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PEDAGOGIA

INTERCULTURALE
18/10/2016

No distinzione tra pedagogia e pedagogia interculturale

Pedagogia= scienza che si occupa dei processi educativi quindi della formazione dell’uomo (i
processi sono interculturali)

Approccio empirico (sul campo)
Approccio teorico à ragionamento filosofico, metodo speculativo
Approccio qualitativo e quantitativo

• Interculturale non è una nuova scienza, non è una disciplina a sé stante
• Interculturale è un nuovo tipo di discorso sull’uomo nato per un’esigenza teorico-
pratica
• Interculturale è la pedagogia che cambia il suo paradigma e ingloba il tema della
diversità, della pluralità
• È la pedagogia che diventa “interculturale” quando adotto un modo di studiare i
fenomeni plurale, aperto, interdisciplinare
• Non è una pedagogia speciale
• La pedagogia interculturale si interessa ai modi di concepire e descrivere le differenze,
in questo senso ha bisogno delle altre scienze
• È la risposta pedagogica ai temi della società multiculturale
• Si fonda sul concetto di cultura allargato, egualitario, che difende l’uguaglianza e i
diritti di tutti
• Sostiene la possibilità di una convivenza pacifica
• Dispone di una consapevolezza politica
• Rifiuta la gerarchia tra e culture

Pedagogia interculturale rilegge temi e problemi educativi tenendo conto di:
- incontro-scontro tra culture
- il raccordo tra identità-alterità
- il superamento dei pregiudizi
- i temi del dialogo e dell’incontro

Oggetto di studio
Nella pedagogia interculturale confluiscono riflessioni che riguardano:
• le differenze etniche e culturali sui processi educativi e la loro influenza (es. scuola,
famiglia, figli di genitori immigrati)
• la sensibilità verso i problemi che attengono a una dimensione sovranazionale (es.
diritti umani, ecologia, conflitti ecc…)
• rinnovamento dei paradigmi scientifici e metodologici (inter-disciplinarietà, pensiero-
complesso, ricerca sul campo ecc…)

La pedagogia interculturale si occupa di tutte quelle questioni che riguardano:
“la possibilità di rispettare le diversità e di integrarle in una unità che non le annulli”
(Sisma Terranova, 1997)

ESPERIENZA EDUCATIVA- IMPEGNO PEDAGOGICO

APPROCCIO TRASFORMATIVO
• educare alla multiculturalità, pluralismo, convivenza, partecipazione, cittadinanza,
rispetto, dialogo
• richiede progettualità, impegno, sguardo al futuro

Quando nasce la pedagogia interculturale? Fine anni ‘70
• nasce alla fine anni ’70, in particolare nei paesi interessati dai fenomeni migratori
• originariamente con un approccio tendenzialmente “comparativo” (colmare lacune,
svantaggi socioculturali dei più deboli…)
• sviluppo: anni ’90 – anni di grande investimento su questo tema che diventa un tema
chiave

(25/10/2016)
MODELLO SEGREGAZIONISTA
Basato su strategia della separazione: ciò che è diverso sul territorio deve rimanere separato,
nessun tipo di interazione e di scambio.
Sul tale modello si basa la pedagogia nazionale che si sviluppa nell’Italia fascista e nella
Germania nazista. Si richiama al nazionalismo che annullava lo spazio per qualsiasi tipo di
differenza culturale, allo scopo di rafforzare ---

MODELLO ASSIMILAZIONISTA
Anni 60/70 tendenza a far convertire le culture minoritarie alla cultura dominante, per poter
prendere parte al così detto “progresso”
Le politiche del melting-pot stati uniti e nei Paesi che per primi si caratterizzano come paesi di
immigrazione, Canada, Australia. I gruppi etnici mescolano le proprie caratteristiche culturali
per creare poi una nuova amalgama sociale, confondendo le proprie radici e
dimenticandosele.
La negazione delle differenze etniche e culturali non ha avuto come esito sperato la loro
scomparsa, ma la loro trasformazione in disuguaglianze sociali e marginalizzazione.

L’ideale del melting-pot è fallito quando minoranze etniche hanno rivendicato le loro origini e
la loro identità. Si è verificata la tendenza delle etnie minoritarie a coalizzarsi per difendere le
proprie radici e per creare nuove nicchie difensive contro il processo di assimilazione.

COMPLESSITÀ
La convivenza delle etnie non può essere una semplice risposta della multiculturalità: la
comprensione e cooperazione non si producono da sole, ma hanno bisogno di un lavoro
educativo finalizzato alla convivenza.

MODELLO INTEGRAZIONISTA
Reazione e contrasto al modello assimilazionista, riconoscimento esistenza di un gruppo con
caratteristiche culturali diverse convertendo però in “speciale” e attivando interventi
istituzionali per aiutare l’adattamento in termini di rieducazione, inserimento, appoggio e
comparazione,
una strategia di integrazione multiculturale che pone l’accento sulle diversità e sulla pluralità
---
all’interno di questo modello possiamo individuare una prima concettualizzazione pedagogica
che riguarda la così detta “pedagogia per stranieri”; Germania ---

Nel mescolamento i tratti della maggioranza si impongono su quelli della minoranza e la
cultura della minoranza finisce per essere assorbita.
La teoria del mescolamento, dunque sta nella formula del melting-pot, sia nella formula della
salad bowl, tende sempre a far prevalere la cultura maggiore e ad annullare quella delle
minoranze.
Sul piano politico, la teoria del mescolamento come fatto naturale giustifica una politica di
abbandono delle minoranze, di scuole separate disuguali, di pratica razzista e di
emarginazione.










































CAP. 1 – LE PAROLE DELL’INTERCULTURA

1.1 – Esiste ancora una questione di termini?
Dal dopo guerra a oggi in Italia, in Europa e nei paesi di più antica immigrazione, si sono
insediati, hanno creato una nuova patria, fino a ottenere la naturalizzazione e la cittadinanza,
diversi gruppi di popolazione non autoctona. Questi gruppi sono stati visti e etichettati in
modo differente a seconda del loro paese di provenienza, delle regioni per cui lo avevano
lasciarono, del periodo storico, origini socioeconomiche, livello di istruzione.
Analizzare il modo in cui questi diversi gruppi migratori si sono caratterizzati e come essi
sono stati di volta in volta definiti/denominati dalla popolazione locale significa prendere in
esame i rapporti fra i diversi gruppi culturali di una certa società, cercando di interpretare i
rapporti di forza fra essi.
In Italia, quando nella seconda metà degli anni ’80 il flusso di cittadini provenienti da altri
paesi si è intensificato, diverse componenti della società hanno cercato strumenti per
conoscere e giudicare i diversi mondi con cui venivano a contatto. Le parole, le categorie
mentali o gli strumenti di analisi risentivano dell’ingenuità, della sorpresa, dell’ignoranza o
del desiderio di conoscere mondi lontani. A volte utilizzavano termini generici o demagogici o
a volte sottogruppi, categorie di carattere sociologico, psicologico, geopolitico ecc.
La maggior parte della popolazione autoctona tende a percepire, interpretare e classificare la
società multietnica in cui viviamo semplificando e generalizzando una realtà sempre più
complessa e articolata.

1.2 – Complessità sociale e semplificazione definitoria
Spesso in Italia si parla dei soggetti con origini diverse da quella italiana, utilizzando i termini
generici di “stranieri, “immigrati” (naturalizzati e i loro figli), “extracomunitari” intendendo
tutti i provenienti da paesi più svantaggiati, senza rendersi conto che in questo gruppo
andrebbero compresi anche i cittadini svizzeri, giapponesi, statunitensi presenti nel nostro
paese perché non fanno parte della Comunità europea. Si etichettano i residenti senza
cittadinanza più bisognosi. Più sporchi, senza lavoro e senza casa, chi “invade il nostro paese
per “rubarci” lavoro, casa, donne…
L’utilizzo indiscriminato di termini non appropriati contribuisce a creare e mantenere
stereotipi sui gruppi in questione.
I termini utilizzati per definire la popolazione immigrata nel nostro paese rimangono ancora
generici e carichi di contenuti ideologico-politici e rispecchiano i vissuti e le reazioni emotive
della popolazione locale, la sua ignoranza rispetto alle altre culture, il suo etnocentrismo,
stereotipi, pregiudizi…
In Italia denominiamo “emigrati” gli italiani che sono andati in Argentina in cerca di lavoro; gli
stessi vengono chiamati “immigrati dagli argentini.
Esiste nella mentalità comune una percezione degli immigrati come persone “bisognose”
distinguendoli da chi viaggia per avventura, interesse, motivazioni sociali o emancipatorie.
L’italiano che va a studiare negli Stati Uniti non viene considerato “emigrato”, ma il senegalese
che studia filosofia in Italia viene accorpato ai gruppi degli altri “immigrati”. Il gruppo di
coloro che vengono definiti “immigrati” corrisponde più precisamente in larga parte a coloro
che vengono chiamati “immigrati economici”.
Non molti sanno che i rifugiati politici differiscono da questo gruppo eterogeneo costituito
dagli immigrati economici. Gli appartenenti a tale gruppo vengono definiti “rifugiati”,
“immigrati politici” o “migranti”, significa che nono in attesa di un asilo politico.


