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ANTROPOLOGIA CULTURALE

1. Confini disciplinari
Con il termine antropologia culturale intendiamo il “sapere della differenza”: sapere, per indicare
che l’antropologia è nata in Occidente e si è sviluppata secondo le modalità che costituiscono la
conoscenza nella tradizionale visione scientifica e accademica occidentale. Infatti, l’antropologia si
è costituita in Occidente a partire dal XV secolo come discorso che parla degli altri. Differenza sta
a delimitare la specificità dell’ambito disciplinare antropologico, attribuendogli delle
caratteristiche molto precise. L’antropologia infatti, si propone di raggiungere una comprensione
di fatti (usi e costumi) che appaiono strani, bizzarri, assurdi, incomprensibili al nostro sguardo
perché sono diversi rispetto a quelli che ci sono familiari e che ci appaiono, invece naturali.
Cosa fanno gli antropologi? Diciamo che l’antropologia nasce in Europa nell’Ottocento e si
caratterizza come studio dei popoli primitivi, “selvaggi” per mantenere la terminologia degli
studiosi di quel periodo o, anche, tribali. Ma a quale scopo studiare i primitivi? Clyde Kluckhohn
crede che l’antropologia permetta all’uomo di osservarsi nella sua molteplice varietà, riflettendo
sulle differenze.
Nel Novecento, infatti, si verifica un impegno nuovo nello studio delle altre culture,
documentandole con il fine di salvaguardare le differenze culturali dal rischio di un massiccio
processo di omogeneizzazione culturale mondiale. Il secondo intento, invece, è quello di criticare
culturalmente la stessa società occidentale proprio attraverso lo studio delle altre società.
Fino a qualche anno fa, il mondo contemporaneo era diviso in 3 parti:
1. PRIMO MONDO: quello dell’economia capitalistica, naturale e razionale (studio di discipline
“nobili” come la storia, la sociologia, l’economia).
2. SECONDO MONDO: quello dei paesi ex socialisti in cui il peso dell’ideologia e
dell’autoritarismo riducevano nettamente l’efficienza, impedendone il pieno sviluppo
3. TERZO MONDO: quello dei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo schiacciato da tradizioni
primitive e assurde, arretrato e irrazionale: proprio questo, il privilegiato dalla disciplina
dell’antropologia culturale e sociale.
Ciò nonostante, questa visione non è molto valida oggi perché il mondo è cambiato. Ma se
scomparissero le popolazioni del Terzo Mondo, oggetto di studio dell’antropologia, scomparirebbe
la disciplina stessa? La risposta è semplice: le popolazioni primitive, ormai tutte localizzate
spazialmente grazie all’urgenza della salvaguardia, non sono scomparse bensì si sono evolute e
hanno visto una loro riformulazione provocata dalla globalizzazione.
C’è da dire che la storia dell’uomo si caratterizza anche dalla discontinuità generazionale, ovvero
dal distacco della tradizione rispetto alla generazione precedente. Ciò permette alle società di
evolvere e di risultare dinamiche, ma non tutte le culture e le società evolvono con la stessa
dinamica, seguendo uno schema univoco. Se considerassimo le culture “rimaste indietro” e
lontane dai processi evolutivi delle società occidentali, potremmo essere erroneamente portati a
considerare le società tribali come arretrate, pagane, selvagge. La prospettiva da adottare, invece,
è quella che concepisce diverse fasi e diversi percorsi evolutivi di culture che non sono inferiori,
bensì semplicemente diverse.

TYLOR  afferma nel 1871 che “la cultura o civiltà è quell’insieme complesso che racchiude in sé
la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità o
abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società”. Questo è un punto di
riferimento classico dell’antropologia culturale. L’insieme complesso di cui parla Tylor è un
aspetto fondamentale, perché sottolinea il mescolarsi di usi e costumi alla conoscenza, alla
morale, all’arte, etc., così come “… qualsiasi altra capacità” sta ad intendere che il diritto e il
costume non sono trasmessi geneticamente, bensì acquisiti socialmente. La cultura, qui, non è
intesa come elemento esclusivo di alcune società e di alcuni ceti o strati sociali, bensì è intesa nel
suo più ampio senso etnografico che accomuna tutte le società umane. Tylor ci tiene a sottolineare
che la cultura è una caratteristica dell’uomo sociale, indipendentemente dal luogo in cui si trova:
da qui, l’inizio del viaggio etnografico verso forme diverse di cultura.
Nonostante la definizione di Tylor ponga le basi per l’antropologia del Novecento, non tutti furono
d’accordo con la sua visione in particolare Franz Boas e Bronislaw Malinowski, fondatori delle due
maggiori scuole antropologiche del Novecento. Essi respingono il punto di vista storico-evolutivo
di Tylor, negando la possibilità di riportare tutte le culture ad uno schema unico e universalmente
valido di sviluppo culturale e di determinarne le fasi secondo leggi uniformi per ciascuna.
BOAS afferma la necessità di studiare le culture nel loro particolare contesto storico, evitando
parallelismi rischiosi e privi di fondamento. MALINOWSKI ritiene che ogni cultura sia un sistema
chiuso, un complesso di elementi legati fra loro da relazioni funzionali. RADCLIFFE-BROWN si
convinse che l’oggetto dell’antropologo dovesse essere la società, concretamente osservabile, e
non la cultura, un’astrazione derivata da quella.
Tylor parla di cultura al singolare per intendere il patrimonio di tutta l’umanità, ma come si può
osservare dagli altri pensatori il concetto si è esteso in un concetto collettivo, che indica una
molteplicità di culture diverse e indipendenti. Oggetto dell’antropologia diventa, quindi, la singola
cultura. Se Tylor poneva le basi per una logica della continuità fra noi e gli altri, alla base
dell’operazione di mescolamento, si fa sempre più strada nel corso del Novecento la logica
opposta della discontinuità: il riconoscimento della molteplicità culturale darà l’avvio di quello che
James Clifford chiama la “collezione di culture”, ovvero l’affermarsi della logica della discontinuità,
che risulterà dominante nelle scienze sociali del Novecento.

1.1 Tipologie antropologiche


Fabietti sposta l’attenzione su un’altra visione del concetto di “cultura”: le culture non sono “frutti
puri”, ma sono mescolate e contaminate fra loro, sono degli ibridi che possono essere in qualche
aspetto compresi solo partendo da una prospettiva che adotti una “logica meticcia”. La cultura,
così, appare essere non un sistema originario, essenziale, immutabile, ma un insieme di processi
mutevoli, dinamici, instabili, come l’identità.
Kilani (1997) ci ricorda che le teorie antropologiche devono conciliare il presupposto universalista
(gli uomini sono tutti uguali). Ci sono tre possibilità: l’universalismo evoluzionista (le differenze
scompariranno grazie allo sviluppo evolutivo); l’universalismo relativista (le differenze ci sono e
devono rimanere, si tratta di un patrimonio dell’umanità che va protetto e sono differenze tra
uguali); l’universalismo gerarchico (le differenze ci sono, sono reali ed è per questo che alcune
società sono “più uguali” di altre).

2. Lo studio. Oggetti e teorie


ANTROPOLOGIA ed il suo significato si ricavano anche etimologicamente: antropos e logos, ovvero
“discorso, ragionamento sull’uomo”. L’uomo è prima di tutto un organismo animale, immerso in
un ecosistema, che deve trovare l’energia necessaria per mantenersi in vita (il cibo); che deve
mantenere la temperatura corporea entro certi livelli (necessita di protezione dal freddo o dal
caldo) e che deve riprodursi (da solo non sopravvive nel tempo). L’uomo nel corso della sua
evoluzione ha trovato delle strade per adattarsi al mondo naturale in cui vive. Infatti, gli esseri
umani trascorrono la maggior parte del tempo in compagnia di altri esseri umani (animale sociale):
è in gruppo che, generalmente, si adattano all’ambiente e cercano di procurarsi tutto ciò che il
sostentamento richiede. Altro elemento importante dell’adattamento umano, oltre alla
tecnologia, l’organizzazione sociale, le credenze religiose e i valori, è la capacità di comunicazione.
Il linguaggio è essenziale perché garantisce scambio di informazioni, come dove trovare il cibo, una
donna per riprodursi, il pericolo, etc.
Ma un fattore che contraddistingue l’uomo è la diversità: viviamo in un mondo in cui si parlano
lingue diverse, abbiamo fattezze diverse e tradizioni e costumi diversi, oltre che modi di pensare
differenti. Eppure, il mondo in cui viviamo è il frutto di ciò che i nostri predecessori hanno creato,
attribuendo valori e significati agli oggetti, agli eventi, alle persone e ai comportamenti, alle
emozioni, etc. Questo aspetto fu sottolineato in particolare dall’antropologia, poiché costituisce
materia di studio verso le diverse società, nazioni e tribù del nostro pianeta.
Nel XIX secolo, l’Inghilterra vittoriana fu il centro nevralgico in cui poterono maturare le condizioni
necessarie per pensare i tratti esclusivi della specie umana. È possibile che lo strapotere inglese
portò questa nazione a considerare le altre nazioni non solo inferiori, ma primitive quelle società
tribali che vennero scoperte ed osservate a partire dalle grandi scoperte geografiche.
L’antropologia è nata entro il guscio dell’evoluzionismo vittoriano, caratterizzandosi come un
progetto scientifico e conoscitivo molto ambizioso e soprattutto globale: scoprire le leggi che
regolano l’evoluzionismo culturale, comuni a tutti i popoli della terra.
