale di tutta Europa.
La corte di Francia, d’altronde, giunge a imporre al
mondo i suoi costumi, la sua moda e la sua arte sacrifi-
cando il carattere nazionale della cultura francese. Come
un tempo i Romani, i Francesi si sentono cittadini del
mondo e nulla rivela il loro spirito cosmopolita meglio
delle tragedie di Racine, nelle quali – come è stato osser-
vato – non compare un solo francese.
È del tutto errato voler vedere nel classicismo di que-
sta cultura aulica lo «stile nazionale» dei Francesi. In
Italia il classicismo ha una tradizione quasi altrettanto

Storia dell’arte Einaudi 24


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

lunga e ininterrotta. Un barocco esclusivamente sen-


suale, che si esprima solo attraverso motivi fastosi e
d’effetto, non c’è quasi in nessun luogo, nel Seicento;
anzi, dovunque si rivelino tendenze barocche, troviamo
anche un classicismo piú o meno sviluppato. Ma non si
ha neppure il diritto di parlare del grand siècle dei Fran-
cesi come di un’epoca spiritualmente ben definita, uni-
taria nelle sue aspirazioni artistiche; in realtà a divide-
re il secolo in due fasi stilistiche ben distinte sta, come
una netta cesura, l’avvento di Luigi XIV al potere14.
Prima del 1661, sotto il governo di Richelieu e di Maza-
rino, nella vita artistica predomina ancora una tenden-
za relativamente liberale; gli artisti non debbono subi-
re la tutela dello stato, non c’è ancora una produzione
organizzata dal governo, non regole d’arte da questo
sanzionate. Il «gran secolo» non coincide affatto col
tempo di Luigi XIV, come si continuò a credere a lungo
dopo Voltaire. L’opera di Corneille, di Cartesio, di
Pascal era già conclusa prima che morisse Mazarino;
Luigi XIV non vide mai Poussin e Le Sueur; Louis Le
Nain muore nel 1648, Vouet nel 1649. Fra gli autori
importanti del secolo, solo Molière, Racine, La Fontai-
ne, Boileau, Bossuet e La Rochefoucauld possono vera-
mente rappresentare l’epoca di Luigi XIV. Ma quando
il re assume personalmente il potere, La Rochefoucauld
ha quarantotto anni, La Fontaine quaranta, Molière
trentanove e Bossuet trentaquattro; soltanto Racine e
Boileau sono ancora in età da subire un influsso ester-
no. La seconda metà del secolo, pur con i suoi grandi
poeti, non ha la fecondità della prima. Dappertutto, e
nell’arte in modo ancor piú esclusivo che nella poesia, il
tipo generale predomina sulla personalità dell’autore.
Le singole opere d’arte perdono la loro autonomia e si
fondono nell’effetto complessivo di un interno, di un
palazzo, di un castello; piú o meno, non sono che parte

Storia dell’arte Einaudi 25


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di una decorazione monumentale. All’assolutismo poli-


tico a partire dal 1661 corrisponde anche un assolutismo
intellettuale. Non c’è campo della vita pubblica immu-
ne dall’ingerenza dello stato: diritto, amministrazione,
economia, religione, letteratura, arte, tutto soggiace alla
sua regola. La vita artistica ha in Le Brun e Boileau i
suoi legislatori, nelle accademie i suoi tribunali, nel re e
in Colbert i suoi mecenati. Arte e letteratura perdono
il contatto con la vita reale, con le tradizioni del Medioe-
vo e lo spirito dei ceti piú larghi. Il naturalismo è ban-
dito, perché invece della realtà si vuole vedere dapper-
tutto l’immagine di un mondo costruito arbitrariamen-
te e sostenuto a forza, e la forma già prevale sul conte-
nuto perché, come dice Retz, di certe cose non si solle-
va mai il velo15. Molière è l’unico a mantenere il legame
con la poesia popolare del Medioevo, ma parla con
disprezzo del

... fade goût des monuments gothiques,


ces monstres odieux des siècles ignorants16.

La provincia, i centri regionali di cultura perdono la


loro importanza, la Cour et la Ville, la corte e Parigi,
sono la scena di tutta la vita intellettuale di Francia.
Tutto ciò induce a svalutare interamente l’individuo, l’o-
riginalità personale, la libera iniziativa. Il soggettivi-
smo, ancora prevalente all’epoca d’oro del barocco, cioè
all’incirca tra il 1630 e il 1660, cede a una cultura auto-
ritaria uniformemente regolata.
Ora l’estetica del classicismo, come ogni altra espres-
sione della vita e della cultura – prima fra tutte l’eco-
nomia mercantilistica – si adegua ai fini dell’assolutismo.
È anche questa una manifestazione dell’indiscusso pri-
mato della concezione politica di fronte ad ogni altra
attività intellettuale. Le nuove forme sociali ed econo-

Storia dell’arte Einaudi 26


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

miche presentano la stessa tendenza anti-individualisti-


ca, derivata dall’assolutismo. Anche il mercantilismo,
diversamente dalle piú antiche forme di economia di
profitto, si orienta verso l’accentramento statale, non
verso iniziative particolari e cerca di eliminare i centri
regionali dell’industria e del commercio, i Comuni e le
corporazioni; in altre parole cerca di assicurare l’auto-
nomia economica dello stato in luogo delle singole autar-
chie locali. E come i mercantilisti tendono ad annullare
ogni liberalismo e particolarismo economico, cosí i rap-
presentanti del classicismo ufficiale vogliono por fine ad
ogni libertà artistica, ad ogni tentativo di dare al gusto
un’impronta personale, ad ogni soggettivismo nella scel-
ta dei temi e delle forme. Esigono un’arte universale,
cioè un linguaggio formale che in sé non abbia nulla di
arbitrario, bizzarro, peculiare, e corrisponda semplice-
mente agli ideali del classicismo nel senso di stile senza
misteri, chiaro e razionale. Non intendono affatto quan-
to sia limitata questa pretesa universalità, e com’essi
pensino a pochi, quando dicono «tutti» e «ciascuno». Il
loro universalismo è la comunità di una élite, una élite
quale l’ha formata l’assolutismo. E non c’è, nell’esteti-
ca classicistica, regola o esigenza che ad esso non si
conformi. Si vuole che l’arte abbia un carattere unita-
rio, come lo stato; essa deve apparire formalmente per-
fetta, come i movimenti di un reparto militare, esser
chiara e corretta come un decreto, e sottostare a regole
assolute, come la vita di ogni suddito nello stato. Nep-
pur l’artista dev’essere abbandonato a se stesso, anzi
avrà nella legge, nella regola un appoggio e una guida,
per non smarrirsi nella giungla della sua fantasia.
La quintessenza della forma classica è la disciplina, il
limite, il principio dell’accentramento e dell’integrazio-
ne. Di questo principio sono tipica testimonianza le
«unità» del dramma, ormai cosí ovvie per il classicismo

Storia dell’arte Einaudi 27


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

francese, che dopo il 1660 esse vengono, al massimo,


formulate diversamente, ma non mai discusse17. Per il
dramma greco i limiti di spazio e di tempo erano legati
alle possibilità tecniche della scena; e potevano esser
trattati con una certa elasticità, a seconda delle risorse
dei vari teatri. Ma per i Francesi la teoria delle unità rap-
presentava anche una implicita polemica contro la com-
posizione del dramma medievale senza misura né eco-
nomia, in cui gli episodi si accumulavano all’infinito.
Praticandola essi si sentivano non solo discepoli del-
l’antichità classica, ma liberi dalla «barbarie». Anche in
questo campo il Barocco significò la distruzione radica-
le della tradizione culturale del Medioevo. Solo ora
infatti esso finisce davvero, dopo che col Manierismo è
fallito l’ultimo tentativo di rinnovamento. Come casta
militare, l’aristocrazia feudale ha perduto ogni impor-
tanza nello stato; le comunità politiche dei popoli si
sono trasformate in stati assoluti, cioè in moderni stati
nazionali; l’unità del cristianesimo si è scissa in Chiese
e in sette; la filosofia si è svincolata dalla metafisica a
fondamento religioso, per trasformarsi nel «sistema
naturale delle scienze»; l’arte infine ha superato l’o-
biettivismo medievale per esprimere esperienze sogget-
tive. Il carattere innaturale, sforzato e spesso spasmo-
dico che distingue il classicismo moderno dalla classicità
antica e da quella rinascimentale deriva appunto dal
fatto che l’aspirazione al tipico, all’impersonale, all’u-
niversale deve ormai vincere la soggettività dell’artista.
Tutte le leggi e le regole dell’estetica classicheggiante
ricordano i paragrafi di un codice penale; farle rispetta-
re tocca al potere poliziesco delle accademie. La costri-
zione che opprime la vita dell’arte francese vi si rivela
nel modo piú diretto. È loro compito riunire tutte le
forze utilizzabili, reprimere ogni tendenza individuale,
esaltare al massimo l’idea dello stato incarnata nella per-

Storia dell’arte Einaudi 28


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sona del re. Il governo desidera allentare i rapporti per-


sonali fra il pubblico e l’artista, ponendo quest’ultimo
alle dirette dipendenze dello stato. Esso vuol anche met-
ter fine al mecenatismo privato, come all’appoggio di
artisti e scrittori a interessi e aspirazioni private. D’ora
in poi artisti e poeti debbono servire lo stato18 e a que-
sto debbono educarli e costringerli le accademie.
L’Académie royale de peinture et de sculpture, che
inizia la sua attività nel 1648 come libera associazione
senza limiti di numero né gerarchia fra i membri, comin-
cia a trasformarsi a partire dal 1655, quando riceve una
sovvenzione regia, ma specialmente dal 1664, quando
Colbert diventa surintendant des bâtiments, una specie di
ministro delle Belle Arti, e Le Brun premier peintre du
roi e presidente a vita dell’Accademia. Essa diventa un
istituto statale con ordinamento burocratico e direzio-
ne severamente autoritaria. Per Colbert, che in tal modo
pone l’Accademia alle dirette dipendenze del re, l’arte
non è che uno strumento di governo con la funzione par-
ticolare di accrescere il prestigio del monarca, sia fog-
giando un nuovo mito regale, sia accrescendo lo splen-
dore che la corte deve tenere come adeguata cornice
all’autorità regia. Né il re né Colbert s’intendono vera-
mente d’arte o l’amano in modo sincero. Il re non sa
pensarla se non in rapporto con la propria persona. «Io
vi affido la cosa piú preziosa della terra, – egli dice in
un’allocuzione ai principali membri della sua Accademia,
– la mia fama». Egli convoca il suo storiografo Racine,
i suoi pittori di storia e di battaglie, Le Brun e Van Meu-
len, sul teatro delle sue campagne e li conduce perso-
nalmente a visitare il campo, spiegando particolari della
tecnica militare e badando alla loro sicurezza. Ma non
ha alcun’idea di quanto valgano come artisti i suoi favo-
riti. Quando una volta Boileau osserva che Molière è il

Storia dell’arte Einaudi 29


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

piú gran poeta del secolo, egli risponde trasecolato:


«Questo proprio non lo sapevo».
L’Accademia dispone di tutti i benefici che un arti-
sta possa ambire e di tutti i mezzi propri a intimidirlo.
Essa distribuisce gli impieghi statali, gli incarichi pub-
blici e i titoli; ha il monopolio dell’insegnamento e la
possibilità di sorvegliare la carriera di un artista dai
primi inizi fino al suo stabile impiego; conferisce i premi
– anzitutto il prix de Rome – e le pensioni; da essa dipen-
de l’ammissione alle esposizioni e ai concorsi; le opinioni
artistiche ch’essa rappresenta godono speciale conside-
razione agli occhi del pubblico e assicurano una posi-
zione di privilegio all’artista che vi si attiene. Fin dalla
sua fondazione l’Accademia di Belle Arti si dedica all’e-
ducazione degli artisti, ma solo dopo la riforma di Col-
bert gode l’esclusiva dell’insegnamento. Da allora nes-
sun pittore, fuori dell’Accademia, può insegnare pub-
blicamente e tener scuola di figura. Nel 1666 Colbert
fonda l’Académie de Rome e dieci anni piú tardi la incor-
pora nell’Accademia parigina, affidandone la direzione
allo stesso Le Brun. D’ora in poi gli artisti non sono che
creature dello stato; non possono piú sfuggire all’influs-
so di Le Brun. Sotto la sua diretta sorveglianza nel-
l’Accademia parigina, debbono seguirne le direttive
anche a Roma; e, se fan buona prova, il meglio che pos-
sono sperare è un impiego statale alle sue dipendenze.
Il sistema, che assicura l’assoluto predominio dello
stile di corte con le sue regole e le sue limitazioni, oltre
al monopolio dell’educazione artistica comprende anche
l’organizzazione statale della produzione. Colbert fa del
re l’unico importante cliente del paese, allontanando
dal mercato artistico l’aristocrazia e l’alta finanza. L’at-
tività edilizia del re a Versailles, al Louvre, agli Invali-
des, alla chiesa di Val-de-Grâce impegna, si può dire,
tutte le forze disponibili. Che un privato si mettesse a

Storia dell’arte Einaudi 30


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

costruire, come Richelieu e Fouquet, era ormai impos-


sibile anche per motivi tecnici. Colbert, come ha fatto
dell’Accademia il centro dell’educazione artistica, cosí
organizza la manifattura di arazzi, acquistata nel 1662
dalla famiglia Gobelin, e vi concentra tutta la produ-
zione artistica nazionale. Egli riunisce in un lavoro
comune architetti e ornatisti, pittori e scultori, ebanisti
e arazzieri, tessitori di seta e di panno, fonditori di
bronzo e orefici, ceramisti e maestri del vetro. Sempre
sotto la direzione di Le Brun, dopo il 1663 la Manufac-
ture des Gobelins esplica una straordinaria attività. Vi si
fabbricano tutti gli oggetti d’arte per la decorazione dei
castelli e dei giardini reali. Qui Colbert fa eseguire le
opere destinate all’esportazione, e il re quelle per le
corti e alte personalità straniere. E tutto ciò che esce
dalla fabbrica reale è di gusto impeccabile, tecnicamen-
te perfetto, frutto di una incomparabile civiltà artigia-
na. La fusione della tradizione del tardo Medioevo con
l’insegnamento degli Italiani consente di ottenere dal-
l’arte industriale prodotti insuperati nel loro genere, e
sempre di alta qualità, se pur non particolarmente ori-
ginali. D’altra parte anche le opere di pittura e scultura
assumono carattere industriale. Anche pittori e sculto-
ri fanno lavori di pura decorazione, ripetono con molte
variazioni tipi fissi, e trattano con ugual cura l’opera
d’arte vera e propria e la sua cornice, se pur arrivano a
sentirle divise. Il lavoro meccanizzato, a carattere indu-
striale, della manifattura porta a un livellamento, sia
nelle arti applicate, sia in quelle maggiori19. La nuova
tecnica di produzione fa scoprire i valori estetici delle
serie stereotipe, e sottovalutare l’originalità, l’in-
confondibile forma individuale. Tuttavia questa ten-
denza non procede affatto di pari passo con l’evoluzio-
ne tecnica, e piú tardi si torneranno ad apprezzare i valo-
ri individuali, come già accadeva nel Rinascimento; que-

Storia dell’arte Einaudi 31


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sto indica che il carattere impersonale del Louis XIV non


dipende soltanto dall’organizzazione tecnica della fab-
brica, ma vi contribuiscono anche altri motivi. Del resto,
la fabbrica è anche piú antica del meccanicismo secen-
tesco e della sua concezione impersonale dell’arte20.
Quasi tutto ciò che si fabbrica nella Manufacture des
Gobelins nasce sotto il controllo diretto del Le Brun.
Egli stesso disegna gran parte dei cartoni, altri vengono
preparati secondo le sue direttive, ed eseguiti sotto la
sua sorveglianza. Solo qui si forma «l’arte di Versailles»,
creazione essenzialmente di Le Brun. Colbert sapeva
benissimo chi assumeva come uomo di fiducia: comple-
tamente ligio al suo signore, Le Brun dirigeva gli istitu-
ti a lui sottoposti secondo principî autoritari, con dot-
trinaria severità. Era un dogmatico e un fautore del-
l’autorità assoluta, ma anche un uomo straordinaria-
mente esperto e di pieno affidamento in tutte le que-
stioni tecniche. Per vent’anni fu il dittatore dell’arte
francese e creò quell’«accademismo» a cui essa dovette
la sua fama universale. Colbert e Le Brun erano due
nature di pedanti: non si contentarono che la teoria
fosse seguita, vollero vederla fissata in tutte lettere. Nel
1664 s’introdussero nell’uso dell’Accademia le celebri
conférences, la cui pratica fu continuata per dieci anni.
Argomento di queste lezioni era l’analisi di un dipinto
o di una statua, e il conferenziere alla fine riassumeva
la propria disamina nella formulazione di una tesi. Segui-
va una discussione per giungere a una regola generale,
scopo che spesso si raggiungeva solo con una votazione
o un arbitrato. Colbert volle che i risultati di queste con-
ferenze e discussioni, ch’egli chiamava précepts positifs,
venissero «registrati» come le decisioni di una giuria,
per avere in tal modo sottomano un saldo complesso di
norme estetiche. E cosí si costituì di fatto un canone dei
valori artistici che mai erano stati espressi con tanta

Storia dell’arte Einaudi 32


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

chiarezza e rigore. In Italia, invece, la dottrina accade-


mica si mantenne relativamente liberale; non conobbe,
in ogni caso, l’intransigenza che la caratterizzava in
Francia. Si è voluto spiegare questa differenza con il
fatto che l’estetica in Italia era scaturita dalla pratica del-
l’arte, cioè da una attività indigena e in complesso uni-
taria, mentre in Francia era penetrata con l’arte italia-
na, come una merce importata ad uso della classe domi-
nante, e si era trovata quindi, fin dall’inizio, in opposi-
zione con la tradizione artistica medievale e popolare21.
Ma anche qui verso la metà del secolo essa conservava
ancora un tono assai piú liberale che non piú tardi. Féli-
bien, amico di Poussin e autore degli Entretiens sur la vie
et les ouvrages des plus excellents peintres (1666) ammet-
te ancora la grandezza di artisti come Rubens e Rem-
brandt, sottolinea che in natura non c’è nulla che non
sia bello e degno dell’arte, e si dichiara contrario alla ser-
vile imitazione dei grandi maestri. Veramente anche in
lui già compaiono gli elementi piú importanti dell’este-
tica accademica, come la tesi che la natura dev’essere
corretta dall’arte e quella della priorità del disegno sul
colore22. Ma solo negli anni fra il 1660 e il 1670, per
opera di Le Brun e della sua scuola, si elabora la vera
dottrina classicistica; allora per la prima volta si costi-
tuisce il canone accademico della bellezza con i suoi
modelli indiscutibili: l’antico, Raffaello, i bolognesi e
Poussin; e da allora soltanto, nella rappresentazione di
soggetti storici e biblici, s’impone l’assoluto riguardo alla
gloria del re e il rispetto per la corte. Ma l’opposizione
alla teoria e alla prassi accademica si fa sentire ben pre-
sto, a dispetto dei premi offerti a chi vi si sottomette.
Già ai tempi di Le Brun, nell’ambiente accademico come
fuori, si manifesta una certa tensione fra l’arte ufficia-
le, prodotto di un circospetto programma culturale, e la
spontanea attività artistica. Nessun artista si esprimeva

Storia dell’arte Einaudi 33


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

in modo perfettamente ortodosso, tranne Le Brun; e alla


sua dittatura, dopo il 1680, il gusto generale si ribella
apertamente.
La tensione fra l’estetica dei circoli ufficiali – di corte
o di Chiesa – e il gusto di quegli artisti e amatori, che
in complesso non se ne curano, non è carattere specifi-
co della vita artistica francese, ma piuttosto un feno-
meno proprio di tutta l’arte barocca. In Francia si trat-
ta solo di un acuirsi di quel contrasto che già si era rive-
lato nei vari gruppi del pubblico, con l’adesione o l’o-
stilità al Caravaggio. Infatti, se anche prima poteva
accadere che un artista di talento, o una maniera, non
soddisfacesse l’uno o l’altro committente, laico o eccle-
siastico, tuttavia prima dell’età barocca non si poteva
stabilire nessuna differenza di principio fra arte ufficia-
le e arte per il pubblico. Ora per la prima volta accade
che le tendenze progressive debbano lottare, non solo
contro le remore del processo evolutivo, ma anche con-
tro le convenzioni che trovano nel potente apparato sta-
tale ed ecclesiastico un forte sostegno. Prima dell’età
barocca è ignoto il conflitto, tipico dell’arte moderna,
tra forze progressive e forze conservatrici, che non è sol-
tanto conflitto di opposti orientamenti di gusto, ma
anche lotta per il potere, dove tutti i privilegi e le pos-
sibilità sono dalla parte dei conservatori, tutti gli svan-
taggi e i pericoli da quella dei progressisti. Naturalmen-
te anche prima accanto a chi s’intendeva d’arte c’era chi
non aveva per essa né sensibilità né interesse; ma ora il
pubblico si divide in due partiti, l’uno ostile al progres-
so e alle novità, l’altro liberale, favorevole a priori a
nuove tendenze. Il loro antagonismo, cioè il contrasto
fra un’arte accademica e ufficiale e un’arte libera, fra
un’estetica astratta, programmatica, e un’altra viva,
evolventesi con la pratica dell’arte, è ciò che appunto
conferisce all’età barocca e al periodo successivo il loro

Storia dell’arte Einaudi 34


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

peculiare carattere moderno. La lotta fra Poussinistes e


Rubénistes, tra la tendenza classicistica disegnativa e
quella sensuale pittorica, che si concluse con la decisiva
vittoria dei coloristi su Le Brun e la sua scuola, non fu
che un sintomo della generale tensione. La scelta fra
disegno e colore era ben piú che una questione tecnica:
optare per il colore significava opporsi allo spirito del-
l’assolutismo, al rigido dominio dell’autorità e ad ogni
razionalistico inquadramento della vita; era cioè il sin-
tomo di un nuovo sensualismo che finí col condurre a
fenomeni come Watteau e Chardin.
L’opposizione degli anni fra il 1670 e l’80 all’acca-
demismo di Le Brun fu sotto molti rispetti la prepara-
zione a questo nuovo sviluppo dell’arte23. Allora per la
prima volta si formò un circolo di amatori che non com-
prendeva solo artisti, mecenati e collezionisti, cioè i
competenti, ma anche dei profani che si permettevano
di pronunciare un giudizio personale. Finora solo l’Ac-
cademia poteva riconoscere il diritto d’intervenire in
questioni d’arte, e sempre a gente del mestiere. Adesso
improvvisamente si contesta la sua autorità. Roger De
Piles, il teorico della generazione successiva a quella di
Félibien, sostiene i diritti del pubblico profano, affer-
mando che è legittimo anche il suo gusto non prevenu-
to e ingenuo, che il sano buon senso può aver ragione
contro le regole dell’arte, che una visione semplice e
naturale può essere giusta anche se in contrasto con il
giudizio degli intenditori. Questa prima vittoria del pub-
blico profano si spiega in parte con la diminuzione pro-
gressiva degli assegni di Luigi XIV agli artisti verso la
fine del suo regno, cosí che l’Accademia fu piú o meno
costretta a rivolgersi al gran pubblico per compensare il
difetto di sovvenzioni24. Ma soltanto il secolo successi-
vo seppe trarre la logica conclusione delle premesse del
De Piles; Du Bos per primo affermò che l’arte non vuole

Storia dell’arte Einaudi 35


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

«insegnare», ma «commuovere», e che adeguato di fron-


te ad essa non è l’atteggiamento razionale, ma quello
affettivo. Solo il Settecento osò accentuare la premi-
nenza del profano sullo specialista ed esprimere l’idea
che l’occuparsi sempre di una stessa cosa necessaria-
mente ottunde la sensibilità, mentre quella dell’amato-
re e del profano è ancor fresca e sincera.
La composizione del pubblico non mutò da un gior-
no all’altro; anche l’ingenua, spontanea comprensione,
anzi il semplice interesse per le opere d’arte presuppo-
neva un fondamento di cultura non comune nella Fran-
cia del Seicento. Ma di giorno in giorno cresceva il
numero degli amatori, includendo gente sempre piú
diversa, cosí da formare, alla fine del secolo, un gruppo
sociale di gran lunga piú vario e meno docile di quello
che offriva la corte ai tempi di Le Brun. Con questo non
si vuol dire che il pubblico dell’arte classicheggiante
fosse perfettamente omogeneo e si limitasse ai circoli di
corte. La severità arcaica, la tipicità impersonale, l’os-
servanza delle convenzioni erano tutti elementi che
certo si accordavano particolarmente con il senso della
vita proprio dei ceti aristocratici – una classe che fonda
i suoi privilegi sull’antichità, sul sangue e sul contegno
considera il passato piú reale del presente, il gruppo piú
essenziale dell’individuo, la misura e la disciplina piú
apprezzabili degli impulsi e del sentimento – ma è certo
che nel razionalismo classicistico trovò la sua espressio-
ne anche la visione borghese e in modo altrettanto carat-
teristico. Questo razionalismo aveva nella mentalità bor-
ghese radici anche piú profonde che in quella della
nobiltà, che appunto dalla borghesia lo aveva ricevuto.
In ogni caso l’industrioso borghese cominciò a organiz-
zare la sua vita secondo criteri razionali prima dell’ari-
stocratico, che si faceva forte dei suoi privilegi. E la
chiarezza, la semplicità e la concisione dell’arte classi-

Storia dell’arte Einaudi 36


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cheggiante piacquero al pubblico borghese prima che ai


circoli aristocratici. Questi erano ancora dominati dal
gusto romanzesco, tronfio, capriccioso e stravagante del-
l’arte spagnola, quando già la borghesia si entusiasmava
per la lucida regolarità di Poussin. Certo, le opere del
Maestro, che furono dipinte quasi tutte al tempo di
Richelieu e di Mazarino, per lo piú furono acquistate da
borghesi, funzionari, mercanti e finanzieri25. Si sa che
Poussin non assunse incarichi di grandi cicli decorativi;
per tutta la vita egli si attenne a formati modesti e a uno
stile senza iattanza. Solo di rado lavorò per la Chiesa;
non sentiva rapporti di alcun genere fra lo stile classi-
cheggiante e la funzione ufficiale dell’arte26.
A poco a poco la corte passò dal sensualismo baroc-
co al classicismo; come l’aristocrazia, nonostante la sua
avversione per tutto quel che era interesse e calcolo, assi-
milò il razionalismo dell’economia borghese. Entrambi,
classicismo e razionalismo, corrispondevano alla cor-
rente storica del progresso: prima o poi furono accetta-
ti da tutti i ceti sociali. Peraltro, se gli ambienti di corte
col classicismo non fecero che seguire un gusto di origi-
ne borghese, tuttavia ne tradussero la semplicità in
solennità, la sobrietà in ritegno e dominio di sé, la chia-
rezza e la regolarità in criteri di rigorismo e d’intransi-
genza. Naturalmente, era l’alta borghesia a compiacer-
si del classicismo, e neppur essa in modo esclusivo. Quel-
l’ordine razionale si confaceva alla sua mentalità obiet-
tiva, ma, d’altronde, la sua visione pratica e realistica la
rendeva piú sensibile a effetti veristici. Nonostante il
razionalismo di Poussin, sono Le Sueur e i Le Nain i pit-
tori borghesi per eccellenza27. Ma neppure il naturalismo
rimase esclusivo patrimonio borghese. Come il raziona-
lismo, esso divenne per tutti i ceti un’arma indispensa-
bile nella lotta per la vita. Non solo negli affari, ma a
corte e nei salotti, per aver successo occorrevano acume

Storia dell’arte Einaudi 37


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

psicologico e sottile conoscenza degli uomini. E anche


se l’ascesa della borghesia e l’inizio del moderno capi-
talismo già avevano dato il primo impulso a quello stu-
dio dell’uomo che apre la storia della psicologia moder-
na, la vera origine della nostra analisi psicologica è da
ricercare alle corti e nei salotti del Seicento. La psico-
logia del Rinascimento, da principio orientata verso la
scienza pura, anzi verso la scienza naturale, già negli
scritti autobiografici di Cellini, Cardano e Montaigne,
ma soprattutto nelle caratterizzazioni e nelle analisi sto-
riche di Machiavelli, acquista un’impronta pratica di
filosofia della vita e di autoeducazione. La spietata psi-
cologia del Machiavelli è all’origine di tutta la lettera-
tura psicologica successiva; la sua concezione dell’egoi-
smo e dell’ipocrisia è per tutto il Seicento la chiave per
intendere gli occulti moventi delle passioni e degli atti
umani. Certo il metodo machiavellico dovette subire
una lunga elaborazione alla corte e nei salotti di Parigi,
prima di diventare strumento di un La Rochefoucauld.
Le osservazioni e le lucide formule delle Maximes sono
inconcepibili senza la sottile arte del vivere e i raffina-
ti rapporti sociali di quella corte e di quei salotti. Il reci-
proco osservarsi nel contatto giornaliero, lo spirito cri-
tico, il culto dei bons mots e il passatempo delle médi-
sances, il continuo stimolo intellettuale nello sforzo di
esprimere un’idea nel modo piú sorprendente, piú sot-
tile, piú acuto, l’autoanalisi di una società che fa di se
stessa un problema e un oggetto di continua meditazio-
ne, l’analisi dei sentimenti e delle passioni che si eser-
cita come una specie di gioco di società, tutto questo è
lo sfondo da cui sorgono i caratteristici quesiti e le tipi-
che risposte di La Rochefoucauld. In questo ambiente,
non soltanto egli trovò il primo incentivo alle sue idee,
ma qui esse debbono aver dato prova della loro validità.

Storia dell’arte Einaudi 38


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Oltre al savoir-vivre della corte e alla cultura dei salot-


ti, una delle principali fonti della nuova psicologia è il
pessimismo della nobiltà delusa, priva ormai di una sua
ragione di vita. Madame de Sevigné confessa di fare
spesso con Madame de Lafayette e con La Rochefou-
cauld discorsi cosí tristi, che per loro meglio sarebbe
farsi subito seppellire. Tutti e tre appartengono a quel-
l’aristocrazia stanca, respinta dalla vita attiva, che rima-
ne attaccata ai suoi pregiudizi sociali a dispetto di ogni
insuccesso, e, come Retz e Saint-Simon, sono nobili
dilettanti per i quali l’elemento sociale, l’espressione
diretta del ceto e del grado, è molto piú reale che per gli
scrittori borghesi, che si sentono anzitutto individui.
L’immagine dell’uomo, che essi tratteggiano, non è
affatto attraente, e tuttavia è giusta l’osservazione che
l’individuo, visto coi loro occhi, non ha piú nulla d’in-
quietante né di temibile, non è piú «un orrendo miste-
ro, un monstre incompréhensible», come era ancora per
Pascal e anche per Corneille, ma «spogliato di ogni
carattere straordinario, assume proporzioni mediocri,
comode, trattabili»28. Non si parla piú dei suoi peccati,
dei suoi torti verso Dio, verso se stesso e i suoi simili,
in quanto fratelli, sangue del suo sangue; tutte le incli-
nazioni dell’animo e le qualità del carattere, tutte le
virtú e i vizi vengono ormai misurati secondo il criterio
dell’attitudine al vivere sociale.
I salotti fiorirono specialmente nella prima metà del
secolo, in un momento in cui la corte non era ancora il
centro culturale del paese e si trattava di creare un vero
pubblico per l’arte e un foro che, in assenza di una cri-
tica qualificata, fosse in grado e sentisse il dovere di pro-
nunciarsi sulla bontà delle opere. I salotti in tal modo
divennero piccole accademie non ufficiali, in cui si crea-
va la fama e la moda letteraria e che – non costituendo
dei circoli chiusi e d’altra parte essendo liberi da ogni

Storia dell’arte Einaudi 39


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

costrizione interna – erano in grado di istituire fra arti-


sti e clienti rapporti assai piú diretti di quelli che, piú
tardi, promossero la corte e le accademie vere e proprie.
Se l’influsso dei salotti sull’educazione e la civiltà fu
grandissimo, insignificante invece fu la produzione let-
teraria da essi direttamente promossa. Neppure dal-
l’Hôtel de Rambouillet, il primo e il piú importante di
tutti quei circoli, emerse alcun grande talento29; la Guir-
lande de Julie, una raccolta per la figlia della marchesa e
prototipo di tutti gli album per giovinette, è il prodot-
to ufficiale dell’ambiente. Lo «stile prezioso» può con-
siderarsi frutto dei salotti solo entro certi limiti; pro-
priamente esso non è che una variante francese e uno
sviluppo del marinismo, del gongorismo, dell’«eufui-
smo», o comunque si vogliano chiamare le forme di poe-
sia metaforica del Manierismo. Si tratta del linguaggio
tipico di gente legata da una stretta consuetudine e che
si crea un proprio gergo: un linguaggio segreto, di cui
gl’iniziati colgono immediatamente le piú lievi allusio-
ni, ma che per ogni altro rimane estraneo, anzi inintel-
ligibile; e del resto gli iniziati si adoprano a renderlo
sempre piú strano ed ermetico. A questo linguaggio arti-
ficioso, da conventicola, era affine – se non vogliamo
risalire agli alessandrini – già il «rimar chiuso» dei tro-
vatori, in quanto era anch’esso anzitutto un mezzo per
affermare una differenza di classe e, come segni di
distinzione, cercava l’inconsueto, l’innaturale e il diffi-
cile. Ma il preziosismo, come è stato giustamente nota-
to, non fu soltanto la moda stravagante di un circolo
ristretto; non rimase esclusivo di qualche dozzina di
donne illustri e orgogliose, di alcuni poeti mancati o
mediocri: tutta la classe intellettuale di Francia nel seco-
lo xvii fu piú o meno «preziosa», non esclusi il severo
Corneille e il borghese Molière. Eroi ed eroine sul pal-
coscenico non dimenticavano le buone maniere neppur

Storia dell’arte Einaudi 40


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nel momento della massima eccitazione, e si dicevan


«Monsieur» e «Madame». In ogni circostanza essi rima-
nevano cortesi e galanti: galanteria che peraltro non era
che una forma e quindi nulla può dirci sulla sincerità dei
sentimenti dato che, come ogni forma e ogni linguaggio,
essa esprimeva con lo stesso vocabolario schiettezza e
falsità30.
I salotti contribuirono a formare un pubblico per
l’arte, anche perché riunivano esperti e dilettanti dei piú
diversi ceti. Accanto all’alta nobiltà, naturalmente sem-
pre in prevalenza, vi si riunivano la nobiltà di toga e la
borghesia – specie l’alta finanza – spesso già influenti nel
mondo artistico e letterario31. La nobiltà continuava a
fornire gli ufficiali dell’esercito, i governatori delle pro-
vince, i diplomatici, i funzionari di corte e gli alti digni-
tari ecclesiastici; la borghesia invece occupava le alte
cariche della magistratura e della finanza, ma già comin-
ciava a gareggiare con la nobiltà anche nella vita cultu-
rale. In Francia gli uomini d’affari non godettero mai la
considerazione che li circondava in Italia, in Germania
o in Inghilterra; potevano accedere all’alta società solo
formandosi una piú alta cultura e un raffinato stile di
vita. In effetti in nessun altro luogo si diede il caso di
figli di borghesi tanto zelanti nell’abbandonare il mondo
degli affari per trasformarsi in intellettuali che viveva-
no di rendita. I principali scrittori di Francia, che nel
Rinascimento venivano in maggioranza dalla nobiltà,
nel Seicento appartengono in gran parte alla borghesia.
Sulla scena letteraria francese, accanto ad aristocratici
e principi della Chiesa, ormai relativamente pochi –
come il duca di La Rochefoucauld, la marchesa di Sevi-
gné, il cardinale di Retz – troviamo ora semplici bor-
ghesi e scrittori di professione: Racine, Molière, La Fon-
taine e Boileau, per nominare solo i piú importanti. La
posizione sociale di Molière e i suoi rapporti con le

Storia dell’arte Einaudi 41


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

diverse classi sono particolarmente indicativi per le con-


dizioni del tempo. Per l’origine, la mentalità e il carat-
tere dell’arte sua egli è un perfetto borghese. E appun-
to alle sue connessioni con larghi strati sociali deve i
primi decisivi successi e quel senso cosí vivo delle esi-
genze teatrali. Per tutta la vita egli rimane uno spirito
critico, spesso di un’irriverenza plebea, che vede con la
stessa acutezza e sa rappresentare con la medesima disin-
voltura il ridicolo e il volgare nell’astuto contadino, nel
vanitoso borghese, nel gretto mercante, nel rozzo signo-
rotto di campagna e nello stupido conte. Tuttavia egli
si guarda dall’attaccare l’istituto monarchico, il rispet-
to per la Chiesa, i privilegi della nobiltà, l’idea della
gerarchia sociale, o anche semplicemente un duca o un
marchese. Questa prudenza gli vale il favore del re, che
lo protegge contro tutti gli attacchi della corte. Si
potrebbe quindi considerare Molière un poeta che,
anche se non rinnega la sua origine, è tuttavia di ten-
denze conservatrici, e per pure ragioni d’opportunità si
è fatto sostenitore dell’ordine costituito: ma non è cosí
semplice distinguere in arte un conservatore da un rivo-
luzionario. In nessun caso metteremo Molière sulla stes-
sa linea di Aristofane, benché per alcuni aspetti egli sia
anche piú servile. Annoveriamolo piuttosto fra i poeti
che, benché conservatori nell’intimo, contribuiscono
con la loro opera a smascherare la realtà sociale o alme-
no una parte di essa, e diventano perciò stesso araldi di
progresso. Il Figaro di Beaumarchais non è quindi il
primo antesignano della Rivoluzione, ma solo il discen-
dente dei valletti e delle cameriste di Molière.

Storia dell’arte Einaudi 42


Capitolo terzo

Il Barocco della borghesia protestante

Nelle Fiandre il dominio spagnolo e il favore che


questo incontrò presso gli alti ceti locali crearono con-
dizioni molto simili a quelle della Francia. Anche qui l’a-
ristocrazia si ridusse a una totale dipendenza dallo stato,
trasformandosi in docile nobiltà di corte; anche qui l’a-
scesa della borghesia allo stato nobiliare e la sua ten-
denza ad abbandonare al piú presto la vita degli affari
furono tra i fenomeni piú importanti dell’evoluzione
sociale32; come in Francia, anche qui si accordarono alla
Chiesa i massimi privilegi, pur di piegarla a strumento
dello stato; e la cultura delle classi dirigenti si fece auli-
ca staccandosi via via non solo dalle tradizioni popola-
ri, ma anche dallo spirito della corte di Borgogna, piú o
meno intinto di elementi borghesi. Anche l’arte prese
naturalmente una impronta ufficiale, ma, forse per via
dell’influsso spagnolo, non le venne meno, a differenza
del Barocco francese, un suo accento religioso. Si
aggiunga che mancò nelle Fiandre il fenomeno, che
abbiamo visto in Francia, di una produzione artistica
organizzata dallo stato e assorbita completamente dalla
corte; e non solo perché la corte arciducale non era in
grado di finanziarla, ma anche perché una simile disci-
plina mal si sarebbe accordata con i modi concilianti del
governo absburgico nel paese. Anche la Chiesa, di gran

Storia dell’arte Einaudi 43


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

lunga la cliente piú importante dell’arte locale, si limitò


a prescrivere un generico orientamento cattolico, senza
imporre alcuna speciale costrizione, né riguardo al tono
delle opere, né riguardo ai particolari iconografici. Il
restaurato cattolicesimo in sostanza garantì all’artista
maggior libertà che altrove, e a questo liberalismo si
deve attribuire il carattere del Barocco fiammingo, piú
libero e cordiale dell’arte aulica francese, permeato di un
sentimento anche piú sereno e ottimista di quello del-
l’arte ecclesiastica romana. Tutto ciò è certo insuffi-
ciente a spiegare il genio di un Rubens, aiuta però a capi-
re come nell’ambiente aulico ed ecclesiastico di Fiandra
egli abbia potuto trovare la forma che fu propria del-
l’arte sua.
In nessun luogo, salvo nei paesi della Germania meri-
dionale, la restaurazione cattolica ebbe esito cosí felice
come in Fiandra33; e l’alleanza fra Stato e Chiesa non fu
mai cosí stretta come al tempo di Alberto e d’Isabella,
cioè l’epoca d’oro dell’arte fiamminga. L’idea cattolica
si collegava qui, naturalmente, con quella monarchica,
come nelle province del Nord il protestantesimo venne
identificandosi con la repubblica. Il cattolicesimo face-
va discendere da Dio la sovranità del monarca, in base
allo stesso principio per cui spettava al clero di rappre-
sentare i fedeli; il protestantesimo invece, con la sua dot-
trina della diretta filiazione da Dio, era sostanzialmen-
te ostile all’autorità. Spesso però la scelta della confes-
sione era semplicemente un riflesso della mutevole situa-
zione politica. Difatti, immediatamente dopo la seces-
sione i cattolici nelle regioni settentrionali erano nume-
rosi quasi quanto i protestanti, e solo piú tardi molti pas-
sarono alla Riforma. L’antagonismo religioso non è dun-
que la vera radice del divario profondo di cultura fra le
due regioni; né può spiegarsi coi diversi caratteri etnici
degli abitanti; ha invece cause economiche e sociali.

Storia dell’arte Einaudi 44


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Queste spiegano pure le fondamentali differenze all’in-


terno della stessa arte dei Paesi Bassi. In nessun capitolo
della storia dell’arte l’analisi sociologica è tanto istrut-
tiva come qui, dove si assiste al fenomeno di due ten-
denze artistiche radicalmente diverse come il Barocco
fiammingo e quello olandese, che pure sorgono quasi a
un tempo, in regioni geograficamente contigue e in con-
dizioni, anche economiche e sociali, similissime. Questo
fenomeno, l’analisi del quale permette di discriminare
tutti i fattori reali non sociologici, può considerarsi un
paradigma della sociologia dell’arte.
La scissione nella cultura dei Paesi Bassi avvenne
sotto il regno di Filippo II. Questi, da despota innova-
tore qual era, volle introdurvi le conquiste dell’assoluti-
smo, il sistema dell’accentramento statale e il razionale
ordinamento dell’amministrazione finanziaria34. Tutto il
paese si ribellò; il Nord con successo, il Sud inutilmen-
te. Le «cattoliche» province meridionali si opposero ai
nuovi carichi fiscali imposti dallo stato accentratore con
un accanimento non minore del Nord «protestante». Il
contrasto culturale fra le due regioni, che ancora non esi-
steva prima della lotta contro la Spagna, si sviluppò sol-
tanto in conseguenza della diversa fortuna della rivolta,
come riflesso appunto delle diverse conseguenze sociali
che ai due paesi ne derivarono. Da principio il compor-
tamento della borghesia di fronte alla Spagna fu uguale
in tutto il paese. E occorre dire che in questo caso chi
si comportò da conservatore di idee e di sentimenti fu
non il monarca, familiare con l’ideologia della ragion di
stato e con l’economia mercantilistica, ma il ceto bor-
ghese ancora legato alle corporazioni e al decentramen-
to. I borghesi volevano anzitutto preservare le autono-
mie municipali e i privilegi ad esse connessi, e in questo
eran d’accordo in tutto il paese. La storia degli Olandesi,
protestanti e repubblicani, che si ribellarono contro i

Storia dell’arte Einaudi 45


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

despoti cattolici, spalleggiati dall’inesorabile Inquisizio-


ne e dalla soldatesca ribalda, non è che una bella leg-
genda. Non fu il loro protestantesimo che li spinse alla
rivolta contro la Spagna, anche se l’individualismo pro-
prio della fede riformata contribuì forse ad accrescere lo
slancio del movimento35. Il cattolicesimo in sé e per sé
non era piú reazionario di quanto fosse rivoluzionario il
protestantesimo36; tutt’al piú un calvinista poteva ribel-
larsi contro il suo re con meno scrupoli di un cattolico.
Comunque sia, l’insurrezione dei Paesi Bassi fu una
rivoluzione di conservatori37. Le vittoriose province set-
tentrionali avevano in sostanza difeso dei concetti
medievali di libertà e un’antiquata autonomia regiona-
le. Il fatto che esse poterono reggersi per un certo tempo
mostra – come è stato osservato – che forse l’assoluti-
smo non era l’unica forma statale rispondente alle esi-
genze del momento; ma la breve durata del loro succes-
so finì col rivelare la precarietà di un organismo di città
federate nell’epoca degli stati accentrati.
I liberi stati del Nord costituivano un’unione di città,
ma in tutt’altro senso che le province meridionali. In
queste infatti le città non erano inferiori per numero e
importanza a quelle del Nord; ma, perduta l’autonomia
locale, la funzione delle città venne a mutare radical-
mente. Di conseguenza dopo la repressione della rivol-
ta, l’elemento sociale piú influente non fu la borghesia
urbana, come in Olanda, ma l’alto ceto, aristocratico di
nascita o di costumi, ispirato dalla corte. La domina-
zione straniera provocò nel Sud la vittoria della cultura
aulica, mentre la liberazione nazionale permise nel Nord
di conservare l’antica cultura comunale e borghese. Ma
lo sviluppo economico dell’Olanda fu dovuto non tanto
alle virtú liberali quanto soprattutto alla fortuna e al
caso. La favorevole posizione sul mare, che predestina-
va il paese ad essere centro dei traffici fra il settentrio-

Storia dell’arte Einaudi 46


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ne e il mezzogiorno d’Europa, le guerre che costrinsero


la Spagna a fare acquisti presso il nemico, l’insolvibilità
di Filippo II, che nel 1596 provocò la rovina dei ban-
chieri italiani e tedeschi e fece di Amsterdam la borsa
d’Europa, furono tutte occasioni di arricchirsi, che l’O-
landa non ebbe da cercare, ma solo da utilizzare. Il suo
sistema economico antiquato fece sí che la ricchezza
tornasse a vantaggio, non di uno stato o di una dinastia,
ma della borghesia urbana, divisa in corporazioni all’u-
so medievale, abituata al particolarismo economico e
all’autonomia. Ma cosí questo ceto mercantile e indu-
striale assurse a classe dominante. E anche qui, come
dovunque, il suo predominio si risolse in oppressione sia
del proletariato, sia della piccola borghesia composta di
artigiani e piccoli commercianti, indipendenti ma privi
di mezzi. Questa borghesia, la cui posizione sociale, in
Olanda ancor piú esclusivamente che altrove, era fon-
data sulla ricchezza e serviva ad accrescerla, affidò i pro-
pri interessi economici e politici a una speciale catego-
ria reclutata nel suo seno, i cosiddetti «reggenti». Di
costoro si componeva il governo delle città con i suoi
borgomastri, gli scabini e i consiglieri ed erano i «reg-
genti» a esercitare di fatto il potere in nome della clas-
se dominante. Poiché di regola l’ufficio si trasmetteva
di padre in figlio, essi furono sempre piú autorevoli e
rispettati di quanto sia di solito la burocrazia. Diventa-
rono a poco a poco una vera casta, che si teneva perfi-
no separata dalla maggioranza di quella borghesia a cui
pure doveva il potere. Da principio i reggenti delle città
erano per lo piú ex commercianti che vivevano di ren-
dita ed esercitavano la carica per soddisfazione perso-
nale; ma già i loro figli frequentavano le università di
Leida e di Utrecht, preparandosi, soprattutto con lo
studio del diritto, a succedere ai genitori nei posti di
governo.

Storia dell’arte Einaudi 47


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Specialmente nelle province di Gheldria e di Overys-


sel i nobili non erano del tutto privi di autorità, ma
erano pochi e addirittura rare erano le famiglie che si
tenessero distinte dal patriziato urbano. I piú, o per
matrimoni o associandosi negli affari, si mescolavano
alla ricca borghesia. Questa, del resto, si veniva tra-
sformando in un’aristocrazia mercantile, e specialmen-
te le famiglie dei reggenti assunsero a poco a poco uno
stile di vita che le isolò sempre piú dagli altri ceti. Esse
formavano l’anello di congiunzione fra classi medie e
nobiltà, assicurando alla gerarchia sociale una stabilità
quasi sconosciuta altrove. Certo molto piú grave che non
fra nobili e borghesi era la tensione fra monarchici di
spirito militarista, schierati intorno allo Statholder, e
borghesi pacifisti, cui si affiancava l’aristocrazia anti-
monarchica38. Ma il potere era nelle mani della borghe-
sia e non poteva esser minacciato seriamente da nessu-
na parte.
Anche nell’arte, benché le classi abbienti civettasse-
ro sempre con il gusto aristocratico, lo spirito borghese
rimase prevalente e, in mezzo a una cultura europea
generalmente aulica, impresse il suo marchio alla pittu-
ra olandese. Altrove l’acme della cultura borghese è già
superato quando39 essa è in pieno fiore in Olanda; e solo
nel Settecento negli altri paesi d’Europa la borghesia
tornerà a sviluppare una cultura consimile. L’arte deve
anzitutto il suo carattere borghese al cadere dei vincoli
ecclesiastici. Le opere dei pittori olandesi si possono
trovare dappertutto, salvo nelle chiese; e del resto il qua-
dro di devozione non esiste nell’ambiente protestante.
Le storie bibliche hanno un posto relativamente mode-
sto accanto ai soggetti profani, e di solito vengono trat-
tate come scene di genere. I temi preferiti sono invece
quelli tratti dalla vita quotidiana: il quadro di costume,
il ritratto, il paesaggio, la natura morta, la scena d’in-

Storia dell’arte Einaudi 48


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

terno, lo studio d’architettura. Mentre nelle monarchie


cattoliche il genere prevalente è ancora il quadro di sto-
ria, sacra e profana, in Olanda si sviluppano in piena
autonomia i soggetti sinora considerati accessori. Le
scene di genere, i paesaggi, le nature morte non sono piú
semplici particolari di composizioni bibliche, storiche o
mitologiche, ma acquistano un valore autonomo: i pit-
tori non hanno piú bisogno di un pretesto per trattarli.
E quanto piú immediato, evidente e quotidiano è un
tema, tanto piú grande è il suo valore per l’arte. Si rive-
la in questo un atteggiamento cordiale, aperto, quanto
mai adatto al «genere», una concezione che vede nella
realtà una conquista familiare. È come se di questa
realtà, pur appena scoperta, l’uomo abbia fatto un suo
possesso, ci si sia come insediato. Argomento dell’arte
diventa anzitutto ciò che è proprietà dell’individuo,
della famiglia, della comunità, della nazione: la stanza e
l’andito, la casa e il cortile, la città, e i suoi dintorni, il
paesaggio natio e il paese liberato e riscattato. Ma anche
piú significativo della scelta dei soggetti è nell’arte olan-
dese il peculiare verismo, che la distingue non solo dal
Barocco di tutta Europa – con le sue pose eroiche, la
severa e rigida solennità o l’impetuoso, travolgente sen-
sualismo – ma anche da ogni naturalismo piú antico.
Infatti ciò che le assicura quel suo carattere di verità non
è soltanto la semplice, reverente, pia obiettività della
rappresentazione, né solo lo sforzo di ritrarre la vita
nella sua immediatezza, nella sua forma quotidiana da
chiunque verificabile, ma anche quel tono di personale
esperienza implicito nella veduta. Il nuovo naturalismo
borghese è un modo di rappresentazione che cerca non
solo di render visibile quel che è spirituale, ma di dar
vita e interiorità a ogni cosa visibile. La forma innega-
bilmente piú intima della pittura di cavalletto in cui que-
sta concezione si attua è diventata la forma caratteristica

Storia dell’arte Einaudi 49


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di tutta la moderna arte borghese – e in realtà nes-


sun’altra è altrettanto adeguata allo spirito borghese, alla
sua tendenza a penetrare in profondità e alla sua visua-
le cosí limitata. Essa è il risultato dell’uso costante del
piccolo formato e dell’arricchimento spirituale dei temi
che si compie nello stretto giro della cornice. La grande
pittura decorativa non serve affatto alla borghesia; le
dimensioni auliche non interessano i privati; e d’altra
parte gli incarichi ufficiali sono relativamente rari e irri-
levanti, rispetto alle commissioni delle grandi corti. La
residenza dello Statholder, che pure guarda alla moda di
Francia, non diventa mai un vero centro culturale, e
d’altronde è troppo piccola e povera per influire sull’e-
voluzione dell’arte. Cosí in Olanda la pittura, la meno
costosa fra le arti figurative, e specialmente il quadro da
gabinetto, che ne è la forma meno pretenziosa, diventa
il genere predominante.
Non la Chiesa, non un principe, non una società di
corte determina dunque il destino dell’arte olandese, ma
una borghesia che del resto riesce ad esercitare un influs-
so sull’arte piú per il diffuso benessere che per la parti-
colare ricchezza di alcuni suoi membri. Mai prima, nep-
pure a Firenze nel Quattrocento, e tanto meno nell’A-
tene classica, il gusto del privato borghese si è mantenuto
cosí libero da ogni influsso pubblico e ufficiale, sosti-
tuendo su scala cosí larga alle ordinazioni pubbliche quel-
le private. Ma neppure in Olanda la richiesta è comple-
tamente uniforme, poiché accanto ai clienti privati si
fanno sentire i committenti ufficiali e semi-ufficiali:
comuni, corporazioni e associazioni cittadine, orfano-
trofi, ospedali e ricoveri di mendicità, sebbene il loro
influsso sia relativamente modesto. Lo stile delle opere
ad essi destinate, già in conseguenza del formato piú
grande del solito, si fa alquanto diverso da quello della
pittura borghese. E sebbene in Olanda neppure nell’ar-

Storia dell’arte Einaudi 50


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

te ufficiale si arrivi al «grande stile» richiesto in Francia


e in Italia, pure il gusto della classicità umanistica – tra-
dizione mai spenta in certi ambienti della patria di Era-
smo – è dato ritrovarlo e, piú che nella produzione desti-
nata ai privati, nell’arte ufficiale, nell’architettura dei
grandi edifici pubblici, nei dipinti delle camere di consi-
glio e delle sale per banchetti, nei monumenti che la
repubblica innalza ai cittadini benemeriti. Ma neppure
il gusto privato della borghesia è del tutto omogeneo;
questa è formata di vari strati culturali, con esigenze
diverse di fronte all’arte. I ceti colti, educati alla lette-
ratura classica e custodi della tradizione umanistica, favo-
riscono le correnti italianeggianti, che spesso risalgono al
Manierismo. In contrasto con il gusto popolare, predili-
gono soggetti di storia antica e di mitologia, allegorie e
scene pastorali, piacevoli illustrazioni bibliche ed ele-
ganti pitture di interni, come sanno farle Cornelis van
Poelenburgh, Nicolas Berchem, Samuel van Hoogstraten
e Adriaen van der Werff. E non è interamente unifor-
me neppure il gusto del ceto medio meno raffinato. Ter-
borch, Metsu e Netscher lavorano evidentemente per la
piú cospicua e ricca borghesia. Pieter de Hooch e Ver-
meer van Delft, per un ambiente forse un po’ piú mode-
sto. È probabile, invece, che Jan Steen e Nicolas Maes
avessero acquirenti in tutti i ceti sociali.
La tensione fra naturalismo borghese e classicismo
umanistico si prolunga in Olanda per tutta l’età aurea
della pittura. La corrente naturalistica è incomparabil-
mente piú importante, sia per qualità che per numero di
opere; ma la tendenza classicheggiante gode il favore
degli ambienti facoltosi e raffinati, il che assicura ai
suoi rappresentanti una piú alta considerazione e una
vita piú agiata. In Olanda il contrasto fra la media bor-
ghesia, piú semplice nel tenore di vita e piú rigida nelle
idee religiose, e gli ambienti di educazione classico-uma-

Storia dell’arte Einaudi 51


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nistica, piú mondani di gusti, corrisponde – come è


stato notato – all’antagonismo fra puritani e cavalieri in
Inghilterra40; in entrambi i paesi stanno da un lato i rap-
presentanti di una vita semplice, seria, pratica; dall’al-
tro, quelli di un raffinato epicureismo, spesso masche-
rato sotto apparenze idealistiche. Ma non si può dimen-
ticare che in Olanda la cultura del Seicento, a differen-
za di quanto accade in Inghilterra al tempo della Restau-
razione, non rinnega mai del tutto il suo carattere bor-
ghese. Tuttavia anche qui si può osservare un graduale
accostarsi del gusto all’estetica dei ceti piú distinti. Il
fenomeno corrisponde all’orientamento aristocratico che
si fa sensibile dovunque nella seconda metà del secolo.
È sintomatico che per i dipinti del municipio di Amster-
dam si scarti Rembrandt: con lui si respinge il naturali-
smo41; e a questo punto ha il sopravvento anche in Olan-
da l’accademia classicheggiante, con i suoi professori e
i suoi epigoni. Il nuovo spirito antidemocratico si espri-
me, ad esempio, anche nella scomparsa quasi totale,
messa in rilievo da Riegl, dai grandi ritratti collettivi, ad
esempio, di intere compagnie di tiratori; ormai si fa il
ritratto soltanto agli ufficiali42.
Fino a qual punto i diversi ambienti culturali del-
l’Olanda secentesca sapessero apprezzare il valore dei
loro pittori, è uno fra i problemi piú ardui della storia
dell’arte. Certo la sensibilità critica non era sempre ade-
guata alla cultura generale, altrimenti Vandel, il massi-
mo poeta olandese, non avrebbe preposto un Flinck a un
Rembrandt. Naturalmente anche allora c’era gente che
sapeva benissimo chi fosse Rembrandt, ma non la si
può identificare in blocco con i letterati di cultura uma-
nistica né cercarla esclusivamente fra la borghesia in
genere; forse, come i suoi amici, anche gli estimatori di
Rembrandt erano predicatori, rabbini, medici, artisti,
alti funzionari, insomma uomini di varie sfere, fra le piú

Storia dell’arte Einaudi 52


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

colte del medio ceto e, al pari dei suoi amici, non erano
molto numerosi. Il gusto della media e piccola borghe-
sia, che formava la maggioranza della clientela dei pit-
tori, non era molto evoluto e, in fatto d’arte, difficil-
mente seguiva altro criterio che la somiglianza. Del resto
è difficile supporre che la gente comprasse quadri secon-
do un suo gusto; per lo piú, ricercava quello che era in
auge in ambienti piú elevati, come questi subivano l’in-
flusso dell’estetica classico-umanistica degli intellettua-
li. La presenza di un pubblico ingenuo e modesto fu da
principio un gran vantaggio per gli artisti, anche se piú
tardi si mutò in grave pericolo. Con un tale pubblico essi
potevano lavorare liberamente secondo le proprie idee,
senza riguardi per i desideri del committente; solo piú
tardi questa libertà, con l’anarchia del mercato che essa
stessa provocò, diede luogo a un fenomeno di sovrap-
produzione che fu fatale.
Nel Seicento molta gente in Olanda guadagnava
denaro, ma, per l’esuberanza di capitali, non poteva uti-
lizzarlo in investimenti produttivi e spesso nemmeno
impiegarlo in acquisti di rilievo. Mobilio e oggetti deco-
rativi, ma soprattutto i quadri, divennero la forma d’in-
vestimento preferita, accessibile anche a gente relativa-
mente modesta. Costoro compravano quadri anzitutto
perché spesso non c’era altro da comprare; poi perché
gli altri, specie i notabili, ne compravano; in terzo luogo,
perché i quadri facevano bella figura in casa, dandole
un’aria rispettabile; infine perché si potevano rivende-
re. Certo il desiderio di cose belle era l’ultimo movente
di tali acquisti. Può essere accaduto spesso che, non
avendo bisogno del denaro investito, si siano tenuti i
quadri e che i figli abbiano poi realmente goduto della
loro bellezza. Poteva cosí accadere che il piccolo patri-
monio artistico della famiglia si sviluppasse, alla secon-
da e terza generazione, in vera e propria raccolta, come

Storia dell’arte Einaudi 53


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

piú tardi effettivamente se ne trovarono dappertutto nel


paese, e anche in ambienti piuttosto modesti. Data la
crescente agiatezza della popolazione, forse è vero che
non c’era casa borghese senza quadri; ma quando si dice
che in Olanda ognuno, «il piú ricco patrizio come il piú
povero contadino», possedeva quadri, il detto risulta
inesatto per quel che si riferisce al «piú povero»; e se,
del resto, il contadino ricco acquistava dipinti, eviden-
temente lo faceva con altro scopo e li guardava con
occhio ben diverso da quello del «piú ricco patrizio».
John Evelyn, il collezionista e mecenate inglese, nei
suoi ricordi parla dell’attivo commercio di quadri, e di
buoni quadri, ch’egli ebbe modo d’osservare nel 1641
alla fiera di Rotterdam. Ce n’erano, egli dice, moltissi-
mi, e per lo piú molto a buon mercato. In maggioranza
gli acquirenti erano piccoli borghesi e contadini, e di
questi ultimi alcuni certo possedevano quadri per un
valore di due o tremila sterline; ma li rivendevano, e con
profitto43. Per effetto della particolare situazione che si
venne determinando con la generale speculazione sul
mercato artistico, dopo il 1620 la massa di quadri era
tale in Olanda da dar luogo, ad onta della grande richie-
sta, ad una vera e propria sovrapproduzione, sí che gli
artisti si vennero a trovare in condizione assai precaria44.
Ma nei primi tempi la pittura deve aver garantito un
buon reddito, perché solo cosí si può spiegare la pleto-
ra dei pittori. Sappiamo che già nel Cinquecento ad
Anversa, dove c’era un notevole commercio di esporta-
zione di quadri, la produzione artistica era assai vasta.
Verso il 1560 dovevano lavorare in città trecento fra pit-
tori e incisori, mentre non v’erano piú di centosessan-
tanove fornai e settantotto macellai45. La produzione in
massa non comincia dunque nel Seicento, né nelle pro-
vince settentrionali; qui l’unica novità è ch’essa si appog-
gia principalmente sul pubblico locale; e si produce una

Storia dell’arte Einaudi 54


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

grave crisi nella vita artistica, quando quel pubblico non


è piú in grado di assorbirla. In ogni caso, è la prima volta
nella storia dell’arte occidentale che si può constatare
un’esuberanza di maestri e l’esistenza di un proletaria-
to artistico46. Sciolte le corporazioni, e venuta meno
l’autorità di una corte o dello stato per regolare la pro-
duzione, nulla impedisce che l’improvvisa prosperità del
mercato artistico degeneri in sfrenata concorrenza, di
cui cadono vittime i talenti piú singolari e originali.
Anche prima c’erano artisti che vivevano in strettezze,
ma non però nell’indigenza. Gli stenti di un Rembrandt
e di un Hals sono un fenomeno concomitante di quella
libertà, anzi anarchia economica, che nel campo del-
l’arte ora per la prima volta appare in pieno sviluppo e
d’ora in poi dominerà il mercato. Di qui in avanti l’ar-
tista sarà uno spostato, la sua esistenza sarà precaria e
apparentemente superflua, poiché della merce che egli
produce vi è sovrabbondanza. Per lo piú i pittori olan-
desi vivevano in tali angustie, che molti fra i maggiori
furono costretti a ricorrere a qualche altra fonte di gua-
dagno. Cosí van Goyen commerciava in tulipani, Hob-
bema era esattore, van de Velde aveva un negozio di
telerie, Jan Steen e Aert van de Velde erano bettolieri.
Anzi, pare che i pittori fossero tanto piú poveri, quan-
to piú erano grandi. Rembrandt, almeno, conobbe anche
giorni buoni, ma Hals non piacque mai gran che, né rag-
giunse i prezzi che si pagavano, ad esempio, per i ritrat-
ti di un van der Helst. Non solo Rembrandt e Hals, ma
anche Vermeer, il terzo grande maestro olandese, ebbe
a lottare con difficoltà materiali. E gli altri due dei mas-
simi pittori del paese, Pieter de Hooch e Jacob van Rui-
sdael, non furono molto apprezzati dai loro contempo-
ranei; certo non erano di quegli artisti che conduceva-
no una vita agiata47. A completare l’epopea della pittu-

Storia dell’arte Einaudi 55


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ra olandese si aggiunga che Hobbema dovette rinunzia-


re a dipingere negli anni migliori.
Gli inizi del mercato d’arte nei Paesi Bassi risalgono
al Quattrocento, con l’esportazione di miniature olan-
desi, arazzi fiamminghi e quadri sacri di Anversa, Bru-
ges, Gand e Bruxelles48. Nei secoli xv e xvi esso è anco-
ra principalmente nelle mani degli artisti, che trattano
non soltanto le opere proprie, ma anche le altrui. Librai
ed editori di stampe cominciano già molto presto a com-
merciare in quadri; vi si aggiungono rigattieri e orefici,
corniciai e locandieri49. Le remore poste in quei due
secoli al commercio di cose d’arte dalle compagnie dei
pittori dimostrano che il mercato deve combattere con
un’eccedenza di merce e che ci son troppi «mercanti
d’arte». Le singole città si proteggono contro l’impor-
tazione e l’anarchia del commercio ambulante, consen-
tendo che vendano quadri solo persone inscritte a una
compagnia di pittori. Questa regola non fa distinzione
fra pittore e mercante, e non mira a riservare agli arti-
sti il commercio degli oggetti d’arte, ma soltanto a pro-
teggere il mercato locale50. Un pittore passa molti anni
a scuola, e in quel periodo non può trarre guadagno dal
suo lavoro, perché tutto quel ch’egli dipinge, secondo
l’ordinamento corporativo, appartiene al suo maestro. In
tali circostanze, nulla di piú facile ch’egli pensi di tener-
si a galla commerciando in oggetti d’arte. Egli comincia
a comprare e vendere specialmente incisioni, copie, lavo-
ri di scuola, merce corrente. Ma tale commercio non
occupa soltanto pittori principianti; fra gli anziani ricor-
deremo come i piú famosi David Teniers il Giovane e
Cornelis de Vos. Spesso gli incisori sono anche mercan-
ti d’arte; Jerome de Cock, Jan Hermensz de Muller,
Gerard de Jode sono i piú noti tra questi. Per il chiaro
carattere commerciale dei suoi prodotti l’incisore è istin-
tivamente portato al traffico dei quadri, oltre che delle

Storia dell’arte Einaudi 56


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

incisioni. Lo sviluppo e la nuova autonomia del merca-


to d’arte hanno gravi conseguenze per la vita dell’arti-
sta moderno. Anzitutto induce il pittore a specializzar-
si in un determinato genere, poiché il mercante gli
richiede sempre opere del tipo che si è dimostrato piú
adatto allo smercio. Cosí si giunge a una divisione quasi
meccanica del lavoro, in cui un pittore si limita a rap-
presentare gli animali, un altro a dipingere paesaggi di
sfondo. Il commercio di oggetti d’arte rende uniforme
e stabile il mercato; non soltanto lega la produzione a
tipi fissi, ma regola il movimento degli affari, altrimen-
ti caotico. Mentre esso rende costante la domanda, per-
ché spesso interviene quando manca la clientela priva-
ta; dà inoltre all’artista, che in tal misura non potrebbe
mai procurarsele, le piú ampie e rapide informazioni sui
desideri del pubblico. Ma la mediazione che il mercan-
te d’arte viene a stabilire fra produttore e acquirente
finisce per straniare l’artista dal pubblico. La gente si
abitua a comprare quello che il mercante le offre, e
comincia a considerare l’opera d’arte un oggetto imper-
sonale, come ogni altra merce. Da parte sua, l’artista si
avvezza a lavorare per una clientela ignota e imperso-
nale, di cui egli non sa nulla, se non che oggi essa cerca
quadri storici, mentre ieri comprava quadri di genere.
Il commercio di oggetti d’arte implica pure l’estraniar-
si del pubblico dall’arte contemporanea. I mercanti pre-
feriscono insistere sull’arte del passato, semplicemente
perché, come è stato giustamente osservato, non se ne
possono moltiplicare – quindi neppur svalutare – i pro-
dotti, che si prestano cosí a una speculazione assai meno
rischiosa51. Il commercio di cose d’arte inoltre ha un
effetto deleterio sulla produzione, perché mina siste-
maticamente i prezzi. Il pane dell’artista dipende sem-
pre piú dal mercante, che tanto piú spesso può dettar
legge in fatto di prezzi quanto piú il pubblico si abitua

Storia dell’arte Einaudi 57


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

a comprare le opere d’arte presso di lui, invece di ordi-


narle direttamente. Infine un tal commercio inonda il
mercato di copie e di falsi, svalutando gli originali.
In Olanda i prezzi sul mercato erano generalmente
assai bassi; pochi fiorini bastavano all’acquisto di un
quadro. Un buon ritratto, ad esempio, costava sessanta
fiorini, quando per un bue se ne pagavano novanta52.
Una volta Jan Steen dipinse tre ritratti per ventisette
fiorini53. Per la Ronda di notte, Rembrandt, al colmo
della sua fama, non ne ebbe piú di milleseicento; e van
Goyen per la veduta dell’Aja, raggiunse con seicento fio-
rini il prezzo piú alto di tutta la sua vita. Di quali sala-
ri da fame dovessero accontentarsi anche pittori celebri
dimostra il caso di Isaak van Ostade, che nel 1641 con-
segnò tredici quadri a un mercante per ventisette fiori-
ni54. In confronto ai prezzi, spesso esagerati, offerti per
le opere di artisti che erano stati in Italia e lavoravano
alla maniera italiana, i quadri ispirati al locale verismo
erano sempre a buon mercato. Frans Hals, van Goyen,
Jacob van Ruisdael, Hobbema, Cuyp, Isaak van Osta-
de, de Hooch non raggiunsero mai alti prezzi55. Nei
paesi di cultura aulico-aristocratica gli artisti eran paga-
ti meglio. Già nella regione sorella, Rubens ricavava dai
suoi quadri assai piú dei pittori olandesi in voga. Nel suo
tempo migliore calcolava cento fiorini per un giorno di
lavoro56, e per l’Atteone Filippo II gli pagò quattordici-
mila franchi, il prezzo piú alto raggiunto da un quadro
prima dell’epoca di Luigi XIV57. Durante il regno di que-
sto sovrano e quello del suo successore si stabilizzarono
i guadagni dei pittori di corte, che si mantennero a un
livello relativamente alto; cosí, ad esempio, Hyacinthe
Rigaud fra il 1690 e il 1730 guadagnò in media 30 mila
franchi l’anno, e per il solo ritratto di Luigi XV ne rice-
vette 40 mila58. Ma Rigaud era un’eccezione anche in
Francia, dove, del resto, gli artisti non ebbero mai la for-

Storia dell’arte Einaudi 58


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tuna degli scrittori, spesso addirittura viziati. Si sa che


Boileau nella sua casa di Auteuil menava vita da gran
signore, e morendo lasciò 186 mila franchi in contanti;
Racine, come storiografo del re, ebbe in dieci anni un
onorario di 145 mila franchi. Molière, in quindici anni
di carriera come attore e direttore di teatro, ne guada-
gnò 336 mila, e altri 200 mila come autore59. In questo
divario fra le entrate di uno scrittore e quelle di un pit-
tore si rivela ancora l’antico pregiudizio contro il lavo-
ro manuale e il piú alto apprezzamento per chi con gli
artigiani non ha nulla in comune. In Francia, fino al Sei-
cento, anche i pittori di corte non andavano oltre il
rango dei piú modesti impiegati60. Cochin narra che il
duca d’Antin, successore di Mansart nella carica di surin-
tendant, usava trattare molto altezzosamente i membri
dell’Accademia, e dar loro del tu, come a servi o mano-
vali61. Con un Le Brun però le cose andavano altrimen-
ti; e cosí in genere era assai diverso il modo di trattare
con l’uno o con l’altro artista.
Il prestigio in sostanza modesto della professione
artistica fece sí che in Francia, come in Olanda, vi si
dedicassero soltanto i medi e piccoli borghesi. Anche per
questo Rubens fu un caso eccezionale: figlio di un alto
funzionario, da giovane aveva avuto un’ottima scuola e
aveva compiuto la sua educazione di uomo di mondo a
corte. Ancor prima di esser pittore aulico dell’arciduca
Alberto, aveva servito a Mantova Vincenzo Gonzaga e
per tutta la vita poi conservò stretti legami con le corti
e la diplomazia. Oltre che una splendida posizione socia-
le, egli seppe crearsi un patrimonio principesco e riuscí
ad assicurarsi un dominio incontrastato su tutta la vita
artistica del suo paese. A tutto ciò le sue attitudini di
organizzatore contribuirono quanto il suo talento di
artista. Senza di esse gli sarebbe stato impossibile ese-
guire le ordinazioni che gli piovevano da ogni parte e a

Storia dell’arte Einaudi 59


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cui egli soddisfece sempre pienamente. Ne veniva a capo


anzitutto applicando al lavoro artistico quelli che erano
i metodi dell’industria, e poi scegliendo oculatamente i
suoi collaboratori specializzati e impiegandoli con crite-
ri razionali. Accanto a questa severa distribuzione del
lavoro, veramente non diversa da quella dell’industria,
le botteghe dei pittori olandesi, anche quella di Rem-
brandt, appaiono senz’altro patriarcali. Si è sostenuto
con ragione che soltanto l’interpretazione classica del
processo creativo ha reso possibile a Rubens il suo meto-
do. Un’organizzazione razionale del lavoro artistico – di
cui, per la prima volta, vediamo l’uso coerente nella
scuola di Raffaello – in pratica divide nettamente l’idea
prima dall’esecuzione, e perciò parte dal presupposto
che il valore di un quadro sia già tutto nel cartone, e che
la trasposizione dell’idea figurativa nella sua forma ulti-
ma abbia un’importanza secondaria62. Questa concezio-
ne idealistica dell’arte aveva ancora una grande parte
nella teoria e nella prassi del Barocco aulico e classi-
cheggiante, ma non piú nel verismo della pittura olan-
dese. Qui l’esecuzione manuale, il ductus pittorico, la
pennellata e ogni tocco di mano del maestro sulla tela
acquistano un’importanza cosí straordinaria, che il desi-
derio di preservarne la schiettezza limita necessaria-
mente la divisione del lavoro. Rubens fa sua la conce-
zione classicheggiante della creazione artistica proprio in
quel periodo della sua vita in cui la sua azienda rag-
giunge il massimo sviluppo ed è costretto a lasciar per
lo piú agli aiuti l’esecuzione delle sue opere. Tale suo
metodo si afferma solo dopo l’Erezione della Croce63 e
scompare nell’ultima attività del pittore, che torna a
darci piú spesso opere autografe.
Rembrandt giunge a una fase corrispondente al tardo
stile di Rubens subito dopo la sua prima attività di
ritrattista. Da allora la pittura per lui è una forma di

Storia dell’arte Einaudi 60


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

diretta comunicazione personale, forma sempre imme-


diata, volta per volta raggiunta, di un «impressionismo»
che risolve la realtà in una creazione dell’occhio che
tutto anima e si appropria. Riegl divide la storia dell’arte
in due grandi periodi: il primitivo, in cui tutto è ogget-
to; il moderno, in cui tutto è soggetto. Secondo questa
tesi l’evoluzione dell’antichità classica all’età barocca
non è che il graduale trapasso dal primo al secondo
periodo; e la pittura olandese del Seicento è la svolta piú
importante per giungere alla condizione presente, in cui
tutti gli oggetti appaiono pure impressioni ed esperien-
ze della coscienza soggettiva64. Al prestigio di Rubens di
fronte al pubblico non nuoce la radicale libertà della sua
pittura degli ultimi anni; Rembrandt per quello stesso
radicalismo andrà incontro alla rovina. Il declino comin-
cia nel 1642, dopo il compimento della Ronda di notte,
anche se il quadro non fu un completo insuccesso65. Fra
il 1642 e il 1656 Rembrandt non è ancora disoccupato,
benché i suoi rapporti con la ricca borghesia comincino
ad allentarsi. Solo dopo il 165o egli vede diminuire le
ordinazioni, e cominciano a incalzarlo gravi difficoltà
finanziarie66. Ma egli non fu vittima solo della sua indo-
le poco pratica e della sua negligenza negli affari; il fina-
le insuccesso fu piuttosto la conseguenza del graduale
volgersi del pubblico al classismo67 e del fatto che egli
stesso si andava allontanando da quel pathos barocco,
che negli anni giovanili non aveva disdegnato68. Il rifiu-
to del suo Claudio Civile, dipinto per il municipio di
Amsterdam, fu il primo segno della crisi artistica del
tempo. Rembrandt ne fu la prima grande vittima. Nes-
sun’epoca precedente l’avrebbe plasmato cosí com’era,
ma neppure l’avrebbe lasciato precipitare cosí in basso.
Forse una cultura aulica e conservatrice non avrebbe mai
permesso che un artista del suo stampo si affermasse;
ma, una volta affermato, gli avrebbe consentito di soste-

Storia dell’arte Einaudi 61


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nersi forse meglio che l’Olanda borghese e liberale, che


gli permise di evolversi spontaneamente, ma lo spezzò
appena egli non si lasciò piegare. La vita spirituale del-
l’artista è sempre e dovunque minacciata; né una società
autoritaria, né una liberale sono per lui senza pericoli:
se l’una gli concede minor libertà, l’altra gli garantisce
minor sicurezza. Ci sono artisti che si sentono sicuri solo
nella libertà, ma altri possono respirare liberamente solo
in un’atmosfera di sicurezza. Dall’ideale unione di
entrambe il Seicento, comunque, era assai lontano.

1
Cfr. francesco milizia, Dizionario delle belle arti del disegno,
1797.
2
b. croce, Storia dell’età barocca in Italia, 1929, p. 23.
3
h. wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, 1929, 7a ed., pp.
23-24 [trad. it., Concetti fondamentali della storia dell’arte, Milano
1953].
4
Ibid., p. 136.
5
w. dilthey, Gesammelte Schriften, cit., II, p. 320.
6
é. mâle, L’Art religieux ecc. cit., p. 6.
7
a. ehrhard, Katholisches Christentum ecc. cit., p. 356.
8
e. gothein, Staat und Gesellschaft des Zeitalters der Gegenreforma-
tion - Die Kultur der Gegenwart, II, 5/1, 1908, p. 200.
9
reinhold koser, Staat und Gesellschaft zur Höhezeit des Absoluti-
smus - Die Kultur der Gegenwart, II, 5/1, 1908, p. 255.
10
Ibid., p. 242.
11
e. lavisse, Histoire de France cit., VII, i, 1905 p. 379.
12
walter platzhoff, Das Zeitalter Ludwig XIV., in Propyläen-Welt
geschichte, VI, 1931, p. 8.
13
f. funck-brentano, La Cour du Roi Soleil, 1937, pp. 142-143.
14
Cfr. per quanto segue, henry lemonnier, L’Art français au temps
de Richelieu et Mazarin, 1893, passim, specialmente p. 28.
15
Ibid., p. 38.
16
La Gloire de Val-de-Grâce, V, 83-86.
17
rené bray, La formation de la doctrine classique en France, 1927,
p. 285.
18
e. lavisse, Histoire de France cit. VII, 2, 1906, p. 82.
19
Cfr. hans rose, Spätbarock, 1922, p. 11.

Storia dell’arte Einaudi 62


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

20
Cfr. henikyk grossman, Mechanistische Philosophie und Manu-
taktur, in «Zeitschrift für Sozialforschung», iv, 1935, 2, passim, in par-
ticolare pp. 191-92.
21
a. dresdner, Die Entstehung ecc. cit., pp. 104-5.
22
andré fontaine, Les doctrines d’art en France, 1909, p. 56.
23
a. dresdner, Die Entstehung cit., pp. 121 sgg.
24
e. lavisse, Histoire de France cit., VIII, 1, 1908, p. 422.
25
josef aynard, La Bourgeoisie française, 19 , p. 255.
26
w. weisbach, Französische Malerei des XVII. Jahrhunderts im Rah-
men von Kultur und Gesellschaft, 1932, p. 140.
27
h. lemonnier, L’art français ecc. cit., p. 104; w. weisbach, Fran-
zosische Malerei ecc. cit., p. 95.
28
karl vossler, Frankreichs Kultur im Spiegel seiner Spra-
chentwicklung, 1921, p. 366 [trad. it., Civiltà e lingua in Francia, Bari
1948].
29
bédier-hazard, Histoire de la littérature française, I, 1923, p. 232.
30
viktor klemperer, Zur französischen Klassik, in Oskar-Wal-
zel-Festschrift, 1924, p. 129.
31
roger picard, Les Salons littéraires et la société française, 1943,
p. 32.
32
henri pirenne, Histoire de Belgique, IV, 1911, pp. 437-38.
33
p. j. block, Geschichte der Niederlande, IV, 1910, p. 7.
34
Cfr., per quanto segue, j. huizinga, Holländische Kultur des XVII.
Jahrhunderts, 1933, pp. 11-14; g. j. renier, The Dutch Nation, 1941,
pp. 11 sgg.
35
g. j. renier, The Dutch Nation cit., p. 32.
36
Cfr, franz mehring, Zur Literaturgeschichte von Calderón bis
Heine, 1929, p. 111.
37
j. huizinga, Holländische Kultur ecc. cit., p. 13.
38
kurt kaser, Geschichte Europas im Zeitalter des Absolutismus, in
L. M. Hartmann-Weltgeschichte, VI, 2, 1923, pp. 59, 61.
39
f. von benzold, Staat und Gesellichaft des Reformationszeitalters
cit., p. 92.
40
j. huizinga, Holländische Kultur cit., pp. 28-29.
41
f. schmidt-degener, Rembrandt und der holländische Barock, in
«Studien der Bibliothek Warburg», 1928, ix, pp. 35-36.
42
alois riegl, Das holländische Gruppenporträt, in «Jahrbuch der
Kunsthistorischen Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses»,
1902, vol.. XXIII, p. 234.
43
john evelyn, Memoirs, 1818, p. 13.
44
w. martin, The Life of a Dutch Artist, VI, How the painter sold
his work, in «The Burlington Magazine», xi, 1907, p. 369.

Storia dell’arte Einaudi 63


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

45
hanns fluke, Studien zur niederländischen Kunst- und Kulturge-
schichte, 1905, p. 154.
46
Cfr. n. pevsner, Academies of Art cit., p. 135.
47
w. von bode, Die Meister der holländischen und vlämischen Maler-
schulen, 1919, pp. 80, 174.
48
h. forke, Studien ece. cit., pp. 74-75.
49
Ibid., pp. 92-94.
50
Cfr., per quanto segue, ibid., pp. 89-90.
51
Ibid., p. 120.
52
n. s. trivas, Franz Hals, 1941, p. 7.
53
w. mailtin, The Life of a Dutch Artist cit., p. 369.
54
a. rosemberg, Adrian und Isaak Ostade, 1900, p. 100.
55
h. flörke, Studien ecc. cit., p. 180
56
Ibid., p. 54.
57
g. d’avenal, Les revenus d’un intellectuel de 1200 à 1913, 1922,
p. 231.
58
Ibid., p. 237.
59
Ibid., pp. 293, 300, 341.
60
p. drey, Die wirtschaftlichen Grundlagen der Malkunst, 1900, p. 50.
61
a. dresdner, Die Entstehung ecc. cit., p. 309.
62
r. oldenburg, P. P. Rubens, 1922, p. 116.
63
Ibid., p. 118.
64
a. riegl, Das holländische Gruppenporträt ecc. cit., p. 277.
65
c. neumann, Rembrandt, 1902, p. 406.
66
m. j. friedländer, Die niederländische Malerei des XVII. Jahrhun-
derts, 1923, p. 32.
67
w. drost, Barockmalerei in den germanischen Ländern, in «Hand-
buch der Kunstwissenschaft», 1926, p. 171.
68
f. schmidt-degener, Rembrandt ecc. cit., p. 27.

Storia dell’arte Einaudi 64


rococò neoclassicismo romanticismo

Capitolo primo

La fine dell’arte aulica

È cosa comunemente risaputa che l’arte aulica, dopo


uno sviluppo quasi continuo dalla fine del Rinascimen-
to in poi, subisce nel secolo xviii un arresto per cedere
poi del tutto a quel soggettivismo borghese, che, in com-
plesso domina ancor oggi la concezione artistica; è meno
noto invece che certi caratteri della nuova tendenza
sono già palesi nel Rococò e che proprio a questo punto
si verifica la rottura con la tradizione aulica. Infatti, se
è vero che soltanto con Greuze e Chardin si entra nel
mondo borghese, è vero anche che Boucher e Largilliè-
re non ne sono piú molto lontani. La tendenza al monu-
mentale, al solenne, al patetico scompare già col primo
Rococò, per lasciare posto a un gusto del leggiadro e del-
l’intimo. Il colore e la sfumatura prevalgono fin dall’i-
nizio sulla linea grandiosa, salda, obiettiva, e la nota
della sensualità e del sentimento è d’ora in poi sempre
presente. Se dunque il Dix-huitième per certi aspetti
può sembrare una prosecuzione, anzi la piena matura-
zione del fasto e dell’albagia barocca, in realtà è ben lon-
tano dal considerare il grand goût* come lo stile unico e
indiscusso. Le sue creazioni, anche quelle destinate ai
ceti superiori, mancano ormai delle grandi, eroiche
dimensioni. Si tratta però sempre di un’arte molto
distinta, elegante, essenzialmente aristocratica, un’arte
per la quale i criteri di leggiadria e convenzione sono piú
validi di quelli di interiorità e spontaneità, un’arte che

Storia dell’arte Einaudi 4


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

si realizza secondo uno schema fisso, universale, ripetuto


all’infinito, tant’è vero che l’elemento piú caratteristi-
co di essa è un eccezionale virtuosismo tecnico, per lo
piú affatto esteriore. Questi aspetti decorativi e con-
venzionali, di origine barocca, solo lentamente scom-
paiono dal Rococò, sostituiti via via da caratteri del
gusto borghese.
Contro la tradizione barocco-rococò si muove da due
direzioni diverse, che però convergono verso un mede-
simo ideale estetico, contrario al gusto di corte: da un
lato l’orientamento sentimentale e naturalistico di Rous-
seau e di Richardson, Greuze e Hogarth; dall’altro, il
razionalismo e il classicismo di Lessing e Winckelmann,
di Mengs e David. Entrambe queste correnti al fasto
aulico della tradizione oppongono un ideale di sempli-
cità e la serietà profonda di un costume puritano. Il pas-
saggio dall’arte aulica a quella borghese avviene in
Inghilterra prima e piú radicalmente che in Francia,
dove la tradizione barocco-rococò continua a vivere sot-
terranea e si fa sentire ancora nell’età romantica. Ma alla
fine del secolo anche in Europa l’arte dominante è un’ar-
te borghese. Magari è possibile distinguere in essa una
corrente progressista da una conservatrice, ma un’arte
viva che esprima gli ideali aristocratici e serva le ambi-
zioni della corte ormai non c’è piú. È raro nella storia
un mutamento di egemonia culturale e artistica altret-
tanto radicale di questo, che porta la borghesia a sosti-
tuire in tutto l’aristocrazia. Non meno raro è un capo-
volgimento del gusto deciso come questo, per cui alla
decorazione si sostituisce l’espressione.
Veramente non per la prima volta la borghesia impo-
ne il suo gusto. Già nei secoli xv e xvi in tutta Europa
aveva dominato un’arte di chiaro stampo borghese, che
solo nel tardo Rinascimento e nell’epoca manieristica e
barocca aveva ceduto di fronte al prevalere dello stile
aulico. Ma nel Settecento, quando la borghesia riacqui-

Storia dell’arte Einaudi 5


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sta potenza economica, sociale e politica, l’arte aulica


ufficiale, che frattanto si era imposta dovunque, torna
a scomparire e lascia il gusto borghese padrone assoluto
del campo. Nel Seicento, solo in Olanda si era avuta una
grande fioritura d’arte, assai piú coerente e radicale, nel
suo carattere borghese, di quella del Rinascimento, che
tanti elementi romantico-cavallereschi e mistico-religio-
si portava ancora con sé. Ma era rimasto un fenomeno
quasi del tutto isolato nell’Europa d’allora, e il Sette-
cento che dà inizio all’arte moderna non si ricollega
direttamente ad essa. Una vera continuità di sviluppo
manca anche perché la stessa pittura olandese nel corso
del Seicento era venuta perdendo molto del suo primi-
tivo carattere. In realtà le origini vere dell’arte della
moderna borghesia sono da ricercare, in Francia come
in Inghilterra, nel mutamento della società; solo questo
può spiegare il superamento del gusto aulico, a cui,
certo, i movimenti filosofici e letterari del tempo furo-
no stimoli piú forti di un’arte straniera, lontana nel
tempo e nello spazio.
Il processo che sul piano politico culmina nella Rivo-
luzione francese, e su quello artistico nel romanticismo,
comincia con la Reggenza, che mina la monarchia in
quanto principio di autorità assoluta, disgrega la corte
in quanto centro dell’arte e della cultura, e mette fine
al Barocco classicheggiante, in quanto diretta espressio-
ne della potenza e dell’orgogliosa sicurezza dell’assolu-
tismo. Del resto, il processo si prepara già durante il
regno di Luigi XIV. Le guerre interminabili dissestano
le finanze del paese; le casse dello stato si svuotano e il
popolo s’impoverisce, poiché staffile e carcere non val-
gono a creare contribuenti, come le guerre e le conqui-
ste non assicurano nessuna egemonia economica. È
ancor vivo il Re Sole, quando si fanno sentire le prime
critiche alle conseguenze dell’autocrazia. Già Fénelon è
abbastanza esplicito in proposito, ma Bayle, Malebran-

Storia dell’arte Einaudi 6


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

che e Fontenelle vanno tanto oltre, da giustificare l’af-


fermazione che la «crisi dello spirito europeo», di cui è
piena la storia del secolo xviii, era già in atto fin dal
16801. Contemporaneamente, anche la critica del clas-
sicismo guadagna terreno e prelude alla fine dell’arte
aulica. Verso il 1685 si conclude l’epoca creativa del
Barocco classicheggiante; Le Brun perde la sua influen-
za e i grandi scrittori dell’epoca, Racine, Molière, Boi-
leau e Bossuet, hanno ormai detto la loro ultima parola
o, almeno, quella decisiva2. Con la querelle des anciens et
des modernes cominciano già quelle lotte fra tradizione
e progresso, antico e moderno, ragione e sentimento
che troveranno nel preromanticismo di Diderot e di
Rousseau la loro conclusione.
Negli ultimi anni di Luigi XIV stato e corte furono
governati dalla bigotta Madame de Maintenon. L’ari-
stocrazia si sentiva a disagio nell’atmosfera di cupa
solennità e di gretta devozione ormai imperante a Ver-
sailles. Quando il re morì, tutti trassero un sospiro di sol-
lievo, specie quelli che dalla reggenza di Filippo
d’Orléans si attendevano la liberazione dal dispotismo.
Il reggente considerava antiquato il sistema ammini-
strativo dello zio3 e iniziò il suo governo reagendo su
tutta la linea contro i vecchi metodi. Sul piano politico
e sociale tentò di rianimare la nobiltà, su quello econo-
mico favorì iniziative private, come quella di Law, e
quanto al modo di vivere dell’alta società portò un
nuovo stile e mise in voga edonismo e libertinaggio.
Cominciò cosí un processo di generale disgregazione, cui
non resistette nessuno degli antichi vincoli. Alcuni di
essi piú tardi si ricostituirono, ma il vecchio sistema fu
scosso dalle radici. Come primo atto di governo, Filip-
po annullò il testamento del defunto re, che prevedeva
il riconoscimento dei propri figli illegittimi. Cominciò
cosí il declino del prestigio del re, che, anche se la
monarchia assoluta si mantenne a lungo, non poté piú

Storia dell’arte Einaudi 7


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

essere restaurato nella sua antica grandezza. Il potere


venne esercitato in modo sempre piú arbitrario, tutta-
via tradendo sempre piú un senso di insicurezza: situa-
zione che le famose parole del maresciallo di Richelieu
a Luigi XVI caratterizzano perfettamente: «Sotto Luigi
XIV non si osava aprir bocca, sotto Luigi XV si mor-
morava, ora si parla forte e senza riguardi». Chi voles-
se giudicare i rapporti di forza effettivi dalle ordinanze
e dai decreti del tempo cadrebbe, osserva Tocqueville,
in un ridicolo errore. Sanzioni come la celebre pena di
morte per chi componesse o diffondesse scritti contro la
religione e l’ordine pubblico rimanevano sulla carta. Nel
caso peggiore i colpevoli dovevano lasciare il paese e
spesso erano avvisati e protetti da quegli stessi funzio-
nari che avrebbero dovuto perseguirli. Al tempo di Luigi
XIV tutta la vita intellettuale stava ancora sotto la tute-
la del re; non si trovava appoggio se non presso di lui,
e tanto meno contro di lui. Ma ora appaiono altri pro-
tettori, altri mecenati, altri centri di cultura; e l’arte in
larga misura, la letteratura completamente, si sviluppa-
no lontano dalla corte e dal re.
Filippo d’Orléans trasporta la residenza da Versail-
les a Parigi, il che in fondo significa sciogliere la corte.
Il reggente è ostile a ogni restrizione e costrizione, a ogni
formalità; si sente a suo agio soltanto nella stretta cer-
chia degli amici. Il giovane re abita alle Tuileries, il reg-
gente al Palais Royal, i membri della nobiltà sono disper-
si fra castelli e palazzi e si divertono nei teatri, ai balli
e nei salotti della città. Il reggente e il Palais Royal rap-
presentano il gusto di Parigi, lo stile cittadino piú disin-
volto e agile di fronte al grand goût di Versailles. La
«città» non si contenta piú di vivere all’ombra della
corte, ne usurpa il posto e ne assume le funzioni cultu-
rali. La melanconica esclamazione della contessa palati-
na Elisabetta Carlotta, madre del reggente, «Non c’è piú
corte in Francia!», risponde alla realtà. E non si tratta

Storia dell’arte Einaudi 8


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di una situazione passeggera; una corte come l’antica


non ci sarà mai piú. Luigi XV ha gli stessi gusti del reg-
gente, anch’egli predilige le compagnie poco numerose;
e Luigi XVI si limita alla cerchia dei famigliari. Entram-
bi si sottraggono alle cerimonie, l’etichetta li annoia e li
irrita e, anche se in certa misura si continua a rispettarla,
perde gran parte della sua solennità. Alla corte di Luigi
XVI domina un tono intimo e per sei giorni alla setti-
mana i ricevimenti hanno l’aspetto di conversazioni pri-
vate4. L’unico luogo in cui, durante la Reggenza, si svi-
luppa in certo senso una vita di corte è il castello della
duchessa del Maine, a Sceaux, che diventa il teatro di
feste splendide, ricchissime e ingegnose, e insieme un
nuovo centro d’arte, una vera corte delle Muse. Ma gli
spettacoli della duchessa contengono il germe della defi-
nitiva distruzione della vita di corte: essi sono qualcosa
di intermedio fra la corte nel vecchio senso e quello che
è il suo erede spirituale, il salotto del Settecento. Cosí
la corte torna a dissolversi nei circoli privati, da cui si
era sviluppata come centro dell’arte e della letteratura.
Uno degli aspetti piú importanti del programma di
Filippo fu il tentativo di reintegrare negli antichi dirit-
ti e funzioni politiche gli aristocratici soggiogati da Luigi
XIV. Egli formò con membri dell’alta nobiltà i cosid-
detti Conseils, destinati a sostituire i ministri borghesi.
Ma l’esperimento dovette essere abbandonato dopo tre
anni, perché i nobili avevano perso l’abitudine agli affa-
ri pubblici e non prendevano piú alcun vero interesse al
governo dello stato. Essi disertavano le sedute e, volen-
ti o nolenti, si dovette tornare al sistema di Luigi XIV.
La Reggenza dunque, esteriormente, segnò l’inizio di un
recupero del prestigio aristocratico, che irrigidí i confi-
ni sociali e accrebbe le distanze fra i ceti; in sostanza
invece non arrestò la marcia della borghesia verso il
potere, né il declino della nobiltà. Come già ebbe a rile-
vare il Tocqueville, è caratteristico dello sviluppo socia-

Storia dell’arte Einaudi 9


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

le del Settecento che, pur accentuandosi le distinzioni


tra gli ordini e le classi, il livellamento della cultura non
si arrestò, e gli uomini, che esteriormente si affannava-
no tanto a distinguersi, intimamente diventavano sem-
pre piú simili5, cosí che alla fine non ci furono piú che
due grandi gruppi: il popolo e la comunità di coloro che
gli sovrastavano. La gente che apparteneva a quest’ulti-
mo gruppo aveva le stesse abitudini, lo stesso gusto e
parlava lo stesso linguaggio. L’aristocrazia e l’alta bor-
ghesia si fusero in un unico ceto depositario della cul-
tura, in cui l’antica classe colta dava e riceveva a un
tempo. I membri dell’alta nobiltà non si limitavano a
frequentare occasionalmente e per condiscendenza case
dove si incontravano finanzieri e alti funzionari, ma
accorrevano anche nei salotti dei ricchi borghesi e delle
colte signore della borghesia. Madame Geoffrin riunisce
in casa sua il fiore dell’aristocrazia e dell’intellettualità,
figli di principi, conti, orologiai, mercanti; è in corri-
spondenza epistolare con l’imperatrice di Russia e con
Grimm, è amica del re di Polonia e di Fontenelle, rifiu-
ta l’invito di Federico il Grande e degna di particolare
attenzione il plebeo d’Alembert. L’aristocrazia comin-
cia ad adottare mentalità e morale borghesi e a mesco-
larsi con la borghesia intellettuale proprio nel momento
in cui piú forte che mai è il peso della gerarchia socia-
le6. Forse fra i due fenomeni corre un rapporto di causa
ed effetto.
Nel Seicento la nobiltà aveva perduto i suoi privile-
gi feudali, tranne i diritti di proprietà sulle sue terre e
l’immunità fiscale; a funzionari della Corona aveva
dovuto cedere le sue funzioni giudiziarie e amministra-
tive. La rendita fondiaria, d’altra parte, a partire dal
1660, in seguito alla sempre minor capacità d’acquisto
del denaro, era venuta perdendo molto del suo valore.
La nobiltà fu cosí costretta ad alienare le sue terre in
misura sempre maggiore, impoverendosi e avviandosi

Storia dell’arte Einaudi 10


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

alla decadenza. Il fenomeno, veramente, fu piú largo e


diffuso fra la piccola e media nobiltà di provincia, che
negli ambienti dell’alta nobiltà di corte, ancor molto
ricca e rifattasi piú autorevole nel secolo xviii. Alle
«quattromila famiglie» dell’alta nobiltà continuarono
ad essere riservati gli uffici di corte, le alte dignità eccle-
siastiche, i gradi dell’esercito, i posti di governatore e le
pensioni reali. Quasi un quarto dell’intero bilancio anda-
va a loro profitto. L’antico rancore della Corona contro
la nobiltà feudale era cessato; Luigi XV e Luigi XVI
ripresero a scegliere i loro ministri per lo piú tra i nobi-
li7, che tuttavia conservarono le loro tendenze antidi-
nastiche e il loro spirito di insubordinazione e nell’ora
del pericolo furono fatali alla monarchia. La nobiltà
infatti non esitò ad allearsi con i borghesi contro la
Corona, benché la buona intesa fra le due classi avesse
molto sofferto dall’inizio dell’accentramento statale.
Prima, esse si sentivano spesso minacciate dallo stesso
pericolo, non solo, ma avevano da risolvere problemi
amministrativi comuni, il che bastava a ravvicinarle. Le
relazioni peggiorarono da quando la nobiltà riconobbe
nella borghesia la sua rivale piú pericolosa e da allora il
re dovette intervenire continuamente a calmare la gelo-
sia dei nobili. Se in apparenza il re sembra superiore ad
entrambe le parti, in realtà deve far loro continue con-
cessioni, favorendo or l’una or l’altra8. Un segno di que-
sta politica di favore verso la nobiltà è da scorgere anche
nel fatto che già sotto Luigi XV è molto piú difficile per
un roturier giungere al grado di ufficiale che non al
tempo di Luigi XIV. Dopo, l’editto del 1781 la bor-
ghesia fu esclusa del tutto dall’esercito. Lo stesso accad-
de per le alte dignità ecclesiastiche; nel Seicento c’era
ancora fra i principi della Chiesa un certo numero di non
nobili, come Bossuet e Fléchier, ma questo non si veri-
ficò piú nel Settecento. La rivalità tra aristocratici e bor-
ghesi si acuí sempre piú, sublimandosi però in un’emu-

Storia dell’arte Einaudi 11


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

lazione intellettuale, che provocò un gioco psicologico


complesso, in cui s’intrecciavano in piú modi attrazio-
ne e repulsione, imitazione e rifiuto, considerazione e
risentimento. L’uguaglianza materiale e la superiorità
pratica della borghesia spingevano i nobili ad accentua-
re la disparità dell’origine e la differenza delle tradizio-
ni. Ma anche la borghesia, quanto piú simili si faceva-
no le condizioni esteriori, tanto piú si sentiva avversa
alla nobiltà. Finché ogni possibile ascesa sociale le era
stata preclusa, mai aveva pensato di paragonarsi ai ceti
superiori; ma appena le si offrì la possibilità di elevarsi,
subito ebbe chiara coscienza dell’ingiustizia sociale e i
privilegi nobiliari le apparvero intollerabili. In breve,
quanto piú la nobiltà perdeva del suo potere effettivo,
tanto piú ostinatamente si attaccava ai privilegi super-
stiti e tanto piú li ostentava; d’altra parte la borghesia,
quanto piú diventava ricca, tanto piú umiliante sentiva
la discriminazione sociale e si accaniva nella lotta per l’u-
guaglianza dei diritti politici.
La ricchezza accumulata dalla borghesia nel Rinasci-
mento era stata distrutta dalle grandi bancarotte stata-
li del Cinquecento, e non aveva potuto ricostituirsi nel-
l’epoca aurea dell’assolutismo e del mercantilismo, quan-
do i principi e gli stati monopolizzavano gli affari piú
importanti9. Solo nel secolo xviii, finita l’epoca del mer-
cantilismo e iniziatasi quella del laissez-faire, la borghe-
sia, con il suo individualismo economico, riuscí nuova-
mente ad affermarsi; e benché mercanti e industriali già
avessero saputo trarre notevoli vantaggi dall’assenza del-
l’aristocrazia dagli affari, il grande capitale borghese si
formò solo durante la Reggenza e il periodo successivo.
Questo regime fu realmente «la culla del Terzo Stato».
Sotto Luigi XVI, poi, la borghesia dell’ancien régime rag-
giunse il suo pieno sviluppo intellettuale e materiale10.
Erano nelle sue mani il commercio, l’industria, le
banche, la ferme générale, le professioni liberali, la let-

Storia dell’arte Einaudi 12


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

teratura e il giornalismo, cioè tutte le posizioni-chiave


della società, ad eccezione degli alti gradi nell’esercito,
nella Chiesa e a corte. Si ebbe allora un’attività com-
merciale mai vista prima, le industrie prosperarono, le
banche si moltiplicarono, enormi somme passarono fra
le mani di imprenditori e di speculatori. I bisogni
aumentarono e si diffusero; e non solo gente come i ban-
chieri e gli appaltatori delle tasse salirono di grado e pre-
sero a gareggiare in splendore coi nobili, ma anche la
media borghesia trasse profitto dalla congiuntura e par-
tecipò sempre piú largamente alla vita culturale. La
Rivoluzione, dunque, non scoppiò in un paese econo-
micamente esausto; si trattava piuttosto di uno stato
insolvente, con cittadini ricchi.
A poco a poco la borghesia s’impadroní di tutti gli
strumenti della cultura. Non solo scriveva i libri, ma li
leggeva; non solo dipingeva i quadri, ma li comprava.
Nel secolo precedente essa rappresentava una parte
ancor relativamente modesta del pubblico che si occu-
pava d’arte e di letteratura; ora essa costituisce senz’al-
tro la classe colta, anzi diventa la vera depositaria della
cultura. Ad essa appartengono in gran parte i lettori di
Voltaire, quasi esclusivamente quelli di Rousseau. Cro-
zat, il piú grande collezionista del secolo, viene da una
famiglia di mercanti; Bergeret, il protettore di Frago-
nard, è d’origine anche piú modesta; Laplace è figlio di
un contadino, e d’Alembert non si sapeva di chi fosse
figlio. Lo stesso pubblico borghese che legge Voltaire
legge anche i poeti latini e i classici francesi del Seicen-
to, e nelle sue esclusioni è risoluto come nei suoi con-
sensi. È poco favorevole agli autori greci, che scom-
paiono via via dalle biblioteche; disprezza il Medioevo;
la Spagna gli è ormai estranea; le sue relazioni con l’I-
talia non sono ancora ben sviluppate e comunque non
avranno mai la cordialità di quelle fra la società aristo-
cratica e il Rinascimento italiano. Il rappresentante del

Storia dell’arte Einaudi 13


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

secolo xvi lo si è voluto vedere nel gentilhomme, quello


del xvii nell’honnête homme, e quello del xviii dell’uo-
mo colto11, che equivale a dire il lettore di Voltaire. È,
stato detto che non si può comprendere il borghese di
Francia se non si conosce Voltaire, che il borghese pren-
de a modello12; ma d’altra parte non si comprende Vol-
taire se non si vede quanto sia legato, non solo per l’o-
rigine, ma anche per la mentalità, al ceto medio, ad
onta dei suoi modi da gran signore, delle sue amicizie
regali e dell’ingente ricchezza. Il suo sobrio classicismo,
la sua rinunzia a risolvere i grandi problemi metafisici,
anzi la diffidenza verso chiunque ne discuta, il suo spi-
rito acuto, battagliero e tuttavia cosí urbano, la religio-
sità anticlericale e antimistica, il suo antiromanticismo,
l’avversione per tutto ciò che è oscuro, inesplicato e ine-
splicabile, la fiducia in se stesso, la persuasione che a
tutto comprendere, risolvere, decidere bastino le facoltà
razionali, il suo prudente scetticismo, il ragionevole con-
tentarsi di ciò che è prossimo e raggiungibile, la com-
prensione per «l’esigenza del giorno», il suo «mais il faut
cultiver notre jardin»: tutto ciò è borghese, profonda-
mente borghese, anche se non esaurisce lo spirito della
borghesia che nel soggettivismo e nel sentimentalismo
di cui Rousseau si farà banditore, trova l’altra sua fac-
cia, forse altrettanto importante. Il grande antagonismo
all’interno della borghesia esisteva fin da principio; i
futuri seguaci di Rousseau forse non costituivano anco-
ra un pubblico regolare quando Voltaire si conquistò i
suoi lettori, ma esistevano già come ceto sociale esatta-
mente definibile e in Rousseau trovarono semplicemen-
te il loro interprete.
La borghesia francese del Settecento non è piú omo-
genea di quella italiana del Quattro e Cinquecento. Non
si ha certo nel Settecento nulla di analogo all’antica
lotta per l’egemonia delle Arti, ma fra i diversi strati
della classe borghese esiste un contrasto altrettanto

Storia dell’arte Einaudi 14


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

acuto di interessi economici. Abitualmente si parla della


lotta di emancipazione e della rivoluzione del Terzo
Stato come di movimenti unitari; in realtà l’unità della
borghesia risulta solo dal fatto che è separata verso l’al-
to dalla nobiltà e verso il basso dai contadini e dal pro-
letariato urbano; entro questi confini, permane sempre
la distinzione tra la parte favorita e quella senza privi-
legi. Dei privilegi della borghesia non si parla mai nel
Settecento e si finge di ignorarne le condizioni di favo-
re, ma i privilegiati si oppongono a qualsiasi riforma che
possa estendere i loro vantaggi anche ai ceti inferiori13.
La borghesia vuole solo una democrazia politica ed
abbandona i compagni di lotta non appena la Rivolu-
zione prende sul serio l’uguaglianza dei diritti in campo
economico. La società del tempo è piena di tensioni e
di contraddizioni; e la monarchia che ne è profonda-
mente influenzata si vede costretta a sostenere ora gli
interessi dei nobili, ora quelli dei borghesi, e finisce con
l’inimicarsi le due parti: cioè una nobiltà tendenzial-
mente ostile sia alla Corona sia alla borghesia, e che assi-
mila le idee che provocano la sua caduta; e una borghe-
sia, che fa trionfare la sua rivoluzione con l’aiuto dei ceti
inferiori, per opporsi poi subito agli alleati, affiancandosi
agli ex nemici. Finché questi elementi si equilibrano
dominando la vita intellettuale del paese, cioè fin dopo
la metà del secolo, arte e letteratura si trovano in uno
stato di transizione e sono piene di tendenze contra-
stanti, spesso inconciliabili; esse oscillano fra tradizio-
ne e libertà, ordine e spontaneità, decorazione ed espres-
sione. Ma ancora nella seconda metà del secolo, quan-
do già prevalgono il liberalismo e il culto del sentimen-
to, le diverse correnti, pur separandosi anche piú net-
tamente, persistono l’una accanto all’altra. Se mai si
scambiano le parti; e proprio il classicismo, che era uno
stile aulico-aristocratico, servirà a diffondere le idee
della borghesia progressista.

Storia dell’arte Einaudi 15


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

L’epoca della Reggenza è un periodo di vivissima


attività intellettuale che non si limita al criticare l’epo-
ca precedente, ma è in larga misura creativo e pone pro-
blemi che occuperanno tutto il secolo. Di pari passo col
generale allentarsi della disciplina, col crescere dell’ir-
religiosità, col farsi piú libero e personale del costume,
decade nell’arte il «grande» stile di corte. Si comincia
con la critica della dottrina accademica, che pretendeva
di presentare l’ideale classico come un principio eterno,
imposto da Dio, analogamente a come la teoria politica
ufficiale voleva presentare la monarchia assoluta. Nulla
caratterizza il liberalismo e il relativismo dei tempi nuovi
meglio della frase di Antoine Coypel – prima di lui
inammissibile per qualunque direttore di accademia –
che la pittura, come ogni cosa umana, è soggetta alla
moda14. Questa nuova concezione dell’arte si afferma
dappertutto anche nelle opere: l’arte diventa piú umana,
piú accessibile, meno pretenziosa; non è piú destinata a
semidei e superuomini, ma a comuni mortali, a creatu-
re deboli, sensuali, avide di piaceri. Essa non esprime
piú grandezza e potenza, ma la bellezza e il fascino della
vita; non vuol piú imporsi e soggiogare, ma attrarre e
dilettare. Nell’ultimo periodo del governo di Luigi XIV
persino a corte si formano circoli in cui gli artisti trovano
nuovi protettori, e spesso piú generosi e sensibili del re,
già assediato dalle difficoltà economiche e dominato
dalla Maintenon. Il duca d’Orléans, nipote del re, e il
duca di Borgogna, figlio del Delfino, sono l’anima di tali
circoli. Il futuro reggente si ribella fin d’ora all’arte
favorita da Luigi XIV, e ai propri artisti richiede un
tono piú leggero e scorrevole, uno stile piú sensuale e
delicato di quello in uso a corte. Spesso gli stessi artisti
lavorano per il re e per il duca, adattando volta a volta
lo stile al committente, come Coypel ad esempio: cor-
rettamente aulico al castello di Versailles, nella decora-
zione della cappella, al Palais Royal invece dipinge le

Storia dell’arte Einaudi 16


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dame in civettuolo négligé e per l’Académie des Inscrip-


tions disegna medaglie classicheggianti15. La grande
manière e in genere le forme d’arte auliche decadono
durante la Reggenza. Il quadro sacro, che già ai tempi
di Luigi XIV si era ridotto a un puro pretesto per ritrar-
re il seguito del re, e il grande quadro storico, che ser-
viva soprattutto alla propaganda monarchica, vengono
trascurati. Al paesaggio eroico subentra l’idillio pasto-
rale, e il ritratto, finora destinato soprattutto al pubbli-
co, diventa un genere comune, popolare, per lo piú di
uso privato; ora ognuno se lo concede, appena può. Al
Salon del 1704 sono esposti duecento ritratti, contro i
cinquanta del 169916. Largillière dipinge ormai di pre-
ferenza borghesi, anziché cortigiani, come i suoi prede-
cessori; vive a Parigi, non a Versailles, e anche questo è
un segno della vittoria della «città» sulla «corte»17.
Il favore del pubblico piú evoluto va alla scenetta
galante di Watteau, non piú al quadro di cerimonia,
sacro o storico; e nulla meglio esprime il mutamento del
gusto alla fine del secolo di questo passare da Le Brun
al maestro delle fêtes galantes. La cultura del nuovo pub-
blico, composto dall’aristocrazia piú illuminata e dal-
l’alta borghesia meglio sensibile all’arte, il dubbio con
cui si guarda ormai alle autorità artistiche finora accet-
tate, l’infrangersi della vecchia, angusta cerchia di sog-
getti, tutto contribuisce a rendere possibile l’apparizio-
ne del massimo pittore francese anteriore all’Ottocen-
to. Il genio pittorico, che l’epoca di Luigi XIV non era
riuscita a suscitare, pur con gli incarichi statali, gli sti-
pendi e le pensioni, con l’Accademia, la scuola di Roma
e la Regia manifattura, nasce invece con la Reggenza,
fallimentare, sventata, frivola, indisciplinata e irreligio-
sa. Watteau, nato in Fiandra, erede della tradizione
rubensiana, è per altro, dopo l’età gotica, il primo mae-
stro veramente «francese». Nei due secoli precedenti la
sua apparizione l’arte francese era stata soggetta all’in-

Storia dell’arte Einaudi 17


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

flusso straniero: Rinascimento, Manierismo e Barocco


erano stati fenomeni di importazione dall’Italia e dai
Paesi Bassi. In Francia, dove tutta la vita di corte da
principio si era modellata su esempi stranieri, anche
l’arte destinata al prestigio e alla propaganda regia si
espresse in forme venute di fuori, soprattutto italiane.
E queste forme, cosí intimamente concresciute con l’i-
dea della monarchia e della corte, assunsero un valore
stabile di istituzioni, tanto che si poterono sradicare
solo quando la corte cessò di essere il centro della vita
artistica.
Watteau dipingeva una società in cui egli poteva get-
tare uno sguardo solo dal di fuori: l’ideale di vita che
rappresentava, solo esteriormente poteva collimare con
le sue aspirazioni, e l’utopia della libertà cui dava figu-
ra solo vagamente doveva corrispondere all’idea di
libertà ch’era sua propria; ma quelle visioni egli le crea-
va da elementi di sue esperienze dirette, da schizzi degli
alberi del Lussemburgo, da scene di teatro ch’egli pote-
va vedere e certo vedeva ogni giorno, e da tipi caratte-
ristici del suo tempo, anche se magicamente travestiti.
La profondità dell’arte di Watteau è dovuta all’ambi-
valenza dei suoi rapporti col mondo, al fatto che essa
esprime ciò che la vita promette e insieme quel che
nega, al sentimento sempre presente di una perdita inef-
fabile e di una meta irraggiungibile, alla consapevolez-
za di una patria perduta e dell’utopica lontananza della
vera felicità. Quel ch’egli dipinge è pieno di malinconia,
nonostante la sensualità e la bellezza, la gioiosa dedi-
zione alla realtà e l’amore dei beni terreni che ispirano
la sua arte. In tutto egli dipinge la segreta tragedia di
una società che si perde nel pieno appagamento dei suoi
desideri. Non si tratta ancora però di un sentimento alla
Rousseau, dell’aspirazione allo stato di natura, ma al
contrario di un desiderio di perfetta civiltà, di tran-
quilla e sicura gioia di vivere. Nella fête galante, nella

Storia dell’arte Einaudi 18


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

festosa riunione di coppie amorose e Corti d’amore,


Watteau scopre la forma adeguata al suo nuovo senso
della vita, che è fatto insieme di piacere mondano e di
dolore universale, del tedio e della gioia dell’ora. L’ele-
mento bucolico è prevalente in questa fête galante che è
sempre una fête champêtre, e rappresenta gli svaghi di
giovani che, fra musica, danze e canti, menano la vita
spensierata dei pastori e delle pastorelle teocritee. Rap-
presenta la pace dei campi, che è insieme fuga dal gran
mondo e oblio di sé nella felicità amorosa. Ma non si
tratta di una semplice esistenza idillica, contemplativa
e paga; si tratta piuttosto dell’ideale arcadico della coin-
cidenza di natura e civiltà, bellezza e spiritualità, senso
e intelletto. Veramente anche questo ideale da gran
tempo non è piú nuovo; è solo una variante di un tema
poetico dell’età augustea, che aveva accomunato la leg-
genda dell’età dell’oro con l’idea dell’Arcadia. La sola
novità, rispetto alla versione romana, è che il mondo
bucolico assume parvenze di bel mondo, che i pastori e
le pastorelle portano ora l’elegante costume del tempo
e della situazione pastorale non resta che il colloquio
amoroso, la cornice naturale e la lontananza dalla vita
di corte e dalla città. Ma forse nemmeno questo è nuovo.
Infatti cosa fu fin dalle origini la poesia pastorale se non
una finzione, una giocosa finzione, cioè un semplice
civettare con l’idillico stato d’innocenza e di sempli-
cità? È difficile ammettere che, da quando esiste poe-
sia pastorale, cioè da quando esiste una vita urbana e di
corte altamente evoluta, ci sia mai stato chi davvero
volesse condurre la semplice, modesta vita dei pastori e
dei contadini. L’Arcadia fu sempre un sogno poetico in
cui gli elementi negativi, la fuga dal gran mondo e il
disprezzo dei suoi costumi, costituivano il momento
determinante; un gioco della fantasia, in sostanza, che
consentiva di evadere in una regione dove si sarebbero
avuti i vantaggi della civiltà senza però i suoi vincoli. Si

Storia dell’arte Einaudi 19


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rendevano piú seducenti le dame dipinte e profumate


immaginandole, pur con belletto e profumi, come fre-
sche, sane e innocenti contadinelle, cosí che la natura
esaltasse il fascino dell’arte. Fin da principio la finzio-
ne conteneva in sé le premesse che, in ogni cultura com-
plessa e raffinata, ne hanno fatto un simbolo di libertà
e di felicità.
Non per nulla la poesia bucolica, sorta nell’età elle-
nistica, presenta una tradizione quasi ininterrotta di
oltre duemila anni. Ad eccezione dell’alto Medioevo, in
cui mancò ogni cultura urbana e di corte, non c’è seco-
lo che non offra esempi di tale poesia. Se si prescinde
dai temi del romanzo cavalleresco, si può dire che non
c’è materia che abbia occupato cosí a lungo la letteratura
occidentale e abbia cosí tenacemente resistito agli assal-
ti del razionalismo. Questo lungo e quasi ininterrotto
dominio mostra che la poesia «sentimentale», nel senso
che Schiller dà alla parola, è incomparabilmente piú
importante nella storia letteraria della poesia «ingenua».
Anche gli idilli di Teocrito nascono, non già da uno
schietto legame con la terra e da un rapporto diretto con
la vita del popolo, ma da un naturalismo di riflesso e da
un’immagine romantica degli umili, cioè da affetti che
hanno la loro origine in un desiderio di cose lontane,
estranee ed esotiche. Il contadino e il pastore non si
entusiasmano né per la natura né per il loro lavoro quo-
tidiano. E si sa che l’interesse per la vita semplice non
è da cercare nell’ambiente campagnolo; non sorge fra il
popolo, ma fra i ceti piú elevati; non in campagna, ma
in città e alle corti, in una vita agitata, in una società
ormai troppo civile e sazia. Già quando Teocrito scri-
veva i suoi idilli il motivo e la situazione bucolica non
erano piú nuovi; avevano dovuto ricorrere già nella poe-
sia dei primitivi popoli pastori, ma spogli di sentimen-
talismo e compiacimento, e probabilmente senza alcun
tentativo di ridurre a motivi di genere le circostanze

Storia dell’arte Einaudi 20


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

esteriori della vita pastorale. Scene pastorali, senza però


l’accento lirico degli Idilli, si potevano comunque tro-
vare anche prima di Teocrito, nel mimo. E non ne man-
cavano, s’intende, nel dramma satiresco; la stessa tra-
gedia, come sappiamo, conosceva i quadri campestri18.
Ma scene pastorali e bozzetti di vita campagnola non
bastano a fare poesia bucolica, di cui l’elemento essen-
ziale è il contrasto latente fra città e campagna e il senso
di un disagio che incrina la civiltà.
Ma se a Teocrito bastava ancora la semplice rappre-
sentazione della vita pastorale, Virgilio, che ne è il primo
imitatore non pedissequo, non si accontenta piú della
descrizione realistica, e l’ecloga assume quella forma
allegorica che costituisce nella storia del genere il muta-
mento piú importante19. Già prima la poesia bucolica era
stata solo un modo per sottrarsi alla vita attiva e il desi-
derio di vivere come pastori non era mai stato da pren-
dere alla lettera; ora però il tema si fa ancora piú irrea-
le, poiché non è fittizio solo il desiderio della vita pasto-
rale, ma tutto il quadro diventa finzione. In essa il poeta
presenta sé e i suoi amici travestiti da pastori, in una
poetica distanza, ma subito riconoscibili per gli iniziati.
Il fascino di questa formula, nuova anche se già prean-
nunziata da Teocrito, fu cosí grande che le ecloghe vir-
giliane non soltanto divennero la piú celebre fra tutte le
opere del poeta, ma nessun’altra, si può dire, nella let-
teratura mondiale ha avuto una efficacia cosí persisten-
te e profonda. Dante e Petrarca, Boccaccio e Sannazza-
ro, Tasso e Guarini, Marot e Ronsard, Montemayor e
d’Urfé, Spenser e Sidney, e anche Milton e Shelley,
direttamente o indirettamente, ne dipendono nei loro
componimenti d’intonazione bucolica. A Teocrito, a
quanto sembra, bastava per sentirsi spaurito la vita di
corte, con le continue lotte per il successo, e la gran città
con il suo ritmo agitato. Virgilio aveva motivi già piú
reali per fuggire il proprio tempo. La secolare guerra

Storia dell’arte Einaudi 21


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

civile era appena finita, il poeta aveva visto in giovi-


nezza le lotte piú cruente, e la pace augustea, quando
egli scriveva le sue ecloghe, era piú una speranza che una
realtà20. La sua fuga nell’idillio coincide con il movi-
mento reazionario promosso da Augusto, tendente a
esaltare il passato della patria come l’età dell’oro, e a
stornare l’attenzione dagli avvenimenti politici del pre-
sente21. In fondo, nella sua nuova concezione del poema
pastorale, Virgilio fondeva il proprio sogno di pace con
la propaganda per una politica di pacificazione.
All’allegoria virgiliana si riconnette direttamente la
poesia bucolica del Medioevo. Veramente, i secoli fra la
rovina del mondo antico e il sorgere della civiltà feuda-
le e comunale ce ne hanno lasciato scarsi vestigi, ma quel
che ne sopravvive, che si rivela prodotto di pura erudi-
zione, è reminiscenza di antichi poeti, anzitutto di Vir-
gilio. Anche le ecloghe dantesche sono una dotta imita-
zione; e nello stesso Boccaccio, autore del primo idillio
pastorale moderno, sussistono tracce dell’antica allego-
ria bucolica. Con il romanzo pastorale che segna una
nuova svolta nella storia del genere, motivi bucolici
entrano anche nella novella del Rinascimento italiano,
ma perdendo i caratteri romantici che di solito li accom-
pagnano nell’idillio, nel romanzo e nel dramma pasto-
rale22. È un fenomeno, del resto, facilmente comprensi-
bile, se si riflette che la novella è per eccellenza lettera-
tura borghese e come tale tende al naturalismo; la poe-
sia pastorale invece costituisce un genere aulico-aristo-
cratico incline al romanticismo. E questa tendenza è pre-
ponderante nei componimenti pastorali di Lorenzo de’
Medici, Jacopo Sannazzaro, Castiglione, Ariosto, Tasso,
Guarini, Marino; e dimostra che nelle corti dell’Italia
rinascimentale, a Firenze, a Napoli, a Urbino, a Ferra-
ra, a Bologna, si segue la stessa moda letteraria. La poe-
sia bucolica è dappertutto lo specchio della vita di corte
e serve al lettore come modello di rapporti galanti. Nes-

Storia dell’arte Einaudi 22


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

suno piú prende alla lettera l’Arcadia; il carattere con-


venzionale degli elementi pastorali è evidente; e mentre
passa in secondo piano il significato originario di que-
sta poesia, cioè il suo rifiuto di una vita troppo civile, il
costume di corte viene ora avversato solo per la schia-
vitú che impone, non per la raffinatezza e l’artificio. È
comprensibile che con le sue sottigliezze e le sue alle-
gorie questa poesia pastorale che mescola il remoto e il
prossimo, l’immediato e l’inconsueto, sia tra i generi pre-
diletti dal Manierismo; e che in Spagna, la terra classi-
ca dell’etichetta di corte e del Manierismo, sia coltiva-
ta con speciale amore. Anche qui dapprima ci si attiene
ai modelli italiani, che il costume aulico diffonde in
tutto l’Occidente; ma ben presto i caratteri originali del
paese hanno il sopravvento dando luogo a un’unione,
d’ora in poi esemplare, di elementi cavallereschi e ele-
menti arcadici. Quest’ibrida forma spagnola, romanti-
co-bucolica, sarà il tramite per cui il romanzo pastorale
italiano si evolverà in quello francese.
In Francia gli inizi della poesia arcadica risalgono al
Medioevo e si presentano nel secolo xiii in una forma
di origine complessa, dipendente dalla lirica cortese.
Come in parte già negli idilli e nelle ecloghe antiche,
anche nelle pastourelles francesi la situazione bucolica
esprime fantasticamente un desiderio di liberazione dalle
forme ormai troppo rigide e convenzionali della poesia
erotica23. Quando il cavaliere dichiara il suo amore alla
pastora, si sente esonerato dalle leggi dell’amor cortese,
dalla fedeltà, dalla castità e dalla discrezione. Il suo
desiderio non ha nulla di ambiguo e, pur cosí impulsi-
vo, pare innocente accanto alla forzata purezza dell’a-
more ideale. Ma in sé la scena del cavaliere che solleci-
ta la pastorella è del tutto convenzionale e non ha piú
traccia della spontaneità teocritea. Oltre i due protago-
nisti e, talvolta, il pastore geloso, la scena esige al mas-
simo qualche pecora; manca affatto l’atmosfera del prato

Storia dell’arte Einaudi 23


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

e della selva, della mietitura e della vendemmia, il pro-


fumo di latte e di miele24. Certi elementi dell’ecloga
classica possono esser penetrati anche nelle pastourelles
attraverso semplici reminiscenze classiche, ma un influs-
so diretto dell’antica poesia bucolica sulla letteratura
francese, anteriormente alla diffusione del Rinascimen-
to italiano e della cultura di corte borgognona, non è
possibile affermarlo. E quest’influsso si approfondisce
soltanto con la moda generale dei romanzi pastorali ita-
liani e spagnoli e con la vittoria del Manierismo25. L’A-
minta del Tasso, Il Pastor fido del Guarini e la Diana del
Montemayor sono i modelli dei francesi, specialmente
di Honoré d’Urfé che con l’Astrée volle dare, sull’e-
sempio degli Italiani e degli Spagnoli, anzitutto un
manuale delle forme internazionali di mondanità e uno
specchio di raffinato costume. L’opera è ritenuta a ragio-
ne la scuola che trasformò i rozzi feudatari e soldati del
tempo di Enrico IV in una raffinata società di corte.
Essa nasce dallo stesso fermento da cui uscirono i primi
salotti e da cui scaturí il preziosismo secentesco26. Senza
dubbio, nell’Astrée culmina il processo iniziatosi con le
pastorali del Rinascimento. Davanti alla raffinatezza di
dame e cavalieri che, travestiti da pastori e pastorelle,
conversano spiritosamente e discutono capziose que-
stioni d’amore, a nessuno ormai può venir in mente la
semplicità del popolo. La finzione ha perduto ogni rap-
porto con la vita reale, diventando puro gioco di società.
L’Arcadia non è piú che una mascherata che per un
istante sottrae l’uomo alla realtà consueta e al suo io
quotidiano.
A ogni modo le fêtes galantes di Watteau hanno scar-
se affinità con questa poesia. Nel romanzo pastorale le
scene d’amore campestri con il loro rituale e il loro scio-
glimento erotico rappresentano già la condizione idea-
le, mentre nei quadri di Watteau tutta la materia amo-
rosa non è che una tappa verso la meta vera, il preludio

Storia dell’arte Einaudi 24


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

al viaggio verso quella Cythère sempre avvolta nelle neb-


bie di una misteriosa lontananza. Del resto, proprio
quando Watteau dipinge i suoi quadri, la poesia pasto-
rale in Francia è ormai in declino; il maestro non ne rice-
ve impulsi diretti. E fino al Settecento non appaiono
nella pittura scene di vita pastorale come soggetti auto-
nomi. È vero che non sono rari i motivi bucolici come
accessori nelle scene bibliche e mitologiche, ma hanno
altra origine, indipendente dall’ideale arcadico. La tra-
dizione «giorgionesca» ricorda fortemente Watteau per
l’atmosfera elegiaca27, ma le manca l’accompagnamento
erotico e il tormentoso senso di tensione fra natura e
civiltà. Anche Poussin ha con Watteau affinità solo
apparenti. Poussin dipinge ispirate scene d’Arcadia, ma
senza diretto rapporto con la vita pastorale; il soggetto
gli è sempre suggerito dalla mitologia classica ed è trat-
tato in modo essenzialmente eroico, secondo lo spirito
del classicismo romano. Nell’arte francese del Seicento
le scene pastorali compaiono come soggetti autonomi
soltanto nell’arazzo, che, com’è noto, ha sempre raffi-
gurato con predilezione temi di vita campestre. Natu-
ralmente questi non si adattano al carattere ufficiale
della grande arte barocca. Sono ammissibili in quadri
decorativi – come, d’altra parte, nel romanzo, nel melo-
dramma o nel balletto – ma in un gran dipinto di carat-
tere solenne sarebbero fuor di posto come in una trage-
dia: «Dans un roman frivole aisément tout s’excuse...
Mais la scène demande une exacte raison»**28. Tutta-
via, appena la pittura se ne impadronisce, la materia
pastorale acquista una sottigliezza e una profondità che
mai ha avuto nella poesia, dove è sempre stata un gene-
re di second’ordine. Come genere letterario, fin dall’i-
nizio aveva avuto un carattere quanto mai artificioso,
proprio di generazioni che non avevano con la realtà se
non un rapporto di riflesso. Anche la situazione bucoli-
ca era stata sempre un pretesto, non mai l’oggetto vero,

Storia dell’arte Einaudi 25


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

e aveva avuto quindi un carattere piú o meno allegori-


co, non mai simbolico. In altri termini, il poema pasto-
rale aveva un senso troppo chiaro e lasciava poco agio
all’interpretazione. Era presto esaurito, non riserbava
alcun segreto; e persino un poeta come Teocrito non riu-
sciva a ricavarne che un’immagine piuttosto uniforme
della realtà, anche se eccezionalmente attraente. L’idil-
lio cioè non era mai riuscito a superare i limiti dell’alle-
goria restando un gioco privo di tensione e di profon-
dità. Solo Watteau riesce a dargli una profondità sim-
bolica, soprattutto escludendone ogni carattere che non
possa anche venir considerato semplice e immediata
riproduzione del vero.
Il Settecento per sua natura doveva portare a una
rinascita del motivo pastorale. Per i letterati la formula
era ormai troppo angusta, ma i pittori non l’avevano
ancora logorata e potevano con essa rifarsi da capo.
Negli alti ceti la vita era regolata da forme sociali straor-
dinariamente artificiose intese a sublimare in vario
modo i rapporti quotidiani; ormai però non si credeva
piú al loro senso profondo, sicché erano mantenute come
semplici regole del gioco. Per l’amore la regola del gioco
era la galanteria, come l’Arcadia era una forma giocosa
dell’arte erotica. Entrambe si proponevano di padro-
neggiare l’amore, spogliandolo della sua selvaggia imme-
diatezza e passionalità. Quindi nulla di piú naturale che
l’Arcadia giungesse alla piena fioritura nel secolo della
galanteria. Ma come i costumi indossati dalle figure di
Watteau solo dopo la morte del maestro divennero di
moda, cosí anche il genere della fête galante solo nel
tardo Rococò trovò un vasto pubblico. Lancret, Pater e
Boucher godettero i frutti dell’invenzione, e altro non
fecero che divulgarla. Quanto a Watteau, egli rimase per
tutta la vita il pittore di una cerchia relativamente
ristretta: i collezionisti julienne e Crozat, l’archeologo e
mecenate conte Caylus, il mercante d’arte Gersaint

Storia dell’arte Einaudi 26


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

furono gli unici sostenitori veramente fedeli della sua


arte. La critica contemporanea di rado si occupò di lui
e per lo piú solo in tono di biasimo29. Neppure Diderot
ne riconobbe il valore e lo pospose a Teniers. L’Acca-
demia, è vero, non gli si oppose, se pure, attenendosi alla
tradizionale gerarchia dei generi, ne disdegnò l’arte,
annoverandola fra i petits genres***. Per altro non era
piú dogmatica del pubblico colto in generale, che, alme-
no in teoria, si teneva sempre fedele alla dottrina clas-
sica. In tutte le questioni pratiche del resto l’Accademia
si comportava con la massima liberalità. Il numero dei
membri era illimitato, e l’ammissione non era vincolata
all’accettazione della sua dottrina. Forse tanta condi-
scendenza non veniva da un impulso spontaneo; è certo
comunque che l’Accademia seppe rendersi conto che in
un’epoca di inquietudine e di rinnovamento come que-
sta solo una simile larghezza poteva tenerla in vita30.
Watteau, Fragonard e Chardin furono senz’altro suoi
membri, come in quel secolo tutti gli artisti di grido, a
qualunque corrente appartenessero. L’Accademia con-
tinuò a rappresentare il grand goût, ma solo un piccolo
gruppo dei suoi membri si teneva in pratica a quel cri-
terio. Gli artisti che non potevano contare su ordina-
zioni pubbliche e avevano i loro acquirenti fuor del-
l’ambiente, di corte, non si curavano gran che del rico-
noscimento ufficiale e coltivavano i petits genres che, se
pur meno apprezzati in teoria, erano tanto piú ricerca-
ti in pratica. Tra questi figuravano anche le fêtes galan-
tes, fin dall’inizio destinate a un ambiente piú liberale
di quello di corte, benché chi si interessava di simili qua-
dri ancora per poco avrebbe rappresentato il pubblico
piú evoluto in fatto d’arte.
Ma la pittura continuò a coltivare a lungo il sogget-
to erotico, anche dopo che la letteratura, e specialmen-
te il romanzo (il genere piú mutevole e, anche per moti-
vi economici, piú popolare), già si era rivolta a soggetti

Storia dell’arte Einaudi 27


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

d’interesse piú generale. Veramente anche in letteratu-


ra il libertinaggio del secolo trovò i suoi esponenti in
Choderlos de Laclos, in Crébillon figlio e in Restif de
la Bretonne; ma non ebbe alcun influsso decisivo sugli
altri romanzieri. Marivaux e Prévost, nonostante l’au-
dacia dei loro soggetti, non cercano mai effetti grosso-
lanamente erotici. Così, mentre la pittura si mantiene
per ora legata all’alta società, il romanzo si viene avvi-
cinando allo spirito delle classi medie. Il primo passo in
questa direzione è segnato dal passaggio dal romanzo
cavalleresco a quello pastorale, che significa almeno l’ab-
bandono di certi elementi avventurosi medievali. Il
romanzo pastorale, sebbene in una cornice del tutto fit-
tizia, tratta problemi della vita reale e pur sotto un tra-
vestimento fantastico rappresenta la gente del tempo;
sono questi, per la storia dell’evoluzione, segni impor-
tanti e premonitori. E del resto per il fatto che in esso
l’azione, specie in d’Urfé, viene storicamente localizza-
ta, il romanzo pastorale si avvicina al realismo moder-
no31. Ma ciò che è piú significativo per l’ulteriore svi-
luppo è che d’Urfé scrive il primo vero romanzo d’a-
more. Il tema erotico ricorreva naturalmente anche
prima nei romanzi, ma prima di d’Urfé non c’è nes-
sun’opera letteraria di una certa mole che abbia come
suo tema centrale l’amore. Solo con lui, nel romanzo
come nel dramma, l’amore, diviene il movente vero del-
l’azione e tale resterà per oltre tre secoli32. La letteratu-
ra narrativa e drammatica dall’età barocca in poi è essen-
zialmente poesia d’amore; solo negli ultimi tempi si
potranno osservare indizi di un mutamento. È, vero
che già nell’Amadis l’amore prevale sull’eroismo, ma
Céladon e il primo eroe dell’amore nel senso moderno,
il primo inerme schiavo della passione, estraneo a ogni
eroismo, il precursore del cavaliere Des Grieux e l’an-
tenato di Werther.

Storia dell’arte Einaudi 28


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Il romanzo pastorale del Seicento francese è la lettu-


ra di una generazione stanca; la società esausta per le
guerre civili si riposa delle sue traversie nelle belle e
ornate conversazioni dei pastori innamorati. Ma appe-
na essa si riprende e le guerre di conquista di Luigi XIV
svegliano nuove ambizioni, comincia a reagire contro il
romanzo prezioso, reazione che va di pari passo con gli
assalti di Boileau e Molière contro il preziosismo. Il
romanzo pastorale di d’Urfé viene soppiantato da quel-
lo eroico e amoroso di La Calprenède e di Mademoisel-
le de Scudéry, un genere che riannoda le fila strappate
del ciclo di Amadigi. Il romanzo riprende a trattare
grandi fatti, descrive paesi lontani e popoli stranieri,
presenta grandi, impressionanti figure e caratteri impo-
nenti. L’eroismo in esso non è piú l’ardire temerario dei
romanzi cavallereschi, ma la severa coscienza del dove-
re della tragedia corneliana. Il romanzo eroico di La Cal-
prenède, come il dramma aulico, voleva essere una scuo-
la di forte volontà e di grandezza d’animo; ma lo stesso
ideale umano alla Corneille, la stessa etica tragico-eroi-
ca si esprimeva anche nella Princesse de Clèves di Mada-
me de la Fayette. Anche qui si trattava del conflitto fra
onore e passione, e anche qui il dovere vinceva l’amo-
re. In quest’età tutta tesa all’eroismo troviamo dapper-
tutto la stessa chiara analisi dei moventi della volontà,
la stessa dissezione razionalistica delle passioni, la stes-
sa rigorosa dialettica delle idee morali. Forse in Mada-
me de la Fayette si scopre qua e là un tratto piú intimo,
una sfumatura piú personale, certi lati piú fuggevoli
dello sviluppo dei sentimenti; ma anche qui tutto appa-
re nella cruda luce della coscienza e dell’analisi raziona-
le. Gli amanti non sono mai preda inerme della passio-
ne, il loro male non è incurabile, non sono irrimediabil-
mente perduti, come René e Werther, o come Des
Grieux e Saint-Preux.

Storia dell’arte Einaudi 29


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Accanto a queste forme bucolico-idilliche ed eroico-


amorose già nel Seicento si notano fenomeni che pre-
corrono il romanzo borghese. Anzitutto il romanzo pica-
resco, che si distingue dalla letteratura mondana prin-
cipalmente per i suoi temi che sono temi di genere e per
la sua predilezione per gli aspetti piú bassi della vita. Gil
Blas e Le diable boiteux appartengono ancora a questo
genere, e anche nei romanzi di Stendhal e di Balzac ci
sono elementi che ricordano il variopinto mosaico della
vita picaresca, I romanzi preziosi si continuano a legge-
re per un pezzo nel Seicento, anzi fin nel Settecento
inoltrato, ma dopo il 1660 non se ne scrivono piú33. L’e-
locuzione spiritosa, ricercata, aristocraticamente affet-
tata cede a modi piú naturali e borghesi. Furetière chia-
ma già esplicitamente roman bourgeois il suo romanzo
antieroico, antiromantico, di gusto picaresco; qualifica
che d’altronde è giustificata soltanto dagli argomenti,
poiché anche qui si tratta semplicemente di una raccol-
ta di episodi, schizzi e caricature accostati, e non c’è
ancora lo sviluppo concentrato e «drammatico» del
romanzo moderno che si impernia sul destino di un pro-
tagonista e provoca l’interesse del lettore secondo una
visuale ben precisa.
Il romanzo che nel Seicento, benché molto in voga,
è una forma minore e per molti aspetti arretrata, diven-
ta nel Settecento il genere letterario dominante che non
solo produce le opere di piú alto valore, Ma costituisce
anche un decisivo passo avanti sulla via del progresso.
Il Settecento è l’età del romanzo, perché è l’età della psi-
cologia. Lesage, Voltaire, Prévost, Laclos, Diderot,
Rousseau sono fonti inesauribili di osservazioni psico-
logiche, che per Marivaux diventano una vera mania;
egli spiega, analizza e commenta senza posa il compor-
tamento psichico delle sue figure. Ogni manifestazione
di vita è un buon pretesto per le sue analisi ed egli non
tralascia occasione per mettere a nudo i suoi personag-

Storia dell’arte Einaudi 30


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

gi. La psicologia di Marivaux e dei suoi contemporanei,


specialmente di Prévost, è assai piú ricca, fine, com-
plessa di quella del Seicento; i personaggi non sono piú
soltanto tipi, si fanno piú complicati e contraddittori,
tanto che i caratteri della letteratura classica, pur con
tutta la loro acutezza risultano al confronto un po’ sche-
matici. Lesage ci dà ancora quasi esclusivamente dei
tipi, per lo piú tipi eccentrici o caricature, e solo con
Marivaux e Prevost abbiamo veri ritratti con i contor-
ni mobili e i colori smorzati e sfumati della vita. Se mai
è possibile una linea di confine tra il romanzo moderno
e quello piú antico, è a questo punto che deve cadere.
D’ora in poi il romanzo è storia d’anime, analisi psico-
logica, spietata introspezione; finora era stato semplice
rappresentazione di avvenimenti esterni o di processi
psichici ma in quanto si riflettevano in azioni concrete.
Veramente neppure Marivaux e Prévost escono dai limi-
ti della psicologia analitica e razionalistica del Seicento,
e rimangono piú affini a Racine e a La Rochefoucauld
che ai grandi romanzieri dell’Ottocento. Anch’essi,
come i moralisti e i drammaturghi dell’età classica, scom-
pongono i caratteri nei loro elementi e li svolgono par-
tendo da un astratto principio psicologico invece di svi-
lupparli dall’intera realtà in cui sono immersi. Il passo
decisivo verso questa psicologia impressionistica capace
di rappresentare in modo indiretto, attraverso forme
mutevoli e sfumate, lo farà soltanto l’Ottocento, e con
questo darà vita a una concezione della verosimiglianza
psicologica che farà apparire antiquata tutta la prece-
dente letteratura. Tuttavia negli scrittori del secolo xviii
c’è un aspetto moderno: ed è la diseroicizzazione dei
loro eroi, che si fanno cosí piú umani. Le loro dimen-
sioni si riducono, avvicinandosi a noi; e consiste in que-
sto il sostanziale progresso del naturalismo psicologico,
rispetto alla rappresentazione dell’amore che aveva fatto
Racine. Prévost mostra già l’altra faccia delle grandi

Storia dell’arte Einaudi 31


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

passioni, anzitutto la condizione umiliante e vergogno-


sa dell’uomo innamorato. L’amore, come già per i poeti
romani, torna ad essere una disgrazia, una malattia, una
vergogna. Si avvia cioè verso quello che sarà l’amour-pas-
sion di Stendhal e assume gli aspetti patologici che saran-
no propri della letteratura amorosa dell’Ottocento.
Marivaux non conosce ancora la violenza dell’amore
che assale come una belva ingorda le sue vittime e non
le abbandona piú; ma in Prévost esso ha già preso pos-
sesso delle anime. L’età dell’amore cavalleresco è alla
fine; comincia la lotta contro la mésalliance. La degra-
dazione dell’amore serve qui come meccanismo di dife-
sa sociale. La società feudale del Medioevo come anche
la società di corte del Seicento non aveva ancora a teme-
re dall’amore; non aveva ancora bisogno di una auto-
matica difesa contro gli eccessi di un figliol prodigo. Ma
ora che i confini fra le caste vengono sempre piú spes-
so violati, e non solo la nobiltà, ma anche la borghesia,
ha privilegi da difendere, comincia la scomunica della
passione amorosa sfrenata, irresponsabile, che minaccia
l’ordine costituito; e sorge una letteratura che infine
condurrà alla Signora delle camelie e ai film della Garbo.
Senza dubbio Prévost è ancora lo strumento inconscio
dei conservatori, che un Dumas figlio servirà con piena
coscienza e persuasione.
L’esibizionismo di Rousseau già si preannunzia in
Manon Lescaut. L’eroe del romanzo non ha indulgenze
verso di sé nella descrizione del suo misero amore e anzi
dimostra un certo masochistico piacere nel confessare la
propria debolezza. D’altronde, la predilezione per figu-
re del genere, «a un tempo piccole e grandi, spregevoli
e pregevoli», secondo la formula coniata dal Lessing per
il Werther, si trova già in Marivaux. L’autore della Vie
de Marianne conosce già le piccole debolezze delle anime
grandi, e non solo disegna il suo Monsieur de Climal
come una natura in cui si mescolano tratti seducenti e

Storia dell’arte Einaudi 32


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

repulsivi, ma descrive l’eroina come un carattere di cui


non è facile venire a capo. È una fanciulla onesta e sin-
cera, ma non è mai cosí incauta da dire o fare cosa che
possa danneggiarla. Conosce il suo gioco, e gioca bene.
Marivaux è il tipico rappresentante di un’epoca di tran-
sizione e di ricostruzione. Come romanziere egli aderi-
sce interamente alla corrente borghese progressista, ma
come commediografo, riveste ancora le sue osservazio-
ni psicologiche delle vecchie forme del dramma d’intri-
go. Tuttavia anche qui c’è un elemento nuovo, ed è che
l’amore – finora secondario nella commedia – è adesso
il centro dell’azione34. Così, con la conquista di que-
st’ultimo caposaldo, esso conclude la sua marcia vitto-
riosa nella letteratura moderna. Ed il mutamento è pos-
sibile in quanto ormai le figure si complicano anche
nella commedia e l’amore stesso acquista una forma cosí
differenziata, che i tratti comici che mantiene nella com-
media non distruggono il suo carattere serio e sublime.
Ma in Marivaux commediografo soprattutto è nuova la
preoccupazione di disegnare i suoi personaggi come lega-
ti a una precisa condizione sociale e dalla dinamica di
questa far derivare l’azione drammatica35. I personaggi
di Molière sono, sì, innamorati, ma non è questo il tema
su cui s’impernia il dramma; e la loro condizione socia-
le determina palesemente la loro natura, ma non diven-
ta mai l’origine del conflitto drammatico. Invece nel Jeu
de l’amour et du hasard**** di Marivaux tutta l’azione
s’impernia su un gioco di apparenze sociali, cioè sulla
questione se i protagonisti siano effettivamente i servi
come fingono di essere, o i signori che non vogliono rive-
larsi.
Spesso si è paragonato Marivaux a Watteau, e l’ana-
logia del loro modo di esprimersi, spiritoso e piccante,
suggerisce il paragone. Ma essi ci propongono anche lo
stesso problema sociologico, poiché entrambi si espri-
mono in forme raffinatissime, ligie alle convenzioni della

Storia dell’arte Einaudi 33


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

buona società e tuttavia né l’uno né l’altro ebbero il suc-


cesso che sarebbe lecito attendersi. Per tutta la sua vita
Watteau fu apprezzato veramente solo da pochi, e si sa
che i drammi di Marivaux caddero piú di una volta. I
contemporanei trovavano complicato, ricercato e oscu-
ro il suo linguaggio, e bollarono quel suo dialogo scin-
tillante, tutto guizzi e freschezza con l’epiteto di mari-
vaudage, il che, come sappiamo, non voleva essere una
lode, benché Sainte-Beuve affermi con ragione non esser
piccola cosa che il nome di un poeta passi in proverbio.
E se anche si volesse accettare per Watteau la spiega-
zione che per il suo tempo egli era troppo grande e che
la grande arte «va contro gli istinti umani», questa spie-
gazione – che poi non spiega nulla – non si adatta a
Marivaux, che non era un grande poeta. Erano entram-
bi rappresentanti di un’epoca di transizione e rimasero
incompresi; ma questo non riguardava il loro valore arti-
stico, ma la loro funzione storica di precursori e batti-
strada. Simili artisti non trovano mai un pubblico ade-
guato. I contemporanei non li comprendono, la genera-
zione successiva conosce di solito le loro concezioni arti-
stiche nella forma annacquata degli epigoni, e la poste-
rità, che forse è in grado di apprezzare meglio le loro
opere, non riesce piú a superare la distanza storica. Sia
Watteau sia Marivaux vengono scoperti solo nell’Otto-
cento dal gusto educato all’Impressionismo, in un tempo
che sentiva già molto antiquati i temi dell’arte loro.
Il Rococò non è l’arte della monarchia come era
stato il Barocco, ma l’arte dell’aristocrazia e dell’alta
borghesia. All’attività edilizia del re e dello stato
subentra quella dei privati: invece di castelli e palazzi
si costruiscono hôtels e petites maisons; al freddo marmo
e al pesante bronzo dei grandi ambienti di rappresen-
tanza si preferiscono l’intimità e la leggiadria dei bou-
doirs e dei gabinetti; i colori severi e solenni, il bruno
e la porpora, il turchino e l’oro vengono sostituiti da

Storia dell’arte Einaudi 34


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

chiare tinte di pastello, grigio e argento, verde-reseda


e rosa. Di fronte all’arte della Reggenza, il Rococò pre-
senta maggior preziosità ed eleganza, una leggiadria
vivace e capricciosa, ma insieme anche un tono delica-
to e intimo; se si sviluppa come arte mondana per eccel-
lenza, d’altro canto risponde al gusto borghese per le
piccole dimensioni. Si sostituisce cosí al Barocco mas-
siccio, statuario, realisticamente corposo, un’arte deco-
rativa da virtuosi, piccante, delicata, nervosa; tuttavia
basta pensare ad artisti come La Tour o Fragonard per
ricordarsi che la leggerezza, la fluidità, e la vivacità di
quest’arte sono anche un trionfo dell’osservazione e
dell’efficacia naturalistica. Accanto alle visioni dell’ar-
te barocca, agitate, sfrenate, soverchianti tumultuosa-
mente l’ordine consueto, l’arte del Rococò appare sem-
pre debole, minuta e gretta, ma in tutta la pittura
barocca non c’è un pennello piú leggero e sicuro di
quelli di Tiepolo, Piazzetta e Guardi. Il Rococò rap-
presenta l’ultima fase del processo iniziatosi col Rina-
scimento e realizza l’affermazione definitiva di quel
principio dinamico, di soggettiva libertà, con cui il pro-
cesso era cominciato e che sempre aveva dovuto riaf-
fermarsi contro il principio della stasi, della costrizio-
ne e della norma. Soltanto con il Rococò si impone defi-
nitivamente il principio fondamentale dell’arte rina-
scimentale; e con esso la rappresentazione obiettiva
delle cose raggiunge quella precisione e quella scioltez-
za che è la meta del naturalismo moderno. L’arte bor-
ghese nata dopo il Rococò e, in parte, ancora in pieno
Rococò, è già qualcosa di sostanzialmente nuovo, com-
pletamente diverso dal Rinascimento e dai periodi
immediatamente successivi. Comincia allora quell’epo-
ca della cultura che è ancora la nostra, epoca determi-
nata dal pensiero democratico e dal soggettivismo e
che, se come evoluzione storica è direttamente con-
nessa con le culture d’élite del Rinascimento, del Baroc-

Storia dell’arte Einaudi 35


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

co e del Rococò, in quanto a principî ne è l’opposto.


