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Successivamente alla stagione dei totalitarismi europei e oltre i tentativi Angelo Calemme

storici moderni che hanno saturato scientificamente l’interrogazione po-


litica sul cosa e sul chi noi siamo, nello spazio europeo è calato un veto: la
rinuncia da parte della filosofia di pensare il politico.

A. Calemme – Galileismo, Kantismo e Tecnocrazia


Il regime di potere instauratosi a partire da questa interdizione, sull’osce-
nità stessa del politico, è la tecnocrazia. Oltre quest’ultima, e al di là del-
la sua crisi, questo volume si sforza di ritornare a riflettere politicamente

Il ruolo del politico oltre la modernità


l’Europa non a partire da paradigmi galileiani e kantiani ma, sfondando le Galileismo, Kantismo e Tecnocrazia
modernità, risalendo fin dentro i nostri corpi le passioni della carne e il
paradosso stesso dell’espressione. Il ruolo del politico oltre la modernità

Angelo Calemme, laureato in Filosofia e Politica all’Istituto Universitario “L’ Orien-


tale” di Napoli, è attualmente dottorando presso la facoltà di Filosofia e Studi Classici
dell’Università di Barcellona. Si occupa di fenomenologia, psicanalisi e marxismo con
studi su Galilei, Husserl, Merleau-Ponty, Freud e Lacan. È autore con i professori G. Di
Marco, F. Minazzi, V.F. Polcàro e M. Torrini del volume “L’illuminismo prima dell’Illu-
ninismo. Perché la Chiesa condannò Galilei” (2013).

ISBN 9788889976xxx De Frede Editore


€ 18,00
ANGELO CALEMME

Galileismo, Kantismo e Tecnocrazia


Il ruolo del politico oltre la modernità

De Frede Editore
Dal 1899 “A. De Frede Editore” - Napoli
Via Mezzocannone, 69
Tel./Fax +39 081.5527353 - defrede@libero.it

Stampa: A. De Frede
Napoli, novembre 2014 - Ristampa febbraio 2017
ISBN 9788889976-98-2

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A Natalia.
Introduzione. Le modernità politiche e le rivoluzioni del sapere

Il presente volume è il seguito di ciò che si era pensato sin dall’inizio come la
seconda parte di un progetto più ampio e capostipite, abbozzato nei suoi linea-
menti durante gli studi universitari - intorno a come le soggettività politiche na-
scono e muoiono nella modernità - , e che ha avuto modo di strutturarsi e svi-
lupparsi, in maniera apparentemente autonoma, in un percorso d’indagine su-
balterno, ma fondamentale per la futura riuscita sistematica dell’intero, che è
culminato in due eventi specifici: il primo inaugurato nell’impostazione genera-
le della Giornata di Studi Galileiani, svoltasi presso il Polo di Studi Filosofici e
Politici del Centro Culturale “La Città del Sole” di Napoli, il 6 maggio 2013,
con il tema “Le modernità politiche e la rivoluzione del sapere”; il secondo com-
piuto il 30 settembre 2013 nella pubblicazione del testo L’illuminismo prima
dell’Illuminismo. Perché la Chiesa condannò Galilei 1, opera nata come epoché
fenomenologica delle scienze sperimentali e del galileismo politico applicato alla
produzione sociale della ricchezza.
In prima istanza L’illuminismo prima dell’Illuminismo è tendenzialmente diver-
gente, sia criticamente, sia polemicamente, dall’impostazione d’indagine egemo-
ne oggi, e che nel 2009 diede luce all’Anno dell’astronomia e al quattrocentesimo
anniversario delle osservazioni di Galilei e Keplero. La nostra lettura prende in
analisi la Nuova Scienza 2 da un diverso punto di vista e cioè dall’ottica storica e
politica che la riconsidera come l’oggetto ultimo di quei Philosophie Naturalis
Principia Mathematica che Galilei non ebbe mai la possibilità di pubblicare or-
ganicamente, ma che rimangono, ancora oggi, poco frequentati e sparpagliati
nei margini alle sue opere. Questa riproposizione filosofico-politica del galilei-
smo non solo ha la finalità di contribuire al dibattito sulla scienza matematico-
sperimentale e sulla sua presunta crisi, ma si propone di problematizzare nuo-
vamente, cercando di non scadere in un noioso compendio, nella maniera più
innovativa e rigorosa possibile, l’opera e il senso storico di Galilei all’interno del-
la tarda modernità e delle società a capitalismo avanzato. Il volume tende a con-

1
G. Galilei, L’illuminismo prima dell’Illuminismo. Perché la Chiesa condannò Galilei, a
cura di A. Calemme, contributi di G. A. Di Marco, F. Minazzi, V. F. Polcaro, M. Tor-
rini, Edizioni “La Città del Sole”, Napoli 2013.
2
E con essa il galileismo politico e la prassi sperimentale.
6 Introduzione

durre lo studio psicanaliticamente e questo per riuscire ad orientarlo al di fuori


della chiacchiera e delle depotenziate riflessioni che si fanno e si sono fatte del
padre della nuova scienza e, a partire soprattutto dal suo immaginifico e simbo-
lico lavoro di costruzione e produzione ontologica, riconsiderare il ruolo che
ebbe la valenza politica della sua prassi operativa nella caratterizzazione teoreti-
ca.
Vogliamo sottolineare e mettere in chiaro che Galilei elaborò prima di tutto una
fisica e non una mera astronomia, una filosofia e non un semplice computo ma-
tematico. È sempre stato questo il valore occulto di Galilei, non l’inflazionato
copernichismo astrofisico ma il galileismo di una filosofia come prassi del sapere
vero e reale. Sin dall’inizio questo tipo di prassi faceva, letteralmente, fatti con le
parole e in base a questa convinzione costruisce, ancora oggi, il suo orizzonte di
senso teoretico e pratico attraverso una operazione tipicamente metafisica. La
riedizione delle Lettere copernicane vuole, in maniera paradossale, scollare, alme-
no per un momento, il padre della fisica moderna dalle più tradizionali e scien-
tiste interpretazioni, per riscoprirlo come il primo uomo del suo tempo, l’unico
passato che l’ultima modernità, quella critica, riconosce di se stessa nell’età della
sua maturità; in altre parole ci proponiamo di ridefinire il mostro sacro dei saperi
esatti come il filosofo militante e il testimone della modernità classica, di cui
noi, i più moderni tra i moderni (i kantiani), continuiamo ad essere ancora as-
suefatti e incantati e in obbedienza del quale noi, ancora oggi, ci relazioniamo
secondo rapporti di esteriorità obiettiva.
A fianco le comuni evidenze il nostro tentativo cerca di mettere sotto scacco la
lettura neoliberale di Galilei, che esaurisce l’evento politico galileiano ad un mero
fenomeno di scienza, di potere-sapere sociale. Il momento politico è sempre
all’origine di ogni nuovo sapere sociale, è ciò che lo nutre nel suo inizio e lo
mantiene propositivo nel suo perdurare, ma a quest’ultimo non è riducibile. È il
politico e non il sociale che fece da leva per il salto a un nuovo tipo di società.
La rivoluzione, direbbe Newton, vive dello stesso evento della gravità: di una
“piccola spinta”. La spinta è sempre una spinta sociale, certamente, ma il cata-
lizzatore per il tramite del quale è possibile passare da un regime di socialità ad
un altro è il momento dialettico di incarnazione politica nella viva voce di una
collettività, nella nominazione e nella prassi testimoniale di una parte per il tut-
to. Già con Galilei Dio muore e con esso l’idolatria della natura. Questo scatto
ontologico fu dovuto prima di tutto a un fenomeno politico, quello incarnato e
inaugurato da Galilei, il quale diede voce a una maturità di condizioni che cercò
Le modernità politiche e le rivoluzioni del sapere 7

di affermare se stessa e di rendersi visibile contro un contraddittorio stato di co-


se a lui contemporaneo.
La lotta politica galileiana fu in altre parole, prima di tutto, una lotta per il ricono-
scimento e solo poi per la trasformazione sociale; essa però può dirsi compiuta solo
nell’attualità, dove il galileismo nell’evidenza di una trasformazione rivoluziona-
ria collettiva ormai consolidata in un sapere legittimato, socializzato e cristalliz-
zato nell’economico, determina e orienta particolari relazioni di potere tra gli
uomini. Gli interventi dei professori Di Marco, Minazzi, Polcaro e Torrini,
all’interno della citata giornata di studi e del nostro volume L’illuminismo pri-
ma dell’Illuminismo. Perché la Chiesa condannò Galilei, hanno convalidato pro-
prio questa costante: il passaggio alla modernità classica è stato prima di tutto
politico e solo poi sociale. Il primo come non può esaurirsi nella sua specificità
al secondo, non può nemmeno non inaugurarsi, al contrario dell’opinione, già
come un fenomeno collettivo, ma a differenza di qualsiasi fatto sociale esso in
origine avviene non già nelle vesti regali di un sapere indiscutibile e a cui si deve
prestare obbedienza ma sempre nell’apertura stracciona e progettuale di una me-
ra convinzione, di una «obbedienza spontanea» 3 a nuovi orizzonti ontologici e
di senso.
I Principia filosofici dello sperimentalismo galileiano possono essere compresi in
maniera pregnante solo a partire dal momento in cui si tiene ben presente que-
sta capitale differenza tra un fatto politico e un fatto sociale. Il fatto politico è
l’evento di costruzione immaginifica e simbolica, metafisica, delle identità collet-
tive, mentre il fatto sociale è, invece, la cristallizzazione del politico, che prima o
poi avviene nella definizione di una realtà evidente (di cui il sapere diviene
scienza applicata, tecnologia delle produzioni umane).
L’inizio della prima modernità si fa, dunque, sull’iniziativa di una soggettività
politica e culturale, che ad un certo punto prevale su quelle precedenti in virtù
di una lotta egemonica 4. Ogni traguardo egemonico è la soglia dialettica di un
intero orizzonte di senso, che si appropria di sé nel riconoscimento collettivo

3
D. Tarizzo, Giochi di potere. Sulla paranoia politica, pp. 174-179, Laterza, Roma-Bari
2008.
4
A proposito di lotta egemonica rimandiamo all’espressione gramsciana di obbedienza
egemonica, la quale non è da intendere come coercitiva, in A. Gramsci, Quaderni dal
carcere (1929-1945),t. III, pp. 1518-1519, Einaudi, Torino 2001.
8 Introduzione

che approda in un sapere intensamente socializzato, applicato allo stato di cose


preesistente, per la trasformazione tecnologica del mondo e la produzione eco-
nomica della ricchezza. Dire che lo sperimentalismo è divenuto, a partire da Ga-
lilei, da filosofia volgare e convinzione politica un sapere collettivamente ricono-
sciuto, consolidato, evidente e socializzato (in quanto ha vinto una lotta cultura-
le sul vecchio mondo teologico e cristiano) non vuol dire però che le scoperte
scientifiche sono false, ma, anzi, che sin dall’inizio queste non sarebbero state
possibili prescindendo dal costante lavoro metafisico di costruzione ontologica,
immaginifica e simbolica, del senso finalizzato, progettuale e tecnologico, di cui
il suo orizzonte d’esperienza possibile pulsa ed è stato tramato.
In altre parole non c’è scienza senza prima un lavoro filosofico, di convinzione,
che, letteralmente, fa a pezzi e ricostruisce le possibili virtualità, in relazione ad
un essere invisibile e resistente. Ritornare al Galilei, filosofo e politico, è l’arma a
doppio taglio sia per combattere la crisi delle scienze dure, sia per arginare la
barbarie culturale della stanchezza scientifica e delle patologie sociali conseguen-
ti a certi irrigidimenti dello sperimentalismo. Come hanno giustamente argo-
mentato i partecipanti del convivio napoletano, la forza di Galilei è stata non
quella di aver inventato uno strumento o di averlo direzionato verso un punto
inusuale, ma nell’aver riletto in maniera innovativa e applicabile la chiave di vol-
ta di quella sorta di illuminismo prima dell’Illuminismo, di quel pensiero del
lume (indipendente ed esatto), che precedette quello dell’autonomia,
dell’umanità kantiana.
Per tutto questo e per molto altro ancora, contraddicendo Foucault e Lacan, ga-
lileismo e kantismo sono le ontologie gemelle, gli idealismi solidali, che, secon-
do Husserl e Merleau-Ponty, strutturano l’esperienza della modernità. Noi non
possiamo limitarci a dire di essere kantiani, ma quotidianamente ci approccia-
mo al mondo e al suo essere, anche, galileianamente. Questa considerazione,
come a questo punto sarà già apparso indirettamente, non è un’affermazione
banale o arbitraria ma, anzi, come verrà meglio chiarito in seguito essa è il fon-
damentale passaggio teorico che condusse un uomo come Merleau-Ponty a una
filosofia dell’essere come interrogazione psicanalitica e fisica della carne e dei
corpi umani in relazione. Lo studio politico del quinto elemento 5 (la carne)

5
Da intendere in accezione persino presocratica.
Le modernità politiche e le rivoluzioni del sapere 9

chiariva aspetti cruciali della corporeità e fu questo a spingere Merleau-Ponty ad


abbozzare ciò che, in ultima istanza, secondo noi è la teoria politica della scuola
fenomenologica. All’interno di una psicanalisi ontologica di ispirazione fenomeno-
logica affiancata da una filosofia della carne, per Merleau-Ponty il fenomeno po-
litico è uno dei fenomeni privilegiati per comprendere l’essere e tutti quei pro-
cessi di soggettivazione e desoggettivazione dei corpi ad esso legati. Un’analisi del
politico non può per Merleau-Ponty partire da iperboliche astrazioni prelimina-
ri, ma essa deve iniziare ogni volta attraverso il suo particolare ed emblematico
manifestarsi storico, nella viva piaga delle contingenze. Una psicanalisi della
carne e dei corpi politici, nell’evidenza di saperi applicati alla produzione socia-
lizzata della ricchezza, è da considerarsi, certamente, come l’abbozzo di una filo-
sofia politica volta a costruire una teoria concreta di cose concrete, con cui guarda-
re ontologicamente ai soggetti storici egemoni che hanno agito, agiscono e po-
trebbero agire in un prossimo futuro, per la trasformazione effettiva della con-
temporaneità.
Queste nostre epoché della modernità galileiana e kantiana, dei soggetti politici
che li incarnano, si vogliono in altre parole come un punto di vista aggiornato e
alternativo, persino, alle analisi genealogiche freudomarxiste e meta-critiche degli
ultimi anni 6 e cioè contestualizzando sin dal loro esordio la loro profonda ambi-
zione, secondo la quale tutti noi necessitiamo di una teoresi che non si limiti
più solo al solco scavato di un illuminismo dopo l’Illuminismo, di una filosofia
meta-critica della modernità, ma che si spinga ben oltre tutte queste modernità
(esatte, critiche e meta-critiche) e, a partire da un nuovo regime filosofico, che si
spenda addirittura come un’alternativa possibile alla modernità in quanto tale.
In questa prospettiva, per quanto riguarda il progetto di ricerca regionale intor-
no L’illuminismo prima dell’Illuminismo, l’epoché della prima modernità è stata
effettuata (e prosegue ad esserlo) come un lavoro tutto sommato duplice e a te-
naglia: esso è caratterizzato sia come un recupero sul ritardo storico rispetto alle
genealogie effettuate delle scienze umane 7, ponendo in rassegna la letteratura
scientifica del galileismo dalle sue scuole di pensiero più recenti sino alle sue

6
Tra cui molto importanti rimangono quelle raccolte in E. Balibar, La paura delle mas-
se. Politica e filosofia prima e dopo Marx, Mimesis, Milano 2001.
7
Tra cui ricordiamo quella della biologia in D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente,
Laterza, Roma-Bari 2010.
10 Introduzione

origini seicentesche e manifatturiere; sia come l’iniziativa più adeguata a riman-


dare alla necessità dell’affiancamento di una operazione teorica del genere con
una storia delle tecnologie dure applicate ai processi di produzione della ricchez-
za nelle loro diverse forme economiche. Nel loro consorzio le due operazioni
promosse dalla nostra curatela 8 riagganciano ciò che potrebbe essere considerata
come la prima epoché fenomenologica aggiornata (successiva a quelle husserlia-
ne 9 e merleau-pontyane 10) dell’ontologia fondamentale alle scienze sperimentali,
ovvero di quella parziale istanza della modernità che nell’orizzonte delle scienze
critiche e umane non si legittima e non si riconosce esaustivamente - la quale
nella sua disamina ricordiamo non può però non dipendere, anche, da un ulte-
riore e parallela epoché delle scienze critiche, con le quali in contaminazione e
in ambiguità si è dialetticamente e storicamente determinata e applicata - .

***

A partire da questa prima epoché della modernità e da un introduttivo discorso


intorno il senso filosofico-politico e gli effetti di verità delle scienze dure sui
rapporti quotidiani di potere tra gli uomini, si tratterà più avanti di ricalibrare,
all’interno dell’esasperato scenario di produzione della ricchezza nell’ultima
forma del capitale postfordista europeo, una integrata epoché dei saperi, (o che è
lo stesso) una psicanalisi politica di ispirazione fenomenologica dei saperi politici
egemoni; ma come è possibile pensare a una epoché integrata dei saperi politici,
a una psicanalisi finalizzata all’isolamento del politico come uno dei fenomeni
originari, pregnanti e irriducibili della carne?
In opposizione a quanto predicato dalla psicanalisi politica classica, secondo la
quale non è in alcun modo possibile uscire dalla modernità 11, un illuminismo ol-
tre gli Illuminismi che minerebbe le stesse condizioni di possibilità delle suddet-

8
G. Galilei, Ibidem.
9
E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Per un sapere
umanistico, pref. di E. Paci, tr. it. E. Filippini, Net, Milano 2002.
10
M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, a cura di M. Carbone, tr. it. A. Bonomi,
postilla di C. Lefort, Bompiani, Milano 2007.
11
D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Roma-Bari 2010.
Le modernità politiche e le rivoluzioni del sapere 11

te modernità è tuttavia possibile ed è proprio la filosofia continentale ad averlo


elaborato storicamente nella filosofia fenomenologica di Husserl 12.
Tutto cambia dopo quest’ultimo con Merleau-Ponty, secondo cui se la psicoa-
nalisi individuale è già da sempre una psicoanalisi intersoggettiva e il fenomeno
politico è il fenomeno di costruzione immaginifica e simbolica delle identità
psichiche collettive (o di massa) è possibile, a partire da una rigorosa psicanalisi
ontologica (e non meramente esistenziale) delle evidenze e delle ovvietà stratifi-
cate che caratterizzano le corporeità dei moderni, costituire quadri teorici pre-
dittivi e performativi utili all’indagine dei fenomeni di soggettivazione politica
in generale. Questo è ciò che il fenomenologo francese in ultima istanza, a parti-
re da studi di ispirazione neo-ontologica, confrontandosi innanzitutto con
l’ultima fenomenologia trascendentale husserliana, la critica all’economia politi-
ca marxiana, la psicanalisi freudiana, affermava in gran parte della sua opera 13 e,
nel complesso, ispira e orienta ancora oggi il presente scritto. Quest’ultimo non
può non marciare rintracciando la presenza di una filosofia politica forte e coeren-
te all’interno di una circoscritta tradizione, la quale rendeva contigue e non so-
vrapponibili le aspirazioni della filosofia fenomenologica trascendentale di Hus-
serl con gli illuminismi metacritici di Marx e Freud, che ritrova oggi, oltre La-
can, in Merleau-Ponty una considerevole figura dialettica, se non addirittura
una svolta epocale. A questo proposito, a partire da studi intorno le rivoluzioni
politiche moderne, quest’ultimo osservava più volte che nella modernità il poli-
tico si delinea come il fenomeno regionale (e irriducibile) di soggettivazione col-
lettiva e che le relazioni psichiche umane prima di consolidarsi in relazioni sta-
bili di potere sociale14 si caratterizzano come relazioni di obbedienza egemonica 15

12
E. Husserl, Ibidem.
13
Per ripercorrere i passaggi teorici nell’opera di Merleau-Ponty, che condussero questo
oltre le modernità (esattezza e critica) e con l’epoché fenomenologica a una psicanalisi
ontologica della carne, rimandiamo al documento disponibile su
https://www.academia.edu/5799390/Intersoggettiva_e_intercorporeita_nellopera_di_Mer
leau-Ponty.
14
Cristallizzate in logiche di sapere obiettivo e di scienza positiva e negativa dell’umano.
15
A. Gramsci, Quaderni del carcere (1929-1935), t. III, pp. 1518-1519, Einaudi, Torino
2001.
12 Introduzione

o simbolica 16. Queste ultime, in base a uno statuto di convinzione e non di mera
opinione, riconfigurano performativamente i fenomeni di inclusione e di esclu-
sione, di visibilità e di invisibilità, degli uomini sulla scena intersoggettiva.
Gli interrogativi che ci poniamo ora sono: come è possibile sviluppare e utilizza-
re questa ricchezza teorica e pratica per uno studio predittivo degli sconvolgi-
menti politici contemporanei? È possibile individuare nuovi soggetti politici e
pensare a nuove forme di cittadinanza a partire da esperienze al di là delle map-
pe galileiane e kantiane? È possibile non esaurire il politico al fisico, al biologi-
co, al giuridico, all’economico? Secondo l’impostazione merleau-pontyana
l’analisi psicanalitica dei saperi politici deve essere condotta instancabilmente,
mantenendo calata ogni epoché nella viva piaga delle sue contingenze storiche,
per poi poter ripartire ontologicamente con la teoresi interpretativa dei loro sin-
tomi, dei loro significanti. L’iperdialettica dei sintomi storici è, appunto, la pro-
cessualità con cui la carne si sovrascrive e si riproduce simbolicamente, sia in ba-
se a caratterizzazioni regolari sia patologiche. Facendo aderire la teoresi agli eventi
e non viceversa, l’approccio fenomenologico può costantemente rivendicare il
suo statuto di non scienza, di quasi scienza o di ciò che Husserl descrisse come
una filosofia rigorosa e paradossale; questa non era una mancanza ma una ricchez-
za.
In uno sforzo mastodontico, che attraversava e metteva in scacco le ontologie
selvagge delle scienze sperimentali e umane applicate, Merleau-Ponty tra il 1942
e il 1961 abbozzava le coordinate di riferimento e gli assi portanti di una nuova
pratica psicanalitica e come se non bastasse addirittura di una fisica nuova, la quale
scompaginava un campo di esperienza (e di indagine filosofica) dalla caratura
dialettica fino ad ora rimasta ineguagliata. Questo nuovo campo di esperienza
ricollocava la questione del politico dal piano dell’esattezza sperimentale e del
criticismo applicato sull’essere al piano fenomenologico delle tecnologie intorno
l’essere. Opere come La Structure du comportement e la Phénoménologie de la per-
ception sono le prime fasi di passaggio dalla fenomenologia dell’intenzionalità
(di matrice husserliana) a una ontologia fenomenologica dell’espressione, punto
di svolta cruciale del filosofo francese, una volta individuati i punti ciechi e le
scoperte importanti dei saperi tradizionali in merito alle nevralgiche questioni