C’è anche da dire che le culture non si possono studiare adottando una prospettiva “esterna”, ma
vanno comprese dall’interno almeno in una prima fase di ricerca: Malinowski dirà di “cogliere il
punto di vista del nativo”, Geertz di “leggere il libro della cultura”. Se vogliamo capire perché
certe persone compiono alcune azioni o esprimono determinate idee, per prima cosa dovremmo
entrare nei loro panni e cercare di capire il loro punto di vista. Dopodiché, si potrebbe confrontare
quest’osservazione con quella di altri colleghi, agganciandoci anche a prospettive esterne per
allargare la nostra visione plausibile. Eppure le culture e le società cambiano con il tempo. Dopo la
seconda guerra mondiale, gli antropologi iniziarono a studiare il conflitto e notarono che,
nonostante una qualche forma di organizzazione politica, di meccanismo in grado di mantenere
l’ordine e la coesione sociali, la dimensione conflittuale e il mutamento sono due costanti di tutte
le società umane.
2.1 Il dibattito sulla cultura  Con il consolidarsi dell’antropologia e dopo le riformulazioni in
senso plurale di Boas e Malinowski sul termine “cultura”, ebbe inizio il periodo dagli anni ’20 agli
anni ’70 circa in cui le condizioni della ricerca risposero all’ideale teorico e metodologico: lo studio
di piccole comunità relativamente isolate, categorizzabili come tante “culture”, rappresentabili
attraverso la monografia etnografica sulla base del concetto di cultura inteso come “il-modo-di-
vivere-di-un-popolo”. Comunità, nazioni, civiltà, popolazioni, tutti dovevano avere una cultura: il
compito dell’antropologo era “andare là e poi tornare qui a raccontarci che cultura era”.
L’antropologia della prima metà del Novecento è fortemente localizzata: studia realtà chiuse,
limitate, localizzate. La realtà dell’esistenza è quella in seno a una tradizione: fenomeni dinamici e
interconnessi vengono trasformati in fatti statici e isolati. La località e la tribalità sono intese come
tratti distintivi della vita sociale: molte teorie antropologiche nascono, infatti, in stretta dipendenza
dal contesto ristretto in cui si collocano i fenomeni studiati. Per esempio, la teoria dei riti di
passaggio di Van Gennep interpreta i riti come processi di produzione della località, di soggetti
locali, persone che imparano ad appartenere a un mondo di parenti, vicini, amici e nemici. Le
teorie legano una popolazione, un luogo e una cultura, ma anche fra l’antropologo e il popolo
studiato si crea una sorta di relazione di “possesso”: ne sono esempi Malinowski e lo scambio kula;
Evans-Pritchard e il principio di segmentazione.
Quindi cos’è la cultura? Nessuna comunità umana, per quanto apparentemente statica, stabile,
isolata, può essere considerata “fredda” o “fuori dalla storia”: Marshall Sahlins scrisse un libro,
Isole di storia, proprio per intendere come le isole delle Hawaii, Fiji, Nuova Zelanda avessero delle
loro storie che si intrecciassero con la storia europea e, parallelamente, fu un titolo sarcastico per
criticare il modo “insulare” di pensare di molti studiosi, che hanno costruito false opposizioni,
come quella fra passato e presente e fra cultura e storia. Per questo si può affermare che non
esistono culture pure, e che le culture non sono affatto autosufficienti ma, al contrario,
decisamente incomplete o “aperte” allo scambio, all’incrocio e all’ibridazione.
Appare sempre più evidente che il modo di pensare la cultura come un tutto localizzato, chiuso,
delimitato da una tradizione (così com’era emerso nella prima metà del Novecento) è inadeguato,
goffo e poco utile e si rende necessaria una visione più elastica, dinamica, fluida dei processi
culturali.
Max Gluckman, fondatore della scuola di Manchester, mise in luce che le società “tradizionali” e le
società “dei bianchi” sono legate da moltissimi rapporti e che quindi lo studio di società in
isolamento non era fondato. Non si parlerà più dell’antropologia come studio di “isole”, di
“giungle”.
George Balandier nello studio dei mutamenti sociali porta in primo piano i molteplici legami che vi
sono tra le società tradizionali e la società occidentale. Secondo Balandier, la situazione coloniale
determina e struttura il rapporto tra l’Occidente e le società studiate dagli antropologi, società che
hanno subito uno sfaldamento progressivo e una serie di trasformazioni proprio per la
dominazione cui sono state sottoposte. La direzione delle trasformazioni non è univocamente
determinata dall’azione della società dominante (che Balandier definisce “dinamica esterna”), ma
segue anche una logica propria, specifica di quelle società (che Balandier definisce “dinamica
interna”): il risultato è un mescolamento di questa azione e delle logiche locali e tradizionali.
Claude Meillassoux svolge qualcosa di interessante: analizza in termini economici la distanza e la
connessione che vi è tra società occidentale e società tribale. La ricerca fu basata presso i gouro
della Costa d’Avorio, paese non capitalista ma che soffrì gli scambi commerciali con società
capitaliste. Meillassoux individuò molte caratteristiche delle comunità tradizionali africane e studiò
come le economie tradizionali si integrassero con l’economia capitalista. Presso i gouro, i rapporti
di produzione sono basati sull’asimmetria fra anziani e giovani: questi ultimi dipendono dagli
anziani, che controllano le risorse materiali e gli scambi matrimoniali. Quindi, gli anziani
controllano il lavoro dei più giovani, e solo una volta ottenuto la loro forza-lavoro possono
concedere loro il matrimonio, avendo la ricchezza necessaria per comprare la donna. Quindi il ciclo
della produzione (il lavoro agricolo) e della riproduzione (la possibilità di procreare) sociale
appaiono paralleli.
2.3 Tradizione, inculturazione, acculturazione  Il primo obiettivo della tradizione che resta
sempre un ideale mai raggiunto è quello di ottenere l’immobilità sociale, un ideale mai raggiunto:
trasmettere da una generazione all’altra il patrimonio culturale senza che questo subisca
variazione alcuna, preservando così un modo di vita nel tempo e azzerando il cambiamento.
Eppure, le invenzioni e le scoperte possono modificare in modo esplicito il quadro stabilito dalla
tradizione: singoli o complessi elementi possono introdursi nella cultura tradizionale tramite
contatti con popolazioni vicine o lontane. Il processo che conduce all’assimilazione, in tutto o in
parte, dei modi culturali di un altro gruppo è definito acculturazione. L’esito di tale processo,
forzato o meno, è l’integrazione di un elemento culturale entro il tessuto della società o della
cultura che lo ha accolto.
Ciò che distingue le civiltà tradizionali da quelle moderne è anche la rapidità con cui tali elementi
vengono ad inserirsi nel tessuto sociale: quelle tradizionali tendono ad essere molto lente per
evitare il cambiamento, quelle moderne favoriscono l’ingresso di elementi sconosciuti fino al loro
inglobamento nella stessa cultura, mescolando più volte le proprie caratteristiche. Infatti, proprio
in epoca vittoriana si stabilisce l’idea di superiorità delle civiltà occidentali sopra quelle tradizionali
e tribali, per la loro lenta evoluzione sociale. Sebbene l’evoluzionismo vittoriano abbia la sua parte
di colpe, c’è anche da dire che la forma del metodo comparativo ha giocato un ruolo notevole nel
dar vita al moderno significato di pluralismo, fondato sulla tolleranza (la difesa dell’unitarietà
psichica del genere umano contro l’inclinazione razzista; l’insistenza sul principio dell’uniformismo
contro le asserzioni teologiche del carattere arbitrario dell’intervento divino, etc.).
2.4 Omogeneizzazione e globalizzazione  l’omogeneizzazione è strettamente legata al processo
di acculturazione che si svolge in parallelo all’inculturazione, ed è stato inteso come principale
causa dei cambiamenti culturali.
I due poli (l’omogeneizzazione culturale e le culture localizzate da un lato; la globalizzazione della
cultura e la delocalizzazione culturale dall’altro) trovano i loro rispettivi riferimenti: il primo, nella
tendenza a sottolineare e studiare gli elementi di stabilità e di coesione di una società (Durkheim)
e l’altro in quella a enfatizzare i punti di tensione, di contraddizione, di conflitto (Karl Marx).
Durkheim, nell’idea di cultura come massa, l’altro nell’idea di cultura come ambiente
comunicativo, flusso. Uno in Lévi-Strauss che vede l’avanzare del modello occidentale nel mondo
come una sozzura lanciata sul volto dell’umanità; l’altro in James Clifford (che lo vede invece come
un fertilizzante per nuovi ordini di differenza.
Ricordiamo, infine, come l’antropologia del dopoguerra segnala un passaggio di continuità che ha
portato la riflessione dell’antropologia dal polo dell’atemporalità e della staticità a quello della
consapevolezza temporale e della mobilità: dalla localizzazione del tribale alla delocalizzazione del
globale.

3. La concezione olistica dell’antropologia


Altra definizione di antropologia: lo studio e la comprensione teorico-pratica della diversità, e cioè
comprendere le somiglianze e le differenze tra gli esseri umani, con il fine di sviluppare una
qualche concezione integrata dell’uomo.
Gli antropologi sono interessati a tutti gli esseri umani, sia aborigeni che membri delle società
industriali del Nord America. Gli studiosi in merito sono interessati a tutti gli aspetti dell’esistenza
umana: sistemi di produzione (economia), competizione per il potere (politica), religione, etichetta
e regole matrimoniali, linguaggio, tecnologia, arte, etc. Questo è ciò che si intende per concezione
olistica propria dell’antropologia: il desiderio di comprendere il tutto della condizione umana.