Alle antinomie del Rinascimento e degli stili che ne
conseguono, al contrasto fra rigorismo formale e natu-
ralistico dissolvimento della forma, visione strutturale
e pittorica, tendenza statica e dinamica, subentra ora
il conflitto tra razionalismo e sentimentalismo, mate-
rialismo e spiritualismo, classicismo e romanticismo. Le
precedenti antitesi perdono in gran parte il loro signi-
ficato, poiché le acquisizioni dell’arte rinascimentale in
entrambe le direzioni sono diventate indispensabili:
tanto la fedeltà al vero quanto la composizione sono
ormai cose ovvie. Il vero problema adesso è se si debba
dar la preferenza all’intelletto o al sentimento, al
mondo obiettivo o all’io, alla conoscenza razionale o
all’intuizione. Il Rococò stesso, disgregando il classici-
smo tardo-barocco, prepara la nuova alternativa: il suo
colorismo, la sua sensibilità al pittoresco e la sua tec-
nica «impressionistica» creano uno strumento che,
assai meglio del linguaggio formale del Rinascimento e
del Barocco, è atto a esprimere l’anima dell’arte bor-
ghese. Ma questo suo vigore espressivo finirà col
distruggere il Rococò, che propriamente è l’antitesi piú
recisa di tutto ciò che è sentimentale e irrazionale.
Senza questa dialettica tra gli intenti originari e il suc-
cessivo sviluppo piú o meno automatico dei mezzi è
impossibile comprendere il senso del Rococò; solo con-
siderandolo come il risultato di questo contrasto, che
riflette l’antagonismo della società contemporanea e fa
sí che il Rococò si ponga come intermediario fra l’arte
aulica barocca e il preromanticismo borghese, se ne
intende la complessa natura.
La cultura edonistica del Rococò, con il suo sensua-
le estetismo, sta fra la solennità barocca e la sensibilità
romantica. Alla corte di Luigi XIV la nobiltà glorifica-
va ancora un ideale eroico e razionale, sebbene in realtà
seguisse per lo piú il suo piacere. Al tempo di Luigi XV

Storia dell’arte Einaudi 36


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

quella stessa nobiltà professa un edonismo che corri-


sponde del resto alle opinioni e al costume della ricca
borghesia. Il detto di Talleyrand: «Chi non ha vissuto
prima del 1789 non conosce la dolcezza della vita» può
darci un’idea di come vivessero quelle classi. Per «dol-
cezza della vita» s’intende naturalmente la dolcezza
delle donne; come in ogni civiltà edonistica, esse sono
il passatempo prediletto. L’amore ha perduto, insieme
alla sua natura «sanamente» istintiva, anche la sua dram-
matica passionalità; è raffinato, divertente, trattabile, da
passione è diventato abitudine. Si vogliono vedere
nudità sempre e dappertutto; il nudo diventa il tema
prediletto dell’arte figurativa. Dovunque si guardi, negli
affreschi delle sale di rappresentanza, negli arazzi dei
salotti, nei quadri dei boudoirs, nelle incisioni dei libri,
nelle porcellane e nei bronzi dei caminetti, non si vedo-
no che donne nude, cosce e fianchi tondeggianti, seni
scoperti, braccia e gambe intrecciate in amplessi, donne
con uomini e donne con donne, in variazioni e ripeti-
zioni infinite. Ci si è tanto abituati alla nudità nell’ar-
te, che le ingénues di Greuze risultano eccitanti solo per
il fatto che sono vestite. Anche l’ideale della bellezza
femminile muta, facendosi piú piccante e raffinato. Nel-
l’età barocca si amava ancora la bellezza matura e opu-
lenta, ora si dipingono tenere giovinette, sovente quasi
ancora bambine. Il Rococò è un’arte erotica destinata a
gaudenti ricchi e ormai sazi, un mezzo per esaltare la
facoltà di godere dove la natura ha posto un limite al
godimento. Solo con l’arte dei ceti medi, con il classici-
smo di David e il romanticismo di Géricault e Delacroix
tornerà di moda il «normale» tipo della donna in pieno
rigoglio.
Si assiste col Rococò a una forma estrema de «l’art
pour l’art»; il suo sensuale culto della bellezza, indiffe-
rente all’espressione spirituale, il suo studiato virtuosi-
smo, il suo garbato e melodioso linguaggio formale supe-

Storia dell’arte Einaudi 37


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rano qualunque alessandrinismo. Qui «l’art pour l’art»


è in certa misura piú schietto e spontaneo che nell’Ot-
tocento, perché non è soltanto un programma e un atteg-
giamento polemico, ma è il naturale orientamento di una
società frivola, stanca e passiva, che nell’arte vuol tro-
vare un riposo. Il Rococò è l’ultima fase di una cultura
mondana dove il principio della bellezza domina asso-
luto, l’ultimo stile in cui bello e artistico sono ancora
sinonimi. In Watteau, Rameau e Marivaux, e ancora in
Fragonard, Chardin e Mozart tutto è «bello» e melo-
dioso. Ma in Beethoven, David e Delacroix non è piú
così. L’arte diventa attiva, agonistica, e l’«espressivo»
violenta la forma. Inoltre il Rococò è l’ultimo stile uni-
versale dell’Occidente; non solo in quanto la sua validità
è generale e, in tutti i paesi d’Europa, si svolge nel-
l’ambito di un sistema formale che si può dire omoge-
neo, ma in quanto è patrimonio comune di tutti gli arti-
sti di talento che lo possono accettare senza contrasti.
Dopo il Rococò non si avrà piú un canone formale, né
un orientamento stilistico di una validità ugualmente
universale. Dall’Ottocento in poi l’intento di ogni sin-
golo artista diventa cosí personale, che egli deve con-
quistarsi da solo i suoi mezzi espressivi e non può piú
attenersi a soluzioni bell’e pronte; per lui ogni forma
prestabilita è un intralcio, anziché un aiuto. È vero che
con l’impressionismo si ha di nuovo uno stile che pre-
senta un suo valore generale, ma anche in questo caso il
rapporto fra lo stile e il singolo artista è sempre un pro-
blema e non c’è, qui, una formula come per il Rococò.
Nella seconda metà del secolo xviii è avvenuto un muta-
mento rivoluzionario: è sorta la moderna borghesia che
con il suo individualismo e la sua ricerca dell’originalità
ha distrutto l’idea di stile come consapevole e delibera-
ta comunità culturale, portando il concetto di proprietà
intellettuale al suo significato odierno.

Storia dell’arte Einaudi 38


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Al costituirsi delle formule del Rococò e di quel vir-


tuosismo tecnico che dà all’arte di un Fragonard e di un
Guardi una sicurezza d’esecuzione da sonnambuli, si col-
lega anzitutto il nome di Boucher. Egli è il rappresen-
tante, magari poco significativo personalmente, di una
convenzione artistica significativa invece in grado ecce-
zionale, e la rappresenta in modo cosí perfetto da eser-
citare un influsso non raggiunto da alcuno dopo Le
Brun.
È il maestro senza rivali del genere erotico, la pittu-
ra piú ricercata dai fermiers généraux, dai nouveaux riches
e dagli ambienti liberali di corte; è il creatore di quella
mitologia galante che, oltre alle fêtes galantes di Watteau,
comprende i soggetti piú importanti della pittura rococò.
Egli trasferisce i motivi erotici dalla pittura nell’inci-
sione e in tutta l’arte minore, e della «peinture des seins
et des culs» fa uno stile nazionale. Naturalmente non
tutta la Francia interessata all’arte vede in Boucher il
suo pittore; c’è già nel paese una media borghesia colta,
che da un pezzo nel campo della letteratura ha voce in
capitolo e ormai anche in arte segue una propria via. Per
questo pubblico Greuze e Chardin dipingono i loro qua-
dri didattici e di genere. Se pure i loro clienti non sono
solo nel ceto medio, ma anche fra il pubblico di Boucher
e di Fragonard. Del resto quest’ultimo si adegua spesso
al gusto che i pittori borghesi cercano di soddisfare e
persino in Boucher si trovano motivi non troppo lonta-
ni dal loro mondo. La colazione del Louvre, per esem-
pio, può essere indicata come una scena di vita borghe-
se, sia pure dell’alta borghesia; in ogni caso è un quadro
di genere, non piú di cerimonia.
La rottura di principio con il Rococò avviene nella
seconda metà del secolo; l’abisso fra l’arte aristocratica
e quella delle classi medie è evidente. La pittura di
Greuze segna l’inizio non solo di un nuovo orienta-
mento nella vita e di una nuova morale, ma anche di un

Storia dell’arte Einaudi 39


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

gusto nuovo – se si vuole, del «cattivo gusto». Le sue


sentimentali scene di famiglia, con padri che maledico-
no i figli traviati o benedicono quelli buoni e ricono-
scenti, sono pittura di scarso valore. Non hanno origi-
nalità di composizione, né forza di disegno, né bellezza
di colore, e, di piú, la tecnica ne è sgradevolmente liscia.
Le sentiamo fredde e vacue nonostante il pathos ecces-
sivo, false nonostante l’insistito sentimentalismo. Sono
esigenze quasi del tutto estranee all’arte quelle ch’esse
cercano di soddisfare; e rappresentano i loro soggetti,
che non sono pittorici, ma per lo piú puramente narra-
tivi, in modo affatto rozzo, gretto e visivamente ineffi-
cace. Diderot le loda, perché illustrano fatti che in
germe contengono interi romanzi36; ma forse si potreb-
be affermare con piú ragione ch’esse non contengono se
non quel che può stare in un racconto. Sono pittura «let-
teraria» nel peggior senso della parola, pittura volgare e
moraleggiante, di aneddoti, archetipo dei cattivi pro-
dotti dell’Ottocento. Ma non è il loro «carattere bor-
ghese» che le fa cosí prive di gusto, benché il mutare dei
gruppi che determinano il gusto si accompagni natural-
mente a un sovvertimento degli antichi criteri che, ben-
ché schematizzati, non mancavano di una loro provata
validità. I quadri di Chardin, pur con la loro modestia
borghese, appartengono al meglio dell’arte settecente-
sca. E sono arte borghese assai piú schietta e onesta che
non le opere di Greuze, il quale, con la sua idea con-
venzionale del popolo semplice e costumato, la sua apo-
teosi della famiglia borghese, l’idealizzazione della fan-
ciulla ingenua, esprime i sentimenti e le idee dei ceti
superiori piuttosto che di quelli medi o umili. L’impor-
tanza storica di Greuze non è tuttavia minore di quella
di Chardin; nella lotta contro il Rococò dell’aristocrazia
e dell’alta borghesia le sue armi si rivelano, anzi, le piú
efficaci. Diderot può averlo sopravvalutato come pitto-
re, mo lo ha giustamente apprezzato come propagandi-

Storia dell’arte Einaudi 40


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sta politico. Comunque, egli aveva coscienza che con


Greuze era «l’art pour l’art» del Rococò che si metteva
in discussione; e quando dichiarava che l’arte deve «ono-
rare la virtú e smascherare il vizio», quando della gran-
de ruffiana voleva fare una maestra di virtú, quando
condannava Boucher e Vanloo per la loro artificiosità,
la loro destrezza vacua, frivola e sventata, per il loro spi-
rito libertino, era alla «punizione dei tiranni» che pen-
sava o, piú concretamente, pensava a introdurre la bor-
ghesia nell’arte, e cosí condurla a conquistarsi un posto
al sole. La sua crociata contro l’arte rococò non era che
una tappa nella storia della Rivoluzione già in corso.

* Gusto aulico.
1
paul hazard, La crise de la conscience européenne, 1935, I, pp. i-v
[trad. it., La crisi della coscienza europea, Torino 1946].
2
Cfr. bédier-hazard, Histoire de la littérature française, II, 1924, pp.
31-32.
3
germain martin, La grande industrie en France sous le règne de
Louis XV, 1900, p. 15.
4
f. funck-brentano, L’Ancien régime, 1926, pp. 299-300.
5
alexis de tocqueville, L’Ancien régime et la Révolution, 4a ed.,
1859, p. 171.
6
henri SÉE, La France économique et sociale au XVIIIe siècle, 1933,
p. 83.
7
albert mathiez, La Révolution française, I, 1922, p. 8 [trad. it.,
La Rivoluzione francese, 3 voll., Torino 1950].
8
karl kautsky, Die Klassengegensätze im Zeitalter der Französischen
Revolution, 1923, p. 14.
9
franz schnabel, Das XVIII. Jahrhundert in Europa, in Das Zeital-
ter des Absolutismus, in Propyläen-Weltgeschichte, VI, 1934 p. 277.
10
joseph aynard, La bourgeoisie française, 1934, p. 462.
11
f. strowski, La Sagesse française, 1925, p. 20.
12
j. aynard, La bourgeoisie française cit., p. 250.
13
Ibid., p. 422.
14
andré fontaine, Les doctrines d’art en France, 1909, p. 170.
15
pierre marcel, La peinture française au début du XVIIIe siècle,
1906, pp. 25-26.

Storia dell’arte Einaudi 41


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

16
louis réau, Histoire de la peinture française au XVIIIe siècle, I,
1925, p. x.
17
louis hourticq, La peinture française au XVIIIe siècle, 1939, p. 15.
18
wilhelm von christ, Geschichte der griechischen Literatur, nello
Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft di müller, VII, 2/1,
1920, p. 183.
19
francesco macri-leone, La bucolica latina nella letteratura ita-
liana del secolo XIV, 1889, p. 15. walter w. greg, Pastoral Poetry and
Pastoral Drama, 1906, pp. 13-14.
20
t. r. glover, Virgil, 7a ed., 1942, pp. 3-4.
21
m. schanz - c. hosius, Geschichte der römischen Literatur, nello
Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft di müller, II, 1935, p.
285.
22
w. w. greg, Pastoral Poetry ecc. cit., p. 66.
23
j. huizinga, Herbst des Mittelalters, 1928, p. 183 [trad. it., L’au-
tunno del Medioevo, Firenze 1942].
24
m. fauriel, Histoire de la poésie provençale, 1846, II, pagine
91-92.
25
mussia eisenstadt, Watteaus Fêtes galantes, 1930, p. 98.
26
g. lanson, Histoire de la littérature française, 1909, 11a ed., pp.
373-74.
27
Cfr. albert dresdner, Von Giorgione zum Rokoko, in «Preussi-
sches Jahrbuch», vol. CXL, 1910. werner weisbach, Et in Arcadia ego.
Die antike, VI, 1930, p. 140.
** «In un romanzo frivolo tutto si scusa facilmente... ma la scena
esige un’esatta giustificazione».
28
boileau, L’art poétique, III, vv. 119 sgg.
29
pierre marcel, La peinture française ecc. cit., p. 299.
*** Generi minori.
30
nikolaus pesvner, Academies of Art, 1940, p. 108.
31
g. lanson, Histoire de la littérature française cit., p. 374.
32
Cfr. petit de julleville, Histoire de la littérature française, IV,
1897, p. 419.
33
Ibid., IV, p. 459, V, p. 550.
34
emile faguet, Dixhuitième siècle, 1890, p. 123.
35
arthur elösser, Das bürgerliche Drama, 1898, p. 65.
**** Il gioco dell’amore e del caso.
36
diderot, Œuvres, 1821, VIII, p. 243.

Storia dell’arte Einaudi 42


Capitolo secondo

Il nuovo pubblico della letteratura

Nel Settecento la funzione di guida intellettuale passa


dalla Francia all’Inghilterra, piú progredita nel campo
economico, sociale e politico. Di qui verso la metà del
secolo parte il grande movimento romantico, ma già l’il-
luminismo riceve di qui l’impulso decisivo. Gli scritto-
ri francesi dell’epoca scorgono nelle istituzioni inglesi la
quintessenza del progresso, intessendo intorno al libe-
ralismo inglese una leggenda a cui la realtà corrisponde
solo in parte. Il prevalere dell’Inghilterra sulla Francia
nell’egemonia culturale va di pari passo con la decaden-
za della monarchia francese dal primato politico in Euro-
pa: cosí la storia del secolo xviii è dominata dall’ascesa
dell’Inghilterra nel campo politico, come in quello arti-
stico e scientifico. L’indebolirsi dell’autorità regia, che
in Francia si conclude con la caduta della monarchia, si
risolve, in Inghilterra, in un fattore di potenza, in quan-
to qui ceti intraprendenti, che intuiscono le linee mae-
stre dello sviluppo economico e vi si adeguano, sono già
pronti ad assumere il potere. Il Parlamento, che ora è
libera espressione delle aspirazioni politiche di questi
ceti, e costituisce la loro arma piú forte contro l’assolu-
tismo, aveva appoggiato i Tudor nella lotta contro la
nobiltà feudale, il nemico straniero e la Chiesa romana,
poiché le classi medie commercianti e industriali rap-
presentate in Parlamento, come anche la nobiltà libera-
le, ormai coinvolta nell’attività commerciale della bor-

Storia dell’arte Einaudi 43


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ghesia, avevano riconosciuto in quella lotta un aiuto per


giungere ai loro propri scopi. Fin verso la fine del Cin-
quecento, fra la monarchia e questi ceti durò una stret-
ta comunione d’interessi. Il capitalismo inglese era anco-
ra in una fase primitiva, avventurosa, e volentieri i mer-
canti partecipavano a imprese di pirateria insieme con
uomini di fiducia della Corona. Le vie si divisero solo
quando il capitalismo cominciò a seguire metodi piú
razionali e la Corona non ebbe piú bisogno dell’aiuto
della borghesia contro la nobiltà ormai piegata. Gli
Stuart, incoraggiati dall’esempio dell’assolutismo conti-
nentale e confidando nell’alleanza del re di Francia, si
giocarono con leggerezza la fedeltà delle classi medie e
l’appoggio del Parlamento. Riabilitarono l’antica nobiltà
trasformandola in nobiltà di corte e assicurando nuova
potenza a questo ceto a cui erano legati da sentimenti
piú forti e interessi piú costanti che non alla borghesia
e alla nobiltà liberale, antico sostegno dei loro prede-
cessori. Fino al 1640 la nobiltà feudale godette notevo-
li privilegi e lo stato non solo curava la stabilità dei pos-
sessi fondiari, ma cercava di assicurare ai grandi pro-
prietari terrieri parte dei profitti nelle imprese capitali-
stiche, per mezzo di monopoli e di altre forme di pro-
tezionismo. Ma appunto questa prassi tornò a danno del
sistema. Le classi economicamente produttive, nient’af-
fatto disposte a dividere i loro utili con i favoriti della
Corona, protestavano contro l’intervento statale e lo
facevano in nome della libertà e della giustizia, conti-
nuando poi a strombazzare tali parole d’ordine anche
quando si furono assicurati i maggiori privilegi econo-
mici.
Come osserva Tocqueville, non c’è quasi problema
politico che non sia connesso con la richiesta o l’appro-
vazione d’imposte. In Inghilterra queste dominavano la
vita pubblica fin dal Medioevo, e nel Seicento furono la
causa immediata dei moti rivoluzionari. La stessa bor-

Storia dell’arte Einaudi 44


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ghesia che aveva senz’altro acconsentito alle imposte


richieste dai Tudor, e negli anni della guerra civile s’era
mostrata disposta a ulteriori aggravi, le negò a Carlo I
per opposizione alla sua politica reazionaria, dannosa al
ceto medio. Quando poi Giacomo II, una generazione
piú tardi, richiese ai magistrati della City di protegger-
lo da Guglielmo d’Orange, la borghesia di Londra gli
negò il suo aiuto e preferí mettere a disposizione del-
l’invasore i mezzi necessari per la vittoria. Cominciò cosí
quell’alleanza fra monarchia e ceti mercantili, che assi-
curò in Inghilterra il trionfo del capitalismo e la stabi-
lità della Corona1. Gli ultimi resti del feudalesimo, che
la Francia spazzerà via solo cent’anni piú tardi, in
Inghilterra vengono distrutti già all’epoca della Rivolu-
zione, fra il 1640 e il 1660; ma anche qui la rivoluzio-
ne fu una lotta di classe, in cui i ceti legati al capitale
difendevano anzitutto i loro interessi economici contro
l’assolutismo, contro la proprietà esclusivamente terrie-
ra e contro la Chiesa2. Ma se il grande conflitto che
dominò la vita politica inglese del Sei e Settecento fu
combattuto tra due blocchi contrapposti, Corona e
nobiltà di corte da un lato e classi piú o meno interes-
sate all’attività capitalistica dall’altro, in realtà erano in
lizza almeno tre gruppi diversi, economicamente anta-
gonistici: i latifondisti, la borghesia alleata con quella
parte della nobiltà orientata verso il capitalismo, e il
gruppo eterogeneo dei piccoli imprenditori, dei salaria-
ti urbani e dei contadini. Ma di quest’ultima categoria
nel secolo xviii non si parlava gran che, né al Parlamento
né in letteratura.
Il Parlamento che si riuní dopo il 1688 non era certo
una «rappresentanza popolare» nel senso odierno; la
sua funzione fu quella di costruire un ordinamento capi-
talistico sulle rovine di quello feudale, e di assicurare il
predominio degli elementi economicamente produttivi
sui ceti parassitari, simpatizzanti con l’assolutismo e la

Storia dell’arte Einaudi 45


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

gerarchia ecclesiastica. La rivoluzione non ebbe come


conseguenza una nuova distribuzione dei beni econo-
mici; creò tuttavia certi diritti di libertà, che si risolse-
ro alla fine in un vantaggio per l’intera nazione e per
tutto il mondo civile. Infatti questi diritti, anche se da
principio erano scarsamente fruibili, pure significano la
fine della monarchia assoluta e l’inizio di un’evoluzione
che portava in sé il germe della democrazia. Il Parla-
mento volle agire soprattutto in senso conservatore, e
cosí fece in modo che le elezioni restassero in mano di
quella parte della proprietà terriera che era legata a inte-
ressi commerciali e dei ceti capitalistici ad essa associa-
ti. L’antagonismo tra Whigs e Tories era di secondaria
importanza; i comuni interessi delle classi rappresenta-
te in Parlamento erano comunque prevalenti. Ma qua-
lunque fosse il partito al governo, la vita politica era gui-
data dall’aristocrazia, che influiva in modo decisivo sulle
elezioni e riduceva la borghesia alla condizione di satel-
lite. Quando il potere passava dai Tories ai Whigs, ciò
significava soltanto che l’amministrazione favoriva il
commercio e le sette dissidenti, piuttosto che la pro-
prietà terriera e la Chiesa anglicana; ma, pur nel regime
parlamentare, non si usciva dall’oligarchia. I Whigs non
volevano un Parlamento senza re né privilegi nobiliari,
piú di quanto i Tories volessero una monarchia senza
Parlamento. Ma nessuno di loro intendeva il Parlamen-
to come rappresentanza popolare; lo consideravano sem-
plicemente come la garanzia dei loro privilegi di fronte
alla Corona. E per tutto il secolo xviii esso mantenne
questo carattere di classe. A vicenda governavano il
paese poche dozzine di famiglie tory o whig, che, man-
dando il primogenito alla Camera Alta e i cadetti ai
Comuni, monopolizzavano la politica. Due terzi dei
deputati erano semplicemente nominati dall’alto e il
resto era eletto da non piú di 160 000 elettori, i cui voti,
per giunta, si potevano in parte comprare. Il censo, che

Storia dell’arte Einaudi 46


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

legava il diritto di voto soprattutto alla rendita fondia-


ria, assicurava senz’altro il predominio in Parlamento
alla classe dei proprietari terrieri. Ma, nonostante le
limitazioni del suffragio, il commercio dei voti e la vena-
lità dei parlamentari, l’Inghilterra già nel Settecento era
una nazione moderna, che si liberava a poco a poco dai
residui del Medioevo. I suoi cittadini comunque gode-
vano di una libertà personale ancora sconosciuta nel
resto d’Europa; e gli stessi privilegi sociali, qui legati sol-
tanto al possesso della terra e non, come in Francia, a
mistici diritti del sangue3, erano piú atti a riconciliare i
ceti piú umili con le distinzioni di classe, già in sé e per
sé piú elastiche.
L’ordinamento della società inglese nel secolo xviii è
stato spesso confrontato con le condizioni di Roma nel-
l’ultimo periodo della repubblica, ma il fatto che la
struttura della società romana con la sua classe senato-
ria, gli equites e i plebei si ripeta, in certo modo, in
Inghilterra con le categorie dell’aristocrazia parlamen-
tare, dei capitalisti e dei «poveri», non sarebbe in sé e
per sé molto significativo: questa tripartizione è uno dei
tratti distintivi di ogni società già evoluta ma non anco-
ra livellata. Ciò che assicura speciale significato al paral-
lelo fra l’Inghilterra e Roma è il dominio che l’aristo-
crazia esercita sul Parlamento, e il fatto che siano del
tutto fluidi i confini tra patrizi e capitalisti. Ma il rap-
porto di queste classi con la plebe è abbastanza diverso
nei due paesi. È, vero che gli autori romani dell’epoca,
come quelli inglesi del Settecento non fanno mai cenno
dei poveri4, ma a Roma il proletariato occupa continua-
mente l’attenzione pubblica, mentre è quasi del tutto
trascurato nella politica inglese. Un’altra particolarità
che distingue la società inglese dalla romana – e non sol-
tanto da essa – è che la nobiltà, che altrove in circo-
stanze analoghe s’impoverisce, in Inghilterra accresce la
propria ricchezza e rimane il ceto piú influente5. È prova

Storia dell’arte Einaudi 47


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

della sua saggezza politica non solo ch’essa consenta ai


borghesi attività di grande profitto ed essa stessa vi par-
tecipi, ma che rinunzi spontaneamente ai privilegi fisca-
li, a cui l’aristocrazia francese si attacca piú che mai6. In
Francia soltanto la povera gente paga tasse, in Inghil-
terra soltanto i ricchi7, il che non migliora sostanzial-
mente la condizione dei poveri, ma assicura l’equilibrio
al bilancio dello stato, mentre abolisce il privilegio piú
odioso della nobiltà. L’aristocrazia mercantile che domi-
na in Inghilterra non ha certo sensi e pensieri piú umani
di quelli dell’aristocrazia in genere, ma, grazie all’espe-
rienza degli affari, è dotata di maggior realismo e com-
prende a tempo che i suoi interessi s’identificano con
quelli dello stato. La generale tendenza al livellamento,
che si arresterà soltanto di fronte alla differenza tra
ricco e povero, assume in Inghilterra forme piú radica-
li che altrove e qui per la prima volta crea rapporti socia-
li moderni, fondati essenzialmente sulla proprietà. Forti
disparità nella gerarchia sociale vengono qui evitate non
solo mediante una serie di gradi intermedi, ma anzitut-
to grazie all’indeterminatezza delle singole categorie.
L’alta nobiltà inglese – la nobility – è indubbiamente una
nobiltà di sangue, ma il titolo di pari è trasmesso esclu-
sivamente al primogenito; i cadetti quasi non si distin-
guono dal resto della gentry. Ma i confini della piccola
nobiltà sono fluidi anche verso il basso. In origine la gen-
try s’identificava con i gentiluomini di provincia – con
la squirearchy – ma a poco a poco venne comprendendo
non soltanto i notabili locali, ma anche tutti gli ele-
menti che per ricchezza e cultura si distinguessero dagli
esercenti, dai mercantucci e dai «poveri». Il concetto di
gentleman perdette quindi ogni significato giuridico e il
suo valore divenne incerto perfino nel riferirsi a un
determinato modo di vita. Il criterio dell’appartenenza
alla classe signorile venne limitandosi quasi esclusiva-
mente a un certo livello culturale e all’orientamento

Storia dell’arte Einaudi 48


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ideologico. Questo spiega anzitutto un fenomeno vera-


mente notevole e cioè che in Inghilterra il trapasso dal-
l’aristocratico Rococò al borghese romanticismo avven-
ga senza la violenta scossa dei valori culturali che si
verifica in Francia e in Germania.
Il livellamento intellettuale in Inghilterra si manife-
sta nel modo piú chiaro nel sorgere di uno stabile pub-
blico di lettori: una cerchia relativamente ampia, in cui
regolarmente si comprano e si leggono libri, e viene cosí
assicurata a un certo numero di scrittori una vita libera
da vincoli personali. La nascita di questo pubblico si
deve anzitutto all’importanza che assume la borghesia
agiata, che rompe il privilegio aristocratico della cultu-
ra e mostra un vivo e sempre crescente interesse per le
lettere. Non ci sono in questo nuovo pubblico individui
abbastanza ambiziosi e ricchi da farsi mecenati; ma esso
è sufficientemente numeroso da garantire lo smercio di
libri necessario a mantenere gli scrittori. La teoria secon-
do cui l’esistenza di questo pubblico si deve alla presenza
di un ceto medio economicamente e politicamente
influente viene non di rado contraddetta e in particola-
re si obietta che già nel Seicento la borghesia aveva rag-
giunto una sua importanza e che pertanto la funzione
culturale che essa acquista nel Settecento non si può
semplicemente spiegare con la sua migliorata condizio-
ne sociale8. È agevole ribattere in questo caso che la cul-
tura artistica del Seicento, soprattutto per il puritanesi-
mo della borghesia, rimase esclusiva della nobiltà di
corte. Gli altri ambienti rinunziarono alla funzione che
avevano avuto nell’età elisabettiana; quindi piú tardi
dovettero prima riconquistarsi il loro posto nella cultu-
ra, cioè ripercorrere una via sulla quale non potevano
procedere se non piú lentamente che su quella dell’a-
scesa economica e sociale. Il loro benessere dovette
diffondersi e consolidarsi, perché la cultura borghese vi
fondasse la sua egemonia. Infine la nobiltà stessa dovet-

Storia dell’arte Einaudi 49


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

te far propri certi aspetti della mentalità borghese per


formare con la borghesia un ceto intellettualmente omo-
geneo e rafforzare cosí il nuovo pubblico della lettera-
tura; e questo poté avvenire solo quando essa entrò
nella vita degli affari.
L’antica aristocrazia di corte non dava luogo a un
vero pubblico letterario; provvedeva in qualche modo ai
suoi poeti, che non considerava produttori di beni indi-
spensabili, ma servi alle cui prestazioni in certe circo-
stanze si poteva anche rinunziare. Essa li sosteneva piú
per motivi di prestigio che per il reale valore dell’opera
loro. La lettura alla fine del Seicento non era un passa-
tempo molto diffuso; la letteratura profana, fatta in
gran parte di storie ormai antiquate d’amori e di avven-
ture, non si rivolgeva che a nobili sfaccendati; e i libri
eruditi non li leggevano che i dotti. La cultura delle
donne, che doveva avere una parte cosí importante nella
vita letteraria del secolo successivo, lasciava molto a
desiderare. È noto, ad esempio, che la figlia maggiore
di Milton non sapeva scrivere, e la moglie di Dryden,
che pur veniva da una famiglia nobile, era sul piede di
guerra con la grammatica e l’ortografia della sua lingua
materna9. Gli unici libri che nel Seicento e agli inizi del
Settecento avessero un largo pubblico erano quelli di
edificazione; la letteratura amena d’argomento profano
costituiva ancora una parte insignificante della produ-
zione libraria10. Il volgersi del pubblico dai libri di devo-
zione alla letteratura brillante profana, che del resto fin
verso il 1720 trattava ancora soprattutto argomenti
morali, e solo piú tardi cominciò a imperniarsi su altri
piú leggeri, si può, contrariamente all’ipotesi di Schöf-
fler11, attribuire solo indirettamente al carattere politi-
co assunto dalla Chiesa per opera di Walpole e all’atti-
vità illuministica del clero anglicano. La politica libera-
le del governo e l’orientamento mondano della Chiesa
Alta non erano che sintomi dell’illuminismo, che a sua

Storia dell’arte Einaudi 50


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

volta era semplicemente l’espressione ideologica del


disgregarsi del feudalesimo e dell’avvento delle classi
medie. Ma l’aver chiarito la funzione del clero prote-
stante nel diffondere la letteratura profana e nella for-
mazione intellettuale del nuovo pubblico12 è tuttavia
uno dei piú importanti risultati della moderna sociolo-
gia. In effetti senza la propaganda dal pulpito i roman-
zi di Defoe e di Richardson non avrebbero raggiunto
tanta popolarità.
Verso la metà del secolo il numero dei lettori cresce
a vista d’occhio; si pubblicano libri in numero sempre
maggiore e, a giudicare dalla prosperità del commercio
librario, debbono trovare compratori. Sullo scorcio del
secolo, la lettura è ormai fra le necessità vitali dei ceti
superiori ed è stato osservato che il possedere libri è
tanto naturale negli ambienti descritti da Jane Austen,
quanto sarebbe stato strano nel mondo di Fielding13. Lo
sviluppo del nuovo pubblico è favorito in primo luogo
dai periodici, la grande invenzione del tempo, che si
diffondono dal principio del secolo. La borghesia com-
pie su di essi la sua educazione letteraria e mondana,
ancora orientata essenzialmente secondo i criteri dell’a-
ristocrazia. Anche questa, d’altronde, è molto cambia-
ta dai tempi del suo predominio, e ha tratto insegna-
mento dalla vittoria dello spirito cittadino e borghese su
quello di corte. Tuttavia la tensione fra i due modi di
pensare e sentire, aristocratico e borghese, durerà anco-
ra a lungo. La mentalità freddamente intellettualistica,
la scettica superiorità dell’aristocratico non scompare da
un giorno all’altro; si fa ancora sentire in molti modi
nello stile ricercato e nella morale stoica dei periodici
borghesi. Nella letteratura il gusto classicheggiante si
mantiene anche piú a lungo che nei giornali: fino alla
metà del secolo sono considerate qualità letterarie per
eccellenza l’ingegnosità e l’arguzia, l’acutezza delle tro-
vate e il virtuosismo tecnico, la chiarezza di pensiero e

Storia dell’arte Einaudi 51


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

la purezza di linguaggio, le qualità insomma che trovia-


mo nei seguaci di Pope e nei wits. Del resto nulla è piú
indicativo del carattere transitorio di questa cultura, fra
aulica e borghese, che quest’esiguo gruppo di letterati e
dilettanti, impegnati a distinguersi dai comuni mortali
per la cultura classica, il gusto difficile, il frizzo scher-
zoso e fatuo. La graduale scomparsa di questi intellet-
tuali, di cui certe peculiarità vengono acquisite come
naturale premessa della cultura letteraria, e altre invece
appaiono sempre piú ridicole, e soprattutto il fatto che
la loro futile arguzia cede al sano buon senso e la loro
eleganza formale all’immediatezza del sentimento, sono
tutti fenomeni che rientrano in una fase successiva dello
sviluppo storico in cui si compie la completa emancipa-
zione del gusto borghese in letteratura. Finalmente cessa
del tutto la tensione fra le due correnti e alla letteratu-
ra borghese non si oppone piú nulla che possa indicarsi
come aulico. Ciò non vuol dire che cessi ogni tensione,
o che domini un gusto unico e unanime. Piuttosto si pre-
para un nuovo contrasto, che al gusto di una élite intel-
lettuale opporrà quello dei lettori comuni; e già da ora
si verificano certe deviazioni in cui si possono ricono-
scere quelle che saranno piú tardi le debolezze della let-
teratura amena.
Il Tatler di Steele, pubblicato a partire dal 1709, lo
Spectator di Addison che lo sostitui due anni dopo, e i
successivi «settimanali morali» creano un collegamento
letterario fra il dotto e il lettore comune, piú o meno
istruito, fra l’ingegno brillante dell’aristocratico e il buon
senso del borghese; rappresentano quindi una letteratu-
ra non aulica né veramente popolare, in cui il severo
razionalismo, il rigore morale e l’ideale di rispettabilità
stanno tra la visione cavalleresca dell’aristocrazia e quel-
la della borghesia puritana. In questi periodici le brevi
trattazioni pseudo-scientifiche e le discussioni di filoso-
fia morale offrono la miglior introduzione alla lettura dei

Storia dell’arte Einaudi 52


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

libri e dànno al pubblico il gusto della letteratura seria;


essi fanno della lettura una consuetudine e una necessità
per ceti relativamente larghi. Ma a loro volta i periodici
sono una conseguenza diretta della nuova posizione
sociale dello scrittore. Dopo la Gloriosa Rivoluzione que-
sti non trova piú appoggio alla corte, che ormai non è piú
quella d’un tempo e non riavrà mai piú la sua primitiva
funzione culturale14. La parte di protettori delle lettere
passa al partiti politici e al governo legato all’opinione
pubblica. Al tempo di Guglielmo III e di Anna il pote-
re è diviso fra Tories e Whigs e i due partiti, costretti a
una perpetua gara per l’egemonia politica, non possono
rinunziare alla letteratura come arma di propaganda. Gli
scrittori stessi, volenti o nolenti, debbono prestarsi a
questo compito; poiché è quasi scomparsa l’antica forma
di mecenatismo e il libero mercato librario non può con-
tare ancora su un pubblico sufficiente, essi non hanno
fonti sicure di guadagno al di fuori della propaganda
politica. Così, se Steele e Addison diventano giornalisti
che direttamente o indirettamente rappresentano gli inte-
ressi dei Whigs, Defoe e Swift si dànno a scrivere libel-
li politici e fini politici perseguono anche nei romanzi.
L’idea de «l’art pour l’art», se pur fossero stati tali da
concepirla, sarebbe apparsa loro qualcosa di irresponsa-
bile e in sé immorale. Robinson è uno scritto a tesi, di
pedagogia sociale, e Gulliver una satira contro la società
dell’epoca; entrambi sono nel piú stretto senso della
parola propaganda politica, e quasi nulla piú. Certo non
è il primo caso di letteratura militante, intesa a immediati
fini sociali; ma le «bombe cartacee» di Swift e dei suoi
contemporanei sarebbero state inconcepibili prima che si
affermassero la libertà di stampa e la pubblica discussio-
ne dell’attualità politica. Solo ora lo scrittore che fa della
sua penna un’arma adatta a ogni necessità, posta al ser-
vizio del miglior offerente, appare come normale feno-
meno sociale.

Storia dell’arte Einaudi 53


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Il fatto che davanti a lui non stia piú una sola forza
compatta, ma due partiti diversi, lo rende in certo modo
indipendente, potendo egli scegliersi il padrone, piú o
meno secondo le proprie inclinazioni15. Ma che l’uomo
politico lo consideri semplicemente come alleato, questa
è per lo piú una finzione utile e lusinghiera per le due
parti. Quanto ai due massimi pubblicisti del tempo,
Defoe in sostanza è persuaso di quanto sostiene e, nella
passione di Swift, l’odio è schietto. Il primo, un whig,
è profondamente ottimista, l’altro invece, com’è natu-
rale per un tory del tempo di Walpole, è amaramente
pessimista; l’uno è l’araldo di una borghese e puritana
filosofia della vita, che ha fede in Dio e nel mondo; l’al-
tro ostenta sarcastica superiorità, misantropia e disprez-
zo del mondo. I due campi politici in cui è divisa l’In-
ghilterra, hanno in loro i massimi esponenti letterari.
Defoe è figlio di un macellaio di Londra che appartiene
ai dissenzienti; il puritanesimo dei padri, oppresso ma
inflessibile, echeggia nei suoi scritti. Egli stesso fu per-
seguitato sotto il governo tory, ligio alla Chiesa Alta. La
vittoria dei Whigs giustificherà infine le speranze della
sua classe e dei suoi compagni di fede; ed è proprio gra-
zie a lui che l’ottimismo di questa borghesia avrà per la
prima volta voce nella letteratura. Robinson Crusoe che,
con le sole sue forze, vince la natura riluttante e crea dal
nulla benessere, sicurezza, ordine, legge e costume, è il
classico rappresentante del medio ceto. La storia delle
sue avventure è tutto un inno alla solerzia, alla perse-
veranza, all’inventiva, al buon senso vittorioso di ogni
difficoltà, insomma alle virtù pratiche della borghesia;
è l’atto di fede di una classe sociale che tende ad ele-
varsi, conscia della propria forza, e a un tempo è il pro-
gramma di una giovane e intraprendente nazione tesa a
conquistare il mondo. Swift non vede di tutto questo
che il rovescio della medaglia; non solo perché egli parte
da un altro punto di vista sociale, ma anche perché ha

Storia dell’arte Einaudi 54


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ormai perduto la fede ingenua di Defoe. Egli è uno dei


primi a sentirsi deluso dell’illuminismo, e questa sua
esperienza esprime in una sorta di Candide iperbolico.
È di quegli spiriti che l’odio rende geniali, e vede cose
che gli altri non sanno vedere, perché odia piú intensa-
mente degli altri e perché, com’egli scrive a Pope, vuol
tormentare, non dilettare il mondo. Cosí comporrà il
libro piú crudele di questo secolo, che pure non è certo
povero di libri crudeli, benché cosí umano e sensibile.
È impossibile immaginare qualcosa di piú contrario alla
filantropia del Robinson di quest’altro grande «roman-
zo per giovinetti» della letteratura inglese, che in cru-
deltà può venire superato soltanto dal terzo esempio
del genere, il Don Quijote. Tuttavia certi caratteri sono
comuni al Gulliver e al Robinson. Anzitutto, da un punto
di vista storico-letterario, entrambi risalgono a quei fan-
tastici romanzi di viaggi e a quelle utopiche storie mera-
vigliose cosí care al Rinascimento, di cui gli autori piú
noti sono Cyrano de Bergerac, Campanella e Tommaso
Moro. Inoltre essi hanno al loro centro gli stessi pro-
blemi filosofici, in particolare quelli sull’origine e il valo-
re della civiltà umana. Solo in un tempo in cui le basi
sociali della civiltà cominciavano a vacillare questi pro-
blemi potevano acquistare l’importanza che hanno per
Defoe e per Swift, e solo perché furono diretti testimoni
dell’assurgere di una nuova classe alla direzione della cul-
tura essi poterono giungere a una formulazione cosí
netta dell’idea che le diverse civiltà sono strettamente
condizionate dai fattori sociali.
Con lo sviluppo della letteratura di propaganda, si
trasforma radicalmente la posizione economica e socia-
le dello scrittore. Ora che, in premio dei suoi servigi, gli
sono concessi alti uffici e ricchi compensi, cresce agli
occhi del pubblico anche il suo valore morale. Addison
sposa una contessa di Warwick, Swift è in rapporti ami-
chevoli con personalità come Bolinbroke e Harley, e al

Storia dell’arte Einaudi 55


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Kitcat Club un conte di Sunderland e un duca di New-


castle trattano alla pari Vanbrough e Congreve. Ma non
dobbiamo mai dimenticare che questi scrittori sono
apprezzati e rimunerati unicamente per i loro servigi
politici e non per le loro qualità letterarie o morali16. E
poiché sono gli uomini politici ora a disporre delle ricom-
pense agli scrittori, soprattutto sotto forma di alti impie-
ghi, i partiti e il governo assumono, nella letteratura, la
posizione che un tempo avevano i circoli di corte e il re.
Ma il prezzo ch’essi pagano è piú alto e i premi che toc-
cano agli autori sono maggiori del compenso che una
volta si concedeva a un poeta. Locke è commissario
della Corte d’Appello e della Camera di Commercio,
Steele esercita una funzione analoga presso l’Ufficio del
Bollo, Addison diventa segretario di stato e quando
lascia l’ufficio gli viene assegnata una pensione di mil-
leseicento sterline; Granville è membro della Camera dei
Comuni, diventa ministro della guerra e tesoriere della
casa reale, Prior ottiene una legazione e Defoe viene
incaricato di varie missioni politiche17. Mai e in nessun
luogo come nell’Inghilterra del Settecento tanti scritto-
ri vennero insigniti di cosí alti uffici e dignità.
Questa situazione di eccezionale favore per gli scrit-
tori giunge all’apogeo negli ultimi tempi della regina
Anna e cessa del tutto con il ministero, Walpole, nel
1721. Con l’avvento al potere dei Whigs si creano con-
dizioni per cui i letterati diventano inutili al governo, e
finisce bruscamente il mecenatismo politico. L’egemo-
nia del partito al governo appare cosí solida da poter fare
a meno di ogni propaganda; e d’altronde l’influsso dei
Tories è cosí scarso ch’essi non possono ricompensare gli
scrittori per i loro servigi. Walpole, personalmente estra-
neo alla letteratura, non ha certo denaro superfluo né
impieghi disponibili per gli autori. I posti piú lucrativi
debbono esser concessi ai deputati, il cui appoggio è
necessario in Parlamento, o a elementi di quei collegi

Storia dell’arte Einaudi 56


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

elettorali, che si vogliono gratificare. D’altronde si è


giunti al punto che, per quanti scrittori si soddisfino, ce
n’è sempre di malcontenti, e nessuno ha tra loro tanti
avversari come Halifax, il generosissimo mecenate18. Si
fa il silenzio intorno ai poeti e ai letterati. Pope, Addi-
son, Steele, Swift, Prior si allontanano dalla capitale e
dalla vita pubblica, e tutt’al piú continuano a scrivere
nella solitudine della campagna. La situazione economi-
ca dei giovani peggiora rapidamente. Thomson è cosí
povero che deve vendere un canto delle sue Seasons* per
comprarsi un paio di scarpe, e anche Johnson agli inizi
deve lottare con la piú amara indigenza. Il letterato non
è piú un gentleman; con la sicurezza economica, tra-
montano reputazione e dignità. Egli acquista cattive
maniere, conduce una vita sregolata, diventa infido; e
si finisce con tipi come Savage, impossibili al tempo
della cultura di corte, e in certo modo precursori della
moderna bohème.
Per fortuna il mecenatismo privato non cessa cosí
all’improvviso come quello politico. L’antica tradizione
aristocratica non si era mai del tutto interrotta, e, ades-
so che gli scrittori possono e debbono volgersi nuova-
mente ai privati, essa rifiorisce. Il nuovo mecenatismo,
in verità, non è diffuso come l’antico, ma in generale sa
orientarsi con maggior competenza, sí che presto o tardi
ogni scrittore di talento trova un mecenate, purché ci si
metta d’impegno19. Comunque, in questa fase di pas-
saggio dalla propaganda politica alla libera professione
letteraria, erano pochi gli scrittori che potevano fare a
meno dell’appoggio privato. Le recriminazioni contro i
sistemi del patronato erano continue, ma non si sa di
nessuno che abbia avuto il coraggio di affrancarsene.
Eppure era meno scomodo dipendere da un mecenate
che da un editore, sebbene il carattere piú personale del
vincolo lo rendesse spesso in apparenza piú umiliante.
Infatti anche Johnson, che per tutta la vita rifiutò di pro-

Storia dell’arte Einaudi 57


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

curarsi un mecenate, e aveva poca stima del mecenati-


smo come istituzione, ammetteva che si potesse esser
protetti da un gran signore, pur conservando la propria
indipendenza. In questo senso i rapporti di Fielding con
il suo protettore costituiscono una prova innegabile. Gli
scrittori senza appoggi privati per lo piú dovevano lavo-
rare a giornata, assumendosi traduzioni, compendi, revi-
sioni, correzioni di bozze, collaborando a riviste e a
enciclopedie popolari. Anche Johnson, il futuro arbitro
della letteratura inglese, cominciò cosí la sua carriera, da
povero coolie. Non si può includere in nessuna di que-
ste categorie Pope, che apparentemente resta libero da
ogni vincolo esterno, ma in realtà è al servizio di quel-
l’aristocrazia che acquista i suoi libri per sottoscrizione
e lo considera a buon diritto come suo. Col risorgere del
mecenatismo privato, torna a diminuire la considera-
zione per lo scrittore di professione, e lo prova l’atteg-
giamento di uomini come Horace Walpole e lord Che-
sterfield, pur dotati di vasta cultura letteraria. La nota
frase di quest’ultimo: «We, my lords, may thank Hea-
ven that we have something better than our brains to
depend upon»** caratterizza ottimamente l’opinione
dominante. Ma anche una parte degli autori la pensano
cosí e si dànno l’aria di scrivere per signorile diletto. A
questa categoria appartiene Congreve, che vuol essere
considerato da Voltaire soprattutto come gentleman e
non come scrittore.
Il mecenatismo cessa dopo la metà del secolo e verso
il 1780 non c’è piú scrittore che conti su appoggi privati.
Il numero dei poeti e dei letterati indipendenti, che
vivono della loro penna, aumenta di giorno in giorno,
come il numero di coloro che leggono e comprano libri
fuori d’ogni rapporto personale con l’autore. Johnson e
Goldsmith ormai scrivono solo per costoro. Al mecena-
te subentra l’editore; la sottoscrizione, che molto giu-
stamente è stata detta una specie di mecenatismo col-

Storia dell’arte Einaudi 58


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

lettivo, costituisce la forma di passaggio20. Il mecenati-


smo è la forma schiettamente aristocratica del rapporto
fra scrittore e pubblico; la sottoscrizione, pur allentan-
do il legame, ne conserva in parte il carattere persona-
le; solo il libro stampato per il gran pubblico affatto sco-
nosciuto all’autore corrisponde alla struttura della
società borghese, fondata sulla circolazione anonima
delle merci. La funzione dell’editoria come mediatrice
fra autore e pubblico comincia quando il gusto borghe-
se si viene emancipando dai canoni aristocratici, anzi di
questo fenomeno essa è un chiaro sintomo. Solo allora
si sviluppa una vita letteraria in senso moderno, di cui,
oltre la regolare pubblicazione di libri, giornali e riviste,
fa parte anche l’esperto di letteratura, in particolare il
critico che rappresenta il livello medio del gusto e l’o-
pinione pubblica. Ai precursori dei letterati settecente-
schi, specialmente agli umanisti del Rinascimento, que-
sta funzione era negata, anche solo per la mancanza
della stampa periodica, cioè del mezzo veramente ido-
neo per influenzare il pubblico.
Fino a mezzo il secolo xviii gli scrittori non erano vis-
suti dei proventi diretti dell’opera loro, ma di pensioni,
prebende, sinecure, spesso indipendenti sia dall’intrin-
seco valore, che dalla popolarità dei loro scritti. Solo ora
il prodotto letterario diventa merce, il cui valore dipen-
de dalla richiesta sul libero mercato. Si può salutare
questo mutamento con soddisfazione o con rammarico;
comunque è certo che la trasformazione della profes-
sione di scrittore in attività indipendente e regolare
sarebbe stata inconcepibile, nell’epoca del capitalismo,
senza la metamorfosi della prestazione personale in
merce impersonale. Solo per questa via i letterati hanno
potuto conquistarsi una salda base economica e quella
dignità che l’epoca moderna riconosce alla loro profes-
sione; infatti chi compra un libro pubblicato in un’edi-
zione di mille esemplari non fa, almeno direttamente,

Storia dell’arte Einaudi 59


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

una grazia all’autore, mentre il compenso per un mano-


scritto ha sempre l’aria di un’elemosina. Al tempo delle
corti e dell’aristocrazia la rispettabilità di un uomo
dipendeva dal rango del suo protettore; ora, in epoca
liberale e capitalistica, egli gode tanto maggior prestigio
quanto piú è libero da vincoli personali e quanto piú è
fortunato in rapporti fondati unicamente sulla recipro-
cità delle prestazioni. La manovalanza letteraria non
scompare affatto, ma la richiesta di scritti ameni e istrut-
tivi, specialmente di enciclopedie storiche, biografiche
e statistiche, è cosí grande che qualunque mediocre auto-
re può contare su un provento sicuro21. In imprese come
«La fabbrica letteraria» di Smollett, dove si lavora con-
temporaneamente a una traduzione del Don Quijote, a
una storia d’Inghilterra, a un compendio di viaggi e a
una traduzione delle opere di Voltaire, c’è lavoro per
chiunque sappia tener la penna22. Si parla molto dello
sfruttamento degli scrittori a quell’epoca, e certo gli
editori non erano filantropi: ma Johnson afferma a loro
lode che erano soci corretti e generosi, e sappiamo che
gli autori noti e in voga ottenevano per l’opera loro
somme che appaiono considerevoli anche riferite alle
condizioni odierne. Hume, ad esempio, con la sua Sto-
ria di Gran Bretagna (1754-61) guadagnò tremilaquat-
trocento sterline, e Smollett con la sua opera storica
(1757-65), duemila. Sono cambiate le cose dai tempi di
Defoe, che per il manoscritto del Robinson dapprima
non riuscí a trovare editori e finalmente ne ricavò dieci
sterline. Con la conquista dell’indipendenza economica
il prestigio dello scrittore sale a un’altezza finora igno-
ta. Nel Rinascimento il poeta o l’umanista celebre era,
sì, onorato ed esaltato, ma i mediocri venivano confusi
con gli scrivani e i segretari privati. Solo adesso lo scrit-
tore in quanto tale gode la stima che spetta al rappre-
sentante di una sfera superiore; e il Dorat fa dire a un
filosofo in una sua commedia: «Nous protégeons les

Storia dell’arte Einaudi 60


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

grands protecteurs d’autrefois»***23. Soltanto ora nasce


l’ideale della personalità creatrice, del genio artistico
con una sua originalità e una sua gelosa soggettività, cosí
come lo caratterizza Edward Young nelle sue Conjectu-
res on Original Composition**** (1759).
Questo motivo del carattere geniale della creazione
artistica per lo piú non è che un’arma contro la concor-
renza, e il soggettivismo dell’espressione è spesso una
semplice forma di autopubblicità. In ogni modo, il sog-
gettivismo dei poeti preromantici è, almeno in parte,
una conseguenza del crescente numero degli scrittori,
della loro situazione strettamente legata al mercato libra-
rio ed alla reciproca concorrenza, proprio come il movi-
mento romantico, in quanto espressione spiccatamente
passionale del nuovo modo di sentire borghese, è il pro-
dotto di una concorrenza intellettuale e un’arma della
borghesia contro la mentalità aristocratica, classicheg-
giante e incline alle regole e ai canoni generali. Finora
la classe media si sforzava di far proprio il linguaggio
artistico dei ceti superiori; ora invece, che è giunta a un
grado di ricchezza e influenza che le consente di avere
una sua propria letteratura, vuole imporre le proprie
concezioni e parlare la sua lingua: e non sarà piú la sem-
plice negazione dell’intellettualismo aristocratico, ma il
linguaggio della sensibilità. La rivolta del sentimento
contro il freddo intelletto rientra, come del resto l’in-
sorgere del «genio» contro la costrizione di regole e for-
mule, nell’ideologia dei ceti ambiziosi e progressivi nella
loro lotta contro lo spirito conservatore e convenziona-
le. L’ascesa della moderna borghesia, come quella dei
ministeriales nel Medioevo, è legata a un movimento
romantico; il sovvertimento sociale, oggi come allora,
finisce col dissolvere i vincoli formali, maturando una
piú profonda sensibilità.
Si è spesso parlato dell’evoluzione che dall’intellet-
tualismo della cultura classicheggiante porta al senti-

Storia dell’arte Einaudi 61


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mentalismo romantico come di un cambiamento di gusto


provocato dal tedio degli ambienti piú elevati per un’ar-
te raffinata e decadente. Giustamente però si è obiet-
tato che il desiderio di novità in sé è un fattore relati-
vamente secondario nel mutare degli stili, e che una
tradizione di gusto, quanto piú è antica ed evoluta,
tanto meno è incline di suo ai cambiamenti. Un nuovo
stile quindi si fa strada a fatica, quando non si rivolge a
un pubblico nuovo24. L’aristocrazia del Settecento,
comunque, forse non avrebbe avuto fondati motivi per
rinunziare al proprio gusto, se la classe media non si
fosse impadronita dell’iniziativa culturale. Essa difatti
non era per nulla disposta a sottomettersi senz’altro a
questa iniziativa, né a condividere il sentimentalismo dei
ceti inferiori. Ma sappiamo che spesso la tendenza pre-
dominante di un’epoca ottiene l’adesione anche di quei
ceti, ch’essa minaccia di distruggere. E proprio per que-
sto fenomeno il Settecento è esemplare. Si sa che l’ari-
stocrazia contribuí in modo eminente a preparare la
Rivoluzione e se ne spaventò soltanto quando fu chiaro
che cosa significasse la sua vittoria. Una funzione ana-
loga l’alta società ebbe nello sviluppo della cultura anti-
classica. Nell’assimilare e nel propagare le idee dell’illu-
minismo essa gareggiò con il ceto medio, spesso supe-
randolo; soltanto la tempra di Rousseau, francamente
plebea e irriverente, l’indusse a riflettere e a reagire. E
di questa reazione è già un segno l’ostilità di Voltaire
verso Rousseau. Ma per lo piú nelle personalità piú emi-
nenti fin dall’inizio si ritrovano intrecciati elementi
razionalistici e sentimentali; la loro finezza intellettua-
le le rende in certo modo insensibili ai loro propri inte-
ressi di classe. L’evoluzione dell’arte, già scarsamente
unitaria nel Seicento, si fa, in quest’epoca preromanti-
ca, ancora piú complicata e, per certi riguardi, presenta
un quadro persino piú oscuro che nel periodo successi-
vo. L’Ottocento è ormai interamente dominato dalla

Storia dell’arte Einaudi 62


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

borghesia in cui sono ben nette le distinzioni economi-


che, ma non troppo quelle culturali; l’unica divisione
veramente profonda è quella che separa i ceti che godo-
no del privilegio della cultura da quelli che ne sono
esclusi. Invece nel Settecento sia l’aristocrazia, sia la
borghesia sono divise in due campi: all’interno di ognu-
no di questi ceti si ha un gruppo conservatore e uno
innovatore che, pur incrociandosi in molte guise, con-
servano il proprio carattere.
Per l’origine, il romanticismo è un movimento ingle-
se; come del resto la borghesia moderna, che in Inghil-
terra per la prima volta arriva a creare una sua espres-
sione letteraria indipendente dall’aristocrazia, è un pro-
dotto della situazione inglese. La poesia della natura di
Thomson, i canti notturni di Young e le elegie ossiani-
che di Macpherson, come il sentimentale romanzo di
costume di Richardson, Fielding e Sterne non sono che
l’espressione letteraria dell’individualismo, di cui altre
espressioni sono il laissez-faire e la rivoluzione indu-
striale. Sono fenomeni di quell’epoca di guerre com-
merciali, con cui termina il trentennio di pacifico gover-
no whig, e che alla Francia costa l’egemonia sull’Euro-
pa. Alla fine della contesa, l’impero britannico non sol-
tanto è la prima potenza mondiale, non solo nel com-
mercio internazionale ha lo stesso posto di Venezia nel
Medioevo, della Spagna nel Cinquecento, della Francia
e dell’Olanda nel Seicento; ma, contrariamente a quan-
to era accaduto a queste ultime, conserva all’interno la
sua forza25 e le conquiste tecniche della rivoluzione indu-
striale gli permettono di proseguire la lotta per l’ege-
monia economica. Le vittorie militari, le scoperte geo-
grafiche, i nuovi mercati e le nuove vie marittime, i capi-
tali relativamente cospicui in cerca d’investimenti: ecco
le premesse di quella rivoluzione. Il rapido susseguirsi
delle invenzioni non si può spiegare soltanto con lo svi-
luppo delle scienze esatte e l’improvviso sorgere di doti

Storia dell’arte Einaudi 63


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tecniche. Le invenzioni si fanno perché si sanno utiliz-


zare, perché c’è una richiesta di prodotti industriali che
non può venir soddisfatta con gli antichi metodi, e per-
ché si dispone dei mezzi materiali per il rinnovamento
tecnico. Finora nella storia della scienza si era prestata
scarsa attenzione alle possibili applicazioni industriali;
solo a partire dall’ultimo terzo del Settecento la ricerca
è dominata dall’indirizzo tecnologico. Tuttavia la rivo-
luzione industriale non apre un’era completamente
nuova. Piuttosto essa continua uno sviluppo iniziatosi
sin dalla fine del Medioevo. Non è una novità la scis-
sione tra capitale e lavoro, né l’organizzazione indu-
striale della produzione; da secoli c’erano macchine, e,
da quando esisteva un’economia orientata in senso capi-
talistico, continuo era il progresso dei metodi razionali
nella produzione. Ma ora questa si meccanizza e si
razionalizza in modo decisivo, entrando in una fase che
liquida affatto il passato. L’abisso tra capitale e lavoro
si fa incolmabile e sia il dominio del capitale, sia l’op-
pressione e la miseria del lavoratore crescono fino a
mutare tutto il colore della vita. Quindi, per quanto
antichi siano gli inizi di quest’evoluzione, è pur vero che
alla fine del Settecento sorge un mondo nuovo.
Solo adesso scompare il Medioevo con tutti i suoi
residui – lo spirito corporativo, i suoi modi di vita par-
ticolaristici, i sistemi di produzione irrazionali e tradi-
zionali – per far posto a un’organizzazione di lavoro uni-
camente fondata sul metodo e sul calcolo, e a uno spie-
tato individualismo nella concorrenza. Con la grande
industria cosí organizzata secondo criteri di rigorosa
razionalità, si apre l’età moderna nel vero senso della
parola, l’età della macchina. Con essa sorge una nuova
forma di azienda determinata dai mezzi meccanici, dalla
rigida divisione del lavoro, dall’adattamento alla pro-
duzione in massa. Dal carattere impersonale del lavoro,
che prescinde ormai dalle particolari attitudini del lavo-

Storia dell’arte Einaudi 64


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ratore, deriva la sempre piú fredda obiettività del rap-


porto fra imprenditore e prestatore d’opera. L’accen-
trarsi degli operai nelle città industriali, in balia delle
oscillazioni sul mercato del lavoro, introduce condizio-
ni piú dure e forme di vita meno libere. Il capitalista,
legato a una solida impresa, si forma un nuovo, piú rigi-
do ethos professionale; invece l’operaio, che non si sente
legato in alcun modo alla fabbrica, smarrisce il senso
etico del lavoro. Sorge infine una nuova struttura socia-
le: un nuovo ceto capitalistico (gl’imprenditori moder-
ni), un nuovo ceto medio urbano dall’esistenza precaria
(gli eredi dei piccoli commercianti e artigiani), e una
nuova classe di lavoratori (il moderno proletariato indu-
striale). Si perdono le antiche distinzioni di mestiere e
il livellamento è spaventoso, specialmente nei gradi piú
bassi. Artigiani, giornalieri, contadini senza terra e inur-
bati, operai provetti e inesperti, uomini, donne, fan-
ciulli, tutti diventano semplici manovali in una grande
industria che funziona macchinalmente, con regolamenti
da caserma. La vita perde stabilità e continuità, ogni sua
forma e ogni suo ordinamento vengono sconvolti, senza
ricomporsi in un nuovo equilibrio. Un primo fattore di
sconvolgimento sociale è rappresentato dall’urbanesi-
mo. Mentre le «recinzioni» e la commercializzazione
dell’economia agricola producono disoccupazione, le
nuove industrie per contro offrono nuove occasioni di
lavoro: si spopola quindi il villaggio e si sovrappopola la
città industriale, che con le sue proporzioni e il suo
affollamento rappresenta per le masse degli spostati un
ambiente affatto insolito e sconcertante. Le città asso-
migliano a grandi campi di lavoro o a prigioni, sono sco-
mode, sporche, malsane e incredibilmente brutte26. La
vita della classe lavoratrice vi scende a un livello cosí
basso, che in confronto quella del servo medievale sem-
bra perfino idillica.

Storia dell’arte Einaudi 65


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Per condurre un’industria in modo da poter sostene-


re la concorrenza occorre un capitale cospicuo; e questo
provoca una radicale scissione del lavoro dai mezzi di
produzione e quindi quella lotta fra capitale e lavoro che
è caratteristica della vita moderna. Poiché soltanto il
capitalista può disporre dei mezzi di produzione, al lavo-
ratore non rimane che offrire sul mercato le sue braccia,
esponendosi al rischio di continue fluttuazioni dei sala-
ri e della disoccupazione periodica. La fabbrica con la
sua concorrenza non travolge soltanto il proletariato
operaio, ma anche le piccole aziende artigiane, che per-
dono l’indipendenza e ogni sicurezza. Del resto, il nuovo
modo di produzione annienta anche la tranquillità e la
sicurezza delle classi possidenti. La principale forma di
ricchezza era stata finora la proprietà terriera che sol-
tanto lentamente e con molte esitazioni si trasformava
in capitale commerciale e bancario; per altro anche il
capitale mobile interveniva nell’industria solo in picco-
la parte27. Solo dopo il 1760 l’impresa industriale diven-
ta la forma preferita d’investimento. L’esercizio di una
fabbrica con i suoi impianti di macchine, il suo consu-
mo di materiale e il suo esercito di operai, esige tutta-
via mezzi sempre piú grandi e provoca un’accumulazio-
ne di capitale piú forte che le forme precedenti di pro-
duzione. Con la concentrazione ormai sempre crescen-
te della ricchezza e con gl’investimenti industriali
comincia il grande capitalismo28. Ma cosí il processo
capitalistico entra nella fase della grande speculazione.
Prima l’economia rurale non conosceva né il rischio del
capitale né la speculazione, e perfino nel commercio e
nella finanza l’audacia non era frequente; a poco a poco
le nuove industrie prendono la mano ai capitalisti e
spesso gli imprenditori giocano poste troppo forti per
poterne sopportare agevolmente la perdita. Una vita
cosí precaria genera, pur nell’effettiva prosperità, uno

Storia dell’arte Einaudi 66


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

stato d’animo da cui scompare irrimediabilmente l’an-


tico ottimismo.
Il nuovo tipo del capitalista – il capitano d’industria –
con la sua nuova funzione sviluppa nella vita economi-
ca nuove attitudini, ma anzitutto una nuova disciplina
e una nuova valutazione del lavoro. Egli in certo modo
fa passare in seconda linea gli interessi commerciali,
dedicandosi tutto all’organizzazione interna della sua
impresa. Il principio della convenienza, del metodo e del
computo, importante fin dal secolo xv nell’economia dei
maggiori paesi, ora diventa esclusivo. L’imprenditore vi
si sottomette non meno inesorabilmente dei suoi operai
e impiegati, e diventa schiavo dell’officina al pari dei
suoi dipendenti29. L’idealizzazione del lavoro come forza
etica, l’esaltazione e il culto di cui lo si fa oggetto non
sono, in fondo, che la trasfigurazione ideologica della
brama di successo e di guadagno, e un mezzo con cui si
tenta di spronare a una cooperazione entusiastica anche
quegli elementi che meno partecipano ai frutti del pro-
prio lavoro. Nell’ambito della stessa ideologia rientra
anche l’idea di libertà. Per il rischio connaturato alla sua
attività, l’industriale deve godere di completa indipen-
denza e libertà di movimento, cosí da non essere impe-
dito da alcuna ingerenza dall’esterno, né danneggiato
rispetto ai concorrenti da alcun provvedimento statale.
Nel trionfo di questo principio sull’antica legislazione
medievale e mercantilistica consiste essenzialmente la
rivoluzione industriale30. Solo con il principio del lais-
sez-faire comincia l’economia moderna, e l’idea della
libertà individuale si afferma soltanto come ideologia del
liberismo. Il che veramente non impedisce che l’idea del
lavoro, e quella stessa della libertà, si evolvano succes-
sivamente in valori etici autonomi e vengano spesso
intese in senso veramente idealistico.
Ma per non dimenticare quanto poco di idealistico vi
fosse all’origine del liberismo, basta tener presente che

Storia dell’arte Einaudi 67


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

la rivendicazione di libertà per l’industria era anzitutto


rivolta contro l’artigiano qualificato, che cosí veniva a
essere privato dell’unico vantaggio ch’egli avesse di fron-
te all’imprenditore. Lo stesso Adam Smith era ancora
ben lontano dal ricorrere a motivi ideali per giustifica-
re la libera concorrenza: egli scorgeva anzi nell’egoismo
e nell’interesse personale la miglior garanzia per un per-
fetto funzionamento dell’organismo economico e per il
pubblico bene. Per questa fede nell’autodisciplina del-
l’economia e nell’automatico equilibrio degli interessi ci
voleva tutto l’ottimismo illuministico; appena questo
cominciò a languire, divenne sempre piú difficile iden-
tificare la libertà economica con l’interesse generale e
scorgere nella libera concorrenza una benedizione per
tutti.
Il distacco dell’autore dalle sue figure, la sua posi-
zione severamente intellettualistica di fronte al mondo,
il suo ritegno nei rapporti con il lettore, insomma il suo
riserbo classico-aristocratico cessa appunto quando si fa
strada il liberismo. Il principio della libera concorrenza
e il diritto all’iniziativa personale hanno il loro paralle-
lo nel desiderio dell’autore di esprimere i suoi propri
affetti, di affermare la sua personalità, facendo del let-
tore un testimonio diretto di un’intima lotta dell’anima
e della coscienza. Non si tratta soltanto di una versione
letteraria del liberismo, ma anche di una protesta con-
tro quel meccanico, impersonale livellamento della vita
proprio dell’economia abbandonata a se stessa. L’indi-
vidualismo traduce il laissez-faire nella vita morale, ma
nello stesso tempo protesta contro una società in cui gli
uomini, avulsi dalle loro inclinazioni personali, non sono
piú che esponenti di funzioni indifferenti, compratori di
merci standardizzate, comparse in un mondo sempre
piú livellato. Le due forme fondamentali della causalità
sociale, l’imitazione e l’opposizione, si uniscono per
creare il clima del romanticismo. Il suo individualismo

Storia dell’arte Einaudi 68


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

è una protesta delle classi progressiste contro l’assoluti-


smo e l’intervento statale, ma anche una protesta con-
tro i fenomeni concomitanti e le conseguenze di quella
rivoluzione industriale, che pure segna la definitiva
emancipazione della borghesia. Il romanticismo palesa il
suo carattere polemico, soprattutto nel fatto che non
solo assume forme individualistiche, ma fa dell’indivi-
dualismo un programma. Il suo ideale della personalità,
come la sua visione generale, si formula dapprima come
contraddizione e negazione. Individui forti e ostinati
c’erano sempre stati e fin dal Rinascimento l’uomo occi-
dentale è conscio della propria individualità; ma un indi-
vidualismo come rivendicazione e protesta contro una
forma di civiltà che spersonalizza l’uomo si dà soltanto
dalla metà del secolo xviii. Anche nella letteratura, natu-
ralmente, già in epoche anteriori si erano espressi con-
flitti tra l’io e il mondo, l’individuo e la società, il cit-
tadino e lo stato; ma l’antagonismo non era mai sentito
come conseguenza dell’urto fra il carattere del perso-
naggio e la collettività. Nel dramma, per esempio, il con-
flitto non risultava dal tema del singolo che si isola per
principio dalla società, o di una cosciente rivolta contro
i vincoli sociali, ma da un concreto, personale contrasto
tra i vari personaggi. La teoria che interpreta la tragicità
del dramma antico partendo dall’idea d’individuazione,
teoria del tutto arbitraria, si rivela, a ben considerare,
una costruzione dell’estetica romantica, insostenibile,
per quanto suggestiva. Prima dell’età romantica l’indi-
vidualismo come comportamento non era mai diventato
un problema, e quindi non poteva neppure diventare
tema di un conflitto drammatico.
Come l’individualismo, anche il sentimentalismo
serve alle classi medie anzitutto come un mezzo per
esprimere la loro indipendenza spirituale dall’aristocra-
zia. Si affermano e si accentuano i propri sentimenti non
perché d’un tratto siano divenuti piú forti e piú intimi;

Storia dell’arte Einaudi 69


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

si esagerano attraverso l’autosuggestione, in quanto essi


rappresentano un atteggiamento opposto al contegno
aristocratico. Il borghese cosí a lungo disprezzato si
specchia nella propria vita psichica e si vede tanto piú
importante quanto piú seriamente considera i suoi sen-
timenti, stati d’animo, impulsi. Certo fra la media e la
piccola borghesia, dove questo sentimentalismo ha le piú
profonde radici, il culto dei sentimenti non è solo un
premio d’assicurazione per il successo, ma insieme un
indennizzo per l’insuccesso nella vita pratica. Ma appe-
na trovata la sua espressione artistica, il nuovo indiriz-
zo si affranca piú o meno dalla sua origine e va per la
sua strada. Il sentimentalismo, che all’inizio era espres-
sione della coscienza di classe della borghesia ed era da
intendere come un rifiuto dell’alterigia aristocratica, si
sviluppa poi in un culto della sensibilità e della sponta-
neità, che sempre meno ha a vedere con lo spirito antia-
ristocratico. Da principio ci si abbandona all’esuberan-
za del sentimento, proprio per contrasto all’aristocrazia
contegnosa e padrona di sé; ben presto però la ricchez-
za affettiva e il calore espressivo assurgono a valori arti-
stici e come tali l’aristocrazia li accetta. Deliberatamente
si ricercano le forti commozioni e a poco a poco si giun-
ge a un vero virtuosismo sentimentale; ci si strugge di
compassione e alla fine l’arte sembra non aver altro
scopo che di muovere gli affetti e svegliare le simpatie.
Il sentimento diventa il veicolo piú sicuro fra artista e
pubblico, e il mezzo piú efficace per l’interpretazione
della realtà; respingere l’espressione dei sentimenti signi-
fica ormai rinunciare senz’altro all’effetto artistico, ed
essere insensibile equivale ad essere ottuso.
L’austerità del costume, come l’individualismo e il
sentimentalismo, è per la borghesia un’arma contro la
mentalità di corte. Ma piú che di una semplice conti-
nuazione delle antiche virtú borghesi della semplicità,
dirittura e pietà, si tratta di una protesta contro la fri-

Storia dell’arte Einaudi 70


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

volezza e lo spreco di un ceto della cui leggerezza gli altri


devono fare le spese. Specie in Germania, la borghesia
ostenta la propria morigeratezza soprattutto contro l’im-
moralità dei principi, ch’essa osa attaccare soltanto in
questo modo indiretto. Ma non è neppur necessario par-
lare apertamente della loro corruzione; basta lodare i
costumi del borghese, perché ognuno capisca il riferi-
mento31. Del resto si verifica anche qui il solito feno-
meno del Settecento: l’aristocrazia accetta le vedute e i
criteri borghesi; anch’essa segue la moda della virtú,
come già quella della sensibilità. Ad eccezione di alcuni
specialisti del genere osceno, neppure i romanzieri fran-
cesi ci tengono, ormai, ad aver fama di frivolezza. Ades-
so il pubblico desidera l’esaltazione della virtú e la con-
danna del vizio. Forse anche Rousseau avrebbe dedica-
to meno spazio alle prediche morali, se non avesse sapu-
to che Richardson doveva gran parte del suo successo a
tali excursus32.
Ma se la tendenza all’individualismo, al sentimenta-
lismo, al moralismo, era in certa misura connaturata alla
mentalità borghese, la letteratura preromantica comun-
que valse a suscitare altre tendenze, affatto estranee a
questo primitivo orientamento: anzitutto, in contrasto
con l’ottimismo di un tempo, l’inclinazione alla malin-
conia, allo stato d’animo elegiaco, anzi a un deciso pes-
simismo. Questo fenomeno non si spiega con un natura-
le mutamento intimo, bensí con spostamenti e sovverti-
menti dell’equilibrio sociale. Anzitutto gli esponenti del
movimento romantico non appartengono piú ai medesi-
mi ceti che nella prima metà del secolo fornivano il con-
tingente borghese al pubblico letterario. Si fanno avan-
ti ora i ceti piú umili, che non hanno alcun contatto intel-
lettuale con l’aristocrazia e hanno meno ragioni di otti-
mismo della borghesia, che ormai appartiene ai ceti eco-
nomicamente privilegiati. Ma anche l’antico pubblico,
quei borghesi cosí vicini alla nobiltà, avevano assunto un

Storia dell’arte Einaudi 71


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nuovo atteggiamento spirituale. L’euforia della vittoria,


la sicurezza, la fiducia in sé, quasi illimitate all’epoca dei
primi successi, ristagnano e alla fine si volatilizzano. Ci
si avvezza ai beni acquistati, si comincia a prender
coscienza di quanto manca, e forse si sente già la pres-
sione, carica di minaccia, dei ceti inferiori. Certo la mise-
ria degli sfruttati diventa inquietante e opprimente. Una
profonda malinconia afferra gli animi; si vedono tutte le
ombre e le manchevolezze della vita; la morte, la notte,
la solitudine, il desiderio struggente di un mondo lonta-
no, ignoto, sottratto al presente diventano i temi mag-
giori della poesia; e ci si inebria di dolore, come, un
tempo, di voluttuosa sensibilità.
Nei primi cinquant’anni del secolo la letteratura bor-
ghese aveva ancora un carattere schiettamente pratico
e realistico; la sostenevano un sano buonsenso e un vivo
amore dell’immediata realtà. Ma dopo la metà del seco-
lo, ci accorgiamo che i suoi motivi essenziali sono muta-
ti, che quelli ora prevalenti sono motivi di evasione;
soprattutto si cerca di evadere dal rigore della ragione e
della coscienza nel campo dell’emotività irresponsabile,
dalla cultura e dalla civiltà nel libero stato di natura,
dalla precisa realtà del presente nell’indefinito del pas-
sato interpretabile a piacere. Spengler ha fatto notare
una volta la stranezza senza precedenti del culto sette-
centesco delle rovine33; ma ricordiamo che altrettanto
strana era nell’uomo colto la nostalgia del primitivo
stato di natura e altrettanto senza precedenti era l’im-
pulso suicida della ragione a dissolversi nel caos del sen-
timento. E tutte queste tendenze si avvertono nella let-
teratura inglese anche prima di Rousseau. A differenza
della nostalgia per il passato storico, che nacque solo col
romanticismo, l’aspirazione alla natura come rifugio
dalle convenzioni della civiltà, aveva già lontani prece-
denti. Come sappiamo, essa ricompare piú volte, nelle
forme della bucolica, all’apogeo delle civiltà urbane e

Storia dell’arte Einaudi 72


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

auliche, e anche indipendentemente dal naturalismo


artistico, anzi spesso in contrasto con esso. Anche nel
Settecento l’amore della natura ha carattere piú morale
che estetico e non ha, si può dire, nulla di comune con
il verismo posteriore. Per i poeti preromantici vi è un
diretto rapporto fra «l’innocenza della natura» e il
probo, semplice, modesto borghese che ora per la prima
volta appare nella letteratura – in Goldsmith, per esem-
pio – come una figura ideale; essi considerano lo sfon-
do agreste come il piú adatto e intonato alla condotta di
un tal uomo. Ma nell’intendere e nel descrivere la natu-
ra non vanno piú in là di quanto loro consenta lo svi-
luppo normale e continuo dei mezzi espressivi. Il loro
culto per la natura è diverso da quello dei loro prede-
cessori solo nelle premesse morali. Anche per loro la
natura è ancora espressione dell’idea divina ed essi
appunto l’interpretano ancora secondo il principio del
«Deus sive natura»; una visione piú diretta e spregiu-
dicata l’avrà soltanto l’Ottocento. Tuttavia la genera-
zione preromantica – e in questo si differenzia dalle
epoche precedenti – sente già la natura come manife-
stazione di forze morali, operanti secondo concetti
umani. Il mutare delle ore e delle stagioni, il silenzio
della notte lunare e l’infuriare della tempesta, il miste-
rioso paesaggio montano e il mare insondabile, sono un
dramma sublime, uno spettacolo che traduce in propor-
zioni grandiose le vicende del destino umano. La natu-
ra anzitutto occupa ora nella poesia uno spazio assai
maggiore; e anche in ciò il romanticismo apre una via
nuova rispetto al classicismo che guardava unicamente
all’uomo; tuttavia non si ha una rottura con l’antropo-
centrismo della poesia precedente, ma solo un trapasso
dall’umanesimo illuministico al naturalismo moderno.
La concezione preromantica della natura rivela il suo
carattere eterogeneo nel giardino inglese, il gran simbo-
lo dell’epoca, in cui elementi naturali e artificiali si tro-

Storia dell’arte Einaudi 73


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vano appunto fusi insieme. Esso è una protesta contro


la linea retta, contro tutto ciò che è rigido e geometri-
co, e insieme l’adesione all’ideale dello sviluppo organi-
co, irregolare, pittoresco; ma con le sue collinette arti-
ficiali, i gruppi d’alberi, gli stagni, le isole, i ponticelli,
le grotte e le rovine, costituisce un complesso innatura-
le quanto il parco francese, benché si ispiri a un gusto
diverso. Del resto che si sia ancora lontani da un netto
rifiuto del classicismo, lo mostra il fatto che gli stessi
artisti, che disegnano i giardini romanticamente pitto-
reschi, si ispirano poi al manierismo palladiano, quando
hanno da costruire palazzi. Lo stile neogotico, che ora
viene di moda, è usato soltanto in opere di minor impor-
tanza, come ville e castelli che arieggiano la casa di cam-
pagna34. In arte l’alta società distingue chiaramente tra
funzioni di rappresentanza e funzioni private, e a que-
ste sole ritiene appropriata la forma anticlassica. Un
Horace Walpole, che fa costruire in stile gotico il suo
castello di Strawberry Hill, e con il suo Castle of Otran-
to introduce la moda del romanzo d’argomento medie-
vale, è tutt’altro che uno spirito romantico; quando si
tratta della grande arte ufficiale, egli professa sempre gli
ideali classici tradizionali. Tuttavia, anche se i suoi espe-
rimenti medievali sono, come è stato giustamente affer-
mato35, solamente l’espressione di un superficiale amore
di novità, il loro gusto romantico non è perciò meno
indicativo, come segno dei tempi.
Per movimenti storico-stilistici come il romanticismo
è quasi impossibile determinare l’inizio; spesso risalgo-
no a tendenze che sono emerse all’improvviso in passa-
to e poi sono cadute per non aver incontrato alcun favo-
re; e sono rimaste, cioè, dei tentativi individuali senza
speciale rilievo sociologico. Manifestazioni di tipo
«romantico» si incontrano fin dal Seicento, e nella
prima metà del Settecento ne troviamo a ogni passo.
Tuttavia di romanticismo in senso proprio non si può

Storia dell’arte Einaudi 74


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

parlare prima di Richardson; egli è il primo a presenta-


re tutti i tratti essenziali dello stile romantico. E sa tro-
vare per il nuovo gusto una formula cosí felice che tutta
la letteratura romantica con il suo soggettivismo e sen-
timentalismo sembra derivare da lui. Certo, mai un arti-
sta cosí mediocre ha esercitato un influsso tanto profon-
do e duraturo; in altre parole, mai l’importanza storica
di un artista ha avuto cause cosí completamente estra-
nee all’arte. Per l’influsso di Richardson fu decisivo il
fatto che egli per primo mise al centro di un’opera let-
teraria l’uomo nuovo delle classi medie, con la sua vita
privata, la sua cornice casalinga, le sue faccende fami-
gliari, fuori d’ogni falsa avventura o vicenda meravi-
gliosa. Le sue sono storie di borghesi comuni, non di
bricconi o d’eroi; non gli importano gli atti patetico-eroi-
ci, ma le semplici, intime ansie del cuore. Egli rinunzia
ad accumulare pittoreschi e fantastici episodi e si con-
centra unicamente sul dramma spirituale dei suoi eroi.
La materia dei suoi romanzi è una tenue favola, un puro
pretesto all’analisi dei sentimenti e all’esame di coscien-
za. Le sue figure sono in tutto romantiche, ma scevre di
tratti romanzeschi o picareschi36. Egli è anche il primo
che crei tipi non piú esattamente definibili; quel che egli
rappresenta è lo sgorgare e il fluttuare dei sentimenti e
delle passioni; i personaggi come tali non lo interessano.
Con il restringersi del romanzo alla vita privata del
ceto medio, discreta e spesso idillica, con la limitazione
dei temi ai semplici, essenziali fatti della vita famiglia-
re, e la predilezione per destini e personaggi umili e
modesti; insomma, con il ridursi del romanzo alle scene
domestiche dell’ambiente borghese, si afferma anche
qui un proposito morale. Questo processo non dipende
soltanto dal mutamento sociale del pubblico e dall’in-
gresso del ceto medio nella letteratura, ma anche dal
nuovo puritanesimo, che verso la metà del secolo si
diffonde in tutta la società inglese, fornendo a questa

Storia dell’arte Einaudi 75


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

letteratura un piú vasto pubblico37. Il romanzo fami-


gliare e di costume ha principalmente un fine didattico,
e le opere di Richardson non sono in sostanza che trat-
tati morali in forma di commoventi storie d’amore.
L’autore si assume il ruolo di curatore d’anime, discute
i grandi problemi della vita, costringe il lettore a un
esame di coscienza, chiarisce i suoi dubbi e lo assiste con
paterni consigli. Lo si è chiamato a buon diritto «con-
fessore protestante» e non per nulla i suoi libri venne-
ro raccomandati dal pulpito. Se ne può capire l’effica-
cia solo quando se ne tenga presente il duplice scopo, di
divertimento e di edificazione, e si rifletta che non solo,
in quanto lettura famigliare del medio ceto, essi rispon-
devano a un’esigenza nuova, ma anche che ne elimina-
vano una vecchia, soppiantando la lettura della Bibbia
e di Bunyan38. Oggi, che già da lungo tempo il soggetti-
vismo è consolidato nella letteratura, è difficile spiega-
re che cosa in quei romanzi potesse tanto avvincere e
commuovere i contemporanei; ma non dobbiamo dimen-
ticare che fino ad allora nei libri non c’era stato ancora
nulla che si potesse paragonare all’intima e nervosa sen-
sibilità di quella pittura dei sentimenti. La ricchezza pas-
sionale di quei romanzi era una rivelazione, e l’imme-
diatezza con cui i loro personaggi confessavano se stes-
si sembrava insuperabile, per quanto artefatto e impac-
ciato ne possa apparire oggi il tono. Ma allora esso era
nuovo, veniva dal profondo dell’anima cristiana, malsi-
cura nella lotta per la vita e in cerca di un nuovo appog-
gio. La borghesia intese immediatamente l’importanza
dello studio psicologico e comprese che nell’intensa
affettività, nell’interiorità di quei romanzi si rivelava
qualcosa di ben suo. Sentí che solo di qui poteva nasce-
re una cultura propriamente borghese e giudicò i roman-
zi di Richardson non già secondo il gusto tradizionale,
ma esclusivamente secondo i principî della propria ideo-
logia. Dalla sua stessa natura sociale sviluppò nuovi

Storia dell’arte Einaudi 76


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

canoni estetici, anzitutto quelli della verità soggettiva,


della sensibilità e dell’intimità, dando cosí l’avvio all’e-
stetica del moderno lirismo. Ma anche gli aristocratici
erano consci dell’importanza sociale di questa letteratura
di confessione e da principio ne respinsero ostilmente
l’esibizionismo plebeo. Horace Walpole giudica i roman-
zi di Richardson storie lamentose e noiosissime, che
descrivono la vita come la vede un libraio o un predica-
tore metodista. Voltaire tace su Richardson e persino un
d’Alembert ne parla con molto riserbo. La buona società
accoglie il soggettivismo romantico solo quando se n’è
ormai cancellata l’origine e in parte mutata la funzione
sociale.
Come il soggettivismo, cosí anche la morale di
Richardson è estranea all’alta società. Le sue racco-
mandazioni e i suoi ammonimenti, che additano all’am-
bizioso borghese la via del successo, costituiscono un’e-
tica di cui nobiltà e alta borghesia non sanno che farsi.
In fondo è la morale del solerte garzone di Hogarth, che
sposa la figlia del suo principale, o della virtuosa fan-
ciulla del romanzo di Richardson, che alla fine è sposa-
ta dal padrone, un tema che nella letteratura moderna
diverrà uno dei piú popolari. Pamela è il prototipo di
tutte le moderne storie di questa specie, in cui sogni e
desideri sono il motivo di fondo. Da Richardson il tema
si svilupperà sino ai film dei nostri giorni, in cui l’irre-
sistibile segretaria che resiste a ogni seduzione, alla fine
conduce a giuste nozze l’insolente principale. I roman-
zi moraleggianti di Richardson contengono il germe del-
l’arte piú immorale che mai sia esistita: in particolare
essi segnano l’inizio di quelle fantasie in cui l’onestà è
solo un mezzo adatto allo scopo, e incoraggiano ad
abbandonarsi a pure illusioni, anziché a sforzarsi di
risolvere gli effettivi problemi della propria vita39. Anche
per ciò essi costituiscono una delle piú importanti frat-
ture nella storia della letteratura moderna: finora le

Storia dell’arte Einaudi 77


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

opere dei poeti erano veramente morali o immorali;


d’ora in poi i libri che vogliono apparire morali per lo
piú non sono che moraleggianti. Nella lotta con i ceti
superiori, il borghese perde la sua innocenza e, poiché
deve accentuare troppo spesso la sua virtú, diventa un
ipocrita.
La forma autobiografica del romanzo moderno, sia la
narrazione in prima persona, sia la forma epistolare o di
diario, serve soltanto ad accrescere l’intensità espressi-
va ed è un mezzo per sottolineare il volgersi dell’atten-
zione dall’esterno all’interno. Ridurre la distanza fra il
soggetto e l’oggetto sarà d’ora in poi il fine ultimo di
ogni fatica letteraria. Con la ricerca dell’immediatezza
psicologica mutano tutti i rapporti tradizionali fra l’au-
tore, il protagonista e i lettori: non solo cambia il rap-
porto dell’autore con il pubblico e con i personaggi del-
l’opera sua, ma anche l’atteggiamento del lettore verso
quest’ultimi. L’autore fa del lettore un confidente e gli
si rivolge in forma diretta, quasi col vocativo. Il suo tono
è imbarazzato, nervoso, oppresso, come s’egli parlasse
sempre di sé. Egli s’identifica con il suo eroe e cancella
i limiti fra finzione e realtà. Per sé e per i suoi perso-
naggi crea un limbo, ora lontano dal mondo del lettore,
or confuso con esso. Di qui specialmente nasce l’atteg-
giamento di Balzac verso le figure dei suoi romanzi, di
cui egli soleva parlare come di conoscenze personali.
Richardson s’innamora delle sue eroine e versa lacrime
amare sul loro destino; ma anche i suoi lettori parlano e
scrivono di Pamela, Clarissa e Lovelace come di perso-
ne vive40. Sorge un’intimità, finora ignota, fra il pub-
blico e gli eroi dei romanzi; il lettore non solo presta loro
una vita che trascende i confini dell’opera, non soltan-
to li immagina in situazioni che con essa nulla hanno in
comune, ma li mette continuamente in rapporto con i
problemi e le mete, le speranze e i disinganni della pro-
pria vita. Il suo interesse si fa puramente personale ed

Storia dell’arte Einaudi 78


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

egli finisce col pensarli solo in rapporto al proprio io.


Naturalmente, anche prima si prendeva esempio dagli
eroi del grande romanzo cavalleresco e d’avventura che
assumevano valore ideale in quanto idealizzazioni di
uomini veri, o loro modelli ideali. Ma al lettore comu-
ne non sarebbe mai venuto in mente di paragonarsi con
loro e di attribuirsi i loro diritti. Gli eroi si movevano
in tutt’altra sfera: erano figure mitiche, sovrumane nel
bene e nel male. La distanza del simbolo, dell’allegoria
o della fiaba li divideva dal mondo del lettore, evitan-
do un contatto troppo diretto. Ora invece è come se l’e-
roe del romanzo non facesse che dar compimento alla
vita insoddisfatta di chi legge, attuandone le possibilità
mancate. Chi mai infatti, almeno una volta, non è stato
sul punto di vivere un romanzo, di diventare un eroe del
romanzo?
Di tali illusioni si fa forte il lettore per equipararsi al
protagonista, reclamandone per sé nella vita la posizio-
ne eccezionale, i diritti d’immunità. Richardson lo invi-
ta appunto a sostituirsi all’eroe del romanzo, a roman-
ticizzare la propria vita, e lo incoraggia ad esimersi dal-
l’adempire i prosaici doveri quotidiani. Cosí autore e let-
tore divengono protagonisti del romanzo, civettano con-
tinuamente fra loro, in una relazione illegale, contraria
alle regole del gioco. L’autore parla al pubblico dalla
ribalta, e spesso i lettori lo trovano piú interessante dei
suoi personaggi. Essi ne gustano le osservazioni perso-
nali, le riflessioni, le «didascalie» e, ad esempio, conce-
dono a uno Sterne di non uscir mai dalle glosse margi-
nali per affrontare il racconto vero e proprio.
Sia per l’autore, sia per il pubblico l’opera è soprat-
tutto espressione psicologica, e il suo valore consiste
nell’immediatezza e nel carattere personale dell’espe-
rienza descritta. Il lettore è conquistato soltanto se quel
che viene raccontato prende l’apparenza di un evento
che sconvolge nell’intimo ed è decisivo per il destino

Storia dell’arte Einaudi 79


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

individuale. Per impressionare, l’opera dev’essere un


dramma coerente e completo, che si compone però di
tanti piccoli «drammi» ognuno dei quali si acuisce in un
particolare effetto di chiusa. Un’opera veramente effi-
cace si svolge come un continuo crescendo, da una punta
all’altra, da un’acme all’altra. Di qui l’espressione affet-
tata, forzata e spesso spasmodica delle nuove opere d’ar-
te e di letteratura. Tutto vi tende all’effetto immedia-
to, tutto mira alla sorpresa e allo stupore. Si vuole il
nuovo per amor del nuovo, si cerca quel che è piccante
e strano, perché solletica i nervi. Da quest’esigenza
nascono i primi racconti paurosi e i primi romanzi «sto-
rici» con la loro atmosfera misteriosa, piena di falso
pathos. Tutto ciò porta a un abbassamento del livello
culturale e segna il principio di una decadenza. La cul-
tura artistica dell’Ottocento per molti aspetti è superiore
a quella settecentesca, ma ha un difetto ignoto al
Rococò: le manca il gusto sicuro ed equilibrato, se pur
non sempre molto agile, dell’arte aulica. Naturalmente,
anche prima del movimento romantico non mancavano
nell’arte produzioni deboli e insignificanti, ma tutto
quel che non era puro dilettantismo aveva una certa
dignità; e come nelle opere letterarie non si incontrava
nulla di simile alla psicologia da strapazzo e al deterio-
re sentimentalismo che piú tardi invasero la letteratura
amena, cosí l’arte figurativa ignorava il cattivo gusto che
rese possibili manifestazioni come il neogotico. Questi
fenomeni compaiono soltanto col passaggio dell’inizia-
tiva culturale dall’alta società al medio ceto, benché non
sempre nascano da quest’ultimo. Del resto, per giudicare
un tal mutamento, il criterio del gusto si rivela troppo
ristretto e sterile, perché convenga insistervi. Il «buon
gusto» non solo è un concetto storicamente e sociologi-
camente relativo, ma anche come termine di valutazio-
ne estetica ha un’importanza limitata. Le lacrime versate
nel Settecento su romanzi, drammi, opere musicali non

Storia dell’arte Einaudi 80


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

solo indicano un mutamento di gusto e uno spostarsi dei


valori estetici dalla squisitezza e dal ritegno all’effetto
drastico e sforzato, ma segnano anche l’inizio di una
nuova fase nello sviluppo di quella sensibilità occiden-
tale che già aveva trionfato nell’età gotica e raggiungerà
l’apogeo nell’arte dell’Ottocento. Questa svolta signifi-
ca una rottura col passato assai piú radicale dell’illumi-
nismo stesso, che in sé rappresenta soltanto la conti-
nuazione e il compimento di un processo in atto sin dalla
fine del Medioevo. Di fronte a un fenomeno come que-
sto nuovo orientamento sentimentale della cultura, che
sfocia in un’idea affatto nuova della poesia, non vale il
semplice punto di vista del gusto. «La poésie veut quel-
que chose d’énorme et sauvage»*****, diceva già Dide-
rot41 e, se anche quest’audacia selvaggia non trova pron-
ta espressione, essa è sempre presente al poeta come un
ideale, come l’esigenza assoluta di commuovere, di sog-
giogare, di sedurre e straziare i cuori. I «difetti di gusto»
dei preromantici sono all’origine di una vasta corrente
che include opere fra le piú alte dell’arte ottocentesca.
Senza di essi l’irruenza di Balzac, la sottigliezza di
Stendhal, la sensibilità di Baudelaire sarebbero altret-
tanto inconcepibili che il sensualismo di Wagner, la spi-
ritualità di Dostoevskij e la nervosa penetrazione di
Proust.
Le tendenze romantiche affioranti in Richardson tro-
varono in Europa una formulazione di generale validità
per opera di Rousseau. L’irrazionalismo, che in Inghil-
terra solo a rilento poté farsi strada, trovò altrove un piú
ampio sviluppo e proprio grazie a quello svizzero, che
Madame de Staël definiva giustamente come il rappre-
sentante dello spirito nordico, cioè tedesco, nella lette-
ratura francese. Le nazioni dell’Europa occidentale
erano cosí profondamente permeate delle idee dell’illu-
minismo razionalista e materialista, che la tendenza sen-
timentale e spiritualistica incontrò dapprima un’energi-

Storia dell’arte Einaudi 81


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ca opposizione e persino un Fielding, che pure, come


Richardson, era un esponente del ceto medio, l’avversò
accanitamente. Nell’affrontare i problemi del tempo,
Rousseau era assai piú spregiudicato degli esponenti del-
l’illuminismo occidentale. Non solo egli apparteneva alla
piccola borghesia quasi priva di tradizioni, ma era uno
spostato, senza piú legami con le convenzioni della sua
classe. Queste del resto, nella Svizzera immune da tra-
dizioni di corte e da influssi aristocratici, erano di per
sé meno rigide che in Francia o in Inghilterra. Il senti-
mentalismo che in Richardson e negli altri preromanti-
ci inglesi non sempre si poneva in antitesi diretta al
razionalismo illuministico, e, se mai, lo faceva in modo
latente, in Rousseau assunse il carattere di un’aperta
ribellione. In ultima analisi, il suo «Torniamo alla natu-
ra!» aveva un unico movente: rafforzare la resistenza
contro un’evoluzione che aveva condotto alla disugua-
glianza sociale. Egli si opponeva alla ragione, perché
entro al processo di crescente intellettualizzazione ritro-
vava quello della degenerazione sociale. Il primitivismo
di Rousseau in realtà non era che una variante dell’ideale
arcadico, uno di quei sogni di redenzione, che si incon-
trano in tutti i tempi ormai stanchi di civiltà42; ma in lui
questo «disagio d’esser civili», che già prima tante gene-
razioni avevano avvertito, si fa per la prima volta
cosciente, ed egli è stato il primo che da questa sazietà
della cultura abbia sviluppato una propria filosofia della
storia. La vera originalità di Rousseau consiste nella
tesi, mostruosa per l’umanesimo illuminista, che l’uomo
civile è un fenomeno di degenerazione, e tutta la civiltà
storica è un tradimento dell’originario destino umano,
cosí che la dottrina fondamentale dell’illuminismo, la
fede nel progresso, a un esame piú profondo si rivela una
superstizione. Un tale sovvertimento di valori non pote-
va compiersi se non per un radicale mutamento delle
tendenze sociali, e può spiegarsi solo col fatto che i ceti

Storia dell’arte Einaudi 82


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di cui Rousseau è interprete non ritenevano piú possi-


bile combattere l’artificio e le convenzioni della cultura
aulica con i mezzi dell’illuminismo, e cercavano perciò
armi che non provenissero piú dall’arsenale dei loro
nemici. Nella sua critica della cultura rococò e illumini-
stica, di cui egli metteva a nudo il formalismo meccani-
co e spesso senza vita e a cui contrapponeva la sponta-
neità dello sviluppo organico, Rousseau esprimeva non
soltanto la consapevolezza della crisi in cui l’Occidente
si trovava fin da quando era tramontata l’unità cristia-
na del Medioevo, ma anche il concetto moderno di
civiltà, che includeva l’antagonismo di anima e forma,
spontaneità e tradizione, natura e storia. Per la scoper-
ta di questa tensione, Rousseau imporrà la sua impron-
ta su tutta l’epoca. La sua dottrina tuttavia conteneva
in sé un grosso pericolo ed era che, parteggiando per la
vita e contro la storia, rifugiandosi nello stato di natu-
ra, il che non era se non un salto nel buio, egli apriva la
via a quelle nebulose «filosofie della vita» che, dispe-
rando di fronte all’apparente impotenza del pensiero
razionale, propugnano il suicidio della ragione.
Le idee di Rousseau erano nell’aria; egli non faceva
che esprimere quel che sentivano molti dei suoi con-
temporanei; cioè che s’imponeva una scelta ed essi dove-
vano risolversi se tenersi al volterrianesimo con la sua
ragionevolezza e la sua rispettabilità, oppure rinunciare
alle tradizioni storiche e ricominciare da capo. La sto-
ria della cultura europea non conosce confronto piú
profondamente simbolico di quello fra Voltaire e Rous-
seau. Questi due contemporanei, se pur non proprio
della stessa generazione, che erano uniti da innumere-
voli rapporti pratici e personali, che avevano comuni
amici e seguaci, che erano entrambi collaboratori di
un’impresa letteraria ideologicamente cosí caratteristica
come l’Enciclopedia, e che sono da considerare entram-
bi come i piú autorevoli, precursori della Rivoluzione,

Storia dell’arte Einaudi 83


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

in realtà stavano sui due opposti versanti del crinale che


divideva la moderna Europa, individualista e anarchica,
da un mondo ancora in parte irretito nell’antica civiltà
formalistica. Il naturalismo di Rousseau è la negazione
di tutto ciò che appare a Voltaire la quintessenza della
civiltà; soprattutto nega ogni limite a un soggettivismo
ancora tollerabile e compatibile con le regole della
decenza e della dignità. Prima di Rousseau un poeta,
tranne in certe forme della lirica, parlava di sé solo indi-
rettamente; dopo di lui i poeti non parlarono piú d’al-
tro e senza il minimo ritegno. Proprio a questo punto
nasce quell’idea della letteratura come esperienza e con-
fessione, che anche Goethe mostrava di considerare
valida norma quando dichiarò che le sue opere non
erano che «frammenti di una grande confessione». La
mania di contemplarsi e specchiarsi nella letteratura, il
concetto che l’opera sia tanto piú vera e persuasiva
quanto piú direttamente vi si dà a conoscere l’autore,
appartengono all’eredità di Rousseau. Per cento o cen-
tocinquant’anni tutto ciò che vale nella letteratura del-
l’Occidente starà sotto il segno di questo soggettivismo.
Non soltanto Werther, René, Obermann, Adolphe,
Jacopo Ortis, discendono da Saint-Preux, ma anche gli
eroi di romanzi piú tardi, da Lucien de Rubempré di
Balzac, Julien Sorel di Stendhal, Frédéric Moreau ed
Emma Bovary di Flaubert, fino al Pierre di Tolstoj, al
memorialista di Proust e al Castorp di Thomas Mann.
Tutti soffrono del dissidio fra sogno e realtà e sono vit-
time del conflitto tra le loro illusioni e la pratica, pro-
saica vita borghese. Il tema si realizza, per la prima
volta, pienamente nel Werther (e si deve tener presente
la prima impressione di una tal conquista per compren-
dere l’effetto inaudito dell’opera sui contemporanei);
ma il dissidio esiste già, latente, nella Nouvelle Héloïse.
Già qui l’eroe non si contrappone piú ad avversari indi-
viduali, ma a una sorta di generale necessità, ch’egli

Storia dell’arte Einaudi 84


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

però non considera ancora totalmente estranea allo spi-


rito e spoglia di ogni senso, come faranno i delusi eroi
del romanzo piú tardo, ma nemmeno la innalza piú al
disopra di sé, come l’eroe tragico innalzava il destino che
lo annientava. Senza il pessimismo storico-filosofico di
Rousseau e senza la sua teoria di un presente deprava-
to, il romanzo ottocentesco della delusione sarebbe
inconcepibile, quanto la concezione tragica di Schiller,
Kleist e Hebbel.
Vastissimo e profondo è stato l’influsso di Rousseau.
Come Marx e Freud, egli è di quegli spiriti che, nello
spazio di una generazione, mutano il pensiero di milio-
ni di uomini, anche di molti che non li conoscono nep-
pur di nome. E comunque è certo che, al termine del
Settecento, erano pochi gli uomini pensanti che fossero
rimasti insensibili alle idee di Rousseau. Un influsso
cosí vasto è possibile soltanto quando uno scrittore è la
vera espressione e il piú profondo interprete del suo
tempo. Con Rousseau per la prima volta giunge alla let-
teratura la voce degli strati piú larghi della società: la
piccola borghesia e la massa indistinta dei poveri, degli
oppressi e dei paria. I «filosofi» illuministi avevano par-
teggiato spesso per il popolo, ma sempre come suoi avvo-
cati e protettori. Rousseau è il primo che si esprima
come uno del popolo stesso e parlando per esso parli
anche per sé; è il primo che non solo incita alla ribellio-
ne, ma è egli stesso un ribelle. I suoi predecessori erano
filantropi, che volevano riformare, migliorare il mondo;
egli è il primo vero rivoluzionario. Quelli odiavano il
«dispotismo», predicavano contro la Chiesa e la reli-
gione positiva, si entusiasmavano per l’Inghilterra e la
libertà, ma conducevano la vita delle classi dirigenti, a
cui sentivano di appartenere, nonostante le loro simpa-
tie democratiche; Rousseau invece, non solo sta a fian-
co dei piú poveri e dei piú umili, non solo si dichiara per
l’assoluta eguaglianza, ma per tutta la vita rimane,

Storia dell’arte Einaudi 85


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

com’era nato, un piccolo borghese, anzi un decaduto,


come l’hanno ridotto le circostanze. Da giovane cono-
sce la vera miseria, che nessuno dei signori «filosofi»
conosceva per diretta esperienza, e anche piú tardi con-
duce la vita degli strati piú umili del ceto medio, e di
quando in quando addirittura quella dei contadini.
Prima di lui gli scrittori, per quanto bassa ne fosse l’o-
rigine, erano annoverati fra la gente distinta; e anche se
nutrivano un profondo affetto per il popolo, cercavano
sempre di tacere i propri natali piuttosto che ostentar-
li. Rousseau invece, in ogni occasione, sottolinea di non
aver nulla di comune, in nessun modo, con l’alta società.
Sia o non sia, questo, semplice «orgoglio plebeo» e puro
risentimento, non muta il valore del fatto che tra Rous-
seau e i suoi avversari esistono non solo differenze di
opinioni, ma vitali contrasti di classe. Voltaire diceva
che Rousseau voleva ridurre l’uomo civile a trascinarsi
di nuovo a quattro zampe, e tale dev’essere stata l’opi-
nione di tutta l’alta società colta e conservatrice. Per
costoro Rousseau non era soltanto un pazzo e un ciar-
latano, ma un avventuriero pericoloso, un delinquente.
Tuttavia nell’opposizione di Voltaire non si esprimeva
soltanto la protesta del ricco borghese, del signore, con-
tro la passionalità plebea di Rousseau, il suo entusiasmo
fanatico e la sua incomprensione per la storia; ma anche
la reazione del pensatore oggettivo, scettico, realistico
di fronte agli abissi dell’irrazionale che Rousseau veni-
va spalancando e che minacciavano d’inghiottire l’edi-
ficio illuministico. Quanto grande in realtà fosse il peri-
colo, e quanto giustificate le apprensioni di Voltaire, lo
mostra il destino dell’illuminismo in Germania. Ma in
Francia Voltaire sottovalutava i frutti della sua azione:
le conquiste del razionalismo e del materialismo qui non
si potevano piú annullare.
Inquadrare sociologicamente Rousseau, che pure è di
sentimenti cosí schiettamente democratici, è tutt’altro

Storia dell’arte Einaudi 86


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

che facile. Le condizioni sociali sono all’epoca sua ormai


tanto complicate, che non sempre i principî e le inten-
zioni dello scrittore sono elementi sufficienti per for-
mulare un giudizio sulla parte da lui avuta nel processo
sociale. Il razionalismo di Voltaire per molti aspetti si
rivelò piú innovatore e fecondo dell’irrazionalismo di
Rousseau. È vero che questi assume una posizione piú
radicale di quella degli enciclopedisti, e politicamente
rappresenta ceti piú larghi di quelli per cui scrivono
Voltaire e Diderot; ma è piú arretrato nelle sue conce-
zioni religiose e morali43. E come il suo sentimentalismo
è profondamente borghese e popolaresco, mentre il suo
irrazionalismo è reazionario, cosí anche la sua filosofia
morale contiene un’intima contraddizione: da un lato,
essa ha forti caratteri plebei, ma dall’altro cela il germe
di una nuova tendenza aristocratica. Il concetto di «bel-
l’anima», se presuppone il completo dissolvimento del-
l’ideale di kalokagathìa, e significa il trasferimento di
ogni valore umano alla sfera dell’interiorità, implica,
d’altra parte, un certo trapasso della morale in estetica
e tende a considerare il valore etico come un dono di
natura. Si ammette cosí un’aristocrazia spirituale, che
certo non si riceve che per diritto di natura, ma che
viene a porre in questo modo, in luogo degli irrazionali
diritti del sangue, una genialità etica altrettanto irra-
zionale. La «bellezza interiore» di Rousseau conduce sia
a personaggi simili al My\kin di Dostoevskij, l’idiota,
l’epilettico in cui si cela il santo, sia all’ideale dell’indi-
viduo moralmente perfetto, superiore a ogni responsa-
bilità e utilità sociale. Il Goethe olimpico, pensoso uni-
camente del proprio intimo perfezionamento, è un disce-
polo di Rousseau non meno del giovane ribelle in lotta
contro ogni convenzione che scriveva il Werther.
Il mutamento di stile, prodotto nella letteratura dal
preromanticismo inglese e dall’opera di Rousseau, per
cui a forme obiettive e ligie a una norma se ne sono sosti-

Storia dell’arte Einaudi 87


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tuite altre piú soggettive e libere, trova forse la sua


espressione piú decisa nella musica, che ora per la prima
volta diventa un’arte storicamente rappresentativa e
preminente. In nessun altro campo il mutamento fu cosí
forte e improvviso; e già i contemporanei parlavano di
«grande catastrofe»44. L’aspro antagonismo tra la gene-
razione di Johann Sebastian Bach e quella dei suoi
immediati successori, specialmente l’empietà con cui la
giovane generazione si fa beffe della fuga che appare una
forma ormai antiquata, testimonia non solo del trapas-
so dal tardo stile barocco, patetico e convenzionale, a
quello intimo e semplice dei preromantici, ma anche il
passaggio da una composizione aggiuntiva, ancora
sostanzialmente medievale – che le altre arti avevano già
superato col Rinascimento – a una forma accentrata, a
sviluppo drammatico, in cui l’unità è data dal senti-
mento. Non solo Bach era un artista conservatore, ma
tutta la musica del suo tempo risulta arretrata in con-
fronto con le altre arti. Già la generazione successiva
poté con ragione definire «scolastico» lo stile del mae-
stro, poiché – per quanto esso sia intimamente com-
mosso e prenda proprio per la profondità del suo senti-
mento – la forma rigida e solenne, il pedantesco con-
trappunto e tutti i convenzionalismi della composizione
bachiana dovevano apparire antiquati ai rappresentanti
del nuovo soggettivismo, che prendevano a criterio di
giudizio le loro idee di semplicità, immediatezza e inti-
mità. Per essi in sostanza, come per i letterati prero-
mantici, il sentimento nell’arte doveva esprimersi in
forma di un processo coerente, con un’ascesa e un’acme
e, se possibile, un conflitto e una soluzione, invece di
essere la descrizione di un affetto costante, ugualmente
diffuso in tutta la composizione45. La loro sensibilità non
era né piú profonda né piú intensa di quella dei prede-
cessori, ma per essi aveva un peso maggiore, volevano
farla apparir piú importante, e perciò la drammatizza-

Storia dell’arte Einaudi 88


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vano. In questa tendenza alla drammatizzazione sta la


vera differenza fra le nuove forme conchiuse del Lied e
della sonata e i vecchi tipi «a trama continua»: fuga, pas-
sacaglia, ciaccona e altre forme di sequenza e d’imita-
zione46. La musica piú antica, già per la trattazione
uniforme del contenuto emotivo, appariva dominata e
moderata, mentre la nuova musica, con il continuo
ascendere e ricadere, l’avvicendarsi di tensione e libe-
razione, esposizione e sviluppo, già di per sé inquieta e
commuove. L’espressione «drammatica», che punta sul
finale eccitante, trova una spiegazione anzitutto nel
fatto che il compositore si trovava davanti a un pubbli-
co di cui doveva destare e incatenare l’attenzione con
mezzi piú efficaci di quelli che un tempo erano richie-
sti. Proprio il timore di perdere il contatto con gli udi-
tori lo induceva a sviluppare la composizione in una
serie di impulsi sempre rinnovati e ad esaltarne di volta
in volta l’intensità espressiva.
Fino al Settecento, ogni musica aveva avuto piú o
meno una sua immediata destinazione: veniva scritta per
incarico del principe, del Comune o della Chiesa e dove-
va intrattenere una corte, aumentare lo splendore di
una solennità pubblica, o rendere piú profonda la devo-
zione del servizio divino. I compositori erano musici al
servizio della corte, di una chiesa o della città; la loro
attività artistica si limitava ad assolvere i doveri del
loro ufficio e certo molto di rado pensavano a compor-
re spontaneamente. Fuor che ai balli, in chiesa e nelle
festività, i borghesi avevano rare occasioni di ascoltare
musica; e ai trattenimenti musicali che si tenevano in
casa dei nobili e a corte solo eccezionalmente potevano
accedere. Verso la metà del Settecento questo cominciò
a essere sentito come una lacuna, e nelle città sorsero le
prime società musicali47. Dai primi collegia musica, anco-
ra a carattere privato, si sviluppò l’uso dei concerti pub-
blici, e con essi un’autonoma vita musicale della bor-

Storia dell’arte Einaudi 89


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ghesia. Le società affittarono sale sempre piú grandi e


diedero concerti a pagamento per un pubblico sempre
piú numeroso48. Si creò cosí un libero mercato anche per
le produzioni musicali, corrispondente al mercato lette-
rario con i suoi giornali, i periodici, le case editrici. Ma
se la letteratura, come del resto anche la pittura, già da
lungo tempo era riuscita a sottrarre i suoi prodotti alla
destinazione immediata, la musica invece fino al termi-
ne del Seicento rimase musica d’uso. Non ci fu musica
autonoma prima d’allora, e solo a partire dal Settecen-
to sorse la musica puramente concertistica, con l’unico
fine di esprimere un sentimento. I frequentatori dei
concerti pubblici si distinguevano dall’uditorio di corte
per alcuni tratti essenziali: erano meno esperti nel giu-
dicare le opere in genere; erano un pubblico che paga-
va di volta in volta, quindi sempre da riconquistare e da
soddisfare; si riunivano unicamente per godersi la musi-
ca, senza altri fini come avveniva in chiesa, al ballo, a
una festa cittadina o anche in un ricevimento a corte.
Furono soprattutto queste caratteristiche del pubblico
a provocare quella lotta per il successo che spingeva a
moltiplicare gli effetti, a farli sempre piú acuti e forza-
ti, fino a determinare quello stile caricato, inteso a sem-
pre maggiore intensità espressiva, che caratterizza la
musica dell’Ottocento.
La borghesia diventa il principale cliente della musi-
ca, è questa l’arte prediletta della borghesia, che non
conosce altra forma che esprima in modo cosí immedia-
to e libero la sua vita interiore. Ma, mentre la musica
diventa arte pura, il compositore comincia non solo a
rifuggire da qualsiasi opera scritta per fine pratico o per
incarico, ma a disprezzare addirittura il comporre per
motivi d’ufficio. Philipp Emanuel Bach ritiene che i
suoi pezzi migliori siano quelli ch’egli scrive per sé. Si
annunzia cosí un conflitto di coscienza e una crisi, là
dove prima non appariva il minimo contrasto. Notissi-

Storia dell’arte Einaudi 90


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mo e palmare esempio dei dissidi a cui porta il nuovo


soggettivismo è la rottura fra Mozart e il suo protetto-
re, l’arcivescovo di Salisburgo. Il contrasto che comin-
cia a delinearsi fra il musicista stipendiato e l’artista che
segue una libera ispirazione si riflette perfettamente nel
differenziarsi del virtuoso dal compositore e del comu-
ne membro di un’orchestra dal direttore. È un’evolu-
zione straordinariamente rapida, ed è sorprendente che
già in Haydn sia dato notare il difetto tipico del com-
positore moderno, cui manca la perfetta padronanza
anche di un solo strumento49.
Il nuovo pubblico borghese dei concerti non provo-
ca soltanto la trasformazione del linguaggio musicale e
della posizione sociale del compositore, ma dà alla crea-
zione un diverso orientamento in modo che l’opera sin-
gola assume un senso nuovo nel corpus di un composi-
tore. Fra il comporre per un gran signore o per qualsia-
si altro committente e il creare per l’anonimo pubblico
dei concerti, c’è una differenza essenziale, ed è che l’o-
pera su commissione per lo piú è destinata a un’esecu-
zione unica, mentre il pezzo da concerto attende il piú
gran numero possibile di repliche. Ciò spiega, non sol-
tanto la maggior cura della composizione, ma anche il
modo piú ambizioso di presentarla. Ora che il composi-
tore non è piú costretto ad opere condannate a un rapi-
do oblio, vuol crearle imperiture. Haydn è già molto piú
attento e lento nel comporre che i suoi predecessori. Ma
egli scrive ancora quasi cento sinfonie; Mozart ne scri-
ve soltanto la metà e Beethoven soltanto nove. La svol-
ta decisiva tra la tradizionale composizione obiettiva,
scritta su ordinazione, e la nuova forma soggettiva, di
confessione musicale, si situa fra Mozart e Beethoven o,
piú esattamente, all’inizio della maturità di Beethoven,
un po’ prima dell’Eroica: in un’epoca cioè in cui l’orga-
nizzazione di concerti era ormai pienamente sviluppata
e la vendita delle opere, connessa con l’esigenza di ripe-

Storia dell’arte Einaudi 91


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tute esecuzioni, costituiva la principale fonte di guada-


gno del compositore. D’ora in poi per Beethoven ogni
grande opera non è solo l’espressione di un’idea nuova,
ma anche di un nuovo stadio nella sua evoluzione d’ar-
tista. Naturalmente un’evoluzione si può constatare
anche in Mozart, ma in lui il movente primo di una
sinfonia non è sempre da cercare in una nuova fase della
sua maturazione artistica; egli scrive una sinfonia per
qualche impegno o quando sorge nella sua mente un’i-
dea nuova, ma quanto a stile non è necessariamente
diversa dalle precedenti. Arte e mestiere, non ancora
ben distinti in lui, si dividono ormai del tutto in Beetho-
ven, e l’idea dell’opera d’arte unica, irripetibile,
inconfondibile si attua nella musica in modo ancora piú
puro che nella pittura, benché questa già da secoli si
fosse affrancata dal mestiere. Certo nella poesia l’e-
mancipazione dell’intento artistico da quello pratico era
già assoluta al tempo di Beethoven, e ormai cosí ovvia,
che Goethe poteva nuovamente affermare, con un certo
orgoglio di virtuoso e di artigiano, che le sue erano tutte
poesie d’occasione. Beethoven, diretto allievo di quello
Haydn che era stato al servizio di principi, non ne sareb-
be stato cosí fiero.

1
paul mantoux, La révolution industrielle au XVIIIe siècle, 1906,
p. 78.
2
The English Revolution. 1640. Three Essays, a cura cristopher
hill, 1940, p. 9.
3
r. h. gretton, The English Middle Class, 1917, p. 209.
4
w. warde fowler, Social Life at Rome in the Age of Cicero, 1922,
pp. 26 sgg. j. l. e b. hammond, The Village Labourer (1760-1832),
1920, pp. 306-7.
5
a. de tocqueville, L’Ancien régime et la Révolution cit., p. 146.
j. aynard, La bourgeoisie française cit., p. 341.

Storia dell’arte Einaudi 92


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

6
g. lefèbvre, g. guyot, p. sagnac, La Révolution française, 1930,
p. 21.
7
a. de tocqueville, L’Ancien régime et la Révolution cit., pp.
174-75.
8
herbert schöffler, Protestantismus und Literatur, 1922, p. 181.
9
alexandre beljame, Le public et les hommes de lettres en Angle-
terre au XVIIIe siècle, 1881, p. 122.
10
h. schöffler, Protestantismus und Literatur cit., pp. 187-88.
11
Ibid., p. 192.
12
h. schöfler, Protestantismus und Literatur cit., pp. 59, 151 sgg.
e passim.
13
a. s. collins, The Profession of Letters, 1928, p. 38.
14
g. m. trevelyan, English Social History, 1944, p. 338 [trad. it.,
Storia della società inglese, Torino 1948].
15
a. beljame, Le public ecc. cit., pp. 236, 350.
16
leslie stephen, English Literature and Society in the 18th Century,
1940, p. 42.
17
a. beljame, Le public ecc. cit., pp. 229-32.
18
Ibid., p. 368.
19
a. s. collins, Authorship in the Days of Johnson, 1927, p. 161.
* Le stagioni.
** «Noi, signori miei, ringraziamo il Cielo di aver qualcosa di
meglio del nostro cervello su cui poter contare».
20
levin l. schücking, The Sociology of Literary Taste, 1944, p. 14.
21
a. s. collins, Authorship ecc. cit., pp. 269-70.
22
leslie stephen, English Literature ecc.. cit., p. 148. george sam-
pson, The Concise Cambridge History of Literature, 1942, p. 508.
*** «Noi proteggiamo i grandi già nostri protettori».
23
Citato da f. gaiffe, Le Drame en France au XVIIIe siècle, 1910,
p. 80.
**** Congetture sulla composizione originale.
24
l. l. schücking, The Sociology of Literary Taste, pp. 62 sgg.
25
j. l. e b. hammond, The Rise of Modern Industry, 1944, 6a ed., p. 39.
26
id., The Town Labourer (1760-1832), 1925, pp. 37 sgg.
27
paul mantoux, La révolution industrielle ecc. cit., pp. 376 sgg.
john a. hobson, The Evolution of Modern Capitalism, 1930, p. 62.
28
werner sombart, Der moderne Kapitalismus, II, i, 1924, 6a ed.
Cfr. otto hintze, Der moderne Kapitalismus als historisches Individuum,
in «Hist. Zschr.», vol. CXXXIX, 1929, p. 478.
29
Cfr. l. mumford, Technics and Civilisation, 1934, pp. 176-77.
30
arnold toynbee, Lectures on the Industrial Revolution of the 18th
Century in England, 1908, p. 64.
31
leo balet - e. gerhard, Die Verbürgerlichung der deutschen Kunst,
Literatur und Musik im 18. Jahrhundert, 1936, pp. 116-17.

Storia dell’arte Einaudi 93


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

32
daniel mornet, La Nouvelle Héloïse de J.-J. Rousseau, 1943, pp.
43-44.
33
oswald spengler, Der Untergang des Abendlandes, I, 1918, pp.
362-63.
34
geoffrey webb, Architecture and Garden, in Johnson’s England,
a cura di A. S. Turberville, 1933, p. 118.
35
w. l. phelps, The Beginnings of the English Romantic Movement,
1893, pp. 110-11.
36
Cfr. joseph texte, J.-J. Rousseau and the Cosmopolitan Spirit in
Literature, 1899, p. 152.
37
h. schöffler, Protestantismus und Literatur cit., p. 180.
38
w. l. cross, The Development of the English Novel, 1899; p. 38.
h. schöffler, Protestantismus und Literatur cit., p. 168.
39
Cfr. q. d. leavis, Fiction and the Reading Public, 1932, p. 138.
40
w. l. cross, The Development of the English Novel cit., p. 33.
***** «La poesia vuol qualcosa d’immane e selvaggio».
41
diderot, De la poésie dramatique, in Œuvres complètes, ed. J. Assé-
zat, 1875-77, VII, p. 371.
42
Cfr. i. babbitt, Rousseau and Romanticism, 1919, pp. 75 sgg.
43
Cfr. jean luc, Diderot, 1938, pp. 34-35.
44
j. s. petri, Anleitung zur praktischen Musik, 1782, p. 104; citato
da hans joachim moser, Geschichte der deutschen Musik, II, i, 1922,
p. 309.
45
Per l’unità di struttura e d’ispirazione dei prezzi, cfr. hugo rie-
mann, Handbuch der Musikgeschichte, II, 3, pp. 132-33.
46
Sulla differenza fra il tipo «a trama continua» e il tipo del Lied,
cfr. wilhelm fischer, Zur Entwicklung des Wiener klassischen Stils, in
«Beihefte der Denkmäler der Tonkunst in Österreich», iii, 1915, pp.
29 sgg. Per la differenza tra fuga e sonata cfr. august hahn, Von zwei
Welten der Musik, 1920.
47
h. j. moser, Geschichte der deutschen Musik cit., pp. 314-15.
48
l. balet - e. gerhard, Die Verbürgerlichung ecc. cit., p. 403.
49
h. j. moser, Geschichte der deutschen Musik cit., p. 312.

Storia dell’arte Einaudi 94


Capitolo terzo

Gli inizi del dramma borghese

Di fronte alle varie forme del romanzo eroico, pasto-


rale, picaresco predominanti nella letteratura amena fino
a mezzo il Settecento, il romanzo borghese, di soggetto
famigliare e di costume, era un’assoluta novità; ma non
si contrapponeva cosí consapevolmente e sistematica-
mente alla letteratura precedente come farà invece il
dramma borghese, nato dall’opposizione programmati-
ca alla tragedia classica e portavoce della borghesia rivo-
luzionaria. L’esistenza di uno spettacolo di stile elevato
in cui i protagonisti erano dei borghesi, già di per sé
esprimeva l’ambizione delle classi medie di esser prese
sul serio quanto i nobili, che fornivano gli eroi alla tra-
gedia. Fin dall’inizio il dramma borghese spogliando le
virtú aristocratico-eroiche del loro carattere assoluto, le
svalutò e fu l’araldo di una nuova morale e della parità
dei diritti. Nella sua nascita dalla coscienza di classe
della borghesia era già implicita tutta la sua storia. È,
vero che esso non fu la prima e unica forma drammati-
ca sorta da un conflitto sociale, ma fu il primo esempio
di un dramma che di un simile conflitto facesse il suo
diretto argomento, ponendosi apertamente al servizio
della lotta di classe. Da tempi immemorabili il teatro
aveva sempre diffuso l’ideologia dei ceti che lo finan-
ziavano, ma finora i contrasti di classe vi erano sempre
stati come un elemento sottinteso e latente, mai come
contenuto esplicito. Mai si era osato dire, ad esempio:

Storia dell’arte Einaudi 95


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

aristocratici ateniesi, i precetti della vostra etica tribale


contrastano con i principî del nostro stato democratico;
i vostri eroi, oltre che fratricidi e matricidi, sono anche
colpevoli di alto tradimento. Oppure: baroni inglesi, la
vostra condotta faziosa minaccia la pace delle nostre
industri città; i vostri pretendenti al trono e i vostri
ribelli non sono che solenni delinquenti. O anche: mer-
canti di Parigi, usurai, giuristi, sappiate che se noi,
nobiltà francese, periremo, con noi perirà un mondo che
è troppo grande per venire a compromessi con voi. Ma
ora si dice senza perifrasi: noi, onesti borghesi, non
vogliamo né possiamo vivere in un mondo dominato da
parassiti quali voi siete, e se anche noi dovessimo soc-
combere, i nostri figli vinceranno e vivranno.
Il nuovo dramma, per il suo carattere polemico e
programmatico, fin dall’inizio portò il peso di una pro-
blematica ignota alle forme precedenti. Infatti, anche se
queste erano «tendenziose», le opere che ne nascevano
non erano a tesi. La forma drammatica infatti ha carat-
teri particolari: per la sua natura dialettica, si presta alla
polemica, ma in quanto forma «obiettiva» preclude
all’autore ogni aperta parzialità. L’ammissibilità di una
tesi nell’opera d’arte per nessun’altra forma artistica fu
contestata quanto per il dramma. Ma il problema sorse
soltanto dopo che l’illuminismo ebbe trasformato il pal-
coscenico in un pulpito laico e in una tribuna, pratica-
mente rinunziando al kantiano «disinteresse» dell’arte.
Solo un’epoca di cosí ferma fede nella possibilità di edu-
care e migliorare l’uomo poteva risolversi per un’arte
apertamente tendenziosa; ogni altro tempo avrebbe
dubitato dell’efficacia di una morale espressa in modo
cosí scoperto. Tuttavia il dramma borghese differisce da
quello precedente, non tanto perché la tendenza politi-
co-sociale, prima nascosta, ora si esprime chiaramente,
quanto perché il conflitto drammatico, anziché tra sin-
goli individui, si svolge tra l’eroe e le istituzioni, e quin-

Storia dell’arte Einaudi 96


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di l’eroe, che del resto non è che l’esponente di un grup-


po sociale, combatte contro forze anonime e deve for-
mulare il suo punto di vista come un’idea astratta, come
una denuncia contro l’ordine sociale esistente. Le gran-
di tirate e le invettive ora cominciano di solito con un
«voi» al posto del «tu». «Voi punite in altri, – declama
Lillo, – quel che fate voi stessi, o almeno avreste fatto
nelle loro condizioni; voi condannate il povero che ha
rubato, e avreste rubato anche voi, se foste stati pove-
ri»1. In questo modo mai si era parlato in un dramma.
E Mercier va anche piú lontano: «Io sono povero, per-
ché ci son troppi ricchi», dice uno dei suoi personaggi.
È quasi il tono di Gerhart Hauptmann. Ma il dramma
borghese del Settecento, nonostante questo tono, non
ha in sé gli elementi di un teatro popolare piú di quan-
to li abbia il dramma sociale nell’Ottocento; sono
entrambi frutto di un’evoluzione che da lungo tempo ha
perduto il contatto con il popolo, e si appoggiano a con-
venzioni teatrali d’origine classica.
In Francia il teatro popolare, che poteva vantare
capolavori come il Maître Pathelin, era stato escluso com-
pletamente dalla letteratura per opera del teatro aulico;
il dramma sacro e la farsa erano stati sostituiti dalla
solenne tragedia e dalla commedia ormai tutta intellet-
tuale e stilizzata. Non sappiamo bene che cosa si fosse
mantenuto dell’antica tradizione medievale sui palco-
scenici di provincia al tempo del dramma classico, ma
nel teatro letterario della capitale e della corte è certo
che nulla ne rimase, se non quello che ne passò nelle
opere di Molière. Il dramma si sviluppò in un genere
poetico in cui gli ideali della società di corte al servizio
della monarchia assoluta s’imposero nel modo piú diret-
to e impressionante. Esso divenne il genere poetico uffi-
ciale, già per il solo fatto che si prestava ad esser pre-
sentato nella solenne cornice dell’alta società, e gli spet-
tacoli teatrali offrivano un’ottima occasione per osten-

Storia dell’arte Einaudi 97


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tare la grandezza e lo splendore della monarchia. I suoi


soggetti divennero il simbolo di una concezione di vita
feudale ed eroica, retta dall’idea dell’autorità, del ser-
vigio, della fedeltà, e i suoi eroi furono l’idealizzazione
di una classe sociale che, libera da ogni volgare cura quo-
tidiana, poteva vedere in quel servigio e in quella fedeltà
il piú alto ideale morale. Quanti non erano in condizio-
ne di dedicarsi al culto di questo ideale, vennero consi-
derati personaggi indegni dell’arte drammatica. La ten-
denza all’assolutismo e lo sforzo di ridurre la cultura
aulica strettamente conforme al modello francese, con-
dusse anche in Inghilterra alla distruzione del teatro
popolare che, sullo scorcio del Cinquecento, era ancora
perfettamente amalgamato con la letteratura dei ceti
superiori. Dal regno di Carlo I in poi, i drammaturghi
producono sempre piú esclusivamente per il teatro di
corte e per l’alta società, cosí che la tradizione popola-
re dell’epoca elisabettiana si perde ben presto. Quando
i Puritani procedettero alla chiusura dei teatri, il dram-
ma inglese era già in profonda decadenza2.
La peripezia fu sempre considerata un elemento
essenziale della tragedia, e fino al Settecento ogni criti-
co fu d’avviso che la catastrofe è tanto piú impressio-
nante, quanto piú elevata è la posizione da cui precipi-
ta l’eroe. In un’epoca di assolutismo come il Seicento
quest’opinione doveva essere particolarmente forte, e
cosí anche la poetica barocca definisce la tragedia sem-
plicemente come il genere letterario i cui protagonisti
sono principi, generali e simili personaggi d’alto rango.
Per quanto pedantesca possa parerci oggi una tal defi-
nizione, essa coglie un tratto essenziale e forse indica l’o-
rigine della vicenda tragica. Fu dunque effettivamente
una svolta decisiva quando il Settecento fece di sempli-
ci borghesi i protagonisti di azioni drammatiche serie e
importanti, le vittime di un tragico destino e i rappre-
sentanti di un alto ideale. Prima a nessuno sarebbe pas-

Storia dell’arte Einaudi 98


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sato per la mente nulla di simile, benché non risponda


ai fatti l’affermazione che i personaggi borghesi sulla
scena piú antica fossero sempre e soltanto figure comi-
che. Mercier calunnia Molière, quando lo accusa di aver
«voluto abbassare e rendere ridicola la borghesia»3.
Molière caratterizza il borghese in generale come one-
sto, aperto, intelligente, e anche arguto, e per lo piú lo
fa con una punta contro le classi piú elevate4. Nel dram-
ma piú antico, tuttavia, un personaggio di origine bor-
ghese non aveva mai avuto un destino esaltante e com-
movente, né compiuto un’azione nobile ed esemplare.
Ora i creatori del dramma borghese si affrancano a tal
punto da queste limitazioni e dal pregiudizio che la tra-
gedia diventi volgare assumendo un borghese a prota-
gonista, ch’essi non riescono nemmeno piú a intendere
il valore teatrale e drammatico dell’alta posizione socia-
le dell’eroe rispetto alla media degli uomini. Essi giudi-
cano tutto il problema da un punto di vista umanitario
e pensano che l’alto rango dell’eroe diminuirebbe la sim-
patia dello spettatore, poiché questa si può sviluppare
schietta soltanto fra uomini della stessa condizione5.
Questo punto di vista democratico è già accennato nella
dedica di The London Merchant* di Lillo, e i dramma-
turghi borghesi per lo piú vi si attengono. Veramente
essi debbono sostituire l’alto rango, che esaltava l’eroe
dell’antica tragedia, con una maggiore profondità e ric-
chezza della figura; il che porta a un sovraccarico di psi-
cologia e crea una serie di altri problemi, prima affatto
ignoti ai drammaturghi.
L’ideale umano perseguito dai precursori della nuova
letteratura borghese era inconciliabile con l’idea tradi-
zionale della tragedia e dell’eroe; perciò essi sottolinea-
vano che il tempo della tragedia classica era passato e
consideravano i suoi maestri, Corneille e Racine, come
vuoti parolai6. Diderot esigeva che si sopprimessero le
tirate, che riteneva false e innaturali; e Lessing nello stile

Storia dell’arte Einaudi 99


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

artificioso della tragédie classique combatteva anche il


dissimulato carattere di classe. Si scopre ora il valore
della verità artistica come arma nella lotta sociale. Ci si
accorge che la fedele riproduzione dei fatti porta di per
sé alla distruzione dei pregiudizi sociali e alla fine dei
soprusi; che lottando per la giustizia non si deve teme-
re la verità in nessuna forma, che, insomma, fra l’idea
della verità artistica e quella della giustizia sociale esi-
ste una certa armonia. E in quest’epoca nasce quell’al-
leanza fra radicalismo e naturalismo che è cosí nota nel-
l’Ottocento: quella solidarietà che gli elementi progres-
sivi sentivano con i naturalisti, anche quando costoro,
come Balzac, avevano altre idee politiche.
Già in Diderot troviamo formulati gli elementi fon-
damentali della teoria naturalistica del dramma. Egli
esige infatti non solo la motivazione naturale, psicolo-
gicamente vera, del processo interiore, ma anche l’esat-
tezza nella descrizione dell’ambiente e il verismo degli
scenari. Egli auspica, presumibilmente in omaggio allo
spirito del naturalismo, che l’azione, anziché in un fina-
le di grande effetto scenico, si risolva in una serie di qua-
dri impressionanti per l’occhio, e pare che egli immagi-
ni qualcosa come dei «quadri viventi», nello stile di
Greuze. Evidentemente per lui il fascino dell’elemento
visivo è piú forte, in un dramma, dell’efficacia pura-
mente intellettuale della dialettica drammatica. Anche
nel campo della parola e del suono preferisce effetti
naturali, sensibili. Egli vorrebbe limitare l’azione alla
pantomima, e la dizione a frasi ed esclamazioni stacca-
te. Ma soprattutto egli vuol sostituire al verso – al rigi-
do, pomposo alessandrino – il linguaggio quotidiano sce-
vro di retorica e di pathos. Sempre egli cerca di smor-
zare la sonorità della tragedia classica, di attenuarne i
colpi di scena. Senza dubbio lo guida la predilezione del
gusto borghese per tutto quel che è intimo, immediato,
sentimentale. La visione artistica borghese, che soprat-

Storia dell’arte Einaudi 100


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tutto mira a rappresentare la vita come fine a se stessa,


tende a conferire anche alla scena l’aspetto del micro-
cosmo in sé conchiuso. Per questa via s’intende l’idea di
quella fittizia «quarta parete», che viene anch’essa indi-
cata per la prima volta da Diderot. La presenza di spet-
tatori sul palcoscenico disturbava, veramente, anche
prima; ma Diderot auspica addirittura che i drammi
vengano recitati come se non ci fosse pubblico affatto.
Di qui s’inizia il dominio del totale illusionismo sul tea-
tro, che mira a nasconderne e negarne il carattere di fin-
zione.
La tragedia classica vede l’uomo isolato e lo rappre-
senta come un’entità spirituale a sé stante, autonoma,
solo esteriormente in contatto con la realtà materiale,
ma nell’intimo affatto indipendente da essa. Il dramma
borghese invece lo pensa come parte e funzione del-
l’ambiente e lo descrive come un essere che, invece di
dominare la realtà delle cose, come nella tragedia, ne
viene dominato e assorbito. L’ambiente non è piú solo
sfondo e cornice, ma contribuisce attivamente a foggia-
re il destino umano. I confini fra il mondo intimo e l’e-
sterno, fra spirito e materia, diventano fluidi e a poco a
poco si cancellano: alla fine ogni atto, ogni decisione,
ogni sentimento contiene in sé qualcosa di estraneo, di
estrinseco, di materiale, qualcosa che non viene dal sog-
getto e fa apparire l’uomo come il prodotto di una realtà
priva di mente e d’anima. Soltanto una società che non
crede piú che le differenze sociali siano necessarie e
volute da Dio né che siano in rapporto con virtú e meri-
ti personali, una società che esperimenta il potere sem-
pre crescente del denaro e intorno a sé altro non vede,
se non che gli uomini diventano quel che ne fanno le cir-
costanze; ma tuttavia consente a questa dinamica socia-
le, perché o le deve la propria ascesa o se la ripromette;
solo una società come questa poteva lasciar maturare il
dramma nelle categorie dello spazio e del tempo reali, e

Storia dell’arte Einaudi 101


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sviluppare il carattere dei personaggi dal loro ambiente


materiale. Quanto forti fossero le cause sociali di que-
sto naturalismo e materialismo mostra chiaramente la
teoria di Diderot sui personaggi del dramma: egli pensa
che la loro condizione sociale sia piú reale e importante
della loro psicologia individuale e il fatto che esercitino
la professione di giudice, o di funzionario, o di mercante
abbia maggior peso che non la somma delle caratteristi-
che personali. Il nocciolo di tutta la dottrina è costitui-
to dalla supposizione che lo spettatore possa piú diffi-
cilmente sottrarsi all’effetto del dramma, se vede rap-
presentata sulla scena la sua stessa condizione, ch’egli
deve logicamente riconoscere, piuttosto che il suo spe-
ciale carattere, ch’egli può, volendo, rinnegare7. Nel-
l’intento di costringere lo spettatore a identificarsi con
gli elementi della sua stessa classe, ha la sua vera origi-
ne la psicologia del dramma naturalistico, che interpre-
ta i caratteri come fenomeni sociali. Per quanto ricca di
obiettiva verità possa essere una simile interpretazione,
tuttavia, elevata a principio esclusivo, essa porta alla fal-
sificazione dei fatti. L’assunto che l’uomo sia semplice-
mente un essere sociale ci porta a costruirci dell’espe-
rienza un’immagine non meno arbitraria di quella offer-
ta da chi non vede nell’uomo che l’individuo, unico e
incomparabile. Nei due casi si stilizza e si romanticizza
la realtà. È indubbio che l’immagine, che un determi-
nato tempo si foggia dell’uomo, dipende da fattori socia-
li; e si tende a rappresentarlo ora come personalità auto-
noma, ora come esponente di una classe, secondo l’o-
rientamento sociale e i fini politici dei promotori della
cultura. Se il pubblico vuole che si accentui sulla scena
l’origine sociale e il carattere di classe, è sempre segno
che, aristocratico o borghese, quel pubblico ha ormai
acquistato una coscienza di classe. E qui il problema, se
l’aristocratico sia soltanto aristocratico e il borghese sol-
tanto borghese, è del tutto indifferente.

Storia dell’arte Einaudi 102


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

La concezione sociologica e materialistica per cui


l’uomo appare come semplice funzione dell’ambiente,
determina una nuova forma drammatica, del tutto
distinta dalla tragedia classica. Non solo essa degrada l’e-
roe, ma pone in discussione la possibilità del dramma nel
senso tradizionale, poiché toglie all’uomo l’assoluta auto-
nomia e quindi, in parte, anche la responsabilità delle
azioni. E invero, che cosa può ancora venirgli attribui-
to come azione reale, se la sua anima non è che il campo
di battaglia di forze anonime? La valutazione morale
degli atti necessariamente perde ogni significato, o alme-
no diviene assai dubbia, e l’etica del dramma deve risol-
versi in pura psicologia e casistica. Infatti in un dram-
ma in cui regna esclusiva la legge di natura non si può
fare ormai che un’analisi dei moventi e ricostruire lo svi-
luppo psicologico per cui l’eroe giunge all’azione. A que-
sto punto è l’intero problema della colpa ad essere rimes-
so in discussione. I fondatori del dramma borghese ave-
vano negato la tragedia, per introdurre nel dramma l’uo-
mo con la sua umile colpa, determinata dalla realtà con-
sueta; i loro successori negano la colpa, per salvare la tra-
gedia. Il romanticismo elimina il problema persino nel-
l’interpretare la tragedia antica e cosí l’eroe viene sca-
ricato d’ogni colpa diventando una specie di superuomo,
che manifesta la sua grandezza consentendo al proprio
destino. L’eroe della tragedia romantica vince anche
soccombendo e supera il destino avverso, facendone la
vera, perfetta soluzione del suo contrasto con la vita.
Così, in Kleist, il principe di Homburg vince la paura
della morte e insieme abolisce l’apparente assurdità e
incongruenza del suo destino, appena può decidere della
propria vita. Egli si condanna a morte da sé, ricono-
scendo in ciò l’unica possibile soluzione. L’accettazione
del destino, il non volerlo diverso, la prontezza, anzi la
letizia del sacrificio sono la sua vittoria, pur nella rovi-
na: la vittoria della libertà sulla necessità. Che poi alla

Storia dell’arte Einaudi 103


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

fine egli non debba piú morire, risponde al processo di


ulteriore sublimazione e interiorizzazione che la trage-
dia ha subito. Il riconoscimento della colpa o di quel
tanto che ne è rimasto, il passare dall’accecamento alla
luce della ragione, basta per espiare e ristabilire l’equi-
librio. In sostanza nella tragedia romantica la colpa si
riduce alla pertinacia dell’eroe, alla sua volontà pura-
mente personale, alla sua esistenza individuale che rin-
nega l’unità originaria. Cosí Hebbel dichiara che per il
drammaturgo è affatto indifferente che l’eroe cada per
un’azione buona o per un’azione cattiva. Quest’inter-
pretazione romantica della tragedia, culminante nell’a-
poteosi dell’eroe, è ormai profondamente lontana dalle
opere commoventi di Lillo e di Diderot, ma sarebbe
inconcepibile senza la revisione del problema della colpa
dovuta ai primi drammaturghi borghesi.
Hebbel era pienamente conscio del pericolo che la
mentalità borghese costituiva per la struttura del dram-
ma; invece, contrariamente ai neoclassici, non disco-
nobbe le nuove possibilità drammatiche che la vita bor-
ghese in sé poteva presentare. Erano chiari gli inconve-
nienti formali del dramma fondato sulla psicologia. Per
i greci, per Shakespeare e, in certa misura, ancora per i
classici francesi, l’azione tragica era un fenomeno sini-
stro, inspiegabile, irrazionale; il suo effetto sconvolgen-
te dipendeva soprattutto dal suo essere incomprensibi-
le. La motivazione psicologica la ridusse a una misura
umana e cosí riuscí piú facile, come del resto volevano
i rappresentanti del dramma borghese, riviverla senti-
mentalmente. Ma i loro avversari, quando deplorano che
nella tragedia si sia perduto quel senso di tremendo, di
immane e di ineluttabile, dimenticano che questo non è
stato provocato dalla introduzione della psicologia; se
mai il contrario, la motivazione psicologica a un certo
punto è diventata necessaria proprio perché il contenu-

Storia dell’arte Einaudi 104


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

to irrazionale della tragedia non produceva piú alcun


effetto.
Il maggior pericolo che, con lo sviluppo psicologico e
l’interiorizzazione dei temi, minacciava il dramma come
forma teatrale, era la perdita di quell’evidenza palmare,
di quell’immediatezza brutalmente impressionante,
senza cui era impossibile qualsiasi effetto scenico, come
un tempo lo si concepiva. La struttura drammatica si
faceva sempre piú intima, spirituale, sempre piú lonta-
na dal teatro di massa, sempre piú rispondente al godi-
mento privato individuale. Ma per questa via perdeva-
no la loro nitidezza i personaggi, oltre che l’azione e la
sceneggiatura; divenivano piú ricchi, ma meno eviden-
ti, piú veri, ma meno facilmente comprensibili, meno
presenti allo spettatore, e meno facilmente riducibili a
schemi da tenere a mente. Tuttavia proprio in questa
difficoltà stava l’attrattiva precipua del nuovo dramma,
che si allontanò sempre piú dal teatro popolare e dal gran
pubblico.
Il carattere sfumato dei personaggi richiedeva che
anche i conflitti fossero imprecisi, le situazioni tali che
non vi fossero ben definiti né i personaggi in contrasto,
né i problemi in discussione. Questo tono non deciso,
senza contrapposizioni marcate, era particolarmente
dovuto all’etica borghese, psicologicamente comprensi-
va e conciliante, sempre in cerca di spiegazioni e di atte-
nuanti, secondo la norma del «tutto comprendere e
tutto perdonare». Finora nel dramma aveva dominato
un’unica misura dei valori morali, ammessa anche dai
malvagi e dai bricconi8; ora che il rivolgimento sociale
ha provocato un generale relativismo etico, spesso il
drammaturgo oscilla fra due diversi orientamenti e lascia
insoluto il vero problema, come fa Goethe nel contra-
sto fra il Tasso e Antonio. Discutere gli impulsi e la loro
giustificazione indeboliva, certo, l’ineluttabilità del con-
flitto, ma ravvivava la dialettica del dramma; cosí che

Storia dell’arte Einaudi 105


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

non si può affermare che il relativismo etico del dram-


ma borghese abbia avuto solo un effetto di disgregazio-
ne formale. Tutto sommato, la nuova morale borghese
non fu meno feconda per il dramma di quella aristocra-
tico-feudale. Questa non conosceva altri doveri che quel-
li verso il signore e verso la propria casta: offriva cosí lo
spettacolo imponente di conflitti in cui possenti e vio-
lente personalità infierivano contro se stesse e contro gli
altri. Invece il dramma borghese scopre i doveri verso
la società9 e descrive la lotta per la libertà e la giustizia
di uomini, che, se pur piú costretti esteriormente, non
sono nell’intimo meno liberi e arditi: una lotta forse
meno teatrale di quelle cruente della tragedia eroica, ma
in sé altrettanto drammatica. Qui l’esito non è cosí ine-
luttabile come in quelle, dove l’etica elementare della
fedeltà feudale e dell’eroismo, cavalleresco non permet-
teva scampo, né compromessi, né terze soluzioni. Il
nuovo atteggiamento morale è perfettamente caratte-
rizzato dalle parole di Lessing in Nathan il saggio: «Nes-
sun uomo deve dovere», parole che, naturalmente, non
significano che l’uomo è libero da doveri, ma che è inti-
mamente libero, cioè libero di scegliersi i mezzi, e
responsabile dei suoi atti solo verso se stesso. Nell’an-
tico dramma si accentuavano i legami interiori, nel
nuovo quelli esterni; ma questi, per quanto opprimenti,
lasciano libero corso all’azione drammatica. «La trage-
dia di un tempo si fonda su un dovere inflessibile, – dice
Goethe nel suo scritto Shakespeare und kein Ende: –
Ogni dovere è dispotico... Il volere invece è libero... è
il dio del tempo... Il dovere fa grande e forte la trage-
dia, il volere la fa debole e meschina». Goethe assume
qui un atteggiamento conservatore e giudica il dramma
secondo lo schema dell’antica, quasi religiosa espiazio-
ne, e non già come un conflitto di coscienza e di volontà,
qual esso è ormai divenuto. Egli rimprovera al dramma
moderno di lasciare troppa libertà all’eroe; piú tardi i cri-

Storia dell’arte Einaudi 106


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tici cadranno nell’errore opposto pensando che non si


possa parlare di libertà, e quindi neppure di conflitto,
dato il determinismo del dramma naturalistico. Essi non
comprenderanno che, ai fini dell’effetto drammatico,
non ha alcuna importanza l’origine della volontà né il
movente che la guida, né quanto in esso vi può essere
di «materiale» o di «spirituale», purché sfoci in un con-
flitto drammatico10.
Del resto, il principio che questi critici contrappon-
gono alla volontà dell’eroe è tutt’altra cosa da quello
goethiano; si tratta di due specie di necessità totalmen-
te diverse. Goethe pensa alle antinomie del dramma
tradizionale, al conflitto tra dovere e passione, lealtà e
amore, moderazione e orgoglio e deplora che nel dram-
ma moderno sia diminuita la forza dei principî obietti-
vi di fronte alla soggettività. Piú tardi invece, per neces-
sità s’intendono, per lo piú, le leggi empiriche, specie
quelle dell’ambiente fisico e sociale, la cui ineluttabilità
fu appunto scoperta dal Settecento. Quindi si parla pro-
priamente di tre cose distinte: volontà, dovere e costri-
zione. Cioè nel dramma moderno all’impulso indivi-
duale sono due e differenti gli ordini obiettivi che con-
trastano: uno etico-normativo e uno fisico-effettuale.
L’idealismo filosofico afferma che è puramente acci-
dentale che l’esperienza, in contrasto con l’universale
validità delle norme etiche, risulti pienamente conforme
alla legge; e, nello spirito di questo idealismo, la moder-
na teoria classicista ritiene corruttore nel dramma il
dominio delle condizioni materiali della vita. Ma è solo
un pregiudizio romantico-idealistico affermare che la
dipendenza dell’eroe dall’ambiente materiale vanifica
ogni manifestazione di volontà, ogni conflitto dramma-
tico, ogni effetto tragico e mette persino in gioco la
possibilità del dramma. Il mondo moderno, data la
morale conciliante e il senso della vita essenzialmente
alieno da ogni tragicità, propri del mondo borghese,

Storia dell’arte Einaudi 107


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

offre naturalmente alla tragedia meno materia della vita


di un tempo. Il pubblico borghese preferisce i lavori a
lieto fine alle grandi tormentose tragedie e non sente,
come osserva Hebbel nella prefazione alla Maria Mag-
dalena, alcuna vera differenza fra tragico e triste. Sem-
plicemente, non capisce che la tristezza non implica la
tragedia, né la tragedia implica la tristezza.
Il Settecento amava il teatro e arricchí straordina-
riamente la storia del dramma; ma non fu un’epoca tra-
gica, che si rappresentasse i problemi dell’esistenza
umana sotto forma di inesorabili alternative. I grandi
periodi della tragedia sono quelli in cui si compiono
radicali sovvertimenti sociali e una classe dominante
perde a un tratto potere e prestigio. I conflitti tragici per
lo piú s’imperniano sui valori che costituiscono le basi
morali di quel predominio, e la rovina dell’eroe simbo-
leggia e trasfigura la rovina che minaccia tutta la classe.
Sia la tragedia greca, sia il dramma inglese, francese, spa-
gnolo dei secoli xvi e xvii sorgono in momenti di crisi
e simboleggiano il tragico destino delle aristocrazie del-
l’epoca. Il dramma ne eroicizza e idealizza la rovina,
intonandosi al sentire di un pubblico che appartiene in
gran parte alla classe soccombente. E anche nel caso del
dramma shakespeariano, se il suo pubblico non appar-
tiene alla classe ormai sconfitta, e il poeta non parteg-
gia per essa, tuttavia la tragedia attinge la sua ispirazio-
ne, il suo concetto dell’eroismo e – la sua idea della
necessità proprio dallo spettacolo che offre il destino
degli antichi signori. Invece, quando nella società pre-
vale una classe che crede nella propria vittoria e nella
propria ascesa, non fiorisce il dramma tragico. L’otti-
mismo, la fede nella vittoria della ragione e del diritto
evitano la soluzione tragica dell’intreccio drammatico, o
cercano di ridurre la necessità a tragico accidente e della
colpa fanno semplicemente un tragico errore. Shake-
speare e Corneille differiscono da Lessing e da Schiller

Storia dell’arte Einaudi 108


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

in quanto il loro eroe soccombe a una necessità supe-


riore, invece che a una pura necessità storica. Non si può
pensare alcun ordine sociale in cui Amleto o Antonio
non siano votati alla rovina; invece gli eroi di Lessing e
di Schiller, Sara Sampson ed Emilia Galotti, Ferdinan-
do e Luisa, Carlos e Posa, potrebbero esser felici e con-
tenti in ogni altra società, in ogni altro tempo, fuor che
nel loro, cioè in quello del poeta. Ma un’epoca per cui
l’infelicità dell’uomo è determinata da condizioni stori-
che, e non viene concepita come inevitabile e inesora-
bile destino, può produrre tragedie, anche importanti,
ma non dirà certo nella tragedia la sua ultima e piú
profonda parola. Può ben darsi che «ogni tempo espri-
ma le necessità sue proprie, e quindi un suo proprio
senso tragico»11, ma è innegabile che il genere tipico del-
l’illuminismo non fu la tragedia, bensí il romanzo. Nelle
epoche in cui fiorisce la tragedia, sono i rappresentanti
delle antiche istituzioni che combattono l’ideologia e le
aspirazioni della nuova generazione; nei tempi propizi a
una forma di dramma non tragico è, per lo piú, la nuova
generazione che attacca le vecchie istituzioni. Natural-
mente, queste possono stroncare il singolo, che può soc-
combere del resto anche di fronte ai rappresentanti di
un mondo nuovo. Tuttavia una classe che creda al suo
futuro trionfo considererà il proprio sacrificio come
prezzo della vittoria; mentre l’altra, che sente avvici-
narsi irresistibilmente la sua fine, scorge nel tragico
destino dei suoi eroi il segno di un mondo in declino, di
un crepuscolo degli dèi. Per una borghesia ottimistica,
fiduciosa nel trionfo della propria causa, i colpi della
cieca sorte non sono i motivi di esaltazione né di abbat-
timento; solo i ceti agonizzanti delle epoche tragiche tro-
vano conforto nel pensiero che in questo mondo ogni
cosa grande e nobile è votata alla rovina e questa rovi-
na vogliono porre in una luce trasfigurante. Forse la filo-
sofia romantica della tragedia con la sua apoteosi del-

Storia dell’arte Einaudi 109


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’olocausto è già un segno del decadere della borghesia.