16
J. Lacan, Scritti (1966), Einaudi, Torino 1974.
Le modernità politiche e le rivoluzioni del sapere 13

della percezione, dell’espressione, della figurazione. Un’attenzione scrupolosa,


una lentezza tipica della fenomenologia, resero celebri alcune pagine, prime tra
tutte quelle dedicate alla questione della scrittura della corporeità, del chiasma
della percezione, delle stratificazioni simboliche e immaginarie del linguaggio,
delle topiche di pregnanza e di reversibilità della Stiftüng umana. Le visible et
l’invisible, opera pubblicata postuma nel ’64, rimane ancora oggi lo zibaldone
dove Merleau-Ponty delineò i vettori di ricerca da lasciare ai posteri e che
muovevano, ormai, da un maturo lavoro di messa fuori circuito delle ontologie
critiche e oggettive moderne, la quale, ripetuta, rendeva la fenomenologia su-
scettibile di rimanere tale, nel suo statuto di disillusa avanguardia e di indagine
accorta.
La povertà della letteratura critica sul carattere psicanalitico, fisico, in Merleau-
Ponty (e dei rapporti di contiguità che lo stesso intrattenne con le teorie freu-
diane e lacaniane), ci spingono a considerare sullo scenario mondiale contempo-
raneo solo tre grandi ed egemoniche correnti di teoria politica: quella normati-
va, quella descrittiva, quella psicanalitica (classica).
La filosofia politica normativa si fonda sulla teoria della giustizia, enunciata per
la prima volta dal filosofo americano John Rawls, il quale rilegge Kant e lo ri-
scrive riconsiderando l’inviolabilità della dignità della persona umana, una in-
violabilità fondata sulla giustizia, ciò su cui neppure il benessere della società nel
suo complesso può prevalere. La giustizia è in altre parole lo statuto fondamen-
tale di una associazione umana ben ordinata, mentre una sua teoria deve essere
il canovaccio sul quale qualsiasi tipo di fenomeno sociale diviene
l’intrattenimento nel quale vengono scelte le regole morali. Rawls si ispira al
vecchio mito, filosofico e scientifico, di una original position in cui gli individui
in uguaglianza si accordano razionalmente per la fissazione di diritti inalienabili.
Ogni individuo è ispirato intimamente dalla sua autonomia, la forza di una Ra-
gione pura pratica, che esiste solo nella misura in cui ogni individuo pensa e au-
to-afferma la propria volontà di volontà, la propria volontà di ragione. Questa
volontà autonoma, la quale ci libera continuamente dal nostro eteronomo veil of
ignorance, kantianamente ci rappresenta criticamente e quindi moralmente. Per
Rawls la giustizia non è altro che l’imperativo categorico della libertà kantiana,
il quale ci comanda di essere liberi. Per questa ragione la giustizia è un altro
nome per chiamare la volontà autonoma di Kant, che già in Kant era sinonimo
di ragione, di libertà, di pensiero, di rappresentazione (vorstellung), di umanità. Il
fatto della ragione è il comando della ragione come forza (Kraft) e il comando
14 Introduzione

della ragione è il comando della giustizia, della libertà. Parafrasando Rawls, agire
secondo giustizia è agire secondo imperativi categorici, nel senso che essi agisco-
no la nostra autonomia e la nostra autodeterminazione. Nella tensione tra
l’essere e il non essere, l’ontologia del Sé, l’ontologia kantiana, del continuo ri-
piegamento di una umanità invisibile a se stessa, su sé medesima, è la cifra stessa
di una teoria della politica pura 17 e cioè di quella politica della soggettività mo-
derna in quanto autonoma.
La teoria politica Descrittiva, che per comodità definiamo arendtiano-
foucaultiana, afferma di limitarsi a descrivere il fatto politico, senza darne, alcu-
na, definizione. La genealogia descrittiva non intende scoprire le norme che de-
terminano il fattore politico, ma descrive i fatti politici strutturalmente. La filo-
sofia politica foucaultiana è infatti una indagine archeologica e descrittiva degli
spazi categoriali e teoretico-concettuali, che nell’insieme nutrono e muovono le
pratiche dell’età moderna. La griglia epistemica, l’infrastruttura ontologica, della
modernità, è certamente diversa e irriducibile a quella antica, a quella cristiana e
a quella classica, di cui rispettivamente sono del resto difficili e impossibili delle
complete genealogie. La nostra modernità è un’invenzione recente e si annunciò
sulla scena di un candid world nelle sembianze di una soggettività autonoma, in-
visibile a sé stessa, la quale non può essere sensatamente conosciuta, ma solo esse-
re rappresentata, riflettuta, nell’autonomia critica di un pensiero puro. Sia per la
Arendt sia per Foucault la modernità politica è una modernità dei saperi appli-
cati alla produzione della ricchezza, la quale nella forma capitalistica, del macro
e micro governo biopolitico del potere, esaurisce il fatto politico a una sfumatu-
ra del socio-culturale, a una economia politica delle relazioni di potere sociale,

17
La sponda europea, continentale, proseguendo sulla stessa linea, presenta come suo
principale esponente Jürgen Habermas. Habermas espone una teoria normativa nel sen-
so che rivela quelle norme in base alle quali si deve praticare la politica. La disciplina
filosofica pura che più costeggia questa corrente di pensiero politico è l’etica normativa,
ovvero lo studio dei valori e delle norme in base alle quali si deve l’agire morale e di
conseguenza la giusta prassi politica. La prassi politica giusta è una ragione comunicati-
va, che fonda la sua legittimità su procedure discorsive. Habermas, kantianamente, af-
ferma che la modernità rimasta orfana di Dio si nutre del suo stesso progetto di giusti-
zia, di ragione e di libertà, e, ri-narrando i passaggi kantiani, identifica la modernità con
la sua pretesa illuministica di riflessione critica su sé medesima.
Le modernità politiche e le rivoluzioni del sapere 15

che come istanze di normalizzazione totalitaria, ideologica, delle condotte uma-


ne gioca le pratiche di soggettivazione e di assoggettamento degli individui; in
altre parole l’epoca di nuove e storiche regolamentazioni delle pratiche sociali in
base alle quali l’Uomo a volte indossa la maschera giuridica, a volte quella eco-
nomica, a volte quella biologica. Il volto di sabbia sulla riva del mare che si
chiama Umanità prima o poi scomparirà, ma nel frattempo, secondo Foucault,
va destrutturata genealogicamente e descritta nei suoi atteggiamenti e nelle sue
metafisiche di condotta, per restituire, attraverso un’etica anti-politica di resi-
stenza individuale e della cura di sé, autonomia a un soggetto irretito nelle ma-
glie di organizzazione e ottimizzazione della vita.
La teoria politica psicanalitica (classica), a partire da una psicanalisi lacaniana 18
della modernità, indaga clinicamente i fenomeni politici come fenomeni psichi-
ci di “soggettivazione”, “identificazione” interindividuale, in tutte le sue decli-
nazioni nevrotiche e psicotiche. Secondo un rinnovato criticismo, elevato a po-
tenza, la psicanalisi politica classica si sforza di indagare e comprendere cosa è e
come emerge un soggetto politico, ma, soprattutto, ricercare, al tramonto di
quelli presenti, quali sono le condizioni di possibilità per prevederne di nuovi.
In base a una psicanalisi clinica del politico nel moderno chiedersi cosa è un
soggetto politico, significa, innanzitutto, farlo alla luce della nozione lacaniana
di “Soggetto dell’interpretazione”. Il soggetto politico è un Noi, una collettività
che enuncia se stessa e si fa portatrice di un discorso e di una testimonianza per
il riconoscimento di sé. Il discorso, l’enunciazione, la nominazione pubblica, è
ciò che lega l’essere umano a un singolo corpo politico, a una singola collettività, a
una singolare identità di gruppo. A differenza delle cosiddette scienze politiche
questa impostazione quasi medica, intorno il politico, tende a fare una precisa-
zione molto importante e cioè che il potere politico, di emancipazione, non può
essere esaurito, frainteso, con quello giuridico e costituzionale. Ciò ci riporta a
tener ben presente la specificità delle dinamiche politiche in relazione a quelle
sociali. In base a questa impostazione la modernità rimane il nostro tempo, il
nostro orizzonte ontologico, e non può finire, ma può solo ricadere su se stesso,
in se stesso e come dice Lacan la scommessa è prendere atto della cosa e rimane-
re di guardia, psicanaliticamente, alle soglie interne di quel malato cronico che è

18
Ontologica.
16 Introduzione

il moderno. Come scrive un acuto esponente della psicanalisi politica di stampo


lacaniano:
«Se così stanno le cose, se cioè il Todestrieb è il volto osceno (il volto che, appunto, resta
fuori scena) dell’autonomia, tutto questo comincia a gettare luce sull’autentica portata
politica, almeno implicita, della psicoanalisi. Sul piano teoretico, infatti, la psicanalisi
identifica l’autonomia e il Todestrieb, disgiungendo l’autonomia e la libertà.
L’autonomia non è un principio di libertà ma un principio di morte: questo teorizza la
psicanalisi […]. Sul piano pratico, essa contrappone al gioco a uno dell’autonomia, il suo
gioco a due. La libertà non è né libertà da né libertà di, ma libertà con: questo pratica la
psicanalisi. Detto altrimenti, se esiste una tesi politica della psicoanalisi, essa a nostro
avviso va cercata più sul versante pratico, che su quello teorico, e va dunque ancora oggi
esplicitata, va cioè ancora formulata e articolata. Il che finisce per condurci, stranamen-
te, dalle parti di un’altra fiera antagonista dell’autonomia, che però si è sempre tenuta
alla larga dalla psicanalisi. Arendt si pone infatti due interrogativi che si pone pure
Freud. Il primo è: perché gli umani chinano la testa tanto facilmente? Il secondo è: co-
me evitare che ciò accada o comunque si ripeta? Al primo interrogativo Freud risponde
con la pulsione di morte. Al secondo interrogativo Freud oppone la sua pratica della
psicanalisi. Freud dunque formula una risposta per il secondo (opponendogli la pratica
psicanalitica)» 19.
Qui ciò che ci interessa sottolineare è che la lettura psicanalitica classica del fe-
nomeno politico da un lato conferma che la cifra della modernità è quella
dell’autonomia kantiana, dall’altra parte ci rende partecipe di una teoria del per-
dono 20. Nella lettura freudiana dell’autonomia si scopre che è il doppio vinco-
lo/comando a scatenare la presa mortifera della pulsione di morte. Quest’ultima
è l’energia sprigionata e che scorre tra l’Io e il Super-Io. Quando la soggettività
rimane catturata in questo circolo vizioso, aumentando esponenzialmente il sen-
so di colpa e la sofferenza, abbiamo una cura/cultura della pulsione di morte,
del lato oscuro dell’autonomia, del suo o-sceno. Il progetto moderno
dell’autonomia ha una portata anti-politica, in quanto la sua libertà è una liber-
tà dalla schiavitù dell’eteronomia in cambio di una schiavitù pura dell’a sé e delle
turbe ad essa consecutive. Questa schiavitù pura pulsa, secondo Freud, nella
pulsione mortifera del Todestrieb. Quest’ultimo non è l’aggressività animale,

19
D. Tarizzo, Giochi di potere. Sulla paranoia politica, pp. 136-137, Laterza, Roma-Bari
2008.
20
Rimandiamo all’Hegel della Fenomenologia.
Le modernità politiche e le rivoluzioni del sapere 17

zoologica, eteronoma, ma una pulsione, una forza strutturale e topologica, un


nervo della soggettività. La psicanalisi non dialoga con l’istinto ma con le pul-
sioni, non analizza l’uomo istintuale ma l’uomo pulsionale. La soggettività pul-
sionale è una soggettività che obbedisce a se stessa, la soggettività colta nella sua
autonomia, nella sua obbedienza coatta e coercitiva a se stessa, nello schema
dell’imperativo categorico, nel corridoio pulsionale tra libertà dall’altro e schia-
vitù critica all’autonomia di se stessi. Freud e in seguito Lacan analizzarono la
modernità e provarono a sedarla nei suoi risvolti più patologici attraverso la pra-
tica psicanalitica. In questo scenario la psicanalisi freudiano-lacaniana (classica)
propone alla cura e cultura della pulsione di morte un’alternativa, propone alla
politica dell’autorità e dell’autonomia una politica del perdono, una politica
dell’autorevolezza e della convinzione; propone oltre la libertà come autonomia
l’alternativa più politica di una libertà a due, dove il potere è dettato non da un
comando coatto ma dalla possibilità di una libera assunzione, di una convinzio-
ne. Secondo questa pura teoria astratta della modernità psichica e in base alla
sua pratica di supercriticismo psicanalitico 21 applicato al fenomeno della sogget-
tivazione umana, la questione della modernità matura è tutta una questione po-
litica, di potere. La sua ontologia è, in effetti, una ontologia del potere, del poli-
tico e delle relazioni che tra gli uomini si stabiliscono in questo senso, in sanità e
in patologia. La clinica politica dispiega sia in chiave interindividuale sia nella
chiave intra-individuale, intra-psichica, la questione del potere. Con Freud essa
rilegge nella categoria di autonomia il comando, l’imperativo categorico, come
una forma di coazione, di auto-obbligazione, un comando di cui la fonte e il
destinatario sono nella stessa identica persona, che a questo punto si scinde in Io
e in Super-Io 22. Interpsichico e intrapsichico costituiscono il dominio di una
prassi psicanalitica, la quale, una volta accertato che la modernità è una moder-
nità malata, opera di genealogia, sedando le storture più gravi. La clinica genea-
logica lacaniana del politico propone come soluzione a una politica del sapere (o
della nuda coercizione) quella della convinzione. Come a un paziente che ter-
mina una terapia, la psicanalisi della politica fornisce quei materiali sui quali
elaborare delle convinzioni politiche, quei giochi di potere, potremo dire sim-

21
Un criticismo elevato a potenza quadrata, o addirittura cubica.
22
In un Ich e in un Uber-Ich.
18 Introduzione

metrici, dove non è la paura o il senso di colpa a nutrire l’atto e il fatto politico,
ma è la fiducia in un percorso a due, in un progetto comune. Onde evitare equi-
voci la psicanalisi politica classica non è né una teoria logica di come si costitui-
scono, si istituiscono, meccanicamente (vedi Hobbes) le entità politiche, né un
sapere paragonabile alla scienza umana, ma in quanto prassi di osservazione, in-
terpretazione e cura, del fenomeno politico, essa orbita nelle zone ipercritiche di
confine, di contaminazione, tra le scienze umane, dove le parole e le cose si con-
fondono, migrano, si urtano, si fanno e si decostruiscono. Questo tipo di teoria
è una teoria metacritica 23, doppiamente criticista, pura nella sua astrazione, ma
nel momento in cui è disposta ad aprirsi alla storicità clinica dei dati empirici,
essa è capace di cogliere la dialettica contraddittoria delle condizioni materiali e
categoriali e, addirittura, di divenire predittiva. Secondo questo tipo di atteg-
giamento le fasi genetiche del fenomeno politico sono approssimativamente
quattro: una più propriamente politica, produttiva e costituente in senso imma-
ginifico e simbolico; una in cui il play politico si cristallizza divenendo istituzio-
ne, costituzione socio-politica, stato di diritto; una terza fase in cui diviene un sa-
pere evidente, socializzato, una scienza indiscutibile del reale; una quarta fase in
cui il «play politico» 24, trasformatosi ormai in uno sclerotizzato «game di sapere
sociale» 25, arriva ad esaurirsi in tutta la sua efficacia e portata identitaria, a mori-
re nei processi di delegittimazione barbarica delle leggi fondamentali e dei padri
fondatori. Nelle fasi di irrigidimento sociale delle cornici di senso, teoriche e di
prassi, in cui ha luogo l’evento politico, nelle fasi della sua stabilizzazione, istitu-
zione, normalizzazione in sapere sociale, esso può sviluppare una sintomatica
patologica di potere alterato, asimmetrico. Questo tipo di prospettiva performa-
tiva implica la quasi impossibilità di una linea spartitoria tra malattia e sanità
della politica. La psicanalisi politica lacaniana preferisce considerare che i feno-
meni politici sono o possono essere, tendenzialmente, più o meno nevrotici o
più o meno psicotici. Sulla base di questo criticismo cubico il lacanismo politico
predilige rappresentare se stesso come una teoresi applicata di genere molto par-
ticolare; la sua zona operativa, o quella supposta tale, è quella di una presunta

23
Come lo è per altro verso la Critica all’economia politica di Marx.
24
D. Tarizzo, Ibidem, pp. 148-155.
25
Ibidem.
Le modernità politiche e le rivoluzioni del sapere 19

non-scientificità localizzata tra le scienze umane. La nuova generazione di psico-


logi delle masse lavora sul filo di un rasoio, in un certo senso sul rischio inci-
piente di cadere in un piano ideologico 26, tecnocratico, che anche se non sem-
bra si muove sin dall’inizio come una scienza molto particolare. La psicanalisi po-
litica di ispirazione lacaniana rielabora, in una struttura teorica forte, i risultati
descrittivi e gli esiti analitici delle ricerche arendtiano-foucaultiane, privandoli
della loro deriva sociologica e rimanendo psicanaliticamente, meta-criticamente,
ai bordi interni della modernità politica, tra le fasce di confine dei game sociali
di potere-sapere, non fa altro che, come scrive Tarizzo, «rimanere in ascolto di
noi stessi», dei moderni, nella terza piega riflessiva della modernità su se mede-
sima.
La teoria politica normativa e quella descrittiva tendono, purtroppo, in quanto
astrazioni pure, a fare o teorie del politico o teorie sul politico, ovvero teorie che
predeterminano il fenomeno politico in obbedienza ad astrazioni pure del poli-
tico, per quanto tengano conto delle raccolte empiriche di dati. La psicanalisi
politica (classica), invece, può coerentemente rivendicare per se stessa lo svinco-
lo da qualsiasi sclerosi di tal genere, ma tuttavia parte da due assunti pregiudi-
ziali: il primo è quello secondo il quale esiste solo una modernità, una nostra
modernità, quella kantiana, che estromette totalmente dal suo orizzonte analiti-
co qualsiasi tipo di riflessione in merito all’altra modernità, quella classica (gali-
leiana) delle scienze dure. Quest’ultima è una operazione impropria e miope, in
quanto rende la psicanalisi politica classica idiota nei confronti delle sclerosi pa-
tologiche delle scienze esatte applicate alla politica e all’economia capitalistica.
La seconda ovvietà pregiudiziale è quella che assume ancora in maniera inge-

26
Le ideologie totalitarie per la Arendt, ad esempio, erano, e continuano ad essere, edi-
ficate sulla metafisica di una salute del corpo politico, dove la riconciliazione degli uo-
mini, nel nome di un sapere, tendenzialmente scientifico, mirava a compiere l’uomo
nella sua umanità, a concluderlo nella sua modernità rivoluzionaria. Nella “Grande Sto-
ria” questo tipo di sapere rivoluzionario si è avvicendato secondo tre pieghe: è stato un
sapere di tipo storico-sociale, ovvero, quello che ha realizzato il fascismo, il socialismo
sovietico e il socialismo di mercato; quello capitalistico e storico-giuridico del liberali-
smo e del neo-liberalismo; e quello di tipo storico-naturale che ha realizzato i socialismi
nazionali e i razzismi biologici.
20 Introduzione

nua 27 il supporto su cui lo statuto ontologico freudiano-lacaniano si attorciglia.