3.1 La procedura etnografica  In che senso l’etnografia è responsabile della svolta “tribale”
dell’antropologia della prima metà del Novecento, e cos’è l’etnografia?
L’etnografia è il prodotto di un processo di ricerca condotto in parte attraverso un’osservazione
“oggettiva” e distaccata e in parte attraverso una partecipazione dall’interno,
un’immedesimazione con le persone studiate: viene definito come principio dell’”osservazione
partecipante”, una pietra miliare dell’etnografia, uno dei maggiori contributi dell’antropologia alle
scienze umane. A partire da Bronislaw Malinowski, l’etnografia è divenuta una pratica intensiva di
ricerca, caratterizzata dalla lunga durata dei soggiorni nei villaggi (il campo di ricerca),
dall’apprendimento della lingua locale e da una seria osservazione partecipante. Un tale livello di
conoscenza non si raggiunge da una posizione distaccata, ma collocandosi nel mezzo,
partecipando, interagendo.
Dagli anni ’20 agli anni ’70, l’antropologia si colloca come studio di piccole comunità relativamente
isolate, categorizzabili come tante “culture” rappresentabili attraverso la monografia etnografica.
3.2 Etnocentrismo e relativismo  In ogni società esiste una qualche idea di cosa sia l’uomo, una
certa concezione dell’umanità e, di conseguenza, anche di ciò che tale non è e rientra in quel
contenitore generico etichettato con l’espressione “alterità” (altro, diverso, etc.). L’etnocentrismo
consiste in un atteggiamento che porta a giudicare i modi di comportarsi, le credenze e le idee sul
mondo, il sapere degli altri, nei termini dei propri valori e della propria tradizione culturale: gli
occidentali trovano assurdo che i cinesi mangino cane e gli induisti trovano assurdo il macello di
carne e vacche degli occidentali. Questo meccanismo è alla base della diffidenza che si genera
all’interno dei vari gruppi sociali: perché, ci si domanda, loro non mangiano il cibo che mangiamo
noi e agiscono in modo diverso da noi? L’etnocentrismo è un tratto comune a tutte le società
umane: ognuno di noi fin dall’infanzia impara il modo giusto di agire e di pensare. Il processo di
inculturazione, attraverso il quale si apprendono i valori della propria cultura, dura per tutta la
vita. I valori di base della nostra cultura sono continuamente sottolineati nelle cerimonie religiose,
a scuola, in televisione, in ogni avvenimento sportivo.
Non essere etnocentrici (applicando, quindi, il relativismo culturale) non significa, però, diventare
“altri”. Ciò che non dovrebbe essere consentito è l’ignoranza delle differenze, da cui derivano tutti
gli atteggiamenti di stupidità, prevaricazione, razzismo, che caratterizzano le dinamiche del
contatto fra individui appartenenti a tradizioni culturali diverse.
Un’etnografia si configura, quindi, come il tentativo di costruire una sorta di oggettività
intersoggettiva, che è poi quella propria delle persone studiate dall’etnografo. L’etnografia inoltre
nasconde il fatto che un unico linguaggio nativo non esiste, né la possibilità di impararlo e di
padroneggiarlo in poco tempo. Una lingua è un insieme di discorsi divergenti, intersecati, dialogici
che nessun nativo padroneggia completamente, ancor meno un antropologo. Tuttavia, le cose
stanno cambiando: l’etnografia più recente pone sempre di più al centro dell’attenzione le
persone, rispetto alla cultura, come soggetti storici, complessi, consapevoli, capaci di scegliere
come usare le risorse culturali anche in modi inaspettati: non più tipi culturali rigidamente
etichettabili.
Geertz afferma che l’uomo senza cultura sarebbe una “mostruosità con pochissimi istinti utili e
ancor meno sentimenti riconoscibili”. Per questo l’antropologia non può sbarazzarsi del concetto
di cultura, né può fare a meno di una qualche teoria della cultura. L’uomo acquisisce socialmente
consapevolezza di sé e degli altri, sentimenti ed emozioni, idee e modi di pensiero, schemi di
azione organizzati.

PARTE II – Il lavoro etnografico


La congiura del silenzio  il termine etnografia (ethnos = popolo; graphéin = scrivere/descrivere)
si riferisce, nella sua formulazione disciplinare, sia all’attività di ricerca condotta attraverso
prolungati periodi di permanenza a diretto contatto con l’oggetto di studio, sia alla produzione
testuale tipica dell’antropologia. L’etnografia designa un particolare processo di ricerca e i prodotti
di tale prassi, comprendendo anche la speciale esperienza sul campo, la sua restituzione scritta e il
metodo di ricerca. L’antropologia rivendica proprio la sua originalità rispetto alle altre scienze
sociali soprattutto per la “ricerca sul campo”.
Il lavoro etnografico per eccellenza è il lavoro sul campo e la situazione etnografica è una
situazione di campo. Abbiamo detto che gli etnografi hanno stabilito una relazione privilegiata con
il proprio “campo”, come Malinowski, come Evans-Pritchard con i nuer e gli azande. Tale rapporto
è la base dello sforzo etnografico, richiedendo al ricercatore di trasformare in un resoconto scritto
la condivisione dell’ambiente, della lingua, dei rituali e delle relazioni sociali con i propri
interlocutori. Il lavoro sul campo è stato rappresentato sia come “laboratorio scientifico”, sia come
“rito di passaggio” personale. Queste due metafore esprimono compiutamente l’ambigua
relazione fra oggettività e soggettività latente all’interno dei discorsi antropologici.
Ma a differenza degli altri scienziati sociali, gli antropologi difficilmente hanno inserito nei loro
testi le modalità con cui sono riusciti a produrre l’insieme di conoscenze che richiedono di
accettare come vere: gli storici, per esempio, menzionano gli archivi che hanno utilizzato e che altri
avranno la possibilità di consultare per trarne differenti interpretazioni. Gli psicologi non esitano a
descrivere protocolli d’esperienza. Gli antropologi, invece, sembrano rifiutarsi di esibire la
processualità del proprio lavoro, di mostrarne le tecniche di raccolta dei dati e di scrittura. In una
sorta di “congiura del silenzio”, mistificatoria ed eticamente sospetta, tralasciano di considerare
come l’etnografia sia stata prodotta. Hanno sempre ignorato il contesto pragmatico della
comprensione e il problema dell’opacità dell’Altro. In questo modo, hanno evitato di prendere in
considerazione le modalità con cui hanno costruito il proprio campo, come hanno guadagnato
l’accesso agli interlocutori così come la successione degli errori e dei tentativi fatti per arrivare alla
comprensione di un fenomeno, le interpretazioni false o incomplete o semplicemente i
fraintendimenti, le gaffes, le difficoltà e le intuizioni che sono proprie del “metodo di lavoro”.
Eppure, la maggior parte del tempo dell’antropologo sul campo è spesa nella vana ricerca di
dialoghi interessanti, eventi eccezionali o “puri”.
In realtà, qualche antropologo ha pubblicato le proprie memorie del lavoro sul campo in testi
pressoché informale, spesso utilizzando pseudonimi. Molti di questi lavori non sono altro che
riflessioni autobiografiche su progetti passati, finalizzate a mostrare come le condizioni del lavoro
sul campo giustifichino e legittimino il lavoro teorico realista, pubblicato separatamente. Nel
complesso, gli antropologi hanno dedicato scarsa attenzione ai loro metodi di lavoro. La pratica
etnografica è entrata a far parte della tradizione orale della comunità, oggetto di una
considerevole elaborazione mitica. Quindi: non vi è un apprendimento formalmente codificato e le
pubblicazioni accademiche sui fondamenti metodologici ed etici della ricerca etnografica sono
ridottissimi. Il lavoro sul campo è semplicemente ritenuto essere qualcosa che si impara con la
pratica, un’abilità acquisibile attraverso il tirocinio e l’immersione totale più una matita e un
quaderno di appunti (come suggerisce Evans-Pritchard).
1.1 Etnografia e antropologia  L’etnografia, la “semplice” descrizione di una cultura, è stata
tradizionalmente messa in contrasto con l’antropologia, il trattamento comparativo e
classificatorio dei dati culturali: la prima abbraccerebbe i dettagli raccolti durante la ricerca sul
campo; la seconda l’elaborazione teorica e l’esposizione razionale dei dati così ottenuti.
Etnografia e antropologia sono venute a costituire due diversi livelli indipendenti e
gerarchicamente ordinati del sapere antropologico. Da un lato, il livello inferiore dell’etnografia,
relativamente non problematico, il primo gradino della conoscenza antropologica. Dall’altro,
quello superiore della teoria antropologica. Secondo Lévi-Strauss, l’etnografia corrisponde ai primi
stadi della ricerca: osservazione, descrizione e lavoro sul terreno. È condotta dall’esperienza
personale dell’etnografo ed implica la classificazione, la descrizione e l’analisi dei fenomeni
culturali particolari. L’antropologia costituisce l’ultima tappa di una sintesi che ha per base le
conclusioni dell’etnografia e dell’etnologia e per finalità l’elaborazione teorica e la spiegazione.
Jarvie ritiene che per quanto possa essere utile, il lavoro sul campo costituisce una parte
fondamentale dell’antropologia in quanto scienza che però “non dovrebbe essere imposta
universalmente”. Rifacendosi al fatto che i fisici einsteiniani si riferiscono a esperimenti ma
raramente ne fanno, e i newtoniani spiegano i dati astronomici senza passare le notti negli
osservatori, Jarvie sostiene che “ogni serio studio della società deve fare riferimento a qualche
lavoro empirico, non importa se di antropologi o viaggiatori. Per questo quindi, il lavoro sul campo
è solo un metodo per fare antropologia, “altri metodi includono la poltrona, la libreria, il
questionario, l’informatore e così via”.