In ogni caso, una forma di dramma veramente tragico
che nuovamente metta al suo centro il destino non
nascerà dalla borghesia prima che essa si senta minac-
ciata nella sua stessa vita; allora soltanto, come avviene
in Ibsen, il destino batterà alla sua porta nel minaccio-
so aspetto della trionfante gioventú.
L’esperienza tragica dell’Ottocento si distingue da
quella di tempi piú lontani soprattutto perché la moder-
na borghesia, a differenza delle antiche aristocrazie,
non si sentiva minacciata soltanto dall’esterno. Era una
classe di composizione cosí varia, cosí eterogenea nei
suoi elementi, che fin dall’inizio pareva sul punto di
disgregarsi. Comprendeva non solo elementi che aderi-
vano ai gruppi reazionari, e altri che si sentivano legati
agli umili, ma, specialmente, quegli intellettuali social-
mente sradicati, che civettavano ora con i ceti superio-
ri ora con gli inferiori, e quindi rappresentavano in parte
le idee del romanticismo reazionario e antilluminista, in
parte peroravano la causa della rivoluzione permanente.
Comunque fu per opera loro, se la borghesia cominciò
a dubitare del proprio diritto all’esistenza e della solidità
del proprio ordine sociale. Furono essi a dare origine a
un modo di sentire antiborghese o «sovraborghese»,
alla convinzione cioè che la borghesia aveva tradito la
propria idea originaria e doveva ormai superare se stes-
sa, sforzandosi verso un ideale umano di valore univer-
sale. Veramente queste tendenze «sovraborghesi» per lo
piú avevano un’origine antiborghese e antidemocratica.
L’evoluzione di Goethe, di Schiller e di molti altri scrit-
tori, specie in Germania, dagli inizi rivoluzionari all’at-
teggiamento degli anni maturi, conservatore e spesso
reazionario, corrispondeva a un generale movimento
reazionario nel seno della stessa borghesia e al suo tra-
dimento dell’illuminismo. Gli scrittori non erano in que-
sto caso che interpreti del loro pubblico; ma non di rado

Storia dell’arte Einaudi 110


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

avvenne che essi sublimassero lo spirito reazionario dei


lettori e, con la loro coscienza meno salda e con la loro
maggior capacità di fingere, simulassero alti ideali
«sovraborghesi», quando in realtà erano ricaduti a un
livello preborghese e antiborghese. Questa psicologia
della rimozione e della sublimazione, assunse spesso una
struttura cosí complicata da non lasciare piú distingue-
re in molti casi le diverse tendenze. Si è potuto chiari-
re che, ad esempio, in Cabala e amore di Schiller s’in-
contrano tre generazioni, quindi tre diverse mentalità:
quella preborghese degli ambienti di corte, quella bor-
ghese della famiglia di Luisa e quella «sovraborghese»
di Ferdinando12. Ma quest’ultima si distingue da quella
borghese soltanto perché piú larga e spregiudicata. I
rapporti sono già assai piú complicati in un’opera come
il Don Carlos, dove Posa, con il suo spirito sovrabor-
ghese, riesce a comprendere Filippo e, in certo modo,
perfino a simpatizzare con l’«infelice» sovrano. Insom-
ma, diventa sempre piú arduo stabilire se l’ideologia
«sovraborghese» del drammaturgo risponda a una ten-
denza progressista o reazionaria, e se qui si tratti di un
autosuperamento del borghese o semplicemente di una
diserzione. Comunque, gli attacchi alla borghesia diven-
tano un tratto essenziale del dramma borghese e il ribel-
le alla morale e al costume borghesi, il derisore delle con-
venzioni e della meschinità filistee, è ormai una figura
stereotipa. Per seguire il graduale sottrarsi della lettera-
tura moderna allo spirito borghese, sarebbe grande-
mente illuminante un’indagine sulle successive meta-
morfosi di questo personaggio dallo Sturm und Drang
fino a Ibsen e a Shaw. Infatti qui non si tratta sempli-
cemente del tradizionale ribelle contro l’ordine costi-
tuito, che è una delle figure originarie del dramma, né
di una variante di quella ribellione contro i potenti che
costituisce una delle fondamentali situazioni drammati-
che, bensí dell’attacco deliberato e sistematico alla bor-

Storia dell’arte Einaudi 111


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ghesia, alle basi della sua vita spirituale e alla sua pre-
tesa di rappresentare una morale universalmente valida.
In breve, siamo di fronte a una forma letteraria che è
stata l’arma piú efficace della borghesia e si è mutata in
pericoloso strumento che la estrania da se stessa e la
deprime.

1
george lillo, The London Merchant or the History ot George
Barnwell, 1731, IV, 2.
2
leslie stephen, English Literature ecc. cit., p. 66.
3
mercier, Du Théâtre ou Nouvel essai sur l’art dramatique, 1773;
citato da f. gaiffe Le Drame en France ecc. cit., p. 91.
4
clara stockmeyer, Soziale Probleme im Drama des Sturmes und
Dranges, 1922, p. 68.
5
beaumarchais, Essai sur le genre dramatique sérieux, 1767.
6
rousseau, La Nouvelle Héloïse, II, Lettera xvii,
7
diderot, Entretiens sur le Fils naturel, in Œuvres, VII, p. 150.
* Il mercante di Londra.
8
g. lukács, Zur Soziologie des modernen Dramas, in «Archiv für
Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», vol. XXXVIII, 1914, pagine
330 sgg.
9
arthur elösser, Das bürgerliche Drama cit., p. 13. paul ernst,
Ein Credo, 1912, I, p. 102.
10
Cfr. g. lukács, Zur Soziologie ecc. cit., p. 343.
11
a. elösser, Das bürgerliche Drama cit., p. 215.
12
fritz brüggemann, Der Kampt um die bürgerliche Welt- und
Lebensanschauung in der deutschen Literatur des 18. Jahrhunderts, in
«Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geiste-
sgeschichte», iii, 1925, i.

Storia dell’arte Einaudi 112


Capitolo quarto

La Germania e l’illuminismo

Dal punto di vista sociologico, il romanticismo set-


tecentesco fu in tutta Europa un fenomeno pieno di con-
traddizioni. Da un lato continuò, intensificandolo, il
processo di emancipazione della borghesia iniziatosi con
l’illuminismo, e diede espressione a un sentimentalismo
e a un’esuberanza plebea, che venivano a opporsi all’a-
ristocratico e sostenuto intellettualismo dei ceti supe-
riori; dall’altro rappresentò la reazione di questi ultimi
contro il razionalismo «disgregatore» e il riformismo
illuministico. La sua fortuna cominciò fra quella classe
media che l’illuminismo aveva appena sfiorata, e quella
parte della borghesia che riteneva il pensiero illumini-
stico ancor troppo legato alla cultura classica; ma a poco
a poco se ne impadronirono quei ceti che intendevano
valersi delle inclinazioni sentimentali del tempo per i
loro fini ostili all’illuminismo, reazionari in religione e
in politica. Tuttavia, mentre in Francia e in Inghilterra
la classe borghese fu sempre conscia della sua posizione
e non rinunziò mai del tutto alle conquiste dell’illumi-
nismo, in Germania si abbandonò alla corrente del pen-
siero romantico irrazionale prima di aver vissuto a fondo
l’esperienza razionalistica. Il che non vuol dire che il
razionalismo, come dottrina accademica, non avesse
esponenti in Germania: anzi, nelle università tedesche
la teoria era forse piú fortemente rappresentata che
altrove; ma rimaneva appunto dottrina accademica, spe-

Storia dell’arte Einaudi 113


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cialità di eruditi e di poeti convenzionali. Mai il razio-


nalismo era riuscito a permeare di sé la vita pubblica, il
pensiero politico-sociale di larghi strati, il costume della
borghesia. Certamente non mancarono in Germania
figure di grandi illuministi, come Lessing, forse la figu-
ra piú schietta e umanamente attraente di tutto il movi-
mento; ma i seguaci sinceri, chiaroveggenti e fermi delle
idee illuministiche vi furono sempre fenomeni isolati, e
rappresentarono delle eccezioni anche fra gli intellet-
tuali. I piú fra costoro e fra i borghesi erano incapaci di
comprendere l’importanza dell’illuminismo in rapporto
ai loro interessi di classe; era facile travisare ai loro
occhi il carattere del movimento, facile mettere in cari-
catura i limiti e le insufficienze del razionalismo. Certo,
non bisogna immaginare questo fenomeno come una
congiura in cui gli scrittori fossero mercenari e compli-
ci dei dirigenti politici. Probabilmente neppure i veri
manovratori dell’opinione pubblica ammettevano nel
loro intimo che qui si compiva una falsificazione ideo-
logica dei fatti; in ogni caso è certo che gli intellettuali
araldi della borghesia erano ben lungi dall’esser consci
di un inganno o di un tradimento.
Ma come sorse negli intellettuali questa erronea visio-
ne, questa imprevidenza politica, che finì col portare la
Germania alla tragedia? Come spiegare che la borghe-
sia tedesca non abbia mai veramente accolto l’illumini-
smo, e che sia mancato del tutto un ceto compatto d’in-
tellettuali progressisti, con una viva coscienza di classe?
L’illuminismo rappresentò la prima educazione politica
della moderna borghesia, la sua scuola primaria, senza
la quale sarebbe inconcepibile la parte da essa avuta
nella storia intellettuale degli ultimi due secoli. Per sua
sventura, la Germania a suo tempo trascurò questa scuo-
la e la perdita fu irreparabile. Quando in Europa venne
l’ora dell’illuminismo, in Germania il ceto colto non era
abbastanza maturo per intenderlo; e dopo, non fu piú

Storia dell’arte Einaudi 114


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cosí facile sorvolare sulle sue ingenuità e sui suoi pre-


giudizi. Ma il ritardo degli intellettuali tedeschi in
sostanza non spiega niente; è anch’esso un fenomeno da
spiegare. Nel corso del Cinquecento la borghesia tede-
sca aveva perduto il suo influsso economico e politico,
che era venuto aumentando dalla fine del Medioevo, e
con esso la sua importanza culturale. Il commercio inter-
nazionale si spostò dal Mediterraneo verso l’Atlantico,
le città anseatiche e della bassa Germania vennero sop-
piantate dagli Olandesi e dagli Inglesi; e quelle meri-
dionali, come Augusta, Norimberga, Ratisbona e Ulma
– capitali della cultura tedesca – decaddero insieme con
le città mercantili d’Italia, a cui i Turchi tagliarono, col
tempo, le vie del commercio mediterraneo. La deca-
denza delle città tedesche significò il tramonto della
borghesia; i principi non ebbero piú nulla da sperarne,
né da temerne. L’assolutismo, già nell’ultimo Cinque-
cento, si era sostanzialmente rafforzato anche all’Ove-
st, dando luogo a una restaurazione aristocratica. Ma le
monarchie occidentali non cessarono mai del tutto di
appoggiarsi ai ceti medi nella loro lotta contro la fron-
da nobiliare; quanto alla nobiltà, o lasciò alla borghesia
tutto il campo dell’industria e del commercio, come
avvenne in Francia, o le si associò nello sfruttamento
della congiuntura economica, come in Inghilterra. Inve-
ce i principi tedeschi, che dopo la repressione delle rivol-
te contadine erano rimasti padroni incontrastati del
paese, vedevano un pericolo nei contadini e nei bor-
ghesi, non certo nella nobiltà, di cui facevano parte, e
di cui rappresentavano la politica di fronte all’impera-
tore. In Germania i signori, a differenza dei re di Fran-
cia e d’Inghilterra, erano latifondisti con prevalenti inte-
ressi feudali, e piú o meno indifferenti al benessere della
borghesia e delle città. Queste furono annientate, eco-
nomicamente e politicamente, dalla guerra dei Trent’an-
ni, che completò la rovina del commercio tedesco1. La

Storia dell’arte Einaudi 115


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pace di Westfalia venne a suggellare il particolarismo


tedesco, consolidando la sovranità dei principi maggio-
ri e minori; con ciò si sanzionarono situazioni, al cui con-
fronto si può considerare progredito l’Occidente, dove
in certo modo il re rappresentava l’unità della nazione
e talvolta ne difendeva gli interessi anche contro l’ari-
stocrazia. Tra il re e l’insubordinata nobiltà rimase sem-
pre in Occidente una certa tensione, benché le due parti
si fossero riconciliate e la borghesia ne traesse un netto
vantaggio; in Germania invece principi e nobili erano
sempre uniti, quando si trattava di spogliare le altre
classi di qualche diritto. Nelle monarchie occidentali la
borghesia si era insediata nell’amministrazione, e non fu
piú possibile escluderla del tutto; ma in Germania, dove
la lealtà dell’esercito e della burocrazia costituí la base
di un nuovo feudalesimo, le cariche, ad eccezione degli
impieghi subalterni, erano riservate all’alta nobiltà e ai
signorotti di provincia. Il popolo subiva l’oppressione
dei funzionari della Corona, alti o bassi che fossero, pro-
prio come un tempo aveva subito quella degli ammini-
stratori feudali, e anche piú duramente. In Germania i
contadini non avevano mai conosciuto altro che la ser-
vitú della gleba, ma ora anche la borghesia perdette
tutto quello che si era conquistata nel corso dei secoli
xiv e xv. Cominciò con l’impoverirsi e fu spogliata dei
suoi privilegi, poi smarrí anche la fiducia in se stessa e
la stima di sé. Infine sviluppò dalla sua miseria quegli
ideali di sudditanza, quella lealtà e fedeltà che permet-
teva a ogni borghesuccio strisciante nella polvere di sen-
tirsi al servizio di una sublime idea.
Come lo sviluppo dal mercantilismo alla libertà del
commercio e dell’industria in Germania procede con
grande lentezza e non si conclude che nel 18502, cosí
solo nella seconda metà dell’Ottocento il potere centra-
le riesce a imporsi stabilmente sui vari principi. L’in-
terregno, come osserva uno storico francese, dura in

Storia dell’arte Einaudi 116


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pratica fino al 18703. Nel Cinquecento l’impero rigua-


dagna momentaneamente terreno e, portato dalla cor-
rente del tempo incline all’assolutismo, Carlo V riesce a
consolidarne l’autorità, ma non a fiaccare la potenza dei
principi. Troppi sono i problemi, perché possa dedicar-
si a modificare le condizioni della Germania. Del resto,
in vista dei suoi piú ampi interessi europei, egli deve
senz’altro sacrificare la causa della Riforma tedesca a un
riguardo per il papa, e così perde irrimediabilmente l’oc-
casione di unificare la Germania, grazie a un vero movi-
mento popolare4. Egli lascia che siano i principi tedeschi
ad approfittare dei vantaggi che si possono trarre da un
appoggio alla Riforma, e ad essi infatti Lutero pronta-
mente consegna lo strumento del potere ecclesiastico,
preponendoli alle Chiese locali e conferendo loro l’au-
torità di guidare, d’ora in poi, la vita dei sudditi anche
in questo campo e di assumersi la cura della loro salute
eterna. I principi s’impadroniscono dei beni della Chie-
sa, decidono delle nomine ecclesiastiche, prendono in
mano l’educazione religiosa, e cosí non fa meraviglia che
le Chiese locali diventino sostegni fidatissimi del loro
potere. Esse predicano il dovere dell’obbedienza all’au-
torità, confermano il favore divino all’augusto signore e
creano cosí quello spirito ottuso, meschino, conservato-
re, che sarà tipico del luteranesimo tedesco del Seicen-
to. Lo staterello dispotico, a cui nel paese non vi è ormai
forza che si opponga, estrania anche dalla Chiesa i ceti
progressisti.
Lo spirito borghese del Quattro e del Cinquecento
sparisce dall’arte e dalla cultura tedesche, se possiamo
ancora dirle tedesche dopo la pace di Westfalia. Ora
infatti, non soltanto ci si ispira come discepoli e segua-
ci allo stile aulico-aristocratico di Francia, ma lo si fa
proprio importando direttamente artisti e opere, o imi-
tando servilmente modelli francesi. Tutti i duecento
staterelli vorrebbero emulare il re di Francia e la corte

Storia dell’arte Einaudi 117


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di Versailles. Cosí nella prima metà del Settecento sor-


gono gli splendidi castelli dei principi tedeschi:
Nymphenburg, Schleissheim, Ludwigsburg, Pommer-
sfelden, lo Zwinger di Dresda, l’Orangerie di Fulda, le
residenze di Würzburg, Bruchsal, Rheinsberg, Sans-
souci – tutti costruiti con una grandiosità e decorati con
un lusso affatto sproporzionati alla forza e ai mezzi del
paese, in genere assai piccolo e povero. Grazie a tale
sfarzo si sviluppa nell’arte una varietà tedesca del
Rococò francese e italiano. Ma la letteratura poco si
giova dell’ambizione dei principotti e i poeti ne ricevo-
no scarso incoraggiamento, se si eccettuano alcune corti
delle Muse, che tuttavia sorgono soltanto verso la fine
del secolo. «La Germania brulica di principi, che per tre
quarti mancano affatto di buonsenso, e sono la vergo-
gna e il flagello dell’umanità – scrive un contemporaneo.
– Per quanto piccoli siano i loro paesi, essi s’immagina-
no che l’umanità sia fatta per loro»5. C’erano tuttavia
varie specie di principi: piú e meno colti, piú e meno
dispotici, illuminati e retrogradi, amanti dell’arte e avidi
soltanto di sfarzo; ma certo non ce n’era uno che non
fosse pienamente convinto che per un semplice morta-
le il senso della vita consistesse nel lasciarsi dominare e
sfruttare.
Il denaro che non veniva consumato nel lusso pazze-
sco, nelle presuntuose costruzioni, nelle spese di corte e
nelle amanti del principe, si usava per l’esercito e per la
burocrazia. L’esercito, naturalmente, aveva solo compi-
ti di polizia e costava relativamente poco; tanto piú
pesava la burocrazia sulla nazione. Il particolarismo di
questi stati già di per sé determinava il moltiplicarsi dei
funzionari, e il fenomeno si aggravava ancor piú per la
generale burocratizzazione dello stato, per il passaggio
delle funzioni un tempo proprie delle corporazioni
all’apparato statale, per la predilezione per rescritti e
ordinanze e per la generale tendenza a regolamentare la

Storia dell’arte Einaudi 118


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vita pubblica e privata. Anche in Francia dominava lo


stesso sistema politico, economico e sociale, anche là
l’intervento e la cattiva amministrazione statale incep-
pavano gli affari e l’attività del borghese e lo danneg-
giavano, e, come in Germania, egli era spogliato dei
suoi diritti e trascurato; ma nei piccoli principati tede-
schi tutto ciò opprimeva e umiliava assai di piú. Nel-
l’immediata vicinanza della corte, sotto la pressione di
un gretto apparato statale e di un principe esigente e
prodigo, sotto gli occhi di funzionari meno influenti, ma
ugualmente inumani, il borghese in Germania ha una
vita ancor piú travagliata e precaria. È vero che il ser-
vizio di stato assorbe nelle funzioni subalterne una parte
notevole del ceto medio, ma corrompe i piccoli impie-
gati, perché l’impiego statale è per la maggior parte di
loro l’unica possibilità di vita decorosa. Per un borghe-
se che non si occupi di commercio o d’industria non
resta che diventare funzionario dello stato, legale del-
l’amministrazione, sacerdote della chiesa locale o inse-
gnante in un istituto pubblico.
L’impotenza della classe borghese, esclusa dal gover-
no e, si può dire, da ogni attività politica, genera una
passività che si estende a tutta la vita culturale. Il ceto
intellettuale, composto d’impiegati subalterni, maestri di
scuola e poeti estraniati dal mondo, si abitua a traccia-
re una linea divisoria tra la vita privata e la politica, e a
rinunziare senz’altro a ogni influsso pratico. Se ne com-
pensa aumentando il proprio idealismo e accentuando-
ne il disinteresse, e abbandona il timone dello stato ai
potenti. In tale rinunzia si manifesta non solo una com-
pleta indifferenza verso la situazione sociale, apparen-
temente immutabile, ma anche un netto disprezzo della
politica come professione. In tal modo l’intellettuale
borghese perde ogni contatto con la realtà sociale, ridu-
cendosi sempre piú isolato, eccentrico, stravagante. Il
suo pensiero diventa puramente contemplativo e specu-

Storia dell’arte Einaudi 119


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

lativo, irreale e irrazionale; la sua espressione si fa biz-


zarra, presuntuosa, incomunicabile, senza alcuna consi-
derazione per gli altri e riluttante ad ogni correzione dal-
l’esterno. Egli si ritrae su un piano «genericamente
umano», al disopra delle classi, dei ceti e dei gruppi, fa
una virtú del proprio difetto di senso pratico, e lo chia-
ma idealismo, interiorità, trionfo sui limiti spaziali e
temporali. Dall’involontaria passività si sviluppa un
ideale di vita idilliaca, dalla costrizione esteriore l’idea
dell’intima libertà e della sovranità dello spirito sulla
comune realtà empirica. Si giunge cosí in Germania alla
completa scissione della letteratura dalla politica e scom-
pare quel rappresentante dell’opinione pubblica, ben
noto all’Occidente, che è insieme scrittore e uomo poli-
tico, pubblicista e studioso, buon filosofo e buon gior-
nalista.
L’evoluzione sociale, che dalla fine del Medioevo era
venuta dividendo la borghesia tedesca in vari ceti net-
tamente graduati, si arrestò nel Cinquecento. S’iniziò
una nuova integrazione, che fu in sostanza un processo
involutivo, che riportò a una classe borghese piuttosto
indifferenziata, quale ci appare nel Seicento. Gli strati
piú larghi di essa avevano rinunziato alle loro esigenze
culturali e l’alta borghesia si era cosí diradata, che non
contava piú gran che come fattore di cultura. Di un ele-
vato stile di vita proprio del ceto medio e di una sua par-
ticolare visione che si esprimesse nell’arte o nella lette-
ratura non si poté piú parlare. Piuttosto si diffuse un
livello medio molto modesto, che ricordava le primitive
condizioni dell’alto Medioevo. I rivolgimenti del Cin-
quecento, specie lo spostarsi dei centri dell’economia
mondiale e il rafforzarsi dell’assolutismo, distrussero i
frutti di quelle che erano state epoche auree della bor-
ghesia, il tardo Medioevo e il Rinascimento. Nulla rima-
se di quella cultura che si fondava sulla concezione bor-
ghese della vita; nulla dei suoi principî né del suo idea-

Storia dell’arte Einaudi 120


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

le artistico; nulla dell’atmosfera intellettuale di un’epo-


ca in cui gli indirizzi generali, le piú avanzate tendenze
artistiche e filosofiche, si esplicavano nelle forme del
pensiero e dell’esperienza borghesi, e le personalità di
maggior rilievo, come Dürer e Altdorfer, Hans Sachs e
Jakob Böhme, erano esponenti di esse.
La borghesia, che con lo sviluppo dell’economia
monetaria, il rigoglio delle città e la decadenza del feu-
dalesimo aveva acquistato ricchezza e prestigio, col
denaro e con la lotta si era assicurata l’autonomia delle
maggiori città, assumendone l’amministrazione, e aveva
occupato importanti posizioni anche nel governo dello
stato, nel consiglio privato del principe e nella magi-
stratura. Ma per il declino delle città tedesche, che
implicò la decadenza della borghesia, e la progressiva
rovina economica della nobiltà, già alla fine del Cin-
quecento gli elementi borghesi vennero rimossi dagli
uffici dello stato e della corte, dove li sostituirono i
nobili6. La guerra dei Trent’anni, peggiorando anche la
condizione delle classi feudali, rinnovò e affrettò l’as-
salto alle cariche da parte della nobiltà e precluse alla
borghesia i gradi piú alti della carriera burocratica. In
Francia la nobiltà di toga, per lo piú d’origine borghe-
se, si sviluppò accanto alla nobiltà di campagna e di
corte; in Germania invece fu la nobiltà terriera e caval-
leresca a trasformarsi in casta burocratica, e nel Sette-
cento la borghesia venne respinta a uffici subalterni
assai piú radicalmente di quanto avveniva altrove. La
vittoria dei principi significò la fine degli «stati» come
forze politiche, cioè spodestò nobiltà e ceto medio. Da
allora, il potere politico fu uno solo: quello del princi-
pe. Ma avvenne ciò che suole avvenire in questi casi: i
principi compensarono la nobiltà e lasciarono a mani
vuote la borghesia. Il quadro della società tedesca è
ormai dominato da due gruppi: gli alti funzionari del
governo e della corte, che intorno ai principi costitui-

Storia dell’arte Einaudi 121


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

scono quasi un nuovo vassallaggio, e la burocrazia subal-


terna, composta dei loro servi piú docili. Del servilismo
verso i superiori gli uni si rivalgono con una sfrenata
brutalità verso gl’inferiori, gli altri con un culto della
disciplina che fa del capo un «intimo censore», e del-
l’adempimento del dovere burocratico una religione.
Ma il progresso del commercio e dell’industria, nono-
stante gl’impedimenti che la piccolezza degli stati, i loro
interessi particolaristici e le loro finanze trascurate,
oppongono allo sviluppo economico, alla lunga non si
può trattenere. La borghesia torna ad arricchirsi e rico-
mincia a differenziarsi a seconda del patrimonio. Dap-
prima spicca sul ceto medio una borghesia che può
pagarsi la protezione dei funzionari di corte e adottare
anch’essa la moda di Francia. Unica fonte di cultura nel
paese, accanto alla nobiltà di corte, essa diffonde fra gli
intellettuali il gusto francese e il disprezzo delle tradi-
zioni locali. La letteratura francese acquista il predomi-
nio nelle università e trova in Gottsched, il dotto poeta,
tipico del tempo, il suo piú ardente fautore; l’arte bor-
ghese del Rinascimento tedesco e le scarse tracce che ne
sono rimaste come tradizione viva, gli sembrano, in con-
fronto con l’ideale dell’arte francese, rozze, poco svi-
luppate e di cattivo gusto. Eppure Gottsched non può
affatto esser considerato il portavoce letterario dell’ari-
stocrazia; piuttosto egli è l’esponente della borghesia
che, del resto, non ha ancora un suo ideale artistico e
non possiede né uno spiccato carattere nazionale, né una
chiara coscienza di classe. Non bisogna dimenticare, è
vero, che anche la cultura dell’aristocrazia, presa a
modello dai borghesi, e persino quella della nobiltà di
corte non è che pseudocultura, messa insieme sulla fal-
sariga di luoghi comuni, spesso vacui7. La letteratura
amena d’argomento profano che, si può dire, costituisce
l’unica esigenza culturale di quei ceti, intorno al 1700
si limita ancora ai generi in voga alla corte e fra la

Storia dell’arte Einaudi 122


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nobiltà di Francia, e soprattutto al romanzo eroico,


pastorale, amoroso, e alla tragedia eroica. Ma gli auto-
ri, a differenza di quel che accade in Francia e in Inghil-
terra, sono in Germania per lo piú uomini di cultura
accademica, cioè docenti universitari, giuristi e funzio-
nari di corte, e in gran parte appartengono all’alta bor-
ghesia. Fra loro ci sono anche aristocratici come il baro-
ne von Canitz, Friedrich von Spee e Friedrich von
Logau, ma quasi nessun rappresentante dei ceti inferio-
ri8. A parte i grandi signori, che scrivono per diletto per-
sonale e passatempo, tutti questi autori dipendono diret-
tamente o indirettamente dalle corti, o perché al servi-
zio dei principi, o perché insegnanti in qualche univer-
sità.
Klopstock è il primo tedesco che sia poeta di profes-
sione nel senso europeo del termine, sebbene neppure
lui riesca ad affrancarsi del tutto da protettori privati.
Prima di Lessing e dello sviluppo della letteratura dal
grembo fertile della grande città, non ci sono in Ger-
mania scrittori liberi. Per molto tempo l’alta borghesia
resta fedele alla moda di Francia e alle forme della poe-
sia aulica. Sappiamo che perfino in una città mercanti-
le come Lipsia, il gusto del Rococò dominava ancora
quando Goethe vi era studente. Tuttavia furono proprio
le città mercantili, anzitutto Amburgo e Zurigo, a libe-
rarsi per prime dalla dittatura del gusto aulico, dando
asilo alla letteratura borghese. Dopo la metà del secolo,
c’è ancora qualche residenza principesca in cui la poe-
sia trova protezione (Weimar ne è l’esempio classico);
ma la poesia di corte vera e propria scompare. Non solo
per l’origine e le simpatie, ma anche per le forme della
sua attività letteraria (egli è principalmente critico e
giornalista) Lessing è il rappresentante della borghesia
e della vita urbana. Berlino ha già i caratteri della gran-
de città, quando egli vi si stabilisce. Ha centomila abi-
tanti e gode – effetto, in parte, della guerra dei Sette

Storia dell’arte Einaudi 123


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

anni – di una certa libertà di discussione e di critica.


Certo Federico II interviene non appena la critica scon-
fina dall’argomento religioso9. A questi limiti piuttosto
significativi della libertà di discussione accenna anche
Lessing in una lettera a Nicolai: .«Codesta libertà ber-
linese, – egli scrive, – si riduce... alla libertà di portare
al mercato quante sciocchezze si vogliono contro la reli-
gione... Vada a Berlino uno che voglia elevare la sua
voce per i diritti dei sudditi, contro lo sfruttamento e il
dispotismo... e presto farà l’esperienza del paese piú
schiavista d’Europa». Eppure Lessing sapeva benissimo
perché andava a Berlino: in quella gran città si respira-
va un’aria diversa da quella delle anguste corti di pro-
vincia e delle università segregate dal mondo, i soli luo-
ghi che si offrissero a uno scrittore per esplicarvi la sua
attività10. È vero che Lessing faceva la vita del lettera-
to che lavora a giornata, ordinando biblioteche, disim-
pegnando funzioni di segretario, facendo traduzioni;
ma in complesso era indipendente. Che cosa quell’indi-
pendenza gli costasse, lo si può immaginare dalla sua
risposta a chi gli domandava perché la sua scrittura fosse
cosí minuta: i suoi onorari non avrebbero coperto le
spese di carta e d’inchiostro, s’egli avesse scritto in
caratteri piú grandi. Alla fine, passata la quarantina, non
gli rimase che piegarsi al giogo, contro cui fino allora
aveva recalcitrato. Egli entrò al servizio di un principe
e passò gli ultimi tormentosi anni della sua vita a Wol-
fenbüttel, come bibliotecario del duca di Brunswick.
Tuttavia migliorano le sorti della letteratura tedesca.
Cresce il numero degli scrittori (nel 1773 in Germania
ne esistevano circa tremila, il doppio nel 1787) e negli
ultimi decenni del secolo molti potevano già vivere del
loro lavoro letterario11. Ma i piú, ancora nell’età roman-
tica, dovevano esercitare anche un’altra professione.
Gellert, Herder, Lavater erano teologhi; Hamann,
Winckelmann, Lenz, Hölderlin, Fichte, precettori;

Storia dell’arte Einaudi 124


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Gottsched, Kant, Schiller, Görres, Schelling e i fratel-


li Grimm, professori universitari; Novalis, A. W. Sch-
legel, Schleiermacher, Eichendorff, E. T. A. Hoffman,
impiegati statali.
Con lo Sturm und Drang la letteratura tedesca diven-
ta interamente borghese, sebbene i giovani ribelli siano
tutt’altro che riguardosi verso la borghesia. Ma in loro
la protesta contro i soprusi dei despoti e l’entusiasmo per
la libertà sono genuini e sinceri, come è sincera la loro
ostilità all’illuminismo. E sebbene essi costituiscano sol-
tanto un gruppo non molto coerente di esaltati ignari del
mondo e di stravaganti, tuttavia le loro radici borghesi
sono profonde ed essi non possono rinnegare la propria
origine. In Germania tutta la cultura dello Sturm und
Drang fino al romanticismo è un portato della borghe-
sia; le guide spirituali del tempo pensano e sentono da
borghesi, e soprattutto di elementi borghesi è composto
il pubblico a cui si rivolgono. Anche se non comprende,
veramente, tutti gli strati della borghesia, anzi spesso si
limita a un’élite non molto numerosa, tuttavia rappre-
senta una tendenza progressista e segna la fine della
cultura aulica. La borghesia si sviluppa cosí in classe
colta, che si distingue non solo dalla nobiltà, ma anche
dagli ambienti accademici, e costituisce un collegamen-
to fra il mondo della prassi e quello dello spirito, come
pure fra gli intellettuali piú autorevoli e la massa della
nazione. Ora la Germania diventa quel «paese del ceto
medio» in cui l’aristocrazia si rivela sempre piú impro-
duttiva, mentre la borghesia, benché politicamente
debole, s’impone intellettualmente e con il suo raziona-
lismo va scalzando ogni altra forma di cultura. Il razio-
nalismo settecentesco è di quei movimenti, che posso-
no venir rallentati, ma non arrestati dalle controcorren-
ti reazionarie. Nessun gruppo sociale può rifiutarlo del
tutto, e tanto meno il ceto intellettuale tedesco, incline
all’irrazionale solo perché fraintende i suoi veri interes-

Storia dell’arte Einaudi 125


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

si. In breve, questa è la situazione in Germania: la vita


dei ceti responsabili della cultura s’imborghesisce, le
forme del loro pensiero e della loro esperienza si razio-
nalizzano, e subiscono un profondo rivolgimento. Nasce
un nuovo tipo d’intellettuale, intimamente libero da
tradizioni e convenzioni, ma che nella realtà politico-
sociale non può, e spesso non vuole, esercitare un ade-
guato influsso. Egli cosí finisce per opporsi al razionali-
smo, di cui è l’involontario portatore, e in parte sostie-
ne quelle tendenze conservatrici, che egli crede di com-
battere. Qui, tratti conservatori e reazionari dappertut-
to si confondono con quelli progressisti e liberali12.
Lessing sapeva che il «superamento» del razionalismo
per opera dello Sturm und Drang era un’aberrazione
della borghesia; per questo si mantenne cosí riservato
anche di fronte alle opere giovanili di Goethe, special-
mente di fronte al Gœtz e al Werther13. Le critiche della
nuova generazione alla razionalistica filosofia popolare
erano senza dubbio giustificate, ma in quelle condizio-
ni sorvolare sulle insufficienze era piú intelligente che
insistervi. L’illuminismo, nella sua lotta contro la Chie-
sa alleata dell’assolutismo, si era fatto insensibile a tutto
ciò che si connetteva con la religione e con le forze irra-
zionali della storia: ora gli esponenti dello Sturm und
Drang, alla realtà «disincantata» con cui essi non senti-
vano alcun legame contrapposero proprio queste forze
irrazionali. Ma con ciò essi non facevano che assecon-
dare i desideri delle classi dominanti, che cercavano di
stornare l’attenzione da quella realtà, di cui tenevano
saldamente il possesso. Queste classi favorivano ogni
concezione che rappresentasse come inesplicabile e
imprevedibile il significato del mondo, e incoraggiava-
no ogni tendenza a trasferire i problemi in una sfera
interiore, cosí da deviare l’inclinazione sovversiva della
nuova cultura e portare la borghesia a contentarsi di una
soluzione ideologica anziché pratica14. Sotto l’azione di

Storia dell’arte Einaudi 126


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

questa droga, l’intellettuale tedesco perdette il gusto


della conoscenza positiva e razionale, cui venne sosti-
tuendo l’intuizione e le visioni metafisiche. L’irrazio-
nalismo fu certamente un fenomeno paneuropeo, ma
dappertutto altrove si manifestò essenzialmente come
una delle forme particolari del sentimentalismo; solo in
Germania assunse una speciale impronta idealistica e
spiritualistica, solo qui esso divenne una metafisica spre-
giatrice del mondo empirico e volta all’infinito, all’e-
terno, all’assoluto. In quanto esaltazione del sentimen-
to, il movimento romantico aveva ancora un rapporto
immediato con le tendenze rivoluzionarie della borghe-
sia, per i suoi aspetti idealistici e trascendenti invece si
allontanò sempre piú dal pensiero progressista borghe-
se. È vero che l’idealismo tedesco prese le mosse dalla
teoria kantiana della conoscenza, teoria antimetafisica e
profondamente radicata nell’illuminismo, ma il sogget-
tivismo proprio di questa teoria venne sviluppato in
un’assoluta rinunzia alla realtà obiettiva fino a posizio-
ni opposte a quelle del realismo illuministico. Già a par-
tire da Kant la filosofia tedesca si estraniò dal pubblico
dei profani colti, anzitutto per il suo gergo, semplice-
mente incomprensibile ai non iniziati, e nel quale
profondità e difficoltà si confondono. Il linguaggio
scientifico tedesco assunse a poco a poco quel carattere
spesso vago, ricercato, trascolorante in allusioni, che lo
divide cosí nettamente dal linguaggio scientifico del-
l’Occidente europeo. Nello stesso tempo i Tedeschi
smarriscono anche il gusto delle semplici, sicure, sobrie
verità cosí apprezzate nell’Europa occidentale, e la loro
preferenza per le costruzioni e le complicazioni menta-
li diventa una vera passione.
L’abito intellettuale che noi indichiamo come «pen-
siero tedesco», «scienza tedesca», «stile tedesco» non
può, veramente, considerarsi manifestazione di un
costante carattere nazionale, ma solo un modo di pensa-

Storia dell’arte Einaudi 127


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

re e di esprimersi sorto in un determinato periodo della


cultura tedesca, cioè nella seconda metà del Settecento,
e per opera di un determinato ceto, quello degli intellet-
tuali esclusi dal governo e praticamente privi di ogni
influenza. Questo ceto ebbe, nello sviluppo della classe
colta, una parte non meno importante di quella dei let-
terati illuministi per il pubblico dei lettori francesi. Quel
che afferma Tocqueville sull’origine della mentalità fran-
cese, cioè ch’essa deve allo straordinario influsso della let-
teratura illuministica la propria inclinazione alle idee
razionali, astratte, generali15, si può affermare, mutatis
mutandis, anche di quella tedesca, con la sua stravagan-
za amante di sorprese e di complicazioni. Sono entram-
be frutto di un’epoca in cui letterati in via d’emancipa-
zione agiscono in modo decisivo sullo sviluppo intellet-
tuale del paese. In tutto l’Occidente, in Francia e in
Inghilterra come in Germania, il Settecento vide nasce-
re il moderno pensiero scientifico e certe impostazioni di
cultura complessivamente valide anche oggi. Queste sor-
sero con la moderna borghesia e ad essa debbono la loro
tenacia. Così, ad esempio, ancora Thomas Mann nella
Montagna incantata giudica l’illuminismo secondo i crite-
ri dello Sturm und Drang. Anch’egli parla di «superfi-
ciale ottimismo» del secolo pedagogico e nella figura di
Settembrini caratterizza l’illuminista dell’Europa occi-
dentale, retore vanitoso, compiaciuto filantropo.
L’irrealismo che si manifesta nel pensiero astratto e
nel linguaggio esoterico dei poeti e dei filosofi tedeschi,
si esprime anche nell’esaltato individualismo e nella sma-
nia di originalità. Questa, come il loro gergo, non è che
una manifestazione della loro indole asociale. Le parole
di Madame de Staël, «trop d’idées neuves, pas assez
d’idées communes»*, costituiscono la diagnosi piú con-
cisa dello spirito tedesco. Quel che mancava ai tedeschi
non era la torta domenicale, ma il pane quotidiano.
Mancava loro la sana, vigile guida dell’opinione pubbli-

Storia dell’arte Einaudi 128


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ca, che nei paesi dell’Europa occidentale fin da princi-


pio pose dei limiti e diede un comune indirizzo alle aspi-
razioni individuali. Già Madame de Staël riconobbe che
la libertà individuale o, come diceva Goethe, il «sancu-
lottismo letterario» dei poeti tedeschi non era che una
compensazione della mancata attività politica. Anche
l’ermetismo e l’«amore della profondità», il culto del
difficile e del complicato, risalivano a quest’origine.
Tutto tradiva un’aspirazione a rifarsi della situazione
che li escludeva da ogni influenza in campo politico e
sociale mediante l’indirizzo esoterico ed eccentrico del
pensiero, e a crearsi nelle piú elevate forme della vita spi-
rituale una sorta di dominio riservato che fosse un equi-
valente del privilegio politico.
L’intellettuale tedesco era incapace di comprendere
che il razionalismo e l’empirismo erano i naturali allea-
ti di un ordine sociale incompatibile con l’oppressione.
Egli non poteva rendere miglior servigio alle forze con-
servatrici che partecipando alla loro manovra per scre-
ditare la «fredda cultura della ragione». A confondere
e distogliere gl’intellettuali dai loro obiettivi contribui-
rono da parte loro i principi tedeschi, che apparente-
mente fecero proprio l’illuminismo e seppero ammo-
dernare il razionalismo dell’antico regime assoluto sulle
nuove formule illuministiche; ma anche, le tradizioni
religiose della famiglia piccolo-borghese tanto piú vin-
colanti quando (e il caso non era infrequente) il padre
era un pastore. I piú fra gli intellettuali tedeschi erano
eredi di queste tradizioni, allora, per opera del pietismo,
avviate a un promettente risveglio. Nella loro campagna
contro l’illuminismo gli intellettuali, naturalmente, si
tennero essenzialmente in quei campi in cui i motivi irra-
zionali potevano avere piú gioco, e trassero le loro armi
di preferenza dalla sfera estetica e religiosa. L’esperien-
za religiosa era di per sé irrazionale, quella artistica lo
diveniva via via che ci si allontanava dai criteri del gusto

Storia dell’arte Einaudi 129


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

aulico. Dapprima, richiamandosi al modello neoplatoni-


co, si fusero le due sfere, poi però il primato, nella
nuova immagine del mondo, venne assegnato alle cate-
gorie estetiche. I caratteri per cui l’opera d’arte si sot-
trae all’indagine razionale e alla definizione logica non
erano una scoperta del tempo; già il Rinascimento li
aveva rilevati e messi in evidenza. Ma solo col Sette-
cento l’irrazionalità e l’assenza di regole furono indica-
ti come tratti essenziali della creazione artistica. Solo
quest’epoca antiautoritaria, consapevolmente e pro-
grammaticamente avversa all’accademismo aulico, seppe
contestare che le facoltà della riflessione e del razioci-
nio, la perizia e l’intelligenza del giudizio critico con-
tribuiscano alla nascita dell’opera d’arte. L’affermazio-
ne dell’irrazionalismo fu meno contrastata qui che nel
campo propriamente filosofico. Le tendenze antillumi-
nistiche si ritirarono dunque sulla linea estetica e di qui
conquistarono il mondo intellettuale. L’armonica strut-
tura dell’opera d’arte fu estesa a tutto il cosmo e al
Creatore si attribuí – come nel neoplatonismo – una spe-
cie di intento artistico. «Il bello è una manifestazione
di occulte forze naturali», giunse ad affermare Goethe,
di solito affatto alieno dal misticismo; e su quest’idea
s’impernia tutta la filosofia della natura dei romantici.
L’estetica divenne scienza fondamentale, organo della
metafisica. Già nella teoria della conoscenza di Kant l’e-
sperienza era creazione del soggetto conoscente, analo-
gamente all’opera d’arte, considerata sempre un pro-
dotto dell’artista che opera legato alla realtà e tuttavia
di questa realtà è dominatore. Lo stesso Kant credeva
di non poter dire quasi nulla sulla natura dell’oggetto in
sé, moltissimo invece sulla spontaneità del soggetto; e
trasformò la conoscenza, che tutta l’antichità e il
Medioevo avevano sempre concepito come l’immagine
di una realtà, in un’attività della ragione. Col tempo, la
resistenza dell’obiettività all’arbitrio del soggetto andò

Storia dell’arte Einaudi 130


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

diminuendo e l’oggetto della conoscenza finí col diven-


tare dominio assoluto dell’io creatore. Come poté matu-
rare un simile mutamento nell’immagine del mondo? I
sistemi filosofici si mettono in carta nelle biblioteche e
negli studi, ma non nascono qui; o, se mai ciò avviene
– come effettivamente avvenne per l’idealismo tedesco
– anche questo ha un suo reale significato, determinato
dalla vita pratica. Gli studi dei filosofi tedeschi erano
ermeticamente chiusi e l’esperienza da cui essi svilup-
parono i loro sistemi era appunto l’isolamento, la soli-
tudine, l’assenza di ogni influsso pratico. La loro visio-
ne estetica era in parte un segregarsi dal mondo, in cui
lo «spirito» si rivelava impotente; in parte, la via indi-
retta per giungere a un ideale umano che non si poteva
attuare per la via maestra dell’educazione politica e
sociale.
Voltaire e Rousseau furono d’attualità in Germania
quasi contemporaneamente; ma l’influsso di Rousseau fu
incomparabilmente piú profondo e vasto di quello del
rivale. Neppure in Francia Rousseau trovò seguaci così
numerosi e fervidi come in Germania. Tutto lo Sturm
und Drang, Lessing, Kant, Herder, Goethe e Schiller ne
dipendono e vi si riconoscono. In lui Kant vedeva «il
Newton del mondo morale» e Herder lo chiamò «santo
e profeta». E su scala minore lo stesso accadde per Shaf-
tesbury, la cui autorità fu in Germania assai maggiore
che in patria. In Inghilterra gli esperti del Settecento
non gli attribuiscono particolare importanza e trovano
addirittura incomprensibile che quell’autore «di
second’ordine» sia giunto, in Germania, a tanta cele-
brità16. Ma, conoscendo meglio la situazione tedesca,
non fa gran meraviglia che un irrazionalista come Shaf-
tesbury, con il suo spiritualismo apertamente polemico
contro Locke, con il suo entusiasmo per Platone e la sua
plotiniana idea della bellezza come intima essenza del
divino, abbia fatto cosí profonda impressione sui tede-

Storia dell’arte Einaudi 131


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

schi. Shaftesbury era il tipo dell’aristocratico whig, e la


sua mentalità si espresse nel modo piú chiaro in quella
kalokagathìa che è alla base del suo ideale pedagogico e
della sua morale estetizzante. Il suo self-breeding non fa
che applicare alla mente e all’anima l’idea di un’aristo-
cratica selezione del sangue. L’origine sociologica del suo
ideale della personalità si riflette inconfondibile, sia nel-
l’identificazione del vero e del bene con il bello, sia nel
pensiero che il conflitto fra impulsi egoistici e altruisti-
ci, corruttore degli strati piú bassi dell’umanità, trovi un
equilibrio armonico nei ceti alti affinati dalla cultura.
L’idea che la vita sia un’opera d’arte, a cui si lavora gui-
dati da un istinto infallibile (moral sense), come l’artista
nell’opera sua è guidato dal genio, era un’idea aristo-
cratica, che gli intellettuali tedeschi poterono accoglie-
re con tanto entusiasmo, solo perché essa si prestava ad
essere del tutto fraintesa e il suo carattere aristocratico
poteva interpretarsi come consapevolezza di una nobiltà
spirituale.
Per l’illuminismo il mondo era perfettamente intelli-
gibile, tale da potersi e doversi spiegare; per lo Sturm
und Drang, invece, era qualcosa di essenzialmente oscu-
ro, misterioso e, dal punto di vista della ragione, privo
di senso. Tali opposte concezioni non nascono sempli-
cemente dalla meditazione e dall’elaborazione logica.
L’una nasce dalla persuasione di poter conquistare e
dominare la realtà, l’altra da un sentimento di smarri-
mento e abbandono. Ceti e generazioni intere non
rinunziano spontaneamente al mondo; e, quando vi son
costrette, inventano spesso splendide filosofie, favole,
miti, attraverso le quali riescono a sublimare la costri-
zione a cui soggiacciono nella sfera interiore della libertà
e della spiritualità. Per questa via è sorta anche la teo-
ria dell’idea che si realizza nella storia, dell’imperativo
categorico, dell’artista creatore che impone a se stesso
la sua propria legge, e altre. Ma nulla rispecchia cosí niti-

Storia dell’arte Einaudi 132


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

damente e da tanti lati i motivi da cui lo Sturm und


Drang sviluppa la sua visione, come il concetto del genio
artistico, che ora viene posto al vertice dei valori umani.
Anzitutto il genio è irrazionale e soggettivo, caratteri
che il preromanticismo sottolinea nella sua polemica
contro l’illuminismo dogmatico e generalizzatore; il
genio converte la costrizione esteriore in libertà inte-
riore, ribelle e dispotica a un tempo, e afferma infine il
principio dell’originalità che, affiorando proprio nel
momento in cui nasce la classe dei letterati indipenden-
ti e si acuisce d’ora in ora la concorrenza, diventa l’ar-
ma piú importante dell’intellettuale nella lotta per la
vita. La creazione artistica, sia per il classicismo aulico
che per l’illuminismo, era una attività intellettuale chia-
ramente definibile, fondata su regole di gusto spiegabi-
li e apprendibili; ora invece si configura come un pro-
cesso misterioso, derivato da fonti imperscrutabili, quali
l’ispirazione divina, la cieca intuizione, l’imprevedibile
inclinazione dell’animo. Per il classicismo e l’illuminismo
il genio era un’intelligenza superiore, disciplinata dalla
ragione, dalla teoria, dalla storia, dalla tradizione e dalla
convenzione; per i preromantici e per lo Sturm und
Drang esso diventa la personificazione di un ideale
caratterizzato anzitutto dall’assenza di tali vincoli. Il
genio si sottrae alla miseria quotidiana rifugiandosi nel
mondo fantastico dell’arbitrio illimitato. Qui non sol-
tanto è libero dai ceppi della ragione, ma è in possesso
di virtú mistiche, per cui può fare a meno della comune
esperienza sensibile. «Il genio è presago, cioè il suo sen-
timento precorre l’osservazione. Il genio non osserva.
Egli vede, sente», dice Lavater. Nel suo aspetto irrazio-
nale, inconscio, creatore, il genio è concetto già noto ai
preromantici dell’Europa occidentale, e illustrato anzi-
tutto nelle Conjectures on original Composition di
Edward Young (1759); ma qui il genio sta al semplice
talento come un «mago» a un buon «architetto»; nel-

Storia dell’arte Einaudi 133


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’estetica dello Sturm und Drang esso diventa invece un


titano in rivolta, sovrumano e simile a Dio. Non è piú
il negromante, dalle pratiche oscure, ma non certo inna-
turali, bensí il custode di una misteriosa sapienza, colui
che «dice l’ineffabile», il legislatore di un mondo suo
proprio da lui stesso legittimato17. Questo concetto si
distingue da quello di Young anzitutto per il soggetti-
vismo estremo, determinato dalle speciali condizioni
tedesche. Gli aspetti personali della creazione artistica
erano già noti all’ellenismo e al Rinascimento; mai tut-
tavia si era giunti a un concetto dell’arte il cui soggetti-
vismo fosse paragonabile a quello del Settecento18. Ma,
anche allora, solo in Germania esso giunse a quell’ansia
di originalità, che non si può spiegare del tutto con la
protesta contro il dogmatismo illuministico e l’esibizio-
nismo pubblicitario di ciascuno dei letterati in gara. Per
ben capirlo, si deve anche tener presente la smodata
venerazione che qui si tributava all’uomo forte, al tipo
splendido d’energia virile. Naturalmente questo sogget-
tivismo esasperato, che non senza motivo è stato defi-
nito «frenesia borghese»19, poteva sorgere solo in un
mondo borghese, relativamente libero, indipendente
dalla morale di casta e dalla solidarietà di classe dell’a-
ristocrazia, e dominato dallo spirito di libera concor-
renza; ma senza l’intimo dissidio dell’intellettuale tede-
sco, conculcato e intimidito, sempre in cerca di com-
pensazioni e oscillante fra soggezione e orgoglio, pessi-
mismo ed energia virile, non avrebbe assunto la forma
patologica propria dello Sturm und Drang. Senza que-
sto contrasto interiore e questa tendenza all’ipercom-
pensazione, sarebbe impensabile non solo il soggettivi-
smo, ma anche la dissoluzione formale del preromanti-
cismo tedesco, la sua fuga nell’eccessivo e nell’informe,
la sua dottrina della fondamentale falsità e insufficien-
za di ogni forma. Il mondo, fatto estraneo e nemico, non
voleva comporsi in una forma chiusa. E il preromanti-

Storia dell’arte Einaudi 134


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cismo in questa sua visione di un mondo disgregato e


nella frammentarietà della sua esperienza vide il simbo-
lo della vita. Il detto di Goethe sulla falsità di ogni
forma discende appunto dal modo di sentire di questa
generazione e in sostanza corrisponde alle parole di
Hamann, che ogni sistema «già di per sé è impedimen-
to alla verità»20.
Lo Sturm und Drang nella sua struttura sociologica
fu ancor piú complicato del preromanticismo occiden-
tale; e non solo perché in Germania borghesi e intellet-
tuali non furono mai profondamente partecipi del moto
illuministico, cosí da vederne nettamente gli scopi e fer-
mamente perseguirli; ma perché la loro lotta contro il
razionalismo del regime assoluto fu anche una lotta con-
tro le correnti progressiste dell’epoca. Essi non com-
presero mai che il razionalismo dei principi costituiva
per il futuro un pericolo minore del loro proprio irra-
zionalismo. Così, da nemici del despota, essi divennero
strumenti della reazione e con i loro attacchi contro il
centralismo burocratico non fecero che favorire gli inte-
ressi di casta.
Naturalmente, del sistema accentratore essi non com-
battevano la tendenza al livellamento sociale, contro
cui cozzavano gli interessi della nobiltà e dell’alta bor-
ghesia, ma il suo effetto generalizzatore, che violava le
diversità di cultura e d’ingegno. Al rigido formalismo
dell’amministrazione razionalizzata essi opponevano i
diritti della vita vera, della crescita naturale, dello svi-
luppo organico; e con ciò non intendevano soltanto
negare lo stato burocratico con la sua tendenza a rego-
lare tutto meccanicamente e quindi tutto uguagliare,
ma anche il riformismo, incline ai piani e ai regolamen-
ti degli illuministi. E benché quest’idea della vita spon-
tanea, irrazionale fosse ancora non ben definita e, per
quanto ostile all’illuminismo, non avesse ancora mire
esplicitamente conservatrici, tuttavia conteneva in

Storia dell’arte Einaudi 135


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

germe la filosofia dei conservatori. Infatti non ci volle


molto per giungere ad attribuire a questo principio della
«vita» un mistico aspetto soprarazionale, di fronte a cui
il razionalismo illuministico appariva artificioso, rigido
e dottrinario, e per rappresentare il sorgere delle istitu-
zioni sociali e politiche dalla vita storica come qualcosa
di «naturale», cioè superiore all’uomo e alla ragione, cosí
da proteggerle contro ogni arbitrario intervento e assi-
curare lo statu quo.
A prima vista sorprende che la tendenza conserva-
trice, che di solito noi associamo all’idea della continuità
e della stabilità, qui sottolinei il valore della vita e del
divenire, mentre il liberalesimo, che noi siamo avvezzi
a collegare con l’idea del movimento e del dinamismo,
afferma le sue esigenze in nome della ratio. Si è voluto
spiegare questo apparente paradosso dicendo che, dato
che il pensiero rivoluzionario della borghesia era «espli-
citamente» alleato del razionalismo, la contro-corrente
anche solo «per pura contraddizione» ha fatto propria
l’ideologia contraria21. Ma la difficoltà del problema sta
appunto in questo, che il rapporto dei vari gruppi socia-
li e delle varie correnti politiche con il razionalismo set-
tecentesco è piuttosto ambiguo, e anche la tendenza
conservatrice dell’epoca ha un carattere piú o meno
razionalistico. La peculiare posizione dello Sturm und
Drang fra illuminismo e romanticismo è determinata
appunto dal fatto che razionalismo e irrazionalismo non
si possono identificare semplicemente con progresso e
reazione, e il razionalismo nell’era moderna non è un
fenomeno univoco e specifico, ma piuttosto un caratte-
re generale di tutta l’epoca. Dal Rinascimento in poi
esso è presente in tutti i tempi e in tutti i ceti, e mostra
ora una tendenza all’elasticità mentale e al dinamismo,
ora un’aspirazione all’universalità e alla stasi. Il razio-
nalismo del Rinascimento italiano era diverso da quello
del classicismo francese, e a sua volta quello dell’illumi-

Storia dell’arte Einaudi 136


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nismo era tutt’altro da quello dell’aristocrazia di corte


e della monarchia assoluta. C’è stato un razionalismo
borghese e progressista, ma anche un razionalismo con-
servatore dei privilegi di casta. La borghesia del Rina-
scimento aveva da combattere contro tradizioni e abi-
tudini paralizzanti, quindi il suo razionalismo assunse un
carattere dinamico, antitradizionale e una tendenza al
massimo rendimento. La nobiltà allora era cavalleresca,
romantica, irragionevole e priva di senso pratico; ma piú
tardi, specialmente sotto la pressione dello sviluppo eco-
nomico, dalla fine del Cinquecento in poi essa si adeguò
sempre piú al razionalismo della borghesia, non senza
modificarlo in certi aspetti sia della teoria che della pra-
tica. Cosí essa lasciò cadere anzitutto l’antitradizionali-
smo borghese, eliminando però, in compenso, tutto quel
che di fantastico e romanzesco c’era nella sua visione
medievale, e nel corso del Seicento giunse a sviluppare
un sistema di valori dell’ordine e della disciplina, che
sostanzialmente era altrettanto statico che «ragionevo-
le». La borghesia illuministica da principio subí l’in-
flusso di questa nobiltà razionalistica nel pensiero e nel-
l’azione e da essa derivò l’ideale di una condotta seve-
ramente disciplinata ed esemplare, sebbene per altro
verso si attenesse al razionalismo piú antico, di ceppo
rinascimentale, e nell’economia sviluppasse coerente-
mente la dottrina della produttività e della concorren-
za. Ma nella seconda metà del Settecento il medio ceto
disertò in parte il razionalismo, lasciandolo per il
momento nelle mani della nobiltà e dell’alta borghesia;
esso si volse invece agli ideali roussoviani, sentimentali
e romantici, mentre l’alta società disprezzava tutti quei
fumi sentimentali e restava fedele al suo intellettuali-
smo. Nonostante questo la borghesia progressista con-
servò un suo modo di sentire antitradizionale, e quindi
dinamico, proprio come i ceti conservatori, pur con il
loro razionalismo etico ed estetico, restavano fermi nel

Storia dell’arte Einaudi 137


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

fondo al tradizionalismo della loro filosofia sociale. A


un’indagine piú accurata il dinamismo, che si suole attri-
buire alla mentalità progressista e liberale, si rivela una
metafora quanto la stasi, attribuita ai conservatori.
Entrambe le tendenze sono dinamiche e razionalistiche
a un tempo, né potrebb’essere altrimenti in questa fase,
che liquida definitivamente il Medioevo. Irrazionalisti,
ora, sono soltanto i poeti e i filosofi, disorientati dalla
complessa situazione sociale.
Nella letteratura tedesca del Settecento, Herder è
forse la figura piú caratteristica. Egli unisce in sé le piú
importanti tendenze dell’epoca ed esprime chiarissimo
quel conflitto ideologico, quella mescolanza di correnti
progressiste e reazionarie che domina la società del
tempo. Egli disprezza l’illuminismo, «fredda cultura
della ragione», ma parla del suo tempo come di un
«secolo veramente grande», e crede di poter conciliare
quel suo disprezzo con l’entusiasmo per la Rivoluzione
francese, a cui per lo piú gli intellettuali e gli scrittori
tedeschi – fra gli altri Kant, Wieland, Schiller, Friedri-
ch Schlegel, Fichte – dapprima aderiscono appassiona-
tamente, per staccarsene soltanto al tempo della Con-
venzione. L’evoluzione di Herder è la stessa della cul-
tura tedesca, dalla ribellione dello Sturm und Drang,
infatuata del «genio» fino all’atteggiamento piú consa-
pevole, sebbene borghesemente piú rassegnato, del
periodo classico. Il suo esempio mostra ottimamente
che cosa significasse Weimar per la letteratura tedesca.
In lui l’influsso di Goethe soppianta quello di Hamann
e di Jacobi, avvicinandolo al razionalismo. Egli scrive
un’entusiastica commemorazione di Lessing, l’impavido
campione della verità, e non soltanto supera l’ortodos-
sia d’un tempo, ma colora di estetismo tutto il suo
mondo religioso, e applica ai documenti della religione
la sua teoria della lirica popolare, fino a considerare la
Bibbia null’altro che un prototipo di tale poesia. Vera-

Storia dell’arte Einaudi 138


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mente egli non può rinnegare del tutto il suo passato;


l’impegno religioso dalla sua gioventú si muta in gret-
tezza moraleggiante, la sua filosofia della storia ha
profonde radici nel pensiero conservatore, e presenta
innegabilmente molti punti di contatto con le idee di
Burke. Anch’egli, come Burke, anziché dominare, muta-
re, soverchiare le forme della vita storica, vuol com-
prenderle, interpretarle, abbandonarvisi22. La sua con-
cezione morfologica della storia, che considera l’evolu-
zione come un ciclo vegetativo, dal germe al fiore e
dalla fioritura alla morte, nonostante l’amorosa pietà
dell’indagine, rivela una visione pessimistica in cui è già
contenuta l’idea fondamentale del declino, che Spengler
svilupperà nella sua teoria23.
Il classicismo di Herder, di Goethe e di Schiller è
stato considerato un Rinascimento tedesco in ritardo, un
parallelo del classicismo francese. Tuttavia è un movi-
mento che si distingue da ogni altro analogo fuori di
Germania, anzitutto perché rappresenta una sintesi di
tendenze classiche e romantiche e, specialmente se visto
dalla Francia, appare decisamente romantico24. I classi-
ci tedeschi, quasi tutti in gioventú seguaci dello Sturm
und Drang, e comunque inconcepibili senza l’evangelo
roussoviano della natura, tuttavia rinunziano alla roman-
tica ostilità di Rousseau per la vita civile e ne rifiutano
il nichilismo. Dai tempi degli umanisti nessuna genera-
zione di poeti era vissuta in una simile orgia di civiltà e
di cultura, che per loro non è opera dell’individuo, per
quanto dotato, ma proprio della società civile25. L’idea-
le di cultura di Goethe solo nella cultura di società può
trovare la sua attuazione e il grado di adeguamento
all’ordine borghese diventa per lui proprio un criterio
per valutare l’opera individuale. Questo è appunto il
concetto che della cultura si fanno letterati ormai giun-
ti al successo e al prestigio, soddisfatti dei loro allori e
liberi da ogni risentimento verso la società. Ma questo

Storia dell’arte Einaudi 139


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

non significa affatto che i classici tedeschi fossero popo-


lari; i loro scritti non hanno avuto fra il popolo neppu-
re la diffusione delle opere classiche della letteratura
francese o inglese. E Goethe era il poeta meno popola-
re di tutti. Da vivo, la sua fama non uscí da un ambien-
te innegabilmente ristretto, e anche piú tardi non furo-
no che gli intellettuali a leggerne gli scritti. Egli deplo-
ra piú volte la propria solitudine, essendo, come dice
Schiller, «il piú socievole degli uomini», avido di sim-
patia e di comprensione, bramoso di esercitare un suo
influsso. Il gran numero di lettere e di colloqui traman-
dati per iscritto ci dimostra che cosa significassero per
lui la comunione intellettuale, lo scambio delle idee e lo
svilupparle in comune. Eppure Goethe era pienamente
consapevole dell’inefficacia del suo lavoro; e spiegava il
particolare carattere non solo di tutta la letteratura tede-
sca, ma anche quello della propria poesia con la man-
canza di una vita intellettuale collettiva. Il suo momen-
to di popolarità lo ebbe da giovane, pubblicando il Gœtz
e il Werther. Quando si trasferí a Weimar e iniziò la sua
attività ufficiale, in certo modo egli scomparve dalla
vita letteraria26. A Weimar il suo pubblico erano mezza
dozzina di persone – il duca, le due duchesse, la signo-
ra von Stein, Knebel e Wieland – a cui egli leggeva le
sue opere nuove, non certo numerose né di gran mole:
singoli capitoli e frammenti di opere. E non s’immagi-
ni che fosse un pubblico particolarmente intelligente27.
Il caso dell’ammaestratore di cani che, malgrado l’ener-
gica protesta di Goethe, poté esibirsi nel teatro di corte,
illustra chiaramente la situazione. Figuriamoci come
andavano le cose nelle altre corti! La letteratura tede-
sca non godeva particolare considerazione a Weimar;
anche qui, come in tutti i circoli di corte e della nobiltà,
si leggevano per lo piú le novità di Francia28. Fra il gran
pubblico (per quanto questo poteva sapere di letteratu-
ra seria) durante il viaggio di Goethe in Italia, fu Schil-

Storia dell’arte Einaudi 140


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ler ad accentrare l’interesse; il Don Carlos, per esempio,


fu accolto con ben piú calore del Tasso. Il massimo suc-
cesso letterario, tuttavia, non l’ebbero né Goethe né
Schiller, ma Gessner e Kotzebue. Solo dopo l’avvento
dei romantici e il loro entusiasmo soprattutto per il
Wilhelm Meister, Goethe non ha piú rivali nella lettera-
tura tedesca29. Il favore dei romantici per Goethe è il
segno piú evidente della comunione profonda e indi-
struttibile, nonostante ogni contrasto ideologico e per-
sonale, che esiste non solo fra classicismo e romantici-
smo, ma in tutta la cultura tedesca, a partire dallo Sturm
und Drang. L’arte è la grande esperienza comune, e
non solo come oggetto del piú alto godimento spiritua-
le e unica via ancora aperta al perfezionamento della per-
sona, ma anche come l’organo per cui l’umanità può
recuperare l’innocenza perduta e assicurarsi il possesso
della natura e della civiltà nello stessa tempo. Per Schil-
ler l’educazione estetica è l’unica salvezza dal male ine-
sorabile scoperto da Rousseau; e Goethe va ancora piú
lontano, affermando che l’arte è il tentativo dell’indivi-
duo «di resistere alla forza distruttiva del Tutto». L’e-
sperienza artistica assume cioè l’ufficio finora esercita-
to esclusivamente dalla religione: protegge l’uomo con-
tro il caos.
Una frase come questa basta a rivelare la visione
goethiana del tutto areligiosa, sebbene forse non proprio
irreligiosa. Infatti, pur col suo idealismo «faustiano», il
suo estetismo aristocratico e il suo fanatismo per l’ordi-
ne, di stampo conservatore, egli era in Germania uno fra
i piú intransigenti illuministi; e sebbene non lo si possa
certo chiamare un freddo razionalista, si deve scorgere
in lui il nemico giurato di ogni oscurantismo e l’appas-
sionato combattente contro tutto quel che è nebuloso e
mistico, contro ogni forma di regresso o di ritardo. Ben-
ché legato allo Sturm und Drang, egli sentiva una
profonda avversione per ogni sorta di romanticismo,

Storia dell’arte Einaudi 141


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

per ogni negazione radicale della ragione, e una simpa-


tia altrettanto profonda per le virtú borghesi: il solido
realismo, la disciplina, l’ethos del lavoro, la tolleranza.
Certo, lo slancio rivoluzionario del tempo del Werther,
l’infiammata protesta contro l’ordine dominante e la
morale convenzionale, si placano con gli anni; ma
Goethe rimane l’avversario di ogni oppressione e di
ogni ingiustizia diretta contro lo spirito della cultura
borghese. Solo tardi egli ne riconobbe il reale valore, e
solo nel Wilhelm Meister l’apprezzò. Non è il caso di
negare né di tacere le inclinazioni aristocratiche del pen-
siero goethiano, né le sue ambizioni mondane, il suo ego-
centrismo olimpico e l’indifferenza politica, e nemme-
no l’infelice frase «meglio l’ingiustizia del disordine»;
eppure, Goethe rimase un uomo della libertà e del pro-
gresso, e non solo per il realismo dell’arte sua, per la sua
«ristrettezza innamorata del reale». Ci sono modi diver-
si di combattere contro la reazione e per il progresso.
Chi odia il papa e i preti, chi i principi e i loro vassalli,
chi gli sfruttatori e gli oppressori del popolo; ma c’è
anche chi, nella reazione, sente soprattutto la confusio-
ne mentale e l’impedimento alla verità, ed è special-
mente sensibile all’ingiustizia sociale in quanto «pecca-
to contro lo spirito», e lottando per la libertà di coscien-
za, di pensiero, di parola, combatte per la libertà una e
indivisibile in ogni aspetto della vita. Goethe non aveva
molta simpatia per i tirannicidi, ma era sensibilissimo a
ogni minaccia contro la libertà di pensiero e non si pre-
stò mai ad aiutare chi voleva limitarla. Nel 1794, quan-
do la parte conservatrice chiese agli intellettuali tede-
schi, e specialmente a Goethe, di porsi al servizio della
nuova federazione dei principi per salvare il paese dalla
minaccia dell’«anarchia», Goethe rispose di ritenere
impossibile una simile unione fra principi e scrittori30.
Tutto quel che concorse all’educazione del giovane
Goethe – l’origine, le impressioni infantili, Francofor-

Storia dell’arte Einaudi 142


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

te città imperiale, Lipsia mercantile e universitaria, la


gotica Strasburgo, l’ambiente renano, Darmstadt, Düs-
seldorf, la casa della Klettenberg e della Schönemann
– tutto questo era borghese, magari in parte d’alta bor-
ghesia e addirittura spesso già vicino alle sfere aristo-
cratiche, ma non mai senza un intimo rapporto con lo
spirito del ceto medio31. Tuttavia questo intimo senti-
re borghese non si tradusse in un atteggiamento mili-
tante, né mai si rivolse contro la nobiltà come tale, nep-
pure nella giovinezza, neppure nel Werther32. Gli sem-
brava piú importante proteggere il costume borghese
dall’oscurantismo e dall’irrealismo, che dall’influsso dei
ceti superiori. L’aspetto piú interessante e originale
nella concezione goethiana della vita borghese è che
esso si riflette nello spirito dell’artista moderno, che
accoglie pienamente l’ethos borghese del lavoro nei
riguardi della produzione artistica. Goethe non si stan-
ca di sottolineare la natura artigiana della creazione
poetica e prima d’ogni altra cosa richiede all’artista una
provata abilità tecnica. A partire dal Rinascimento furo-
no per lo piú borghesi a coltivare l’arte e la poesia. La
loro qualità di gente del mestiere appariva cosí natura-
le che non avrebbe avuto senso insistervi. Era, se mai,
il caso di incitare artisti e poeti a innalzarsi oltre quel
livello. Soltanto nel Settecento, quando la borghesia
acquistò una piú forte coscienza di classe, e, d’altra
parte, lo sfrenato soggettivismo del genio ribelle a ogni
regola e norma venne prendendo l’aspetto di forma
aberrante dell’emancipazione borghese, di una specie di
sleale concorrenza, allora apparve necessario ricordare
l’origine borghese e artigiana della professione. Non era
certo piú il caso di accentuare l’alto rango del poeta,
anzi era urgente proteggere i letterati dal soverchiare
del dilettantismo e della ciarlataneria. Al tempo della
emancipazione degli scrittori, le pose geniali erano
mezzi pubblicitari nella lotta per la vita; proteste con-

Storia dell’arte Einaudi 143


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tro tali metodi si levarono soltanto quando non se ne


ebbe piú bisogno. Poter essere «geniale» era un sinto-
mo della raggiunta indipendenza; non volere né dove-
re piú esserlo è il segno di una condizione in cui la
libertà dell’artista è ormai naturale. La dignità di rispet-
tabile borghese e di artista onorato è già cosí forte in
Goethe, che nell’arte e nella vita egli cerca di evitare
ogni stravaganza e prova una singolarissima avversione
contro tutto quel che manca di solidità e di schiettez-
za, contro l’inclinazione al caotico e al patologico, carat-
teri in certa misura propri di tutti i gruppi artistici33.
Con ciò egli precorre una tendenza dell’Ottocento e
dell’artista moderno che, giunto al successo, reagisce
con un’esagerata cautela agli eccessi della bohème e, per
timore di apparire infido, adotta le forme del costume
borghese, spesso anzi piccolo-borghese.
L’ideale artistico del classicismo tedesco, che, in
accordo con le tendenze dei ceti piú fortunati, avversa
ogni forma di capriccio e di anarchia, mostra una chia-
ra tendenza al tipico e all’universale, al regolare e al
normativo, al durevole e all’eterno. In contrasto con lo
Sturm und Drang, la forma è sentita in esso come
espressione dell’essenza, del contenuto ideale dell’ope-
ra, cessa di essere identificata con l’esteriore armonia
dei rapporti, con l’eufonia e con la bellezza della linea.
Per forma ormai s’intende «forma interiore», l’equiva-
lente microcosmico della vita universale. Goethe alla
fine supera anche questa formulazione della visione
estetica e si avvia a una filosofia della vita affatto rea-
listica, secondo lo spirito della società borghese. Il con-
tenuto del Wilhelm Meister non è che questa evoluzio-
ne dall’arte alla società, dalla concezione estetico-indi-
vidualistica all’esperienza della comunità spirituale, da
un rapporto col mondo di tipo estetico-contemplativo
a una vita-attiva, socialmente utile34. Negli ultimi anni,
Goethe si allontana dalla posizione puramente perso-

Storia dell’arte Einaudi 144


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nale di fronte alla letteratura, avvicinandosi a una con-


cezione sovraindividuale, sovranazionale, diretta a com-
piti universali di civiltà. Viene da lui, com’è noto, il
nome e in parte il concetto di «letteratura universale»;
ma la cosa esisteva ancor prima che se ne avesse coscien-
za. La letteratura illuministica, le opere di Voltaire e di
Diderot, di Locke e di Helvetius, di Rousseau e di
Richardson erano già letteratura universale nel vero
senso della parola. Fin dalla prima metà del Settecento
si era avviato un «colloquio europeo» a cui partecipa-
vano tutte le nazioni civili, sebbene per lo piú passiva-
mente. La letteratura del tempo era un fatto comune a
tutta l’Europa, espressione di una comunità spirituale,
quale in Occidente non era piú esistita dopo il Medioe-
vo. Ma era cosa diversa dalla letteratura medievale
come era diversa dai movimenti internazionali della
letteratura moderna. La letteratura del Medioevo dove-
va la sua universalità al latino, quella del Barocco e del
Rococò al francese; la prima era limitata ai dotti
ambienti ecclesiastici, la seconda al gran mondo e alla
corte. Entrambe erano indifferenziate, prodotti di un
atteggiamento intellettuale piú o meno unitario, non già
un concerto di voci diverse, come voleva Goethe, e
come l’illuminismo seppe far sorgere fra le letterature
delle grandi nazioni europee. La teoria e la prassi della
letteratura universale furono creazione di una civiltà
condizionata dagli scopi e dai metodi del commercio
mondiale. Le parole stesse di Goethe, che paragona al
commercio lo scambio di beni intellettuali fra le nazio-
ni, toccano questo nesso e accennano all’origine del
concetto. Quando poi Goethe parla del carattere «velo-
ciferico» della produzione spirituale e materiale e del
ritmo accelerato con cui si scambiano i beni spirituali
e materiali, si vede quanto diretto sia il rapporto di que-
ste idee con l’esperienza della rivoluzione industriale35.
Meraviglia soltanto che i Tedeschi, che fra le grandi

Storia dell’arte Einaudi 145


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nazioni meno di ogni altra avevano contribuito a que-


sta letteratura universale, fossero i primi ad afferrarne
e svilupparne il significato.

1
karl biedermann, Deutschland im 18. Jahrhundert, 1880, 2a ed.,
I, pp. 276 sgg.
2
w. sombart, Der Bourgeois, 1913, pp. 183-84.
3
jacques bainville, Histoire de deux peuples, 1933, p. 35.
4
Cfr. geoffrey barraclough, Factors in German History, 1946,
p. 68.
5
Il conte Manteuffel in una lettera al filosofo Wolf; citato da k.
biedermann, Deutschland im 18. Jahrhundert cit., II, i, p. 140.
6
Ibid., p. 23.
7
Ibid., p. 134.
8
w. h. bruford, Germany in the 18th Century, 1935, pagine 310-11.
9
wilhelm dilthey, Leben Schleiermachers, I, 1870, pp. 183 sgg.
id., Das Erlebnis und die Dichtung, 1910, p. 29.
10
id., Das Erlebnis und die Dichtung cit., p. 30.
11
johann goldfriedrich, Geschichte des deutschen Buchbandels,
1908-909, pp. 118 sgg.
12
Cfr. g. lukács, Fortschritte und Reaktion in der deutschen Litera-
tur, in «Internationale Literatur», xv, 1945, 8-9, p. 89.
13
franz mehring, Die Lessing-Legende, 1893, p. 371.
14
Cfr. karl mannheim, Das konservative Denken, I, in «Archiv für
Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», vol. LVII, 1927, p. 91.
15
a. de tocqueville, L’Ancien Regime et la Revolution cit., pp.
247-48. Cfr. k. mannheim, Das Konservative Denken cit.
* «Troppe idee nuove, troppo poche idee comuni».
16
christian friedrich weiser, Shaftesbury und das deutsche Gei-
stesleben, 1916, pp. ix, xii.
17
Cfr. rudolf unger, Hamann und die Aufklärung, 1925, 2a ed., I,
pp. 327-28.
18
Cfr. b. schweitzer, Der bildende Künstler und der Begriff des
Künstlerischen in der Antike, 1925, p. 130; alfred stange, Die Bedeu-
tung des subjektivistischen Individualismus für die europäische Kunst von
1750-1850, in «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft
und Geistesgeschichte», ix, i, p. 94.
19
l. balet - e. gerhard, Die Verbürgerlichung ecc. cit., p. 228.
20
Hamann’s Leben und Schriften, a cura di c. h. gilden-meister,
1857-73, V, p. 228.
21
k. mannheim, Das Konservative Denken cit., p. 470.

Storia dell’arte Einaudi 146


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

22
friedrich meusel, Edmund Burke und die französische Revolution,
1913, pp. 127-28.
23
hans weil, Die Entstehung des deutschen Bildungsprinzips, 1930,
p. 75.
24
julius petersen, Die Wesensbestimmung der deutschen Romantik,
1926, p. 59.
25
h. a. korff, Die erste Generation der Goethezeit, in «Zeitschrift
für Deutschkunde», vol. XLII, 1928, p. 641.
26
viktor hehn, Gedanken über Goethe, 1887, p. 65.
27
Ibid., p. 74.
28
Ibid., p. 89.
29
heine, Die romantische Schule, I, 1833.
30
thomas mann, Goethe als Repräsentant des Bürgertums, 1932, p.
46 (trad. it., Goethe quale esponente dell’età borgbese, in Saggi, Mila-
no 1946).
31
Cfr. alfred nollau, Das literarische Publikum des jungen Goethe,
1935, p. 4.
32
georg keferstein, Bürgertum und Bürgerlichkeit bei Goethe, 1933,
pp. 90-91.
33
Ibid., pp. 174-75.
34
Cfr. h. a. korff, Geist der Goethezeit, II, 1930, p. 353;
ludwig w. kahn, Social Ideals in German Literature (1770-1830),
1938, pp. 32-34.
35
Cfr. fritz strich, Goethe und die Weltliteratur, 1946, p. 44.

Storia dell’arte Einaudi 147


Capitolo quinto

La Rivoluzione e l’arte

Il Settecento è pieno di contraddizioni. Non solo la


sua filosofia oscilla fra razionalismo e irrazionalismo, ma
anche il suo intento artistico è dominato da due correnti
opposte, e si volge ora a un severo classicismo, ora a uno
sfrenato pittoricismo. Come il razionalismo del tempo,
anche il classicismo è un fenomeno difficilmente defi-
nibile e variamente interpretabile dal punto di vista
sociologico; i suoi esponenti li trova ora nei ceti auli-
co-aristocratici, ora in quelli borghesi, per svilupparsi
infine in stile tipico della borghesia rivoluzionaria. Che
la pittura di David diventi l’arte ufficiale della Rivolu-
zione può apparire strano o addirittura incomprensibi-
le solo se si ha un’idea ristretta del classicismo e lo si
riduce al gusto dell’alta società conservatrice. L’arte
classicheggiante è, sì, incline all’atteggiamento conser-
vatore e si adatta benissimo a rappresentare ideologie
autoritarie, ma il senso aristocratico della vita di per sé
trova nella sensualità e nell’esuberanza barocca un’e-
spressione piú diretta che nel ritegno e nella freddezza
del classicismo. Invece la borghesia razionalista, mode-
rata, disciplinata preferisce le forme semplici, schiette e
chiare dell’arte classicheggiante, e di fronte all’inflazio-
ne indiscriminata e informe della realtà si sente cosí
poco attratta come di fronte alla sfrenata arte fantasti-
ca dell’aristocrazia. Il suo naturalismo si muove entro
confini relativamente angusti e, di regola, si attiene al

Storia dell’arte Einaudi 148


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

razionalismo, cioè a una rappresentazione che non pre-


senti intime contraddizioni. Naturalezza e disciplina
formale qui son quasi la stessa cosa. Soltanto col classi-
cismo aristocratico il principio d’ordine dell’arte bor-
ghese si trasforma in rigida obbedienza alla norma, l’a-
spirazione alla semplicità e alla sobrietà in disciplina e
costrizione, la sana logica in freddo intellettualismo.
Nella classicità dei Greci o di Giotto la fedeltà al vero
non è mai inconciliabile con la sintesi formale; soltanto
nell’arte dell’aristocrazia aulica la forma domina a spese
della naturalezza, soltanto qui essa viene concepita come
limitazione e barriera. Ma in sé e per sé il classicismo
non rappresenta né una tendenza espansiva, naturali-
stica, né uno stile tipicamente borghese1, benché spesso
cominci come movimento borghese e sviluppi i suoi
canoni formali nel senso della naturalezza. In ogni caso,
esso va oltre i limiti del gusto borghese e le premesse del
naturalismo. L’arte di Racine e di Claudio Lorenese è
classicheggiante, senz’essere borghese o naturalistica.
La moderna storia dell’arte trae il suo carattere dal
coerente e quasi ininterrotto progresso del naturalismo;
le correnti di rigorismo formale vi affiorano piuttosto di
rado e sempre per breve tempo, sebbene ne accompa-
gnino sotterranee tutta l’evoluzione. La perfetta unio-
ne di naturalismo e classicità formale raggiunta da Giot-
to si dissolve già nel Trecento e l’arte dei due secoli suc-
cessivi, sostanzialmente borghese, sviluppa il naturali-
smo a spese della forma. Il primo Cinquecento si preoc-
cupa nuovamente dei principî formali, ma non vede piú,
come Giotto, nella composizione un mezzo per chiarire
e semplificare, bensì, seguendo la sua tendenza aristo-
cratica, un modo per esaltare e idealizzare la realtà. Non
si tratta certo di un’arte anti-naturalistica; è soltanto
un’arte piú scarsa di particolari naturalistici e meno
preoccupata di differenziare il materiale dell’esperienza,
ma non per questo meno vera e giusta. Invece nel

Storia dell’arte Einaudi 149


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Manierismo, la cui visione risponde all’ulteriore pro-


gresso della restaurazione aristocratica, il classicismo si
accompagna a una serie di convenzioni antinaturalisti-
che determinando un influsso cosí profondo sul gusto
dell’alta società, che il suo modo di concepire la bellez-
za rimarrà piú o meno canonico per tutta l’arte aulica.
Nella seconda metà del Cinquecento, il Manierismo è lo
stile predominante in Francia, come in Italia e in Spa-
gna. In Francia tuttavia il suo sviluppo subisce una bru-
sca interruzione, a causa delle guerre civili e religiose del
tempo di Enrico IV, e questa interruzione, prolungata
nel periodo successivo dalla politica del governo ostile
alla nobiltà, permette alla borghesia di esercitare, sia pur
per breve tempo, un influsso che sarà decisivo per l’ul-
teriore sviluppo dell’arte. La tradizione rinascimentale
della cultura aulica si spezza, e con l’involuzione della
vita di corte vi si diradano anzitutto gli spettacoli tea-
trali, che alla fine cessano completamente. Invece, anche
in quest’epoca di crisi, il teatro popolare continua la sua
modesta esistenza. Accanto ai misteri e alle moralités, i
teatri popolari rappresentano anche drammi d’argo-
mento classico, che d’altronde debbono adattarsi al
dinamismo del teatro medievale e accoglierne le licenze
formali. La borghesia, che al tempo di Luigi XIII e di
Richelieu, e ancora nei primi anni del regno di Luigi
XIV, gode il favore della Corona e impiega i letterati del
tempo, riesce a riformare anche questa forma di teatro
medievale senza regola né misura. Essa sviluppa un pro-
prio stile letterario, fondamentalmente diverso dal
Manierismo dell’aristocrazia; e nel dramma – genere a
cui la uniscono i vincoli piú antichi e profondi – fonda
il suo nuovo classicismo, che s’impronta di naturalezza
e razionalità. La tragédie classique non è dunque il frut-
to dell’umanesimo aulico e dotto, o dell’aristocratica
Pléiade, come è stato detto cosí spesso, ma sorge dal vivo
e comune teatro borghese. Le sue restrizioni formali,

Storia dell’arte Einaudi 150


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

specie la regola delle tre unità, non derivano dallo stu-


dio della tragedia antica, o almeno non direttamente, ma
si sviluppano come accorgimenti intesi ad esaltare l’ef-
fetto scenico e a rendere piú verosimile l’azione. Si
trova sempre piú strano che i luoghi in cui si svolgono
le scene – case, città e paesi diversi – siano divisi sol-
tanto da un assito, e che la breve pausa fra due atti rap-
presenti giorni, mesi e anni. Sulla base di simili rifles-
sioni razionalistiche si comincia a considerare tanto piú
verosimile un’azione drammatica, quanto piú breve è il
tempo e unitario lo spazio in cui essa si svolge. Si ridu-
ce quindi la durata degli avvenimenti e l’estensione dei
luoghi mirando a un’illusione sempre maggiore; e a poco
a poco ci si avvicina al massimo dell’illusionismo, quan-
do il tempo reale della recita equivale al tempo ideale
dell’azione. Quindi le unità sorgono proprio da un’esi-
genza naturalistica, e anche i drammaturghi del tempo
le presentano sempre come criteri di verosimiglianza.
Ma è certo strano che questi accorgimenti, che porta-
rono alla massima stilizzazione e alla piú violenta alte-
razione della realtà, in origine significassero il trionfo
della visione naturalistica e del pensiero razionalistico
sulla sfrenata e confusa curiosità di un pubblico di sen-
sibilità ancor medievale.
Come nel dramma, cosí nelle altre arti il classicismo
equivale al trionfo del naturalismo e del razionalismo, sia
sulla stravaganza e l’indisciplina, sia sull’affettazione e
il convenzionalismo della produzione artistica di allora.
Alla lirica di Du Bartas, d’Aubigné e Théophile de Viau
la borghesia contrappone il dramma di Hardy, Mairet e
Corneille, mentre al Manierismo di Jean Cousin e Jac-
ques Bellange succedono il naturalismo di Louis Le Nain
e il classicismo di Poussin. Il classicismo naturalistico
nelle arti figurative s’impone assai meno che nel dram-
ma, anzitutto perché i legami storici della borghesia
francese sono molto meno stretti con la pittura che con

Storia dell’arte Einaudi 151


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

il teatro, poi perché essa non dispone ancora dei mezzi


richiesti per esercitare un tale influsso. Il Manierismo a
poco a poco passa di moda anche per la pittura e la scul-
tura, ma qui vi subentra uno stile piú barocco che clas-
sicheggiante. Frattanto nel dramma il classicismo bor-
ghese vede il trionfo delle tre unità. Il Cid, che Cor-
neille, l’avvocato di Rouen, presenta nel 1636, si può
considerare la sua vittoria definitiva. Anch’esso da prin-
cipio urta contro l’opposizione degli ambienti di corte;
ma il razionalismo e il realismo dominanti nell’economia
e nella politica del tempo non si arrestano nella loro mar-
cia trionfale. L’aristocrazia, che ancora è dominata dal
gusto spagnolo, è costretta dalle cose a vincere la pro-
pria inclinazione all’avventuroso, allo stravagante e al
fantastico e piegarsi al gusto borghese, schietto e sobrio.
Veramente ciò non avviene senza che essa modifichi tale
gusto secondo i propri ideali e i propri fini.
Essa mantiene l’equilibrio, la regolarità e la natura-
lezza del classicismo borghese, poiché la nuova etichet-
ta di corte già di per sé rifiuta tutto ciò che è stridente,
chiassoso, bizzarro, ma interpreta l’economia artistica di
questo stile in un modo suo particolare, intendendo per
sintesi e precisione non già rigorosi principî di ordine,
ma difficoltose regole del gusto, che vengono contrap-
poste alla «rozza», indomita e imprevedibile natura
come norme di una realtà autonoma e superiore. Cosí il
classicismo, che in origine doveva soltanto mantenere e
sottolineare l’unità organica e la severa «logica» della
natura, viene ad essere un freno all’istinto, un argine
all’impeto del sentimento e viene a gettare un velo su
quanto è comune e troppo naturale.
Nelle tragedie di Corneille, che sono fra le piú matu-
re espressioni del nuovo razionalismo artistico, ma che
evidentemente non trascurano le esigenze del teatro
aulico, questa nuova interpretazione è in parte già com-
piuta. In seguito le sobrie, rigorose tendenze del classi-

Storia dell’arte Einaudi 152


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cismo andranno scomparendo dall’arte di corte, sia per-


ché acanto al rigorismo – e spesso contro di esso – torna
ad affermarsi il desiderio di un maggiore sfarzo; sia per-
ché in generale l’indirizzo estetico del secolo muta, e cosí
prendono il sopravvento tendenze barocche meno con-
tenute, anzi piú appassionate e sensuali. Nell’arte e nella
letteratura francese appare quindi una strana contiguità
e commistione di tendenze classicheggianti e barocche,
e ne risulta uno stile in sé contraddittorio: il classicismo
barocco. Il Barocco maturo di Racine e di Le Brun è
frutto del contrasto – nell’uno completamente risolto,
nell’altro tutt’altro che risolto – fra il nuovo stile auli-
co e il rigorismo artistico che deriva i suoi principî for-
mali dal classicismo borghese. È dunque insieme classi-
co e anticlassico, e si vale della materia e della forma,
dell’esuberanza e della contenutezza, della dilatazione e
della concentrazione. Verso il 1680 a questo stile auli-
co e accademico viene a contrapporsi una nuova corrente
di opposte tendenze: opposte, sia alle pose grandiose e
agli ambiziosi soggetti, sia alla presunta fedeltà ai model-
li antichi. Si afferma cosí una concezione piú libera,
individualistica e intima, che dirige il suo spirito di
libertà soprattutto contro il classicismo, non contro il
barocchismo dell’arte aulica. Il successo degli innovato-
ri nella querelle des anciens et des modernes non è che un
sintomo di tale evoluzione. La Reggenza determina il
trionfo della corrente anticlassica e rinnova il gusto
dominante. L’origine sociale della nuova arte non è del
tutto chiara. Il rivolgimento è in parte dovuto alla
nobiltà, liberale di pensiero e antimonarchica di senti-
mento, in parte all’alta borghesia. Ma via via che l’arte
della Reggenza si evolve nel Rococò, assume sempre piú
i caratteri di uno stile aulico-aristocratico, benché fin
dall’inizio porti in sé gli elementi disgregatori della cul-
tura aulica. Anzitutto essa perde il carattere sintetico,
preciso, saldo del classicismo, si mostra sempre piú

Storia dell’arte Einaudi 153


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

avversa a ogni aspetto regolare, geometrico, strutturale


e sempre piú incline all’improvvisazione, al colpo d’oc-
chio, all’epigramma. «Si quelqu’un est assez barbare –
assez classique!»* dice persino Beaumarchais, ben lon-
tano da tendenze auliche. Dal Medioevo in poi, mai l’ar-
te si era allontanata in forma cosí scoperta dagli ideali
classici, mai era stata piú complicata e artificiosa. E
allora, verso il 1750, in pieno Rococò, s’inizia un’altra
reazione. Gli elementi progressisti propugnano, di con-
tro alla moda del tempo, un ideale artistico nuovamen-
te ispirato a un carattere di razionale classicismo. E
invero nessuna forma di classicismo fu mai piú severa,
piú sobria, piú metodica di questa; mai la riduzione
delle forme, la linearità e l’importanza della struttura
furono perseguite con maggior coerenza; mai il tipo e la
norma furono maggiormente accentuati. Nessun classi-
cismo fu cosí chiaro, perché nessuno ebbe mai un carat-
tere cosí rigidamente programmatico, né una cosí reci-
sa volontà di confutare l’arte del tempo, in questo caso
il Rococò. Neppure qui è del tutto evidente da quali ceti
sociali tragga origine il nuovo movimento. I suoi primi
esponenti, Caylus e Cochin, Gabriele Soufflot, cresco-
no sul terreno della cultura aulico-aristocratica, ma pre-
sto si vedrà che dietro di loro sta la forza propulsiva
degli elementi sociali piú avanzati. Una definizione
sociologica del neoclassicismo è tanto piú difficile in
quanto la tradizione del vecchio classicismo barocco non
fu mai del tutto interrotta e nell’eleganza di Vanloo o
di Reynolds essa è viva quanto nella correttezza di Vol-
taire o di Pope. Certi schemi classici restano in uso, nella
pittura e nella poesia, per tutto il periodo dello stile auli-
co, che si estende dal secolo xvii al xviii, e, quanto al
linguaggio poetico, il seguente passo di Pope2 rappre-
senta il classicismo del tempo, cosí perfettamente come
qualunque testo del secolo di Luigi XIV:

Storia dell’arte Einaudi 154


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

See, through this air, this ocean, and this earth,


All matter quick, and bursting into birth.
Above, how high, progressive life may go!
Around, how wide! how deep extend below!
Vast chain of being! which from God began,
Natures ethereal, human, angel, man,
Beast, bird, fish, insect, what no eye can see,
No glass can reach; from infinite to thee,
From thee to nothing**.

Il riserbo razionalistico e la forma levigata, cristalli-


na di questi versi si distinguono invece alla prima dal
tono vibrante di Andrea Chénier in queste righe, altret-
tanto ineccepibilmente classiche, ma già pervase da una
passione nuova:

Allons, étouffe tes clameurs;


Souffre, o cœur gros de haine, affamé de justice.
Toi, Vertu, pleure, si je meurs***.

Quelli sono ancora echi dell’intellettualismo aulicoa-


ristocratico, queste esprimono già il nuovo pathos bor-
ghese, e proprio per bocca di un poeta su cui pesa l’om-
bra della ghigliottina e che cadrà vittima di quella bor-
ghesia rivoluzionaria, il cui gusto classicheggiante trova
in lui il primo grande se pur involontario interprete.
Il neoclassicismo non sorge affatto improvviso, come
spesso è stato detto3. Dalla fine del Medioevo la storia
dell’arte si evolve fra una concezione rigidamente strut-
turale e un’altra formalmente piú libera; l’una affine,
l’altra opposta alla classicità. Nell’arte moderna non c’è
mutamento che apra un’era completamente nuova;
ognuno fa capo all’una o all’altra di queste due tenden-
ze che si avvicendano nel predominio, senza mai giun-
gere a una vittoria definitiva. Quegli studiosi che pre-
sentano il neoclassicismo come una novità assoluta, di

Storia dell’arte Einaudi 155


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

solito fanno notare che esso sorge in un modo tutto par-


ticolare e cioè la sua apparizione non significa uno svi-
luppo dal semplice al complicato, cioè dal lineare al pit-
torico, o dal pittorico al piú intensamente pittorico, ma
invece una frattura nel processo di differenziazione, e
cioè, in certo modo, rappresenta un «salto indietro».
Wölfflin pensa che in questo fenomeno di regressione
«la spinta provenga da condizioni esterne piú chiara-
mente» che non nell’ininterrotto processo di complica-
zione delle fasi precedenti. In realtà non esiste alcuna
differenza essenziale tra i due tipi di sviluppo, solo che
l’influsso delle «condizioni esterne» in un’evoluzione
discontinua è piú evidente che in una rettilinea. Di fatto
queste condizioni hanno sempre un’importanza decisi-
va. In ogni punto, in ogni momento dell’evoluzione, è
sempre aperto il problema dell’indirizzo che la creazio-
ne artistica deve prendere. Anche lo sviluppo nella stes-
sa direzione è una forma di processo dialettico e il risul-
tato di «condizioni esteriori» non meno che i muta-
menti di direzione. La tendenza a ritardare o interrom-
pere lo sviluppo del naturalismo presuppone fattori non
diversi nella sostanza da quelli che determinano il desi-
derio di continuarlo e affrettarlo. L’arte dell’epoca rivo-
luzionaria si distingue dai precedenti classicismi anzi-
tutto per il suo rigorismo formale che giunge a un grado
di esclusiva intransigenza prima sconosciuto, e poi per-
ché conclude definitivamente quell’evoluzione tre volte
secolare che va dal naturalismo del Pisanello all’impres-
sionismo di Guardi4. Eppure non sarebbe giusto negare
ogni tensione, ogni dissidio stilistico nell’arte di David:
la dialettica delle diverse correnti vi pulsa febbrilmente
come nei versi di Chénier e in tutte le opere importan-
ti del periodo rivoluzionario.
Il neoclassicismo, che cronologicamente si situa tra la
metà del Settecento e la Rivoluzione di luglio, non è un
movimento omogeneo, ma si sviluppa in piú fasi esatta-

Storia dell’arte Einaudi 156


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mente distinguibili, sebbene senza soluzione di conti-


nuità. La prima, che dura press’a poco dal 1750 al 1780,
e si suol chiamare del «Rococò classicheggiante» per il
suo ibrido carattere, rappresenta la tendenza storica-
mente piú importante fra quelle che si designano sotto
il termine complessivo del Louis-Seize, ma non è in realtà
che una sottocorrente nella vita artistica del tempo. L’e-
terogeneità delle tendenze in gara si rivela crudamente
nell’architettura che unisce interni rococò a facciate
classicheggianti, senza che tale promiscuità urti i con-
temporanei. In nessun altro fenomeno come in questo
eclettismo si rivela altrettanto chiara l’indecisione del
tempo, incapace di scegliere fra le alternative proposte.
Tra razionalismo e sensualismo, formalismo e sponta-
neità, antico e moderno oscillava già il Barocco, che
tuttavia cercò ancora di risolvere questo dissidio in uno
stile unico, benché non perfettamente omogeneo. Qui
invece si tratta di un’arte che non tenta neppure di
ridurre a un comun denominatore i vari elementi di
stile. Infatti, come vengono immediatamente accostate
l’architettura degli esterni e quella degli interni, cosí
anche nella pittura e nella poesia stanno l’una accanto
all’altra opere di stile affatto diverso: quelle di Boucher,
Fragonard e Voltaire accanto a quelle di Vien, Greuze
e Diderot. Il tempo produce tutt’al piú forme ibride, ma
non giunge a un equilibrio tra gli opposti principî for-
mali. Questo eclettismo corrisponde alla generale strut-
tura della società, in cui i vari strati si mescolano e spes-
so cooperano, pur rimanendo intimamente estranei l’uno
all’altro. Quale sia il rapporto delle forze in arte, lo
dimostra anzitutto la persistente fortuna dell’aulico
Rococò, favorito dalla gran maggioranza degli acqui-
renti, mentre il neoclassicismo rappresenta soltanto un
atteggiamento polemico e costituisce il programma arti-
stico di un gruppo di amatori relativamente esiguo, insi-
gnificante per l’andamento del mercato.

Storia dell’arte Einaudi 157


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Piú di ogni analoga tendenza precedente, questo


nuovo movimento, detto anche «neoclassicismo archeo-
logico», dipende dalla rinnovata esperienza dell’arte
greca e romana. L’interesse teorico per l’antichità clas-
sica neppure qui però è l’elemento primario; esso pre-
suppone un mutamento di gusto, e questo, a sua volta,
uno spostamento nei valori della vita. Per il Settecento
l’arte classica assume tanta attualità, perché, fattasi
ormai troppo morbida e fluida la tecnica pittorica, trop-
po frivoli colori e toni, ci si sente attratti verso un’arte
piú aspra, piú severa e piú obiettiva. Verso la metà del
secolo, all’apparire delle nuove tendenze classicheg-
gianti, il classicismo del grand siècle è morto da cin-
quant’anni: l’arte si è abbandonata alla stessa sensualità
che domina tutto il secolo. La severità dell’ideale neo-
classico che ora si riafferma non è, o almeno non è in
prima istanza, questione di gusto e di valutazione este-
tica; è invece un fatto di costume, esprime un intento
di semplicità e di schiettezza. Il mutamento di gusto che
fa dimenticare il fascino della sensualità visiva, la varietà
e la sfumatura dei colori, l’irruente pienezza e la fuga
travolgente delle impressioni e comincia a far dubitare
del valore di tutto quel che da mezzo secolo costituisce
la quintessenza dell’arte per gli intenditori, questa inau-
dita semplificazione, questo livellamento dei criteri este-
tici significa il trionfo di un nuovo ideale di vita, oppo-
sto all’edonismo dell’epoca. L’aspirazione di Winckel-
mann alla pura, chiara, semplice linea, alla regolarità e
alla disciplina, alla quiete e all’armonia, alla «nobile
semplicità e alla tranquilla grandezza» è anzitutto una
protesta contro la finzione e l’artificio, il vacuo virtuo-
sismo e gli orpelli del Rococò, che ora si comincia a con-
siderare abietto e degenerato, morboso e contro natura.
Accanto a quelli che, come Vien e Falconet, Mengs
e Batoni, Benjamin West e William Hamilton, seguono
con entusiasmo in tutta Europa la nuova corrente, ci

Storia dell’arte Einaudi 158


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sono innumerevoli artisti e amatori, critici e collezioni-


sti, che si limitano a civettare con la rivolta contro il
Rococò e solo esteriormente vanno con la moda neo-
classica. Per lo piú non fanno che diffondere un movi-
mento la cui vera origine e il fine ultimo rimangono loro
celati. Teoricamente, anche il direttore dell’Accademia,
Antoine Coypel, si accosta al classicismo, e il conte Cay-
lus, l’illustre collezionista e archeologo, si mette anzi a
capo del movimento. Nel 1748 il surintendant de Mari-
gny, fratello di Madame de Pompadour, intraprende,
con Soufflot e Cochin, un viaggio di studio in Italia,
dando inizio all’usanza dei pellegrinaggi nel Sud. Con
Winckelmann comincia la ricerca archeologica sistema-
tica, per opera di Mengs la corrente neoclassica ha il
sopravvento a Roma e in Piranesi l’esperienza archeo-
logica diventa soggetto dell’arte. Il neoclassicismo si
distingue dai movimenti classicheggianti piú antichi
soprattutto perché concepisce l’antico e il moderno
come due tendenze nemiche, inconciliabili5. Mentre tut-
tavia in Francia si stabilisce un equilibrio fra le tenden-
ze antagonistiche, e il classicismo, specie in David, è
anche un progresso del naturalismo, per lo piú negli
altri paesi d’Europa il nuovo movimento non produce
che un’esangue accademia, senz’altro fine che l’imita-
zione dell’antico.
Generalmente si ritiene che siano stati gli scavi di
Pompei (1748) a dare la spinta, decisiva al nuovo clas-
sicismo archeologico. Ma quest’impresa ha potuto avere
tali conseguenze perché essa stessa era stata promossa da
un nuovo interesse e una sensibilità nuova: del resto i
primi scavi, condotti a Ercolano già nel 1737, erano
rimasti senza effetti di rilievo. Il nuovo orientamento si
produce appunto verso la metà del secolo. Di qui comin-
cia l’attività internazionale della scienza archeologica e
il movimento, ugualmente internazionale, dell’arte neo-
classica, che non sarà piú dominata dai francesi, benché

Storia dell’arte Einaudi 159


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

la scuola di David abbia propaggini in tutta Europa. Gli


scavi sono all’ordine del giorno; tutti gl’intellettuali
d’Occidente se ne interessano. La raccolta di antichità
è ormai una vera passione; per opere d’arte classica si
pagano somme notevoli e dappertutto sorgono gliptote-
che, collezioni di vasi e di gemme. Un viaggio di studio
in Italia non è piú soltanto un’esperienza mondana, ma
lo si considera elemento indispensabile nell’educazione
di un giovane della buona società. L’artista, il poeta e
chiunque abbia interessi di natura intellettuale si ripro-
mettono il piú gran profitto dall’esperienza diretta dei
monumenti antichi. Il viaggio in Italia di Goethe, la sua
collezione di antichità, la stanza di Hera nella sua casa
di Weimar, con il busto colossale della dea, che minac-
cia di far scoppiare le pareti di quell’ambiente borghe-
se, tutto questo è come un simbolo di quest’epoca. Ma
il nuovo culto dell’antico, proprio come l’entusiasmo,
quasi contemporaneo, per il Medioevo, è una manife-
stazione essenzialmente romantica; ora infatti anche
l’antichità classica appare una impareggiabile primave-
ra della civiltà umana, scomparsa per sempre, come lo
«stato di natura» di Rousseau. In questa concezione si
ritrovano concordi Winckelmann, Lessing, Herder,
Goethe e tutti i romantici tedeschi. Tutti scorgono nel-
l’antico una fonte di salute e di rinnovamento, un esem-
pio di genuina e perfetta umanità, quale non sarebbe piú
tornata. Non è un caso che il preromanticismo coincida
con gli inizi dell’archeologia, e Rousseau e Winckel-
mann siano contemporanei; lo spirito dell’epoca si espri-
me in una medesima filosofia nostalgica sia quando guar-
da all’antichità, sia quando guarda al Medioevo. Il neo-
classicismo, come il preromanticismo, si oppongono al
Rococò frivolo e raffinato; entrambi sono permeati dello
stesso spirito borghese. Il Rinascimento vedeva l’anti-
chità con gli occhi degli umanisti e ne rifletteva le idee
antiscolastiche e anticlericali; l’arte del Seicento inter-

Storia dell’arte Einaudi 160


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pretava il mondo dei Greci e dei Romani secondo l’eti-


ca feudale della monarchia assoluta; il classicismo della
Rivoluzione è legato all’ideale repubblicano e stoico
della borghesia progressista e vi rimane fedele in tutte
le sue manifestazioni.
Nel terzo venticinquennio del secolo è ancora vivis-
simo l’antagonismo degli stili. Il classicismo è ancora
impegnato nella lotta ed è la piú debole delle due ten-
denze rivali. Fin verso il 1780 in realtà si limitò per lo
piú a una polemica teorica con l’arte aulica; soltanto piú
tardi, specialmente dall’avvento di David, il Rococò si
può dire superato. Il successo degli Orazi nel 1785 con-
clude un trentennio di battaglie e segna il trionfo del
nuovo stile monumentale. Con l’arte della Rivoluzione,
che all’incirca va dal 1780 fino al 1800, s’inizia per il
classicismo una nuova fase. Alla vigilia della Rivoluzio-
ne, queste, press’a poco, erano le tendenze della pittu-
ra francese: 1) la tradizione del Rococò sensuale e colo-
ristico, viva nell’arte di Fragonard; 2) il sentimentali-
smo, rappresentato da Greuze; 3) il naturalismo bor-
ghese di Chardin; 4) il classicismo di Vien. La Rivolu-
zione scelse quest’ultimo stile come il piú adeguato,
benché si debba ammettere che assai meglio le conve-
nissero le tendenze rappresentate da Greuze e Chardin.
Ma occorre tener presente che la scelta non fu fatta in
base a criteri di gusto e di forma, non tenendo presen-
te quel principio dell’interiorità e dell’intimità che
discendeva dall’ideale dell’arte borghese nel tardo
Medioevo e nel primo Rinascimento; ci si chiese invece
quale fosse lo stile piú appropriato a rappresentare con
la massima efficacia l’ethos della Rivoluzione, i suoi
ideali patriottici ed eroici, le sue virtú civili memori di
Roma e la sua libertà repubblicana. Amore di libertà e
di patria, eroismo e abnegazione, rigore spartano e stoi-
cismo subentrano ora a quei concetti morali, che la bor-
ghesia aveva sviluppato nel corso della sua ascesa eco-

Storia dell’arte Einaudi 161


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nomica e che infine si erano indeboliti e svuotati a tal


punto, che l’alta borghesia aveva potuto diventare uno
dei maggiori sostegni della cultura rococò. Quindi i pre-
cursori e i campioni della Rivoluzione dovevano oppor-
si con ugual rigore alle aspirazioni dei fermiers généraux
e alla douceur de vivre dell’aristocrazia. Ma non poteva-
no neppure appoggiarsi alla visione amabile, patriarca-
le, antieroica della borghesia dei secoli precedenti: solo
grazie a un’arte militante potevano sperare di giungere
ai loro scopi. Ma a questo si prestava, piú che ogni altra
tendenza del momento, il classicismo di Vien e della sua
scuola.
Del resto, anche l’arte di Vien era ancora piena di fri-
volezza e di civetteria, e legata per tanti aspetti al
Rococò, come d’altronde lo era anche la pittura borghe-
se-sentimentale di Greuze. Il classicismo in lui non era
che un tributo alla moda, che l’artista seguiva con zelo
pedantesco. Nelle sue leziose scene erotiche, classico era
soltanto il tema, e pseudoclassica la maniera; ma lo spi-
rito e il gusto erano puro Rococò. Nessuna meraviglia se
il giovane David intraprese il suo viaggio in Italia riso-
luto a non incappare nelle seduzioni dell’antico6. Un pro-
posito che meglio d’ogni altra cosa dimostra quale
profonda differenza corra tra il Rococò classicheggiante
e il classicismo rivoluzionario della generazione succes-
siva. Se David ha potuto nonostante tutto diventare il
propugnatore e il massimo esponente dell’arte neoclassi-
ca, ciò si deve al nuovo significato che il neoclassicismo
venne assumendo, sí da perdere il suo primitivo caratte-
re estetizzante. Ma David con la sua nuova interpreta-
zione non riuscí subito ad affermarsi. Dapprima nulla
faceva prevedere che avrebbe raggiunto quell’autorità
assoluta, ch’egli acquistò con gli Orazi e che perse sol-
tanto con la Restaurazione. Insieme con David c’era a
Roma tutto un gruppo di giovani artisti francesi, che
ebbero uno sviluppo simile al suo. Il Salon del 1781 fu

Storia dell’arte Einaudi 162


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dominato da questi giovani «romani» orientati verso un


piú severo classicismo, che ancora consideravano come
loro capo Ménageot. I quadri di David erano troppo
rigidi, troppo seri per il gusto del tempo. Solo a poco a
poco la critica s’accorse che proprio essi rappresentava-
no il trionfo di quelle idee, che si cercava di affermare
contro il Rococò7. Ma per David i tempi furono presto
maturi ed egli ebbe intera soddisfazione. Il Giuramento
degli Orazi fu uno dei piú grandi successi della storia del-
l’arte. Il trionfo di quest’opera cominciò in Italia, dove
David l’espose nel suo studio. Si andava in pellegrinag-
gio a vederla, vi si deponevano fiori, e Vien, Batoni,
Angelica Kauffmann, Wilhelm Tischbein, cioè i piú sti-
mati artisti di Roma, erano concordi nel lodare il giova-
ne maestro. A Parigi, al Salon del 1785, il trionfo conti-
nuò. Gli Orazi furono detti «il piú bel quadro del seco-
lo» e si considerò l’impresa di David veramente rivolu-
zionaria. Ai contemporanei l’opera parve quanto di piú
ardito e nuovo si potesse immaginare, la perfetta attua-
zione dell’ideale neoclassico. La scena era ridotta a
pochissime figure, quasi senza comparse, senza accesso-
ri. I protagonisti del dramma, a dimostrare la loro con-
cordia e la loro risoluzione di morire insieme, se neces-
sario, per il loro fine, erano inclusi in una sola linea, rigi-
da e ininterrotta: intransigenza formale che permetteva
al pittore un effetto senza precedenti in tutta l’espe-
rienza artistica della sua generazione. Egli sviluppò il suo
classicismo in linearismo puro, rinunziando a ogni effet-
to sensualmente pittorico e ad ogni concessione che ridu-
cesse il quadro a una festa per gli occhi. I mezzi di cui
egli si serviva erano rigorosamente razionali, precisi,
puritani e subordinavano al principio dell’economia tutta
la struttura dell’opera. La precisione e l’obiettività, la
riduzione al puro necessario e l’energia spirituale che
emanava da tale concentrazione espressiva, rispondeva-
no allo stoicismo della borghesia rivoluzionaria meglio di

Storia dell’arte Einaudi 163


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

qualunque altra corrente artistica. Qui si univano gran-


dezza e semplicità, dignità e sobrietà. Gli Orazi sono stati
giustamente chiamati «il quadro neoclassico per eccel-
lenza»8. L’opera rappresenta l’ideale stilistico del suo
tempo, cosí compiutamente come la Cena leonardesca l’e-
stetica del Rinascimento, Se mai è possibile interpreta-
re sociologicamente una pura forma artistica, è questo il
caso. Questa espressione chiara, intransigente, netta,
indubbiamente ha la sua radice nelle virtú repubblicane;
qui davvero la forma non è che un veicolo, un mezzo ade-
guato allo scopo. Che tuttavia i ceti superiori aderissero
a questo classicismo – dopo quanto sappiamo sulla forza
di attrazione dei movimenti fortunati – non stupisce,
come non stupisce il fatto che il governo lo favorisse.
Com’è noto, il Giuramento degli Orazi fu dipinto per il
Ministero delle Belle Arti. Di fronte alle tendenze sov-
versive, non si era in arte meno ignari o irresoluti che in
politica.
Nel 1789 viene esposto il Bruto, l’opera per cui David
giunge al colmo della gloria; ma nel favore con cui il pub-
blico accoglie l’opera non entrano affatto considerazio-
ni formali. Le fogge e il patriottismo romano sono diven-
tati la moda dominante e un simbolo universale, cui si
ricorre tanto piú volentieri, in quanto ogni altra analo-
gia, ogni altro parallelo storico ricorderebbe l’ideale
eroico della cavalleria. Ma le premesse vere del moder-
no amor di patria non hanno nulla a che vedere con i
Romani. Le sue radici sono nell’atmosfera di quest’e-
poca in cui la Francia deve difendere la sua libertà non
contro un avido vicino o un sovrano straniero di tipo
feudale, ma contro un mondo ostile, diverso da essa in
tutta la sua struttura sociale e che nella Francia combatte
la Rivoluzione. La Francia rivoluzionaria pone l’arte al
servizio di questa lotta con perfetta ingenuità; «l’art
pour l’art» è un’invenzione dell’Ottocento. Proprio nel-
l’ambito dell’opposizione romantica all’illuminismo e

Storia dell’arte Einaudi 164


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

alla Rivoluzione viene formulato per la prima volta il


principio dell’arte «pura», «gratuita», e solo quando le
classi dominanti temono di perdere il loro influsso sul-
l’arte si comincia ad esigere l’indifferenza dell’artista. Il
Settecento continua a servirsi dell’arte per i suoi fini
pratici, con la stessa disinvoltura dei secoli precedenti;
ma fino alla Rivoluzione questa prassi era stata incon-
scia negli artisti, e tanto meno essi pensavano di farne
un programma. Soltanto con la Rivoluzione l’arte diven-
ta una professione di fede politica, solo allora si dichia-
ra espressamente che essa non deve essere un «sempli-
ce ornamento dell’edificio sociale», ma «parte fonda-
mentale» di esso9. L’arte, si dice, non dev’essere un
vano passatempo, un vellicamento dei sensi, né un pri-
vilegio dei ricchi e degli oziosi ma deve istruire e miglio-
rare, spronare all’azione e servire d’esempio. Dev’esse-
re pura, vera, ispirata ed esaltante, contribuire alla feli-
cità di tutti e diventare patrimonio dell’intera nazione.
Era un programma ingenuo, come ogni riforma astratta
in campo artistico, e la sua sterilità dimostrò che una
rivoluzione deve mutare una società prima di poterne
mutare l’arte, benché anche l’arte sia un mezzo per quel
mutamento e sia legata al processo sociale da un com-
plicato gioco di interazioni. Del resto, in arte il pro-
gramma rivoluzionario non mirava a estendere il godi-
mento estetico ai ceti esclusi dal privilegio della cultu-
ra, ma appunto a mutare la società, ad approfondire il
sentimento di un vincolo comune e a creare la coscien-
za delle conquiste rivoluzionarie10. La tutela dell’arte
costituí d’ora in poi uno strumento di governo, e vi si
dedicò un’attenzione che prima si riservava agli affari di
stato. Finché la repubblica è in pericolo e combatte per
la propria vita, ognuno deve servirla con tutte le sue
forze. In un indirizzo di David alla Convenzione è
detto: «Ognuno di noi deve render conto alla Nazione
del talento che ha ricevuto dalla Natura»11. E Hassen-

Storia dell’arte Einaudi 165


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

fratz, membro della giuria nel Salon del 1793, cosí for-
mula la corrispondente teoria estetica: «Tutto il talen-
to di un artista è nel suo cuore; ciò ch’egli fa con le mani
non ha importanza»12.
In questo campo la parte di David è senza preceden-
ti. Egli è membro della Convenzione e, già come tale,
esercita un influsso notevole; ma è anche l’uomo di fidu-
cia e il portavoce del governo rivoluzionario in ogni
questione d’arte. Dopo Le Brun nessun artista era stato
cosí potente; ma il prestigio personale di David è incom-
parabilmente maggiore della considerazione che circon-
dava il factotum di Luigi XIV. Non solo egli è il ditta-
tore artistico della Rivoluzione e l’autorità da cui dipen-
dono tutta la propaganda artistica, l’organizzazione di
tutte le grandi feste e solennità, l’Accademia con tutte
le sue funzioni, l’intero complesso dei musei e delle
mostre; ma è il promotore di una particolare rivoluzio-
ne artistica, quella révolution davidienne da cui, in parte,
procede l’arte moderna. È il fondatore di una scuola
senza pari nella storia per ampiezza, prestigio e durata.
Vi appartengono quasi tutti i giovani d’ingegno; e,
nonostante le avversità toccate al maestro, nonostante
la fuga, l’esilio e il cedimento della sua forza creativa,
essa rimane fino alla Rivoluzione di luglio non solo la
scuola piú importante, ma la «scuola» della pittura fran-
cese. Anzi, essa diventa la scuola di tutto il classicismo
europeo, e il suo fondatore, che è stato chiamato il
Napoleone della pittura, esercita per mezzo suo un’au-
torità che, nella sua sfera, può ben paragonarsi a quella
del conquistatore del mondo. L’influsso del maestro va
oltre il 9 termidoro, oltre il 18 brumaio e l’avvento di
Napoleone al trono; e non perché allora David sia il piú
grande pittore di Francia, ma perché il suo classicismo
rappresenta la concezione artistica meglio rispondente
agli scopi politici del Consolato e dell’Impero. Questo
sviluppo, unitario per quanto riguarda i compiti asse-

Storia dell’arte Einaudi 166


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

gnati all’arte, subisce un’interruzione solo durante il


periodo del Direttorio che, diversamente dall’epoca
della Rivoluzione e da quella dell’Impero, presenta un
carattere straordinariamente frivolo, edonistico, este-
tizzante e gaudente13. Sotto il Consolato, quando i fran-
cesi vengono continuamente esortati all’eroismo roma-
no, e durante l’Impero, che nella propaganda politica si
richiama all’Impero romano come un tempo la Rivolu-
zione si richiamava alla repubblica, il classicismo rima-
ne lo stile ufficiale dell’arte francese. Ma la pittura di
David, pur coerente nel suo sviluppo, porta i segni di
quella trasformazione che vanno subendo la società e il
governo del paese. Già sotto il Direttorio il suo stile –
soprattutto nelle Sabine – si mostra piú tenero, piace-
vole, deviando dall’intransigente severità degli anni
rivoluzionari. E sotto l’Impero egli rinunzia di nuovo
all’elegante lusinga e all’artificio del suo stile Direttorio,
ma devia dalle mete giovanili in un’altra direzione. Lo
stile Impero del maestro contiene in realtà, portate in
campo artistico, tutte le contraddizioni del potere napo-
leonico. Questo infatti non rinnega mai del tutto la sua
origine rivoluzionaria e distrugge una volta per sempre
la speranza di una restaurazione dei privilegi di casta; ma
nello stesso tempo continua inesorabilmente la liquida-
zione del patrimonio rivoluzionario, cominciata il 9 ter-
midoro, e non solo assicura la potenza della borghesia
capitalistica e dei contadini ricchi, ma instaura una dit-
tatura politica che limita i diritti di queste classi al Codi-
ce civile. Analogamente anche l’arte di David durante
l’Impero è una sintesi che non risolve le opposte ten-
denze, e nella quale a poco a poco il carattere ufficiale
prevale sul naturalismo, la convenzione sulla sponta-
neità.
I compiti che David, come premier peintre di Napo-
leone, deve assolvere, innegabilmente giovano alla sua
arte, che ritrova in questo modo l’immediato contatto

Storia dell’arte Einaudi 167


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

con la realtà storica, e gli offrono l’occasione di cimen-


tarsi con il problema del grande quadro celebrativo; ma
nello stesso tempo irrigidiscono il suo classicismo e sve-
lano per la prima volta i segni di quell’accademia che riu-
scirà fatale a lui e alla sua scuola. Delacroix chiamò
David «padre dell’intera scuola moderna», e tale egli fu
sotto un duplice aspetto: come creatore del nuovo natu-
ralismo borghese che, specie nel ritratto, esprimeva la
dignità di un costume severo, semplice, alieno da ogni
teatralità; e come rinnovatore appunto del quadro sto-
rico e della pittura di cerimonia. Grazie a questi com-
piti di corte, David, dopo la superficiale eleganza e i fri-
voli esercizi formali del tempo del Direttorio, riacqui-
sta molto dell’antica obiettività e naturalezza. I proble-
mi ch’egli ora ha da risolvere non sono piú campati in
aria come nel caso delle Sabine, ma nascono dall’imme-
diata, attuale realtà. Soggetti come l’Incoronazione
(1805-808) o le Aquile (1810) riescono per l’artista piú
stimolanti di quanto egli stesso forse si aspettasse. In
queste scene manca l’impeto drammatico del Giura-
mento nella sala della pallacorda, ma in compenso vi è
un’impostazione piú semplice, meno teatrale, piú giusta.
Cosí David si allontana sempre piú dal Settecento e
dalla tradizione del Rococò e, in contrasto con il genia-
le individualismo delle sue opere giovanili, crea uno stile
obiettivo, di cui l’Accademia potrà fare cattivo uso, ma
che troverà continuatori. Per altro l’intimo dissidio, che
minaccia la sua arte dai tempi del Direttorio, nemmeno
in questa fase viene del tutto superato. Accanto alle
cerimonie ufficiali per cui trova una soluzione soddi-
sfacente, egli dipinge scene di soggetto classico, come la
Saffo (1809) o il Leonida (1812), artificiosi e manierati
quanto le Sabine. L’antico ha cessato di ispirare David
e anche per lui, come per i suoi contemporanei, diven-
ta pura convenzione. Quando gli si assegnano compiti

Storia dell’arte Einaudi 168


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pratici, egli produce ancora opere magistrali; ma quan-


do vuole elevarsi al di sopra della realtà, fallisce.
L’intima contraddizione dell’arte davidiana, il con-
trasto fra l’astratto, esangue idealismo delle composi-
zioni mitologiche e classiche e il succoso naturalismo dei
ritratti si acuisce ancora negli anni dell’esilio a Bruxel-
les. Quando egli riprende contatto con la vita, ogni
volta che dipinge un ritratto, continua ad essere il gran-
de maestro d’un tempo; quando invece s’abbandona alle
illusioni neoclassiche, prive ormai di ogni rapporto con
il presente e ridotte a un gioco artificioso, non solo egli
ci appare fuori moda, ma spesso anche di cattivo gusto.
Per la sociologia dell’arte il caso di David è di speciale
importanza, perché forse nella storia dell’arte non c’è un
altro esempio che confuti in modo cosí perentorio la tesi
dell’incompatibilità tra fini politici e schietta qualità
artistica. Quanto piú intimamente David fu legato alla
politica, quanto piú l’arte sua fu al servizio di compiti
di propaganda, tanto piú valide furono le sue opere. Al
tempo della Rivoluzione, quando ogni suo pensiero face-
va capo alla politica, dipingendo il Giuramento della pal-
lacorda e il Marat, egli raggiunse le sue espressioni piú
alte. Durante l’Impero, quando almeno egli poteva far
propri i fini patriottici di Napoleone e non aveva dubbi
su quanto, nonostante tutto, la Rivoluzione dovesse al
dittatore, la sua arte rimase, quando si trattava di com-
piti pratici, viva e creatrice. Ma piú tardi, a Bruxelles,
quand’egli perdette ogni rapporto con la realtà politica
e non fu piú che un pittore, toccò il livello piú basso
della sua carriera. Ora, anche se ciò non prova che un
artista debba nutrire interessi politici e sentimenti pro-
gressisti per dipinger buoni quadri, prova tuttavia che
tali interessi e sentimenti non impediscono affatto i
buoni quadri.
Spesso si è detto che artisticamente la Rivoluzione è
stata sterile e non è uscita dai limiti di uno stile che non

Storia dell’arte Einaudi 169


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

era se non la continuazione e il perfezionamento del vec-


chio Rococò classicheggiante. Si è detto e ripetuto che
quell’arte si poteva chiamar rivoluzionaria solo per i
soggetti e le idee, ma non per le forme e lo stile14.
Piú o meno, la Rivoluzione aveva effettivamente tro-
vato il neoclassicismo bell’e pronto, ma gli diede in
parte un contenuto e un senso nuovo. Il classicismo
rivoluzionario apparirà poco originale e sterile solo nella
prospettiva livellatrice dei posteri; i contemporanei
erano perfettamente consci della differenza stilistica che
correva tra David e i suoi predecessori. Quanto audaci
e sovversive apparissero allora le innovazioni davidiane,
lo provano meglio di tutto le parole del Pierre, diretto-
re dell’Accademia, che chiamò la composizione degli
Orazi un «attacco al buon gusto», perché deviava dal
solito schema piramidale15. Ma il vero portato stilistico
della Rivoluzione non è questo classicismo, bensí il
romanticismo; non l’arte di cui essa si servì, ma quella
a cui preparò il terreno. La Rivoluzione in sé non pote-
va attuare il nuovo stile, perché poteva certo vantare
prospettive politiche, nuove istituzioni sociali, nuove
norme giuridiche, ma non una nuova società con un suo
proprio linguaggio. Per un’arte nuova esistevano sol-
tanto le premesse. Di fronte all’evoluzione politica l’ar-
te non riuscí a tenere il passo e in parte, come già nota-
va Marx, continuò a esprimersi in forme antiquate16.
Non sempre scrittori e artisti sono profeti e l’arte ora
arranca dietro i tempi, ora li precorre.
Anche il romanticismo preparato dalla Rivoluzione si
fonda in realtà su un analogo movimento piú antico; ma
preromanticismo e romanticismo sono fra loro ancora
meno affini delle due forme del neoclassicismo. Non
costituiscono affatto le due fasi di un movimento omo-
geneo, che abbia subito un’interruzione nel suo natura-
le sviluppo17. Il preromanticismo con la Rivoluzione
subisce l’ultima e definitiva sconfitta. L’irrazionalismo

Storia dell’arte Einaudi 170


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rinasce poi, ma la sensibilità settecentesca è già defini-


tivamente morta. Il romanticismo che fiorisce dopo la
Rivoluzione rispecchia un nuovo senso del mondo e
della vita, e matura anzitutto una nuova interpretazio-
ne della libertà artistica. Questa non è piú un privilegio
del genio, ma il diritto innato di ogni artista e di ogni
individuo d’ingegno. I preromantici riconoscevano solo
al genio il diritto di scostarsi dalla regola; i romantici
negano in generale la validità delle regole. Ogni espres-
sione individuale è unica, insostituibile e ha in sé le sue
leggi e la sua misura: questa è nell’arte la grande con-
quista della Rivoluzione. Il romanticismo diventa cosí
lotta per la libertà, condotta non solo contro le accade-
mie, le Chiese, le corti, i mecenati, gli amatori, i criti-
ci, i maestri, ma contro il principio stesso della tradi-
zione, dell’autorità e della regola. Questa lotta non è
concepibile senza l’atmosfera spirituale creata dalla
Rivoluzione da cui essa ebbe inizio ed efficacia. Tutta
l’arte moderna, in certa misura, risulta da questo movi-
mento romantico di liberazione. Per quanto ancora si
parli di immortali norme estetiche, di valori artistici
eternamente umani, della necessità di criteri obiettivi e
di convenzioni vincolanti, l’emancipazione dell’indivi-
duo, il rifiuto di ogni autorità estranea, l’insofferenza di
ogni barriera, di ogni divieto sono e rimangono i prin-
cipî vitali dell’arte moderna. L’artista del nostro tempo,
per quanto possa aderire con entusiasmo a scuole, grup-
pi, movimenti, partecipando alla loro lotta e al loro
destino, appena dipinge, compone musica o poesia, è
solo e conscio della sua solitudine. L’arte moderna è l’e-
spressione dell’uomo solitario, dell’individuo che si
sente diverso dagli altri come un essere tragico o bene-
detto. La Rivoluzione e il romanticismo significano la
fine di un’epoca in cui l’artista si volgeva ancora a una
«società», a un gruppo piú o meno vasto ma in com-
plesso omogeneo, a un pubblico di cui egli riconosceva

Storia dell’arte Einaudi 171


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

per principio l’autorità assoluta. L’arte non ha piú quel


carattere sociale per cui il giudizio si conforma a criteri
obiettivi e convenzionali, è ormai un’espressione, che
trae da se stessa la misura secondo la quale vuol esser
giudicata; insomma, essa diventa il mezzo che permet-
te al singolo di parlare ai singoli. Fino all’età romantica
non ebbe mai grande importanza se e in qual misura il
pubblico si componesse di veri intenditori; artisti e poeti
cercavano comunque di soddisfare i suoi desiderî; inve-
ce romantici e postromantici non si sottomettono piú al
gusto e alle richieste di alcun gruppo, sempre pronti ad
appellarsi contro il giudizio di un foro a un altro foro.
C’è una continua tensione, un’eterna polemica fra il
pubblico e l’opera loro; si costituiscono sempre nuovi
gruppi di esperti e di amatori, ma sempre instabili, sí che
rimane distrutta ogni continuità di rapporti fra il pub-
blico e l’arte.
La comune origine rivoluzionaria del classicismo davi-
diano e della pittura romantica si rivela anche nel fatto
che questa non comincia come atteggiamento contrario
ai neoclassici, né disgrega dall’esterno la scuola di David,
ma nasce proprio fra gli allievi piú dotati e piú vicini al
maestro, Gros, Girodet, Guérin. Le due tendenze si
separano nettamente solo tra il 1820 e il 1830, quando
il romanticismo diventa lo stile dell’avanguardia artisti-
ca, il classicismo quello degli elementi conservatori che
giurano ancora sull’assoluta autorità di David. Al gusto
personale di Napoleone e alla natura dei compiti ch’egli
assegnava al suoi artisti rispondeva ottimamente l’ibri-
da forma classico-romantica trovata da Gros. Nelle
opere romantiche Napoleone cercava uno svago dal suo
pratico razionalismo ed era incline al sentimentale, appe-
na cessava di veder l’arte come strumento di propagan-
da. Questo spiega la sua predilezione per Ossian e Rous-
seau in letteratura e per il pittoresco nell’arte figurati-
va18. Nominando David suo pittore di corte, egli non

Storia dell’arte Einaudi 172


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

fece che seguire l’opinione pubblica; le sue, simpatie in


realtà andavano a Gros, a Gérard, a Vernet, a Prudhon
e ai pittori «aneddotici» del suo tempo19. Tutti del resto,
il delicato Prudhon come il robusto David, dovevano
dipingere battaglie e vittorie, cerimonie e festeggia-
menti. Ma il vero pittore dell’Impero, il pittore napo-
leonico per eccellenza, era Gros, che dovette la sua fama
– riconosciutagli concordemente da aderenti e avversa-
ri della scuola davidiana – in parte al suo modo impres-
sionante di rappresentare una scena, spesso con pano-
ramica immediatezza, in parte alla sua nuova concezio-
ne morale della scena di battaglia. Com’è noto, egli fu
il primo a rappresentare la guerra da un punto di vista
umanitario, mostrando anche i lati per nulla eroici dei
fatti cruenti. Lo strazio era cosí grande, che non lo si
poteva piú dissimulare; la cosa piú ragionevole era non
tentarlo neppure.
In arte l’ideologia dell’Impero si espresse in un eclet-
tismo che combinava e variava le tendenze stilistiche già
esistenti. Le contraddizioni interne di quest’arte corri-
spondevano alle antinomie politiche e sociali del gover-
no napoleonico. Il gran problema che l’Impero tentò di
risolvere era quello di conciliare le conquiste democra-
tiche della Rivoluzione con le forme dell’assolutismo
monarchico. Un ritorno puro e semplice all’ancien régi-
me era per Napoleone impensabile, come era impossibi-
le perdurare nell’«anarchia» rivoluzionaria. Occorreva
trovare una forma politica che rappresentasse una con-
ciliazione e un compromesso fra il vecchio e il nuovo
stato, la nuova e l’antica nobiltà, il livellamento sociale
e la nuova ricchezza che si andava costituendo. All’an-
cien régime erano estranee sia l’idea di libertà che quel-
la di uguaglianza. La Rivoluzione tentò di realizzarle
entrambe, ma finí col rinunziare alla seconda. Napoleo-
ne volle salvare il principio di uguaglianza, ma vi riuscí
solo sul piano giuridico; su quello economico e sociale

Storia dell’arte Einaudi 173


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’antica disuguaglianza prerivoluzionaria finí per preva-


lere. Politicamente l’uguaglianza si risolse nel fatto che
tutti ugualmente erano privati di ogni diritto. Delle con-
quiste rivoluzionarie non sopravvissero che la libertà
civile della persona, l’uguaglianza di fronte alla legge, l’a-
bolizione dei privilegi feudali, la libertà di culto e l’ac-
cessibilità delle cariche per ogni cittadino. Il che, certo,
non era poco; ma la logica dell’autoritarismo e le ambi-
zioni auliche di Napoleone condussero alla riabilitazio-
ne della nobiltà e della Chiesa e, nonostante lo sforzo
di tener fede ai principî fondamentali della Rivoluzio-
ne, crearono alla fine un’atmosfera antirivoluzionaria20.
La conclusione del Concordato e la conseguente rina-
scita religiosa diedero un potente impulso al romantici-
smo. Già in Chateaubriand esso appare strettamente
connesso con idee di rinnovamento cattolico e inclina-
zioni legittimistiche. Il Génie du Christianisme, che
apparve l’anno dopo il Concordato e fu la prima opera
tipica del romanticismo francese, conobbe un successo
ignoto a qualsiasi opera letteraria del Settecento. Tutta
Parigi lo lesse, e il Primo Console passò molte sere ad
ascoltare la lettura di certe parti. La sua pubblicazione
segna il sorgere del partito clericale e il tramonto dei
«filosofi»21. Con Girodet la reazione romantico-clerica-
le si estende all’arte e affretta la disgregazione del neo-
classicismo. Durante gli anni della Rivoluzione non si
esponevano quadri di soggetto sacro22. La scuola di
David da principio respinse questo genere; ma la diffu-
sione del romanticismo moltiplicò le scene sacre, e que-
sti soggetti finirono col penetrare anche nell’ambiente
neoclassico.
La rinascita religiosa ha inizio con la reazione politi-
ca sotto il Consolato. Anch’essa contribuisce a liquida-
re la Rivoluzione e viene accolta con entusiasmo dalla
classe dominante. Ma presto l’universale giubilo ammu-
tolisce sotto il peso dei sacrifici durissimi, che l’avven-

Storia dell’arte Einaudi 174


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tura napoleonica impone al paese; inoltre la creazione


della nuova nobiltà militare e i tentativi di riconcilia-
zione con la vecchia aristocrazia smorzano la baldanza
dei ricchi borghesi. Ma i giorni aurei per i fornitori del-
l’esercito, i mercanti di cereali e gli speculatori comin-
ciano appena, e nella lotta per il predominio sociale la
vittoria alla fine è della borghesia, benché non sia piú la
stessa dei tempi della Rivoluzione. Del resto, anche
nella Rivoluzione i suoi fini non erano mai stati cosí
altruistici come di solito si pretende. La borghesia facol-
tosa già da gran tempo era creditrice dello stato e aveva
sempre piú ragione di temerne la bancarotta, protraen-
dosi la cattiva amministrazione della corte. Combatten-
do per un ordine nuovo, essa mirava soprattutto a garan-
tirsi le proprie rendite. Questa circostanza spiega l’ap-
parente paradosso di una Rivoluzione compiuta invece
che dai meno abbienti, da una delle classi piú ricche23.
Non fu certo la rivoluzione del proletariato e della pic-
cola borghesia povera, bensí dei ceti possidenti e mer-
cantili, cioè di una classe di cui i privilegi nobiliari
disturbavano l’espansione economica, ma non minac-
ciavano l’esistenza24. Probabilmente però la lotta rivo-
luzionaria non sarebbe stata vittoriosa senza l’aiuto dei
lavoratori e degl’infimi strati della borghesia. E se è vero
che l’alta borghesia non appena ebbe conseguito i suoi
fini, si liberò dei suoi alleati e volle esser sola a godere
i frutti della lotta comune, pure la vittoria della Rivo-
luzione finí col giovare a tutti i ceti privi di diritti e
oppressi, poiché, dopo tante sommosse e rivolte sfortu-
nate, essa fu la prima a determinare nella società un
rivolgimento radicale e durevole. Ma gli effetti imme-
diati dell’evento non furono certo confortanti. La Rivo-
luzione era appena finita, che un’immensa delusione
s’impadroní degli animi, né rimase traccia dell’ottimi-
smo illuministico. Il liberalismo settecentesco partiva
dall’identità di libertà e uguaglianza e da questa fede sca-

Storia dell’arte Einaudi 175


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

turiva il suo ottimismo: il pessimismo dell’epoca postri-


voluzionaria nasce appunto quando questa fede viene
meno.
Il segno piú evidente del trionfo dell’idea liberale si
ha nel fatto che solo dopo la Rivoluzione vincoli, limiti
e regole nella sfera intellettuale vengono sentiti come
paralizzanti. Prima poteva accadere che la piú alta fio-
ritura artistica si accompagnasse al piú rigido assoluti-
smo; d’ora in poi, ogni tentativo di cultura autoritaria
urta contro invincibili resistenze. La Rivoluzione ha
dimostrato che nessuna istituzione umana è immutabi-
le; ma cosí sono venute a perdere ogni pretesa di supe-
riore necessità anche le idee che venivano imposte all’ar-
tista, e invece di confidare nella loro verità si dubita
ormai del loro carattere vincolante. In arte i principî di
ordine e disciplina hanno perso il loro effetto di stimo-
li, e da questo momento – da questo momento soltanto
– l’idea di libertà diviene fonte d’ispirazione poetica.
Napoleone, nonostante i premi, i doni e le onorificen-
ze, che distribuiva ai suoi artisti, non poteva spingerli
ad alcun’opera importante. Gli scrittori veramente
fecondi, come Madame de Staël e Benjamin Constant,
erano dei dissidenti e degli isolati25.
Nel campo dell’arte il risultato piú importante del-
l’Impero fu quello di stabilizzare il rapporto creatosi
all’epoca della Rivoluzione fra produttore e acquirente.
Il pubblico borghese che si era venuto costituendo nel
corso del Settecento si consolidò, e d’ora in poi anche
per l’arte ebbe un’influenza veramente decisiva. Il pub-
blico dei lettori nel Seicento francese comprendeva alcu-
ne migliaia di persone; era una cerchia di amatori e di
esperti: da due a tremila, secondo Voltaire26. Veramen-
te questo non significa che fosse tutto composto di gente
capace di un giudizio proprio, ma solo di gente in pos-
sesso di certi criteri di gusto, con cui poteva, entro certi
limiti, per lo piú abbastanza ristretti, distinguere il

Storia dell’arte Einaudi 176


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

buono dal cattivo. Naturalmente il pubblico dell’arte


figurativa era ancora piú esiguo, componendosi soltan-
to di collezionisti e di esperti. Solo al tempo della con-
tesa fra poussinistes e rubénistes il pubblico cominciò ad
ampliarsi uscendo un po’ dalla cerchia degli specialisti27,
e solo nel Settecento comprese anche gente che s’inte-
ressava di quadri senza pensare al loro acquisto. Que-
st’evoluzione s’accentua sempre piú dopo il Salon del
1699, e nel 1725 il «Mercure de France» annunzia che
all’esposizione si vede un foltissimo pubblico, di ogni
ceto e di ogni età, che ammira, loda, critica e biasima28.
Secondo le fonti contemporanee il concorso è senza
esempio, e sebbene i piú vogliano andarvi perché la visi-
ta al Salon è diventata di moda, cresce tuttavia anche il
numero dei veri amatori. Lo si deduce anzitutto dal
moltiplicarsi di pubblicazioni d’arte, riviste e riprodu-
zioni29.
Parigi, già da gran tempo centro della vita mondana
e letteraria, ora diventa anche la capitale artistica d’Eu-
ropa, assumendo in pieno la funzione che in Occiden-
te, fin dal Rinascimento, era stata dell’Italia. È vero che
Roma rimane il centro e la scuola dell’arte classica; tut-
tavia per studiare l’arte moderna si va a Parigi30. Ma la
vita artistica parigina, che interessa ormai tutto il mondo
colto, riceve il piú energico impulso dalle esposizioni,
che non si limitano certo ai Salons. Esposizioni ce n’e-
rano state anche prima in Italia e nei Paesi Bassi, ma
nella Francia del Sei e del Settecento divennero un fat-
tore essenziale dell’attività artistica31. Mostre d’arte ven-
nero allestite regolarmente a partire dal 1673, cioè da
quando, diminuendo gli appoggi statali, gli artisti fran-
cesi furono costretti a cercarsi degli acquirenti. Al Salon
potevano esporre solo i membri dell’Accademia; gli altri
dovevano presentare al pubblico le loro opere
nell’«Accademia», assai meno illustre, della Compagnia
di san Luca o nell’Exposition de la jeunesse. Queste

Storia dell’arte Einaudi 177


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mostre di secessionisti divennero superflue nel 1791,


quando la Rivoluzione aprí a tutti il Salon; e la vita del-
l’arte, che da esse e da numerose altre, personali, di stu-
dio e di scuola, derivava il suo carattere inquieto ed ecci-
tante, divenne piú ordinata e piú sana, benché forse
meno interessante e varia.
La Rivoluzione pose fine alla dittatura dell’Accade-
mia e al monopolio della corte, dell’aristocrazia e del-
l’alta finanza sul mercato artistico. Si sciolsero gli anti-
chi vincoli che si opponevano al rinnovamento dell’ar-
te in senso democratico e scomparvero insieme con la
società e la cultura del Rococò. Non è affatto vero,
come invece spesso è stato detto, che tutti i gruppi che
dirigevano un tempo la cultura, tutti i rappresentanti del
«buon gusto» fossero spariti a un tratto. Poiché la bor-
ghesia, già assai prima della Rivoluzione, partecipava in
misura sempre maggiore alla vita artistica, una certa
continuità di sviluppo poté mantenersi nell’arte, nono-
stante i profondi rivolgimenti. La vita artistica divenne
piú democratica di quanto fosse mai stata, non solo nel
senso di una maggior diffusione ma anche in quello di
un maggior livellamento, per quanto anche questo feno-
meno fosse già avviato prima della Rivoluzione. Il bello
è quel che piace ai piú, affermava già Mengs nei suoi
Gedanken über die Schönheit und über den Gesch-
mack**** del 1765. Ma il vero mutamento provocato
dalla Rivoluzione consiste in questo, che il pubblico di
un tempo rappresentava una classe per cui l’arte aveva
ancora una diretta funzione pratica, era una di quelle
forme in cui si esprimeva la distanza dai ceti inferiori e
la comunanza con la corte e il sovrano; il pubblico d’ora
invece è un pubblico di amatori con interessi puramen-
te estetici, per cui l’arte diviene oggetto di libera scelta
e di mutevoli inclinazioni.
L’Assemblea legislativa fin dal 1791 abolì i privile-
gi dell’Accademia, estendendo a tutti gli artisti il dirit-

Storia dell’arte Einaudi 178


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

to di esporre al Salon; e l’Accademia stessa fu soppres-


sa due anni piú tardi. Il provvedimento corrispondeva
in campo artistico all’abolizione dei privilegi feudali e
all’attuazione della democrazia. Ma anche qui, come già
in campo sociale, il processo era cominciato già prima
della Rivoluzione. L’Accademia a ogni liberale è sem-
pre apparsa la quintessenza della tendenza conservatri-
ce; in realtà, specie dopo la fine del Seicento, essa non
era affatto cosí ristretta e inaccessibile come spesso
venne dipinta. Nel Settecento le nuove ammissioni,
come è noto, furono decise con spirito molto aperto;
però il diritto di esporre al Salon era esclusivamente
riservato ai membri dell’Accademia. Ma proprio contro
quest’uso si accanirono gli artisti novatori guidati da
David. Fu semplice sciogliere l’Accademia, molto piú
difficile fu trovare con che sostituirla. Fin dal 1793
David fondò la «Commune des Arts», associazione
libera e democratica senza speciali gruppi, classi o mem-
bri privilegiati. Ma per il segreto lavorio dei monarchi-
ci nel suo seno, già l’anno dopo si dovette sostituirla
con la «Société populaire et républicaine des Arts».
Questa fu la prima associazione veramente rivoluzio-
naria degli artisti francesi e fu considerata come l’or-
gano ufficiale che doveva assumersi le funzioni del-
l’Accademia. Ma non era un’Accademia; era un club,
di cui ciascuno poteva esser membro, senza riguardo
alla posizione o al mestiere. Nello stesso anno sorse il
«Club révolutionnaire des Arts» a cui, fra gli altri,
appartennero David, Prudhon, Gérard e Isabey e che,
grazie alla celebrità dei suoi membri, godette gran pre-
stigio. Tutte queste associazioni dipendevano diretta-
mente dal Comitato dell’Istruzione pubblica, sotto l’e-
gida della Convenzione, del Comitato di Salute pub-
blica e del comune di Parigi32. Dapprima all’Accademia
fu tolto solo il monopolio delle esposizioni, mentre poté
esercitare ancora per qualche tempo la sua funzione

Storia dell’arte Einaudi 179


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

didattica, conservando buona parte della sua autorità33.


Tuttavia ben presto vi subentrò l’«École nationale
supérieure des Beaux-Arts», e si prese a insegnar l’ar-
te anche in scuole private e corsi serali. Inoltre l’inse-
gnamento del disegno fu incluso nel piano didattico
delle scuole superiori (écoles centrales). Ma forse nulla
ha contribuito a rendere democratica l’educazione arti-
stica quanto la costituzione e l’organizzazione dei
musei. Fino alla Rivoluzione quegli artisti che non ave-
vano avuto modo d’intraprendere un viaggio in Italia
ben poco avevan potuto vedere delle opere dei grandi
maestri. Per la massima parte queste si trovavano nelle
gallerie del re e dei maggiori collezionisti ed erano inac-
cessibili al pubblico. Le cose mutarono con la Rivolu-
zione. Nel 1792 la Convenzione decise di creare un
museo al Louvre. Qui, a due passi dal loro studio, d’ora
in poi i giovani artisti potevano ogni giorno studiare e
copiare i capolavori dell’arte e completare nel modo
migliore l’insegnamento dei loro maestri.
Dopo il 9 termidoro il principio d’autorità venne
restaurato a poco a poco anche in arte, e finalmente
l’Accademia delle Arti figurative fu sostituita dalla IV
Sezione dell’Istituto. Lo spirito antidemocratico di que-
sta riforma risulta nel modo piú chiaro anche dal sem-
plice fatto che l’antica Accademia aveva centocinquan-
ta membri, la nuova soltanto ventidue. Vi appartene-
vano tuttavia anche David, Houdon e Gérard ed essa
riacquistò ben presto l’autorità di un tempo. Natural-
mente, anche il mondo degli artisti fu indotto a rive-
dere i suoi rapporti con la Rivoluzione, che, del resto,
non erano mai stati del tutto unitari. C’erano artisti che
fin dal principio erano stati onesti e sinceri rivoluzio-
nari, e non solo gente come David, che grazie alla for-
tuna della moglie godeva dell’indipendenza economica
e poteva quindi non preoccuparsi della momentanea
congiuntura sul mercato artistico, ma anche altri come

Storia dell’arte Einaudi 180


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Fragonard, che fu rovinato dal corso degli eventi, e che


tuttavia rimase fedele alla Rivoluzione. Ma, accanto a
costoro, non mancavano naturalmente i contro-rivolu-
zionari convinti, ad esempio la Vigée-Lebrun, che lasciò
il paese insieme con la sua nobile clientela. In realtà i
piú, a destra e a sinistra, non erano che compagni di
viaggio che, a seconda di quel che ritenevano opportu-
no, parteggiavano per gli emigrati o per i rivoluziona-
ri. Dapprima gli artisti si sentirono gravemente minac-
ciati dalla Rivoluzione; l’emigrazione li privò dei clien-
ti piú facoltosi e piú esperti34. Il numero degli emigrati
cresceva di giorno in giorno, e a chi rimaneva in Fran-
cia ormai mancavano i mezzi e la voglia di acquistare
opere d’arte. In principio i piú degli artisti conobbero
dure privazioni, e quindi non è strano che non sempre
fossero entusiasti della Rivoluzione. Se nonostante que-
sto la Rivoluzione trovò fra loro tanti fautori, fu per-
ché l’artista sotto l’antico regime, dove per lo piú era
annoverato tra i servi, si sentiva umiliato e sacrificato.
Quest’inferiorità cessò con la Rivoluzione, che finí col
risarcirlo anche dei danni materiali. Infatti, a prescin-
dere dalla crescente cura del governo per l’arte, ben pre-
sto intervennero anche i privati, e quasi inaspettata-
mente si ebbe un nuovo pubblico, che s’interessava
vivamente al lavoro degli artisti di grido35. In quegli
anni i Salons furono piú frequentati che mai. Nelle
vendite all’asta i prezzi delle opere d’arte raggiunsero
ben presto il livello prerivoluzionario, che doveva poi
essere superato durante l’Impero36. Crebbe il numero
degli artisti e la critica deplorava che ce ne fossero
troppi. Presto – troppo presto – la vita artistica si era
riavuta dalle scosse della Rivoluzione. L’attività degli
artisti si era riordinata prima che ci fosse un’arte nuova.
Si rinnovarono le antiche istituzioni senza un criterio
originale in fatto di gusto, e senza il coraggio di crear-
selo. Ciò spiega perché l’epoca postrivoluzionaria abbia

Storia dell’arte Einaudi 181


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

avuto sostanzialmente solo un’arte di epigoni e perché


siano dovuti passare ancora piú di vent’anni, prima che
in Francia il romanticismo potesse affermarsi.

1
Come per esempio wilhelm hausenstein, Der nackte Mensch,
1913, p. 151, e f. antal, Reflections on Classicism and Romanticism,
in «The Burlington Magazine», vol. LXVI, 1935, p. 161.
* «Se qualcuno è abbastanza barbaro – abbastanza classico!»
2
pope, Essay on Man, I, vv. 233 sgg.
** «Vedi attraverso l’aria, l’oceano e la terra | Ogni cosa pregnan-
te e prossima a sbocciare. | In alto, quanto in alto può progredir la vita,
| Come si espande intorno, come profonda in basso. | Infinita catena,
ch’ebbe principio in Dio, | Essere etereo, umano, angelo, uomo, |
Fiera, uccello, pesce, insetto, quel che occhio non vede | Né lente può
raggiungere; dall’infinito a te, | Da te al nulla».
*** «Su, cheta ogni querela; | soffri, o cuore pien d’odio, di giu-
stizia affamato. | Virtú, piangi, s’io muoio».
3
heinrich wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, 1927, 7a
ed., p. 252 [trad. it., Concetti fondamentali di storia dell’arte, Milano
1953]; hans rose, Spätbarock, 1922, p. 13.
4
Cfr. h. wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe cit., p. 35.
5
karl justi, Winckelmann und seine Zeitgenossen, 1923, 3a ed., III,
p. 272.
6
maurice dreyfous, Les arts et les artistes pendant la période révo-
lutionnaire, 1906, p. 152.
7
albert dresdner, Die Entstehung der Kunstkritik, 1915, pp.
229-30.
8
walter friedländer, Hauptströmungen der französischen Malerei
von David bis Cézanne, I, 1930, p. 8.
9
françois benoit, L’art français sous la Révolution et l’Empire,
1897, p. 3.
10
Ibid., pp. 4-5.
11
jules david, Le peintre David, 1880, p. 117.
12
edmond e jules goncourt, Histoire de la société française pendant
la Révolution, 1880, p. 346.
13
louis madelin, La Révolution, 1911, pp. 490 sgg.
14
george plekhanov, Art and Society, 1937, p. 20; louis hourticq,
La peinture française. XVIIIe siècle, 1939, pp. 145 sgg.; a. thibaudet,
Histoire de la littérature française de 1789 à nos jours, 1936, p. 5.
15
jules david, Le peintre David cit., p. 57.
16
karl marx, Der 18. Brumaire des Louis Napoleon, 1852.

Storia dell’arte Einaudi 182


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

17
louis hautecoeur, Les origines du Romantisme, in Le Romanti-
sme et l’art, 1928, p. 18.
18
léon rosenthal, La peinture romantique, 1903, pp. 25-26.
19
f. benoit, L’art français ecc. cit., p. 171.
20
louis madelin, La contre-révolution sous la Révolution, 1935,
p. 329.
21
Ibid., pp. 162, 175.
22
jules renouvier, Histoire de l’art pendant la Révolution, 1863,
p. 31.
23
joseph aynard, La Bourgeoisie française, 1934, p. 396.
24
Cfr. étienne fajon, The Working Class in the Revolution of
1789, in Essays on the French Revolution, a cura di T. A. Jackson,
1945, p. 121.
25
petit de julleville, Histoire de la langue et de la littérature françai-
se, VII, 1899, p. 110.
26
henry peyre, Le classicisme français, 1942, p. 37.
27
a. dresdner, Die Entstehung ecc. cit., p. 128.
28
Ibid., pp. 128-29.
29
andré fontaine, Les doctrines d’art en France, 1909, p. 186; f.
benoit, L’art français ecc. cit., p. 133.
30
a. dresdner, Die Entstehung ecc. cit., p. 180.
31
Ibid.; p. 150.
**** Pensieri sulla bellezza e sul gusto.
32
joseph billiet, The French Revolution and the Fine Arts, in Essays
on the French Revolution, a cura di T. A. Jackson, 1945, p. 203.
33
f. benoit, L’art français ecc. cit., p. 180.
34
m. dreyfous, Les arts et les artistes ecc. cit., p. 155.
35
f. benoit, L’art français ecc. cit., p. 132.
34
Ibid., p. 134.