La psicanalisi politica classica non riduce fenomenologicamente le evidenze neu-
rologiche in rapporto alle quali l’anatomia psichica freudiana stessa si delineava
metaforicamente. Alla psicanalisi classica manca una genealogia delle scienze fisi-
che (matematico-sperimentali) e gli è per principio, addirittura, estranea, onto-
logicamente impossibile, un’interpretazione clinica di queste. La psicanalisi po-
litica lacaniana non può dirsi ancora ontologica in senso rigoroso, una psicanalisi
politica radicale; quest’ultima esige per essere inaugurata di una epoché husser-
liana e merleau-pontyana.
Fuori dalle modernità (galileiana e kantiana) e al di là di un ordine della rappre-
sentazione teorica (vorstellung) la psicanalisi ontologica di ispirazione fenomeno-
logica può certamente ancora correre il rischio di essere accusata ad un certo
punto di ideologia (questo è una ciclicità storica), ma anche in questa occasione
non la si potrà mai considerare come una scienza del potere sociale sugli uomi-
ni. L’opera del filosofo francese scorge nella psicanalisi lacaniana una radice an-
cora idealistica, ideologica, scientifica, secondo la quale non esiste via di uscita
dalla modernità (kantiana). Merleau-Ponty ne abbozza invece una via di uscita
per il tramite di una psicanalisi ontologica non più della modernità 28 ma della
carne. Merleau-Ponty muove da una fenomenologia della percezione verso una
ontologia fenomenologica della figurazione, scorgendo il progetto di una psica-
nalisi ontologica di tempra non rappresentativa (vorstellung) ma espressiva (dar-
stellung), una fisica del quinto elemento (la carne) nella quale sembrerebbero deli-
nearsi interessanti spunti per una filosofia militante che guardi oltre le pieghe
che, nella modernità galileiana e kantiana, del politico si sono manifestate.
Con il progetto di ricerca proposto ci poniamo, a partire dall’approccio filosofi-
co considerato e dallo sviluppo di una singola tematica ubiquitaria, un percorso
di ricerca trasversale che coinvolge e compenetra, nella misura più circoscritta
possibile, le fasi di contiguità e di contaminazione tra le scienze fisiche e umane
applicate, nelle contingenze storiche che le producono. Le questioni preliminari
poste, come si è potuto rilevare, sono, inoltre, centrali all’interno del dibattito
internazionale intorno all’esigenza di nuove pratiche di cittadinanza, nuove fa-

27
Espressione husserliana.
28
Di cui quella freudiana e quella lacaniana sono.
Le modernità politiche e le rivoluzioni del sapere 21

glie di soggettivazione politica, oltre l’Europa fallimentare delle tecnocrazie. La


crisi dell’Europa, la mancanza di una unione politica, è il fenomeno più eviden-
te e sintomatico di tale dibattito; né le scienze giuridiche né quelle economiche
sono riuscite a sostituirsi alla necessità di una teoria politica forte finalizzata a
ritagliare margini nuovi di creatività politica per le soggettivazioni collettive. So-
lo un soggetto politico, una unità politica, può esprimersi ed imporsi in uno sta-
tuto giuridico e in una pianificazione economica. Ancora oggi, sull’orlo del ba-
ratro, i fondatori dell’unione economica e monetaria europea sottolineano la
loro volontà di aver voluto creare sin dagli inizi un’area valutaria ottimale e non
una Europa politica; con ciò ammettono non solo un limite di prospettiva ma,
anche, il vizio di forma e il fallimento di un tale progetto. Nello stato di cose
attuale la comunità mondiale chiedendo risposte politiche a una Europa che
non c’è, compie di fatto un gesto improprio e ingenuo, il quale però non ci
esclude dalla possibilità di percepire la necessità e il bisogno generale di una
identità e di un progetto comune a cui convertirsi, obbedire spontaneamente.
Uno studio psicanaliticamente rigoroso, fenomenologico, sulle attualità può ren-
dere lo sguardo della teoria politica meno idiota di fronte a questi scenari e può
elaborare soluzioni concrete ad ambasce dal valore prettamente politico, senza
farsi risucchiare da quelle astrazioni teoriche tradizionali che viziano e ipnotiz-
zano lo sguardo teoretico ingenuo. Nel momento in cui la politica con la “p”
maiuscola, la politica intenta a costruire e affermare identità di massa, è uscita di
scena e il dibattito pubblico intorno l’Europa è stato saturato da discorsività
scientifiche dell’Europa o sull’Europa, la tecnocrazia che ne è susseguita non è
stata in grado di risolvere in sé stessa la crisi politica europea e di rispondere alla
depressione delle masse con una effettiva e solida integrazione. I tecnocrati eu-
ropei non sono stati in grado di suturare le lacerazioni e le ferite politiche delle
masse, (emblematico rimane il caso Italia): e allora cosa si può fare in un mo-
mento del genere? Bisogna ritornare a pensare politicamente, e non scientifica-
mente, le contingenze storiche. Ancora una volta la teoria, senza scadere in ac-
cademismi, deve nutrirsi dei nuovi fenomeni di leadership, delle mobilitazioni
plebee, delle traversie dei migranti, delle stragi di piazza e di tutti quei fenomeni
22 Introduzione

vissuti di invisibilità politica e di barbarie che costituiscono storicamente la ma-


teria 29 incandescente, primordinale, da cui il politico inizia a parlare.
In virtù di una teoria dell’espressione politica, di corporeità collettive, contro la
stanchezza delle filosofie politiche tradizionali, Merleau-Ponty proponeva un
nuovo modo di guardare alle cose oltre i modi di rappresentazione moderna del-
la realtà, restituendoci addirittura al dubbio del reale. Sulla scia di Marx, Freud,
Husserl, della critica all’economia politica, della psicologia del profondo, della
fenomenologia trascendentale, l’analista del visibile e dell’invisibile elaborò una
filosofia capace di confrontarsi frontalmente e trasversalmente con il campo delle
scienze sperimentali e umane, per poter non solo stabilirsi criticamente tra esse
ma, addirittura, per poter scoprire oltre queste un nuovo orizzonte ontologico.
In altre parole scorgeremo i lineamenti di nuove forme di teoresi al di là, final-
mente, degli esiti obbligati stabiliti delle geometrie galileiane e kantiane, degli
illuminismi moderni e di quelli metacritici europei. La prima fase delle ricerche
consiste nel ripercorrere ed esplicitare le genealogie, - le epoché delle scienze gali-
leiane e umane segregate dallo sfondo ontologico della teologia cristiana - effet-
tuate dall’approccio merleau-pontyano, soprattutto per quanto concerne le in-
dicazioni contenute nell’opera, pubblicata postuma, de Il Visibile e l’invisibile.
Una seconda fase si occuperà, attraverso una circoscritta letteratura critica mul-
tidisciplinare, di enucleare lo sfondo di riferimenti teorici della nuova psicanalisi
ontologica abbozzata da Merleau-Ponty e, dunque, sia degli autori con i quali
intrattenne relazioni indirette di confronto e di scontro teorico, (tra cui spicca-
no l’ultimo Husserl e il Freud della seconda topica), sia con pensatori a lui con-
temporanei tra cui Foucault e Lacan. A questo punto in una terza fase cerche-
remo di problematizzare contestualmente gli strumenti fenomenologici con cui
Merleau-Ponty analizzava il politico, la carne. Tutto ciò, in ultima istanza, per
rifornirci di innovativi strumenti teorici e pratici, passati inosservati o peggio
abbandonati, per capire e incidere l’attualità.

29
«I movimenti di massa sono la materia prima della politica» (E. Balibar, La paura delle
masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, p. 172, Mimesis, Milano 2001).
La sacertà e l’incarnazione cristiana 23

Capitolo I. La sacertà e l’incarnazione cristiana

L’esperienza individuale e collettiva dell’Antichità era il mondo del sacro,


l’esperienza di qualcosa che rimaneva costantemente separato, osceno. In latino
l’espressione sacer significava l’escluso dalle faccende umane, qualcosa che appar-
teneva a un’altra sfera della realtà, qualcosa che era inattingibile. In questo tipo
di ontologia non era necessario identificare il sacro con il divino perché ciò che
nel sacro era realmente in gioco era piuttosto un confine, una frontiera, la quale
divideva in due regni il mondo in cui si abitava. Su uno dei fianchi di questo
confine c’era sempre un Noi politico, una soggettività collettiva, che percepiva,
abitava, il mondo evidente. Sull’altro vi era qualcosa di separato, di inattingibi-
le, di cui ogni Noi collettivo era in ascolto. La soglia sacra, custodita dal sacerdos,
tra il mondo inattingibile e quello del visibile, era provvista di tre qualità: il sa-
cro era senza significato, profondamente in(-)umano. L’unico modo di restare in
contatto con il sacro e con ciò che ci concerneva era l’attenzione passiva e sot-
tomessa di un ascolto di tutto ciò che proveniva dall’Altro, dall’al di là della so-
glia, che pur essendo osceno, separato dal Noi della pubblicità, aveva a che fare con
il nucleo più intimo dell’identità collettiva, la dimensione mitica e sacra
dell’origine di una comunità. Il sacro non lasciava tracce in qualcosa di piena-
mente significativo ma nell’impronta, in una scrittura mitica, in quella che Di-
di-Huberman ha indicato come la somiglianza per contatto, la perfetta immagine
dialettica, portatrice sia di un contatto che di una perdita, sia di una presenza
che di un’assenza. La somiglianza per contatto non era una significazione lingui-
stica, un giudizio, una rappresentazione mimetica ma un lavoro in atto.
«Il processo di impronta è “il contatto dell’origine” o la “perdita dell’origine”? Manifesta
l’autenticità della presenza (come processo di contatto) o al contrario, la perdita
dell’unicità che la sua possibilità di riproduzione comporta? Produce l’unico o il disse-
minato? L’auratico o il seriale? Il simile o il dissimile? L’identità o il non identificabile?
La decisione o il caso? Il desiderio o il lutto? La forma o l’informazione? Lo stesso o il
mutato? Il familiare o l’estraneo? Il contatto o la distanza? […] L’impronta è l’immagine
dialettica […]: qualcosa che ci parla sia del contatto (il piede che sprofonda nella sabbia)
24 Capitolo I

sia della perdita (l’assenza del piede nella sua impronta; qualcosa che esprime sia il con-
tatto della perdita sia la perdita di contatto)» 30.
Questo tipo di scrittura che non significava, ma tracciava un confine, una so-
glia, era quello che Ernst Cassirer indicò come una «pura forma del fare» 31, un
bricolage 32. Il gesto dell’impronta era un fare tra l’insorgenza di un corpo e il
substrato improntato, il processo d’esperienza di una immagine aperta, che cu-
stodiva una relazione sulla soglia tra ciò che era Altro e ciò che era il medesimo o
almeno tra ciò che era ritenuto tale. L’immagine aperta in quanto vortice, gor-
goglio, non era né icona 33 né indice 34, ma il luogo di una esperienza paradossale,
il contatto di un’assenza. Nell’antichità, con una scrittura senza significato,
l’identità collettiva si localizzava nell’enigma, nel geroglifico, nell’iscrizione sacra
del proprio nome. Facendo un esempio di iscrizione profonda del sacro nella
vita pubblica, ritorniamo alla tradizione ebraica, dove il giudeo aveva un rappor-
to particolare con la scrittura sacra. I nomi di Dio erano molteplici, ma il nome
proprio di Dio rimaneva il tetragramma 35, che nessun ebreo poteva pronuncia-
re. L’interdizione non voleva dire solo che era proibito pronunciare il tetra-
gramma, ma che nessun giudeo sapeva pronunciare il proprio nome. La pro-
nuncia del tetragramma era sconosciuta, separata, sacra, era una scrittura afona,
una scrittura senza corpo né padrone. Era impossibile signoreggiare sul signore e
la cifra geroglifica di questo rapporto di subordinazione era questa scrittura sen-
za pronuncia.
Il punto importante della questione non è tanto che era proibito pronunciare
l’impronunciabile, dire il significato, parlare la voce e l’immagine, ma di affer-
mare se stessi nella lotta contro questo stato di cose. Le sacre scritture ci rivelava-
no, miticamente, che l’uomo era un’immagine di Dio 36, una impronta sacra,

30
G. Didi-Huberman, La somiglianza per contatto, p. 15, Bollati Boringhieri, Milano
2008.
31
E. Cassirer, Tre studi sulla forma formans. Tecnica - Spazio - Linguaggio, pp. 51-93,
CLUEB, Bologna 2003.
32
Il francese bricoler corrisponde all’italiano arrangiare.
33
Somiglianza.
34
Contatto.
35
Privo delle vocali.
36
E dio disse:«Che sia l’uomo, creato a mia immagine e somiglianza».
La sacertà e l’incarnazione cristiana 25

una somiglianza per contatto, una visione aperta, dove ciò che era sacro era ciò
che era indispensabile all’espressione dell’essere umano, cioè l’invisibilità a se
stesso e l’indecifrabilità del suo nome. L’identità umana individuale era vincola-
ta a questa scrittura del nome di Dio in cui si rifletteva l’osceno, l’identità stessa,
del soggetto collettivo.
Alla fine di tutto il sacro nome di Dio significava una cosa molto semplice: che
l’uomo era indisponibile a se stesso, era sacro, era separato, era scisso e in quan-
to tale in ascolto di sé. In questa relazione di visione e ascolto si disegnava la
precisa subordinazione dell’uomo antico all’ontologia del sacro, dove, ad esem-
pio, sia gli ebrei sia i romani non erano né gli uni né gli altri. Come ci riferisce
Macrobio il nome di Roma era un occultissimis sacris, un nome sacro e nascosto
a tutti i cittadini 37. Il popolo di Roma era un soggetto politico diviso da se stes-
so, era sempre all’ascolto della sua iscrizione sacra e sempre aperto alla sintoma-
tica del suo sé.
Questo, molto brevemente, era il mondo degli antichi, un mondo che non esi-
ste più a partire dall’evento della crisi del sacro, ovvero dalla comparsa del cri-
stianesimo. In nome di questa crisi, in nome del cristianesimo, la nuova ontolo-
gia si incardinava, si strutturava, sulla nominazione e la significazione del nome-
del-signore. Il cristianesimo era la crisi del sacro nel senso che esso rendeva udi-
bile quella voce inudibile, pronunciava il nome di Dio. Il nome di Dio, il no-
me-del-padre, diveniva un nome padroneggiabile, dotato di significato, a partire
dall’incarnazione del verbo, il quale era l’apparizione del sacro nel mondo visibi-
le. L’incarnazione del Dio consentì di non essere più vincolati alla scrittura
inaccessibile già prima che fosse dato qualunque soggetto politico, ma avevamo
a che fare con un nome preciso di Dio e con un significato rivelato. Con il cri-
stianesimo emergeva una novità sulla scena dell’Antichità, un presente che si as-
sumeva come il nuovo rispetto al passato, un soggetto politico che emergeva
dalla coniugazione tra nominazione e rivelazione.
Paolo di Tarso testimoniò una verità rivelata, una verità che divideva il cristiano
dall’infedele e contemporaneamente l’Antichità dalla sua apocalisse 38,
dall’apparizione del sacro in questo mondo. La verità maiuscola e la nominazio-

37
Di cui solo il pontefice massimo ne custodiva il segreto.
38
Una rivelazione.
26 Capitolo I

ne e rivelazione del sacro si sostituirono alla separazione tra il visibile e


l’invisibile, scatenando la guerra sul vero significato del nome-di-dio, del nome-
del-padre, un conflitto che scoppiò dentro il nome stesso. Tutta la storia cristia-
na fu infatti una storia di scismi, di rivelazioni in lotta tra loro. Lo scisma, la cri-
si, era contenuta nel nome stesso di Dio, l’Uno, il quale a questo punto diveniva
scisso, trino, cioè padre, figlio e spirito santo entro sé. Con la rivelazione cristia-
na il sacro scomparve 39 a favore di un mondo della verità testimoniale e della
nominazione piena e incarnata. La figura del Cristo diveniva auto-rivelatoria,
auto-evidente e testimoniava la compossibilità di indicibile e dicibile nella so-
vranità liturgica del volto santo. La connivenza tra i due aspetti era l’espressione
di un Desiderio sempre inappagato e che muoveva il cristiano a quel faccia a fac-
cia verso il referente ultimo dello sguardo, il suo volto santo. Attraverso un oc-
chio che non poteva mai saziarsi, una fame pellegrina 40, il fedele sperava
nell’identificazione alla somiglianza inafferrabile del Cristo, una vicinanza che
diveniva piena e completa alla fine dei tempi, nel giorno del giudizio. Fino ad
allora il cristiano era legato a una speranza terrena 41 e cioè al raggiungimento di
fugaci momenti di grazia, in cui l’anima si apriva e si lasciava compenetrare
dall’estasi di un tocco, di un’identificazione fuggevole con il volto santo.
La rivelazione e con essa l’apertura dell’Immagine, della carne cristica, significava
l’infrazione di una reclusione, l’elargizione di ciò che fino a quel momento era
rimasto sacro e impronunciabile. L’apertura del fedele alla verità incarnata dive-
niva lo spazio comune di una intesa, che comportava, però, non poche ambigui-
tà e compromessi. L’apertura, la rivelazione alla collettività del separato, impli-
cava l’incarnazione del verbo. Il cristianesimo cercava la propria verità nella rive-
lazione del corpo di Cristo e cioè nella figura di un dio che nella sua passione si
apriva al desiderio dell’uomo di un faccia a faccia con l’Autos, con l’immagine e
la somiglianza di sé attraverso Dio, quel corpo dalle carni straziate e incise, a cui
ogni cristiano si apriva nel mistero e nell’enigma di sé (della visione). In altre
parole le immagini del verbo incarnato, secondo la logica del fantasma, cercava-
no nell’apertura, nelle ferite del dio incarnato, l’intimo e l’orrore, ovvero l’Altro,

39
A favore, come vedremo, del santo.
40
Dante, XXXI, vv. 103-105.
41
Paolo di Tarso, Lettera ai romani, (8,24).
La sacertà e l’incarnazione cristiana 27

il Cristo e il Sé. Nella cristianità, dalle origini alla sua morte, non ci si smise mai
più di chiedersi sulla verità delle immagini con cui il dio si apriva. La carne del
Cristo, come una superficie vivente, era disposta ad aprirsi come immagine del
Sé e dell’uomo. In quest’ottica l’annosa questione della proliferazione dei volti
santi rappresentava l’espressione storica di questo assurdo e, come in un teatro
dei poteri stessi della carne cristica, i volti santi mettevano in relazione corpi con
altri corpi, il dio con l’uomo. L’apertura del verbo incarnato allo sguardo dello
spettatore42 attuava un’impossibilità e dove il simbolico della carne si faceva
immagine, l’immaginario della coscienza cristiana veniva risucchiato nell’effetto
sintomatico di un’immagine che si faceva carne 43. Il volto santo apriva il proprio
corpo al corpo di chi lo vedeva nel momento in cui l’apertura dell’immagine di-
veniva il sintomo di una dialettica della carne e dei corpi coinvolti. Il vedere al
di là e l’oblio, il desiderio all’opera e lo scacco, l’attesa al lavoro e il lutto, erano i
due lembi della dialettica dell’identificazione individuale e collettiva nella conver-
sione cristiana. Quest’ultima era un movimento fantasmagorico che cercava,
all’interno della passione della carne, l’immagine di Dio e con esso dell’uomo 44.
Il mondo della cristianità era, dunque, un mondo scisso in sé, il mondo della
crisi, degli scismi, delle guerre di religione, in cui non c’era mai una sintesi dia-
lettica che stabilizzava la conflittualità. La dialettica del verbo incarnato era una
continua contraddizione tra forza della speranza in una consolazione e il sinto-
mo dell’inconsolabile; lo spazio dell’immagine che non rappresentava, ma che si
apriva di fronte al cristiano, che risucchiava il suo sguardo, lo irretiva e lo identi-
ficava sino ad un al di là di essa, si rivelava come una esperienza autoscopica per
eccellenza. L’autoscopia non solo rivelava il piacere e la grazia di
un’approssimazione all’immagine di Dio e di sé, ma, anche, la violenza di un
gesto dissacratorio. Nominare il sacro, portava alla distruzione del sacro stesso.
Il cristianesimo, dall’incarnazione del verbo alla morte edipica di Dio, si susseguì
come il tempo del conflitto tra il sacro e il sacrilego, il tempo di una rivelazione
che si volgeva sin dall’inizio contro se stessa in una Babilonia dei nomi di Dio e
dei cristianesimi; forse era proprio questa la dialettica tra rivelazione e distruzio-

42
Singolo o collettivo che sia.
43
Vedi il fenomeno delle stigmate.
44
Del cristiano.
28 Capitolo I

ne a cui l’immagine ci apriva e che rinnovava il cristianesimo in continue ricon-


figurazioni e scritture.

***

Cercando di andare più nello specifico della teleologia del volto santo e nel mo-
vimento dialettico che la struttura e che nel complesso traccia i lineamenti di
una sfera d’essere come processo dell’incarnazione e della testimonianza del verbo,
approfondiamo il discorso attorno la visione cristica e la fenomenologia della
sua sintomatica, con un più rigoroso passaggio, risalendo sino alle sue più pro-
fonde stratificazioni e oscillazioni semantiche.
A proposito dell’Afrodite di Cnido 45 Clemente Alessandrino si interrogava sulla
sua bellezza stupefacente e spettacolare, la quale faceva innamorare della sua
immagine chiunque passasse a guardarla. L’immagine erotizzava gli spettatori e
li risucchiava nell’abisso di una trappola visiva e di una sovranità che sosteneva il
desiderio dello sguardo di chiunque veniva catturato in una sfera di efficacia
mimetica. Ciò dava alle immagini pagane questo potere di soglie sacre, che in-
terrogavano e mantenevano aperta la dialettica tra l’indicibile e la realtà. La
condanna degli idoli, delle immagini (specula) pagane, ad opera del cristianesi-
mo è da fare risalire a una riconfigurazione dialettica delle immagini stesse, fon-
date sulla fine del sacro e sull’incarnazione del verbo.
Tertulliano, da ex cittadino romano e da primo padre apologeta e teologo rigo-
roso della chiesa latina, elaborò, a partire dalle ceneri della cultura retorica, giu-
ridica e filosofica, dell’Antichità, una nuova dialettica dell’identificazione.
Quest’ultima reimpostava la sua storia come la storia di una rivelazione e di
un’attesa del dio continuamente in collera con i diversi pronunciamenti che del
suo nome gli eretici avrebbero compiuto. Coerentemente a un futuro di scismi e
conflitti apportati nel nome di Dio, sulla falsariga di san Paolo e della sua teoria
della carne, scandalo per i giudei e follia per i pagani, Tertulliano intrecciò il sa-
pere comune, la sapienza pagana e l’apologetica cristiana contro le evidenze
dell’esperienza antica: denunciò l’inesistenza degli dei, la frigidità delle sue im-
magini, la liturgia demoniaca dei culti pagani. La dialettica del sacro, escluso ma

45
Opera di Prassitele.
La sacertà e l’incarnazione cristiana 29

insito nella collettività, era considerata come una dinamica demoniaca, dove
«essere visti e vedere rispondevano alla stessa pulsione» 46; questa era la struttura
di uno scandalum, di un potere del visibile circense, spettacolare. Nella visione
pagana Tertulliano condannava la forza voluttuosa che impregnava le immagini,
l’erotismo che strutturava la spinta che animava la visione pagana e lo sguardo
di chi si lasciava catturare da essa. Questa visione pagana era la visione teatrale
di un vedere e di un essere visti, il legame velenoso di entusiasmo ed emulazione
che essa instaurava. Lo spettatore pagano era un folle reso euforico dal piacere
della visione; una visione delirante, perversa, che perdurava la sua follia nella
trucidazione, nel dilaniamento, nello sbranamento di corpi fittizi e teatrali.
Questi corpi fittizi dei circhi erano agli antipodi di quelli creati a immagine di
Dio, legati all’orribile realtà dei conflitti. I corpi scenici, teatrali, erano corpi di
una mimesis demoniaca, in quanto immagini di una dialettica turbata e patolo-
gica, ma se la dialettica della visione si prestava così tanto alla perversione nel
caso delle immagini che possedevano demonicamente chi vi partecipava, essa
nella sua riconfigurazione cristiana poteva anche essere cammino di grazia; in-
fatti, come vi erano immagini di perversione e di possessione demoniaca, vi po-
tevano essere, anche, immagini vere e rivelatorie.
Le forme false e demoniache pagane mentivano, imitavano, usurpavano un
aspetto nella fascinazione e nell’equivoco rovesciavano la verità in perversità,
l’immagine di Dio in una somiglianza che mentiva. Questi erano passaggi cru-
ciali non solo per Tertulliano ma per ciò che il cristianesimo sarebbe stato dopo
di lui e cioè la nuova ontologia d’Occidente: l’ontologia della passione cristica.
L’ontologia cristiana era una ontologia che di fatto viveva di conflitti e parados-
salità insite nell’incarnazione stessa del verbo e nella significazione del sacer. La
dialettica del conflitto, di matrice cristiana, nacque nel non dover più desiderare
con il desiderio stesso in cui si era cresciuti. Ciò voleva dire una cosa ben precisa e
cioè che il cristianesimo nacque dalla separazione con il mondo antico, nacque
dall’atto lacerante, auto-lacerante, di una novità nei confronti del passato. I pa-
gani nel momento della conversione decidevano, spontaneamente, di acconsen-
tire a una realtà meno evidente, dove il separato e il visibile cedevano il passo al
rivelato e al visivo, al di là del visibile, mentre l’ascolto perse terreno in favore