1.2 La poltrona e il campo  la distinzione del lavoro etnografico e antropologico è da ricercare
verso la fine del XVIII secolo, periodo in cui vi era una netta divisione del lavoro fra raccoglitori-
osservatori ed esperti teorici.
Da un lato, viaggiatori, esploratori, missionari, colonizzatori, commercianti fornivano informazioni
di prima mano per le istituzioni antropologiche come il Royal Anthropological Institute di Londra;
dall’altro, un ristretto numero di professionisti, prevalentemente all’interno delle organizzazioni,
processava le informazioni in vari tipi di pubblicazioni. Tale divisione del lavoro venne
ulteriormente accentuata mediante la creazione della figura dell’Official correspondent di riviste
specializzate come “Man”, del 1900 fondato dal Royal Anthropological Institute.
In questo modo, nel periodo evoluzionista si istituì la figura dell’antropologo armchair, che
prendeva i propri dati etnografici dai resoconti di viaggio o dalle relazioni di esploratori e
missionari al fine di documentare le proprie concezioni evoluzionistiche degli stadi di sviluppo
culturali. Per questo molta poca attenzione era dedicata a come i “fatti” fossero raccolti e alla
comprensione delle difficoltà della ricerca di informazioni. L’acquisizione di informazioni
etnografiche da parte degli antropologi armchair era ottenuta mediante l’invio ai ricercatori sul
campo di elenchi di domande o di temi nella forma di questionari, destinati a guidare con rigidità
la raccolta dei dati e a dirigere lo sguardo degli osservatori-compilatori. Nel 1843 fu fondata la
Ethnological Society di Londra con lo scopo di promuovere programmi per la raccolta di dati
ottenibili grazie alla compilazione di questionari da inviare a coloro che vivevano a costante
contatto con le popolazioni oggetto di studio.
I questionari proliferarono e si perfezionarono nel tempo. Nel 1872 ad opera del BAAS (British
Association for the Advancement of Science) e del Royal Anthropological Institute fu formata una
commissione che produsse la più importante pubblicazione di questo tipo, destinata a segnare la
ricerca per più di mezzo secolo: Notes and Queries on Anthropology. Questo manuale era
finalizzato a “promuovere un’accurata osservazione antropologica da parte dei viaggiatori e a
mettere i non-antropologi nelle condizioni di fornire le informazioni richieste per uno studio
scientifico dell’antropologia a casa”. I Notes a partire dal 1874 servirono come manuale standard
per l’inchiesta etnografica a uso di amministratori, funzionari, missionari ed esploratori britannici.
Sei sono le edizioni dei notes fino al 1951. La prima edizione del 1874 era divisa in tre sezioni
principali: costituzione dell’uomo (antropologia fisica); cultura; miscellanea.
Mediante l’invio dei questionari, Frazer e Morgan mantennero strette relazioni epistolari con
persone residenti presso le popolazioni oggetto dei loro studi. Fra questi si distinsero i missionari
Fison e Howitt, attivi in Australia fra il 1872 e il 1908. Entrambi furono importanti nel ruolo di
etnografi in corrispondenza con gli studiosi, che dall’Europa chiedevano loro di raccogliere
materiale di prima mano. Howitt e Fison raggiunsero una conoscenza approfondita di alcuni gruppi
aborigeni e furono tra i primi a produrre un resoconto monografico di due tribù australiane,
Kamilaroi and Kurnai, pubblicato nel 1880. Nei loro scritti considerano i nativi come rappresentanti
di uno studio remoto della storia dell’umanità, nella cui società ritenuta “semplice” e in via di
estinzione consideravano possibile leggere la fase aurorale di molti fenomeni e istituzioni sociali,
come il totemismo (?).
Seguendo il modello evoluzionistico, Tylor, Morgan o Frazer utilizzavano i popoli esotici per
studiare l’evoluzione dell’uomo. Queste popolazioni erano considerate “selvagge”, rappresentanti
“dell’età della pietra”, da studiare non per il loro valore intrinseco ma per il fatto che fossero
considerate come modelli delle origini della civilizzazione, stadi connessi l’uno all’altro in una
sequenza di sviluppo universale e unilineare che poneva all’apice la moderna società europea,
mentre all’estremità opposta collocava le culture selvagge, barbare o primitive.
1.3 L’osservazione rigorosa in prima persona  All’inizio del Novecento vi fu un grande sviluppo
dell’attività etnografica condotta da antropologi professionisti provenienti dalle università del
Regno Unito. Tra questi, il più celebre è senz’altro Bronislaw Malinowski, a cui la tradizione
disciplinare ha attribuito il ruolo di artefice della “rivoluzione” etnografica.
Eppure, prima di lui altre istituzioni avevano consolidato il settore di ricerca. Per esempio, la
Société des Observateurs de l’Homme ebbe fra i suoi membri naturalisti come Jean-Baptiste
Lamarck e studiosi come Volney. Aveva il proposito esplicito di studiare scientificamente l’uomo,
applicando con rigore il metodo dell’osservazione già ampiamente sperimentato nelle scienze
della natura. Volney scriverà che “per un tale studio bisogna comunicare con gli uomini che si
vuole studiare approfonditamente; bisogna sposare le loro situazioni in modo da sentire quali
agenti influiscono su di essi, quali affezioni ne risultano. Bisogna vincere i pregiudizi che
s’incontrano e quelli che si portano con sé”. Questa osservazione di fenomeni, fondata sul metodo
delle scienze naturali servì a Volney per stendere la sua relazione del viaggio in Medio Oriente e
per produrre un manuale a uso dei viaggiatori.
Venne pubblicato nel 1800 il testo di De Gérando, Considerazioni sui metodi da seguire
nell’osservazione dei popoli selvaggi, scritto per un viaggio di esplorazione in Australia e Tasmania,
può essere considerato la prima guida per gli etnografi sebbene sia rimasto pressoché sconosciuto
all’etnografia del XIX secolo. Qui, De Gérando critica le osservazioni etnografiche dei precedenti
esploratori, sostenendo esplicitamente la necessità di studiare la lingua nativa.
1.4 Lo studio “intensivo” e il metodo genealogico  Stocking considera il decennio iniziato nel
1800 come la data di separazione fra l’etnografia professionale moderna e le precedenti
esperienze di contatti fra gli europei e le popolazioni “altre”. Ben presto molti studiosi, rendendosi
conto della scarsa qualità delle descrizioni etnografiche, furono spinti a verificare i dati recepiti e
osservarli direttamente sul campo. I limiti dei questionari furono evidenti: le domande si
dimostrarono difficili da porre da parte di persone che non conoscevano bene le lingue native, e
spesso i raccoglitori non ne comprendevano l’importanza, la rilevanza e il significato.
Haddon incoraggiò fortemente il fieldwork, un termine che introdusse nell’antropologia britannica
prendendolo a prestito dai ricercatori naturalisti. Sostenne l’esigenza di “nuove investigazioni sul
campo” mettendo in guardia contro i “rapidi raccoglitori” e mettendo in luce l’esigenza e la
necessità di usare veri e propri osservatori “formati”.
In campo metodologico, il metodo di Haddon segnò un primo movimento verso un’etnografia
intensiva e verso la distinzione fra survey e quello che definì “the intensive study of limited areas”.
Il significato dell’espressione coincide con le finalità di Haddon di chiarire “la natura, l’origine e la
distribuzione delle razze e delle popolazioni” di una particolare regione, e la loro posizione nello
sviluppo evoluzionistico. Per Haddon, il significato e la pratica corretta dell’intensive study si
evincono dagli “studi esaustivi di un limitato gruppo, tracciando tutte le ramificazioni delle loro
genealogie nel metodo comprensivo adottato dal Dr. Rivers nelle isole dello stretto di Torres e fra i
Toda”.
Dopo questa spedizione, Rivers e Seligman divennero le figure guida dell’antropologia britannica.
Da un punto di vista storico, può essere considerato il fondatore dell’antropologia britannica,
avendo stimolato la nascita della scuola funzionalista. Maestro di Malinowski e Radcliffe-Brown,
Rivers fu importantissimo per il contributo che apportò in campo metodologico con la
formulazione del metodo genealogico: arrivando all’antropologia dalla psicologia sperimentale,
Rivers elaborò precisi procedimenti di raccolta sistematica dei dati nell’intento di fondare
l’antropologia come scienza. Il metodo considera che la struttura sociale elementare di ogni
gruppo possa essere sistematicamente rivelata dalla terminologia di parentela. Esso rappresenta
uno schema in cui collocare i membri di un gruppo e a cui riferire una vasta gamma di informazioni
etnografiche. Per ogni individuo nella genealogia, le informazioni riguardano la località di origine e
di residenza, il totem, il clan e altri fatti di significanza sociale. Da qui si potevano formulare le
regole di matrimonio, come anche il conflitto fra le regole culturali e la pratica reale. Inoltre i dati
genealogici potevano essere usati per analizzare i modelli di eredità, le migrazioni, i ruoli rituali, la
demografia e altro: informazioni comportamentali e biografiche, studio della magia, della religione
etc.