Storia dell’arte Einaudi 183


Capitolo sesto

Il Romanticismo in Germania
e nell’Europa occidentale

Il liberalismo ottocentesco identificò il romanticismo


con la Restaurazione e la reazione. Questa connessione,
anche se non mancava di qualche legittimità, specie per
quel che riguarda la Germania, finí per provocare, in
generale, un’errata visione storica. Questa poté essere
rettificata soltanto quando si cominciò a distinguere tra
il romanticismo tedesco e quello dell’Europa occidenta-
le, riconducendo il primo a tendenze reazionarie, il
secondo a tendenze progressiste. Il quadro che ne
derivò, benché ancora semplicistico per molti aspetti,
risultò assai piú vicino al vero, poiché, politicamente, né
l’una né l’altra forma di romanticismo furono chiare e
coerenti. Piú tardi infine, con piú aderenza alla realtà,
si distinsero nel romanticismo tedesco, come in quello
francese e in quello inglese, una fase primitiva e una piú
tarda, una prima e una seconda generazione. Si constatò
che in Germania e nell’Occidente europeo lo sviluppo
seguiva direzioni diverse e che il romanticismo tedesco
da inizi rivoluzionari si svolgeva poi in senso reaziona-
rio, mentre quello dell’Europa occidentale da posizioni
legittimistiche e conservatrici si accostava progressiva-
mente al liberalismo. Il quadro era esatto, ma piuttosto
infruttuoso per una determinazione del concetto di
romanticismo. Infatti il movimento romantico ebbe que-
sto di caratteristico, che in sé non rappresentava una

Storia dell’arte Einaudi 4


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ideologia rivoluzionaria o conservatrice, progressista o


reazionaria, ma all’una o all’altra di queste posizioni
giungeva per una via irreale, irrazionale, non dialettica.
La passione rivoluzionaria restava nel romanticismo
qualcosa di estraneo al mondo, esattamente come l’op-
posto atteggiamento conservatore; l’entusiasmo per «la
Rivoluzione, Fichte e il Wilhelm Meister di Goethe» era
in esso atteggiamento tanto ingenuo, tanto lontano dalla
conoscenza delle vere forze motrici dell’evoluzione,
quanto il fanatismo per la Chiesa e il Trono, la cavalle-
ria e il feudalesimo. Dappertutto vi furono romantici
rivoluzionari e altri devoti all’antico regime e alla
Restaurazione. Danton e Robespierre furono astratti
dogmatici quanto Chateaubriand e De Maistre, Görres
e Adam Müller. Friedrich Schlegel fu un romantico da
giovane, quando si esaltava per Fichte, il Wilhelm Mei-
ster e la Rivoluzione, come da vecchio, quando applau-
diva Metternich e la Santa Alleanza. Quanto a Metter-
nich, non era un romantico, benché tradizionalista e
conservatore; egli lasciò ai letterati il compito di elabo-
rare il mito dello storicismo, del legittimismo e del cle-
ricalismo. È un realista chi sa quando lotta per i propri
interessi e quando fa concessioni agli interessi altrui; ed
è un dialettico chi riconosce che ogni situazione storica
comporta un complesso di motivi e di impegni che non
si possono eludere. Il romantico, pur con tutta la sua
comprensione del passato, ignora la storicità e la dialet-
tica del presente; non capisce ch’esso sta fra passato e
futuro e presenta un insolubile contrasto di elementi sta-
tici e dinamici.
La definizione di Goethe per cui il romanticismo
incarna il principio della malattia – un giudizio che, cosí
com’era inteso, difficilmente era accettabile – alla luce
della recente psicologia acquista un senso nuovo e rice-
ve una nuova conferma. Infatti, se effettivamente il
romanticismo vede solo un lato di una situazione piena

Storia dell’arte Einaudi 5


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di tensioni e di contrasti, se non considera che un solo


fattore della dialettica storica, accentuandolo a spese
dell’altro, se infine mostra una tale unilateralità, una
reazione cosí esagerata, una mancanza di equilibrio psi-
chico, si ha ragione di chiamarlo «morboso». Infatti,
perché esagerare e svisare le cose, se non ne siamo tur-
bati, impauriti? «Things and actions are what they are,
and the consequences of them will be what they will be;
why then should we wish to be deceived?» [«Cose e
azioni son quel che sono, e le loro conseguenze saranno
quel che saranno; a che dunque volersi illudere?»],
domanda il vescovo Butler, caratterizzando cosí nel
miglior modo il sereno e «sano» realismo settecentesco,
alieno da ogni illusione1. Da questo punto di vista il
Romanticismo appare sempre una menzogna, un autoin-
ganno che, come dice Nietzsche a proposito di Wagner,
«non vuol sentire i contrasti come contrasti» e afferma
a gran voce proprio quello di cui dubita di piú. La fuga
nel passato non è la sola forma dell’irrealismo e dell’il-
lusionismo romantico; c’è anche una fuga nel futuro,
nell’utopia. Quello a cui si aggrappa il romantico è, in
ultima analisi, senza importanza; quel che importa è la
sua paura del presente, dell’imminente cataclisma.
Il romanticismo improntò di sé tutta un’epoca, e ne
ebbe chiara coscienza2. Esso costituí una delle piú
importanti svolte nella storia dello spirito occidentale,
e di questa sua funzione storica fu pienamente consa-
pevole. Dall’età gotica in poi lo sviluppo della sensibi-
lità mai aveva subito impulso piú energico, e il diritto
dell’artista a seguire la voce del suo sentimento e della
sua natura non era mai stato accentuato con tale riso-
lutezza. Il razionalismo, che a cominciare dal Rinasci-
mento aveva senza soste guadagnato terreno, raggiun-
gendo nell’età dei lumi una validità universale in tutto
il mondo civile, conobbe il piú grave scacco della sua
storia. Dopo la fine del trascendentalismo e del tradi-

Storia dell’arte Einaudi 6


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

zionalismo medievale mai era accaduto che si parlasse


con tanto disprezzo della ragione, della vigile e misu-
rata intelligenza, della volontà e della facoltà di domi-
narsi. «Those who restrain desire do so because theirs
is weak enough to be restrained» [«Coloro che frena-
no il desiderio, cosí fanno perché il loro è abbastanza
fiacco per essere frenato»], dice persino Blake, che pure
certamente non approvava lo sfrenato sentimentalismo
di un Wordsworth. Se come principio della scienza e
della pratica il razionalismo ha potuto presto riaversi
dagli attacchi romantici, l’arte occidentale è però rima-
sta «romantica». Il romanticismo non è stato soltanto
un generale movimento europeo, che l’una dopo l’altra
ha conquistato tutte le nazioni, creando infine quell’u-
niversale linguaggio letterario, comprensibile in Russia
e in Polonia come in Francia e in Inghilterra: al pari del
naturalismo dell’età gotica e del classicismo del Rina-
scimento, esso si è rivelato uno di quei movimenti che
rimangono come fattori costanti dell’evoluzione stori-
ca. Effettivamente non c’è prodotto dell’arte moderna,
né impulso sentimentale, né impressione o stato d’ani-
mo dell’uomo della nostra epoca, che non debba la sua
sottigliezza e ricchezza di sfumature a quell’eccitabilità
che nel romanticismo ha la sua prima origine. E ad
esso risalgono tutta l’esuberanza, l’anarchia e la vio-
lenza dell’arte moderna, il suo ebbro e balbettante liri-
smo, l’esibizionismo senza freno né riguardo. E questo
atteggiamento soggettivo, egocentrico, è diventato per
noi cosí naturale, cosí inevitabile, che non possiamo
neppure esporre un astratto sviluppo di idee senza par-
lare delle nostre sensazioni3. La passione intellettuale,
il pathos della ragione, la fecondità artistica del razio-
nalismo sono cosí completamente caduti in oblio, che
anche l’arte classica la possiamo intendere soltanto
come espressione di un sentimento romantico. «Seuls
les romantiques savent lire les ouvrages classiques,

Storia dell’arte Einaudi 7


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

parce qu’ils les lisent comme ils ont été ecrits, roman-
tiquement» [«Solo i romantici san leggere le opere clas-
siche, perché le leggono come sono state scritte, roman-
ticamente»], dice Marcel Proust4.
Artisticamente tutto l’Ottocento dipende dal roman-
ticismo, ma questo a sua volta era un prodotto del Set-
tecento, e non aveva mai perduto la coscienza del suo
carattere di transizione e della sua problematica posi-
zione storica. L’Occidente conobbe molte altre crisi,
analoghe e piú gravi, ma non ebbe mai cosí vivo il senso
di trovarsi a una svolta della storia. Certo non era la
prima volta che una generazione assumeva un atteggia-
mento critico di fronte al proprio tempo e rifiutava le
forme tradizionali della cultura, perché in esse non pote-
va esprimere il proprio mondo spirituale. Anche in epo-
che anteriori era accaduto che si avesse il senso di un
invecchiamento e si desiderasse un generale rinnova-
mento, ma nessuno aveva mai pensato di porre in dub-
bio il significato e la ragion d’essere della propria civiltà,
chiedendosi se veramente si potesse giustificare la par-
ticolare fisionomia e se rappresentasse un elemento
necessario nel complesso della civiltà umana. Il senso
romantico di un risorgimento non era certo cosa nuova;
la Rinascita l’aveva ben conosciuto e già il Medioevo era
stato agitato da pensieri di rinnovamento e fantasie di
resurrezione, il cui oggetto era l’antica Roma. Ma nes-
suna generazione ebbe mai cosí forte il senso di essere
erede e discendente, né cosí netto il desiderio di restau-
rare e richiamare a nuova vita tempi remoti e una per-
duta civiltà. Il romanticismo cerca continuamente nella
storia reminiscenze e analogie e trova il piú forte stimolo
in ideali, che crede già attuati nel passato. Ma il suo rap-
porto con il Medioevo è alquanto diverso da quello del
neoclassicismo con l’antichità: il neoclassicismo vede
nei Greci e nei Romani semplicemente un esempio, il
romanticismo invece conserva sempre il senso del «déjà

Storia dell’arte Einaudi 8


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vécu». Esso ricorda le età remote come una preesisten-


za. Questo sentimento per altro non prova affatto che
romanticismo e Medioevo fossero piú affini tra loro di
quanto fossero antichità e neoclassicismo, anzi prova il
contrario. «Quando un benedettino studiava il Medioe-
vo, – si dice in una recente, acuta analisi del romantici-
smo, – non si domandava a che cosa questo gli servisse
e se nel Medioevo si vivesse piú felici e piú vicini a Dio.
Poiché egli stesso si trovava ancora nell’ambito di quel-
la fede e di quell’organizzazione ecclesiastica fonda-
mentali per il Medioevo, di fronte alla religione poteva
esser miglior critico di un romantico, che si trovava a
vivere in un secolo rivoluzionario, in cui ogni fede era
scossa e tutto posto in discussione»5. Non si può disco-
noscere che nell’esperienza storica dei romantici si espri-
ma un morboso timore del presente e un tentativo di
evasione. Ma non ci fu mai psicosi piú feconda. Ad essa
i romantici debbono la loro sottigliezza e chiaroveggen-
za di fronte alla storia, la loro sensibilità nel cogliere le
piú remote analogie, nel tentare le piú difficili inter-
pretazioni. Senza questa iperestesia, il romanticismo
non sarebbe riuscito a stabilire i grandi nessi nella sto-
ria dello spirito, a definire la civiltà moderna di fronte
all’antica, a riconoscere nel cristianesimo la gran cesura
della storia occidentale e a scoprire il comune carattere
«romantico» delle civiltà derivate dal cristianesimo,
individualistiche, riflesse, piene di problemi.
Senza la coscienza del proprio tempo cosí viva nei
romantici, senza il continuo problema del presente che
domina il loro pensiero, tutto lo storicismo dell’Otto-
cento sarebbe inconcepibile, e con esso una delle piú
profonde rivoluzioni nella storia dello spirito. Fino
all’età romantica, nonostante Eraclito e i sofisti, il nomi-
nalismo scolastico e il naturalismo rinascimentale, il
dinamismo dell’economia capitalistica e i progressi della
critica storica nel Settecento, l’Occidente ebbe del

Storia dell’arte Einaudi 9


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mondo un’immagine sostanzialmente statica, parmeni-


dea, astorica. I fattori determinanti della civiltà umana,
i principî razionali dell’ordinamento naturale e sopran-
naturale, le leggi morali e logiche, l’idea della verità e
del diritto, il destino dell’uomo e il fine delle istituzio-
ni sociali furono, in fondo, concepiti come qualcosa di
essenzialmente chiaro e immutabile nel suo significato,
eterne entelechie, o idee innate. Rispetto alla stabilità di
questi principî, ogni mutamento, ogni sviluppo e diffe-
renziazione apparivano irrilevanti ed effimeri; tutto quel
che si svolgeva nei tempi storici pareva non toccare che
la superficie delle cose. Solo a partire dalla Rivoluzione
e dall’età romantica si cominciò a sentire la natura del-
l’uomo e della società come essenzialmente dinamica e
in continua evoluzione. La concezione che noi e la
nostra civiltà siamo coinvolti in un eterno fluire e in una
lotta senza fine, il pensiero che la nostra vita spirituale
ha il carattere transitorio di un processo, è una scoper-
ta del romanticismo e ne costituisce il piú valido con-
tributo al pensiero del nostro tempo.
È noto che il «senso storico» già nell’età preroman-
tica non solo era vivo e vigile, ma agiva come una forza
motrice dell’evoluzione. E l’illuminismo, che produsse
storici quali Montesquieu, Hume, Gibbon, Vico,
Winckelmann e Herder, non solo oppose alla rivelazio-
ne l’origine storica dei valori civili, ma anche presenti
la relatività di questi stessi valori. Era certo un pensie-
ro corrente per l’estetica del tempo che ci fossero piú tipi
equivalenti di bellezza e che il concetto stesso di bellezza
fosse variabile come variabili erano gli aspetti della vita,
insomma che fosse vero che «un dio cinese ha il ventre
grosso come quello di un mandarino»6. Tuttavia la con-
cezione storica dell’illuminismo rimane legata all’idea
base che nella storia si dispieghi una ragione sempre
identica a se stessa, in un processo che tende a una meta
sicura, discernibile fin dagli inizi. Il Settecento dunque

Storia dell’arte Einaudi 10


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

non fu antistorico, perché indifferente alla storia o igna-


ro del carattere storico della civiltà umana, ma perché
fraintese la natura del divenire, immaginandolo come un
processo continuo e rettilineo7. Friedrich Schlegel è il
primo a riconoscere che i rapporti storici non sono di
natura logica, e Novalis il primo a sottolineare che «la
filosofia è radicalmente antistorica». Ma soprattutto la
consapevolezza che esiste qualcosa come un destino sto-
rico e che «noi siamo quelli che siamo, perché guardia-
mo indietro a un tal passato», è una conquista dell’età
romantica. Pensieri di questa specie e lo storicismo che
essi riflettono erano lontanissimi dall’illuminismo. L’i-
dea che la natura dello spirito umano, delle istituzioni
politiche, del diritto, del linguaggio, della religione e del-
l’arte si possa comprendere solo attraverso la loro sto-
ria e che il processo storico rappresenti la sfera in cui tali
creazioni appaiono nel modo piú diretto, piú puro e piú
reale, sarebbe stata semplicemente inconcepibile prima
del romanticismo. Ma dove menasse lo storicismo risul-
ta forse nel modo piú chiaro dalla formula acutamente
paradossale di Ortega y Gasset: «L’uomo non ha una
natura, ha solo una storia»8. Sulle prime non suona inco-
raggiante; tuttavia anche qui, come sempre nel movi-
mento romantico, si tratta di un atteggiamento ambi-
valente: ottimismo e pessimismo, attivismo e fatalismo
possono ugualmente richiamarvisi.
Insieme con l’arte ermeneutica, la prontezza a coglie-
re i nessi storici, la sensibilità per tutto ciò che nella sto-
ria è problematico e suscettibile di diversa valutazione,
abbiamo ereditato dal romanticismo anche la mistica
del concetto, la sua tendenza a personificare e mitolo-
gizzare, le forze storiche; in altre parole, l’idea che i
fenomeni storici non siano altro che le funzioni, le mani-
festazioni e le incarnazioni di principî autonomi. Per
questo modo di pensare è stata escogitata la formula
molto calzante ed espressiva di «logica emanatistica»9

Storia dell’arte Einaudi 11


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

con la quale si coglie non solo l’astratta concezione sto-


rica, ma anche l’inconscia metafisica spesso implicita in
un tal metodo. Secondo questa logica la storia appare
come una sfera dominata da potenze anonime, un sub-
strato di idee sublimi che solo incompiutamente si espri-
mono nei singoli fenomeni storici. E questa metafisica
platonica si manifesta non solo nelle teorie romantiche
ormai superate dello spirito popolare, dell’epos popola-
re, delle letterature nazionali e dell’arte cristiana, ma
ancora nel concetto dell’«intento artistico» (Kunstwol-
len). Infatti anche Riegl è in certa misura ancora affa-
scinato dalla mistica del concetto e dalla visione pneu-
matica della storia propria del romanticismo. Egli imma-
gina l’intento artistico di un’epoca come una persona
che agisce e realizza il suo proposito spesso contro la piú
energica opposizione, e talvolta riesce a farsi strada
senza che i suoi esponenti ne abbiano coscienza, anzi
addirittura contro la loro volontà. Negli scritti di Riegl
gli stili ci appaiono come individui a sé stanti, inconfon-
dibili e incomparabili, che vivono, muoiono e, soccom-
bendo, vengono sostituiti da altri stili ugualmente indi-
viduali. La storia dell’arte, come, coesistenza e succes-
sione di tali fenomeni stilistici che richiedono di essere
giudicati ognuno secondo una loro propria misura, e
hanno il loro valore nella loro stessa individualità, è in
certo modo il piú puro esempio della concezione roman-
tica della storia, che personifica le forze storiche. In
realtà le creazioni piú importanti e piú vaste dello spi-
rito umano non risultano quasi mai da una simile evo-
luzione, che fin dall’inizio procede rettilinea verso un
fine prestabilito. L’epos omerico e la tragedia attica, l’ar-
chitettura gotica e il teatro shakespeariano non sono
certo l’esplicazione di un intento artistico netto e coe-
rente, ma il casuale prodotto di esigenze specifiche,
determinate dal tempo e dal luogo, e di una serie di
mezzi preesistenti, spesso sostanzialmente estranei e

Storia dell’arte Einaudi 12


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

inadeguati. Sono, in altre parole, il prodotto di gradua-


li innovazioni tecniche che spesso possono deviare dal
disegno originario, e altrettanto spesso avvicinarvisi, di
effimeri motivi occasionali, di trovate improvvise, d’e-
sperienze personali che a volte non hanno alcun rapporto
con il vero compito dell’artista. La teoria dell’«intento
artistico» ipostatizza come idea determinante il risulta-
to ultimo di questa evoluzione, che in sé è tutta discon-
tinua ed eterogenea. Ma anche la teoria della «storia del-
l’arte senza nomi», proprio perché elimina le persona-
lità reali come fattori determinanti dell’evoluzione, non
è che una forma di quella metafisica che conferisce al
concetto una realtà e personifica le forze storiche. In
essa la storia dell’arte diventa un processo che si svolge
secondo un suo intimo principio vitale e non tollera l’af-
fermarsi dell’autonoma personalità artistica, come un
organismo animale non tollererebbe l’emancipazione dei
singoli organi. A posizioni analoghe si può giungere infi-
ne anche col materialismo storico. Se con esso sempli-
cemente si intende che nelle varie creazioni dello spiri-
to non si esprimono se non i caratteri propri dei mezzi
di produzione di ogni epoca e si vuol significare che la
realtà economica esercita nella storia un dominio non
meno assoluto di quello dell’«intento artistico» o
dell’«immanente legge formale» dell’idealismo, è chia-
ro che in questo caso non si fa che romanticizzare e sem-
plificare il processo storico, in realtà assai piú comples-
so; in altre parole si riduce anche la concezione mate-
rialistica della storia a una variante della logica emana-
tistica. Il vero senso del materialismo storico, e in que-
sto esso costituisce il progresso piú significativo della
storiografia dal romanticismo in poi, sta piuttosto nel-
l’intuizione che la storia non nasce da principî formali,
da idee, da entità, cioè non da sostanze che nel proces-
so storico si dispieghino attraverso semplici «modifica-
zioni» della loro natura fondamentalmente astorica; ma

Storia dell’arte Einaudi 13


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

che invece lo sviluppo storico costituisce un processo


dialettico in cui ogni fattore è fluido, soggetto a conti-
nue trasformazioni. In esso nulla è statico, nulla eter-
namente valido e neppure volto a un effetto unilatera-
le, ma tutti i fattori, materiali e spirituali, ideali ed eco-
nomici, sono inscindibilmente interdipendenti, e, per
quanto lontano si risalga nel tempo, non è dato trovare
situazione storicamente definibile che già non risulti da
un tal reciproco influsso di fattori. Anche l’economia piú
primitiva è già organizzata; ciò non toglie che la nostra
analisi debba partire dalle premesse materiali che – a dif-
ferenza di quanto avviene per le forme dell’organizza-
zione intellettuale – sono dati autonomi e comprensibi-
li in sé.
Legato a un orientamento completamente nuovo
della civiltà, lo storicismo è il risultato di un profondo
mutamento dell’esistenza e risponde al sovvertimento
che ha scosso le basi della società. La rivoluzione poli-
tica aveva abolito le antiche barriere fra le classi, la
rivoluzione economica aveva reso la vita di gran lunga
piú instabile. Il romanticismo fu l’ideologia della nuova
società ed espresse l’animo di una generazione che non
credeva piú a valori assoluti, e non avrebbe ormai accet-
tato alcun valore senza ricordarsi della sua relatività, del
suo limite storico. Questa generazione vedeva tutto lega-
to a premesse storiche poiché si trovava a vivere tra il
tramonto dell’antica civiltà e la nascita della nuova e di
questo trapasso storico era partecipe come del suo pro-
prio destino. Cosí profonda era nell’epoca romantica la
consapevolezza della storicità in tutta la vita sociale, che
anche i ceti conservatori, quando vollero dare un fon-
damento ai loro privilegi, seppero addurre ormai solo
argomenti storici e per sostenere le loro pretese non
poterono che vantare antiche, profonde radici nella sto-
ria della civiltà nazionale. Ma, contrariamente a quan-
to piú volte è stato detto, la visione storicistica non fu

Storia dell’arte Einaudi 14


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

creata dai conservatori; questi non fecero che appro-


priarsela svolgendola poi in un senso tutto particolare,
opposto a quello originario. La borghesia progressista
vedeva nell’origine storica delle istituzioni sociali una
prova contro il loro valore assoluto; i ceti conservatori,
invece, che per fondare i loro privilegi non potevano che
appellarsi ai «diritti storici», all’antichità e alla priorità,
diedero allo storicismo un nuovo senso: velarono il con-
trasto tra storicità e validità sovratemporale, ma in cam-
bio istituirono una sorta di opposizione fra il prodotto
della evoluzione storica, cresciuto e affermatosi lenta-
mente, e l’atto di volontà spontaneo, razionale, rifor-
matore. In questo modo all’antica opposizione tra il
tempo e l’eterno, la storia e l’assoluto, si sostituiva quel-
la tra il «divenire organico» e l’arbitrio individuale.
La storia diventa il rifugio di tutti gli elementi in
rotta col presente, minacciati nella loro esistenza mate-
riale o spirituale; e prima di tutti degli intellettuali, che
ora non solo in Germania, ma anche nei paesi dell’Oc-
cidente europeo si sentono frustrati nelle loro speranze
e defraudati dei loro diritti. L’esclusione da ogni effi-
cacia politica, che finora era stata propria dell’intellet-
tuale tedesco, ora diviene sorte comune degli intellet-
tuali anche nell’Occidente. L’illuminismo e la Rivolu-
zione avevano incoraggiato l’individuo a speranze smi-
surate; essi sembravano garantire l’illimitato dominio
della ragione, e l’assoluta autorità dei poeti e dei pen-
satori. Nel Settecento gli scrittori erano le guide spiri-
tuali dell’Occidente; costituivano l’elemento dinamico
che dava vita alle tendenze riformatrici e incarnavano
quell’ideale della personalità a cui tendevano i ceti pro-
gressisti. Le cose cambiarono con il concludersi della
Rivoluzione. Ad essi fu imputata di volta in volta la
responsabilità ora del troppo ora del troppo poco che la
Rivoluzione aveva potuto cambiare, e in questo tempo
di ristagno e di confusione non poterono conservare il

Storia dell’arte Einaudi 15


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

loro prestigio. La soddisfazione morale dei «filosofi» set-


tecenteschi rimase loro ignota, anche se erano d’accor-
do con la reazione e la servivano lealmente. Ma i piú tra
loro si vedevano completamente esautorati e si sentiva-
no superflui. Cosí si volsero al passato, in cui cercava-
no l’adempimento dei loro desideri e dei loro sogni, e da
cui eliminavano ogni tensione fra idea e realtà, io e
mondo, individuo e società. «Nelle sofferenze della vita
ha radice il romanticismo, e cosí si troverà tanto piú
romantico ed elegiaco un popolo, quanto piú infelice è
il suo stato», dice un critico liberale del romanticismo
tedesco10. I tedeschi erano certo il piú infelice popolo
d’Europa; ma dopo la Rivoluzione ben presto nessun
popolo dell’Occidente, o almeno gli intellettuali di nes-
sun popolo poterono sentirsi protetti e sicuri nel proprio
paese. E proprio il senso dell’esilio e della solitudine fu
l’esperienza cruciale della nuova generazione, che ne
ebbe cosí determinata in modo durevole tutta la visio-
ne del mondo. Tale senso di solitudine assunse innu-
merevoli forme, e trovò la sua espressione in tutta una
serie di tentativi d’evasione, dei quali il ritorno al pas-
sato fu il piú tipico. La fuga nell’utopia e nella favola,
nell’inconscio e nell’immaginario, nel sinistro e nel
misterioso, il volgersi all’infanzia e alla natura, al sogno
e alla follia, non erano che forme mascherate e piú o
meno sublimate di uno stesso sentimento, della medesi-
ma aspirazione all’irresponsabilità e all’assenza del dolo-
re; tentativi cioè di evasione in quel caos e in quell’a-
narchia contro cui il classicismo del Sei e del Settecen-
to aveva combattuto ora con tono aspro e preoccupato,
ora con spirito e con grazia, ma sempre con la stessa riso-
lutezza. Il classicista si sentiva signore della realtà; con-
sentiva a lasciarsi imporre delle regole, perché egli sape-
va imporle a se stesso e credeva che la vita potesse esse-
re regolata. Il romantico invece respingeva ogni vinco-
lo esteriore, era incapace di impegnarsi e si sentiva iner-

Storia dell’arte Einaudi 16


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

me in balia della soverchiante realtà, che perciò spre-


giava e, a un tempo, divinizzava. Di fronte ad essa si
comportava con prepotenza oppure le si abbandonava
ciecamente e senza resistenza, ma restava inesorabil-
mente conscio della propria inferiorità.
Ogni volta che i romantici analizzano la loro visione
dell’arte e della vita, s’insinua nelle loro frasi la parola
nostalgia o l’idea dell’esilio. Novalis definisce la filoso-
fia come «nostalgia», come «l’ansia, dovunque, di esse-
re a casa», e la favola come un sogno «di quel paese
natio che è dappertutto e in nessun luogo». In Schiller
egli esalta «il senso della patria che non è di questa
terra» e Schiller a sua volta chiama i romantici «esuli,
che anelano alla patria». Perciò essi parlano tanto di
vagabondaggio senza meta né fine, del «fiore azzurro»
che è irraggiungibile e tale deve restare, della solitudi-
ne che si cerca e si fugge, dell’infinito che è tutto e nulla.
«Mon cœur désire tout, il veut tout, il contient tout.
Que mettre à la place de cet infini qu’exige ma pensée?»
[«Il mio cuore desidera tutto, vuole tutto, contiene
tutto. Che cosa sostituire a quell’infinito che il mio pen-
siero esige?»] si dice nell’Obermann di Senancour. Ma
è evidente che quel «tout» non contiene nulla, e
quell’«infini» non si trova in nessun luogo. Nostalgia e
amor di terra lontana: ecco i sentimenti che si conten-
dono l’anima romantica; essa disprezza ciò che è vicino,
soffre del suo isolamento fra gli uomini, ma li evita e
cerca assiduamente quel che è lontano e ignoto. Soffre
perché estraniata dal mondo, ma afferma e vuole que-
sta sua condizione. Per Novalis la poesia romantica è
questo: «l’arte di suscitare un piacevole stupore, di fare
un oggetto strano, e pure noto e attraente»; per lui
tutto diventa romantico e poetico «se lo si allontana»,
tutto può diventarlo se «si dà al consueto un aspetto
misterioso, al noto la dignità dell’ignoto, al finito un
senso infinito». La «dignità dell’ignoto»: ancora una

Storia dell’arte Einaudi 17


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

generazione prima, anzi ancora pochi anni prima, quale


uomo ragionevole avrebbe detto una simile assurdità? Si
parlava della dignità della ragione, della conoscenza, del
buon senso, del saggio e freddo realismo, ma la –
«dignità dell’ignoto» a chi sarebbe mai venuta in
mente? L’ignoto, si voleva domarlo e renderlo inoffen-
sivo; esaltarlo ed elevarlo al di sopra di sé sarebbe stato
un suicidio intellettuale, un’autodistruzione. Ma Nova-
lis non si limita a dare una definizione di ciò che è
romantico; suggerisce anche come essere romantici, per-
ché al romantico non basta esser tale, ma del romanti-
cismo egli fa una meta e un programma per la vita.
Oltre che ritrarla in modo romantico, egli la vuole adat-
tare all’arte, cullandosi nell’illusione di una utopistica
esistenza tutta estetica. Questo significa anzitutto ren-
dere la vita piú semplice e omogenea, liberarla dalla tor-
mentosa dialettica di ogni realtà storica, eliminarne le
contraddizioni insolubili e indebolire le resistenze della
ragione ai desideri irreali e alle fantasie. È vero che
ogni opera d’arte è una visione, una trasfigurazione
mitica della realtà, dove l’utopia si sostituisce alla vita;
ma nel romanticismo questo carattere d’utopia si espri-
me piú puro e senza contrasti che altrove.
Il concetto d’«ironia romantica» si fonda essenzial-
mente sul riconoscimento che l’arte non è che autosug-
gestione e autoinganno, e che si ha sempre chiara
coscienza della sua natura fittizia. La definizione del-
l’arte come «consapevole illusione»11 risale al romanti-
cismo e a idee come quella espressa da Coleridge di una
«willing suspension of disbelief» [«Volontaria sospen-
sione dell’incredulità»]12. Ma la scelta consapevole che
è alla base di tale atteggiamento è ancora un tratto clas-
sico e razionalistico, che il romanticismo va cancellan-
do sostituendovi l’illusione inconscia, lo stordimento e
l’ebbrezza dei sensi, la rinunzia all’ironia e alla critica.
Si è paragonato l’effetto del film a quello dell’alcool e

Storia dell’arte Einaudi 18


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dell’oppio, descrivendo la folla dei cinematografi che


esce vacillando nel buio della notte, come degli ubria-
chi, storditi dalle droghe, che non sanno né vogliono
rendersi conto del loro stato. Ma quest’effetto non è
esclusivo del film; risale per l’appunto all’arte romanti-
ca. Anche il classicismo naturalmente voleva essere sug-
gestivo e suscitare nel lettore o nello spettatore senti-
menti e illusioni – come del resto ogni arte – ma nelle
sue immagini c’era sempre un esempio istruttivo, un’a-
nalogia illuminante, un simbolo ricco di riferimenti, e ad
esse il lettore o lo spettatore si trovavano a reagire non
con lacrime, estasi o deliqui, ma con riflessioni, giudizi
e una piú profonda comprensione dell’uomo e del suo
destino.
Il periodo postrivoluzionario fu un tempo di genera-
le delusione. Per chi non era profondamente legato alle
idee rivoluzionarie la delusione cominciò già con la Con-
venzione; per chi piú le amava col Termidoro. Ai primi
a poco a poco venne in odio tutto ciò che ricordava la
Rivoluzione; per gli altri, ogni nuovo passo confermava
il tradimento dei loro ex alleati. Ma fu un doloroso
risveglio anche per chi fin dal principio aveva subito
come un incubo il sogno rivoluzionario. A tutti il pre-
sente appariva ormai squallido e vuoto. Gli intellettua-
li si isolavano sempre piú dal resto della società e gli
ingegni piú fecondi vivevano ormai appartati. Cominciò
cosí a formarsi il concetto del filisteo e del piccolo bor-
ghese, del bourgeois contrapposto al citoyen; e si ebbe la
strana situazione, fino allora quasi senza esempio, di
artisti e poeti pieni di odio e di sprezzo per quella clas-
se cui pure dovevano la loro vita intellettuale e mate-
riale. Infatti il romanticismo fu un movimento essen-
zialmente borghese, anzi il movimento borghese per
eccellenza, che mise fine definitivamente alle conven-
zioni classiche, all’artificio e alla retorica aulica e nobi-
liare, allo stile elevato e al linguaggio scelto. L’arte del-

Storia dell’arte Einaudi 19


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’illuminismo, pur con le sue inclinazioni rivoluzionarie,


aveva tuttavia seguito il gusto classicheggiante dell’ari-
stocrazia. Non solo Voltaire e Pope, ma anche Prévost
e Marivaux, Swift e Sterne erano piú vicini al Seicento
che all’Ottocento. Soltanto con il romanticismo l’arte
diventa «document humain», grido di confessione, feri-
ta scoperta e dolorante. Quando la letteratura illumini-
stica celebra il borghese, lo fa sempre con un’intenzio-
ne piú o meno polemica verso i ceti superiori; solo con
il romanticismo il borghese diventa la naturale misura
dell’uomo. Né questo carattere borghese viene sminui-
to per l’origine aristocratica di tanti esponenti romanti-
ci, né per l’ostilità contro il filisteo, che è nel program-
ma culturale del romanticismo. Novalis, Kleist, Arnim,
Eichendorff e Chamisso, il visconte di Chateaubriand,
Lamartine, de Vigny, de Musset, Bonald, de Maistre e
Lamennais, lord Byron e Shelley, Leopardi e Manzoni,
Pu∫kin e Lermontov appartenevano a famiglie nobili e
in parte manifestavano opinioni aristocratiche; ma con
l’età romantica la letteratura era ormai esclusivamente
destinata al libero mercato, cioè a un pubblico borghe-
se. A un pubblico come questo si potevano magari sug-
gerire idee politiche opposte ai suoi veri interessi, ma
non era piú possibile presentargli il mondo nello stile
impersonale e nelle astratte categorie di pensiero del Set-
tecento. La concezione del mondo che questo pubblico
sentiva come sua si rivela soprattutto in quell’idea del-
l’autonomia dello spirito e dell’immanenza delle singo-
le sfere della cultura, che da Kant in poi ha dominato la
filosofia tedesca e sarebbe stata inconcepibile senza l’e-
mancipazione della borghesia13. Fino al romanticismo il
concetto di cultura era rimasto legato all’idea della fun-
zione subordinata dello spirito umano: si trattasse della
visione ecclesiastico-ascetica, o eroico-mondana, o ari-
stocratico-assolutistica, lo spirito vi appariva sempre
come un mezzo, mai rivolto a fini propri, immanenti.

Storia dell’arte Einaudi 20


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Sciolti gli antichi vincoli, svanito il senso dell’assoluta


nullità di fronte alle gerarchie ecclesiastiche e mondane,
ricondotto l’individuo a se stesso, solo allora poté sor-
ger l’idea dell’autonomia dello spirito. Essa corrispon-
deva alla mentalità del liberalismo economico e politico
e si mantenne finché il socialismo non portò l’idea di una
nuova subordinazione distruggendo nuovamente l’au-
tonomia dello spirito nel materialismo storico. Que-
st’autonomia, come anche l’individualismo romantico,
fu dunque una conseguenza, non la causa, del conflitto
che scosse la società settecentesca. In sé e per sé nessu-
no dei due concetti era veramente nuovo, ma per la
prima volta accadde che s’incitasse l’individuo alla rivol-
ta contro la struttura sociale e contro tutto ciò che impe-
diva la sua felicità14.
I romantici esaltarono il proprio individualismo per
compensare l’indifferenza del mondo per le cose dello
spirito e proteggersi dall’ostilità dell’ambiente borghe-
se e filisteo. Come già i preromantici, essi volevano con
l’estetismo isolarsi in una loro sfera esclusiva, dove nes-
suna forza estranea potesse interferire. Il classicismo
aveva regolato il concetto di bellezza su quello di verità,
cioè su un canone universalmente umano che compren-
desse tutta la vita. Ma ora Musset invertiva il motto di
Boileau proclamando: «Rien n’est vrai que le beau»
[«Nulla è vero se non la bellezza»]. I romantici giudi-
cavano la vita con i criteri dell’arte, tentando cosí di ele-
varsi sul resto dell’umanità quasi come una casta sacer-
dotale. Ma anche nel loro rapporto con l’arte si tradiva
l’atteggiamento ambivalente che dominava tutta la loro
concezione. La problematica goethiana intorno alla
natura dell’artista continuò e si arricchí nell’epoca
romantica; l’arte considerata come un organo
dell’«intuizione intellettuale», dell’esaltazione religiosa
e della rivelazione divina, tuttavia si dubitò del suo
valore nella vita. «L’arte è un frutto seduttore, proibi-

Storia dell’arte Einaudi 21


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

to, – diceva già Wackenroder, – chi ne ha gustato una


volta il piú intimo e dolce succo è irreparabilmente per-
duto per la vita attiva. Egli si rannicchia sempre piú nel
suo piacere...» E ancora: «Questo è il veleno dell’arte:
l’artista diventa un attore, che considera ogni vita come
una parte da recitare, e vede nella sua scena il mondo
vero, la polpa, e nella vita reale il guscio, una miserabi-
le imitazione raffazzonata»15. Anche la filosofia dell’i-
dentità di Schelling fu solo un tentativo di superare
questa contraddizione, e cosí il messaggio di Keats:
«Beauty is truth, truth beauty» [«Bellezza è verità,
verità è bellezza»]. Tuttavia l’estetismo rimane il carat-
tere fondamentale della visione romantica; e giusta-
mente Heine riassume classicismo e romanticismo come
«l’epoca dell’arte» (Kunstperiode) nella letteratura tede-
sca.
Nulla per i romantici era senza conflitto; e in ogni
loro manifestazione si riflette la problematica della loro
situazione storica e il loro intimo dissidio sentimentale.
La vita morale dell’umanità è tutta una catena di con-
trasti e di lotte; quanto piú differenziata la società,
tanto piú frequenti e aspri sono gli urti tra l’io e il
mondo, l’istinto e la ragione, il passato e il presente. Ma
nell’età romantica il conflitto diventa forma essenziale
della coscienza. Vita e pensiero, natura e civiltà, storia
ed eternità, solitudine e società, rivoluzione e tradizio-
ne non appaiono piú come logici correlativi e come alter-
native morali, fra cui si debba scegliere, ma come pos-
sibilità, che si cerca di attuare contemporaneamente.
Certo, essi non vengono ancora contrapposti dialettica-
mente, non si cerca una sintesi che ne esprima l’inter-
dipendenza; essi sono soltanto oggetto di esperimento e
di gioco. Né l’idealismo e lo spiritualismo, né l’irrazio-
nalismo e l’individualismo dominano senza contrasti;
piuttosto si alternano con una tendenza altrettanto forte
al naturalismo e al collettivismo. La schiettezza e la sta-

Storia dell’arte Einaudi 22


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

bilità delle posizioni filosofiche è cessata; non ci sono


piú che atteggiamenti riflessi, critici, problematici, tali
che portano sempre con sé, presente e realizzabile, il
loro contrario. Lo spirito umano ha perduto anche quel-
l’ultimo resto di spontaneità, che aveva ancora nel Set-
tecento. L’intimo dissidio e l’ambivalenza dei rapporti
spirituali vanno tanto oltre da giustificare l’affermazio-
ne che i romantici, o almeno i primi romantici tedeschi
fecero ogni sforzo per tener lontano da sé proprio quel
che era «romantico»16. Friedrich Schlegel e Novalis ten-
tarono almeno di superare la propria emotività e, pur
cosí soggettivi e sensibili, cercarono di fondare la loro
filosofia su qualcosa di saldo e universalmente valido.
Ecco appunto la grande, fondamentale differenza fra
preromantici e romantici: il sentimentalismo settecen-
tesco fu sostituito da un’acuita sensibilità, da un’accre-
sciuta «eccitabilità dell’animo» e se è vero che si conti-
nuò a versar lacrime, la reazione sentimentale cominciò
a perdere il suo valore etico scendendo a strati cultura-
li sempre piú bassi.
Nulla riflette con tanta immediatezza ed efficacia il
dissidio dell’anima romantica come la figura del «dop-
pio», sempre presente al romantico, e che ritorna nella
letteratura in forme e varianti innumerevoli. L’origine
di questa che finisce col diventare un’idea fissa è chia-
ra: è l’irresistibile impulso all’introspezione, la mania
dell’autocontemplazione di chi è spinto a considerarsi
sempre come un ignoto, un estraneo inquietante e lon-
tano. Anche questo naturalmente non è che un tentati-
vo di evasione che tradisce l’incapacità del romantico di
adattarsi alla propria condizione storica e sociale. Egli
si getta nello sdoppiamento come in tutto quel che è
oscuro e ambiguo, caotico ed estatico, demoniaco e dio-
nisiaco, cercandovi un rifugio di fronte alla realtà, che
la sua ragione non sa dominare. E in questa fuga egli sco-
pre l’inconscio, quel che alla ragione è celato, la fonte

Storia dell’arte Einaudi 23


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

delle fantasie nate dal desiderio e delle soluzioni irra-


zionali. Scopre che due anime abitano il suo petto; ch’e-
gli ha nell’intimo, diverso da sé, qualcosa che pensa e
sente; ch’egli porta seco il suo demone e il suo giudice;
in breve, scopre i fatti fondamentali della psicanalisi. Ai
suoi occhi l’irrazionale ha l’immenso vantaggio di esse-
re incontrollabile, quindi egli apprezza gli impulsi oscu-
ri e inconsci, gli stati d’animo sognanti ed ebbri, e ricer-
ca in essi l’appagamento, che non può dargli la critica
spassionata e fredda della ragione. «La sensibilité n’est
guère la qualité d’un grand génie... Ce n’est pas son
cœur, c’est sa tête qui fait tout» [«La sensibilità non è
affatto la qualità di un grande genio... Non il suo cuore,
ma la sua testa fa tutto»], diceva Diderot17. Ora invece
si attende tutto dal salto mortale della ragione; donde
la fede nelle esperienze dirette e negli stati d’animo,
l’abbandono all’istante e all’impressione fuggevole e
quell’adorazione del caos di cui parla Novalis. Quanto
piú impenetrabile è il caos, tanto piú splendido si spera
l’astro che ne uscirà. Di qui il culto del misterioso e del
notturno, del bizzarro e del grottesco, del pauroso e
dello spettrale, del diabolico e del macabro, del patolo-
gico e del perverso. Definire sommariamente, come ha
fatto Goethe, il romanticismo «poesia da lazzaretto», è
certo una grande ingiustizia, ma un’ingiustizia signifi-
cativa, anche se, dicendo questo, non si pensa proprio
a Novalis e ai suoi aforismi, secondo cui la vita è una
malattia dello spirito, e sono le malattie che distinguo-
no l’uomo dalle piante e dagli animali. Naturalmente,
anche la malattia non è che un modo di sfuggire ai com-
piti imposti dalla vita alla ragione, un pretesto per sot-
trarsi a doveri quotidiani. Affermando che i romantici
erano «malati» non si dice gran che; ma quando si rico-
nosce che la filosofia della malattia era un elemento
essenziale della loro generale concezione, si viene a dire
qualche cosa di piú. Per loro la malattia rappresentava

Storia dell’arte Einaudi 24


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

la negazione del consueto, del normale, del ragionevole


e portava in sé quel dualismo di vita e morte, natura e
non natura, vincolo e dissoluzione, che dominava tutto
il loro mondo. Essa significava la svalutazione di tutto
ciò che è chiaro e durevole e rispondeva all’ostilità
romantica verso ogni limite, ogni forma salda e defini-
tiva.
Come sappiamo, già Goethe parlava di una falsità e
insufficienza delle forme e, ripensando alle sue parole,
comprendiamo perché i francesi lo abbiano sempre
annoverato fra i romantici. Ma per Goethe le circo-
scritte forme dell’arte erano false solo di fronte alla con-
creta ricchezza della vita; per i romantici invece ogni
cosa chiara e definitiva era di per sé meno valida del-
l’aperta, irrealizzata possibilità a cui essi attribuivano i
caratteri dell’infinito divenire, dell’eterno moto, del
dinamismo e della fecondità vitale. Ogni forma salda,
ogni idea chiara, ogni netta parola per loro era morta e
bugiarda; quindi, pur con il loro estetismo, essi erano
inclini a svalutare l’opera d’arte per la sua forma disci-
plinata e autosufficiente. In loro le intemperanze e gli
arbitrî, la mescolanza e la fusione delle arti, l’espressio-
ne improvvisata e frammentaria non erano che sintomi
di questa visione dinamica della vita a cui essi doveva-
no tutta la loro genialità, la loro sensibilità esasperata e
la loro chiaroveggenza storica. Dalla Rivoluzione in poi
l’individuo aveva perduto ogni appoggio esteriore; dove-
va contare su se stesso e in se stesso cercare i punti d’ap-
poggio; e appunto nel suo io trovò un oggetto infinita-
mente importante, infinitamente interessante. All’espe-
rienza del mondo sostituí l’esperienza di sé e la vita inte-
riore, il flusso delle idee e dei sentimenti, il moto da uno
stato d’animo all’altro finirono col sembrargli piú reali
della realtà esterna. Considerò il mondo soltanto come
materia prima e substrato delle proprie esperienze e se
ne valse come di un pretesto per parlar di se stesso.

Storia dell’arte Einaudi 25


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

«Tutti i casi della nostra vita, – disse Novalis, – sono


materiali, di cui possiamo far quel che vogliamo, ogni
cosa è un anello in un’infinita catena». Cioè vengono
svalutati tanto l’inizio quanto il termine ultimo dell’e-
sperienza, in altre parole il contenuto e la forma della
creazione artistica. Il mondo diventa soltanto occasione
dell’attività spirituale, l’arte un vaso casuale in cui i
contenuti dell’esperienza assumono forma per un atti-
mo. In altre parole, sorge quel modo di pensare che è
stato chiamato occasionalismo romantico18, nel quale la
realtà si dissolve in una serie di occasioni senza reale
sostanza, in sé indeterminate, in puri stimoli alla fecon-
dità intellettuale, in situazioni che apparentemente esi-
stono solo perché il soggetto possa accertarsi della pro-
pria esistenza. Quanto piú indeterminati, cangianti,
aerei, «musicali» sono gli stimoli, tanto piú forte è la
vibrazione del soggetto; quanto piú inafferrabile, fluido,
inconsistente appare il mondo, tanto piú forte, libero,
autonomo si sentirà l’io, che lotta per affermarsi. Solo
una situazione storica, in cui l’individuo era ormai libe-
ro e indipendente, ma si sentiva minacciato e in perico-
lo, poteva produrre un tale atteggiamento. L’ostentato
soggettivismo, l’incontenibile impulso all’espansione
della sfera psichica, il lirismo dell’arte nuova, sempre
insoddisfatto e in gara con se stesso, si spiegano solo con
questa intima scissione. Non si intende il romanticismo
se non si parte da questa disarmonia e dalle ipercom-
pensazioni correlative che caratterizzano l’individuo
liberato e deluso del periodo postrivoluzionario.
La conversione politica del romanticismo dal libera-
lismo al legittimismo conservatore, in Germania; il pro-
cesso opposto, in Francia; quello ben piú complicato
nelle sue oscillazioni tra Rivoluzione e Restaurazione,
ma in complesso simile allo sviluppo francese, in Inghil-
terra, furono possibili solo grazie all’atteggiamento del
romanticismo, ambivalente anche di fronte alla Rivolu-

Storia dell’arte Einaudi 26


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

zione, e sempre pronto a rovesciar le sue posizioni. Il


neoclassicismo tedesco aveva simpatizzato con le idee
della Rivoluzione francese, e questa simpatia si fece
anche piú profonda nel romanticismo tedesco che, come
già hanno accertato Haym e Dilthey, non fu mai del
tutto apolitico19. Solo durante le guerre napoleoniche
riuscí alle classi dominanti di guadagnare i romantici alla
reazione. Fino all’invasione napoleonica, in Germania le
forze conservatrici si erano sentite pienamente sicure e
si erano mostrate a loro modo «illuminate» e tolleranti;
ma ora che il vittorioso esercito francese minacciava di
diffondere anche le conquiste della Rivoluzione, deci-
sero di reprimere ogni forma di liberalismo e nell’inva-
sore combatterono soprattutto l’esponente della Rivo-
luzione. Gli elementi davvero progressisti e indipen-
denti, come Goethe, non si lasciarono trarre in ingan-
no dalla propaganda antinapoleonica; ma nella borghe-
sia e nel ceto colto non rappresentavano che una mino-
ranza sempre piú esigua. Fin dall’inizio lo spirito rivo-
luzionario in Germania era stato diverso da quello fran-
cese. L’entusiasmo dei poeti tedeschi per la Rivoluzio-
ne era un atteggiamento astratto che travisava i fatti; ad
essi, come alle classi dominanti, nella loro improvvida
tolleranza, sfuggiva il vero significato degli avvenimen-
ti. I poeti s’immaginavano la Rivoluzione come una gran
discussione filosofica; e i detentori del potere vi assi-
stevano come a uno spettacolo che in Germania, secon-
do loro, non sarebbe mai divenuto realtà. Questo spie-
ga il completo voltafaccia di tutto il paese durante le
guerre di liberazione. Il mutamento di Fichte, il repub-
blicano che a un tratto vede nel presente il tempo
dell’«assoluta empietà», è quanto mai sintomatico. La
Rivoluzione, un tempo romanticizzata, è ora tanto piú
aspramente respinta, e questo provoca l’identificarsi del
romanticismo con la Restaurazione. E tutti i romantici
sono già passati al campo legittimista e conservatore,

Storia dell’arte Einaudi 27


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

quando in Occidente il movimento romantico entra


nella fase davvero creatrice e rivoluzionaria20.
Il romanticismo francese, che agli inizi era una «let-
teratura di emigrati»21, rimase fino dopo il 1820 il por-
tavoce della Restaurazione. Ma, tra il 1825 e il 1830,
esso si trasforma in un movimento liberale, che formu-
la i suoi obbiettivi artistici in termini analoghi a quelli
della politica rivoluzionaria. In Inghilterra, come in Ger-
mania, il romanticismo dapprima è favorevole alla Rivo-
luzione e solo durante la lotta contro Napoleone diven-
ta conservatore; tuttavia, dopo la guerra esso prende una
nuova piega e si riavvicina agli antichi ideali. In Fran-
cia e in Inghilterra esso dunque finisce col rivolgersi con-
tro la Restaurazione e la reazione, e in termini assai piú
chiari di quanto accada nell’evoluzione politica. Infatti,
sebbene le idee liberali apparentemente riescano a
imporsi nelle costituzioni e nelle istituzioni dell’Occi-
dente, l’Europa moderna, con la sua politica economi-
ca filocapitalistica, le sue monarchie militaristiche e
imperialistiche, i suoi sistemi amministrativi accentrati
e burocratici, le Chiese riabilitate e le religioni di stato,
è nella stessa misura creazione della Restaurazione e
dell’illuminismo, e con uguale diritto si può vedere nel-
l’Ottocento un periodo di opposizione allo spirito rivo-
luzionario, e anche un trionfo del pensiero illuministi-
co e liberale22. Se già l’impero napoleonico aveva signi-
ficato il dissolversi degli ideali individualistici della
Rivoluzione, la vittoria degli alleati sul Còrso, la Santa
Alleanza e il ritorno dei Borboni portarono alla defini-
tiva frattura con il Settecento e con l’idea di modellare
lo stato e la società sulle esigenze dell’individuo. Ma dal
pensiero e dall’esperienza della nuova generazione l’in-
dividualismo non poté piú esser bandito; il che spiega la
contraddizione tra la politica reazionaria e le tendenze
liberali dell’arte.

Storia dell’arte Einaudi 28


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Per la Restaurazione l’avventura militare di Bona-


parte non era che la controparte del delitto politico del
1789, e il Primo Impero ne continuava l’illegalità e l’a-
narchia. Per i legittimisti tutta l’epoca rivoluzionaria e
napoleonica era un unico fenomeno, una metodica dis-
soluzione dell’ordine antico, della gerarchia, dei diritti
di proprietà. E l’Impero, pur con le sue tendenze rea-
zionarie, era tanto piú pericoloso in quanto pareva con-
solidare le conquiste della Rivoluzione e creare un nuovo
equilibrio. Di fronte a tutto questo la Restaurazione
aprí una era nuova. Essa salvò il salvabile e tentò di sta-
bilire un compromesso fra quanto si poteva restaurare
delle antiche istituzioni e quanto delle nuove non si
poteva piú mutare. In questo anche la Restaurazione
non fece che continuare il periodo napoleonico; rappre-
sentò essa pure un compromesso fra i principî rivolu-
zionari e le idee dell’ancien régime; con la differenza
però che Napoleone voleva conservare il piú possibile
delle conquiste rivoluzionarie, mentre la Restaurazione
avrebbe voluto, potendo, negare la Rivoluzione. Non si
deve sottovalutare questa differenza, sebbene nei primi
tempi la Restaurazione abbia significato un allentamen-
to di quel rigore, che avevano dovuto esercitare sia la
Rivoluzione sempre in pericolo mortale, sia l’Impero
minacciato da destra e da sinistra. Naturalmente non
c’era da parlare di rinascita della libertà civile, dopo la
dittatura militare di Napoleone; parve che cosí fosse,
solo perché ora si perseguitavano o danneggiavano grup-
pi o classi intere anziché individui singoli; tuttavia nel
quadro di questo regime classista la libertà, nei limiti
della legge, era fino a un certo punto garantita. La
Restaurazione poté permettersi il lusso di esser piú tol-
lerante dei suoi predecessori. La reazione era vittoriosa
in tutta Europa e le idee liberali diventavano innocue;
i popoli europei erano stanchi delle imprese rivoluzio-
narie e militari e anelavano alla tranquillità. Cosí lo

Storia dell’arte Einaudi 29


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

scambio delle idee poté avvenire con piú libertà di


prima, e non ci furono piú interventi dell’autorità per
imporre questo o quel criterio di gusto, benché si sen-
tisse molto nettamente lo sfondo politico delle diverse
posizioni artistiche.
In Francia da principio i romantici si dichiarano
senza eccezione legittimisti e clericali, mentre la tradi-
zione classica nella letteratura è rappresentata princi-
palmente dai liberali. Non tutti i classicisti sono libera-
li, ma tutti i liberali sono classicisti23. Forse non c’è
altro esempio nella storia dell’arte da cui risulti cosí
chiaro che una tendenza politica conservatrice può
benissimo accordarsi con un atteggiamento innovatore
in arte; anzi, che i concetti di conservazione e progres-
so sono incommensurabili fra le due sfere. Tra i libera-
li di tendenze classiciste e gli ultra romantici non è pos-
sibile alcuna intesa, ma fra i legittimisti c’è tutto un
gruppo che aderisce alla visione classica, sebbene, a dif-
ferenza dei liberali, si ispiri al classicismo del grand siè-
cle, non già a quello del Settecento. E nella lotta contro
i romantici, classicisti liberali e conservatori sono asso-
lutamente unanimi; perciò l’Accademia respinge Lamar-
tine, benché conservatore. Essa, del resto, non rappre-
senta piú il gusto letterario prevalente fra il pubblico;
gran parte dei lettori segue i romantici, con una passio-
ne finora sconosciuta. Già il successo del Génie du Chri-
stianisme fu inaudito nel suo genere, ma mai, né prima
né poi, era accaduto che una piccola raccolta di liriche
fosse accolta con l’entusiasmo con cui furono accolte le
Méditations di Lamartine. Dopo il lungo ristagno, comin-
cia ora per la letteratura un’epoca viva, fecondissima,
ricca d’ingegni eccezionali e di opere riuscite. Il pubblico
non è vasto, ma si appassiona alla letteratura con entu-
siasmo e sinceramente24. Si comprano molti libri, i gior-
nali seguono con la massima attenzione gli avvenimen-
ti letterari, i salotti si riaprono e onorano i nuovi eroi

Storia dell’arte Einaudi 30


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dello spirito. La relativa libertà favorisce la differenzia-


zione delle aspirazioni letterarie, e l’unità culturale del
grand siècle a poco a poco appare in una mitica lonta-
nanza. È vero che anche il Seicento aveva conosciuto un
conflitto tra vecchio e nuovo, un contrasto tra la ten-
denza accademica di Le Brun e la concezione pittorica
dei suoi avversari; e il Settecento l’antagonismo, ben piú
aspro, tra l’aulico Rococò e il preromanticismo borghe-
se. Ma per tutto l’ancien regime aveva dominato un
gusto sostanzialmente omogeneo, un’ortodossia i cui
oppositori facevano sempre figura di eretici e di bizzar-
ri. Insomma, non c’erano in arte tendenze propriamen-
te rivali. Ora invece ci sono due gruppi ugualmente
forti, o almeno ugualmente stimati. Nessuna delle ten-
denze in lizza domina incontrastata o prevale negli
ambienti piú colti; e neppure dopo il trionfo del roman-
ticismo c’è un «gusto romantico» che detti legge come
un tempo il gusto neoclassico. È vero che nessuno sfug-
ge al suo influsso, ma non è affatto vero che ognuno lo
proclami, e i primi conflitti interni cominciano quasi
nello stesso momento del suo trionfo. L’antagonismo
delle tendenze è adesso un tratto fondamentale della vita
artistica, non meno che l’intolleranza del pubblico verso
i nuovi ingegni. La borghesia fiuta scherno e disprezzo
in tutto ciò che non capisce e finisce col respingere per
principio ogni cosa nuova. La linea che separa l’orto-
dossia estetica dall’eresia a poco a poco si perde, e alla
fine la distinzione non avrà piú senso. Ben presto in let-
teratura non ci sono piú che «partiti», e comincia per le
lettere quasi un tempo di democrazia. La novità socio-
logica del Romanticismo è la politicizzazione dell’arte,
non solo nel senso che artisti e scrittori aderiscono a par-
titi politici, ma anche che fanno una politica di partito
anche nel campo artistico. «Vous verrez qu’il faudra
finir par avoir une opinion» [«Vedrete che bisognerà
finire per l’avere un’opinione»], dice malinconicamen-

Storia dell’arte Einaudi 31


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

te un eclettico dell’epoca, e Balzac nelle Illusions per-


dues25 descrive cosí la situazione: «Les royalistes sont
romantiques, les libéraux classiques... Si vous êtes éclec-
tiques, vous n’aurez personne pour vous» [«i monarchici
sono romantici, i liberali classici... Se siete eclettici,
nessuno vi sosterrà»]. La necessità di prendere posizio-
ne nella grande controversia, Balzac la vede giustamen-
te, ma la situazione è alquanto piú complicata.
Il principale esponente della «letteratura dell’emigra-
zione» è Chateaubriand. Con Rousseau e Byron, egli è
uno dei piú autorevoli artefici del nuovo uomo romanti-
co, e come tale ha nella storia della letteratura moderna
una parte incomparabilmente maggiore di quanto com-
porti il valore intrinseco delle sue opere. Egli è l’espo-
nente, non il campione o il creatore di un movimento spi-
rituale, ch’egli arricchisce soltanto di una nuova forma
espressiva, non di un nuovo contenuto d’esperienza. Il
Saint-Preux di Rousseau e il Werther di Goethe erano
state le prime incarnazioni del disinganno che aveva dato
il tono all’età romantica; il René di Chateaubriand espri-
me la disperazione in cui ora il disinganno va trasfor-
mandosi. Il sentimentalismo e la malinconia preroman-
tica rispondevano allo stato d’animo della borghesia
prima della Rivoluzione; il pessimismo e il taedium vitae
della letteratura degli emigrati riflettono invece lo stato
d’animo dell’aristocrazia dopo la bufera rivoluzionaria.
Questo diventa un generale fenomeno europeo dopo la
caduta di Napoleone ed esprime il sentimento di tutta
l’alta società. Rousseau ancora sapeva perché era infeli-
ce: soffriva a causa della civiltà moderna, delle conven-
zioni sociali inadeguate alle esigenze del suo spirito. Egli
sapeva immaginarsi una situazione concreta, non impor-
ta se irrealizzabile, nella quale il suo male sarebbe guari-
to. Invece la malinconia di René è indefinibile e incura-
bile. Per lui tutta la vita è ormai priva di senso; egli prova
un infinito, esaltato bisogno di amore, di comunione,

Storia dell’arte Einaudi 32


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

un’eterna brama di abbracciare l’universo e di scioglier-


si in esso; ma sa che non è dato appagarla e che l’anima
sua rimarrebbe insoddisfatta anche se si adempisse ogni
suo desiderio. Nulla è degno di essere desiderato, vano
è ogni sforzo e vana ogni lotta; l’unica azione sensata è
il suicidio. E suicidio è già l’assoluta separazione del
mondo intimo da quello esterno, della poesia dalla prosa
quotidiana; suicidio è la solitudine, il disprezzo del
mondo e la misantropia, l’esistenza irreale, astratta,
disperatamente egoistica, che menano le nature roman-
tiche del nuovo secolo.
Chateaubriand, Madame de Staël, Senancour, Con-
stant, Nodier sono tutti vicini a Rousseau e sono vio-
lentemente avversi a Voltaire. Ma i piú fra loro si sen-
tono in contrasto solo con il razionalismo settecentesco,
non con quello del grand siècle. Solo cosí riesce, soprat-
tutto a Chateaubriand, di conciliare la concezione arti-
stica progressiva con la politica conservatrice, la fedeltà
alla monarchia e il clericalismo, l’entusiasmo per il trono
e l’altare. E solo perché il romanticismo si sente piú affi-
ne a tempi lontani che al recente passato, Lamartine,
Vigny e Victor Hugo rimangono cosí a lungo fedeli al
legittimismo. I primi segni di una conversione politica
appaiono verso il 1824. Nasce allora la prima delle con-
venticole romantiche (cénacles), il celebre gruppo intor-
no a Charles Nodier all’Arsenal, e il movimento comin-
cia a concretarsi in una specie di scuola. La cornice
sociale in cui si era sviluppata la letteratura francese del
Settecento erano stati i salotti, cioè i regolari incontri
di poeti, artisti e critici con i membri della classe diri-
gente nelle case dell’aristocrazia, e dell’alta borghesia.
Erano ambienti chiusi, ligi al costume signorile, che,
nonostante ogni concessione alle maniere dei corifei
intellettuali, conservavano un ben preciso tono di
«società». Ma il loro influsso, pur stimolante per lo
scrittore, non era direttamente creativo. Essi costitui-

Storia dell’arte Einaudi 33


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vano piuttosto una sorta di tribunale letterario a cui per


lo piú ci si sottometteva docilmente, una scuola di buon
gusto, dove si decideva delle mode letterarie, ma non era
certo un ambiente propizio alla feconda collaborazione
di un gruppo. I cenacoli romantici invece sono circoli
amichevoli di artisti in cui c’è assai poco il tono di
«società»: anzitutto perché si formano sempre intorno
a un artista e poi perché sono molto meno chiusi del piú
liberale dei salotti. Qui non solo è benvenuto ogni poeta,
artista, critico pronto ad aderire al movimento, ma
anche ogni semplice membro del pubblico che ne sia fau-
tore. Questa apertura e promiscuità, se certamente
impediscono al movimento di avere un rigido carattere
di scuola, non impediscono però lo sviluppo di criteri
estetici comuni e di un programma caratterizzato. A
differenza di quanto avveniva un tempo, l’ambito in cui
si svolge la vita letteraria non è un salotto privo di cen-
tro, come nella Francia del Settecento, e neppure un
club o un caffè, come in Inghilterra; qui abbiamo un
gruppo che si raccoglie intorno a un poeta o a una per-
sonalità che il gruppo considera come maestro, e di cui
riconosce l’autorità assoluta, benché non sempre in un
esplicito rapporto di scuola. Per la prima volta nella sto-
ria della letteratura moderna accade che sia una scuola
a determinare l’evoluzione. Né il Sei, né il Settecento
conoscono tale fenomeno, che pure sarebbe stato piú
rispondente al carattere normativo della letteratura clas-
sica. Il romanticismo invece, nonostante la dubbia vali-
dità dei suoi principî artistici, o forse grazie ad essa, svi-
luppa una scuola con una dottrina rigorosamente for-
mulabile e apprendibile. Nell’età classica tutta quanta la
letteratura francese costituiva una grande scuola, e il
gusto era unico in tutta la Francia; i dissidenti e i ribel-
li rappresentavano un gruppo troppo disparato per
inquadrarsi in un programma comune. Ma ora che la let-
teratura francese è divenuta il campo di battaglia di due

Storia dell’arte Einaudi 34


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

grandi partiti quasi equivalenti, ora che l’esempio della


vita politica induce i poeti a formulare programmi di
parte, suscitando in loro il desiderio di un capo, ora, infi-
ne, che le mete della nuova corrente artistica sono anco-
ra cosí oscure e contraddittorie da dover essere riassun-
te e codificate, ora è venuto il tempo di fondare scuole
letterarie.
Questo aspetto del romanticismo fu piú evidente in
Francia che in Germania, dove l’ideale classico non si
realizzò mai con assoluta purezza, e dove la sua visione,
già cosí venata di romanticismo, rimase in complesso
normativa anche per i romantici. In ogni caso, qui il
carattere partigiano della vita letteraria fu meno netto
che in Francia, e quindi meno reciso il raggrupparsi
degli scrittori per scuole. In Inghilterra, dove il contra-
sto tra classici e romantici aveva perso ogni preciso con-
tenuto fin dalla seconda metà del Settecento, perché
ormai la letteratura non era che romantica, non si costi-
tuirono scuole, né si ebbero veri e propri maestri26. Vera-
mente anche i cénacles francesi spesso non sono che
chiesuole letterarie tenute insieme unicamente da un
gergo comune; viste dall’esterno sembrano congiure,
dall’interno, compagnie di attori pieni di gelosia. Spes-
so pare che siano soltanto sette battagliere o ambienti
di accesa polemica, per cui la dottrina è piú importante
della prassi e il distinguersi vale piú che l’adeguarsi.
Tuttavia, in Francia come in Germania, è propria del
movimento romantico una concezione profonda della
comunione di idee e di intenti e una forte tendenza a
raccogliersi in gruppi. I romantici amano dedicarsi in
comune alla filosofia, alla poesia, alla discussione, alla
critica e trovano nell’amicizia e nell’amore il senso piú
intimo della vita; fondano riviste, pubblicano annali e
antologie, tengono conferenze e corsi, fanno propagan-
da per sé e per i compagni, cercano, insomma, l’unione
piú stretta, anche se questa urgenza di simbiosi è sol-

Storia dell’arte Einaudi 35


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tanto l’altra faccia del loro individualismo, il compenso


alla loro solitudine di sradicati.
Il confluire del romanticismo francese in un gruppo
omogeneo coincide con il volgersi dell’opinione pubbli-
ca verso il liberalismo. Intorno al 1824 il «Globe»
comincia a cambiare tono, ed è il momento delle prime
riunioni regolari all’Arsenal. I romantici piú in vista,
anzitutto Lamartine e Hugo, sono ancora fedeli alla
Chiesa e al trono, ma il romanticismo cessa di essere
esclusivamente clericale e monarchico. Tuttavia il vero
e proprio rivolgimento lo si ha nel 1827, quando Victor
Hugo scrive la celebre prefazione del Cromwell enun-
ciando chiara e netta la tesi del romanticismo come libe-
ralismo letterario. Quell’anno stesso il Salon espone per
la prima volta numerosi quadri dei pittori romantici piú
in vista: accanto a dodici tele di Delacroix, opere tipi-
che di Devéria e di Boulanger. È un vasto, compatto
movimento, che pare estendersi a tutta la vita intellet-
tuale e giungere alla vittoria definitiva. A questo carat-
tere di universalità corrisponde anche il costituirsi del
nuovo cénacle intorno a Victor Hugo, che d’ora in poi
è il maestro della scuola romantica. Gli scrittori
Deschamps, Vigny, Sainte-Beuve, Dumas, De Musset,
Balzac, i pittori Delacroix, Devéria, Boulanger, gli inci-
sori Johannot, Gigoux, Nanteuil, lo scultore David
d’Angers sono fra gli ospiti usuali di rue de
Notre-Dame-des-Champs. Qui Victor Hugo legge i suoi
drammi, Marion Delorme e Hernani. È vero che il grup-
po si scioglie già nello stesso anno, ma la scuola conti-
nua. Anzi il movimento si concentra e si chiarisce,
diventando sempre piú definito e radicale. Già dal
secondo cénacle in casa di Nodier, nel 1829, scompaio-
no gli elementi semiclassicheggianti, mentre pittori e
scultori diventano membri regolari del gruppo. La com-
pleta unità del movimento, come la sua tendenza anti-
borghese che a poco a poco diventa un dogma, si rivela

Storia dell’arte Einaudi 36


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nel modo piú netto nell’ultimo cénacle che si riunisce


negli atéliers di rue du Doyenné, dove abitano Théophi-
le Gautier, Gérard de Nerval e i loro amici. Questa colo-
nia di artisti con la sua avversione per il filisteo e la sua
dottrina de «l’art pour l’art» è il vivaio della moderna
bohème.
Lo stile bohème, che si usa attribuire al romanticismo,
non risale davvero ai suoi inizi. Da Chateaubriand a
Lamartine, i romantici in Francia furono quasi esclusi-
vamente elementi della nobiltà e quando, dal 1824,
cessò l’unanime fedeltà alla monarchia e alla Chiesa, il
romanticismo rimase tuttavia piú o meno aristocratico
e clericale. Solo gradatamente la guida del movimento
passa a plebei come Victor Hugo, Théophile Gautier e
Alexandre Dumas; e solo poco prima della Rivoluzione
di luglio, la maggioranza dei romantici rinuncia al pro-
prio atteggiamento conservatore. Ma l’importanza
nuova dell’elemento plebeo è un sintomo piú che la
causa del mutamento politico. Da principio gli scrittori
borghesi si erano adeguati alla mentalità conservatrice
degli aristocratici; ora invece anche i nobili Lamartine
e Chateaubriand passano all’opposizione. Le restrizioni
sempre maggiori delle libertà sotto il governo di Carlo
X, la clericalizzazione della vita pubblica, l’introduzio-
ne della pena di morte per i sacrilegi, lo scioglimento
della Guardia Nazionale e della Camera, l’arbitrio di
ordinanze e decreti, non fanno che affrettare l’evolver-
si della cultura in senso radicale. Si sente ancora piú
chiaramente quel che fin dal 1815 era innegabile, cioè
che la Restaurazione segnava la sconfitta definitiva della
Rivoluzione. Ora gli spiriti si sono finalmente riavuti
dell’apatia postrivoluzionaria, e proprio questo nuovo
stato d’animo spinge Carlo X a misure sempre piú retri-
ve, che è l’unica via possibile a un governo che si appog-
gia agli elementi reazionari. I romantici, che a poco a
poco si erano resi conto dove realmente portava la

Storia dell’arte Einaudi 37


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Restaurazione, riconobbero nello stesso tempo che la


ricca borghesia capitalistica era il piú forte sostegno del
regime, assai piú dell’antica nobiltà, in parte spogliata
dei suoi beni e comunque inabile alla lotta. Tutto il loro
odio, tutto il loro disprezzo si riversò ora sulla classe bor-
ghese. Il bourgeois, meschino, avido, ipocrita, divenne
il principale nemico e di fronte ad esso l’artista, pove-
ro, onesto, sincero, ribelle a ogni vincolo umiliante e a
ogni convenzione menzognera, apparve senz’altro come
il nuovo ideale umano. Lo straniarsi dalla vita pratica,
da una vita legata a solide radici sociali e a chiari impe-
gni politici, fenomeno caratteristico del romanticismo e
in Germania già in atto fin dal Settecento, ormai divie-
ne l’atteggiamento prevalente dappertutto. Anche nei
paesi occidentali si apre ora un abisso invalicabile tra il
genio e l’uomo comune, tra l’artista e il pubblico, tra
l’arte e la realtà sociale. I modi liberi e sfacciati della
bohème, l’ambizione spesso fanciullesca di mettere in
imbarazzo e irritare il borghese sprovveduto, lo spa-
smodico sforzo di distinguersi dalla normalità, dalla
media, gli abiti eccentrici, le zazzere e le barbe, il pan-
ciotto rosso di Gautier e il bizzarro costume altrettan-
to appariscente, se pur non sempre cosí chiassoso, dei
suoi amici, il linguaggio disinvolto e paradossale, l’esa-
gerazione delle idee formulate in modo aggressivo, le
invettive e le sconvenienze, tutto ciò manifesta soltan-
to l’intento di isolarsi dalla società borghese, o piutto-
sto di presentare come voluto e gradito l’ormai comple-
to isolamento.
Per la Jeune France, come si chiamano ora i ribelli,
tutto s’impernia sull’odio contro i filistei, sul disprezzo
della vita borghese metodica e inaridita, sulla lotta con-
tro tradizioni e convenzioni, contro tutto quel che si può
insegnare e apprendere, tutto quel che è maturo e tran-
quillo. Il sistema dei valori spirituali si arricchisce ora di
un nuovo concetto: l’idea della giovinezza come forza

Storia dell’arte Einaudi 38


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

creatrice e già di per sé superiore alla vecchiaia. È un’i-


dea nuova, estranea soprattutto al classicismo, ma in
certo modo anche a ogni precedente cultura. Natural-
mente anche prima non mancavano rivalità fra le diver-
se generazioni e la giovinezza riusciva spesso vittoriosa
in quanto esponente dei nuovi valori artistici. Ma non
vinceva per il solo fatto d’esser «giovane»; di fronte ad
essa la cautela prevaleva sull’eccessiva fiducia. Solo con
il romanticismo ci si avvezza a considerare i «giovani»
come i naturali campioni del progresso, e solo dopo la
sconfitta del classicismo si parla del torto che, per prin-
cipio, la vecchia generazione ha di fronte a loro27. Del
resto, la solidarietà fra i giovani, come l’insistenza sul-
l’unità delle arti, non è che un sintomo dell’isolamento
romantico nel mondo prosaico del filisteo. Mentre il
Settecento aveva insistito sulla connessione della lette-
ratura con la filosofia, ora, coerentemente, la letteratu-
ra viene designata come «arte»28. Finché gli artisti ave-
vano avuto l’ambizione di appartenere all’alta borghe-
sia, avevano insistito sull’affinità della loro professione
con quella dei letterati; ma ora sono i poeti che voglio-
no distinguersi dalla borghesia e cosí accentuano la loro
affinità con gli artisti.
I romantici sono talmente compiaciuti di se stessi e
tale è la loro vanità, che correggono anche il loro este-
tismo iniziale e, se prima del poeta facevano un dio, ora
di Dio fanno un poeta. «Dieu n’est peut-être que le pre-
mier poète du monde» [«Dio forse non è che il primo
poeta del mondo»] dice Gautier. Anche la teoria de
«l’art pour l’art», che veramente è un fenomeno quan-
to mai complesso ed esprime insieme un atteggiamento
liberale e un quietismo conservatore, nasce dalla prote-
sta contro i canoni borghesi. Quando Gautier mette in
evidenza il carattere di pura forma e di gioco dell’arte,
quando la vuol liberare dalle idee e dagli ideali, vorreb-
be anzitutto liberarla dalla tirannia dell’ordine borghe-

Storia dell’arte Einaudi 39


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

se. E pare ch’egli abbia detto a Taine, che lodava De


Musset a spese di Victor Hugo: «Taine, sembra che lei
cada nell’idiozia borghese. Esigere sentimento dalla poe-
sia! Non è questo che importa. Parole radiose, parole di
luce che si fanno ritmo e musica, ecco la poesia»29. Ne
«l’art pour l’art» di Gautier, Stendhal e Mérimée, nella
loro emancipazione dalle idee del tempo, nel proposito
di esercitare l’arte come un gioco sublime e di goderla
come un segreto paradiso vietato ai comuni mortali,
l’opposizione al mondo borghese gioca un ruolo anche
maggiore che nell’estetismo del periodo piú tardo, quan-
do la rinunzia a ogni attività politica e sociale è ben
accolta dalla borghesia ormai al potere. Gautier e i suoi
compagni rifiutano di cooperare con la borghesia al sog-
giogamento morale della società; Flaubert, Leconte de
Lisle e Baudelaire invece, chiudendosi nella loro torre
di avorio, senza curarsi piú di come vada il mondo, non
fanno che favorire gli interessi borghesi.
La lotta dei romantici per conquistare il teatro, in
particolare la famosa battaglia per Hernani di Victor
Hugo, fu la lotta di rue du Doyenné, della bohème e
della gioventú. Non si può dire che sia stata coronata da
una smagliante vittoria; l’opposizione non scomparve da
un giorno all’altro, e ancora per molto tempo rimase
padrona dei maggiori teatri di Parigi. Ma ormai il desti-
no del movimento non era piú legato all’accoglienza
fatta a un dramma; come indirizzo del gusto, esso già da
un pezzo aveva conquistato il mondo. Intorno al 1830
la sola novità è la piena adesione del romanticismo alla
vita politica e la sua alleanza con il liberalismo. Dopo la
Rivoluzione di luglio, gli esponenti della cultura escono
dalla loro passività e molti abbandonano la carriera let-
teraria per quella politica. Ma anche i poeti che restano
fedeli alla loro vocazione, come Lamartine e Victor
Hugo, partecipano agli eventi politici piú attivamente e
direttamente di prima. Victor Hugo non è un ribelle né

Storia dell’arte Einaudi 40


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

un bohémien e non ha alcun rapporto diretto con la


campagna dei romantici contro i borghesi. Piuttosto,
nella sua evoluzione politica, egli segue la strada della
borghesia francese. Da principio fedele seguace dei Bor-
boni, piú tardi prende parte alla Rivoluzione e aderisce
alla monarchia di luglio; infine sostiene le aspirazioni di
Luigi Napoleone, per diventare repubblicano e radicale
solo quando ormai la maggioranza della borghesia fran-
cese è diventata liberale e antimonarchica. Anche nei
suoi atteggiamenti verso Napoleone non fa che rispec-
chiare i mutamenti dell’opinione generale. Nel 1825
egli è ancora un avversario accanito del Còrso e ne male-
dice la memoria; solo verso il 1827 muta atteggiamen-
to, e comincia a parlare della gloria francese unita al
nome di Napoleone. Infine egli diviene tipico portavo-
ce di quel bonapartismo che è un miscuglio cosí singo-
lare d’ingenuo culto dell’eroe, di nazionalismo senti-
mentale e di liberalismo sincero, sebbene non sempre
ponderato. Quanto intricati siano i motivi di questo
movimento lo mostra il fatto che ad esso aderiscono spi-
riti cosí diversi come Heine e Béranger e che può valer-
si dell’appoggio sia degli elementi schiettamente volter-
riani e degli eredi dell’illuminismo, sia della piccola bor-
ghesia anch’essa volterriana, anticlericale e antilegitti-
mista, ma sentimentale e disponibile alle leggende. Il
fatto che un unico editore, il celebre Touquet, fra il
1817 e il 1824 venda 31 000 copie – cioè un milione e
seicentomila volumi – delle opere di Voltaire30 è il segno
piú impressionante della rinascita illuministica e una
prova che il medio ceto costituisce una parte notevole
degli acquirenti. Ed è tipico di questo ceto acquistare
l’opera omnia di Voltaire e nello stesso tempo cantare le
canzoni di Béranger, liberali benché povere d’arte e di
pensiero. Queste canzoni si sentono dappertutto ora, i
loro ritornelli risuonano all’orecchio di tutti, e, a quan-
to si dice, contribuiscono a minare l’autorità dei Borboni

Storia dell’arte Einaudi 41


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

piú di ogni altra opera del tempo. Naturalmente, anche


prima la borghesia aveva le sue canzoni: canzoni da
ballo, canti conviviali, patriottici e politici, strofette
d’attualità e canzonette, non certo migliori di quelle di
Béranger: ma erano al di fuori della «letteratura» e non
avevano alcun influsso sostanziale sui poeti dell’am-
biente colto. Ora la rivoluzione, non solo aveva provo-
cato una piú ricca produzione in questo genere popola-
re, ma ne aveva introdotto il gusto anche presso i lette-
rati. L’evoluzione poetica di Vietor Hugo costituisce il
miglior esempio di questo assorbimento e mostra chia-
rissimi i vantaggi e gli svantaggi ad esso legati. La poe-
sia patriottica del tardo romanticismo è inconcepibile
senza le canzoni di Béranger, come il dramma romanti-
co senza il teatro popolare. Anche come poeta, Victor
Hugo segue l’evoluzione della borghesia; il suo stile liri-
co oscilla fra il gusto popolaresco del periodo rivoluzio-
nario e l’enfasi, il fasto pseudo-barocco del Secondo
Impero. Hugo non era affatto uno spirito rivoluziona-
rio, ad onta di tutte le battaglie che si svolsero intorno
a lui. Né era nuova la definizione del romanticismo
come liberalismo della letteratura, quando egli la for-
mulò; l’idea era già in Stendhal. La sua concezione arti-
stica venne sempre piú perfettamente a concordare con
il gusto della ricca borghesia dominante. Infine si tro-
varono a coincidere nel culto di un gigantismo, da cui
in realtà erano ben lontani, e nell’amore di un pathos
pomposo, sonoro, esaltato, di cui gli echi risuonano
ancora in Rostand.
La massima conquista della rivoluzione romantica fu
il rinnovamento del linguaggio poetico. In Francia, la
lingua letteraria si era venuta riducendo, nel corso del
Sei e Settecento, povera e incolore a causa delle rigide
convenzioni che vagliavano la correttezza della espres-
sione e della forma stilistica. Ogni termine che suonas-
se come volgare o di mestiere, arcaico o dialettale, era

Storia dell’arte Einaudi 42


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rigorosamente vietato. Le espressioni semplici, natura-


li, in uso nella lingua parlata dovevano essere sostituite
da parole nobili, scelte, «poetiche» o da artificiose peri-
frasi. Non si diceva «guerriero» o «cavallo», ma «eroe»
e «destriero»; non si poteva dire «acqua» o «tempesta»,
ma si doveva dire «l’umido elemento» e «la furia degli
elementi». Per Hernani, com’è noto, la battaglia si acce-
se sul passo: «Est-il minuit? – Minuit bientôt» [«È
mezzanotte? – Mezzanotte fra poco»], che parve espres-
sione troppo comune, troppo diretta e semplice. La
risposta, diceva Stendhal, avrebbe dovuto essere:

... l’heure
atteindra bientôt sa dernière demeure.

[«... L’ora | giungerà presto all’ultima dimora»]. I


difensori dello stile classico sapevano benissimo qual
era la questione. La lingua di Victor Hugo non era pro-
priamente nuova; non se ne udiva altra sulle scene dei
boulevards. Ma i classicisti si preoccupavano soltanto
della «purezza» del teatro letterario, non dei boule-
vards, né del divertimento delle masse. Finché c’era un
teatro elevato e una poesia colta, si poteva tranquilla-
mente sorvolare su quel che si recitava in periferia; ma
quando anche sul palcoscenico del Théâtre Français si
poté parlare come meglio garbava, allora non rimase piú
nessuna differenza sensibile tra i vari ceti culturali e
sociali. Da Corneille in poi la tragedia era considerata il
genere letterario piú elevato; un poeta doveva esordire
con una tragedia e come tragediografo giungeva al colmo
della fama. Tragedia e teatro letterario erano il terreno
proprio dell’élite intellettuale; finché esso rimase intat-
to, ci si poté sentire eredi del grand siècle. Ma ora del tea-
tro letterario si stava impadronendo un dramma popo-
lareggiante, che trascurava i problemi psicologici e mora-
li della tragedia classica, e ricercava invece il movimen-

Storia dell’arte Einaudi 43


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

to dell’intreccio, le scene pittoresche, i personaggi inte-


ressanti, la violenza dei sentimenti. Il destino del teatro
era l’argomento del giorno; nei due campi si sapeva che
si trattava di conquistare una posizione chiave. E in que-
sta lotta il personaggio nato, si direbbe, per assumere
figura di simbolo, se non proprio per essere la forza pro-
pulsiva, era Victor Hugo, in grazia della sua natura tea-
trale e della sua passione per il teatro, del suo carattere
sonante e apodittico, della sua sensibilità per tutto ciò
che è popolare, volgare, brutalmente efficace.
Nel campo del teatro il romanticismo si trovò di fron-
te a una situazione intricatissima. Il teatro popolare,
erede dell’antico mimo, della farsa medievale e della
commedia dell’arte, era stato nel Sei e nel Settecento
soverchiato dal teatro letterario. Ma con la Rivoluzione
la produzione popolare aveva preso nuovo impulso e, sia
pure con influenze del dramma letterario, aveva ricon-
quistato una parte delle scene parigine. Alla Comédie
Française e all’Odéon si recitavano ancor sempre le
opere di Corneille, Racine, Molière e di quegli autori che
si erano adeguati alla tradizione classica e al gusto di
corte, o si erano attenuti alla concezione letteraria del
dramma borghese. Invece nei teatri dei boulevards – al
Gymnase, al Vaudeville, all’Ambigu-Comique, alla
Gaieté, nei Variétés e Nouveautés – si rappresentavano
lavori adatti al gusto e al livello culturale delle masse.
Durante e subito dopo la Rivoluzione, stando alle testi-
monianze molto dettagliate dei contemporanei, il pub-
blico nei teatri muta radicalmente e in genere si fa nota-
re la mancanza di esigenze artistiche e il difetto di cul-
tura nei ceti che ormai riempiono le platee parigine. È
un pubblico fatto in gran parte di soldati, operai, com-
messi di negozio e ragazzi; e, secondo una fonte, appe-
na un terzo di loro sa scrivere31. Questo uditorio non sol-
tanto domina i teatri plebei dei boulevards, ma giunge
a minacciare l’esistenza degli eleganti teatri letterari,

Storia dell’arte Einaudi 44


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

perché attrae anche il pubblico piú raffinato, cosí che gli


attori della Comédie Française e dell’Odéon recitano
davanti a sale vuote32.
Durante il Primo Impero, la Restaurazione e la
monarchia di luglio, ecco i generi che figurano nel reper-
torio dei teatri parigini: 1) la comédie en cinq acts et en
vers, genere letterario per eccellenza, e come tale desti-
nato alla Comédie Française e all’Odéon (ad esempio,
l’Othello di Ducis); 2) la comédie de mœurs en prose che,
come erede del dramma borghese, è di tipo piú mode-
sto, ma sempre abbastanza stimata, perché l’accolgano
i migliori teatri (esempio, il Mariage d’argent di Scribe);
3) il drame en prose, cioè il dramma patetico, anch’esso
risalente al dramma borghese, ma, per il gusto, inferio-
re alla comédie de mœurs (esempio, L’Abbé et l’épée di
Bouilly); 4) la comédie historique che tratta eventi e per-
sonaggi storici non piú come esempi e modelli, ma come
curiosità e offre una serie di scene invece d’una coerente
azione drammatica (gli esempi sono vari e numerosi:
dal Cromwell di Mérimée alle Barrìcades di Vitet, com-
prendono tutti i tentativi da cui nacque Henri III di
Dumas); 5) il vaudeville, cioè la commedia musicale o,
piú esattamente, la commedia inframmezzata di canzo-
ni, uno dei piú diretti precedenti dell’operetta (in que-
sta categoria si possono annoverare la maggior parte dei
lavori di Scribe e dei suoi collaboratori); 6) il mélodra-
me, forma ibrida, che ha in comune con il vaudeville l’ac-
compagnamento musicale, e con gli altri generi inferio-
ri, specialmente col dramma patetico e con quello stori-
co, il soggetto serio e spesso tragico.
A spiegare l’enorme produzione nei generi popolari,
specie nei due ultimi elencati, e il graduale cedimento
del dramma letterario di maggior pretesa, non basta il
fatto che la Rivoluzione aveva aperto i teatri alle masse,
e che erano queste ormai a decidere il successo dell’o-
pera; occorre anche ricordare in primo luogo l’effetto

Storia dell’arte Einaudi 45


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

della censura sul repertorio. La censura napoleonica e


quella della Restaurazione impedivano che nel dramma
letterario piú elevato si discutessero questioni di attua-
lità o si descrivessero i costumi della classe dominante.
Invece la farsa, la commedia musicale, e il melodramma
erano piú liberi, perché erano presi meno sul serio e si
pensava che non valesse la pena di preoccuparsene. Alla
franca descrizione di costumi e situazioni, inammissibi-
le alla Comédie Française, non si ponevano ostacoli nei
teatri dei boulevards: e ciò spiega l’attrattiva che que-
sti esercitavano sugli autori e sul pubblico33. Le forme
drammatiche piú importanti e interessanti per la suc-
cessiva evoluzione del teatro sono il vaudeville e il melo-
dramma; essi costituiscono la vera svolta nella storia
del teatro moderno e la transizione dal dramma classi-
co a quello romantico. Per essi il teatro torna ad essere
un divertimento, riacquista la sua vivacità, la sua evi-
denza. Dei due, il melodramma ha la struttura piú com-
plessa e la genealogia piú ramificata. Uno dei suoi nume-
rosi precedenti è il monologo con accompagnamento
musicale, la forma originaria di quell’ibrido genere che
è vivo ancor oggi nei programmi dei filodrammatici, e
che nel Pygmalion di Rousseau (1775) ha il primo esem-
pio noto. Di qui comincia a rinnovarsi la recita con
accompagnamento musicale, forma di origine antichis-
sima. Un’altra fonte del mélodrame, tecnicamente assai
piú ricca, è il dramma borghese di De la Chaussée, Dide-
rot, Mercier e Sedaine, che dalla Rivoluzione in poi è
diventato, per la sua natura lacrimosa e moraleggiante,
carissimo ai ceti piú umili. Ma a preparare il melo-
dramma è soprattutto la pantomima. Le cosiddette pan-
tomimes historiques et romanesques cominciano ad appa-
rire nell’ultimo terzo del Settecento. Dapprima tratta-
no soggetti mitologici e leggendarî, come Ercole e Onfa-
le, Rosaspina, La maschera di ferro, piú tardi anche temi
contemporanei, come la Bataille du général Hoche. Sono

Storia dell’arte Einaudi 46


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

serie di quadri a mo’ di rivista, per lo piú tumultuosi,


senza coerenza organica né sviluppo drammatico e pre-
diligono le situazioni in cui prevalgano il mistero e il pro-
digio, spettri e spiriti, carceri e sepolcri. A poco a poco
nelle singole scene vengono inseriti brevi passi esplica-
tivi e dialoghi, e cosí durante la Rivoluzione e nell’epo-
ca successiva questi lavori si sviluppano nelle curiose
pantomimes dialoguées e finiscono nel mélodrame à grand
spectacle, che lentamente va perdendo il suo carattere
coreografico e gli elementi musicali, e diventa la com-
media d’intreccio, fondamentale per la storia del teatro
ottocentesco. Sulla trasformazione del melodramma
influiscono soprattutto i romanzi neri della Radcliffe e
dei suoi imitatori. Di qui derivano quegli effetti da
Grand Guignol che esso presenta, e anche certi suoi
aspetti criminali.
Ma tutti questi influssi modificano e arricchiscono
solo la forma del melodramma, la sua essenza rimane pur
sempre il conflitto del dramma classico. Il melodramma
non è che la tragedia in veste popolare, o, se si vuole,
degenerata. Pixérécourt, il principale esponente di que-
sto genere letterario, è perfettamente conscio dell’affi-
nità dell’arte sua con il teatro popolare, ed erra solo nel
supporre fra il melodramma e il mimo una comune natu-
ra e una continuità storica34. È vero che egli riconosce
il giusto nesso che lega il mimo ai misteri medievali, al
dramma pastorale e all’arte di Molière, ma non sa coglie-
re la differenza di fondo che corre tra il carattere schiet-
tamente popolare del mimo e il carattere derivato inve-
ce di un teatro letterario decaduto poi al livello del gran
pubblico urbano. Il melodramma è tutt’altro che un’ar-
te spontanea e ingenua; segue invece i raffinati principî
formali che la tragedia si era elaborata in un lungo e
cosciente sviluppo, sia pur interpretandoli piú rozza-
mente, senza le finezze psicologiche e le bellezze poeti-
che della forma classica. Formalmente, il melodramma

Storia dell’arte Einaudi 47


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

è il genere piú convenzionale, schematico e artificioso


che si possa pensare: un canone in cui non c’è posto per
novità e spontaneità, per elementi di spregiudicato natu-
ralismo. Esso presenta una struttura rigorosamente tri-
partita, con una situazione iniziale di forte contrasto, un
urto violento e un dénouement in cui la virtú trionfa e
il male è punito: insomma un’azione molto evidente e
sommaria, in cui l’intreccio prevale sui caratteri e le figu-
re sono sempre le stesse: l’eroe, l’innocente perseguita-
to, il malvagio e il tipo comico35. Sugli eventi domina
una fatalità cieca e crudele; ma assume anche un ener-
gico spicco la morale che, veramente, per la sua scipita
tendenza a tutto accomodare, premiando i buoni e
punendo i cattivi, non corrisponde piú al carattere etico
della tragedia, ma con essa ha in comune il pathos subli-
me, sebbene spinto all’esagerazione. Il melodramma
rivela la sua dipendenza dalla tragedia anzitutto per
l’osservanza delle tre unità o almeno per l’inclinazione
a non trascurarle. Pixérécourt si permette mutamenti di
luogo fra un atto e l’altro, ma in questi casi il mutamento
non salta troppo agli occhi, e solo in Charles le Téméraire
(1814) egli cambia la scena nel corso di un atto. Ma se
ne scusa in una nota, che costituisce una singolare indi-
cazione dei suoi principî classici: «Accade per la prima
volta che io mi permetta un’infrazione delle regole», egli
assicura. In generale Pixérécourt mantiene anche l’unità
di tempo: per lo piú nei suoi lavori tutto si svolge in ven-
tiquattr’ore. Solo nel 1818, con la Fille de l’exilé ou huit
mois en deux heures egli segue un nuovo criterio, scu-
sandosene anche questa volta36. Invece il mimo, che con-
sta di una sola scena naturalistica, ritratta dalla vita, o
di una libera serie di scene del genere, non ha un’azio-
ne stereotipa, riducibile a schema rigido, né caratteri
tipici o fuor del comune, né una severa morale, né uno
stile idealizzato, distinto dalla lingua parlata. Il melo-
dramma ha in comune col mimo il dinamismo delle

Storia dell’arte Einaudi 48


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

scene e la violenza degli effetti, i mezzi abborracciati e


il carattere popolare dei temi; ma per altri aspetti inve-
ce si attiene rigidamente all’ideale stilistico della trage-
dia classica. Il convenzionalismo di una forma non è
sempre il segno di una destinazione elevata.
La varietà moderna del mimo non è il melodramma,
bensí il vaudeville, che è assai piú affine all’antico tea-
tro popolare per la sua azione episodica, disarticolata in
scene singole, per le canzoni intercalate, i tipi popolari
tratti dalla vita quotidiana, lo stile fresco, piccante, che
pare improvvisato, sebbene non vi manchino influssi let-
terari. Tra il 1815 e il 1848 questo genere presenta una
grande fecondità, e produce una folla di lavori e lavo-
retti tenui, leggeri, divertenti, oltre alle numerose com-
medie di Scribe. La costernazione dei letterati per l’ab-
bondanza e il successo di tale produzione si può imma-
ginare solo ricordando come si reagí alla marcia trion-
fale del film. Durante la Rivoluzione la commedia si era
esaurita, come già prima era avvenuto della tragedia; e
come questa era degenerata rozzamente nel melodram-
ma, cosí il vaudeville fu una rozza degenerazione della
commedia. Ma né l’uno né l’altro uccisero il dramma,
che anzi ne uscí rinnovato; infatti il dramma romantico
– Hernani di Victor Hugo, l’Antony di Dumas – altro
non era che il mélodrame parvenu; e il moderno dramma
di costume, di Augier, Sardou e Dumas figlio, non fu
che una varietà del vaudeville37.
Pixérécourt scrisse fra il 1798 e il 1834 circa cento-
venti lavori, di cui molti furono rappresentati migliaia
di volte. Per trent’anni il melodramma dominò la vita
del teatro parigino, e il suo favore cessò solo quando il
gusto del pubblico cominciò a elevarsi, e le crudezze di
quei lavori, il loro difetto di logica, l’insufficiente moti-
vazione e il linguaggio innaturale apparvero sempre piú
fastidiosi. Ma i romantici avevano un debole per il melo-
dramma, non solo per la loro opposizione ai ceti colti

Storia dell’arte Einaudi 49


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

conservatori, ma anche per la loro maggior spregiudica-


tezza che li portava a comprendere meglio i pregi extra-
letterari, schiettamente teatrali del genere. Charles
Nodier si dichiarò subito fautore entusiasta del melo-
dramma che non esitò a definire «la seule tragédie popu-
laire qui convienne à notre époque» [«La sola tragedia
popolare che convenga alla nostra epoca»]38; e Paul
Lacroix indica Pixérécourt come il drammaturgo che svi-
luppa e conclude gli spunti di Beaumarchais, Diderot,
Sedaine e Mercier39. L’inaudito successo, l’opposizione
dei circoli ufficiali, la particolare predilezione dei roman-
tici per gli effetti melodrammatici, i colori violenti, le
situazioni sensazionali, gli accenti forti, tutti questi ele-
menti hanno fatto sí che nel dramma romantico si siano
conservati tanti caratteri del teatro plebeo. Ma dal melo-
dramma il romanticismo riprese soltanto quel che era
suo dall’inizio, o in germe era già implicito nel prero-
manticismo e nello Sturm und Drang, e che al teatro era
stato trasmesso in parte dal racconto terrifico inglese e
da quello tedesco di briganti e cavalieri. Il teatro roman-
tico ha infatti in comune col melodramma anzitutto gli
acuti contrasti e gli ardenti conflitti, l’azione complica-
ta, avventurosa, cruenta e selvaggia; il predominio del
prodigio e del caso, i passaggi bruschi, i mutamenti
improvvisi, per lo piú ingiustificati, gli incontri e i rico-
noscimenti insperati, il continuo avvicendarsi di ten-
sione e distensione; la violenza, l’irresistibile brutalità
degli espedienti; il raccapricciante, il sinistro, il demo-
niaco che sorprende e soggioga lo spettatore; il mecca-
nismo già bell’e pronto della vicenda, gli intrighi e le
congiure, i travestimenti e gli inganni, le macchinazio-
ni e i tranelli; infine gli effetti teatrali e il repertorio sce-
nico, senza cui non si concepisce un dramma romanti-
co: imprigionamenti e ratti, contrattempi e salvataggi,
tentativi di fuga e assassini, salme e bare, carceri e crip-
te, torri e segrete, pugnali, daghe, fiale di veleno, anel-

Storia dell’arte Einaudi 50


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

li, amuleti e tesori di famiglia, lettere intercettate, testa-


menti perduti, contratti segreti trafugati. Il romantici-
smo non era certo schizzinoso; ma basta pensare a Bal-
zac, il piú grande scrittore del secolo e il piú discutibi-
le in fatto di gusto, per accorgersi come siano ormai
ristretti, e in conclusione trascurabili, i criteri del gusto
classico.
Che il teatro si andasse sviluppando in senso popo-
laresco lo prova non tanto l’esistenza in sé del melo-
dramma, quanto la buona fede con cui Pixérécourt spac-
ciava i suoi prodotti. Egli riteneva cattivi, falsi, immo-
rali e pericolosi i lavori dei romantici, ed era profonda-
mente persuaso che i suoi ambiziosi concorrenti avesse-
ro meno cuore di lui e meno senso di responsabilità
morale40. A questo proposito Faguet nota giustamente
che bisogna credere alla robaccia per farne di buona,
destinata al successo. D’Ennery, per esempio, era
miglior scrittore e persona piú intelligente di Pixéré-
court, ma scriveva i suoi melodrammi senza convinzio-
ne, unicamente per guadagnare, e cosí non riuscí nem-
meno una volta a scriverne di buoni41; invece Pixéré-
court credeva di adempiere a una missione e non vole-
va aver niente in comune col nuovo dramma romanti-
co. I romantici invece devono a lui anzitutto il senso del
vero teatro e il contatto con il gran pubblico. A lui
anche devono se hanno potuto avere una parte cosí
importante nello sviluppo della pièce bien faite [Dramma
ben fatto]; e tutto l’Ottocento gli deve la rinascita di un
vivace teatro popolare che, paragonato a quello del Sei
e del Settecento, può risultare farraginoso e spesso tri-
viale, ma ha avuto il merito di evitare che il dramma si
volatilizzasse in mera letteratura. Era destino di questo
secolo che, ogni qualvolta l’elemento poetico si affer-
mava nel dramma, finisse per minacciarne il diverti-
mento, l’efficacia e l’evidenza scenica. Già nell’età
romantica i due elementi vengono a conflitto, per cui o

Storia dell’arte Einaudi 51


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

il successo teatrale o la perfezione poetica vengono sacri-


ficati. Alessandro Dumas tendeva al dramma robusto,
fatto per la scena, Victor Hugo, alla soverchiante elo-
quenza, e la stessa alternativa si presentò ai loro suc-
cessori; soltanto in Ibsen le due opposte tendenze tro-
varono un equilibrio armonico, se pur precario.
L’Inghilterra aveva avuto già nel Seicento la sua rivo-
luzione politica e un secolo dopo quella industriale e arti-
stica; al tempo della gran contesa tra classici e romanti-
ci in Francia, qui non restava quasi nulla della tradizio-
ne classica. Il romanticismo inglese ebbe cosí uno svi-
luppo piú continuo e coerente di quello francese e incon-
trò minor resistenza fra il pubblico; anche politicamen-
te fu meno diviso che in Francia. All’inizio esso era net-
tamente liberale e guardava con schietta simpatia alla
Rivoluzione; la lotta contro Bonaparte portò poi a un’in-
tesa fra conservatori e romantici, e solo dopo la caduta
di Napoleone fra questi ultimi tornò a prevalere il libe-
ralismo. L’unità di un tempo tuttavia non fu piú ritro-
vata; non si vollero dimenticare tanto presto gli «inse-
gnamenti» della Rivoluzione e del dominio napoleoni-
co, e molti degli antichi liberali, fra cui i Laghisti, rima-
sero antirivoluzionari. Walter Scott era e rimase un
tory; invece Godwin, Shelley, Leigh Hunt e Byron rap-
presentarono il radicalismo prevalente nella giovane
generazione. Il romanticismo inglese nacque, in sostan-
za, dalla reazione degli elementi liberali alla rivoluzione
industriale; quello francese, dalla reazione dei ceti con-
servatori alla rivoluzione politica. Il rapporto fra roman-
ticismo e preromanticismo in Inghilterra fu assai piú
stretto che in Francia, dove il classicismo rivoluziona-
rio spezzò la continuità dei due movimenti. In Inghil-
terra fra il romanticismo e la rivoluzione industriale
ormai in atto correva un rapporto sostanzialmente ana-
logo a quello che era intercorso tra preromanticismo e
prodromi dell’industrializzazione. Nel Deserted Village

Storia dell’arte Einaudi 52


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

[Il villaggio abbandonato] di Goldsmith, nei Satanic Mills


[I mulini diabolici] di Blake e nell’Age of Despair [L’età
disperata] di Shelley si esprime su per giú il medesimo
stato d’animo. La passione dei romantici per la natura
è inconcepibile senza il distacco fra città e campagna,
come il loro pessimismo senza lo squallore e la miseria
delle città industriali. Essi sono pienamente consci di
quanto accade e vedono esattamente che cosa significhi
il convertirsi del lavoro umano in semplice merce.
Southey e Coleridge nella disoccupazione periodica rico-
noscono la conseguenza inevitabile dell’anarchica pro-
duzione capitalistica, e Coleridge sottolinea che secon-
do la nuova concezione del lavoro l’imprenditore com-
pera e l’operaio vende qualcosa che essi non avrebbero
il diritto di comprare né di vendere, «la salute, la vita,
il benessere del lavoratore»42.
Al termine del conflitto con Napoleone, l’Inghilter-
ra, benché non esausta, si trova indebolita e disorienta-
ta, in una condizione cioè particolarmente adatta perché
la società borghese dubiti delle basi stesse della propria
esistenza. Questo processo viene avviato dai piú giova-
ni fra i romantici, la generazione di Shelley, Keats e
Byron. Il loro intransigente umanesimo è la protesta
contro la politica di sfruttamento e di oppressione; la
loro vita ribelle alle convenzioni, il loro aggressivo atei-
smo e la loro spregiudicatezza morale sono le varie forme
della loro lotta contro la classe che dispone dei mezzi per
sfruttare e opprimere. Persino nei suoi esponenti con-
servatori, come Wordsworth e Scott, il romanticismo
inglese è un movimento in certo modo democratico, che
contribuisce a rendere la letteratura popolare. Il propo-
sito di Wordsworth, di avvicinare la lingua poetica alla
lingua parlata, è un esempio caratteristico di questa ten-
denza, benché la «naturale» dizione poetica di cui egli
si serve non sia, in realtà, piú semplice e spontanea del-
l’antica lingua letteraria, ch’egli rifiuta perché artificio-

Storia dell’arte Einaudi 53


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sa. Se essa è meno dotta, tanto piú complicate ne sono


le premesse psicologiche soggettive. E per quanto riguar-
da l’impresa di descrivere se stesso e la propria evolu-
zione spirituale, in un poema lungo quanto l’epopea
omerica, questa sì, rispetto all’obiettività dell’antica let-
teratura, è un’azione, rivoluzionaria e per il nuovo sog-
gettivismo forse significativa quanto Poesia e verità di
Goethe; ma la «popolarità» e la «naturalezza» di una
simile impresa sono piú che dubbie. Nel suo saggio su
Wordsworth, Matthew Arnold, parlando di certi difet-
ti del poeta, osserva che anche Shakespeare, natural-
mente, ha i suoi punti deboli; ma se nei Campi Elisi glie-
ne potessimo parlare, certo risponderebbe di esserne
pienamente consapevole. «Del resto, – aggiungerebbe
forse sorridendo, – che fa se una volta tanto ci si lascia
andare!» Invece, concentrandosi tutto sul proprio io, il
poeta moderno è portato a sopravvalutare senza umori-
smo ogni manifestazione personale, a far conto del valo-
re espressivo di ogni minimo particolare e perde cosí la
felice noncuranza con cui l’antico poeta lasciava sgorgare
i suoi versi.
Per il Settecento la poesia era espressione di idee;
senso e scopo delle immagini poetiche era la spiegazio-
ne e l’illustrazione di un contenuto ideale. Nella poesia
romantica invece l’immagine poetica è non il risultato,
ma la fonte delle idee43. La metafora le genera, e noi
abbiamo il senso che la parola si renda indipendente e
diventi per se stessa poesia. Apparentemente i roman-
tici vi si abbandonano senza resistenza, esprimendo
anche cosí la loro concezione irrazionale dell’arte. Può
darsi che il Kubla Khan di Coleridge sia stato un caso
limite; ma certo è sintomatico. I romantici credevano a
una forza soprasensibile, emanante dall’anima del
mondo, come origine dell’ispirazione poetica, e la iden-
tificavano con la spontanea forza creatrice della parola.
Lasciarsene dominare, era per loro il segno del genio

Storia dell’arte Einaudi 54


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

artistico. Naturalmente già Platone parlava dell’«entu-


siasmo», dell’ispirazione divina dei poeti, e la fede in
essa è propria di ogni tempo in cui poeti e artisti voglio-
no apparire quasi una casta sacerdotale. Ma non era mai
accaduto che l’ispirazione fosse concepita come una
fiamma che s’accende da sé, come una luce che ha nel-
l’anima stessa del poeta la sua sorgente. La sua origine
divina riguarda solo la forma, non già il contenuto; nulla
ne viene all’anima, ch’essa già non possegga. Cosí ven-
gono mantenuti i due principî: il divino e l’individuale;
e il poeta diventa il dio di se stesso.
Il panteismo estatico di Shelley è il paradigma di
questa autodeificazione. Manca in esso ogni traccia di
abnegazione devota, la rinunzia di chi è pronto a scom-
parire di fronte a ciò che è sublime. Il perdersi nel Tutto
è volontà di dominio, non già sottomissione. Il mondo
governato dalla poesia e dal poeta è considerato il piú
alto, il piú puro, il piú schiettamente divino, e la divi-
nità stessa non conosce altri criteri che quelli derivati
dalla poesia. Shelley fonda la sua visione cosmica, in per-
fetto accordo con Friedrich Schlegel e con il romantici-
smo tedesco, su una mitologia a cui, però, egli stesso non
crede. Accade in lui che la metafora diventa mito, non
già l’inverso, come presso i Greci. Ma anche questo
mitologizzare non è che un modo di evadere dalla realtà
consueta, volgare, inerte; un ponte per ricongiungersi
alla propria vita piú intima e alla propria sensibilità. Per
il poeta non è che un mezzo per ritrovarsi. Il mito anti-
co era sorto da una simpatia e da un legame con la
realtà; la mitologia romantica nasce dalle sue rovine e in
certo modo come un surrogato. La visione cosmica di
Shelley s’impernia sull’idea di una grande lotta, estesa
a tutto il mondo, tra il principio del bene e quello del
male; e rappresenta una idealizzazione grandiosa del-
l’antagonismo politico che costituisce la piú profonda e
decisiva esperienza del poeta. Il suo ateismo come è

Storia dell’arte Einaudi 55


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

stato notato, è una rivolta contro Dio piú che una nega-
zione di Dio; esso combatte un oppressore e un tiran-
no44. Shelley è il ribelle nato, che in tutto quanto è legit-
timo, costituzionale e convenzionale vede l’opera di una
volontà dispotica e per il quale l’oppressione, lo sfrut-
tamento e la violenza, l’ottusità, la sozzura e la menzo-
gna, i re, le classi dominanti e le Chiese formano con il
Dio della Bibbia un’unica forza compatta. Il carattere
astratto e fragile di quest’idea mostra chiaramente quan-
to vicini siano ormai, a quest’epoca, gli scrittori inglesi
e quelli tedeschi. L’isterismo antirivoluzionario ha avve-
lenato l’atmosfera spirituale in cui potevano ancora
esprimersi liberamente gli scrittori inglesi del Settecen-
to; le manifestazioni dell’epoca assumono un aspetto
irreale, rispecchiano un atteggiamento di fuga e nega-
zione del mondo, che fin qui era ignoto alla letteratura
inglese. I migliori poeti della generazione di Shelley non
trovano consenso nel pubblico45; si sentono senza patria
e fuggono all’estero. Questa generazione in Inghilterra
è condannata non diversamente che in Germania o in
Russia; Shelley e Keats vengono schiacciati dal loro
tempo con la stessa inesorabilità che Höderlin e Kleist
o Pu∫kin e Lermontov. E anche il risultato ideologico è
dovunque lo stesso: idealismo in Germania, «l’art pour
l’art» in Francia, estetismo in Inghilterra. Dappertutto
si cessa di lottare distogliendosi dalla realtà e rinun-
ziando a mutare la struttura sociale esistente. In Keats
questo estetismo va già unito con una profonda malin-
conia, con il lamento sulla bellezza che non è vita, che
anzi è negazione della vita; negazione di quella vita e di
quella realtà, che al poeta, adoratore della bellezza, sono
eternamente negate, inaccessibili come la santità, l’e-
roismo, l’amore, come tutto ciò ch’è immediato, natu-
rale, spontaneo. Già si presente la rinunzia flaubertia-
na, la rassegnazione dell’ultimo grande romantico, a cui
già era ben chiaro che la vita è il prezzo della poesia.

Storia dell’arte Einaudi 56


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Fra tutti i celebri romantici, è Byron ad esercitare


l’influsso piú profondo e piú vasto sui contemporanei.
Ma egli non è certo il piú originale; è soltanto il piú feli-
ce nel formulare il nuovo ideale della personalità. Né il
mal du siècle, né l’eroe solitario e orgoglioso, segnato dal
destino, cioè nessuno dei due elementi fondamentali
della sua poesia è veramente una sua invenzione. La
malinconia byroniana viene da Chateaubriand e dalla
letteratura dell’emigrazione francese; l’eroe byroniano
discende da Saint-Preux e da Werther. Il senso dell’in-
conciliabilità fra le esigenze morali dell’individuo e le
convenzioni sociali già per Rousseau e per Goethe carat-
terizzava l’uomo nuovo, e già Sénancour e Constant
descrivono l’eroe come un eterno esule, che porta in sé
la maledizione della sua natura asociale. Ma nell’opera
loro il carattere asociale dell’eroe era ancora connesso
con un senso di colpevolezza, e si palesava in rapporti
complicati e ambivalenti con la società; solo Byron lo
trasforma in aperta ribellione senza piú scrupoli; in
un’accusa ai contemporanei da parte dell’eroe che rende
giustizia a se stesso e si commisera lamentosamente:
Byron rende esteriore e volgare il gran problema del
romanticismo; l’intimo tormento del suo tempo in lui
diventa moda, atteggiamento mondano. Grazie a lui
l’inquietudine del romantico, senza piú scopo nella vita,
diventa un contagio, la «malattia del secolo»; il senso
dell’isolamento degenera in un culto della solitudine
pieno di rancore, la perdita degli antichi ideali in anar-
chico individualismo, il tedio della civiltà e della vita in
un gioco affettato con la vita e la morte. Alla maledi-
zione da cui la sua generazione si sentiva oppressa Byron
dà un aspetto seducente: i suoi eroi sono degli esibizio-
nisti che ostentano le loro ferite, dei masochisti che si
coprono pubblicamente di colpe e di vergogna, dei fla-
gellanti che si torturano con autoaccuse e rimorsi e

Storia dell’arte Einaudi 57


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rivendicano per sé, con lo stesso orgoglio, le buone e le


cattive azioni.
L’eroe byroniano, questo tardo epigono del cavalie-
re errante, altrettanto amato e quasi altrettanto longe-
vo, domina tutta la letteratura ottocentesca e imperversa
ancora negli odierni film di criminali e di gangsters. Certi
suoi tratti sono antichissimi, almeno antichi quanto il
romanzo picaresco. In questo infatti si trova già la figu-
ra del reietto che dichiara guerra alla società ed è nemi-
co imperterrito dei grandi e dei potenti quanto amico e
benefattore dei deboli e dei poveri: esteriormente rude
e spiacevole, si rivela alla fine schietto e magnanimo; è
insomma quale la società lo ha fatto. Tra Lazarillo de
Tormes e Humphrey Bogart l’eroe byroniano è solo un
anello intermedio. Già molto tempo prima di Byron il
briccone era diventato l’inquieto pellegrino che regola-
va i suoi passi sulle stelle, l’eterno straniero tra gli uomi-
ni, che cercava la felicità perduta senza trovarla mai,
l’amaro misantropo che portava il proprio destino con
l’orgoglio di un angelo caduto. Tutti questi motivi esi-
stevano già in Rousseau e in Chateaubriand; di nuovo
nella figura byroniana non ci sono che i tratti satanici e
narcisistici. L’eroe romantico, che Byron introduce nella
letteratura, è un’uomo misterioso; nel suo passato c’è un
segreto, un tremendo peccato, un fatale errore o una
omissione irreparabile. Egli è un proscritto, ognuno lo
sente, ma nessuno sa che cosa si celi sotto il velo del
tempo, ed egli non lo solleva. Si avvolge nel mistero del
suo passato come in un manto regale: solitario, tacitur-
no, inaccessibile. Da lui emana dannazione e rovina. È
spietato con se stesso e con gli altri. Non conosce per-
dono e non chiede grazia né a Dio, né agli uomini. Non
rimpiange nulla, non si pente di nulla e, nonostante la
sua vita disperata, nulla vorrebbe mutare in quel che è
stato e in quel ch’egli ha fatto. È rude e selvatico, ma
d’alta origine; i suoi lineamenti sono duri e impenetra-

Storia dell’arte Einaudi 58


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

bili, ma nobili e belli; da lui emana uno strano fascino


a cui nessuna donna può resistere, mentre ogni uomo
risponde con amicizia o inimicizia. Egli è colui che il
destino incalza e che diventa per gli altri il destino; il
prototipo non solo degli irresistibili e fatali amanti che
troviamo nella letteratura moderna, ma in certo modo
anche dei demoni di sesso femminile, dalla Carmen di
Mérimée alle vamps di Hollywood.
Se non è stato proprio Byron a scoprire l’«eroe sata-
nico» che, ossesso e accecato, getta nella perdizione se
stesso e chiunque venga a contatto con lui, certo egli ne
ha fatto l’uomo «interessante» per eccellenza, Gli ha
dato i caratteri piccanti e seducenti che da allora gli sono
rimasti, lo ha tramutato nell’immoralista, nel cinico,
irresistibile proprio per il suo cinismo. Per il disincan-
tato mondo romantico in cerca di una nuova fede l’idea
dell’«angelo caduto» aveva una fortissima attrattiva. Ci
si sentiva colpevoli, ribelli a Dio, ma nella dannazione
si voleva essere almeno come Lucifero. Anche i serafici
Lamartine e Vigny finirono per passare al satanismo
mettendosi nel seguito degli Shelley e dei Byron, dei
Gautier, dei Musset, dei Leopardi e degli Heine46. Que-
sto atteggiamento, traendo origine dal contraddittorio
atteggiamento dei romantici di fronte alla vita, scaturi-
va senza dubbio da un’inquietudine religiosa, ma, spe-
cialmente in Byron, si trasformò in scherno per tutto ciò
che appariva sacro alla borghesia. Si trattava però di
un’avversione diversa da quella della bohème francese
per il borghese: l’anticonvenzionalismo plebeo di Gau-
tier e dei suoi amici rappresentava un attacco dal basso;
l’immoralismo di Byron, invece, un attacco dall’alto.
Ogni espressione piú o meno tipica di Byron tradisce lo
snobismo che accompagna le sue idee liberali, ogni sua
testimonianza svela l’aristocratico, certo non piú salda-
mente radicato nella sua posizione sociale, ma fedele alle
pose della casta. Soprattutto l’isterica passionalità con

Storia dell’arte Einaudi 59


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cui, nelle opere tarde, egli si scaglia contro l’aristocra-


zia che lo scomunica, mostra quanto profondamente
egli si senta legato a quella classe e, nonostante tutto,
quanta autorità e attrattiva essa abbia ancora per lui47.
«La morte non è un argomento», dice Hebbel. Certo
Byron con la sua morte eroica non ha provato nulla. Essa
non gli si addice, bench’egli fosse di sentimenti rivolu-
zionari. Byron cercò la morte «perché il suo equilibrio
spirituale era turbato» e morí «coronato di pampini»
come voleva morire Hedda Gabler.
Dalle inclinazioni aristocratiche di Byron dipende
anche la sua fedeltà all’estetica classicistica e la sua pre-
dilezione per Pope. Di Wordsworth gli spiaceva il tono
freddamente solenne, prosaicamente untuoso; e disprez-
zava Keats per la sua «volgarità». Da queste preferen-
ze classiche derivano anche lo spirito distaccato e ironi-
co, la forma vivace delle opere byroniane, soprattutto il
disinvolto tono discorsivo del Don Juan. Tuttavia è inne-
gabile una connessione fra la scorrevolezza del suo stile
e la dizione «naturale» di Wordsworth; sono entrambi
aspetti della reazione al pathos retorico del Sei e del Set-
tecento. Il fine comune era quello di raggiungere una
maggior flessibilità della lingua, e proprio come maestro
di uno stile fluido, agilissimo, apparentemente improv-
visato, Byron destò il maggior entusiasmo fra i contem-
poranei. Né la grazia alata di Pu∫kin, né l’eleganza di
Musset sarebbero concepibili senza questo nuovo tono.
Il Don Juan con il suo particolare accento non solo fu
esemplare per la poesia arguta, maliziosa, satirica, ma è
all’origine del moderno romanzo d’appendice48. I primi
lettori di Byron probabilmente appartennero alla nobiltà
e all’alta borghesia; ma il suo vero, grande pubblico egli
lo trovò nelle file di quella borghesia scontenta, piena
di rancore, incline al romanticismo, dove ogni fallito si
riteneva un Napoleone incompreso. L’eroe byroniano
era concepito in modo che ogni giovane deluso nelle sue

Storia dell’arte Einaudi 60


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

speranze, ogni fanciulla offesa nel suo amore vi si potes-


se riconoscere. Incoraggiando il lettore a tale intimità,
Byron non fa che continuare la tendenza già palese in
Rousseau e in Richardson, ed è questa la ragione piú
profonda del suo successo. L’intimità del vincolo fra let-
tore ed eroe provocava un interesse tutto particolare per
la persona dell’autore. Anche questo era fenomeno già
noto ai tempi di Rousseau e di Richardson, tuttavia si
può dire che fino all’età romantica la vita privata del
poeta fosse rimasta ignota ai lettori. Ma da quando
Byron prese a farsi réclame, il poeta divenne il benia-
mino del pubblico, e i lettori – specialmente le lettrici
– ebbero con lui quei singolari rapporti che sogliono sta-
bilirsi fra lo psicanalista e il suo paziente, o fra un astro
del cinematografo e le sue adoratrici.
Byron fu il primo poeta inglese che esercitò un influs-
so importante sulla letteratura europea; Walter Scott fu
il secondo. Grazie a loro divenne realtà quel che Goethe
intendeva per «letteratura universale». La loro scuola si
estese a tutto il mondo letterario, godendovi la più alta
autorità, introdusse nuove forme, nuovi valori, avviò
nutriti scambi culturali fra l’uno e l’altro paese d’Euro-
pa, quasi flussi e riflussi che portavano seco nuovi inge-
gni, spesso sollevandoli al di sopra dei loro maestri.
Basta pensare a Pu∫kin e a Balzac per capire l’ampiezza
e la fecondità della scuola. Forse la moda byroniana fu
piú febbrile e appariscente, ma l’azione di Walter Scott,
che è stato detto «il piú fortunato scrittore del
mondo»49, fu piú reale e profonda. Da lui procede quel
rinnovamento del romanzo naturalistico, il genere
moderno per eccellenza, che trasforma l’intero pubbli-
co letterario. In Inghilterra il numero dei lettori era
venuto crescendo continuamente già dal principio del
Settecento. In questo processo si possono distinguere tre
tappe: la fase iniziatasi verso il 1710 con i nuovi perio-
dici e culminante nel romanzo della metà del secolo; il

Storia dell’arte Einaudi 61


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tempo dei pseudostorici romanzi neri, dal 1770 fino al


1800; e il periodo del romanzo naturalistico moderno,
aperto da Walter Scott. Ad ognuna di queste fasi corri-
spose un aumento considerevole di lettori. La prima
conquistò alla letteratura di argomento profano una
parte relativamente esigua della borghesia, cioè di gente
che fino allora non leggeva nulla, o, al massimo, libri edi-
ficanti; nella seconda questo pubblico ingrossò fino a
comprendere un’ampia cerchia di borghesi in via di
arricchirsi, soprattutto signore; nella terza vi si aggiun-
sero altri elementi dell’alta e della piccola borghesia, che
cercavano nel romanzo divertimento e istruzione. Wal-
ter Scott riuscí a raggiungere la popolarità dei romanzi
neri e sensazionali con i mezzi, ben piú raffinati, dei
grandi romanzieri settecenteschi. Egli divulgò le descri-
zioni del passato feudale, fino allora lettura esclusiva dei
ceti superiori50, e nello stesso tempo elevò a vera dignità
letteraria lo pseudostorico romanzo a forti tinte.
L’ultimo grande romanziere del Settecento fu Smol-
lett. Il mirabile sviluppo che nel romanzo inglese corri-
spose alle conquiste politiche e sociali della borghesia,
si arresta verso il 1770. L’improvviso crescere del pub-
blico provoca una sensibile decadenza: la richiesta ecce-
de di molto il numero dei buoni scrittori, e poiché la pro-
duzione viene in ogni modo assorbita, si produce senza
freno né discernimento. L’esigenza delle biblioteche cir-
colanti impone il ritmo e determina la qualità. Le cose
piú ricercate, oltre ai romanzi raccapriccianti, sono gli
scandali del giorno, i «casi» celebri, le biografie piú o
meno romanzate, le relazioni di viaggi e le memorie
segrete, insomma i soliti generi sensazionali. Ne viene,
fenomeno inaudito, che gli ambienti colti cominciano a
disprezzare il romanzo51. Solo Walter Scott ne restaura
il prestigio, trattandolo anzitutto in modo da soddisfa-
re l’interesse degli ambienti intellettuali per la storia e
la scienza. Non solo egli cerca di offrire ogni volta un

Storia dell’arte Einaudi 62


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

fedele quadro storico, ma provvede i suoi romanzi di


introduzioni, note e appendici, a sostegno della loro
attendibilità scientifica. Se è vero che non si può con-
siderare Walter Scott come il vero creatore del roman-
zo storico, è tuttavia fuor di dubbio che egli è l’inven-
tore del genere storico-sociale, prima affatto ignoto. I
romanzieri francesi del Settecento, Marivaux, Prévost,
Laclos e Chateaubriand avevano certo determinato con
le loro opere un immenso progresso del romanzo psico-
logico, ma non avevano saputo creare l’atmosfera socia-
le intorno ai loro personaggi, o li avevano circondati di
un ambiente che non esercitava alcun influsso sostan-
ziale sulla loro intima struttura. Il romanzo inglese del
Settecento può chiamarsi «sociale», in quanto insiste
maggiormente sui rapporti fra gli uomini; ma anch’es-
so, nel delineare i personaggi, trascura affatto le distin-
zioni di classe o la causalità sociale. Invece le figure di
Walter Scott ne portano sempre l’impronta52. E poiché
in complesso Scott descrive giustamente lo sfondo socia-
le delle sue storie, nonostante le sue opinioni di conser-
vatore egli diventa un campione del liberalismo e del
progresso53.
Per quanto avverso egli sia, anche politicamente, alla
Rivoluzione, il suo metodo sociologico sarebbe incon-
cepibile senza questa svolta della storia. Solo con essa,
infatti, si sviluppa il senso delle differenze di classe e
diviene un dovere per ogni artista onesto di rappresen-
tare nei suoi scritti la realtà che a quelle corrisponde.
Come scrittore, il retrivo Scott è piú profondamente
legato alla Rivoluzione del radicale Byron. Certo non
bisogna sopravvalutare il «trionfo del realismo», come
Engels chiama l’astuzia dell’arte che spesso fa strumen-
ti del progresso anche gli spiriti conservatori. Di solito
in Scott la comprensione, l’entusiasmo per il «popolo»
non è che un atteggiamento poco impegnativo, e in com-
plesso il popolo minuto ch’egli descrive rimane conven-

Storia dell’arte Einaudi 63


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

zionale e schematico. L’atteggiamento conservatore di


Scott è però meno aggressivo dei sentimenti antirivolu-
zionari di Wordsworth e di Coleridge, che sono espres-
sione di un amaro disinganno e di un improvviso muta-
mento di idee. È vero che Scott, come generalmente i
romantici reazionari, è entusiasta della cavalleria medie-
vale e ne deplora la decadenza; ma nello stesso tempo
anch’egli, come Pu∫kin e Heine, critica tutta la strava-
ganza romantica. Con la stessa chiaroveggenza con cui
Pu∫kin constata l’affettazione di Oneghin, in Riccardo
Cuor di Leone egli riconosce lo «splendido, ma inutile
cavaliere della leggenda»54.

Delacroix, il primo e il massimo esponente della pit-


tura romantica, già si contrappone al romanticismo e lo
supera. Egli rappresenta ormai l’Ottocento, mentre in
sostanza il romanticismo è ancora Settecento, e non
solo perché continua il preromanticismo, ma anche per-
ché è contraddittorio ma non relativistico, ambivalente
nei suoi rapporti spirituali, ma non cosí scisso come il
secolo xix.
Il Settecento è dogmatico – lo sono un po’ anche i
suoi romantici – l’Ottocento è scettico e agnostico. Da
ogni cosa, perfino dal sentimentalismo e dall’irraziona-
lismo, gli uomini del Settecento cercano di trarre una
chiara formulazione teorica e una visione universale net-
tamente definibile; sono sistematici, filosofi, riforma-
tori, si dichiarano favorevoli o avversi a una cosa e spes-
so mutano parte, ma prendono posizione, seguono dei
principî, si attengono a un piano riformatore della vita
e del mondo. Invece gli intellettuali dell’Ottocento
hanno perduto la fede nei sistemi e nei programmi, e
vedono il senso e il fine dell’arte nell’abbandonarsi pas-
sivamente alla vita, nel coglierne il ritmo, nel conser-
varne l’atmosfera e l’intimo accordo; la loro fede è un’ir-
razionale, istintiva affermazione della vita; la loro mora-

Storia dell’arte Einaudi 64


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

le, un adeguarsi alla realtà. Essi non vogliono regolarla


né superarla; vogliono viverla e riprodurne l’esperienza
nel modo piú diretto, fedele e completo. Li domina un
sentimento invincibile che la vita e il presente, i con-
temporanei e il mondo circostante, le esperienze e i
ricordi sfuggano giorno per giorno e si perdano per sem-
pre. L’arte diventa il mezzo d’inseguire «il tempo per-
duto», la vita che sfugge, eternamente inafferrabile. Il
naturalismo intransigente non è dei secoli che credono
di possedere saldamente e sicuramente la realtà, ma di
quelli che temono di perderla; perciò l’Ottocento è il
tempo classico del naturalismo.
Delacroix e Constable stanno sulla soglia del nuovo
secolo. In parte sono ancora degli espressionisti roman-
tici, che lottano per esprimere l’idea; ma in parte sono
già degli impressionisti, che cercano di cogliere l’ogget-
to fuggevole e non credono piú a un equivalente perfetto
della realtà. Dei due, Delacroix è il piú romantico; se lo
si paragona a Constable, appare evidentissima la conti-
nuità storica che lega classicismo e romanticismo, distin-
guendoli dal naturalismo. Di fronte a questo, classicismo
e romanticismo hanno in comune l’esaltazione della vita
e dell’uomo, a cui dànno grandezza tragica ed eroica,
espressione appassionatamente patetica: caratteri questi
ancora presenti in Delacroix, ma non in Constable e nel
naturalismo dell’Ottocento. Per Delacroix l’uomo è
ancora il centro del mondo, mentre per Constable egli
è divenuto una cosa fra le cose, riassorbito dall’am-
biente. Perciò Constable, sebbene non sia il piú grande,
è l’artista piú innovatore del suo tempo. Scacciato l’uo-
mo dal centro dell’arte, vi subentra il mondo delle cose,
e la pittura non solo acquista un nuovo contenuto, ma
tende sempre piú esclusivamente alla soluzione di pro-
blemi tecnici e puramente formali. A poco a poco il sog-
getto perde ogni valore estetico, ogni interesse per l’ar-
tista, e l’arte diventa piú formalistica che mai. Non

Storia dell’arte Einaudi 65


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

importa piú affatto che cosa si dipinga, si chiede soltanto


come lo si dipinga. Una tale indifferenza al tema non si
era avuta neppure col piú disinvolto Manierismo. Mai
finora si erano considerati argomenti di ugual valore
artistico un cavolo e una testa di Madonna. Solo ora che
il pittorico costituisce il vero contenuto della pittura,
viene meno l’antica gerarchia accademica dei soggetti e
dei generi. Già in Delacroix, pur cosí legato alla poesia,
i motivi letterari costituiscono soltanto l’occasione, non
la sostanza del quadro. Egli nega alla pittura ogni inten-
to letterario e, invece di concetti, cerca di esprimere
qualcosa di proprio, d’irrazionale, simile alla musica55.
L’origine di questo spostarsi dell’interesse dall’uomo
alla natura, è da vedere nella scarsa fiducia che la nuova
generazione ha in sé, nel suo disorientamento, nella sua
incerta coscienza sociale, ma soprattutto nel trionfo
della visione scientifico-naturalistica cosí lontana dai
valori dell’umanesimo. Constable supera l’umanesimo
classico-romantico piú facilmente di Delacroix e diven-
ta il primo paesista moderno, mentre Delacroix rimane
essenzialmente «pittore di storia». Ma entrambi incar-
nano in ugual misura lo spirito del nuovo secolo per il
modo scientifico di porsi i problemi pittorici, dando
all’ottica il predominio sulla visione. Lo sviluppo dello
stile «pittorico», cominciato in Francia con Watteau e
interrotto dal classicismo settecentesco, viene ripreso e
continuato da Delacroix. Per la seconda volta Rubens
sovverte la pittura francese; per la seconda volta egli dà
origine a un sensualismo irrazionale ribelle al gusto clas-
sico. La massima di Delacroix, per cui un quadro dev’es-
sere anzitutto una festa per gli occhi, era anche il mes-
saggio di Watteau e fu vangelo per tutto l’impressioni-
smo. Il vibrante dinamismo delle forme, il movimento
lineare e cromatico, l’agitazione barocca dei corpi e il
dissolversi dei colori locali nei loro componenti, tutto
concorre a creare quest’arte sensuale, che ora permette

Storia dell’arte Einaudi 66


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di unire romanticismo e naturalismo, contrapponendo-


li entrambi al gusto classico.
In certa misura Delacroix fu ancora una vittima del
mal du siècle. Soffriva di gravi depressioni, conosceva il
senso dell’inutilità e del vuoto, lottava contro un inde-
finibile e inguaribile tedio. Era un malinconico, un
insoddisfatto, con il rovello dell’imperfezione. Lo stato
d’animo di Géricault a Londra, quando scriveva a casa:
«Qualunque cosa io faccia, vorrei aver fatto qualcosa
d’altro», tormentò Delacroix per tutta la vita56. Le sue
radici romantiche erano ancor cosí profonde, che non gli
erano estranee neppure le tentazioni piú brutali. Basta
pensare a un’opera come il Sardanapalo (1829) per capi-
re quanto posto avessero nel suo spirito il teatrale demo-
nismo e l’idolatria di Moloch cari ai romantici. Ma il
romanticismo come atteggiamento pratico, egli lo com-
batté; si riconobbe fra i suoi esponenti soltanto con
forti riserve, e lo accettò come tendenza artistica soprat-
tutto per la larghezza di motivi che offriva alla pittura.
Come sostituì un viaggio in Oriente al tradizionale viag-
gio a Roma, cosí attinse dalle fonti poetiche dell’antico
e del moderno romanticismo, da Dante e da Shake-
speare, da Byron e da Goethe, anziché dall’antichità
classica. Soltanto l’interesse del soggetto lo legava ad
Ary Scheffer e Louis Boulanger, a Decamps e Delaro-
che. Egli odia il falso romanticismo del chiaro di luna e
i sognatori incorreggibili, Chateaubriand, Lamartine e
Schubert, ch’egli accomuna alquanto arbitrariamente57.
Quanto a lui, non volle esser chiamato romantico e negò
assolutamente di essere il maestro di quella scuola. Del
resto, non aveva nessuna voglia di educare artisti, né
diede mai libero accesso al suo studio; al massimo assu-
meva qualche aiuto, ma non allievi58. Nella pittura fran-
cese, non ci fu piú nulla di simile alla scuola di David;
nessuno sostituí il maestro. Le mete dell’arte erano
ormai troppo personali, i criteri di valutazione troppo

Storia dell’arte Einaudi 67


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

differenziati, perché potessero sorgere scuole di pittura


come quelle di un tempo59.
L’antiromanticismo di Delacroix si esprime anche
nella sua ripugnanza per la bohème. Rubens è il suo
modello, non solo come artista, ma anche come uomo;
e, dopo Rubens e i grandi del Rinascimento, egli è il
primo e forse l’unico pittore che unisca modi signorili a
una grande cultura60. Le sue inclinazioni aristocratiche
gli fanno odiare ogni esibizionismo e ogni ostentazione;
della tradizione della bohème gli rimane una cosa sola:
il disprezzo del pubblico. A ventisei anni, egli è già un
pittore celebre, ma ancora trent’anni piú tardi scrive: «Il
y a trente ans que je suis livré aux bêtes» [«Da trent’an-
ni mi si dà in pasto alle bestie»]. Aveva amici, ammira-
tori, mecenati, incarichi dallo Stato; ma il pubblico non
lo amò né lo comprese mai. Nella stima che gli si tribu-
tava mancava ogni calore. Delacroix è un isolato, un soli-
tario in un senso assai piú vero di quello in uso fra i
romantici. C’è un solo contemporaneo, ch’egli apprezzi
e ami senza riserve: Chopin. Né Hugo, né Musset, né
Stendhal, né Mérimée gli sono particolarmente vicini;
egli non prende molto sul serio George Sand, la trascu-
ratezza di Gautier lo respinge, Balzac gli dà sui nervi61.
Lo straordinario valore che ha per lui la musica, e che
lo porta ad ammirare tanto Chopin, è un sintomo della
nuova gerarchia fra le arti e della posizione preminente
che l’estetica del romanticismo assegna alla musica. Essa
è l’arte romantica per eccellenza e Chopin è il piú
romantico dei romantici. L’affetto per lui è la rivela-
zione piú diretta dell’intima affinità di Delacroix con il
romanticismo. Ma il suo giudizio sugli altri grandi musi-
cisti tradisce l’incoerenza del suo sentimento. Di Mozart
egli parla sempre con la piú viva ammirazione, mentre
Beethoven gli sembra troppo arbitrario, troppo roman-
tico. In fatto di musica il suo gusto è classicista62, il sen-
timentalismo stereotipo di Chopin non lo disturba, ma

Storia dell’arte Einaudi 68


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’«arbitrio» di Beethoven, che dovrebbe essergli molto


piú vicino come artista, lo sorprende e lo confonde.
La musica romantica si contrappone non solo a quel-
la classica, ma anche a quella preromantica, in quanto
quest’ultime poggiano entrambe sul principio dell’unità
formale e dell’esaltazione dell’effetto finale. La struttu-
ra accentrata, in funzione di un’acme drammatica, delle
forme musicali nell’età romantica si dissolve, e torna a
prevalere il modo aggiuntivo della composizione piú
antica. La sonata si disgrega e viene sempre piú spesso
sostituita da altre forme meno rigide e meno tipiche, da
brevi liriche e bozzetti musicali, come il pezzo caratte-
ristico, la fantasia, l’improvviso e l’intermezzo, l’arabe-
sco e lo studio, l’improvvisazione e la variazione. Anche
le composizioni piú vaste constano spesso di queste
forme miniaturistiche, che strutturalmente non costi-
tuiscono piú gli atti di un dramma, bensí le scene di una
rivista. Una sonata o una sinfonia classica era un micro-
cosmo. Una serie di quadretti musicali, come il Carna-
val di Schumann o Les années de pélerinage di Liszt, è
come l’album di schizzi di un pittore; può contenere par-
ticolari di gran pregio lirico e impressionistico, ma rinun-
zia senz’altro a un effetto di insieme e di unità organi-
ca. Anche la predilezione per il poema sinfonico, che in
Berlioz, Liszt, Rimskij Korsakov, Smetana e altri sot-
tentra alla sinfonia, è soprattutto un segno d’inettitudi-
ne o di esitazione a rappresentare il mondo come un
tutto. Del resto, questo mutamento di forme dipende
anche dalle tendenze letterarie dei compositori e dalla
loro predilezione per la musica descrittiva. L’ibridismo
formale che si può osservare dappertutto, nella musica
si manifesta anche nel fatto che molto spesso il compo-
sitore romantico ha notevoli doti di scrittore. Una minor
coerenza strutturale si può constatare anche nella pittura
e nella poesia del tempo, ma la disintegrazione delle
forme non è mai cosí rapida e cosí vasta come nella musi-

Storia dell’arte Einaudi 69


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ca. La differenza si spiega in parte col fatto che le altre


arti già da lungo tempo avevano superato la struttura
ciclica «medievale», mentre nella musica questa era
rimasta in vigore fino a mezzo il secolo xviii è solo dopo
la morte di Bach l’unità formale aveva cominciato ad
allentarsi. Richiamarsi ad essa era quindi assai piú faci-
le che in pittura, dove tale struttura appariva ormai
affatto antiquata. Tuttavia l’interesse storico dei roman-
tici per la musica antica e il risorgente prestigio di Bach
non contribuiscono che in via secondaria a dissolvere il
rigore formale della sonata; la ragione vera del muta-
mento va cercata in una svolta del gusto che si fonda su
cause essenzialmente sociologiche.
Il romanticismo porta a termine il processo che s’era
iniziato nella seconda metà del Settecento: la musica
diventa esclusivo possesso della borghesia. Non soltan-
to le orchestre passano dalle sale dei castelli e dei palaz-
zi alle sale da concerto affollate di borghesi, ma anche
la musica da camera trova il suo ambiente nelle case bor-
ghesi, anziché nei salotti aristocratici. Il gran pubblico,
sempre piú assiduo alle manifestazioni musicali, esige
tuttavia una musica piú leggera, piú attraente, meno
complicata. Quest’esigenza favorisce il sorgere di forme
brevi, piú dilettevoli, piú mosse, ma porta anche a una
divisione tra musica seria e musica leggera. Finora le
composizioni destinate al semplice divertimento non si
distinguevano per qualità dalle altre; naturalmente c’e-
rano opere di valore assai differente, ma ciò non dipen-
deva dalla loro destinazione. Come sappiamo, la gene-
razione successiva a Bach e a Haendel distingueva già
tra il comporre per proprio diletto e la produzione desti-
nata al pubblico; ma adesso si distingue ormai fra le
diverse categorie del pubblico stesso. Già le opere di
Schubert e di Schumann si possono classificare secondo
questo criterio63; in Chopin e in Liszt la preoccupazio-
ne di compiacere anche la parte piú accontentabile del

Storia dell’arte Einaudi 70


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pubblico influisce, per cosí dire, su ogni singola opera;


e in Berlioz e Wagner porta spesso a un’esplicita civet-
teria. Quando Schubert dichiara di non conoscere musi-
ca «allegra» ha l’aria di voler prevenire il rimprovero di
frivolezza; poiché dall’avvento del romanticismo in poi
ogni gaiezza appare frivola e superficiale. L’unione della
piú spensierata leggerezza con la piú profonda serietà,
del gioco piú esuberante con l’ethos piú alto, piú puro,
piú profondamente trasfiguratore, ancor presente nel-
l’opera di Mozart, viene meno; d’ora in poi tutto ciò che
non è solito e volgare assume un’aria cupa e pensierosa.
Basta confrontare lo spasmodico espressionismo della
musica romantica con la serena, chiara umanità di
Mozart, esente da ogni misticismo, per misurare quel
che con il Settecento è andato perduto.
Nei romantici le concessioni al pubblico valgono a
compensare l’assenza di ogni ritegno e l’arbitrio dell’e-
spressione. Consciamente e volutamente si rendono piú
difficili le composizioni, sia nello spirito che nella tec-
nica, sicché esse non si prestano piú ad essere eseguite
da dilettanti. Già le più tarde opere di Beethoven per
pianoforte e per orchestra da camera potevano essere
eseguite solo da artisti e apprezzate da un pubblico di
raffinata cultura musicale. I romantici accrescono anzi-
tutto le difficoltà tecniche. Weber, Schumann, Cho-
pin, Liszt compongono per i grandi concertisti. La bra-
vura, ch’essi esigono dall’esecutore, ha un duplice effet-
to: riserva l’esercizio della musica all’esperto e abbaglia
il profano. Per il virtuoso-compositore, il cui prototipo
è Paganini, lo stile brillante non ha altro scopo che di
sbalordire l’ascoltatore, è l’espressione di una difficoltà,
di una complicazione intima. Entrambe le tendenze, sia
quella che accresce la distanza tra il dilettante e il vir-
tuoso, sia quella che approfondisce la cesura tra musica
leggera e musica difficile, portano alla dissoluzione dei
generi classici. Per sua natura, lo stile del virtuoso ato-

Storia dell’arte Einaudi 71


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mizza le grandi forme massicce: il pezzo di bravura è


relativamente breve, scintillante, pungente. Ma anche
uno stile intrinsecamente difficile, originale, volto a
sublimare pensieri e sentimenti favorisce il dissolversi
delle forme universalmente valide, tipiche e di lungo
respiro.
La facilità con cui la musica può essere sottoposta a
questa disgregazione formale, l’irrazionalità del suo con-
tenuto e l’autonomia dei suoi mezzi espressivi, spiega-
no la preminenza che ora assume nel sistema delle arti.
Per i classici l’arte sovrana era la poesia, il preromanti-
cismo tendeva in parte alla pittura; il romanticismo
maturo guarda alla musica. Per Gautier la pittura rap-
presentava ancora l’ideale dell’arte, per Delacroix la
musica è ormai la fonte delle piú profonde esperienze
artistiche64. Tale evoluzione culmina nella filosofia di
Schopenhauer. Il romanticismo celebra nella musica i
suoi maggiori trionfi. La gloria di Weber, Meyerbeer,
Chopin, Liszt, Wagner riempie tutta l’Europa e sover-
chia il successo dei poeti piú noti. Alla fine dell’Otto-
cento la musica è la sola fra le arti che sia rimasta pie-
namente romantica. E che il secolo sentisse proprio nella
musica l’essenza dell’arte, è prova chiarissima di quan-
to profondamente fosse legato al romanticismo. La con-
fessione di Thomas Mann, che riconosce esser stata la
musica di Wagner a svelargli il senso dell’arte, è alta-
mente sintomatica. Ancora sullo scorcio del secolo for-
mule come «le sang, la volupté et la mort», la romanti-
ca ebbrezza dei sensi e il salto mortale della ragione var-
ranno a indicare il senso profondo dell’arte. L’Otto-
cento non arrivò a concludere la sua lotta con lo spirito
romantico; la decisione doveva toccare al nuovo secolo.

Storia dell’arte Einaudi 72


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

1
Citato da f. l. lucas, The Decline and Fall ot the Romantic Ideal,
1937, p. 36.
2
Per questo concetto della «coscienza epocale», cfr. karl jaspers,
Die geistige Situation der Zeit, 1932, 3a ed., pp. 7 sgg.
3
g. lanson, Histoire de la littérature française cit., p. 943.
4
marcel proust, Pastiches et mélanges, 1919, p. 267.
5
joseph aynard, Comment définir le romantisme?, in «Revue de
littérature comparée», v, 1925, p. 653.
6
f. benoit, L’art français ecc. cit., pp. 62-63.
7
Cfr. albert pötzsch, Studien zur frühromantischen Politik und
Geschichtsauffassung, 1907, pp. 62-63.
8
ortega y gasset, History as a System, in Philosophy and History.
Essays presented to Ernst Cassirer, a cura di r. klibansky e j. h. paton,
1936, p. 313.
9
emil lask, Fichtes Idealismus und die Geschichte, 1902, pp. 56 sgg.,
83 sgg. Cfr. erich rothacker, Einleitung in die Geschichtswissenschaf-
ten, 1920, pp. 116-18.
10
arnold ruge, Die wahre Romantik, Gesammelte Schriften, III, p.
134; citato da carl schmitt, Politische Romantik, 1925, 2a ed., p. 35.
11
konrad lange, Das Wesen der Kunst, 1901.
12
coleridge, Biographia Literaria, XIV.
13
Cfr. albert salomon, Bürgerlicher und kapitalisticher Geist, in
«Die Gesellshaft», iv, 1927, p. 552.
14
louis maigron, Le Romantisme et les mœurs, 1910, p. v.
15
Citato da ricarda huch, Ausbreitung und Verfall der Romantik,
1908, 2a ed., p. 349.
16
e. kirchner, Die Philosophie der Romantik, 1906, pp. 42-43.
17
diderot, Paradoxe sur le comédien, 1773.
18
c. schmitt, Politische Romantik cit., pp. 24 sgg., 120 sgg.,
148-49.
19
Cfr. a. pötzsch, Studien ecc. cit., p. 17.
20
fritz strich, Die Romantik als europäische Bewegung, in Wölf-
flin-Festschrift, 1924, p. 54.
21
georg brandes, Hauptströmungen der Literatur des 19. Jahrhun-
derts, 1924, I, pp. 13 sgg.
22
Cfr. ernst troeltsch, Die Restaurationsepoche am Anfang des 19.
Jahrhunderts, in «Vorträge der Baltischen Literatur- Gesellschaft»,
1913, p. 49.
23
c.-m. des granges, La presse littéraire sous la Restauration, 1907,
p. 44.
24
a. thibaudet, Histoire de la littérature française ecc. cit., p. 107.
25
pierre moreau, Le Classicisme des romantiques, 1932, p. 132.
26
henry a. beers, A History of English Romanticism in the 19th Cen-
tury, 1902, p. 173.

Storia dell’arte Einaudi 73


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

27
a. thibaudet, Histoire de la littérature française ecc. cit., p. 121.
28
g. brandes, Hauptströmungen ecc. cit., III, p. 9.
29
Ibid., p. 225.
30
Ibid., II, p. 224.
31
grimod de la reynière, in «Le Censeur dramatique», i, 1797.
32
maurice albert, Les Théâtres des Boulevards (1789-1848), 1902.
33
c.-m. des granges, La Comédie et les mœurs sous la Restauration
et la Monarchie de Juillet, 1904, pp. 35-41, 43-46, 53-54.
34
w. j. hartog, Guilbert de Pixerécourt, 1913, pp. 52-54.
35
paul ginisty, Le Mélodrame, 1910, p. 14.
36
alexander lacey, Pixerécourt and the French Romantic Drama,
1928, pp. 22-23.
37
émile faguet, Propos de théâtre, II, 1905, pp. 299 sgg.
38
w. j. hartog, Guilbert de Pixerécourt cit., p. 51.
39
Ibid.
40
g. de pixérécourt, Dernières réflexions sur le mélodrame, 1843;
citato da hartog, Guilbert de Pixerécourt cit., pp. 231-32.
41
faguet, Propos de théâtre cit., p. 318.
42
alfred cobban, Edmund Burke and the Revolt against the 18th
Century, 1929, pp. 208-9, 215.
43
c. day lewis, The Poetic Image, 1947, p. 54.
44
h. n. brailsford, Shelley, Godwin and their Circle, 1913, p. 226.
45
francis thompson, Shelley, 1909, p. 41.
46
Cfr. fritz strich, Die Romantik als europäische Bewegung, p. 54.
47
h. y. c. grierson, The Background of English Literature, 1925, pp.
167-68.
48
julius bab, Fortinbras oder der Kampf des 19. Jahrhunderts mit dem
Geist der Romantik, 1914, p. 38.
49
w. p. ker, Collected Essays, 1925, I, p. 164.
50
henry a. beers, A History of English Romanticism ecc. cit., p. 2.
51
j. m. s. tompkins, The Popular Novel in England (1770-1800),
1932, pp. 3-4.
52
louis maigron, Le roman historique à l’époque du romantisme,
1898, p. 90.
53
g. lukács, Walter Scott and the Historical Novel, in «The Inter-
national Literature», 1938, p. 80.
54
walter scott, Ivanhoe, 1820, cap. XLI.
55
léon rosenthal, La peinture romantique, 1903, pp. 205-6.
56
delacroix, Journal [trad. it., Diario (1804-1863), Torino 1954].
Cfr., tra l’altro, la nota del 26 aprile 1824.
57
Ibid., 14 febbraio 1850.
58
l. rosenthal, La peinture romantique cit., pp. 202-3.
59
paul jamot, Delacroix, in Le Romantisme et l’art, 1928, p. 116.
60
Ibid., p. 120,

Storia dell’arte Einaudi 74


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

61
Ibid., pp. 100-1.
62
andré joubin, Journal de Delacroix, 1932, I, pp. 284-85.
63
alfred einstein, Music in the Romantic Era, 1947, p. 39.
64
delagroix, Journal, passim; in particolare nota del 30 gennaio
1855.