46
«Eiusdem libidinis est videri et videre» (Tertulliano, De virginibus velaucis, II,4).
30 Capitolo I

della enunciazione. In questa ontologia del nuovo rispetto all’antico le parole


come cose del peccato, del miracolo, della grazia 47, delle profezie, del santo, su-
bentrarono a quelle del sacrilegio, del prodigio, dello spettacolo, dell’oracolo,
del sacro, le quali sorprendevano maleficamente. Il subentro di un nuovo mon-
do teologico non poteva non essere violento come lo fu la violenza
dell’abbandono e dello sradicamento dal paganesimo e dalla mondanità. Tertul-
liano con il cristianesimo preferì, alla dialettica della mimesis greco-romana,
l’incarnazione cristiana; l’uomo era fatto a immagine e somiglianza di Dio, in
quanto figurato dal limo della terra secondo l’aspetto e la somiglianza. A questo
proposito Didi-Huberman ha scritto che:
«Il Cristo è immagine di Dio perché è il verbo incarnato, reso non solamente visibile,
ma anche tangibile agli uomini. Anche quando afferma che l’anima è “immagine di
Dio” Tertulliano le presuppone una sostanza, e ogni sostanza è a parere suo destinata a
indossare una effigies, una forma visibile. Così le visioni, i fantasmi, erano considerati da
Tertulliano come il reale stesso: quello dell’anima visualizzata. L’immagine è qualcosa
che chiede di essere vista, anche se non lo è ancora: qualcosa che significa più del visibile,
perché designa l’idea di un visibile virtuale, di un visibile a venire […]. Contro
l’idolatria dei pagani e contro il demone dell’imitazione bisogna credere nel verbo in-
carnato. Questo passa per essere un odio del visibile: ogni forma è un idolo, non si deve
né vedere né essere visti, è necessario velarsi il volto davanti all’immagine dovuta a Cesa-
re; ma credere nel verbo incarnato significa anche la promessa di un visibile: la speranza
di comprendere in che cosa l’uomo è immagine di Dio, perché il Cristo si è rivelato e
come l’anima possa essere vista quale è in sé stessa. In Tertulliano c’è qualcosa che passa
attraverso il corpo a corpo dell’imitazione e dell’incarnazione, senza mai essere teorizza-
to, senza mai essere chiarito del tutto: qualcosa che ci racconterebbe come il visivo si
stacca dal visibile. Il visibile è il mondo dell’idolatria, mondo in cui l’immagine si esibi-
sce ovunque, inserendosi in rappresentazioni, in spettacoli ignobili, insoddisfatte con-
cupiscenze. Il visivo, al contrario, è ciò che si vede al di là, nell’aldila. Il visivo caratteriz-
za un mondo in cui l’immagine è contemporaneamente in presenza e in promessa - in
breve, in aura, materia dell’anima. Mondo di una voluttà assolutamente purificata - lon-
tano dal visibile, che non sarebbe che menzogna dell’imitazione e libertà di Cesare, il
visivo porterebbe in sé la verità dell’incarnazione, vale a dire la grazia di Dio» 48.

47
Che ispirava la fede.
48
G. Didi-Huberman, L’immagine aperta, pp. 75-76, Bruno Mondadori, Milano 2008.
La sacertà e l’incarnazione cristiana 31

In Tertulliano la fede certa nell’incarnazione divenne la lotta contro la follia per


una nuova follia, la quale, come diceva san Paolo, era volta a confondere i sa-
pienti, i pagani. La lotta cristiana era una cura del delirio col delirio, la quale cer-
cava di comprendere l’assurdo della morte di un Dio e della sua resurrezione
nella carne, oppure della crocifissione di un Dio fattosi uomo. Nella cristianità
se la verosimiglianza dell’imitazione cercava di ingannare l’inverosimiglianza del
reale ciò si verificava solo in seguito alla forza voluttuosa di immagini purificate,
di una carne e di corpi santificati; come diceva san Paolo nella carne mondana e
visibile non vi era salvezza. Nella dialettica mondana di una carne tramata di
lussuria e satanica voluttà non c’era che la fonte di una eterna dannazione; ma
nel visivo, nell’al di là e nell’aldila del visibile vi era la salvezza. Dio era invisibile
per chi lo cercava nel visibile, ma non per chi lo cercava nel visibile della rivela-
zione, cioè nel visivo, nel paradosso stesso della visione. Nel momento in cui
Dio si incarnava, si rendeva un video pur rimanendo invisibile, questa dialettica
del dissimile e dell’insostenibile si riconfigurava in una nuova dialettica della vi-
sione, che viveva nella distanza e nella vicinanza a un dio. Nel tentativo di cer-
care di spiegare il paradosso dell’incarnazione del verbo, Tertulliano considerava
che il Cristo venne partorito come uno spirito rivestito di carne, uno spirito che
simultaneamente ineriva alla carne e, come essere umano nato dalla carne, ne
veniva strappato. Il corpo di una carne reale era il corpo di uno spirito invisibile,
l’effigie visiva di un al di là del visibile, l’apparire non ingannatore, non mimeti-
co, non visibile, di una visione al di là. Questa apparizione carnale del verbo
spingeva a un atto di fede e di speranza, il quale bucava, feriva, la carne verso un
al di là e un aldilà del visibile. Dio infatti era trino ma non nel senso che aveva
tre forme visibili, che era tre divinità, ma nel senso di tre forme visive, tre per-
sone. Esse non erano tre oggetti dell’esperienza sensibile, ma tre oggetti visivi
segregati dallo sfondo visivo di quelle visioni, di quei video ispirati dall’occhio di
Dio medesimo. Nel verbo incarnato c’era tutta la promessa di una visione al di
là, al di là dei paradossi e delle contraddizioni. Per cui Cristo era Dio e uomo,
spirituale e carnale, nato e non nato, debole e onnipotente; lo strazio delle sue
carni avevano dimostrato la sua umanità, la resurrezione dalla morte, la sua di-
vinità. Tutto nella materia di cui era fatto era verità, in quanto essa era il non
imitabile e dialettica della compossibilità dell’interno e dell’esterno. Il mondo
visibile non era che un aspetto, un fuori, un piacere perverso del sensibile.
Tutt’altro l’intreccio materiale tra carne e spirito santo, corpo e anima, che nel
battesimo e nella sacra unzione riscoprirono la sua purezza.
32 Capitolo I

La carne di un dio sconvolgeva tutte le categorie platoniche e aristoteliche, dove


il dualismo di materia e forma cedeva il passo a una materia come morfogeneti-
ca che intesseva un dentro e un fuori; le forme non erano altro che persone, gli
oggetti visivi di una rivelazione e di una verità che si lasciava compenetrare. Il
martirio testimoniava questo e cioè la capacità della carne dell’uomo di riman-
dare all’origine della sua creazione, dove le inerti sostanze dell’acqua e della terra
ospitarono il respiro di Dio; esso nel suo fulgido calore trasformò questo inerte
composto in una carne e alla sua salvezza dal peccato la consegnò con
l’immagine di Cristo, con la passione, con la liturgia, con il martirio. Vestendo
la dissomiglianza ci si poteva purificare dalla somiglianza, mentre nella passione
della carne il visibile veniva spodestato dal visivo e dall’irruzione del dentro nel
fuori. La vera somiglianza al Cristo non risiedeva nella sua imitazione (farsi cre-
scere la barba, recitare parabole), nel suo aspetto, ma nella sua dissomiglianza,
bisognava «vestire il Cristo come il Cristo aveva vestito la carne» 49. Bisognava
inerire alla carne di Cristo, lasciare improntarlo affinché la nostra carne poteva
testimoniarlo in verità e in empiria. Vedere al di là significava esaltare il visivo,
l’incarnazione contro il visibile, l’imitazione; spingersi al di là dell’immagine e
dei suoi confini. Vestire l’impronta del Cristo voleva dire non una somiglianza
secondo la forma ma secondo la materia, nel profondo di una carne in crisi, nel-
la lacerazione, nel conflitto dialettico. Ciò portò a una conversione di tutti i va-
lori del visibile per la gloria di una testimonianza, di una visione al di là, una
visione faccia a faccia con la verità. La promessa della visione era la promessa di
vedere Dio e con esso il corpo fatto a sua immagine e somiglianza. La promessa
di vedere Dio era la promessa di una grazia infinita, un’estasi, dove vedere ed
essere visti corrispondevano alla stessa pulsione, allo stesso desiderio. Vedere Dio
voleva dire anche vedere se stessi in uno stato di voluttà e di godimento dello
sguardo, sotto lo sguardo del Signore. Cercare di scorgere nel martirio e
nell’approssimazione alla morte e quindi nell’aldilà Dio, era invece il desiderio
di un godimento infinito, la gloria di una sazietà eterna. Cristo moriva sulla
croce per resuscitare e testimoniare la figura, la norma, la legge della resurrezio-
ne alla fine dei tempi. Solo la carne e le sue ferite testimoniavano la fede e solo
le prime decidevano della salvazione o della dannazione.

49
Ibidem, p. 87.
La sacertà e l’incarnazione cristiana 33

Tertulliano ancora una volta significava e padroneggiava il nome di Dio, ma lo


faceva scavando nello spazio di un’aspettativa, in un paziente lavoro del deside-
rio, che ci rivelava la verità nello scarto temporale di un’aspettativa verso un al
di là della visione e in un aldila del visibile. Il sintomo più evidente di una radi-
cale conversione al cristianesimo, che oltrepassava l’ontologia antica e la dialetti-
ca del sacro, in virtù di una convinzione paradossale (la paolino-tertullianea),
era il fenomeno delle stigmate. In esse la soggettività non era un mero riflesso
speculare, essa diveniva impronta del divino, vestiva il Cristo, divenendo
l’epicentro dell’immagine, il sintomo di una visione al di là del visibile e della
mimesis. La finalità della dialettica cristiana era l’incarnazione del verbo, la tra-
smutazione e la conversione del messaggio rivelato nel corpo e nella carne degli
uomini in ecclesia. Il cammino verso la santità era il cammino che rintracciava
le vestigia che Cristo aveva lasciato di sé. Nel momento in cui la carne si mette-
va a figurare, la corporeità del cristiano ritornava a farsi immagine e somiglianza
di Dio. Il cristiano non si obliava ipnoticamente nel Cristo ma ne vestiva la
convinzione. In questa relazione di identificazione incompleta con il Cristo, in
questa dialettica di conversione sintomale dell’esperienza, dove il soggetto veni-
va risucchiato dall’immagine di Cristo e si vestiva di Cristo in un cammino che
eccedeva se stesso, l’immagine cristica non era uno speculum o un idola, davanti
al quale il fedele si specchiava, ma era la soglia di una conversione e di una tran-
sustanziazione, di una convinzione performativa che lo improntava; ragion per
cui il soggetto non rifletteva una immagine ma si faceva immagine, il fedele non
immaginava ma si figurava nella carne; il corpo era rapito da una visione fronta-
le, figurava dall’interno della sua carne.
«La figurabilità non mimetica dell’imitazione cristica […] era dominata dall’idea di trac-
cia, dalla dimensione tattile-aptica della visione - lo sguardo come unzione - » 50.
Ora l’esposizione fenomenologica della stigmate renderebbe certamente giusti-
zia di quanto riportato, di quanto abbiamo descritto e analizzato, e cioè il fatto
che la figurazione cristica non rappresentava un visibile ma rendeva visibile, ma
prima di interpretarla con la sua analitica sarebbe più opportuno ricapitolare le
strutture ontologiche che la rendevano possibile.

50
Ibidem, p. 117.
34 Capitolo I

I. La translatio51 era quella funzione per cui la figura poteva non esaurire
il suo valore nella mera datità significativa. Essa come significante vuoto di
un’alterità oscena non rappresentava il visibile, non era riducibile a una narra-
zione mimetica e letteraria 52 della cosa visibile nel suo nudo aspetto 53, ma ope-
rando uno spostamento apriva e ci apriva 54 a una visione al di là del visibile. Per
i cristianesimi, paolino-tertullianeo e agostiniano, il visivo era l’al di là del visibi-
le, l’al di là della mondanità apparente, falsa, della carne sensibile e peccamino-
sa, ciò che era oltre il piacere dello sguardo irretito nella vertigine impura di una
fascinazione perversa. La figura traslava, anche se fugacemente e mai completa-
mente 55, in base a una reversibilità e una pregnanza ontologica, per cui la visione
del credente non era mai atteggiata simultaneamente come vista e vedente. Per
questo motivo nella tensione chiasmica dello sguardo che osservava una figura,
era la figura ad essere presente e non lo sguardo; quest’ultimo diveniva la corpo-
reità massiccia e di sfondo da cui la figura si segregava e da cui un nuovo oriz-
zonte di senso si apriva. In altre parole nel momento in cui il cristiano si appros-
simava alla figura come vedente, il suo corpo diveniva sfondo di questo avvici-
namento, sfondo di una visione e di un visivo che si collocavano al di là. Nella
topica cristiana di un desiderio di vedere al di là del visibile, la translatio, attra-
verso la lacerazione chiasmica dell’immagine, apriva una dimensione di attesa
interpretativa, di riconoscimento e di identificazione con la verità cristica,
sull’Autos e sul proprio sé attraverso di esso. Questa aspettativa verso l’identità
con il Cristo e la verità era, però, vincolata dalla nostra esistenza terrena; il rico-
noscimento, per tale motivo, si scaglionava, rimaneva sempre interrotto. Solo
alla fine dei tempi e nell’aldilà era possibile coincidere completamente con il Si-
gnore e riconoscersi di fronte al Sé 56. Fino a quel momento, fino a quando non
eravamo un tutt’uno con il Signore, rimanevamo vincolati alla figurazione e ai
suoi scarti; sino a quando non vedevamo aldilà, il cristiano poteva e doveva so-

51
Lo spostamento.
52
L’historia.
53
In questo caso la figura è detta anche icona, idolo, speculum.
54
Come corporeità.
55
Negli stati d’estasi e di grazia.
56
Fase in cui si è uno sguardo che vede e che è visto contemporaneamente, simultanea-
mente.
La sacertà e l’incarnazione cristiana 35

lamente vedere al di là e vivere i misteri della fede di un verbo incarnato figura-


tivamente. La figura che spostava non era il termine di un percorso ma una sua
fase, una sua contraddizione; essa era perciò signa translata e non signa propria,
era un rintracciamento e non un rispecchiamento.

II. La memoria57 era la funzione tettonica, stratificata e convettiva, tra ciò


che era passato e ciò che era futuro, tra l’Antico e il Nuovo testamento, tra il sa-
cro e la rivelazione, tra la legge e l’amore, tra l’immagine invisibile58 e
l’incarnazione. La memoria medievale era un sistema sapienziale del rimando tra
luoghi, tra immagini, il rimando era mnestico, anacronistico, non cronologico.

III. La praefiguratio59 era il ricordo del futuro, il ricordo del destino, il quale
ogni figura portava in sé. Come era tormentato dal peccato originale, il cristiano
era tormentato, persino, dal giudizio finale e la salvazione. La prefiguratio era
quella funzione per cui il cristiano si apriva alla visione e si manteneva con lo
sguardo perché attendeva di vedere; questa attesa, aspettazione, era il desiderio
che apriva l’immagine e che faceva della figura un’immagine che prefigurava,
apriva la propria temporalità; questo effetto, questa efficacia, secondo Didi-
Huberman, era un effetto di lembo, una fantasmagoria 60, dove la figura, nella sua
accezione fantasmagorica 61 appunto, rimandava a un che di altro, prefigurandolo
nel luogo, nello spazio, circoscritto di un’imminenza. Nell’imminenza coglie-
vamo la profonda crisi dell’immagine e il forte valore esegetico di cui le imma-
gini cristiane, a differenza delle rappresentazioni iconiche 62, erano provviste.
L’immagine, nel momento in cui si apriva, incarnava il mistero e la contraddi-
zione (sacrilega) della visione di ciò che nell’Antico testamento rimaneva separa-
to, invisibile, sacro. L’immagine aperta inscenava, attivava, l’incarnazione del
verbo e faceva del cristiano tale. In altre parole il cristiano non era mai fino in

57
La temporalità non cronologica, la temporalità non gerarchica.
58
La cornice.
59
L’imminenza.
60
Come in Lacan.
61
Come immagine allegorica.
62
Le quali come spettri non rimandano a nulla; esse si limitano a rimandare a se stesse e
alla loro univocità.
36 Capitolo I

fondo cristiano ma viveva nel finalismo paradossale di un allontanamento dal


visibile 63 e in un avvicinamento visivo e santificante, persistentemente incom-
pleti e finiti, i quali inchiodavano il cristiano a un desiderio dell’impossibile e di
ciò di cui non era il soggetto 64. Il cristiano era sempre il soggetto e l’oggetto “x”
del desiderio. Egli non era soggetto del suo desiderio più di quanto era padrone
della figurazione, delle sue funzioni e strutture.

IV. La veritas era ciò che nel lavoro della temporalità, del desiderio,
dell’attesa, veniva messo in gioco. La verità era la verità della fede dogmatica ed
escatologica. La verità di fede era la verità della salvazione, dell’incarnazione stessa
del verbo che ogni cristiano si portava dentro e che poteva comprendere solo
aprendosi all’al di là della sua condizione adamitica. Ciò che fu fatto ad immagine
e somiglianza, a impronta di Dio, doveva poter ritornare a Dio solo se dalla sfera
peccaminosa si fosse aperto al suo vero se stesso nella visione traslata e prefiguran-
te di uno spazio della voluttà e del piacere purificato, che lo avrebbe legato in fine
al volto santo. Questo effetto fantasmagorico, immaginario e allegorico della figu-
ra, che rimandava a un fuori di se stessi, rimandava il cristiano a una verità che era
già in sé, ma che poteva solo essere vista al di là di sé medesimo. Questo effetto
veritativo era l’efficacia stessa di una verità incarnata.

V. La virtus, la virtualità, era la funzione che più concretamente infrange-


va, estirpava, la figura dall’univocità del suo valore iconico e mimetico. Ogni
figura cristiana non si lasciava mai riconoscere sotto una sola faccia o meglio sia
sotto il suo aspetto sia sotto un singolare rimando. Nella virtus il cristiano non
era davanti a… ma di fronte o almeno tendeva ad esserlo. La visione 65 era infat-
ti virtuale e in essa non si sapeva più chi vedeva e chi era visto. Ritornando a
Tertulliano affermiamo che la visione virtuale era la visione di una purificata
voluttuosità, di un teatro, di uno stadio, dove il piacere di vedere e farsi vedere
non era più perverso ma vero. Era in esso che vivevamo il lavoro del desiderio e
il paradosso dell’incarnazione di Dio. Era possibile ritornare a Dio solo attraver-

63
Il visibile era, sempre, da elaborare, ad esempio, vivendo la passione nelle stigmate.
64
Il padrone.
65
La quale non è il visibile.
La sacertà e l’incarnazione cristiana 37

so di lui. La figura cristiana, dunque, non diceva il verbo, non lo rappresentava


e indicava in maniera univoca e definit(iv)a, ma lo rintracciava. La virtus era la
potenza virtuale per cui, ad esempio, come scriveva Merleau-Ponty, la mano
toccante poteva essere tale. In altre parole, una mano toccante poteva essere tale
se e solo se fosse stata indifferente a se stessa, cioè se si fosse fatta sfondo per la
cosa; questo effetto virtuale, questa differenza ontologica, questo scarto, era ciò
che ci permetteva di cogliere i colori di una tela nella loro composizione e vice-
versa. La virtualizzazione era la capacità di sovradeterminare e indeterminare il
colore, o un colore sulla tela. Questo potere del virtuale era imprescindibile da-
gli scarti della figurazione, ed era per questo motivo che senza neanche la possi-
bilità di fraintendere l’immagine cristiana per una icona, non aveva neanche
senso parlare di un visivo come ciò che non era il visibile.

VI. La defiguratio66 era la funzione per cui la figura non si spegneva nel suo
inizio rappresentativo; essa era la funzione per cui la figura si rivelava come tale
e cioè come ciò che turbava la rappresentazione. La dissomiglianza era ciò che
inficiava e rendeva sospetta, ambigua, paradossale, una immagine. Ragion per
cui la dissomiglianza era la funzione, l’effetto, per cui l’immagine non rappre-
sentava ma rimandava, non indicava una somiglianza, non rappresentava, ma
rintracciava un al di là nella dissomiglianza. Per tutto questo un uomo ferito
non faceva di lui un Cristo. Nel momento in cui
«Il peccato adamitico ha lacerato o ucciso la somiglianza a Dio - la sola che valga, in que-
sto contesto; è una sfera della dissomiglianza che l’uomo si è visto condannare in attesa
della fine dei tempi. Da una parte l’uomo è destinato al dissimile non appena tocca la
materia (cosa che fa quando compie una immagine visiva). Dall’altra la sua unica risorsa
sarà fabbricare volontariamente immagini dissimili - dissimili alla natura - per toccare, o
almeno mirare, l’immagine invisibile di Dio che costituisce il suo più profondo deside-
rio. Tutta la teologia derivata da san Paolo e dallo Pseudo Dionigi l’Aereopagita non si
esprime diversamente: essa fonda un’estetica dell’intensità che transiterà da Bisanzio
all’Occidente, dove l’arte gotica, tra le altre, ne realizzerà alcune indimenticabili messe
in opera» 67.