Il contributo di Rivers alle Notes and Queries del 1912 marcò un importante sviluppo verso la
professionalizzazione metodologica, superando le istruzioni per i viaggiatori a favore di un vero e
proprio manuale per i “nuovi” antropologi che si stavano formando, oltre al contributo
metodologico dell’intensive study. Rivers pose grande attenzione sull’importanza dello studio delle
lingue e delle categorie native, e soprattutto sull’attenzione delle parole degli interlocutori,
consigliando di lasciarli parlare liberamente piuttosto che pressarli con interviste dirette.
Il concrete method doveva rappresentare non solo un procedimento per arrivare alle astrazioni
che il selvaggio non era in grado di articolare, ma anche un modo per collezionare “fatti concreti”
non contaminati dalle astrazioni evoluzionistiche europee che ormai erano diventate
problematiche.
2. La magia di Malinowski – la rivoluzione etnografica
“Più vicino al villaggio si vive, meglio si riesce a osservare gli indigeni”. Queste sono le parole di
Malinowski che nel 1915 si accinge a viaggiare per le isole Trobriand, in Papua Nuova Guinea. È in
questo viaggio che egli sviluppò il metodo che divenne il segno distintivo dell’antropologia. Il
lavoro sul campo nelle Trobriand, dal 1915-1916 al 1917-1918, rappresenta per la tradizione
antropologica una sorta di esperienza archetipica. Come sostiene Geertz, “Malinowski inaugurò il
mito dello studioso sul campo simile al camaleonte: perfettamente in sintonia con l’ambiente
esotico che lo circonda, un miracolo vivente di empatia, tatto, pazienza e cosmopolitismo”.
Nel capitolo introduttivo della sua monografia Argonauts of the Western Pacific, enfatizza il suo
metodo di ricerca nelle Trobriand: l’etnografo, scrive, deve conoscere innanzitutto principi, finalità
e risultati della moderna ricerca scientifica. In secondo luogo, deve vivere fra le persone: “vivere
senza altri uomini bianchi, proprio in mezzo agli indigeni”. Per quanto riguarda le finalità della
ricerca etnografica, Malinowski sostiene la necessità di descrivere i lineamenti dei costumi nativi,
le “leggi e regolarità della vita tribale” attraverso il “metodo della documentazione statistica
mediante la prova concreta”: ciascun fenomeno deve essere studiato attraverso la serie più vasta
possibile delle sue concrete manifestazioni, mediante un esame esauriente di esempi dettagliati. I
risultati dovrebbero essere disposti in una qualche sorta di carta sinottica, sia perché servono come
strumenti di studio, sia per presentarli come documenti etnologici.
Tale metodo implica:
1. La raccolta, attraverso domande dirette, di genealogie, dettagli sulla tecnologia, censimenti
dei villaggi, etc. È necessario disporre di una quantità sufficiente di dati tra loro
confrontabili, allo scopo di ottenere una visione completa della società e della cultura
studiata. Questo obiettivo può essere raggiunto mediante l’elaborazione di “tavole
sinottiche” e “carte mentali”, fondate sul riconoscimento e nel comportamento dei principi
della loro cultura.
2. Collezionare dettagli della vita quotidiana vissuta dai nativi e osservati dall’etnografo.
3. Acquisire competenze nella lingua locale, registrando le espressioni quotidiane, le formule
magiche e i miti da presentare come “documenti della mentalità nativa” per illustrare
“modi tipici di pensare e di sentire”.
Il valore del lavoro di Malinowski deriva da un lato dalla presenza di un contesto accademico che
fu pronto a recepire le questioni metodologiche da lui sollevate; dall’altro, e in maniera
preponderante, dall’aver collocato le sue ricerche etnografiche dentro il nuovo paradigma teorico
funzionalista. La natura delle sue ricerche portò l’antropologia a interessarsi sempre più delle
diverse culture, cercando di dare un’immagine complessiva di un modo di vita osservato da vicino
non per elaborare un catalogo, ma per fare sistematiche connessioni fra loro. Il funzionalismo
fornì un insieme di principi metodologici per fare e scrivere l’etnografia, principi che si fondavano
sul modo in cui una particolare credenza o istituzione è interrelata con altre e contribuisce alla
persistenza del sistema socioculturale nel suo insieme. In linea con il funzionalismo, Malinowski
raccomandò che le informazioni fossero raccolte in forma di carte o tavole da mettere in relazione
le une con le altre per stabilire interrelazioni fra le istituzioni.
2.1 L’osservazione partecipante  Essa implica che le ricerche siano concentrate su singole
popolazioni, al fine di permettere la comprensione dei significati cultural e della struttura sociale
del gruppo e di tutte quelle interrelazioni funzionali tra credenze e costumi che a prima vista
sembrano inesplicabili e incoerenti.
Questa espressione ha assunto un’importanza emblematica sia nell’antropologia e sia tra gli
studiosi, segnando l’identità professionale del ricercatore. L’osservazione partecipante consiste in
un singolo ricercatore che trascorre un lungo periodo di tempo (almeno un anno, secondo
Malinowski) fra le persone che intende studiare, padroneggiandone la lingua. Immergendosi nelle
loro attività quotidiane, mira ad ottenere una comprensione il più completa possibile dei loro
significati culturali e delle strutture sociali. Intende cogliere il “punto di vista del nativo” tramite
l’esperienza empatica immediata e soggettiva dell’etnografo. Ciò deve avvenire in maniera
oggettiva, affinché si possa garantire la verificabilità e la riproducibilità di quanto osservato sul
campo.
Malinowski credeva fosse necessario una permanenza di almeno un anno tra la popolazione
studiata perché così facendo si poteva garantire un contatto più vero, naturale, quotidiano tra
osservatore e osservato. La lunga permanenza avrebbe sfumato l’impatto notevole di adattabilità
tra i due mondi e avrebbe garantito un resoconto etnografico notevolmente più oggettivo e meno
influenzato dall’esperienza soggettiva. È necessario, sfruttare qualunque occasione, qualunque
avvenimento o fatto concreto che spinga gli indigeni a produrre un commento del fatto o
dell’avvenimento, poiché è solo in contesti concreti che è possibile raccogliere quelle informazioni
che permettono di risalire agli assunti della vita culturale.
Il resoconto scritto in forma di monografia è il modello che propone Malinowski a partire dal suo
lavoro nelle isole Trobriand, sebbene altri ricercatori come Spencer e Rivers lo avessero, per certi
versi, preceduto in ambito linguistico-narrativo.
Fondata sull’induzione e sull’osservazione diretta e prolungata, la monografia etnografica è
organizzata formalmente attorno a peculiari convenzioni stilistiche e retoriche, animata dal
realismo etnograffico, dove predomina il registro descrittivo osservativo-visuale. L’approccio
sincronico è stilisticamente evidente nell’uso del “presente etnografico” inaugurato da
Malinowski, come se le azioni delle persone riportate stessero avendo luogo in quel momento.
2.2 I limiti degli Argonauti: i diari  L’etnografia funzionalista di Malinowski permise di
restringere gli orizzonti in direzione di resoconti dettagliati di singole culture, dimostrando come i
costumi esotici avessero senso all’interno del loro contesto. In generale, l’etnografia funzionalista
conduce la ricerca da un punto di vista esterno, oggettivo, che intende i fatti culturali come cose
da osservare immediatamente.
L’osservazione partecipante è un approccio alla ricerca dove la soggettività del ricercatore non
deve cessare di esistere, ma deve far spazio all’oggettività dei fatti riportati così come avvengono
naturalmente. Solo il contatto stretto con il popolo studiato, e lontano da altri uomini bianchi,
garantisce l’esito positivo di questo modello, come suggerisce Malinowski. Eppure, dopo attenti
studi volti ai diari di Malinowski nelle isole Trobriand, si evince un dato estremamente
problematico che scardina il mito antropologico incarnato in Malinowski. I diari vanno dal 1914 al
1918 (VENGONO PUBBLICATI POSTUMI NEL 1967 DALLA MOGLIE) e mostrano un Malinowski
rude, contorto e ipocondriaco, oltre che addirittura razzista: non sono pochi i casi in cui viene
utilizzato il termine nigger per riferirsi ai nativi. Ecco che Remotti individua in Malinowski un
personaggio estremamente contraddittorio, un uomo che proponeva l’osservazione partecipante
come metodo di empatia “camaleontica” con il popolo studiato ma che, in realtà, ha un problema
di fondo: per quanto tale approccio propugni l’oggettività assoluta, la soggettività vi partecipa
indubbiamente, ibridando questo meccanismo pseudo-scientifico.
Come dice Duranti, l’etnografo si trova dunque di fronte al cosiddetto “paradosso
dell’osservazione partecipante”: più partecipa, meno gli sarà possibile osservare. La
partecipazione comporta “coinvolgimento emotivo”, l’osservazione richiede “distacco”: è una
tensione il cercare di simpatizzare con gli altri e al tempo stesso cercare di sforzarsi di raggiungere
l’obiettività scientifica. Nonostante i presupposti teorici rivelati negli Argonauti di Malinowski,
l’autore sembra essere più che un osservatore o un partecipante, un interrogatore tollerato a
fatica perché bianco e ricco (si basò fortemente su conversazioni con gli informatori compensate
da doni di tabacco).
Quando nel 1914 arrivò in Nuova Guinea, le relazioni fra gli amministratori coloniali europei e i
nativi erano irrigidite in una struttura fortemente stratificata di dominio e di feroce sfruttamento
del lavoro coatto. Le società melanesiane erano state culturalmente e socialmente distrutte dal
contatto europeo, e le forti tasse unite alle punizioni corporali erano gli strumenti utilizzati per
costringere i nativi a lavorare. In questa situazione di forte disparità tra osservatore e osservato,
Malinowski si trovò in grande difficoltà.