Storia dell’arte Einaudi 75


Capitolo primo

La generazione del 1830

Se il fine della ricerca storica è la comprensione del


presente – né altro potrebbe essere – quest’indagine è
ormai prossima al suo fine. Ora finalmente proprio degli
aspetti moderni del capitalismo dobbiamo occuparci,
della società borghese, del naturalismo in arte e in let-
teratura, insomma, di quello che è il nostro mondo. In
ogni campo ci stanno di fronte nuovi rapporti, nuove
forme di vita, e ci sentiamo come staccati dal passato.
Ma in nessun altro settore forse la cesura è cosí profon-
da come nella letteratura, dove il confine fra le opere piú
antiche, che ormai hanno assunto carattere storico, e
quelle piú vicine, tuttora piú o meno attuali, costituisce
la frattura piú rilevante che si conosca nella storia del-
l’arte. Soltanto le opere che rimangono al di qua di que-
sto confine ideale costituiscono la letteratura moderna,
viva, che tocca direttamente i nostri problemi; dalle
altre ci separa un abisso incolmabile, tanto che per com-
prenderle ci occorre una disposizione particolare, un
particolare sforzo, e interpretandole si rischia sempre di
errare e di fraintenderle. Noi leggiamo le opere lettera-
rie del passato con occhi diversi da quelle del nostro
tempo; le godiamo in modo puramente estetico, cioè con
distacco, anzi spassionatamente e con la chiara consa-
pevolezza del loro carattere fittizio e del nostro illuder-
ci. Questo presuppone punti di vista e capacità che man-
cano certamente al lettore comune; ma anche il lettore

Storia dell’arte Einaudi 76


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

guidato da interessi storici ed estetici sente un’immen-


sa differenza tra opere che non hanno alcun diretto rap-
porto col suo tempo, con il suo senso della vita e con i
fini ch’essa persegue, e quelle invece che da tale senso
della vita derivano e cercano di rispondere alla doman-
da di come si possa o si debba vivere in questo nostro
tempo.
L’Ottocento, o l’epoca che con questo termine comu-
nemente si intende, comincia intorno al 1830. Soltanto
al tempo della monarchia borghese cominciano a deli-
nearsi le basi e le linee generali del secolo: l’ordine socia-
le in cui noi stessi siamo radicati, il sistema economico
di cui sussistono ancor oggi i principî e le contraddizio-
ni, quella letteratura che, in complesso, è ancor oggi la
forma in cui noi ci esprimiamo. I romanzi di Stendhal
e di Balzac sono i primi libri che trattino della nostra
vita, dei nostri problemi, di difficoltà morali e di con-
flitti ignoti alle generazioni precedenti. Julien Sorel e
Mathilde de la Mole, Lucien de Rubempré e Rastignac
sono i primi uomini moderni della letteratura occiden-
tale, i primi nostri contemporanei ideali. In loro per la
prima volta troviamo quella sensibilità che è anche la
nostra, nel loro carattere troviamo i primi segni di quel-
la complicata psicologia che contraddistingue i contem-
poranei. Da Stendhal a Proust, dalla generazione del
1830 a quella del 1910, noi siamo testimoni di una con-
tinua, organica evoluzione intellettuale. Tre generazio-
ni si affaticano con gli stessi problemi; per settanta,
ottant’anni il corso della storia non devia.
I tratti caratteristici del secolo si possono già tutti
riconoscere intorno al 1830. La borghesia è in pieno svi-
luppo, già forte e consapevole della sua potenza. L’ari-
stocrazia è scomparsa dalla scena storica, ridotta a una
condizione strettamente privata. Il trionfo della bor-
ghesia è indubbio e incontrastato. È vero che i vincito-
ri costituiscono una classe capitalistica del tutto conser-

Storia dell’arte Einaudi 77


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vatrice e illiberale che adotta, in parte ancora tali e


quali, le forme e i metodi di governo dell’antica aristo-
crazia; ma i suoi membri nella condotta e nel pensiero
non sono affatto aristocratici, né tradizionalisti. Già il
romanticismo era stato un movimento essenzialmente
borghese, inconcepibile senza l’emanciparsi delle classi
medie; ma i romantici avevano spesso assunto atteggia-
menti ancora prettamente aristocratici, lusingati dall’i-
dea di trovare il loro pubblico fra la nobiltà. Queste illu-
sioni cessano dopo il 183o ed è evidente allora che non
c’è piú un vasto pubblico letterario fuori della borghe-
sia. Ma compiuta l’emancipazione borghese, ecco subi-
to iniziarsi la lotta politica della classe operaia. E que-
sto è il secondo dei movimenti fondamentali per l’Ot-
tocento, che prendono l’avvio dalla rivoluzione di luglio
e dalla monarchia borghese. Finora le lotte di classe del
proletariato si erano confuse con quelle della borghesia
e soprattutto per le mire politiche del ceto medio si
erano mosse le classi lavoratrici. Solo le vicende succes-
sive al 183o apriranno loro gli occhi convincendole che
nella lotta per i loro diritti non potranno appoggiarsi a
nessun’altra classe. Mentre si viene così svegliando nel
proletariato la coscienza di classe, la teoria socialista
assume la sua prima forma concreta, e nello stesso tempo
si delinea il programma di un attivismo artistico che per
intransigenza supera ogni precedente. L’art pour l’art
attraversa la prima crisi e d’ora in poi, oltre all’ideali-
smo dei classicisti, dovrà combattere anche l’utilitarismo
sia dell’arte «sociale» che dell’arte «borghese».
Il razionalismo economico che procede di pari passo
con l’industrializzazione e la completa vittoria del capi-
talismo, il progresso delle scienze storiche ed esatte e
quindi la generale tendenza scientifica del pensiero, la
rinnovata esperienza di una rivoluzione fallita e il con-
seguente realismo politico, sono tutti fattori che prepa-
rano quella grande lotta contro il romanticismo, che

Storia dell’arte Einaudi 78


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

riempie la storia dei cento anni successivi. La prepara-


zione e l’avvio di questa lotta è un altro contributo della
generazione del 183o al costituirsi del secolo xix. L’o-
scillare di Stendhal fra logique e espagnolisme, i rappor-
ti ambivalenti di Balzac con la borghesia e in entrambi
la dialettica di razionalismo e irrazionalismo mostra che
ormai la battaglia è in corso; la generazione di Flaubert
non fa che acuire una situazione di lotta già in atto. La
visione artistica della monarchia di luglio è in parte bor-
ghese, in parte socialista, ma in complesso antiromanti-
ca. Il pubblico, osserva Balzac nella prefazione a La
peau de chagrin (1831), «è ristucco di Spagna, d’Orien-
te, di storia di Francia alla Walter Scott». È passato,
deplora Lamartine, il tempo della poesia, cioè della poe-
sia «romantica»1. Il romanzo realista, la piú originale
creazione di questi anni e il piú importante acquisto del
secolo nel campo artistico, esprime, nonostante il roman-
ticismo dei suoi fondatori, cioè benché Stendhal si
richiami a Rousseau e in Balzac ci sia ancora l’eco del
melodramma, lo spirito antiromantico della nuova gene-
razione. Sia il razionalismo economico, che il pensiero
politico formulato in termini di lotta di classe spingono
il romanzo allo studio della realtà sociale e dei mecca-
nismi psicologico-sociali. L’oggetto e il punto di vista
dell’indagine rispondono pienamente alle intenzioni
della borghesia e il risultato, il romanzo realista, serve
quasi da manuale a questa classe in ascesa, che aspira al
completo dominio della società. Gli scrittori del tempo
ne fanno uno strumento per conoscere l’uomo e tratta-
re col mondo, rispondendo alle esigenze e al gusto di un
pubblico che essi odiano e disprezzano. Essi cercano di
soddisfare i loro lettori borghesi, siano o non siano san-
simoniani o fourieristi, credano all’arte sociale o a l’art
pour l’art, poiché un pubblico proletario non c’è e, se
anche ci fosse, non riuscirebbe che a metterli in imba-
razzo.

Storia dell’arte Einaudi 79


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Fino al Settecento gli autori non erano che i porta-


voce del loro pubblico2; essi curavano i beni intellettua-
li dei lettori, come i domestici e gli impiegati ne cura-
vano i beni materiali. Accettavano e sanzionavano la
morale e il gusto corrente, non li inventavano né li
mutavano. Scrivevano le loro opere per un pubblico
nettamente definito e limitato e non tentavano certo di
acquistare nuovi lettori. Quindi non c’era tensione alcu-
na tra pubblico vero e pubblico ideale3. Lo scrittore
ignorava il tormentoso problema della scelta fra diver-
se possibilità soggettive, e il problema morale della scel-
ta fra diversi ceti sociali. Solo nel Settecento il pubbli-
co si divide in due campi e l’arte in due tendenze riva-
li. D’ora in poi ogni artista ha di fronte due ordini con-
trastanti, il mondo dell’aristocrazia conservatrice e quel-
lo della borghesia progressista; un gruppo che si attiene
agli antichi valori tradizionali, presunti assoluti, e uno
che stima anche quei valori – e specialmente quelli –
legati al tempo e afferma che altri ne esistono, piú
aggiornati e meglio rispondenti al bene comune. La bor-
ghesia si affranca dai modelli aristocratici e l’aristocra-
zia stessa comincia a dubitare della validità dei propri
criteri, cosí che in parte passa nel campo borghese, per
favorire una letteratura che le è nemica e funesta. Per
gli scrittori si sviluppa una situazione affatto nuova:
quelli che continuano a servire i ceti conservatori, la
Chiesa, la corte e la nobiltà, finiscono per tradire i loro
compagni di classe; quelli invece che si fanno interpre-
ti delle idee della borghesia in ascesa, si trovano a com-
piere una funzione finora mai compiuta da nessuno
scrittore importante, salvo poche eccezioni: essi com-
battono per una classe oppressa o, comunque, non anco-
ra al potere4. Questo pubblico non ha una sua ideologia
già bell’e pronta, ed essi stessi debbono collaborare a
definire il sistema concettuale, le nuove categorie e i
nuovi valori. In questo modo essi non sono piú sempli-

Storia dell’arte Einaudi 80


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ci portavoce dei lettori, ma, per cosí dire, i difensori e


i maestri, e riprendono perfino qualcosa di quella dignità
sacerdotale perduta da tanto tempo, che né i poeti del-
l’antichità classica né quelli del Rinascimento avevano
posseduta, e meno che mai i chierici del Medioevo, che
per lettori avevano solo dei chierici e, come letterati,
non avevano alcun contatto con i laici. Durante la
Restaurazione e la monarchia borghese i letterati ven-
gono a perdere la singolare posizione che avevano avuto
nel Settecento; non sono piú i difensori e nemmeno i
maestri del lettore, ne sono anzi gli involontari servito-
ri, sempre ribelli, ma non per questo meno utili. Di
nuovo essi divengono i portavoce di un’ideologia, ch’es-
si trovano già piú o meno elaborata e chiaramente pre-
scritta: il liberalismo della borghesia trionfante, che essa
ha derivato dall’illuminismo attraverso molteplici alte-
razioni. Questo dev’essere il loro orientamento, se
vogliono trovare lettori. È tuttavia singolare che essi lo
seguano senza però identificarsi in alcun modo con il
loro pubblico. Anche gli scrittori dell’illuminismo anno-
veravano fra i loro seguaci solo una parte del pubblico
letterario, anch’essi erano circondati da un mondo osti-
le e pericoloso, ma almeno appartenevano allo stesso
campo dei loro lettori. Persino i romantici, per quanto
spaesati, si sentivano vicini all’uno o all’altro ambiente
sociale, e potevano sempre dire per quale gruppo, per
quale classe scendessero in campo. Ma a quale parte del
pubblico si sente legato Stendhal? Al massimo agli happy
few [To the happy few (ai pochi eletti): dedica delle opere
La Chartreuse de Parme, Lucien Leuwen, Promenades dans
Rome], gli indesiderabili, gli esclusi, i vinti. E Balzac?
S’identifica con la nobiltà, la borghesia o il proletaria-
to? con la classe che gl’ispira magari qualche simpatia,
ma ch’egli abbandona senza batter ciglio; o con quella
di cui ammira le inesauribili energie, e che tuttavia gli
ripugna; o con le masse, di cui ha paura come del fuoco?

Storia dell’arte Einaudi 81


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Gli scrittori che non sono puri maîtres de plaisir della bor-
ghesia non hanno un loro vero pubblico: questo per il
fortunato Balzac come per l’incompreso Stendhal.
Lo stato di tensione, il rapporto difficile che corre tra
autori e lettori della generazione del 1830 si riflettono
nettissimi nel nuovo tipo d’eroe che appare nei roman-
zi di Balzac e di Stendhal. Negli eroi di Rousseau, Cha-
teaubriand e Byron, solitari e straniati dal mondo, la
delusione e il senso del dolore universale si trasformano
in rinunzia ad attuare i propri ideali, in disprezzo per la
società e spesso in disperato cinismo di fronte alle norme
e alle convenzioni. Il romanzo del disinganno diventa il
romanzo della disperazione e della rassegnazione. Scom-
pare ogni tratto tragico-eroico, ogni volontà di autoaf-
fermazione, ogni fede nel perfezionamento del proprio
essere; e vi subentra la disposizione al compromesso, a
vivere senza scopo e a morire senza gloria. Nel roman-
zo della delusione balenava ancora l’idea della tragedia,
che faceva l’eroe in lotta contro la volgare realtà vitto-
rioso pur nella sconfitta. Invece nel romanzo ottocen-
tesco l’eroe risulta vinto nell’intimo, anche quando sem-
bra giungere alla meta e, spesso, proprio in quel momen-
to. Per l’eroe del giovane Goethe, di Chateaubriand o
di Benjamin Constant, il dubbio sulla ragion d’essere
della propria personalità, sulla legittimità dei propri fini
non esisteva; è il romanzo moderno che per primo crea
la cattiva coscienza dell’eroe nel conflitto con l’ordine
borghese, e gli impone di accettare i costumi e le con-
venzioni sociali, almeno come regola di gioco. Werther
è ancora l’individuo eccezionale, a cui il poeta accorda
fin da principio il diritto di ribellarsi al mondo stupido
e prosaico; invece Wilhelm Meister finisce i suoi anni
di tirocinio riconoscendo che bisogna adattarsi a questo
mondo cosí com’è. La realtà esteriore è ormai piú insen-
sata e ottusa, perché è diventata piú meccanica e arro-
gante; la società, finora ambiente naturale e campo d’a-

Storia dell’arte Einaudi 82


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

zione dell’individuo, ha perduto ogni importanza, ogni


valore per i fini piú alti dell’individuo, e tuttavia anco-
ra piú forte si è fatta la necessità di adattarvisi, di vive-
re in essa e per essa.
La politicizzazione della società, iniziata con la Rivo-
luzione francese, giunge all’acme durante la monarchia
di luglio. Il conflitto tra liberalismo e reazione, lo sfor-
zo di conciliare le conquiste rivoluzionarie con gli inte-
ressi delle classi privilegiate continua, investendo tutti
i campi della vita pubblica. Il capitale finanziario trion-
fa sulla proprietà terriera; aristocrazia e Chiesa non sono
piú protagoniste della vita politica; i progressisti si
oppongono ai banchieri e agli industriali. L’antagonismo
politico e sociale di un tempo non si è certo attenuato,
solo sono mutate le posizioni. Ora i contrasti piú profon-
di sono quelli che dividono il capitalismo industriale dal
proletariato e dalla piccola borghesia. I fini della lotta
di classe si chiariscono, si inaspriscono i metodi, tutto
sembra annunziare un’altra rivoluzione. Nonostante i
frequenti riflussi, il liberalismo guadagna terreno; len-
tamente si prepara la democrazia dell’Europa occiden-
tale. La legge elettorale viene cambiata, e il numero
degli elettori, da circa centomila, cresce di due volte e
mezzo. Si costituiscono in embrione gli elementi del
sistema parlamentare e si gettano le basi della coalizio-
ne proletaria. Veramente, nonostante la riforma eletto-
rale, in Parlamento continuano a essere rappresentate
soltanto le classi possidenti, e il liberalismo che è giun-
to al potere è semplicemente quello dell’alta borghesia.
Insomma, la monarchia di luglio è un periodo di eclet-
tismo, di compromessi, l’epoca del «mezzo», anche se
non proprio del «giusto mezzo» come amava definirla
Luigi Filippo e come ora è indicata da tutti vuoi seria-
mente vuoi con ironia. Esteriormente, è un tempo di
moderazione e tolleranza, ma nella realtà della piú dura
lotta per l’esistenza; è un’epoca di moderato progresso

Storia dell’arte Einaudi 83


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

politico e di conservatorismo economico sull’esempio


inglese. I Guizot e i Thiers esaltano l’idea della monar-
chia costituzionale, auspicano che il sovrano regni e non
governi, ma essi stessi sono lo strumento di un’oligarchia
parlamentare, di un esiguo partito di governo che tiene
in balia i piú vasti ceti borghesi con la magica parola enri-
chissez-vous! La monarchia di luglio è un periodo di pro-
sperità, di floridezza industriale e commerciale. Il dena-
ro domina tutta la vita pubblica e privata: tutto si piega
al suo servizio, tutto gli si prostituisce – esattamente, o
quasi, come descrive Balzac. Certo il dominio del capi-
tale non comincia da ora; ma prima in Francia il dena-
ro era soltanto uno dei mezzi per potersi affermare, e
non il piú cospicuo né il piú efficace. Adesso invece ogni
diritto, ogni potere, ogni attitudine viene a un tratto
espressa in denaro. Ogni cosa dev’esser ridotta a quel
denominatore per diventare comprensibile. D’ora in poi
tutta la storia antecedente del capitalismo appare un
semplice preludio. Non solo l’alta politica e l’alta
società, non solo il Parlamento e la burocrazia hanno un
carattere plutocratico, non solo la Francia è dominata
dai Rothschild e dagli altri juste-millionaires [gioco di
parole fra milieu (mezzo) e million (milione)], come li
chiama Heine, ma il re stesso è uno speculatore astuto
e senza scrupoli. Per diciott’anni il governo, come dice
Tocqueville, è una specie di società commerciale: re,
Parlamento e amministrazione si dividono i grossi boc-
coni, si scambiano informazioni e favori, affari e con-
cessioni, speculano sulle azioni e sulle rendite, sulle cam-
biali e sulle ipoteche. Il capitalista afferra le redini della
società assicurandosi una posizione quale mai aveva
avuto. Finora una funzione del genere si era accompa-
gnata alla trasfigurazione ideologica della ricchezza; il
ricco doveva apparire il protettore della Chiesa, della
Corona, o delle arti e delle scienze; ora invece gode dei
massimi onori semplicemente perché è ricco. «D’ora in

Storia dell’arte Einaudi 84


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

poi regneranno i banchieri», profetizza Laffitte, quan-


do viene proclamato re Luigi Filippo. E nel 1836 un
deputato dichiara in Parlamento: «Nessuna società può
vivere senza un’aristocrazia. Volete sapere chi sono gli
aristocratici della monarchia di luglio? I grandi indu-
striali; su di loro si fonda la nuova dinastia»5. Ma la bor-
ghesia è ancora impegnata nella lotta per la supremazia,
per il prestigio sociale, che la nobiltà le concede a malin-
cuore, esitando. Essa è ancora una «classe in ascesa» ed
ha ancora lo slancio dell’offensiva, la sicurezza senza
dubbi di chi reclama i propri diritti. Ma è cosí certa di
vincere, che la sicurezza già comincia a mutarsi in com-
piacimento, in autoapologia. La sua buona coscienza
riposa già in parte su un’illusione ed essa si avvia a quel-
lo stato in cui le rivelazioni del socialismo incrineranno
la sua fiducia. Diventa sempre piú intollerante e retriva
e dei suoi peggiori difetti – grettezza, piatto razionali-
smo, mascheramenti idealistici della corsa al guadagno
– fa le basi della sua filosofia. Ogni vero idealismo le par
sospetto, ridicolo ogni distacco dal mondo; combatte
ogni intransigenza, ogni radicalismo, perseguita e repri-
me ogni opposizione allo spirito del juste-milieu e alla
prudente dissimulazione dei contrasti. Alleva i propri
satelliti all’ipocrisia e si trincera dietro le sue finzioni
ideologiche, tanto piú disperatamente, quanto piú peri-
colosi diventano gli attacchi del socialismo.
Le tendenze fondamentali del moderno capitalismo,
visibili fin dal Rinascimento, si palesano ora con bruta-
le e intransigente chiarezza, non mitigate da nessuna tra-
dizione. Specialmente sensibile si fa la tendenza alla
considerazione obiettiva, lo sforzo cioè di sottrarre l’ap-
parato di un’impresa economica a ogni influsso diretta-
mente umano, a ogni considerazione delle circostanze
personali. L’impresa diventa un organismo autonomo,
che persegue interessi e fini suoi propri, diretta da una
sua propria logica; un tiranno che asservisce chiunque lo

Storia dell’arte Einaudi 85


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

avvicini6. La completa dedizione agli affari, il sacrificio


spontaneo dell’imprenditore per resistere alla concor-
renza, per la prosperità e l’incremento della ditta, quel-
l’astratta ambizione del successo che lo fa spietato verso
di sé, acquistano un aspetto pauroso, monomaniaco7. Il
sistema si affranca dai suoi promotori e si trasforma in
un meccanismo, che nessuna forza umana può arresta-
re. Questo automatismo dell’apparato è l’aspetto sinistro
del capitalismo moderno; esso gli dà quell’impronta
demoniaca che ci atterrisce nella descrizione di Balzac.
Via via che i mezzi e le condizioni del successo sfuggo-
no alla sfera dell’influenza individuale, negli uomini si
fa sempre piú grave l’incertezza, il senso di essere in
balia di un mostro. E quanto piú gli interessi si fanno
estesi e intricati, tanto piú selvaggia e disperata è la
lotta, tanto piú multiforme il mostro, e inevitabile la
rovina. Infine ci si ritrova completamente circondati da
rivali, avversari, nemici; tutti combattono contro tutti;
ognuno è sul fronte di una guerra perpetua, generale,
veramente «totale»8. Ogni proprietà, ogni posizione,
ogni influsso dev’essere giorno per giorno riguadagnato,
riconquistato, estorto; tutto sembra provvisorio, insta-
bile, infido9. Di qui lo scetticismo, il pessimismo gene-
rale, il senso dell’angoscia che prende alla gola; il mondo
di Balzac ne è pieno, ed esso rimane il carattere preci-
puo nella letteratura dell’età capitalistica.
A Luigi Filippo e alla sua aristocrazia di finanzieri sta
di fronte una forte, vasta opposizione che, oltre ai legit-
timisti della nobiltà e del clero, comprende tutti coloro
che sentono frustrate le speranze riposte nella rivolu-
zione di luglio: da un lato la piccola borghesia patriot-
tica e bonapartista, ma in fondo liberale; dall’altro la
sinistra, composta dei borghesi repubblicani e dei socia-
listi, a cui si aggiungono gli intellettuali militanti nel-
l’uno o nell’altro settore. Il partito di governo, cosí
detto «liberale», è quindi assediato da ogni parte da

Storia dell’arte Einaudi 86


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

gruppi di opposizione e sovversivi, e Luigi Filippo, il «re


cittadino», è completamente estraneo alla stragrande
maggioranza del suo popolo10. Le tendenze radicali si
manifestano e si sfogano nella costituzione di associa-
zioni democratiche, partiti e sette, in scioperi, rivolte
della fame e attentati; a dirla breve, in quel che a ragio-
ne si designò come uno stato di rivoluzione permanen-
te. Questi torbidi non sono affatto il seguito puro e sem-
plice delle rivoluzioni e delle rivolte antecedenti. Già la
sommossa di Lione del 1831 se ne distingue per il suo
carattere apolitico11; è l’arsi, l’inizio di quel movimento
di masse il cui simbolo, la bandiera rossa, appare per la
prima volta nel 1832. La svolta comincia con una sco-
perta caratteristica del pensiero socialista: «Le teorie
dell’economia borghese sull’identità di interessi fra capi-
tale e lavoro, sull’armonia universale e l’universale
benessere conseguenti alla libera concorrenza sono state
contraddette dai fatti, – osserva Engels, – in modo sem-
pre piú convincente»12. Il socialismo come dottrina si
sviluppa dal riconoscimento del carattere di classe del-
l’economia borghese. Idee e tendenze socialiste le incon-
triamo, naturalmente, fin dalla grande Rivoluzione fran-
cese, specie nella Convenzione e nella congiura di
Babeuf; ma di un movimento proletario di massa e di
una corrispondente coscienza di classe si può parlare solo
dopo il trionfo della rivoluzione industriale e lo stabilirsi
delle grandi aziende meccanizzate. Qui dalla continua
convivenza nasce la solidarietà fra i lavoratori, e quin-
di tutto il moderno movimento operaio13. L’odierno pro-
letariato, come integrazione dei piccoli gruppi operai,
prima dispersi, è frutto dell’Ottocento e dell’industria-
lismo; prima, la storia non aveva conosciuto nulla di
simile14. La teoria socialista, fondata da filantropi e uto-
pisti isolati e sorta dal disagio economico del popolo, dal
desiderio di lenirlo e di risolvere il problema di una piú
equa distribuzione della ricchezza, diventa un’arma effi-

Storia dell’arte Einaudi 87


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cace soltanto con l’organizzazione dell’attività indu-


striale nelle città e con le lotte sociali che si combatto-
no dopo il 1830; solo ora essa imbocca la via che Engels
ha chiamato sviluppo «dall’utopia alla scienza». Anche
la critica sociale di Saint-Simon e Fourier era nata dal-
l’esperienza dell’industrialismo e dalla constatazione dei
suoi effetti rovinosi; ma in quei pensatori il realismo era
ancora molto commisto di romanticismo, e ai problemi
bene impostati facevano riscontro tentativi di soluzio-
ne del tutto fantastici. Le tendenze religiose, emerse con
la Restaurazione, anzi in certa misura già con il Con-
cordato, e che dal 1830 si facevano sempre piú profon-
de, non mancavano di influenzare la loro opera di rifor-
matori e missionari. Da Saint-Simon fino ad Auguste
Comte, i socialisti e i filosofi sociali hanno ancora l’oc-
chio fisso a quella che era stata l’ambizione dei roman-
tici: tutti vorrebbero sostituire alla Chiesa medievale,
come forma «organica», sintetica, un nuovo ordine, una
nuova organizzazione sociale, realizzando la nuova «cri-
stianità» con l’aiuto dei poeti e degli artisti.
Con la sempre maggiore politicizzazione, della vita,
anche nella letteratura viene accentuandosi, fra il 1830
e il 1848, l’interesse politico. In questo periodo quasi
non si hanno opere politicamente indifferenti; perfino
il quietismo de l’art pour l’art assume una tinta politica.
La nuova tendenza si rivela specialmente nel frequente
intrecciarsi della carriera politica con quella letteraria,
e nel fatto che tanto i politici quanto i letterati appar-
tengono per lo piú allo stesso ceto. Attitudini letterarie
si considerano premesse naturali per una carriera politi-
ca, e spesso il prestigio politico ricompensa meriti let-
terari. Durante la monarchia di luglio, i politici che scri-
vono e gli scrittori che fanno politica – Guizot, Thiers,
Michelet, Thierry, Villemain, Cousin, Jouffroy, Nisard
– sono gli epigoni dei «filosofi» settecenteschi; gli auto-
ri della generazione successiva non avranno piú alcuna

Storia dell’arte Einaudi 88


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ambizione politica, né i politici alcuna autorità nell’am-


bito culturale. Ma fino alla rivoluzione di febbraio la
vita politica assorbe tutte le forze intellettuali. I giova-
ni d’ingegno, che la povertà esclude dalla carriera poli-
tica, si dedicano al giornalismo, che è ora l’inizio abi-
tuale e la forma tipica della professione letteraria. Il gior-
nalismo non solo è un mezzo per passare alla politica e
alla letteratura vera e propria, ma è, già in sé, un’atti-
vità che assicura spesso una notevole influenza e un
reddito considerevole. Bertin, il redattore-capo del
«Journal des Débats», soddisfatto e sicuro di sé, ci appa-
re come la quintessenza della monarchia di luglio. Egli
incarna la borghesia che si fa letterata, e la letteratura
che si fa borghese. L’attività letteraria si trasforma non
solo in un affare per i Bertin, ma, come nota Sainte-
Beuve, in un’«industria» per quanti vi partecipano15.
Essa diventa semplicemente un mezzo di procurarsi
annunzi pubblicitari e abbonamenti. La stretta connes-
sione fra letteratura e stampa quotidiana ha, secondo l’o-
pinione di un contemporaneo, un effetto rivoluzionario
come l’uso del vapore nelle industrie; tutta la produ-
zione letteraria viene a mutare carattere16. Forse si insi-
ste troppo in questa analogia, in quanto l’industrializ-
zarsi della letteratura non è in realtà che un sintomo di
un’evoluzione generale della mentalità, e non fa che
mettere in luce una tendenza ormai implicita nella pro-
duzione artistica; tuttavia quando Émile de Girardin,
scrittore insignificante, ma uomo d’affari pieno d’im-
maginazione, fa propria l’idea di Dutacq, che fino allo-
ra era affatto sconosciuto, e nel 1836 fonda il giornale
«La Presse», è questo un evento d’importanza storica.
La gran novità consiste nel fissare il costo annuo d’ab-
bonamento a quaranta franchi, la metà del prezzo soli-
to, proponendosi di colmare il deficit con annunzi pub-
blicitari e avvisi. Nello stesso anno Dutacq fonda il
«Siècle» con ugual programma, e gli altri giornali pari-

Storia dell’arte Einaudi 89


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

gini ne seguono l’esempio, ognuno nel proprio settore.


Il numero degli abbonati cresce e nel 1846 ha raggiun-
to i duecentomila, di fronte ai settantamila di dieci anni
prima. Le nuove iniziative spingono gli editori alla con-
correnza. Essi debbono offrire ai loro lettori il cibo piú
sapido e variato, per accrescere l’attrattiva del giornale,
soprattutto in considerazione della pubblicità. D’ora in
poi ognuno deve trovare nel suo giornale quel che gli
interessa e gli serve; per ognuno esso deve sostituire una
piccola biblioteca e un’enciclopedia.
Accanto agli interventi degli esperti, i giornali reca-
no articoli d’interesse generale, specie descrizioni di
viaggi, storie di scandali e cronache giudiziarie. Ma l’at-
trattiva maggiore è il romanzo a puntate. Tutti lo leg-
gono, aristocratici e borghesi, il gran mondo e gli intel-
lettuali, giovani e vecchi, uomini e donne, padroni e ser-
vitori. «La Presse» apre la serie dei suoi romanzi d’ap-
pendice (feuilletons), pubblicando Balzac che ogni anno,
fra il 1837 e il 1847, fornisce un romanzo, ed Eugenio
Sue, che le affida la massima parte delle sue opere. A
questi autori il «Siècle» contrappone Alessandro Dumas
e l’enorme successo dei Tre Moschettieri reca al giornale
un notevole profitto. Il «Journal des Débats» deve la sua
popolarità soprattutto ai Mystères de Paris di Eugenio
Sue, che sarà d’ora in poi fra gli autori piú richiesti e
meglio pagati. Il «Constitutionnel» gli offre centomila
franchi per il Juif errant, e questa rimarrà la misura dei
suoi onorari. Ma i guadagni maggiori sono sempre quel-
li di Dumas, che ricava circa duecentomila franchi all’an-
no e a cui «La Presse» e il «Constitutionnel» per due-
centoventimila righe a stampa pagano annualmente la
somma di sessantatremila franchi. Per far fronte all’e-
norme richiesta, gli autori cari al pubblico si associano
i coolies della letteratura, che prestano loro inapprezza-
bili servigi nella produzione in serie. Sorgono vere e pro-
prie manifatture letterarie, dove i romanzi vengono fatti

Storia dell’arte Einaudi 90


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

a macchina. In una azione giudiziaria viene provato che


Dumas ha pubblicato con il suo nome piú di quanto gli
fosse materialmente possibile scrivere, anche lavorando
ininterrottamente giorno e notte. Di fatto egli impiega
settantatre collaboratori, fra i quali un certo Auguste
Maquet, a cui lascia piena libertà. L’opera letteraria ora
diventa «merce» nel vero senso della parola: ha una
tariffa, segue un modello fisso, e si consegna a termine.
È un articolo commerciale, per cui si paga il prezzo
dovuto, che verrà ripreso. A nessun editore viene in
mente di pagare i signori Dumas e Sue piú di quanto si
debba e si possa pagare, e gli autori dei romanzi d’ap-
pendice non sono «strapagati», come non lo sono oggi
gli astri del cinematografo: i loro prezzi sono regolati
dalla richiesta e non dipendono in alcun modo dal valo-
re artistico dei prodotti.
«La Presse» e il «Siècle» sono i primi quotidiani che
escano con romanzi a puntate, ma la trovata non è loro.
È invece un’idea di Véron, che già la mette in pratica
nella sua «Revue de Paris» fondata nel 182917. Buloz
l’adotta poi nella sua «Revue des Deux Mondes», pub-
blicando, fra l’altro, anche romanzi di Balzac. Ma in sé
il feuilleton è ancora piú antico di queste riviste; lo si
trova già verso il 1800. I giornali, che durante il Con-
solato e il Primo Impero sono assai magri, per la cen-
sura e altre restrizioni, tanto per offrire qualcosa ai let-
tori pubblicano un’appendice letteraria. Dapprima è
solo una specie di cronaca mondana e artistica, ma
durante la Restaurazione si sviluppa in una vera pagi-
na letteraria. Dal 1830 racconti e relazioni di viaggio
ne formano l’argomento principale, e dopo il 1840 esso
non reca piú che romanzi. Il Secondo Impero, appli-
cando l’imposta di un centesimo su ogni copia di gior-
nale che porti un’appendice, prepara al romanzo a pun-
tate una rapida fine. È vero che piú tardi il genere ha
una seconda fioritura, ma non influisce piú sull’evolu-

Storia dell’arte Einaudi 91


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

zione letteraria, mentre ha lasciato profonde tracce


nella letteratura fra il 1840 e il ’50.
Il romanzo d’appendice è destinato, come il melo-
dramma e il vaudeville, a un pubblico promiscuo e di
nuovo tipo; dominano in questo romanzo gli stessi cri-
teri di forma e di gusto che sono propri dei teatri popo-
lari. Quanto allo stile, vi si predilige di regola l’eccessi-
vo e il piccante, il grossolano e l’eccentrico; i soggetti
preferiti sono quelli che trattano di ratti e adulteri, vio-
lenze e crudeltà. Anche qui, come nel melodramma,
caratteri e azione sono stereotipi18. La necessità di inter-
rompere il racconto a ogni puntata, e ogni volta trova-
re un finale atto a eccitare la curiosità del lettore per la
puntata successiva, spinge l’autore ad adottare una spe-
cie di tecnica teatrale, che consenta di evidenziare e arti-
colare come in singole scene autonome la narrazione.
Alessandro Dumas, maestro della tensione drammatica,
è anche un virtuoso di questa tecnica; infatti, quanto piú
drammatico è lo sviluppo di un romanzo a puntate,
tanto piú forte ne è l’effetto sul pubblico. D’altra parte
il particolare modo di lavoro per cui l’opera viene con-
dotta giorno per giorno e le singole parti vengono pub-
blicate per lo piú senza un piano preciso e senza possi-
bilità di correggere quelle già uscite e di accordarle con
quelle successive, determina una forma narrativa «anti-
drammatica», episodica e improvvisata, un dilungarsi
del corso degli eventi, nonché un disegno inorganico e
spesso contraddittorio dei caratteri. Tutta l’arte della
preparazione degli effetti, la tecnica per assicurare ai
fatti una motivazione che risulti naturale, spontanea,
non voluta, vanno cosí perdute. Talora i casi dell’in-
treccio e gli sviluppi dei personaggi paiono tirati pei
capelli; le figure secondarie che compaiono nel corso del
racconto spesso sembrano piovere dal cielo, poiché l’au-
tore ha trascurato di «presentarle» tempestivamente. La
brusca introduzione di certe figure è un errore frequente

Storia dell’arte Einaudi 92


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

anche in Balzac, benché egli rimproveri appunto questa


improvvisazione alla Chartreuse de Parme. Ma in
Stendhal la costruzione trascurata e debole è la conse-
guenza di una tecnica narrativa in se stessa episodica,
picaresca, essenzialmente antidrammatica19; mentre in
Balzac, che mira al romanzo drammatico, essa è un
difetto che dipende dal modo di scrivere giornalistico,
di chi vive alla giornata. Tuttavia non possiamo affer-
mare che l’industrializzarsi della letteratura sia sempli-
cemente una conseguenza del giornalismo e il romanzo
ameno debba il suo carattere rigidamente stereotipo
unicamente all’appendice; infatti, come provano gli
esempi dell’Impero e della Restaurazione, verso il 1830
già da un pezzo il romanzo era sulla via di ridursi a uno
stile puramente convenzionale20.
Il romanzo d’appendice significa una democratizza-
zione senza precedenti della letteratura e un livella-
mento quasi completo del pubblico. Mai un’arte aveva
trovato unanime accoglienza in ambienti sociali e cul-
turali cosí diversi e un tale accordo di sentimenti. Per-
fino un Sainte-Beuve loda nell’autore dei Mystères de
Paris qualità che è dolente di non trovare in Balzac. La
diffusione del socialismo va di pari passo con l’aumen-
to dei lettori; ma le idee democratiche di Eugenio Sue
e la sua fede nel fine sociale dell’arte non bastano a spie-
gare il successo dei suoi romanzi. Piuttosto è strano sen-
tire il beniamino di un pubblico in gran parte borghese
entusiasmarsi per il «nobile lavoratore» e tuonare con-
tro il «crudele capitalismo». Il compito ch’egli si assu-
me, di svelare le piaghe della società malata, spiega, al
massimo, la simpatia con cui lo tratta la stampa pro-
gressista: il «Globe», la «Démocratie pacifique», la
«Revue indipendente», la «Phalange» e il loro seguito.
La maggioranza dei suoi lettori considera la sua ten-
denza al socialismo come un soprappiú. Ma tutti senza
dubbio trovano naturale che la letteratura tratti dei piú

Storia dell’arte Einaudi 93


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

scottanti problemi sociali. L’energica affermazione di


Madame de Staël, che la letteratura deve essere espres-
sione della società, trova un generale consenso e diven-
ta un assioma per la critica francese. Dal 1830 è regola
giudicare un’opera letteraria nei suoi rapporti con i pro-
blemi d’attualità politica e sociale e, ad eccezione dei
gruppi relativamente ristretti che seguono il movimen-
to de l’art pour l’art, nessuno si scandalizza vedendo l’ar-
te al servizio della politica. Mai forse l’estetica pura, for-
male, lontana da ogni riferimento pratico, ha avuto scar-
so seguito come ora21.
Fino al 1848 le opere maggiori per numero e impor-
tanza fanno capo a questa tendenza attivistica; dopo
quell’anno, a un indirizzo quietistico. La delusione di
Stendhal è ancora aggressiva, estroversa, anarchica; la
rassegnazione di Flaubert è passiva, egocentrica, nichi-
lista. Nel seno stesso del romanticismo la corrente prin-
cipale non è piú ora l’art pour l’art di Théophile Gautier
e di Gérard de Nerval. Romantici non si è pié nel vec-
chio senso mistico e mistificatore di esuli nel mondo. Il
romanticismo continua, ma si trasforma, acquista un
altro significato. La tendenza anticlericale e antilegitti-
mista che si era manifestata alla fine della Restaurazio-
ne si acuisce in una visione rivoluzionaria. I piú dei
romantici rinnegano l’arte pura e si accostano alle idee
di Saint-Simon e Fourier22. I corifei – Hugo, Lamarti-
ne, George Sand – fanno professione di attivismo arti-
stico e si pongono al servigio dell’arte «popolare» auspi-
cata dai socialisti. Il popolo ha vinto, e anche nell’arte
bisogna esprimere questa svolta rivoluzionaria. Non solo
George Sand ed Eugenio Sue diventano socialisti, non
solo Lamartine e Hugo si entusiasmano per il popolo, ma
anche scrittori come Dumas, Scribe, Musset, Mérimée
e Balzac civettano con le idee socialiste23. Questo idil-
lio, d’altronde, finisce ben presto; infatti, come la
monarchia di luglio abbandona le mete democratiche

Storia dell’arte Einaudi 94


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

della rivoluzione e diventa il regime della borghesia con-


servatrice, cosí i romantici abiurano il socialismo e ritor-
nano, sia pur con qualche modifica, alle antiche opinio-
ni sull’arte. Alla fine non rimane nessun poeta di qual-
che valore fedele all’idea sociale e per ora la causa
dell’«arte popolare» sembra perduta. Si verifica una
sorta di acquetamento interiore dell’arte romantica che
si fa borghese e disciplinata. Sotto la guida di Lamarti-
ne, Hugo, Vigny e Musset sorge un romanticismo acca-
demico e conservatore, e anche un elegante romantici-
smo da salotto. Il fiero e violento spirito ribelle è doma-
to e la borghesia accoglie con entusiasmo questo roman-
ticismo in parte ammansato dall’accademia, fatto per
cosí dire «classico», in parte fuso con il dandysmo dei
discepoli di Byron24. Sainte-Beuve, Villemain, Buloz
sono le piú alte autorità, il «Journal des Débats» e la
«Revue des Deux Mondes» sono gli organi ufficiali del
nuovo gruppo letterario borghese, tinto di romanticismo
e con tendenze accademiche25.
Ma a certe categorie del pubblico il romanticismo
sembra ancor troppo violento e arbitrario. Gli si con-
trappone un nuovo classicismo, sobrio, strettamente
borghese, l’arte della cosí detta école de bon sens e del
juste-milieu estetico. Il successo di Ponsard, la rinascita
della tragédie classique e la moda della Rachel sono i sin-
tomi piú evidenti di questo nuovo gusto. Dopo i «mor-
bosi» eccessi di un’atmosfera rovente, si vuol respirare
di nuovo aria fresca. Si vuol aver a che fare con carat-
teri equilibrati, regolari, esemplari, con sentimenti e
passioni normali, universalmente comprensibili, con una
concezione che si fondi sull’equilibrio, l’ordine, la mode-
razione: si vuole insomma una letteratura che rinunzi
alla mordacità, alle trovate bizzarre e all’espressione
eccentrica dei romantici. Il 1843 vede il successo della
Lucrèce e il fiasco dei Burgraves; e al trionfo di Ponsard
su Victor Hugo, si accompagna quello di Scribe, Dumas,

Storia dell’arte Einaudi 95


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Ingres su Stendhal, Balzac e Delacroix. Dall’arte la bor-


ghesia non vuole piú scosse, ma divertimento; per essa
il poeta non è un vate, ma un maître de plaisir. Dietro
Ingres viene l’infinita serie dei pittori accademici, cor-
retti ma noiosi; dietro a Ponsard, quella dei fidati, ma
insignificanti fornitori dei teatri statali e comunali. Ci
si vuol divertire in pace e quindi si torna a favorire l’ar-
te «pura», apolitica.
L’art pour l’art nasce dal romanticismo, per il quale
rappresenta uno strumento nella lotta per la libertà; è la
conseguenza e, in certo modo, il vero risultato dell’e-
stetica romantica. Il movimento che in origine si era pro-
posto solo la negazione delle regole imposte all’arte dal
classicismo, si è trasformato in rivolta contro ogni vin-
colo esteriore, un’emancipazione da tutti i valori intel-
lettuali e morali estranei all’arte. Per Gautier la libertà
dell’arte significa già l’indipendenza dai criteri di valo-
re della borghesia, l’indifferenza ai suoi fini utilitari e il
rifiuto di contribuire a attuarli. L’art pour l’art diventa
la torre d’avorio in cui i romantici si ritirano dalla vita
pratica. L’accordo con l’ordine costituito è il prezzo
ch’essi pagano per questa loro quiete e per la superiorità
del loro atteggiamento puramente contemplativo. Fino
al 1830 la borghesia si era ripromessa dall’arte un appog-
gio ai propri fini, e per questo aveva acconsentito a
svolgere una propaganda politica attraverso l’arte.
«L’uomo non è fatto soltanto per cantare, credere,
amare... La vita non è un esilio, ma una missione...»,
scrive il «Globe» nel 182526. Ma dopo il 1830 la bor-
ghesia comincia a diffidare dell’arte, e all’alleanza di
prima preferisce la neutralità. La «Revue des Deux
Mondes» ora pensa che non è necessario, anzi neppur
desiderabile, che l’artista abbia idee politiche e sociali
sue proprie; e cosí pensano i critici piú autorevoli, fra
cui Gustave Planche, Nisard e Cousin27. La borghesia fa
proprio il principio de l’art pour l’art; esalta la natura

Storia dell’arte Einaudi 96


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ideale dell’arte e l’alta posizione dell’artista al di sopra


dei partiti politici; lo chiude cioè in una gabbia d’oro.
Cousin riprende dalla filosofia kantiana l’idea dell’au-
tonomia e rinnova la teoria del carattere «disinteressa-
to» dell’arte; e qui gli viene in taglio la tendenza alla spe-
cializzazione, che prende il sopravvento con il capitali-
smo. Effettivamente l’art pour l’art corrisponde sia a
quella divisione del lavoro che con l’industrialismo
aumenta sempre piú, sia a una necessità di difesa del-
l’arte minacciata dal pericolo di venir assorbita dalla
vita industrializzata e meccanizzata. Esso rappresenta
innegabilmente una razionalizzazione, un disincanta-
mento e anche una limitazione dell’arte, ma nello stes-
so tempo un tentativo di salvarne la particolare natura
e la spontaneità nella generale meccanizzazione.
Senza dubbio l’art pour l’art ha dato espressione a
quello che è il problema piú intricato dell’estetica. Nulla
rivela cosí netto il dualismo, l’intimo dissidio dell’at-
teggiamento estetico. È l’arte fine a se stessa, o soltan-
to un mezzo? La risposta varierà, non solo a seconda
della condizione storica e sociale, ma anche a seconda
dell’elemento che si considera nel complesso quadro del-
l’arte. L’opera d’arte è stata paragonata a una finestra
da cui si può osservare la vita, senza tener conto della
struttura, della trasparenza, del colore dei vetri della
finestra stessa28. Quest’analogia fa dell’opera soltanto un
veicolo, dell’osservazione e della conoscenza, appunto
come un vetro o una lente, indifferente in sé e sempli-
ce strumento. Ma come si può volgere lo sguardo alla
struttura del vetro, senza badare al quadro che si apre
oltre la finestra, cosí anche l’opera d’arte si può conce-
pire come una forma indipendente, che ha in sé la sua
ragion d’essere, un contesto significativo in sé conchiu-
so e perfetto; e tutto quel che la trascende, ogni «sguar-
do attraverso la finestra» ne pregiudica l’intima coe-
renza. Il senso dell’opera d’arte oscilla continuamente

Storia dell’arte Einaudi 97


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tra questi due aspetti: l’immanenza, rescissa dalla vita,


da ogni realtà che trascenda l’opera stessa, e la funzio-
ne determinata dalla vita, dalla società, dalla prassi. Dal
punto di vista dell’esperienza estetica immediata, l’au-
tonomia e l’autosufficienza appaiono la vera sostanza
dell’opera d’arte, poiché solo in quanto essa si stacca
dalla realtà sostituendosi interamente ad essa, solo in
quanto costituisce un cosmo totale, in sé perfetto, essa
è in grado di suscitare una completa illusione. Ma que-
sta illusione non è affatto tutto il contenuto dell’arte e
spesso non ha parte alcuna nella sua efficacia. I piú alti
capolavori rinunziano all’illusionismo ingannatore di un
mondo estetico chiuso in sé e rinviano a qualcosa che li
trascende. Essi sono in diretto rapporto con i grandi pro-
blemi del loro tempo e cercano sempre una risposta alla
domanda: come trarre un senso dalla vita umana? come
parteciparvi?
Il paradosso piú arduo dell’opera d’arte sta nel fatto
che essa sembra esistere per sé e nello stesso tempo non
soltanto per sé; che essa si rivolge a un pubblico con-
creto, storicamente e socialmente definito e insieme
sembra ignorare ogni pubblico. La «quarta parete» della
scena appare a volte il piú naturale presupposto, altre
volte la piú arbitraria finzione dell’estetica. Distrug-
gendo, con una tesi, un indirizzo morale, un intento pra-
tico l’illusione, si impedisce, è vero, il godimento este-
tico assoluto; tuttavia è l’unico modo di provocare una
vera adesione all’opera, un’adesione che investa tutto
l’essere dello spettatore o del lettore. Quest’alternativa
però è affatto estranea all’intenzione dell’artista. Anche
l’opera politicamente e moralmente piú tendenziosa può
esser compresa come arte pura, cioè pura forma, se è
davvero un’opera d’arte; e ogni prodotto artistico, anche
privo, per l’autore, di qualsiasi fine pratico, può esser
considerato come espressione e strumento della causa-
lità sociale. L’attivismo di Dante non esclude affatto

Storia dell’arte Einaudi 98


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

un’interpretazione puramente estetica della Divina Com-


media, né il formalismo di Flaubert esclude una spiega-
zione sociologica di Madame Bovary e dell’Education sen-
timentale.
Verso il 1830 i rapporti fra le principali correnti arti-
stiche – l’«arte sociale», l’école de bon sens e l’art pour
l’art – sono complicati e per lo piú contraddittori. Que-
ste contraddizioni caratterizzano l’atteggiamento dei
sansimoniani e dei fourieristi sia verso il romanticismo,
sia verso il classicismo borghese. Del primo essi rifiuta-
no le simpatie per la Chiesa e per la monarchia, la visio-
ne romanzesca e irreale della vita, l’egoistico individua-
lismo, ma specialmente il quietismo de l’art pour l’art.
D’altronde li attrae nel romanticismo il liberalismo, il
concetto della libertà e spontaneità dell’arte, la rivolta
contro le regole e l’autorità dei classici. E ancora ammi-
rano fortemente nei romantici le aspirazioni realistiche,
ch’essi riconoscono affini al loro interesse per la vita, alla
loro disposizione verso la realtà. L’affinità fra socialismo
e realismo spiega anzitutto la loro simpatia per Balzac
di cui, soprattutto in principio, essi giudicano con molto
favore le opere29. Con questi sentimenti contrastanti di
fronte al romanticismo è connesso il loro atteggiamen-
to, altrettanto contraddittorio, verso il classicismo bor-
ghese. Il consenso al liberalismo dell’estetica romantica
li porta a condannare il ritorno ai modelli classici del-
l’arte borghese; invece l’avversione agli arbitrî e alle
esagerazioni della poesia, e specialmente del teatro
romantico, li spinge a una parziale adesione al classici-
smo di Ponsard»30. A questa indecisione dei socialisti
corrisponde da un lato l’incertezza del gusto borghese
diviso tra il romanticismo accademico e il dramma di
Ponsard; dall’altro, l’oscillare del romanticismo stesso
tra l’attivismo e l’art pour l’art. Ma con queste tre cor-
renti ne incrocia una quarta, che storicamente è la piú
importante: il realismo di Stendhal e di Balzac. Anch’es-

Storia dell’arte Einaudi 99


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

so si trova in un rapporto contraddittorio con il roman-


ticismo. In questo caso l’ambivalenza è frutto princi-
palmente di quel dissidio che di solito esiste tra due
generazioni o due tendenze intellettuali di cui una è la
prosecuzione dell’altra. Il realismo rappresenta la con-
tinuazione e la dissoluzione del romanticismo; Stendhal
e Balzac ne sono i piú legittimi eredi e i piú ardenti
avversari.
In arte il realismo non è una concezione chiara e uni-
taria, che segua costantemente uno stesso concetto della
realtà, bensí un’interpretazione della vita sempre diver-
sa, volta a un fine determinato, a un compito concreto,
e limitata a fenomeni particolari. Ci si professa realisti,
non perché si ritenga a priori che ci sia piú arte nella rap-
presentazione naturalistica che in quella stilizzatrice,
ma perché nella realtà si scopre un carattere, una ten-
denza, che si vorrebbe fortemente accentuare, favorire
o combattere. In sé, tale scoperta non deriva dall’osser-
vazione del vero; se mai, l’interesse per il vero ne è una
conseguenza. La generazione del 1830 comincia la sua
carriera letteraria con la coscienza che un totale muta-
mento è avvenuto nella struttura della società; in parte
lo approva, in parte lo combatte, comunque si tratta
sempre di una reazione estremamente attiva, ed è
appunto da questo atteggiamento impegnato che deriva
la sua tendenza realistica. Il realismo dunque non mira
semplicemente al vero, alla «natura» o alla «vita» in
genere, ma in modo particolare alla vita sociale, cioè a
quella sfera della realtà che per questa generazione ha
assunto un’importanza particolare. Stendhal e Balzac si
assumono il compito di rappresentare la nuova società
trasformata; proprio lo sforzo di esprimerne la novità e
i caratteri particolari li porta al realismo e determina il
loro concetto della verità artistica. La coscienza sociale
della generazione del 1830, la sua sensibilità a fenome-
ni in cui sono in gioco interessi sociali, la sua perspica-

Storia dell’arte Einaudi 100


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cia per i cambiamenti nella società e nella sua scala di


valori, fanno degli scrittori di questa generazione i crea-
tori del romanzo sociale e del moderno realismo.
La storia del romanzo comincia nel Medioevo con l’e-
popea cavalleresca. Questa a dir vero ha poco di comu-
ne con il romanzo moderno; pure la sua composizione
aggiuntiva, la sua tecnica prolissa che allinea senza fine
avventure ed episodi, sono all’origine di una tradizione
che si continua non solo nel romanzo picaresco o nelle
storie eroiche e pastorali del Rinascimento e dell’età
barocca, ma addirittura nel romanzo d’avventure del-
l’Ottocento e in quelle evocazioni del fluire della vita e
dell’esperienza che sono i romanzi di Proust e Joyce. A
prescindere dall’inclinazione alla forma aggiuntiva
comune a tutto il Medioevo, e dalla concezione cristia-
na che tende a vedere la vita non come un fenomeno tra-
gico, che culmina in singoli conflitti drammatici, ma
come un itinerario con le sue varie stazioni, questa strut-
tura dipende soprattutto dal fatto che la poesia era reci-
tata e che il pubblico vi portava un’ingenua avidità di
nuovi argomenti. La stampa, cioè la diretta lettura di
libri, e la visione sintetica dell’arte rinascimentale fanno
sì che la narrazione diffusa del Medioevo cominci a
cedere a una rappresentazione piú unitaria, meno epi-
sodica. Il Don Quijote, nonostante la sua struttura essen-
zialmente picaresca, costituisce anche formalmente una
critica alla prolissità dei romanzi cavallereschi. La svol-
ta decisiva, verso l’unità e la semplificazione del roman-
zo, la dobbiamo al classicismo francese.
La Princesse de Clèves è un caso affatto isolato, poi-
ché in genere i romanzi eroici e pastorali del Seicento
non sono diversi dalle storie d’avventure del Medioevo
che s’ingrossano a valanga rotolando senza fine. Il capo-
lavoro di Madame de Lafayette invece aveva attuato,
dimostrando che si trattava di una possibilità sempre
attuabile, l’idea del «romanzo d’amore», con un’azione

Storia dell’arte Einaudi 101


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

coerente, un’acme drammatica e l’analisi psicologica di


un singolare conflitto.
D’ora in poi il romanzo d’avventure costituisce una
forma letteraria di second’ordine; rimane fuori dei con-
fini dell’arte ufficiale e viene a godere dei vantaggi di
ciò che è insignificante e irresponsabile. Il Grand Cyrus
e l’Astrée sono letti principalmente dall’aristocrazia di
corte, ma li si legge, per cosí dire, in via strettamente
privata e ci si abbandona a quel piacere come a un vizio,
o almeno come a una debolezza, di cui non si può esse-
re certo orgogliosi. Bossuet nell’orazione funebre per
Enrichetta d’Inghilterra rammenta come un elogio che
la defunta non si curava affatto dei romanzi in voga e
dei loro insulsi eroi; ciò basta per farsi un’idea di come
il genere fosse giudicato in pubblico. Ma l’aristocrazia,
quando si trattava dei suoi svaghi privati, non si lascia-
va guidare dalle regole dei classicisti, e continuava
imperterrita a godersi avventure e stravaganze.
Ancora nel Settecento, per lo piú, il romanzo non si
discosta dal prolisso genere picaresco. Non solo il Gil
Blas e il Diable boiteux, ma anche i romanzi di Voltaire,
benché brevi, sono costruiti a episodi, e Gulliver e
Robinson rispondono perfettamente al principio del-
l’addizione. Perfino Manon Lescaut, la Vie de Marianne
e le Liaisons dangereuses sono ancora forme di transizio-
ne dalle antiche storie d’avventure al romanzo d’amo-
re, che a poco a poco diventa il genere principale e
comincia a dominare la letteratura preromantica. Con
Clarissa Harlowe, la Nouvelle Héloïse e il Werther trion-
fa nel romanzo il principio drammatico dando inizio a
un processo che culminerà in opere come Madame
Bovary di Flaubert e Anna Karenina di Tolstoj. L’atten-
zione si accentra ormai sullo sviluppo psicologico; i dati
esterni vengono considerati solo in quanto provocano
reazioni psichiche. È questo il segno piú evidente della
progressiva tendenza al soggettivismo e all’introversio-

Storia dell’arte Einaudi 102


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ne che si sviluppa nella cultura del tempo; tendenza che


si afferma anche piú fortemente nel romanzo della for-
mazione intima, il cosiddetto Bildungsroman, che rap-
presenta lo stadio successivo del processo e, dal punto
di vista della storia, stilistica, è la forma letteraria piú
importante del secolo. La storia interiore dell’eroe
diventa la storia del formarsi di un mondo. Solo un
tempo per cui lo sviluppo individuale è la fonte piú
importante della cultura poteva suscitare questa forma
di romanzo che non a caso ha avuto origine in un paese
come la Germania, ove meno profonde erano le radici
di una cultura collettiva. Comunque il Wilhelm Meister
di Goethe è il primo Bildungsroman in senso stretto, seb-
bene se ne trovino le origini in opere piú antiche, soprat-
tutto di tipo picaresco, come il Tom Jones di Fielding e
il Tristram Shandy di Sterne.
Il romanzo diventa il maggior genere letterario del
Settecento, perché esprime nel modo piú ampio e
profondo il problema culturale del tempo, il contrasto
tra individuo e società. In nessun’altra forma letteraria
gli antagonismi della società borghese si affermano cosí
intensi, o con altrettanta efficacia vengono descritte le
lotte e le sconfitte dell’individuo. Non per nulla Frie-
drich Schlegel vede nel romanzo il «genere romantico»
per eccellenza. Il romanticismo vi ravvisa la piú adeguata
rappresentazione del conflitto tra l’io e il mondo, il
sogno e la vita, la poesia e la prosa, e l’espressione piú
profonda di quella rassegnazione, che considera l’unica
soluzione del conflitto. La soluzione invece che ne dà
Goethe nel Wilhelm Meister è diametralmente opposta
a quella romantica: l’opera in realtà rappresenta non
solo il punto d’arrivo del romanzo settecentesco, ma
anche il prototipo da cui, direttamente o indirettamen-
te, si possono far derivare le creazioni piú tipiche del
genere, Le rouge et le noir, Les illusions perdues, L’édu-
cation sentimentale e Der Grüne Heinrich [Enrico il

Storia dell’arte Einaudi 103


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Verde], per non nominare che le piú famose. Ma oltre a


questo, il Wilhelm Meister rappresenta la prima critica
importante del romanticismo come forma di vita. Qui
Goethe – ed è il vero messaggio dell’opera – mostra
quanto sia sterile lo straniarsi dei romantici dalla realtà,
e afferma che al mondo si rende giustizia se vi si è inti-
mamente legati, e che solo dall’interno lo si può rifor-
mare. Egli non vela né abbellisce il dissidio tra mondo
intimo e mondo esterno, tra l’io spirituale e la realtà con-
venzionale, ma riconosce e dimostra che il disprezzo
romantico del mondo è un’evasione di fronte al vero
problema31. L’esortazione goethiana a vivere col mondo
e secondo le sue regole si involgarí in seguito nella let-
teratura borghese, trasformandosi in un invito alla col-
laborazione senza riserve. Il pacato, ma non certo pas-
sivo adeguarsi alla situazione esistente, divenne cosí
conciliante servilismo e utilitario culto del mondo.
Goethe è responsabile di questo processo solo in quan-
to non si avvide dell’impossibilità di appianare pacifi-
camente i contrasti, per cui il suo ottimismo un po’ faci-
le poté apparire come ideologia della politica borghese
di conciliazione. Assai piú acutamente di lui Stendhal e
Balzac videro le tensioni che dominavano l’epoca e le
giudicarono in modo piú realistico. Il romanzo sociale,
a cui essi affidarono le loro intuizioni, non solo va oltre
il romanzo della delusione ma anche oltre quello goethia-
no dello sviluppo intimo. La loro rassegnazione supera
il disprezzo romantico del mondo, e la stessa critica
goethiana del romanticismo. Il loro pessimismo risulta
da un’analisi che non si fa illusioni sulla possibilità di
risolvere la questione sociale.
Il realismo, con cui Stendhal e Balzac descrissero la
situazione, la loro comprensione per la dialettica da cui
era mossa la società, era senza esempio nella letteratura
del tempo; ma l’idea del romanzo sociale era nell’aria.
Sottotitoli come Scene del gran mondo o Scene della vita

Storia dell’arte Einaudi 104


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

privata si incontrano già molto prima di Balzac32. «Molti


giovani descrivono le cose, come avvengono ogni gior-
no in provincia... non ne vien fuori molta arte, ma molta
verità», scrive Stendhal a proposito del romanzo socia-
le dei suoi giorni33. Da lungo tempo si notavano dap-
pertutto indizi e tentativi, ma con Stendhal e Balzac il
romanzo sociale diventa senz’altro il romanzo moderno,
e ormai pare impossibile rappresentare un personaggio
avulso dalla società, che si sviluppi e agisca al di fuori
di un determinato ambiente. La realtà della vita socia-
le entra nella coscienza dell’uomo e non potrà piú esser-
ne rimossa. Le grandi opere letterarie dell’Ottocento,
quelle di Stendhal, Balzac, Flaubert, Dickens, Tolstoj e
Dostoevskij, e ancora quelle di un Proust e di un Joyce,
sono romanzi sociali, a qualunque categoria apparten-
gano. Un personaggio si considera ormai vero e plausi-
bile solo se è radicato nella società; e diventa argomen-
to del nuovo romanzo realista, solo per la problematica
sociale che la sua vita coinvolge. Questo concetto socio-
logico dell’uomo è la scoperta dei romanzieri della gene-
razione del 1830, ed è la ragione dell’interesse di Marx
per le opere di Balzac.
La società del tempo trova in Stendhal e Balzac due
critici severi, spesso malevoli; ma l’uno giudica da libe-
rale, l’altro da conservatore. Pure, nonostante le sue
opinioni reazionarie, fra i due artisti il piú avanzato è
Balzac; egli vede piú nettamente la struttura della
società borghese e nel descriverne le tendenze è piú
obiettivo di Stendhal, radicale in politica, ma contrad-
dittorio in tutto il suo modo di pensare e di sentire.
Nella storia dell’arte non c’è esempio che dimostri piú
chiaramente che un artista è utile alla causa del pro-
gresso non tanto per le sue convinzioni e le sue simpa-
tie, quanto per la potenza con cui sa rappresentare i
problemi e le contraddizioni della realtà sociale.
Stendhal giudica il suo tempo secondo le idee, ormai

Storia dell’arte Einaudi 105


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

antiquate, del Settecento, e gli sfugge il significato sto-


rico del capitalismo. Balzac considera addirittura trop-
po avanzate anche queste idee, ma nei suoi romanzi non
può fare a meno di descrivere la società in modo tale,
che un ritorno alle condizioni e alle idee prerivoluzio-
narie risulta del tutto impensabile. Per Stendhal la cul-
tura illuministica, la visione intellettuale di Diderot,
Elvezio e Holbach è senz’altro esemplare e imperitura;
egli ne considera la decadenza come un fenomeno tran-
sitorio e ne prevede la rinascita in quel tempo da cui egli
si attende anche un giusto apprezzamento dell’arte sua.
Balzac invece riconosce che l’antica civiltà si è ormai
disgregata, che l’aristocrazia stessa si è fatta strumen-
to di questo processo, e proprio in questo vede un segno
della forza irresistibile dell’evoluzione capitalistica. La
posizione di Stendhal è essenzialmente politica ed egli,
nel descrivere la società, è attento soprattutto al «mec-
canismo dello stato»34. Balzac invece fonda il suo edi-
ficio sociale sull’economia, anticipando in certo modo
le teorie del materialismo storico. Egli sa bene che le
varie forme della scienza, dell’arte e della morale sono,
come quelle della politica, funzioni della realtà econo-
mica e che la civiltà borghese, individualista e raziona-
lista, affonda le sue radici nelle forme dell’economia
capitalistica. Quest’intuizione non è certo meno fecon-
da perché il poeta crede di ravvisare nella società feu-
dale il proprio ideale di civiltà meglio che in quella del
capitalismo borghese. Nonostante l’entusiasmo per l’an-
tica monarchia, la Chiesa cattolica e la società aristo-
cratica, nel mondo di Balzac il realismo e il materiali-
smo sono come fermenti intellettuali che distruggono
gli ultimi resti del feudalesimo.
I romanzi di Stendhal sono cronache politiche: Le
rouge et le noir è la storia della società francese durante
la Restaurazione, La Chartreuse de Parme, il quadro del-
l’Europa dominata dalla Santa Alleanza, Lucien Leuwen,

Storia dell’arte Einaudi 106


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’analisi storico-sociale della monarchia di luglio. Anche


prima, naturalmente, c’erano stati romanzi a sfondo
storico e politico, ma a nessuno, prima di Stendhal,
sarebbe venuto in mente d’impostare un romanzo pro-
prio sul sistema politico del tempo. Prima di lui nessu-
no fu mai cosí conscio del momento storico, nessuno
sentí cosí fortemente che di tali momenti è composta
tutta la storia, in una continua cronaca delle generazio-
ni. Il presente è per Stendhal l’ora fatale della prima
generazione postrivoluzionaria, tempo di promesse e di
speranze inadempiute, di energie inutilizzate e d’inge-
gni delusi. Egli lo vive come una paurosa tragicomme-
dia, in cui la borghesia arrivata al potere gioca una parte
non meno deplorevole di quella dell’aristocrazia cospi-
ratrice, come un crudele dramma politico, in cui non ci
sono che intriganti, siano essi reazionari o liberali. In un
tal mondo, egli si domanda, dove tutto è menzogna e
ipocrisia, non è forse buono ogni mezzo che porti al suc-
cesso? La cosa piú importante è di non fare il gabbato,
cioè di mentire, di finger meglio degli altri. Tutti i gran-
di romanzi di Stendhal s’imperniano sul problema del-
l’ipocrisia, sul segreto per trattare con gli uomini, per
ingannare il mondo; sono tutti per cosí dire dei manua-
li di realismo e amoralismo politico. Nella sua critica a
Stendhal, Balzac osserva che La Chartreuse de Parme è
un nuovo Principe, che Machiavelli non avrebbe potuto
scrivere altrimenti, se fosse vissuto esule nell’Italia del-
l’Ottocento. Il motto machiavellico di Julien Sorel «Qui
veut la fin veut les moyens» [ «Chi vuole il fine vuole i
mezzi»] ha qui la sua formulazione classica, ripetuta-
mente usata dallo stesso Balzac: nel mondo bisogna
accettare le regole del suo gioco, se si vuol parteciparvi
e contar qualcosa.
Per Stendhal la nuova società si distingue dalla vec-
chia anzitutto per le diverse forme del potere, che si
sono costituite in seguito allo spostarsi delle forze e al

Storia dell’arte Einaudi 107


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mutato valore politico delle classi; per lui il sistema capi-


talistico è la conseguenza della nuova struttura politica.
Egli descrive la società francese nel momento in cui la
borghesia si è già assicurata il potere economico, ma
ancora deve lottare per imporsi sul piano sociale. Que-
sta lotta egli la rappresenta da un punto di vista perso-
nale, soggettivo, precisamente come si configura per
l’intellettuale in ascesa. L’isolamento di Julien Sorel è il
motivo dominante di tutta l’opera stendhaliana, il tema
che viene variato e modulato negli altri romanzi, spe-
cialmente nella Chartreuse de Parme e nel Lucien Leuwen.
Per Stendhal la questione sociale consiste nel destino di
quei giovani ambiziosi di umile origine, che la cultura ha
strappato al loro ambiente: rimasti, alla fine dell’epoca
rivoluzionaria, senza mezzi e senza legami, abbagliati
dalle occasioni della Rivoluzione e dalla fortuna di
Napoleone, vogliono avere nella società una parte ade-
guata al loro ingegno e alle loro ambizioni. Ma essi sco-
prono che poteri, influenza, posti importanti sono tutti
nelle mani dell’antica nobiltà e della nuova aristocrazia
del denaro e che dappertutto la mediocrità ha il soprav-
vento sulle doti e sull’ingegno. Il principio che ognuno
è l’artefice della propria fortuna – idea affatto estranea
agli uomini dell’ancien régime, ma familiare alla gioventú
rivoluzionaria – perde il suo valore.
Vent’anni prima il destino di Julien Sorel sarebbe
stato tutt’altro; a venticinque anni sarebbe diventato
colonnello, a trentacinque generale: ecco il motivo che
ritorna sempre. Egli è nato troppo tardi o troppo pre-
sto; è come sospeso fra un’epoca e l’altra, fra una clas-
se e l’altra. Qual è il suo vero posto? per chi parteggia?
È ancora il vecchio, ben noto problema del romantici-
smo, che anche ora come allora rimane insoluto. L’ori-
gine romantica delle idee politiche di Stendhal si rivela
nel modo piú chiaro nel fatto che egli fonda le pretese
del suo eroe semplicemente sul privilegio del talento,

Storia dell’arte Einaudi 108


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dell’intelligenza e dell’energia. Per criticare la Restau-


razione e giustificare la Rivoluzione egli parte dal pre-
supposto che vera vitalità ed energia si possono ancora
trovare soltanto nel popolo. Le circostanze del famoso
omicidio del seminarista Berthet, ch’egli riprenderà nel
Rouge et noir, sono per lui una prova che d’ora in poi i
grandi uomini usciranno da quei ceti inferiori ancora
pieni d’energia e capaci di vere passioni, a cui apparte-
neva non solo Berthet, ma, com’egli sottolinea, anche
Napoleone.
Cosí la coscienza della lotta di classe entra nella let-
teratura. Naturalmente, anche prima i narratori aveva-
no rappresentato il conflitto tra i vari ceti; nessuna rap-
presentazione viva della realtà sociale poteva trascurar-
lo. Ma il suo vero significato rimaneva oscuro ai perso-
naggi e anche all’autore. Lo schiavo, il servo della gleba,
il contadino figuravano abbastanza spesso nell’antica
letteratura – soprattutto come figure comiche – e il ple-
beo era descritto non solo come un infingardo, ma anche
– ad esempio, nel Paysan parvenu di Marivaux – come il
nuovo ricco; tuttavia mai accadeva che un uomo di
umile condizione, cioè al di sotto della media borghesia,
fosse presentato come il campione di una classe disere-
data. Julien Sorel è il primo eroe di romanzo che sia con-
sapevole della sua origine plebea e l’abbia sempre pre-
sente; per lui ogni successo è una vittoria sulla classe
dominante e ogni sconfitta un’umiliazione. Neppure a
Madame de Rênal, l’unica donna ch’egli ami davvero,
può perdonare di esser ricca e di appartenere a quella
classe davanti a cui egli crede di dover sempre stare in
guardia. Nei suoi rapporti con Mathilde de la Mole la
lotta di classe ormai si confonde con la lotta dei sessi.
E la sua allocuzione ai giudici non è se non una affer-
mazione della lotta di classe, una sfida lanciata agli
avversari da chi ha il collo sotto la scure: «Signori, io
non ho l’onore di appartenere alla vostra classe, – egli

Storia dell’arte Einaudi 109


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dice. – Voi vedete in me un contadino, che si è ribella-


to all’umiltà della sua sorte... Io vedo uomini che vor-
ranno punire in me e scoraggiare per sempre quella clas-
se di giovani che, nati in basso e oppressi dalla povertà,
hanno la fortuna di potersi istruire e l’audacia di mesco-
larsi a quel che l’orgoglio dei ricchi chiama la società...»
E tuttavia all’autore non importa unicamente, e neppu-
re in modo particolare, la lotta di classe; la sua simpatia
non va senz’altro ai poveri e agli oppressi, ma ai figlia-
stri geniali e sensibili della società, alle vittime della clas-
se dominante senza cuore e senza fantasia. Perciò Julien
Sorel, il figlio di contadini, Fabrizio del Dongo, il ram-
pollo di una famiglia di antichissima nobiltà, e Lucien
Leuwen, l’erede di un patrimonio di milioni, ci appaio-
no come fratelli d’arme, compagni di lotta e di pena, che
si sentono ugualmente stranieri e sperduti in questo
mondo volgare e prosaico. La Restaurazione ha creato
condizioni in cui il conformismo è l’unica via al succes-
so e in cui piú nessuno può respirare e muoversi libera-
mente, qualunque sia la sua origine.
Ma il destino comune degli eroi stendhaliani nulla
toglie al fatto che la lotta di classe è l’origine sociologi-
ca del nuovo tipo di eroe e che Fabrizio e Lucien non
sono che trasposizioni ideologiche di Sorel, metamorfo-
si del «plebeo ribelle», varietà dell’«infelice che muove
guerra a tutta la società». Senza un ceto medio insidia-
to dalla reazione, senza quegli intellettuali condannati
alla passività, fra cui lo stesso Stendhal, la figura di
Fabrizio del Dongo sarebbe inconcepibile come quella
di Julien Sorel. Henri Beyle, funzionario dell’esercito
imperiale, nel 1815 viene messo in pensione a metà
paga; per anni cerca di ottenere un altro impiego, ma
non riesce neppure a diventare bibliotecario. Vive in
volontario esilio lontano dalla Francia, tagliato fuori da
ogni possibilità di carriera, come un naufrago. Odia la
reazione, ma quando parla di libertà pensa unicamente

Storia dell’arte Einaudi 110


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

a sé, al diritto di inseguire la sua felicità. La felicità del-


l’individuo, la felicità in senso puramente epicureo è per
lui lo scopo di ogni attività politica. Il suo liberalismo è
il risultato del suo destino personale, della sua educa-
zione, dello spirito ribelle determinato in lui da espe-
rienze infantili, del suo fallimento nella vita, ma non di
uno schietto sentimento democratico. Egli è un enfant
de gauche35, anzitutto perché soggiace a un complesso di
Edipo, ma anche perché allievo del nonno che, fedele
alunno dei «filosofi» settecenteschi, lo alleva nel culto
dell’illuminismo. L’insuccesso lo conferma in questo spi-
rito e ne fa un ribelle; ma sentimentalmente egli è un
individualista e un aristocratico, alieno da ogni istinto
gregario. Il suo culto romantico dell’eroe, l’esaltazione
della personalità forte, dotata, eccezionale, il suo con-
cetto degli happy few, la morbosa avversione a tutto
quel che è plebeo, l’estetismo, il dandysmo sono tutte
forme di un preziosismo e di un autocompiacimento ari-
stocratico.
Ha paura della repubblica, si tiene lontano dalla folla,
ama gli agi e il lusso e il suo ideale politico è una monar-
chia costituzionale che assicuri al fiore dell’intellettua-
lità una vita senza crucci. Ama i salotti signorili, l’ozio
dell’epicureo, la gente ben educata, frivola e intelligen-
te. Teme che la repubblica e la democrazia rendano piú
povera e squallida la vita, teme la vittoria delle rozze
masse ignoranti sulla società colta, che della vita sa
godere la bellezza nel modo piú raffinato. «Amo il popo-
lo e odio gli oppressori, – dice, – ma sarebbe un tor-
mento per me dover sempre vivere con il popolo».
Benché solidale con Julien Sorel, Stendhal lo accom-
pagna con sguardo severamente critico e, pur ammiran-
do l’ingegno e l’integrità del giovane ribelle, non dissi-
mula affatto le sue riserve sulla sua natura plebea. Egli
ne comprende l’amarezza, ne condivide il disprezzo per
la società, ne approva l’ipocrisia senza scrupoli e il rifiu-

Storia dell’arte Einaudi 111


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

to di collaborare con la gente che lo circonda, ma ciò


ch’egli non capisce e non approva è la folle méfiance, la
morbosa, umiliante diffidenza del plebeo afflitto da
complessi d’inferiorità e da rancori, la sua impotente
brama di vendetta che infuria alla cieca, la brutta invi-
dia che lo sfigura. L’analisi dei sentimenti di Julien,
dopo la lettera di Mathilde che gli dichiara il suo amore,
mostra chiarissima la distanza che divide Stendhal dal
suo eroe. Di fatto essa è la chiave di tutto il romanzo e
ci ricorda che nella storia di Julien Sorel non dobbiamo
vedere una semplice confessione dell’autore. Anzi, que-
sti è preso da un senso di repulsione, di paura, di ribrez-
zo di fronte a quel sospetto maniaco. «Lo sguardo di
Julien era crudele, la sua espressione orrenda», dice
senza alcuna simpatia, senza tentare affatto di scusarlo.
Non gli venne mai fatto di pensare che la piú grande
colpa della società verso Julien era appunto di averlo reso
cosí diffidente e perciò cosí infelice, cosí inumano?
Le opinioni politiche di Stendhal sono altrettanto
contraddittorie. Per origine egli appartiene alla borghe-
sia, ma per educazione diventa uno dei suoi avversari.
Sotto Napoleone egli è un alto funzionario, partecipa
alle ultime campagne dell’imperatore, che forse gli fa
profonda impressione, ma certo non lo entusiasma: egli
mantiene le sue riserve di fronte al despota violento e
allo spietato conquistatore36. Anche per lui da principio
la Restaurazione significa la pace, la fine del lungo,
inquieto, incerto periodo rivoluzionario; nella nuova
Francia, dapprima egli non si sente affatto estraneo e
scontento. Ma via via che si accorge come al misero pen-
sionato sia chiusa ogni prospettiva, e quale sia il vero
volto della Restaurazione, cresce in lui, con l’odio e la
nausea per il nuovo regime, l’entusiasmo per Bonapar-
te. Il suo debole per la vita bella e comoda lo rende
avverso al livellamento sociale; ma il suo stato povero e
oscuro alimenta la sua diffidenza e l’ostilità verso l’or-

Storia dell’arte Einaudi 112


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dine attuale impedendogli di aderire alla reazione. Le


due tendenze sono sempre presenti nel pensiero di
Stendhal; e, secondo le circostanze della sua vita, pre-
vale or l’una or l’altra. Nel periodo, per lui cosí oscuro,
della Restaurazione, crescono sempre piú il suo scon-
tento e il suo radicalismo politico; ma quando le sue con-
dizioni personali migliorano, egli si calma e da ribelle
diventa un difensore dell’ordine e un moderato conser-
vatore37. Le rouge et le noir è ancora la confessione di uno
spostato e di un sedizioso, La Chartreuse de Parme è già
l’opera di un animo placato nella tranquilla rinunzia38.
La tragedia è diventata tragicommedia, alla genialità
dell’odio è subentrata una saggezza cordiale, quasi con-
ciliante, un piú aperto, superiore umorismo che certo
osserva con inesorabile obiettività, ma riconosce la rela-
tività delle cose e la debolezza di tutto ciò ch’è umano.
Veramente nel tono del poeta s’insinua cosí una certa
frivolezza, che ricorda la tolleranza del «tutto com-
prendere – tutto perdonare»; ma quanto lontano è
Stendhal dal conformismo della piú tarda borghesia che
tutto perdona nell’ambito delle sue convenzioni, ma
nulla fuori di esse! Che diverso senso dei valori! Che
entusiasmo in Stendhal per la giovinezza, il coraggio,
l’ingegno, il bisogno di felicità, l’abitudine a goderla e
a crearla; e che stanchezza, che tedio, che timore della
felicità nella borghesia ormai saldamente al potere! «...
Devo esser piú felice di un altro, perché possiedo quel
che gli altri non hanno... – dice il conte Mosca. – Ebbe-
ne, siamo giusti, l’abitudine di questo pensiero deve
guastarmi il sorriso... deve darmi un’aria da egoista...
soddisfatta... E il suo, che sorriso incantevole! – (egli
parla di Fabrizio). – Ne traspare la spontanea felicità
della prima giovinezza e la suscita». Eppure Mosca non
è un furfante. È soltanto un debole, e si è venduto.
Stendhal si sforza in ogni modo di comprenderlo. Anzi,
nel Rouge et noir si chiedeva: «Chi sa quel che si deve

Storia dell’arte Einaudi 113


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

passare sulla via di una grande impresa? – Danton ha


rubato, Mirabeau si è venduto. – Napoleone in Italia ha
rubato milioni, se no, non sarebbe andato avanti... Sol-
tanto Lafayette non ha mai rubato. – Bisogna rubare,
bisogna vendersi?» Evidentemente si tratta di ben altro
che dei milioni di Napoleone: Stendhal scopre l’ineso-
rabile dialettica di ogni atto che opera nella realtà, il
materialismo di ogni esistenza, di ogni prassi. Una sco-
perta sconvolgente per un romantico genuino, anche se
travagliato da forti inibizioni.
Nell’Ottocento nessuno come Stendhal è diviso fra
attrazione e opposizione al romanticismo. Anche in que-
sto si riflette il dissidio della sua visione politica.
Stendhal è un rigido razionalista e positivista; ogni
metafisica, ogni pura speculazione, ogni confuso ideali-
smo gli è estraneo, odioso. L’essenza della morale, della
dirittura intellettuale sta per lui nello sforzo «di veder
chiaro in quel che è», nel resistere alle seduzioni della
superstizione e dell’autoinganno. «La sua fervida fan-
tasia le velava talvolta le cose, – dice di una delle sue
creature predilette, la duchessa Sanseverina, – eppure
le erano ignote quelle illusioni gratuite che suggerisce la
viltà». Ai suoi occhi il fine piú alto è l’ideale di Voltai-
re e di Lucrezio: vivere liberi dalla paura. Il suo ateismo
è lotta contro il despota della Bibbia e del mito, ed è
solo un aspetto del suo appassionato realismo ribelle a
ogni menzogna, a ogni inganno. Il suo orrore della reto-
rica e del pathos, delle parole e delle frasi magnilo-
quenti, dello stile smagliante, esuberante, enfatico di
Chateaubriand e di De Maistre, la sua predilezione per
la chiara, concisa concretezza del «codice civile», per le
«buone definizioni», per le frasi brevi, precise, disa-
dorne: tutto in lui esprime un materialismo rigido,
intransigente – «eroico», come dice Bourget – e il desi-
derio di veder chiaro e far veder chiaro in quel che è.
Ogni esagerazione, ogni ostentazione gli ripugna, e seb-

Storia dell’arte Einaudi 114


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

bene egli sia spesso entusiastico, non è mai pomposo. Si


è osservato, per esempio, ch’egli non dice mai «libertà»,
ma sempre «le due Camere e la libertà di stampa»39;
anche questo è un segno della sua avversione a tutto
quanto è irreale ed enfatico; anche questo fa parte della
sua lotta contro il romanticismo e contro il suo stesso
sentimento romantico.
Il suo sentire infatti è schiettamente romantico; «egli
pensa come Elvezio, ma sente come Rousseau», è stato
detto40. I suoi eroi sono idealisti delusi, spiriti avventu-
rosi, appassionati, anime intatte di fanciulli non conta-
minati dalla sozzura della vita. Come il loro celebre pre-
decessore, Saint-Preux, amano la solitudine e i luoghi
alti e remoti, dove possono sognare indisturbati e abban-
donarsi ai loro ricordi. I loro sogni, le loro memorie, i
loro piú segreti pensieri sorgono dai piú teneri affetti.
Ecco la grande forza che in Stendhal bilancia la ragio-
ne, la fonte della piú pura poesia e del piú profondo
fascino dell’opera sua. Ma in lui il romanticismo non è
sempre poesia pura, schietta e limpida arte; spesso impli-
ca elementi romanzeschi, fantastici, morbosi e macabri.
Anzitutto il suo culto del genio non è solo entusiasmo
per quel che è grande e sovrumano, ma gusto dello stra-
vagante e del curioso; egli esalta la «vita pericolosa» non
solo perché adora l’intrepido eroismo, ma anche perché
ama giocare con la perversità e il delitto. Le rouge et le
noir è, se vogliamo, un romanzo nero, con una fine ecci-
tante e orrida; La Chartreuse de Parme è un romanzo
d’avventure pieno di sorprese, salvataggi miracolosi,
crudeltà e situazioni melodrammatiche. Il «beylismo»
non è solo una religione della forza e della bellezza, ma
anche un culto del piacere e un vangelo della violenza –
una variante del satanismo romantico. Tutta la critica
stendhaliana alla civiltà ha un carattere romantico; si
ispira all’entusiasmo di Rousseau per lo stato di natura,
ma conclude a un entusiasmo insieme esaltato e negati-

Storia dell’arte Einaudi 115


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vo, che rimprovera al mondo civile non solo la perdita


della spontaneità, ma anche il diminuito coraggio per i
grandi delitti pittoreschi. Il bonapartismo di Stendhal è
la prova migliore della natura complessa, in parte anco-
ra fortemente romantica, del suo mondo intellettuale.
Oltre l’esaltazione estetizzante del genio, entrano in
questo culto la stima per chi viene dal basso e vuole ele-
varsi, ma anche la solidarietà per il vinto, la vittima della
reazione e dell’oscurantismo. Per Stendhal, Napoleone
è il tenentino che diventa signore del mondo, il cadetto
della favola che scioglie l’enigma e ottiene la figlia del
re; ma è anche l’eterno martire e l’eroe dello spirito,
troppo buono per questo mondo corrotto, e votato al
sacrificio. Anche qui immoralismo e satanismo roman-
tico si confondono e trasformano l’apoteosi della gran-
dezza – nel bene come nel male –, l’ammirazione per
essa nonostante il male che spesso necessariamente ne
deriva, in un culto della grandezza proprio perché dispo-
sta anche al male, anche al delitto. Il Napoleone di
Stendhal, come Julien Sorel, appartiene agli antenati di
Raskol´nikov; essi incarnano quel che per Dostoevskij
era il romanticismo dell’Occidente e ch’egli volle fatale
al suo eroe.
Anche la rassegnazione stendhaliana conserva tratti
romantici e mostra di derivare dal romanzo della delu-
sione piú direttamente che non il freddo e oggettivo pes-
simismo balzachiano. Ma i romanzi di Stendhal fini-
scono male come quelli di Balzac; la differenza è quin-
di nel modo, non nel grado della rinunzia. Anche i suoi
eroi sono sconfitti, anch’essi affondano miseramente o,
peggio, sono costretti alla capitolazione, ai compromes-
si, muoiono giovani o si appartano delusi. Alla fine sono
tutti stanchi della vita, logori, consunti, bruciati; cessa-
no di lottare e patteggiano con la società. La morte di
Julien è una specie di suicidio e la fine dell’eroe nella
Chartreuse de Parme è una sconfitta altrettanto triste. Il

Storia dell’arte Einaudi 116


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tono della rinunzia risuona già in Armance, dove il tema


dell’impotenza è il chiaro simbolo dell’isolamento che
affligge tutti gli eroi stendhaliani. Il motivo riecheggia
nella persuasione del giovane Fabrizio di essere incapa-
ce di vero amore; e un analogo dubbio sorge in Julien
Sorel. Comunque, la potenza di Eros che colma di feli-
cità spegnendo l’essere egoisticamente individuale, l’ab-
bandono intero all’istante e il perfetto oblio di sé nella
dedizione all’amata gli sono ignoti. Per gli eroi di
Stendhal non esiste felicità del presente; la felicità per
essi è sempre già alle loro spalle, ci pensano soltanto
quando è già trascorsa. Il senso tragico che Stendhal ha
della vita mai si esprime in modo tanto straziante come
quando Julien scopre che i giorni di Vergy e di Verriè-
res, vissuti inconsciamente e distrattamente, e ora ine-
sorabilmente e per sempre svaniti, erano la cosa piú
bella, piú buona, piú preziosa che la vita avesse da offri-
re. Solo il passare delle cose ci fa consci del loro valore;
solo nell’ombra della morte Julien impara ad apprezza-
re la vita e l’amore di Madame de Rénal; solo in carce-
re Fabrizio scopre la vera felicità e la vera, intima
libertà. Chi sa, si domanda Rilke davanti alla gabbia di
un leone, dov’è la libertà: davanti o dietro le sbarre?
Domanda schiettamente stendhaliana e altamente
romantica.
Nonostante la sua avversione allo stile colorito ed
enfatico, anche formalmente Stendhal è un erede del
romanticismo, e in senso assai piú stretto di quanto si
possa dire, piú o meno, per ogni artista moderno. L’i-
deale classico dell’unità, dell’ordine rigoroso, della
subordinazione a un’idea principale, l’equilibrato svi-
luppo dell’argomento, senza arbitrî soggettivi, e senza
mai perdere di vista il lettore, in lui scompaiono del
tutto, sostituiti da una visione in cui domina unica-
mente la volontà di esprimersi, e che mira a rendere l’e-
sperienza nel modo piú diretto, semplice e autentico. I

Storia dell’arte Einaudi 117


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

romanzi di Stendhal appaiono come un insieme di pagi-


ne di diario e di schizzi, che anzitutto cercano di fissa-
re i moti dell’animo, il meccanismo dei sentimenti e il
lavorio mentale dell’autore. Espressione, confessione,
comunicazione soggettiva sono la meta vera; il fluire
delle esperienze, il ritmo stesso della corrente sono il
vero argomento; in confronto, ciò che la corrente tra-
scina e porta con sé appare quasi secondario.
Piú o meno, ogni arte moderna, post-romantica, è
improvvisazione e all’origine di questo sta sempre l’idea
che il sentimento, lo stato d’animo, l’ispirazione siano
piú ricchi e piú vicini alla vita, che non l’abilità, il gusto
critico e la costruzione sapiente. Consciamente o no,
tutta la concezione moderna parte dalla convinzione
che gli elementi piú validi dell’opera d’arte siano le fan-
tasie improvvise, le felici trovate, i doni della divina ispi-
razione e che per l’artista il meglio sia di abbandonarsi
all’inventiva. Perciò l’invenzione del particolare è cosí
importante nell’arte moderna, e tanto piú forte è il suo
effetto quanto piú frequenti vi sono le svolte inattese e
i motivi accessori imprevisti. Già Beethoven, rispetto ai
suoi predecessori, fa l’effetto di improvvisare, benché le
opere di quelli, specie quelle di Mozart, siano nate in
modo evidentemente piú agevole, sereno e ispirato delle
composizioni beethoveniane che invece sono state pre-
parate con molta cura, spesso attraverso numerosi
abbozzi. Mozart sembra sempre seguire un piano obiet-
tivo, necessario, invariabile, mentre Beethoven in ogni
tema, in ogni motivo, in ogni tono ha l’aria di dire «per-
ché lo sento così», «perché lo odo così» e «perché voglio
che sia così». Le opere dei maestri piú antichi sono
composizioni ben articolate e costruite, melodie schiet-
te e nitide, mentre le opere di Beethoven e dei compo-
sitori piú tardi sono recitativi, gridi dal fondo del cuore
in pena.

Storia dell’arte Einaudi 118


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

In Port Royal Sainte-Beuve osserva che per il classi-


cismo il maggior poeta era chi creava l’opera piú per-
fetta, piú chiara, piú gradevole, mentre noi moderni da
un poeta ci aspettiamo soprattutto uno stimolo, cioè un
motivo per sognare e poetare con lui41. I nostri poeti
prediletti sono quelli che suggeriscono molte cose accen-
nandole appena e lasciando sempre qualcosa d’inespres-
so, che tocca a noi indovinare, chiarire, integrare. L’o-
pera incompiuta, inesauribile, indefinibile è per noi la
piú affascinante, la piú profonda ed espressiva. Tutta
l’arte psicologica di Stendhal mira a stimolare la colla-
borazione del lettore nell’osservazione e nell’analisi.
Due fondamentalmente sono i metodi di analisi psico-
logica. I classici francesi partono dall’idea unitaria di un
carattere e sviluppano i diversi attributi psichici da una
sostanza in sé immutabile. La forza persuasiva del per-
sonaggio cosí creato sta nella logica coerenza dei tratti,
ma in sé l’immagine è piuttosto il mito che il ritratto di
un uomo. L’introspezione del lettore nulla aggiunge, si
può dire, all’interesse e alla verosimiglianza dei perso-
naggi; questi s’impongono in linee grandi e nitide,
vogliono esser contemplati e ammirati, non analizzati e
interpretati. Il metodo psicologico di Stendhal, che si
suol considerare ugualmente analitico, benché diame-
tralmente opposto a quello classico, non parte dall’unità
logica della personalità, ma dalle sue manifestazioni sin-
gole, e nel quadro non accentua i contorni, ma le sfu-
mature e i valori tonali. L’immagine complessiva consta
di particolari, di osservazioni singole, di puntuali preci-
sazioni, in un contesto per lo piú cosí lacunoso e con-
traddittorio, che il lettore viene sempre rinviato all’in-
trospezione e all’interpretazione soggettiva del com-
plesso e caotico quadro. Per i classici un carattere era
tanto piú plausibile quanto piú era chiaro e coerente, ora
invece una figura poetica risulta tanto piú viva e per-
suasiva, quanto piú è complicata e rapsodica, quanto piú

Storia dell’arte Einaudi 119


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

chiede di essere integrata dalla personale esperienza del


lettore.
La tecnica di Stendhal dei petits faits vrais non vuol
dire che la vita psichica consista tutta di piccole mani-
festazioni effimere, in sé e per sé irrilevanti, ma invece
che un carattere è imprevedibile e indefinibile e contie-
ne innumerevoli aspetti capaci di modificarne la misura
fondamentale e di romperne l’unità. Incoraggiare il let-
tore a osservare e poetare insieme con l’autore e ammet-
tere che il soggetto è inesauribile significa una cosa sola:
dubitare che l’arte sia in grado di dominare la realtà.
L’intricata psicologia moderna è un segno della nostra
incapacità di comprendere l’uomo odierno con la stessa
sicurezza con cui il classicismo aveva compreso l’uomo
del Sei e del Settecento. Ma di fronte a quest’insuffi-
cienza, esclamare con Zola: «La vita è piú semplice»42,
sarebbe pura cecità di fronte alla complessa natura della
vita moderna. Per Stendhal la complicazione psicologi-
ca è il frutto della sempre piú chiara consapevolezza del-
l’uomo odierno, della sua appassionata introspezione,
della sua attenzione a ogni moto del cuore e della mente.
Ma quando lo scrittore afferma: «L’uomo ha in sé due
anime» (Le rouge et le noir), con ciò non intende ancora
l’intima scissione che in Dostoevskij rende l’uomo estra-
neo a se stesso, ma semplicemente quel dualismo che fa
del nostro intellettuale un essere che insieme agisce e
contempla, attore e spettatore di se stesso. Stendhal ne
conosce la piú grande felicità e la peggior miseria: l’au-
tocoscienza che ne accompagna la vita spirituale. Quan-
do egli ama, gode della bellezza, si sente intimamente
libero da ogni vincolo, non soltanto per questo s’allie-
ta, ma anche per la coscienza della sua felicità43. Tutta-
via, mentre dovrebbe interamente abbandonarvisi, sciol-
to da ogni imperfezione e insufficienza, è sempre pieno
di problemi e di dubbi: E questo è tutto? – si domanda
– questo, il celebrato amore? È dunque possibile amare,

Storia dell’arte Einaudi 120


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sentire, estasiarsi e intanto osservarsi cosí freddamente


e tranquillamente? La risposta di Stendhal non è certo
quella corrente, che tra sentimento e ragione, passione
e riflessione, amore e ambizione ammette una distanza
insuperabile; egli è invece persuaso che l’uomo moder-
no sente, si inebria e si esalta diversamente da un con-
temporaneo di Racine o di Rousseau. Per costoro senti-
mento spontaneo e suo riflettersi nella coscienza erano
cose inconciliabili, per Stendhal e i suoi eroi sono inve-
ce cose inscindibili; nessuna delle loro passioni è forte
quanto il desiderio d’essere sempre consci di ciò che
avviene nel loro intimo. Questa consapevolezza signifi-
ca, rispetto alla letteratura precedente, un mutamento
non meno profondo del realismo stendhaliano; e il supe-
ramento della psicologia classicoromantica è per la sua
arte una premessa essenziale quanto l’annullamento del-
l’alternativa tra romantica fuga dal mondo e ottimismo
antiromantico.
I caratteri di Balzac sono piú coerenti, meno com-
plicati e problematici di quelli di Stendhal; in certo
modo essi segnano un ritorno alla psicologia delle opere
classiche e romantiche. Sono monomani, soggiogati da
una sola passione e ogni loro passo, ogni parola sembra
obbedire a un ordine. Ma è strano che tale costrizione
non menomi la verosimiglianza delle figure, che risulta-
no in definitiva piú reali di quelle stendhaliane, meglio
rispondenti per altro, con le loro antinomie, alle nostre
concezioni psicologiche. Ci troviamo di fronte al miste-
ro di un’arte travolgente, benché straordinariamente
disuguale di valore, che costituisce un fenomeno fra i piú
inesplicabili nella storia della creazione artistica. Del
resto i personaggi di Balzac non sempre sono cosí sem-
plici come si usa affermare: alla loro maniaca unilatera-
lità spesso si associa una grande ricchezza di tratti indi-
viduali. Forse sono meno brillanti e «interessanti» degli

Storia dell’arte Einaudi 121


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

eroi stendhaliani, ma appaiono piú vivi, inconfondibili


e indimenticabili.
Si è chiamato Balzac gran pittore di ritratti, ricondu-
cendo l’irresistibile efficacia della sua arte alla potenza
delle sue figure. Di fatto, parlando di Balzac, si pensa
anzitutto alla giungla umana dei suoi romanzi, alla folla
e alla varietà dei tipi a cui dà vita; ma per lui il fattore
psicologico non è il piú importante. Quando si cerca di
chiarire l’origine del suo mondo, ci si deve sempre rifa-
re alla sua sociologia, parlando delle condizioni materia-
li da cui sorge il suo cosmo intellettuale. A differenza di
Stendhal, Dostoevskij o Proust, per lui c’è una cosa piú
essenziale, piú irriducibile della realtà psichica. Un per-
sonaggio non ha importanza di per sé; comincia ad esse-
re interessante e significativo soltanto come rappresen-
tante di un gruppo sociale, come esponente di un con-
flitto tra opposti interessi di classe. Lo stesso Balzac con-
sidera sempre i suoi personaggi come fenomeni naturali
e, quando vuol indicare i fini dell’arte sua, non parla mai
della sua psicologia, ma sempre soltanto della sua socio-
logia, della sua storia naturale della società e della fun-
zione dei singoli individui nella vita dell’organismo socia-
le. Tuttavia, non già come «dottore in scienze sociali»,
come gli piacque chiamarsi, egli divenne il maestro di un
nuovo tipo di romanzo, ma come assertore della nuova
idea dell’uomo, secondo cui «l’individuo esiste solo in
rapporto con la società». Come da una scoperta geologi-
ca si può trarre tutto un mondo, – egli dice nella Recher-
che de l’absolu, – cosí ogni monumento di una civiltà,
ogni casa, ogni mosaico esprime tutta una struttura socia-
le; tutto è espressione e testimonianza di quel grande pro-
cesso. Una sorta d’ebbrezza, d’estasi lo afferra di fronte
a questa causalità sociale, a questa legge ineluttabile, che
sola può spiegare il senso del presente, e quindi risolve-
re il problema su cui s’impernia tutto il suo mondo. La
Comédie humaine difatti deve la sua intima unità, non al

Storia dell’arte Einaudi 122


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

concatenarsi dell’azione, né al ricorrere dei personaggi,


ma alla presenza di questo problema come motivo domi-
nante, che in realtà ne fa un unico grande romanzo, la
storia della moderna società francese.
Balzac libera la narrativa dalle angustie dell’autobio-
grafia e della pura psicologia, in cui si era rinchiusa nella
seconda metà del Settecento. Egli spezza quei limiti di
vicenda individuale, cui si attenevano sia i romanzi di
Rousseau e di Chateaubriand, sia quelli di Goethe e di
Stendhal, e si emancipa dallo stile di confessione che era
stato proprio del Settecento, pur non riuscendo, natu-
ralmente, a spogliarsi d’un tratto d’ogni elemento liri-
co-autobiografico. Balzac anzi trova il suo stile assai
lentamente: in un primo tempo continua la letteratura
in voga durante la Rivoluzione, la Restaurazione e il
romanticismo, e anche nella piena maturità conserva
reminiscenze di certi mediocri romanzi precedenti. Egli
non può negare che la sua arte derivi dal misterioso
romanzo nero e dal melodrammatico romanzo d’appen-
dice, come da quello amoroso e storico; e il suo stile
discende da Pigault-Lebrun e da Ducray-Duminil, come
da Byron e da Walter Scott44. Non solo Ferragus e Vau-
trin, ma anche Montriveau e Rastignac rientrano nella
serie romantica dei ribelli, dei proscritti, e il gusto del
romanzo nero riaffiora, non solo nella vita degli avven-
turieri e dei delinquenti, ma, come è stato osservato,
anche nella descrizione della vita borghese45. La società
moderna con i suoi politici, burocrati, banchieri, con gli
speculatori, i gaudenti, le cocottes, i giornalisti, gli pare
un incubo, un’implacabile danza macabra. Egli conce-
pisce il capitalismo come una malattia della società e per
un certo tempo vagheggia l’idea di trattarla da un punto
di vista medico, in una Patologia della vita sociale46. La
sua diagnosi è che esiste un’ipertrofia del desiderio di
profitto e di potenza, e la causa del male sta per lui nel-
l’egoismo e nell’irreligiosità dell’epoca. In tutto egli

Storia dell’arte Einaudi 123


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vede le conseguenze della Rivoluzione e imputa il crol-


lo delle antiche strutture gerarchiche – monarchia, Chie-
sa e famiglia – all’individualismo, alla libera concorren-
za e alla smodata, sfrenata ambizione. Balzac descrive
con mirabile acume i sintomi dell’epoca d’espansione
economica in cui vive la sua generazione, penetra le
fatali contraddizioni interne del sistema capitalistico, ma
nello spiegarne l’origine dà troppa parte all’arbitrio, ed
egli stesso non crede fermamente alla cura che prescri-
ve. L’oro, il luigi d’oro e lo scudo, le azioni, le cambia-
li, le polizze e le carte da gioco, ecco gl’idoli e i feticci
della nuova società: il «vitello d’oro» è qui una realtà piú
tremenda che nel Vecchio Testamento e il richiamo dei
milioni è piú seducente di quello della meretrice apoca-
littica. Balzac ritiene che le sue tragedie borghesi, anche
se imperniate soltanto sul denaro, siano piú crudeli del
dramma degli Atridi; e infatti le parole di Grandet
morente alla figlia: «Tu me ne renderai conto laggiú»,
superano in orrore i toni piú cupi della tragedia greca.
Le cifre, le somme, i bilanci sono qui gli scongiuri e gli
oracoli di una nuova mitologia, di un nuovo mondo
magico. Come nella favola i doni degli spiriti malvagi,
qui i milioni emergono dal nulla e subito spariscono,
dileguano. Balzac facilmente scivola in un tono fiabesco,
quando si tratta di denaro. Gli piace far la parte di quei
geni che coprono di doni i mendicanti, e con i suoi eroi
si rifugia volentieri in un’orgia romantica di sogni. Ma
sugli effetti ultimi dell’oro, sulle devastazioni ch’esso
provoca, sull’avvelenamento dei rapporti umani che
determina, egli non s’inganna mai; il suo senso della
realtà mai lo tradisce.
La caccia al denaro e al profitto distrugge la vita
famigliare, allontana la moglie dal marito, la figlia dal
padre, il fratello dal fratello, trasforma il matrimonio in
un’associazione d’interessi, l’amore in un affare e inca-
tena le vittime l’una all’altra come schiavi. Si può imma-

Storia dell’arte Einaudi 124


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ginare nulla di piú sinistro dell’obbligo imposto dal vec-


chio Grandet alla figlia, erede della sua ricchezza? o di
quei tratti del carattere paterno che riaffiorano in Eugé-
nie, appena essa diventa padrona di casa? C’è qualcosa
di piú spettrale di questa forza della natura, di questo
dominio della materia sulle anime? Il denaro estrania
l’uomo da se stesso, distrugge gli ideali, corrompe gl’in-
gegni, prostituisce artisti, poeti, studiosi, del genio fa un
delinquente, trasforma in avventurieri e in giocatori
d’azzardo coloro che erano nati per essere dei capi. La
classe sociale piú responsabile della spietata economia
monetaria, quella che ne trae il massimo profitto, è
naturalmente la ricca borghesia; ma la lotta selvaggia e
bestiale ch’essa scatena, coinvolge tutti i ceti: l’aristo-
crazia, che ne è la vittima maggiore, come le altre clas-
si. Eppure, di fronte all’anarchia del presente, Balzac
non trova altro rimedio da proporre se non un rinnova-
mento di quest’aristocrazia, che vorrebbe educata al
razionalismo e al realismo borghese e aperta ai plebei
d’ingegno. Egli è un ardente fautore della feudalità,
ammira gl’ideali intellettuali e morali ch’essa rappre-
senta e ne deplora la rovina; ma appunto per questo è
tanto piú spietato e obiettivo nel descriverne la dege-
nerazione e anzitutto la deferenza per le borse d’oro
della borghesia. Lo snobismo di Balzac fa sempre un
effetto penoso, ma i suoi scarti politici sono affatto
innocenti, poiché, sebbene sostenga con tanto zelo la
causa dell’aristocrazia, egli non è un aristocratico, il
che, come giustamente si è notato47, muta la sostanza
delle cose. Il suo atteggiamento è tutto speculativo; non
viene dal cuore né dall’istinto.
Balzac non solo è uno scrittore borghese fino al
midollo, che attinge spontaneamente e profondamente
dall’intimo orientamento della sua classe, ma è anche il
piú felice apologeta della borghesia, e non dissimula la
sua ammirazione per quanto essa ha fatto. Solo, è pieno

Storia dell’arte Einaudi 125


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

d’isterica paura e fiuta dappertutto disordine e rivolu-


zione. Egli combatte tutto quel che minaccia l’ordine
costituito e difende tutto quello che pare sostenerlo. Il
miglior baluardo contro l’anarchia e il caos sono per lui
il trono e la Chiesa, e il feudalesimo è soltanto il siste-
ma che consegue al loro dominio. Egli non considera
affatto la monarchia, la Chiesa e la nobiltà quali sono
diventate dopo la Rivoluzione, ma soltanto gl’ideali
ch’esse rappresentano, e combatte la democrazia e il
liberalismo perché sa che tutto l’edificio gerarchico fatal-
mente crollerà, se si comincia a criticarlo. Egli pensa
infatti che «una potenza discussa non dura».
L’uguaglianza è una folle utopia, in nessun luogo del
mondo si è attuata. E come ogni comunità – prima d’o-
gni altra la famiglia – riposa sul principio autoritario,
cosí tutta la società deve reggersi su questo principio. I
democratici e i socialisti sono astratti sognatori, non
solo perché credono alla libertà e all’uguaglianza, ma
anche perché idealizzano smisuratamente il popolo e il
proletariato. Pure gli uomini sono in fondo tutti ugua-
li; tutti pensano al proprio vantaggio e fanno solo i pro-
pri interessi. La società nel suo complesso è dominata
dalla logica della lotta di classe; la guerra tra ricchi e
poveri, forti e deboli, privilegiati e paria non avrà mai
fine. «Ogni potere tende alla propria conservazione» (Le
Médecin de campagne), e ogni classe oppressa a distrug-
gere i suoi oppressori: questi i fatti immutabili. Ma Bal-
zac, a cui sono già familiari i concetti della lotta di clas-
se, conosce anche il metodo rivelatore del materialismo
storico. «Uno scassinatore si manda all’ergastolo, – dice
Vautrin nelle Illusions perdues, – mentre un uomo che
con una bancarotta fraudolenta rovina intere famiglie,
se la cava con qualche mese... I giudici che condannano
il ladro fanno buona guardia alla barriera tra ricco e
povero... ma sanno che il bancarottiere causa al massi-
mo uno spostamento della ricchezza».

Storia dell’arte Einaudi 126


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Questa è la differenza essenziale tra Balzac e Marx:


il poeta della Comédie humaine giudica la lotta del pro-
letariato esattamente come quella delle altre classi, una
lotta cioè che mira a vantaggi e privilegi; Marx invece
vi scorge l’inizio di un’era nuova e, nel suo trionfo, l’at-
tuazione di una condizione ideale e definitiva48. Prima
di Marx, e in forma che Marx stesso giudicherà esem-
plare, Balzac scopre la natura ideologica del pensiero.
«La virtú comincia con il benessere», dice nella Rabouil-
leuse, e nelle Illusions perdues Vautrin parla del «lusso
dell’onestà», che ci si può permettere solo quando si
disponga di posizione e censo adeguati. Già nel suo
Essai sur la situation du parti royaliste (1832) Balzac indi-
ca come proceda il formarsi dell’ideologia. «Le rivolu-
zioni si compiono, – egli afferma, – prima nelle cose e
negli interessi, poi si estendono alle idee e infine si tra-
sformano in principî». Il nesso che lega il pensiero all’e-
sistenza materiale e la dialettica di vita e coscienza, egli
li scopre già in Louis Lambert dove l’eroe, com’egli osser-
va, dopo lo spiritualismo della sua giovinezza, vede sem-
pre piú chiara la materialità del pensiero. Evidente-
mente non fu un caso se Balzac e Hegel riconobbero
quasi a un tempo la struttura dialettica dei contenuti
della coscienza. L’economia capitalistica e la moderna
borghesia erano piene di contraddizioni e mettevano in
luce il duplice condizionamento dello sviluppo storico
piú chiaramente delle civiltà precedenti. Le basi mate-
riali della società borghese non solo già di per sé erano
piú trasparenti di quelle del feudalesimo, ma il nuovo
ceto dirigente era assai meno preoccupato dell’antico di
travestire ideologicamente le premesse economiche del
suo potere. Del resto, la sua ideologia era ancora trop-
po recente, perché se ne potesse dimenticare l’origine.
Nella concezione di Balzac il tratto saliente è il rea-
lismo, la considerazione nuda e obiettiva dei fatti. Il suo
materialismo storico e la sua teoria delle ideologie non

Storia dell’arte Einaudi 127


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sono che obiettivazioni del suo senso della realtà. E


questa posizione realistica e critica Balzac la mantiene
anche di fronte a quei fenomeni a cui sentimentalmen-
te è legato. Così, pur con le sue opinioni conservatrici,
egli sottolinea soprattutto la forza incoercibile dello svi-
luppo che ha portato alla moderna società capitalistico-
borghese, e non cade mai nel provincialismo degli idea-
listi nel giudicare la civiltà della tecnica. Egli è netta-
mente favorevole all’industria moderna, nuova potenza
universale49; ammira la moderna metropoli con le sue
grandi proporzioni, il suo dinamismo, il suo slancio.
Parigi lo inebria; egli l’ama pur cosí viziosa, anzi forse
per la mostruosità dei suoi vizi. Infatti, quando parla del
«grand chancre fumeux, étalé sur les bords de la Seine»
[«Gran cancro fumoso, che s’adagia sulle rive della
Senna»], ogni parola tradisce il fascino che si cela die-
tro l’espressione violenta. Il mito di Parigi nuova Babi-
lonia, città di luci notturne e di segreti paradisi, patria
di Baudelaire e di Verlaine, di Constantin Guy e di
Toulouse-Lautrec, il mito della Parigi pericolosa, sedut-
trice, irresistibile, ha la sua origine nelle Illusions perdues,
nell’Histoire des Treize e nel Père Goriot. Balzac è il
primo scrittore entusiasta di una moderna metropoli, il
primo che si compiaccia di fronte a un impianto indu-
striale. Parlare di «délicieuses fabriques» in mezzo al
dolce paesaggio di una valle, non era ancor venuto in
mente a nessuno50. Quest’ammirazione per la nuova
vita, creatrice pur nel suo impeto spietato, è un com-
penso al pessimismo balzachiano, è la sua forma di spe-
ranza, di fiducia nell’avvenire. Egli sa che non è piú pos-
sibile ritornare alla vita patriarcale e idillica della piccola
città e del villaggio; ma sa pure che questa non era affat-
to cosí romantica e poetica, come di solito la si descri-
ve, poiché «naturalezza» non significava che ignoranza,
malattia e povertà (Le Médecin de campagne, Le Curé de
village). Il «misticismo sociale» dei romantici gli è affat-

Storia dell’arte Einaudi 128


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

to estraneo, nonostante le sue inclinazioni per il roman-


zesco51; e specialmente sulla «purezza morale» e l’«inno-
cenza» dei contadini egli non si fa illusioni. Giudica le
qualità buone e cattive del popolo con la stessa obietti-
vità con cui analizza le virtú e i vizi dell’aristocrazia e
il suo atteggiamento verso le masse è altrettanto poco
dogmatico, contraddittorio anzi, che quello, di odio e
amore insieme, verso la borghesia.
Balzac, senza volerlo e senza saperlo, è uno scrittore
rivoluzionario. Le sue vere simpatie lo portano verso i
ribelli e i nichilisti. La maggior parte dei suoi contem-
poranei lo sentono politicamente infido; essi sanno che
in fondo egli è un anarchico, sempre solidale con i nemi-
ci della società, con chi è fuori rango, con gli spostati.
Louis Veuillot osserva ch’egli difende trono e altare in
un modo che potrebbe valergli tutta la riconoscenza dei
loro nemici52. Alfred Nettement nella «Gazette de Fran-
ce» (febbraio 1836) scrive che Balzac vuole vendicarsi
della società per tutte le ingiustizie subite in gioventú,
e solo per questo esalta le nature antisociali. Nei suoi
ricordi (ottobre 1833) Charles Weiss sottolinea che Bal-
zac si dichiara legittimista, ma parla sempre come un
liberale. Victor Hugo afferma che, volente o nolente,
egli appartiene alla razza dei poeti rivoluzionari, e nelle
sue opere si manifesta il cuore di uno schietto demo-
cratico. Zola infine rileva il contrasto tra gli elementi
palesi e quelli latenti della sua visione e osserva, preve-
nendo l’interpretazione marxista, che l’ingegno di un
poeta può benissimo contrastare con le sue opinioni. Ma
il vero senso di questo antagonismo lo scopre e lo defi-
nisce Engels. Per primo egli studia in forma suscettibi-
le di ulteriore sviluppo scientifico la contraddizione tra
le vedute politiche e l’arte del poeta, formulando cosí
uno dei piú importanti principî euristici della sociologia
artistica. Da allora in poi è acquisito che arte progressi-
sta e politica conservatrice possono benissimo coesiste-

Storia dell’arte Einaudi 129


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

re e che ogni onesto artista che descriva fedelmente e


sinceramente la realtà fa opera di per sé illuminante e
liberatrice. Un tale artista contribuisce involontaria-
mente a distruggere quelle convenzioni e quegli schemi,
quei tabú e quei dogmi su cui poggia l’ideologia reazio-
naria, ostile al progresso. In una lettera divenuta cele-
bre, dell’anno 1888, a una certa miss Harkness, Engels
scrive fra l’altro: «Il realismo di cui parlo può manife-
starsi perfino nonostante le opinioni dell’autore... Bal-
zac, che io ritengo un maestro del realismo di gran lunga
superiore a tutti gli Zola passati, presenti e futuri, nella
Comédie humaine ci dà un’eccellente storia realistica
della «società» francese, descrivendo quasi a mo’ di cro-
naca, quasi anno per anno, dal 1816 fino al 1848, la
pressione sempre crescente della borghesia in ascesa
contro la società nobiliare che dopo il 1815 si ricostituí
e, per quanto poteva, tenne alta la bandiera della vieil-
le politesse française [antica cortesia francese]. Egli descri-
ve come gli ultimi residui di questa società per lui esem-
plare a poco a poco soccombano all’assalto dei volgari
arricchiti, o ne vengano corrotti... Certo, Balzac politi-
camente era un legittimista; la sua grande opera è un
continuo epicedio sull’inevitabile decadenza della buona
società; tutte le sue simpatie vanno alla classe condan-
nata. E tuttavia la satira non è mai piú acuta, né l’iro-
nia piú amara, di quando entrano in scena appunto gli
uomini e le donne di quella classe piú profondamente
cara all’autore, la nobiltà... Che Balzac sia così costret-
to ad agire contro le proprie simpatie sociali, i propri
pregiudizi politici, ch’egli veda ineluttabile il tramonto
dei suoi diletti nobili e li descriva come gente che non
merita destino migliore; e che egli veda i veri uomini del
futuro soltanto là dove allora si potevano trovare – que-
sto io lo considero uno dei massimi trionfi del realismo
e uno dei piú grandiosi tratti del vecchio Balzac»53.

Storia dell’arte Einaudi 130


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Balzac è un naturalista che si abbandona alla forza


espansiva di una volontà artistica, tutta tesa ad arric-
chire e differenziare il materiale dell’esperienza. Ma si
esiterà a considerarlo veramente tale, se per naturalista
s’intende chi si adegua perfettamente ai dati della realtà,
e usa lo stesso criterio di verità in tutti i piani dell’ope-
ra. Piuttosto si dovrà constatare che la sua fantasia
romantica e la sua inclinazione al melodramma finisco-
no sempre per avere la meglio e che spesso egli non solo
sceglie i caratteri piú eccentrici e le situazioni piú inve-
rosimili, ma addirittura costruisce i fondi delle sue sto-
rie in modo che non è possibile immaginarseli concre-
tamente, e solo i colori e i toni suggeriscono l’impres-
sione voluta. Definirlo senz’altro un naturalista può solo
condurre a delusioni. È assurdo e vano paragonarlo,
come psicologo o ricreatore di ambienti, ai maestri del
piú tardo romanzo naturalistico, quali Flaubert o Mau-
passant. Le sue opere vanno godute come descrizioni
della realtà e insieme come sogni tra i piú audaci e sfre-
nati; pretendere che esse siano qualcosa di diverso da
questo miscuglio indiscriminato di elementi, ne impedirà
sempre la comprensione. L’arte di Balzac è dominata da
un appassionato desiderio di abbandonarsi alla vita, ma
in complesso è relativamente poco quel che essa deve
all’osservazione diretta; il piú è invenzione, immagina-
zione, sentimento.
Ogni opera d’arte, anche la piú naturalistica, è un’im-
magine ideale e una versione leggendaria della realtà.
Anche nello stile meno convenzionale certi elementi,
come, ad esempio, i colori chiari e le macchie senza
contorni della pittura impressionistica o le figure incoe-
renti e inconsistenti del romanzo moderno, noi le accet-
tiamo senz’altro, come veri e giusti. Ma in Balzac la
descrizione della realtà è ancora piú arbitraria che nella
maggior parte dei naturalisti. Egli suscita l’impressione
della vita soprattutto sottomettendo dispoticamente il

Storia dell’arte Einaudi 131


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

lettore al suo capriccio, alla totalità microcosmica del suo


mondo fittizio che esclude a priori la concorrenza della
realtà empirica. Le figure e gli scenari appaiono cosí
autentici, non perché i singoli tratti con cui sono dise-
gnati corrispondano all’esperienza reale, ma perché il
loro disegno è altrettanto sottile e circostanziato, che se
fosse stato osservato e ritratto dal vero. Il senso di esser
di fronte a una densa realtà, ci viene dal fatto che i sin-
goli elementi di quel microcosmo sono inscindibilmen-
te connessi, e le figure appaiono inimmaginabili senza
l’ambiente, i caratteri senza l’aspetto fisico, le persone
senza gli oggetti circostanti.
Le opere classiche sono isolate dal mondo esterno:
chiuse nella loro sfera estetica stanno l’una accanto all’al-
tra, in una rigorosa solitudine. Qualsiasi tratto natura-
listico, ogni evidente dipendenza da un modello rompe
l’immanenza di questa sfera, e ogni struttura ciclica che
intervenga a collegare le diverse rappresentazioni arti-
stiche annulla l’autonomia dell’opera singola. Per la mag-
gior parte le opere medievali sono composizioni aggiun-
tive di questo tipo, che includono piú unità indipen-
denti; tali sono l’epos cavalleresco e i romanzi d’avven-
tura, con la loro vicenda interminabile e le figure in
parte ricorrenti; tali i cicli della pittura medievale e gli
innumeri episodi dei misteri. Balzac, con il suo sistema,
con l’idea della Comédie humaine come quadro unitario
in cui includere i singoli romanzi, in pratica ritorna pro-
prio a questo modo di composizione medievale, facen-
do sua una forma per cui non avevano senso e valore
l’autonomia e la cristallina perfezione dell’opera classi-
ca. Ma come è giunto Balzac a questa forma «medieva-
le»? Come ha potuto questa tornare attuale a metà del-
l’Ottocento? La concezione medievale era stata intera-
mente eclissata dal classicismo rinascimentale, dall’idea
di unità e subordinazione. Finché il classicismo si era
mantenuto in vigore, la composizione ciclica non aveva

Storia dell’arte Einaudi 132


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mai potuto affermarsi; ma il classicismo durò soltanto


finché durò la convinzione di poter dominare la realtà
materiale. L’arte classica decade quando nasce il senso
della soggezione dell’essere alle condizioni materiali.
Anche in questo senso i romantici precorrono Balzac.
Zola, Wagner e Proust segnano le tappe ulteriori di
questo sviluppo e affermano sempre piú la tendenza
all’opera ciclica, enciclopedica, universale, in contrasto
con il principio dell’unità e della scelta. L’artista moder-
no vuol essere partecipe di una vita che appare inesau-
ribile e non si lascia chiudere nella misura di un’opera
singola. Egli può esprimere la grandezza solo ricorren-
do all’estensione, la forza solo rompendo ogni limite.
Proust era evidentemente conscio delle sue connessioni
con la forma ciclica di Wagner e di Balzac. «Il musici-
sta (Wagner), – egli scrive, – dovette provare la stessa
ebbrezza di Balzac quando guardò alle sue creazioni con
l’occhio di un estraneo e insieme, di un padre... Egli
allora osservò che sarebbero state assai piú belle, se
unite in un ciclo da figure ricorrenti e aggiunse un’altra
pennellata, l’ultima, sublime, all’opera sua... un’unità
che era un complemento, ma non certo un artificio...
un’unità prima non riconosciuta, ma perciò tanto piú
vera e vitale...»54.
Dei duemila personaggi della Comédie humaine, oltre
quattrocentosessanta ricorrono in piú romanzi. Henry
de Marsay, per esempio, lo incontriamo in venticinque
opere diverse e in Splendeurs et misères des courtisanes
compaiono centocinquanta personaggi che anche altro-
ve hanno una parte piú o meno importante55. La ric-
chezza delle figure trascende l’opera singola e si ha sem-
pre l’impressione che Balzac non ci dica tutto quel che
ne sa.
Quando fu chiesto a Ibsen, perché all’eroina di Casa
di bambola avesse dato un nome esotico, rispose che era
il nome di sua nonna che era italiana. La nonna vera-

Storia dell’arte Einaudi 133


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mente si chiamava Eleonora, ma da bimba la chiama-


vano col vezzeggiativo di Nora. All’obiezione che tutto
ciò non compariva affatto nel dramma, egli rispose stu-
pito: «Ma i fatti sono fatti». Thomas Mann ha piena-
mente ragione: Ibsen rientra nella stessa categoria a cui
appartengono gli altri due grandi del teatro ottocente-
sco, Zola e Wagner56. Anche in lui l’opera singola ha per-
duto la microcosmica compiutezza della forma classica.
Aneddoti come quello di Ibsen riferito non si contano
nei rapporti di Balzac con i suoi personaggi. Notissimo
è quello di Jules Sandeau, che mentre sta raccontando-
gli di sua sorella malata, viene da lui interrotto: «Tutto
bene, ma torniamo alla realtà: che marito daremo a
Eugénie Grandet?» Altrettanto nota la domanda con
cui aggredisce uno dei suoi amici: «Lo sai chi sposerà
Félix de Vaudeville? Una Grandeville. È proprio un
buon partito». Ma il piú bello e caratteristico è l’aned-
doto di Hofmannsthal, che fa dire a Balzac in un dialo-
go immaginario: «Il mio Vautrin la ritiene [la Venezia
salvata di Otway] il piú bello di tutti i drammi. Io do
molta importanza al giudizio di un uomo come lui»57.
Per Balzac l’esistenza dei suoi personaggi anche fuori
dell’opera è una realtà cosí evidente, che potrebbe sem-
pre dire che cosa pensano, o dovrebbero pensare, Vau-
trin o de Marsay o Rastignac di un dramma o di un libro
qualsiasi. E va tant’oltre in questo, che gli avviene spes-
so di richiamarsi a personaggi della Comédie humaine
anche quando non compaiono affatto in quel determi-
nato romanzo, e di citare i titoli di certe parti dell’ope-
ra complessiva come fonti d’informazione oggettive.
Si sa quanto volentieri Paul Bourget sfogliasse il
Répertoire della Comédie humaine, il «Chi è?» dei per-
sonaggi di Balzac58. Ancor oggi questa passione serve a
riconoscere un vero «balzacien» ed è, in ogni caso, il
segno di una effettiva comprensione della natura di
quest’opera inscindibile dalla vita reale, solo in parte

Storia dell’arte Einaudi 134


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

concepita e solo in parte valida sul piano estetico. Bal-


zac rappresenta nella storia dell’arte un momento fug-
gevole, che sta fra l’epoca esclusivamente artistica della
poesia classica e romantica e la successiva fase dell’e-
stetismo di Flaubert e di Baudelaire: la breve ora di
un’arte completamente immersa nei problemi del pre-
sente. Nell’Ottocento non c’è scrittore piú lontano di
lui da l’art pour l’art e dal purismo artistico. Non è pos-
sibile gustare senza disagio e a pieno le opere di Balzac,
se fin da principio non ci si rende conto ch’esse sono
un miscuglio mal dosato, in parte grezzo, che ben poco
ha a vedere con i principî classicistici del «nulla di piú
e nulla di meno» e della riduzione ad un unico piano dei
dati dell’esperienza. L’opera d’arte d’un sol getto è
sempre una finzione; anche le creazioni piú complete
sono piene di elementi caotici e disparati. Ma i roman-
zi di Balzac sono davvero l’esempio tipico dell’opera
riuscita a dispetto di ogni norma estetica. Giudicando-
li coi criteri delle opere classiche, sarà facile riscontrarvi
le piú grossolane offese alle leggi dell’arte, anche a quel-
le piú liberali. Sotto la loro diretta impressione, quan-
do non si è ancora spenta nell’animo nostro la furia sui-
cida dei personaggi, la tempesta delle scene, la voce cru-
dele dei delusi e dei ribelli, saremo obbligati ad ammet-
tere che in queste opere quasi tutto quel che si può ana-
lizzare razionalmente è «sbagliato». Dovremo conce-
dere che Balzac non sa comporre né sviluppare nitida-
mente l’azione, che i suoi caratteri sono spesso confu-
si ed eterogenei come gli ambienti e gli sfondi, che il
suo naturalismo non soltanto è incompleto, ma anche
scorretto, e talvolta la sua psicologia è, non solo inve-
rosimile, ma anche goffa e sommaria. E soprattutto
non ci si potrà dissimulare che a tutte queste insuffi-
cienze si aggiungono difetti di gusto da far rizzare i
capelli; che al nostro autore manca ogni senso critico,
e ogni mezzo è buono per lui pur di sorprendere e sog-

Storia dell’arte Einaudi 135


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

giogare; che piú nulla gli rimane della cultura settecen-


tesca, del suo riserbo, della sua eleganza, della sua ama-
bile scorrevolezza; che il suo gusto è degno del pubbli-
co dei peggiori romanzi d’appendice; che per lui nulla
è mai eccessivo, esagerato, stravagante; ch’egli è inca-
pace di esprimere quanto gli sta a cuore senza enfasi e
senza superlativi; che è sempre pronto a vantarsi, a
sballarle grosse e a raccontare fandonie; che è un disgu-
stoso ciarlatano appena vuol darsi l’aria di studioso e di
filosofo e, come pensatore, è tanto piú grande quanto
meno sa d’esser tale, quando pensa e ragiona secondo
il suo spontaneo sentire, gli immediati interessi della
sua vita e la sua posizione storica.
Specialmente sgradevoli sono i suoi difetti di gusto
in fatto di stile: l’abbondanza confusa del suo discorso,
la pesante solennità, le metafore studiate e pompose,
l’entusiasmo sempre acceso, la commozione che vuol
essere sempre sublime. Nemmeno i dialoghi sono impec-
cabili; anche qui ci sono punti morti e toni «falsi,»,
come le stecche di un cantante. È noto come Taine
cerca di spiegare e giustificare le singolarità stilistiche di
Balzac. Ammesso che in letteratura ci sono vari lin-
guaggi ugualmente legittimi, fa notare che l’autore della
Comédie humaine non si rivolge piú al pubblico dei salot-
ti del Sei e del Settecento, ad un pubblico cioè sensibi-
le alle piú lievi allusioni e non solo ai colori sfacciati e
ai toni acuti, ma a gente su cui ha presa solo ciò che è
strano, sensazionale, eccessivo, in altre parole i lettori
del romanzo d’appendice59. Ecco, senza dubbio, un otti-
mo esempio di critica sociologica; infatti, sebbene molti
autori della generazione di Balzac abbiano saputo evi-
tare i suoi errori stilistici, pochi sono stati cosí intima-
mente uniti al loro tempo. Ma invece di scusare le pec-
che di Balzac non si dovrebbe piuttosto cercar di capi-
re quell’immediata contiguità di grandioso e di scaden-
te che c’è in lui? E la spiegazione sociologica non

Storia dell’arte Einaudi 136


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dovrebbe anzitutto dimostrare che le caratteristiche del


suo stile sono legate alla sua stessa origine plebea e che
egli è l’espressione intellettuale della nuova borghesia,
relativamente incolta, ma straordinariamente viva e
capace?
È stato ripetutamente osservato che nelle sue opere
Balzac fa un quadro della generazione successiva piú che
della propria, e che i suoi nouveaux riches e parvenus, i
suoi speculatori e avventurieri, gli artisti e le cocottes
sono tipici del Secondo Impero piú che della monarchia
di luglio. Di fatto, pare che la vita abbia imitato l’arte.
Balzac è di quegli scrittori profeti, che sono in ultima
analisi piú visionari che osservatori. Profeta, visionario:
sono veramente parole dettate dall’imbarazzo e piú che
altro servono a dissimulare la nostra perplessità di fron-
te a un’arte, di cui ogni insufficienza par che accresca il
magico effetto. Ma che altro dire davanti a un’opera
come il Chef-d’œuvre inconnu che unisce la piú profon-
da intuizione della vita e del presente a un’incredibile
ingenuità? Vi si narra di Frenhofer, il piú grande allie-
vo di Mabuse, l’unico a cui il maestro ha trasmesso l’ar-
te d’infondere vita alle figure dipinte. Da dieci anni egli
lavora a un’opera – un’immagine femminile – sforzan-
dosi di giungere al piú alto fine di ogni arte, al segreto
di Pigmalione. Ogni giorno egli si sente piú vicino alla
meta, eppure rimane sempre qualcosa d’invincibile, inso-
lubile, irraggiungibile. Crede che sia colpa della realtà,
del fatto che non ha ancora trovato il modello adatto.
Un giorno Poussin, nel suo entusiasmo per l’arte, gli
conduce la sua amica, che si dice abbia il corpo piú per-
fetto che mai sia stato dipinto. Frenhofer è affascinato
dalla bellezza della donna, ma poi i suoi occhi si distol-
gono da quel corpo giovanile e tornano al quadro incom-
piuto e impossibile a compiersi. La realtà non lo trat-
tiene piú, egli ha ucciso in sé la vita. Ma il quadro, l’o-
pera della sua vita, che egli, piú geloso che Poussin della

Storia dell’arte Einaudi 137


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sua donna, finora non ha voluto svelare a occhi estranei,


il quadro non è che un incomprensibile groviglio di linee
sinuose e di macchie sovrapposte, accumulate nel corso
di tanti anni, sotto cui non si distinguono che le forme
di una gamba perfetta. Balzac ha preveduto il destino
dell’arte dell’ultimo secolo e l’ha rappresentato da arti-
sta in modo insuperabile. Egli ha individuato le conse-
guenze dell’estraniarsi dalla vita e dal pubblico e meglio
dei piú colti e intelligenti fra i suoi contemporanei ha
compreso la minaccia dell’estetismo e del nichilismo, il
pericolo di autodistruzione che doveva divenire una
paurosa realtà al tempo del Secondo Impero.

1
henri guillemin, Le Jocelyn de Lamartine, 1936, p. 59.
2
Per quel che segue, cfr. jean-paul sartre, Qu’est-ce que la litté-
rature?, in «Les Temps Modernes», ii, 1947, pp. 971 sgg. Anche in
Situations , II, 1948.
3
Ibid., p. 976.
4
Ibid., p. 981.
5
s. charléty, La Monarchie de Juillet, in e. lavisse, Histoire de la
France contemporaine, V, 1921, pp. 178-79.
6
w. sombart, Der moderne Kapitalismus, III, i, pp. 35-38, 82,
657-61.
7
id., Der Bourgeois, 1913, p. 220.
8
Cfr. louis blanc, Histoire de dix ans, III, 1843, pp. 90-92. w. som-
bart, Die deutsche Volkswirtschaft des 19. Jahrhunderts, 7a ed., 1927, pp.
399 sgg.
9
emil lederer, Zum sozialpsychologischen Habitus der Gegenwart,
in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», vol. XLVI, 1918,
pp. 122 sgg.
10
paul louis, Histoire du socialisme en France de la Révolution à nos
jours, 1936, 3a ed., pp. 64, 97. - j. lucas-dubreton, La Restauration et
la Monarchie de Juillet, 1937, pp. 160-61.
11
p. louis, Histoire du socialisme en France ecc. cit., pp. 160-7.
12
friedrich engels, Die Entwicklung des Sozialismus von der Uto-
pie zur Wissenschaft, 4a ed., 1891, p. 24.
13
robert michels, Psychologie der antikapitalistischen Massenbewe-
gungen, in Grundriß der Sozialökonomie, IX, 1, 1926, pp. 244-246, 270.
14
w. sombart, Die deutsche Volkswirtschaft cit. p. 471.

Storia dell’arte Einaudi 138


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

15
sainte-beuve, De la littérature industrielle, in «Revue des Deux
Mondes», 1839. Anche in Portraits contemporains, 1847.
16
jules champfleury, Souvenirs et portraits, 1872, p. 77.
17
eugène gilbert, Le Roman en France pendant le 19e siècle, 1909,
p. 209.
18
nora atkinson, Eugène Sue et le roman-feuilleton, 1929, p. 211.
alfred nettement, Études critiques sur le feuilleton-roman, 1845, I,
p. 16.
19
Cfr. maurice bardèche, Stendhal romancier, 1947.
20
andré le breton, Le Roman français au 19e siècle, I, 1901, pp. 6-
7, 73. - m. bardèche, Balzac romancier, 1947, pp. 2-8, 12-13.
21
c.-m. des granges, La Presse littéraire sous la Restauration, 1907,
p. 22.
22
h. j. hunt, Le Socialisme et le romantisme en France, 1935, pp.
195, 340.
23
Ibid., pp. 203-4. - albert cassagne, La Théorie de l’art pour l’art
en France, 1906, pp. 61-71.
24
Cfr. edmond estève, Byron et le romantisme français, 1907, p. 228.
25
Cfr. pierre moreau, Le Classicisme des romantiques, 1932, pp.
242 sgg.
26
Articolo di charles rémusat del 12 marzo 1825, citato da a.
cassagne, La Théorie ecc. cit., p. 37.
27
Ibid.
28
josé ortega y gasset, La Deshumanización del Arte, 1925, p. 19.
29
h. j. hunt, Le socialisme ecc. cit., pp. 157-58.
30
Ibid., p. 174.
31
g. lukàcs, Goethe und seine Zeit, 1947, pp. 39-40 [trad. it.,
Goethe e il suo tempo, Milano 1949].
32
m. bardèche, Balzac romancier cit., pp. 3, 7.
33
Citato da jules marsan, Stendhal, 1932, p. 141.
34
m. bardèche, Stendhal romancier cit., p. 424.
3
5 a. thibaudet, Stendhal, 1931. - henri martineau, L’Œuvre de
Stendhal, 1945, p. 198.
36
Cfr. jean mélia, Stendhal et Taine, in «La Nouvelle Revue»,
1910, p. 392.
37
pierre martino, Stendhal, 1934, 302.
38
h. martineau, L’Œuvre de Stendhal cit., p. 470.
39
é. faguet, Politiques et moralistes, III, 1900, p. 8.
40
m.bardèche, Stendhal romancier cit., p. 47.
41
sainte-beuve, Port-Royal, 1888, 5a, ed., VI, pp. 266-67.
42
émile zola, Les Romanciers naturalistes, 1881, 2a ed., p. 124.
43
Cfr. paul bourget, Essais de psychologie contemporaine, 1885,
p. 282.
44
andré le breton, Balzac, 1905, pp. 70-73.

Storia dell’arte Einaudi 139


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

45
m. bardèche, Balzac romancier cit., p. 285.
46
bernard guyon, La Pensée politique et sociale de Balzac, 1947,
p. 432.
47
v. grib, Balzac, «Critics Group Series», n. 5, 1937, p. 716.
48
marie bor, Balzac contre Balzac, 1933, p. 38.
49
e. buttke, Balzac als Dichter des moaernen Kapitalismus, 1932,
p. 28.
50
balzac, Correspondance, 1876, I, p. 433.
51
ernest seillière, Balzac et la morale romantique, 1922, p. 61.
52
andré bellessort, Balzac et son œuvre, 1924, p. 175.
53
karl marx - friedirich engels, Über Kunst und Literatur, a cura
di I. K. Luppol, 1937, pp. 53-54. - Anche in «International Literatu-
re», luglio 1933, n. 3, p. 114.
54
m. proust, La Prisonnière, I [trad. it., La prigioniera, Torino
1950].
55
e. preston, Recherches sur la technique de Balzac, 1926, pp. 5, 222.
56
t. mann, Die Forderung des Tages, 1910, pp. 273 sgg.
57
hugo von hofmannsthal, Unterhaltungen über literarische Gegen-
stände, 1904, p. 40.
58
a. cerfberr - j. christophe, Répertoire de la Comédie humaine,
1887.
59
taine, Nouveaux essais de critique et d’histoire, 1865, pagine
104-13.

Storia dell’arte Einaudi 140


Capitolo secondo

Il Secondo Impero

I romantici erano pienamente consapevoli della per-


dita di prestigio subita dallo scrittore dopo la Rivoluzio-
ne e contro il pubblico ostile cercavano un rifugio nel-
l’individualismo. Il loro senso d’isolamento si esprimeva
in un umore aspramente battagliero, ma essi non pensa-
vano certo che fosse vana la loro lotta contro la società.
Gli scrittori della generazione del 1830 furono i primi a
dimettere lo spirito combattivo dei loro predecessori e a
trovarsi a proprio agio nell’isolamento; la loro protesta
si limitò ad accentuare la loro differenza dal pubblico,
che essi servivano. Gli scrittori della generazione suc-
cessiva andarono tant’oltre con il loro orgoglio, da rinun-
ziare anche a quelle manifestazioni coprendosi sotto il
velo di una ostentata impersonalità e insensibilità. Ma si
trattava di un ritegno ben diverso dall’obiettività del
Sei e del Settecento. Gli scrittori classici volevano
distrarre o istruire il lettore, oppure discutere con lui
determinati problemi della vita. Invece, dall’età roman-
tica in poi, la letteratura non era piú stata conversazio-
ne e discussione fra pubblico e autore, ma una confes-
sione e un’autoesaltazione di quest’ultimo. Naturale
quindi, che quando Flaubert e i Parnassiani cercano di
celare i loro sentimenti personali, non si tratta di un sem-
plice ritorno allo spirito della letteratura preromantica,
ma della forma piú altezzosa e arrogante dell’individua-
lismo, quello che sdegna persino di comunicare.

Storia dell’arte Einaudi 141


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Il 1848 e le sue conseguenze hanno completamente


straniato i veri artisti dal pubblico. Anche questa volta,
come nel 1789 e nel 1830, la Rivoluzione era seguita a
un periodo di fervore intellettuale fecondissimo e, come
le rivoluzioni precedenti, si era conclusa con la sconfit-
ta della democrazia e della libertà intellettuale. La vit-
toria della reazione provocò un appiattimento senza
esempio del pensiero e un completo imbarbarimento del
gusto. La congiura dell’alta borghesia contro la rivolu-
zione, la denunzia della lotta di classe come un tradi-
mento verso la nazione, che divise in due campi avver-
si una società per sua natura pacifica1, la soppressione
della libertà di stampa, la creazione della nuova buro-
crazia come il piú forte sostegno del regime, l’insediar-
si dello stato poliziesco come giudice supremo in ogni
questione di morale e di gusto, provocarono nella cul-
tura della Francia una scissione senza precedenti. Si
determinò cosí fra gli intellettuali quel contrasto tutto-
ra aperto fra conformismo e ribellione, e quell’opposi-
zione allo stato che ha trasformato una parte degli intel-
lettuali in un elemento di disgregazione.
Il socialismo fu sacrificato senza resistenza all’«ordi-
ne» ristabilito. Nel primo decennio dopo il colpo di
stato non si verifica in Francia nessun movimento ope-
raio degno di nota. Il proletariato è esausto, intimidito,
confuso, le sue associazioni sono sciolte, i suoi capi
imprigionati, espulsi o ridotti al silenzio2. Le elezioni del
1863, rinforzando notevolmente l’opposizione, sono il
primo sintomo di un cambiamento. Gli operai tornano
ad associarsi, gli scioperi si moltiplicano e Napoleone III
è costretto a nuove concessioni. Il socialismo non avreb-
be certo raggiunto cosí presto il suo scopo, se non aves-
se trovato un aiuto involontario nell’alta borghesia libe-
rale, che nel cesarismo di Napoleone vedeva un perico-
lo per la propria potenza. Lo sviluppo politico dopo il
1860, il declino del governo autoritario e la decadenza

Storia dell’arte Einaudi 142


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dell’Impero si spiegano con questo intimo dissidio del


regime3. Il potere di Napoleone III si appoggiava al capi-
tale finanziario e alla grande industria; l’esercito, pre-
zioso nella lotta contro il proletariato, era tanto piú inu-
tile contro l’alta borghesia, in quanto poteva sussistere
solo grazie ad essa. Il Secondo Impero è inconcepibile
senza l’ondata di prosperità con cui venne a coincidere.
Esso trovò appoggio e giustificazione nella ricchezza
dei suoi cittadini, nelle nuove invenzioni tecniche, nella
costruzione di ferrovie e di canali, nell’infittirsi e acce-
lerarsi degli scambi, nella diffusione e nella crescente
flessibilità del credito. Durante la monarchia di luglio
era ancora la politica che piú attraeva i giovani d’inge-
gno; ora le forze migliori le assorbe l’economia. La Fran-
cia diventa capitalistica, non solo nei rapporti latenti, ma
anche nelle forme palesi della sua cultura.
Il capitalismo e l’industrialismo non escono, è vero,
dai binari ben noti, ma solo ora si sviluppano in tutta la
loro ampiezza, e la vita quotidiana degli uomini, le abi-
tazioni, i trasporti, la tecnica dell’illuminazione, il nutri-
mento e il vestire subiscono dal 1850 in poi mutamen-
ti piú radicali di quanti ne abbiano subiti nei secoli dal-
l’inizio della civiltà urbana. Incomparabilmente piú
grande e piú che mai diffuso, il bisogno di lusso e anzi-
tutto l’amore dei piaceri.
Il borghese diventa sicuro di sé, pretenzioso, arro-
gante e crede di poter coprire con un lusso esteriore la
modestia delle sue origini e il carattere promiscuo della
nuova società mondana, in cui assumono un’importan-
za fin qui inaudita demi-monde, attrici e stranieri. La
disgregazione dell’antico regime entra nello stadio fina-
le e, scomparsi gli ultimi rappresentanti della buona
società di un tempo, la cultura francese attraversa una
crisi piú sensibile che ai giorni della sua prima scossa.
Nell’arte, soprattutto nell’architettura e nella decora-
zione degli interni, il cattivo gusto predomina come mai

Storia dell’arte Einaudi 143


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

prima. Per la classe ricca, abbastanza importante per


voler brillare, ma non abbastanza antica per saper evi-
tare l’ostentazione, nulla è troppo prezioso e carico. Si
usano senza discernimento materiali genuini e falsi, si
riprendono e si contaminano gli stili. Rinascimento e
Barocco non sono che mezzi, come il marmo e l’onice,
il velluto e la seta, gli specchi e i cristalli. Si imitano
palazzi di Roma e castelli della Loira, atri pompeiani e
sale barocche, le ebanisterie Luigi XV e gli arazzi Luigi
XVI. Parigi acquista un nuovo splendore, un nuovo
aspetto di metropoli. Ma la sua grandezza è tutta appa-
rente, il pretenzioso materiale spesso non è che un sur-
rogato: il marmo è stucco, la pietra è intonaco. Le pom-
pose facciate sono posticce, la ricca decorazione è inor-
ganica e non strutturale. L’architettura assume un aspet-
to instabile, degno della classe di parvenus che la diri-
ge. Parigi ridiventa la capitale dell’Europa, ma non è,
come una volta, il centro dell’arte e della cultura, bensí
la metropoli dei piaceri, la città dell’opera, dell’operet-
ta, dei balli, dei boulevards, dei ristoranti, dei magaz-
zini, delle esposizioni universali, dei piaceri bell’e pron-
ti e a buon mercato.
Il Secondo Impero è il classico tempo dell’ecletti-
smo: un tempo senza stile proprio nell’architettura e nel-
l’artigianato e senza unità stilistica nella pittura. Sorgo-
no nuovi teatri, alberghi, case d’affitto, caserme, magaz-
zini, mercati, intere vie che s’irradiano da piazze circo-
lari; Parigi è quasi riedificata da Haussmann, ma tutto
ciò, se si prescinde dal nuovo criterio degli ampi spazi e
dalla tecnica della costruzione in ferro che ora comincia
a diffondersi, non ha alcuna originalità architettonica.
Naturalmente anche in altri tempi si era avuta una com-
presenza di stili diversi, rivali; ed anche l’antitesi tra uno
stile storicamente valido, ma non accetto ai ceti domi-
nanti, e uno meno importante, affatto sterile nel pro-
cesso evolutivo, ma caro al pubblico, non era un feno-

Storia dell’arte Einaudi 144


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

meno nuovo. Tuttavia mai era accaduto che le tenden-


ze veramente significative dell’arte avessero cosí scarsa
eco presso i contemporanei. In questo caso noi sentia-
mo che la storia dell’arte e della letteratura, in quanto
tratta delle manifestazioni esteticamente valide e stori-
camente significative, meno che per ogni altra epoca
risulta aderente alla reale vita artistica del tempo; in
altre parole, che la storia delle tendenze progressive,
significanti per il futuro e quella delle tendenze che
hanno avuto una voga o un influsso momentaneo ver-
tono su due serie di fatti completamente distinti. Un
Octave Feuillet o un Paul Baudry, a cui si dedicano dieci
righe nei nostri manuali, apparivano al pubblico del loro
tempo incomparabilmente piú importanti di Flaubert o
Courbet, a cui noi dedichiamo tante pagine. La vita
artistica del Secondo Impero è dominata da una produ-
zione facile e piacevole, destinata a una borghesia che
si è fatta indolente e intellettualmente pigra. La grassa
borghesia, a cui dobbiamo quella pretenziosa architet-
tura che si rifà ai modelli piú grandiosi, ma è per lo piú
vacua e disorganica, e riempie le sue case degli oggetti
piú costosi, ma spesso perfettamente superflui, scoper-
ta falsificazione dei modelli storici, favorisce una pittu-
ra che si riduce a una gradevole decorazione murale, una
letteratura di frivolo divertimento, una musica leggera
e lusinghevole e un teatro che celebra i suoi trionfi con
gli espedienti della pièce bien faite. Prevale un gusto
incerto, cattivo, facilone, mentre l’arte vera diviene
esclusivo possesso di una cerchia d’intenditori, che non
è piú in grado di offrire alcun compenso adeguato al
lavoro dell’artista.
Il naturalismo, che in germe contiene tutta l’evolu-
zione successiva, e può rivendicare le opere d’arte piú
significative del secolo, è una corrente di opposizione,
cioè lo stile di una piccola minoranza, sia fra gli artisti
che fra il pubblico. È il bersaglio dell’accademia, del-

Storia dell’arte Einaudi 145


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’università e della critica, insomma di tutti i circoli


ufficiali e autorevoli. E l’ostilità si acuisce via via che si
precisano i fini e i presupposti del movimento, e dal
cosiddetto «realismo» si sviluppa il «naturalismo». Ma
distinguere cosí le due fasi, che in realtà non hanno
limiti netti, si rivela praticamente affatto inutile, se non
addirittura ingannevole. In ogni caso è piú opportuno
comprendere col solo nome di naturalismo l’intero feno-
meno, riservando il concetto di realismo alla filosofia che
si contrappone all’idealismo romantico. Se per naturali-
smo si intende lo stile artistico e per realismo la conce-
zione filosofica la cosa rimane chiara, mentre volendo
distinguere naturalismo e realismo in arte non si fa che
complicare le cose e porsi un problema fittizio. Inoltre
il concetto di realismo applicato all’arte verrebbe a sot-
tolineare troppo l’opposizione al romanticismo, facendo
dimenticare che si tratta di una diretta continuazione
degli intenti dell’arte romantica e che in sostanza il
naturalismo è piuttosto una lotta incessante con lo spi-
rito romantico che una vittoria su di esso. Il naturalismo
è un romanticismo con nuove convenzioni, con nuovi,
e piú o meno arbitrari, postulati di verosimiglianza. La
maggior differenza tra romanticismo e naturalismo sta
nell’indirizzo scientifico della nuova tendenza, che
applica i criteri delle scienze esatte alla rappresentazio-
ne artistica della realtà. Il predominio dell’arte natura-
listica nella seconda metà dell’Ottocento non è che un
sintomo del trionfo di una generale concezione scienti-
fica e della mentalità razionalistico-tecnicistica sullo spi-
rito idealistico e tradizionale.
Si può dire che il naturalismo derivi tutti i suoi cri-
teri di verosimiglianza dall’indagine scientifica. Il suo
concetto della verità psicologica si fonda sul principio di
causalità, quello del corretto sviluppo di un intreccio sul-
l’eliminazione del caso e del miracolo; la sua descrizio-
ne dell’ambiente, sull’idea che ogni fenomeno naturale

Storia dell’arte Einaudi 146


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rientra in una serie infinita di condizioni e moventi; la


sua valorizzazione del particolare caratteristico, sul
metodo dell’osservazione scientifica, che non trascura
alcuna circostanza, per quanto irrilevante; la sua rinun-
zia alla composizione troppo perfetta, sul carattere
necessariamente non conclusivo dell’indagine scientifi-
ca. Ma la fonte principale della dottrina naturalistica è
l’esperienza politica della generazione del 1848: l’in-
successo della rivoluzione, la repressione di giugno e il
colpo di stato di Luigi Napoleone. Il disinganno dei
democratici, il brusco e generale cader delle illusioni, si
esprimono benissimo nella visione obiettiva, spassiona-
ta, strettamente aderente all’esperienza, delle scienze
naturali. Fallito ogni ideale, caduta ogni utopia, ci si
attiene ai fatti, e nulla piú. L’origine politica del natu-
ralismo ne spiega anzitutto gli aspetti antiromantici e
morali: il rifiuto di sfuggire alla realtà e l’esigenza di
un’assoluta onestà nel descrivere i fatti; lo sforzo d’es-
sere impersonali e impassibili per garantire l’obiettività
e la solidarietà sociale; l’attivismo che vuol mutare la
realtà, non solo conoscerla e descriverla; lo spirito di
modernità, che si attiene al presente come alla sola cosa
che importi; infine il carattere popolare nella scelta dei
soggetti e del pubblico. La frase di Champfleury4, «Le
public du livre à vingt sous, c’est le vrai public» [«Il vero
pubblico è quello dei libri da venti soldi»], mostra in
quale senso la rivoluzione del 1848 abbia agito sulla let-
teratura e quanto il nuovo concetto di «popolarità» sia
diverso da quello dei vecchi scrittori d’appendice. Que-
sti scrivevano per le masse, perché volevano scrivere per
tutti; i naturalisti invece, Champfleury e la sua cerchia,
vogliono scrivere anzitutto per le masse. Comunque, si
distinguono nella letteratura naturalistica due correnti:
il naturalismo degli scrittori che vengono dalla bohème
– Champfleury, Duranty e Murger – e quello dei possi-
denti, di Flaubert e dei Goncourt5. Son due campi oppo-

Storia dell’arte Einaudi 147


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sti: la bohème odia ogni tradizione, mentre a Flaubert


e ai suoi amici riesce sospetto ogni scrittore che ambi-
sca al favore popolare.
Il naturalismo comincia come movimento del prole-
tariato artistico; il suo primo maestro è Courbet, uomo
del popolo e artista affatto insensibile alla rispettabilità
borghese. Sciolta l’antica bohème, mentre i suoi mem-
bri diventano i beniamini del pubblico borghese roman-
ticizzante, si forma intorno a Courbet un nuovo circo-
lo, un altro cénacle della bohème. Il pittore degli Spac-
capietre deve la sua posizione di guida alle sue qualità di
uomo, piuttosto che di artista; anzitutto alla sua origi-
ne, al fatto ch’egli descrive la vita del popolo e con l’ar-
te sua si volge al popolo, o almeno al piú vasto pubbli-
co, vive la vita precaria e libera dell’artista proletario,
disprezza il borghese e i suoi ideali, è un convinto demo-
cratico e un rivoluzionario, un perseguitato e un reiet-
to. La teoria naturalistica sorge appunto a difesa della
sua arte contro la critica tradizionalista. Quando viene
esposto il Funerale di Ornans (1850) Champfleury dichia-
ra: «D’ora in poi i critici debbono decidersi pro o con-
tro il realismo». Cosí la gran parola è detta6. Sostanzial-
mente in quest’arte né la teoria né la pratica sono nuove,
anche se la vita quotidiana forse non ha mai avuto una
rappresentazione cosí brutale; quel che è nuovo è la ten-
denza politica, il messaggio sociale, la vita del popolo
ritratta senza degnazione, senza alcun tono di superio-
rità, satirico o bozzettistico. Ma per quanto sia nuovo
questo atteggiamento sociale, per quanto si parli, nel-
l’ambiente di Courbet, del fine umanitario e del com-
pito politico dell’arte, la bohème è e rimane erede del-
l’estetismo romantico. Spesso essa attribuisce all’arte
un’importanza che non le fu concessa nemmeno dalle
piú esaltate teorie romantiche, e fa un profeta di un pit-
tore confusionario e chiacchierone, un avvenimento sto-
rico Dell’esposizione di un quadro invendibile.