66
La dissomiglianza.
67
G. Didi-Huberman, Ibidem, p. 157.
38 Capitolo I

VII. Il desiderium era l’aspettativa che dalla dissomiglianza visibile conduce-


va il cristiano al di là, verso la somiglianza visiva, invisibile, di dio. Questa era la
funzione analogica, che spingeva verso l’alto il cristiano; dunque, non il deside-
rio peccaminoso ma quello mistico della sublevatio e sursumductio.

VIII. La praesentatio era la funzione, la fase, che sconfessava la rappresenta-


zione e che spogliava una immagine di ciò che era visibile in virtù di ciò che era
visivo. Se un’ostia era una figura del corpo di Cristo, cioè presentava, con la
consacrazione del verbo liturgico, il corpo di Cristo stesso, la sua realtà non era
apparenza, ma la dimensione virtuale in cui la sovranità liturgica sugli sguardi si
esercitava legittimamente; il corpo di Cristo accadeva, irrompeva, realmente nel
momento in cui era presente nella sua figurazione 68.

IX. La collocatio era la funzione (anche antica) di muovere le cose pronun-


ciandole 69. Questo spostamento era insito nel lavoro stesso del desiderio e cioè il
farsi spazio tra lo spazio. La virtus medesima corrispondeva a un luogo che non
era quello sensibile, corruttibile. Si potrebbe anche dire che la collocatio era il
potere stesso della fede in una parola che si faceva carne, quello spazio la cui
consistenza ontologica era fatta di ciò che era tra due dimensioni eterogenee. Il
Cristo era il luogo in cui divino e umano si incontravano, cioè, dove i due spazi
si concludevano reciprocamente, divenivano gli elementi di una contraddizione.
La figura non era in un luogo ma era il luogo, lo faceva.

X. La nominatio70 era ciò che faceva il luogo, era la figura stessa, era il
pronunciamento di ciò che era impossibile dire, in altre parole era la testimo-
nianza, la manifestazione, di ciò che si rivelava. La veronica non raccontava nul-
la di sé, non indicava, non rappresentava nulla, ma figurava nella vertigine di un
desiderio di vedere al di là, prefigurava nello spazio dell’aspettativa
un’imminenza, un’incombenza; essa non raccontava nulla, non diceva nulla,
rimandava a qualcosa che era chiuso, si chiudeva al significato; qui ciò che risul-

68
Per comprendere la fenomenologia dell’ostia si consiglia di leggere Freud e gli scritti
dedicati alla presentabilità onirica e alla darstellbarkeit.
69
Vedi i riti romani della provocatio e devotio.
70
Potere del nome.
La sacertà e l’incarnazione cristiana 39

tava era l’elemento della promessa, di una dissomiglianza. L’iperdialettica della


figurazione cristiana, nel suo discontinuo battesimo dello sguardo, era
l’espressione, la riproduzione di un enigma profondo all’esperienza. Esso non ave-
va nulla a che fare con un’Aufhebung figurativa, con un auto-movimento della
certezza figurale di sapore hegeliano, dove vedere e sapere oltrepassano costante-
mente la loro scissione in un delirio di assoluta traslucidità, ma era un fenomeno
fantasmagorico di referenzialità che sosteneva l’attesa, il desiderio di vedere.

XI. La voluntas era il perno metafisico attorno al quale sant’Agostino attor-


cigliò l’identificazione cristica all’escatologia cristiana, la questione interiore del
libero arbitrio con la missione storica e sociale della fede cristiana. Nella filosofia
occidentale Agostino d’Ippona fu il primo metafisico della volontà poiché fu il
primo che problematizzò e discusse lungamente della lotta scatenata all’interno
della volontà e dell’atto di fede. Egli camminava sul solco tracciato, soprattutto,
da Paolo di Tarso e dalla sua lotta tra lo spirito incarnato e la carne mondana 71.
Il dramma metafisico agostiniano era il dramma di un assorbimento spettacola-
re della volontà nello spazio morale e religioso tra un corpo significato, simbo-
lizzato, e l’angoscia di un corpo del peccato. Il liberum arbitrium era la libera
scelta che ogni individuo aveva di andare verso l’alto 72 o verso il basso 73, nella
scala che avvicinava o allontanava a dio. Con ciò sant’Agostino poneva l’accento
non su una libertà come possibilità di agire ma su una libertà come forza
dell’arbitrio, forza della voluntas, libertà del volere. Fin quando però il libero ar-
bitrio sarebbe stato libertà di volere, se la volontà fosse stata soggetta e dipen-
dente dalla volontà divina? Fino a che punto l’uomo non era ingabbiato dal
principio sommo, che era la volontà stessa di Dio? Fino a che punto Dio vinco-
lava la volontà dell’uomo?
In quest’orizzonte di voluntas, in cui il principio individuationis determinava la
volontà dell’individuo, non era più l’irascibile greco 74 a regolare l’animo umano,

71
Adamitica.
72
L’al di là e l’aldila.
73
L’al di qua del visibile mondano e del peccato.
74
Peter Sloterdijk, Zorn und Zeit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, tr. It. e cura
di Gianluca Bonaiuti e Francesco Pelloni, Ira e tempo. Saggio politico-psicologico,
Meltemi editore, Roma 2007.
40 Capitolo I

ma il desiderio, cioè la passione, la voluttà perversa della volontà, la volontà del-


la carne impura, la volontà peccaminosa, la volontà adamitica 75. In
sant’Agostino la volontà era l’organo spirituale, attuazione della singolarità asso-
luta, il principio che individualizzava la singolarità. Esso era lo sforzo
dell’esistenza verso Dio, uno sforzo come atto di fede.

«Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas, et si tuam na-
turam mutabilem inveneris, trascende et te ipsum» 76

La verità non era nel sensibile ma nell’uomo che giudicava secondo la legge del
logos divino. Solo risalendo dalla carne visibile a quella visiva, attraverso la vo-
luntas impregna della immutabile luce divina, nello spazio di un’attesa di grazia,
era possibile rinchiudersi in se stessi, dove ci si apriva alla verità di Dio. Sulla
scala verso Dio la verità non poteva essere conosciuta, posseduta, essa rimaneva
sempre un mistero della fede, in cui la vita terrena non svelava. Solo attraverso
la rivelazione il Cristo insegnò a riconoscere e amare la verità. Per sant’Agostino
l’uomo, con Cristo e l’incarnazione del verbo, ricercava Dio attraverso una con-
dotta cristiana, dentro la sua interiorità e chiudendosi alla mondanità, al visibi-
le. L’uomo ricercava il vero essere nella visione della verità, la quale trascendeva
la sua carne sensibile e peccaminosa per aprirsi a Dio e alla sua viva piaga; con
Cristo e in Cristo l’uomo trovava in sé una volontà dell’amore di Dio, che era
logos e figlio proprio per trarre l’uomo stesso dal mondano presso di sé. Dio,
come logos, verbo e figlio, verbo incarnato, perdonava l’uomo del peccato ada-
mitico e lo traeva verso di sé con la nuova ed eterna alleanza, rivelata e donata
da Cristo per bocca dello spirito santo (l’amore). Dio era amore e verità e amare
Dio significava amare l’amore. Se non si fosse amato, chi avrebbe amato non
avrebbe potuto amare Dio; amare l’uomo avrebbe significato amare Dio.
L’amore verso l’altro non solo sarebbe derivato da Dio ma era Dio. Cercare Dio
e amarlo era essenziale dell’uomo, in quanto esso era a immagine e somiglianza

75
Di cui Tertulliano discusse ampiamente.
76
«Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la verità; e se tro-
verai mutevole la tua natura (visibile e peccaminosa) trascendi anche te stesso» (Agosti-
no d’Ippona, La vera religione, pp. 39-72, 1992).
La sacertà e l’incarnazione cristiana 41

del Signore. Nelle sue tre facoltà 77 l’uomo era una impari immagine della trinità
divina. Dopo la trasgressione adamitica e la salvezza l’uomo poteva ritornare a
Dio purificandosi dal peccato e cioè riscoprendosi come la suprema creazione e
bene di Dio, cercando di trascendere la carne sensibile per rapportarsi alla sua
vera immagine (di sé e di Dio medesimo). Nascendo nuovamente, spiritual-
mente, nell’amore di Dio, in Cristo e nella sua testimonianza, il fedele poteva
rinsaldare il suo legame con il suo vero essere (Dio), in un cammino di rettitu-
dine morale tra il peccato e la resurrezione. Solo da un atto di volontà, un atto
di fede, assolutamente segreto agli altri, ogni individuo entrava in rapporto con
Dio. Le Confessioni non solo indagarono in maniera definita l’esperienza, ma
consolidarono in maniera definitiva il nuovo tipo di soggettivazione cristiana.
Ciò che distingueva due cristiani era la loro volontà, il rapporto perpendicolare
che intrattenevano con Dio e la sua sovranità. La volontà di ogni singolo cri-
stiano si individualizzava, nella sua singolarità e pluralità, nella maniera più vera
e morale, più buona e giusta, più purificata e meritevole dell’immagine di Dio,
nella misura in cui si approssimava al volere sommo di Dio, nell’amore dell’A sé
e del prossimo e, dunque, nella misura in cui nel suo essere ci si avvicinava alla
sua immagine. Nel momento in cui l’uomo si allontanava da Dio, dalla sua
immagine, era la volontà stessa che si disgregava nella sua individualità e si ab-
bandonava alla cupiditas, alla bestialità. Un cristiano più si avvicinava a Dio, più
si individualizzava come tale, come un figlio di Dio degno. La forza di volontà
che da questo momento si impose sulla semantica cristiana, discendeva diretta-
mente da Dio e in base a ciò nacque l’annosa questione del libero arbitrio.

In base a queste XI strutture ontologiche, per cui il cristiano non speculava ma


si poneva di fronte il volto santo, lo incorporava, lo incarnava e lo figurava, lo
segregava come un sintomo, capiamo bene come il cristianesimo francescano sia
riuscito in maniera così pregnante ad esprimere la fenomenologia
dell’incarnazione e della convinzione cristica. San Francesco era favorevole più
per la visione del Cristo e una identificazione stigmatica del corpo che per la
semplice adorazione del culto, al contrario del cristianesimo domenicano, il
quale rimpiangeva e adorava, al di qua dell’immagine, il divino e non riteneva

77
Memoria (esistenza e presenza dell’anima a se stessa), intelligenza, volontà (amore).
42 Capitolo I

necessaria una conversione della carne, un’impronta cristica che invece attraver-
sava l’immagine e si volgeva al di là dell’immagine. La figurazione francescana
predicava una sintomatologia del corpo del cristiano, una processualità che ir-
rompeva e si segregava dalla e nella carne, giocava letteralmente l’incarnazione
del verbo. In relazione a questa teleologia l’imitazione domenicana era rappre-
sentativa, simulava, applicava e recitava un verbo, la sintomatica francescana se-
gregava chi era transustanziato, convertito, convinto. La stigmatizzazione per
questo motivo non era l’esecuzione di uno schema, ma l’iniziazione a un miste-
ro, al factum di un’impossibilità o meglio di una contraddizione. In attesa di un
faccia a faccia con la verità, che si rivelava con Dio e l’immagine di sé, il cristia-
no accettava di praticare il cammino della fede, misterioso ed enigmatico. La
figura rendeva presente nella mediazione di uno sviamento e di una relazione
una verità, la quale rimaneva preclusa nell’al di qua. Il processo di figurazione
non era però una messa in aspetto (mimesis), rappresentare e rendere univoca la
verità 78, ma il processo che si apriva alla contraddizione della verità nella vita
terrena. L’iter dell’attesa, del desiderio di vedere, e del piacere di vedere dilazio-
nato lungo la direttrice che legava il cristiano e la cristianità, veniva segnato da
numerose figure, le quali si rendevano necessarie proprio a partire dal fatto che
la tensione dialettica non era continua e completa ma costantemente lacunosa. In
questo schema il peccato adamitico era considerato come il punto zero di questa
dialettica del faccia a faccia con la verità; le sue figure mediavano e sviavano
l’incontro con il Cristo, ma solo la voluntas 79 vincolava la dialettica
dell’identificazione del cristiano alla sua verità, al rinnovamento e alla costanza
dell’atto di fede. Solo attraverso una relazione, mediante e sviante, era possibile
che la verità si offrisse, almeno in parte, alla vista. Solo nella lacerazione e
nell’apertura di un atto di fede, di una voluntas, era possibile lacerare il visibile,
l’aspetto mimetico, il falso, per ritornare a vedere. Solo quando il visibile dive-
niva lo sfondo per una visione di volontà, il nostro corpo poteva aprirsi al Cri-
sto; in maniera quasi chiasmica e nel momento in cui il Cristo si apriva allo
sguardo, era il corpo del cristiano che a sua volta faceva da sfondo all’espressione
virtuale della fede, aprendosi così criticamente come un’immagine.

78
La quale non è mai terrena o del visibile.
79
Elaborata metafisicamente solo a partire da Agostino d’Ippona.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 43

Capitolo II. L’Illuminismo dopo l’illuminismo80: la modernità come Autono-


mia

«L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso.
Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Impu-
tabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelli-
genza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto
senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria
intelligenza! È questo il motto dell’illuminismo» 81.
Secondo Merleau-Ponty l’ontologia de Grand Sujet è l’ontologia della moderni-
tà matura 82, l’ontologia dell’Illuminismo83, l’ontologia del criticismo kantiano e
del suo tempo. Al centro della modernità vi è il punto fermo di un dominio
rappresentativo e, cioè, il nucleo categorico e cogente di un pensiero (Denken)
che nel suo dover essere si coglie in una struttura pura e autonoma: ma cosa è
l’autonomia? Molteplici sono le nozioni che si ripercorrono all’interno del pen-
siero kantiano, come numerose e influenti sono state quelle che si sono succedu-
te nel corso di tutta la modernità più recente; tra queste ne ricordiamo alcune:
l’autonomia è l’indice e la cifra kantiana della modernità, il punto critico e
scricchiolante del modo in cui i tardo-moderni si considerano rispetto a loro
stessi e si testimoniano al mondo. La modernità kantiana è l’illusione retrospet-
tiva e allucinata di una esperienza come rappresentazione (vorstellung) autonoma
e della libertà. L’autonomia è il vuoto urlo di questa libertà, la più politica delle

80
G. Galilei, L’illuminismo prima dell’Illuminismo. Perché la Chiesa condannò Galilei, a
cura di A. Calemme, contributi di G. A. Di Marco, F. Minazzi, V. F. Polcaro, M. Tor-
rini, Edizioni “La Città del Sole”, Napoli 2013.
81
I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? [Beantwortung der Frage: Was ist
Aufklärung?, Berlinische Monatsschrift, IV, dicembre 1784, pp. 481-494] in Kant, Scritti
politici e di filosofia della storia e del diritto, con un saggio di C. Garve, tr. It. G. Solari e
G. Vidari, ed. postuma a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Utet, Torino 1995.
82
«Quella in cui viviamo è la vera e propria epoca della critica, a cui tutto deve venir
sottoposto», (I. Kant, La Critica della ragion pura, p. 65, UTET, Torino 2005).
83
«La liberazione dalla superstizione si chiama illuminismo, perché, sebbene questo
nome convenga anche alla liberazione dai pregiudizi in generale, la superstizione merita
di essere chiamata il pregiudizio per eccellenza», (I. Kant, Critica della capacità di giudi-
zio, BUR, Milano 1995).
44 Capitolo II

libertà, la libertà che stabilisce o che cerca di definire i criteri e le condizioni di


possibilità per decidere e rispondere sul cosa noi siamo, sul come e sul perché
dell’umano, la libertà come potere puro di una obbedienza a sé stessi. Nella vora-
gine interna a questa libertà, nell’apertura elastica di questa autonomia, tra
l’uomo e la propria umanità, corre una forza, questa forza è la Storia
dell’umanità, la storia di una volontà che vuole se stessa e, nel continuare a vole-
re se stessa, sposta in avanti il fondamento puntuale di un’interrogazione: che
cosa è l’uomo? Queste le prime parole, queste sono i primi balbettii di
un’esperienza di libertà come autonomia. L’autonomia è il fatto della ragione e
la sua enunciazione è tutta entro la sua prassi. L’uomo, secondo Kant, è
quell’uomo che è in grado di porsi, nella sua individualità sgretolata dal tutto,
l’interrogativo che lo tiene legato, semplicemente, al punto cieco del proprio sé,
al nucleo di obbedienza del Sé. L’ontologia fondamentale di una siffatta espe-
rienza, di un tale dover essere, che pone l’individualità a sé e in sé, nel factum di
una decisione sul Sé, sull’Autos, sull’Ipse, della sua soggettività, è una esperienza
teorica e pratica della riflessione del Sé su sé medesimo. Nella trasparenza auto-
riflessiva del Sé, alla quale secondo la psicanalisi lacaniana noi tutti siamo, anco-
ra, vincolati, scorgiamo questa nostra libertà, questa nostra autonomia. Questa
auto-riflessione assume un valore normativo, è legge dell’umanità per l’umanità.
Questa legge è la legge dell’autonomia (dell’Autos), la legge di sé stessi.
Noi, i moderni, ci diciamo tali proprio in quanto sospesi nel progresso storico,
mai compiuto definitivamente, dell’interrogazione autonoma. In base a ciò ri-
mane sempre la possibilità di compiere, di agire, la modernità e, dunque, ri-
spondere alla domanda critica e trascendentale. Questa domanda rende il genere
umano come qualcosa di astratto da ogni singolo uomo. Nella versione pura,
compiuta ma non de-finita, della modernità, nella versione kantiana, l’umanità
(Menschheit) sfolgora come un universale vuoto ed è sospesa in questo scarto cri-
tico del Sé che scinde la relatività fenomenica dalla universalità noumenica 84. La

84
Dopo Kant, all’interno del suo orizzonte critico, vari saranno i tentativi di riconcilia-
zione dell’uomo con la propria umanità. Hegel, contro la soluzione proposta da Schel-
ling nella sua Filosofia naturale, incomincerà a parlare di Geist, dell’incessante lavoro
dello Spirito. Ciò che in Hegel era la storia dell’umanità non poteva esserlo certamente
in Kant, in quanto la Storia kantiana era una storia in cui l’umanità e l’uomo non face-
vano un tutt’uno. In fin dei conti nemmeno in Hegel si ha una vera e propria storia
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 45

dell’umanità, ma una storia dello Spirito, una fenomenologia dello Spirito. Nella Feno-
menologia dello spirito si figurano le diverse contraddizioni dialettiche con cui l’uomo
accede ai ponti con l’umanità cioè l’uomo fenomeno accede all’uomo noumeno. Con la
sua filosofia, e con una scelta terminologica accurata, Hegel compone la frattura Kan-
tiana tra fenomeno e noumeno, tra la preistoria del circolo della vita e la storia
dell’attualità del lavoro. Con questa operazione teoretica, con questa ontologia del pre-
sente, Hegel ritaglia il luogo della riconciliazione, tra l’uomo e la propria umanità, nella
prassi storica e dialettica del lavoro. Il lavoro, il Sé hegeliano della dialettica servo-
signore, è, per questo tipo di modernità, il vero catalizzatore di un tempo nuovo. Contro
l’orizzonte estetico occidentale squadernato dall’astrazione della vita da parte di Schel-
ling e contro, soprattutto, la giurisprudenza kantiana, e per la saturazione del suo inter-
rogativo morale, la prospettiva hegeliano-marxiana, storica del lavoro, (opzione che ruo-
ta attorno alla categoria mistica di forza-lavoro, concetto totalmente al di là di qualsiasi
riscontro fisico ed esatto) la Storia è la storia sociale della forza-lavoro, di quella forza
che riporta, progressivamente, l’uomo alla sua umanità; la storia per il progresso e
l’emancipazione delle forze produttive da ciò che gli è estraneo, eteronomo, e dalla cor-
rispettiva barbarie. Per Hegel prima di tutto e di tutti ciò che può dirsi realmente uma-
no è il lavoro, e questo anelito sta al cuore del pensiero umano. L’essenza dell’essere
umano è il lavoro, tanto quanto il lavoratore stesso è al centro dell’intera Fenomenologia
dello spirito. La dialettica servo-signore è il momento in cui l’umanità entra nella Storia.
L’uomo entra come tale nella Storia solo nel momento in cui esce dalla biologia e inizia
a lavorare. A partire da Hegel l’uomo economico, che fatica e rivede se stesso nel volto
sudato del lavoratore, è lo specchio in cui la modernità viene concettualizzata dentro la
processualità storica del lavoro, la quale promette programmaticamente, al suo termine,
la riconciliazione dell’uomo con la sua umanità. Nel punto in cui siamo arrivati il para-
dosso della modernità è ormai evidente. Successivamente a opere predittive come Per la
Critica dell’economia politica e Il Capitale di Marx, e ai fatti storici che le hanno convali-
date, da un lato la Storia è un processo di autonomia del lavoro, di liberazione del lavo-
ro dalle gabbie della forza lavoro, di emancipazione della forza lavoro (classe lavoratrice,
proletariato) dalle forme private dell’appropriazione capitalistica della ricchezza per la
collettivizzazione di ciò che il capitale non può non socializzare, dall’altro è il paradosso
che si viene a riscontrare in una società che alla fine della Storia assolutizzerà, metafisi-
camente, il fattore-lavoro nell’intero ventaglio delle vicende umane; sarà una società
che, sulle rovine della socializzazione capitalistica del lavoro, della sussunzione reale del-
le scienze alla sua forma perversa di produzione, nel salto ad un nuovo tipo di società e
oltre qualsiasi tipo di transizione alla forma comunista di produzione della ricchezza, gli
uomini non faranno altro che lavorare. Da un lato il lavoro sarà la forza autonoma di
46 Capitolo II