I diari di Malinowski, fra l’altro, demoliscono anche la visione romantica dell’antropologo solitario,
immerso nella cultura osservata. Come molti brani ci fanno capire, non vi era solo l’antropologo
ma anche una serie di personaggi come funzionari, mercanti, missionari che non vengono
menzionati nelle monografie ma che ci sono e che contribuiscono a rendere il lavoro sul campo un
ambiente “complicato” e poco tollerato dalle popolazioni locali. Emerge, inoltre, il tratto non solo
razzista di Malinowski (utilizzerà termini come nigger, Stone Age men, “selvaggi”, per riferirsi ai
nativi) ma anche aristocratico, che lascia ad intendere uno spiccato senso di superiorità rispetto
alla gente locale: elementi che vanno in netto contrasto con le forme teoriche di parità ed empatia
verso le diverse culture.
Malinowski non partecipò alle attività delle Trobriand: si stabilì nei campi agricoli come fosse un
“lord” aristocratico, servito dalle popolazioni locali verso le quali, in quei momenti, rivolse
domande e curiosità. L’approccio del polacco derivava dal suo status di superiorità e
dall’asimmetria, non dall’uguaglianza, generando non un dialogo o un’interazione, ma un
monologo basato sul potere e sul monopolio della scrittura. La realtà etnografica appare come
una costruzione negoziata sul campo fra la prospettiva dell’antropologo e quella dei suoi
interlocutori.
Nonostante tutte le caratteristiche estremamente fallaci, si poté giungere a tali conclusioni solo
nel 1967, quando i diari vennero effettivamente pubblicati postumi dalla moglie di Malinowski.
Dopo le sue spedizioni nelle Trobriand e in Nuova Guinea, Malinowski venne preso come esempio
da moltissimi altri ricercatori.
3. La negoziazione dei significati: il campo e il testo
Gli anni ’70 hanno segnato un profondo cambiamento nella riflessione metodologica e nella
pratica etnografica. In una contingenza storica in grande fermento, contraddistinta dalla
decolonizzazione e dalla guerra fredda, dall’ascesa del nazionalismo, differenti prospettive misero
in discussione le basi teoriche e politiche della disciplina, la legittimità e le stesse possibilità di
esistere. Diversi contributi fecero propria l’esigenza di reiventare l’antropologia: nel 1973, Geertz
pubblica una serie di saggi sotto il titolo The Interpretation of Cultures, che rappresenta una
risposta alla crisi delle scienze umane, dei modelli costruiti analogicamente alle scienze “naturali”
e un processo di riappropriazione dello studio del significato e del “punto di vista dei nativi” come
oggetti centrali per la ricerca antropologica.
La nozione di simbolo rappresenta il nucleo fondamentale e l’idea guida dell’antropologia di
Geertz. Egli pone al centro del suo sforzo intellettuale il tentativo di elaborare quella che con
Burke e Sapir ha chiamato una “scienza dell’azione simbolica”. Tale disciplina si impegna nello
studio di simboli nei termini dei quali individui e gruppi vivono, di come vengono comunicati,
alterati, riprodotti.
Il metodo alla base di questo approccio riconduce il comportamento all’agente e considera il
comportamento significativo riferendolo agli scopi e ai valori sui quali l’attore sociale fonda le sue
azioni. La “semantica dell’azione” geertziana articola il concetto di Auslegung, basato sulla
comprensione interna ed empatica dell’esperienza (Erlebnis) con quello di Verstehen,
interpretazione nel senso di comprensione di ciò che un soggetto intende sulla base dei segni
attraverso i quali la vita psichica si esprime. Il presupposto di Geertz è che l’accesso all’altro possa
avvenire solo attraverso i suoi significati, oggettivati nei discorsi di attori che vivono in una
particolare forma di vita: la sua analisi etnografica si fonda sulle premesse dell’attore e sulla loro
relazione all’azione e ai significati contestuali.
L’uso che Geertz fa del concetto di Verstehen indica un complesso procedimento attraverso il
quale l’uomo interpreta il significato delle sue azioni e di quelle di coloro che interagiscono con lui.
La regola metodologica richiede di orientare l’analisi rispetto agli attori, prendendo in
considerazione il loro “punto di vista” e ricostruendo i livelli di cultura su cui fondano i propri
significati. Questo aspetto del Verstehen, definito come thick description, invita alla ricostruzione
dei livelli di significato non espliciti delle prospettive degli attori, delle molteplicità delle complesse
strutture concettuali che le informano. Geertz considera il pensiero umano fondamentalmente
intersoggettivo, sociale e pubblico, un traffico di “simboli significanti” il cui habitat naturale è “il
cortile di casa, il mercato e la piazza principale della città”.
Per Geertz, comprendere non significa rifarsi alle intenzioni dell’autore per mezzo di rapporti
empatici o identificazioni emotive o ripetizioni del sé. Non è possibile che il soggetto annulli e
metta fra parentesi il proprio essere, la propria cultura o dimentichi il proprio sapere e la propria
soggettività, per cogliere l’oggettività attraverso “magie etnografiche”. Quindi, Geertz ritiene
inattuabile una totale immedesimazione: sia per la necessaria differenza che deve distinguere i
discorsi antropologici da quelli nativi, sia perché anche gli antropologi, come tutti gli esseri umani,
sono ontologicamente fondati sulla loro cultura e sul loro sapere.
I testi antropologici, come quelli scientifici, sono “finzioni”, nel senso etimologico del termine
fictio, qualcosa di “fabbricato” o di “modellato”. Rifacendosi a Wittgenstein e Ricoeur, Geertz
esclude la possibilità di un’analisi oggettiva dei fenomeni sociali indipendentemente dalle
prospettive teoriche: il sapere costruisce i suoi referenti, formando e trasformando i significati.
Nel suo aspetto costruttivo, il circolo ermeneutico implica una relazione circolare fra la teoria e i
suoi referenti, un legame di “coappartenenza” fra i punti di vista dell’antropologo e quelli del
nativo. Le interpretazioni dell’antropologo e quelle dell’indigeno si fondano e si richiamano: le une
non possono essere comprese indipendentemente dalle altre. Le interpretazioni vengono
costruite da parte dell’antropologo, che a sua volta lavora con le interpretazioni dei suoi
informatori. Il lavoro dell’etnografo consiste nel trovare risorse nel suo linguaggio senza imporre i
propri pregiudizi, evitando gli errori derivati da pre-supposizioni che non trovano conferma
nell’oggetto.
Aprirsi all’alterità non significa né un’obiettiva neutralità, né un oblio di se stessi basato
sull’oggettività del metodo. Ma neppure un abbandono all’arbitrarietà delle proprie supposizioni.
Al contrario, è nella consapevolezza delle proprie posizioni che l’altro si presenta e acquista
significato. Non solo il “punto di vista del nativo” è solo un punto di vista fra tutti quelli possibili,
ma soprattutto esso è sempre mediato. L’antropologo geertziano lavora con interpretazioni e
interpretazioni di interpretazioni: “ciò che chiamiamo i nostri dati sono in realtà le nostre
interpretazioni delle interpretazioni di altri su ciò che fanno loro e i loro compatrioti”. La
negoziazione è estremamente articolata e complessa: i risultati dell’etnografia sono molto
stratificati, trattandosi della testualizzazione di ciò che l’etnografo ha registrato, di ciò che è stato
capace di comprendere, di quello che gli è stato detto dai suoi interlocutori di ciò che essi hanno
capito.
3.1 La scrittura etnografica  A livello di discorso antropologico, la relazione etnografo-nativo è
inevitabilmente gerarchica. Lo scopo dell’etnografia è quello di parlare di qualcosa per qualcuno:
benché il lavoro di campo sia un’interlocuzione fra prime e seconde persone, gli antropologi
devono scrivere per terze persone. Produrre un’etnografia richiede, dunque, decisioni su cosa dire
e come dirlo, che sono influenzate dagli interlocutori a cui ci si rivolge. La comunità scientifica è il
pnto di partenza e quello di arrivo della produzione etnografica.
L’etnografia è anche una continua rielaborazione di pre-testi, ovvero racconti o resoconti di viaggi,
documenti, risultando un insieme di varie fonti e forme (diari/note) scritte che convergono verso
l’elaborato finale sotto forma di monografia etnografica. La scrittura diventa l’elemento
indispensabile per organizzare l’esperienza di campo dell’antropologo e per trasformarla in un
prodotto intellettuale. La narrazione prediletta non è più quella impersonale ma soggettiva, in
prima persona, accompagnata da episodi personali di esperienze vissute sul campo: il tutto per
restituire l’idea di una ricerca condotta in prima persona e rilasciata come tale ai propri
interlocutori.
PARTE III – L’antropologia nel mondo attuale
1. Culture ibride e pensiero meticcio  per “culture ibride” intendiamo quelle “situazioni di
incontro” fra culture che si traducono in nuove sintesi, in nuovi profili, in nuovi paesaggi che
caratterizzano il mondo contemporaneo dal punto di vista socioculturale. Nuove situazioni
culturali che nascono dall’incontro, oggi sempre più intenso, di individui e gruppi con storie,
memorie, conoscenze e identità diverse, spesso fondate su premesse esperienziali e concettuali
molto distanti tra loro.