Il fatto che a definire un certo gruppo non siano i soggetti interessati, ma il gruppo dominante,
rivela come tutte le questioni definitorie possano rimandare a uno squilibrio di potere (es.
termini “nigger” per gli afro americani, richiama al passato di schiavi delle popolazioni
deportate dall’Africa).
Alcuni cittadini autoctoni hanno pensato di sostituire il termine Neri con il termine “di
colore”, appariva più “buono. I diretti interessati lo hanno considerato invece offensivo,
perché richiama categorie dell’Apartheid sudafricana e ha l’effetto di emarginarli.
Negli anni ’50 Malcom X, attivista statunitense che lottò a favore dei diritti degli
afroamericani, decise di assumere il termine Afroamericano, “Africani che vivono in America”.
Non si riferisce agli statunitensi neri in generale, ma solo ai discendenti degli schiavi africani
portati negli Stati Uniti che non sanno da quale parte dell’Africa provengono precisamente.
Alcuni scrittori hanno introdotto il termine “Afro-politan”, diffuso dalla scrittrice Taine Selasi,
inglese cresciuta negli USA che ora vive a Roma, padre nigeriano e madre ghanese; vuole
sottolineare l’orgoglio delle proprie origini africane e allo stesso tempo il diritto di
cittadinanza che ogni persona dovrebbe rivendicare nel mondo in cui vive.
“straniero” = colui che vive momentaneamente o stabilmente sul territorio italiano
mantenendo la cittadinanza in un altro paese.
“minoranza” = un gruppo che risulta numericamente minore rispetto a una maggioranza;
spesso nell’uso, non fa riferimento alla minoranza numerica, ma allo squilibrio di potere tra
minoranza e società dominante.
“minoranza culturale” = anche questo non va inteso in senso quantitativo ma qualitativo,
perché richiama un gruppo spesso numericamente inferiore, ma che si distingue per
l’appartenenza a una cultura considerata inferiore rispetto a quella di maggioranza.
Spesso il termine “minoritario” è stato associato a quello di etnia. I dizionari tendono a far
rientrare il concetto di minoranza linguistica all’interno della minoranza etnica. In sede
giuridica il concetto di minoranza linguistica viene ricollegato a una volontà del legislatore di
tutelare il soggetto coinvolto. Anche rispetto al termine “etnico” in sé si evidenziano delle
ambiguità, l’idea che esista una popolazione con caratteristiche somatiche e genetiche che sia
esattamente definibile à scambi culturali, genetici hanno permesso di ricostruire i flussi
migratori, gli incroci.
Gli studi genetici evidenziano come il termine “razza” sia un’astrazione culturale, politica che
risale al periodo del colonialismo europeo. Per questo alcuni studiosi hanno parlato di
“invenzione dell’etnia” (come costruzione culturale).
L’identità cultura non viene più intesa in termini di presupposto naturale o genetico, ma alla
risultante di processi storico-sociali che si incarnano in una complessa e lunga “negoziazione”.

APPROFONDIMENTO – IL CASO DEI ROM
Gruppo oggetto di pregiudizi per l’idea spesso incoraggiata dai mass media che i rom, in
aumento, minaccino la popolazione locale. La terminologia con cui vengono definiti è
tendenzialmente legata più all’immaginario e alle credenze/usanze popolari, che all’effettiva
conoscenza della loro storia.
Fin dal loro arrivo in Europa nell’epoca medievale i gruppi rom sono stati definiti mediante
stereotipi sia di tipo negativo, sia positivo. Nonostante le continue persecuzioni e
emarginazioni, si sono verificati casi di integrazione economica e sociale.






1.3 - La questione delle “seconde generazioni”
Riferimento ai figli di immigrati, ragazzi nati in Italia, oppure arrivati nel Paese durante
l’infanzia o l’adolescenza; anche chi è figlio di coppie miste o minorenni immigrati non
accompagnati à generica definizione à dibattito tra studiosi.
• Difficoltà nell’uso della lingua del paese ospitante e quindi nell’espressione di un
linguaggio “scolastico”
• Vissuto di discriminazione à definiti immigrati di seconda generazione, sottolineando
così la loro appartenenza a un gruppo culturale ed etnico non autoctono
• Colore scuro o meticciato della pelle
La presenza delle nuove generazioni nate dall’immigrazione ha rappresentato un evolversi dei
rapporti interetnici.
La Francia individua tre pericoli:
1) la possibilità che i diversi gruppi etnici rimangano bloccati in “nidi comunitari” che
spingono i giovani immigrati a rimanere nella posizione dei loro genitori
2) il rischio di vedere la propria presenza limitata nella scena pubblica
3) un possibile attaccamento al quartiere dove si vive con atteggiamenti di tipo difensivo,
relativo soprattutto alle giovani donne.
Per la Francia, i discendenti di chi è entrato come immigrato diventano francesi a pieno titolo
à in quanto immigrato vede messa in questione un’appartenenza ancora in formazione e
comunque temporanea.
In Italia, Rumbaut propone una distinzione più articolata:
• generazione propriamente detta (nati in Italia da genitori immigrati)
• generazione 1.5 (figli giunti in Italia dopo la nascita)
• generazione 1 (bambini e ragazzi che sono arrivati in Italia in maniera indipendente e
non prima dei 15 anni)
prospettiva più centrata sulle storie di vita.
Un altro termine utilizzato molto nella letteratura canadese è “minoranze visibili”
sottolineando l’aspetto ancora molto influente delle caratteristiche somatiche.
Termine recente più ampio e generale, “nuove generazioni” che cerca di attribuire un
carattere di mescolanza alla realtà giovanile in Italia.
Per quanto riguarda l’inserimento di questi giovani, il primo scoglio si incontra nella scuola
secondaria di primo grado à prime vere discriminazioni da parte dei pari o delle insegnanti,
e che continuerà per tutte le scuole superiori. Ma la discriminazione vera e propria si subirà
nel momento in cui si cerca lavoro. Secondo la Commissione europea le discriminazioni
possono essere di due tipi: quelle aperte à trattamenti peggiori per motivi di “razza”, etnia,
religione ecc. e quelle indirette à criteri impliciti possono penalizzare particolari soggetti in
relazione alle loro caratteristiche di etnia, età ecc. quest’ultima rischia di passare inosservata.
I minori stranieri tendono a definirsi in base alla loro appartenenza etnica, anche se non
corrisponde al luogo d’origine della loro famiglia à ricerca identitaria. Essi pagano sulla loro
pelle quella che alcuni autori chiamano “una lacerazione dell’io”, perché divisi tra istanze
culturali in conflitto, fra due mondi fra i quali le comunicazioni sono minime o discriminati e
stereotipati. Il minorenne straniero si trova in una differente visibilità: dalla presenza
“invisibile dal punto di vista dei diritti a un eccessiva visibilità per discriminazioni e stereotipi
à lacerazione identitaria.
L’adolescente con background migratorio è forzato verso modi di pensare e di comportarsi
diversi da quelli che percorrerebbe autonomamente , nella difficoltà di integrare due mondi
culturali differenti.



1.4 - Il concetto di métissage
Nasce con un accezione “razziale-eugenetica” poi concezione culturale. Utilizzato negli USA
nelle lotte contro il razzismo e nella difesa del multiculturalismo.
Secondo l’antropologo Amselle esistono due tipi di métissage:
1) a posteriori à utilizzata come strumento di indifferenziazione e assimilazione sociale.
L’occidentalizzazione di ogni realtà culturale colonizzata viene realizzata in due fasi:
attivazione negli ex-coloni della coscienza e dell’affermazione del diritto culturaleà
tollerabilità delle differenze; poi omologazione di ogni differenza culturale negli
standard occidentali
2) a priori à antepone a questo dualismo identità-differenza, il concetto di indifferenza
culturale: dichiarazione di un métissage originario dal quale tutte le culture
deriverebbero. Ogni cultura vive attraverso le altre. Invito di Senghor: concetto di
negritude, uscire dall’essenzialismo culturale che la pratica di rivendicazione aveva
generato. Diagne, filosofo senegalese, analizza il métissage e la continuità. Senghor
diviene cosciente del dinamismo presente nel concetto di tradizione, comprende che
oltre al dualismo tradizione/progresso, esiste un principio di fraternità fra culture à
ponti fra civiltà mondiali.
Considerare il métissge come una forma di convivenza e di mediazione quotidiana fra le
culture à anche pluriappartenenza, si sceglie di enfatizzare o minimizzare elementi che
rimandano a diverse appartenenze.
Non “doppie identità”, ma “identità differite”, ma la difficoltà di inserimento non facilitano un
percorso positivo per la formazione autonoma identitaria e relazionale.

1.5 - Dal métissage all’interculturalità
Spesso “multiculturalità” e “interculturalità” usati come sinonimi. Il multiculturalismo nasce
negli USA negli anni ’50 per realizzare il cosiddetto “melting-pot”, integrare migranti di
qualsiasi origine “fondendo le loro culture nel melting-pot della cultura americana.
“educazione multiculturale” à da un lato movimento antirazzista, dall’altro risposta
idealistica contro la proposta delle scuole speciali che inseriva migranti di diverse origini
nelle scuole per disabili o per bambini svantaggiati.
Passaggio dal concetto di multiculturalità a interculturalità à prendendo atto sia della
concezione reificata di cultura (culture concepite come omogenee, confini netti, mosaico di
culture), sia quella narrativa. Alcuni presupposti comuni:
• Comportamento di un individuo descritto e interpretato come risultato diretto
dell’appartenenza al gruppo/comunità culturale di riferimento
• Ogni gruppo ha diritto di un proprio spazio à costruzione ghetti
• Ogni gruppo ha diritto di essere tutelato
• Le differenze culturali devono avere diritto di espressione negli spazi pubblici
L’approccio multiculturale è stato applicato in ambito educativo e scolastico à
riconoscimento delle differenze e attenzione ai gruppi marginali. Il multiculturalismo finisce
per sfociare in un relativismo culturale discriminatorio sia nei confronti dei gruppi minoritari,
sia nei confronti della cultura del paese ospitante.
“formula culturale” à permette di leggere l’esperienza culturale delle persone come un
insieme di fattori per una sintesi unica e irripetibile à incontro/confronto con contesti
culturali diversi.
Il suffisso “inter” mette in primo piano la dimensione relazionale e la reciprocità dove il
rapporto fra culture diventa scambio. “Riconoscimento” parole chiave dell’intercultura.
Concezione interculturalista insiste sulle alterità à rischio processi segregativi, ma nuovo
contributo al dibattito sull’universalismo (difende principio di eguaglianza). Concetto di
“transculturalità” supera queste contraddizioni (cerca punti in comune delle diverse culture).
CAP. 2 – PEDAGOGIA E DIFFERENZE CULTURALI: RISORSE E DILEMMI DEL
SAPERE DEGLI ANTROPOLOGI

2.1 - Le ragioni di un dialogo
dialogo con antropologia indispensabile. Concepire e descrivere le differenze culturali per
rendere possibile la comunità interculturale. L’antropologia è un’interrogazione costante sul
Noi attraverso il distanziamento prodotto dal tentativo, sempre incerto, di conoscere la
differenza, un esercizio di conoscenza dei modi attraverso cui Noi produciamo qualcosa che
consideriamo conoscenza dell’altro.