definizione primigenia dell’autonomia è data, da Kant stesso, con l’imperativo


categorico, ovvero con quella forza (Kraft) della ragione (Vernunft) che è da lui
descritta come il passaggio storico e dialettico da uno stato di minorità e barba-
rie a quello di una maggiore età. Dentro quest’ultima l’essere umano non obbe-
disce 85 ad altro da sé ma solo alla civiltà, alla cultura, del suo Sé; con questa
mossa non c’è più eteronomia, non c’è più la legge dell’altro, non c’è più minorità.
«L’autonomia del volere è quella proprietà della volontà per cui essa è legge a se stessa
(indipendentemente da qualsiasi natura degli oggetti del volere)» 86.
Accedere alla maggiore età significa obbedire a sé medesimi, rendersi autonomi
sul piano morale ed emanciparsi in una perenne prassi di autonomia. Se pren-
dessimo questo passaggio alla lettera, all’improvviso ci accorgeremo di scorgere
nient’altro che noi stessi in un palcoscenico tipicamente freudiano. Freud ha più
volte dimostrato e scritto che il suo impegno psicanalitico era volto alla cura di
quel malato cronico che è il moderno, questo perché il complesso edipico, lo
psicanalitico concetto significante, il concetto metonimico della teoria freudia-
na, descrive il passaggio alla modernità87. A partire da Kant in poi tutte le espe-
rienze di modernità saranno tramate di un tessuto antropologicamente kantia-
no. Dove c’è la questione dell’umanità dell’uomo, sia che questa umanità ri-
manga sospesa, inaccessibile, inattingibile (critica e Illuminista), sia che questa

emancipazione umana sprigionata a livello delle individualità sociali in un contesto del


lavoro massimamente socializzato, collettivizzato nella proprietà, e privo della miseria
del capitale; dall’altro sarà una forza che dentro un tracciato storico-sociale non può che
riprodurre, continuamente, questo attaccamento dell’essere umano al lavoro, alla fatica.
85
Vedi D. Tarizzo, Giochi di potere. Sulla paranoia politica, Laterza, Roma-Bari 2008.
86
I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, p. 171, 1785; trad. it. Fondazione del-
la metafisica dei costumi, Rusconi, Milano 1994.
87
Freud cita esplicitamente Kant, parla esplicitamente di imperativo categorico e del
passaggio dell’uomo dallo stadio di minorità a quello della modernità. Freud è consape-
vole di elaborare una riflessione critica nei confronti dell’uomo moderno e, quando ri-
prende esplicitamente l’autonomia kantiana, conferma il kantiano passaggio dalla etero-
nomia all’autonomia, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Freud a partire da
Kant svilupperà alcune considerazioni e cioè quelle che rovesceranno l’autonomia, la
libertà della soggettività autonoma, l’obbedienza assoluta a sé stessi, in termini di pulsio-
ne di morte.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 47

umanità venga saturata in un sapere socializzato, rimane un problema di auto-


nomia. Nella modernità, da Kant in poi, rimarrà sempre esplicita o velata una
precisa concezione dell’Uomo 88 e della sua soggettività. Sovrano d’ora in poi sarà
colui che decide sull’eccezione umana, sovrano sarà colui che si approprierà
dell’umano, che concepisce l’umano e che offrendo un principio di umanità
spartisce il campo della realtà e ridefinisce la soglia tra la sfera privata e quella
della pubblicità. Dal punto di vista tipicamente freudiano la modernità potreb-
be essere, certamente, considerata come lo scenario di una para-noia della ragio-
ne kantiana. La paranoia kantiana, in ultima istanza, è l’incontrovertibile per-
spicacia del Geist, dello Spirito, lo stato di costruzione delirante del pensiero vol-
to ad assorbire, ridurre ed esaurire, l’eteronomo nell’autonomia del Sé. La di-
mensione paranoica idealizza, assiomatizza e riduce, l’alterità, la sua irruzione, a
deduzione conseguente, immanenza iper-coerente e iper-logica del Sè. La realtà
è costruita, è portata logicamente a idee fisse; in questo senso è un disturbo del
significato, del discorso, della noesi. La paranoia dell’autonomia è il fenomeno
di schiacciamento dell’individuo o di una collettività, al di sotto dell’ideale fisso
di una moralità, di un nous absolutus, trascendentale, legislativo. Il nucleo di
idee, a cui ogni individuo si affida per definire la propria identità,
nell’autonomia kantiana diviene un nucleo fisso, rigido, sclerotico, paranoide.
Anche se, comunque, ogni discorso psicologico è tendenzialmente paranoide, in
quanto, come ha scritto Jung, la psiche non offre alcun punto di osservazione
imparziale esistente, la psiche kantiana è sin dagli inizi tutta avvolta e piegata at-
torno un inizio delirante. Il delirio paranoide non dubita della sua morbosità e
fissa una volta per tutte il significato delle parole, le immobilizza, le sclerotizza
in un castello di definizioni in cui tutto viene preso alla lettera. Le strutture e la
dialettica di questo tipo di psicosi spegne l’ambiguità, il paradosso, la dimensio-
ne metaforica, immaginativa e simbolica del linguaggio. La paranoia non gioca
più a decostruire e ricostruire la realtà, non riconosce l’invecchiamento e la
plausibile scadenza, obsolescenza, di una visione, di una realtà del reale, di una
configurazione che tenta di decodificare ciò che resiste a ogni completa codifica-

88
«L’uomo è un uomo per l’uomo, homo homini homo, non è una soluzione ma solo
l’inizio del nostro problema» (C. Schmitt, Dialogo sul potere, 1954, in D. Tarizzo, Gio-
chi di potere. Sulla paranoia politica, p. 197, Laterza, Roma-Bari 2008).
48 Capitolo II

zione. L’autonomia è una paranoica e delirante prassi, che promette ciò che non
può mantenere, definisce ciò che resiste alla definizione, alla formazione, alla
composizione ed espropria la storia dell’evenemenziale. In Kant, come sappiamo,
l’empirico, il reale, non scompare completamente ma viene oltre ogni modo ri-
dotto, lasciando spazio solamente al Sé o almeno come succede anche nello spe-
rimentalismo a un empirico più o meno rigido, più o meno sclerotizzato da del-
le griglie rappresentative che, come scrive Merleau-Ponty, nella loro complessi-
tà, costituiscono l’ossatura di una ragione retroagente a se stessa, che si nascon-
de, dietro il punto cieco di sé stessa. Il Sé si costruisce a partire da una sostru-
zione di sé (o del Sé) per poi ritornare a sé. Con Kant ciò che era empirico viene
obliterato, barrato, interdetto o da una saturazione o da uno svuotamento. In ba-
se a ciò partire da un orizzonte di esperienza dove l’autonomia è il delirio puro
del Sé, il delirio in cui il fenomeno 89 è scisso dal noumeno, l’uomo è scisso dalla
propria umanità, l’uomo è scisso da e dal sé, significa tutto sommato considera-
re che l’uomo è lo scisso del Sé; l’autonomia può essere sia l’enigma sfiancante90
di chi risponde in maniera vuota, mantenendo ed esasperando il punto di do-
manda, nell’Io che riflette Me, sia la metafisica di chi rende iper-logico e consecu-
tivo il processo di adeguamento e di identificazione alla saturazione del Sé ade-
rendo a un principio di umanità definito e scientifico. Nel primo caso, in una
ragione puramente formale, l’uomo rimane opaco a se stesso, è l’invisibile a se
stesso, il Sé medesimo. In questa prospettiva l’imperativo categorico kantiano
non ha nulla da spartire con la voluntas agostiniana, l’aseitas divina e l’annosa
questione del libero arbitrio. Con la rivoluzione copernicana di Kant agisce un
vero e proprio pasto totemico. L’imperativo categorico kantiano è il comando di
una libertà come autonomia, una libertà della rappresentazione critica di sé, del
Sé. Nel medioevo scolastico Dio era l’a sé, l’Aseità, in contrapposizione a quanto
era abalietà, ab alio91. Nel caso teologico l’Aseità si saturava della rivelazione del
nome di Dio, mentre tutte le vicende umane ruotavano intorno ai diversi modi
in cui si diceva la significazione di ciò che era sui causa, causa di sé in un mondo
dove tutto era abalietà, causato da altro fuori di sé, eteronomo. In base a quanto

89
Secondo Kant il fenomeno è a sua volta già scisso in sé, e cioè tra la materia e le pro-
prie forme pure e a priori.
90
Vedi a proposito Husserl e la Crisi, la stanchezza, delle scienze europee.
91
Da altri.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 49

abbiamo detto la modernità kantiana è l’atto dello spossessamento della sovrani-


tà divina, l’omicidio del padre, la decapitazione del monarca assoluto, l’atto di
forza che cala l’Aseità da Dio al singolo uomo, dall’eterno alla temporalità. Do-
po la morte di Dio ogni individuo è a sé stante, è ciò che è, in quanto autono-
mo, libero dalla legge dell’Altro. La modernità matura è il continuo factum del
criticismo del Sé. Questa Aseitas della volontà progredisce verso l’autonomia nel
momento in cui si svincola dal pre-giudizio, nell’occasione in cui non obbedisce
più all’eteronomia.
È lo stesso Kant a scrivere che la volontà autonoma è il passaggio
all’Illuminismo, in cui l’uomo non obbedisce più al padre, ma obbedisce, sem-
plicemente, a se stesso, è autonomo e giudica da sé. La modernità dei lumi è
concentrata tutta nell’immagine del tribunale, il che, però, fa precipitare
l’enigma dell’Aseità, di ciò che è a sé, dal divino all’umano. È a questo punto
che ci si pone l’interrogativo: “cosa è umano?”. L’uomo, a partire da Kant, è
sciolto sì in una dimensione di puro Sé, di puro processo riflessivo di sé, che ne
rende libera la volontà, ma la apre anche alla sua enigmaticità, al suo impossibi-
le. Il Sé, il corpo senza organi 92, è definito come autonomia del Sé, come il nou-
men divino calato nell’uomo. Questo noumen è ciò che resiste, che non riesce ad
essere catturato nella soggettività 93 sia a livello individuale sia a livello collettivo.
Ragion per cui l’enigma non riesce a sciogliersi in un corpo e rimane ciò che è
senza forma, lo sterile, il senza figura; il cuore oscuro che resiste alla riflessione,
all’identificazione. Il corpo senza organi, il quale fa muovere il processo identifi-
cativo, rimane eccentrico, a lato.
La tensione all’impossibile identificazione completa è a questo punto la para-
noia edipica, l’Edipo della filiazione, del passaggio del nome del padre al figlio.
Questo passaggio è un passaggio fantasmatico, in quanto il paranoico è costretto
nel suo factum a proiettare sull’irrappresentabile (sull’opaco) un fantasma, una
proiezione di sé, un delirio di traslucidità, la filiazione di una idea sul noumen,
sul sui causa. Questo processo, impossibile, della filiazione edipica, è
l’inappagabile attesa di un desiderio di identificazione, che nell’enigma della

92
Espressione appartenente a Schelling.
93
Che in questo caso è il processo di rappresentazione e appropriazione gaudente di sé
stessi.
50 Capitolo II

psiche umana kantiana si trasforma nel suo rovescio, ovvero la pulsione di mor-
te. La dinamica paranoide dell’identificazione e della sua impossibilità è destina-
ta, prima o poi, a rompere e rifiutare qualsiasi tipo di filiazione; essa scade nella
schizofrenia, nella voce di un corpo senza organi che sussurra di essere stato suo
padre e di essere stato suo figlio. L’individuo autonomo è uno schizofrenico-
paranoide, che avvitandosi su se stesso, si orienta nell’orizzonte desertico
dell’essere padre e figlio di sé.
La modernità è la schizofrenica caduta dell’Aseità, la rinuncia dell’abalietà sul sé.
La politica dell’autonomia, conseguentemente, diventa una politica della para-
noia, la quale tenta di affiliare l’individuo, l’autonomo, a un principio di uma-
nità, di soggettivarlo e assoggettarlo, a una idea dell’umano. Il despota è, infatti,
colui che produce una nuova alleanza, una nuova filiazione, colui che pone una
nuova proiezione paranoica sull’opaco Sé, colui che offre uno spettro di autore-
ferenzialità sul Sé. Il dato allucinatorio di questo tipo di Io vedo e di Io sento,
proprio di un Io penso delirante, presuppone, nella sua autonomia, un Io godo
profondo, il quale dona alle allucinazioni il loro oggetto e al delirio del pensiero il
suo contenuto. La gloria della paranoia del tutto-organico è condannata alla mi-
seria schizoide, che svincola da ogni filiazione, da ogni idea, la corporeità di
quell’individuo impegnato nelle sue prassi di soggettivazione. Lo schizofrenico-
paranoico è quello di un consumo parziale del proprio desiderio, appeso ogni
volta a frammenti di realtà. Nell’atto stesso dell’allucinazione di un tutto orga-
nico, nel delirio paranoide, l’individuo è risucchiato in una schizofrenica di-
sgiunzione di sé 94. Kantianamente il corpo senza organi rimane irrappresentabile,
è al massimo una superficie del sentire e del godimento frammentario, una vita
biologica che lotta per la salute, ciò che prima o poi si spegne nella pulsione di
morte. A partire dal godimento parziale il corpo senza organi è destinato a un
certo tipo di malessere, a una miseria ontologica, ingestibile e perversa.
Nell’attraversamento parziale e fantasmatico, l’identificazione è volta, prima o
poi, a rompersi, a sfociare in uno stazionario spaesamento, in un disorientamen-
to critico del limite invalicabile e del delirio coercitivo di un potere del sapere.
È per tutti questi motivi che Foucault affermò che l’ontologia del Sé è una on-
tologia selvaggia, l’ontologia di una obbedienza alla legge che noi ci siamo pre-

94
Der Mensch ist ein ewiges Bruchstüch, l’uomo è un eterno frammento.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 51

scritti. L’atto di libertà dei moderni è il gesto in cui la modernità riflette, positi-
vamente e negativamente, su se stessa, sul fatto che è necessario obbedire a se
stessi. Kant formula l’imperativo categorico come l’imperativo di una volontà
rousseauiana 95. L’orizzonte rousseauiano è l’orizzonte di un potere sovrano, che
si limita da sé nell’obbedienza di sé. Questo comando è però un comando vuo-
to, non dice nulla se non “sii libero”.
Nella Fondazione della metafisica dei costumi l’autonomia si concepisce come la
soluzione di disobbedienza all’altro da sé, all’abalietà. L’obbedienza al comando
di Dio, al principio teologico di sussistenza reale, è con la Critica della ragion
pura spezzato in quanto mero postulato eteronomo della volontà. Come dirà
poi Hegel, nella Fenomenologia dello spirito e nella Filosofia del diritto,
l’autonomia kantiana è una categoria puramente formale, perché esprime un
comando senza contenuto. L’autonomia esprime una esigenza talmente alta che
non può aver alcun contenuto determinato. Per tale motivo Kant è costretto a
passare dal piano dell’essere (Sein) a quello del dover essere (Sollen), a ciò che è
imperativo, a ciò che è categorico. Questo passaggio non è solo ontologico ma
anche metafisico. Ciò che Rousseau anticipò senza tematizzare, Kant lo squa-
dernò in un nuovo tipo di obbedienza, una obbedienza che diventa il Fatto di
una Ragione rivoluzionaria. In forza del nostro dover essere e del comando, che
esso presuppone, ciò che è sovrano non è arbitrario ma autonomo, è il concetto
morale e giuridico 96 dell’autodeterminazione. La teoria dell’imperativo categori-
co, dell’imperativo critico di autolimitazione, rimane, come si è già detto, pu-
ramente formale, una vuota moralità, alla quale consegue una crisi logica 97. Gli
effetti psichici più paradossali di questa crisi sono quelli secondo cui l’Io per es-
sere Io, per dover dare ordine a se stesso, deve obbedire a qualcosa che è altro
dall’Io e lo trascende nell’immanenza. L’Uber-Ich, l’Oltre-Io è quel Super-Io che
formula l’imperativo categorico all’Io e lo sottopone al comando di una legge
non eteronoma. Nella II persona riflessiva l’autonomia comanda di agire in mo-
do che si obbedisca a se stessi. È per questo motivo che l’imperativo categorico è

95
La volontà generale è la libertà. «l’obbedienza alla legge che ci siamo prescritti è liber-
tà» (Jean-Jacques Rousseau, Du Contract social ou principes du droit politique, p. 29, Rey,
Amsterdam, 1762; trad. it. Il contratto sociale, Laterza, Roma-Bari 1997).
96
Vedi Hans Kelsen.
97
La stessa degli stati-nazione agli inizi del Novecento.
52 Capitolo II

un comando a se stessi, un dare legge a se stessi, l’obbedienza alla legge che ci


siamo prescritti. Per comandare a se stessi ciascuno di noi deve essere il due di
uno, un Je en Muà, un Io e un Me, un Io e un oltre l’Io, che è, più propriamen-
te, sopra l’Io. Nella sua identità l’Io è come se fosse sempre a caccia di se stesso.
Il circolo continuo dell’essere che preda sé stesso è il segreto dell’autonomia. In
questo circolo l’Ich cerca sempre di aderire all’Uber-Ich, a ciò che gli comanda di
essere come deve essere, in quanto ideale e principio identificativo. In questo
circolo l’Io stesso assume consistenza, si passa dal piano dello sein al piano dello
sollen, per cui l’Uber-Ich assume la forma di un comando morale. Ogni essere
umano nasce privo di Io e durante il suo processo di ominazione, di soggettiva-
zione, di costruzione identificante, l’Io si istituisce. Il complesso edipico è la
prima fase della costruzione dell’Io e fornisce l’impronta dell’identificazione
soggettiva. Nel caso in cui il fanciullo si identifica con il proprio padre o almeno
con ciò che è convalidato socialmente a dare la legge, Freud parla di coazione, ob-
bedienza e sottomissione dell’Io al comando morale del proprio Super-Io. Cosa
ci comanda il Super-Io? Cosa ci comanda la coscienza morale? Essa ci comanda
la libertà, ma questa libertà è l’umanità dell’uomo per cui l’imperativo categori-
co comanda all’uomo di essere umano, essere se stesso. Il Super-Io comanda
all’Io di essere se stesso nel momento in cui il Super-Io è il comando. Il processo
di stratificazione e costruzione del Super-Io avviene in rapporto con alcune figu-
re, le quali per noi hanno un valore ideale (Ich-ideal). L’identificazione (identifi-
tzierung) primaria è sempre identificazione paterna e solo a partire da esso l’Io si
plasma, si forgia. L’identificazione non è, però, una personificazione e ciò per-
ché alle spalle dell’Io non vi è una identità prima, che viene poi successivamente
ritoccata e mascherata; dietro l’Io non c’è nulla.
Secondo la psicanalisi freudiana l’identificazione con il padre 98 si struttura attra-
verso una dialettica di due comandi, i quali formano, nell’insieme, il doppio Ich.
Il comando dell’Uber-Ich è, innanzitutto, il seguente: «So wie der vater, soust du
sollen» 99; il secondo ammonimento è: «So we der vater darfst du nicht sein» 100. Il
processo di questo doppio vincolo è spiegato da Freud con la teoria del com-

98
L’identificazione primaria.
99
Così come il padre tu devi essere.
100
Così come il padre tu non puoi essere.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 53

plesso edipico (la quale fonda una parte della psicanalisi stessa), ma
quest’ultimo, in quanto tale, può spiegarsi come una metaforica della genesi
dell’identificazione del soggetto. L’identificazione primaria è collocata nella re-
lazione triangolare completa, è il risultato di un processo emotivo duale. I riferi-
menti a Freud che Merleau-Ponty sparge in tutta la sua opera ci aiutano a com-
prendere cosa significa dire che noi siamo kantiani. Kantiani non si può non
essere per scelta, ma il kantismo trama l’esperienza stessa del nostro tempo; nel
kantismo non si è heideggerianamente, ma si è merleau-pontyanamente, al kan-
tismo si nasce e in relazione ad essa ci si struttura come soggettività. Freud ci
aiutava a capire addirittura l’osceno dell’imperativo categorico dell’Uber-Ich.
“So we der vater, soust du sollen” + “So we der vater, darfst du nicht sein” = imperativo
categorico.
L’imperativo categorico kantiano, questo duplice comando super-egoico, è de-
stinato a rimanere costantemente incompiuto. È proprio perché non possiamo
essere come il padre che noi dovremmo sempre essere come il padre. Questa
impossibilità costituisce la scissione psichica tra un Io e un Super-Io 101 e il pro-
cesso stesso di identificazione 102. Questo normativismo pulsa continuamente, in
quanto, per un essere vincolato patologicamente, è impossibile un’autonomia
completa. L’impossibilità di una libertà di tal genere si tramuta, in Kant, in una
scissione tra l’uomo fenomeno e l’uomo noumeno, in uno sfaldamento intrapsi-
chico e interpsichico tra l’uomo e la pura autonomia 103. Freud, esplicitamente,
dice che l’imperativo categorico è il comando del Super-Io, l’imperativo di iden-
tificazione umana, di umanizzazione sospeso nel doppio vincolo 104 di una schi-
zofrenia interna a se stessi. Questa conflittualità interiore produce una sofferen-
za psichica, causata dal Super-Io e dal tribunale ipercritico, mortificante, che
esso stabilisce. Alla fine di ogni terapia psicanalitica questo criticismo viene se-
dato 105 con una convinzione, (con la quale il Super-Io cessa di essere persecuto-
rio, cessa di essere fonte di malinconia nel lembo stesso di un’impossibilità ricono-