Il termine “ibrido” non vuole alludere all’esistenza di una corrispettiva cultura “pura”. Tutte le
culture si sono ibridate nel tempo, non v’è esistenza di una civiltà pura nel senso di incontaminata
dal contatto e dall’apertura con altre culture. Se l’antropologia culturale è un sapere che si occupa
principalmente della dimensione culturale della vita umana, e se quest’ultima dimensione è per
definizione una dimensione ibrida (perché ibride sono le culture), essa si presenta anche come un
“sapere meticcio”. L’antropologia stessa è un “pensiero meticcio” perché nasce sulla linea
d’incontro, sulla “frontiera” fra tradizioni culturali diverse.
Con l’espressione “traffico delle culture” vogliamo intendere, invece, quelle molteplici e complesse
dinamiche caratterizzanti i fenomeni di ibridazione che sempre più rapidamente hanno luogo nel
mondo contemporaneo e di cui abbiamo quasi sempre una percezione parziale e contraddittoria.
1.1 Locale e globale  Per molto tempo si è pensato alle società e alle culture umane come a
entità isolate e “prese” ciascuna nel circuito dei propri significati. Ciò non è del tutto sbagliato, nel
senso che se vogliamo capire quale significato abbiano certi comportamenti e certe idee, le culture
vanno effettivamente studiate nei termini che sono loro propri. Tuttavia, ci si è anche resi conto
che da sempre le culture cambiano: mutano cioè nel tempo i loro valori, le loro strutture, le loro
istituzioni. Quando la questione del mutamento ha cominciato ad attirare l’attenzione degli
antropologi dagli anni ’40, è apparso sempre più chiaro come le trasformazioni a cui andavano
soggette le società da loro studiate non potessero essere spiegate solo ed esclusivamente in base
all’azione di processi interni, o solo per l’intervento di fattori esterni, ma anche come conseguenza
dell’interazione fra una dinamica interna ed una esterna.
In tale processo, la dialettica del locale e del globale, una cultura vede trasformati i propri valori e
significati (locali) in rapporto a ciò che le giunge dall’esterno. Ma questo “esterno” non è da
intendere come un’altra cultura, bensì come un insieme di fenomeni che interessano
indistintamente tutte (o quasi) le culture: il mercato degli elettrodomestici oppure la televisione
possono costituire dei validi esempi. Quando Remo Guidieri ci dice che in Polinesia le pietre di
antichi siti funerari scavati dagli archeologi fissate ai reticolati intorno ai pascoli davano l’elettricità
al filo spinato, ci mostra cosa significhi la riformulazione dei significati nel momento in cui queste
culture vengono in contatto con le forze globali. Così, invece di pensare al mondo come a un’entità
che va soltanto omogeneizzandosi (che per certi versi, è un processo che non può essere negato:
consumi, informazioni, linguaggi specialistici, etc.), dobbiamo sforzarci di intenderlo come un vasto
scenario al cui interno le varie tradizioni culturali recepiscono delle logiche di tipo globale. Queste
logiche, pur avendo origine altrove, vengono assimilate localmente e riformulate in altre logiche a
livello locale in un processo virtualmente infinito. Se Lévi-Strauss parla dell’occidentalizzazione
come un fenomeno di “insozzamento culturale e ambientale del pianeta”, Clifford parla più
recentemente di tale “sozzura come di un concime, un fertilizzante di nuove sintesi ed emersioni
culturali”.
La globalizzazione, sostengono alcuni autori, non è una novità della nostra epoca, ma un fatto già
sperimentato da molti popoli europei, africani e asiatici all’epoca dell’impero romano, per non
parlare dei nativi americani nei decenni che seguirono la scoperta del Nuovo Mondo da parte degli
europei. Ciò nonostante, ad essere interessato da fenomeni globali è oggi il globo intero: il mondo
è davvero cambiato. Parleremo allora di ecumene globale, dove per ecumene intendiamo una
“regione di persistente interazione e scambio culturale”
1.2 Centri e periferie  Il problema delle relazioni tra società e culture, a livello di “ecumene
globale”, è stato impostato in termini di rapporto asimmetrico tra centro e periferia. Il carattere
asimmetrico di questo rapporto è stato sottolineato in modo particolare da quanti hanno voluto
mettere in rilievo la natura di sfruttamento insita nella relazione fra una metropoli coloniale e le
aree colonizzate, oppure in epoca postcoloniale fra un centro industrializzato avanzato da una
parte e una periferia fornitrice di materie prime e di manodopera dall’altra.
A livello culturale, possiamo individuare come il “traffico delle culture” non si risolva in uno
scambio paritetico fra culture. Basti pensare a come la musica o i cibi provenienti da paesi
economicamente più deboli di quelli del mondo industrializzato siano ormai parte dell’orizzonte
culturale occidentale. Alcuni paesi sviluppati sono interessati a mostrare tramite manifestazioni
museali gli oggetti che usavano o che usano tutt’ora le culture tradizionali: si tratta di oggetti che la
cultura occidentale potrebbe identificare come oggetti di uso comune, quando invece per queste
civiltà potrebbero avere un valore spirituale molto importante. Infatti, i maori dela Nuova Zelanda
nel 1984 si ribellarono a quest’uso improprio della loro cultura da parte del mondo capitalistico.
Ecco come il traffico delle culture porti su di sé il marchio della relazione asimmetrica, costitutiva
del dominio che certe culture sono in grado di esercitare, in certe epoche, su altre.
1.3 Delocalizzazione  Per culture transnazionali s’intendono strutture di significato che
viaggiano su reti di comunicazione sociale non interamente situate in alcun singolo territorio. Una
rete è un complesso di relazioni sociali fluido e composito, non riconducibile a un modello rigido e
univoco di strutturazione sul piano formale e istituzionale (come un clan). Nelle culture
transnazionali tali reti non sono entità basate su un territorio. Le culture che queste reti veicolano
sono pertanto culture delocalizzate.
Un esempio di cultura transnazionale potrebbe essere rappresentato dalle comunità che si
costituiscono su internet, il quale ha avvolto il pianeta nel giro di pochi decenni e consentendo
collegamenti in tempo reale fra i punti più diversi della superficie terrestre. Questo significa che, in
conseguenza di vari processi come la progressiva mondializzazione del mercato e
dell’informazione, i messaggi culturali e le forme espressive (gusti/idee, etc.) si intersecano e si
articolano seguendo canali che sfuggono il più delle volte alle logiche dei rapporti tra i singoli stati-
nazione.
Possiamo renderci conto di come le culture transnazionali implichino una specie di de-
valorizzazione del luogo in quanto fattore coestensivo della dimensione culturale e della stessa
identità. È infatti la dimensione transnazionale che fa di un’ecumene (una regione di persistente
interazione e scambio culturale) un’ecumene globale.
2. Dal paradigma dell’emigrante all’esperienza dello straniero  Gli stranieri di oggi, quelli che
definiamo come migranti e che provengono, spesso, da un paese del Sud del mondo, sono
stranieri “anomali” rispetto a quelli di una volta. Non sono solo i paesi ospiti a respingerli (o a
contenerne l’arrivo); sono anche gli stessi stranieri che spesso non ambiscono a diventare cittadini
a pieno titolo nei paesi ospitanti (magari vogliono temporaneamente soggiornare nei paesi
ospitanti per guadagnare soldi e sostenere le loro famiglie, tornando poi da loro). Vi è, dunque,
una forte contraddizione tra l’idea di appartenenza, fondata sul criterio delle nazionalità, e
dall’altro la presenza continua ancorché non definitiva, di individui all’interno del territorio di un
determinato stato nazionale.
La contraddizione fra appartenenza e presenza consiste nel fatto che, mentre lo stato nazionale
pretende lealtà da parte dei suoi concittadini, lo straniero non si sente obbligato a rispondere in
questo senso, rendendo difficile non solo il suo inserimento all’interno della nazione ospitante, ma
anche la sua stessa “fede” nazionale: avendo due nazionalità, complicherebbe la sua visione di
lealtà politica verso il proprio paese. L’instabilità dello straniero, costantemente in transito, può
portare ad una visione di pericolo di quest’ultimo nei confronti dei ceti meno avvantaggiati delle
società occidentali.
2.1 Panorami  Quale rappresentazione possiamo fornire delle culture, in un mondo
contemporaneo in continuo movimento e mutamento? L’antropologo Appadurai propone la
nozione di panorama etnico, per designare i nuovi scenari socioculturali che emergono in un
contesto segnato dal movimento e dal contatto tra individui. Esso è un panorama di persone che
costituiscono il mondo mutevole in cui viviamo: turisti, immigrati, profughi, esiliati, lavoratori
ospiti e altri gruppi di persone in movimento. Persone e gruppi che hanno a che fare con la realtà
di doversi muovere o con la fantasia.
2.2 Deterritorializzazione  La nozione di panorama etnico è legata a quest’ultima: con
deterritorializzazione si intende indicare la condizione di individui, comunità e gruppi derivante dal
loro spostamento nello spazio fisico e nel loro radicamento, temporaneo e definitivo, in molteplici
“altrove” rispetto al luogo di origine.
3. Processi mimetici nel traffico delle culture  I contatti fra culture, la circolazione dei simboli e
dei modelli di comportamento, dei valori e degli stili di pensiero possono avvenire per imposizione
o per accettazione. In ogni caso, essi possono attivare processi mimetici che consistono in
manifestazioni di “adeguamento” e di “imitazione” simbolica e pratica, da parte dei componenti di
una cultura, nei confronti dei simboli e delle pratiche degli appartenenti a una cultura “altra”.