2.2 - L’evoluzionismo ottocentesco: una forma di universalismo
XIX: riflessione sulla cultura umana = sapere scientifico à elaborazione leggi che regolano
l’evoluzione culturale à leggi generali e universali. Approccio universalista à uniformità
della psiche umana, su scala evolutiva à tutte le culture possono essere comparate.

L’evoluzionismo unilineare e il metodo comparativo
Uniformità psichica, scala evolutiva che va dal semplice (primitivi) al complesso (società
europee contemporanee), (come nell’evoluzione biologica). Differenze culturali = diverso
ritmo evolutivo.
Il metodo comparativo permetteva agli antropologi di stabilire il grado di evoluzione,
constatavano le ricorrenze di manifestazioni culturali tra gruppi lontani nello spazio e nel
tempo à “comparativismo selvaggio”
Tre principali premesse teoriche:
1) Trasferiva la legge dell’evoluzione biologica allo studio della cultura.
2) Ricavava e trasferiva il principio causa-effetto.
3) Quindi il metodo comparativo confrontava “prodotti”, sganciati dall’analisi dei processi
attraverso cui essi erano stati prodotti e dai contesti entro cui erano rilevati.
Il modello permetteva previsioni e ricostruzioni storiche.

L’universalismo etnocentrico dell’evoluzionismo unilineare
La rappresentazione della diversità delle culture umane permetteva di classificare gli uomini
come migliori o come peggiori secondo l’unità di misura del modello di sviluppo delle società
europee dell’epoca à etnocentrismo à legittimazione dell’impresa coloniale à europeo =
civilizzatore. Antropologia = ancella del colonialismo, si servì delle imprese coloniali per
raccogliere i suoi dati.

2.3 - il particolarismo storico: le radici del relativismo culturale
Ø Franz Boas: dal metodo comparativo all’etnografia
“i limiti del metodo comparativo dell’antropologia” (1896) à critica la fondatezza di
comparazioni e generalizzazioni prodotte attraverso una comparazione di fatti estrapolati dai
contesti; ciò che l’evoluzionismo postulava teoricamente, il particolarismo storico intendeva
scoprire empiricamente. à lavoro sul campo e produzione di resoconti etnografici.
Non si poteva più intendere la storia come un’unica linea di sviluppo dell’umanità, ma come
un insieme di storie particolari, di sviluppi differenti i quali in alcuni casi avevano prodotto
fatti simili. Sapere antropologico si iniziava a configurare come uno studio particolare di
fenomeni particolari, producendo ritratti singolari di società e delle loro storie che ne
mostravano l’incomparabilità.
Sospensione ambizione “nomotetica”, cioè di produrre leggi universali che rendessero conto
in termini causali della differenza culturale. Oggetto dell’antropologia cambia: non più unità
psichica, ma la specificità culturale in sé à relativismo culturale (no giudizi, no paragoni).
Ø Il relativismo culturale e la crisi dell’etnocentrismo
Comparazione tra diverse culture non più valore epistemologico, confronto e giudizio
culturale nessuna validità scientifica.
Ricerche sul campo contribuirono all’ampliamento della conoscenza occidentale sui non
occidentali.
I primi allievi di Boas contribuirono in due aspetti importanti all’evoluzione del pensiero sulla
differenza culturale: misero in crisi ogni forma di determinismo biologico: variabile di cultura
in cultura e non commisurabile e giudicabile appellandosi a una supposta “natura umana”;
infine criticarono l’etnocentrismo à valore critico dell’antropologia nei confronti dei modelli
occidentali; culture non più gerarchizzabili, ma tutte con pari dignità. Il modello culturale
occidentale appariva come uno tra i possibili, non necessariamente il migliore.
Il relativismo culturale incrina la possibilità epistemologica di trovare un termine di paragone
in base a cui giudicare le culture.

2.4 - Claude Lévi-Strauss. Un universalismo non etnocentrico
con lui, l’antropologia ha il compito di attraversare le differenze e di mostrare come la loro
pari dignità non stia nella loro incommensurabilità quanto nel loro essere tutte la
manifestazione di superficie di strutture logiche invarianti. Il modello a cui si ispira è il
linguaggio: prodotti differenti generati dalla comune capacità umana di linguaggio. Ciò che
accomuna gli uomini per Lévi-Strauss è la struttura logica del loro pensiero.
Lo sguardo dell’antropologo è “uno sguardo da lontano” che rivela ciò che sfugge al nativo, ma
che l’antropologo riesce a cogliere.
Gli uomini non erano uguali perché potenzialmente capaci di raggiungere il grado di civiltà
delle società europee, ma perché le loro culture nell’esatta configurazione attuale rivelano
medesimi e soggiacenti principi logici.

§ L’analisi strutturale: la ricerca delle strutture profonde del pensare umano
Per Lévi-Strauss, l’antropologo ha il compito di analizzare le credenze dei gruppi umani con
cui entra in contatto per individuare l’insieme di regole logiche di cui esse sono l’espressione
locale, attraverso il modello del linguaggio.
Non prendere sul serio le spiegazioni dei nativi ma come qualcosa da spiegare attraverso lo
“sguardo da lontano” dell’antropologo. Se è vero che gli uomini sono diversi rispetto a ciò che
pensano, ma non come pensano, l’analisi strutturale di ciò che pensano è il solo modo capace
di rivelare l’uguaglianza del come à profondamente universalista, oggetto di nuovo lo studio
dell’invarianza.

§ Dalla dignità del pensiero dell’Altro al privilegio dell’antropologo
à resta aperto il problema circa lo statuto della conoscenza antropologica e su ciò che essa è
in grado di dirci sull’uguaglianza e la diversità umana. Quanto è importante la spiegazione che
danno i nativi di una loro credenza e quanto lo è l’interpretazione dell’antropologo? Secondo
Lévi-Strauss i nativi forniscono testi il cui significato ultimo è ricavabile a partire dalla loro
analisi strutturale.

§ Sullo statuto della conoscenza antropologica
Qual è la relazione tra lo sguardo da lontano e la realtà che intende decifrare?
Pretesa che l’indagine possa far luce sulla realtà di quella realtà à messa in parentesi del
punto di vista dei nativi), ogni iniziativa pratica è un’interpretazione dell’antropologo: ciò che
egli ci restituisce non è la realtà, ma una sua rappresentazione.


2.5 - Il paradigma interpretativo in antropologia: la proposta di Clifford Geertz
La presenza sul campo del ricercatore da un lato garantiva la sostenibilità scientifica del
progetto antropologico, dall’altro era il limite alle possibilità di una descrizione oggettiva dei
fatti. Per gli antropologi era ovvio che l’etnografo producesse delle descrizioni oggettive.
Geertz è considerato il fondatore dell’antropologia interpretativa à dati= interpretazioni di
interpretazioni à due elementi fondamentali:

1) certificazione che ciò che l’antropologo consegna al pubblico è un’interpretazione,
prodotto dell’incontro tra punto di vista e realtà
2) cambia l’oggetto dell’indagine: non più pratiche culturali in sé, ma il modo con cui i
nativi interpretano le loro pratiche culturali e il significato che loro vi attribuiscono.


o Dal punto di vista dei nativi
Per conoscere l’interpretazione che i nativi forniscono a loro mondo, per Geertz, è la
produzione di “descrizioni dense”. Si tratta di descrizioni “orientate dagli attori”, prodotte dal
punto di vista dei nativi.
Scopo dell’antropologo: far capire come gli altri capiscono. Continuo va e vieni tra i “concetti
vicini all’esperienza” quelli nei cui termini un nativo interpreta il suo mondo, e i “concetti
lontani dall’esperienza” griglie concettuali dell’antropologo à traduttore di testi.


o La cultura come testo, l’antropologo come interprete
La metafora della cultura come testo ha il limite di non prendere in seria considerazione la
variabilità individuale, sociale e contestuale dell’origine del significato; il fatto che il
significato non sta tanto nella mente dei nativi, ma viene costruito nel corso dell’interazione
tra antropologo in conversazione con il nativo. Critica: non più un insieme di fatti, ma di
interpretazioni native trattate come fatti.



2.6 - Dall’antropologia interpretativa all’antropologia dialogica
Esiste quindi la possibilità di tradurre un universo in un altro. Antropologo = più simile a un
critico letterario, ma la critica resta una forma approssimativa di comprensione di quel testo.
Svolta dialogica: la cultura non è vista come il prerequisito dell’interazione, ma è il prodotto
dell’interazione. L’informatore costruisce la sua versione della realtà. Il dialogo sul campo è
visto ora come il luogo in cui i mondi sono co-prodotti, è il vero primo stadio
dell’interpretazione. L’oggetto di studio è costruito in uno scambio comunicativo reale.
L’antropologia si interroga su nuove questioni: come un significato viene localmente prodotto,
la dimensione di “chi dice quando cosa a chi”. Ridare al testo etnografico la multivocalità e la
pluralità di punti di vista.