101
Detto anche oltre-io o sopra-io.
102
Diventa te stesso.
103
Vedi lo schema nella Critica dei costumi.
104
Che secondo Beltzon è alla base della schizofrenia.
105
Che non è una eliminazione.
54 Capitolo II

sciuta come tale dal soggetto). La coazione a ripetere ciò che ordina il comando è
il sintomo, ciò che ritorna, l’energia di un’altalena dell’identifitzierung tra un Io
mortificato (da un comando super-egoico) e il piacere che proviene
dall’obbedienza alla legge, alla pulsione di morte. Il processo di identificazione
è, dunque, un processo di mortificazione, un processo che produce melanconia;
è questo il cuore dell’obbedienza a se stessi, della coazione, della costrizione a
ripetere. La volontà pulsionale, come operazione, svincola, continuamente, se
stessa sia dalla volontà eteronoma, istintuale e sensibile, sia dalla volontà divina.
La volontà pura di un pensiero critico e morale, l’operazione riflessiva di auto-
nomia della ragione, sono le espressioni cardinali di un’unica dimensione meta-
fisica.
Prima dell’Illuminismo e dell’illuminismo prima dell’Illuminismo 106 c’era
un’astrazione dell’umano non in quanto umano, ma tutt’uno con la rivelazione
e la significazione del nome di Dio. Con la modernità kantiana l’uomo si è scis-
so da ciò che può solo essere pensato e rappresentato, l’umanità, ma così come
nell’imperativo categorico l’uomo deve essere ma non può essere come il padre,
l’uomo deve essere ma non può mai essere umano. Il conflitto tra dimensione
normativa e dimensione fattuale, il fenomeno complesso della schizofrenia tra-
scendentale, tra l’empirico rappresentato e il pensiero autonomo, è la patologia
perversa a cui l’identificazione umana è destinata, il tentativo di compiere ciò che
deve rimanere incompiuto, la tensione a ricucire la scissione tra l’uomo fenome-
no e l’uomo noumeno. L’incompiutezza della progettualità moderna rappresen-
ta il margine di questa resistenza critica che secondo Freud filigrana lo sguardo
super-egoico che incombe sull’Io, quel grande fratello che si accanisce sulla sog-
gettività producendo sofferenza. All’interno di questo processo di identificazio-
ne e di mortificazione, la coazione a ripetere (il sintomo, ciò che ritorna) è la
traccia di questo circolo vizioso tra un dover essere e un non poter essere. Que-
sta sfera mortificante produce ciò che si chiama melanconia, la vaporizzazione
nel Sé del comando a sé. L’energia che il comando super-egoico sprigiona, è ciò
che Freud chiama la pulsione di morte. Visto in un altro modo, il processo di

106
G. Galilei, L’illuminismo prima dell’Illuminismo. Perché la Chiesa condannò Galilei,
a cura di A. Calemme, contributi di G. A. Di Marco, F. Minazzi, V. F. Polcaro, M.
Torrini, Edizioni “La Città del sole”, Napoli 2013.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 55

identificazione è un processo binario, dove al di là del suo principio di piacere,


che muove verso una identità con ciò che resiste, scorgiamo la mortificazione e
l’alone melanconico che segue l’impossibilità e l’incompiutezza di questa proces-
sualità critica. A proposito della melanconia Freud considerava che il comando
del Super-Io era un imperativo tagliato su un sii te stesso. Siccome questo comando
rimane insoddisfatto, sorgono numerosi problemi, tra cui il senso di colpa, secondo il
quale l’Io non è mai abbastanza come il padre. Questo senso di colpa può portare
alla melanconia e da qui al suicidio. Freud parla di Super-io, per la prima volta,
in un testo del 1918 sulla melanconia, interno ancora alla prima topica. Senza
problematizzare ancora in maniera esaustiva la categoria di pulsione di morte,
come quella di Super-io, Freud parlava già di coscienza morale nell’analisi del
fenomeno melanconico: in essa la coscienza morale si accanisce masochistica-
mente contro l’io. Le conseguenze di ciò si definirono meglio durante
l’elaborazione della seconda topica, della seconda teoria delle pulsioni. Nel pe-
riodo della seconda topica Freud si chiedeva:
«Come mai il Super-io si esprime essenzialmente come senso di colpa (o meglio come
critica [kritik]; il senso di colpa è la percezione che nell’io corrisponde a questa critica) e
manifesta una così straordinaria durezza e severità nei confronti dell’io? Se consideras-
simo anzitutto la melanconia, troveremo che il Super-io ultrapotente [das uberstarke
Über-Ich] che si è accaparrato la coscienza infuria violentemente e senza pietà contro
l’io, come se si fosse impossessato di tutto il sadismo disponibile nell’individuo. Secon-
do la nostra concezione del sadismo, dovremo dire che la componente distruttiva si è
depositata nel Super-io e viene utilizzata contro l’io. Ciò che ora predomina, signoreggia
[herrscht] nel Super-io, è una sorta di cultura pura della pulsione di morte [eine Reinkul-
tur des todestriebes]» 107,
dove per cultura si intende la civiltà, il disagio di una civiltà che fa della pulsio-
ne di morte la propria morale 108. Quest’ultima:

107
S. Freud, L’io e l’Es, in Opere, cit. pp. 514-515, Bollati Boringhieri, Torino, 1977.
108
«Il normale e cosciente senso di colpa (la coscienza morale, Gewissen) non presenta
difficoltà di interpretazione: esso è basato sulla tensione fra l’io e l’ideale dell’io, ed è
l’espressione di una condanna (Verurteilung) dell’io da parte della sua stessa istanza criti-
ca (kritische Instanz). È presumibile che i noti sentimenti di inferiorità propri del nevro-
tico non se ne discostino gran che. In due affezioni che ci sono molto familiari, il senso
di colpa è cosciente in modo spietatissimo (überstarkbewusst); l’ideale dell’io si manifesta
56 Capitolo II

«riesce abbastanza spesso a spingere l’io alla morte, a meno che l’io non si difenda per
tempo dal proprio tiranno [Seines Tyrannen] mediante la conversione in mania» 109.
A partire dalla distinzione critica che Kant pone tra la Ragione pura e quella fi-
sica 110, nella I Critica si costituisce la distinzione tra il pensare 111 e il conosce-
re 112. Non sempre le categorie si applicano ai dati sensibili e, inoltre, non sem-
pre quando noi pensiamo stiamo conoscendo. Il noumeno non può essere
quantificato e computato conoscitivamente, ma in linea di massima può solo
essere pensato, avvicinato criticamente. Per Freud il pensiero kantiano è una
operazione 113, un factum della Ragione, che testimonia un ragionare per il ra-
gionare, un voler ragionare, la volontà di compiere un’operazione critica. In ba-
se a questo ragionamento, comprendiamo bene perché pensiero e volontà siano

in queste forme con particolare rigore (Strenge) e infierisce (wütet) contro l’Io crudel-
mente. […]. Nella nevrosi ossessiva (Zwangsneurose) […] il senso di colpa è fortissimo
(überlaut), ma non riesce a legittimarsi (sich rechtfertigen) di fronte all’io. L’io del malato
tenta perciò di difendersi dall’imputazione di essere colpevole (die Zumutung, schuldig
zu sein), ed esige dal medico di venire rafforzato nel suo rifiuto di questo senso di colpa.
[…] Ancor più forte è l’impressione che il Super-io abbia attratto a sé la coscienza
(Bewusstsein) nel caso della melanconia. Ma qui l’io non osa sollevare obiezione alcuna,
si riconosce colpevole e si sottopone alla punizione (es bekennt sich schuldigund unter-
wirft sich den Strafen) […] l’oggetto su cui si appunta lo sdegno del Super-io (der Zorn
des Über-Ichs) è stato, grazie a un’identificazione, assunto all’interno dell’Io stesso. […]
Si può andar oltre e azzardare l’ipotesi che una grande parte del senso di colpa (die En-
tstehung des Gewissens) debba normalmente restare inconscia, dal momento che la for-
mazione della coscienza morale è collegata intimamente al complesso edipico, il quale
appartiene all’inconscio. Se qualcuno volesse sostenere la tesi paradossale che l’uomo
normale non soltanto è molto più immorale di quanto egli creda, ma anche molto più
morale di quanto egli sappia, la psicoanalisi, sulle cui scoperte poggia la prima parte
dell’affermazione, non avrebbe nulla da obiettare neppure sulla seconda parte» (Freud,
Studien-Ausgabe, Bd. III, p. 317-318; tr. it., Opere (1917-1923) IX cit., pp. 512-514).
109
S. Freud, L’Io e l’Es,ibidem, pp. 514-515, Bollati Bolinghieri, Torino 1977.
110
Che Kant identifica, erroneamente, con la ragione della scienza matematico-
sperimentale stessa.
111
Criticismo.
112
Newtonismo.
113
Questo spiega perché Ragion pura e Ragion pratica sono la medesima cosa.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 57

identici, significano la stessa cosa. In Kant possiamo scorgere una ricca serie di
passaggi dove questa equazione si presenta, dove queste istanze si incatenano tra
di loro, costituiscono una nuova dimensione metafisica, una nuova topica della
soggettività. Da questo punto di vista l’Illuminismo è una operazione continua-
mente ripetuta, agita. Questa ripetuta epurazione significa ribadire la forza
dell’imperativo categorico, ma significa anche che questa operazione non può
essere compiuta del tutto, non può essere terminata ed esaurita. Essa esiste solo
perché è un processo di coazione a ripetere, il quale ci porta dal piano dell’essere
a quello del dover essere. La testimonianza del pensiero, della ragione, della vo-
lontà sincera, ha un potere speculativo, e in tutte le sue facoltà fa tutt’uno con la
praxis. Il teoretico e il pratico sono domini speculari e, in quanto simmetrici, si
rispecchiano l’uno nell’altro. La Critica della Ragion pura e la Critica della Ra-
gion pratica sono due facce della stessa medaglia. In questo punto, però, sorge
una contraddizione e Kant ne è consapevole così tanto che è tormentato dal fat-
to che passando dalla sfera del conoscere al pensare, passiamo da una sfera vera a
un’altra, la quale, per distinguerla dalla prima, la intitoleremo come veridica. La
Kritik non si occupa della verità ma della veridicità e mentre la filosofia galileia-
na pensa esattamente, la filosofia, da Kant in avanti, pensa criticamente. Una
volta chiarito che la filosofia kantiana critica, ma non quantifica, Kant si inter-
roga su quale sia il criterio della Kritik e su quale sia il modus operandi in base al
quale la filosofia d’ora in avanti può proseguire nelle sue indagini. Questo crite-
rio è l’atto di volontà, il criterio della veridicità, della sincerità testimoniale, il
quale è, in ultima istanza, lo sforzo rappresentativo, la rivendicazione pura e ra-
zionale di una soggettività astratta e inaccessibile all’uomo. Questa soggettività
veridica e sincera è autonomia, cioè totalmente incardinata ad una umanità che
è a sé. Se l’autonomia non è oggetto di conoscenza, l’unica possibilità che Kant
ha di rendere visibile ciò che resiste di principio alla volontà speculativa è la te-
stimonianza, la comunicazione sincera e pubblica. La testimonianza rimane
sempre sospesa tra ciò che è veridico e ciò che può apparire mendace. Nel regno
dell’autonomia in cui l’imperativo categorico della volontà rimane uno sollen,
l’uomo noumeno rimane radicalmente scisso dall’uomo della scena pubblica. È
impossibile comprendere se Kant sia sincero o meno e ciò perché Kant non ade-
risce mai del tutto con il proprio osceno, il proprio imperativo, che comanda la
sincerità. Nei passi kantiani relativi all’imperativo categorico la Critica della Ra-
gion pratica contiene una serie di affermazioni straordinarie, in quanto Kant ri-
torna continuamente su se stesso e riesce a ripiegare l’emergere della libertà co-
58 Capitolo II

me autonomia e a riassorbirla nel suo stesso enunciato. Il filosofo tedesco sotto-


linea che la libertà è nel momento stesso della sua enunciazione 114 e ciò perché il
comando a se stessi sussiste come il factum della ragione pura; questo factum
non è una astrazione fantastica ma è l’allucinazione imperativa e categorica che
si fa nel suo evento. In questo factum teoria e prassi si compenetrano e coinci-
dono completamente in una identità perfetta e definita. Il factum del criticismo
fonda una nuova metafisica, una metafisica che non oscilla tra il galileiano vero
e falso ma tra l’autenticità e la menzogna. Questo progetto è la struttura archi-
tettonica di un sapere morale. All’interno dello scenario metafisico kantiano la
scissione della soggettività non è solo privata ma anche pubblica. Questa lacera-
zione tra privato e pubblico è dovuta dal fatto che la sfera privata è inaccessibile
allo stesso singolo uomo. Questa voragine, questo oblio, questa profondità, è ciò
che in Freud poi verrà chiamata inconscio, il non luogo, in cui l’uomo mente a
se stesso, il passato in cui, psicanaliticamente, è possibile riconquistare la sinceri-
tà con se stessi. La volontà pura kantiana è dunque una forza che svincola, che
denuncia il gesto e l’esigenza stessa della soggettività. La volontà è qualcosa che
brilla dentro l’uomo e lo astrae da se stesso nella vuota metafisica di una santità.
Questa volontà pura è santa, proprio in quanto non può essere conosciuta, non
può essere additata nemmeno come qualcosa che esiste, in quanto può solo esse-
re pensata. Se cogliessimo bene questo passaggio e cioè che non possiamo verifi-
care, conoscere, cimentare la nostra anima, saremo arrivati finalmente a com-
prendere perché Kant non voleva sottomettere l’imperativo categorico alla cer-
tezza di avere un’anima. L’anima non è conoscibile, come non lo è Dio; ciò non
vuole insinuare un dubbio iperbolico cartesiano o inaugurare, sulla scia di Gali-
lei, un sapere indipendente, ma vuole scatenare qualcosa di più, un nuovo pro-
cesso, una seconda rivoluzione copernicana capace per il suo stesso carattere di
essere l’inizio di un sapere critico, kantiano e assoluto. Se noi leggessimo Kant
fino in fondo capiremmo bene come mai Freud costruisce la sua psicologia del
profondo. Freud scrisse molto spesso, a proposito di Kant, su come
quest’ultimo abbia ben restituito la topica pulsionale e l’ontologia psichica.
Questa consapevolezza, come già detto, è però gravida di conseguenze, di para-
dossi abbastanza pesanti. La proposta di Freud fu quella di elaborare al più pre-

114
Imperativo categorico.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 59

sto una genealogia della modernità, dell’autonomia e (che è lo stesso) del kanti-
smo. Questa genealogia, che in Freud verrà condotta in un’accezione ontologi-
ca 115, fu una genealogia dell’individuazione moderna. Kant è il cuore pulsante
della modernità non perché è lui a scriverla ma in quanto è lui a testimoniarla,
ad annunciarla, in un gesto vivente attraverso il quale è riuscito ad inglobare ed
estromettere, assorbire e pronunciare, il factum del suo tempo, la soggettivazione
della sua epoca. A questo punto Kant recupera la categoria pubblica e politica di
fiducia, ma la fiducia deve essere fondata così come ogni aspetto della morale
privata è fondato sul gesto critico che l’uomo nutre in se stesso. Di qui la scan-
sione, nella Metafisica dei costumi, della filosofia morale in una dottrina del dove-
re e in una dottrina del diritto. Tutto ciò che ha a che fare con il dovere ha a che
fare con la morale e con l’autonomia in senso positivo (morale). Tutto ciò che
ha a che fare con la morale pubblica, l’autonomia in senso negativo, è pertinen-
za del diritto, dell’esteriorizzazione della morale privata, dove il diritto è, co-
munque, fondato sull’autonomia del soggetto. Il legame politico e di fiducia
viene ricondotto da Kant sempre alla sfera della Ragion pratica, dell’imperativo
categorico, alla morale, dove la libertà politica è da ripensare come libertà mora-
le e di diritto.
Il punto da cui diviene cruciale rileggere Kant è, in altre parole, quello a partire
dalla Metafisica dei costumi, dove il filosofo tedesco, prima di parlare di legge
morale, compie la distinzione tra l’uomo fenomeno, l’uomo che può essere co-
nosciuto 116 e l’uomo noumeno (l’umanità), l’uomo che può solo essere pensato
criticamente. In questa prospettiva, in cui simultaneamente il tempo nuovo
prende coscienza di sé e si afferma come illuminismo, la modernità afferma che
noi siamo diversi dal passato, noi gettiamo luce sul passato, noi siamo il progresso;
queste distanze critiche costituiscono nell’insieme la modernità e ciò sia
all’interno della storia individuale di ognuno di noi sia nella Storia dei popoli. La
piega antropologica delle scienze, che da Kant in poi si distingueranno in esatte
e critiche, costituisce l’esperienza ontologica di un uomo nuovo, che deve ri-
spondere classicamente all’indipendenza della fisica e Illuministicamenete
all’autonomia di sé, cercando e imponendo rispettivamente le leggi delle proprie

115
E non psicologica.
116
In senso galileiano o della filosofia sperimentale.
60 Capitolo II

ragioni. Il dominio fisico del galileismo sarà quello dell’indipendenza del lume
che la natura pone davanti a se stessa; il dominio morale dell’umanità kantiana
sarà quello di una libertà come autonomia della volontà. La libertà dei kantiani
è una forza critica, che scalfisce le proprie ovvietà ed evidenze secondo la misura
ontologica di un punto di vista che si rappresenta da sé e che è accompagnato,
orlato, governato dalla spinta selvaggia di una volontà, che ingloba il suo incon-
scio, il suo osceno. All’interno della scissione che l’uomo moderno è in se stesso
esplode la questione dell’emancipazione umana 117. La volontà kantiana non si
fonda né sul concetto di una perfezione sussistente come causa determinante del
nostro volere (la volontà di Dio)118, né su una quantificazione delle passioni. Il
principio della modernità matura è l’autonomia della ragione pura pratica, una
volontà astratta (e che si astrae) nel suo puro volere, l’imperativo categorico che
si impone da sé nella sua autoevidenza. Secondo la Critica della Ragion pratica la
ragione pratica è il volere sganciato da qualsiasi movente eteronomo. L’uomo
noumeno è mera Aseità, ed è tale nella misura in cui è sempre se stesso, è il se
stesso di ogni singolo homo phaenomeno, è la vuota Aseità coincidente con la pu-
ra volontà di sé. L’homo noumeno è l’uomo universale, il Soggetto
dell’enunciazione. Tuttavia l’umanità non può essere conosciuta, non può essere
determinata secondo giudizi. La volontà è senza fenomeno, ma astraendosi cri-
ticamente può ritornare a se stessa. Questo ripiegamento della volontà su di sé
non è definitivo, esso si rinnova nella misura in cui la volontà, comunque, tende
a ricadere nell’eteronomia. L’unità non è della volontà, essa è solo Sé, uno Sel-
bst. Il rapporto di ogni uomo fenomenico con la propria umanità, con la pro-
pria identità e Aseità, lo aggancia all’umanità in quanto tale, a tutti gli uomini.
Questo agganciamento avviene secondo una processualità costantemente dina-
mica, in cui la volontà per imporre se stessa 119 si mantiene in tensione tra il
noumeno e il fenomeno. Questo processo è ciò che in Kant incomincia a chia-
marsi la Storia. La Storia kantiana non è annalistica, non è la storia della salva-
zione in cui, secondo sant’Agostino, la città terrena è una città che pena. Nella
prospettiva cristiana ogni singolo che apparteneva alla città terrestre poteva ap-

117
Tema inesistente nel passato.
118
Come nella filosofia cartesiana.
119
La libertà, l’autonomia.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 61

partenere alla città celeste, alla civitas santa. La storia della salvezza da
sant’Agostino in poi fu una linea di interpunzione escatologica orientata verso la
fine dei tempi e il giudizio finale dei vivi e dei morti, evento in cui la trascen-
denza avrebbe interrotto il tempo, aprendo l’orizzonte di una vita eterna e della
resurrezione della carne come spirito. La storia della salvezza cristiana fu sia una
storia piatta, senza un progresso effettivo sia un limbo soteriologico 120. La storia
della città terrena era la storia di un’attesa religiosa, una piatta sequenza di even-
ti senza progresso che ad un certo punto si sarebbe interrotta solo in seguito
all’irruzione di un dio trascendente. La verticalità della trascendenza teologica
non conteneva l’idea di un progresso immanente nelle cose stesse 121, un avvici-
namento progressivo dell’uomo verso la propria umanità. La Storia della matu-
rità inizia con un’idea di Umanità, in rapporto con un pensiero critico, dove la
marcia storica degli uomini fenomenici verso la propria Umanità, verso se stessi,
è incomprensibile vista con gli occhi di una grammatica dell’Uno (astorica). La
dinamica storica della modernità è una dinamica del Sé, di una volontà auto-
noma come forza storica del volere, come principio e categorico imperio della
volontà secondo la forma dell’autonomia. Il volere autonomo non essendo ete-
ronomo 122, è impiccato alla soggettività pura, al puro volere come pura soggetti-
vità. Da questo punto di vista volontà, soggettività, libertà, divengono espressioni
equivalenti e si determinano come i significanti di un pensiero non più volto
alla conoscenza oggettiva, ma per una critica della soggettività, una critica della
ragion pura pratica. La pura soggettività del volere autonomo è il factum storico,
opaco, segreto di una enunciazione non galileiana della libertà. Gli enunciati del-
la Kritik della Ragion pura pratica del Soggetto sono privi di un contenuto esat-
to, ma sono il factum di un potere testimoniale secondo la forma. Kant è in que-
sto senso il vero e proprio ventriloquo della modernità critica, il fatto storico e
presa di coscienza epocale, una coscienza che si prende nell’evento di un giudi-
zio sistematico e progettuale di sé. Questa coscienza è nel suo factum la testimo-
nianza per coloro i quali devono essere moderni e infatti:

120
Nella logica della salvezza.
121
Cosa che nasce solo con Kant.
122
Eteronomo è contemporaneamente da intendere sia nel senso specifico di galileiano
sia nel senso generale di pre-critico.
62 Capitolo II

«[Pensare da sé] è la massima di una ragione che non è mai passiva. La tendenza alla ra-
gione passiva, quindi all’eteronomia della ragione, si chiama pregiudizio» 123.
Abbiamo qui la mossa tipica dell’Illuminismo, la lotta contro il pre-giudizio,
contro ciò che, in maniera fallace, si da per ovvio. Così come la voluntas era
una forza che si intensificava man mano che l’individuo si approssimava
all’ideale di Dio - e si allontanava dagli aspetti bestiali - anche nel mondo illu-
ministico, a partire però dall’abbandono del vecchio principio dogmatico teolo-
gico, la volontà rimane una forza, ma questa volta non è la forza della fede; essa
si identifica con la forza della ragione. La ragione kantiana diviene un potere e il
fatto storico di una ragione che non è ambientale, fisicamente quantificabile,
ma si fa nel factum critico di una enunciazione. La ragione è un potere dei principi
e la sua esigenza ultima è l’incondizionato; la ragione ragiona e in quanto tale non
è mai passiva, ma è perennemente attiva; ciò perché essa non è mai in grado di
conquistare e di solidificarsi in una verità conquistata una volta e per sempre. La
ragione è un potere di continua liberazione, di continua emancipazione, di con-
tinuo svincolamento dalle volitio che determinano il movimento di arretramen-
to a se stessi. Se l’emancipazione dalla superstizione si chiama Illuminismo, qual
è ora lo storico scopo della ragione? Ricordiamo che l’imperativo categorico è
diverso da quello ipotetico, dall’imperativo eteronomo. L’imperativo categorico
è la finalità programmatica, progettuale, della ragione pura pratica nella sua
continua autonoma affermazione. Il potere della ragione pura pratica esprime
una finalità astratta da ogni scopo concreto, una vis finalis come forza noumeni-
ca di una ragione performativa (in senso normativo).
Il momento preciso di emergenza della modernità matura, dell’umanità maggio-
renne e critica, dunque, va ritrovato ancora una volta in Kant e non in ciò che
lo segue o addirittura in ciò che lo precede. Questo non perché semplicemente
la modernità non fu costruita in un singolo giorno o perché prima di Kant
l’espressione di umanità critica fosse sconosciuta agli uomini, ma in quanto è
solo a partire da Kant che la modernità acquisisce la sua più matura e completa