Storia dell’arte Einaudi 148


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Ma la passione che anima Courbet e i suoi seguaci è


fondamentalmente politica; in loro l’orgoglio nasce dalla
persuasione di essere i campioni della verità e gli araldi
del futuro. Champfleury afferma che il realismo non è
che l’arte della democrazia e i Goncourt definiscono
senz’altro la bohème come il socialismo nella letteratu-
ra. Agli occhi di Proudhon e di Courbet realismo e rivol-
ta politica sono manifestazioni diverse di uno stesso
atteggiamento, né essi vedono un’essenziale differenza
tra verità sociale e verità artistica. In una lettera del
1851 Courbet dichiara: «Io non sono soltanto un socia-
lista, ma un democratico e un repubblicano, insomma un
partigiano della rivoluzione e anzitutto un realista, cioè
il sincero amico della verità vera»7. E Zola non fa che
sviluppare l’idea di Courbet, quando afferma8: «La
République sera naturaliste ou elle ne sera pas» [«La
repubblica sarà naturalista o non sarà»]. Quindi il rifiu-
to del naturalismo non è, nelle classi dirigenti, che istin-
to di autoconservazione; si sente giustamente che ogni
arte che osi ritrarre la vita senza pregiudizi né remore,
è di per sé un fatto rivoluzionario. Questo pericolo è
avvertito dai conservatori anche piú nettamente che
dall’opposizione9. Gustave Planche nella «Revue des
Deux Mondes» dice esplicitamente che l’opposizione al
naturalismo è una professione di fede nell’ordine costi-
tuito e, rifiutandolo, si rifiuta a un tempo il materiali-
smo e la democrazia10.
La critica conservatrice degli anni fra il ’50 e il ’60
adduce contro il naturalismo tutti i noti argomenti e
cerca di dissimulare sotto il manto dell’estetica i pre-
giudizi sociali e politici che determinano il suo atteg-
giamento. Il naturalismo, dicono, non ha ideali né
morale superiore, sguazza nel brutto e nel volgare, nel
morboso e nell’osceno, è un’indiscriminata, servile imi-
tazione del vero. Ma quel che li turba non è evidente-
mente il grado, ma l’oggetto dell’imitazione. Sanno fin

Storia dell’arte Einaudi 149


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

troppo bene che Courbet, distruggendo la kalokagathìa


classico-romantica ed eliminando il vecchio ideale di
bellezza mantenutosi quasi intatto, pur fra rivoluzioni
e mutamenti sociali, fin verso il 1850, propugna un’u-
manità nuova e un nuovo ordine di vita. Sentono che
la deformità dei suoi contadini e dei suoi operai, la vol-
gare corpulenza delle sue borghesi è una protesta con-
tro la società esistente e che «il dispregio dell’ideali-
smo» e «il grufolare nel fango» sono le armi rivoluzio-
narie della pittura naturalista. Millet celebra con la sua
pittura l’apoteosi del lavoro manuale, e dei contadini fa
gli eroi di una nuova epopea. Daumier descrive il bor-
ghese conservatore, ostinato e ottuso, ne deride la poli-
tica, la giustizia, i piaceri, e svela tutta la spettrale com-
media che si cela dietro il suo decoro. È evidente che
la scelta dei temi qui è determinata da motivi politici
piú che artistici.
Persino il quadro di paesaggio diventa una dimostra-
zione contro la cultura della società dominante. Il pae-
saggio moderno nasce veramente come antitesi alla vita
della città industriale; ma quello romantico rappresen-
tava ancora un mondo autonomo, il quadro di una vita
irreale, ideale, senza alcun diretto rapporto con quella
quotidiana. Era un mondo cosí diverso dalla scena della
realtà contemporanea, che lo si concepiva come antite-
si ad essa, difficilmente come protesta. Invece il paysa-
ge intime della pittura moderna ritrae un ambiente che
per la sua intimità e quiete, è, sì, affatto diverso dalla
città, ma pur cosí vicino ad essa per il suo carattere sem-
plice, antiromantico, quotidiano, da indurre spontanea-
mente al confronto. Le vette montane e gli specchi mari-
ni dei romantici, e anche i boschi e i cieli di Constable,
avevano in sé qualcosa di favoloso, di mitico; invece i
pittori di Barbizon ci mostrano radure e bordi di fore-
ste cosí naturali e familiari, cosí accessibili al nostro
piacere, che a un abitante della città moderna debbono

Storia dell’arte Einaudi 150


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sempre apparire come un ammonimento e un rimpro-


vero. La scelta di questi motivi comuni, «non poetici»
rivela lo stesso spirito democratico che affiora nei tipi
di Courbet, Millet e Daumier; con la sola differenza che
i paesisti sembrano dire: la natura è bella sempre e dap-
pertutto, per avvedersene non occorrono motivi «idea-
li»; mentre i pittori di figura vogliono provare che l’uo-
mo è brutto e miserabile, l’oppresso come l’oppressore.
Ma il paesaggio dei naturalisti, pur cosí schietto e sem-
plice, diventa presto convenzionale com’era stato quel-
lo dei romantici. Questi dipingevano la poesia del
boschetto sacro, i naturalisti la prosa della vita campa-
gnola: la radura con le bestie al pascolo, il fiume con la
chiatta, il campo con la bica di fieno. Anche qui, come
sovente nella storia dell’arte, il progresso sta piú nel rin-
novarsi, che nello scomparire dei motivi tradizionali. I
mutamenti piú radicali derivano dal principio della pit-
tura «all’aria aperta», che del resto non viene messo in
pratica subito e quasi mai coerentemente e si limita per
lo piú a «dar l’impressione» che il quadro sia dipinto
all’aria aperta. Anche l’idea di questa tecnica ha alla sua
base, oltre i palesi elementi scientifici, un fondo etico-
politico, quasi a significare: «Fuori, all’aria libera, alla
luce della verità!»
Il carattere sociale della nuova arte si esprime anche
in una piú marcata tendenza dei pittori a raggrupparsi,
a fondare colonie di artisti, a condurre vita in comune.
La «scuola di Fontainebleau» che non è una scuola né
una conventicola, ma un gruppo fluido, dove i membri
seguono ciascuno la propria via e sono uniti solo dalla
serietà degli intenti, rappresenta già lo spirito collettivo
dei tempi nuovi. E le successive confraternite e colonie
di artisti, i comuni tentativi di riforma e i gruppi d’a-
vanguardia dell’Ottocento esprimono sempre la stessa
tendenza alla coalizione e alla cooperazione. La coscien-
za della propria funzione storica, la percezione del senso

Storia dell’arte Einaudi 151


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

e delle necessità dell’ora, intuizioni del romanticismo,


guidano ormai la mente degli artisti. La frase di Cour-
bet, «faire de l’art vivant» [«Far dell’arte viva»] e il
motto attribuito a Daumier, «Il faut être de son temps»
[«Bisogna essere del proprio tempo»] dicono una cosa
sola: il desiderio di rompere l’isolamento romantico e
riscattare l’artista dal suo individualismo.
Anche il fatto che la litografia assurga ora a espres-
sione d’arte è un sintomo di questa tendenza sociale.
Essa non corrisponde soltanto a quella democratizza-
zione del godimento artistico che in letteratura si è
attuata col romanzo d’appendice, ma segna il trionfo
dello spirito popolare e del giornalismo a un livello
incomparabilmente piú alto. Il giornalismo pittorico di
Daumier è anche uno dei vertici dell’arte del tempo,
mentre il romanzo d’appendice di Balzac segna uno sca-
dimento dell’autore e non giunge ad elevare il livello
generale.
I naturalisti rappresentavano veramente il loro tempo,
o almeno, se non tutto, la parte maggiore e piú impor-
tante del pubblico contemporaneo? La maggioranza di
coloro che ordinavano, compravano o giudicavano pub-
blicamente i quadri, che dirigevano le accademie e deci-
devano sulle opere da esporre, no certamente. Le idee
artistiche di costoro erano in genere piuttosto liberali, ma
la loro tolleranza cessava di fronte al naturalismo. Essi
amavano e favorivano l’accademico idealismo di Ingres
e della sua scuola, la romantica pittura aneddotica di
Decamps e di Meissonier, gli eleganti ritratti di Win-
terhalter e di Dubufe, i quadroni pseudobarocchi di Cou-
ture e di Boulanger, le decorazioni mitologico-allegoriche
di Bouguereau e di Baudry11, cioè la forma grande, fasto-
sa, ma vuota, in tutte le sue variazioni. Invece per le
opere dei naturalisti non c’era posto in quelle case piene
di mobili e di drappeggi, né negli arcaizzanti saloni di
rappresentanza. L’arte moderna fu bandita e cominciò a

Storia dell’arte Einaudi 152


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

perdere ogni funzione pratica. La stessa distanza che si


nota tra la pittura naturalistica e l’elegante «decorazio-
ne murale» si riscontra anche tra poesia e letteratura
amena, tra musica seria e musica leggera. Al pari della
pittura progressista, erano prive di un’effettiva funzio-
ne anche la letteratura e la musica non destinate al puro
divertimento. Finora anche le opere letterarie piú valide
e piú serie, come i romanzi di Prévost, Voltaire, Rous-
seau e Balzac, avevano trovato un pubblico relativa-
mente vasto, anche se spesso indifferente alla qualità
artistica. Ma ora la letteratura cessa di essere a un tempo
arte e divertimento, e di soddisfare con le stesse opere
le esigenze di ceti di diversa cultura.
Le opere piú valide non sono piú considerate lettura
amena e perdono ogni attrattiva per il lettore comune,
a meno che non lo attirino per qualche particolare moti-
vo e ottengano un successo di scandalo, come ad esem-
pio Madame Bovary di Flaubert. Un’adeguata conside-
razione queste opere la trovano solo in un gruppo esi-
guo di letterati e d’intellettuali, e anche questa può
chiamarsi «arte di atelier», come tutta la pittura pro-
gressista: è una letteratura destinata a specialisti, artisti
ed esperti. Lo straniarsi degli artisti dal presente e la loro
rinunzia a ogni comunione col pubblico va tant’oltre,
ch’essi non solo accettano l’insuccesso come cosa natu-
rale, ma considerano il successo come segno di scarso
valore artistico, e scorgono proprio nell’incomprensione
dei contemporanei una promessa d’immortalità.
Il romanticismo ancora conservava in sé un elemen-
to popolare capace di parlare a ceti piuttosto vasti; il
naturalismo invece, almeno nelle opere piú notevoli,
non ha nulla che sappia attrarre il gran pubblico. Con
la morte di Balzac termina l’età romantica; è, vero che
l’arte di Victor Hugo è ancora nel suo pieno sviluppo,
ma come grande movimento letterario il romanticismo
è ormai concluso. Il ripudio dell’ideale romantico da

Storia dell’arte Einaudi 153


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

parte dei piú eminenti scrittori segna anche la comple-


ta rottura con i gruppi autorevoli del pubblico e della cri-
tica. La partie de résistance [La parte dei resistenti], che
in letteratura corrisponde al partito dell’ordine, è piú
favorevole al romanticismo di quanto lo sia al naturali-
smo, che pur ne è la diretta conseguenza storica. La cri-
tica conservatrice combatte lo spirito della rivolta in
ogni forma, romantica o naturalistica, e antepone la
ragionevolezza a ogni specie di spontaneità; esige però
dalla poesia l’espressione di «puri sentimenti» e consi-
dera la «profondità» come il criterio dell’arte vera. Ma
quest’estetica del sentimento non è che una nuova
forma, sebbene non sempre chiarissima, dell’antica
kalokagathìa; essa si fonda sulla presunta identità di
spontaneità sentimentale e validità morale nella vita psi-
chica e postula una mistica corrispondenza fra il bene e
il bello.
L’effetto morale dell’arte è il suo piú importante
assioma e l’artista educatore il suo piú alto ideale. L’at-
teggiamento della ricca borghesia a proposito de l’art
pour l’art si è nuovamente modificato. Dopo una prima
ripulsa, e un successivo consenso, ora si dichiara defi-
nitivamente ostile all’arte «pura», moralmente indiffe-
rente. Fiaccata la ribellione dell’artista, non c’è piú nulla
da temere, se anche egli s’immischia di questioni prati-
che; l’art pour l’art può esser buttata a mare, e si può tor-
nare a riconoscere all’artista la funzione di guida spiri-
tuale. La minaccia ora viene dal naturalismo; ma poiché
i suoi esponenti propugnano, se non l’art pour l’art, una
trattazione spregiudicata e senza riguardi delle questio-
ni morali, cioè un amoralismo artistico, la condanna de
l’art pour l’art coinvolge anche loro. Il governo include
anche l’arte e gli artisti nel suo programma di educazione
e di correzione. I caporedattori e i critici delle grandi
riviste e dei giornali, i Buloz, i Bertin, Gustave Planche,
Charles Rémusat, Arnaud de Pont-Martin, Émile

Storia dell’arte Einaudi 154


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Montégut sono le maggiori autorità del regime; i suoi piú


illustri poeti sono Jules Sandeau, Octave Feuillet, Étmi-
le Augier e Dumas figlio; università e accademie sono le
sue scuole e i suoi laboratori per questa igiene spiritua-
le; il procuratore generale e il prefetto di polizia, i custo-
di dei suoi principî morali. Gli esponenti del naturali-
smo hanno da lottare contro l’ostilità della critica fin
verso il 1860, contro l’università per tutta la vita. L’ac-
cademia rimane chiusa per loro, né possono mai conta-
re su aiuti dello stato. Flaubert e i fratelli Goncourt ven-
gono denunziati per offese alla morale, a Baudelaire
viene inflitta una forte multa.
Il processo contro Flaubert e il successo strepitoso di
Madame Bovary (1857) decidono la battaglia in favore
del naturalismo. Il pubblico si appassiona e presto anche
la critica cede le armi; solo i piú cocciuti e miopi rea-
zionari restano all’opposizione. Questa volta sono i let-
tori a imporre il nuovo gusto ai critici, anche se l’inte-
resse del pubblico non ha cause puramente artistiche.
Sainte-Beuve, sensibilissimo alle oscillazioni delle ten-
denze intellettuali, ritorna al suo liberalismo di gio-
ventú. Egli si associa al gruppo di Taine, Renan, Berthe-
lot e Flaubert, critica il governo e proclama il trionfo del
naturalismo. Questa sua conversione, che è nello stesso
tempo politica e artistica, è acutamente sintomatica per
la situazione intellettuale; essa prova che il naturalismo,
pur diviso nei due campi della bohème e dei rentiers, ha
le sue radici nel liberalismo. Neppure di Flaubert, con-
servatore in politica, si può affermare che rappresenti
una posizione reazionaria, antisociale e antiliberale. La
sua opposizione al sistema politico del Secondo Impero
e all’opportunismo della borghesia, come si esprime
soprattutto nell’Education sentimentale, certo rispecchia
il suo pensiero meglio della diffamazione della demo-
crazia, che fa nelle sue lettere spesso troppo impulsive
e contraddittorie. La critica sociale avversa al regime è

Storia dell’arte Einaudi 155


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

un tratto comune a tutta la letteratura naturalistica, e


Flaubert, Maupassant, Zola, Baudelaire e i Goncourt,
pur diversamente orientati in politica, sono perfetta-
mente concordi nel loro non-conformismo12. Il «trionfo
del realismo» si ripete e i suoi esponenti contribuisco-
no tutti a minare le basi della società esistente. Nelle sue
lettere, Flaubert deplora piú volte la soppressione della
libertà e l’odio contro le tradizioni della grande rivolu-
zione13. Egli è un aperto avversario del suffragio uni-
versale e dell’egemonia delle masse incolte14, ma non
certo un alleato della borghesia dominante. Le sue opi-
nioni politiche sono spesso ingenue e confuse, ma espri-
mono sempre un onesto intento razionalistico e reali-
stico e un atteggiamento alieno da ogni utopia, sia pur
quella dei benefattori del popolo e dei fanatici del pro-
gresso. Del socialismo gli repugnano non tanto gli aspet-
ti materialistici, quanto quelli irrazionali15. Per timore
d’ogni dogmatismo, d’ogni fede cieca, d’ogni sorta di
vincoli, egli respinge ogni attivismo politico e combat-
te contro tutto ciò che possa distoglierlo dalla sua cer-
chia strettamente privata16. Per timore d’illudersi, diven-
ta un nichilista. Ma si sente legittimo crede della Rivo-
luzione e dell’illuminismo e imputa la decadenza dello
spirito alla fatale vittoria di Rousseau su Voltaire17.
Flaubert si aggrappa al razionalismo come all’ultimo
resto del Settecento antiromantico, e basta pensare alla
patologica angoscia del nostro tempo per capire il senso
del suo ammonimento di fronte alle tendenze irrazionali
e suicide del romanticismo di origine rousseauiana. «Di
quale colpa dovrebbero rispondere gli uomini?», scrive
a una malata di nervi, che si tormenta con fissazioni reli-
giose e rimorsi18. Pare un grido d’allarme, un ultimo
tentativo di mantenersi in equilibrio in un mondo
minacciato da ogni parte. La lotta di Flaubert con lo spi-
rito del romanticismo, il suo continuo oscillare di fron-
te ad esso, che gli dà sempre il senso di essere un tradi-

Storia dell’arte Einaudi 156


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tore, non è che una manovra per conservare tale equili-


brio. Tutta la sua vita e la sua opera oscillano tra due
poli, tra le inclinazioni romantiche e l’autodisciplina, la
nostalgia della morte e la volontà di restar vivo e sano.
Egli, che è un provinciale, è vicino al romanticismo,
ormai un po’ fuori moda, piú dei suoi coetanei parigi-
ni19, e ancora passati i vent’anni vive nel mondo fittizio
e nella surriscaldata atmosfera spirituale di una gioventú
strappata alle sue radici e fuor del suo tempo. Piú tardi
egli ricorda spesso in quale paurosa condizione, minac-
ciato dalla follia e dal suicidio, si trovasse allora con i
suoi amici20 e come riuscisse a salvarsi soltanto con uno
sforzo inaudito di volontà e un’autodisciplina ferrea e
spietata. Fino alla crisi, subita a ventidue anni, egli è un
uomo tormentato da visioni, depressioni, da una furia
selvaggia di sentimenti; è un malato che va incontro alla
catastrofe per la sua eccitabilità e sensibilità. La sua
vita tutta dedita all’arte, il carattere regolare e intran-
sigente del suo lavoro, il rigore inumano che assume in
lui l’indirizzo de l’art pour l’art, il tono impersonale del
suo stile, insomma tutta la sua teoria e la sua prassi di
artista non sono che uno sforzo disperato per salvarsi
dalla rovina certa. L’estetismo assume in lui, sul piano
psicologico, la stessa funzione che aveva avuto per i
romantici su un piano sociologico: la funzione di fuga
dalla realtà ormai insopportabile.
Flaubert si libera dal romanticismo; e arriva a supe-
rarlo rappresentandolo poeticamente, trasformandosi da
amante soggiogato, in analista e critico del movimento.
Egli contrappone alla realtà della vita quotidiana il
mondo dei sogni romantici e diventa naturalista per
rivelarne il carattere falso e malsano. Ma non si stanca
mai di dire quanto odii la volgarità quotidiana e gli
spiaccia il naturalismo di Madame Bovary e de L’Educa-
tion sentimentale, e quanto gli sembri puerile tutta la dot-
trina. E tuttavia egli è il primo vero scrittore naturali-

Storia dell’arte Einaudi 157


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sta, il primo a dare nelle sue opere un quadro – della


realtà rispondente alle teorie del naturalismo. Sainte-
Beuve riconosce con sguardo sicuro le conseguenze della
svolta che Madame Bovary rappresenta nella storia della
letteratura francese: «Flaubert adopera la penna come
altri il bisturi», scrive nella sua recensione, e caratterizza
il nuovo stile come il trionfo di un anatomico e di un
fisiologo nell’arte21. Dalle opere di Flaubert, Zola deri-
va tutta la sua teoria del naturalismo e considera l’au-
tore di Madame Bovary e de L’Education sentimentale
come il padre del romanzo moderno22. Flaubert, soprat-
tutto di fronte alle esagerazioni e agli effetti violenti di
Balzac, rappresenta la totale rinunzia all’azione melo-
drammatica, avventurosa, e anche soltanto appassio-
nante; descrive con amore la vita quotidiana monotona,
uguale, piatta; evita ogni estremo nel dar forma ai per-
sonaggi, astenendosi dall’accentuare in loro il bene o il
male; rinunzia ad ogni tesi, ad ogni morale, ad ogni ten-
denza, insomma ad ogni indiretto intervento negli avve-
nimenti e ad ogni diretta interpretazione dei fatti.
Questa sua impersonalità e imparzialità non deriva-
no però esclusivamente dai principî del naturalismo, né
rispondono solo all’esigenza estetica che l’oggetto del-
l’opera d’arte agisca come realtà immediata e non per-
ché raccomandato dall’autore; la sua non è soltanto una
reazione agli eccessi di Balzac e un ritorno al concetto
dell’opera come un microcosmo in sé conchiuso, un
sistema in cui «l’autore, come Dio nell’universo, dev’es-
sere sempre presente e mai visibile»23. Né si tratta sol-
tanto della convinzione, da allora cosí spesso ripresa e
riaffermata – dai Goncourt, da Maupassant, Gide,
Valéry e altri – che dei piú bei sentimenti si fanno i versi
peggiori, e la partecipazione personale, la schietta com-
mozione, il sussulto dei nervi e le lacrime agli occhi non
fanno che pregiudicare l’acutezza dello sguardo; no,
l’impassibilità di Flaubert non è solo un principio tec-

Storia dell’arte Einaudi 158


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nico, ma piuttosto contiene un’idea nuova, una nuova


morale per l’artista. Il suo «Nous sommes faits pour le
dire et non pour l’avoir» [«Siamo fatti per dirlo, non per
averlo»] è la formulazione estrema e intransigente di
quella rinunzia alla vita da cui è nato il romanticismo
come visione artistica e filosofica; ma, dato il suo inti-
mo dissidio, è nello stesso tempo il piú netto rifiuto del
romanticismo. Infatti, quando Flaubert proclama che la
poesia non è «la schiuma del cuore» egli vuol salvare la
purezza del cuore come quella della poesia.
Dal riconoscimento che la confusa, esaltata, roman-
tica sensibilità della sua giovinezza era in procinto di
distruggerlo come artista e come uomo, Flaubert derivò
un nuovo metodo di vita e una nuova estetica. «Ci sono
bambini, – scrive nel 1852, – su cui la musica agisce sfa-
vorevolmente; hanno gran disposizione, ricordano le
melodie sentite una volta sola, il pianoforte li eccita, dà
loro il batticuore; si fanno magri e smunti, si ammalano
e; quando sentono musica, i loro poveri nervi spasima-
no come quelli dei cani. Fra questi bimbi si cercheran-
no invano i Mozart del futuro. In loro il talento si è stra-
volto, l’idea è passata nella carne, dov’è sterile, e per la
carne esiziale...»24. Flaubert non sospettava quanto
romantiche fossero quella distinzione di «idea» e
«carne», e la sua rinunzia alla vita per amore dell’arte;
e non si accorse mai che la soluzione vera, antiromanti-
ca del suo problema, soltanto la vita poteva offrirla. La
personale soluzione che egli ne tenta rientra tuttavia tra
i grandi atteggiamenti simbolici dell’umanità occiden-
tale; essa rappresenta l’ultima incarnazione importante
della concezione romantica, quella in cui il romanticismo
viene negato provocando negli intellettuali borghesi la
coscienza della loro incapacità a dominare la vita e fare
dell’arte uno strumento per la vita. Come ha sottoli-
neato Brunetière, l’autoavvilimento è connaturato alla
psicologia borghese25, ma occorre aggiungere che auto-

Storia dell’arte Einaudi 159


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

critica e autonegazione diventano un fattore decisivo


nella vita culturale soltanto dal tempo di Flaubert. I bor-
ghesi della monarchia di luglio credevano ancora in se
stessi e nella missione della loro arte.
La critica flaubertiana del romanticismo, l’orrore del-
l’esibizionismo romantico, della prostituzione delle pro-
prie esperienze personali e dei piú intimi sentimenti
ricordano l’antipatia di Voltaire per la cruda schiettez-
za di Rousseau. Ma Voltaire era ancora immune da
romanticismo e, quando si opponeva a Rousseau, non
aveva da combattere anche contro se stesso; il suo carat-
tere borghese era chiaro e sicuro. Invece Flaubert è
pieno di contraddizioni e il suo rapporto contradditto-
rio con il romanticismo corrisponde a un rapporto ana-
logo con la borghesia. È stato spesso osservato che l’o-
dio contro il bourgeois è la fonte della sua ispirazione e
l’origine del suo naturalismo. Nella sua mania di perse-
cuzione lo spirito borghese assurge a sostanza metafisi-
ca, una specie di «cosa in sé» impenetrabile, inesauri-
bile. «Il borghese, – egli scrive a un amico, – è per me
qualcosa d’indefinibile»: parola in cui all’idea d’inde-
terminato si unisce quella d’infinito. La scoperta che i
borghesi stessi sono diventati romantici, anzi, per cosí
dire, rappresentano l’elemento romantico per eccellen-
za, e che nessun altro declama con tanta sensibilità e
commozione i versi dei poeti romantici, e le Bovary
sono le ultime rappresentanti dell’ideale romantico, ha
contribuito molto ad allontanare Flaubert dal romanti-
cismo. Ma borghese è la sua indole piú profonda ed egli
lo sa. «Io rinunzio alla posizione del letterato, – egli
dichiara: – ... sono soltanto un borghese che vive in cam-
pagna e si occupa di letteratura»26. Sotto processo per il
suo romanzo, egli, preparando la propria difesa, scrive
al fratello: «Si deve sapere al Ministero degli Interni che
noi a Rouen siamo quel che si dice una famiglia e abbia-
mo profonde radici nel paese». Ma questo aspetto di

Storia dell’arte Einaudi 160


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Flaubert si esplica anzitutto nel suo modo di lavoro


strettamente disciplinato, nell’antipatia per il disordine
della creazione «geniale.». Egli cita le parole di Goethe
sull’«esigenza quotidiana» e si fa un dovere di esercita-
re il mestiere di scrittore come una professione metodi-
ca, indipendente dalla voglia, dall’ispirazione e dall’u-
more. Ma la sua monomania, il suo sforzo per la forma
perfetta, il suo estetismo concreto nascono da questa
concezione borghese-artigiana dell’attività artistica.
Com’è noto, l’art pour l’art risponde solo in parte al
senso romantico della vita, avulsa dalla società e dalla
pratica; per certi aspetti esprime anzi un’etica del lavo-
ro schiettamente borghese e artigiana, tutta volta all’e-
secuzione27. L’antipatia di Flaubert per il romanticismo
è strettamente connessa con la sua avversione all’artista
come tipo, con la sua ripugnanza per i sognatori e gli
idealisti irresponsabili. Nell’artista e nel romantico egli
combatte la personificazione di un costume, che gli pare
minacci tutta la sua esistenza morale. Egli odia il bor-
ghese, ma ancor piú il vagabondo. Egli sa che negli arti-
sti c’è sempre un elemento distruttore, una forza disgre-
gatrice e antisociale. Sa che l’artista nella vita tende
all’anarchia e al caos e che il suo lavoro, già per il moven-
te irrazionale da cui nasce, cerca di sottrarsi ad ogni
ordine e ad ogni disciplina, ad ogni perseveranza e sta-
bilità. Quel che già sentiva Goethe28, e di cui Thomas
Mann farà il problema centrale della sua psicologia del-
l’artista – cioè l’inclinazione dell’artista al patologico e
al criminale, il suo esibizionismo spudorato, il suo istrio-
nismo senza dignità, insomma tutta l’esistenza di vagans
cui è obbligato – deve aver profondamente turbato e
oppresso Flaubert. L’ascesi, ch’egli s’impone, la dili-
genza artigianesca, quel monastico celarsi dietro l’ope-
ra, debbono in definitiva testimoniare della sua serietà,
della sua decenza e probità borghese, che non ha nien-
te di comune con il «panciotto rosso» di Gautier. Il pro-

Storia dell’arte Einaudi 161


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

letariato artistico è ormai diventato un fatto sociale non


trascurabile; la borghesia lo sente come un pericolo rivo-
luzionario e gli scrittori borghesi solidarizzano con lei
contro questo pericolo, come piú tardi contro la Comu-
ne, che sveglia in loro tutti gli istinti borghesi repressi.
Tuttavia una dottrina come l’estetismo flaubertiano
non è una soluzione chiara, definitiva, ma una forza dia-
lettica che, mutando direzione, mette in dubbio la sua
stessa validità. Contro l’irruenza romantica della sua
gioventú, Flaubert cerca quiete e riparo nell’arte; ma in
questa funzione essa prende proporzioni fantastiche e
figura demoniaca. Non solo soppianta ogni altra cosa che
possa appagare l’anima e placarla, ma diventa il princi-
pio stesso della vita. Pare che solo essa abbia realtà,
costituisca un punto fermo nel flusso di ciò che passa e
dilegua, si corrompe e si dissolve. La dedizione della vita
all’arte assume qui un carattere mistico-religioso; non è
piú semplicemente servizio o sacrificio, ma un fissarsi,
estatici, all’unica realtà, un dissolversi e un annullarsi
nell’idea. «L’art, la seule chose vraie et bonne de la vie»
[«L’arte, la sola cosa vera e buona della vita»] scrive
Flaubert all’inizio della sua carriera29; e alla fine30:
«L’homme n’est rien, l’œuvre tout» [«L’uomo non è
nulla, l’opera è tutto»]. Il virtuosismo artigianesco, l’e-
saltazione della maestria tecnica in contrasto con il dilet-
tantismo romantico, in origine esprimeva il desiderio
d’inserirsi in un saldo ordine di vita sociale; l’ultimo
estetismo di Flaubert è invece un nichilismo antisocia-
le e avverso alla vita, una fuga da tutto ciò che è con-
nesso con la pratica e con l’uomo di carne e d’ossa. Vi
si esprime l’estremo disprezzo del mondo, l’estrema
ripulsa. «La vita è cosí orribile, – geme Flaubert, – che
la si può sopportare soltanto fuggendola. E lo si fa viven-
do nell’arte»31. «Nous sommes faits pour le dire et non
pour l’avoir», è un crudele messaggio, l’accettazione di
un destino infelice, inumano. «Tu potrai descrivere il

Storia dell’arte Einaudi 162


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

vino, l’amore, le donne, la gloria soltanto se non sei


bevitore, né amante, né sposo, né soldato», scrive Flau-
bert, e soggiunge che l’artista «è qualcosa di mostruoso
e innaturale». Il romantico era troppo intimamente lega-
to alla vita, al desiderio di vita; egli era tutto sentimen-
to e natura. Per Flaubert l’artista non ha piú alcun diret-
to rapporto con la vita; non è che un automa, un’astra-
zione, qualcosa d’inumano e contro natura.
Nell’opposizione al romanticismo l’arte ha perduto
ogni carattere spontaneo, è ormai divenuta un premio
che l’artista deve conquistare lottando con se stesso, con
la sua origine romantica, le sue inclinazioni e i suoi
impulsi. Per attività artistica, finora s’intendeva, se non
proprio un abbandono intero al proprio talento, alme-
no un lasciarsene guidare; ora l’opera ha sempre l’aria
di un tour de force, di un prodotto dello sforzo, di una
conquista nella lotta contro se stessi. Faguet osserva
che lo stile epistolare di Flaubert è ben diverso da quel-
lo dei romanzi e che il bello stile e la lingua corretta non
gli riescono affatto agevoli e naturali32. Nulla illumina la
distanza fra l’uomo e l’artista piú nitidamente di questa
constatazione. Pochi sono gli scrittori di cui si conosca
cosí bene il metodo di lavoro, ma non ce n’è sicuramente
alcuno che abbia scritto le sue opere con tanto tormen-
to e spasimo, contrastando cosí aspramente ai propri
istinti. Ma quella continua lotta con la lingua, la lotta
per trovare la parola giusta, l’unica giusta, non è che il
segno di un’invalicabile distanza tra il «possedere» la
vita e il «raccontarla». Non c’è parola, come non c’è
forma, che sia l’unica giusta; sono invenzioni di esteti,
per i quali la funzione vitale dell’arte è del tutto perdu-
ta. «Io preferisco crepare come un cane piuttosto che
precipitare anche di un istante la mia frase, prima che
sia matura»; non parla cosí uno scrittore che abbia con
l’opera sua uno spontaneo rapporto umano. Lo Shake-
speare di Matthew Arnold sorriderebbe di questi scru-

Storia dell’arte Einaudi 163


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

poli nell’Eliso. Il lamento sulla lotta quotidiana che stor-


disce il cuore, il cervello e i nervi, sulla vita da forzato
in catene che è costretto a fare, è il motivo dominante
delle lettere di Flaubert. «Da tre giorni mi sbatto su
tutti i mobili, perché mi venga in mente qualcosa», scri-
ve nel 1853 a Louise Colet33. «Non riesco piú a distin-
guere i giorni della settimana... faccio una vita da pazzo,
assurda... È il nulla puro, assoluto», scrive nel 1858 a
Ernest Feydeau34. «Lei non sa quel che vuol dire star lì
a sedere tutta una giornata, con il capo fra le mani per
spremersi una parola dal povero cervello», scrive nel
1866 a George Sand35. Col suo orario regolare di sette
ore al giorno egli scrive una pagina al giorno, poi venti
pagine in un mese, poi due pagine in una settimana. È
una cosa pietosa. «La rage des phrases t’a desséché le
cœur» [«La smania delle frasi ti ha inaridito il cuore»],
gli dice la madre, e forse nessuno ha detto di lui cosa piú
crudele e piú giusta. Il peggio è che Flaubert, nonostante
il suo estetismo, dubita anche dell’arte. In fondo, forse
non è che un gioco di birilli, forse è tutta ciarlataneria,
osserva egli una volta36. La sua incertezza, il suo lavoro
sforzato e tormentato, a cui manca del tutto la spensie-
ratezza degli antichi scrittori, derivano dal fatto che
egli sente l’opera sua sempre in pericolo e non gli riesce
di crederci veramente. «Quel che faccio adesso, –
dichiara mentre lavora a Madame Bovary, – può facil-
mente diventare qualcosa alla Paul de Kock... In un
libro come questo una riga fuor di posto può allontana-
re dalla meta...»37. E mentre scrive L’Education senti-
mentale: «Quel che mi spinge alla disperazione è il senso
di far qualcosa d’inutile, contrario all’arte»38. Diventa
una formula fissa nelle sue lettere dire ch’egli si occupa
di cose che non gl’importano, e che non riesce mai a scri-
vere quel che realmente vorrebbe, né come vorrebbe39.
La frase di Flaubert: «Madame Bovary, c’est moi» è
doppiamente vera. Spesso dovette sembrargli che non

Storia dell’arte Einaudi 164


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

solo il romanticismo dei primi anni, ma anche la reazione


critica ad esso, la funzione di giudice che esercitava pro-
prio nell’atto stesso della sua creazione fosse un falsifi-
care la vita. Proprio perché egli visse cosí intensamente
il problema di questa menzogna, la crisi dell’autoingan-
no, la deformazione della propria personalità, Madame
Bovary è un’opera d’arte cosí vera e attuale. Con la pro-
blematica del romanticismo vennero in luce tutti i pro-
blemi dell’uomo moderno che fugge il presente, rifiuta
il luogo che dovrebbe esser suo, cerca quel che è lonta-
no, perché teme la responsabilità di quel che è prossimo
e attuale. L’analisi del romanticismo portò a diagnosti-
care la malattia di tutto il secolo, a scoprire la nevrosi
le cui vittime non hanno mai chiara coscienza del loro
stato e, sempre desiderose di essere nei panni altrui, non
si vedono come sono, ma come vorrebbero essere. In
questo autoinganno e in questa falsificazione della vita,
in questo bovarismo, come è stata chiamata la sua filo-
sofia40, Flaubert vede l’essenza della soggettività moder-
na, che deforma tutto quel che tocca. Il senso che noi
possediamo la realtà attraverso deformazioni, imprigio-
nati nelle forme soggettive del nostro pensiero, trova in
Madame Bovary la prima espressione artistica. Di qui una
via diritta e quasi continua mena all’illusionismo di
Proust41. La trasformazione della realtà attraverso la
coscienza, a cui già accennava Kant, assunse nel corso
dell’Ottocento carattere di un inganno ora piú o meno
cosciente, ora del tutto inconscio, e si tentò di spiegar-
la e di smascherarla in teorie quali il materialismo sto-
rico e la psicanalisi. Con la sua interpretazione del
romanticismo, Flaubert appartiene alla schiera dei gran-
di rivelatori e smascheratori del secolo, quindi agli ini-
ziatori della moderna concezione introspettiva.
I due maggiori romanzi flaubertiani, la storia della
piccola provinciale che il suo romanticismo rende inet-
ta alla vita, e quella del giovane borghese agiato, di

Storia dell’arte Einaudi 165


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

media intelligenza, che disperde le sue forze intellettuali


e le sue capacità, sono strettamente connessi. Frédéric
Moreau è stato detto il figlio spirituale di Emma Bovary;
ma entrambi sono frutto di quella «stanca civiltà»42 in
cui si muove la vita della borghesia arrivata al potere.
Entrambi incarnano la stessa confusione sentimentale e
rappresentano lo stesso tipo di «falliti» cosí caratteri-
stico per quella generazione di eredi. Zola vide nell’E-
ducation sentimentale il romanzo moderno per eccellen-
za; e infatti, come storia di una generazione, segna l’ac-
me di uno sviluppo che si era iniziato con il Rouge et noir
e proseguito ne La comédie humaine. È un romanzo
«storico», cioè un romanzo dove protagonista è il
tempo, sia come l’elemento che determina e anima i per-
sonaggi, sia come il principio che li consuma, li annien-
ta, li inghiotte. Il romanticismo ha scoperto il tempo
come realtà creativa; la lotta antiromantica svela il
tempo come forza corruttrice, che mina la vita e logora
gli uomini. La constatazione di Flaubert, che «nella vita
non sono da temere le grandi sventure, ma le piccole»43,
che, in altre parole, non si cade abbattuti dai nostri
maggiori e piú sconvolgenti disinganni, ma ci si consu-
ma lentamente insieme con le nostre speranze e le nostre
ambizioni, è la realtà piú triste. Questo graduale, imper-
cettibile, inarrestabile languire, che mina silenziosa-
mente la vita senza produrre neppure lo schianto delle
grandi, imponenti catastrofi, è l’esperienza su cui s’im-
pernia L’Education sentimentale e, si può dire, tutto il
romanzo moderno; esperienza che, per il suo carattere
non tragico, anzi neppur drammatico, può esprimersi
soltanto in forma narrativa. L’egemonia del romanzo
nella letteratura dell’Ottocento si spiega specialmente
perché il senso dell’irresistibile appiattimento e inaridi-
mento della vita e l’idea del tempo come forza distrut-
tiva si sono impadroniti interamente degli animi. Il
romanzo sviluppa i suoi principî dal concetto del tempo

Storia dell’arte Einaudi 166


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

che rode e distrugge, come la tragedia li aveva tratti dal-


l’idea dell’eterno destino che annienta l’uomo d’un
colpo. E come in questa il fato possiede sovrumana
grandezza e forza metafisica, così, nel romanzo, enorme
e quasi mitica è la dimensione del tempo. Nell’Educa-
tion sentimentale Flaubert scopre – e in questo consiste
l’importanza storica dell’opera – la costante presenza,
nella nostra vita, del tempo che passa ed è passato. Egli
è il primo a vedere che mutano col tempo il senso e il
valore delle cose, che esse possono diventare per noi
significative e importanti solo perché sono parte del
nostro passato, e in questa funzione il loro valore è
affatto indipendente dal loro effettivo contenuto e dai
loro rapporti obiettivi. Ma questa rivalutazione del pas-
sato e l’implicito conforto che il tempo, che seppellisce
noi e le rovine della nostra vita, lascia trasparire «dap-
pertutto germi e tracce del senso perduto»44, non fa che
esprimere un sentimento romantico: il presente, ogni
presente, è irrilevante e vuoto, e tale fu il passato,
quand’era presente. Questo è il senso delle ultime pagi-
ne de L’Education sentimentale, che sono la chiave di
tutto il romanzo e di tutta la concezione flaubertiana del
tempo. Questo spiega perché l’autore in queste pagine
prenda a caso un episodio del passato del suo eroe e lo
consideri quanto di meglio la vita potesse offrirgli. L’as-
soluta nullità di quell’esperienza, affatto comune e
vuota, significa che nella catena della vita per noi manca
sempre un anello e che ogni particolare della nostra esi-
stenza è pieno della malinconia che deriva dalla sua
assurdità obiettiva e dal senso puramente soggettivo che
gli attribuiamo.
Flaubert segna la massima depressione nella visione
ottocentesca della vita. L’opera di Zola, pur con i suoi
toni cupi, rappresenta già una speranza, una svolta in
senso ottimistico. E Maupassant, sebbene altrettanto
amaro, è tuttavia piú leggero e piú cinico di Flaubert; le

Storia dell’arte Einaudi 167


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sue novelle segnano già, come concezione del mondo, il


trapasso alla letteratura amena borghese, ad una conce-
zione che, quanto a elementi ottimistici e pessimistici,
non è meno complicata e contraddittoria di quella dei
ceti piú umili. Per giudicare rettamente, occorre in que-
sto caso distinguere con chiarezza i sentimenti delle sin-
gole classi sociali di fronte al presente e al futuro. Le
classi in ascesa, sebbene considerino il presente con gran
pessimismo, hanno fiducia nell’avvenire; le classi domi-
nanti, invece, pur nella potenza e nello splendore attua-
le, sovente hanno il cuore stretto da un senso d’immi-
nente rovina. Nelle classi oppresse, ma fiduciose nella
propria ascesa, il pessimismo del presente si unisce all’ot-
timismo del futuro; anche fra i ceti condannati al decli-
no l’immagine del futuro contrasta con quella del pre-
sente, ma con opposti auspici. Perciò Zola, che si sente
solidale con gli oppressi e gli sfruttati, giudica il presente
con assoluto pessimismo, ma non gli manca la speranza
nel futuro. Questo contrasto corrisponde anche alla sua
visione scientifica. Com’egli stesso dichiara, Zola è un
determinista, ma non un fatalista; in altre parole, egli è
perfettamente conscio che il comportamento degli uomi-
ni dipende dalle condizioni materiali della loro vita, ma
non crede che queste siano immutabili. Egli accetta
senza riserve la teoria di Taine sull’importanza dell’am-
biente, anzi la esagera, ma considera particolare compi-
to e meta perfettamente accessibile delle scienze socia-
li il mutamento, il miglioramento – oggi diremmo la
pianificazione – dell’ambiente in cui vivono gli uomini45.
Tutto il pensiero scientifico di Zola ha quest’im-
pronta utilitaristica ed è permeato dallo spirito di rifor-
ma e di progresso civile dell’illuminismo. Anche la sua
psicologia mira a fini pratici; essa è al servizio di un’i-
giene spirituale e parte dalla teoria che anche sulle pas-
sioni si può influire, appena se ne colga il meccanismo.
In Zola giunge all’estremo la visione scientifica propria

Storia dell’arte Einaudi 168


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dei naturalisti. Questi finora consideravano la scienza


come ancella dell’arte; ma Zola inverte il rapporto.
Anche Flaubert crede che l’arte sia giunta a uno stadio
scientifico, e non solo si sforza di descrivere la realtà
secondo la piú esatta osservazione, ma di questa accen-
tua il carattere scientifico, anzi medico. Tuttavia non si
attribuisce mai meriti diversi da quelli artistici, a diffe-
renza di Zola che invece vuol esser considerato uno stu-
dioso e accrescere il proprio valore di artista con la sua
attendibilità scientifica. In questo si ha la stessa divi-
nizzazione della scienza, lo stesso feticismo scientifico
che in genere caratterizza il socialismo ed è proprio di
quei ceti che dal trionfo della scienza sperano la propria
ascesa. Anche per Zola, come per tutta la concezione del
socialismo scientifico, l’uomo è un essere determinato
nei suoi caratteri da leggi ereditarie e ambientali, ed egli
va tant’oltre nel suo entusiasmo per le scienze naturali,
da definire il naturalismo nel romanzo semplicemente
come l’applicazione del metodo sperimentale alla lette-
ratura. Ma qui «esperimento» è solo un parolone privo
di senso, o tutt’al piú equivalente a «osservazione»46.
Nelle teorie letterarie di Zola c’è un po’ di ciarlatane-
ria, eppure i suoi romanzi hanno un certo valore teore-
tico, perché, sebbene non contengano alcuna novità
scientifica, sono opera di un notevole sociologo, come
giustamente è stato sottolineato. E, cosa importantissi-
ma per la storia dello stile, sono il risultato di un lavo-
ro condotto con metodo scientifico, affatto nuovo nel-
l’arte. Di solito l’artista esperimenta il mondo senza un
piano né un sistema prestabilito; si direbbe ch’egli rac-
colga, passando, il suo materiale, dati ed elementi della
vita che si porta via con sé: germi da lasciar crescere e
maturare, per trarre un giorno da quella provvista igno-
ti, insospettati tesori. Lo scienziato invece sceglie la via
opposta. Parte da un problema, cioè da un fatto di cui
egli non sa nulla, o non sa precisamente quello che gl’im-

Storia dell’arte Einaudi 169


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

porta. Per lui comincia, con l’impostarsi stesso del pro-


blema, la raccolta e il vaglio del materiale, cioè una piú
intima conoscenza di quel settore della vita. Non è l’e-
sperienza a portarlo al problema, ma questo all’espe-
rienza. Ecco appunto la via e il metodo di Zola: egli
comincia un nuovo romanzo come quel tal professore un
nuovo corso, documentandosi con cura su un soggetto
che gli è oscuro. E appunto quel che racconta Paul
Alexis sulla preparazione di Nana, sulle esplorazioni di
Zola nel mondo della prostituzione e del teatro, fa veni-
re in mente quel professore.
L’idea complessiva secondo cui Zola costruisce il suo
ciclo romanzesco ha l’aria di un piano per qualche impre-
sa scientifica. Secondo il programma, le singole opere
costituiscono le parti di un grande sistema enciclopedi-
co, di una summa della società moderna. «Io voglio spie-
gare come una famiglia, cioè un piccolo gruppo di esse-
ri, si comporta in una società», scrive nella prefazione
a La fortune des Rougon. E tale società è la Francia deca-
dente e corrotta del Secondo Impero. Non ci può esse-
re per un artista programma piú obiettivo, preciso, scien-
tifico. Ma Zola non sfugge al destino del suo secolo;
nonostante il suo metodo, egli è un romantico, e assai
piú sfrenato degli altri contemporanei, meno radical-
mente naturalisti. Anche il suo modo di razionalizzare
e schematizzare la realtà, unilaterale e non dialettico, è
ardito, acceso romanticismo. E i simboli a cui egli ridu-
ce la varietà molteplice, contraddittoria della vita – la
città, la macchina, l’alcool, la prostituzione, il fondaco,
il mercato, la borsa, il teatro, ecc. – non sono che le
visioni di un sistematico, non affrancato dal romantici-
smo, che al posto di singoli fenomeni concreti vede alle-
gorie. A questa inclinazione si aggiunge il fascino che
ogni cosa grande, gigantesca esercita su di lui. Egli è un
fanatico della massa, del numero, della rozza, compat-
ta, inesauribile realtà di fatto. Egli s’inebria della mate-

Storia dell’arte Einaudi 170


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ria, della realtà pullulante, dello spettacolo grandioso


della vita. Non per nulla è contemporaneo del grand-
opéra e del barone Haussmann.
In quest’epoca dell’alta borghesia e del grande capi-
tale, lo spirito pratico e antiromantico non si rivela nel
naturalismo, bensí nell’idealistica letteratura amena dei
ricchi borghesi. La produzione naturalistica, benché
radicalmente materialista, anzi spesso appunto perché
tale, offre un quadro della realtà sfrenatamente fanta-
stico. Invece il razionalismo e il pragmatismo borghesi
tendono a un’immagine del mondo equilibrata, armoni-
ca, tranquilla. Per soggetti «ideali» la borghesia inten-
de quelli che, servono a calmare, acquetare, sopire. Alla
letteratura spetta il compito di riconciliare con la vita gli
infelici e gli scontenti, velando ai loro occhi la realtà e
introducendoli illusoriamente in un’esistenza da cui sono
e rimangono esclusi. Si mira ad abbagliare, non già illu-
minare. Al romanzo naturalista di Flaubert, di Zola, dei
Goncourt, sempre sconvolgente, eccitante, l’élite socia-
le contrappone i romanzi della «Revue des Deux Mon-
des», specie quelli di Octave Feuillet, dove la vita e le
aspirazioni del gran mondo appaiono il piú alto ideale
dell’umanità civile; dove ancora ci sono veri eroi, forti,
arditi e disinteressati cavalieri, figure ideali che già
appartengono all’alta società, o giovani, che questa è
pronta ad accogliere nel suo seno. Finora, nonostante le
rivoluzioni e i mutamenti sociali, la vita dell’aristocra-
zia veniva sempre descritta con una certa evidenza e
immediatezza; benché sorpassata, essa conservava anco-
ra certi caratteri naturali e spontanei. Ma nei romanzi
d’ora la vita del gran mondo appare come fuori d’ogni
rapporto con la vita reale, in una luce da salotto palli-
da, vaga, gradevolmente smorzata, che ricorda gli odier-
ni film di Hollywood. Feuillet non distingue affatto tra
eleganza e cultura, belle maniere e buone qualità; per lui
buona educazione e nobiltà d’animo sono sinonimi e la

Storia dell’arte Einaudi 171


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

fedeltà verso le classi superiori è già prova di una certa


finezza. L’eroe del suo Roman d’un jeune homme pauvre
(1858) incarna la distinzione dei modi e dell’animo; è
bello e generoso, sportivo e intelligente, virtuoso e sen-
sibile, e con la sua povertà prova soltanto che l’inegua-
le distribuzione dei beni materiali non impedisce l’at-
tuarsi degli ideali aristocratici. Si tratta cioè di un vero
e proprio romanzo a tesi, analogo ai drammi di Augier
e Dumas. Vi si proclamano e vi si esaltano i precetti
della morale cristiana, del conservatorismo politico e
del conformismo sociale; vi si combatte il pericolo della
grande passione caotica, della selvaggia disperazione e
della resistenza passiva.
L’ipocrisia borghese va insieme a uno straordinario
abbassamento del livello culturale. Il Secondo Impero,
se dà luogo all’arte di Flaubert e di Baudelaire, è anche
all’origine del cattivo gusto e del ciarpame moderno.
Naturalmente neanche prima mancavano imbrattatele e
poeti senza talento, opere rozze e abborracciate, idee
annacquate e scadenti; ma l’opera deteriore era tale
manifestamente, volgare e priva di gusto, senza pretese
e senza importanza: la sciocchezza ben lisciata, la robac-
cia eseguita con meccanica raffinatezza, non c’erano, o
almeno restavano prodotti secondari. Tutto questo inve-
ce ora diventa norma e la qualità è regolarmente sosti-
tuita dalla vuota apparenza. Si mira a un’arte che si
possa godere con il minimo sforzo e il massimo piacere,
eliminandone difficoltà e complicazioni, ogni elemento
problematico e tormentoso, insomma riducendola ai soli
aspetti piacevoli e lusinghieri. L’arte come svago, nella
quale il pubblico consciamente e di proposito abbassa il
proprio livello mentale, è invenzione di quel tempo;
essa domina in tutte le forme, ma specialmente in quel-
la piú decisamente e schiettamente pubblica: il teatro.
Nel romanzo e nella pittura, accanto alle tendenze
care al gusto borghese, domina il naturalismo; nel tea-

Storia dell’arte Einaudi 172


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tro invece non c’è nulla che si opponga agli interessi e


alle idee della borghesia. Per difendersi dalle correnti
che gli appaiono pericolose, il governo non soltanto si
affida alla maggioranza del pubblico, composta di «ben-
pensanti», ma le combatte con ogni sorta di prescrizio-
ni e divieti. In quanto arte destinata a un gran pubbli-
co, il teatro viene trattato piú severamente degli altri
generi, proprio come oggi il film è soggetto a restrizio-
ni che non si estendono alla scena. Dalla metà del seco-
lo gli sforzi degli scrittori, in armonia con le intenzioni
del governo, mirano a creare uno strumento di propa-
ganda per l’ideologia borghese, per i suoi principî eco-
nomici, sociali e morali. L’avidità di piacere delle clas-
si dominanti, il loro debole per gli spettacoli, la loro
gioia di vedere e di farsi vedere fanno del teatro la tipi-
ca arte del tempo. Nessuna società ne fu cosí amante, e
mai una première ebbe tanta importanza come per il
pubblico di Augier, Dumas e Offenbach47. Questa pas-
sione riesce gradita a coloro che foggiano l’opinione
pubblica, che la incoraggiano e ne confermano le incli-
nazioni e il gusto. Il concetto del pubblico di un Sarcey,
ad esempio, cioè del piú autorevole critico teatrale del
tempo, è senza dubbio strettamente connesso con tale
preoccupazione. La sua affermazione che la sostanza
del teatro è il pubblico e che nell’esecuzione di un dram-
ma si può astrarre da ogni cosa fuor che dallo spettato-
re48, non rispecchia soltanto il generale sviluppo delle
scienze sociali e l’accentrarsi dell’interesse su fenomeni
intellettuali collettivi. Per Sarcey il principio, che, il
pubblico ha sempre ragione è la norma di ogni critica ed
egli vi si attiene, benché sappia benissimo che l’antico
pubblico colto è scomparso da gran tempo, e dei vecchi
habitués, ancora concordi in un vero criterio di gusto,
resta solo un piccolo gruppo, stabile nella sua composi-
zione, di spettatori regolari: il pubblico delle premières49.
Per Sarcey il mutamento sociale, da cui è uscito il pub-

Storia dell’arte Einaudi 173


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

blico del grande teatro moderno, è un processo relati-


vamente nuovo che avviene nell’ambito della stessa bor-
ghesia. Il rapido aumento del pubblico in seguito allo
sviluppo delle ferrovie che riversano a Parigi provincia-
li e stranieri, sostituendo al gruppo discretamente omo-
geneo degli habitués una platea promiscua e occasiona-
le, è un fenomeno su cui insistono, oltre che Sarcey, altri
contemporanei, come la causa principale del mutamen-
to di stile nel teatro50; si tratta però solo dello sviluppo
piú recente, e non certo il piú importante, di un processo
che risale alla Rivoluzione francese.
In Francia, la svolta decisiva nel teatro moderno si
compie con Scribe, che non solo è il primo che sappia
portare sulla scena l’ideologia della borghesia della
Restaurazione, asservita al denaro, ma con la sua com-
media d’intreccio crea lo strumento piú adatto a favo-
rire l’affermazione di tale ideologia. Dumas e Augier
rappresentano soltanto una forma piú evoluta del suo
bon sens ed hanno per la borghesia del 1850 lo stesso
significato che Scribe aveva avuto per la Restaurazione
e la monarchia di luglio. Quello ch’essi proclamano è lo
stesso razionalismo piatto e utilitario, lo stesso ottimi-
smo e materialismo superficiale; ma Scribe era piú one-
sto di loro e senza falsi pudori, senza sentimentalismi,
parlava di denaro, di carriera, di matrimoni, di conve-
nienza, mentr’essi parlano d’ideali, di doveri, di eterno
amore. La borghesia che all’epoca di Scribe era una clas-
se in ascesa e ancora in lotta, ora è ormai giunta alla
meta e, già minacciata dal basso, crede di dover amman-
tare d’idealismo le sue mire materialistiche, rivelando
cosí un timore, che non prova mai chi lotta ancora per
il suo posto nella società.
Per un’idealizzazione della borghesia non si poteva
trovare piedistallo piú adatto dell’istituzione del matri-
monio e della famiglia. Si poteva rappresentarla in
buona fede tra le forme sociali che esprimono i piú puri,

Storia dell’arte Einaudi 174


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

altruistici e nobili sentimenti; e certamente, sciolti gli


antichi vincoli feudali, era l’unica istituzione che potes-
se assicurare stabilità e durata alla proprietà. Comunque,
l’idea della famiglia come scudo della società borghese,
contro le pericolose intrusioni dall’esterno e gli elemen-
ti disgregatori interni, divenne fondamento spirituale
del dramma. E tanto piú si prestava, in quanto la si pote-
va collegare direttamente con il tema amoroso, cosa pos-
sibile con la nuova idea che veniva affermandosi dell’a-
more, che perdeva cosí molti dei suoi elementi roman-
tici. Non doveva essere piú la grande passione selvaggia,
né si doveva accettarlo od esaltarlo come tale. I roman-
tici si erano sempre mostrati comprensivi e indulgenti
verso l’amore sfrenato, ribelle, irresistibile: la sua giu-
stificazione stava nella sua stessa intensità. Per il dram-
ma borghese invece il senso e la dignità dell’amore sta
nella sua durata, nel suo mantenersi nella quotidianità
del matrimonio. Questo mutamento noi lo seguiamo di
passo in passo dalla Marion Delorme di Victor Hugo alla
Dame aux camélias e al Demi-Monde di Dumas. Già nella
Dame aux camélias l’amore dell’eroe per la ragazza cadu-
ta è inconciliabile con i principî morali di una famiglia
borghese, ma l’autore, almeno sentimentalmente, se
pure non razionalmente, parteggia ancora per la vittima;
nel Demi-Monde invece l’autore è ormai del tutto avver-
so alla donna di dubbia fama, che dev’essere allontana-
ta dall’organismo sociale come un focolaio d’infezione.
Essa infatti rappresenta per la famiglia borghese un peri-
colo ancora maggiore di una ragazza povera, ma onesta,
che infine può diventare una buona madre, una fedele
compagna e una fida custode del patrimonio. Se dunque
si è sedotta una ragazza del genere, la si deve anche spo-
sare, e non solo per riparare l’errore, ma anche per met-
tere ordine e – come Zola riassume la morale di Augier
nei Fourchambault – per non finire con una bancarotta.
Ma quando si è messo al mondo un figlio illegittimo –

Storia dell’arte Einaudi 175


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cosa riprovevole – si deve legittimarlo, come Dumas


sostiene nel Fils naturel e in Monsieur Alphonse, soprat-
tutto per non accrescere il numero di quegli spostati che
sono un pericolo costante per la società borghese. Anche
l’adulterio viene giudicato semplicemente in quanto
minaccia all’istituto familiare. In certi casi lo si può per-
donare all’uomo, non mai alla donna. Del resto, una
donna di dubbia moralità difficilmente arriva a rompe-
re il legame familiare (Francillon). In breve, è permesso
tutto quanto è conciliabile con l’idea della famiglia, vie-
tato tutto quanto vi contraddice. Ecco le norme e gli
ideali, propugnati in tono apologetico dai drammi di
Augier e Dumas, e il loro successo sta a provare che gli
autori leggevano nell’animo del pubblico.
Lo scarso valore di quei drammi – perché valgono
poco davvero – non si deve tuttavia al fatto ch’essi ser-
vono una tendenza e sono «lavori a tesi» – tali erano
anche le commedie di Aristofane e le tragedie di Cor-
neille – ma al fatto che la tesi è imposta dall’esterno e
in nessun personaggio riesce veramente a incarnarsi. Il
legame inorganico fra tesi e rappresentazione vi si rive-
la specialmente nella figura stereotipa del raisonneur. Il
semplice fatto che si abbia una figura che non ha altra
funzione se non di portavoce dell’autore mostra che la
teoria non esce dall’astratto e che l’ideologia di fondo
non riesce a fare tutt’uno con la creazione artistica. In
pratica, gli autori si fanno le loro idee, o piuttosto accet-
tano quelle della classe dominante, sul costume e il mal-
costume del tempo, e in piú, indipendentemente da que-
ste idee, hanno un certo talento per lo spettacolo, una
certa capacità di suscitare interesse e tensione con i
mezzi teatrali. Essi combinano questi dati e utilizzano
il loro talento scenico per diffondere le opinioni e le teo-
rie che vogliono divulgare. Ma lo fanno in modo tanto
diretto e grossolano, che indirettamente contribuiscono
a giustificare il principio de l’art pour l’art. Infatti nel-

Storia dell’arte Einaudi 176


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’arte la propaganda è specialmente fastidiosa quando


non arriva a fondersi interamente con le forme concre-
te della rappresentazione e l’idea da diffondere non
coincide a pieno con la visione dell’artista.
A differenza del romanticismo, il Secondo Impero è
un’epoca di razionalismo, di riflessione e di analisi51.
Dovunque sono in primo piano i problemi tecnici e la
comprensione critica domina in ogni genere artistico.
Nel romanzo Flaubert, Zola e i fratelli Goncourt, nella
lirica Baudelaire e i Parnassiani, nel dramma i maestri
della pièce bien faite sono gli esponenti di questo spirito
critico. I problemi formali, che nelle altre forme lette-
rarie in genere riescono appena a far da contrappeso alle
tendenze sentimentali, dominano invece incondiziona-
tamente il teatro. E non è solo per le circostanze este-
riori della rappresentazione, gli stretti limiti di spazio e
di tempo, il carattere di massa del pubblico e la natura
immediata delle sue reazioni, che il drammaturgo è por-
tato a preoccuparsi dei problemi di struttura e di eco-
nomia artistica; già in partenza il fine didattico e pro-
pagandistico gli impone una trattazione formalmente
chiara, efficiente, diretta allo scopo. Autori e critici
diventano sempre piú consapevoli che il teatro è in sé
tutt’altro dalla letteratura, che la scena si regge secon-
do una logica e leggi proprie e nel dramma la poesia spes-
so addirittura contrasta con l’effetto scenico. Quando
Sarcey parla di prospettiva teatrale (optique de théâtre)
e d’istinto teatrale (génie de théâtre) o quando dice sem-
plicemente: c’est du théâtre, si riferisce alle convenienze
sceniche, astraendo da ogni considerazione letteraria, ad
un uso energico dei mezzi teatrali, alla preoccupazione
di conquistare – e ad ogni costo – il pubblico; si tratta
insomma, di una posizione che trasforma la scena in tri-
buna. Già Voltaire sapeva che in teatro era piú impor-
tante de frapper fort que de frapper juste, ma solo i tecni-
ci e i teorici della pièce bien faite arrivano a stabilire le

Storia dell’arte Einaudi 177


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

regole di questo colpir forte e dar nel segno. La loro


maggiore scoperta è di aver riconosciuto che l’efficacia
scenica, anzi la semplice possibilità di condurre una rap-
presentazione, riposa su una serie di convenzioni, rego-
le di gioco, tricheries (trucchi), come Sarcey le chiama, e
che il tacito accordo fra autore e pubblico è nel dram-
ma ancora piú decisivo che negli altri generi. Fra le con-
venzioni teatrali c’è anzitutto la disposizione del pub-
blico a lasciarsi sorprendere dalle vicende, il suo conscio
autoinganno, la sua docilità nel consentire al gioco senza
opporre resistenza. Altrimenti, non solo ci annoierem-
mo assistendo due volte a un dramma che si regga su
espedienti puramente teatrali, ma non potremmo pren-
derci gusto neppure la prima volta. Infatti in un lavoro
di questo genere tutto deve sorprendere, benché tutto
sia prevedibile. Qui le scènes à faire (le scene principali)
sono gli inevitabili chiarimenti a cui, come Sarcey fa
notare, il pubblico sa benissimo che si deve arrivare e si
arriverà52 e il dénouement è la soluzione attesa e deside-
rata dallo spettatore53. Cosí il teatro diventa un gioco di
società che è, sì, eseguito con tutte le regole e l’abilità
piú consumata, ma tuttavia ha in sé qualcosa di ingenuo
e di primitivo. Le difficoltà non derivano tanto dalla
varietà del materiale, quanto dalla complicazione delle
regole del gioco. Queste debbono anzitutto ricompen-
sare gli spettatori piú esigenti del contenuto povero e
trito. Il preciso funzionamento della macchina teatrale
deve, insomma, dissimulare il suo girare a vuoto. Il pub-
blico, anche il migliore, vuole un divertimento leggero,
senza sforzo; non devono esserci quindi oscurità, né
problemi insolubili, né profondità insondabili. Per que-
sto si accentua tanto il rigore della struttura, la logica
delle connessioni. Il dramma deve svolgersi come un’o-
perazione matematica; l’intima necessità dev’essere
sostituita da una necessità esteriore, come l’illusoria
argomentazione sostituisce l’intima verità della tesi.

Storia dell’arte Einaudi 178


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Il dénouement è la soluzione del problema. Se il risul-


tato è sbagliato, lo è tutta l’operazione, dice Dumas.
Perciò, egli pensa, si deve cominciare un lavoro dalla
fine, dalla soluzione, dalla chiusa. Nulla meglio di que-
st’andatura da gambero illumina la differenza fra il cal-
colo ingegnoso, con cui si costruisce una pièce bien faite
e gli impulsi irrazionali da cui si lascia trascinare il poeta.
Il drammaturgo fa un passo innanzi e due indietro; deve
confrontare e accordare ogni idea, ogni motivo, ogni
mossa nuova con i motivi e le mosse prestabilite. Scri-
vere drammi obbliga di continuo ad anticipare i fatti e
rifarsi ai precedenti, a ordinare e riordinare, a procede-
re a tastoni, elevando a poco a poco l’edificio, saggian-
done di continuo la resistenza, consolidando e rincal-
zando i singoli piani. Un razionalismo di questo genere
caratterizza piú o meno ogni prodotto artistico passabi-
le e, in modo particolare, ogni opera drammatica rap-
presentabile – le opere di Shakespeare nate effettiva-
mente per il palcoscenico, come i lavori di Augier e
Dumas – ma l’efficacia della pièce bien faite sta sempli-
cemente nella successione degli effetti e delle risorse,
mentre in un dramma shakespeariano l’efficacia risulta
da infinite componenti, fuor d’ogni rapporto matema-
tico. Si sa che Emerson amava leggere Shakespeare
invertendo l’ordine delle scene, rinunziando deliberata-
mente all’effetto teatrale per concentrarsi tutto sulla
sostanza poetica. Una vera pièce bien faite letta in que-
sto modo diventerebbe non solo intollerabile, ma anche
incomprensibile, poiché i singoli elementi non hanno
valore in sé, ma solo in relazione agli altri. Nel loro svi-
luppo, come in una partita a scacchi, tutto mira alla
mossa finale; e come vi si possa giungere meccanica-
mente, lo mostra benissimo il metodo con cui Sardou ha
fatto propria la tecnica di Scribe. Egli racconta che si
limitava a leggere il primo atto dei lavori del maestro e
tentava di dedurre il «giusto» seguito dalle premesse

Storia dell’arte Einaudi 179


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

cosí acquisite. Col tempo, grazie a questo «puro eserci-


zio logico», com’egli stesso lo chiama, arrivò a prevedere
con approssimazione sempre maggiore la soluzione adot-
tata da Scribe nel secondo e nel terzo atto dei suoi lavo-
ri; e nello stesso tempo giunse alla convinzione, condi-
visa dal Dumas, che tutta la vicenda risulti con una
certa necessità dalla situazione iniziale. Per Dumas
inventare una situazione drammatica ed escogitare un
conflitto non era arte; piuttosto lo era preparare bene
la scena madre e sciogliere agevolmente i nodi. La trama
che al primo sguardo pare il dato piú spontaneo, indi-
scutibile e immediato del dramma, si rivela cosí l’ingre-
diente piú artificiale e ottenuto piú laboriosamente.
Essa non è affatto pura materia prima o puro prodotto
di fantasia, ma è una serie di mosse strategiche che non
lasciano campo all’invenzione spontanea, né al sovrano
arbitrio del poeta.
A seconda delle opinioni, si può considerare l’arma-
tura di un’opera ben costrutta come la scala per giungere
a vertiginose altezze, o semplicemente come uno sche-
ma meccanico e professionale che non ha nulla in comu-
ne con l’arte e l’umanità vera. Si può entusiasticamen-
te celebrare con Walter Pater l’ingegno dell’artista che
«nel principio prevede la fine e mai la perde di vista, in
ogni sua parte considera l’opera intera e fino all’ultima
frase, con immutato vigore, sviluppa e giustifica la
prima»; ma si può anche, come Bernard Shaw, temere
che la tirannia di una tal logica risulti fatale al dram-
maturgo, poiché «è quasi impossibile per chi ne è schia-
vo dare ai suoi drammi un ultimo atto tollerabile, tanto
convenzionale è il modo per cui dalle premesse discen-
dono le conclusioni». Ma per credere che Shaw disprez-
zi e rifiuti davvero gli ingegnosi trucchi e artifici di que-
sta tecnica, si dovrebbe dimenticare ch’egli è l’autore di
lavori come L’alunno del diavolo e Candida che, osser-
vati da presso, si rivelano vere e proprie pièces bien fai-

Storia dell’arte Einaudi 180


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tes. Tuttavia non solo Shaw, ma anche Ibsen e Strind-


berg, e con loro tutto il dramma moderno che vera-
mente si presti alla rappresentazione, discendono piú o
meno direttamente da quel modello francese. L’arte di
costruire l’intreccio e provocare la tensione, di stringe-
re il nodo dell’azione e differirne lo scioglimento, di pre-
parare le svolte del dramma, pur non facendo mancare
la sorpresa, le regole dell’esatta distribuzione e tempe-
stività dei «colpi di scena», la casistica delle grandi tira-
te e delle chiuse incisive di ogni atto, la sapienza nello
scegliere il momento opportuno per far calare il sipario,
e mantenere incerto fino all’ultimo istante lo sciogli-
mento: tutto questo essi lo hanno imparato da Scribe,
Dumas, Augier, Labiche e Sardou. Con ciò non si vuol
dire che la moderna tecnica teatrale sia creazione esclu-
siva di quei drammaturghi. Anzi, è possibile risalire ben
oltre il melodramma e il vaudeville del periodo postri-
voluzionario, oltre il dramma borghese e la commedia
settecentesca, oltre la commedia dell’arte e Molière,
fino addirittura alla commedia romana e alla farsa
medievale. Resta tuttavia che il contributo dei maestri
della pièce bien faite a questa tradizione è grandissimo.
Il prodotto artistico piú originale – e per molti aspet-
ti il piú espressivo – del Secondo Impero è l’operetta54.
Neppur essa veramente è un’assoluta novità – cosa
impensabile, del resto, ad uno stadio cosí avanzato della
storia teatrale – ma continua due generi piú antichi, l’o-
pera buffa e il vaudeville. In quest’epoca priva di grazia
e di umorismo essa porta un riflesso dello spirito sette-
centesco, leggero, gaio, antiromantico. È l’unica forma
giocosa di questi anni, danzante, agile e leggiadra. Fra il
conformismo delle tendenze che si adattano al prosaico
gusto borghese e l’anticonformismo dei naturalisti, essa
costituisce un mondo a sé, un limbo. È molto piú attraen-
te del dramma borghese o del romanzo in voga, piú
socialmente rappresentativa del naturalismo e, come tale,

Storia dell’arte Einaudi 181


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

e il solo genere che dia luogo ad opere popolari, adatte


al gran pubblico e non prive di valore artistico.
Il carattere piú saliente dell’operetta – e il piú sin-
golare dal punto di vista del naturalismo – è l’assoluta
inverosimiglianza, il carattere irreale, fantastico, fiabe-
sco delle sue scene fuggevoli e vorticose. Essa è per
l’Ottocento quel che per i secoli precedenti era stato il
dramma pastorale. Il suo contenuto artificioso, gli
intrecci e gli scioglimenti convenzionali sono un gioco,
privo ormai di ogni rapporto con la realtà. Al tono falso
dell’invenzione s’accompagna il meccanismo marionet-
tistico dei personaggi e l’esecuzione apparentemente
improvvisata. Già Sarcey nota la somiglianza fra ope-
retta e commedia dell’arte55 e sottolinea l’impressione
d’irrealtà, di sogno, che gli viene dalle composizioni di
Offenbach; ma con ciò egli vuol dire soltanto che esse
hanno di caratteristico una vena stranamente fantasti-
ca. Solo un moderno ammiratore di Offenbach, il vien-
nese Karl Kraus, ha tentato di interpretare in un senso
piú profondo questo loro carattere, sottolineando che
nell’operetta di Offenbach la vita è inverosimile e assur-
da, grottesca e inquietante com’è appunto in realtà, se
guardata da una certa distanza56. Naturalmente Sarcey
era lontanissimo da una simile interpretazione, che forse
sarebbe stata inconcepibile, prima che l’espressionismo
e il surrealismo facessero risaltare l’aspetto irreale e allu-
cinante della vita. Soltanto un occhio affinato attraver-
so queste esperienze artistiche era in grado di constata-
re che l’operetta non era unicamente un’immagine della
frivola e cinica società del Secondo Impero, ma anche
un’autoderisione; ch’essa esprimeva non soltanto la
realtà, ma anche l’irrealtà di quel mondo; che, insomma,
era nata dall’aspetto operettistico della vita stessa57, se
si può dir cosí di un tempo come quello, tanto serio,
posato e critico. I contadini all’aratro, gli operai nelle
fabbriche, i commercianti in ufficio, i pittori a Barbizon,

Storia dell’arte Einaudi 182


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Flaubert a Croisset, erano quel che erano; ma la classe


dirigente, la corte alle Tuileries, il mondo dei banchie-
ri crapuloni, degli aristocratici dissipati, dei giornalisti
risaliti e delle raffinate cocottes aveva in sé qualcosa
d’inverosimile, di spettrale e caduco: era un paese da
operetta, un palcoscenico dove le quinte minacciavano
di crollare ogni momento.
L’operetta era il prodotto di un generale laissez faire,
laissez aller, cioè del liberalismo economico, sociale,
morale: un mondo in cui ciascuno poteva far quel che
voleva, fuor che discutere il sistema. Questa condizio-
ne significava ampia indulgenza e, d’altro canto il piú
stretto rigore. Lo stesso governo che citava in giudizio
Flaubert e Baudelaire, tollerava in Offenbach la piú
sfrontata satira sociale, la piú insolente canzonatura del
regime autoritario, della corte, dell’esercito, della buro-
crazia. Ma si sopportavano le beffe soltanto perché non
erano o non parevano pericolose, perché le accoglieva un
pubblico la cui fedeltà era indubbia, e che bastava la val-
vola di sicurezza di quell’innocua canzonatura ad appa-
gare. Solo a noi quello spasso appare spettrale; i con-
temporanei erano sordi alla vibrazione sinistra che noi
cogliamo nel folle ritmo del galoppo e del cancan di
Offenbach. Ma il divertimento non era del tutto inno-
cuo, perché vi si cercava l’ebbrezza da cui si voleva
esser trascinati. L’operetta corrompeva la gente, non
perché dileggiasse ogni cosa «rispettabile», non perché
la derisione dell’antichità, della tragedia classica, del-
l’opera romantica celasse una sua critica sociale, ma per-
ché scoteva la fiducia nelle autorità, senza negarne le
basi. L’immoralismo dell’operetta consisteva nella fri-
vola tolleranza con cui essa esercitava la sua critica verso
la corruzione del sistema politico e della società con-
temporanea, nell’apparenza innocente ch’essa dava alla
futilità delle piccole prostitute, dei galanti scapestrati e
degli amabili vecchi gaudenti. La sua critica fiacca ed

Storia dell’arte Einaudi 183


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

esitante non faceva che incoraggiare la corruzione. D’al-


tronde da artisti che godevano di uno straordinario suc-
cesso, e che il successo amavano sopra ogni cosa, un suc-
cesso legato al perdurare di quella società indolente e
avida di piaceri, non ci si poteva attendere che questo
ambiguo atteggiamento. Offenbach era un ebreo tede-
sco, un esule, un musicista nomade, un artista doppia-
mente minacciato nella sua esistenza; nella capitale fran-
cese, in quel mondo corrotto e pur tanto seducente, egli
doveva sentirsi doppiamente straniero, spostato, spet-
tatore indifferente. Piú della maggior parte dei suoi col-
leghi egli doveva sentire la posizione problematica del-
l’artista nella società moderna, la contraddizione tra le
sue ambizioni e il suo risentimento, il suo orgoglio di
accattone che pur s’affanna a conquistare il favore del
pubblico. Non era un ribelle, e neppure un democrati-
co, anzi ben volentieri accettava il governo della «mano
forte» e con animo tranquillissimo godeva i vantaggi,
che il sistema politico del Secondo Impero gli offriva;
ma considerava tutto quell’agitarsi intorno a lui con lo
sguardo distaccato, acuto, freddo di un escluso e, senza
volerlo, affrettava il declino della società a cui doveva
l’esistenza.
L’operetta significa in fondo l’ingresso del giornali-
smo nella musica. Dopo il romanzo, il dramma e l’arte
grafica, ora anche il teatro musicale commenta i fatti del
giorno. Ma qui il giornalismo non si limita alle strofet-
te e alle battute comiche su fatti di attualità; tutto il
genere è come una rubrica permanente degli scandali
mondani. Con ragione Heine è stato chiamato il pre-
cursore di Offenbach. L’origine, il temperamento, la
posizione sociale dei due sono su per giú gli stessi;
entrambi sono giornalisti nati, nature critiche e positi-
ve, che non vogliono vivere ai margini della società, ma
in essa, con essa, benché, certo, non sempre d’accordo
con i suoi fini e i suoi mezzi.

Storia dell’arte Einaudi 184


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Nella Parigi cosmopolita della monarchia di luglio e


del Secondo Impero, Heine aveva le stesse probabilità
di successo di Meyerbeer e di Offenbach; ma per espri-
mersi non disponeva di un linguaggio universale come i
suoi piú fortunati compatrioti. La sua fama rimase limi-
tata a una cerchia relativamente angusta, mentre Meyer-
beer e Offenbach conquistarono Parigi e con essa tutto
il mondo civile. Non solo essi crearono due fra i generi
piú caratteristici dell’arte francese, ma con piú fedeltà
e larghezza dei colleghi francesi seppero essere interpreti
del gusto parigino del tempo. Anzi, Offenbach può con-
siderarsi come un vero e proprio compendio del suo
tempo; l’opera sua contiene molti di quelli che sono i
suoi tratti piú peculiari e originali. Già ai contempora-
nei parve cosí rappresentativo, ch’essi lo identificarono
con lo spirito di Parigi e videro nella sua arte il perpe-
tuarsi della tradizione classica francese. In Offenbach
tutto l’Occidente sentí la gioia e il rigoglio della vita58.
La granduchessa di Gerolstein si rivelò la piú grande e
duratura attrattiva dell’esposizione universale del 1867;
i numerosi sovrani e principi in visita a Parigi furono
entusiasti dello spettacolo e dell’irresistibile Hortense
Schneider nella parte della protagonista, non meno dei
roués [gli smaliziati] della capitale e dei borghesucci di
provincia. Lo zar di Russia, tre ore dopo il suo arrivo,
era già in un palco delle Variétés; e Bismarck, benché
apparentemente sapesse dominare meglio la sua impa-
zienza, era estasiato quanto le teste coronate. Rossini
chiamava Offenbach il «Mozart dei Champs Élysées» e
Wagner confermò quel giudizio, ma solo dopo la morte
dell’invidiato rivale.
L’operetta fiorí per tutto il periodo fra le due espo-
sizioni universali del 1855 e del 1867. Dopo le traver-
sie politiche sulla fine del sesto decennio le venne meno
il pubblico adatto, un pubblico spensierato o che si cul-
lava nell’illusione di una spensierata sicurezza. I tempi

Storia dell’arte Einaudi 185


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

migliori dell’operetta finirono in una con il Secondo


Impero; le generazioni successive l’amarono, non piú
come espressione viva, spontanea, immediata del pre-
sente, ma perché richiamava, come nessun’altra forma
d’arte, «i bei tempi andati». Grazie a questa associa-
zione d’idee, l’operetta sopravvisse ai rivolgimenti sullo
scorcio del secolo, e in una città intellettualmente cosí
volubile come Vienna rimase fino alla seconda guerra
mondiale la forma piú diffusa d’idealizzazione senti-
mentale del passato. Ci vollero le esperienze degli ulti-
mi vent’anni perché ci si decidesse a rivedere il concet-
to dei «bei tempi andati», che una parte d’Europa asso-
ciava con Napoleone III e Offenbach, l’altra con l’im-
peratore Francesco Giuseppe e Johann Strauss. La lotta
di classe, che fra il 1848 e il 1870 era stata dovunque
repressa, tornò a divampare dopo il ’70, minacciando il
potere di quella borghesia che piú di tutti aveva tratto
profitto dalla reazione. E l’operetta apparve come l’im-
magine di un’esistenza sicura, tranquilla, felice: un idil-
lio che nella realtà non era mai esistito.
Ebbero ragione i Goncourt con la loro profezia che
il circo, il varietà e la rivista avrebbero soppiantato il
teatro. Il film, che si può annoverare fra questi tipi per
le sue qualità spettacolari, ne è un’ulteriore conferma.
Vicinissima al varietà e alla rivista, l’operetta non è tut-
tavia la forma piú antica in cui lo spettacolo trionfi sul
dramma. La vera svolta era avvenuta prima, con l’af-
fermarsi del grand-opéra, durante la monarchia di luglio,
benché l’elemento spettacolare fosse sempre stato parte
integrante del teatro e avesse sempre finito per preva-
lere sull’elemento drammatico e lirico. Cosí era avve-
nuto anzitutto nel teatro barocco, dove la solennità della
rappresentazione, gli scenari, i costumi, le danze e le sfi-
late spesso soverchiavano tutto il resto. La cultura bor-
ghese della monarchia di luglio e del Secondo Impero,
una cultura da villan rifatti, nel teatro cercava il monu-

Storia dell’arte Einaudi 186


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

mentale, l’imponente, e della grandezza tanto piú esa-


gerava l’apparenza quanto piú gliene mancava l’intimo
senso. Sappiamo che due diversi impulsi spingono la
società alla cerimonia, alla forma grandiosa e pretenzio-
sa: il bisogno di magnificenza come sua naturale forma
di vita, e la smania del colossale come ipercompensa-
zione di un difetto sentito piú o meno dolorosamente.
Il Barocco secentesco rifletteva la grandiosità connatu-
rata alla corte e all’aristocrazia dell’era assolutistica; lo
pseudo-barocco ottocentesco riflette l’ambizione che la
borghesia giunta al potere ha di una grandiosità del
genere. L’opera fu il suo genere preferito, perché meglio
di ogni altro si prestava all’ostentazione, alla parata,
allo sfarzo, all’accumulo e all’esagerazione degli effetti.
Il tipo attuato da Meyerbeer includeva tutte le attratti-
ve spettacolari creando un insieme eterogeneo di musi-
ca, canto e danza, fatto per l’occhio come per l’orecchio,
e in cui tutti gli elementi miravano ad abbagliare e sba-
lordire lo spettatore. L’opera di Meyerbeer era un gran-
de programma di varietà, la cui unità stava piú nel ritmo
del dinamismo scenico, che nell’assoluta prevalenza della
musica59. Era uno spettacolo destinato a un pubblico che
non aveva nessuna intima disposizione alla musica.
L’idea dell’«opera d’arte totale» si affermò qui molto
tempo prima di Wagner, ed espresse un’esigenza prima
ancora che si pensasse a una sua formulazione pro-
grammatica. Wagner cercò di giustificare la complessa
natura dell’opera attraverso l’analogia con la tragedia
greca, che in realtà non era che un oratorio; ma il desi-
derio di una tal giustificazione nasceva dalla barocca
molteplicità del genere, che dopo Meyerbeer minaccia-
va di diventare sempre piú «informe e privo di stile».
Il grand-opéra, cui sono ancora legati i Maestri cantori e
l’Aida, e che rappresenta una convenzione anche piú
rigida dell’antica opera italiana60, poté affermarsi perché
la cultura della borghesia francese era esemplare per

Storia dell’arte Einaudi 187


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tutto il continente e dappertutto rispondeva a schiette


esigenze radicate nella realtà sociale. Nulla vi si ade-
guava meglio dell’arte di Meyerbeer, che organizzava
tutti i mezzi a sua disposizione – l’orchestra gigantesca,
l’immenso palcoscenico, il grande coro – in un insieme
che voleva soltanto imporsi, sopraffare e soggiogare. A
ciò mirava anzitutto il grande finale, che spesso riuscí a
trovare nuovi effetti visivi e musicali, che non avevano
nulla di comune con la profonda umanità del finale
mozartiano, né con la danzante grazia di quello rossi-
niano. Quel che noi chiamiamo di solito «operistico» –
la monumentalità scenografica, l’enfasi vacua, il tonan-
te eroismo, il falso pathos, il linguaggio artificioso – non
è tuttavia creazione di Meyerbeer, né appartiene unica-
mente a questo genere di spettacolo. Persino un artista
di gusto così castigato come Flaubert non è del tutto
esente da teatralità. Essa fa parte dell’eredità romanti-
ca di quella generazione, e al suo sviluppo Victor Hugo
contribuí non meno di Meyerbeer.
Fra tutti i grandi musicisti del tempo Riccardo
Wagner è quello piú vicino allo stile operistico di
Meyerbeer: e non solo perché cerca di legarsi alla vita
teatrale del tempo, ma anche perché nessuno piú di lui
tiene al successo. Egli accetta la convenzione domi-
nante senza intima opposizione e, come è stato giusta-
mente osservato, solo a poco a poco trova una sua ori-
ginalità, percorre cioè uno sviluppo contrario a quello
solito che in genere parte da un’esperienza individua-
le, da una scoperta personale e finisce in maniera61. Ma
assai piú sorprendente dei suoi rapporti con il grand-
opéra, è in Wagner la fedeltà a una forma che unisce l’e-
spressione dei sentimenti piú intimi, fervidi ed elevati,
con il fasto del Secondo Impero. Infatti non solo il
Rienzi e il Tannhaüser sono opere ancora pienamente
coreografiche in cui predomina l’apparato scenico, ma
anche i Maestri cantori e il Parsifal sono in certa misura

Storia dell’arte Einaudi 188


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

spettacoli musicali che vogliono impegnare tutti i sensi


e superare tutte le aspettative. L’amore della grandio-
sità e della massa è forte in Wagner quanto in Meyer-
beer e in Zola; e, come Victor Hugo e Dumas, egli è
nato per il teatro, è un «istrione», un «mimomane»,
come disse Nietzsche62. Ma questa sua teatralità non
viene dalle sue opere, anzi queste non sono che espres-
sione del suo indiscriminato gusto teatrale e della sua
natura sonora, tutta ostentazione. Come Meyerbeer,
Napoleone III, la Païva o Zola, anch’egli ama l’ecces-
sivo, il prezioso, il voluttuoso; e le sue opere ricordano
i salotti di allora, pieni di tappeti e di portiere, di mobi-
li rivestiti di seta, velluto, broccato d’oro, anche quan-
do non si sappia ch’egli voleva gli scenari dipinti da
Makart63. La sua smania di magnificenza ed esuberan-
za ha origini complicate; ci sono elementi che risalgo-
no non soltanto a Makart, ma anche a Delacroix. Fra
la Morte di Sardanapalo e il Crepuscolo degli Dei corro-
no stretti rapporti come tra il fasto del grand-opéra pari-
gino e i festival di Bayreuth. Ma neppure questo esau-
risce l’argomento; non solo il sensualismo di Wagner è
piú elementare dell’avidità di fasto, ma anche piú genui-
no e spontaneo di tutto il misticismo di quel tempo,
espresso dalla formula: «il sangue, la voluttà e la
morte». Non per nulla l’opera sua apparve per molti dei
piú raffinati spiriti del secolo la quintessenza dell’arte,
il paradigma da cui essi traevano il senso e il principio
della musica. Certo essa fu l’ultima e forse la maggior
manifestazione del romanticismo, l’unica sua forma tut-
tora viva, l’unica che ne riveli pienamente l’effetto ine-
briante sui contemporanei, che vi ravvisarono il rifiu-
to di ogni convenzione e la scoperta di un misterioso
mondo sepolto. È comprensibile, benché sulle prime
sorprendente e in definitiva spiegabile solo col genera-
le clima del tempo, che Baudelaire, che per natura era
alieno dalla musica, ma è il solo fra i contemporanei di

Storia dell’arte Einaudi 189


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Wagner che sappia comunicarci quello stesso senso di


felicità che sgorga dalla musica del Tristano, sia anche
stato il primo a riconoscere l’importanza dell’arte
wagneriana. Wagner ha in comune con Baudelaire, oltre
alla grande eccitabilità nervosa, la passione per l’ipno-
si e per i mezzi ipnotizzanti, i sentimenti quasi religio-
si e il romantico desiderio di redenzione. E a Flaubert,
oltre il debole per i colori ardenti e le forme esuberan-
ti, lo unisce il geniale dilettantismo e l’atteggiamento
riflesso verso l’opera propria. Anche l’ingegno di
Wagner, come quello di Flaubert, manca di sponta-
neità e di naturalezza, ed alle sue opere egli arriva attra-
verso una lotta quasi altrettanto violenta e disperata e
con un’uguale diffidenza verso l’arte. A ventott’anni
nessuno fra i grandi maestri era cosí cattivo musicista
come lui, osserva Nietzsche, e nessun grande artista,
eccettuato Flaubert, dubitò cosí a lungo del proprio
talento. Per entrambi l’arte fu il martirio di tutta l’esi-
stenza, entrambi sentivano ch’essa li separava dalla
vita, e consideravano invalicabile l’abisso tra arte e
realtà, tra l’avoir e il dire. Appartenevano alla stessa
generazione di quei tardi romantici che lottavano inces-
santemente e disperatamente contro il proprio egoismo
di esteti.

1
Cfr. il discorso di Tocqueville all’Assemblea nazionale citato da
paul louis, Histoire du socialisme en France, 3a ed., 1936, II, p. 191.
2
Ibid., pp. 200-1.
3 Ibid., p. 197.
4
pierre martino, Le Roman réaliste sous le Second Empire, 1913,
p. 85.
5
a. thibaudet, Histoire de la littérature française de 1789 à nos
jours, 1936, p. 361.
6
émile bouvier, La Bataille réaliste, 1913, p. 237.
7
jules coulin, Die sozialistische Weltanschauung in der französischen
Malerei, 1909, p. 61.

Storia dell’arte Einaudi 190


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

8
é. zola, La République et la littérature, 1879.
9
oliver larkin, Courbet and his Contemporaries, in «Science and
Society», III, 1939, I, p. 44.
10
é. bouvier, La Bataille réaliste cit., p. 248.
11
Cfr. léon rosenthal, La Peinture romantique, 1903, pp. 267-268.
- henri focillon, La Peinture aux xixe et xxe siècles, 1928, pp. 74-101.
12
h. j. hunt, Le Socialisme et le romantisme en France, 1935, pp.
342-44.
13
Cfr. la lettera a Victor Hugo del 15 luglio 1853, in Correspon-
dance, ed. Conard, III, 1910, p. 6.
14
Ibid., II, pp. 116-17, 366.
15
Ibid., III, pp. 120, 390.
16
e. e j. de goncourt, Journal, 29 gennaio 1863, ed. Flammarion-
Fasquelle, II, p. 67.
17
gustave flaubert, Correspondance, III, pp. 485, 490, 508. - L’É-
ducation sentimentale, II, 3 [trad. it., L’educazione sentimentale, Tori-
no 1949]. - ernest seillière, Le Romantisme des réalistes: Gustave
Flaubert, 1914, p. 257. - eugen haas, Flaubert und die Politik, 1931,
p. 30.
18
Lettera a Mlle Leroyer de Chantepie del 18 Maggio 1857, in Cor-
respondance, III, p. 119.
19
eugène gilbert, Le Roman en France pendant le 19e siècle, 1909,
p. 157.
20
Correspondance, III, pp. 157, 448, ecc.
21
«Le Moniteur», 4 Maggio 1857. - Causeries du Lundi, XIII.
22
é. zola, Les Romanciers naturalistes, 1881, 2a ed., pp. 126-29.
23
Correspondance, II, p. 182, III, p. 113.
24
Ibid., II, p. 112.
25
a. thibaudet, Gustave Flaubert, 1922, p. 12.
26
Correspondance, II, p. 155.
27
g. lukäcs, Die Seele und die Formen (Theodor Storm oder die Bür-
gerlichkeit und l’art pour l’art), 1911. - t. mann, Betrachtungen eines
Unpolitischen, 1918, pp. 69-70.
28
georg keferstein, Bürgertum und Bürgerlichkeit bei Goethe, 1933,
pp. 126-22
29
Correspondance, I, p. 238, settembre 1851.
30
Ibid., IV, p. 244, dicembre 1875.
31
Ibid., III, p. 119.
32
é. faguet, Flaubert, 1913, p. 145.
33
Correspondance, II, p. 237.
34
Ibid., III, p. 190.
35
Ibid., p. 446.
36
Ibid., II, p. 70.
37
Ibid., p. 137.

Storia dell’arte Einaudi 191


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

38
Ibid., III, p. 440.
39
Ibid., II, p. 133, 140-41, 336.
40
jules de gaultier, Le Bovarysme, 1902.
41
édouard maynial, Flaubert, 1943, pp. 111-12.
42
paul bourget, Essais de psychologie contemporaine, 1885, p. 144.
43
Correspondance, I p. 289.
44
g. lukàcs, Die Theorie des Romans, 1920, p. 131.
45
é. zola, Le Roman expérimental, 1880, 2e ed., pp. 24, 28.
46
charles-brun, Le Roman social en France au 19e siècle, 1910, p. 158.
47
andré bellessort, La Société française sous le second Empire, in
«La Revue Hebdomadaire», 1932, 12, pp. 290, 292.
48
francisque sarcey, Quarante ans de théâtre, I, 1900, pp. 120,
122.
49
Ibid., pp. 209-12.
50
J.-J. weiss, Le Théâtre et les mœurs, 1889, pp. 121-22. - Cfr. la
prefazione di Renan ai Drames philosophiques, 1888.
51
a. thibaudet, Gustave Flaubert cit., 295 sgg.
52
sarcey, Quarante ans de théâtre cit., V, p. 94.
53
Ibid., p. 286.
54
Cfr. jules lemaitre, Impressions de théâtre, I, 1888, p. 217.
55
sarcey, Quarante ans de théâtre cit., VI, 1901, p. 180.
56
s. kracauer, Jacques Offenbach und das Paris seiner Zeit, 1937,
p. 349.
57
Ibid., p. 270.
58
Cfr. fleury-sonolet, La Société du second Empire, III, 1913,
p. 387
59
paul bekker, Wandlungen der Oper, 1934, p. 86.
60
lionel de la laurencie, Le Gotit musical en France, 1905, p. 292.
- william l. crosten, French Grand Opera, 1948, p. 106.
61
a. einstein, Music in the Romantic Era cit., p. 231.
62
friedrich nietzsche, Der Fall Wagner, 1888. Nietzsche contra
Wagner, 1888.
63
Cfr. t. mann, Betracktungen eines Unpolitischen, 1918, p. 75. -
Leiden und Größe der Meister, 1935, pp. 145 sgg.

Storia dell’arte Einaudi 192


Capitolo terzo

Il romanzo sociale in Inghilterra e in Russia

La rivoluzione industriale ebbe in Inghilterra i suoi


inizi e in Inghilterra raggiunse gli sviluppi piú fecondi e
suscitò le piú forti e appassionate proteste. Ma le accu-
se non impedirono alle classi dirigenti di opporsi con la
massima energia e con pieno successo alla rivoluzione
sociale. Mentre in Francia una parte degli intellettuali e
dei letterati, dopo le esperienze della Rivoluzione, comin-
ciò ad assumere un atteggiamento antidemocratico, qui,
dopo il fallimento dei tentativi rivoluzionari, l’orienta-
mento degli intellettuali rimase, se non sempre rivolu-
zionario, in complesso radicale. Tuttavia una differenza
fondamentale divise le élites dei due paesi: mentre gli
intellettuali francesi erano e rimasero fortemente razio-
nalisti, comunque fossero orientati rispetto alla rivolu-
zione e alla democrazia, gli inglesi invece, nonostante le
loro tendenze radicali e la loro opposizione all’indu-
strialismo, spesso anzi perché contrari alla società domi-
nante, si orientarono verso un disperato irrazionalismo
rifugiandosi nel nebuloso idealismo dei romantici tede-
schi. Cosa strana, in Inghilterra i capitalisti e i fautori
dell’utilitarismo erano piú profondamente legati alla filo-
sofia illuministica che non i loro avversari che negavano
il principio della libera concorrenza e della divisione del
lavoro. Dal punto di vista della storia delle idee, in ogni
caso, gli idealisti nemici delle macchine erano i reazio-

Storia dell’arte Einaudi 193


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nari, mentre materialisti e capitalisti rappresentavano il


razionalismo e il progresso.
La libertà economica e il liberalismo politico aveva-
no comuni radici storiche; erano entrambi conquiste
dell’illuminismo e logicamente erano inscindibili. Par-
tendo dalla libertà personale e dall’individualismo, si
dovette accettare la libera concorrenza come parte inte-
grante dei diritti dell’uomo. L’emancipazione della bor-
ghesia fu un passo necessario nella liquidazione del feu-
dalesimo e a sua volta postulò l’affrancarsi dell’econo-
mia dai vincoli e dalle restrizioni del Medioevo. La con-
quista della parità dei diritti da parte della borghesia si
spiega soltanto come risultato di un processo in cui le
forme dell’economia precapitalistica furono via via supe-
rate. Solo dopo che l’economia ebbe raggiunto una com-
pleta autonomia e le classi medie si furono liberate dei
rigidi vincoli del sistema feudale, si poté pensare alla
liberazione della società dall’anarchia della libera con-
correnza. Ed era inoltre del tutto vano combattere sin-
gole manifestazioni del capitalismo senza rimettere in
discussione l’intero sistema. Finché l’economia capita-
listica non fu revocata in dubbio, fu possibile soltanto
parlare di attenuazioni filantropiche dei suoi abusi. L’at-
tenersi ai principî razionalistici e liberali era l’unica via
per mettervi riparo; occorreva soltanto allargare il con-
cetto di libertà oltre i limiti borghesi. Invece l’abban-
dono della ratio e dell’idea liberale, per quanto buona e
onesta ne fosse l’intenzione, doveva portare a un incon-
trollabile intuizionismo e a una specie di minorità del-
l’intelletto. Questo pericolo, sempre presente in Carly-
le, minaccia l’idealismo dei piú fra i pensatori vittoria-
ni, e il proverbiale compromesso del tempo, la via di
mezzo fra tradizione e progresso, non è mai cosí palese
come nel ribelle romantico, nostalgicamente volto al
passato. Nessuno dei vittoriani piú noti sfugge del tutto
al compromesso, e l’ambiguità che ne deriva pregiudica

Storia dell’arte Einaudi 194


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’influsso politico anche di un radicale cosí schietto come


Dickens. In Francia gli intellettuali si sentivano costret-
ti a scegliere tra rivoluzione e politica borghese e, se
spesso la scelta era legata anche a un dissidio dei senti-
menti, era tuttavia chiara e definitiva. In Inghilterra
invece anche quella parte dei ceti intellettuali che si
opponeva al capitalismo partiva spesso da una visione
altrettanto conservatrice, o perfino piú arretrata, di
quella della borghesia capitalistica.
I seguaci dell’utilitarismo, che rappresentavano i
principî dell’economia industriale, erano i discepoli di
Adam Smith e i campioni della dottrina secondo cui l’e-
conomia lasciata a se stessa rispondeva meglio d’ogni
altra, non solo allo spirito del liberalismo, ma anche agli
interessi della comunità. Contro di loro si scatenava
l’opposizione degli idealisti che batteva non tanto sulla
insostenibilità della tesi quanto sul loro fatalismo nel
rappresentare gli istinti egoistici come movente fonda-
mentale e invariabile dell’azione, sulla necessità mate-
matica con cui si credeva di poter dedurre le leggi del-
l’economia e della società dall’egoismo umano. La pro-
testa degli idealisti contro questa riduzione dell’uomo
all’homo œconomicus era l’eterna protesta della roman-
tica «filosofia della vita» – la fede cioè nella vita che non
si può risolvere intera nella logica né costringere senza
residui nella teoria – contro il razionalismo e il pensie-
ro che astrae dall’immediata realtà. Fu questo un secon-
do romanticismo, in cui la lotta contro l’ingiustizia socia-
le e l’opposizione alla concretezza della dismal science
[funesta scienza] ebbero parte assai minore della fuga dal
presente – di cui non si potevano e non si volevano risol-
vere i problemi – nell’irrazionalismo dei Burke, dei
Coleridge e dei romantici tedeschi. L’invocazione a un
intervento dello stato, specie in Carlyle, era segno a un
tempo di inclinazioni antiliberali, autoritarie, e di sen-
timenti umanitari, altruistici; e nel suo lamento sull’a-

Storia dell’arte Einaudi 195


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tomizzarsi della società si esprimeva tanto il desiderio


di comunione quanto la nostalgia di un capo diletto e
temuto.
Passato il tempo migliore del romanticismo inglese,
verso il 1815 comincia a diffondersi un razionalismo
antiromantico, che culmina nella riforma elettorale del
1832, nel nuovo Parlamento e nel trionfo della borghe-
sia. Questa, giunta al potere, si fa sempre piú conser-
vatrice e oppone alle aspirazioni democratiche una rea-
zione che ha di nuovo un carattere essenzialmente
romantico. Accanto all’Inghilterra razionalistica si affer-
ma un’Inghilterra sentimentale; e il capitalista indurito,
di mente chiara e fredda, si mette a civettare con idee
filantropiche, umanitarie, riformistiche. La reazione
ideale al liberismo, assume la forma di una questione
intima, di un autosalvataggio morale della borghesia; è
opera cioè di quello stesso ceto che nella pratica rap-
presenta il principio liberistico e nel compromesso vit-
toriano crea quell’elemento che equilibra il materialismo
e l’egoismo.
Gli anni fra il 1832 e il 1848 sono un tempo di acu-
tissima crisi sociale, di torbidi e di lotte cruente tra
capitale e lavoro. Dopo il Reform bill [riforma eletto-
rale] il proletariato inglese ha avuto dalla borghesia lo
stesso trattamento di quello francese dopo il 1830. L’a-
ristocrazia e il popolo sono cosí quasi uniti da un comu-
ne destino contro lo stesso nemico, la borghesia capita-
listica. Veramente è un legame effimero, che non può
condurre mai a una vera comunione d’interessi né a fra-
ternità d’armi, ma basta a velare la realtà agli occhi
d’un pensatore cosí emotivo come Carlyle e a trasfor-
mare la sua lotta contro il capitalismo in un’esaltazione
romantico-reazionaria della storia. Mentre in Francia
l’odio contro la borghesia si esprime in un rigoroso e
sobrio naturalismo, in Inghilterra, dove dal Seicento
non si sono piú avute rivoluzioni e si ignorano le espe-

Storia dell’arte Einaudi 196


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rienze e le delusioni politiche dei francesi, si assiste al


sorgere di un secondo romanticismo. Questo in Francia
verso la metà del secolo è già superato come movimen-
to e l’ultima polemica intorno ad esso ha il carattere di
una questione piú o meno personale. In Inghilterra le
cose vanno altrimenti; qui l’antagonismo tra tendenze
razionalistiche e irrazionalistiche non si limita ad esse-
re un conflitto intimo, come in Flaubert, ma divide il
paese in due campi, in realtà molto piú eterogenei delle
«due nazioni» di Disraeli. Anche qui, come in tutto
l’Occidente, la tendenza dominante è quella positivisti-
ca, rispondente ai principî del razionalismo e del natu-
ralismo. Non solo gli arbitri del potere politico ed eco-
nomico, non solo i tecnici e gli studiosi, ma anche l’uo-
mo comune e quello legato alla consuetudine del suo
mestiere, pensano da razionalisti e avversano la tradi-
zione. La letteratura del tempo invece è pervasa di
romantica nostalgia per il Medioevo e per un’Utopia in
cui non valgono le leggi dell’economia capitalistica, del-
l’attività commerciale, della vita ormai prosaica e disin-
cantata. Il feudalesimo di Disraeli è romanticismo poli-
tico; il «movimento di Oxford», romanticismo religio-
so; la critica alla civiltà di Carlyle, romanticismo socia-
le; la filosofia artistica di Ruskin, romanticismo esteti-
co: teorie e correnti tutte che negano il liberalismo e il
razionalismo, e di fronte ai problemi del presente si
rifugiano in un ordine superiore, sovrapersonale e
sovrannaturale, in una stabilità non soggetta all’anarchia
della società liberale e individualistica. La voce piú alta
e piú seducente è quella di Carlyle, il primo e il piú ori-
ginale di quei flautisti acchiappatopi che aprono la via
ai Mussolini e agli Hitler. Infatti, per quanto importante
e fecondo sia stato, sotto certi aspetti, il suo influsso, e
tanto a lui debba anche l’epoca moderna nella sua lotta
per una piú diretta rispondenza spirituale delle forme
della civiltà, egli fu un confusionario, e con i fumi del

Storia dell’arte Einaudi 197


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

suo entusiasmo per l’infinito e l’eterno, con la sua mora-


le del superuomo e la mistica dell’eroe, annebbiò e
oscurò i fatti per intere generazioni.
L’immediato erede di Carlyle è Ruskin, che deriva da
lui gli argomenti contro il liberalismo e l’industrialismo,
ripete le sue querele contro la civiltà moderna senz’ani-
ma e senza Dio, partecipa alla sua esaltazione per il
Medioevo e la civiltà unitaria dell’Occidente cristiano.
Ma egli trasforma l’astratto culto degli eroi in un culto
della bellezza pieno di significato, il vago romanticismo
sociale in un idealismo estetico volto a compiti concre-
ti e fini esattamente definibili. Nulla prova l’opportu-
nità storica e la concretezza delle teorie ruskiniane,
meglio del fatto ch’egli poté divenire il portavoce di un
movimento cosí rappresentativo come il preraffaellismo.
Le sue idee e i suoi ideali erano nell’aria: soprattutto il
rifiuto dell’arte rinascimentale, della forma grande, opu-
lenta, autonoma e sovrana e il ritorno all’arte preclassi-
ca, «gotica», alle rigide e ispirate espressioni dei «pri-
mitivi»; erano i sintomi di una generale crisi della cul-
tura, che abbracciava tutta la società. Le teorie di
Ruskin e l’arte dei preraffaelliti sorgono dallo stesso
clima spirituale e rappresentano un’uguale protesta con-
tro la convenzionale visione della vita e dell’arte che
domina l’Inghilterra vittoriana. Quello che Ruskin
intende per degenerazione dell’arte a partire dal Rina-
scimento, i preraffaelliti lo vedono e lo combattono nel-
l’accademia del tempo. La loro lotta prende di mira
soprattutto il classicismo, il canone di bellezza della
scuola raffaellesca, cioè il vuoto formalismo e la mecca-
nica levigatezza di un’arte, che la borghesia vuol porta-
re come prova della sua rispettabilità, della sua morale
puritana, dei suoi alti ideali e del suo senso poetico. La
borghesia vittoriana ha la fissazione della «grande arte»1
e il cattivo gusto che domina nell’architettura, nella pit-
tura e nelle arti «minori» è in sostanza la conseguenza

Storia dell’arte Einaudi 198


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di un autoinganno e di una presunzione che le impedi-


scono un’espressione spontanea della sua natura.
La pittura vittoriana brulica di temi storici, poetici,
aneddotici; è pittura «letteraria» per eccellenza, un’ar-
te ibrida, in cui, del resto, piú che l’abbondanza di moti-
vi letterari è deplorevole la penuria di valori pittorici. È
soprattutto la paura di ogni sensualità e spontaneità ad
impedire che qui si diffonda lo schietto, rigoglioso pit-
toricismo dei francesi. Ma la natura, scacciata dalla
porta, rientra dalla finestra. Nella collezione Chantrey,
singolare monumento del mal gusto vittoriano, c’è un
quadro in cui una giovane suora, rinunziando al mondo,
ne rifiuta perfino le vesti. Affatto nuda, essa è inginoc-
chiata davanti all’altare, nella penombra notturna di
una cappella, e mostra ai monaci che stan dietro di lei
le forme seducenti del suo tenero corpo. Non si può
immaginare cosa piú penosa di un tal quadro, che appar-
tiene alla peggiore, perché meno sincera, specie di por-
nografia.
La pittura preraffaellita è letteraria e «poetica» come
tutta l’arte vittoriana; ma ai soggetti che di per sé non
si prestano ad essere perfettamente risolti in pittura,
essa unisce certi valori pittorici, spesso non soltanto
attraentissimi, ma anche nuovi. Allo spiritualismo vit-
toriano, ai soggetti storici, religiosi, letterari, alle alle-
gorie morali e ai simboli fiabeschi essa unisce un sen-
sualismo che si esprime nella gioia del minuto partico-
lare, nel gioco di contraffare ogni stelo, ogni piega. Que-
sta precisione non riflette soltanto il generale naturali-
smo dell’arte europea, ma anche un’etica del lavoro pro-
pria della borghesia, che vede un criterio di valore arti-
stico nell’irreprensibile mestiere, nell’esecuzione accu-
rata degli antichi maestri. Seguendo questo ideale del-
l’arte vittoriana, i preraffaelliti accentuano la perizia
tecnica, l’abilità mimetica, la perfezione dell’ultima
mano. I loro quadri sono politi quanto quelli degli acca-

Storia dell’arte Einaudi 199


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

demici, e il contrasto tra i preraffaelliti e gli altri pitto-


ri vittoriani ci appare molto minore di quello che si nota
tra naturalisti e accademici in Francia. I preraffaelliti
sono idealisti, moralisti, erotici impauriti, come la mas-
sima parte dei vittoriani. Hanno dell’arte lo stesso con-
cetto contraddittorio, tradiscono lo stesso imbarazzo, le
stesse inibizioni nel dare espressione artistica alla loro
esperienza, e tale è l’impaccio puritano di fronte al
mezzo espressivo, che le loro opere fanno sempre l’ef-
fetto di un timido, benché geniale dilettantismo. Que-
sta distanza fra l’artista e l’opera aggrava l’aspetto arti-
gianale proprio della pittura preraffaellita. Perciò essa
appare cosí artefatta, manierata, leggiadra e affettata e
ha sempre in sé qualcosa di stilizzato e irreale, che ricor-
da gli ingegnosi arabeschi dei tappeti. Il tono del moder-
no simbolismo, prezioso, intellettualistico e, nonostan-
te la sua natura lirica, freddo; l’acerba grazia e l’ango-
losità un po’ ricercata dei neoromantici; il ritegno, la stu-
diata ritrosia, l’ermetismo dell’arte sullo scorcio del seco-
lo risalgono in parte a questa stilizzazione.
Il preraffaellismo è un movimento estetizzante, un
estremo culto della bellezza, un tentativo di dar valore
alla vita richiamandosi all’arte. Ma anch’esso, al pari
della filosofia di Ruskin, non può indentificarsi con l’art
pour l’art. La tesi che il supremo valore dell’arte consi-
sta nell’espressione di «un animo buono e grande»2
rifletteva la persuasione di tutti i preraffaelliti. Essi
erano certo degli edonisti mancati, ma vivevano nella
fede che il loro gioco formale avesse un fine superiore,
la virtú di elevare e di educare. In loro, estetismo e
moralismo erano in aperta contraddizione, come arcai-
smo e minuzia naturalistica dei particolari3. La stessa
contraddizione vittoriana è patente anche negli scritti di
Ruskin; il suo intellettualistico entusiasmo per l’arte
non sempre si può conciliare con il suo messaggio socia-
le, che vede possibile la perfetta bellezza solo in una

Storia dell’arte Einaudi 200


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

comunità retta da solidarietà e giustizia. Una grande arte


è l’espressione di una società moralmente sana; nel
tempo materialista della macchina fatalmente intristi-
scono il senso della bellezza e la facoltà di creare valori
d’arte. La stereotipa accusa contro la moderna società
capitalistica di uccidere l’anima con l’impronta della
moneta e con i suoi metodi meccanici di produzione, già
l’aveva lanciata Carlyle; Ruskin non fa che ripetere le
parole del predecessore. E neppure il lamento sulla deca-
denza dell’arte è nuovo. Anzi è antico quanto la leg-
genda dell’età dell’oro l’atteggiamento verso l’arte con-
temporanea, che la considera inferiore a quella del pas-
sato e pretende di vedere in essa i segni della stessa deca-
denza che affligge i costumi. Ma finora nel declino del-
l’arte non si era mai scorto il sintomo di una malattia che
minasse tutto l’organismo sociale, né mai prima di
Ruskin il legame organico fra l’arte e la società era stato
visto con tanta chiarezza4. Senza dubbio egli fu il primo
a concepire lo scadere dell’arte e del gusto come segno
di una generale crisi della civiltà e ad enunciare il prin-
cipio, fondamentale anche se neppure oggi abbastanza
apprezzato, che si debbono mutare anzitutto le condi-
zioni di vita se si vuole suscitare nell’uomo il senso della
bellezza e la comprensione dell’arte. Questa scoperta lo
indusse ad abbandonare la storia dell’arte per l’econo-
mia politica; e, riconoscendo il materialismo di questa
scienza, si scostò dall’idealismo di Carlyle. Inoltre
Ruskin fu il primo in Inghilterra a sostenere ferma-
mente che l’arte è di pubblico interesse e che il favorir-
la è uno dei compiti piú importanti dello stato; che, in
altre parole, essa è necessaria alla società e nessuna
nazione può trascurarla senza pericolo per la sua vita
intellettuale. Infine egli fu il primo a proclamare che l’ar-
te non è privilegio di artisti, esperti e persone colte, ma
retaggio e proprietà di tutti. Tuttavia egli non era un
socialista, anzi neppure un vero democratico5. La plato-

Storia dell’arte Einaudi 201


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nica repubblica dei filosofi, nella quale la bellezza e la


saggezza erano i principî informatori, era la forma piú
vicina al suo ideale, e quanto al suo «socialismo» si limi-
tava ad asserire che l’uomo è educabile e ha diritto alla
cultura. Secondo lui, la vera ricchezza non consiste nel
possesso di beni materiali, ma nella capacità di godere
la bellezza della vita e dell’arte. Questo quietismo este-
tico e il rifiuto di ogni violenza sono i limiti del suo rifor-
mismo6.
William Morris, il terzo di quelli che si occupano di
critica della cultura nell’epoca vittoriana, è assai piú
coerente in teoria e progredito nella pratica, di Ruskin.
Per certi riguardi egli di fatto è il piú grande7, cioè il piú
audace, il piú intransigente dei vittoriani, benché non
sappia liberarsi del tutto dalle contraddizioni e dai com-
promessi. Ma dalla teoria ruskiniana sul legame fatale
dell’arte con la società egli ha saputo trarre l’estrema
conseguenza, giungendo alla persuasione che «fare dei
socialisti» fosse piú urgente che fare della buona arte.
L’idea di Ruskin che l’inferiorità dell’arte moderna, il
declino della cultura artistica, il cattivo gusto del pub-
blico non fossero che sintomi di un male piú profondo
ed esteso, egli la sviluppò fino in fondo, e comprese che
era insensato voler migliorare l’arte e il gusto, lascian-
do immutata la società. Egli sapeva che è inutile cerca-
re d’influire direttamente sullo sviluppo artistico e che
al massimo si possono creare condizioni sociali che ne
permettano una migliore comprensione. Egli era per-
fettamente consapevole della lotta di classe, nelle cui
forme si svolge il processo sociale e quindi anche l’evo-
luzione artistica, e considerava il compito piú impor-
tante renderne conscio il proletariato8. Benché chiare sui
fatti fondamentali, le teorie e le esigenze di Morris con-
tengono tuttavia, come si è detto, numerose contraddi-
zioni. Nonostante il suo realismo nel concepire la natu-
ra e la funzione sociale dell’arte, egli è un romantico

Storia dell’arte Einaudi 202


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

invaghito del Medioevo e del suo ideale di bellezza.


Predica la necessità di un’arte fatta dal popolo e per il
popolo, ma resta un dilettante fallito e fa cose che solo
i ricchi possono comprare e solo i colti godere. Egli
sostiene che l’arte nasce dal lavoro, dall’esercizio del
mestiere, ma non riconosce l’importanza del massimo e
piú pratico strumento della produzione moderna, la mac-
china. La fonte delle contraddizioni fra la sua dottrina
e la sua attività d’artista va cercata nel tradizionalismo
piccolo-borghese con cui i suoi maestri, Carlyle e
Ruskin, giudicano l’epoca della tecnica, e nel loro pro-
vincialismo da cui, egli non sa liberarsi del tutto.
Ruskin deduceva la decadenza dell’arte dal fatto che
la moderna fabbrica, con il suo metodo di produzione
meccanica e la sua divisione del lavoro, impedisce al
lavoratore un intimo rapporto con l’opera sua, cioè priva
il lavoro di una sua anima ed estrania il produttore dal
prodotto delle sue mani. La lotta contro l’industrialismo
veniva a perdere in lui il significato di lotta contro il pro-
letarizzarsi delle masse per trasformarsi in romantico
entusiasmo per qualcosa che non poteva ripetersi, cioè
per il lavoro artigianale, l’industria casalinga, le corpo-
razioni, insomma le forme medievali di produzione. Il
merito di Ruskin è di aver additato la bruttezza dell’arte
applicata dell’età vittoriana, e, di fronte ai materiali
spuri, alla forma assurda e all’esecuzione rozza e a buon
mercato, di aver richiamato alla memoria dei suoi con-
temporanei il fascino del lavoro a mano, solido e accu-
rato. Il suo influsso fu vastissimo, quasi inestimabile. Il
lavoro nell’ambito di un’officina relativamente piccola,
in cui i rapporti fra i lavoratori conservassero un carat-
tere personale, in cui il lavoro a mano fosse assoluta-
mente prevalente e ogni lavoratore attendesse a un’o-
pera singola, completa, divenne l’ideale della moderna
produzione artistica e artigiana. Il carattere pratico e
solido dell’architettura e dell’arte industriale moderna

Storia dell’arte Einaudi 203


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sono in gran parte il risultato degli sforzi e dell’inse-


gnamento di Ruskin. Ma il loro effetto immediato fu
quello di provocare un culto esagerato del lavoro a
mano, che misconosceva i compiti e le possibilità del-
l’industria meccanica, e di destare una speranza che
doveva andare delusa. Era romanticismo, irrazionali-
smo della peggior specie credere che le conquiste tecni-
che, sorte da reali bisogni e in vista di concreti vantag-
gi economici, potessero venire semplicemente respinte.
Era quanto mai ingenuo voler fermare lo sviluppo tec-
nico ed economico con polemiche e proteste. Ruskin e
i suoi discepoli avevano ragione in quanto effettiva-
mente gli uomini vennero a perdere il dominio sulla
macchina, la tecnica si rese indipendente e, specie nel
campo dell’arte industriale, produsse gli oggetti piú
repellenti e privi di gusto; ma essi dimenticavano che per
dominare la macchina non c’era altra via che accettarla
di buon grado e sottoporla allo spirito.
L’errore stava anzitutto nella troppo angusta defini-
zione della tecnica, nel disconoscere la natura tecnica di
ogni concreta produzione, di ogni applicazione pratica,
di ogni contatto con la realtà obiettiva. All’arte occor-
re sempre un espediente materiale, tecnico, uno stru-
mento, una «macchina»; ed è cosa tanto evidente che si
è potuto vedere appunto in questo suo carattere media-
to, nella natura materiale dei suoi mezzi, nel suo condi-
zionamento tecnico uno dei suoi caratteri piú essenzia-
li. Forse l’arte è proprio la piú sensibile, la piú tangibi-
le «manifestazione» dello spirito e già come tale è lega-
ta a qualcosa di concreto, a una tecnica, a uno stru-
mento, sia questo il telaio a mano o il telaio meccanico,
il pennello o la macchina da presa, il violino o – per
nominar qualcosa di veramente orribile – la macchina
del sonoro. Perfino la voce umana – e anche l’apparato
canoro di un Caruso – è uno strumento materiale e nulla
piú. L’anima si versa nell’anima, direttamente, d’un

Storia dell’arte Einaudi 204


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tratto, senza strumento alcuno, solo nell’estasi mistica,


nella felicità d’amore, nella compassione – forse soltan-
to nella compassione – ma non mai nell’esperienza di
un’opera d’arte.
Tutta la storia dell’arte si può rappresentare come un
continuo rinnovarsi, ampliarsi e perfezionarsi dei mezzi
tecnici dell’espressione, e il suo normale e regolare svi-
luppo può definirsi come un processo di piena utilizza-
zione e dominio di essi, come un armonico equilibrio tra
il potere e il volere, tra i mezzi e l’intento artistico. Il
ristagno intervenuto in tale sviluppo con la rivoluzione
industriale, il vantaggio acquistato dall’evoluzione tec-
nica su quella intellettuale, non vanno tanto attribuiti
alla maggior complicazione ed efficienza delle macchine
che si cominciavano a usare, quanto al ritmo assunto dal-
l’evoluzione tecnica sotto l’impulso della congiuntura
economica, un ritmo cosí rapido da non poter essere
seguito dallo sviluppo intellettuale. In altre parole, colo-
ro che avrebbero potuto trasferire nella produzione mec-
canica la tradizione dell’artigiano, i maestri indipen-
denti e i loro aiuti, vennero esclusi dalla vita economi-
ca, prima che avessero potuto adattare ai nuovi metodi
le antiche tradizioni del loro mestiere. Cioè l’equilibrio
fra evoluzione tecnica ed evoluzione intellettuale fu tur-
bato da una crisi dell’organizzazione e non già da un
cambiamento fondamentale nella natura della tecnica:
nelle industrie che si erano sviluppate dal vecchio arti-
gianato scarseggiarono a un tratto gli esperti.
Morris condivideva i pregiudizi di Ruskin contro la
produzione meccanica come il suo entusiasmo per il
lavoro a mano, ma fu assai piú razionale e progressista
del maestro nel giudicare la funzione della macchina.
Egli rimproverava alla società del suo tempo l’abuso
della tecnica, ma già sapeva come in certe circostanze
questa potesse diventare una benedizione per l’uma-
nità9.

Storia dell’arte Einaudi 205


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Il suo ottimismo socialista si manifestava anche in


questa speranza, fondata sul progresso tecnico. Secon-
do la sua definizione, l’arte esprime la gioia del lavoro10;
per lui essa non è soltanto una fonte di felicità, ma
nasce da un senso di felicità. Il suo vero valore sta nel
processo creativo; nell’opera l’artista gode della propria
produttività ed è la gioia del lavoro a generare l’arte.
Questa autogenesi è invero piuttosto misteriosa e accu-
sa un deciso influsso di Rousseau, ma non è piú mistica
né piú romantica dell’idea che nel macchinismo vede la
fine dell’arte.

I fenomeni sociali intorno a cui si affatica la critica


dell’arte e della cultura nell’epoca vittoriana formano
anche l’argomento del romanzo inglese del tempo.
Anche questo s’impernia sul problema, che Carlyle ha
chiamato «della condizione inglese», e descrive i rap-
porti sociali sorti dalla rivoluzione industriale. Ma esso
si rivolge a un pubblico piú composito di quello della let-
teratura critica, ha un carattere piú eterogeneo e parla
un linguaggio piú vario, meno scelto. Cerca di interes-
sare ceti in cui non sono mai penetrate le opere di Carly-
le e di Ruskin, e vuol conquistarsi lettori per i quali le
riforme sociali non siano soltanto questione di coscien-
za, ma di vita. Ma poiché questi lettori sono una mino-
ranza, il romanzo rimane principalmente orientato
secondo gli interessi dell’alta e media borghesia, e serve
di sfogo ai conflitti morali, che la lotta di classe suscita
nei vincitori. Lo stimolo può venire, come per Disraeli,
da nostalgiche fantasie patriarcali e feudali, o da un
ideale di vita cristiano-sociale, come per Kingsley e Mrs
Gaskell, oppure (ed è il caso di Dickens), dalla preoc-
cupazione per l’immiserirsi della piccola borghesia; ma
si finisce sempre con l’accettare in sostanza l’ordine
costituito. Tutti cominciano con i piú aspri attacchi alla
società capitalistica, ma alla fine ne accolgono le pre-

Storia dell’arte Einaudi 206


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

messe in un quadro ottimistico o quietistico, come se


volessero metterne a nudo e combatterne gli abusi sol-
tanto per evitare profondi cambiamenti rivoluzionari. In
Kingsley la tendenza conciliativa dà luogo a un aperto
mutamento di opinioni, in Dickens è velata dall’atteg-
giamento radicale del poeta, che va spostandosi sempre
piú a sinistra. Una parte degli scrittori simpatizza con
le classi piú elevate, un’altra con gli umiliati e gli offe-
si, ma non ci sono fra loro veri rivoluzionari. Nel caso
migliore essi oscillano fra impulsi schiettamente demo-
cratici e la persuasione che, nonostante tutto, le distin-
zioni di classe siano giustificate e abbiano un benefico
effetto. Le differenze tra loro sono, comunque, d’im-
portanza secondaria in confronto alle analogie del loro
conservatorismo filantropico11.
Il moderno romanzo sociale sorge anche in Inghil-
terra, come in Francia, intorno al 1830 e fiorisce negli
anni torbidi fra il 1840 e il 1850, quando il paese è sul-
l’orlo della rivoluzione. Anche qui esso diventa la mas-
sima espressione letteraria di quella generazione per la
quale le mete e i valori della società borghese sono pro-
blematici e vuol spiegarsene la rapida ascesa e l’incom-
bente sfacelo. Ma nel romanzo inglese i problemi discus-
si sono piú concreti e generali, meno intellettualistici e
raffinati che in quello francese; la posizione dello scrit-
tore è piú umana, piú generosa, ma insieme piú conci-
liante e opportunistica.
Disraeli, Kingsley, Mrs Gaskell e Dickens sono i
primi discepoli di Carlyle e sono tra quegli scrittori che
piú prontamente ne accettano le idee12. Sono irraziona-
listi, idealisti, favorevoli all’intervento dello Stato,
scherniscono l’utilitarismo e l’economia nazionale, con-
dannano il liberalismo e l’industrialismo, pongono i loro
romanzi al servizio della lotta contro il principio del lais-
sez faire e l’anarchia economica, che per essi ne è la con-
seguenza. Prima del 1830, il romanzo mai si era pre-

Storia dell’arte Einaudi 207


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sentato come interprete di una tal tendenza, benché in


Inghilterra il romanzo moderno già con Defoe e con
Fielding avesse assunto carattere «sociale». Esso si col-
legava ai saggi di Addison e Steele ben piú direttamen-
te e profondamente che al romanzo pastorale e amoro-
so di Sidney e di Lyly, e i suoi primi maestri dovettero
agli stimoli del giornalismo l’attenzione per le questio-
ni di attualità e la sensibilità per i problemi sociali del
giorno. È vero che questa s’attutí alla fine del primo
grande periodo del romanzo inglese, ma non venne
meno del tutto. Il romanzo nero e sensazionale, che si
sostituí alle opere di Fielding e di Richardson nel favo-
re del pubblico, non aveva diretto rapporto con la realtà
sociale, e neppure con la realtà in genere, e d’altronde
nei romanzi di Jane Austen la realtà sociale era, sì, il ter-
reno da cui nascevano i personaggi, ma non costituiva
certo un problema, che la scrittrice tentasse di risolve-
re o di interpretare. Solo con Walter Scott il romanzo
ridiventa «sociale», benché in tutt’altro senso che in
Defoe, Fielding, Richardson o Smollet. In Scott la
dipendenza dei personaggi dallo sfondo sociale è assai
piú chiaramente sentita che nei suoi predecessori; egli li
mostra sempre come esponenti di una classe, ma il suo
quadro della società è assai piú astratto e programmati-
co di quello del romanzo settecentesco. Egli fonda una
nuova tradizione e solo vagamente discende dalla linea
di Defoe, Fielding, Smollet. Invece Dickens, che suc-
cede immediatamente allo scozzese, soprattutto in quan-
to è il miglior narratore e l’autore piú popolare del suo
tempo, si ricollega proprio a quella linea poiché, sebbe-
ne discepolo di Walter Scott – e chi non lo è, fra i
romanzieri della prima metà del secolo? – è assai piú
vicino alla forma picaresca degli antichi autori che allo
stile drammatico del suo maestro. Dickens si riannoda
al Settecento anche per la tendenza morale e didattica
dell’arte sua; oltre la tradizione picaresca di Fielding e

Storia dell’arte Einaudi 208


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Sterne, egli riprende l’indirizzo filantropico di Defoe e


di Goldsmith, che Scott aveva trascurato13. La sua popo-
larità si spiega soprattutto con la ripresa di entrambe
quelle tradizioni letterarie per cui egli è in grado di
rispondere ai gusti del nuovo pubblico, sia con la varietà
picaresca, sia con il tono sentimentale e morale delle sue
opere.
In Inghilterra, fra il 1816 e il 1850, si pubblicano in
media cento romanzi all’anno14; e i libri editi nel 1853,
in prevalenza opere narrative, sono il triplo di quelli
pubblicati venticinque anni prima15. Vi è un reciproco
rapporto di causa ed effetto fra l’aumento dei lettori e
la diminuzione del prezzo dei libri. Il pubblico lettera-
rio, formatosi nel Settecento, si accrebbe a un tratto con
lo sviluppo delle biblioteche circolanti; ma queste, se rin-
vigorirono l’attività editoriale, non ridussero i prezzi dei
libri. Anzi, la loro crescente richiesta contribuiva a sta-
bilizzarli a un livello relativamente alto. Un romanzo, di
solito in tre volumi, costava una ghinea e mezza, somma
che solo pochissimi potevano spendere per quello scopo.
Quindi la letteratura amena difficilmente superava la
cerchia degli abbonati alle biblioteche. Un mutamento
fondamentale nella composizione e nell’ampiezza del
pubblico si verificò soltanto quando i romanzi comin-
ciarono a uscire in fascicoli mensili. Il pagamento ratea-
le, benché riducesse il prezzo solo di un terzo, permise
a molti, che fino allora non compravano libri, di acqui-
starsi le opere degli autori prediletti. La pubblicazione
di romanzi a dispense mensili rappresentò quindi un’in-
novazione commerciale, che in sostanza corrispondeva
all’uso del romanzo d’appendice ed ebbe analoghe con-
seguenze sociali e artistiche. Una di esse fu il ritorno alla
forma picaresca.
Dickens, i cui successi segnano anche il trionfo dei
nuovi metodi editoriali, gode di tutti i vantaggi e soffre
di tutti gli inconvenienti che derivano dall’ampia diffu-

Storia dell’arte Einaudi 209


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sione della letteratura. Il continuo contatto con il gran


pubblico lo aiuta a trovare uno stile popolare nel senso
migliore; egli è di quegli artisti non molto numerosi che
sono grandi appunto perché popolari. Alla fedeltà del
suo pubblico e al senso di sicurezza di cui lo riempie la
devozione dei lettori egli deve il suo grande stile epico,
il tono costante del suo linguaggio e quel suo creare in
modo spontaneo, schietto, quasi ingenuo, che può dirsi
unico nell’Ottocento. Veramente il carattere popolare
del suo stile spiega solo in parte la sua grandezza, poi-
ché Alexandre Dumas ed Eugène Sue sono altrettanto
popolari, senza esser grandi. E ancor meno la sua gran-
dezza spiega il suo successo, perché Balzac è incompa-
rabilmente piú grande, altrettanto facile, eppure assai
meno fortunato, benché le condizioni esteriori in cui
crea le sue opere siano perfettamente analoghe. Gli
inconvenienti della popolarità sono invece molto piú
facili da spiegare. La fedeltà verso i lettori, la solidarietà
spirituale con la moltitudine ingenua e il desiderio di
mantenere la cordialità di tale rapporto lo spingono ad
attribuire un valore assoluto a quei mezzi che trovano
eco nell’emotività delle masse, e a credere quindi nel-
l’infallibile istinto e nel gran cuore del pubblico16. Non
avrebbe mai ammesso che siano sovente in rapporto
inverso il pregio di un’opera e il numero di coloro che
se ne sentono commossi. Ci sono certi mezzi che rie-
scono a muoverci al pianto, benché poi ci si vergogni di
non aver resistito alla loro suggestione «universalmente
umana». Sul destino degli eroi di Omero, Sofocle,
Shakespeare, Corneille, Racine, Voltaire, Fielding, Jane
Austen, Stendhal e Flaubert, noi non versiamo lacrime;
invece Dickens suscita la stessa facile, compiaciuta com-
mozione con cui reagiamo alla maggior parte degli odier-
ni film.
Dickens è uno dei piú fortunati scrittori di tutti i
tempi, e forse il piú popolare fra i grandi dell’età moder-

Storia dell’arte Einaudi 210


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

na. Certo è l’unico vero poeta, dall’età romantica in qua,


la cui opera non nasca in contrasto con il suo tempo, in
tensione con l’ambiente e risponda invece perfettamen-
te alle aspirazioni del pubblico. Egli gode di una popo-
larità mai raggiunta dopo Shakespeare, probabilmente
analoga a quella degli antichi mimi e giullari. Il mondo
di Dickens è cosí totale e senza incrinature, perché egli
non ha bisogno di fare concessioni quando parla al suo
pubblico, e il suo orizzonte è altrettanto ristretto, il suo
gusto altrettanto indiscriminato e la sua fantasia altret-
tanto ingenua, sebbene incomparabilmente piú ricca, di
quella dei suoi lettori. Molto giustamente Chesterton
osserva che, a differenza di Dickens, gli odierni scritto-
ri popolari hanno sempre la sensazione di dover abbas-
sarsi al livello del loro pubblico17. Tra loro e il lettore esi-
ste una frattura altrettanto sensibile, anche se diversa di
carattere e assai meno giustificata, che tra i veri poeti e
il pubblico medio del tempo. Nulla di simile per
Dickens. Non soltanto egli è il creatore della piú gran-
de galleria di figure che, impresse nell’animo di ogni let-
tore inglese, ne popolano il mondo fantastico, ma il suo
intimo rapporto con esse è identico a quello del pubbli-
co. I beniamini del lettore sono anche i suoi ed egli parla
della piccola Nell o del piccolo Dombey con lo stesso
affetto e lo stesso tono ingenuo di qualsiasi vecchietto
o vecchia zitella.
La serie dei trionfi per Dickens cominciò con la prima
grande opera, Il circolo Pickwick che, a partire dalla
quindicesima dispensa, si vendette in quarantamila copie.
Questo successo determinò la forma editoriale in cui
doveva svilupparsi per venticinque anni la letteratura
amena inglese. L’autore, divenuto a un tratto celebre,
non perdette mai piú il suo ascendente. Il mondo non si
saziava di leggere i suoi libri; ed egli lavorava febbril-
mente, senza tregua, quasi come Balzac, per rispondere
all’enorme richiesta. Questi due colossi si fanno riscon-

Storia dell’arte Einaudi 211


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tro: sono gli esponenti della stessa congiuntura lettera-


ria, i fornitori dello stesso pubblico affamato di libri
che, dopo gli sconvolgimenti di un mondo pieno di fer-
menti rivoluzionari e di delusioni, cerca nel mondo fit-
tizio dei romanzi un surrogato della realtà, una guida nel
caos della vita, e un conforto per le illusioni perdute. Ma
Dickens diventa piú popolare di Balzac. Favorito dalla
vendita a dispense mensili a buon mercato, egli conqui-
sta alla letteratura un pubblico completamente nuovo,
gente che prima non leggeva mai romanzi, e di fronte al
quale i lettori della piú antica narrativa fanno l’effetto di
veri intellettuali, Una donna di servizio narra che nel suo
casamento c’era l’abitudine di riunirsi, il primo lunedí di
ogni mese, nell’alloggio di un tabaccaio a prendere il tè,
pagando una piccola quota; quindi il padron di casa leg-
geva ad alta voce l’ultimo fascicolo di Dombey, e alla let-
tura venivano ammessi gratis tutti gli inquilini dello sta-
bile18. Dickens fu un produttore di letteratura amena
per le masse, il continuatore del vecchio romanzo nero e
l’inventore del moderno «giallo»19; insomma, l’autore di
libri che, a prescindere dal valore poetico, corrispondo-
no perfettamente ai nostri best-sellers. Ma sarebbe un
errore credere ch’egli scrivesse i suoi romanzi soltanto
per le masse incolte o di scarsa cultura; una parte dell’alta
borghesia e perfino degli intellettuali lo leggevano con
entusiasmo. I suoi romanzi erano adeguati ai tempi, arte
attuale, come per noi quella del film; e, anche per chi è
ben conscio dei suoi difetti, essa ha l’inapprezzabile valo-
re di cosa viva e volta all’avvenire.
Fin dall’inizio Dickens, tanto come gusto quanto
come ideologia, fu l’esponente della nuova letteratura
progressista. Egli riusciva a interessare anche dove non
piaceva, e si trovavano divertenti i suoi romanzi anche
se non riusciva gradito il suo messaggio sociale. La sua
arte si poteva separare dalla politica. Egli si scagliava con
parole infiammate contro le colpe della società, contro

Storia dell’arte Einaudi 212


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

la spietata albagia dei ricchi, la durezza ottusa dei giu-


dici, il crudele trattamento dei bambini, le condizioni
inumane nelle prigioni, nelle fabbriche e nelle scuole,
insomma contro la brutalità propria di ogni organizza-
zione istituzionale. Le sue accuse rimbombavano all’o-
recchio di tutti ed empivano i cuori dell’angoscioso sen-
timento di un’ingiustizia imputabile a tutta la società.
Ma non si andava oltre il grido d’allarme e la soddisfa-
zione che si prova quando ci si è sfogati a gridare. Il mes-
saggio sociale del poeta non portò frutti in politica e la
sua filantropia non fu sempre vantaggiosa per l’arte.
Essa approfondí la sua penetrazione psicologica, ma
suscitò anche un sentimentalismo atto a velargli lo sguar-
do. Il suo confuso atteggiamento umanitario, il suo
«cheeriblismo» [fratelli Cheeryble sono figure filantro-
pi del Nicola Nickleby], la sua fiducia che la beneficen-
za privata e la bontà dei ricchi possano rimediare ai mali
della società nascevano, in conclusione, da un difetto di
chiarezza nella sua concezione sociale, che ne faceva un
piccolo-borghese indeciso fra l’una e l’altra classe. Egli
non riuscí mai a superare la violenta scossa della sua fan-
ciullezza, l’esperienza di chi era stato gettato fuori del
ceto medio, ai limiti del proletariato, e si sentí sempre
un decaduto, o in procinto di diventarlo20. Era in fondo
un filantropo radicale, un liberale amico del popolo, un
appassionato avversario dei conservatori, ma non un
socialista né un rivoluzionario: al massimo, un piccolo-
borghese ribelle, un umiliato che non dimenticò mai
quel che gli era toccato in gioventú21. E per tutta la vita
egli rimase il piccolo-borghese che credeva di dover
scongiurare non solo un pericolo dall’alto, ma anche
uno dal basso. Egli sentiva e pensava da piccolo-bor-
ghese e i suoi ideali erano quelli della piccola borghesia:
la vita era fatta di lavoro, di sforzo, di risparmio, per
giungere alla sicurezza, alla tranquillità e alla rispetta-
bilità; la felicità consisteva nel modesto benessere, nel-

Storia dell’arte Einaudi 213


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’idillio di una vita al riparo dal mondo ostile, nel cer-


chio familiare, nel rifugio di una camera ben riscaldata,
di un’accogliente locanda o della diligenza che ti con-
duce a una meta sicura.
Dickens è incapace di superare le intime contraddi-
zioni della sua visione sociale. Da un lato egli accusa la
società nel modo piú amaro, ma dall’altro sottovaluta la
portata del male, perché rifiuta di riconoscerla22. In
realtà egli si attiene ancora al principio: «Tutto per il
popolo – nulla con il popolo», e non riesce a liberarsi dal
pregiudizio che il popolo sia incapace di governarsi23.
Egli teme la «plebaglia» e identifica il «popolo» in senso
ideale con il ceto medio. Flaubert, Maupassant e i Gon-
court, benché conservatori, sono ribelli irriducibili;
Dickens invece, benché politicamente progressista e
oppositore, è un pacifico borghese che accetta senz’al-
tro i presupposti del dominante capitalismo. Egli cono-
sce soltanto i fardelli e le pene della piccola borghesia e
combatte contro mali a cui si può rimediare senza scuo-
tere le basi della società. Della condizione del proleta-
riato, della vita nelle grandi città industriali egli non sa
quasi nulla, e sul movimento dei lavoratori ha molte idee
storte. Solo la sorte dell’artigiano, del piccolo esercen-
te, dei garzoni e degli apprendisti lo preoccupa. Le esi-
genze della classe operaia, la grande forza del futuro in
continuo accrescimento, non fanno che impaurirlo. Le
conquiste tecniche del suo tempo non lo interessano in
modo particolare e lo spirito romantico con cui egli ade-
risce alle forme di vita tradizionali è molto piú profon-
do e spontaneo dell’entusiasmo di Carlyle e di Ruskin
per i conventi e le Arti del Medioevo. Di fronte all’a-
more di Balzac per la grande città, le innovazioni, il tec-
nicismo, questo atteggiamento appare inerzia, meschi-
nità provinciale. Nelle opere tarde, specie in Tempi dif-
ficili, la sua concezione forse si amplia: il problema della
città industriale vi è ormai presente, e il destino della

Storia dell’arte Einaudi 214


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

classe lavoratrice è discusso con crescente interesse. Tut-


tavia il quadro ch’egli si fa dell’intima struttura del capi-
talismo rimane insufficiente e limitato ed ingenuo è il
giudizio sui fini del movimento proletario. Del resto è
tipicamente piccolo-borghese la sua idea che l’agitazio-
ne socialista sia tutta demagogia e lo sciopero non sia che
ricatto!24. La simpatia dell’autore va al bravo Stephen
Blackpool, che non ha preso parte allo sciopero e, per
atavica, canina fedeltà, si sente irresistibilmente, benché
assai velatamente, solidale con il padrone. La «morale
del cane» in Dickens ha una parte importante. Quanto
piú un atteggiamento è lontano dalla posizione matura,
critica di un intellettuale, tanto maggiore comprensione
e simpatia trova in Dickens. I semplici, gli incolti gli
sono sempre piú vicini della gente colta, e i bambini, piú
degli adulti.
Dickens fraintende del tutto la lotta fra capitale e
lavoro; non capisce che si tratta del contrasto di due
forze inconciliabili e che non basta la buona volontà del
singolo a comporre il dissidio. La verità evangelica che
l’uomo non vive di solo pane non suona molto persua-
siva in un romanzo che appunto descrive la lotta del pro-
letariato per il pane quotidiano. Ma Dickens non può
rinunziare alla sua puerile fiducia nella possibilità di
conciliare le classi. Egli si culla nell’illusione che senti-
menti di patriarcale filantropia da una parte, e una
paziente abnegazione dall’altra possano assicurare la
pace sociale. Predica la rinunzia alla violenza, perché
ritiene che rivolta e sovversione siano mali peggiori del-
l’oppressione e dello sfruttamento. Non è mai arrivato
a parole cosí dure come il famoso «meglio l’ingiustizia
che il disordine» solo perché era meno audace di Goethe
e meno chiaro verso se stesso. Egli trasforma il sano,
schietto egoismo dell’antica borghesia in un intruglio
zuccherino di «filosofia natalizia», che Taine caratte-
rizza benissimo: «Siate buoni e amatevi; il sentimento

Storia dell’arte Einaudi 215


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

del cuore è l’unica vera gioia... Lasciate la scienza ai


dotti, l’orgoglio ai nobili, il lusso ai ricchi...»25. Dickens
non sapeva quanto fosse duro il nocciolo di quel mes-
saggio d’amore e quanto cara sarebbe costata la sua pace
ai piú deboli. Ma lo sentiva e le intime contraddizioni
della sua visione si riflettono chiaramente nei gravi
disturbi nervosi che lo affliggono. Il mondo di questo
apostolo di pace non è certo un mondo pacifico e inno-
cente. Il suo beato sentimentalismo spesso non è che la
maschera di una spaventosa crudeltà, l’umorismo è un
sorriso fra le lacrime, il buonumore combatte con una
soffocante angoscia, dietro i lineamenti delle sue figure
piú bonarie si cela una smorfia, il decoro borghese con-
fina sempre con la criminalità, lo scenario del suo dilet-
to mondo patriarcale è un sinistro ripostiglio di roba vec-
chia, la sua immensa vitalità, la sua gioia di vivere sta
all’ombra della morte e la sua fedeltà al vero è una feb-
brile allucinazione. Questo vittoriano apparentemente
cosí decoroso, corretto, rispettabile si rivela un disperato
surrealista in preda a sogni angosciosi.
Dickens non è soltanto un rappresentante del verismo
e del naturalismo, non solo un perfetto maestro, di petits
faits vrais, ma proprio l’artista a cui il naturalismo della
letteratura inglese deve le piú importanti conquiste.
Tutto il romanzo inglese moderno deriva da lui l’arte di
ricreare l’ambiente, di disegnare i caratteri, di condur-
re i dialoghi. In realtà però tutti i personaggi di questo
naturalista sono caricature, tutti i tratti della vita sono
calcati, esagerati, spinti all’estremo, tutto diventa un
fantastico spettacolo di marionette, di ombre cinesi,
tutto si trasforma in situazioni e rapporti da melo-
dramma, stilizzati, semplificati, stereotipi. Le sue figu-
re piú attraenti sono veri e propri pazzi, i suoi piú inno-
cui piccoli borghesi sono degli originali impossibili, dei
monomani, dei coboldi; i suoi ambienti accuratamente
disegnati fanno l’effetto di scenari romantici, e tutto il

Storia dell’arte Einaudi 216


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

suo naturalismo sbocca sovente nel fantasma crudo e


tagliente del sogno. Le peggiori assurdità di Balzac risul-
tano piú logiche di molte delle visioni dickensiane. Le
inibizioni e i compromessi vittoriani favoriscono in lui
lo sviluppo di uno stile affatto senza equilibrio, incon-
trollato, «nevrotico». D’altronde non sempre le nevro-
si sono complicate, e Dickens effettivamente non aveva
in sé nulla di complicato e differenziato. Non solo era
fra i meno colti scrittori inglesi, non solo era altrettan-
to indotto e di scarse letture che un Richardson o una
Jane Austen; ma, a differenza specialmente di quest’ul-
tima, era primitivo e per certi aspetti ottuso, veramen-
te un bambino insensibile ai piú profondi problemi della
vita. Non aveva nulla in sé dell’intellettuale, e del resto
agli intellettuali non era molto favorevole. Se gli avve-
niva di descrivere un artista o un pensatore, se ne pren-
deva gioco. Di fronte all’arte manteneva la diffidenza
del puritano, aggiungendovi l’incomprensione e l’ostilità
del prosaico borghese; egli la considerava propriamente
come qualcosa di superfluo, anzi dissoluto. Questa sua
avversione era peggio che borghese, era piccolo-borghe-
se e filistea. Egli rifiutava ogni rapporto con artisti,
poeti e simili fanfaroni, come se volesse provare anche
cosí la propria solidarietà con il suo pubblico26.
Nell’epoca vittoriana il pubblico letterario era già
diviso in due sfere ben distinte e Dickens, benché aves-
se i suoi fedeli anche fra le classi elevate, era conside-
rato l’autore del pubblico incolto e di facile contenta-
tura. Questa divisione esisteva fin dal Settecento, e di
fronte a Defoe e a Fielding si può ritenere che fosse
Richardson a interpretare il gusto della borghesia piú
raffinata; tuttavia i lettori di Defoe, Fielding e Richard-
son erano in complesso le stesse persone. Invece dopo
il 1830 il divario di cultura tra i due ceti si fece assai piú
sensibile, e il pubblico di Dickens poteva distinguersi
abbastanza nettamente da quello di Thackeray e di Trol-

Storia dell’arte Einaudi 217


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

lope, benché molti lettori appartenessero all’uno e all’al-


tro. Evidentemente anche nel Settecento c’erano colo-
ro che si potevano identificare piú facilmente e perfet-
tamente con gli eroi e le eroine di Richardson, altri
invece con quelli di Fielding; ma ora la distinzione è piú
netta: c’è chi non può assolutamente sopportare Dickens
e chi non riesce quasi a capire Thackeray o George
Eliot. La presenza – accanto al pubblico colto e dotato
di senso critico – di lettori altrettanto assidui, ma che
nella letteratura cercano solo un leggero e fugace diver-
timento, è un fenomeno tipico dei nostri giorni, ma era
ignoto prima dell’età vittoriana. Il pubblico della lette-
ratura amena era per lo piú un pubblico di lettori occa-
sionali; i lettori assidui e regolari non si trovavano che
tra le persone colte. Ma ai tempi di Dickens, proprio
come oggi, la letteratura amena ha già due gruppi diver-
si di clienti. Quei tempi si distinguono dai nostri in
quanto allora il romanzo popolare comprendeva le opere
di un Dickens, amate anche da molti che pur sapevano
apprezzarne anche di piú raffinate27; mentre oggi la
buona letteratura è fondamentalmente non popolare e
quella popolare non è per la gente di gusto.
L’esposizione universale del 1851 segna una svolta
nella storia d’Inghilterra; a differenza del primo perio-
do vittoriano, il successivo è un tempo di prosperità e
di pacificazione. L’Inghilterra diventa l’«officina del
mondo», i prezzi salgono, le condizioni dei lavoratori
migliorano, il socialismo è reso inoffensivo, il potere
politico della borghesia si consolida. Veramente i pro-
blemi sociali non vengono risolti, ma semplicemente
smussati. La catastrofe del 1848 ha provocato una sorta
di stanchezza e passività nei ceti progressisti e cosí anche
il romanzo perde la sua aggressiva intolleranza. Thacke-
ray, Trollope e George Eliot non scrivono piú «roman-
zi sociali» come quelli di Kingsley, Mrs Gaskell e
Dickens. Essi disegnano grandi quadri della società, ma

Storia dell’arte Einaudi 218


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di rado discutono i problemi del giorno, e rinunziano a


diffondere una tesi politico-sociale. Per George Eliot, la
cui concezione è assai caratteristica dell’atmosfera intel-
lettuale del tempo28, la realtà sociale non è piú in primo
piano, sebbene, come per Jane Austen, sia l’elemento
vitale in cui si muovono i personaggi diventando l’un per
l’altro fatali. Suo tema costante è l’interdipendenza degli
uomini, il campo magnetico ch’essi creano intorno a sé,
e di cui intensificano la potenza con ogni azione e ogni
parola29; essa mostra che nella società moderna nessuno
può vivere isolato, autonomo30, e il suo è in questo senso
un romanzo sociale. Ma l’accento è mutato: la società è
sí una realtà positiva, che tutto abbraccia, ma anche un
fatto che si accetta e non si discute.
George Eliot significa nella storia del romanzo ingle-
se una svolta verso l’introversione. Gli avvenimenti piú
importanti sono nella sua opera di natura intellettuale e
morale, e la scena delle grandi lotte fatali è l’anima, l’in-
timo, la coscienza morale degli uomini. Il suo è quindi
un romanzo psicologico31. Anziché avvenimenti e avven-
ture esteriori, questioni e conflitti sociali, al centro del-
l’azione stanno un problema e una crisi morale. I suoi
eroi sono anime pensose, per cui le esperienze della
mente e della coscienza morale hanno l’immediatezza di
fatti fisici. I romanzi della Eliot sono saggi psicologico-
filosofici, che in certa misura si accostano a quell’ideale
del romanzo a cui miravano i romantici tedeschi. Tutta-
via si tratta di un’arte già diversa dal romanticismo, anzi
il primo tentativo fortunato di sostituirne i valori intel-
lettuali e morali con altri, fondamentalmente antiro-
mantici. I romanzi di George Eliot hanno un nuovo con-
tenuto intellettuale e passionale che si era perduto dal
tempo del classicismo. Anziché su esperienze sentimen-
tali di natura irrazionale, l’opera si impernia su un atteg-
giamento, che l’autrice stessa chiama «passione intellet-
tuale»32. Analisi e interpretazione della vita, conoscenza

Storia dell’arte Einaudi 219


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

e comprensione dei valori intellettuali, ecco il vero argo-


mento dei suoi romanzi. Comprendere è la parola che vi
ricorre sempre33; un atteggiamento vigile, responsabile,
severo con se stesso, e l’esigenza sempre ribadita: «Il
segno della vocazione e dell’elezione è la rinunzia all’op-
pio, la sopportazione del dolore con piena coscienza ed
occhi aperti», essa scrive in una lettera del 186034.
Solo nell’opera di un autore cosí profondamente lega-
to alla vita intellettuale del proprio tempo come Geor-
ge Eliot, poteva esprimersi il destino di nature cosí
riflessive, con i suoi problemi e le sue contraddizioni, le
sue tragedie e le sue sconfitte, giungendo all’immedia-
tezza e alla forza, che troviamo in Middlemarch. I miglio-
ri pensatori dell’Inghilterra di allora, i piú progressisti
– Mill, Spencer, Huxley – sono amici di George Eliot;
essa traduce Feuerbach e D. F. Strauss, ed è al centro
del movimento razionalista e positivista. Un severo
senso critico, che la tiene lontana da ogni atteggiamen-
to superficiale e da ogni credulità e che impronta il suo
atteggiamento morale, caratterizza tutto il suo pensie-
ro. Fra i romanzieri inglesi è la prima a saper descrive-
re adeguatamente un intellettuale. Nessun altro con-
temporaneo sa parlare di un artista o di uno studioso
senza renderlo ridicolo e senza cader nel ridicolo. Anche
per Balzac gli intellettuali sono esseri strani, esotici, che
lo gettano in un ingenuo stupore e lo inducono a un sor-
riso piú o meno bonario. Accanto a George Eliot, egli
fa la figura di un autodidatta semicolto, anche se, come
nel Chef-d’œuvre inconnu, apre prospettive piú ampie e
piú profonde di quelle concesse all’arte della scrittrice
inglese. La forza di Balzac sta nella rappresentazione
della vita, quella di George Eliot nell’analisi. Essa cono-
sce per propria esperienza il tormento di chi lotta con
problemi intellettuali, conosce o intuisce le tragedie
legate alle sconfitte dello spirito, altrimenti non avreb-
be mai potuto creare una figura cosí originale come il

Storia dell’arte Einaudi 220


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dottor Casaubon35. Solo grazie a quest’intima disposi-


zione essa può giungere a un nuovo ideale di vita e a una
nuova concezione della «vita mancata», arricchendo di
un tipo nuovo la serie di quei «falliti» a cui apparten-
gono per lo piú gli eroi del romanzo moderno.
L’intellettualismo di George Eliot non è tuttavia la
causa reale dello svolgersi del romanzo sociale in senso
psicologico, ma è solo il sintomo di un generale proces-
so che provoca un recedere dei problemi sociali di fron-
te a quelli psicologici. Il romanzo psicologico è il gene-
re letterario degli intellettuali in quanto ceto colto in via
di emancipazione dalla borghesia, come il romanzo
sociale era quello di una intellettualità ancora in com-
plesso solidale con essa. Solo al principio del secondo
periodo vittoriano gli intellettuali si presentano in
Inghilterra come un gruppo libero, «indipendente»36, «al
di là di ogni distinzione di classe»37, «mediatore» fra le
classi38. Fino a quel momento non c’era stato un «ceto
intellettuale» conscio di una propria autonomia sociale
e ribelle alla borghesia. A questa il ceto colto rimane
legato fino a che la borghesia non lo lascia andare per la
sua strada. Questo processo di separazione tra la lette-
ratura progressista e la borghesia conservatrice, che era
cominciato con il romanticismo, cessò quando i roman-
tici divennero conservatori. Gli scrittori del primo perio-
do vittoriano propugnavano riforme all’interno della
società borghese, ma non pensarono mai a distruggerla.
E neppure la borghesia li aveva mai considerati come
estranei, né come traditori; anzi ne seguiva la critica
sociale e culturale con simpatia e benevolenza. Nella vita
della società borghese l’intellettuale esercitava una fun-
zione della cui importanza le classi dominanti erano piú
o meno consapevoli. Era la valvola di sicurezza che evi-
tava le esplosioni e dava sfogo alle tensioni interne della
borghesia, rivelando conflitti di coscienza che minac-
ciavano di venire repressi.