- La cultura come testo, l’antropologo come autore
La riflessione epistemologica ha tentato di mettere in luce i modi con cui, attraverso la
scrittura, venisse neutralizzata la caratteristica interattiva e relazionale costitutiva del sapere
antropologico. La riflessione si è estremizzata giungendo ad annunciare la natura costruita e
fondamentalmente retorica della conoscenza antropologica.


2.7 - Verso nuovi contesti di ricerca
Alla fine del 900 nuovi interrogativi, sollecitati da mutamenti sociali e culturali (flussi
migratori, globalizzazione…). Gli antropologi orientano lo sguardo verso la società occidentale
à consente di riconoscere che anche noi siamo produttori di cultura e che anche la nostra
cultura è frutto di scelte storiche e non naturali.
Lo “sguardo da vicino” costringe a fare i conti con il paradosso della “familiarità” à può
rendere difficile isolare ed esplicitare i principi culturali che rischiano di ricadere nell’ovvio,
del “naturale” e quindi di non essere analizzati.
La differenza culturale non è più facilmente identificabile e collocabile in un territorio lontano
geograficamente e culturalmente. Al villaggio esotico e rurale viene sostituita le metropoli
occidentale e l’altro diventa lo “straniero” che abita nella nostra città.

2.8 - L’educazione interculturale e il sapere degli antropologi
Ciò che del sapere degli antropologi è pertinente rispetto a un punto di vista pedagogico è il
“come2 di quel sapere, non il “cosa” à esempio di costruzione di conoscenza a partire
dall’interazione. Più che del sapere degli antropologi, un educatore necessita del loro
mestiere, sperando in una co-costruzione di mondi in comune temporaneamente stabiliti.

v L’incontro interculturale come luogo di produzione culturale
L’educatore deve guardare ai modi e alle procedure che hanno permesso all’antropologo di
produrre un ritratto culturale.
Nella relazione educativa, attraverso l’interazione, gli educatori negoziano, interpretano,
riformulano la cultura nell’incontro concreto con i bambini e i ragazzi che incontrano nel loro
lavoro. L’educazione interculturale è il prodotto di un dialogo in situazione.

2.9 Pensare l’uguaglianza attraverso la differenza: quale risposta per l’educazione?
Universalismo e relativismo tra paradossi logici e dilemmi etici
Qualunque tentativo di individuare i tratti distintivi che fanno di un uomo un essere umano
contiene in sé il rischio di espellere dalla condizione umana coloro che sembrano non
rientrare in questi termini, quindi non analizzare le credenze sulla base di un criterio
universale à possibile gerarchizzazione delle differenze. L’istanza universalista rischia la
presunzione di cogliere l’universale attraverso un occhio particolare (quello antropologico).
Il relativismo invece sostiene che ogni credenza deve essere interpretata all’interno della
concezione del mondo a cui appartiene à rischia la legittimazione di qualsiasi evento,
credenza, azione.
Continuo allenamento del pensare come sia possibile coniugare l’universale col particolare
della condizione umana à come pensare la differenza in un modo che renda possibile la
convivenza? à tradurre è trovare un senso nell’altro che faccia senso anche per me, senza
necessariamente ridurlo a me.











CAP. 3 – COSTRUIRE LE DIFFERENZE. IMMAGINI DI STRANIERO NEI
CONTESTI EDUCATIVI

3.1 – I contesti educativi multiculturali tra dimensione oggettiva e significati soggettivi
Struttura situazione educativa = sistema di componenti dalle cui relazioni dipendono gli esiti
del processo di trasmissione culturale che ha come scopo la costruzione di identità e
conoscenze.
Sia l’educatore che i soggetti sono portatori di un’enciclopedia individuale costituita da saperi,
idee, intenzioni, aspettative, credenze elaborate altrove à pedagogia nascosta, teorie
soggettive, rappresentazioni di visioni del mondo à aspetto centrale della relazione
educativa.
Educatore = colui che realizza l’evento educativo a partire dalla sua interpretazione della
situazione, dei programmi, degli strumenti. I saperi e le credenze implicite tendono a essere
lasciate inconsceà competenza di educatore = conoscere i propri processi di interpretazione,
consapevolezza del processo cognitivo.

3.2 – Lo straniero come costruzione culturale
Essere stranieri = realtà sociale che esiste grazie a criteri condivisi secondo i quali una
persona è definita “straniera”. Uno di questi è quello giuridico à possesso della cittadinanza
à distribuzione differenziata di diritti e doveri.
Spesso però non identifichiamo una persona come straniera dal suo stato giuridico: come
parla, come si veste, colore della pelle, comportamento à categorizzazione sociale.
Pedagogia interculturale = si occupa dei processi attraverso cui gli individui sono classificati
come stranieri e dei parametri che si scelgono per classificarli come tali.

3.3 – La categorizzazione sociale: un processo di interpretazione della realtà
Categorizzazione degli individui: ordinare e semplificare la multiforme realtà in una rete di
somiglianze e differenze. Organizzazione dell’informazione che si attua nel raggruppare in
classi distinte gli individui a seconda degli scopi, bisogni e valori dell’individuo. à processi di
semplificazione e distorsione percettiva: l’individuo si comporta come se alcune somiglianze o
differenze fossero più marcate di quanto sembrerebbero.
Categorizzazione sociale = esempio di processo cognitivo fondamentale: la differenziazione
categoriale. È molto più conveniente reagire a un oggetto o individuo in quanto membro di un
classe piuttosto che come pezzo di realtà unico à massimizzare ciò che accomuna i membri e
ciò che li distingue dai non membri à processo di selezione di tratti distintivi e oppositivi,
alcune considerate rilevanti, altre ignorate per ordinare e semplificare il mondo sociale in
categorie [“stranieri”: minimizzato il fatto che parlano lingue differenti (differenze interne),
massimizzato il fatto che non parlano l’italiano (ciò che li distingue da un’altra classe)].
La realtà empirica viene così trasformata in realtà sociale (realtà costruita a partire da
decisioni individuali e culturali).

Ø Categorizzazione, valori e consenso sociale
Categorizzazione: margini di flessibilità e revocabilità in funzione dei bisogni, dei valori e delle
tradizioni di una cultura. Secondo Tajfel, quando un sistema di categorie sociali è associato a
un sistema di valori esso tende all’autoconservazione à quindi i margini di flessibilità si
assottigliano. L’autoconservazione si raggiunge in due modi: à produzione dello “stereotipo”
1)si crea mediante la selezione/modificazione dell’informazione proveniente dall’ambiente
sociale secondo modalità consone alla differenziazione di valori esistenti (le donne e il lavoro)
2)l’inerzia del sistema di categorizzazione si raggiunge mediante un aumento della capacità di
discriminazione attraverso l’associazione a determinati valori (donne=gravidanza, maternità)
3.4 – Lo stereotipo come processo cognitivo
Stereotipizzazione: si attribuiscono i tratti costitutivi della categoria a tutti o alla maggior
parte dei membri che le appartengono --< membri percepiti come essenzialmente simili,
diretta conseguenza del fenomeno cognitivo della “differenziazione categoriale”.
Il rischio dello stereotipo è nella “distorsione cognitiva” à determinare la nostra percezione
di casi individuali e costringerci ad accomodarli all’immagine generale di essi per “scorciatoia
mentale”. Il problema nasce quando si articola un giudizio di valore sui tratti definiti propri di
una categoria, che poi sono generalizzati a tutti i suoi membri.
Distinzione tra stereotipi e pregiudizi: i primi sono forme di generalizzazione in sé neutre, i
secondi si articolano sullo stereotipo dei giudizi di valore. I pregiudizi possono essere positivi,
negativi o neutrali, mentre gli stereotipi costituiscono la componente cognitiva del pregiudizio
e sono neutrali (liberi dal giudizio di valore).

3.5 - Il pregiudizio come atteggiamento
In origine: qualsiasi forma di giudizio apportato sulla realtà in modo aprioristico, prima di
ogni esperienza diretta di quella realtà.
Poi: disposizione o atteggiamento a reagire in modo positivo o negativo nei confronti delle
persone prima di aver avuto esperienze dirette con loro.
Allport “la natura del pregiudizio” à pregiudizio etnico: dispositivo per cui reagiamo
negativamente o positivamente a una persona in quanto appartenente a un gruppo.
Il pregiudizio implica quindi lo stereotipo, ossia la costruzione di una categoria sociale
oggettiva e descrivibile attraverso caratteristiche.
Lo stereotipo non comprende necessariamente il pregiudizio, ma si forma in un mondo
sociale carico di pregiudizi e immagini valorizzate o svalorizzate.

3.6 – La teoria dei prototipi e i processi di particolarizzazione: la non neutralità del
processo di stereotipizzazione sociale
Il lavoro cognitivo implicato nell’uso di una categoria è rappresentato nella nostra mente in
termini di prototipi (modelli), categorie che presentano delle costanti nelle loro
caratteristiche e perciò risultano particolarmente rappresentative per quella categoria. Può
trattarsi di un’immagine costruita da un assemblaggio di caratteristiche che corrispondono ad
altrettante proposizioni (prototipo proposizionale) o da un immagine figurativa (prototipo
figurativo).
La teoria dei prototipi stabilisce che la stereotipizzazione è un processo già contenuto nella
costruzione della stessa categoria à se le categorie sono rappresentate nella nostra mente
come dei prototipi, la distinzione tra categoria e stereotipo si indebolisce.
Per la teoria classica della categorizzazione sociale un individuo è o non è un membro di una
certa categoria à processo della generalizzazione à sottostima la flessibilità del pensiero.
La differenza tra la teoria classica e gli attuali ripensamenti consiste nel dare una diversa
accentuazione ai processi di comprensione e interpretazione del mondo (o di
generalizzazione o di particolarizzazione).
Classificare gli individui in gruppi non implica necessariamente omologarli tra loro. I processi
cognitivi e le rappresentazioni del mondo che attraverso esse ci costruiamo sono il frutto di
interazioni sociali da parte di persone che sono membri di un gruppo sociale. L’individuo è
produttore di processi cognitivi che sono intrecciati fin dall’inizio al mondo culturale e sociale
a cui egli appartiene.




