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1. Confini disciplinari
Con il termine antropologia culturale intendiamo il “sapere della differenza”: sapere, per indicare
che l’antropologia è nata in Occidente e si è sviluppata secondo le modalità che costituiscono la
conoscenza nella tradizionale visione scientifica e accademica occidentale. Infatti, l’antropologia si
è costituita in Occidente a partire dal XV secolo come discorso che parla degli altri. Differenza sta
a delimitare la specificità dell’ambito disciplinare antropologico, attribuendogli delle
caratteristiche molto precise. L’antropologia infatti, si propone di raggiungere una comprensione
di fatti (usi e costumi) che appaiono strani, bizzarri, assurdi, incomprensibili al nostro sguardo
perché sono diversi rispetto a quelli che ci sono familiari e che ci appaiono, invece naturali.
Cosa fanno gli antropologi? Diciamo che l’antropologia nasce in Europa nell’Ottocento e si
caratterizza come studio dei popoli primitivi, “selvaggi” per mantenere la terminologia degli
studiosi di quel periodo o, anche, tribali. Ma a quale scopo studiare i primitivi? Clyde Kluckhohn
crede che l’antropologia permetta all’uomo di osservarsi nella sua molteplice varietà, riflettendo
sulle differenze.
Nel Novecento, infatti, si verifica un impegno nuovo nello studio delle altre culture,
documentandole con il fine di salvaguardare le differenze culturali dal rischio di un massiccio
processo di omogeneizzazione culturale mondiale. Il secondo intento, invece, è quello di criticare
culturalmente la stessa società occidentale proprio attraverso lo studio delle altre società.
Fino a qualche anno fa, il mondo contemporaneo era diviso in 3 parti:
1. PRIMO MONDO: quello dell’economia capitalistica, naturale e razionale (studio di discipline
“nobili” come la storia, la sociologia, l’economia).
2. SECONDO MONDO: quello dei paesi ex socialisti in cui il peso dell’ideologia e
dell’autoritarismo riducevano nettamente l’efficienza, impedendone il pieno sviluppo
3. TERZO MONDO: quello dei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo schiacciato da tradizioni
primitive e assurde, arretrato e irrazionale: proprio questo, il privilegiato dalla disciplina
dell’antropologia culturale e sociale.
Ciò nonostante, questa visione non è molto valida oggi perché il mondo è cambiato. Ma se
scomparissero le popolazioni del Terzo Mondo, oggetto di studio dell’antropologia, scomparirebbe
la disciplina stessa? La risposta è semplice: le popolazioni primitive, ormai tutte localizzate
spazialmente grazie all’urgenza della salvaguardia, non sono scomparse bensì si sono evolute e
hanno visto una loro riformulazione provocata dalla globalizzazione.
C’è da dire che la storia dell’uomo si caratterizza anche dalla discontinuità generazionale, ovvero
dal distacco della tradizione rispetto alla generazione precedente. Ciò permette alle società di
evolvere e di risultare dinamiche, ma non tutte le culture e le società evolvono con la stessa
dinamica, seguendo uno schema univoco. Se considerassimo le culture “rimaste indietro” e
lontane dai processi evolutivi delle società occidentali, potremmo essere erroneamente portati a
considerare le società tribali come arretrate, pagane, selvagge. La prospettiva da adottare, invece,
è quella che concepisce diverse fasi e diversi percorsi evolutivi di culture che non sono inferiori,
bensì semplicemente diverse.
TYLOR afferma nel 1871 che “la cultura o civiltà è quell’insieme complesso che racchiude in sé
la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità o
abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società”. Questo è un punto di
riferimento classico dell’antropologia culturale. L’insieme complesso di cui parla Tylor è un
aspetto fondamentale, perché sottolinea il mescolarsi di usi e costumi alla conoscenza, alla
morale, all’arte, etc., così come “… qualsiasi altra capacità” sta ad intendere che il diritto e il
costume non sono trasmessi geneticamente, bensì acquisiti socialmente. La cultura, qui, non è
intesa come elemento esclusivo di alcune società e di alcuni ceti o strati sociali, bensì è intesa nel
suo più ampio senso etnografico che accomuna tutte le società umane. Tylor ci tiene a sottolineare
che la cultura è una caratteristica dell’uomo sociale, indipendentemente dal luogo in cui si trova:
da qui, l’inizio del viaggio etnografico verso forme diverse di cultura.
Nonostante la definizione di Tylor ponga le basi per l’antropologia del Novecento, non tutti furono
d’accordo con la sua visione in particolare Franz Boas e Bronislaw Malinowski, fondatori delle due
maggiori scuole antropologiche del Novecento. Essi respingono il punto di vista storico-evolutivo
di Tylor, negando la possibilità di riportare tutte le culture ad uno schema unico e universalmente
valido di sviluppo culturale e di determinarne le fasi secondo leggi uniformi per ciascuna.
BOAS afferma la necessità di studiare le culture nel loro particolare contesto storico, evitando
parallelismi rischiosi e privi di fondamento. MALINOWSKI ritiene che ogni cultura sia un sistema
chiuso, un complesso di elementi legati fra loro da relazioni funzionali. RADCLIFFE-BROWN si
convinse che l’oggetto dell’antropologo dovesse essere la società, concretamente osservabile, e
non la cultura, un’astrazione derivata da quella.
Tylor parla di cultura al singolare per intendere il patrimonio di tutta l’umanità, ma come si può
osservare dagli altri pensatori il concetto si è esteso in un concetto collettivo, che indica una
molteplicità di culture diverse e indipendenti. Oggetto dell’antropologia diventa, quindi, la singola
cultura. Se Tylor poneva le basi per una logica della continuità fra noi e gli altri, alla base
dell’operazione di mescolamento, si fa sempre più strada nel corso del Novecento la logica
opposta della discontinuità: il riconoscimento della molteplicità culturale darà l’avvio di quello che
James Clifford chiama la “collezione di culture”, ovvero l’affermarsi della logica della discontinuità,
che risulterà dominante nelle scienze sociali del Novecento.