È abbastanza logico supporre che la mimesi abbia costituito un tema di riflessione in tutte le
culture, anche in quelle prive di scrittura. Questo perché è soprattutto in certi riti che troviamo una
forte ed esplicita attività mimetica, come per esempio in tutti quei riti il cui scopo è favorire la
crescita di animali o di vegetali, il buon esito di una battuta di caccia, l’arrivo della pioggia. Tali
rituali erano considerati la dimostrazione che il pensiero “prelogico” non coglieva in maniera
adeguata le relazioni di causa-effetto tra fenomeni. I rituali mimetici sono insomma dei “drammi”,
delle “messe in scena” aventi lo scopo di “vedere” il mondo.
Il concetto di mimesi risale già agli antichi greci con Aristotele, per il quale esso ha valenza positiva
in quanto noi apprendiamo proprio per imitazione. Un caso di comportamento mimetico
particolarmente interessante si riferisce al contesto etnografico hawaiano, e in maniera specifica
alla vicenda del capitano Cook.
3.1 Il “caso Cook”  l’interesse del caso Cook deriva dal fatto che in primo luogo si situa
storicamente (1779) in una fase di grande espansione dell’Occidente nell’area del Pacifico, dove
culture che precedentemente si ignoravano entrano ora in contatto per la prima volta. Ma
soprattutto, mostra come il traffico delle culture non sia un prodotto dell’ultimo mezzo secolo.
Marshall Sahlins e la sua interpretazione ci raccontano come James Cook fu scambiato per “il dio
Lono”, dio della fertilità, essendo arrivato alle Hawaii proprio all’inizio del periodo dell’anno in cui
venivano fatti tributi al dio Lono. Cook venne poi ucciso dagli stessi hawaiani, perché credevano
che oltre ad essere un dio fosse anche un capo tornato per reclamare il suo regno. Il suo mana, il
suo potere spirituale, fu l’elemento che permise agli aristocratici hawaiani di stabilire un rapporto
privilegiato con gli inglesi (ai quali interessava commerciare) e di distinguersi ulteriormente dalla
gente comune. Ciò sembra aver dato l’avvio a un sempre più veloce processo di mimesi culturale,
con gli aristocratici che si autonominavano come i grandi personaggi inglesi o nordamericani: si
vestivano, mangiavano e si comportavano a tavola e in pubblico come i bianchi. Secondo Sahlins,
in questa loro imitazione i capi si sentivano autorizzati dal fatto di essere in un rapporto particolare
con i bianchi in virtù dell’assimilazione del mana di Cook.
Ciò che si evince in questi casi è che prendere possesso della “forma” dell’altro significa, in alcuni
casi, voler essere secondo l’altro, cioè appropriarsi del suo potere ed essere in grado di
fronteggiarlo sullo stesso piano. Può capitare anche che ci siano casi in cui il processo di mimesi
corrisponda a formulazioni del sé collettivo che rende possibile pensarsi come diversi da coloro a
cui ci si vuole opporre.
4. Identità e modernizzazione  Uno dei campi in cui si è più fortemente posta la questione del
destino delle culture “altre” di fronte all’espansione dei modelli occidentali è senza dubbio quello
della preservazione della loro “identità”. Oggi, in occasioni di manifestazioni e mostre museali,
l’attenzione verso la rivendicazione dell’identità dei nativi ha portato quest’ultimi ad affrontare un
problema cruciale di visibilità nei confronti degli stati in cui gli stessi nativi si trovano a vivere come
minoranze etniche.
Per fare un esempio, è utile pensare ai gruppi melanesiani dei papua, interessati dal cosiddetto
culto del cargo. Si tratta di un culto millenario che prevede l’arrivo di una mitica nave (il cargo)
sopra la quale gli antenati della loro dinastia avrebbero inviato loro ingenti quantità di beni di
produzione occidentale. Ciò può portare facilmente a comprendere come il culto del cargo non sia
altro che una reazione alla colonizzazione, una protesta per un mancato inserimento nel flusso dei
beni di provenienza occidentale: il cargo è quindi un discorso critico molto complesso che la
società melanesiana conduce su se stessa.
Il culto del cargo ha un forte carattere mimetico, che ci porta ad una nuova tematica: quella della
mimesi come appropriazione del potere dell’altro allo scopo di riformulare la propria identità e
potersi distinguere da quest’ultimo. Però è anche vero che ci sono articoli, destinati ai turisti, che
servono come testimonianza del fatto che l’autenticità non è il sogno di un ritorno alle origini ma
un “discorso” che rilancia la cultura papua di oggi nel flusso dei contatti con l’Occidente con il
turismo e la modernità. Le storyboards (tavolette di legno su cui sono scolpite in rilievo e dipinte
scene della vita quotidiana), per esempio, sarebbero un esempio di ciò che consente ai papua di
mettere in contatto “l’interno (la loro società) con l’esterno (il mondo)”, promuovendo l’incontro
fra la realtà locale e le forze globali che percorrono il mondo contemporaneo.
4.1 Nazionalismo e linguaggio scientifico  Molti degli stati nazionali sorti all’indomani della
decolonizzazione comprendono, entro i propri confini, aree nelle quali vivono gruppi con culture,
lingue e fedi religiose spesso molto diverse fra loro. Questi stati nazionali, i cui confini ricalcano
nella maggior parte dei casi quelle delle ex colonie, sono sovente percorsi da forti tensioni interne
dovute al fatto che uno o alcuni di tali gruppi esercitano un’egemonia relativa o assoluta su tutti gli
altri, avocando a sé il privilegio di guidare le sorti dell’intero paese. Molte delle tensioni oggi
presenti nei paesi del Sud del mondo sono dovute a questa situazione e al fatto che spesso i gruppi
egemoni al potere sono quelli che vennero considerati come interlocutori privilegiati dai
colonizzatori.
Il caso del nazionalismo baluchi può costituire un esempio di come il traffico delle culture si realizzi
nel mondo attuale. La teoria delle origini indoeuropee, sulle quali i baluch puntano allo scopo di
farsi riconoscere come nazione, proviene dal discorso della scienza europea dell’Ottocento. Il caso
dei baluch, che per questa via stanno “inventando un’identità nazionale, la propria, dovrebbe
indurci a riflettere sui meccanismi che sono alla base di tante altre “invenzioni identitarie” nel
mondo attuale. Il discorso della modernizzazione, se avvicina le culture fra loro nel momento
stesso in cui le ingloba nel proprio linguaggio, di fatto le distanzia. Il linguaggio dello sviluppo, in
particolare, dal momento che porta in sé un’idea di progresso, si presta all’instaurazione di forme
di distanziamento sul piano culturale e politico.
5. Marginalità e resistenze nella globalizzazione
Vi sono aree del pianeta in cui le popolazioni si riorganizzano dopo essere state “de-culturate”,
private cioè delle loro tradizioni e spinte a riformulare nuovi tipi di relazioni sociali e nuovi stili di
pensiero. Un esempio di ciò potrebbe essere l’Africa subsahariana, che Latouche definisce come “il
pianeta dei naufraghi”, un luogo che ha trovato e trova nuove vie per sfuggire dalla devastazione
indotta dall’occidentalizzazione del mondo. Si tratta di quei paesi completamente esclusi dalla
“megamacchina tecnoeconomica transnazionale, là dove i benefici sociali, politici ed economici
delle modernità sono quasi inesistenti”. Sempre Latouche crede che queste realtà marginali stiano
facendo emergere delle società vernacolari che starebbero nascendo sulle macerie delle antiche
comunità. Saremmo qui di fronte al famoso esempio di Clifford, quello della “sozzura” disseminata
dall’Occidente, la quale è tuttavia fertilizzante per nuove sintesi sul piano culturale e sociale.
Purtroppo, c’è da dire che la visione di Latouche è eccessivamente ottimistica anche perché questi
esclusi dalla megamacchina si organizzano sempre più in quelle che Richards ha chiamato “enclave
sociali”, specie di potentati fondati sull’esercizio sistematico della violenza, come la Revolutionary
United Front of Sierra Leone: giovani marginali, privi di mezzi di sostentamento e di istruzione, che
si oppongono al “sistema” formando milizie al servizio di interessi economici complessi, che vanno
dalle élite locali agli affari esteri interessati ai diamanti. È in questo contesto che la violenza messa
in atto da individui privi di legami comuni che hanno a loro volta subito varie forme di violenza
diventa un mezzo di distinzione utile a stabilire una equivalenza tra chi mette in atto tale violenza
e coloro sui quali viene esercitata.
5.1 Subculture e crisi di rappresentazione dell’alterità le subculture non sono “culture minori o
inferiori”, ma sono ambiti “circoscritti”, al cui interno prevalgono codici di significato e di
comportamento peculiari. Un esempio potrebbe essere rappresentato dal sistema delle
confraternite religiose in Italia e Spagna, dai massoni, dai cinefili etc.
Il traffico delle culture e le forme di ibridazione, sincretismo e mimesi che tale traffico comporta
hanno costituito delle forti spinte verso una riformulazione de modo in cui l’Occidente stesso, e il
sapere antropologico, si sono posti la questione di “rappresentare” l’alterità. È per questo motivo
che nell’ultima ventina d’anni si è cominciato a parlare di “crisi della rappresentazione
etnografica”.
In L’Europa e i popoli senza storia, Eric Wolf ha voluto attirare l’attenzione sul fatto che
l’antropologia abbia elaborato un’immagine della cultura e della società come entità “autonome”,
finendo per cadere prigioniera dei “limiti delle sue stesse definizioni”. Wolf polemizza con quelle
correnti della tradizione antropologica che hanno avuto la tendenza, il più delle volte in maniera
inconsapevole, a presentare i popoli altri sotto forma di comunità “primitive”, “arcaiche”,
“tradizionali”, in possesso di culture e istituzioni sociali “incontaminate”.

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