3.7 – Stereotipi e pregiudizi come produzioni discorsive. Un nuovo approccio allo studio
del mondo sociale
Qualunque cosa siano gli stereotipi e i pregiudizi, sono comunque sempre prodotti in e
attraverso il discorso (a sua volta inserito in un contesto), quindi le persone non sono
portatrici di stereotipi à questo approccio propone di considerare il fenomeno della
categorizzazione sociale attraverso l’analisi del discorso à mostra che ogni individuo
interpreta il mondo sociale secondo variazioni all’interno del proprio “repertorio
interpretativo” à modificabile a seconda delle circostanze.
Le persone non pensano il mondo sociale attraverso stereotipi, ma producono a volte discorsi
stereotipati in funzione di precise circostanze e scopi propri all’interazione in corso.

§ La categorizzazione razziale: un caso poco neutrale
In base alle caratteristiche somatiche à fenomeno del razzismo
Distinzione tra “razzista” (termine che indica atteggiamento pregiudicato e sfavorevole) e
“razziale” (indica processo cognitivo neutrale, categorizzazione per caratteristiche
somatiche), risulta una sovrasemplificazione à piò legittimare un processo di
categorizzazione affatto neutrale.
Scegliere che il colore della pelle sia una differenza a cui prestare attenzione per parlare delle
persone, per individuarle come appartenenti a un gruppo, non è un fatto neutrale, ma una
decisione culturalmente determinata. Ogni descrizione riflette il punto di vista del parlante
sulla realtà descritta à quindi non neutrale.

3.8 – I nomi e le cose: costruzione sociale della realtà
Secondo la teoria classica, il mondo si dividerebbe in due: i fatti e i valori, da una parte le
categorie razziali, dall’altra il significato che esse hanno, da un parte il discorso razziale,
dall’altra l’atteggiamento razzista. Le parole sono i più potenti strumenti per costruire quel
mondo che intendono descrivere. La costruzione di un oggetto e la sua descrizione riflette e
dipende dal modo con cui ci disponiamo verso la realtà.
Quindi il discorso è il più potente strumento attraverso cui le differenze vengono costruite e
prodotte come realtà oggettive.

3.9 – Educazione e strategie di nominazione: verso la costruzione dell’etnicità
Categorizzazione razziale: culturalmente costruita, ma anche quelle su basi etniche o
nazionali. Il linguaggio produce una etnicizzazione degli individui assumendo una reale o
ipotetica provenienza geografica o culturale come fattore distintivo e rilevante dell’individuo.
Il termine “extracomunitario” appare designare individui provenienti da paesi che non fanno
parte della Comunità Europea, ma viene soprattutto utilizzato nei contesti quotidiani alla
collocazione sociale dell’individuo à attenzione al linguaggio. Essere consapevoli che ogni
categorizzazione sociale dipende dal punto di vista che stiamo assumendo in quella data
situazione e che si fonda su una implicita decisione circa ciò che conta come rilevante.

3.10 Dalla classificazione della realtà alla prassi educativa
à dopo nominazione: messa in atto di pratiche, discorsi, azioni concrete e gesti attraverso cui
l’identità etnica viene costruita. Non sempre il comportamento è coerente con
l’interpretazione che si dà alla realtà. L’agire educativo in ogni pratica o progetto
interculturale si muove tra una “pretesa referenziale” e una funzione “performativa”
(costruzione identità attraverso pratiche di pretesa referenziale). Le differenze o le
peculiarità sono prodotti di uno sguardo che decide se sono rilevanti e che poi le rende
naturali à determina l’orientamento che noi assumiamo verso individui o realtà.

3.11 L’azione educativa come costruzione di realtà
à importante sottolineare la funzione costruttiva della realtà da parte delle prassi e dei
discorsi, che rischia di non essere riconosciuta e quindi neutralizzata.
“valorizzazione delle culture d’origine” à fare emergere i processi interpretativi e le strategie
attraverso cui l’educatore fa fronte alla situazione. Acquisire la consapevolezza di essere
implicato come soggetto nella relazione educativa e in quanto tale continuamente interprete
attivo della situazione, la consapevolezza nel sapere che descrizioni o formulazioni diverse
possono portare a prassi e conclusioni differenti.
Spiegazione culturalista del comportamento: attribuzione delle cause di una certa azione o
atteggiamento a entità come la cultura, è una delle risorse attraverso cui si tenta di rendere
conto del comportamento delle persone di minoranza etnica.
Canevaro ha proposto una distinzione rispetto ai modi con cui possiamo percepire e costruire
attraverso l’educazione l’identità culturale di una persona: quella tra “culture endemiche” e
“culture epidermiche”. La prima è legata all’identità di un popolo: storia, lingua, memoria,
tradizioni, saperi colti e popolari. La seconda riguarda i diversi modi di percepirsi e di
mostrarsi agli altri nelle varie circostanze.

3.12 – L’educatore come attivo interprete della situazione
Ciò che l’altro è, sarà il prodotto di una interazione di cui è parte anche la nostra
interpretazione e il nostro punto di vista su quella persona e sulla “sua” cultura.
Interpretazioni e punti di vista nono precari e revocabili à ciò che permette di mantenere
un’apertura all’interpretazione e al punto di vista dell’altro.
Diversi modi di pensare il contributo soggettivo da parte dell’educatore:
1) applicazione della classica teoria degli stereotipi e dei pregiudizi à in ambito
educativo si tratta di neutralizzare le componenti valutative e affettive del pregiudizio
e di limitarne i processi di generalizzazione, semplificazione e distorsione.
2) Assumere la consapevolezza di essere parte attiva nella costruzione dell’altro e della
sua cultura à scelta all’interno di un proprio repertorio interpretativo. Questa
consapevolezza porta a due conseguenze: in primo luogo avere la consapevolezza che
tali immagini sono una sua costruzione soggettiva, quindi variabili e provvisorie; in
secondo luogo avere la consapevolezza di poter costruire immagini diverse dell’altro in
funzione della situazione.
La vera posta in gioco di una relazione interculturale consiste nella capacità di costruire
relazioni intersoggettive, quindi rappresentazioni congiuntamente prodotte e variabili in
relazione ai contesti, da contrattare con il bambino in base a come egli sceglie.















CAP 5 – ALUNNI CON UNA STORIA DI MIGRAZIONE: PERCORSI, RELAZIONI,
SAPERI

5.1 – I percorsi scolastici di bambini e ragazzi diversa origine culturale
Tradizionalmente, la ricerca sociologica si è dedicata a rilevare la dimensione degli “esiti”
dell’integrazione scolastica e ad analizzare i fattori in grado di influenzare la riuscita
scolastica, cercando spiegazioni in variabili ascritte(titolo studio genitori, status economico
genitori ecc.), variabilità inerenti al percorso migratorio personale e famigliare e in alcune
variabili personali. Di recente ha iniziato a studiare anche le caratteristiche del “contesto
scolastico”: il clima della classe e della scuola, le aspettative degli insegnanti, gli stili di
insegnamento, le relazioni scuola-famiglia.
L’integrazione scolastica è un processo multidimensionale e si compone di due dimensioni
principali:

1) quella più indagata riguarda gli esiti e il successo formativo in termini di
apprendimenti (dimensione cognitiva)
2) quella più recentemente indagata riguarda le relazioni dentro e fuori la scuola
(dimensione razionale)


v Gli esiti: il gap educativo
Riguardo alla dimensione cognitiva, la ricerca in Italia parla d’”integrazione subalterna”, di
percorsi di integrazione verso il basso. Anche in Italia si rileva un “gap educativo” nei livelli di
scolarità e nei livelli di apprendimento, fra alunni autoctoni e alunni immigrati e fra alunni
autoctoni e alunni di seconda generazione. Lo svantaggio degli alunni immigrati è dato
statisticamente da due ostacoli: la bassa competenza linguistica e il modesto retroterra
socioculturale dei genitori à scuola no compensazione adeguata.
Svantaggio dei figli d’immigrati, spiegato con il fatto che vivano in aree ad alta densità etnica,
omogenee per estrazione sociale e culturale, e che frequentino scuole “svantaggiate”.
Per questo “integrazione subalterna” à percorsi scolastici di livello inferiore
Sistema “selettivo” àconcentra le fasce deboli della popolazione all’interno degli stessi istituti


5.2 Le relazioni: quale integrazione dentro e fuori la scuola?
In generale, il sistema di relazioni di chi è migrante, dentro e fuori la scuola, è più ridotto e
povero. “integrazione frammentata” à scambio interetnico all’interno della scuola non
sempre si realizza all’esterno. Le aggregazioni fra pari tendono a privilegiare l’omogeneità
etnica à esclusione e separatezza.
Già nelle scuole primarie pregiudizi e forme di discriminazione à emarginazione infantile,
sottovalutate dagli insegnanti.
Passaggio infanzia-adolescenza à percepiti come “minaccia sociale” à maggiore insicurezza
ad andare a scuola o a cercare lavoro.
Modalità intermedia tipica delle seconde generazioni che sarebbero caratterizzate da
percorsi di “assimilazione segmentate” grazie a un uso strategico delle risorse protettive del
gruppo etnico di appartenenza originaria e di relazioni con i nativi per garantirsi accessi a
scuola, lavoro, cerchie sociali.