Storia dell’arte Einaudi 221


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Soltanto dopo la vittoria sulla Rivoluzione e la scon-


fitta del cartismo, la borghesia si sentí cosí sicura del suo
potere che non ebbe piú conflitti di coscienza né rimor-
si e credette di poter fare a meno di critiche. I gruppi
culturali e specialmente gli scrittori perdettero in que-
sto modo il senso di avere una missione nella società. Si
videro esclusi da quella classe di cui fino allora erano
stati gli interpreti, e si sentirono affatto isolati tra i ceti
incolti da un lato e dall’altro la borghesia che non aveva
piú bisogno di loro. Cosí questi gruppi, prima profon-
damente radicati nella borghesia, furono portati a
mutarsi nel ceto sociale, che noi chiamiamo degli «intel-
lettuali». Veramente questa fu solo l’ultima fase del
lungo processo di graduale affrancamento degli espo-
nenti della cultura da quelli del potere. L’umanesimo e
l’illuminismo erano state le prime tappe su questa via,
emancipando la cultura sia dal dogma e dalla Chiesa, che
dall’egemonia del gusto aristocratico. La Rivoluzione
francese aveva segnato la fine del monopolio culturale
dei due ceti superiori e aperta la strada a quello della
borghesia, che con la monarchia di luglio sembra defi-
nitivamente assicurato. Verso la metà del secolo l’epo-
ca rivoluzionaria si conclude con il distacco della cultu-
ra dalle classi dominanti e l’avvio alla formazione di un
vero e proprio ceto degli intellettuali.
Il ceto degli «intellettuali» trae origine dalla borghe-
sia e ha i suoi precursori in quell’avanguardia che aveva
presieduto al maturare della Rivoluzione francese. La
cultura è per loro illuministica e liberale, il loro ideale
di umanità è quello della personalità libera, progressiva,
sciolta da vincoli tradizionali. Quando la borghesia
allontana da sé gli intellettuali e questi abbandonano la
classe d’origine, a cui li legano innumerevoli fili, si com-
pie un processo veramente innaturale, assurdo. L’e-
mancipazione degli intellettuali può considerarsi una
fase della generale specializzazione, un aspetto cioè di

Storia dell’arte Einaudi 222


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

quel processo di astrazione che dopo la rivoluzione indu-


striale abolisce i nessi «organici» tra i diversi ceti, tra le
varie professioni e i vari campi culturali; ma può anche
interpretarsi come una diretta reazione a quel processo,
come un tentativo di attuare l’ideale dell’uomo comple-
to, versatile, che integra in sé tutti i valori culturali.
L’apparente indipendenza degli intellettuali dalla bor-
ghesia, e quindi da ogni vincolo sociale, corrisponde
all’illusione che lo spirito trascenda le classi, illusione
comune a borghesi e intellettuali. Questi vogliono cre-
dere al carattere assoluto della verità e della bellezza,
perché in questo modo vengono ad essere gli esponenti
di una verità «superiore» e possono compensare la loro
mancanza d’influsso sociale; quelli tollerano la pretesa
degli intellettuali di essere al di sopra delle classi, per-
ché cosí credono di veder dimostrata l’esistenza di valo-
ri universali e la possibilità di superare i contrasti di clas-
se. Ma la scienza per la scienza o la verità per la verità,
non meno che l’art pour l’art, sono solo una conseguen-
za dell’estraniarsi dell’intellettuale dalla vita pratica.
L’idealismo implicito in questo atteggiamento esige che
la borghesia superi il suo odio per la cultura, ma gl’in-
tellettuali da parte loro vi esprimono soprattutto la loro
gelosia per la potenza dei borghesi. Il risentimento degli
uomini di cultura contro i loro padroni non è nuovo; già
gli umanisti avevano sofferto di questo conflitto da cui
derivavano i ben noti sintomi nevrotici del loro com-
plesso d’inferiorità. Ma era forse possibile per una clas-
se, che si credeva in possesso, della verità, non provare
odio e gelosia contro quella che possedeva tutta la poten-
za economica e politica? Nel Medioevo il monopolio
della «verità» l’aveva il clero, a cui non mancavano i
mezzi per esercitare il potere nella politica e nell’eco-
nomia. Tale coincidenza evitava i fenomeni patologici,
che seguirono piú tardi alla divisione di queste sfere
d’autorità.

Storia dell’arte Einaudi 223


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

A differenza del clero medievale, il moderno ceto


degli intellettuali si recluta da classi varie per censo e
mestiere e di esse rappresenta gli interessi e le vedute,
diverse e spesso antagonistiche. Questo rafforza in loro
il senso di essere al di sopra dei conflitti di classe e di
rappresentare la viva coscienza della società. La loro
origine promiscua li rende piú sensibili ai limiti delle
varie ideologie e forme di cultura, e inasprisce il tono
della loro critica sociale a cui già si sentivano chiamati
fin dal tempo della loro alleanza con la borghesia. Fin
da principio il loro compito era stato di chiarire le pre-
messe dei valori culturali e furono loro a dare chiara for-
mulazione alle idee che stavano all’origine della conce-
zione borghese, ad assicurare coerenza ideologica a quel-
lo che semplicemente era un senso della vita; in un
mondo pratico essi adempirono alla funzione del pen-
siero contemplativo, dell’introversione e della sublima-
zione; furono insomma i portavoce dell’ideologia bor-
ghese. Ma, allentati ormai i loro vincoli con la borghe-
sia, quella che un tempo era una censura che la classe
dominante imponeva a se stessa, si trasforma in una cri-
tica distruttiva, il principio della dinamica e del rinno-
vamento si muta in un principio di anarchia. Come
parte della classe borghese, gli intellettuali avevano aper-
to la via alle riforme; abbandonandola, diventano fomi-
te di rivolta e disgregazione. Fin verso il 1848, rappre-
sentano ancora lo spirito d’avanguardia della borghesia,
dopo il 1848 consciamente o inconsciamente diventano
i campioni della classe lavoratrice. La precarietà della
loro esistenza li porta a sentire una certa comunione di
destino con il proletariato, e questo senso di solidarietà
accresce la loro costante disposizione a cospirare contro
la borghesia, contribuendo a preparare la rivoluzione
contro il capitalismo.
Nella bohème l’affinità fra intellettuali e proletaria-
to va ben oltre i limiti di questa generica simpatia. Anzi,

Storia dell’arte Einaudi 224


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

il bohémien è parte del proletariato. In certo modo egli


rappresenta la figura compiuta, e insieme anche la cari-
catura dell’«intellettuale». Infatti se la bohème eman-
cipa l’intellettuale dalla borghesia, fa anche in modo
che la lotta contro le convenzioni borghesi diventi un’i-
dea fissa, spesso quasi una mania di persecuzione.
Attuando l’ideale di una concentrazione esclusiva sui
fini intellettuali, l’intellettuale trascura gli altri valori
della vita e toglie ogni significato a questa vittoria dello
spirito sulla vita. L’indipendenza del mondo borghese si
rivela una libertà apparente, poiché l’intellettuale sente
il proprio isolamento come una colpa grave, se pure
inconfessata; la sua arroganza copre in realtà una debo-
lezza; il suo esagerato orgoglio, un dubbio sulla propria
forza creativa. In Francia quest’evoluzione e piú rapida
che in Inghilterra, dove a mezzo il secolo con Ruskin,
J. S. Mill, Huxley, George Eliot e il loro seguito appaio-
no i primi rappresentanti di un «pensiero libero», «indi-
pendente», ma dove per il momento non si può parlare
né di una svolta verso la rivoluzione proletaria, né del
costituirsi di una bohème. I vincoli con la borghesia qui
sono ancora cosí stretti che gli intellettuali preferiscono
rifugiarsi in un «aristocratico moralismo»39 piuttosto
che far causa comune con le masse. Anche George Eliot
concepisce essenzialmente come una questione psicolo-
gico-morale quel che in realtà è un problema sociologi-
co, e i suoi romanzi cercano nella psicologia la risposta
a quesiti, che soltanto il sociologo può risolvere. Cosí
essa abbandona il sentiero che il romanzo russo invece
percorre, trovandovi la sua perfezione.

Il moderno romanzo russo è essenzialmente opera


dell’intelligencija russa, cioè di quell’élite che si considera
scissa dalla Russia ufficiale e per letteratura intende
anzitutto critica della società e per romanzo il romanzo
«sociale». Come semplice genere ameno o pura analisi

Storia dell’arte Einaudi 225


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

psicologica, senza pretese d’importanza e di utilità socia-


le, il romanzo è un genere ignoto in Russia fin verso il
1880. La nazione è in tal fermento e fra i lettori è cosí
evoluta la coscienza politica e sociale, che un principio
come l’art pour l’art qui non può certo affermarsi. In
Russia l’intellettuale implica sempre l’attivista, ben piú
legato che in Occidente all’opposizione democratica. I
nazionalisti conservatori non possono in alcun modo
essere annoverati fra questi intellettuali intransigenti,
esclusivi, settari40, e gli stessi maestri maggiori del
romanzo russo, specialmente Dostoevskij e Tolstoj, solo
con riserva vi possono rientrare; per altro il loro atteg-
giamento critico verso la società è legato al pensiero
dell’intelligencija, e la loro arte partecipa alla sua opera
distruttiva, anche se personalmente non vogliono aver
nulla di comune con essa41.
Tutta la moderna letteratura russa nasce dallo spiri-
to dell’opposizione. La sua prima fioritura si deve all’at-
tività poetica della nobiltà progressista e cosmopolita,
che mira ad affermare le idee dell’illuminismo e della
democrazia contro il dispotismo degli zar. La nobiltà
liberale e occidentalizzante è, al tempo di Pu∫kin, l’u-
nico gruppo colto della società russa. È vero che con il
sorgere del capitalismo commerciale e industriale la clas-
se dei lavoratori della mente, finora composta soprat-
tutto di funzionari e di medici, si allarga sensibilmente
grazie ai nuovi tecnici, avvocati e giornalisti42; ma la let-
teratura rimane dominio esclusivo di ufficiali dell’ari-
stocrazia, insoddisfatti del loro mestiere, che sperano
piú nel libero mondo borghese che nel loro vacillante
feudalesimo43. Sconfitti i decabristi, la reazione, rinvi-
gorita, riesce, sì, a sbaragliare i ribelli, ma non a evita-
re la formazione di una nuova avanguardia politica e let-
teraria – quella dell’intelligencija. Cosí nella letteratura
russa finisce l’egemonia della nobiltà, quasi esclusiva
fin verso il 1840. La morte di Pu∫kin conclude un’epo-

Storia dell’arte Einaudi 226


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ca: la funzione direttiva passa nelle mani dell’intelligen-


cija e in complesso non vi sono deviazioni fino alla rivo-
luzione bolscevica44.
Il nuovo ceto colto è un gruppo misto di nobili e ple-
bei, che recluta spostati d’ogni classe. Lo compongono
i cosiddetti «nobili penitenti», idealmente ancora abba-
stanza vicini ai decabristi, e i figli di piccoli commer-
cianti, di funzionari subalterni, di preti di città e di servi
emancipati, che di solito vengono indicati come «gente
di origine promiscua», e per lo piú conducono la vita
precaria di «liberi artisti», giornalisti, studenti e pre-
cettori. Fin verso la metà del secolo i plebei sono una
minoranza di fronte ai nobili, ma a poco a poco si fanno
piú numerosi e finiscono con l’assorbire gli altri ele-
menti. La parte piú importante l’hanno i figli dei sacer-
doti, che da casa portano con sé una certa cultura e sen-
sibilità intellettuale, ma, per la naturale opposizione tra
padri e figli, sono i piú aspri nel manifestare l’ostilità
dell’intelligencija alla religione e alle tradizioni. In com-
plesso essi sono quel che nel Settecento erano stati i figli
dei pastori in Occidente, dove l’illuminismo aveva tro-
vato condizioni analoghe a quelle della Russia prerivo-
luzionaria. Non a caso, dunque, due dei massimi cam-
pioni del razionalismo e del radicalismo russo,
Cerny∫evskij e Dobroljubov, sono figli di preti e ven-
gono dalla borghesia delle grandi città commerciali.
L’università di Mosca con le sue associazioni stu-
dentesche e i suoi circoli culturali è il centro della nuova
intelligencija senza classi. Il contrasto tra l’antica resi-
denza imperiale, scettica e dedita ai piaceri, popolata di
alti funzionari e generali, e la moderna città universita-
ria con la sua gioventú infiammabile e avida di sapere,
sta all’origine di questa svolta culturale45. Lo studente
povero, che può contare solo su se stesso, è il prototipo
del nuovo ceto intellettuale, come il nobile ufficiale
della Guardia lo era dell’antica élite. La società colta di

Storia dell’arte Einaudi 227


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Mosca conserva ancora per qualche tempo un’impronta


semiaristocratica, e fin verso il 1850 le discussioni filo-
sofiche si tengono ancora per lo piú nei salotti46, ma que-
sti non hanno piú un carattere esclusivo e a poco a poco
perdono d’importanza. Nel settimo decennio del secolo
la democratizzazione della letteratura e la costituzione
del nuovo ceto intellettuale sono ormai compiute. Dopo
l’emancipazione dei contadini questo si accresce note-
volmente per l’afflusso di elementi della piccola nobiltà
impoverita; ma questi elementi non mutano piú nulla
all’intima struttura del gruppo. I possidenti rovinati
debbono in parte vivere del loro lavoro intellettuale e
adattarsi alle condizioni dell’intelligencija borghese. Se
una parte di essi va ad accrescere il numero degli occi-
dentalisti, cosmopoliti e progressisti, un’altra parte
accresce quello degli slavofili, favorendo cosí l’equilibrio
fra i due gruppi.
Il movimento slavofilo, reazione intellettuale al razio-
nalismo degli occidentalisti, corrisponde allo storicismo
e al tradizionalismo romantico con cui, mezzo secolo
prima, l’Occidente aveva reagito alla Rivoluzione. Gli
slavofili sono gli eredi indiretti, e per lo piú inconsci, di
Burke, de Bonald, de Maistre, Herder, Hamann, Möser
e Adam Müller, come gli occidentalisti sono discepoli di
Voltaire e dell’Encyclopédie, dell’idealismo tedesco e,
piú tardi, dei socialisti Saint-Simon, Fourier e Comte,
o dei materialisti Feuerbach, Büchner, Vogt e Mole-
schott. Di fronte al cosmopolitismo e al libero pensiero
ateo degli occidentalisti, gli slavofili insistono sul valo-
re delle tradizioni religiose e nazionali e proclamano la
loro mistica fede nel contadino russo e la loro devozio-
ne alla Chiesa ortodossa. In contrasto con il razionali-
smo e il positivismo, si dichiarano per l’idea irrazionale
dell’«organico» sviluppo storico e presentano la vecchia
Russia con il suo «genuino cristianesimo» libero dal-
l’individualismo occidentale, come l’ideale e la salvezza

Storia dell’arte Einaudi 228


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dell’Europa; mentre per gli occidentalisti, era l’Europa


l’ideale e la salvezza della Russia. La slavofilia è in sé
antichissima, anche piú antica dell’opposizione alle rifor-
me di Pietro il Grande, ma ufficialmente comincia solo
con la lotta contro Belinskij. Ad ogni modo l’avvio effet-
tivo e il programma del movimento risalgono all’oppo-
sizione contro «gli uomini del quinto decennio». Espo-
nenti di questa slavofilia che presenta una sua defini-
zione teorica e una sua consapevolezza programmatica
dapprima sono specialmente nobili possidenti, ancora
legati a una vita feudale e che mascherano il loro con-
servatorismo politico e sociale con l’ideologia della
«santa Russia» e della «funzione messianica degli
Slavi». Per lo piú il loro culto delle tradizioni naziona-
li non è che un mezzo per combattere le idee progressi-
ve degli occidentalisti, e il loro entusiasmo, rousseauia-
no e romantico, per il contadino russo è solo la forma
ideologica del loro sforzo di mantenere condizioni di
vita patriarcali e feudali.
Ma la slavofilia non s’identifica del tutto con il con-
servatorismo e la reazione. Fra gli slavofili ci sono veri
amici del popolo, come tra gli occidentalisti non man-
cano anche avversari della democrazia. È noto che lo
stesso Herzen nutriva certe riserve contro le istituzioni
democratiche dell’Occidente. I primi slavofili sono, in
ogni caso, avversari dell’autocrazia zarista e combatto-
no il governo di Nicola I. Piú tardi la loro corrente si
riconcilia con lo zarismo, la cui idea è parte integrante
della loro teoria dello Stato e della loro filosofia della
storia; ma continuano ad annoverare dei democratici fra
i loro partigiani. Dobbiamo distinguere soprattutto due
fasi nel movimento slavofilo, proprio come dobbiamo
parlare di due generazioni diverse di occidentalisti.
Infatti, come il riformismo e il razionalismo degli anni
1840-50 si sviluppa nel socialismo e nel materialismo
degli anni ’60-80, cosí la slavofilia dei proprietari feu-

Storia dell’arte Einaudi 229


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dali si trasforma nel panslavismo e nel populismo di


Danilevskij, Grigor´ev e Dostoevskij. Il nuovo indiriz-
zo democratico è in stridente contrasto con l’antica ten-
denza aristocratica47. Dopo l’emancipazione dei conta-
dini molti degli scrittori piú anziani s’allontanano dal-
l’intelligencija e dagli occidentalisti per aderire al nazio-
nalismo, cosí che non si può piú affermare che «la cri-
tica conservatrice qualitativamente e quantitativamen-
te sia notevolmente inferiore a quella progressista»48.
Gli slavofili e gli occidentalisti ora si distinguono piú
nei metodi di lotta che nei fini. Tutti gl’intellettuali russi
fanno propria l’«idea slava»; tutti sono patrioti e araldi
della «missione russa». Essi «s’inginocchiano mistica-
mente davanti al contadino e alla sua pelliccia di peco-
ra»49, studiano l’anima russa e si entusiasmano per la
«poesia folkloristica». La frase di Pietro il Grande:
«Abbiamo bisogno dell’Europa per qualche decennio,
poi potremo voltarle le spalle», risponde ancora all’opi-
nione prevalente fra questi riformatori. La parola narod,
che vuol dire insieme «popolo» e «nazione», è tale da
permettere di cancellare la distinzione tra democratici e
nazionalisti50. Le velleità slavofile dei radicali si spiega-
no anzitutto col fatto che i Russi, ancora in una fase ini-
ziale del capitalismo, sono una nazione assai piú omo-
genea, cioè assai meno differenziata in classi, di quelle
dell’Occidente. In Russia tutta l’élite intellettuale è
sotto l’influsso di Rousseau e piú o meno ostile all’arte
e alla cultura; le tradizioni culturali dell’Occidente, l’an-
tichità classica, la Chiesa romana, la scolastica medie-
vale, il Rinascimento e la Riforma e, in parte, perfino il
moderno individualismo, l’orientamento scientifico e
quello estetizzante, le appaiono come un ostacolo all’at-
tuazione. delle sue proprie mete51. L’utilitarismo esteti-
co di Belinskij, Cerny∫evskij e Pisarev è antitradiziona-
lista non meno dell’atteggiamento di Tolstoj contro l’ar-
te. Neppure nella grande controversia tra soggettivismo

Storia dell’arte Einaudi 230


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

e obiettivismo, individualismo e collettivismo, libertà e


autorità, le parti sono nettamente divise tra occidenta-
listi e slavofili, benché naturalmente i primi siano piú
inclini al liberalismo, i secondi all’autoritarismo. Belin-
skij e Herzen combattono non meno disperatamente di
Dostoevskij e Tolstoj, e spesso nello stesso modo incon-
sulto, con il problema della libertà individuale. Tutta la
speculazione filosofica dei Russi s’impernia su questo
problema, e il pericolo del relativismo morale, lo spet-
tro dell’anarchia, il caos del delitto sono l’angosciosa
preoccupazione di ogni pensatore russo. Il grande pro-
blema, fondamentale per la coscienza europea, dell’e-
straniarsi dell’individuo dalla società, della solitudine e
dell’isolamento dell’uomo moderno, diviene per i Russi
il problema della libertà. In nessun altro luogo esso è
stato vissuto e dibattuto piú profondamente e intensa-
mente; e nessuno piú tormentosamente di Tolstoj e
Dostoevskij ha sentito la responsabilità della sua solu-
zione. L’eroe delle Memorie del sottosuolo, Raskol´nikov,
Kirillov, Ivan Karamazov, tutti vi si cimentano, tutti
lottano contro il pericolo di essere inghiottiti dall’abis-
so dell’illimitata libertà, dell’arbitrio e dell’egoismo. Il
rifiuto dell’individualismo da parte di Dostoevskij, la
sua critica all’Europa razionalista e materialista, la sua
apoteosi della solidarietà umana e dell’amore non hanno
altro senso che quello di prevenire un’evoluzione che
porterebbe al nichilismo di Flaubert. Il romanzo occi-
dentale finisce con la rappresentazione dell’individuo
isolato dalla società, soccombente al peso della propria
solitudine; il romanzo russo, dal principio alla fine,
descrive la lotta contro i demoni che inducono l’indivi-
duo a rinnegare il mondo e la comunità degli uomini.
Questo tratto essenziale spiega non solo le figure pro-
blematiche di Raskol´nikov e Ivan Karamazov, di Pier-
re Bezuchov e Levin, non solo il messaggio d’amore e

Storia dell’arte Einaudi 231


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di fede di Dostoevskij e Tolstoj, ma il messianismo di


tutta la letteratura russa.
Il romanzo russo è letteratura impegnata in un senso
molto piú stretto che non quello occidentale. I proble-
mi sociali non solo vi occupano piú spazio e una posi-
zione piú centrale, ma vi mantengono una preminenza
piú lunga e incontrastata che nella letteratura d’Occi-
dente. Fin dall’inizio in esso l’aggancio con le questio-
ni sociali e politiche del momento è piú stretto che nelle
opere degli scrittori contemporanei di Francia e d’In-
ghilterra. Il dispotismo russo non permette alle energie
intellettuali altra affermazione che quella letteraria, e la
censura fa sí che la critica sociale non abbia altra via di
comunicazione che la poesia52. In quanto forma che
meglio vi si presta, il romanzo assume quindi un carat-
tere attivistico, pedagogico, anzi profetico, che in Occi-
dente non ebbe mai, e gli autori russi rimangono i mae-
stri e i profeti del loro popolo, quando ormai in Euro-
pa i letterati cadono in totale passività e isolamento.
L’Ottocento è l’epoca illuministica dei Russi; per tutto
il secolo essi conservano l’entusiasmo e l’ottimismo del-
l’Occidente prerivoluzionario. La Russia non ha prova-
to le delusioni delle rivoluzioni europee, tradite, scon-
fitte, falsate; qui non c’è traccia della stanchezza che si
osserva in Francia e in Inghilterra dopo il 1848. Alla gio-
vanile inesperienza della nazione e alla sua fiducia, non
ancora mortificata, nell’idea del progresso sociale dob-
biamo la promettente freschezza del romanzo naturali-
stico russo, mentre il naturalismo in Francia e in Inghil-
terra comincia ad evolversi verso un passivo impressio-
nismo. La letteratura russa, passando dalle mani della
nobiltà stanca e in declino in quelle di un ceto in asce-
sa, quando in Occidente la borghesia, il ceto cultural-
mente egemone, si sente ormai esausta e minacciata dal
basso, riesce a superare non soltanto la malinconia che
cominciava ad affermarsi negli scrittori della nobiltà

Storia dell’arte Einaudi 232


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

incline al romanticismo, ma anche lo stato d’animo ras-


segnato e scettico prevalente nella moderna letteratura
occidentale. Nonostante i suoi toni cupi, il romanzo
russo esprime un invincibile ottimismo, testimonia la
fede nell’avvenire della Russia e dell’umanità; è e rima-
ne pervaso da uno spirito combattivo pieno di speran-
za, da una brama, da una certezza evangelica di reden-
zione. Quest’ottimismo non si manifesta certo in facili
ideali né in un «lieto fine» a buon mercato, ma nella
sicura fiducia che abbiano un senso e non siano mai vani
il dolore e il sacrificio dell’umanità. Le opere dei gran-
di scrittori russi hanno quasi sempre una fine dolce-
mente placata, sebbene spesso tristissima; sono piú seri
dei romanzi di Flaubert, di Maupassant e dei Goncourt,
ma non sono mai cosí amari, cosí disperati.
È prodigioso come il romanzo russo, pur cosí recen-
te, non solo uguagli il romanzo francese e inglese, ma si
sostituisca ad essi nella funzione di guida e si ponga
come la forma letteraria piú avanzata e vitale del tempo.
Accanto alle opere di Dostoevskij e di Tolstoj, tutta la
letteratura occidentale del secondo Ottocento appare
esausta e stagnante. Anna Karenina e I fratelli Karama-
zov segnano le vette del naturalismo europeo; essi rias-
sumono e sorpassano le conquiste psicologiche del
romanzo francese e inglese, senza mai smarrire il senso
dei grandi nessi sovraindividuali. Come il romanzo
sociale giunge a perfezione con Balzac, il romanzo della
formazione intima con Flaubert, il romanzo picaresco
con Dickens, cosí il romanzo psicologico entra con
Dostoevskij e Tolstoj nella piena maturità. Sono questi
due artisti i primi che portano a conclusione il processo
iniziatosi con il romanzo sentimentale di Rousseau,
Richardson e Goethe, come con il romanzo analitico di
Marivaux, Benjamin Constant e Stendhal. La psicologia
moderna comincia con la rappresentazione del dissidio
dell’anima, dissidio che non si può semplicemente ridur-

Storia dell’arte Einaudi 233


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

re a un conflitto intimo. Già Antigone oscilla fra dove-


re e impulsi e gli eroi di Corneille si può dire non vivo-
no se non in questo contrasto. In Shakespeare l’indeci-
sione dell’eroe diventa l’argomento stesso del dramma.
È vero che le inibizioni qui non vengono soltanto da un
impulso morale, come in Sofocle e in Corneille, ma
anche dai nervi, cioè da una zona psichica inconscia e
incontrollata; ma le opposte inclinazioni si presentano
sempre ben distinte, e il giudizio morale dei personaggi
sui propri impulsi è netto e coerente. Al piú essi esita-
no tra impulsi e sentimenti diversi, ma non mai nella
loro adesione morale all’una o all’altra parte dei loro
impulsi. La disintegrazione della personalità, per cui
l’antagonismo dei sentimenti va tant’oltre che l’indivi-
duo non è piú chiaro a se stesso e diventa per se stesso
un problema, non fa la sua comparsa che al principio del
secolo scorso. Solo con i fenomeni connessi con il
moderno capitalismo, cioè il romanticismo e l’estraniarsi
dell’individuo dalla società, si hanno questi spiriti cosí
coscienti del loro intimo dissidio e con essi il problema-
tico personaggio moderno. Le contraddizioni psicologi-
che in Shakespeare e negli elisabettiani per lo piú non
sono che assurdità; rappresentano uno stadio di svilup-
po anteriore alla sintesi classica. In altri termini, il dram-
maturgo non ha ancora imparato come si disegna un per-
sonaggio che agisca in modo unitario e coerente, né dà
speciale importanza all’unità del carattere. I personaggi
incoerenti della letteratura romantica sono invece
espressione di una cosciente e programmatica reazione
al razionalismo della psicologia classica. Si prediligono
tipi sfrenati e fantastici, perché si crede che il caotico
sentimento sia piú genuino e spontaneo della coerente
e metodica ragione. L’espressione piú evidente, benché
ancora un po’ cruda, dell’anima in contrasto con se stes-
sa, ormai irriducibile ad unità razionale, è l’idea del
«doppio», che lo stesso Dostoevskij desume dai roman-

Storia dell’arte Einaudi 234


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tici come requisito costante del personaggio, e conserva


sino alla fine. Ma la completa dissoluzione dell’unità del
carattere, cioè la disorganizzazione che consiste non
solo nell’incoerenza dei contenuti psichici, ma anche
nel loro continuo spostarsi e trasformarsi, mutando valo-
re e significato, si ha con la lotta contro il romanticismo
e il continuo oscillare fra atteggiamenti romantici e anti-
romantici. In Stendhal, che apre questa fase, i vari con-
tenuti della psiche si trasformano sotto i nostri occhi. La
provvisorietà del quadro psichico e la natura indefinibile
degli atteggiamenti intimi, diventano ora il criterio di
ogni studio psicologico e solo una figura cangiante e
caleidoscopica può suscitare un interesse artistico. L’ul-
timo stadio di questa evoluzione si ha nei personaggi di
Dostoevskij, del tutto imprevedibili e irrazionali. «Tu
non sei quel che sembri», diventa la norma della psico-
logia, e importanza psicologica nell’uomo ha soltanto
quel che è strano e sinistro, demoniaco e abissale.
Accanto alle figure di Dostoevskij, i caratteri ben meno
complicati della letteratura precedente appaiono sempre,
dal piú al meno, idillici e arbitrari. Oggi per altro è faci-
le accorgersi che anche la psicologia di Dostoevskij è
piena di tratti convenzionali e largamente si serve di
residui di byronismo e di romanzo nero. Vediamo che
Dostoevskij non è un inizio, ma un termine e che, pur
con tutta la sua originalità e fecondità, è pronto ad acco-
gliere e sviluppare coerentemente le conquiste del
romanzo psicologico occidentale.
Dostoevskij scopre il piú importante principio della
psicologia moderna: l’ambivalenza dei sentimenti e il
dissidio di ogni atteggiamento psichico eccessivo, che si
esplichi in forme esagerate e troppo dimostrative. Non
solo amore e odio, orgoglio e umiltà, autoesaltazione e
autoavvilimento, sadismo e masochismo, desiderio del
sublime e «nostalgia del fango», sono intimamente lega-
ti; non solo figure come Raskol´nikov e Svidrigailov,

Storia dell’arte Einaudi 235


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

My∫kin e Rogo∆in, Ivan Karamazov e Smerdjakov sono


due volti di un unico principio; ma ogni impulso, ogni
moto dell’animo, ogni idea suscita il suo opposto appe-
na affiora alla coscienza di questi uomini. Gli eroi di
Dostoevskij sono sempre di fronte ad alternative:
dovrebbero e non possono scegliere; quindi il loro pen-
siero, l’autoanalisi e l’autocritica non sono che un con-
tinuo infierire contro se stessi. La parabola dei porci in
cui è entrato il Maligno non si riferisce solo ai personaggi
dei Demoni, ma piú o meno a tutta la stirpe dostoev-
skiana. I suoi romanzi si svolgono alla vigilia del giudi-
zio universale; vi regna sempre una terribile tensione,
un’angoscia mortale, vi si disfrena il caos; ogni cosa
attende lume, pace, salvezza da un miracolo: attende
una soluzione che non verrà piú dalla forza e dal rigore
dell’intelletto, dalla dialettica razionale, ma dalla rinun-
zia a quella forza e dal sacrificio della ragione. Nell’idea
del suicidio intellettuale, che Dostoevskij propugna, si
rivela quanto sia discutibile la sua filosofia, che cerca di
risolvere in modo affatto irreale problemi reali, que-
stioni rettamente impostate.
Dostoevskij deve la profondità e la sottigliezza della
sua psicologia all’intensità con cui egli vive la proble-
matica dell’intellettuale moderno. Ma l’ingenuità della
sua etica nasce dai suoi scarti antirazionalistici, dall’ab-
bandono dei valori intellettuali e dall’incapacità di resi-
stere alle seduzioni del romanticismo e dell’astratto idea-
lismo. In lui nazionalismo mistico, ortodossia religiosa,
etica intuitiva si legano in una fondamentale unità che
risale evidentemente alla stessa esperienza, alla medesi-
ma scossa psichica. In gioventú Dostoevskij fu un radi-
cale e appartenne alla cerchia socialisteggiante di
Petra∫evskij. Per tale attività venne condannato a morte
e, dopo aver assistito a tutti i preparativi dell’esecuzio-
ne, fu graziato e mandato in Siberia. Quest’esperienza
e gli anni della prigionia sembrano averne fiaccato lo spi-

Storia dell’arte Einaudi 236


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rito di rivolta. Quando, dopo un’assenza di dieci anni,


egli torna a Pietroburgo, non è piú socialista né radica-
le, benché sia ancora molto lontano dal misticismo poli-
tico e religioso dei suoi anni successivi. Soltanto le ter-
ribili privazioni dei tempi che seguirono, il peggiora-
mento della malattia e il vagabondaggio per l’Europa
infrangeranno del tutto la sua resistenza. Già l’autore di
Delitto e castigo e dell’Idiota cerca rifugio e pace nella
religione, ma il creatore dei Demoni e dei Fratelli Kara-
mazov è ormai un entusiastico apologeta dell’autorità
ecclesiastica e laica e un banditore del dogma. Solo però
negli ultimi anni Dostoevskij diventa il moralista, il
mistico, il reazionario, quale si suole sommariamente
caratterizzarlo53. Tuttavia, anche con queste limitazioni
non è agevole definirlo politicamente.
La sua critica del socialismo è semplicemente assur-
da; eppure, il mondo ch’egli descrive invoca il socialismo
e la liberazione dell’umanità dalla miseria e dall’umilia-
zione. Anche in questo caso si deve parlare di «trionfo
del realismo», di vittoria dell’artista penetrante e sensi-
bile alla realtà sul politico romantico e confuso. Ma in
Dostoevskij la situazione è assai piú complicata che in
Balzac. Nell’arte sua hanno una grande importanza la
simpatia e la solidarietà con gli «umiliati e offesi», sim-
patia di cui non c’è traccia nello scrittore francese; e c’è
in lui una specie di nobiltà della miseria, benché nelle
sue pagine sulla povera gente molto sia convenzione let-
teraria e derivazione romantica. In ogni caso Dostoev-
skij è uno dei pochi veri poeti della povertà, e non solo
per compassione verso i poveri come George Sand ed
Eugène Sue, o per pallidi ricordi come Dickens, ma per-
ché ha passato la piú gran parte della sua vita in mise-
ria e talvolta ha letteralmente sofferto la fame. Perciò,
anche quando parla dei suoi problemi religiosi e mora-
li, Dostoevskij riesce piú travolgente e rivoluzionario di
George Sand, Eugène Sue e Dickens quando descrivo-

Storia dell’arte Einaudi 237


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

no la miseria e l’ingiustizia del loro tempo. Ma egli non


è comunque un interprete delle masse rivoluzionarie.
Con il proletariato operaio e coi contadini egli non ha
alcuna intima affinità, nonostante la sua idealizzazione
del «popolo» e la sua slavofilia54. Solo il proletariato
intellettuale lo attrae veramente. Egli stesso si chiama
«proletario della letteratura» e «cavallo di posta», per-
ché lavora sempre sotto l’assillo del contratto, non ha
mai venduto un’opera se non a pagamento anticipato, e
spesso non sa ancora quale sarà la fine di un capitolo,
mentre il principio è già in tipografia. Egli si lamenta che
il lavoro lo ha schiacciato, consunto; che ha lavorato fino
all’istupidimento, fino a sentirsi rompere il cervello e
sospira di riuscire a scrivere anche un solo romanzo,
come Turgenev e Tolstoj scrivono le loro opere. Tutta-
via egli si proclama «letterato» in tono di fierezza e di
sfida e si considera il rappresentante di una nuova gene-
razione e di una nuova classe sociale, che ancora non
hanno trovato espressione letteraria. E, nonostante la
sua opposizione alle aspirazioni politiche dell’intelligen-
cija, è il primo valido esponente di essa nel romanzo
russo. Gogol´, Goncarov e Turgenev, sostanzialmente
esprimono ancora la mentalità nobiliare, anche se sosten-
gono idee molto avanzate e, in contrasto con gli interessi
della propria classe, sono fra i campioni dell’evoluzione
borghese della Russia. Dostoevskij giustamente anno-
vera anche Tolstoj fra i rappresentanti di questa «lette-
ratura di possidenti», e lo chiama lo «storiografo del-
l’aristocrazia», che nei suoi grandi romanzi, soprattut-
to in Guerra e pace, si attiene alla forma della cronaca
famigliare di Aksakov55.
Per lo piú gli eroi di Dostoevskij, specie
Raskol´nikov, Ivan Karamazov, \catov, Kirillov, Stepan
Verchovenskij, sono intellettuali borghesi, e l’autore
orienta la sua analisi della società secondo il loro punto
di vista, benché non si identifichi mai espressamente con

Storia dell’arte Einaudi 238


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

loro. Ma per capire la visione di uno scrittore non impor-


ta tanto sapere quale causa egli sostenga, quanto con
quali occhi egli consideri il mondo. Dostoevskij vede i
problemi sociali del suo tempo, anzitutto il disgregarsi
della società e l’abisso sempre piú profondo tra le clas-
si, dal punto di vista dell’intelligencija, e per lui la solu-
zione può venire solo dal ricongiungersi della gente colta
al popolo ingenuo e credente da cui si è allontanata. Tol-
stoj giudica gli stessi problemi dal punto di vista della
nobiltà e spera il risanamento sociale dall’intesa fra con-
tadini e signori terrieri. Il suo pensiero rimane vincola-
to alle idee di un feudalesimo patriarcale, e anche quei
personaggi che meglio incarnano le sue idee, Levin e
Pierre Bezuchov, sono al piú benefattori del popolo, ma
non veri democratici. Invece nel mondo di Dostoevskij
domina una perfetta democrazia spirituale. Tutti i suoi
personaggi, ricchi e poveri, aristocratici e plebei, lotta-
no con gli stessi problemi morali. My∫kin, il ricco prin-
cipe, e Raskol´nikov, il povero studente, sono entram-
bi esuli, vagabondi, decaduti e reietti e non hanno posto
nella moderna società borghese.
In certa misura tutti i suoi eroi ne sono esclusi e for-
mano un mondo senza classi, in cui dominano rapporti
puramente spirituali. In quel che fanno essi si impegna-
no con tutto l’essere loro, con tutta l’anima, e nella
meccanica monotonia del mondo moderno rappresenta-
no un’utopica realtà dell’intelletto e dell’anima. «Noi
non abbiamo interessi di classe, perché, a rigore, non
abbiamo classi e perché l’anima russa è piú grande dei
contrasti, degli interessi e della giustizia di classe», scri-
ve Dostoevskij nel Diario di uno scrittore; e nulla è piú
caratteristico del suo modo di pensare di questa affer-
mazione che contraddice alla sua consapevolezza d’esser
diverso dai suoi nobili colleghi proprio per una diffe-
renza di classe. Il medesimo Dostoevskij che pone una
cesura cosí netta tra sé e gli esponenti della «letteratu-

Storia dell’arte Einaudi 239


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ra dei possidenti» e come scrittore fonda la sua ragion


d’essere sulla sua natura di intellettuale plebeo, d’altra
parte nega le classi e crede al primato di rapporti spiri-
tuali fuori d’ogni legame sociale.
Piú volte si è insistito sull’analogia fra la posizione
sociale dello scrittore russo e quella di Dickens. È stato
osservato che entrambi erano figli di gente senza salde
radici sociali e fin da giovani conobbero l’insicurezza
sociale e la condizione di spostati56. Il padre di Dostoev-
skij era un medico militare e la madre era figlia di un
mercante. Il padre aveva acquistato una piccola pro-
prietà e fatto educare i figli in una scuola frequentata
specialmente da giovani nobili. La madre morí presto e
il padre, datosi al bere, venne ucciso dai suoi contadini
che, a quanto pare, egli maltrattava. Così, da un livello
sociale relativamente rispettabile, Dostoevskij cadde al
livello di quel proletariato intellettuale, da cui egli si sen-
tiva attratto e insieme respinto. Nulla di piú verosimile
che, per Dickens come per Dostoevskij, il loro atteg-
giamento verso la società, contraddittorio e per molti
aspetti confuso, sia connesso con la posizione incerta del
padre e con la loro precoce esperienza della degradazio-
ne sociale.
Nella storia del romanzo sociale Dostoevskij ha anzi-
tutto il merito di averci dato la prima rappresentazione
naturalistica della grande città moderna con la sua popo-
lazione piccolo-borghese e proletaria, i bottegai e gli
impiegati, gli studenti e le prostitute, i perdigiorno e gli
affamati. La Parigi di Balzac era ancora una selva roman-
tica, teatro di fantastiche avventure e di prodigiosi
incontri, uno scenario dipinto a violento chiaroscuro, un
paese di fiaba dove la ricchezza abbagliante stava accan-
to alla povertà pittoresca. Invece Dostoevskij dipinge il
quadro della gran città grigio su grigio, come un luogo
di cupa, incolore miseria. Egli ne mostra i sordidi uffi-
ci, le bettole soffocanti, le camere ammobiliate, quelle

Storia dell’arte Einaudi 240


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

«casse da morto» – com’egli le chiama – in cui consu-


mano i loro giorni le piú tristi vittime della vita cittadi-
na. Tutto ciò ha un chiaro significato sociale e una punta
politica; ma Dostoevskij si sforza di eliminare dai suoi
personaggi i coefficienti di classe. Egli abbatte le bar-
riere economiche e sociali e li mescola tutti insieme,
come se veramente esistesse per gli uomini un comune
destino. In lui spiritualismo e nazionalismo hanno la
stessa funzione: servono a creare la leggenda di un esse-
re morale che vive secondo leggi che trascendono la
nascita, la classe e la cultura. In Gon™arov, Turgenev e
Tolstoj le caratteristiche di classe dei personaggi riman-
gono; il fatto ch’essi siano nobili, borghesi o popolani
non è mai trascurato né dimenticato. Invece Dostoev-
skij tralascia spesso queste distinzioni, anzi talvolta sem-
bra farlo deliberatamente. Se tuttavia il carattere di
classe riesce ad affermarsi nei suoi personaggi, e soprat-
tutto i suoi intellettuali ci appaiono come un gruppo
sociale ben definito, è questo un trionfo del realismo che
fa di Dostoevskij, a suo dispetto, un materialista.
Ma questo «materialismo» non è che una delle pre-
messe invisibili e per lo piú inconsce, di una vera pas-
sione intellettuale, di un’ossessione che lo spinge ad
esaurire fino all’ultimo le esperienze, a scrutare i senti-
menti fin nel piú remoto impulso, ad approfondire sem-
pre piú le idee, a esperimentarne le estreme conseguen-
ze scendendo fino alle piú profonde sorgenti del sub-
conscio. Gli eroi di Dostoevskij sono pensatori appas-
sionati, impavidi, maniaci, in lotta disperata con le loro
idee e i loro fantasmi come un tempo gli eroi dei roman-
zi cavallereschi con i mostri e i giganti. Per le idee essi
soffrono, uccidono, muoiono; per essi la vita è un com-
pito filosofico e la loro unica incoercibile attività, l’unica
sostanza della vita è il pensiero. Essi lottano veramen-
te con i mostri, con idee non ancor nate, indefinibili,
amorfe, con problemi che non si possono risolvere, anzi

Storia dell’arte Einaudi 241


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

neppur formulare. Non solo Dostoevskij è il primo pen-


satore moderno che sappia rendere un’esperienza intel-
lettuale concreta e immediata come un’esperienza sen-
sibile, ma si spinge in regioni dello spirito ancora ine-
splorate. Egli scopre una nuova dimensione, una nuova
profondità, una nuova intensità del pensiero. Certo la
scoperta appare cosí nuova anzitutto perché il romanti-
cismo ci ha abituati a distinguere nettamente pensiero
e sentimento, idea e passione, e a considerare oggetto di
poesia soltanto sentimenti e passioni57. La vera novità
dello spirito dostoevskiano consiste nel fatto ch’egli è un
romantico del pensiero e in lui le idee hanno la stessa
forza emotiva, lo stesso impeto passionale, anzi patolo-
gico, che presso i romantici hanno il flusso e il tumulto
dei sentimenti. La sintesi di intellettualismo e romanti-
cismo è la pietra miliare posta dall’arte di Dostoevskij;
da essa deriva la forma letteraria piú avanzata della
seconda metà dell’Ottocento, la forma piú adeguata alle
esigenze artistiche di quel tempo inscindibilmente lega-
to al romanticismo e irresistibilmente attratto dall’in-
tellettualismo. La rinunzia all’uno o all’altro di questi
elementi culturali, l’affettazione neoclassica come l’i-
sterismo neoromantico si erano rivelati vicoli ciechi; l’e-
spressionismo dostoevskiano invece poteva essere con-
tinuato, e adattato al nuovo senso della vita.
Dostoevskij però oltre che sulle vette si muoveva
anche nelle bassure del romanticismo. È vero che l’opera
sua continua la letteratura di confessione dei romanti-
ci, ma anche il romanzo di delitti e di avventure58.
Anche in questo egli è il contemporaneo di Dickens –
uno scrittore che nella scelta dei suoi mezzi artistici non
era piú difficile degli altri produttori di letteratura d’ap-
pendice. Forse egli avrebbe davvero evitato certi difet-
ti di gusto e certa trascuratezza, se avesse potuto lavo-
rare come Tolstoj o Turgenev. D’altra parte il tono
melodrammatico del suo stile era intimamente connes-

Storia dell’arte Einaudi 242


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

so alla sua concezione del romanzo psicologico; e i mezzi


drastici non servivano soltanto ad aumentare la tensio-
ne nel lettore, ma contribuivano anche a creare quella
rovente atmosfera spirituale senza cui sarebbero incon-
cepibili le situazioni drammatiche dei suoi romanzi. Se
si vuole, I fratelli Karamazov sono un romanzo giallo,
Delitto e castigo un romanzo poliziesco, I demoni un
romanzo di avventure, L’Idiota un romanzo sensazio-
nale; assassinio e delitto, segreti e sorprese, scene com-
moventi e orrende, stati morbosi e macabri vi hanno una
parte preminente. Ma sarebbe un errore credere che
tutto questo miri unicamente a compensare il lettore del-
l’astratto contenuto intellettuale; anzi il poeta vuol
suscitare il senso che i processi spirituali su cui s’im-
pernia la storia sono elementari quanto gli impulsi piú
primitivi.
In Dostoevskij ritroviamo tutta la galleria degli eroi
romantici: l’eroe byroniano bello, forte, misterioso e
solitario (Stavrogin), il personaggio impulsivo, sfrena-
to, pericoloso, ma bonario (Rogozin e Dmitrij Kara-
mazov), le figure angeliche e luminose (My\kin e
Alë\a), le prostitute dall’anima pura (Sonja e Nata\a
Filippovna), il vecchio dissoluto (Fëdor Karamazov), il
forzato evaso (Fedka), il beone depravato (Lebjadkin)
e cosí via. Vi ritroviamo tutti gli elementi e le caratte-
ristiche del romanzo nero e avventuroso: la ragazza
sedotta e abbandonata, il matrimonio segreto, le lette-
re anonime, l’assassinio misterioso, la pazzia, gli acces-
si epilettici, lo schiaffo clamoroso, soprattutto e ripe-
tutamente le scene di pubblico scandalo che portano a
un’esplosione59. Queste specialmente mostrano che cosa
sappia trarre Dostoevskij dai mezzi del romanzo sensa-
zionale. Non solo esse gli servono, come si potrebbe
credere, per finali e colpi di scena, ma fin dal principio
incombono come un pericolo, e suscitano il senso che
le grandi passioni e le condizioni elementari dell’anima

Storia dell’arte Einaudi 243


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

urtano sempre contro i limiti della convenzione e della


tolleranza sociale. L’Utopia spirituale in cui vive l’eroe
di Dostoevskij si rivela una stretta gabbia; appena l’im-
manenza della sua vita viene forzata, tosto ne nasce lo
scandalo. In queste scene di scandalo è essenziale la pre-
senza di un pubblico straordinariamente misto, l’inter-
vento degli elementi socialmente piú disparati. Sia nella
grande scena in casa di Nata∫a Filippovna, nell’Idiota,
come in quella presso Varvara Petrovna, nei Demoni,
tutti coloro che vi partecipano sono raccolti, come per
provare che la differenziazione sociale non può regge-
re di fronte alla catastrofe generale. Ognuna di queste
scene è come un sogno angoscioso; una folla di gente è
stipata in uno spazio incredibilmente stretto e l’atmo-
sfera d’incubo mostra quale sinistro potere abbia per
Dostoevskij la società con le sue differenze di classe e
di rango, i suoi tabú e i suoi veti.
Per lo piú i critici mettono in rilievo la struttura
drammatica dei grandi romanzi di Dostoevskij; senon-
ché di solito questa caratteristica formale viene inter-
pretata come un puro espediente per effetti teatrali e
viene contrapposta all’ampio, epico flusso dei romanzi
tolstoiani. Eppure la tecnica drammatica in Dostoevskij
non serve solo per le scene culminanti, in cui conflui-
scono le fila dell’azione e scoppia il conflitto fino allora
incombente, ma piuttosto anima tutta l’azione ed espri-
me una visione affatto diversa da quella epica. Per
Dostoevskij il senso della vita non è nel suo carattere
temporale, nel sorgere e nello svanire delle sue mete, nei
ricordi e nelle illusioni, negli anni, giorni e ore che cado-
no l’un sull’altro a seppellirci; ma in quei momenti eccel-
si in cui le anime sono messe a nudo, ridotte a una for-
mula semplice e chiara, in cui esse sentono la loro indub-
bia sostanza, si dichiarano identiche a se stesse e in
armonia con il proprio destino. Sull’esistenza di simili
momenti si fonda il tragico ottimismo di Dostoevskij,

Storia dell’arte Einaudi 244


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

quella riconciliazione con il destino, che la tragedia greca


chiamava catarsi. Su ciò si fonda la sua filosofia oppo-
sta al pessimismo e al nichilismo di Flaubert. Dostoev-
skij ha sempre indicato il senso della massima felicità e
della perfettissima armonia come un’esperienza di eter-
nità; tale soprattutto lo stato di My∫kin prima degli
attacchi epilettici e i «cinque secondi» di Kirillov, quel
gaudio, com’egli afferma, che non si potrebbe soppor-
tare piú a lungo. Per descrivere un’esistenza che culmi-
na in momenti simili, la concezione flaubertiana del
romanzo, fondata tutta sul senso del tempo, dovette
subire tali trasformazioni, che spesso il risultato pare
non avere piú nulla di comune con il romanzo in senso
tradizionale. Se è vero che la forma dostoevskiana con-
tinua direttamente il romanzo sociale e psicologico, è
anche vero che essa dà l’avvio a un nuovo processo.
Quella che si suol chiamare la sua struttura drammati-
ca si regge su un principio formale affatto diverso dal-
l’unità propria dei romanzi d’amore e della formazione
intima, che con il romanticismo s’erano sostituiti alla
vecchia forma picaresca. Il romanzo dostoevskiano è
piuttosto un ritorno a quest’ultima, già per il solo fatto
che i momenti drammatici vi sono dispersi, costituendo
dei punti di concentrazione indipendenti. Abolendo in
questo modo la continuità a favore di una serie di epi-
sodi essenziali, carichi di potenza espressiva, ma com-
binati a mosaico, esso precorre il principio formale del
moderno romanzo espressionistico. La narrazione cede
il passo alla spiegazione, all’analisi psicologica e alla
discussione filosofica, e il romanzo diventa una raccol-
ta di dialoghi e intimi monologhi, accompagnati da com-
menti e digressioni dell’autore.
Spesso questo metodo s’allontana dal naturalismo
come stile non meno che dal romanzo come genere
epico. Innegabilmente per l’acutezza dell’osservazione
psicologica Dostoevskij rappresenta la forma piú evolu-

Storia dell’arte Einaudi 245


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ta del romanzo naturalistico; ma se per naturalismo s’in-


tende la rappresentazione di quel che è normale, medio,
quotidiano, bisogna vedere una reazione al naturalismo
nel suo amore per le situazioni estreme quasi da alluci-
nazione, per i caratteri fantasticamente esagerati.
Dostoevskij stesso definisce la sua posizione storico-sti-
listica con perfetta esattezza: «Mi chiamano psicologo,
– dice; – è falso, io non sono che un realista in senso piú
alto, cioè descrivo tutti gli abissi dell’anima umana». E
per lui questi abissi sono appunto gli aspetti irraziona-
li, demoniaci, visionari e spettrali dell’uomo; elementi
che richiedono un naturalismo che non si limiti alla
verità superficiale; che rivelano fenomeni in cui gli ele-
menti della vita reale si mescolano, fantasticamente
disordinati e acuiti. Egli dichiara: «Il realismo nell’arte
l’amo fuor di misura, il realismo che, per cosí dire, giun-
ge al fantastico... Che cosa può apparirmi piú fantasti-
co e inatteso della realtà? Anzi, che cosa può essere piú
inverosimile?» Non c’è definizione piú esatta dell’e-
spressionismo e del surrealismo. Quelle che in Dickens
erano ancora puntate puramente occasionali, e per lo piú
inconsce, in quella zona che sta al limite fra sogno e
realtà, esperienza e allucinazione, qui diventa una
costante apertura sui «misteri della vita». In questo
modo si prepara la rottura con lo scientifismo dell’arte
naturalistica. Un nuovo spiritualismo sta sorgendo dalla
reazione all’orientamento scientifico, dalla rivolta con-
tro il naturalismo, dalla diffidenza per la visione scien-
tifica del mondo e per il modo razionalistico di affron-
tare i problemi. La vita stessa ora viene sentita come
qualcosa di essenzialmente irrazionale; si crede di per-
cepire da ogni parte voci misteriose, e l’arte ne diventa
l’eco.
Nonostante i profondissimi contrasti, c’è una fonda-
mentale analogia tra l’atteggiamento di Dostoevskij e
quello di Tolstoj di fronte al problema dell’individuali-

Storia dell’arte Einaudi 246


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

smo e della libertà. Entrambi considerano il distacco del-


l’individuo dalla società, la sua solitudine e il suo isola-
mento, come il peggiore dei mali. Entrambi vogliono ad
ogni costo evitare il caos che minaccia di travolgere gli
uomini resi cosí solitari. Specialmente in Dostoevskij
tutto s’impernia sul problema della libertà e i suoi gran-
di romanzi, in fondo, non sono che analisi e interpreta-
zioni di quest’idea. Il problema in sé non era nuovo; i
romantici vi si erano sempre affaticati e dal 1830 esso
era al centro del pensiero filosofico e politico. Per il
romanticismo libertà significava la vittoria dell’indivi-
duo sulla convenzione; libera e creatrice era ritenuta una
personalità che avesse la forza intellettuale e il coraggio
di trascurare i pregiudizi estetici e morali del suo tempo.
Per Stendhal il problema è quello stesso del genio, in
particolare del genio di Napoleone il cui successo, egli
pensa, dipende dalla brutale imposizione della sua
volontà, della sua personalità, della sua grandezza. L’ar-
bitrio del genio e i sacrifici ch’esso richiedeva gli pare-
vano il prezzo dovuto dal mondo all’eroe dello spirito.
Su questa via il Raskol´nikov di Dostoevskij rappresen-
ta la tappa successiva. L’individualismo geniale trova in
questa figura una forma astratta, virtuosistica, la forma,
per cosí dire, del gioco. La personalità esige le sue vit-
time non piú nell’interesse di un’idea superiore, di un
fine obiettivo, di un’opera praticamente valida, ma sem-
plicemente per provare la propria attitudine all’azione
libera e sovrana. L’azione in sé diventa affatto secon-
daria; il problema è puramente formale: la libertà del-
l’individuo è in se stessa un valore? La risposta di
Dostoevskij non è certo cosí chiara come potrebbe a
prima vista sembrare. L’individualismo porta al caos e
all’anarchia, ma dove portano la costrizione e l’ordine?
Il problema trova la sua espressione ultima e piú profon-
da nel racconto del Grande Inquisitore, e la soluzione a
cui giunge qui Dostoevskij può considerarsi il risultato

Storia dell’arte Einaudi 247


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di tutta la sua filosofia morale e religiosa. L’abolizione


della libertà cristallizza le istituzioni e sostituisce alla
religione la Chiesa, all’individuo lo Stato, all’inquietu-
dine di chi domanda e ricerca l’acquietamento nel
dogma. Cristo è intima libertà, ma anche lotta senza
fine; la Chiesa è intima costrizione, ma anche pace e
sicurezza. Si vede come sia dialettico il pensiero di
Dostoevskij e quanto sia difficile definirne chiaramen-
te la posizione etica e politico-sociale. Il tanto depreca-
to reazionario e dogmatico conclude l’opera sua con un
problema aperto.
Per Tolstoj la questione dell’individualismo è di gran
lunga meno importante che per Dostoevskij, ma è pur
sempre la chiave per comprendere le sue figure psicolo-
gicamente piú interessanti e moralmente piú significati-
ve. Soprattutto la figura di Levin è tutta costruita per
essere l’esponente di questo problema, e la violenza dei
suoi intimi conflitti rivela quanto sia dura la lotta di Tol-
stoj con l’idea dell’isolamento e lo spettro dell’uomo
abbandonato a se stesso. Dostoevskij aveva ragione:
Anna Karenina non è un libro innocuo. È pieno di dubbi,
scrupoli, timori. Il motivo fondamentale, che è quello
poi che lega la storia di Anna con quella di Levin, è
anche qui l’appartarsi dell’individuo dalla società e il
pericolo di diventarle estranei. Lo stesso destino, che
colpisce Anna per il suo adulterio, minaccia Levin per
il suo individualismo, la sua visione anticonformista, i
suoi strani dubbi e problemi. Entrambi si espongono al
rischio di venir espulsi dalla società della gente norma-
le e rispettabile. Ma, mentre Anna rinunzia senz’altro
all’approvazione della società, Levin fa ogni sforzo per
non perderne l’appoggio. Egli accetta il giogo matrimo-
niale, amministra la sua terra come fanno i suoi vicini,
si piega alle convenzioni e ai pregiudizi del suo ambien-
te; in breve, è disposto a tutto, pur di non diventare uno
spostato, un escluso, un eccentrico, uno stravagante60.

Storia dell’arte Einaudi 248


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Ma nell’anti-individualismo di Dostoevskij e di Tol-


stoj si svela tutta la differenza della loro mentalità. Le
obiezioni di Dostoevskij sono di natura irrazionale e
mistica; per lui il principium individuationis significa la
negazione dello spirito universale, l’unità originaria, l’i-
dea divina che, in forma storicamente concreta, si mani-
festa come popolo, nazione, comunità sociale. Tolstoj
invece respinge l’atteggiamento individualistico sempli-
cemente per motivi razionali, eudemonistici; l’assoluta
libertà personale non può portare all’uomo né felicità,
né soddisfazione; sollievo e contentezza egli può trova-
re soltanto nella rinunzia al proprio io e nell’altruismo.
Fra i due scrittori si ripropone quel rapporto signifi-
cativo, esemplare, profondamente tipico, che già era
intercorso fra Voltaire e Rousseau e che si era ripresen-
tato in termini analoghi fra Goethe e Schiller61. In tutti
questi casi si tratta dell’antitesi di razionalismo e irra-
zionalismo, senso e intelletto, o, come si esprime Schil-
ler, di spontaneo e sentimentale. Nei tre casi il contra-
sto si può ricondurre alle differenze sociali degli anta-
gonisti: ogni volta un aristocratico, un patrizio sta di
fronte a un plebleo, a un ribelle. Certamente si deve
soprattutto alla sua natura aristocratica se tutta l’arte e
il pensiero di Tolstoj si radicano nell’idea del corporeo,
dell’organico, del naturale. Lo spiritualismo di Dostoev-
skij invece, la sua natura speculativa, il procedere dina-
mico, dialettico del suo pensiero si spiegano con la sua
origine borghese e la sua plebea mancanza di vincoli.
L’aristocratico si afferma col semplice fatto di essere,
grazie all’origine, alla razza; ma il plebeo deve tutto al
suo talento, alle sue attitudini e alle sue azioni. Il rap-
porto tra signori feudali e scrivani non è mutato nel
corso dei secoli, anche se talvolta il signore è diventato
egli stesso una specie di «scrivano».
Il contrasto tra la discrezione di Tolstoj e l’esibizio-
nismo di Dostoevskij, tra il nobile ritegno dell’uno e –

Storia dell’arte Einaudi 249


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

com’è detto nei Demoni – «il danzar nudo in pubblico»


dell’altro, risulta dallo stesso divario sociale che divide
Voltaire da Rousseau. Piú difficile invece è riferire a pre-
messe sociologiche le peculiarità di stile e di carattere:
cioè misura disciplina, ordine per l’uno; assenza di
forma, caos, anarchia per l’altro. In certe circostanze la
dismisura è dell’aristocratico come del plebeo, e sappia-
mo che l’arte borghese dimostra spesso una tendenza al
rigorismo non inferiore a quella dell’arte aulica. Nella
composizione delle sue opere Tolstoj è eccessivo e arbi-
trario quanto Dostoevskij; per questo riguardo sono
entrambi anarchici. Ma in Tolstoj c’è un riserbo mag-
giore nello scrutare gli abissi dell’anima e un piú esigente
criterio nella scelta dei mezzi destinati a commuovere.
L’arte sua è molto piú elegante, pura e gradevole di
quella di Dostoevskij e, di contro a questo tipico rap-
presentante della nevrosi ottocentesca, a ragione lo si è
detto un figlio del Settecento. Rispetto a Dostoevskij
romantico, mistico, «dionisiacamente» estatico, egli ha,
piú o meno, l’aria di un classico o, se vogliamo mante-
nere la terminologia di Nietzsche, di una natura «apol-
linea», plastica, statuaria. In contrasto con la natura
problematica di Dostoevskij, tutto il suo modo di pen-
sare ha un carattere positivo, nel senso che gli attribui-
va Goethe quando diceva di voler sentire l’opinione
altrui espressa in forma «positiva», perché di proble-
matico ne aveva abbastanza in se stesso. Il detto, se non
per la forma certo per la sostanza, potrebbe essere di
Tolstoj, che appunto disse qualcosa di simile a proposi-
to di Dostoevskij. Egli lo paragonava a un cavallo che
alla prima occhiata fa una splendida impressione e pare
valga mille rubli; ma a un tratto ci si accorge che ha un
difetto nell’andatura e zoppica, e si conclude con rin-
crescimento che non vale un soldo. Effettivamente
Dostoevskij aveva un difetto e, accanto al robusto,
«sano» Tolstoj, lascia sempre un po’ un’impressione

Storia dell’arte Einaudi 250


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

patologica, come Rousseau di fronte al ragionevole ed


equilibrato Voltaire. Ma qui le categorie non si posso-
no piú distinguere cosí nettamente come in Voltaire e
in Rousseau. Lo stesso Tolstoj rivela tutta una serie di
tratti che per molti riguardi lo pongono assai piú di
Dostoevskij vicino a Rousseau. Il suo ideale di sempli-
cità, naturalezza e sincerità non è che una variante del
rousseauiano «disagio della cultura», e la sua nostalgia
dell’idillico villaggio patriarcale non è che una nuova
forma della vecchia avversione romantica alla civiltà.
Non per nulla egli cita le parole di Lichtenberg, che l’u-
manità sarebbe perduta se non ci fossero piú selvaggi.
Ma anche questi aspetti alla Rousseau non sono che
espressione del timore della solitudine, dello sradica-
mento, dell’esclusione dalla società. Tolstoj condanna la
civiltà moderna per i suoi effetti di differenziazione, e
l’arte di Shakespeare, di Beethoven e di Pu∫kin, perché
divide, invece di unirli, i vari strati dell’umanità. Quel
che nelle teorie di Tolstoj potrebbe dirsi collettivismo e
lotta contro le distinzioni di classe, non ha nulla a che
vedere con la democrazia e il socialismo; è piuttosto la
nostalgia di un intellettuale solitario per una comunità
da cui egli spera anzitutto la propria salvezza. Quando
Cristo invitò il giovane ricco a distribuire ai poveri tutto
quanto possedeva non voleva, secondo l’esegesi di
Henry George, aiutare i poveri, ma solo il giovane ricco.
Anche l’intento di Tolstoj è di aiutare anzitutto il «gio-
vane ricco». L’autoperfezionamento e la salvezza del-
l’anima sono il suo vero scopo. Spiritualismo ed ego-
centrismo determinano il carattere irreale, utopico del
messaggio sociale tolstoiano e le intime contraddizioni
della sua dottrina politica. Questa morale strettamente
privata implica il quietismo, il rifiuto dell’opposizione
violenta al male, e lo sforzo di riformare le anime inve-
ce della realtà. «Nulla è piú dannoso per gli uomini»,
scrive nel suo appello Al popolo lavoratore dopo la rivo-

Storia dell’arte Einaudi 251


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

luzione del 1905, «dell’idea che le cause della loro mise-


ria stiano nelle condizioni esteriori, anziché in loro stes-
si». La passività di Tolstoj di fronte alla realtà esterio-
re corrisponde allo spirito pacifico della soddisfatta clas-
se dominante e il suo lambiccato moralismo di autoac-
cusa e di autotormento è del tutto estraneo al pensiero
e al sentimento del popolo.
Ma Tolstoj, come Dostoevskij, non si lascia costrin-
gere in una definizione politica troppo stretta. Egli è un
inflessibile osservatore della realtà sociale, un sincero
amico della verità e della giustizia e un implacabile cri-
tico del capitalismo, benché giudichi i difetti e le colpe
della moderna società unicamente dal punto di vista del
contadino e dell’economia agricola; d’altra parte, egli
non vede le vere cause del male e predica una morale che
a priori significa la rinunzia ad ogni attività politica62.
Tolstoj non è un rivoluzionario, anzi è un nemico aper-
to di ogni atteggiamento rivoluzionario; tuttavia, a dif-
ferenza dei fautori dell’«ordine» e della pace sociale in
Occidente, come Balzac, Flaubert e i Goncourt, egli
tollera il terrore governativo ancor meno di quello rivo-
luzionario. L’assassinio di Alessandro II non lo scuote
affatto, ma all’esecuzione degli attentatori reagisce con
una protesta63. Nonostante i suoi pregiudizi e i suoi
errori, Tolstoj rappresenta un’immensa forza rivoluzio-
naria. La sua lotta contro le menzogne dello stato poli-
ziesco e della Chiesa, il suo entusiasmo per la comunità
contadina e l’esempio della sua stessa vita, qualunque sia
stato l’intimo motivo della sua «conversione» e della sua
fuga finale, sono da considerare tra i fermenti che
disgregano la vecchia società e favoriscono non solo la
rivoluzione russa, ma il movimento rivoluzionario con-
tro il capitalismo in tutta Europa. Di fatto, per Tolstoj
si può parlare non solo di «trionfo del realismo», ma
anche di «trionfo del socialismo»; non solo della spre-

Storia dell’arte Einaudi 252


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

giudicata pittura sociale di un aristocratico, ma anche


dell’efficacia rivoluzionaria di un reazionario nato.
L’intransigente razionalismo impedisce all’arte e alla
dottrina filosofica di Tolstoj di finire nella sterilità e nel-
l’inefficienza. Il suo sguardo acuto e obiettivo per i fatti
fisici e psichici e la sua ripugnanza ad ingannare se stes-
so e gli altri mantengono la sua religiosità fuori da ogni
misticismo e dogmatismo e fanno del suo moralismo cri-
stiano un efficace fattore politico. L’entusiasmo di
Dostoevskij per l’ortodossia russa gli è estraneo quanto
in genere la religiosità degli slavofili. Anche alla fede egli
giunge per una via razionale, pragmatica, non sponta-
nea64. Tutto razionale è il processo della sua cosiddetta
conversione, senza alcuna immediata esperienza religio-
sa. Fu, com’egli dice nella sua Confessione, «il senso di
paura di chi è orfano e solo» a far di lui un cristiano.
Non un’esperienza mistica di Dio e dell’aldilà, ma la
scontentezza di sé, l’aspirazione a trovare un senso e uno
scopo alla vita, la disperazione per la propria nullità e
inconsistenza, e soprattutto l’infinita paura della morte
fanno di lui un credente. Egli diventa un apostolo del-
l’amore, perché ha coscienza di mancare d’amore; esal-
ta la solidarietà umana per contrastare alla propria sfi-
ducia e al proprio disprezzo verso gli uomini; e afferma
l’immortalità dell’anima umana, perché non può sop-
portare l’idea della morte. Tutta la sua esperienza reli-
giosa è un’ascesi «razionalmente intesa a uno scopo», un
esercizio di cristianesimo secondo il modello orientale.
Ma la sua fuga dal mondo è aristocraticamente altera,
non già cristianamente umile; al mondo egli rinunzia,
perché il mondo non si lascia completamente dominare
e possedere.
Il concetto della grazia è l’unico elemento irraziona-
le nella concezione religiosa di Tolstoj. Nei suoi Racconti
popolari lo scrittore riprende una vecchia leggenda d’o-
rigine medievale. In tempi remoti viveva in un’isola

Storia dell’arte Einaudi 253


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

deserta un santo eremita. Un giorno, presso la sua capan-


na, approdarono dei pescatori, fra cui un vecchio cosí
semplice che non riusciva quasi ad esprimersi e non
sapeva nemmeno pregare. L’eremita, profondamente
turbato da tanta ignoranza, con molta fatica gli insegnò
il Paternoster. Il vecchio lo ringraziò caldamente e, con
gli altri pescatori, lasciò l’isola. Dopo qualche tempo,
quando il battello era ormai sparito in lontananza, a un
tratto il santo scorse all’orizzonte una figura umana che
si avvicinava all’isola camminando sullo specchio delle
acque. Ben presto riconobbe il vecchio, il suo scolaro,
e, quando questi toccò terra, gli andò incontro muto e
sbalordito. Balbettando, il vecchio gli fece capire che
aveva dimenticato la preghiera. «Tu non hai bisogno di
pregare», rispose l’eremita, e congedò il vecchio che,
librandosi sull’acqua, s’affrettò verso il battello dei
pescatori. Il senso di questa storia sta nell’idea di una
salvezza eterna non legata ad alcun criterio morale. In
un altro racconto degli anni tardi, Padre Sergio, Tolstoj
rappresenta lo stesso motivo dal lato opposto: la grazia,
che ad uno viene concessa senza che faccia nessun sfor-
zo e apparentemente senza merito, rimane negata all’al-
tro, nonostante ogni pena e ogni tormento, nonostante
i sacrifici sovrumani e l’eroica vittoria su se stesso. Que-
sto concetto della grazia, per cui l’elezione sta al di
sopra del merito e la predestinazione viene assimilata
alla nascita e alla fortuna, evidentemente si lega piú con
l’origine aristocratica di Tolstoj che con il suo cristia-
nesimo.
L’ottimismo dell’aristocratico sano e sicuro di sé, che
ancora domina in Guerra e pace, e fa del romanzo un’a-
poteosi della vita animale, vegetativa, organicamente
creatrice, un grande idillio, «un’ingenua epopea» – e sul
suo coronamento, come osserva cosí gustosamente
Mere∫kovskij, il poeta «pianta come bandiera che indi-
chi la via all’umanità le fasce dei bimbi di Nata∫a»65 –

Storia dell’arte Einaudi 254


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

questo ottimismo panteistico si oscura in Anna Kareni-


na e si avvicina al pessimismo della letteratura occiden-
tale; ma la delusione per l’arida e convenzionale civiltà
moderna ha qui tutt’altro carattere che in Flaubert e in
Maupassant. Il trionfo della vita reale sul romanticismo
dei sentimenti già in Guerra e pace si contaminava di una
certa malinconia, e anche prima, ad esempio in Felicità
domestica, Tolstoj aveva avuto toni flaubertiani nel
descrivere il degenerare delle grandi passioni, special-
mente il decadere dell’amore ad amicizia. Ma il dissidio
tra ideale e realtà, poesia e prosa, giovinezza e vecchiaia
non è mai in lui cosí sconsolato come nei francesi. La sua
delusione non porta mai al nichilismo, né all’accusa con-
tro tutto quel che ha corpo e vita. Nel romanzo occi-
dentale l’eroe venuto a conflitto con la realtà commise-
ra e drammatizza se stesso con troppe querimonie; la
colpa dell’urto è sempre delle condizioni esteriori:
società, stato, ambiente. In Tolstoj invece, quando si
giunge al conflitto, l’io soggettivo è colpevole quanto la
realtà obiettiva66. Se la vita che delude è troppo arida,
l’eroe deluso è però troppo sentimentale, poetico, uto-
pico; alla vita manca, è vero, ogni tolleranza verso i
sognatori, ma a questi manca il senso della realtà.
Da questa concezione dell’io e del mondo, diversa da
quella di Flaubert, dipende soprattutto la profonda dif-
ferenza di forma tra il romanzo occidentale e quello tol-
stoiano. Di fatto, questo è lontano dalla norma natura-
listica almeno quanto quello di Dostoevskij; ma in senso
opposto. Se i romanzi di Dostoevskij hanno una strut-
tura drammatica, i suoi hanno carattere epico, sono
veramente simili all’epos. Non c’è lettore attento che
non ne abbia sentito il maestoso, omerico fluire, l’am-
piezza panoramica e il panteistico senso della vita. Tol-
stoj stesso si era paragonato a Omero, e il paragone è
diventato una formula costante nella critica. Omerica è
sempre apparsa la sua forma, aliena da ogni risalto

Storia dell’arte Einaudi 255


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

romantico e drammatico, la sua rinunzia all’esaspera-


zione e all’intensità del dramma. L’accentramento dram-
matico del romanzo, maturato con il trapasso dalla
forma picaresca del Settecento a quella biografica del
preromanticismo, non si riscontra ancora in Guerra e
pace. Egli considera il conflitto tra individuo e società
non come una tragedia inevitabile, ma come una cala-
mità che egli, come i settecentisti, fa risalire alla man-
canza di perspicacia, d’intelligenza e di serietà morale.
Egli vive ancora nell’età illuministica della Russia, in
un’atmosfera intellettuale di fiducia nel mondo e nel-
l’avvenire. Ma, lavorando ad Anna Karenina, quell’otti-
mismo viene meno, e soprattutto viene meno la sua fede
nell’arte, dichiarata del tutto inutile, anzi dannosa, a
meno che non rinunci alle raffinatezze e alle trovate del
naturalismo e dell’impressionismo moderno, e da arti-
colo di lusso diventi bene comune dell’umanità. Nell’e-
straniarsi dell’arte dalle grandi masse e nel restringersi
del pubblico a una cerchia sempre piú angusta, Tolstoj
riconobbe un reale pericolo. È indubbio che l’ampliarsi
di quella cerchia e il contatto con ceti culturalmente
meno esclusivi sarebbe stato un vantaggio per l’arte. Ma
un tale mutamento non poteva prodursi se non contra-
stando l’attività degli artisti cresciuti nella tradizione
dell’arte moderna e favorendo invece con ogni mezzo,
e a svantaggio di quelli, l’attività dei dilettanti che a que-
sta tradizione erano estranei? Col suo rifiuto della gran-
de evoluzione dell’arte moderna e la sua predilezione per
le forme dell’arte primitiva, «universalmente umana»,
Tolstoj si palesa ancora discendente di Rousseau, non
meno di quando contrappone il villaggio alla città e
identifica la questione sociale con quella dei contadini.
Che per esempio egli trascurasse Shakespeare, è perfet-
tamente comprensibile. Come poteva piacere il manie-
rismo di un poeta, anche grandissimo, a un puritano che
odiava ogni forma di esuberanza e di virtuosismo? Ma

Storia dell’arte Einaudi 256


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

è incomprensibile che il creatore di opere d’arte cosí raf-


finate come Anna Karenina e La morte di Ivan Il´ic, in
tutta la letteratura moderna accettasse senza riserve,
oltre a La capanna dello zio Tom, solo I masnadieri di
Schiller, I Miserabili di Victor Hugo, I racconti di Nata-
le di Dickens, Le memorie dalla casa dei morti di
Dostoevskij e Adam Bede di George Eliot67. L’atteggia-
mento di Tolstoj di fronte all’arte può essere inteso sol-
tanto come il sintomo di un mutamento storico, come il
segno di un’evoluzione che conclude la cultura estetica
dell’Ottocento e produce una generazione che nell’arte
torna a vedere anzitutto la mediatrice delle idee68.
Questa generazione venerò nell’autore di Guerra e
pace non solo il grande poeta, non solo il creatore del
massimo romanzo della letteratura universale, ma piú
ancora il riformatore sociale e il fondatore di una reli-
gione. Tolstoi ebbe la fama di Voltaire, la popolarità di
Rousseau, l’autorità di Goethe e, piú di tutto questo,
divenne una figura leggendaria, il cui prestigio ricorda-
va gli antichi veggenti e profeti. Jasnaja Poljana diven-
ne meta di pellegrinaggio per uomini d’ogni nazione,
classe e cultura, che ammiravano come un santo il vec-
chio conte con la blusa da contadino. Gor´kij non
dev’essere stato l’unico a pensare, vedendolo: «Que-
st’uomo è simile a Dio!» Confessione di un miscreden-
te che cosí chiude i suoi ricordi su Tolstoj69. E forse,
come Thomas Mann, molti altri ebbero il senso che
dopo la sua morte l’Europa fosse rimasta «senza padro-
ne»70. Ma erano soltanto sentimenti e stati d’animo,
parole di riconoscenza e di fedeltà. Senza dubbio Tol-
stoj fu come la viva coscienza dell’Europa, il grande
maestro ed educatore che meglio di ogni altro seppe
esprimere l’inquietudine morale e la volontà di rinno-
vamento spirituale della sua generazione; ma con il suo
ingenuo orientamento alla Rousseau e con il suo quieti-
smo non avrebbe certo potuto rimanere «padrone» del-

Storia dell’arte Einaudi 257


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’Europa, se mai lo fu. Infatti, come pensava Ωechov,


per un artista può bastare porre giustamente i problemi,
ma per un uomo che debba regnare sul suo secolo è
necessario che sappia anche giustamente risolverli.

1
a. paul oppé, Art, in Early Victorian England, a cura di G. M.
Young, 1934, II, p. 154.
2
ruskin, Stones of Venice, III, in Works, 1904, XI, p. 201.
3
h. w. singer, Der Präraffaelismus in England, 1912, p. 51.
4
Cfr. a. clutton-brock, William Morris. His Work and Influence,
1914, p. 9.
5
d. c. somervell, English Thought in the 19th Century, 1947, 5a ed.,
p. 153.
6
christian eckert, John Ruskin, in «Schmollers Jahrbuch», XXVI,
1902, p. 362.
7
e. batho - b. dobrée, The Victorians and After, 1938, p. 112.
8
a. clutton-brock, William Morris ecc. cit., p. 150.
9
Ibid., p. 228.
10
william morris, Art under Plutocracy, 1883.
11
m. louis cazamian, Le Roman social en Angleterre (1830-1850),
II, 1935, pp. 250-51.
12
Ibid., I, 1934, pp. 11-12, 163.
13
w. l. cross, The Development of the English Novel, 1899, p. 182.
14
m. l. cazamian, Le roman social ecc. cit., I, p. 8.
15
a. h. thorndike, Literature in a Changing Age, 1920, pp. 24-25.
16
Cfr. q. d. leavis, Fiction and the Reading Public, 1939, p. 156.
17
g. k. chesterton, Charles Dickens, 1917, 11a ed., pp. 79, 84.
18
amy cruse, The Victorians and their Books, 1936, 2a ed., p. 158.
19
osbert sitwell, Dickens, 1932, p. 15.
20
Cfr. m. l. cazamian Le roman social ecc. cit., I, pp. 209 sgg.
21
t. a. jackson, Charles Dickens, 1937, pp. 22-23.
22
humphrey house, The Dickens World, 1941, p. 219.
23
Cfr. il discorso di Dickens a Birmingham il 27 settembre 1869.
24
Cfr. h. house, The Dickens World cit., p. 209.
25
hippolyte taine, Histoire de la littérature anglaise, 1864, IV, p. 66.
26
o. sitwell, Dickens cit., p. 16.
27
q. d. leavis, Fiction ecc. cit., pp. 33-34, 42-43, 158-59, 168-69.
28
m. l. cazamian, Le roman et les idées en Angleterre, I, 1923, p.
138. - elizabeth s. haldane, George Eliot and her Times, 1927, p. 292.
29
p. bourl’honne, George Eliot, 1933, pp. 128, 135.
30
ernest a. baker, History of the English Novel, VIIII, 1937, pp.
240-54.

Storia dell’arte Einaudi 258


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

31
e. batho - b. dobrée, The Victorians and After cit., pp. 78-79,
91-92.
32
george eliot, Middlemarch, 1871-72, XV.
33
m. l. cazamian, Le roman social cit., p. 108.
34
j. w. cross, George Eliot’s Life as related in her Letters and Jour-
nal, 1885, p. 230.
35
f. r. leavis, The Great Tradition, 1948, p. 61.
36
alfred wtzer, Die Not der geistigen Arbeiter, in «Schriften des
Vereins für Sozialpolitik», 1920.
37
g. lukacs, Moses Hess und die Probleme der idealistischen Dialek-
tik, in «Archiv für die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiter-
bewegung», xii, 1926, p. 123.
38
karl mannheim, Ideology and Utopy, 1936, pp. 136 sgg. - Man
and Society in an Age of Reconstruction, 1940, pp. 79 sgg.
39
Cfr. hans speier Zur Soziologie der burggerlischen Intelligenz in
Deutschland, in «Die Gesellschaft», II, 1929, p. 71.
40
d. s. mirsky, Contemporary Russian Literature, 1926, pp. 42-43.
41
id., A History of Russian literature, 1927, p. 321-22.
42
m. n. pokrovsky, Brief History of Russia, I, 1933, p. 144.
43
d. s. mirsky, Russia. A Social History 1931, p 199.
44
janko lavrin, Pushkin and Russian Literature, 1947, p. 198.
45
d. s. mirsky, A History of Russian Literature, pp. 203-4.
46
Ibid., p. 204.
47
Ibid., p. 282.
48
t. g. masaryk, Zur russischen Geschichts- und Religionsphilo-
sophie, 1913, I, p. 126.
49
turgenev in una lettera a Herzen dell’8 novembre 1862.
50
e. h. carr, Dostoevsky, 1931. p. 268.
51
nikolaj berdjaev, Mirosozercanie Dostoevskogo, Praha 1923 [trad.
it., La concezione di Dostoevskij, Torino 1945, p. 21].
52
mirsky, A History of Russian Literature cit., p. 219.
53
e. h. carr, Dostoevsky cit., pp. 281 sgg.
54
Ibid., pp. 267-68.
55
dostoevskij, Diario di uno scrittore, febbraio 1877.
56
edmund wilson, The Wound and the Bow, 1941, p. 50. - rex
warner, The Cull of Power, 1946, p. 41.
57
Cfr. d. s. MEREZKOVSKIJ, Tolstoj i Dostoevskij [trad. ted., Tolstoj
und Dostojewskij, 1903, p. 232].
58
vladimir pozner, Dostoievskij et le roman d’aventure, in «Euro-
pe» XXVII, 1931.
59
Ibid., pp. 135-36.
60
Cfr. lenon sestov, Dostoevskij i Nietzsche [trad. ted., Dostojew-
skij und Nietzsche, 1924, pp. 90-91].

Storia dell’arte Einaudi 259


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

61
t. mann, Goethe und Tolstoi, in Bemühungen, 1925, p. 33 [trad.
it., Goethe e Tolstòj, in Nobilità dello spirito, Milano 1954].
62
n. lenin, L. N. Tolstoi (1910), in n. lenin - g. plechanov, L. N.
Tolstoi im Spiegel des Marxismus, 1928, pp. 42-44.
63
d. s. mirsky, Contemporary Russian Literature cit., p. 8.
64
Ibid., p. 9. janko lavrin, Tolstoy, 1944, p. 94.
65
d. s. mereikovskij, Tolstoij Dostoevskij cit., p. 183.
66
g. lukács, Nagy orosz realisták, Budapest 1946, p. 92 [trad. it.,
Saggi sul realismo, Torino 1950].
67
tolstoj, Che cosa è l’arte?, XVI.
68
Cfr. t. mann, Die Forderung des Tages cit., p. 283.
69
maksim gor’kij, Letteratura e vita.
70
t. mann, Die Forderung des Tages cit., p. 278.

Storia dell’arte Einaudi 260


Capitolo quarto

L’impressionismo

Il confine fra naturalismo e impressionismo è fluido,


le due correnti non ammettono una precisa distinzione
né storica, né concettuale. La gradualità del mutamen-
to stilistico corrisponde alla continuità dello sviluppo
economico dell’epoca e alla stabilità dei rapporti socia-
li. Nella storia di Francia il 1871 ha un’importanza solo
transitoria. Il predominio dell’alta borghesia rimane
sostanzialmente intatto e all’impero «liberale» subentra
la repubblica conservatrice: quella «repubblica senza
repubblicani»1, a cui ci si adatta, perché sembra assicu-
rare il minor attrito possibile nella soluzione dei pro-
blemi politici. Ma con essa ci si riconcilia soltanto dopo
che essa ha sterminato i comunardi, confortandosi con
la teoria del salasso necessario e benefico2. Gli intellet-
tuali assistono perplessi agli avvenimenti. Flaubert, Gau-
tier, i Goncourt e molti altri con loro si sfogano in vitu-
peri e imprecazioni contro i perturbatori. Al massimo,
dalla repubblica sperano un riparo contro il clericalismo
e nella democrazia vedono il male minore3. Il capitali-
smo finanziario e industriale continua la sua coerente
evoluzione secondo l’antico indirizzo; ma nel profondo
avvengono mutamenti notevoli, sebbene ancora inav-
vertiti. L’economia entra nello stadio del grande capi-
talismo e da «libero gioco di forze» si trasforma in un
sistema rigidamente organizzato e razionalizzato, in una
fitta rete di sfere d’interessi, zone doganali, situazioni

Storia dell’arte Einaudi 261


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

di monopolio, cartelli, trusts e sindacati. E come questo


accentramento sistematico dell’economia ha potuto esser
designato come un fenomeno di senilità4, cosí dovunque
nella società borghese si possono constatare indizi d’in-
certezza e segni premonitori di dissoluzione. La Comu-
ne finisce con una sconfitta cosí completa degli insorti,
quale nessun’altra rivoluzione aveva ancora subito, ma
è la prima che sia sostenuta da un movimento operaio
internazionale, e la borghesia ne esce, sì, vittoriosa, ma
con il senso di un pericolo acuto5. È quest’intima crisi
a rinnovare le tendenze idealistiche e mistiche e a susci-
tare contro il pessimismo prevalente la reazione di un
forte movimento religioso. Soltanto nel corso di questo
processo l’impressionismo, perde il contatto con il natu-
ralismo e, specie nella poesia, si trasforma in una nuova
forma di romanticismo.
Gli enormi progressi della tecnica non valgono a
mascherare l’intima crisi del tempo. Anzi la crisi stessa
è da considerarsi tra gli stimoli alle conquiste tecniche
e al miglioramento dei metodi produttivi6. Certi aspet-
ti dell’atmosfera di crisi si fanno sentire in tutte le mani-
festazioni della tecnica. Soprattutto il ritmo frenetico
dello sviluppo e il succedersi forzato dei mutamenti
appaiono patologici, specie se confrontati con il pro-
gresso dei secoli precedenti e studiati nelle loro riper-
cussioni sull’arte. Il rapido sviluppo della tecnica non
affretta soltanto il variare delle mode, ma anche il muta-
re del gusto artistico; sovente esso porta a un’assurda e
sterile smania di novità, a una incessante aspirazione al
nuovo in quanto nuovo. Gli imprenditori debbono
accrescere ad arte il bisogno di prodotti piú moderni e
alimentare continuamente l’idea che la cosa nuova sia
sempre la migliore, se vogliono realmente trarre profit-
ti dalle conquiste della tecnica7. Ma la continua e sem-
pre piú frequente sostituzione dei vecchi oggetti d’uso
fa sí che diminuisca sempre piú l’attaccamento alle cose

Storia dell’arte Einaudi 262


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

materiali, e ben presto anche a quelle dello spirito, sic-


ché il ritmo dei mutamenti in campo filosofico e artistico
finisce per adattarsi a quello delle mode. La tecnica
moderna provoca cioè una inaudita dinamizzazione della
concezione del mondo, ed è essenzialmente questo
nuovo senso dinamico che si esprime nella vita.
Un fenomeno imponente che va connesso con il pro-
gresso tecnico è lo svilupparsi dei centri di cultura in
vere e proprie metropoli moderne; queste sono il terre-
no in cui l’arte nuova affonda le sue radici. L’impres-
sionismo è l’arte urbana per eccellenza, e non solo per-
ché scopre la città e alla città riporta, dalla campagna,
la pittura di paesaggio, ma anche perché vede il mondo
con gli occhi del cittadino e reagisce alle impressioni dal-
l’esterno con l’ipertensione nervosa dell’uomo educato
alla tecnica moderna. È uno stile urbano, perché ritrae
la mutevolezza, il ritmo nervoso, le impressioni subita-
nee, nette ma labili, della vita cittadina. E appunto
come tale rappresenta un’immensa espansione della per-
cezione sensoriale, una nuova, acuita sensibilità, una
nuova eccitabilità nervosa e, accanto all’arte gotica e al
romanticismo, rappresenta una fra le piú importanti
svolte nella storia dell’arte occidentale. Nel processo
dialettico che percorre la storia della pittura, nell’alter-
narsi di stasi e dinamismo, disegno e colore, ordine
astratto e vita organica, l’impressionismo segna l’acme
della tendenza dinamica che dissolve interamente la sta-
tica visione medievale. Come dall’economia del tardo
Medioevo al grande capitalismo corre una linea ininter-
rotta di sviluppo, cosí anche dall’arte gotica all’impres-
sionismo; e l’uomo moderno, che concepisce tutta la
sua vita come lotta e gara, che traduce in movimento e
mutamento ogni forma di vita, che sente l’esperienza del
mondo sempre piú come esperienza del tempo, è il pro-
dotto di questo processo duplice, ma fondamentalmen-
te unitario.

Storia dell’arte Einaudi 263


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Il prevalere del momento sulla durata e la stabilità,


il senso che ogni fenomeno è una costellazione transi-
toria e irripetibile, una labile onda del fiume in cui non
si scende due volte, è la piú semplice formula a cui si può
ridurre l’impressionismo. Tutto il metodo impressioni-
stico, con i suoi mezzi e i suoi trucchi, non mira che ad
esprimere questa visione eraclitea, sottolineando che la
realtà non è un essere, ma un divenire, non uno stato,
ma un evento. Ogni quadro impressionistico è il sedi-
mento di un istante nel perpetuum mobile della vita, la
rappresentazione di un labile equilibrio sempre minac-
ciato nel gioco delle opposte forze. La visione impres-
sionistica trasforma il quadro naturale in un processo, in
qualche cosa che si forma e svanisce. Ogni cosa stabile
e coerente, si risolve in essa in metamorfosi e la realtà
vi assume un volto non-finito e imperfetto. Viene cioè
perfettamente reso l’atto soggettivo del vedere, non piú
l’obiettivo substrato di esso vedere, con cui s’inizia la
storia della moderna pittura prospettica. La rappresen-
tazione della luce, dell’aria, dell’atmosfera, la scompo-
sizione della superficie colorata in macchie e tocchi, la
dissoluzione del colore locale in tono, in valori prospet-
tici e atmosferici, il gioco dei riflessi e delle ombre schia-
rite, il tocco virgolato, tremulo e guizzante e la pennel-
lata scoperta, fluida, libera, tutto quel dipingere alla
prima con il rapido disegno appena schizzato, il colpo
d’occhio fuggevole, apparentemente distratto, e l’im-
magine resa con virtuosistica approssimazione, in ulti-
ma analisi altro non esprimono se non quel senso di una
realtà mobile, dinamica, sempre mutevole che è comin-
ciato con la soggettivizzazione della rappresentazione
pittorica attraverso la prospettiva.
Un mondo di fenomeni che senza posa si rinnova per
innumerevoli, impercettibili passaggi, suscita l’impres-
sione di un continuo in cui tutto confluisce; sicché a
mutare è solo l’atteggiamento, il punto di vista dell’os-

Storia dell’arte Einaudi 264


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

servatore. Un’arte adeguata a questo mondo non solo


accentuerà il carattere momentaneo e transitorio dei
fenomeni, non solo vedrà nell’uomo la misura delle cose,
ma cercherà il criterio del vero nell’hic et nunc dell’in-
dividuo. Il caso sarà per essa il principio di ogni esi-
stenza e la verità del momento toglierà valore ad ogni
altra verità. Il primato dell’istante, del divenire e del
caso significa, espresso in termini estetici, il prevalere
dello stato d’animo sulla vita, cioè di un rapporto con
le cose, caratterizzato non solo dalla mutevolezza, ma
dalla mancanza di qualsiasi impegno. In questa tenden-
za dell’arte si esplica un atteggiamento fondamental-
mente passivo di fronte alla vita, un adattarsi alla parte
di spettatore, di soggetto recettivo e contemplante, cioè
una posizione di distacco, di attesa, di neutralità –
insomma, il puro atteggiamento estetico. L’impressio-
nismo è al sommo di questa cultura ed è l’estrema con-
seguenza della rinunzia romantica alla vita attiva.
Come stile, l’impressionismo è un fenomeno singo-
larmente complesso. Per certi aspetti esso rappresenta
soltanto la coerente evoluzione del naturalismo. Se con
questo termine s’intende il passaggio dal generale al par-
ticolare, dal tipico all’individuale, dall’idea astratta all’e-
sperienza concreta, determinata nel tempo e nello spa-
zio, la rappresentazione impressionistica della realtà,
proprio in quanto accentua l’elemento momentaneo e
irripetibile, rappresenta una importante conquista del
naturalismo. I quadri impressionistici sono piú vicini
all’esperienza dei sensi di quelli naturalistici in senso
stretto, e per la prima volta nella storia dell’arte sosti-
tuiscono totalmente all’oggetto del sapere teorico quel-
lo dell’immediata esperienza visiva. Senonché, separan-
do gli elementi ottici da quelli concettuali ed elaboran-
do il dato visivo nella sua autonomia, l’impressionismo
si allontana da tutta la pratica dell’arte precedente e
quindi anche dal naturalismo. Mentre finora si tendeva

Storia dell’arte Einaudi 265


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

a un’immagine che, pur unificata nella coscienza, era


tuttavia composta di elementi eterogenei, concettuali e
sensoriali, il metodo proprio dell’impressionismo tende
a ottenere una omogeneità dell’immagine puramente
visiva. Ogni arte precedente era il risultato di una sin-
tesi; l’impressionismo, di un’analisi. Ogni volta esso
costruisce il suo oggetto dai puri dati dei sensi, risalen-
do all’inconscio meccanismo psichico, e in parte esso for-
nisce un materiale d’esperienza ancora grezzo, piú lon-
tano dalla consueta immagine della realtà di quanto lo
siano le impressioni sensoriali elaborate razionalmente.
L’impressionismo è meno illusionistico del naturalismo,
non dà l’illusione, ma gli elementi dell’oggetto; invece
di un’immagine totale, dà i singoli elementi di cui si
compone l’esperienza. Prima dell’impressionismo l’arte
riproduceva gli oggetti per mezzo di segni, ora li rap-
presenta attraverso le loro componenti, attraverso ele-
menti della materia prima di cui sono composti8.
Rispetto all’arte piú antica, il naturalismo aveva signi-
ficato un ampliamento del patrimonio della pittura,
aveva accresciuto i temi e arricchita la tecnica. Invece
il metodo impressionistico implica una serie di riduzio-
ni, un sistema di limitazioni e semplificazioni9. Nulla è
piú tipico per un dipinto impressionista del fatto che si
debba contemplarlo da una certa distanza e ch’esso
ritragga le cose con le omissioni proprie della veduta da
lontano. La serie delle riduzioni comincia limitando gli
elementi figurativi alla pura visualità ed eliminando
tutto quello che non è di natura ottica o traducibile
nelle categorie dell’ottica. La rinunzia ai cosiddetti ele-
menti letterari del soggetto, al racconto o all’aneddoto,
è l’espressione piú evidente di questo «ripiegare della
pittura sui propri mezzi». Che i temi figurativi si ridu-
cano al paesaggio, alla natura morta e al ritratto, o che
ogni altro soggetto venga trattato come «paesaggio» o
«natura morta», non è che un sintomo che rivela il pre-

Storia dell’arte Einaudi 266


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dominio di uno specifico «pittoricismo»: «La scelta di


un soggetto non per se stesso, ma per i suoi toni è ciò
che distingue gli impressionisti dagli altri pittori», con-
stata già uno dei primi storici e teorici del movimento10.
Questa tendenza a materializzare, a neutralizzare il
tema, può essere considerata come espressione dei sen-
timenti antiromantici dell’epoca, una forma di comple-
ta diseroicizzazione dei soggetti artistici, ma può anche
essere intesa come un allontanamento dalla realtà; e la
tendenza a limitare la pittura a soggetti specifici può
apparire come una perdita da un punto di vista natura-
listico. Il sorriso, che i Greci avevano dato all’arte figu-
rativa e che, come qualcuno ha osservato, va perdendo-
si nell’arte moderna11, è sacrificato alla visione «pittori-
ca»; ma con esso scompare dalla pittura ogni psicologia
e ogni umanesimo.
La sostituzione dell’immagine visiva all’immagine
plastica, cioè la traduzione in superficie del volume dei
corpi e della forma plastico-spaziale, è un grado ulterio-
re, anch’esso legato alla tendenza «pittorica» dell’epo-
ca, nella serie di quelle riduzioni che l’impressionismo
impone all’immagine naturalistica della realtà. Questa
però non è il fine, ma soltanto una conseguenza latera-
le del metodo. È solo per meglio accentuare gli effetti
cromatici e per il desiderio di trasformare la superficie
del quadro in un’armonia di effetti di colore e di luce,
che lo spazio viene assorbito e viene dissolta la struttu-
ra dei corpi. L’impressionismo, oltre a ridurre la realtà
a una superficie bidimensionale, la semplifica ancora in
un sistema di macchie senza contorno; rinunzia insom-
ma alla plastica e al disegno, alla forma spaziale e a quel-
la lineare. È indiscutibile che in questo modo la rap-
presentazione acquista, in luogo della chiarezza e del-
l’evidenza che innegabilmente perde, energia e fascino
sensuale, e questo appunto premeva agli impressionisti.
Ma il pubblico sentí la perdita piú dell’acquisto, ed è

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impossibile per noi moderni, per i quali la visione


impressionistica è ormai uno dei fattori piú importanti
della nostra esperienza visiva, immaginare la perplessità
suscitata da quell’intrico di macchie, tocchi e sgorbi.
L’impressionismo fu certo l’ultimo passo di un secolare
processo di involuzione formale. Fin dall’età barocca la
pittura era diventata sempre piú difficile per il pubbli-
co; si era fatta sempre meno nitida, e sempre piú com-
plicato era divenuto il suo rapporto con la realtà. Ma in
tutto questo processo l’impressionismo rappresenta cer-
tamente il salto piú ardito, e lo scandalo delle prime
esposizioni non è comparabile a quello di nessun’altra
novità artistica. La tecnica sommaria e la mancanza di
forma degli impressionisti parvero una provocazione;
furono prese come una beffa e il pubblico se ne vendicò
nel modo piú crudele.
Ma la serie delle riduzioni di cui il metodo si serve
non si esaurisce qui. Gli stessi colori usati dall’impres-
sionismo mutano e deformano l’immagine della comu-
ne esperienza. Ad esempio, per noi un pezzo di carta
«bianco» è bianco, comunque sia illuminato, nonostan-
te i riflessi colorati ch’esso mostra alla luce diurna. In
altri termini, il «colore della memoria», che noi asso-
ciamo a un oggetto e che risulta da lunga esperienza e
abitudine, soverchia la concretezza dell’esperienza
immediata12; ora l’impressionismo al di là del colore
mentale, teorico, ritrova la percezione reale, il che d’al-
tronde non è un atto spontaneo, ma rappresenta un pro-
cesso psicologico quanto mai artificioso e complicato.
La visione impressionistica infine compie un’altra
sensibilissima riduzione sull’immagine consueta della
realtà, mostrando i colori non come qualità concrete,
legate al singolo oggetto, ma come fenomeni cromatici
astratti, incorporei, immateriali – per cosí dire, colori in
sé. Se davanti a un oggetto mettiamo uno schermo con
una piccola apertura, che lasci vedere un colore, ma non

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consenta di farsi nessuna idea della forma dell’oggetto


e del suo rapporto con quel determinato colore, noi,
com’è noto, otteniamo un’impressione di colore sciolta,
incorporea, fluttuante, di natura diversissima da quella
dei colori che siamo abituati a vedere inscindibili dalla
forma dell’oggetto. In questo modo il fuoco perde il suo
splendore, la sera il suo riflesso, l’acqua la sua traspa-
renza, e cosí via13. Ora l’impressionismo dipinge sempre
gli oggetti in questi incorporei colori di superficie che,
cosí freschi e intensi, producono un’impressione imme-
diata, ma diminuiscono considerevolmente l’illusioni-
smo della rappresentazione e rivelano chiarissima la con-
venzionalità del metodo.
Nella seconda metà dell’Ottocento la pittura è l’arte
d’avanguardia. L’impressionismo ha già raggiunto una
sua autonomia, quando in letteratura si combatte anco-
ra per il naturalismo. La prima esposizione collettiva
degli impressionisti è del 1874, ma la storia dell’im-
pressionismo comincia circa vent’anni prima e finisce nel
1886, con l’ottava esposizione del gruppo. Questo si
scioglie verso quell’anno e si apre da allora un nuovo
periodo, post-impressionistico, che dura fino alla morte
di Cézanne, nel 190614. Dopo il predominio della lette-
ratura nel Sei e nel Settecento e quello della musica nel-
l’età romantica, verso la metà dell’Ottocento è la volta
della pittura. Il critico d’arte Asselineau già verso il
1840 constata che la pittura ha detronizzato la poesia15
e, una generazione piú tardi, i fratelli Goncourt escla-
mano con entusiasmo: «Che felice professione è quella
del pittore rispetto a quella del letterato!»16. Non solo
la pittura domina tutte le altre arti come la piú progre-
dita del tempo, ma anche qualitativamente le sue crea-
zioni superano la letteratura contemporanea, specie in
Francia, dove si è potuto dire con ragione che i grandi
poeti di quegli anni sono i pittori impressionisti17. È vero
che l’arte dell’Ottocento rimane in certa misura roman-

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tica, cioè «musicale», e i poeti del secolo confessano di


aver nella musica il loro supremo ideale; ma con ciò essi
intendono un simbolo della sovrana forza creatrice, indi-
pendente dalla realtà obiettiva, piú che l’esempio con-
creto della musica. Invece la pittura impressionistica
scopre sensazioni, che in seguito anche la poesia e la
musica si sforzeranno di esprimere, adattando il proprio
linguaggio alle forme pittoriche. Le impressioni atmo-
sferiche, specialmente l’esperienza della luce, dell’aria e
della chiarità colorata sono percezioni proprie della pit-
tura, e quando le altre arti cercano di riprodurle è giu-
stificato parlare di «pittoricismo» della poesia e della
musica. «Pittorico» per altro è lo stile di queste arti
anche quando esse si esprimono in forme «senza con-
torni», ricorrendo ad effetti di colore e di luce, e dànno
piú importanza alla vivacità dei particolari che all’unità
dell’impressione complessiva. Quando Paul Bourget
constata, a proposito dello stile letterario del suo tempo,
che l’impressione delle singole pagine è sempre piú forte
di quella di tutto il libro, che la frase colpisce piú della
pagina e la parola piú della frase18, egli caratterizza il
metodo dell’impressionismo, stile di una visione atomi-
stica e dinamica del mondo.
L’impressionismo tuttavia non è soltanto lo stile del
tempo, che domina in tutte le arti, è anche l’ultimo stile
«europeo», l’ultima corrente artistica che possa conta-
re su un generale consenso del gusto. Dopo, non si avrà
piú uno stile unitario che comprenda le diverse arti o la
cultura delle diverse nazioni. Ma l’impressionismo non
cessa né sorge all’improvviso. Delacroix, che scopre la
legge dei colori complementari e delle ombre colorate,
e Constable, che constata la composizione complessa
degli effetti di colore in natura, precorrono in piú modi
il metodo impressionistico. Il dinamizzarsi della visione,
che costituisce l’essenza dell’impressionismo, comincia
senza dubbio con loro. I rudimenti del plein air speri-

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mentati dai pittori di Barbizon sono un altro passo su


quella via. Ma al sorgere dell’impressionismo come
movimento collettivo contribuiscono soprattutto l’e-
sperienza pittorica della città i cui primi segni si hanno
in Manet e in Monet, e anche la coalizione delle ener-
gie giovanili provocata dall’ostilità del pubblico. A prima
vista può apparire sorprendente che la grande città, cosí
affollata e promiscua, abbia potuto nutrire quest’arte
cosí intima, cosí radicata nel sentimento dell’individua-
lità e della solitudine. Ma, com’è noto, nulla isola quan-
to la stretta vicinanza di troppa gente e in nessun luogo
ci si trova cosí soli e abbandonati come in una gran folla
estranea. I due fondamentali sentimenti, che la vita in
simile ambiente provoca, il senso di esser soli e inosser-
vati e l’impressione vertiginosa del traffico, del moto
incessante, del continuo mutamento, sono quelli che
determinano la visione impressionistica, visione che uni-
sce gli stati d’animo piú sottili con il piú rapido avvi-
cendarsi delle sensazioni. E altrettanto sorprendente
può apparire a prima vista l’osservazione che l’atteggia-
mento ostile del pubblico ha dato impulso al movimen-
to impressionista. Gli impressionisti non furono mai
aggressivi di fronte al pubblico; volevano rimanere nel
quadro delle tradizioni e spesso fecero sforzi disperati
per ottenere il placet delle sfere ufficiali, soprattutto al
Salon, considerato la normale via del successo. In ogni
caso lo spirito di contraddizione e il desiderio di attira-
re l’attenzione con mezzi sbalorditivi è molto meno rile-
vante in loro che nella maggior parte dei romantici e in
molti naturalisti. E tuttavia non c’era forse mai stata
scissione cosí profonda tra gli ambienti ufficiali e gli arti-
sti della nuova generazione, né mai era stato cosí forte
nel pubblico il senso di esser gabbato. Non si può dire
che gli impressionisti aiutassero la gente a capire le loro
idee – ma che dire di un pubblico che quasi lasciava

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morire di fame artisti cosí grandi, onesti, pacifici come


Monet, Renoir e Pissarro!
Né d’altra parte l’impressionismo aveva in sé alcun
elemento plebeo che potesse respingere il borghese; anzi
è uno «stile aristocratico», elegante e arguto, nervoso e
sensibile, sensuale ed epicureo, amante del prezioso e del
raro, ispirato da esperienze strettamente personali, dal
senso della solitudine e dell’isolamento, da sensi e nervi
raffinatissimi. D’altra parte esso è opera di artisti che
non solo vengono in gran parte dal popolo e dalla pic-
cola borghesia, ma che di problemi estetici e intellettuali
si occupano assai meno dei colleghi della generazione
precedente; sono molto meno versatili e complicati, piú
schiettamente artigiani e «tecnici» dei predecessori. Ma
fra loro si trovano anche borghesi agiati e perfino ari-
stocratici: Manet, Bazille, Berthe Morisot e Cézanne
sono di famiglia ricca, Degas è un aristocratico e Tou-
louse-Lautrec discende da un grande casato. L’intelli-
gente e mondana raffinatezza di Manet e di Degas, e la
scaltrita originalità di Constantin Guy e di Toulouse-
Lautrec mostrano sotto l’aspetto piú attraente la cospi-
cua società borghese del Secondo Impero, il mondo delle
crinoline e dei décolletés, delle carrozze e dei cavalli da
sella al Bois.
Nella storia letteraria il quadro è assai piú complica-
to che nella pittura. Come stile letterario, l’impressio-
nismo non è un fenomeno nettamente definito; i suoi
inizi non si possono facilmente discernere dal comples-
so del naturalismo, e le sue forme piú evolute si confon-
dono completamente con le manifestazioni del simboli-
smo. Anche cronologicamente si può osservare un certo
divario fra l’impressionismo letterario e quello pittori-
co: il suo periodo piú fecondo è già passato nella pittu-
ra, quando comincia appena a definirsi nella poesia. Ma
la distinzione maggiore sta nel fatto che l’impressioni-
smo in letteratura perde abbastanza presto il contatto

Storia dell’arte Einaudi 272


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con il naturalismo, il positivismo, il materialismo, e


quasi subito si fa l’araldo di quella reazione idealistica
che in pittura si fa strada solo dopo la disgregazione del
gruppo impressionista. Il fenomeno trova la sua spiega-
zione soprattutto nel fatto che l’élite culturale conser-
vatrice ha fra i letterati un peso incomparabilmente
maggiore che fra i pittori, assai piú difesi, per la loro
stessa formazione artigiana, di mestiere, contro gli assal-
ti dello spiritualismo.
La crisi del naturalismo, semplice sintomo di quella
del positivismo, si palesa solo verso il 1885, ma se ne
possono constatare i segni premonitori fin dal 1870. I
nemici della repubblica sono per lo piú nemici del razio-
nalismo, del materialismo e del naturalismo; combatto-
no il progresso scientifico e si attendono la rinascita
dello spirito da un rinnovamento religioso. Parlano di
«bancarotta della scienza», di «fine del naturalismo», di
«arido meccanizzarsi della civiltà»; ma quando si sca-
gliano contro il materialismo del tempo, pensano sem-
pre alla rivoluzione, alla repubblica, al liberalismo. Se i
conservatori hanno perduto il loro influsso sul governo,
hanno però mantenuto la loro autorità nella vita pub-
blica. Occupano sempre i posti piú importanti nell’am-
ministrazione, nella diplomazia, nell’esercito e dirigono
l’istruzione pubblica, specie nei gradi superiori19. Licei
e università sono ancora dominio del clero e dell’alta
finanza, e di qui si diffondono gli ideali della cultura che
si affermano piú che mai fra i letterati. Gli scrittori di
formazione accademica sono assai piú numerosi di
prima, e sotto il loro influsso la vita intellettuale acqui-
sta un prevalente aspetto reazionario. Flaubert, Mau-
passant e Zola non erano dei dotti; Bourget e Barrès
invece rappresentano lo spirito dell’accademia e dell’u-
niversità; in certo modo essi si sentono responsabili del
patrimonio culturale della nazione e si presentano nella
loro missione di guide intellettuali della gioventú20. L’in-

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tellettualizzarsi della letteratura è forse il tratto piú spic-


cato e generale dell’epoca; esso si manifesta sia negli
scrittori progressisti, sia nei conservatori21. Per questo
aspetto Anatole France non si distingue minimamente
dai suoi colleghi clericali e nazionalisti. Ma se di fronte
ai Bourget, ai Barrès, ai Brunetière, ai Bergson, ai Clau-
del troviamo un solo Anatole France, l’autorità di que-
sto erede di Voltaire prova che in Francia non è morto
lo spirito dell’illuminismo. D’altra parte, casi come il
processo Dreyfus e lo scandalo del canale di Panama
sono fatti apposta per destarlo dal letargo.
Intorno al 1870 la Francia attraversa una delle sue
piú gravi crisi intellettuali e morali; ma quella «Sedan
intellettuale», contrariamente all’asserzione di Barrès22,
non dipende affatto dal disastro militare, e la «mortale
stanchezza» non deriva, come crede Bourget, dal mate-
rialismo e dal relativismo. Da quella stanchezza della
vita non vanno esenti né Bourget né Barrès, come non
lo erano stati Baudelaire e Flaubert. Si tratta ancora
della malattia romantica del secolo e il naturalismo zolia-
no, che la generazione del 1885 tratta da capro espia-
torio, rappresenta in realtà l’unico tentativo serio, ben-
ché insufficiente, di superare il nichilismo che si è impa-
dronito degli animi. Il panorama letterario verso il 1890
è dominato dagli assalti contro Zola e dalla dissoluzio-
ne del movimento naturalistico, come tendenza domi-
nante. Questa è l’impressione piú forte che si ricava
dalle risposte all’inchiesta promossa da Jules Huret, col-
laboratore de «L’Echo de Paris», che nel 1891 furono
pubblicate in volume sotto il titolo Enquéte sur l’évolu-
tion littéraire e costituiscono uno dei documenti piú
importanti sullo sviluppo culturale di quegli anni. Huret
chiese a sessantaquattro scrittori, fra i piú noti al pub-
blico francese, che cosa pensassero del naturalismo: se
potesse ancora salvarsi o fosse già morto e, se mai, quale
corrente letteraria lo avrebbe sostituito. La gran mag-

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gioranza degli interrogati, e, fra i primi, molti ex disce-


poli di Zola, diedero per spacciato il paziente. Solo il
fedele Paul Alexis si affrettò a telegrafare: «Naturalisme
pas mort. Lettre suit», come se volesse evitare la diffu-
sione di una voce pericolosa. Ma la sua fretta non serví
a nulla. La voce si diffuse e il naturalismo fu rinnegato
anche da quelli che gli dovevano tutta la loro vita di arti-
sti. Eppure fra questi c’erano molti fra i migliori dell’e-
poca. Infatti che cosa è stata fino allo scorcio del seco-
lo la letteratura valida, e che cos’è, in parte, ancor oggi,
se non naturalismo distruttore di formule, teso ad arric-
chire sempre piú i contenuti dell’esperienza? Soprat-
tutto il «romanzo psicologico» di Bourget, Barrès, Huy-
smans e ancora quello di Proust cos’era se non il pro-
dotto di un’osservazione naturalistica, intenta al docu-
ment humain? È vero che alcuni tratti antinaturalistici
sono inscindibili dall’impressionismo letterario come da
quello pittorico, ma rampollano anch’essi dal terreno del
naturalismo. L’accanimento del pubblico nel reagire con-
tro di esso appare a prima vista inspiegabile. Gli argo-
menti contro il naturalismo non erano nuovi; è strano
invece che ci si ribellasse contro di esso con tanta acri-
monia nel momento in cui sembrava essere vittorioso.
Che cosa non si poteva, o si fingeva di non poter per-
donare al naturalismo? Si afferma ch’esso è un’arte bru-
tale, oscena, espressione di un piatto materialismo, stru-
mento di una stupida, grossolana propaganda democra-
tica, una raccolta di noiose, futili volgarità, una rappre-
sentazione della realtà che descrive nell’uomo solo la
bestia selvaggia, feroce, sfrenata, nella società soltanto
l’opera della distruzione, il dissolversi dei rapporti
umani, il disgregarsi della famiglia, della nazione e della
religione; insomma, esso è distruttivo, contro natura,
ostile alla vita. La generazione del 1850 combattendo il
naturalismo difendeva semplicemente gli interessi dei
ceti superiori; quella del 1885 lo combatte per difende-

Storia dell’arte Einaudi 275


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re l’umanità, la vita feconda, il buon Dio. La religione


ci ha forse guadagnato, non certo la sincerità.
Si farnetica sui misteri dell’essere e gli abissi dell’a-
nima; si chiama piatto ciò che è ragionevole e si vuole
esplorare, sperimentare l’ignoto, l’inconoscibile. Si fa
professione di «ideali ascetici» negatori del mondo, ma
si trascura di chiedersi con Nietzsche a che cosa essi ser-
vano in realtà. Il simbolismo è la corrente letteraria in
auge; Verlaine e Mallarmé sono al centro dell’interesse
generale. I piú grandi nomi del movimento romantico,
Chateaubriand, Lamartine, Vigny, Musset, Mérimée,
Gautier, George Sand non compaiono nemmeno nelle
risposte ricevute da Huret23. Si scoprono in quest’oc-
casione Stendhal e Baudelaire, ci si entusiasma per Vil-
liers de l’Isle-Adam e Rimbaud, si crea la moda del
romanzo russo, del preraffaellismo inglese e della filo-
sofia tedesca.
Ma l’influsso piú profondo e fecondo è quello di Bau-
delaire; egli appare il massimo precursore della poesia
simbolista e il creatore della lirica moderna. È lui a
riportare la generazione di Bourget e Barrès, Huysmans
e Mallarmé sulla via dell’estetismo romantico, inse-
gnando a conciliare il nuovo misticismo con il vecchio
fanatismo per l’arte.
Con gli impressionisti, l’estetismo giunge al colmo del
suo sviluppo. Ormai i suoi tratti caratteristici, l’atteg-
giamento passivo, puramente contemplativo, di fronte
alla vita, la fugacità dell’esperienza che non impegna e
il sensualismo edonistico sono i soli criteri dell’arte.
L’opera non solo è considerata fine a se stessa, come un
gioco il cui fascino andrebbe distrutto con l’imposizio-
ne di un qualsiasi scopo estraneo all’arte, non solo è
tenuta il piú bel dono della vita, al cui godimento occor-
re prepararsi devotamente, ma nel suo splendido isola-
mento, nella sua indifferenza per tutto ciò che è fuori
della sua sfera, essa diventa modello di vita: la vita del

Storia dell’arte Einaudi 276


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dilettante che ora nella stima dei poeti comincia a sosti-


tuire gli antichi eroi dello spirito, e diventa l’ideale fin
de siècle. Ciò che soprattutto è tipico del dilettante è il
suo proposito di «far della sua vita un’opera d’arte»,
cioè qualcosa di lussuoso e d’inutile, qualcosa che scor-
re libero e prodigo, interamente dedito alla bellezza, alla
forma pura, all’armonia dei colori e delle linee. L’este-
tismo imperante, che eleva a stile di vita l’inutile e il
superfluo, è la quintessenza della rassegnazione e della
passività romantica. Anzi esso esagera il romanticismo;
non solo rinunzia alla vita per amore dell’arte, ma in
questa cerca la giustificazione della vita. Considera l’o-
pera d’arte come l’unico compenso alle delusioni, la vera
attuazione e il compimento dell’esistenza, in sé sempre
imperfetta e confusa. Ma ciò significa non solo che la
vita sublimata nelle forme dell’arte appare piú bella e
attraente, ma che – secondo la concezione di Proust,
l’ultimo grande impressionista ed edonista – soltanto nel
ricordo, nella visione, nell’esperienza estetica essa si
dispiega in pregnante realtà. Noi siamo maggiormente
presenti e partecipi delle nostre esperienze non quando
incontriamo realmente gli uomini e le cose – il «tempo»
e la presenza sono qui sempre «perduti» –, ma quando
«ritroviamo il tempo», quando cioè non siamo piú atto-
ri, ma spettatori della nostra vita, quando creiamo opere
d’arte o le godiamo, cioè quando ricordiamo. In Proust
per la prima volta l’arte s’impadronisce di quel che Pla-
tone le rifiutava: le idee, il ricordo adeguato alle forme
essenziali dell’essere.
Il moderno estetismo, in quanto atteggiamento passi-
vo e puramente contemplativo di fronte alla vita, risale
nel suo fondamento teoretico a Schopenhauer, che defi-
nisce l’arte riscatto dalla volontà, elemento sedativo che
riduce al silenzio avidità e passioni. La concezione este-
tica del mondo giudica e valuta l’intera esistenza dal
punto di vista di quest’arte abulica e apatica. Il suo idea-

Storia dell’arte Einaudi 277


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

le è un pubblico tutto di artisti veri o potenziali, nature


per cui la realtà costituisce soltanto il substrato di espe-
rienze estetiche. Il mondo civile è per essi un grande stu-
dio d’artista e l’artista stesso è il miglior intenditore
d’arte. D’Alembert poteva ancora ammonire: «Guai
all’arte che riservi la sua bellezza agli artisti!» Ma ch’e-
gli si sentisse indotto a questo ammonimento prova che
il pericolo dell’estetismo esisteva già nel Settecento; nel
Seicento un’idea simile non sarebbe venuta a nessuno. E
per l’Ottocento quel che D’Alembert temeva non è piú
un pericolo. I Goncourt vedono nelle sue parole la piú
gran sciocchezza che si possa immaginare24, e soprattut-
to sono profondamente persuasi che la prima condizio-
ne per intendere adeguatamente l’arte sia una vita ad essa
dedicata, cioè il suo esercizio pratico.
L’estetismo dell’epoca impressionistica segna l’inizio
di una degenerazione profonda. Gli artisti creano per gli
artisti e l’arte, cioè l’esperienza formale del mondo sub
specie artis, si riduce ad avere come suo unico soggetto
l’arte stessa. La rozza, informe, vergine natura perde il
suo fascino estetico e l’ideale della naturalezza cede il
posto a quello dell’artificio. La città con la sua cultura
e i suoi piaceri, la vie factice e i paradis artificiels non sol-
tanto paiono incomparabilmente piú attraenti, ma anche
assai piú intelligenti e spirituali del cosiddetto fascino
della natura. Questa di per sé è brutta, volgare, infor-
me; soltanto l’arte la rende piacevole. Baudelaire odia
la campagna, i Goncourt nella natura scorgono una
nemica, e i piú tardi esteti, specialmente Whistler e
Wilde, ne parlano con sprezzante ironia. È la fine del-
l’Arcadia, del romantico entusiasmo per la natura e della
fede nell’identità di natura e ragione. Si conclude cosí
la reazione a Rousseau e al culto, da lui promosso, dello
stato di natura. Tutto ciò che è semplice e chiaro, istin-
tivo ed ingenuo perde valore; si insiste invece sulla con-
sapevolezza, l’intellettualismo e l’artificio della cultura.

Storia dell’arte Einaudi 278


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Nello stesso processo della creazione artistica si scopre


la partecipazione dell’intelligenza e delle facoltà razio-
nali. La fantasia dell’artista produce di continuo cose
buone, mediocri, cattive, – afferma Nietzsche; – solo il
suo giudizio scarta, sceglie e ordina il materiale dispo-
nibile25. In fondo anche quest’idea, come tutta la filo-
sofia della vie factice, procede da Baudelaire, che vuol
trasformare «il diletto in conoscenza», nel poeta vuol
sempre vedere anche il critico26 e nel suo entusiasmo per
tutto quel ch’è artificioso va cosí oltre da considerare la
natura anche moralmente inferiore. Egli afferma che il
male accade senza sforzo, cioè naturalmente, mentre il
bene è sempre il prodotto di un’arte, è cioè artificiale,
innaturale27.
Tuttavia l’entusiasmo per l’artificio della cultura non
è che una nuova forma dell’evasione romantica. Si sce-
glie la vita artificiosa e fittizia, perché la realtà non
potrebbe mai esser bella come l’illusione, e ogni contatto
con la realtà, ogni tentativo di attuare sogni e desideri
finisce col corromperli. Solo che ora fuggendo dalla
realtà sociale non ci si rifugia nella natura, come face-
vano i romantici, ma in un mondo artificiale, piú alto,
sublimato. Nell’Axel di Villiers de l’Isle-Adam (pubbli-
cato postumo nel 1890), una delle classiche espressioni
del nuovo senso della vita, le forme intellettuali e fan-
tastiche prevalgono sempre su quelle naturali e pratiche,
e i desideri inadempiuti appaiono sempre piú perfetti e
soddisfacenti del loro attuarsi nella realtà comune e vol-
gare. Axel vuole uccidersi insieme con l’amata Sara.
Essa è pronta a morire con lui, ma prima vorrebbe cono-
scere la felicità di una notte d’amore. Tuttavia Axel
teme che dopo gli mancherà il coraggio di morire e che
il loro amore, come tutti i sogni avverati, non resisterà
alla prova del tempo. Egli preferisce la perfetta illusio-
ne all’imperfetta realtà. Da questo sentimento deriva piú
o meno tutto il mondo ideale dei neoromantici; dap-

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pertutto c’imbattiamo in un Lohengrin che, per dirla


con Nietzsche, lascia in asso la sua Elsa nella notte delle
nozze. «Vivere? – domanda Axel: –ci pensano i nostri
servi per noi». In A rebours di Huysmans (1884), il testo
fondamentale di questo estetismo timoroso della natu-
ra e del mondo, la sostituzione della vita mentale alla
vita pratica è ancora piú completa. Des Esseintes, il
celebre eroe del romanzo, il prototipo di tutti i Dorian
Gray, si isola cosí ermeticamente dal mondo, che non
osa piú nemmeno intraprendere un viaggio, perché teme
di essere deluso dalla realtà. È lo stesso paralizzante sog-
gettivismo ostile alla vita che si esprime nel tedio della
natura. «Il tempo della natura – dice Des Esseintes – è
passato. Essa ha ormai esaurito la pazienza degli spiriti
raffinati con la stucchevole monotonia dei suoi paesag-
gi e dei suoi cieli». Per quegli spiriti non c’è che una via:
rendersi del tutto indipendenti e sostituire la natura
con lo spirito, la realtà con la finzione. Si tratta di tor-
cere quel ch’è diritto, di invertire ogni impulso e ogni
inclinazione naturale. Des Esseintes vive nella sua casa
come in un chiostro, non fa né riceve visite, non scrive
né riceve lettere, dorme di giorno, legge, fantastica e
specula di notte; si crea i suoi «paradisi artificiali» e
rifiuta tutto ciò che piace al comune mortale. Inventa
sinfonie di colori, profumi, bevande, fiori strani, gemme
rare; poiché rari e preziosi debbono essere gli strumen-
ti del suo acrobatismo spirituale. Naturalmente, nel suo
vocabolario, dire che una cosa è a buon mercato è come
dirla insulsa o plebea.
Ma il misticismo di tutto questo indirizzo non ha
forse espressione piú forte della novella Véra di Villiers
de l’Isle-Adam28. Vera è l’idolatrata sposa dell’eroe, che
rifiuta di ammettere la sua morte prematura, perché
non potrebbe sopportare di averne coscienza. Attraver-
so le sbarre del cancello, il protagonista getta la chiave
del sepolcro in cui essa giace, va a casa e comincia una

Storia dell’arte Einaudi 280


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nuova vita fittizia, cioè continua come prima, come se


nulla fosse accaduto. Si comporta, parla e agisce come
s’ella fosse viva e accanto a lui. Il suo contegno è un
insieme cosí coerente e perfetto di atteggiamenti e di
azioni, che a renderlo del tutto sensato non manca che
la presenza fisica di Vera. Ma in ispirito essa è così pre-
sente, e cosí immediata e soverchiante è la suggestione
della sua personalità, che la sua vita artificiale assume
una realtà ben piú profonda, vera e pura che non il
fatto della sua morte. Essa muore soltanto quando al
sonnambulo sfuggono le parole: «Mi ricordo... sei pro-
prio morta!» A nessun lettore intelligente sfuggirà l’a-
nalogia fra questo ostinato rifiuto di conoscere l’impor-
tanza della realtà e la negazione cristiana del mondo; ma
insieme nessuno può trascurare la differenza tra l’osti-
nazione di un’idea fissa e la fermezza di una fede reli-
giosa. Anzi non si può immaginare nulla di piú lontano
dal cristianesimo, di piú alieno dallo spirito del Medioe-
vo, dell’«ennui», questa nuova forma, impressionistica,
della malinconia romantica. Vi si esprime un senso di
ripugnanza per la monotonia della vita29, cioè proprio
l’opposto di quella insoddisfazione per le avversità del-
l’esistenza, che, come fu osservato, avevano provato età
piú antiche, che credevano in un ordine divino30. In
queste si era turbati dalla mutevolezza della fortuna, dal-
l’incostanza e imprevedibilità del destino; si aspirava alla
quiete e alla sicurezza, alla monotonia e alla noia della
pace; per il moderno esteta, invece, l’ordine e la sicu-
rezza borghese sono la cosa piú insopportabile. L’aspi-
razione dell’impressionismo a fermare l’ora mutevole, il
suo abbandono all’umore del momento come al piú alto
valore della vita, irriducibile e indefinibile, la volontà di
vivere nell’istante e dissolversi in esso, è soltanto la
conseguenza di quella visione antiborghese, di quella
rivolta contro la routine e la disciplina della vita bor-
ghese. Anche l’impressionismo è un’arte di opposizione,

Storia dell’arte Einaudi 281


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

come ogni movimento d’avanguardia dal romanticismo


in poi, e il sentimento di ribellione latente nell’atteg-
giamento dell’impressionismo verso la vita, benché non
sempre gli impressionisti ne fossero consapevoli, è tra le
cause del rifiuto dell’arte nuova da parte del pubblico
borghese.
Tra il 1880 e il ’90 l’edonismo estetico assume di pre-
ferenza il nome di «decadentismo». Des Esseintes, il
raffinato epicureo, è anche il prototipo dell’estenuato
«decadente». Ma l’idea di decadentismo include moti-
vi che esorbitano dall’estetismo: anzitutto il senso del
declino di una cultura e di una crisi profonda, la coscien-
za cioè di trovarsi alla conclusione di un ciclo storico e
prossimi alla fine di una civiltà. La simpatia per antiche
epoche, stanche e ultraraffinate, come l’ellenismo, la
tarda romanità, il Rococò e il tardo stile «impressioni-
stico» dei grandi maestri del passato, è un tratto essen-
ziale del decadentismo. Il senso di essere a una svolta
della storia si era avuto anche in epoche precedenti, ma
sempre s’era accompagnato ad un rammarico profondo,
come avviene, ad esempio, ancora in Musset, per que-
sto trovarsi a vivere il tramonto di una cultura; ora inve-
ce il concetto di senescenza e stanchezza, di saturazio-
ne culturale e degenerazione, si unisce a un’idea di
nobiltà spirituale. S’impadronisce degli uomini una vera
ebbrezza di rovina, sentimento anch’esso non nuovo, ma
piú forte che mai. I richiami alla tradizione di Rousseau,
al tedio byroniano e alla romantica voluttà della morte
sono chiarissimi. Lo stesso abisso attrae romantici e
decadenti, la stessa brama di distruzione, di autoan-
nientamento li travolge. Ma per i decadenti tutto è
«abisso», tutto è pervaso dall’insicurezza e da un’ango-
scia mortale: «Tout plein de vague horreur, menant on
ne sait oú» [«Tutto pieno di vago orrore, che porta non
sai dove»] come si legge in Baudelaire.

Storia dell’arte Einaudi 282


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

«Chi sa se la verità non è triste» diceva Renan: paro-


le di profondo scetticismo, quali nessun grande scritto-
re russo avrebbe sottoscritto. Poiché tutto per loro pote-
va esser triste, tranne la verità. Ma quanto piú sinistre
sono le parole di Rimbaud: «Quel che non sappiamo è
forse orrendo» (Le forgeron). Si intuisce da quali impe-
netrabili e inesauribili enigmi egli si senta circondato,
anche se subito aggiunge: «Noi sapremo». L’abisso che
per il cristiano era il peccato, per il cavaliere il disono-
re, per il borghese l’illegalità, per il decadente è tutto ciò
che sfugge a concetti, parole, formule. Di qui la sua lotta
disperata per la forma e la sua invincibile ripugnanza per
tutto quanto è informe, selvaggio, naturale. Di qui la sua
predilezione per le età piú ricche di formule – anche se
non profondissime – e che offrivano per tutto una paro-
la, anche se inadeguata.
La frase di Verlaine «Je suis l’empire à la fin de la
décadence» [«Sono l’impero alla fine della decadenza»]
diventa l’etichetta del tempo; e benché nell’apologia
della decadenza romana già lo abbiano preceduto Gérard
de Nerval31, Baudelaire e Gautier32, egli sa lanciare il suo
motto al momento giusto e muta cosí quella che era
stata la semplice espressione di uno stato d’animo in un
programma culturale. C’erano state epoche che di un’età
dell’oro non sapevano o non volevano sapere, ma prima
del decadentismo ottocentesco mai c’era stata una gene-
razione che all’età dell’oro preferisse l’età argentea.
Questa scelta significava non solo una coscienza di epi-
goni, non solo una modestia di tardi eredi, ma anche una
specie di contrizione e un senso d’inferiorità. I deca-
denti erano edonisti di cattiva coscienza, peccatori che,
come Barbey d’Aurevilly, Huysmans, Verlaine, Wilde,
Beardsley, si gettavano fra le braccia della Chiesa cat-
tolica. Questo senso di colpa trova nella loro concezio-
ne dell’amore, tutta dominata da quella psicologia della
pubertà che era stata propria del romanticismo, la sua

Storia dell’arte Einaudi 283


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

espressione piú scoperta. Per Baudelaire l’amore è il


frutto proibito, la caduta, la perdita irreparabile del-
l’innocenza. «Faire l’amour c’est faire le mal» [«Far l’a-
more è fare il male»]. Il suo romantico satanismo tutta-
via trasforma anche il peccaminoso in una fonte di
voluttà: non solo in sé e per sé l’amore è male, ma il pia-
cere supremo consiste appunto nella coscienza di far
male33. Anche la simpatia per le prostitute, comune a
romantici e decadenti, e a questi suggerita da Baudelai-
re, rivela l’inibizione, il senso di colpa che pesa sull’a-
more. Naturalmente questa simpatia è soprattutto
espressione della rivolta contro la società e la morale bor-
ghese, fondata sulla famiglia. La prostituta è la sposta-
ta, la reietta, che si ribella non solo alla forma istitu-
zionale dell’amore, ma anche alla sua «naturale» forma
psicologica. Essa distrugge non solo la disciplina mora-
le del sentimento, ma anche i fondamenti di esso. È
fredda nell’infuriare della passione, è e rimane spetta-
trice distaccata della voluttà ch’essa provoca, si sente
sola e indifferente dove altri si abbandona all’ebbrezza:
in breve, essa è il «doppio» femminile dell’artista. Da
questa comunione di sentimenti e di destino nasce la
comprensione dell’artista decadente. Anch’egli sa di
prostituirsi, di esibire i suoi piú cari sentimenti, di cede-
re a vile prezzo i suoi segreti.
Con questa dichiarata solidarietà con la prostituta,
l’estraneità dell’artista dalla società borghese è comple-
ta. Il cattivo scolaro si mette nell’ultimo banco, come
dice Thomas Mann di un suo eroe, e, col senso di sol-
lievo di chi lascia il campo della gara, resta «nell’ultimo
banco», disprezzato, ma indisturbato. Sarebbe strano
che in un pensatore come Thomas Mann, la cui conce-
zione ruota tutta intorno a un unico problema, la posi-
zione dell’artista nella società borghese, anche questa
osservazione, apparentemente innocua, non si legasse
con la sua problematica. La peculiare esistenza dell’ar-

Storia dell’arte Einaudi 284


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tista, priva di ambizioni borghesi, è proprio simile a un


«ultimo banco» che lo sottrae ad ogni responsabilità e
ad ogni controllo. È certo comunque che l’accentuato
«contegno borghese» di Thomas Mann, non meno che,
ad esempio, il «corretto» atteggiamento sociale di Henry
James si debbono intendere unicamente come reazione
al costume di quegli artisti che si erano messi ostenta-
tamente nell’ultimo banco, e coi quali non si voleva
avere nulla in comune. Ma Thomas Mann e Henry
James sanno fin troppo bene che l’artista necessaria-
mente deve condurre una vita extraumana e inumana,
che la via normale gli è preclusa, né gli servono la spon-
taneità, l’ingenuità, il calore del sentimento. Il para-
dosso della sua sorte sta nel dover ritrarre la vita ed
esserne insieme escluso. Ne risultano complicazioni
gravi, spesso inestricabili. Paul Overt, il piú giovane dei
due scrittori che si contrappongono in The Lesson of the
Master [La lezione del maestro] di James, si ribella inva-
no alla crudele ascesi di una vita dedita all’arte, recalci-
tra invano contro la rinunzia ad ogni felicità personale,
privata, che il maestro, Henry St. George, esige da lui.
Egli è pieno d’impazienza e di rancore contro la spieta-
ta tirannia a cui si è vincolato. «Ma Lei non crederà
ch’io esalti l’arte!» replica il maestro: «Felice la società
che non la conosce!» E verso l’arte Thomas Mann è
altrettanto severo, altrettanto inesorabile. Infatti se egli
ci mostra tutte le esistenze problematiche, ambigue e
sospette, il debole, il malato, il degenerato, qualsiasi
avventuriero, cavaliere d’industria o delinquente, e in
ultimo perfino Hitler come affini psichicamente all’ar-
tista34, questa è la piú tremenda accusa che mai sia stata
elevata contro l’arte.
L’epoca dell’impressionismo offre due tipi estremi
dell’artista moderno, asociale, estraniato dalla società: il
nuovo bohémien e quello che per fuggire alla civiltà
occidentale si rifugia in lontane terre esotiche. Sono

Storia dell’arte Einaudi 285


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

entrambi espressione dello stesso sentimento, dello stes-


so «disagio della civiltà», ma l’uno sceglie «l’emigra-
zione interna», l’altro la fuga effettiva. Entrambi vivo-
no una vita astratta, separata dalla realtà concreta e pra-
tica, entrambi si esprimono in forme che debbono appa-
rire sempre piú strane, sempre piú incomprensibili alla
maggioranza del pubblico. Il viaggio in paesi lontani, per
fuggire la civiltà moderna, è antico quanto la protesta
della bohème contro l’ordine borghese. Entrambi risal-
gono all’irrealismo e all’individualismo romantico, ma
per via si sono profondamente trasformati, e la partico-
lare fisionomia che questi fenomeni presentano fra l’80
e il ’90 deriva soprattutto da Baudelaire. I romantici cer-
cavano ancora il «fiore azzurro», il paese dei sogni e del-
l’ideale, «mais les vrais voyageurs, – dice Baudelaire, –
sont ceux-là seuls qui partent pour partir» [«Ma i veri
viaggiatori sono soltanto quelli che partono per parti-
re»]. Ecco la vera fuga, il viaggio verso l’ignoto, che
obbedisce non già all’attrazione, ma alla repulsione:

O Mort, vieux capitaine, il est temps! levons l’ancre!


Ce pays nous ennuie, ô Mort! Appareillons!
Si le ciel et la mer sont noirs comme l’encre!
Nos cœurs que tu connais sont remplis de rayons!

[«Morte, vecchio capitano, è tempo! leviamo l’anco-


ra | Il paese ci annoia, Morte! Spieghiamo le vele! | Se
il cielo e il mare son neri come l’inchiostro, | I nostri
cuori, li conosci, sono pieni di raggi!]
Rimbaud intensifica il dolore del congedo: «la vie est
absente, nous ne sommes pas au monde» [La vita è
assente, noi non siamo al mondo»], ma nulla aggiunge
alla bellezza di quel commiato, senza pari nella poesia
moderna. Eppure egli è l’unico vero erede di Baudelai-
re, l’unico ad attuare i viaggi immaginari del maestro e

Storia dell’arte Einaudi 286


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

a mutare in sistema di vita quel che, prima di lui, non


era che una scappata nel mondo della bohème.
In Francia la bohème non è un fenomeno unitario e
univoco. È ovvio che Rimbaud, posseduto dal Maligno,
e Verlaine, oscillante fra delinquenza e misticismo reli-
gioso, non hanno nulla di comune con i frivoli e amabi-
li giovani dell’opera pucciniana. Ma l’ascendenza di
Rimbaud e Verlaine è assai ramificata, e per intenderli
bisogna distinguere tre fasi e tre forme diverse nella vita
degli artisti: la bohème romantica, la naturalistica, l’im-
pressionistica35. In origine la bohème non era che una
protesta contro il costume borghese. Vi partecipavano
giovani artisti e studenti, in massima parte figli di gente
facoltosa, e la loro opposizione alla società dominante
per lo piú si esauriva in giovanile insolenza e spirito di
contraddizione. Théophile Gautier, Gérard de Nerval,
Arsène Houssaye, Nestor Roqueplan e tanti altri si stac-
cavano dalla società borghese non perché fossero obbli-
gati a farlo, ma semplicemente perché volevano vivere
altrimenti dai loro genitori. Erano puri romantici, che
volevano essere originali e stravaganti anche nel modo
di vita, perché per arte e poesia intendevano qualche
cosa di assolutamente originale e stravagante. Essi fug-
givano nel mondo dei reietti e dei paria come si fa un
viaggio in terra lontana ed esotica; nulla sapevano della
miseria della bohème piú tarda, e la via del ritorno alla
società borghese era per loro sempre aperta. La bohème
della generazione successiva, quella del naturalismo mili-
tante, che teneva il suo quartier generale in birreria, e
a cui fra gli altri appartenevano Champfleury, Courbet,
Nadar e Murger, era invece una vera bohème, cioè un
proletariato artistico fatto di gente che viveva in modo
affatto precario, al di fuori della società borghese. La
loro lotta contro la borghesia non era quindi un gioco
insolente, ma una dura necessità; il costume antibor-
ghese era quel che meglio si attagliava alla loro incerta

Storia dell’arte Einaudi 287


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

esistenza, e non piú una semplice mascherata. Come lo


spirito peculiare di Baudelaire, che cronologicamente
appartiene a questa generazione, da un lato risale alla
bohème romantica e dall’altro precorre l’impressioni-
smo, cosí anche Murger, benché in altro senso, è un
fenomeno di transizione. Ora che la bohème cessa di
essere «romantica», la borghesia comincia a idealizzar-
la romanticamente. Murger vi ha la parte del maître de
plaisir che le offre un Quartiere Latino ben lavato e
addomesticato. Ciò gli vale, secondo il merito, un avan-
zamento fra gli autori accreditati della borghesia. Per il
filisteo la bohème è quasi come l’inferno. Essa lo attrae
e lo respinge. Egli civetta con la libertà e l’irresponsa-
bilità che vi dominano, ma arretra spaventato davanti
al disordine e all’anarchia impliciti in quella vita. Idea-
lizzandola, Murger tende a far piú innocua di quanto sia
realmente questa minaccia alla società, e a lasciare che
l’improvvido borghese continui a nuotare nei suoi sogni
ambigui. I personaggi di Murger per lo piú sono giova-
ni allegri e un po’ sventati, ma brava gente che si ricor-
derà della sua vita di bohème come il lettore borghese
ricorda le sue follie di studente. Quest’aspetto transito-
rio della bohème la rendeva innocua agli occhi del fili-
steo. E Murger non era il solo a pensarla così. Anche
Balzac considerava transitoria la vita di bohème dei gio-
vani artisti: «La bohème è fatta di giovani ancora oscu-
ri, ma che un giorno saranno chiari e famosi», scrive in
Un Prince de la bohème.
Tuttavia non solo la bohème di Murger, ma anche
quella vera del periodo naturalistico è un idillio in con-
fronto alla vita degli artisti e dei poeti antiborghesi della
generazione successiva, come Rimbaud, Verlaine, Tri-
stan Corbière, Lautréamont. La bohème è diventata
veramente un’accolta di vagabondi e di reietti, un grup-
po di disperati, in rotta non solo con la borghesia, ma
con tutta la civiltà europea. Baudelaire, Verlaine, Tou-

Storia dell’arte Einaudi 288


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

louse-Lautrec sono affetti da grave alcolismo; Rimbaud,


Gauguin e Van Gogh, vagabondi e giramondo; Verlai-
ne e Rimbaud muoiono all’ospedale, Van Gogh e Tou-
louse-Lautrec conoscono il manicomio, i piú passano la
vita nei caffè, nei varietà, nei bordelli, negli ospedali o
sulla strada. Essi distruggono in sé tutto quel che potreb-
be essere utile alla società, si accaniscono contro tutto
ciò che dà alla vita stabilità e durata, e perfino contro
se stessi, come se volessero estirpare da sé quel che li
accomuna agli altri. «Io mi uccido, – scrive Baudelaire
in una lettera del 1845, – perché sono inutile agli altri
e pericoloso per me stesso». Egli ha coscienza non solo
della propria infelicità, ma anche che la felicità degli altri
è qualcosa di comune e volgare. «Lei è un uomo felice»,
scrive in una lettera piú tarda: «La compiango, signore,
di esser cosí facilmente felice. Un uomo dev’essere cadu-
to molto in basso per ritenersi felice»36. Nella novella
L’uva spina Ωechov esprime lo stesso disprezzo per la
felicità a buon mercato. E non sorprende in uno scrit-
tore che ha tanta simpatia per la bohème. «Dica, per-
ché vive in modo cosí noioso, scolorito?», domanda al
suo ospite l’eroe di una delle sue novelle: «La mia è una
vita triste, difficile, monotona, perché io sono un arti-
sta, un uomo strano, fin dalla prima giovinezza strazia-
to dall’invidia, scontento di me stesso; incerto del mio
lavoro; sono povero, sono un vagabondo; ma Lei, Lei,
un uomo sano e normale, un possidente, un signore –
perché vive in modo cosí scialbo, perché prende cosí
poco della vita?»37. Il colore, almeno, non mancava alla
vita della prima bohème: essa si adattava alla miseria pur
di vivere in modo interessante e colorito. Ma la nuova
bohème è oppressa dal cupo tanfo di una noia soffo-
cante; l’arte non inebria piú, stordisce soltanto.
Tuttavia, né Baudelaire, né Ωechov, né gli altri
sospettano quale inferno potesse diventare la vita per un
uomo come Rimbaud. La civiltà occidentale doveva

Storia dell’arte Einaudi 289


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

giungere alla crisi odierna, perché noi potessimo capire


una vita simile. Un nevrastenico, un buono a nulla, un
perdigiorno, un uomo perverso, pericoloso, che errando
di paese in paese, si fa maestro di lingua, merciaio ambu-
lante, s’impiega in un circo, fa lo scaricatore, il brac-
ciante, il marinaio, il volontario nell’esercito olandese,
il meccanico, l’esploratore, il mercante di coloniali, e
chissà cosa ancora; si prende un’infezione chissà dove in
Africa, deve farsi amputare una gamba in un ospedale
di Marsiglia, per morire a trentasette anni, membro a
membro, fra i piú atroci tormenti; un genio che scrive
a diciassette anni versi immortali, a diciannove abban-
dona del tutto la poesia e non parlerà mai piú di lette-
ratura per tutto il resto della sua vita, un delinquente
verso gli altri e verso se stesso, che fa getto dei suoi piú
preziosi tesori, dimentica e nega assolutamente di aver-
li mai posseduti; uno dei precursori e, come molti sosten-
gono, il vero fondatore della poesia moderna che, quan-
do la notizia della sua gloria lo raggiunge in Africa, non
vuol saperne e non ha altro da dire che merde pour la poé-
sie: si può immaginare nulla di piú sinistro, di piú con-
trario all’idea di un poeta? Tristan Corbière non ha
forse ragione quando dice: «I suoi versi erano di un
altro; egli non li ha letti»? Non è questo il piú tremen-
do nichilismo, l’estrema negazione di sé? Ed è questo
che si raccoglie da quel che hanno seminato Flaubert, il
buon borghese onesto e scrupoloso, e i suoi amici raffi-
nati, colti, sensibili all’arte.
Dopo il 189o la parola decadentismo perde la sua eco
suggestiva e il «simbolismo» a sua volta assurge a ten-
denza artistica dominante. È Moréas ad introdurne il
nome, e lo definisce come l’aspirazione a sostituire,
nella poesia, l’«idea» alla realtà»38. Già la nuova termi-
nologia sta ad indicare la vittoria di Mallarmé su Ver-
laine, e uno spostarsi della linea di sviluppo dall’im-
pressionismo sensualistico verso lo spiritualismo. Spes-

Storia dell’arte Einaudi 290


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

so è molto difficile distinguere l’impressionismo dal sim-


bolismo: i due concetti sono in parte antitetici, in parte
equivalenti. L’impressionismo di Verlaine e il simboli-
smo di Mallarmé si distinguono abbastanza nettamen-
te, ma non è altrettanto agevole un’esatta definizione
dello stile di un Maeterlinck. «Impressionistici» sono nel
simbolismo gli effetti ottici e acustici, la contaminazio-
ne e lo scambio dei diversi dati dei sensi, l’influsso reci-
proco delle forme d’arte, soprattutto quel che intende-
va Mallarmé quando parlava di riprendere alla musica i
beni della poesia. Ma il simbolismo con la sua posizio-
ne irrazionalistica e spiritualistica costituisce anche una
netta reazione all’impressionismo, per sua natura natu-
ralistico e materialistico. Mentre per l’impressionismo,
infatti, l’esperienza dei sensi è qualcosa di conclusivo e
irriducibile, per il simbolismo tutta la realtà empirica
non è che l’immagine di un mondo ideale.
Il simbolismo rappresenta il risultato dell’evoluzione
che, dalla scoperta romantica della metafora come cel-
lula germinale della poesia, conduce alla ricchezza d’im-
magini dell’impressionismo; tuttavia esso rifiuta non
solo l’impressionismo perché materialista, e il movi-
mento parnassiano perché formalista e razionalista, ma
perfino il romanticismo perché sentimentale e conven-
zionale nel suo linguaggio figurato. Per qualche aspetto
il simbolismo si può considerare come la reazione a tutta
la poesia anteriore39; esso scopre qualcosa che fin qui era
rimasto ignoto o trascurato: la poésie pure40, la poesia
nata dall’irrazionale spirito della lingua, cioè estranea ai
concetti, ribelle all’interpretazione logica. Per i simbo-
listi la poesia non è che l’espressione dei rapporti e delle
rispondenze, che la lingua abbandonata a se stessa crea
fra il concreto e l’astratto, la materia e l’idea, come
anche fra i diversi ordini di sensazioni. La poesia, per
Mallarmé, è allusione ad immagini che ondeggiano e
svaporano; nominare un oggetto, egli dice, significa

Storia dell’arte Einaudi 291


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

annullare per tre quarti il piacere d’indovinarlo a poco


a poco41. E il simbolo non mira soltanto ad eludere la
necessità di nominare le cose, ma serve anche come
indiretta espressione di un significato che non si può
enunciare direttamente, che anzi per sua stessa natura
ricusa di venir formulato e definito.
Il simbolo come mezzo espressivo non è certo un’in-
venzione della generazione di Mallarmé; già prima era
esistita un’arte simbolica. Semplicemente, essa ha sco-
perto la differenza tra simbolo e allegoria e ha fatto del
simbolismo come stile poetico il fine consapevole delle
sue aspirazioni. Pur senza esprimerlo chiaramente, si
rendeva conto che l’allegoria non fa che tradurre in
figura concreta un’idea astratta, che rimane per altro
relativamente indipendente dalla sua espressione figu-
rata tanto che potrebbe anche esprimersi in altra forma;
il simbolo invece unifica inscindibilmente l’idea e la
figura, e col mutare di questa muta anche quella. Il con-
tenuto di un simbolo, insomma, è intraducibile in altra
forma, mentre il simbolo stesso si può interpretare in
modi assai diversi, e gli è appunto essenziale questa
mobilità dell’interpretazione, quest’apparente impossi-
bilità di esaurirne il significato. Accanto al simbolo, l’al-
legoria appare sempre la semplice, chiara e relativamente
superflua trascrizione di un’idea che nulla acquista nel
traslato. È una specie d’indovinello, che si può pronta-
mente risolvere. Il simbolo invece può soltanto venire
interpretato, non risolto. L’allegoria è espressione del
pensiero statico, il simbolo, di quello dinamico; quella
pone una meta e un limite all’associazione delle idee,
questo le mette e le mantiene in moto. L’arte dell’alto
Medioevo si esprime principalmente in simboli, quella
del tardo Medioevo in allegorie. Simboliche sono le
avventure di Don Quijote, allegoriche quelle degli eroi
dei romanzi cavallereschi che servono di modello a Cer-
vantes. D’altronde in quasi tutte le epoche troviamo

Storia dell’arte Einaudi 292


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

accanto a un’arte simbolica un’arte allegorica e a volte


perfino confuse nelle opere di uno stesso artista. La
«ruota di fuoco» (wheel of fire) di Lear è un simbolo, le
«candele della notte» (night’s candles) di Romeo sono
un’allegoria; ma la frase successiva dello stesso Romeo
– «the jocund day stands tiptoe on the misty mountain
tops» [«Il gaio mattino | Si leva furtivo sulle cime neb-
biose dei monti»] – suona già affine al simbolismo. Essa
è ricca di rapporti e allusioni la cui forza rappresentati-
va è maggiore di quella di un’allegoria.
Il simbolismo procede dall’idea che la poesia debba
esprimere qualcosa difficilmente raffigurabile e comun-
que non attingibile per via diretta. Poiché non si può
dire nulla d’importante sulle cose con i mezzi chiari
della coscienza, mentre la lingua arriva a scoprirne i
segreti rapporti, per cosí dire, automaticamente, il
poeta, come afferma Mallarmé, deve «lasciare l’inizia-
tiva alle parole», deve lasciarsi trasportare dal loro flus-
so, dallo spontaneo susseguirsi di immagini e visioni.
Con ciò si viene a dire non solo che la lingua è piú poe-
tica, ma anche piú filosofica della ragione. L’idea di
Rousseau di uno stato di natura superiore alla civiltà, e
quella di Burke, di un organico sviluppo storico, piú
fecondo di bene che non il riformismo con la sua sma-
nia del nuovo, sono le vere fonti di questa poetica misti-
ca, e sono fonti riconoscibili anche nell’idea di Tolstoj
e di Nietzsche, della maggior saggezza del corpo rispet-
to allo spirito, e nella teoria bergsoniana dell’intuizione
che è piú profonda dell’intelletto. Per un altro verso que-
sto misticismo della lingua, questa alchimie du verbe
muove da Rimbaud, come tutta l’interpretazione del
creare poetico quale fenomeno allucinatorio. La parola
decisiva per la poesia moderna è stata sua: il poeta dove-
va diventare un veggente e a tale stato doveva prepararsi
distraendo sistematicamente i sensi dalle loro funzioni
normali, rendendoli innaturali e inumani. La pratica

Storia dell’arte Einaudi 293


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

raccomandata da Rimbaud non rispondeva soltanto all’i-


deale dell’artificio, miraggio di tutti i decadenti, ma già
conteneva un elemento nuovo: la deformazione, la smor-
fia quale mezzo espressivo, che doveva assumere tanta
importanza per il moderno espressionismo. Essa si fon-
dava sul sentimento che gli atteggiamenti spontanei,
normali dell’anima fossero artisticamente sterili, e che
il poeta dovesse superare in sé la natura per scoprire il
senso occulto delle cose.
Mallarmé era un platonico, che vedeva nella comune
realtà sensibile la forma corrotta di un ente ideale, eter-
no, assoluto, ma voleva attuare, almeno in parte, nella
vita terrena il mondo delle idee. Viveva nel vuoto del
suo intellettualismo, del tutto scisso dalla vita comune,
e si può dire che non avesse rapporti col mondo, se non
letterari. Uccisa in sé ogni spontaneità, divenne, per
cosí dire, l’anonimo artefice delle sue opere. Nessuno
piú fedelmente di lui seppe seguire l’esempio di Flau-
bert. «Tout au monde existe pour aboutir à un livre»
[«Al mondo tutto esiste per mettere capo a un libro»].
Il maestro stesso non avrebbe potuto trovare una for-
mula piú flaubertiana. À un livre dice Mallarmé, ma non
è un libro quel che ne esce. Egli passa tutta la vita a scri-
vere, riscrivere e correggere una dozzina di sonetti, due
dozzine di poesie piú brevi e sei o sette poesie di piú
ampio respiro, una scena drammatica e alcuni fram-
menti teorici42. Sapeva che l’arte sua era un vicolo cieco43
e perciò il motivo della sterilità prende tanto spazio
nella sua poesia44. La vita del raffinato, colto, acuto
Mallarmé si concluse con uno scacco tremendo come
quella del vagabondo Rimbaud. Entrambi disperarono
dell’arte, della cultura, della società umana e non si sa
chi dei due si sia comportato con piú coerenza45. Con il
Chef-d’œuvre inconnu Balzac si è dimostrato buon pro-
feta: estraniandosi dalla vita, l’artista distrugge l’opera
sua.