5.3 – Chi è vulnerabile?
L’insuccesso scolastico di bambini e ragazzi immigrati sembra parlare di una “vulnerabilità”
del loro percorso di crescita ed è un riconoscimento importante. La condizione di
vulnerabilità (condizione di maggiore esposizione a rischi e ferite nel percorso della crescita)
trova una controparte nella capacità di “resilienza” (capacità fisica di un corpo di resistere a
un urto assorbendo energia cinetica senza rompersi) à attivare processi di riorganizzazione
della propria vita. Entrambe non si riferiscono mai solo a caratteristiche soggettive, ma a
costellazioni di fattori di protezione e fattori di rischio.
I percorsi d’insuccesso fungono da specchio all’intero sistema d’accoglienza e di integrazione
sociale. Meccanismi di vulnerabilità anche nei sistemi scolastici in cui sono inseriti, si
riscontrano incontri e relazioni efficaci con adulti esterni alla famiglia à “tutori di resilienza”.

5.4 – Il contesto scolastico italiano: punti di forza e punti di debolezza di fronte alla
complessità multiculturale e sociale

§ La via dell’inclusione
Classi miste, stesse scuole. Il diritto/dovere all’istruzione è esteso a tutti à “dispositivi
specifici” per accogliere e rispondere ai bisogni sociali e linguistici degli alunni neoarrivati.
Rimane impostazione “etnocentrica” del sistema di conferimento della cittadinanza italiana
che privilegia lo “jus sanguinis”: inclusivo ed esclusivo al contempo.

§ La via dell’intercultura
La prospettiva interculturale per la scuola è stata proposta in modo organico con la
pubblicazione del documento “la via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli
alunni stranieri” à interpretando le identità culturali non come entità o essenze da
preservare nella loro purezza originaria né da negare nella loro alterità, bensì come realtà
dinamiche di soggetti e gruppi che si incontrano, si scambiano, si trasformano.
Ricerca e pratica educativa e didattica distinguono e intrecciano due livelli d’intervento:
- Quello dell’integrazione, insieme di dispositivi specifici che permettono allo studente e
alle famiglie straniere neoarrivate di poter interagire efficacemente.
- Relativo all’educazione interculturale come progetto educativo innovativo destinato a
tutti i bambini e adolescenti.

A livello di integrazione, le aree d’intervento riguardano l’articolazione di un piano di azioni
che faciliti l’inserimento e l’accoglienza nel nuovo contesto scolastico:
- Conoscenza reciproca
- Mantenimento comunicazione con famiglia
- Inserimento nelle classi che rispetti il criterio di età, equa distribuzione nelle classi
- Disponibilità di materiali bilingui anche rivolti alla famiglia
- Offerta laboratori linguistici per l’acquisizione della lingua italiana come 2° lingua
- Assegnazione di un tutor fra i docenti e fra gli alunni un po’ più grandi per condividere
la lingua d’origine
- Personalizzazione del piano di studi e della valutazione per i primi due anni
- Valorizzazione competenze linguistiche in altre lingue

A livello di educazione interculturale:
- Revisione in chiave interculturale dei saperi, favorire lo scambio, le interazioni
- Promozione plurilinguismo come risorsa sul piano cognitivo e identitario per tutti
- Promozione progetto culturale e di cittadinanza antirazzista, riconoscimento diritti e
doveri di cittadinanza, di appartenenza.
Il primo livello finalità di garantire un’equità di accesso e di esito scolastico à per questo
riconosciuti bisogni educativi speciali. Il secondo più finalizzato a sviluppare un senso di
cittadinanza comune nelle differenze, superando visione nazionalistica monoculturale.
Scegliere un modello di educazione significa scegliere un modello di società.

§ Che cosa accade nelle scuole?
- Un’incoerenza fra politiche d’integrazione e politiche scolastiche? à segna l’assenza di
una dimensione di sistema nel monitorare e sostenere il cambiamento scolastico a
livello nazionale
- Una normativa scolastica insufficiente e poco conosciuta? La legislazione italiana su
questi temi è fatta di due tipologie di documenti: da un lato di tipo generale (principi,
esortazioni all’intercultura, all’accoglienza ecc.), dall’altro circolari ministeriali che
definiscono aspetti molto mirati. Ma manca un corpo normativo intermedio che vincoli
in modo chiaro e fermo le scuole rispetto la dimensione interculturale e
all’integrazione degli alunni neoarrivati. Arbitrarietà demandata alle scuole à
fenomeni di concentrazione degli studenti stranieri.
- Quale formazione? Preparazione di insegnanti ed educatori è disomogenea, anche
all’interno della stessa scuola.
- Una scuola monoculturale e poco internazionale? Identità più o meno tradizionalmente
monoculturale, ambiente uguale a se stesso poco disposto ad aprirsi a una dimensione
internazionale.
- Una scuola monolinguistica? Anche per ragioni organizzative e di risorse per
l’elevatissimo numero di lingue presenti nelle scuole; frequentemente generate da una
sottovalutazione del ruolo e dell’importanza delle lingue e dei plurilinguismi nella
forma d’identità e nel rendimento scolastico.
- Una scuola monoreligiosa? La presenza dell’insegnamento della religione cattolica
connota fortemente il contesto scolastico italiano rendendolo mono-religioso. Anche se
facoltativa, esprime comunque un voto
- Un progetto extracurricolare e un po’ folcloristico? soprattutto scuola dell’infanzia,
atteggiamento non di critica e rifiuto; ma valorizzazione ancora eccessivamente
ingenua e legata a elementi folcloristici delle differenze culturali
- Un progetto d’integrazione o solo misure compensatorie? Da pochi anni numero
consistente di alunni stranieri nelle scuole superiori à disagio degli insegnanti,
minore disponibilità al cambiamento di pratiche didattiche. Solo misure
compensatorie con l’obiettivo di trasmettere la lingua italiana come seconda lingua a
livello primario, senza progetto educativo à spesso la classe non coincide con età
anagrafica
- Un concetto assimilativo? Focalizzazione sull’apprendimento della lingua dominante
à riflesso di un atteggiamento assimilazionista à rischia di trasformarsi in una sottile
opera colonizzatrice piuttosto che integratrice
- Un contesto scolastico poco dinamico e monotono?









5.5 Equilibri instabili e orizzonti ampi. Relazioni e saperi in prospettiva interculturale
Educazione interculturale: tutto ciò che facilita l’acquisizione di atteggiamenti positivi verso la
differenza culturale à pratica trasformativa rispetto alla percezione di sé e dell’altro à
questa va accompagnata attraverso una revisione delle dimensioni principali dell’esperienza
scolastica. Sono dimensioni quotidiane di costruzione di forme vita inclusive e aperte alla
pluralità.

v Sensibilità e competenza interculturale
La nozione di competenza e sensibilità interculturale nasce negli USA nell’ambito della
selezione e formazione di personale diplomatico.
Alcune caratteristiche ricorrenti attribuite a questa competenza, come insieme di abilità,
atteggiamenti e di conoscenze che consentono di interagire appropriatamente in situazioni
interculturali.
Nucleo centrale è la capacità di “decentramento culturale” à capacità di cogliere in modo
equilibrato la relatività culturale delle proprie e altrui rappresentazioni della realtà à
relazione di simmetria.
Comprende alcune dimensioni principali: atteggiamenti interni (disposizione di apertura,
curiosità e interesse per differenza culturale), dimensione cognitiva (riguardante le
conoscenze linguistiche e culturali e capacità di acquisire conoscenze su altre culture; abilità
interne e abilità comportamentali definiscono una dimensione operativa.
Due componenti contraddistinguono i livelli più evoluti e complessi di competenza
interculturale:
1) un’idea dinamica di identità culturale nella relazione fra soggetti. Relaione sempre tra
soggetti che hanno dei tratti culturali di cui tener conto, non avviene tra culture. Non
chiude l’altro in una gabbia culturale.
2) Un atteggiamento epistemico adatto alla complessità à capacità critica, disponibilità a
cogliere la caratteristica non assoluta e immutabile della conoscenza. Non significa
abbracciare forme di relativismo estremo, ma evitare atteggiamenti semplicistici e
rigidi dei fatti e dei valori, tipico del pensiero etnocentrico.

v Le relazioni in classe: rappresentazioni, linguaggi e scelte didattiche
Classe = rispecchia la diversità nella società, rappresenta il tessuto vero dell’inclusione. Un
clima positivo in classe migliora anche il rendimento scolastico.
Gli insegnanti hanno un ruolo determinante non solo sulla qualità della relazione fra l’alunno
singolo e l’insegnante, ma anche sulle relazioni nella classe fra compagni.
Le modalità relazionale e di gestione della classe da parte degli insegnanti dipende da molti
fattori, spesso rispecchiano strutture valoriali e atteggiamenti profondi individuali à
curriculum nascosto à largamente sconosciuto e raramente discusso.

v “C’è il problema degli alunni stranieri”
à accade che si operino delle riduzioni nella lettura della complessità e che si abbandoni una
visione sistemica. Alcuni noti luoghi comuni sugli alunni stranieri:
- Rallentano il programma e abbassano le prestazioni di tutti
- Fanno perdere iscrizioni alla scuola e fuggire le famiglie italiane
- Sono problematici e più vulnerabili (accentuano carenze in italiano piuttosto che le
competenze in altre lingue)
- Possono arrivare a risultati inferiori à etnocentrismo istituzionale
Visioni e atteggiamenti degli insegnanti diversi: alcuni informati e critici, che apprezzano la
loro presenza; alcuni possibilisti e buonisti; altri conflittuali e pessimisti à crea ambiente
collegiale poco cooperativo che ricade negativamente nei rapporti con gli allievi e famiglie.
v Culture e identità: linguaggi e dialoghi
Seconda famiglia di rappresentazioni e atteggiamenti che riguardano la dimensione culturale
di bambini e famiglie provenienti da altri paesi in cui si osservano ambivalenze e
inconsapevolezze.
• Oscillazioni fra invisibilità e sovra-esposizione etnica riscontrate negli atteggiamenti di
alcuni insegnanti à non conoscenza delle culture di provenienza. Da una parte non
considerazione della cultura di provenienza, dall’altra una sopravvalutazione di questa.
Per la prima atteggiamenti possibili:
- Il non riconoscimento della differenza culturale come priorità all’interno di pratiche
scolastiche à semplificazioni nella lettura dell’integrazione
- Rifiuto di considerare la differenza culturale come parte dell’analisi delle criticità
incontrate, in nome di un principio di uguaglianza universale
- Il riconoscimento della differenza culturale come parte delle complessità incontrate,
ma mancato intervento
à differenze rese invisibili. Nella seconda, atteggiamenti di eccessiva enfasi à appartenenza
culturale chiave di lettura del comportamento dei bambini à atteggiamenti di
stereotipizzazione dei gruppi culturali, che gioca un ruolo fondamentale nelle relazioni
alunno-insegnante e fra i compagni. Incidono sull’autostima, sulla percezione di sé come
soggetto sociale e apprendente.
• Discriminazione e visibilità selettiva delle differenze:
di alcuni atteggiamenti discriminatori non siamo consapevoli (razzismo dissociato), perché
parte della storia e della società in cui viviamo à modello gerarchico linguistico-culturale.
Lavoro di riflessività profonda sulle strutture culturali del potere e condiviso fra i colleghi.
• Le identità pluriculturali. Riguarda bambini di seconda generazione e migrati molto
piccoli, cresciuti e socializzati in contesti italiani che desiderano essere considerati
italiani, non ricevono questo riconoscimento nella società e a scuola à nuove
narrazioni di identità, di accettazione: un insegnante che nelle lezioni o dialoghi
personali non fa sentire straniero e al contempo accompagna la classe a scoprire la
bellezza di più mondi simbolico-culturali.

v Relazioni e scelte didattiche: la parola ai bambini e ai ragazzi
Ricaduta nelle pratiche educative soprattutto nella scuola dell’infanzia à conseguenze molto
rilevanti: scarsa sollecitazione di un pensiero critico personale, minore possibilità di
espressione e di interazione con l’insegnante e con i compagni di classe, minore possibilità per
gli studenti di condividere conoscenze. Il ridotto interscambio rinforza negli allievi un
atteggiamento di adeguamento alla chiave di lettura prevalente dell’insegnante, riproducendo
gli stessi presupposti culturali, spesso etnocentrici (l’insegnante spesso impone la propria
rappresentazione).
Meglio metodi di educazione multiculturale per diverse ragioni:
• Per un agire democratico. Se si desidera che gli studenti crescano diventando cittadini
attivi e responsabili, devono poter fare pratica di cittadinanza attiva a scuola.
L’apprendimento cooperativo è una pratica culturale e quindi anche civica.
• Per ascoltare la voce degli alunni. Forme di apprendimento cooperativo hanno la
capacità di valorizzare il contributo degli alunni mobilitando risorse e motivazioni. La
voce degli studenti emerge e diventa protagonista à occasioni di conoscenza.
• Per una pluralità di intelligenze e linguaggi. Metodologie attive valorizzano e stimolano
varie forme di pensiero e di espressione. Nel modello di Sternberg, in ciascuno vi sono
svariate combinazioni d’intelligenza analitica, creativa e pratica delle informazioni che
devono trovare occasione di applicazione in modo equilibrato
• Per una maggiore intensità di scambio e di relazione anche interetnica.
Attraverso la condivisione di obiettivi comuni di gruppo si sviluppa un’intraprendenza
positiva e lo sviluppo di un’identità e appartenenza di gruppo, un’abitudine a condividere
e dare, anche nelle responsabilità sia individuali che di gruppo.ma richiedono rigore
metodologico da parte dell’insegnante. Alcune essenziali condizioni del lavoro di gruppo:
- L’eterogeneità del gruppo
- L’individuazione di ruoli per tutti i membri del gruppo e la loro interscambiabilità
- Una continuità di feedback sul lavoro
- La proposta di problemi contestualizzati
- La priorità a forme di conflitto cognitivo, di scoperta e di induzione piuttosto che
deduzione delle competenze
- Applicazione di competenze e abilità in contesti e situazioni nuove non familiari.

v I saperi: aperture e dimensioni di riflessione interculturale. Riflessione sul cosiddetto
curriculum in chiave interculturale
v Apprendimento e contesto. Oggi prevalente concezione di apprendimento come “situato
e distribuito” nel contesto. La visibile presenza nel contesto scolastico di culture e
lingue altre è una forma di riconoscimento e legittimazione di tali culture e lingue in
uno spazio pubblico, una forma di comunicazione diffusa indiretta dell’orientamento
della scuola, della sua accoglienza e idea di cittadinanza
v Dimensione ecologica e canone curricolare. Ogni bambino entra a scuola con una suo
curricolo esperienzale ed esistenziale à capacità della scuola di integrare e includere
saperi informali e saperi formali. Canone culturale che invita a scendere sul terreno
storico e sociale degli allievi. Una via fenomenologica di valorizzazione delle storie,
culture, lingue presenti nella classe e nella scuola. Poi via epistemica alla dimensione
interculturale dei saperi.
v I saperi in prospettiva interculturale. La competenza interculturale è un impegno
trasversale a tutte le discipline. Ogni insegnamento non è mai un insegnamento di
contenuti, ma anche di trasmissione di atteggiamenti epistemico critico-riflessivo o
definitorio e univoco. La prospettiva interculturale invita:
- A una padronanza approfondita dell’epistemologia della materia, mettendo in
discussione il processo di costruzione dei saperi che hanno legami storici, culturali.
- A rivedere la finalità formativa dei saperi. Nuova dimensione cosmopolita.
Il riconoscimento e l’inclusione di diverse prospettive sui saperi che sono stati costruiti in
contesti culturali differenti, è stimolante, apre alla possibilità di recuperare una visione più
ampia delle origini eterogenee del patrimonio umano di conoscenze. Accompagnati da alcuni
approcci di trasposizione didattica:
- Il metodo narrativo: approccia storie ed esperienze che facilitano lo scambio.
- Il metodo comparativo e del decentramento cognitivo: confronto fra due o più
narrazione per coglierne diversità e continuità; racconti della vita quotidiana,
materie umanistiche e scientifiche.
- Il metodo decostruttivo: relativizzazione e storicizzazione dell’origine
ideologica dei saperi e concetti, analizzando le alternative possibili.
- Il metodo del riconoscimento del debito culturale: conoscere e ricostruire gli
intrecci, scambi fra culture e lingue.
- Il metodo dell’azione: gesti, azioni, comportamenti possono completare e
concretizzare un’educazione interculturale e alla cittadinanza attiva.




CAP 6 – LA RELAZIONE FRA GENITORI E INSEGNANTI NEI CONTESTI
EDUCATIVI E NELLA SCUOLA

6.1 La relazione fra scuola e famiglie nella ricerca
Educare i bambini insieme ai genitori, la qualità delle “connessioni” fra i due sistemi educativi
è fortemente intrecciata alla qualità dell’esperienza di crescita e sviluppo dei bambini. I
contesti per l’infanzia sono luoghi naturali d’incontro e confronto tra adulti che condividono
la responsabilità per l’educazione dei bambini. à clima di collaborazione tra le due parti
influisce sul rendimento scolastico e sul benessere degli allievi. Ancora più importante
quando i genitori vivono in condizioni di migrazione à soprattutto per donne, occasione di
empowrment e di uscita dall’isolamento sociale e culturale.
Ma spesso i genitori immigrati, pur sentendosi accolti a scuola, continuino a vivere esperienze
di disagio e incertezza nella relazione con gli insegnanti. In alcuni casi riducono al massimo la
loro presenza per paura di “interferire”.
Dall’altra parte molti insegnanti esprimono preoccupazioni e difficoltà a relazionarsi con le
famiglie con background culturali, linguistici, religiosi diversi.
Costruire relazioni basate sulla fiducia, confronto e collaborazione è difficile, ma
particolarmente delicato quando non si condividono gli stessi riferimenti culturali, valoriali e
linguistici.
La scuola svolge un ruolo fondamentale nel trasformare gli incontri in processi di reciprocità,
di intreccio consapevole tra le diverse credenze.