Storia dell’arte Einaudi 294


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Già Flaubert pensava a un libro senza soggetto, che


doveva essere pura forma, puro stile, puro ornamento,
e a lui per primo si presentò l’idea della poésie pure.
Forse Mallarmé non avrebbe accettato alla lettera la sua
frase: «un bel verso senza senso val piú di uno che abbia
un senso, ma sia meno bello». La rinunzia ad ogni con-
tenuto non rispondeva affatto alla sua concezione della
poesia; egli pretendeva però che il poeta rinunziasse a
suscitare affetti e passioni e a servirsi di motivi extra
estetici, pratici e razionali. La concezione della «poesia
pura» può comunque considerarsi come il miglior com-
pendio della sua estetica e la quintessenza di tutte le sue
aspirazioni di poeta. Mallarmé cominciava a scrivere
senza saper bene dove lo avrebbe condotto la prima
parola, il primo verso; la poesia si formava come cri-
stallizzazione quasi automatica di parole e di segni, cate-
na di associazioni e di visioni che sbocciavano l’una dal-
l’altra, modificandosi a vicenda46. La poésie pure tradu-
ce il principio di questo metodo della creazione poetica
in una teoria del comportamento recettivo, e afferma
che, per ottenere un’esperienza poetica, non occorre
affatto leggere tutta la poesia, per quanto breve; spesso
bastano uno o due versi, talvolta persino frammenti di
parole per averne un’impressione adeguata. In altri ter-
mini: per godere una poesia non è necessario o comun-
que non basta, intenderne il significato razionale, anzi,
come dimostra la poesia popolare, non occorre affatto
che vi sia un «senso» chiaro47. È innegabile la somi-
glianza fra l’atteggiamento recettivo qui descritto e la
contemplazione a giusta distanza di un dipinto impres-
sionista; tuttavia nella concezione della «poesia pura» vi
sono elementi che non ricorrono necessariamente in
quella dell’impressionismo. Essa è la forma piú schietta
e intransigente dell’estetismo ed esprime essenzialmen-
te l’idea che possa esistere un mondo poetico affatto
indipendente dalla realtà consueta, pratica, razionale, un

Storia dell’arte Einaudi 295


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

microcosmo estetico autonomo, per sé stante, che gira


su un proprio asse.
L’orgoglio aristocratico del poeta che si isola e si
estrania dalla vita reale si palesa anche piú intenso nella
voluta oscurità dell’espressione e nella ricercata diffi-
coltà del pensiero. Mallarmé è l’erede del «rimar chiu-
so» dei trovatori e della dotta poesia degli umanisti. Egli
cerca il vago, l’enigmatico, il difficile, non solo perché
sa che l’espressione risulta tanto piú riccamente allusi-
va quanto piú è vaga, ma anche perché a suo parere una
poesia «dev’essere qualcosa di misterioso, e il lettore
deve trovarne la chiave» 48. Catulle Mendès indica
espressamente questo carattere aristocratico della poe-
sia di Mallarmé e dei suoi seguaci. Alla domanda di
Jules Huret, se rimproverasse ai simbolisti la loro oscu-
rità, egli risponde: «Niente affatto. In questo tempo di
democrazia l’arte pura diventa sempre piú l’esclusiva di
una élite, di un’aristocrazia bizzarra, malaticcia, affa-
scinante. È giusto che il suo livello si mantenga alto»49.
Constatando che di fronte alla poesia l’atteggiamento
caratteristico della mente non è la comprensione razio-
nale, Mallarmé ne deduce che il fondamento di ogni
grande poesia è l’incomprensibile e l’incommensurabile.
È evidente il profitto che l’arte può trarre dall’espres-
sione ellittica a cui egli pensa; saltare qualche anello
nella catena delle associazioni permette una rapidità, e
quindi un’intensità, che va perduta in un lento svilup-
po degli effetti50. Mallarmé sfrutta a fondo questi van-
taggi, e la sua poesia deve il suo fascino soprattutto alla
condensazione delle idee e al succedersi improvviso delle
immagini. Ma in lui l’astrusità non sempre dipende da
un’intima necessità artistica, anzi spesso risulta da arbi-
trarie, artificiose manipolazioni linguistiche51. E l’ambi-
zione della difficoltà in quanto tale svela solo la mira del
poeta di distinguersi dalla folla, chiudendosi in un cer-
chio minimo di seguaci. I simbolisti erano, in sostanza,

Storia dell’arte Einaudi 296


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dei reazionari, nonostante l’apparente indifferenza poli-


tica; erano, per dirla con Barrès, i boulangisti della let-
teratura52. Come la poesia di Mallarmé, anche l’odierna,
la cui difficoltà deriva in parte dagli stessi motivi, appa-
re esoterica, antidemocratica, volutamente chiusa al gran
pubblico, per quanto possano variare le opinioni politi-
che dei singoli poeti e per quanto noi sappiamo benissi-
mo che tale difficoltà risulta da un’evoluzione della cul-
tura moderna, ineluttabile e preparata di lunga mano.

Dalla Restaurazione in poi, l’influsso francese in


Inghilterra non fu mai tanto forte come nell’ultimo quar-
to dell’Ottocento. Dopo un lungo periodo di prosperità,
l’impero inglese attraversa una crisi economica che si svi-
luppa in vera e propria crisi dello spirito vittoriano. La
«gran depressione» comincia verso il 1875 e non dura
piú di un decennio, ma la borghesia inglese vi smarrisce
l’antica fiducia in sé. Comincia a sentire la concorrenza
economica di altre nazioni, spesso piú giovani, come la
tedesca e l’americana, e si vede impegnata in un’aspra
lotta per il possesso delle colonie. Come diretta conse-
guenza delle nuove condizioni si ha un recedere delle
concezioni liberistiche, che finora, nonostante ogni cri-
tica, avevano avuto per la borghesia inglese autorità di
dogma53. Il decrescere delle esportazioni provoca un
abbassamento della produzione che si ripercuote sul
tenore di vita dei lavoratori. La disoccupazione aumen-
ta, gli scioperi si moltiplicano, e il movimento socialista,
arenatosi dopo gli anni rivoluzionari verso la metà del
secolo, ora non solo riprende vigore, ma, per la prima
volta in Inghilterra, si fa consapevole delle sue mete e
della sua forza. Questa svolta ha le piú vaste ripercus-
sioni sullo sviluppo intellettuale del paese. La coscienza
di avere di fronte una concorrenza estera pone fine all’i-
solazionismo britannico54 e prepara il terreno agli influs-
si intellettuali stranieri. Fra questi, anzitutto quello della

Storia dell’arte Einaudi 297


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

letteratura francese; vengono poi il romanzo russo,


Wagner, Nietzsche e Ibsen e integrano gli stimoli che
vengono dalla Francia. Ma c’è un fatto ben piú impor-
tante degli influssi dall’estero, che anzi di questi costi-
tuisce la premessa: con la scossa inflitta all’orgoglio bor-
ghese e alla fede nella divina missione dell’Inghilterra
nel mondo, ma soprattutto con il nuovo movimento
socialista dopo l’80, si rinnova la lotta per la libertà indi-
viduale, che impronta di sé tutta la cultura, la lettera-
tura progressista e il modo di vita delle giovani genera-
zioni. Si può dire che nell’abito mentale del tempo non
c’è tratto che non rifletta questa lotta contro la tradi-
zione e la convenzione, il puritanesimo e il filisteismo,
l’arido utilitarismo e il sentimentalismo romantico. Si
combatte contro la vecchia generazione per conquista-
re e godere la vita. Modernità diventa il motto estetico
e morale della gioventú che batte alla porta e vuol pas-
sare. Fine e contenuto della vita è ora l’ibseniana affer-
mazione di se stessi, la volontà di esprimere la propria
personalità e d’imporre il proprio valore. E per quanto
rimanga per lo piú oscuro quel che s’intende per realiz-
zazione di sé, crolla sotto i colpi della nuova generazio-
ne la sicurezza morale del vecchio mondo borghese. Fin
verso il 1875 la gioventú si trova di fronte a una società
in complesso stabile, sicura nelle sue tradizioni e con-
venzioni e rispettata anche dagli oppositori. Non solo in
Jane Austen, ma anche in George Eliot si sente la sal-
dezza di un ordine sociale, che se non perfetto né del
tutto accettabile, non è tuttavia trascurabile né facile a
sostituirsi. Ma ora tutte le norme della vita sociale per-
dono a un tratto il loro valore; tutto vacilla, diventa pro-
blematico e discutibile.
Nella letteratura e nell’arte inglese dopo l’80 la ten-
denza liberale afferma un individualismo apolitico, ben-
ché naturalmente l’impulso alla realizzazione di sé, cosí
vivo nella gioventú, e la lotta di questa contro le vecchie

Storia dell’arte Einaudi 298


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

forme sovraindividuali siano strettamente connessi con


la nuova situazione politico-sociale55. La gioventú è
schiettamente antiborghese, ma non democratica e tanto
meno socialista. Anzi, in essa il sensualismo e l’edoni-
smo, la volontà di godere la vita e di inebriarsene, di fare
della propria esistenza un’opera d’arte, in cui ogni ora
diventi un’esperienza indimenticabile e insostituibile,
assume spesso un aspetto antisociale e amorale. La spin-
ta antifilistea non prende di mira i capitalisti, ma i bor-
ghesi nemici dell’arte. Tutto il movimento inglese verso
la modernità è dominato da quest’odio contro i filistei,
che diventa a sua volta una convenzione estrinseca. Ad
essa sono da connettere in gran parte anche le modifi-
cazioni che l’impressionismo subisce in Inghilterra. In
Francia l’arte e la letteratura impressionistica non erano
espressamente antiborghesi; i francesi erano già oltre la
fase della lotta contro il filisteismo, anzi i simbolisti
provavano una certa simpatia per la borghesia conser-
vatrice. In Inghilterra, invece, spetta alla letteratura
decadente di compiere l’opera di disgregazione che in
Francia romanticismo e naturalismo avevano da tempo
compiuto. Il tratto piú spiccato che ora distingue la let-
teratura inglese da quella francese è il gusto del para-
dosso, dell’espressione sorprendente, bizzarra, voluta-
mente urtante, di quell’arguzia ricercata che oggi sem-
bra cosí insulsa e con la sua civetteria cosí compiaciuta
di sé e incurante della verità. È chiaro che questo amore
del paradosso non è che spirito di contraddizione, che
ha la sua origine soprattutto nel desiderio di épater le
bourgeois [sbalordire il borghese].
Tutte le singolarità e le affettazioni, nella lingua come
nel modo di pensare, nel vestire come nella condotta
degli artisti, sono una protesta contro le opinioni del fili-
steo insensibile alle muse, privo di fantasia, bugiardo e
ipocrita. Tale è il loro stravagante dandysmo, proprio
come la loro lingua colorita che sfoggia tutte le attratti-

Storia dell’arte Einaudi 299


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ve dello stile impressionistico. Il decadentismo inglese


è stato con ragione chiamato una sintesi «di Mayfair e
Bohemia». In Inghilterra non troviamo né una bohème
cosí pura come in Francia, né artisti che vivano come
Mallarmé in una torre d’avorio, perfetta e inaccessibi-
le. La borghesia inglese è ancora abbastanza energica per
assimilarli o per eliminarli. Oscar Wilde è un fortunato
scrittore borghese finché la classe dominante lo giudica
tollerabile, ma appena egli comincia a disgustarla viene
«liquidato» senza pietà. In Inghilterra il dandy sosti-
tuisce in certo modo il bohémien, mentre in Francia gli
si contrapponeva. Il dandy è l’intellettuale borghese
spostato nell’alta società, il bohémien invece è l’artista
decaduto al livello del proletariato. L’elegante ricerca-
tezza e la stravaganza del dandy hanno la stessa funzio-
ne dell’incuria e della dissipazione del bohémien.
Entrambi incarnano una medesima protesta contro la
monotonia e la volgarità della vita borghese, solo che gli
Inglesi preferiscono portare il girasole all’occhiello piut-
tosto che il colletto sbottonato. Com’è noto, già i model-
li di Musset, Gautier, Baudelaire e Barbey d’Aurevilly
erano stati inglesi; Whistler, Wilde e Beardsley rileva-
no cosí dai francesi la filosofia del dandysmo. Per Bau-
delaire il dandy è la protesta vivente contro il livella-
mento democratico. Agli occhi del poeta egli raduna in
sé tutte le virtú aristocratiche compatibili con la vita
odierna; è all’altezza di ogni situazione, non si stupisce
di nulla, non è mai volgare e conserva sempre il freddo
sorriso dello stoico. Il dandysmo è l’ultima manifesta-
zione dell’eroismo in un’età di decadenza, un sole al tra-
monto, un estremo fulgido raggio dell’orgoglio umano56.
L’eleganza del vestire, la raffinatezza del contegno, il
rigore intellettuale non sono che la disciplina esteriore,
che gli uomini di quest’ordine eletto s’impongono nella
volgarità del mondo attuale; quel che soprattutto impor-
ta è l’intima superiorità e indipendenza, l’assenza di

Storia dell’arte Einaudi 300


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

scopi pratici e di precise ragioni nell’essere e nell’agire57.


Baudelaire antepone il dandy all’artista58, poiché questi
è ancora capace d’entusiasmo, lavora, produce: è anco-
ra un meccanico, nel senso antico. Qui si va anche oltre
la crudele previsione di Balzac: l’artista non solo distrug-
ge l’opera sua, ma nega il suo diritto alla gloria e all’o-
nore. Quando Oscar Wilde vuol fare della sua vita un’o-
pera d’arte – l’arte delle sue conversazioni, dei suoi rap-
porti, di tutto il suo modo di vivere – e la antepone alle
sue opere letterarie, guarda anzitutto al dandy di Bau-
delaire, all’ideale di un’esistenza affatto inutile, gratui-
ta, senza meta.
Ma quanta vanità e civetteria ci sia in questa rinun-
zia agli onori e alla gloria, appare dalla strana unione di
dilettantismo e di estetismo che caratterizza i decaden-
ti inglesi. Mai l’arte fu presa sul serio come ora; mai ci
si diede tanta pena per scrivere versi magistralmente
cesellati, una prosa impeccabile, frasi perfettamente arti-
colate ed equilibrate. Mai l’elemento decorativo, la «bel-
lezza», l’eleganza, la squisitezza e la rarità ebbero tanta
importanza nell’arte; mai il preziosismo e il virtuosismo
vi furono piú largamente spiegati. Se in Francia la pit-
tura era modello alla poesia, in Inghilterra ci si ispira
propriamente all’arte dell’orafo. Non per nulla Wilde
parla con tanto entusiasmo del «jewelled style» [«stile
gemmato»] di Huysmans. Effetti di colore come i «jade-
green piles of vegetables» [«velluti verde-giada degli
ortaggi»] a Covent Garden sono la sua personale aggiun-
ta all’eredità dei francesi. G. K. Chesterton osserva da
qualche parte che lo schema del paradosso di Shaw con-
siste nel dire, invece di «uva bianca», «uva verde-chia-
ro». Anche Wilde, che ha tanto di comune con Shaw a
dispetto di tutte le differenze, nelle sue metafore parte
spesso dalla massima evidenza e trivialità e il tipico del
suo stile si rivela appunto nell’unione del triviale con lo
squisito. È come se egli volesse dire che anche nella

Storia dell’arte Einaudi 301


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

realtà piú ordinaria si trova la bellezza, come Walter


Pater gli ha insegnato. «Non il frutto dell’esperienza, ma
l’esperienza stessa è il fine... Nel mantenere quest’esta-
si sta il successo nella vita», dice Pater nella conclusio-
ne del Rinascimento, e in queste frasi è contenuto il
programma di tutto il movimento estetizzante. In Wal-
ter Pater l’evoluzione iniziata con Ruskin e continuata
con William Morris giunge a compimento, ma, a diffe-
renza dei suoi predecessori, i fini sociali esulano dai
suoi propositi, che non sono che edonistici, mirano solo
ad esaltare l’intensità dell’esperienza estetica. In lui
l’impressionismo è solo una forma di epicureismo. Poi-
ché «tutto scorre» in senso eracliteo e la vita rumoreg-
giando dilegua con sinistra rapidità, per noi non c’è che
una verità, quella del momento, e tutta la voluttà o il
piacere è solo quello che possiamo rapire all’istante. Ma
è in nostro potere di non lasciarne passare uno solo
senza goderne il fascino particolare, l’intima virtú.
Quanto in questo l’estetismo inglese si allontani dal-
l’impressionismo francese, lo vediamo chiaramente in un
fenomeno come Beardsley. Non si può immaginare
un’arte piú «letteraria» della sua, in cui piú d’ogni altra
hanno importanza la psicologia, i contenuti intellettua-
li, gli aneddoti. Il calligrafismo artigianale, che i maestri
francesi si dànno tanto pena di evitare, è l’elemento piú
tipico del suo stile; ed è il punto di partenza di tutta
quell’evoluzione antimpressionistica che porta agli sce-
nografi e agli illustratori mondani, cosí cari alla bor-
ghesia benestante e mediocremente colta.
L’intellettualismo, dominante nella letteratura fran-
cese nonostante la forte corrente intuizionistica, rap-
presenta anche in Inghilterra il tratto fondamentale della
nuova letteratura. Wilde non solo accetta l’idea di
Matthew Arnold, che è il critico a determinare il clima
intellettuale di un secolo59, e non solo consente alle paro-
le di Baudelaire, che ogni vero artista deve essere anche

Storia dell’arte Einaudi 302


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

un critico, ma giunge ad anteporre il critico all’artista ed


è incline a considerare il mondo con gli occhi del criti-
co. Questo spiega perché sovente l’arte sua, come quel-
la dei suoi contemporanei, appare cosí dilettantesca.
Quasi tutto quello ch’essi creano pare il gioco abilissi-
mo di persone molto dotate, tuttavia non di artisti di
mestiere. Ma, se dobbiamo credere loro, essi volevano
appunto suscitare quest’impressione. Sul terreno dello
stesso intellettualismo, sebbene a un piú alto livello, si
muovono Meredith e Henry James. Se nel romanzo
inglese c’è una tradizione che collega George Eliot con
Henry James60, è certo quella dell’intellettualismo. Dal
punto di vista sociologico, con George Eliot si apre una
nuova fase nella storia della letteratura inglese: sorge un
pubblico nuovo, piú esigente. Ma George Eliot, benché
rappresentasse un ceto intellettuale assai superiore al
pubblico di Dickens, poteva contare su una cerchia rela-
tivamente ampia di lettori; il pubblico di Meredith e
Henry James invece si limita ormai a un esiguo ambien-
te d’intellettuali che a un romanzo non chiedono, come
il pubblico di Dickens o di George Eliot, un’azione
impressionante e figure di gran risalto, ma uno stile
impeccabile e maturi, esemplari giudizi sulla vita. Quel
che per lo piú in Meredith è soltanto maniera, in Henry
James è spesso vera passione intellettuale; ma entrambi
rappresentano un’arte che ha con la realtà rapporti
essenzialmente astratti; e le loro creature, confrontate
con il mondo di Stendhal, Balzac, Flaubert, Tolstoj,
pare che si muovano nel vuoto.

Verso la fine del secolo l’impressionismo predomina


in tutta Europa. Dappertutto fiorisce una poesia degli
stati d’animo, delle impressioni atmosferiche, del dile-
guare della stagione e dell’ora. La lirica si estenua in sen-
sazioni fuggevoli, inafferrabili, in eccitamenti dei sensi
indeterminati, indefinibili, in tinte delicate e voci stan-

Storia dell’arte Einaudi 303


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

che. L’indeciso, il vago, quel che si muove alla soglia


della percezione sensoriale, diventa il tema principe
della poesia; non si tratta piú della realtà obiettiva, ma
della commozione del poeta per la propria sensibilità e
capacità d’esperienza. Quest’arte eterea degli stati d’a-
nimo domina ormai tutte le forme letterarie; tutte si tra-
sformano in lirismo, in immagine e musica, in colore e
sfumatura. Il racconto si riduce a semplici situazioni, l’a-
zione a scene liriche, il disegno dei caratteri alla descri-
zione di intime disposizioni e stati psichici. Tutto diven-
ta episodico, periferico in una vita priva di centro.
Fuori di Francia, l’influsso dell’impressionismo sulla
letteratura è piú forte di quello del simbolismo. Se inve-
ce si guarda solo alla letteratura francese, si è facilmen-
te indotti a identificare le due correnti61. Anche Victor
Hugo chiamava il giovane Mallarmé «mon cher poète
impressioniste». Ma a un esame piú attento le differen-
ze sono evidenti: l’impressionismo è materialistico e
sensualistico, per quanto delicati ne siano i temi; il sim-
bolismo invece è idealistico e spiritualistico, benché il
suo mondo ideale non sia che una sublimazione del
mondo dei sensi. Ma il simbolismo francese – in cui dob-
biamo includere quello belga – con le sue derivazioni,
cioè il vitalismo di Bergson da un lato, il cattolicismo
monarchico dell’Action française dall’altro, si distingue
essenzialmente in quanto rappresenta una tendenza sem-
pre pronta a mutarsi in attivismo; mentre l’impressio-
nismo dei viennesi, dei tedeschi, dei russi e degli italia-
ni, che ha in Schnitzler, Hofmannsthal, Rilke, Ωechov,
D’Annunzio, gli interpreti maggiori, esprime una con-
cezione della passività, del perfetto abbandono al mondo
circostante e del dissolversi senza resistenze nell’istan-
te. Eppure, quanto siano profondi i rapporti fra impres-
sionismo e simbolismo, come facilmente prevalga in
entrambi il momento irrazionale e la passività si tra-
sformi in frivolo attivismo, lo dimostra l’evoluzione di

Storia dell’arte Einaudi 304


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

poeti come Stefan George e D’Annunzio. Saremmo


senz’altro disposti a collegare con le simpatie fasciste di
quest’ultimo il suo cattivo gusto, la paludata verbosità,
la cronica ebrezza di vita, se Barrès e Stefan George non
manifestassero la stessa velleità politica, pur con un
gusto e con maniere letterarie tanto migliori.
La forma piú pura dell’impressionismo che ripugna ad
ogni atteggiamento attivo e si abbandona senza resi-
stenza al flusso delle esperienze è quella dei viennesi.
Forse è la vecchia, stanca cultura della città, la mancanza
di ogni attiva politica nazionale e il grande contributo
straniero, specie ebraico, alla vita letteraria, a dare
all’impressionismo viennese il suo particolare carattere
di sottigliezza e di passività. Si tratta dell’arte di giova-
ni eredi borghesi, espressione del malinconico edonismo
di quella «seconda generazione» che gode i frutti del
lavoro paterno. Sono nevrotici e tristi, stanchi e senza
meta, scettici e ironici verso se stessi questi poeti degli
stati d’animo squisiti e subito dileguati, di cui nulla
rimane, se non il senso del transitorio, del mancato e la
coscienza dell’inettitudine alla vita. Il contenuto laten-
te di ogni impressionismo, la coincidenza di vicino e lon-
tano, l’estraneità delle cose prossime, quotidiane, il
senso di esser sempre divisi dal mondo, diventa qui l’e-
sperienza di fondo.
«Si può dar che questi giorni vicini – sian passati, per
sempre passati e del tutto perduti?» domanda Hof-
mannsthal, e in questa domanda sono contenute in
germe anche le altre: il brivido dell’«adesso e qui» che
è insieme un «oltre», lo stupirsi perché «queste cose
sono altre e ancora altre le parole che usiamo», lo sgo-
mentarsi perché «tutti gli uomini vanno per la loro stra-
da» e infine l’ultimo, grande problema: «Quando uno
muore, porta con sé un segreto: come sia stato possibi-
le a lui, proprio a lui, vivere nel senso spirituale della
parola». Se si pensa alla frase di Balzac «Nous mourons

Storia dell’arte Einaudi 305


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

tous inconnus», si vede con quanta coerenza si sviluppi


in Europa il senso della vita dopo il 1830. Esso presen-
ta un carattere costante, prevalente, sempre piú profon-
do: la coscienza dell’isolamento, della solitudine, che
può avvilirsi fino al sentimento del completo abbando-
no da parte di Dio e del mondo, o elevarsi nell’istante
dell’orgoglio, che spesso è quello della massima dispe-
razione, all’idea del superuomo; questi nell’aria rarefat-
ta delle altezze si sente solo e infelice come l’esteta nella
sua torre d’avorio.
Il fenomeno piú rilevante di tutta la storia dell’im-
pressionismo europeo è la sua adozione da parte dei
russi e il sorgere di uno scrittore come Ωechov, che può
dirsi il piú puro rappresentante di tutto lo stile. Nulla è
piú sorprendente di un tale artista in un paese che fino
a poco prima viveva ancora nell’atmosfera intellettuale
dell’illuminismo, ed era del tutto estraneo all’estetismo
e decadentismo che in Occidente accompagnano il sor-
gere dell’impressionismo. Ma in un secolo tecnico come
il xix le idee si diffondono presto e l’adozione dell’eco-
nomia industriale crea anche qui condizioni che porta-
no al nascere di un gruppo sociale simile a quello degli
intellettuali d’Occidente e al manifestarsi di un atteg-
giamento analogo all’ennui62. Gor´kij fin dall’inizio com-
prese la funzione decisiva che era destinata a Ωechov
nella letteratura russa; egli vide che con lui si conclude-
va tutta un’epoca, e che il suo stile possedeva per le
nuove generazioni un fascino a cui esse non avrebbero
piú potuto rinunziare. «Sa Lei quel che fa? – gli scrive
nel 1900. – Lei annienta il realismo... Dopo uno dei Suoi
racconti, sia pure il meno importante, tutto sembra
rozzo, scritto con un bastone, non con la penna»63.
Come apologeta dell’insuccesso e dell’inettitudine
alla vita, Ωechov ha i suoi precursori in Dostoevskij e
Turgenev, ma questi non considerano ancora la sfortu-
na e la solitudine come inevitabile destino dei migliori.

Storia dell’arte Einaudi 306


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Solo con Ωechov si ha una visione del mondo imperniata


sull’esperienza della incomunicabilità fra gli uomini, cosí
caratteristica dell’impressionismo, sulla loro incapacità
di superare del tutto la distanza che li divide o, pur riu-
scendovi, di mantenersi vicini. L’umanità di Ωechov si
sente derelitta e disperata, irrimediabilmente paralizza-
ta nella volontà, o sterile in ogni suo sforzo. Questa filo-
sofia della passività e dell’indolenza, questo senso che
nulla nella vita giunga allo scopo e al termine, hanno
grandi conseguenze formali; portano ad accentuare il
carattere episodico, irrilevante dell’avvenimento ester-
no, alla rinunzia ad ogni struttura formale, a ogni con-
centrazione e integrazione, portano a preferire una com-
posizione eccentrica, che trascura o violenta la cornice.
Come Degas respinge parti importanti della scena pro-
prio ai margini del quadro e le taglia con la cornice,
Ωechov termina le sue novelle e i suoi drammi con un’ar-
si, per accentuare anche cosí l’impressione del non con-
chiuso, dell’interrotto, della fine casuale, arbitraria. Egli
segue un principio formale perfettamente opposto a
quello della «frontalità»: anzi, tutto è predisposto per
dare all’opera il carattere di un evento casuale, scoper-
to, colto per caso.
Il senso che gli eventi esterni sono assurdi, irrilevan-
ti e frammentari, porta nel dramma a ridurre al minimo
l’azione e a rinunciare agli effetti cosí caratteristici della
pièce bien faite. Il buon teatro deve essenzialmente la sua
efficacia ai principî della forma classica: unità, conclu-
sione e armonioso sviluppo dell’azione. Il dramma poe-
tico, sia quello simbolico di Maeterlinck, sia quello
impressionistico di Ωechov, rinunzia a questi mezzi
strutturali a favore dell’immediata espressione lirica. La
forma cecoviana è forse la meno teatrale di tutta la let-
teratura – una forma in cui i coups de théâtre, gli effet-
ti scenici di sorpresa e di tensione hanno una parte mini-
ma. Non c’è dramma piú povero di avvenimenti, di

Storia dell’arte Einaudi 307


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

movimento, di conflitti. I personaggi ignorano la lotta,


la difesa, la sconfitta; cedono, affondano a poco a poco,
inghiottiti dalla monotonia della loro vita senza vicen-
de e senza prospettive. Si abbandonano al loro destino
che si consuma in delusioni, non in catastrofi. Fin dalla
sua prima comparsa, si è dubitato di poter giustificare
un simile dramma privo d’azione e di movimento e ci si
è chiesti se fosse il vero dramma, vero teatro, cioè se
sulla scena si sarebbe mostrato vitale.
La pièce bien faite apparteneva ancora al vecchio tea-
tro e, pur accogliendo certi elementi del naturalismo, in
complesso si atteneva sia alle convenzioni tecniche della
scena, sia all’ideale eroico del dramma classico-roman-
tico. Soltanto nel nono decennio il naturalismo conqui-
sta la scena, quando già nel romanzo comincia la sua
parabola discendente. Il primo dramma naturalistico,
Les corbeaux di Henri Becque, è del 1882, e il Théâtre
libre di Antoine, il primo della corrente naturalistica, è
fondato nel 1887. Da principio il pubblico borghese si
mostra del tutto refrattario, benché Henri Becque e i
suoi immediati successori non facciano che sfruttare per
la scena quel che già da gran tempo Balzac e Flaubert
hanno reso familiare a tutti. Il dramma naturalistico in
senso stretto sorge altrove, nei paesi nordici, in Ger-
mania e in Russia. A poco a poco il pubblico ne accetta
le convenzioni, come ha accettato quelle del romanzo,
e Ibsen, Brieux e Shaw suscitano proteste solo per gli
assalti troppo aspri alla morale borghese. Ma infine,
benché avverso ad essa, il nuovo indirizzo conquista la
borghesia, e persino il dramma socialista di Gerhart
Hauptmann celebra i suoi primi e massimi trionfi negli
ambienti dell’alta borghesia berlinese. Il teatro natura-
listico non è che la via verso il dramma intimo, verso
l’interiorizzazione dei conflitti, verso un piú immedia-
to contatto fra scena e pubblico. I troppo facili espe-
dienti, l’intreccio complicato e la tensione forzata, gli

Storia dell’arte Einaudi 308


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

indugi e le sorprese artificiose, le scene madri e i finali


di grand’effetto resistono nel teatro piú a lungo che nel
romanzo, ma a un tratto cominciano a sembrare ridico-
li e debbono essere sostituiti o velati con effetti piú sot-
tili. Senza l’adesione di un pubblico relativamente vasto,
il dramma naturalistico non sarebbe mai divenuto una
realtà nella storia del teatro. Se un volume di liriche può
uscire in due o trecento copie, e un romanzo in mille o
duemila, una rappresentazione teatrale dev’esser vista
da diecimila persone, perché se ne coprano le spese. Il
nuovo dramma naturalistico in questo senso già da un
pezzo si era dimostrato vitale, quando ancora critici e
teorici si stillavano il cervello sulle sue possibilità. Essi
non riuscivano a liberarsi dalla concezione classica del
dramma e anche i piú ragionevoli fra loro, o i piú acuti,
consideravano il teatro naturalistico come una contra-
dictio in adiecto64. Soprattutto non potevano ammettere
che si trascurasse l’economia del dramma classico, con-
versando liberamente sulla scena, discutendo problemi,
descrivendo esperienze, saltando di palo in frasca, come
se la rappresentazione non dovesse mai finire. Biasima-
vano che il dramma naturalistico non nascesse «dalla
considerazione del destino, del personaggio e del sog-
getto, ma da una riproduzione particolaristica della
realtà65»; in realtà poi accadde semplicemente che la
realtà, con i suoi vincoli concreti, divenne essa stessa il
destino, e i «personaggi» non furono piú semplici figu-
re da palcoscenico, ma uomini dalle molte facce, com-
plicati, incoerenti, «senza carattere» come si diceva un
tempo e che, come espose Strindberg nel suo proemio a
La signorina Giulia del 1888, erano un prodotto delle
condizioni, dell’eredità, dell’ambiente, dell’educazione,
dell’indole, degli influssi locali, stagionali e accidentali;
e le loro decisioni non avevano un solo motivo, ma tutta
una serie di motivi.

Storia dell’arte Einaudi 309


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Col prevalere dell’interiorità, dello stato d’animo,


dell’atmosfera e del lirismo sull’azione drammatica, si
assiste alla scomparsa del racconto vero e proprio, nel
teatro come nella pittura impressionistica. Tutta l’arte
del tempo mostra una tendenza allo psicologismo e al
lirismo; la ripugnanza al racconto e l’inclinazione a sosti-
tuire il movimento intimo a quello esteriore, la filosofia
e l’interpretazione della vita all’azione, possono di certo
considerarsi il tratto essenziale del nuovo indirizzo arti-
stico, che si afferma in ogni campo. Ma, mentre la pit-
tura aneddotica non trovò difensori fra i critici d’arte,
i critici teatrali protestarono con la massima energia
contro chi trascurava l’azione. Specialmente in Germa-
nia, essi parlarono di una fatale separazione del dram-
ma dal teatro, del peso decisivo dell’efficienza scenica
per l’esperienza teatrale, del carattere di massa di tale
esperienza e della fondamentale assurdità del teatro inti-
mo. I moventi di questa opposizione erano diversissimi;
la reazione politica non sempre vi aveva la parte princi-
pale, e spesso si esprimeva solo per via indiretta; di
maggior peso invece furono le simpatie per un «teatro
monumentale» che, soprattutto in Germania, si con-
trapponeva al teatro intimo rispondente alle vere esi-
genze spirituali, nonché l’ambizione di creare un «tea-
tro di massa» per le masse che effettivamente c’erano,
ma non formavano un pubblico teatrale. Caratteristico
di tutta questa confusione d’idee fu che come stile adat-
to al futuro teatro popolare si finí per presentare non già
il naturalismo cresciuto di pari passo con la concezione
democratica, ma il classicismo della vecchia aristocrazia
e della borghesia.
Le maggiori accuse rivolte contro il nuovo dramma
erano quelle di determinismo e relativismo, entrambi
inscindibili dalla visione naturalistica del mondo. Si pro-
clamava che dove manchino libertà intima ed esteriore,
valori assoluti, regole morali obiettive, universali e indi-

Storia dell’arte Einaudi 310


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

scutibili, non può esistere un vero dramma, cioè una tra-


gedia. La relatività delle norme etiche e la comprensio-
ne per opposte posizioni morali escluderebbe del tutto
un vero conflitto drammatico. Quando sia lecito tutto
comprendere e tutto perdonare, l’eroe nella sua lotta a
oltranza apparirà alla fine un pazzo testardo, il conflit-
to perderà ogni necessità e il dramma verrà a prendere
un carattere tragicomico e patologico66. Tutto il ragio-
namento brulica di equivoci, pseudoproblemi e sofismi.
In primo luogo, si viene a identificare nel dramma tra-
gico tutto il dramma, o almeno lo si rappresenta come
la sua forma ideale, esprimendo cosí un giudizio di valo-
re per se stesso molto relativo, in quanto determinato da
condizioni storiche e sociali. In realtà, non solo il dram-
ma senza tragedia, ma anche senza conflitto può essere
una forma teatrale perfettamente legittima; e il teatro si
può benissimo conciliare con una visione relativistica del
mondo. Ma anche se si considera il conflitto un ele-
mento indispensabile, è difficile capire perché dovreb-
bero prodursi conflitti profondamente commoventi solo
dove si tratti di valori assoluti. Non è altrettanto impres-
sionante la lotta degli uomini per i loro principî morali
determinati da un’ideologia? E perfino quando si trat-
ta di una lotta necessariamente tragicomica non sarà
proprio questo suo carattere a produrre, in un tempo di
razionalismo e di relativismo, i maggiori effetti dram-
matici? Del resto la premessa di tutta l’argomentazione
è discutibile, e cioè l’idea che l’assenza di libertà socia-
le e il relativismo etico escludano senz’altro la tragedia.
Non consta affatto che solo uomini del tutto liberi,
socialmente indipendenti, come sovrani e condottieri,
siano eroi da tragedia. Non è forse tragico il destino del
Mastro Antonio di Hebbel, del Gregers Werle di Ibsen,
dello Henschel di Hauptmann? Concediamo pure che
tragico e triste non sono la stessa cosa. Ma sarebbe
«antidemocratico» affermare con Schiller che non ci

Storia dell’arte Einaudi 311


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

può esser tragedia nel furto di cucchiai d’argento. La tra-


gicità di una situazione dipende soltanto dalla forza, dal-
l’intransigenza con cui diversi, inconciliabili principî
morali si affrontano nell’anima di un uomo. Ma perché
si determini l’effetto tragico non è neppure assoluta-
mente necessario che un pubblico veda posti in discus-
sione valori ch’esso crede assoluti, e tanto meno valori
in cui non crede piú.
Nella storia del dramma moderno Ibsen è la figura
centrale, e non solo perché è il maggior drammaturgo del
secolo, ma perché l’opera sua pone con il massimo vigo-
re i problemi filosofici del tempo. La liquidazione del-
l’estetismo, problema cruciale della sua generazione,
segna il principio e la fine della sua carriera artistica. Fin
dal 1865 egli scrive a Björnson: «Se in questo momen-
to io dovessi dichiarare quale profitto abbia tratto in
sostanza dal mio viaggio, direi che mi sono liberato dal-
l’estetismo, che mi aveva tutto in suo potere, preten-
dendosi fine a se stesso. Quindi esso ora mi sembra una
maledizione per la poesia, come la teologia per la reli-
gione»67. Secondo ogni apparenza, Ibsen giunge a risol-
vere questo problema sotto l’influsso di Kierkegaard,
che tanta parte deve aver avuto nella sua evoluzione,
bench’egli affermasse di non capire gran che delle teo-
rie del filosofo68. Kierkegaard con il suo aut-aut deve
aver dato l’impulso decisivo soprattutto all’evolversi del
rigorismo morale ibseniano69. La passione etica di Ibsen,
la coscienza di dover scegliere e decidere, la concezione
dell’attività poetica come «l’ultima sentenza su se stes-
si», tutto ciò ha radice nelle idee di Kierkegaard. Che
il «tutto o nulla» di Brand corrisponda all’aut-aut di
Kierkegaard, lo si è osservato spesso; ma Ibsen deve ben
altro all’intransigenza del suo maestro; gli deve tutta la
sua concezione etica, antiromantica e scevra d’estetismo.
La miopia dei romantici consisteva soprattutto nel ridur-
re ogni manifestazione dello spirito a categorie estetiche,

Storia dell’arte Einaudi 312


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

e ai loro occhi tutti i valori portavano piú o meno l’im-


pronta del genio. Kierkegaard fu il primo che contro il
Romanticismo osò affermare che l’esperienza etica e
religiosa non ha a che vedere con la bellezza e la genia-
lità, e un eroe della fede è affatto diverso da un genio.
Nell’Occidente postromantico nessun altro aveva colto
i limiti della sfera estetica, e all’infuori di lui non vi era
nessuno che potesse influire in tal senso su Ibsen. Quan-
to tale influsso abbia contribuito a determinare la criti-
ca ibseniana del romanticismo è difficile dire. L’irreali-
smo romantico era un problema generale del tempo, e
certo allo scrittore non occorrevano speciali stimoli per
affrontarlo. Tutto il naturalismo francese s’imperniava
sul conflitto tra ideale e realtà, finzione e verità, poesia
e prosa, e i piú noti pensatori del secolo riconoscevano
nel difetto di realismo la maledizione della cultura
moderna. Sotto questo aspetto Ibsen non fece che con-
tinuare la lotta dei suoi predecessori, ultimo di una
lunga serie che includeva tutti gli avversari del roman-
ticismo. Il colpo mortale che egli porta al nemico consi-
ste nello svelare il lato tragicomico dell’idealismo roman-
tico. Dopo il Don Quijote la cosa non era del tutto
nuova, ma Cervantes trattava ancora il suo eroe con sim-
patia e indulgenza, mentre Ibsen annienta moralmente
Brand, Peer Gynt e Gregers Werle. L’«esigenza idea-
le», fuor d’ogni realtà, dei suoi romantici si rivela puro
egoismo, che l’ingenuità dell’egoista non basta a miti-
gare. Don Quijote affermava i suoi ideali anzitutto con-
tro se stesso; gli idealisti di Ibsen invece si distinguono
soltanto per la loro intolleranza verso gli altri.
Ibsen dovette la sua fama europea al messaggio socia-
le dei suoi drammi, riducibile, in ultima analisi, a una
sola idea: il dovere dell’individuo verso se stesso, il suo
compito di realizzarsi affermando la propria natura con-
tro le convenzioni, meschine, stupide e superate, della
società borghese. Il suo era dunque un vangelo dell’in-

Storia dell’arte Einaudi 313


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dividualismo, un’esaltazione della personalità sovrana,


un’apoteosi della vita creatrice; dunque, in certo modo,
ancora un ideale romantico che fece la piú profonda
impressione sulla gioventú; e non solo era essenzial-
mente affine all’idea nietzschiana del superuomo e all’é-
lan vital di Bergson, ma tornò a riecheggiare in Shaw,
nel suo mito della forza vitale. In fondo Ibsen era un
individualista anarchico; nella libertà personale scorge-
va il piú alto valore della vita e il suo principio era che
l’individuo libero, sciolto da ogni vincolo esteriore, può
far molto per sé, mentre pochissimo può fare per lui la
società. La sua idea della realizzazione di se medesimi
era innegabilmente di grande portata sociale, ma la
«questione sociale» vera e propria lo lasciava indiffe-
rente. «A dir vero, per la solidarietà non ho mai avuto
gran simpatia» egli scrive a Brandes nel 187170. Il suo
pensiero si imperniava sui problemi dell’etica indivi-
duale; per lui la società esprimeva solo il principio del
male. Egli non vi scorgeva che il regno della stupidag-
gine, del pregiudizio e della costrizione. Infine giunse a
quella morale aristocraticamente conservatrice, che rap-
presentò con particolare chiarezza in Rosmerholm. Per
la sua modernità, il suo antifilisteismo, la sua lotta acca-
nita contro ogni convenzione, Ibsen apparve all’Europa
uno spirito assolutamente progressista; ma in patria,
dove si era in grado di giudicare le sue opinioni politi-
che con maggior conoscenza di causa, lo si considerava
il grande poeta conservatore, che si contrapponeva al
radicale Björnson. All’estero tuttavia se ne intese meglio
l’importanza storica. Egli apparve una delle poche figu-
re rappresentative dell’epoca, se non la sola, che fosse
lecito paragonare a Tolstoj, Anch’egli, infatti, dovette
il suo nome e la sua autorità non tanto alla sua opera di
poeta, quanto a quella di agitatore e di educatore. In lui
si onorò soprattutto il grande moralista, l’appassionato
accusatore e l’impavido campione della verità, per il

Storia dell’arte Einaudi 314


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

quale il teatro era il mezzo a un fine piú alto. Politica-


mente, tuttavia, Ibsen non aveva nulla di positivo da
dire ai suoi contemporanei. Tutta la sua visione del
mondo era incrinata da una contraddizione profonda:
egli lottava contro la morale convenzionale, i pregiudi-
zi borghesi, la società dominante, in nome d’una libertà
ch’egli stesso non credeva attuabile. Era un crociato
senza fede, un rivoluzionario senza ideali sociali: e il
riformatore si trasformò alla fine in un duro fatalista.
Ibsen finí proprio come il Frenhofer di Balzac, o
come Rimbaud e Mallarmé. Rubek, l’eroe del suo ulti-
mo dramma, la piú schietta incarnazione della sua idea
dell’artista, rinnega la propria opera e prova quel che
ogni artista piú o meno ha provato dal romanticismo in
poi: il senso di essersi lasciato sfuggire per l’arte la vita.
«Una notte estiva sui monti con te, sì, con te, Irene,
questo sarebbe stata la vita!» In questo grido è implici-
to il giudizio su tutta l’arte moderna. L’apoteosi delle
«notti estive» della vita è diventata un povero surroga-
to, un oppio che ottunde i sensi e rende l’uomo incapa-
ce di godere direttamente la vita.
L’unico vero discepolo e successore di Ibsen è Shaw,
l’unico che ne abbia continuato con efficacia la lotta
contro il romanticismo, approfondendo il grande dibat-
tito dell’Europa ottocentesca. È lui che completa lo
smascheramento dell’eroe romantico, e la distruzione
della fede nei grandi gesti teatrali. Tutto ciò che è pura-
mente decorativo, vistosamente eroico, sublime e idea-
listico con lui diventa sospetto; ogni sentimentalismo e
distacco dalla realtà si rivelano inganni e imposture. La
psicologia dell’autoinganno è la fonte della sua arte, ed
egli è fra i piú animosi e intransigenti, ma anche fra i
piú gioviali e divertenti smascheratori di quest’intima
inclinazione. Se tutto il suo pensiero, cosí accanito nel
distruggere leggende e rivelare finzioni, ha un’innegabile
origine illuministica, la sua filosofia della storia, radica-

Storia dell’arte Einaudi 315


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ta nel materialismo storico, fa di lui il piú progressista


e il piú moderno scrittore della sua generazione. Egli
dimostra che la falsa prospettiva in cui gli uomini vedo-
no il mondo e se stessi, le menzogne ch’essi proclama-
no o lasciano affermare come verità e per cui, in certi
casi, sono pronti a tutto, sono legate alle ideologie, cioè
a interessi economici e aspirazioni sociali. Il peggio non
è che essi pensino in modo irrazionale – spesso anzi sono
fin troppo razionali – ma che non abbiano alcun senso
della realtà, che non vogliano ammettere i fatti come
fatti. Quindi non il razionalismo, bensí il realismo è la
meta di Shaw; e la volontà, non la ragione, è la faculté
maitresse dei suoi eroi71. Questo spiega in parte anche la
sua vocazione di drammaturgo, e come nel piú dinami-
co fra i generi letterari le sue idee abbiano trovato la loro
forma piú adeguata.
Shaw non sarebbe il perfetto rappresentante del suo
tempo, se non ne condividesse anche l’intellettualismo.
Pur con la loro pulsante vivacità, l’efficacia scenica spes-
so memore della pièce bien faite e il tono melodramma-
tico talvolta un po’ volgare, i suoi drammi sono essen-
zialmente intellettualistici; piú ancora di quelli di Ibsen
sono drammi di discussione e di polemica. Il ripiegarsi
dell’eroe su se stesso e il dibattito intellettuale fra le dra-
matis personae non sono caratteristiche esclusive del tea-
tro moderno; anzi il conflitto drammatico, se deve rag-
giungere una sua incisività e un suo rilievo, esige sem-
pre dai personaggi che vi sono impegnati la piena
coscienza di quel che avviene in loro. Non c’è vero
effetto drammatico, e tanto meno tragico, senza que-
st’intellettualismo dei personaggi. I piú ingenui, impul-
sivi eroi di Shakespeare diventano geniali nel momento
in cui si decide il loro destino. Ma, dopo il magro vitto
offerto alla mente dalle commedie allora in voga, quei
«dibattiti drammatici», come furono chiamati i lavori di
Shaw, riuscirono cosí indigesti, che critici e pubblico

Storia dell’arte Einaudi 316


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dovettero prima avvezzarcisi. Shaw si atteneva all’in-


tellettualismo tradizionale del dialogo drammatico assai
piú rigorosamente dei suoi predecessori; ma nessun pub-
blico poteva gustare una simile rappresentazione meglio
degli intelligenti frequentatori del teatro sullo scorcio del
secolo. Ed essi si divertirono cordialmente alle acroba-
zie intellettuali che venivano loro offerte, appena si
furono persuasi che gli assalti di Shaw alla società bor-
ghese non erano davvero così pericolosi come pareva e,
soprattutto, che egli non voleva togliere a nessuno il suo
denaro. Alla fine si scoprí che in sostanza egli era soli-
dale con la borghesia, ed era semplicemente il portavo-
ce di quell’autocritica che rientra nell’abito mentale di
questa classe.

La psicologia, che sullo scorcio del secolo determina


la concezione del mondo, è una «psicologia del profon-
do». Tanto Nietzsche che Freud partono dall’assunto
che la vita psichica manifesta – cioè quel che gli uomi-
ni sanno o pretendono di sapere sui moventi del loro
comportamento – spesso non fa che velare e deformare
i reali motivi dei sentimenti e delle azioni. Nietzsche
imputa tale falsificazione alla decadenza che travaglia
l’umanità dall’inizio del cristianesimo, e allo sforzo di
presentare come valori etici, come ideali altruistici e
ascetici, la debolezza e i rancori dell’umanità degenera-
ta. Al fenomeno dell’autoinganno – che Nietzsche sco-
pre valendosi della critica storica della civiltà – Freud
giunge analizzando la psiche individuale e giunge a sta-
bilire che, dietro la coscienza dell’uomo sta, vero moto-
re degli atteggiamenti e delle azioni, l’inconscio: ogni
pensiero cosciente non è che il velo piú o meno traspa-
rente degli impulsi che sono il contenuto dell’inconscio.
Qualunque cosa Nietzsche e Freud sapessero e pensas-
sero di Marx, quando sviluppavano le loro teorie, è
certo che nelle loro indagini seguivano quella tecnica

Storia dell’arte Einaudi 317


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

analitica, che per la prima volta il materialismo storico


aveva applicato. Anche Marx insiste sulla coscienza
deformata e guasta e sul fatto che essa vede il mondo in
una falsa prospettiva. Il concetto di «razionalizzazione»
della psicanalisi corrisponde appunto a quel che Marx ed
Engels intendono per elaborazione delle ideologie e
«falsa coscienza». Engels72 e Jones73 definiscono i due
concetti nello stesso senso. Gli uomini non solo agisco-
no, ma spiegano e giustificano le loro azioni secondo il
loro particolare punto di vista, determinato da condi-
zioni sociali e psichiche. Marx è il primo a rilevare che,
sotto la spinta degli interessi di classe, non solo essi
incorrono in singoli errori, falsificazioni e mistificazio-
ni, ma che tutto il loro pensiero, tutta la loro visione ne
vengono distorti e falsati, ed essi non possono piú vede-
re e giudicare la realtà se non partendo da premesse trat-
te dalle loro condizioni economiche e sociali. La dottri-
na su cui Marx fonda tutta la sua filosofia della storia
consiste nel principio che in una società differenziata e
scissa in classi è senz’altro impossibile un pensiero cor-
retto74. La scoperta che per lo piú si tratta di autoin-
ganno, e che i singoli individui non sempre sono consci
dei motivi del loro agire, fu di fondamentale importan-
za per l’ulteriore sviluppo della psicologia.
Ma anche il materialismo storico, con la sua tecnica
analitica, fu un prodotto di quella visione borghese-
capitalistica, di cui voleva scoprire il fondo. Prima che
l’economia avesse raggiunto nella coscienza del mondo
occidentale l’assoluta preminenza che ha ai nostri gior-
ni, una simile teoria sarebbe stata inconcepibile. L’e-
sperienza decisiva per l’età postromantica fu quella della
dialettica di ogni avvenimento, l’antitesi di esistenza e
coscienza, l’ambivalenza dei rapporti e delle rappresen-
tazioni. Il principio fondamentale della nuova tecnica
analitica è il sospetto che dietro ogni fatto manifesto ce
ne sia uno latente, dietro ogni coscienza si celi un incon-

Storia dell’arte Einaudi 318


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

scio, dietro ogni apparente unità un dissidio. Perché


questo orientamento si generalizzasse non era affatto
necessario che i singoli pensatori e studiosi consapevol-
mente si rifacessero al metodo del materialismo storico;
l’idea del pensiero e della psicologia come strumenti di
smascheramento e rivelazione era tipica del secolo, e
Nietzsche non dipendeva tanto da Marx, né Freud da
Nietzsche, quanto tutti insieme da un’atmosfera di crisi.
Ciascuno a suo modo, scoprirono che l’autonomia dello
spirito è una finzione e che noi siamo gli schiavi di una
forza che opera dentro di noi e spesso contro di noi.
Come piú tardi in quella della psicanalisi, nella dottrina
del materialismo storico, pur piú ottimista nelle sue con-
clusioni, l’Occidente esprime una concezione che rive-
la la perdita della baldanzosa fede in se stesso.
Anche i pensatori piú razionali e consapevoli, non
sempre, nello sviluppo delle loro teorie, partono da quel-
le che sono le effettive premesse del loro pensiero. Spes-
so le realizzano solo piú tardi, e talvolta mai. Anche
Freud soltanto in uno stadio relativamente tardo della
sua evoluzione raggiunse una chiara consapevolezza del-
l’esperienza da cui derivava la problematica della sua psi-
canalisi. Questa esperienza, che era anche all’origine di
ogni significativa manifestazione del secolo, intellettua-
le come artistica, Freud stesso la chiamò «disagio della
civiltà». Essa era espressione dello stesso senso di estra-
neità e di smarrimento che si ritrova nel romanticismo
e nell’estetismo, della stessa angoscia mortale, della stes-
sa incertezza sul significato della cultura, della stessa
sensazione di esser circondati da pericoli ignoti, inson-
dabili, indefinibili. Freud spiegava questo disagio, que-
sto senso di equilibrio instabile e precario, con la forte
menomazione della vita istintiva, e soprattutto degli
impulsi erotici, trascurando del tutto la parte che pote-
va avervi la mancanza di sicurezza economica, di affer-
mazione sociale e di influsso politico dell’individuo.

Storia dell’arte Einaudi 319


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Senza dubbio le nevrosi rientrano nel prezzo da pagare


per la nostra civiltà, ma sono soltanto una parte, soven-
te solo una forma secondaria, dello scotto che paghiamo
alla struttura sociale. Freud per la sua visione stretta-
mente scientifica non è in grado di valutare i fattori
sociologici nella vita psichica degli uomini, e benché nel
super-io egli scorga un’istanza sociale, nega nello stesso
tempo che l’evoluzione della società possa provocare
sostanziali mutamenti nella nostra costituzione biologi-
co-istintiva. Per lui le forme culturali non sono costru-
zioni storico-sociologiche, ma espressioni piú o meno
meccaniche degli istinti. Nella società borghese-capita-
listica giungono a palesarsi istinti di erotismo anale, le
guerre sono opera dell’impulso di morte, il disagio nella
civiltà risale alla repressione della libido. Perfino la teo-
ria della sublimazione, che è fra i grandiosi risultati
della psicanalisi, porta a una pericolosa e grossolana
semplificazione del concetto di cultura, se si considera
l’istinto sessuale come l’unica, o almeno la piú impor-
tante fonte della creazione intellettuale. I marxisti
hanno ragione quando rimproverano alla psicanalisi di
muoversi nel vuoto, con il suo metodo che prescinde
dalla storia e dalla sociologia, e di celare un residuo d’i-
dealismo conservatore nell’idea di una natura umana
costante. Assai piú dogmatica invece appare l’altra obie-
zione, che designa la psicanalisi come un portato della
borghesia in decadenza, destinato a soccombere con
essa. Infatti, quali dei nostri valori intellettuali vera-
mente vivi – compreso il materialismo storico – non
sono il portato di questa cultura «in decadenza»? Se la
psicanalisi è un fenomeno di decadenza, lo è anche l’in-
tero romanzo naturalistico e tutta l’arte impressionisti-
ca; e insomma tutto quello che porta in sé il dissidio del-
l’Ottocento è decadenza.
Thomas Mann osserva che Freud per la natura del
suo materiale d’indagine – l’inconscio, gli affetti, gli

Storia dell’arte Einaudi 320


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

impulsi e i sogni – è profondamente legato all’irrazio-


nalismo dell’ultimo Ottocento75. In verità, Freud si lega
strettamente non solo a questo irrazionalismo neoro-
mantico, che accentra il suo interesse sul volto nottur-
no della vita psichica, ma anche agli inizi e alle origini
di tutto quel filone del pensiero romantico, che si volge
al primitivo e al prerazionale. C’è ancora parecchio di
Rousseau nel compiacimento con cui egli caratterizza la
libertà dell’uomo selvaggio, tutto istinto. E se anche non
giunge ad affermare che, ad esempio, l’uomo allo stato
di natura che uccideva il padre e si accoppiava con tutte
le donne della famiglia, si può chiamare «buono» nel
senso usato da Rousseau, comunque mette in dubbio che
sia diventato gran che migliore o piú felice incivilendo-
si. Il pericolo dell’irrazionalismo non sta, per la psica-
nalisi, nella scelta del materiale d’indagine e nella sim-
patia per i primitivi immuni dalla civiltà, ma nella sua
stessa teoria psicologica fondata sulla vita istintiva. Ogni
concezione dell’uomo che non sia dialettica e consideri
la sua natura come un dato costante, non modificabile
dalla storia, contiene già un elemento irrazionale e con-
servatore. Chi non crede alla possibilità di evoluzione
dell’uomo, per lo piú non desidera affatto ch’egli muti
se stesso e la società. Pessimismo e conservatorismo
sono in questo caso interdipendenti. Ma Freud non è un
vero pessimista e neppure un conservatore o un irrazio-
nalista. Nonostante tutti gli elementi pericolosi, l’ope-
ra sua presenta con innegabile evidenza una spontanea
filantropia e un orientamento progressista per cui non
occorrono speciali prove. Queste, del resto, non man-
cano. Certo egli dubita che la ragione possa prevalere
sugli impulsi, tuttavia dichiara che per dominarli non c’è
altro mezzo che la nostra intelligenza. E non è un’af-
fermazione disperata in lui. «La voce dell’intelletto è
tenue, – egli dice, – ma non tace prima di aver ottenu-
to udienza. Alla fine, sovente dopo innumerevoli ripul-

Storia dell’arte Einaudi 321


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

se, trova ascolto. Questo è uno dei pochi punti per cui
si può essere ottimisti sull’avvenire dell’umanità, ma in
sé non è cosa da poco e vi si possono riannodare altre
speranze. Il primato dell’intelletto è certo molto, molto
lontano, ma verosimilmente non a distanza infinita»76.
Freud sa superare il suo tempo e combatte le forze
oscure e irrazionali da cui esso è dominato; ma ad esso,
alle sue conquiste e alle sue deficienze, è e rimane lega-
to per innumerevoli fili. Il principio stesso della sua psi-
cologia del profondo, in cui le differenze individuali
hanno una parte tanto maggiore che in Marx, è stretta-
mente affine all’ideale impressionistico e al relativismo
filosofico di quegli anni. È tipico della mentalità impres-
sionista quel concetto dell’illusione che nasce dall’espe-
rienza del continuo variare in noi di sensazioni e impres-
sioni, di stati d’animo, e rappresentazioni, cosí che la
realtà si mostra in forme sempre diverse, sempre insta-
bili, e ogni impressione che ne ricaviamo è insieme cono-
scenza e inganno; e la corrispondente idea freudiana
che gli uomini passano tutta la vita come in incognito
davanti agli altri e a se stessi, difficilmente sarebbe stata
concepibile prima dell’impressionismo. L’impressioni-
smo è veramente lo stile del tempo, nel pensiero come
nell’arte. Tutta la filosofia degli ultimi decenni del seco-
lo ne è determinata. Relativismo, soggettivismo, psico-
logismo, storicismo, lo spirito antisistematico, il princi-
pio dell’atomizzarsi del mondo intellettuale e la conce-
zione prospettica della verità, sono elementi comuni alle
teorie di Nietzsche, di Bergson, dei pragmatisti e di
tutti gli indirizzi filosofici indipendenti dall’idealismo
accademico.
«Non s’è ancor vista la verità a braccetto con un asso-
luto», osserva Nietzsche. La scienza fine a se stessa, la
verità incondizionata, la bellezza disinteressata, la mora-
le altruistica sono, per lui e per i suoi contemporanei,
finzioni. Quelle che noi chiamiamo verità, egli afferma77,

Storia dell’arte Einaudi 322


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

realmente non sono che una serie di inganni e menzo-


gne opportune, necessarie alla vita, di cui esaltano le
energie; e in sostanza anche il pragmatismo adotta que-
sto concetto attivistico e utilitaristico della verità. Vero
è quel che è efficace, conveniente, utile, quel che fa
buona prova e si fa «pagare», come dice William James.
Non si può immaginare teoria della conoscenza meglio
rispondente all’impressionismo. Ogni verità ha una pre-
cisa attualità; è valida solo in ben determinate situazio-
ni. Un’affermazione può essere vera in se, ma affatto
assurda in certe circostanze, perché priva di qualsiasi
riferimento. Se alla domanda: «Che età hai?» si rispon-
de: «La terra gira intorno al sole», queste parole, nono-
stante l’eventuale verità dell’asserzione, sono in questo
caso affatto inutili e assurde. La verità è un rapporto
indissolubile fra soggetto e oggetto, di cui i singoli com-
ponenti non si possono discernere e concepire come
autonomi. Noi mutiamo, e con noi muta il mondo obiet-
tivo. Ragguagli su avvenimenti naturali e storici, che
cent’anni fa possono esser stati veri, oggi non lo sono
piú, perché la verità è, come noi, in continuo moto, svi-
luppo, mutamento; è la somma di fenomeni sempre
nuovi, inaspettati, casuali, e non può mai considerarsi
conclusa. Tutto il pragmatismo deriva dalla mutevole
esperienza della realtà, che l’impressionismo aveva rea-
lizzato; nell’impressionismo infatti, cioè nella sfera del-
l’arte, i rapporti con la verità sono di fatto come quella
filosofia li afferma per l’esperienza in genere. Lo Shake-
speare del dottor Johnson, di Coleridge, di Hazlitt e di
Bradley non esiste piú: le opere del poeta non sono piú
quel che erano un tempo. Se le parole possono essere le
stesse, un’opera non è soltanto fatta di parole, ma anche
del loro significato, e questo muta da una generazione
all’altra.
Il pensiero impressionista trova la sua espressione
piú pura nella filosofia di Bergson, e proprio nell’inter-

Storia dell’arte Einaudi 323


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pretazione bergsoniana del tempo, cioè di quel medium


che è l’elemento vitale dell’impressionismo. L’unicità
dell’istante, che non è mai esistito prima e non si ripe-
terà mai piú, fu l’esperienza fondamentale dell’Otto-
cento, e tutto il romanzo naturalistico, specie quello di
Flaubert, non fu se non la rappresentazione e l’analisi
di tale esperienza. La visione flaubertiana si distingue
tuttavia da quella di Bergson soprattutto perché Flau-
bert vedeva ancora nel tempo un elemento di dissolu-
zione che distrugge la sostanza ideale della vita. Il muta-
mento nella nostra concezione del tempo e in fondo di
tutta la realtà sensibile si compí gradualmente, prima
nella pittura impressionistica, poi nella filosofia bergso-
niana, infine – nel modo piú esplicito e significativo –
nell’opera di Proust. Il tempo non è piú principio di dis-
soluzione e distruzione, l’elemento in cui le idee e gli
ideali perdono il loro valore, la vita e lo spirito la loro
sostanza, ma anzi è la forma in cui noi diventiamo
padroni e consci del nostro essere spirituale, della nostra
natura vivente, opposta alla morta materia e alla rigida
meccanica. Quel che noi siamo, lo diventiamo non solo
nel tempo, ma grazie al tempo. Non solo siamo la somma
dei singoli momenti della nostra vita, ma il prodotto dei
nuovi aspetti ch’essi acquistano ad ogni nuovo momen-
to. Non diventiamo piú poveri per il tempo passato e
«perduto»; solo esso anzi dà sostanza alla nostra vita. La
giustificazione della filosofia bergsoniana è il romanzo
di Proust; in esso per la prima volta si esplica piena-
mente la concezione bergsoniana del tempo. L’esisten-
za riceve vita, moto, colore, trasparenza ideale e conte-
nuto spirituale solo dalla prospettiva di un presente che
risulta dal nostro passato. Non c’è felicità fuor del ricor-
do, che risuscita, ravviva, conquista il tempo passato e
perduto; poiché i veri paradisi sono quelli perduti, come
dice Proust. Dall’età romantica in poi si era sempre
fatto carico all’arte di perdere la vita, e si era conside-

Storia dell’arte Einaudi 324


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

rato il dire e l’avoir di Flaubert come una tragica alter-


nativa; Proust è il primo a scorgere nella contemplazio-
ne, nella memoria e nell’arte non solo una delle forme
possibili, ma l’unica in cui sia dato possedere la vita.
Veramente la nuova concezione del tempo nulla muta di
sostanziale nell’estetismo di quegli anni, solo gli confe-
risce un’apparenza piú confortante; ma null’altro che
un’apparenza, poiché in Proust il trasmutare dei valori
della vita non è che il conforto e l’illusione di un mala-
to, di un sepolto vivo.

1
andré bellessort, Les Intellectuels et l’avènement de la troisième
République, 1931, p. 24.
2
p. louis, Histoire du socialisme en France de la Révolution à nos
jours, 3a ed., 1936, pp. 236-37.
3
a. bellessort, Les Intellectuels ecc. cit., p. 39
4
w. sombart, Der moderne Kapitalsmus cit., III, 1, 1927, pp. xii-xiii
5
p. louis, Histoire du socialisme ecc. cit., pp. 242, 216-17.
6
Cfr. henry ford, My Life and Work, 1922, p. 153.
7
w. sombart, Der moderne Kapitalismus cit., III, 2, pp. 603-7 - Die
deutsche Volkswirtschaft im 19. Jahrhundert cit., pp. 397-98.
8
Cfr. pierre francastel, L’Impressionisme, 1937, pp. 25-26, 80.
9
georg marzynsky, Die impressionistische Methode, in «Zeitschrift
für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», xiv, 1920.
10
georges rivière, Exposition des Impressionistes, in «L’impressio-
niste. Journal d’Art», 6 aprile 1877. Riprodotto in l. venturi, Les
Archives de l’Impressionisme, 1939, II, p. 309.
11
andré malraux, The Psychology of Art, in «Horizon», 1948, 103,
p. 55.
12
g. marzynsky, Die impressionistische Methode cit., p. 90.
13
Ibid., p. 91.
14
john rewald, The History of Impressionism, 1946, pp. 6-7 [trad.
it., Storia dell’impressionismo, Firenze 1949].
15
albert cassagne, La Théorie de l’art pour l’art en France, 1906,
p. 351.
16
e. e j. de goncourt, Journal, 1° maggio 1869, ed. cit., III, p. 221.
17
h. focillon, La Peinture aux XIXe et XXe siècles, 1928, p. 200.
18
paul bourget, Essais de psychologie contemporaine, 1885, p. 25.

Storia dell’arte Einaudi 325


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

19
charles seignobos, L’Évolution de la troisième République, in e.
lavisse, Histoire de la France contemporaine, VIII, 1921, pp. 54-55.
20
henry bérenger, L’Aristocratie intellectuelle, 1895, p. 3.
21
a. thibaudet, Histoire de la littérature française de 1789 à nos jours,
1936, p. 430.
22
e. r. curtius, Maurice Barrès, 1921, p. 98.
23
jules huret, Enquête sur l’évolution littéraire, 1891, pp. xvi, xvii.
24
e. e j. de goncourt, Idées et sensations, 1866.
25
nietzsche, Menschliches Allzumenschliches, 155.
26
baudelaire, Richard Wagner et Tannhäuser à Paris, 1861.
27
id., La Peintre de la vie moderne, 1863, in L’Art romantique, ed.
Ernest Raynaud, 1931, p. 79.
28
villiers de l’isle-adam, Contes cruels, 1883, pp. 13 sgg.
29
emile tardieu, L’Ennui, 1903, pp. 81 sgg.
30
e. von sydow, Die Kultur der Dekadenz, 1921, p. 34.
31
peter quennel, Baudelaire and the Symbolists, 1929, p. 82.
32
max nordau, Entartung, 1896, 3a ed., II, p. 102.
33
baudelaire, Journaux intimes, ed. Ad. van Bever, 1920, p. 8
[trad. it., Giornali intimi, Torino 1942].
34
t. mann, Kollege Hitler. Das Tagebuch, a cura di Leopold Schwarz-
schild, 1939.
35
Cfr. rené dumesnil, L’Époque realiste et naturaliste, 1945, pp. 31
sgg. - ernest raynaud, Baudelaire et la religion du dandysme, 1918, pp.
13-14.
36
baudelaire, Œuvres posthumes, ed. J. Crépet, I, p 223 sgg.
37
anton Ωechov, Dom s mezoninom [trad. it., La villa del mezza-
nino, in Racconti, Torino, 1950, I, p. 419].
38
«Le Figaro», 18 settembre 1886.
39
a. thibaudet, Histoire de la littérature française ecc. cit., p. 485.
40
Ibid., p. 489
41
j. huret, Enquête sur l’évolution littéraire cit., p. 60.
42
Cfr. ernest raynaud , La Mêlée symboliste, 1920, II, p. 163.
43
john charpentier, Le Symbolisme, 1927, 62.
44
charles mauron, introduzione alle poesie di Mallarmé tradotte
da Roger Fry, 1936, p. 14.
45
georges duhamel, Les Poètes et la poésie, 1914, pp. 145-46.
46
Cfr. roger fry, An Early Introduction to Mallarmés Poems, 1936,
pp. 296, 302, 304-6.
47
henri bremond, La Poésie pure, 1926, pp. 16-20.
48
e. e j. de goncourt, Journal, 23 febbraio 1893, IX, p. 87.
49
j. huret, Enquête sur l’évolution littéraire cit., p. 297.
50
Cfr. c. m. bowra, The Heritage of Symbolism, 1943, p. 10.
51
g. m. turnell, Mallarmé, in «Scrutiny», v, 1937, p. 432.
52
j. huret, Enquête sur l’évolution littéraire cit., p. 23.

Storia dell’arte Einaudi 326


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

53
h. m. lynd, England in the Eighteen-Eighties, 1945, p. 17.
54
Ibid., p. 8.
53
bernhard fehr, Die englische Literatur des 19. und 20. Jahrhun-
derts, 1931, p. 322.
56
baudelaire, Le Peintre ecc. cit., pp. 73-74.
57
j.-p. sartre, Baudelaire, 1947, pp. 166-67.
58
baudelaire, Le Peintre ecc. cit., p. 50.
59
m. l. cazamian, Le Roman et les idées en Angleterre (1880-1900),
1935, p. 167.
60
f. r. leavis, The Great Tradition, 1948, passim.
61
h. hatzfeld, Der französische Symbolismus, 1923, p. 140.
62
Cfr. d. s. mirsky, Modern Russian Literature, 1925, pp. 84-85.
63
janko lavrin, An Introduction to the Russian Novel, 1942, p. 134.
64
t. mann, Versuch über das Theater, in Rede und Antwort, 1916,
p. 55.
65
paul ernst, Ein Credo, 1912, I, p. 227.
66
id., Der Weg zur Form, 1928, 3a ed., pp. 42 sgg.
67
ibsen, Sämtliche Werke, X, 1904, p. 40, lettera del 12 settem-
bre 1865.
68
halvdan koht, The Life of Ibsen, 1931, p. 63.
69
m. c. bradbrook, Ibsen, 1946, pp. 34-35.
70
ibsen, Sämtliche Werke, X 169.
71
holbrook jackson, The Eighteen Nineties, 1939 (1913), p. 177.
72
Lettera a Mehring del 14 luglio 1893, in marx-engels, Corre-
spondance, 1934, pp. 511-12.
73
ernest jones, Rationalism in Everyday Life. Read at the First
International Psycho-Analytic Congress, 1908, in Papers on Psycho-Analy-
sis, 1913.
74
karl mannheim, Ideology and Utopia, 1936, pp. 61-62.
75
t. mann, Die Stellung Freuds in der modernen Geistesgeschichte, in
Die Forderung des Tages, pp. 201 sgg.
76
s. freud, Die Zukunft einer Illusion, in Gesammelte Werke, XIV,
1948, p. 377.
77
nietzsche, Werke, 1895 sgg. XVI, p. 19.

Storia dell’arte Einaudi 327


arte moderna e contemporanea

Capitolo quinto

Nel segno del film

Il «Novecento» comincia dopo la prima guerra mon-


diale, cioè fra il 1920 e il 1930, come l’«Ottocento» era
cominciato solo con il 1830. La guerra incide sull’evo-
luzione, in quanto spinge a una scelta fra possibilità
diverse. Le tre tendenze principali nell’arte del nuovo
secolo hanno tutte dei precedenti ottocenteschi: il cubi-
smo in Cézanne e nei neoclassici, l’espressionismo in
Van Gogh e in Strindberg, il surrealismo in Rimbaud e
Lautréamont. Questa continuità nell’evoluzione artisti-
ca corrisponde al persistere delle stesse condizioni eco-
nomiche e sociali. Il Sombart limita a centocin-
quant’anni l’età aurea del grande capitalismo e la con-
sidera conclusa con lo scoppio della guerra mondiale.
Anzi, nel fenomeno dei cartelli e dei trusts degli anni
1895-1914 egli scorge un fenomeno di senilità del siste-
ma e un indizio di crisi imminente. Ma prima del 1914
soltanto i socialisti parlano di crollo; gli ambienti bor-
ghesi sono consci del pericolo socialista, ma non credo-
no alle «interne contraddizioni» dell’economia capitali-
stica né all’irreparabilità delle sue crisi occasionali. Di
fronte a queste non si pensa a una crisi del sistema. Que-
sto atteggiamento sostanzialmente fiducioso dura perfi-
no nei primi anni del dopoguerra e, se si prescinde da
quel ceto medio che deve lottare con tremende diffi-

Storia dell’arte Einaudi 3


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

coltà, lo stato d’animo della borghesia non è disperato.


La vera crisi economica s’inizia nel 1929 con il crack
americano che prepara la fine della congiuntura bellica
e postbellica e rivela chiaramente le conseguenze della
mancanza di un regolamento internazionale della pro-
duzione e della distribuzione.
Ora a un tratto si sente parlare dappertutto di crisi
del capitalismo, di fallimento del liberismo e della
società liberale, di catastrofe imminente e di minaccia
rivoluzionaria. La storia del quarto decennio è la storia
di un periodo di critica sociale, di realismo e di attivi-
smo; le posizioni politiche si fanno piú radicali, e ci si
va persuadendo che può giovare soltanto una soluzione
radicale, o, in altri termini, che i partiti di centro hanno
fatto il loro tempo. Ma piú di tutti la borghesia è con-
sapevole della propria crisi e nei suoi circoli si parla di
continuo della fine dell’epoca borghese. Fascismo e bol-
scevismo concordano nel considerare il borghese un
cadavere vivente e nel volgersi con la stessa intransi-
genza contro il principio liberale e parlamentare. Gli
intellettuali in gran parte si affiancano ai governi auto-
ritari, chiedono ordine, disciplina, dittatura, si entu-
siasmano per una nuova Chiesa, una nuova scolastica,
un nuovo bizantinismo. Per gli intellettuali snervati e
sconcertati dal vitalismo di Nietzsche e di Bergson, il
fascismo è attraente, perché offre il miraggio di valori
assoluti, saldi, indiscutibili, e la speranza di liberarsi dal
fardello della responsabilità che razionalismo e indivi-
dualismo sempre comportano. Dal comunismo invece
l’intellettuale si ripromette un piú immediato contatto
con larghi strati del popolo e la fine del suo isolamen-
to sociale.
In questa condizione precaria i portavoce della bor-
ghesia liberale non sanno far di meglio che accentuare i
tratti comuni del fascismo e del bolscevismo, compro-
mettendo l’uno e l’altro. Essi mettono in rilievo l’im-

Storia dell’arte Einaudi 4


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pudente realismo proprio di entrambi, e indicano nello


sfrenato predominio della tecnocrazia la comune radice
di quelle forme organizzative e politiche1. Trascurano a
bella posta le differenze ideologiche tra i vari regimi
autoritari e li presentano come pure «tecniche», cioè
come campo d’azione esclusivo del funzionario di par-
tito, dell’amministratore politico, dell’ingegnere della
macchina sociale, insomma del «dirigente», del manager.
C’è senza dubbio una certa analogia tra le varie forme
di regolamentazione sociale, e, se si parte dal puro fatto
del tecnicismo e dell’uniformità ad esso inerente, c’è
persino analogia fra Russia e America2. Nessun appara-
to statale può oggi rinunziare del tutto ai «dirigenti».
Essi esercitano il potere politico in nome di masse piú
o meno grandi, come ai tecnici tocca guidar fabbriche e
agli artisti dipingere o scrivere. Ma il problema è sem-
pre e solo questo: nell’interesse di chi viene esercitato
questo potere? Non c’è potente al mondo che oggi osi
confessare di non mirare unicamente al bene del popo-
lo. Da questo punto di vista noi ci troviamo effettiva-
mente in una società di massa e in una democrazia di
massa. In ogni caso, le masse partecipano alla vita poli-
tica almeno nella misura dello sforzo che occorre fare per
trarle in errore.
Nulla è piú tipico dell’attuale filosofia della cultura
del fatto che si attribuiscano l’inaridimento e l’esterio-
rità della cultura moderna a questa «rivolta delle
masse»3, che viene avversata in nome dello spirito e del-
l’anima. Allo spiritualismo, per lo piú alquanto confu-
so, che sta alla radice di questa filosofia aderiscono quasi
senza distinzione gli estremisti di destra e di sinistra.
Spesso le due parti intendono con ciò cose affatto diver-
se e conducono la loro battaglia contro la brutale visio-
ne meccanicistica, gli uni avversando il positivismo, gli
altri il capitalismo. Tuttavia fin verso il 1930 gli intel-
lettuali si dividono nei due campi in modo molto ine-

Storia dell’arte Einaudi 5


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

guale. La maggioranza è consciamente o inconsciamen-


te reazionaria e, affascinata dalle idee di Bergson,
Barrès, Charles Maurras, Ortega y Gasset, Chesterton,
Spengler, Keyserling, Klages e cosí via, apre la strada al
fascismo. Il «nuovo Medioevo», la «nuova cristianità»,
la «nuova Europa» sono il vecchio mondo romantico
della reazione; e la «rivoluzione nella scienza», la mobi-
litazione dello «spirito» contro il meccanicismo e il
determinismo scientifico non sono che «l’inizio della
grande reazione mondiale contro l’indirizzo democrati-
co e sociale»4 dell’illuminismo.
In quest’epoca della «democrazia di massa» si cerca
di dare una nobiltà alle proprie pretese ed esigenze in
nome di gruppi sempre piú vasti, e a Hitler riesce per-
sino il tiro di nobilitare la stragrande maggioranza del
suo popolo. Questo nuovo «modo democratico di sta-
bilire un’aristocrazia» comincia contrapponendo l’Oc-
cidente all’Oriente, all’Asia e alla Russia. Occidente e
Oriente vengono contrapposti come ordine e caos, auto-
rità e anarchia, stabilità e sovvertimento, razionalismo
disciplinato e sfrenato misticismo5; e l’Europa del dopo-
guerra, affascinata dalla letteratura russa, viene messa in
guardia contro il caos, a cui essa paga il suo tributo con
il culto di Dostoevskij e il «karamazovismo»6. Al tempo
di De Vogüé la Russia e la sua letteratura non erano
ancora «asiatiche», anzi rappresentavano il genuino cri-
stianesimo da proporre a modello all’Occidente pagano.
Certo, allora in Russia c’era ancora lo zar. Del resto, i
nuovi crociati non credono piú di poter salvare l’Occi-
dente e vestono la loro disperata visione politica di un
pessimismo universale sulle sorti della civiltà. Sono riso-
luti a seppellire tutta la civiltà occidentale insieme con
le loro speranze politiche e, veri eredi del decadentismo,
ammettono il «tramonto dell’Occidente».
La grande ondata reazionaria del secolo provoca in
campo artistico il rifiuto dell’impressionismo: fatto que-

Storia dell’arte Einaudi 6


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sto che rappresenta nella storia dell’arte una svolta, una


cesura in certo senso piú profonda di ogni altra verifi-
catasi nello sviluppo stilistico dal Rinascimento in poi,
dato che quelle avevano lasciato ogni volta sostanzial-
mente intatta la tradizione del naturalismo. Un’oscilla-
zione pendolare tra formalismo e antiformalismo c’era
sempre stata, ma dopo la fine del Medioevo mai si era
messo in dubbio che fosse compito dell’arte attingere
fedelmente la propria verità dalla natura e dalla vita. In
questo senso l’impressionismo rappresentò veramente
un punto d’arrivo, la conclusione di un processo durato
piú di quattro secoli. Soltanto l’arte postimpressionisti-
ca rinuncia per principio ad ogni illusione realistica ed
esprime il suo senso della vita attraverso la deformazio-
ne consapevole degli oggetti naturali. Cubismo, costrut-
tivismo, futurismo, espressionismo, dadaismo e surrea-
lismo con eguale risolutezza rifiutano il naturalismo,
cioè l’atteggiamento di consenso verso la realtà che era
stato dell’impressionismo. Ma questa evoluzione è pre-
parata dallo stesso impressionismo: esso non perseguiva
infatti una rappresentazione integratrice della realtà, né
stabiliva un confronto tra il soggetto e la totalità di un
mondo obiettivo; anzi aveva segnato l’inizio di quel
processo che si è chiamato «annessione» della realtà per
mezzo dell’arte7. Il postimpressionismo non può piú
considerarsi in nessun modo riproduzione della natura;
il suo rapporto con essa consiste unicamente nel violen-
tarla. Al massimo si può parlare di una specie di natu-
ralismo magico, della produzione di oggetti che esisto-
no accanto alla realtà, ma non vogliono sostituirla. Di
fronte alle opere di Braque, Chagall, Rouault, Picasso,
Henri Rousseau, Klee, nonostante tutte le loro diffe-
renze, ci pare sempre di trovarci in un altro mondo, in
un soprammondo che, per quanti tratti esibisca della
realtà consueta, rappresenta un modo d’essere che la tra-
scende ed è con essa incompatibile.

Storia dell’arte Einaudi 7


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Ma l’arte moderna si oppone all’impressionismo


anche per un altro aspetto: perché è «brutta» per prin-
cipio e rinunzia all’armonia e alla bellezza cromatica
dell’impressionismo. Nella pittura essa distrugge i valo-
ri «pittorici», nella poesia il sentimento e la perfezione
dell’immagine, nella musica la melodia e la tonalità.
Essa è una fuga angosciosa di fronte a ogni cosa gradi-
ta e piacevole, puramente decorativa e seducente. Già
Debussy contrappone al sentimento dei romantici tede-
schi il tono freddo e la nuda struttura armonica, e con
Strawinsky, Schönberg e Hindemith l’antiromanticismo
arriva ad un «antiespressivo» che rinnega ogni legame
con la musica del sensitivo Ottocento. Il poeta, il pit-
tore, il musicista vogliono attingere dall’intelletto, non
dal sentimento; si accentua cosí ora la purezza della
struttura, ora l’estasi di una passione metafisica, ma ad
ogni costo si vuole sfuggire al compiaciuto estetismo del-
l’età impressionistica. Già l’impressionismo era consa-
pevole della situazione di crisi dell’estetismo moderno,
ma soltanto l’arte successiva ne sottolinea l’aspetto grot-
tesco e insincero. D’onde la lotta contro ogni senti-
mento voluttuoso, edonistico, e lo squallore, l’oppres-
sione, il tormento di Picasso, Kafka e Joyce. L’avver-
sione al sensualismo dell’arte precedente, il desiderio di
dissolvere il mondo illusorio vanno tant’oltre da rifiu-
tarne anche i mezzi espressivi e, come Rimbaud, ci si
vorrebbe creare un proprio linguaggio artistico. Schön-
berg inventa il sistema dodecafonico; e giustamente è
stato detto che, in ogni suo quadro, Picasso sembra
voler riscoprire l’arte della pittura.
La lotta sistematica contro i mezzi espressivi con-
venzionali, e quindi la dissoluzione della tradizione arti-
stica ottocentesca, s’inizia nel 1916 con il dadaismo, che
è un fenomeno di guerra, una protesta contro la civiltà
che ha condotto alla guerra, cioè una forma di disfatti-
smo8. Il senso di tutto il movimento sta nell’opposizio-

Storia dell’arte Einaudi 8


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ne alle forme già pronte, alle frasi stereotipe, comode,


ma inefficaci perché tanto logore da falsare l’oggetto
rappresentato e distruggere la spontaneità dell’espres-
sione. Il dadaismo, che in ciò concorda perfettamente
con il surrealismo, si sforza di giungere all’espressione
immediata, è quindi un movimento essenzialmente
romantico. Suo bersaglio è quell’insincerità formale di
cui già Goethe era conscio e che aveva dato l’impulso
decisivo alla rivoluzione romantica. Da allora tutta l’e-
voluzione letteraria era stata una contesa con le forme
tradizionali e convenzionali della lingua, cosí che la sto-
ria della letteratura del secolo scorso si può considera-
re, almeno fino a un certo segno, storia di un rinnova-
mento linguistico. Ma l’Ottocento non fa che cercare un
equilibrio tra il vecchio e il nuovo, tra i modelli tradi-
zionali e la spontaneità dell’individuo; il dadaismo inve-
ce esige l’annullamento dei modi correnti e abusati.
Esso vuole un linguaggio interamente spontaneo e cosí
fonda la sua estetica su una contraddizione. Infatti,
come farsi intendere – né il surrealismo vi rinunzia –
negando e distruggendo ogni mezzo adeguato? Il criti-
co francese Jean Paulhan distingue due categorie di scrit-
tori a seconda dei loro rapporti con la lingua9. Quelli che
tendono a distruggerla, cioè romantici, simbolisti e sur-
realisti, che vorrebbero escluderne del tutto il luogo
comune, le forme convenzionali, stereotipe, e per scan-
sare questi pericoli si rifugiano nell’ispirazione pura,
vergine, primitiva, costoro Paulhan li chiama «terrori-
sti». Essi lottano contro ogni solidificazione e cristal-
lizzazione della viva, fluida, intima vita dello spirito,
contro tutto ciò che si esteriorizza come istituzione,
cioè contro ogni cultura. Paulhan li ricollega a Bergson,
e nel loro sforzo di preservare l’immediatezza e l’origi-
nalità dell’esperienza interiore vede l’influsso dell’in-
tuizionismo e della teoria dell’élan vital. Gli scrittori del-
l’altro campo, quelli cioè che sanno benissimo che luo-

Storia dell’arte Einaudi 9


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ghi comuni e forme stereotipe sono il prezzo da pagare


per farsi intendere, e che la letteratura è comunicazio-
ne e quindi lingua, tradizione, forma «logora» e perciò
stesso chiara e immediatamente comprensibile, egli li
chiama gli eloquenti, i «retori». Ritiene che la loro posi-
zione sia l’unica possibile, perché l’applicazione coe-
rente del «terrore» in letteratura significherebbe il silen-
zio assoluto, il suicidio intellettuale, da cui i surrealisti
possono salvarsi soltanto ingannando continuamente se
stessi. Infatti non c’è convenzione piú rigida e angusta
della dottrina surrealista, né pratica d’arte piú monoto-
na e scipita di quella dei surrealisti intransigenti. La
«scrittura automatica» è assai meno elastica di quella
guidata dalla ragione e dal senso critico, e l’inconscio –
o ciò che di esso portiamo alla luce del giorno – è molto
piú povero e semplice della coscienza. Ma nella storia
dell’arte dadaismo e surrealismo non tanto valgono per
le opere dei loro esponenti ufficiali, quanto come denun-
cia del vicolo cieco in cui si trovava la letteratura alla
fine del simbolismo, della sterilità di una convenzione
letteraria ormai avulsa dalla vita10. Per Mallarmé e i sim-
bolisti qualunque cosa venisse loro in mente, era espres-
sione del loro intimo essere; era una fede mistica nella
«magia della parola» che li rendeva poeti. Per dadaisti
e surrealisti è dubbio che l’uomo possa esprimere qual-
cosa di obiettivo, esteriore, formale, razionalmente
organizzato; e, ancor piú, è dubbio che tale espressione
abbia in se stessa un valore. Essi pensano che è «inam-
missibile che un uomo lasci traccia di sé»11. Cosí al nichi-
lismo della cultura estetizzante se ne sostituisce un altro
che mette in dubbio non solo l’arte, ma tutta la condi-
zione umana. Infatti, come dice il manifesto dei dadai-
sti, «misurato col metro dell’eterno, è futile ogni agire
umano»12.
Ma la tradizione di Mallarmé non s’interrompe. I
«retori» André Gide, Paul Valéry, T. S. Eliot e forse

Storia dell’arte Einaudi 10


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

l’ultimo Rilke, nonostante l’affinità col surrealismo, con-


tinuano la tendenza simbolistica. Sono i rappresentanti
di un’arte formale ardua e squisita, i fedeli della «magia
della parola», e la loro poesia nasce dallo spirito della lin-
gua, della letteratura, della tradizione. L’Ulysses di
Joyce, e The Waste Land* di T. S. Eliot sono del 1922,
e vi risuonano le due note fondamentali della nuova let-
teratura: l’opera di Joyce si muove nell’ambito dell’e-
spressionismo e del surrealismo, quella di Eliot nel-
l’ambito del simbolismo e del formalismo. In comune
hanno la posizione intellettualistica, ma mentre in Eliot
l’elemento decisivo è l’«esperienza culturale», in Joyce
è l’«esperienza originale». La distinzione di questi con-
cetti viene da Friedrich Gundolf che li usa nell’intro-
duzione al suo libro su Goethe, esprimendo cosí uno
schema tipico del suo tempo13. Nell’esperienza cultura-
le l’ispirazione scaturisce dalla cultura storica, dalla tra-
dizione intellettuale, dal patrimonio ideale e formale
della letteratura; nell’esperienza originale, direttamen-
te dai fatti della vita e dai problemi dell’esistenza. Per
T. S. Eliot e Paul Valéry il principio è sempre un pen-
siero, un’idea, un problema; per Joyce e Kafka, un’e-
sperienza irrazionale, una visione, un’immagine metafi-
sico-mitologica. La distinzione concettuale di Gundolf
rileva una dicotomia in tutto il campo dell’arte nuova.
Cubismo e costruttivismo da un lato, espressionismo e
surrealismo dall’altro, rappresentano rispettivamente
tendenze al rigorismo formale e alla distruzione della
forma, che per la prima volta vengono a contrapporsi
con tanta asprezza. La situazione è tanto piú singolare,
in quanto i due stili opposti rivelano le piú strane com-
mistioni e combinazioni, sí che spesso si ha l’impressio-
ne di un dissidio intimo piuttosto che di due tendenze
in gara. Picasso, che riunisce in sé nel modo piú imme-
diato le varie correnti stilistiche, è oggi l’artista piú rap-
presentativo. Ma non si è detto ancora tutto quando lo

Storia dell’arte Einaudi 11


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

si definisce un eclettico e lo si caratterizza come un


«maestro del pastiche»14, quando si afferma ch’egli vuol
solo mostrare in qual misura possegga le regole dell’ar-
te, contro le quali si rivolta15, e lo si paragona a Strawin-
sky ricordando come anche questi avvicendi i propri
modelli e per la musica moderna «valorizzi» ora Bach,
ora Pergolesi, e poi di nuovo Ωajkovskij16. L’eclettismo
di Picasso significa la distruzione cosciente e premedi-
tata dell’unità della persona; le sue imitazioni sono pro-
teste contro il culto dell’originalità; la sua deformazio-
ne della realtà, che cerca sempre nuove forme, solo per
dimostrarne con piú evidenza l’arbitrio, vuole anzitut-
to suffragare la tesi che «natura e arte sono due cose
completamente diverse». Picasso si fa giocoliere, pre-
stigiatore, parodista per opporsi alla concezione roman-
tica con la sua «voce interiore», il suo «cosí e non altri-
menti», l’orgogliosa autodeificazione dell’artista. E non
solo egli rinnega il romanticismo, ma anche il Rinasci-
mento, che al romanticismo in certo modo apre la via
con il concetto di genio e l’idea di unità nell’opera e
nello stile. Egli rompe completamente con l’individua-
lismo e il soggettivismo, rinunzia interamente all’arte
come espressione inconfondibile della personalità. Le
sue opere sono annotazioni e commenti alla realtà; non
pretendono di valere come immagine del mondo e del
tutto, sintesi ed epitome dell’esistenza. Con l’uso indi-
scriminato dei diversi stili, Picasso compromette i mezzi
espressivi dell’arte in maniera radicale, come i surreali-
sti con la loro rinunzia alle forme tradizionali.
Il nuovo secolo è pieno di contrasti cosí profondi e
l’unità della sua visione è cosí minacciata, che il princi-
pale, spesso l’unico tema dell’arte diventa la congiun-
zione degli estremi, la sintesi delle massime contraddi-
zioni. Il surrealismo che all’inizio, come osserva André
Breton, s’imperniava esclusivamente sul problema del
linguaggio, cioè dell’espressione poetica, e che, come noi

Storia dell’arte Einaudi 12


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

diremmo con Paulhan, voleva farsi comprendere senza


i mezzi adeguati, si sviluppò in un’arte che fondava la
sua visione sulla natura paradossale di ogni forma, sul-
l’assurdità di tutta l’esistenza. Il dadaismo, dalla dispe-
razione per tutte le forme culturali, giungeva ad invo-
care l’annientamento dell’arte e il ritorno al caos, spin-
gendo all’estremo il romanticismo di Rousseau. Il sur-
realismo, che integra il metodo del dadaismo con la
«scrittura automatica»17 già con questo esprime la fede
che dal caos – cioè dall’inconscio, dall’irrazionale, dal
sogno, dalle regioni incontrollate dell’anima – nasca una
nuova conoscenza, una nuova verità, una nuova arte. I
surrealisti sperano la salvezza dell’arte – che essi ripu-
diano in quanto tale, proprio come i dadaisti, ammet-
tendola solo come semplice veicolo di una conoscenza
irrazionale – dal tuffo nell’inconscio, nel prerazionale,
nel caos. Se essi adottano il metodo psicanalitico del-
l’associazione libera, cioè dello sviluppo automatico dei
pensieri, delle idee e della loro riproduzione senz’alcu-
na censura razionale, morale, estetica18, è perché credo-
no di aver trovato cosí una ricetta per restaurare la
buona, vecchia ispirazione romantica. Finiscono così
per tornare alla razionalizzazione dell’irrazionale e al
metodo imposto alla spontaneità. Si tratta però di un
metodo incomparabilmente piú pedante, dogmatico e
rigido di quello propriamente artistico, nel quale l’irra-
zionale e l’intuitivo è dominato attraverso l’intelligen-
za artistica, il gusto e la critica e, invece di un cieco
abbandono, prevale la riflessione. Quanto piú fecondo
della ricetta surrealista era il procedimento di Proust
che, ponendosi in uno stato di sonnambulismo non tur-
bato da alcuna inibizione, si abbandonava alla corrente
dei ricordi e delle associazioni con la passività ipnotica
di un medium19, ma nello stesso tempo sapeva conser-
vare un suo rigore di pensiero e sapeva condurre la crea-
zione artistica con la piú alta consapevolezza20. Freud

Storia dell’arte Einaudi 13


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

stesso par che abbia penetrato il trucco del surrealismo.


Poco prima di morire, egli disse a Salvador Dalì, che gli
fece una visita a Londra: «Quel che m’interessa nella
Sua arte non è l’inconscio, ma la coscienza»21. E certa-
mente voleva dire: «M’interessa non la simulata para-
noia, ma il metodo della simulazione».
L’esperienza fondamentale dei surrealisti è la sco-
perta di una «seconda realtà» inscindibilmente amalga-
mata alla realtà comune, empirica, ma pur cosí diversa
che noi possiamo parlarne solo per via di negazione e
dimostrarne l’esistenza attraverso le fessure, le lacune
della nostra esperienza. Questo dualismo trova la sua
espressione piú chiara nelle opere di Kafka e di Joyce
che, pur senza alcun diretto rapporto con il surrealismo,
sono surrealisti in senso lato, come del resto la maggior
parte degli artisti d’avanguardia del nostro secolo. Ed è
questa stessa scoperta che permette al surrealismo di
cogliere quel che è proprio del sogno e di fare della sua
ambigua realtà il proprio ideale artistico. Il sogno diven-
ta per esso il paradigma della sua immagine del mondo,
in cui reale e irreale, logica e fantasia, volgarità e subli-
me costituiscono un’indissolubile e inspiegabile unità.
Ma lo scrupoloso naturalismo dei particolari e l’innatu-
rale arbitrio dei rapporti, che il surrealismo deriva dal
sogno, non solo ci dànno il senso di una vita su due piani
distinti, in due sfere diverse, ma suggeriscono che que-
ste regioni dell’essere sono cosí compenetrate che l’una
non può venire subordinata22 né contrapposta all’altra23.
Il dualismo dell’essere non è certo un’idea nuova e la
coincidentia oppositorum ci è nota già dalla filosofia di
Nicolò Cusano e di Giordano Bruno; ma il duplice
senso, il doppio fondo dell’esistenza, l’insidia, la sedu-
zione che per l’intelletto umano si cela in ogni singolo
fenomeno della realtà non furono mai cosí intensamen-
te sentiti. Solo il manierismo aveva messo in luce cosí
cruda il contrasto tra concreto e astratto, senso e spiri-

Storia dell’arte Einaudi 14


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

to, sogno e veglia. E al manierismo riporta anche l’insi-


stenza dell’arte moderna, non tanto sulla coincidenza
degli opposti, quanto sul carattere fantastico di questa
coincidenza. L’acuto contrasto fra la riproduzione foto-
graficamente esatta dei particolari e la gran confusione
dei loro raggruppamenti, che si riscontra, per esempio,
in un Dalì, corrisponde, pur su un piano molto inferio-
re, alla predilezione per il paradosso del dramma elisa-
bettiano e della lirica dei «poeti metafisici» del Seicen-
to. Ma tra lo stile di Kafka e di Joyce, in cui una prosa
assai sobria e spesso addirittura comune va insieme alla
piú delicata trasparenza dell’idea, e quello dei poeti
manieristici del Cinque e Seicento la differenza di livel-
lo non è piú cosí grande. In un caso come nell’altro il
vero soggetto è l’assurdità della vita, che risulta tanto
piú sorprendente e impressionante quanto piú realistici
sono gli elementi dell’insieme che è essenzialmente fan-
tastico. La macchina da cucire e l’ombrello sul tavolo
anatomico, la carogna dell’asino sul pianoforte, o il nudo
femminile che si può aprire come un cassettone, insom-
ma tutte le forme di giustapposizione e simultaneità in
cui vengono costretti il non simultaneo e l’inconciliabi-
le, esprimono unicamente il desiderio di introdurre,
certo in modo assai paradossale, unità e concatenazione
nel nostro mondo disgregato. S’impadronisce dell’arte
una vera mania della totalità24. Pare che ogni cosa si
possa collegare con qualsiasi altra, che ognuna possa
esprimere anche qualcosa di diverso da se stessa e inclu-
da in sé la legge del tutto. Con ciò è connesso in certo
modo anche lo svilimento dell’uomo, il cosiddetto «disu-
manarsi» dell’arte. In un mondo in cui tutto è signifi-
cativo o tutto equivalente l’uomo perde la sua premi-
nenza e la psicologia la sua autorità.
La crisi del romanzo psicologico è forse il fenomeno
piú spiccato della nuova letteratura. Le opere di Kafka
e di Joyce non sono piú psicologiche nel senso in cui lo

Storia dell’arte Einaudi 15


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

erano i grandi romanzi del secolo scorso. Alla psicologia


Kafka sostituisce una specie di mitologia; e in Joyce l’a-
nalisi del particolare è sí psicologicamente corretta, allo
stesso modo che i particolari di un dipinto surrealista
sono naturalisticamente ineccepibili, ma manca un eroe
in cui la rappresentazione trovi il suo centro psicologi-
co, e manca anche una sfera psicologica, come realtà a
sé nella totalità della vita. Veramente già con Proust il
romanzo comincia a perdere il suo carattere psicologi-
co25: con lui, che è il piú grande maestro dell’analisi del
sentimento e del pensiero, il romanzo psicologico tocca
i suoi fastigi, ma nello stesso tempo ha inizio la disinte-
grazione della psiche come particolare entità. In quan-
to, cioè, tutta la realtà diventa contenuto della coscien-
za, e le cose acquistano il loro significato unicamente
nell’esperienza psichica, non si può piú parlare di psi-
cologia com’è intesa in Stendhal, Balzac, Flaubert,
George Eliot, Tolstoj o Dostoevskij. Nel romanzo del-
l’Ottocento anima e carattere si contrappongono come
polo opposto al mondo e alla realtà, e la psicologia non
è se non il rapporto antitetico tra soggetto e oggetto, io
e non-io, intimità e mondo esterno. Ora il dominio di
tale psicologia cessa con Proust. A lui non importa piú
tanto caratterizzare la singola personalità – bench’egli
sia un appassionato ritrattista e caricaturista – quanto
analizzare il meccanismo psichico in sé. L’opera sua è
una summa non solo nel senso corrente, in quanto ci dà
una rappresentazione completa della società moderna,
ma anche perché descrive tutto l’apparato psichico del-
l’uomo moderno: inclinazioni, impulsi, talenti, automa-
tismi, comportamenti razionali e irrazionali. L’Ulysses di
Joyce è la diretta continuazione del romanzo proustia-
no; qui si tratta letteralmente di un’enciclopedia della
moderna cultura occidentale, cosí com’essa si riflette nel
tessuto dei motivi di cui è fatto un giorno della vita di
una metropoli. Questo giorno è il vero eroe del roman-

Storia dell’arte Einaudi 16


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

zo. Dopo aver rinunciato alla trama, il romanzo moder-


no ora rinuncia anche al protagonista. Invece del fluire
degli eventi, Joyce descrive il fluire dei pensieri e delle
associazioni; invece del singolo eroe, il flusso della
coscienza, un interminabile, continuo monologo inte-
riore. Dovunque si insiste sulla continuità del movi-
mento, sul «continuum eterogeneo», sull’immagine calei-
doscopica di un mondo disintegrato. Del concetto berg-
soniano del tempo si dà una nuova interpretazione, che
ne costituisce insieme un affinamento e una deviazione.
Ormai si insiste soprattutto sulla simultaneità dei con-
tenuti della coscienza, sull’immanenza del passato nel
presente per l’individuo, come per la razza e l’umanità,
sul costante confluire dei diversi tempi, sul fluido
amorfo dell’esperienza interiore, sulla mancanza di spon-
de lungo il fiume del tempo da cui l’anima è portata,
sulla relatività di spazio e tempo, cioè l’impossibilità di
distinguere e definire in quale mezzo il soggetto si
muova. In questa nuova concezione del tempo concor-
rono si può dire tutti i fili della trama che dà sostanza
all’arte moderna: l’abolizione del contenuto nell’arte, la
diseroicizzazione della letteratura, la distruzione della
psicologia nel romanzo, la «scrittura automatica» del
surrealismo e, soprattutto, la tecnica del montaggio e la
commistione di spazio e tempo nel film. Infatti il nuovo
concetto del tempo, il cui tratto fondamentale è la simul-
taneità e la cui essenza sta nella spazializzazione del
tempo, in nessun’altra forma si esprime con tanta effi-
cacia come in questa arte recentissima, coetanea della
concezione bergsoniana. La consonanza fra i mezzi tec-
nici del film e le caratteristiche del nuovo concetto del
tempo è cosí perfetta, che si è portati a pensare i modi
temporali dell’arte moderna come nati dallo spirito della
forma cinematografica e a vedere nel film la forma d’ar-
te tipica dell’attuale momento storico, anche se non la
piú valida sul piano estetico.

Storia dell’arte Einaudi 17


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

Sotto molti rapporti, il teatro è il mezzo artistico piú


simile al film; anzi, l’unico veramente simile, per l’u-
nione di forme spaziali e temporali ch’esso realizza. Ma
quel che si svolge sulla scena è in parte spaziale, in parte
temporale; di regola, anzi, si tratta di elementi spaziali
e temporali, ma non mai di elementi spazio-temporali,
come nel film. Il quale si distingue dalle altre arti essen-
zialmente perché nella sua visione del mondo spazio e
tempo si confondono: il primo assumendo un carattere
quasi temporale, il secondo un carattere in certo grado
spaziale. Nell’arte figurativa, come del resto anche sulla
scena, lo spazio è e rimane statico, immobile e immuta-
to, senza meta né direzione; noi siamo liberissimi di
muoverci in esso, perché è omogeneo in ogni sua parte
e nessuna presuppone temporalmente le altre. In questo
spazio le fasi del movimento non sono stadi, gradi suc-
cessivi di sviluppo, la loro progressione è del tutto libe-
ra. Il tempo della composizione letteraria – soprattutto
del dramma – ha invece una direzione determinata, una
linea di sviluppo, uno scopo obiettivo, indipendente
dall’esperienza temporale dello spettatore; non è un
semplice recipiente, ma una successione ordinata. Il
carattere e la funzione che spazio e tempo presentano
nel dramma mutano radicalmente nel film. Lo spazio
perde il suo carattere statico, la sua inerte passività per
farsi dinamico; nasce, per cosí dire, davanti ai nostri
occhi. È fluido, illimitato, aperto, un elemento che ha
la sua storia, i suoi momenti, le sue tappe, i suoi stadi
irripetibili. L’omogeneo spazio fisico assume cosí le
caratteristiche del tempo storico composto di elementi
eterogenei. Le singole fasi del movimento infatti non
sono piú della stessa specie, né le singole porzioni dello
spazio di ugual valore; certe posizioni vengono cosí ad
assumere una qualificazione particolare: alcune assumo-
no nello sviluppo dell’esperienza spaziale una certa prio-
rità, altre rappresentano il culmine dell’esperienza stes-

Storia dell’arte Einaudi 18


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

sa. Il primo piano, ad esempio, non ubbidisce soltanto


a criteri spaziali, ma rappresenta uno stadio da rag-
giungere e superare nel decorso del film. In un buon film
i primi piani non sono distribuiti a capriccio né arbitra-
riamente; non sono cioè indipendenti dall’intimo svi-
luppo della scena, né inseriti a casaccio, ma soltanto là
dove la loro energia virtuale può e deve esplicarsi. Infat-
ti un primo piano non è un taglio e un’inquadratura per
sé stante; è sempre soltanto parte di una scena piú
ampia, come quelle figure en repoussoir** che in un
dipinto barocco stanno in primo piano e introducono
nello spazio del quadro un movimento e un’instabilità
simile a quelli dei primi piani nella struttura spaziale del
film.
Ma come se nel film spazio e tempo fossero uniti
attraverso uno scambio reciproco di funzioni, all’attua-
lizzarsi e temporalizzarsi dello spazio corrisponde il
carattere quasi spaziale che assumono le relazioni tem-
porali, cioè una certa libertà nella successione dei loro
momenti. Nel tempo del film noi ci moviamo come di
solito ci avviene solo nello spazio, cioè liberissimi di
cambiar direzione: passiamo dall’una all’altra fase del
tempo, come da una stanza all’altra, separiamo i singo-
li stadi nello sviluppo degli eventi e li raggruppiamo su
per giú secondo criteri di ordine spaziale. In breve, il
tempo qui perde la sua ininterrotta continuità e la sua
direzione irreversibile. Si può fermarlo nei primi piani,
invertirlo nelle visioni retrospettive, recuperarlo nelle
immagini della memoria e saltarlo nelle visioni del futu-
ro. Fatti paralleli, simultanei, possono venir mostrati
l’un dopo l’altro, come possono apparire contemporanei
fatti distanti nel tempo, per mezzo della doppia esposi-
zione o del montaggio alterno; quel che è prima può
apparir dopo, e viceversa. Nella concezione del tempo
il film è affatto soggettivo e manifestamente eterodos-
so di fronte alla realtà empirica e al dramma. Nella

Storia dell’arte Einaudi 19


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

realtà empirica il tempo è un ordine uniformemente


progressivo, perfettamente continuo, assolutamente irre-
versibile, in cui gli avvenimenti si susseguono come «sul
trasportatore a nastro». Nel dramma veramente esso
non s’identifica affatto con quello empirico – di qui la
molesta impressione prodotta sulla scena da un orologio
che segna l’ora vera – e l’unità di tempo, prescritta dalla
drammaturgia classica, può persino essere interpretata
come radicale eliminazione del tempo reale; tuttavia le
relazioni temporali nel dramma hanno piú punti di con-
tatto con la cronologia della realtà empirica che il corso
del tempo nel film. Cosí nel dramma, o almeno duran-
te l’atto, è mantenuta l’ordinaria continuità temporale.
Gli avvenimenti si susseguono anche qui, come nella
vita, secondo la legge di una progressione che non
ammette né interruzioni, né salti, né ripetizioni, né
inversioni, e segue un ritmo assolutamente costante:
cioè entro le singole parti (atti o scene) non subisce
alcun acceleramento, ritardo o arresto. Nel film invece
non solo varia il tempo dell’evento, la velocità degli
avvenimenti che si susseguono, ma spesso lo stesso cri-
terio di misurazione, per l’uso dell’acceleratore o del ral-
lentatore, per la diversa lunghezza del taglio o il nume-
ro dei primi piani.
La logica della messa in scena proibisce al dramma-
turgo quella ripetizione di momenti e periodi, che nel
film è spesso la fonte del piú intenso effetto estetico. È
vero che sovente anche il dramma tratta retrospettiva-
mente parte della storia, risalendo all’antefatto; ma que-
sto per lo piú avviene in forma indiretta, sia facendone
un racconto continuo, sia inserendone allusioni qua e là
nel dramma. Ma la ripresa, nel corso di un’azione, di
momenti di sviluppo già superati e il loro diretto inse-
rimento nella continuità dell’evento attuale, nel pre-
sente drammatico, non è consentita dalla tecnica del
dramma, o meglio lo è soltanto ora, forse appunto per

Storia dell’arte Einaudi 20


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

influsso del film o della nuova concezione del tempo dif-


fusa dal romanzo moderno e acuita dal film. La mobi-
lità della macchina da presa è una possibilità tecnica che
senz’altro spinge il film alla trattazione discontinua del
tempo e gli fornisce agevolmente il mezzo di rendere piú
intensa una scena interpolandovi incidenti eterogenei, o
frammentando una stessa scena in parti diverse di una
pellicola. Cosí il film spesso ci fa l’effetto di una mano
che scorra piacevolmente su una tastiera, di qua e di là,
a destra e a sinistra. Sovente il film ci presenta l’eroe
come un giovane all’inizio della sua carriera, poi, risa-
lendo nel passato, come un bimbo; poi, nel procedere
dell’azione, lo rivediamo uomo maturo e, dopo aver
seguito per un certo tempo il corso della sua vita, finia-
mo col vederlo, dopo morte, redivivo nel ricordo di un
parente o di un amico. In questa discontinuità tempo-
rale lo sviluppo a ritroso del racconto si combina con
piena libertà, senz’alcun legame cronologico col suo pro-
cedere in avanti, e attraverso questi iterati rivolgimen-
ti del continuum temporale si intensifica al massimo
quella mobilità che è essenziale dell’esperienza cinema-
tografica. Ma una vera e propria spazializzazione del
tempo il film la raggiunge solo con la rappresentazione
simultanea di azioni parallele. Soltanto la percezione
della simultaneità di avvenimenti diversi, disgiunti nello
spazio, trasporta lo spettatore in uno stato ambiguo fra
spazio e tempo, che pretende ai caratteri di entrambi.
Dove le cose sono insieme vicine e lontane – vicine nel
tempo e lontane nello spazio – si realizza quel rapporto
spazio-temporale, quella bidimensionalità del tempo che
è il medium specifico del film e il principio fondamen-
tale della sua rappresentazione.
Relativamente presto ci si rese conto che la con-
temporaneità di due serie di avvenimenti è tema essen-
zialmente cinematografico. Da principio questa simul-
taneità era semplicemente indicata, e in modo affatto

Storia dell’arte Einaudi 21


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

meccanico, mediante la coincidenza di due orologi o con


accorgimenti analoghi; la tecnica dello svolgimento
alterno di due azioni distinte e del montaggio alterna-
to delle loro singole fasi si sviluppò soltanto a poco a
poco. Ma piú tardi ne troviamo esempi ad ogni passo.
E non importa se si tratti di due partiti, due rivali o due
sosia; la struttura del film è sempre dominata dall’in-
crocio e dall’intersezione delle linee d’azione, dalle due
facce dell’avvenimento e dalla simultaneità delle azio-
ni contrastanti. Il celebre finale dei primi film di Grif-
fith, oggi ormai classici, dove l’esito dell’azione incal-
zante dipende da chi arriva primo alla meta – il treno
o l’automobile, l’intrigante o la staffetta del re, l’as-
sassino o il salvatore – è diventato, con la sua tecnica,
a quel tempo rivoluzionaria, delle immagini che si alter-
nano di continuo accendendosi e spegnendosi in un
lampo, il paradigma dell’azione cinematografica in
situazioni analoghe.
L’odierna esperienza del tempo consiste soprattutto
nell’esser consapevoli dell’attimo in cui viviamo, nella
chiara coscienza del presente. Le cose attuali, contem-
poranee, connesse l’una all’altra in quest’ora presente,
possiedono per l’uomo odierno un senso e un valore
speciale e, alla luce di questa coscienza, il nudo fatto
della contemporaneità acquista ai suoi occhi un grande
significato. Il suo mondo spirituale è permeato dall’idea
dell’attualità e della contemporaneità, come il Medioe-
vo da quella della trascendenza e l’illuminismo da quel-
la dell’avvenire. Egli sente la grandezza delle sue città,
i prodigi della sua tecnica, la varia ricchezza del suo
mondo intellettuale, le segrete profondità della sua psi-
cologia nella contiguità, nella connessione, nell’intreccio
di cose e avvenimenti. Il fascino della simultaneità, la
scoperta che da un lato lo stesso uomo, nello stesso
istante, vive esperienze cosí diverse, indipendenti e
inconciliabili, e dall’altro diversi uomini in diversi luo-

Storia dell’arte Einaudi 22


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ghi spesso vivono la stessa esperienza, che in diversi


punti della terra, affatto isolati l’uno dall’altro, accade
nello stesso tempo la stessa cosa, questo universalismo
che la tecnica moderna ha rivelato all’uomo è forse la
vera origine della nuova concezione del tempo e della
tecnica saltuaria e discontinua con cui l’arte moderna
descrive la vita. Il carattere rapsodico del nuovo roman-
zo, che lo differenzia cosí nettamente da quello tradi-
zionale, è anche il suo tratto piú cinematografico. La
discontinuità dell’intreccio e della rappresentazione
delle singole scene, il sorgere improvviso di pensieri e di
stati d’animo, la relatività e l’incoerenza nella misura del
tempo è ciò che in Proust e in Joyce, in Dos Passos e in
Virginia Woolf ci ricorda i tagli, le dissolvenze e le
interpolazioni del film; ed è semplice magia cinemato-
grafica il modo con cui Proust raffigura due incidenti,
tra cui forse sono corsi trent’anni, piú vicini di altri in
realtà divisi soltanto da due ore. Come in Proust passa-
to e presente, sogno e meditazione si danno la mano al
di là del tempo e dello spazio, come la sensibilità,
seguendo sempre nuove tracce, erra nel tempo e nello
spazio e come in questo infinito e sconfinato fluire dei
rapporti svaniscono i limiti di spazio e di tempo, cosí
precisamente avviene in quella dimensione spazio-tem-
porale in cui si muove il film. Proust non fa cenno di
date o di età; noi non sappiamo mai bene quanti anni
abbia l’eroe del suo romanzo, e anche la cronologia degli
avvenimenti per lo piú rimane oscura. Esperienze e
vicende non si connettono in lui mediante la loro con-
tiguità temporale, e il tentativo di delimitarle e ordinarle
cronologicamente gli parrebbe tanto piú irragionevole in
quanto, per lui, ogni uomo ha le sue esperienze tipiche,
periodicamente ripetute. Fanciullo, giovine, adulto, in
fondo egli vive sempre la stessa esperienza; il senso di
un incidente spesso gli si scopre soltanto molti anni
dopo ch’egli lo ha vissuto e sofferto; ma egli non può

Storia dell’arte Einaudi 23


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

distinguere i sedimenti degli anni trascorsi da quel che


porta l’ora attuale. Non si è forse in ogni istante della
vita lo stesso fanciullo, lo stesso malato, lo stesso soli-
tario straniero dai nervi vigili, sensibili, inquieti? Non
si è forse in ogni caso della vita l’uomo capace di que-
sta o di quella esperienza e che nel ripetersi degli ele-
menti tipici delle proprie esperienze possiede l’unica
protezione contro il tempo che passa? Non si svolgono
forse tutte le nostre esperienze contemporaneamente?
E questa simultaneità non è proprio la negazione del
tempo? E non è questa una lotta per recuperare quel
mondo interiore che va perduto nello spazio e nel
tempo?
Anche Joyce non fa che lottare per ricuperare questa
inferiorità e l’immediatezza delle esperienze, quando al
pari di Proust lascia che il tempo rompa gli argini in cui
scorre ordinato e sommerga ogni punto fisso. Anche in
lui l’ordine cronologico delle esperienze cede alla com-
mutabilità dei contenuti della coscienza. Anche in lui il
tempo è un percorso senza direzione fissa, lungo il quale
ci si sposta qua e là. Ma egli va oltre lo stesso Proust
nella spazializzazione del tempo e ci presenta gli avve-
nimenti interiori non solo in sezione longitudinale, ma
anche trasversale. Immagini, idee, fantasie, ricordi gli si
presentano assolutamente improvvisi e in contiguità
immediata; della loro origine quasi non si tiene conto,
contiguità e simultaneità sono gli unici aspetti su cui si
insista. La traduzione del tempo nello spazio in Joyce va
tant’oltre che, conoscendo anche approssimativamente
l’insieme dell’Ulysses – e non solo, come è stato detto,
dopo una prima lettura – se ne può intraprendere la let-
tura da dove si vuole e leggere i singoli capitoli nell’or-
dine che si preferisce. Il lettore ne ritrae un’impressio-
ne essenzialmente spaziale, poiché il romanzo non
descrive soltanto l’aspetto di una metropoli, ma in certo
modo ne adotta la struttura, la rete di vie e piazze in cui

Storia dell’arte Einaudi 24


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

si va gironzolando senza meta, e il vagabondaggio fini-


sce dove e quando si vuole. È chiaramente indicativo del
carattere cinematografico di questa tecnica che Joyce
non abbia scritto i capitoli del suo romanzo seguendo
quella che sarebbe stata la loro successione definitiva,
ma – come suole accadere nella lavorazione dei film –
l’abbia fatto prescindendo dal procedere della trama ed
abbia atteso a piú capitoli insieme.
La concezione bergsoniana del tempo, caratteristica
del film, si ritrova, se pur non sempre cosí evidente, in
tutti i generi e in tutte le correnti dell’arte odierna. La
simultanéité des états d’âme*** è l’esperienza fonda-
mentale comune alle varie correnti della pittura moder-
na, al futurismo italiano e all’espressionismo di Chagall,
al cubismo di Picasso e al surrealismo di Giorgio de
Chirico. Bergson scoperse il contrappunto dei processi
psichici e la struttura musicale dei loro nessi. Come nel-
l’audizione musicale noi percepiamo il rapporto fra ogni
nota e tutte le precedenti, così, nelle esperienze piú
profonde e vitali, noi realizziamo sempre tutto quello
che abbiamo esperimentato e assimilato nel corso della
nostra vita. Quando comprendiamo noi stessi, leggiamo
nella nostra anima come in uno spartito; sciogliamo il
groviglio caotico dei suoni traendone una ingegnosa
polifonia. Ogni arte è un gioco con il caos; essa gli si
avvicina sempre piú pericolosamente e gli sottrae regio-
ni psichiche sempre piú vaste. Se c’è un progresso nella
storia dell’arte, è appunto questa crescente conquista nei
domini del caos. Con la sua analisi del tempo, il film
s’inserisce in questo processo; sono ormai traducibili in
immagini visive esperienze che prima si potevano espri-
mere solo in forma musicale. Ma l’artista che dovrebbe
riempire di vita effettiva questa possibilità, questa forma
ancor vuota, non è ancora venuto.
La crisi del film, che sembra svilupparsi in malattia
cronica, dipende anzitutto dal fatto che esso non trova

Storia dell’arte Einaudi 25


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

i suoi poeti, o, per meglio dire, i poeti non trovano la


via del film. Avvezzi all’assoluta libertà fra le loro quat-
tro pareti, essi ora dovrebbero tener conto di produtto-
ri, direttori, registi, soggettisti, operatori, architetti e
tecnici d’ogni specie, senza che lo spirito di tale coope-
razione, anzi l’idea di una produzione artistica in comu-
ne, abbia ancora raggiunto ai loro occhi l’importanza che
sarebbe necessaria. Si ribellano al pensiero che la crea-
zione di un’opera d’arte venga affidata a un organismo
collettivo, a un’«azienda»; e considerano umiliante per
l’arte che in decisioni, di cui spesso non si può dar ragio-
ne neppure a se stessi, abbia a prevalere un’imposizio-
ne estranea o, nel caso migliore, una maggioranza. Essi
dovrebbero adattarsi a una condizione, dal punto di
vista dell’Ottocento, affatto insolita e innaturale. Gli
sforzi dispersi e incontrollati dell’arte moderna urtano
qui per la prima volta contro un principio che è l’oppo-
sto della loro anarchia. Infatti una produzione artistica
fondata sulla collaborazione già di per sé rivela una ten-
denza all’integrazione, di cui – a prescindere dal teatro,
dove tuttavia si tratta di riprodurre, non di produrre
opere d’arte – non c’erano piú stati esempi validi dopo
i cantieri del Medioevo. E quanto lontana sia ancora la
produzione dei film da una vera comunità di lavoro arti-
stico, lo mostra non solo l’incapacità della maggior parte
degli scrittori di accordarsi con il cinematografo, ma
anche un fenomeno come Chaplin, che nei suoi film
crede di dover fare da sé quanto piú è possibile: la parte
del protagonista, la regia, il soggetto, la musica. Ma se
anche fossimo soltanto all’inizio dell’organizzazione, se
tutto ciò non fosse che la cornice per ora ancora vuota
di un nuovo metodo d’integrazione, tuttavia anche qui,
come in tutta la vita economica, sociale e politica di
oggi, si tende a organizzare, senza di che il nostro
mondo materiale e intellettuale rischia di andar in pezzi.
Anche in questo campo si tratta della stessa antitesi che

Storia dell’arte Einaudi 26


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

dappertutto ricorre nella vita sociale del nostro tempo:


democrazia e dittatura, differenziazione e integrazione,
razionalismo e irrazionalismo cozzano aspramente l’uno
contro l’altro. Ma se già in campo economico e politico
una pianificazione non sempre può risolversi con la sem-
plice imposizione di criteri ordinatori, tanto meno ciò
può avvenire in campo artistico, dove ogni violenza alla
spontaneità, ogni forzato livellamento del gusto, ogni
regolamento istituzionale dell’iniziativa del singolo com-
porta pericoli gravi, se pur non proprio mortali come
abitualmente si crede.
Ma in un tempo di estrema differenziazione e di raf-
finatissimo individualismo come si dovrà procedere per
armonizzare e integrare gli sforzi individuali? Come, in
pratica, rimediare al fatto che i film tecnicamente piú
riusciti spesso si fondano su miserrime invenzioni lette-
rarie? Non si tratta della semplice contrapposizione di
registi incapaci e capaci scrittori, ma di due fenomeni
non contemporanei: il poeta solitario, isolato, autonomo
e i problemi del film che si possono risolvere solo col-
lettivamente. L’apparato collettivo della produzione
cinematografica anticipa una tecnica sociale di cui non
siamo ancora esperti, come a suo tempo l’invenzione
della macchina fotografica anticipava una tecnica arti-
stica che allora nessuno sapeva bene come impiegare. Si
è proposto, per superare la crisi del cinematografo, di
riunire nuovamente le funzioni divise e, anzitutto, di
affidare a un’unica persona i compiti del regista e del
soggettista; ma si sfuggirebbe al problema, piú che risol-
verlo, opponendosi alla soverchiante specializzazione
senza abolirla, e, invece d’introdurre l’organizzazione
auspicata, se ne eluderebbe la necessità. Del resto il
principio monistico-individualistico nell’espletamento
delle funzioni, in luogo di una divisione del lavoro orga-
nizzato collettivamente, non solo risponde esteriormente
e tecnicamente ai metodi del lavoro dilettantesco, ma

Storia dell’arte Einaudi 27


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

implica una mancanza d’intima tensione che ricorda la


semplicità dei film di dilettanti. O invece si deve con-
siderare tutto lo slancio verso una produzione artistica
fondata sull’organizzazione come un turbamento tem-
poraneo, un semplice episodio, destinato ad essere spaz-
zato via dall’impetuosa corrente dell’individualismo? E
il film sarebbe, non già l’inizio di una nuova era per l’ar-
te, ma solo la prosecuzione un po’ esitante della vecchia
cultura ancor sempre vitale? di quella cultura indivi-
dualistica cui si deve tutta l’arte posteriore al Medioe-
vo? Solo in questo caso si potrebbe risolvere la crisi del
cinematografo affidando a un solo individuo certe fun-
zioni, quindi abbandonando il criterio del lavoro collet-
tivo.
Ma la crisi del cinematografo si collega con una crisi
del pubblico. I milioni e milioni di spettatori che ogni
giorno, ogni ora riempiono le mille e mille sale del globo,
da Hollywood a Sciangai, da Stoccolma a Città del
Capo, l’unica lega che comprenda gli uomini di tutto il
mondo, hanno una composizione sociale assai confusa.
Nulla unisce questi uomini, se non il fatto di riversarsi
nei cinematografi, fluendo e rifluendo come corrente
amorfa; rimangono massa eterogenea, inarticolata, infor-
me, indefinita, con la sola caratteristica, negativa, di
rappresentare un insieme in cui si confondono tutte le
categorie sociali, senza che affiori alcun ceto organico e
chiaramente distinto per classe o per cultura. Questa
massa non è un «pubblico» in senso proprio, poiché tale
può essere designato soltanto un gruppo piú o meno
costante di frequentatori, capace di assicurare in certa
misura la continuità di una produzione artistica. In ogni
tempo, un vero pubblico si forma dove c’è una possibi-
lità di reciproca comprensione; se all’interno di esso le
opinioni non sempre concordano, le divergenze tuttavia
si verificano su un piano comune. Ma fra le masse dei
cinematografi, non legate da una comune preparazione

Storia dell’arte Einaudi 28


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

intellettuale, è inutile cercare simile possibilità. Se un


film non le soddisfa, e cosí poco probabile che riescano
a intendersi sui motivi del rifiuto, da far presumere che
anche il generale consenso si fondi su un malinteso.
Quei gruppi omogenei e costanti di pubblico che in
passato, come intermediari fra gli artisti e il pubblico
profano, avevano esercitato un’azione all’ingrosso con-
servatrice, furono, com’è noto, dispersi col progressivo
democratizzarsi del godimento artistico. Il pubblico bor-
ghese degli abbonati ai teatri statali e comunali del seco-
lo scorso costituiva un corpo piú o meno omogeneo,
organicamente sviluppato; ma la fine del teatro di reper-
torio ne disperse anche l’ultimo residuo e da allora si
ebbe solo un uditorio occasionale, sebbene in certi casi
piú folto che mai. In generale era quindi identico al pub-
blico dei cinematografi, che dev’essere sempre ricon-
quistato, e ogni volta con nuove, insolite attrazioni. Il
teatro di repertorio a spettacolo quotidiano, quello degli
spettacoli in serie e il cinematografo sono stadi succes-
sivi della democratizzazione dell’arte e della graduale
perdita di quella solennità che finora era stata, in grado
maggiore o minore, tipica di ogni forma teatrale. L’ul-
timo passo su questa via della profanazione lo compie il
cinematografo. Infatti tuttora un teatro di città grande,
con un qualsiasi spettacolo di successo, esige dal pub-
blico una certa preparazione intima ed esteriore – per lo
piú occorre procurarsi il biglietto in precedenza, atte-
nersi a un’ora precisa, prepararsi ad aver tutta la sera
occupata –, al cinematografo invece si va all’ultimo
momento, col vestito di tutti i giorni, e alla rappresen-
tazione continua si accede in ogni momento. Il tono quo-
tidiano del film in certa misura corrisponde al modo
improvvisato e senza pretese con cui lo spettatore si reca
a vederlo.
Dagli inizi della nostra civiltà, cosí portata all’indi-
vidualismo, è questo il primo tentativo di un’arte per un

Storia dell’arte Einaudi 29


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

pubblico di massa. La democratizzazione dell’arte, che,


culmina con questa affluenza delle masse al cinemato-
grafo, era veramente cominciata, come sappiamo, con
quella trasformazione della composizione, sociale del
pubblico che al principio del secolo scorso aveva accom-
pagnato il sorgere del dramma da boulevard e del roman-
zo d’appendice. I successivi passaggi dal teatro privato
delle corti principesche al teatro statale e comunale e poi
alle imprese private, dall’opera all’operetta e alla rivista,
rappresentano le singole fasi di uno sviluppo in cui la
preoccupazione maggiore e quella di attirare masse sem-
pre piú vaste, per coprire le spese di sempre maggiori
investimenti. La messa in scena di un’operetta poteva
essere ancora sostenuta coi mezzi di un teatro di media
grandezza, ma una rivista o un grande balletto doveva
già passare per varie grandi città prima di rifondere le
spese dell’impresario; al finanziamento, di un grande
film debbono contribuire gli spettatori di tutto il
mondo. Ma in questo modo l’influsso delle masse sulla
produzione artistica diventa decisivo. La loro semplice
presenza agli spettacoli ateniesi o medievali non era mai
valsa a imporre direttamente all’arte una via piuttosto
che un’altra, e solo quando esse pagano integralmente il
prezzo del loro divertimento le condizioni ch’esse
impongono per sborsare il loro danaro possono diventare
un fattore decisivo anche per l’arte.
Qualità e popolarità dell’arte sono sempre state in un
rapporto difficile. Il che non vuol dire affatto che i ceti
popolari abbiano favorito per principio l’arte deteriore.
Un’arte ricca e sottile è per loro, naturalmente, piú dif-
ficile di un’arte semplice e poco evoluta; ma il difetto
di adeguata comprensione non vieta in modo assoluto
ch’essi l’accettino – sebbene non proprio per il suo valo-
re estetico. Il successo è per loro determinato da crite-
ri estranei alla qualità. La loro reazione non si basa sul
pregio artistico ma sull’impressione per cui si sentono

Storia dell’arte Einaudi 30


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

appagati o turbati nel loro ambito personale. È natura-


le che siano sensibili anche al pregio artistico, quando
venga loro presentato in un modo adeguato, cioè attra-
verso un tema che sappia attrarle. Quindi le probabilità
di successo di un buon film superano senz’altro quelle
di un buon quadro o di una buona poesia. Infatti, all’in-
fuori del film, oggi l’arte d’avanguardia è press’a poco
inaccessibile ai non iniziati; è essenzialmente impopola-
re, perché i suoi mezzi di espressione, nel corso di un
lungo, serrato processo, si sono trasformati in una spe-
cie di lingua occulta. Invece anche il piú rozzo pubbli-
co ha potuto apprendere agevolmente il linguaggio del
cinematografo in via di formazione. Verrebbe fatto di
trarne ottimi auspici per il film, se non si sapesse che
questa intesa non è che la conseguenza di una sorta di
paradisiaca puerizia e si ripete ogni volta che sorge
un’arte nuova. Forse già la prossima generazione non
capirà piú tutti i mezzi espressivi del film e certo prima
o poi si produrrà anche qui la frattura tra iniziati e pro-
fani. Popolare può essere soltanto un’arte giovane, poi-
ché ogni arte matura richiede per essere compresa la
conoscenza degli stadi anteriori, ormai superati, del suo
sviluppo. Comprendere un’arte significa penetrare a
fondo la rispondenza in essa di elementi formali e con-
tenutistici; finché un’arte è giovane, è naturale e chia-
ro il legame fra i suoi temi e il suo linguaggio, dal sog-
getto alla forma si giunge per via diretta. Col tempo le
forme si sciolgono dalla materia e si fanno autonome, si
svuotano via via e infine restano accessibili soltanto a un
esiguo ceto colto. Nel film questo processo di emanci-
pazione delle forme è appena incominciato, e la maggior
parte dei frequentatori del cinematografo appartiene
ancora a quella generazione che lo ha visto sorgere, ed
è stata testimone della fase di immediata espressività
delle sue forme. Ma il processo di distacco è già in corso
e lo si coglie nella rinunzia della produzione odierna alla

Storia dell’arte Einaudi 31


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

maggior parte dei mezzi cosiddetti «cinematografici».


Gli effetti già cosí amati, che si ottenevano con gli spo-
stamenti e le manovre della macchina, con i mutamen-
ti delle distanze e dei ritmi, con i trucchi del montaggio
e della copia, con i primi piani e le vedute panoramiche,
le inserzioni e i flash-back, le aperture e le chiusure a
iride, le dissolvenze, tutto questo appare oggi ricercato
e innaturale, perché registi e operatori, obbedendo alle
esigenze di una seconda generazione già meno pronta ad
intendere il linguaggio cinematografico, badano al rac-
conto chiaro, piano e avvincente e credono di poter
imparare dai maestri della pièce bien faite piú che da
quelli del film muto.
È inconcepibile che allo stadio odierno dell’evolu-
zione un’arte possa ricominciare da capo, anche se si
vale di mezzi affatto nuovi, come il cinematografo. Il
soggetto piú semplice viene pur sempre da lontano e
conserva certe formule epiche e drammatiche della pre-
cedente letteratura. Il film, che per lo piú si rivolge a un
pubblico piccolo-borghese, prende a prestito le sue for-
mule dalla letteratura amena della borghesia e intrattie-
ne gli spettatori di oggi con gli effetti del teatro di ieri.
La produzione cinematografica deve i maggiori succes-
si al fatto che la psicologia delle masse si adegua alla psi-
cologia del piccolo borghese. Il tipo piccolo-borghese
come categoria psicologico-sociale ha un’estensione assai
maggiore del ceto medio inteso in senso puramente
sociologico; esso comprende in numero notevole ele-
menti delle classi superiori e inferiori che, in tutti quei
casi in cui non sono direttamente vincolati dalle esigenze
della lotta per la vita, e anzitutto nei loro divertimenti,
aderiscono senza riserve ai ceti medi. Il pubblico del film
è il prodotto di questo livellamento; e il film, se vuol
essere redditizio, deve appoggiarsi soprattutto a questo
ceto che è il termine di confronto del livellamento intel-
lettuale. Il ceto medio è sempre stato ondeggiante «fra

Storia dell’arte Einaudi 32


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

le classi», ma specialmente da quando è sorto il «nuovo


ceto medio» con il suo esercito di impiegati, piccoli fun-
zionari privati e pubblici, commessi viaggiatori e giova-
ni di negozio; ed è sempre stato utilizzato per superare
nella misura del possibile i contrasti sociali26. Esso si è
sempre sentito minacciato dall’alto e dal basso, ma ha
rinunziato ai suoi reali interessi piuttosto che alle sue
speranze e alle sue prospettive immaginarie. Ha voluto
essere accomunato alla borghesia dirigente, benché in
realtà dividesse la sorte dei ceti inferiori. Ma senza una
chiara e netta posizione sociale non vi può essere una
coscienza unitaria né un coerente modo di pensare; e la
produzione cinematografica ha potuto tranquillamente
affidarsi al disorientamento di questi spostati. Uno sven-
tato ottimismo privo di senso critico caratterizza l’at-
teggiamento del ceto medio. Esso crede che i contrasti
sociali non abbiano poi grande importanza e quindi vuol
vedere film in cui facilmente si passa da un ceto all’al-
tro. Il cinematografo soddisfa pienamente il suo roman-
ticismo sociale, che nella vita viene sempre frustrato, e
al quale le biblioteche circolanti non forniscono mai
un’illusione cosí completa come quella del film. «Cia-
scuno è l’artefice della sua fortuna»: ecco il suo massi-
mo articolo di fede, e l’elevarsi del singolo nella società
è il tema fondamentale dei sogni che lo lusingano al cine-
matografo. Will Hays, l’antico «zar del film», lo sape-
va cosí bene che, nelle sue prescrizioni per l’industria
cinematografica americana, suggeriva fra l’altro di
«mostrare la vita delle classi superiori».
La fotografia in movimento poté assurgere ad arte
cinematografica grazie a due conquiste: l’invenzione del
primo piano, attribuita al regista americano D. W. Grif-
fith; e un nuovo metodo, trovato dai russi, d’interpola-
zione delle immagini, il cosiddetto taglio corto. Vera-
mente, l’interruzione frequente della continuità di una
scena non è invenzione dei russi; questo sistema, che è

Storia dell’arte Einaudi 33


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

poi un mezzo per suggerire l’eccitazione e accelerare


drammaticamente il ritmo, era già da gran tempo noto
agli americani; la novità dei russi fu di usare, nel taglio
corto, soltanto primi piani – rinunziando cioè a intro-
durre vedute complessive d’orientamento – e di abbre-
viare fino ai limiti del percettibile le singole immagini
del montaggio. Cosí i russi, per esprimere stati d’animo
ondeggianti, ritmi nervosi e velocità vertiginose, riusci-
rono a trovare un particolare stile espressionistico che
permise effetti completamente nuovi, irraggiungibili in
ogni altra arte. Ma l’elemento rivoluzionario di questa
tecnica di montaggio non consisteva propriamente nella
brevità del taglio, nella velocità e nel ritmo con cui si
avvicendano le immagini, e neppure in un ampliamen-
to degli effetti possibili al film; ma nel fatto che in que-
sto modo venivano a contrapporsi non piú fenomeni di
un mondo obiettivo omogeneo, ma elementi di una
realtà del tutto eterogenea. Cosí Ejzen∫tejn ne L’incro-
ciatore Potëmkin realizza, ad esempio, questa sequenza:
uomini in affannoso lavoro, sala macchine dell’incro-
ciatore; mani precipitose, ruote in movimento; facce
stravolte per lo sforzo, pressione massima nei manome-
tri; un torace grondante di sudore, una caldaia rovente;
un braccio, una ruota; una ruota, un braccio; macchina,
uomo; macchina, uomo; macchina, uomo. Due realtà
affatto diverse, una psichica e una materiale, vengono
qui collegate, e non solo collegate, ma identificate, anzi
l’una si sviluppa dall’altra. Un passaggio cosí cosciente
e premeditato da un ordine all’altro presuppone tutta-
via una visione del mondo che nega l’autonomia delle
singole sfere della vita, come fa anche il surrealismo, e
come ha fatto fin dal principio il materialismo storico.
Che non si tratti qui semplicemente di similitudini,
ma di identificazioni, e che il confronto delle diverse
sfere non sia puramente metaforico, risulta anche piú
chiaro quando il montaggio non mostra piú due feno-

Storia dell’arte Einaudi 34


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

meni collegati, ma soltanto uno di essi, e non quello che


logicamente ci si aspetterebbe, ma il sostituto. Cosí
Pudovkin nella Fine di Pietroburgo, per indicare il regi-
me borghese vacillante, mostra una lumiera di cristallo
che trema; invece della gerarchia burocratica, con le sue
mille istanze e l’irraggiungibile sommità, mostra una
scala ripida, interminabile, con una piccola figura umana
che sale faticosamente. In Ottobre di Ejzen∫tein il cre-
puscolo degli zar è rappresentato mediante cupe statue
equestri su piedistalli inclinati, tentennanti statue di
Budda usate come ninnoli e idoli negri fracassati. In
Sciopero le esecuzioni capitali sono sostituite da scene di
mattatoio. Dovunque in questi casi al posto delle idee
ci sono cose, cose che svelano la natura ideologica delle
idee. Mai una situazione storico-sociale ha trovato
espressione artistica piú diretta di quella che la crisi del
capitalismo e la filosofia marxistica della storia ha tro-
vato in questa tecnica del montaggio. In questi film una
figura acefala, col petto coperto di decorazioni, serve ad
esprimere l’automatismo dell’apparato militaresco; sti-
vali militari, nuovi e solidi, esprimono la cieca, brutale
potenza dell’esercito. Cosí nel Potëmkin, invece dei
cosacchi alla carica, rivediamo sempre quegli stivali
pesanti, indistruttibili e inesorabili. Buoni stivali sono
la premessa di un’efficiente, forza militare; ecco il senso
di questo montaggio pars pro toto, come l’esempio pre-
cedente tratto dal Potëmkin significava che la massa vit-
toriosa non è che l’incarnazione della macchina trion-
fante. L’uomo con le sue idee, la sua fede, la sua spe-
ranza non è che una funzione del mondo materiale che
lo circonda; la dottrina del materialismo storico diven-
ta nel film russo un principio formale. In ogni modo non
si deve scordare quanto ad essa si attagli il cinemato-
grafo, specialmente con la tecnica del primo piano, che
indubbiamente favorisce la descrizione delle esigenze
materiali, dando ad esse valore di moventi. Non è certo

Storia dell’arte Einaudi 35


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

ingiustificato domandarsi se tutta questa tecnica che


porta alla ribalta la necessità materiale non sia anch’es-
sa un prodotto del materialismo. Poiché non sarà pura
coincidenza che il film sia creatura di quello stesso perio-
do storico che ha svelato le basi ideologiche del pensie-
ro, e che proprio i russi siano diventati i primi classici
di quest’arte.
I registi di tutto il mondo adottarono le formule del
film russo, indipendentemente dalle differenze nazionali
e ideologiche, confermando cosí che non appena in
un’arte il processo di trasformazione da materia a forma
si è compiuto, la forma può essere ripresa da altri e
impiegata come una pura tecnica, staccata dal sostrato
ideologico da cui è nata. In questo affrancarsi delle
forme è la radice del paradosso dell’arte, che è insieme
storica e fuor del tempo, a cui Marx accenna nella Cri-
tica dell’economia politica, con la sua osservazione su
Omero: «È conciliabile Achille con la polvere pirica e il
piombo?» egli domanda: «o l’Iliade in genere con il tor-
chio e la rotativa? Non è necessario che il canto, il mito
e la Musa spariscano al sopravvenire della stampa e cioè
non vengono meno le condizioni necessarie alla poesia
epica? Ma il problema non è che l’arte e l’epos greco
siano legati a certe forme sociali, ma piuttosto ch’essi ci
diano ancora un godimento estetico e per qualche aspet-
to valgano come norma e impareggiabile modello». Le
opere di Ejzen∫tejn e Pudovkin sono per cosí dire l’epos
eroico dell’arte cinematografica; che, anche indipen-
dentemente dalle condizioni sociali che ne permisero il
sorgere, esse valgano come modelli, non meraviglia piú
del fatto che ci venga tuttora da Omero il piú alto godi-
mento estetico.
Il film è la sola arte in cui la Russia sovietica abbia
dato cose notevoli. L’affinità fra il giovane stato comu-
nista e la nuova forma espressiva è evidente. Sono
entrambi fenomeni rivoluzionari, che percorrono strade

Storia dell’arte Einaudi 36


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

nuove, che non hanno alcun passato storico, né tradi-


zioni che li vincolino o inceppino con gli schemi della
cultura e dell’abitudine. Il film è una forma ancora ela-
stica, malleabile, non ancor logora, che all’espressione
della nuova idea non oppone alcuna intima resistenza.
È un linguaggio ingenuo, popolare, che si rivolge diret-
tamente alle masse, uno strumento ideale di propagan-
da, di cui Lenin riconobbe subito il valore. In quanto
forma di divertimento del tutto nuova, non pregiudica-
ta dal passato, fin dal principio apparve come del mas-
simo interesse per la politica culturale comunista e subi-
to si comprese quanto fosse accessibile quel suo modo
di presentare le cose come un libro illustrato e quali
immense possibilità offrisse per rendere concrete le idee
che si volevano diffondere: insomma parve fatto appo-
sta per un’arte rivoluzionaria. E tanto meglio risponde-
va alle funzioni assegnategli in quanto si trattava di
un’arte permeata di tecnicismo. La macchina è la sua ori-
gine, il suo mezzo, il suo soggetto piú adeguato. I film
vengono «fabbricati» e rimangono legati all’apparec-
chio, alla macchina, in senso piú stretto che non i pro-
dotti delle altre arti. La macchina nel cinema entra dap-
pertutto, si interpone tra il creatore e l’opera sua, come
tra lo spettatore e il suo godimento estetico. Dinamismo,
macchinismo, movimento automatico sono i fenomeni
primi del film. Il correre e lo scorrere, il viaggio e il volo,
la fuga e l’inseguimento, il dominio delle distanze sono
motivi cinematografici per eccellenza. Il film non è mai
tanto schietto come quando rappresenta il movimento,
la velocità, il ritmo. I prodigi e i brutti tiri di strumen-
ti, apparecchi, distributori automatici, veicoli sono fra
i suoi temi piú antichi ed efficaci. La vecchia «comica»
esprimeva ora ingenua meraviglia, ora arrogante disprez-
zo per la tecnica, ma per lo piú era una satira dell’uomo
preso fra gli ingranaggi di un mondo meccanizzato. Il
film è anzitutto «fotografia» e già come tale è un’arte

Storia dell’arte Einaudi 37


Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

d’origine meccanica fondata sulla riproduzione27, un’ar-


te popolare insomma, schiettamente «democratica»,
perché riproducibile a buon mercato. È comprensibilis-
simo che fin dagli inizi incontrasse il favore del bolsce-
vismo, fin da allora interessato alla tecnica, incline a
un’esaltazione romantica della macchina e al feticismo
della tecnica, tutto volto all’efficienza e alla produtti-
vità. Ed è altrettanto comprensibile che russi e ameri-
cani, i due popoli piú fortemente orientati verso la tec-
nica, siano stati compagni e rivali nello sviluppo di que-
st’arte. Ma il film non si accordava soltanto con il loro
tecnicismo, ma anche con la loro passione per l’autenti-
cità del documento. Tutte le opere piú notevoli del cine-
matografo russo sono in certa misura documentari, testi-
monianze storiche del processo di edificazione della
nuova Russia; e ciò che v’è di meglio nel cinema ameri-
cano è documento della vita quotidiana in America, del
meccanismo economico e amministrativo delle città di
grattacieli e delle fattorie del Middle-West, della poli-
zia e della malavita. Infatti un film è tanto piú cinema-
tografico quanto piú alla sua realtà contribuiscono fatti
extraumani, materiali, cioè quanto piú stretto in questa
realtà è il rapporto fra uomo e mondo, persona e ambien-
te, fine e mezzi.
Questa tendenza verso ciò che è positivo e autenti-
co, questo amore del «documento», sono tuttavia mani-
festazioni non solo dell’odierna fame di realtà, ora piú
grande che mai, ma anche del rifiuto delle tendenze
artistiche ottocentesche e soprattutto dell’intreccio ben
costruito e dell’eroe individuale con la sua complessa psi-
cologia. Ma questa tendenza, a cui nel documentario va
unito il rifiuto degli attori di professione, non significa
solo l’aspirazione, ben nota nella storia dell’arte, a
mostrare la realtà senz’artificio, la verità senza belletto,
i fatti genuini, cioè la vita «cosí com’è»; ma spesso
anche un rifiuto dell’arte in genere. La posizione del-

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l’esteta pare assai compromessa ai nostri giorni. Il docu-


mentario, la fotografia, la cronaca, il romanzo giornali-
stico, non sono piú arte come si intendeva un tempo. Fra
gli autori di questi nuovi generi, proprio i piú intelligenti
e i piú dotati non vogliono affatto che le loro produzioni
vengano qualificate «opere d’arte»; anzi, pensano che
l’arte sia sempre stata un prodotto secondario e sia nata
come strumento dell’ideologia.
E un puro strumento la si considera nella Russia
sovietica. Naturalmente questo utilitarismo è anzitutto
determinato dal bisogno di porre ogni mezzo al servizio
della ricostruzione comunista e di estirpare l’estetismo
della cultura borghese che, con l’art pour l’art, con la sua
posizione contemplativa e quietistica, rappresenta il piú
gran pericolo per la rivoluzione sociale. Proprio la
coscienza di questo pericolo impedisce agli esponenti
della politica culturale bolscevica di rendere giustizia
all’evoluzione artistica degli ultimi cento anni; e, proprio
perché la rinnegano, le loro vedute in fatto d’arte son
cosí antiquate. In questo campo essi vorrebbero torna-
re ai tempi di Luigi Filippo; e non solo per il romanzo
hanno in mente il realismo della metà dell’Ottocento,
ma lo esigono anche nelle altre arti, specialmente nella
pittura. Naturalmente in un sistema di generale pianifi-
cazione e nel bel mezzo di una lotta per l’esistenza, non
si può lasciar l’arte al suo destino. Ma ogni intervento
è pericoloso, proprio per il fine che ci si propone: come
strumento di propaganda, è inevitabile che l’arte perda
molto del proprio valore, anche come semplice mezzo di
propaganda.
È vero che molti capolavori son nati in regime di
assolutismo e dittatura, e che nell’antico Oriente l’arte
era soggetta ai desideri di uno spietato dispotismo, nel
Medioevo, alle esigenze di una rigida cultura autorita-
ria. Ma coazione e censura hanno nei diversi periodi sto-
rici significato ed effetto diversi. La situazione di oggi

Storia dell’arte Einaudi 39


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differisce dalle precedenti anzitutto perché noi veniamo


dopo la Rivoluzione francese e il liberalismo ottocente-
sco, e di liberalismo è permeato ogni nostro pensiero,
ogni nostro impulso. Si potrebbe addurre che anche il
cristianesimo dovette distruggere una cultura evoluta e
relativamente libera, e che l’arte medievale prese le
mosse da modestissimi inizi; ma non si deve dimentica-
re che l’arte paleocristiana cominciò veramente quasi
«da principio», mentre l’arte sovietica muove da uno
stile storicamente già molto evoluto, sebbene oggi assai
arretrato. Ma se anche si volesse ammettere che i sacri-
fici richiesti sono il prezzo di un nuovo «gotico», nulla
ci garantisce che questo «gotico» non tornerà a svilup-
parsi, proprio come nel Medioevo, come arte esclusiva
di un ceto culturale relativamente esiguo.
Il compito attuale non è quello di adeguare l’arte alla
ristrettezza mentale delle masse odierne, ma quello di
allargare per quanto è possibile il loro orizzonte. La via
che conduce a una vera comprensione dell’arte passa per
la cultura. Non la forzata semplificazione dell’arte, ma
l’educazione del giudizio estetico è il mezzo per evitare
ch’essa sia continuamente monopolizzata da un’infima
minoranza. La gran difficoltà, qui come in ogni altro set-
tore della politica culturale, è che ogni arbitraria inter-
ruzione dello sviluppo elude il problema, in quanto crea
una situazione in cui esso difficilmente tornerà a pro-
porsi e ne differisce quindi la soluzione. Oggi non c’è
alcuna possibilità per un’arte che sia primitiva e nello
stesso tempo valida. Un’arte simile non potrà mai esse-
re goduta e intesa da tutti; è però possibile renderne piú
ampia e profonda la comprensione presso larghe masse
di pubblico. Un’azione di allentamento del monopolio
culturale richiede adeguate condizioni economiche e
sociali. Noi non possiamo far altro che batterci per il
costituirsi di queste.

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte

1
hermann keyserling, Die neuentstehende Welt, 1926. - james
burnham, The Managerial Revolution, 1941.
2
m. j. bonn, The American Experiment, 1933, p. 285.
3
josé ortega y gasset, La Rebelion de las Masas, 1930.
4
ernst troeltsch, Die Revolution in der Wissenschaft, in Gesam-
melte Schriften, IV, 1925, p. 676.
5
henri massis, La Défense de l’Occident, 1927.
6
hermann hesse, Blick ins Chaos 1923.
7
andré malraux, Psychologie de l’art, 1947.
8
andré breton, What is Surrealism?, 1936, pp. 45 sgg.
9
jean paulhan, Les Fleurs de Tarbes, 1941.
10
jacques rivière, Reconnaissance à Dada, in «Nouvelle Revue
Française», xv, 1920, pp. 231 sgg. - marcel raymond, De Baudelaire
au surréalisme, 1933, p. 390 [trad. it., Da Baudelaire al surrealismo, Tori-
no 1948].
11
a. breton, Les Pas perdus, 1924.
12
tristan tzara, Sept Manifestes dada, 1920.
* La terra desolata.
13
friedrich gundolf, Goethe, 1916.
14
michael ayrton, A Master of Pastiche. New Writing and Day-
light, 1946, pp. 108 sgg.
15
rené huyghe - germain bazin, Histoire de l’art contemporain,
1935, p. 223.
16
constant lambert, Music ho!, 1934.
17
edmund wilson, Axel’s Castle, 1931, p. 256.
18
a. breton, (Premier) Manifeste du surréalisme, 1924.
19
louis reynaud, La Crise de notre littérature, 1929, pp. 196-97.
20
Cfr. charles du bos, Approximations, 1922. - benjamin cré-
mieux, XXe siècle, 1924. - jacques juvière, Marcel Proust, 1924.
21
j. t. soby, Salvador Dalì, 1946, p. 24.
22
a. breton, Le Surréalisme et la peinture, 1918. - What is sur-
realism?, p. 67.
23
id., Second Manifeste du surréalisme, 1930. - maurice nadeau,
Histoire du surréalisme, 1945, 2a ed., p. 176.
24
julien benda, La France byzantine, 1945, p. 48.
25
Cfr. e. r. curtius, Französischer Geist im neuen Europa, 1925,
pp. 75-76.
** si tratta di quelle figure che per opposizione netta di tono o di
rilievo fungono da quinte, esaltando l’effetto dello sfondo.
*** Simultaneità degli stati d’animo.
26
Cfr. emil lederer - jakob marschak, Der neue Mittelstand, in
Grundriß der Sozialökonomik, IX, 1, 1926, pp. 121 sgg.
27
walter benjamin, L’œuvre d’art à l’époque de sa reproduction
mécanisée, in «Zeitschrift für Sozialforschung», v, 1936, 1, p. 45.

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