6.2 Modelli teorici e vulnerabilità nelle pratiche
prevale una postura teorica di lettura del fenomeno della relazione fra scuola e famiglia molto
agganciata a una tradizione monoculturale di ricerche sulla responsabilità sociale condivisa
tra le due agenzie educative. Principalmente tre prospettive:
1) modello teorico della separazione tra le responsabilità della scuola e della famiglia à
solo la chiara divisione delle funzioni e dei ruoli può garantire esperienze di efficacia
nelle relazioni
2) modello teorico della condivisione delle responsabilità che assume il principio delle
inter-relazioni e inter-azioni tra contesti in prospettiva sistemica che evidenzia gli
intrecci tra i contesti
3) modello teorico della responsabilità sequenziale tra le due agenzie che riconosce ai
genitori un ruolo di co-attori del processo di sviluppo e apprendimento fino alla scuola
primaria.
Negli ultimi decenni: il modello delle “sovrapposizioni” à esistono spazi di sovrapposizione e
intersezione delle funzioni, dei ruoli e delle responsabilità, fase di contrattazione dei reciproci
ruoli e pianificazione delle azioni. Sovrapposizioni parziali, non finalizzate a confondere i
diversi ruoli, funzioni e responsabilità.
Il background degli insegnanti incide profondamente nelle modalità in cui essi si relazionano
ai genitori e viceversa. Lo stesso vale per i profili di genitori, a prescindere dall’avere o non
avere alle spalle background culturali diversi.
Famiglie “centripete” idea che la famiglia abbia un compito preciso che rientra nel contesto
educativoà imposizione delle proprie regole nei confronti del contesto della scuola.
Famiglie “centrifughe” atteggiamenti di reciproca autonomia. Continuum nei due estremi: da
un lato l’assunzione di una posizione di autorità e di delegittimazione del compito familiare,
dall’altro atteggiamenti di distacco a fronte di una percezione di difficoltà.
No molte le azioni rivolte a spiegare, presentare, illustrare ciò che la scuola dà per scontato.
Da un lato la crescente divaricazione tra le rappresentazioni dei genitori degli insegnanti
rispetto alla vita dei bambini o ragazzi nella scuola e rispetto al successo-insuccesso
scolastico; dall’altro la difficoltà di creare spazi di “negoziazione sociale” nelle zone di confine
proprie dell’incontro tra genitori e insegnanti. Ora i genitori desiderano essere informati sulla
vita scolastica dei figli, si attivano e si preoccupano rispetto ai contenuti degli apprendimenti;
spesso toni di disapprovazione, denuncia delle mancanze, valutazione.
Spesso si discute di relazione scuola famiglia in modo etnocentrico, retorico senza tener conto
delle diverse interpretazioni culturali e quasi mai coinvolgendo i genitori stessi à soprattutto
con i genitori immigrati à importante prestare attenzione almeno a tre aspetti nel parlare di
relazione fra genitori e insegnanti: le condizioni storiche e socioculturali della famiglia, i
pattern di sviluppo e dunque i diversi modi di pensare e agire la relazione a seconda dell’età,
dei gradi scolastici di riferimento e delle rappresentazioni, e il cambiamento dei contesti
culturali contemporanei à progressivo inserimento della donna nel mondo del lavoro, ruolo
paterno, nuove strutture famigliari ecc. nuova immagine di famiglia quindi nuove forme di
attribuzione di significato e comunicazione: impossibilità dei genitori di essere presenti nei
contesti scolastici per ragioni lavorative. Pati propone un modello di rinnovamento delle
pratiche di relazione, riconoscimento delle reciproche responsabilità e competenze che
contrasti la tendenza a dominare o delegare.
Il primo passo è il riconoscimento e la conoscenza dei modelli culturali di cui sono portatori i
genitori e gli insegnanti, soprattutto se genitori migranti.


6.3 I genitori portatori di modelli altri
l’esperienza migratoria crea una condizione di confronto tra modelli culturali ed educativi à
complessa negoziazione sociale. Per figli di migranti à situazione di vulnerabilità: nella fase
postnatale, momento degli apprendimenti scolastici quindi primo ingresso a scuola, poi
adolescenza sono le fasi più critiche.
Le diverse rappresentazioni culturali sono prive di confini definiti: essi si traducono in
discorsi e comportamenti, ma sono dinamiche e dialogiche e diventano visibili solo quando
oltrepassano i confini.
La funzione delle rappresentazioni culturali e di ciò che i genitori ritengono prioritario per far
crescere al meglio un bambino in un determinato gruppo culturale determina quel sistema di
riferimento a cui ciascuno si appella per orientarsi nel mondo.
Secondo Super e Harkness sono tre i fattori che maggiormente incidono sullo sviluppo
infantile:

1) il contesto e le sue caratteristiche
2) le convinzioni culturali dei genitori o delle figure di riferimento e le relative pratiche
3) la psicologia dei caregivers

Le nostre convinzioni sull’educazione dei piccoli e sull’apprendimento non sono statiche, ma
modificabili e spesso restano nascoste à pedagogia implicita. Le riconosciamo in quanto
teorie spontanee, ma non sempre ci rendiamo conto che a volte accadono in modo
automatico.
Quando i modelli e i riferimenti sono simili, instaurare una relazione sembra meno difficile;
ma quando i modelli di riferimento confliggono e si confondono, si avviano dinamiche dialogo,
incontro, scontro malfunzionanti à es rovesciamento dei ruoli, perdita di autorevolezza dei
genitori, tendenze dei figli di resistere alle tradizioni e ai conseguenti conflitti
intergenerazionali, alle problematiche di genere à comunicazione asimmetrica, non
elaborare in modo chiaro i significati che consentono di giungere a un livello di reciproca
comprensione o al contrario di divergenza.

Ø Riconoscersi
Capire l’altro implica vederlo e riconoscerlo nella sua peculiarità e all’interno dell’incontro
reale. Le dinamiche di incontro con i genitori di origini non italiane si basano su temi di
comunicazione interculturale, di riconoscimento, secondo cui l’io e l’altro si riconoscono.
L’incontro con l’altro (in questo caso in senso culturale) mette in scena movimenti di
avvicinamento, presa di distanza, attrazione, repulsione.
Il dialogo è sia una pratica concreta, sia una prospettiva e una responsabilità etica dei contesti
educativi à vanno costruiti i contesti, i modi e gli strumenti.

Ø Comunicare
Complesse dinamiche di incontro e dialogo che si innescano tra due o più individui quando
manca un terreno di fondo comune. Linguaggi, lingue, sistemi di credenze, aspettative,
rappresentazioni, traguardi diversi inducono spesso genitori e insegnanti a instaurare
processi di incontro non positivi al dialogo.La grammatica della comunicazione non può
essere assunta come universalmente valida, è mutevole. Parlarsi non sempre equivale a
comprendersi, così come incontrarsi non significa dialogare. Instaurare una relazione positiva
ed efficace significa che siamo riusciti a capire l’altro, riconoscendolo nei suoi bisogni, nelle
sue competenze e che siamo stati capiti, ascoltati, riconosciuti.Le formule culturali orientano
dunque la comunicazione nei modi di partecipare, nei contenuti, nei risultati dei processi di
comunicazione. Da un lato rende complessa l’esperienza della comunicazione interculturale,
dall’altro offre prospettiva interessante dal punto di vista empirico. Le forme culturali sono
osservabili nella comunicazione e questo le rende unità riconoscibili, esplicite.

Ø Intendersi o fraintendersi
La Cecla à l’incomprensione ola non-comprensione come spinta all’incontro e al cercare di
capirsi. Fraintendimenti a cui seguono possibili occasioni per capirsi. Nei casi di
fraintendimento mi vedo e vedo i limiti delle mie azioni educative e comunicative attraverso e
a partire dallo sguardo e dalle domande dell’altro. Deve tradursi in un processo che sa
attraversare il conflitto, l’elemento di diversità e le porta alla realizzazione di un
riconoscimento reciproco. Secondo il modello di Gasl: dapprima spesso si ha l’irrigidimento
(le parti si ancorano ai loro presupposti); poi la polarizzazione (una delle due parti o
entrambe cercano di mettersi in posizione di supremazia); poi fase di preoccupazione e
ricerca di alleanze. Il conflitto può portare al completo misconoscimento dell’altro o allo
sviluppo di strategie comunicative alternative à strategie di dialogo “effettivamente
interculturali”. à insieme di azioni per risolvere e definire i contesti nei quali avviare
esperienze di conoscenza reciproca fra genitori e insegnanti.

6.4 Che cosa può fare la scuola? Le risorse degli insegnanti
La scuola è osservatorio di empasse comunicativi e inciampi interculturali, ma anche di
esperienze di collaborazione fra genitori e insegnanti positive.

v Cambiare punto di vista
Creati contesti e definiti i modi per cambiare sguardo à antropologo “mettersi in prospettiva”
Primo passo: individuare le competenze nella scuola e rinnovarle con nuova sensibilità di
decentramento culturale. Ma spesso gli insegnanti sono monolingui e privi di esperienze di
interculturalità à sforzi maggiori per formazione, occasione di rinnovamento. Modello della
comunicazione non direttiva riletta in prospettiva pedagogica: prospettiva teorica e pratica
comunicativa, basata sulla conoscenza e l’ascolto delle storie familiari. Ma sempre problema
dei diversi modi di parlarsi, ascoltarsi, rispettarsi, ma si può provare diversi espedienti
comunicativi che mostrano interesse, decentramento culturale (es parlare in inglese).
v Oltre le parole
Altri modi per conoscersi: es dispositivi visuali, più immediato e meno invasivo. L’immagine
accelera l’accesso ai significati e favorisce l’esplicitazione delle rappresentazioni individuali e
culturali. Osservazione, mezzo per conoscere e comprendere.
Si può cambiare le modalità di passaggio delle informazioni; la postura tradizionale della
scuola che dà informazioni e della famiglia che ascolta; si possono osservare i genitori e i loro
bambini, deducendo indicatori comportamentali utili per capire chi si ha davanti.
Trovare nuovi contesti e metodi per favorire il dialogo, sapere quello che pensano le famiglie
e di che cosa ritengono importante.

v Esplicitare l’ovvio
Spesso contesti e istituzioni scolastiche sono note a chi le agisce, ma non sempre
comprensibili per chi le osserva dall’esterno. Rinnovare ciò che si tende a perpetuare e
rendere automatico à azione interculturale. Due ragioni: necessità di fare qualcosa per
migliorare il tono e la qualità delle relazioni fra genitori e insegnanti a scuola; e necessità di
accogliere la sfida del rinnovamento dell’idea di relazione tra genitori e insegnanti in
prospettiva interculturale. È una prospettiva che può portare a un’idea di cultura partecipata.
Le diverse e molteplici identità, linguistiche culturali, valoriali, religiose, degli interlocutori
diventano uno strumento di relazione che si trasforma nell’interazione e produce cultura e
relazioni tra culture. Il presupposto è la tensione alla conoscenza delle diversità.

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