I. Kant, Kritik der Urteilskraft, 1790, p. 151; trad. it. Critica del Giudizio, Laterza,
123

Roma-Bari, 1982.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 63

accezione 124. Kant è il luogo testuale in cui l’umanità emerge nei suoi due aspet-
ti: da un lato l’umanità santa, noumenica 125, dall’altro quella naturale;
«L’uomo è sì abbastanza profano ma l’umanità [menscheit] nella sua persona, per lui,
deve essere santa [heilig]. In tutta la creazione, tutto ciò che si vuole, e su cui si ha qual-
che potere, può essere adoperato anche semplicemente come mezzo; solamente l’uomo,
e con esso ogni creatura razionale, è fine a se stesso [zwec an sich selbst]. Vale a dire esso
è il soggetto della legge morale, la quale è santa in virtù dell’autonomia della sua liber-
tà» 126.
Con l’espressione «l’umanità è santa», Kant significa la modernità non come la
fine definitiva di tutti i valori, non come ciò che è il regno del tutto è possibile,
non come ciò che segna il tramonto della metafisica, ma al contrario come quel-
la profondità noumenica che traccia la topica puntuale e il percorso ontologico
obbligato di un tempo impossibile da compiere 127.
L’umanità non è una quantità fisica ma è naturale 128 come autonomia della vo-
lontà nel fenomeno:
«Noi non abbiamo nel mondo se non un’unica specie di esseri la cui causalità sia teleo-
logica, cioè diretta a scopi, e tali tuttavia che si rappresentano la legge secondo cui deb-
bono determinare i propri fini come posta incondizionatamente da loro stessi, e indi-
pendentemente dalle condizioni della natura, eppure, come in se stessa necessaria.
L’essere di questa specie è l’uomo, ma considerato come noumeno; è l’unico essere della
natura in cui possiamo riconoscere, come suo carattere proprio, un potere soprasensibi-
le» 129.
L’umanità si scinde dall’uomo, il che riporta a un passo della Metafisica dei co-
stumi:

124
L’Illuminismo della ragione.
125
Ciò che è santo e non profano è l’umanità nella persona umana.
126
I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, 1788, p. 107; trad. it. Critica della ragion
pratica, Laterza, Roma-Bari, 1982.
127
Il verbo compiere va qui inteso ambiguamente come fare e ultimare.
128
In questo caso l’espressione «naturale» non va inteso in senso ambientale, galileiano,
ma nel senso in cui verrà poi ripreso e sviluppato da Schelling e da Darwin, in senso
biologico.
129
I. Kant, 1790, p. 132.
64 Capitolo II

«L’uomo può e deve essere considerato dal punto di vista della qualità interamente so-
vrasensibile, che egli ha di essere sovrasensibile, che egli ha di essere libero e che quindi
deve considerarsi in ciò che costituisce essenzialmente in lui l’umanità, vale a dire la per-
sonalità indipendente da ogni determinazione fisica [homo noumenon]: la qual cosa oc-
correrebbe distinguere da ciò che egli è da un altro punto di vista 130, ossia come soggetto
dipendente da quelle condizioni, e per ciò come uomo [homo phaenomenon]» 131.
È in questa tensione tra l’uomo fenomeno e l’uomo noumeno che la modernità
annuncia la sua questione storica, l’impossibilità di finire o di compiersi com-
pletamente in quella che Hegel chiamerà la riconciliazione, la versöhnung, la pa-
cificazione.
«La prima conseguenza dell’estraneità dell’uomo dalla sua umanità è che il “principio”
stesso della modernità, l’autonomia si volatilizza. Kant compie in proposito una distin-
zione, che segnerà tutta la modernità, tra libertà positiva e libertà negativa, una distin-
zione che potremo fare coincidere, almeno in parte con quella che più tardi sarà traccia-
ta tra libertà di e libertà da» 132.
«La prima è la libertà privata e segreta dell’homo noumenon, mentre la seconda è la liber-
tà pubblica e manifesta dell’homo phaenomenon. La prima è l’autonomia, la volontà pu-
ra, che obbedisce solo a se stessa; è la libertà positiva di volere il proprio volere nella sua
astrazione formale e fondante, è la libertà di essere Sé. La seconda è la traccia visibile
dell’autonomia nel mondo sensibile: è la libertà negativa di non storcere il proprio vole-
re, è la libertà da ogni inclinazione eteronoma e patologica. Sono questi i due ambiti
della legislazione interna, il dovere, e della legislazione esterna, il diritto, tra i quali vi è
una netta asimmetria, poiché è il «principio» dell’autonomia etica a fondare qui la so-
vranità giuridica della legge (senza più fare ricorso al volere di Dio)» 133.
La libertà kantiana è, dunque, una soggettività che al di fuori dell’eteronomia
costituisce la presenza a sé, la coscienza di sé, nell’identificazione della propria
umanità con la prassi di una ragione pura. La Libertà (Freiheit) come autonomia
è il dovere (Pflicht) di una responsabilità (Schuldigkeit) pura, l’obbligo (Ver-
bindlichkeit) e il comando (Gebait) morale alla libera e autonoma costrizione

130
Quello della modernità classica, delle scienze fisiche e matematiche.
131
I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, 1798, p. 48; trad. it. La metafisica dei costumi, La-
terza, Roma-Bari, 1999.
132
Berlin Isaiah, Four Essays an liberty, Oxford University Press, Oxford 1969; tr. It.
Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Milano 1989.
133
D. Tarizzo, La Vita, un’invenzione recente,p. 15, Laterza, Roma-Bari 2010.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 65

(Nätigung), coercizione (Zwang), sottomissione (Unterwerfung), alla legge che si


è prescritta. Questa libertà dall’Abalietà si apporta attraverso una duplice scis-
sione interna alla soggettivazione. Questo sfaldamento interno alla soggettiva-
zione permette di avvicinare sia il singolo individuo sia i popoli a una apparte-
nenza morale 134. In questo senso la dialettica dualistica kantiana è la prova che
l’interiorizzazione dell’Altro può essere la più grande forza negativa per la co-
struzione teorica di una politica e di una storia fondata sulla libertà come auto-
nomia del soggetto. La rappresentazione pura dell’altro come Umanità e persona
giuridica diviene il criterio morale di una moderna civiltà dell’autonomia e di
una comunità non più empirica, di soci, ma di soggetti di diritto. La morale au-
tonoma deve essere incorporata sia a livello individuale sia a livello collettivo; è
per questo motivo che essa, nella sua esteriorizzazione, nella rappresentazione
dell’altro come altro universale, fonda l’intersoggettività trans-individuale (non
sulla reciproca appartenenza eteronoma) sullo stato di diritto della volontà gene-
rale, della moralità pubblica, di un’identità popolare. Per il diritto tutti gli uo-
mini sono uomini per la moralità, degli altri universalmente rispettabili, possibi-
li soggetti di diritto. Ciò che i teologici ed etologici arbitri non potevano garan-
tire, il diritto lo rende presente nella pratica dei rapporti legali, nella prassi este-
riormente conforme alla legge. La coercizione reciproca del diritto obbliga (mo-
ralmente), ogni qualvolta si è inclini (patologicamente) all’immoralità interiore,
di ristabilire l’ordine morale della libertà. Il rapporto giuridico è
l’esteriorizzazione, nella sfera pubblica, della lacerazione interna al soggetto. La
costrizione giuridica è una finalità morale pubblica dove tutti gli individui, da-
vanti alla legge, si riconoscono, in libertà, come cittadini provvisti di pari diritti
e doveri. Ogni stato di diritto, politicamente e storicamente costituito da una
sua volontà generale (popolare), è kantianamente scisso nel suo Sé dalle dinami-
che antagonistiche, pulsionali, del progresso morale e del regresso barbarico.
L’insocievole socievolezza (ungesellige geselligkeit) è l’espressione dialettica di una
storia della moralità pubblica, che fatica affinché si renda autonoma da una so-
cietà delle inclinazioni economiche e sociali. I conflitti sociali sono l’espressione
in sede pubblica dell’antagonismo interno alla libertà. La progressione morale

Da specificare che l’appartenenza morale non è da confondere con l’appartenenza a


134

una comunità di soci, uniti da interessi eteronomi e inclinazioni etologiche.


66 Capitolo II

dell’umanità verso lo stato di diritto diviene il progetto storico verso cui muove-
re e che dà forza al dovere morale sia nella sfera privata, sia in quella collettiva.
Ogni stato di diritto stabilito da una volontà generale, da un popolo, è l’unico
signore in grado di educare gli individui alla legge morale della libertà collettiva
a cui si sono prescritti e di testimoniarla attraverso le varie figure dell’autorità
che nella comunità si esercitano in sue veci. Nello spazio tra libertà di e libertà
da, tra dovere e diritto, Kant rimane ossessionato dal problema della sincerità:
questo perché? Perché quando Kant deve essere un esempio di costume consono
a rispondere ad un imperativo categorico che incarna la forma pura del volere
prende in considerazione l’uomo sincero, un uomo che si comporta sinceramen-
te con se stesso. C’è una immagine strutturale che esprime la problematicità di
questa umanità noumenica, la quale si nasconde dentro il potere, dentro ogni
singola volizione, nella distanza critica tra essere e non essere. L’umanità non
appartiene alla verità e al suo regime galileiano ma a quello di una veridicità,
una verità come criticismo della testimonianza. La sincerità è veridicità e non
verità. L’ossessione kantiana della sincerità è legata alla griglia nebulosa tra
l’uomo e la sua umanità, la quale regge una ragione pura pratica e l’autonomia
come semplice potere. L’autonomia della libertà si annuncia in due modi: come
libertà negativa e come libertà positiva. L’autonomia come libertà negativa è ciò
che noi possiamo conoscere, cioè noi sappiamo di essere autonomi nella misura
in cui nessun movente eteronomo, esatto o empirico che sia, determina il nostro
volere. Meno siamo determinati da movimenti eteronomi e più la nostra libertà
(ma puramente in negativo) si afferma.
«La libertà, nella misura in cui essa si manifesta a noi prima di tutto per mezzo della
legge morale, la conosciamo soltanto come proprietà negativa in noi, vale a dire come
tale che nessun motivo sensibile di determinazione ci costringe ad agire. Ma se si consi-
dera la libertà come noumeno, ossia come una facoltà che l’uomo possiede in quanto
pura intelligenza, e se si domandasse come essa può essere necessitante», sollen, «per ri-
guardo all’arbitrio, sensibile, quando cioè la si considerasse come una proprietà positiva
sarebbe impossibile trovarne teoricamente una rappresentazione» 135.
Noi non possiamo conoscere l’autonomia, ma solo agirla.

135
I. Kant, 1798, p. 29.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 67

«La volontà, che non si riferisce a null’altro che alla legge, non può essere chiamata né
libera né non libera, poiché essa non ha nessun rapporto con le azioni. […] La libertà
non può mai consistere nella facoltà che avrebbe il soggetto razionale di fare una scelta
contraria alla sua ragione. […] La libertà, quando è in relazione alla legislazione della
ragione, è propriamente soltanto un potere» 136,
un puro Vermögen, tra essere e non essere. Questo potere non ha nessun rappor-
to con le azioni e con il fenomeno, ma esiste come libertà nella misura in cui la
ragione pura pratica si auto-afferma, si auto-testimonia, come volere puro, un
che di non completamente attuabile ma costantemente noumenico. Per tale ra-
gione:
«Non è infatti possibile all’uomo scrutare così profondamente nel proprio cuore da po-
ter mai essere completamente sicuro, anche soltanto in una sola azione, della purezza del
suo proposito e della sincerità della sua intenzione morale» 137,
il che vuol dire della sua autonomia. Autonomia noumenica, l’umanità santa
come puro potere, questa tensione tra essere e non essere arretra in uno stato di
indecisione che rende problematica la stessa enunciazione, autoaffermazione,
con cui Kant compie la libertà moderna. È in Kant stesso che il discorso critico,
criticista, scricchiola su di sé, poiché in questo caso nessuno può essere sincero,
autonomo e dire che la modernità esiste. La modernità non esiste, l’autonomia
non esiste, ma ha bisogno su questa radicale incertezza, sulla propria inconsistenza,
di auto-affermarsi continuamente nella trasparenza dell’uomo a se stesso e
nell’attestazione sincera di una Ragion pura pratica. La sincerità 138 di questa
prassi volta alla rappresentazione, alla visione sincera di sé e del Sé, è un coman-
do della ragione, la cui aderenza garantisce il legame dell’uomo con la sua uma-
nità. Il legame di una volontà con la sua autonomia e la sua imperatività. La vo-
lontà pura è la volontà autonoma che informa l’imperativo categorico che gli
affida un fine. Tutto ciò è fondamentale per spiegare la Critica della facoltà di
giudizio in cui Kant elaborò un concetto formidabile, cioè quello di una finalità
senza scopo. La finalità senza scopo è definita dallo stesso Kant come una finalità

136
Ibidem.
137
Ibidem.
138
La gabbia speculativa della sincerità e dell’autoinganno dell’uomo con se stesso svi-
lupperà il tema dell’inconscio freudiano e ancora prima il tema romantico e biologico
dell’uomo come eterno frammento.
68 Capitolo II

scevra da alcun contenuto, una finalità secondo la forma imperativa e categorica


di una volontà senza scopo. È proprio perché questa volontà rimane senza scopo
che può dirsi autonoma, che può dirsi e auto-affermarsi come la volontà pura
del volere; la soggettività e la soggettivazione della volontà è perché è una volon-
tà di volontà, una pura forma della finalità nel campo della soggettività pura e
trascendentale, come l’uomo spinto ad agire e a rappresentarsi nella necessità e
nella possibilità di una enunciazione suscettibile di cogliere e rendere visibile se
stesso davanti a sé stesso.
La volontà autonoma 139, nella Critica della facoltà di giudizio, si incardina su
un’idea di finalità secondo la forma, di volontà senza scopo come analogo della
vita. Tale affermazione traccia un nuovo orizzonte critico in Kant, cui la forza
della volontà autonoma sottoforma di finalità senza scopo viene ritrovata nel
mondo fenomenico, in ciò che è un giudizio riflettente. Il giudizio riflettente
per Kant è il luogo in cui la soggettività, nella sua purezza, nella sua astrazione, è
volontà che si riflette nel fenomeno. Il giudizio riflettente è la riflessione, la su-
perficie speculare dove la volontà è secondo la forma e mai in un contenuto.
Nel giudizio riflettente la volontà autonoma, la volontà senza scopo, la finalità se-
condo la forma della finalità si scrutano l’una nell’altra. Cercando di mostrare che
questa volontà può riflettersi sulla superficie dei fenomeni anche togliendo lo sco-
po, si dovrà riflettere, allora, su una volontà senza scopo, cioè su una finalità senza
scopo, da un lato e, dall’altro, come volontà in sé. Queste due accezioni sono le
due accezioni del finalismo, della finalità, nella Critica della facoltà di giudizio, te-
sto in cui Kant inventa, di sana pianta, un nuovo tipo di vitalismo140. Il vitalismo
fino ad all’ora fu un vitalismo dello scopo, delle forme finali. Kant ricercava, inve-
ce, un altro tipo di vitalismo, quello poi noto non con il nome di vitalismo ma
con quello di finalismo nei confronti della vita. A partire da ciò l’interrogativo che
irrompe nella critica è il seguente: quale potrebbe essere l’espressione e la percezio-
ne 141 di una volontà pura e riflessa? Sappiamo che la III Critica è divisa in Critica
della facoltà del giudizio estetico e Critica della facoltà di giudizio teleologico. La pri-

139
Elaborata nella II Critica.
140
Per vitalismo si intende la dottrina che vede nelle forme viventi le azioni di altrettante
cause finali, queste ultime dettano lo sviluppo e il compimento degli esseri organizzati.
141
Nel contesto kantiano la percezione è più propriamente la recezione.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 69

ma si occupa dei giudizi estetici 142 e la seconda si occupa delle forme finali in na-
tura. Il Bello è definito da Kant sia come una finalità senza scopo, sia come una
finalità secondo la forma, una pura forma finale 143, una forma della finalità pura.
Una pura forma finale orientata verso un fine invisibile, un fine di cui è incono-
scibile la possibilità, ovvero, non può essere spiegata e concepita da noi. La possi-
bilità di questa forma esiste, ma non può essere spiegata e concepita da noi se non
ammettendo come principio di essa una causalità secondo un fine, cioè una vo-
lontà che la abbia così ordinata secondo la rappresentazione di una speciale rego-
lazione. A questo proposito Kant scrive:
«La finalità può, dunque, essere senza scopo, e questo lo possiamo porre in piena volon-
tà, la causa di quella forma, e tuttavia non possiamo concepire la spiegazione della sua
possibilità, se non derivandola da una volontà» 144.
Nell’opera d’arte il Bello emerge come tagliato dallo scopo, come una finalità
autonoma senza scopo, una finalità soggettiva 145; ma Kant parla, anche, di una
finalità oggettiva, e di questo si occupa la Critica del giudizio teleologico, in cui
incontriamo ad un certo punto il concetto di vita.
Esiste una finalità soggettiva senza scopo e una finalità oggettiva. La finalità og-
gettiva può essere a sua volta distinta in una finalità esterna e in una di tipo in-
terna. La finalità oggettiva è la finalità del mezzo. La finalità esterna di una cosa
è il rapporto di utilità che intrattiene con un’altra, il suo essere mezzo per un
fine fuori di sé. Nell’esempio «Io prendo il pettine», il soggetto è dotato di una
finalità esterna, ma esiste, anche, una finalità interna, in cui questo rapporto
mezzo-scopo/mezzo-fine è tutto interno all’oggetto. Perché Kant parla di un
rapporto che deve essere tutto interno all’oggetto? Perché la finalità degli organi
degli esseri organizzati 146 gli consente di cogliere la pura forma della finalità nel
fenomeno. Gli esseri organizzati sono un eccellente esempio di finalità interna
in cui il rapporto mezzo-fine si riflette, si avvita su se stesso, tutto ciò che è fine
è anche mezzo e in questo modo la finalità è interna perché ogni parte

142
Che riguardano il Bello.
143
La forma finale non è, ovviamente, inteso da Kant nell’accezione del vecchio vitalismo.
144
I. Kant, 1790, pp. 63-64; trad. it. Critica della capacità di giudizio, Laterza, Roma-
Bari, 1982 e nuova edizione BUR, Milano, 1995.
145
In Critica del giudizio estetico.
146
Mezzo → fine = finalità interna.
70 Capitolo II

dell’organismo è mezzo e scopo di ogni altra parte e mezzo e scopo per tutto
l’organismo. In questo modo l’organismo che è composto di organi, compone
un tutto causa ed effetto di se stesso. Scrive Kant:
«È un essere organizzato della natura quello in cui tutto è reciprocamente scopo e mezzo
di se stesso […]» 147. «Quando le parti si legano a formare l’unità del tutto, in modo da
essere reciprocamente causa ed effetto della loro forma, il sistema si presenta come un
fine della natura» 148.
L’organismo, scrive Kant, è un essere che si organizza da sé (autonomo) e la fi-
gura empirica dell’autonomia; questo è un fine della natura. Ciò che ci interessa
ora, a proposito di questi passaggi, è ritornare alla distinzione tra due accezioni
della volontà autonoma e a due tipi di finalità. Se l’organismo fosse stato un es-
sere che si organizzasse in sé, avremmo dovuto pensare che questo sarebbe stato
un processo finale, un processo in cui non sarebbe esistita mai una forma defini-
tiva dell’organismo, poiché l’organismo sarebbe il processo stesso di formazione,
di autoaffermazione, di autorganizzazione. Prendendo alla lettera quanto Kant
scrive, comprendiamo bene che l’organismo è un concetto verbale e non sostanti-
vo; quest’ultima espressione è importante perché ci consente di capire un altro
tipo di concetto con il quale Kant si confronta e cioè quello di forza formatri-
ce 149. La paternità teorica della forza formatrice è da attribuire a Blumembach,
l’interlocutore di Kant nella III Critica, il quale a proposito dello stesso Kant
andava affermando che la Critica della facoltà di giudizio 150si intitolava in tal
maniera in seguito al plagio che il suo autore condusse della sua bildungkraft.
Secondo Kant la urterilskraft non aveva nulla a che vedere con la bildungkraft, in
quanto quest’ultima era una forza eteronoma. La forza formatrice è la forza or-
ganica, quella forza che nessun filosofo e scienziato riesce a spiegare, e che Kant
prova a definire con il nome di forza auto-organizzativa, forza di formazione or-
ganica. Obiettando contro Blumembach, Kant scrive che un essere organizzato
non è semplicemente una macchina che risponde a un principio di causa ed ef-
fetto. La macchina non ha altro che una forza formatrice. Al contrario, un orga-
nismo non risponde ad un principio di causalità, ma possiede, invece, una forza

147
I. Kant, 1790, p. 245.
148
Ibidem, p. 241.
149
Vedi gli scritti di Blumembach.
150
Der kritik der urteilskraft ersterteil.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 71

formatrice che organizza la materia, una forza formatrice che si propaga e che
non può essere spiegata con la sua facoltà di movimento. Cosa vuol dire questo?
Vuol dire che l’essere organizzato è dotato di una forza formatrice, organizza
l’essere stesso da sé, come la manifestazione di una volontà di sé. L’organismo
da questo punto di vista si auto-organizza così come la volontà è una volontà
autonoma. Questo processo, scrive Kant, è inafferrabile quando si utilizzano le
cornici d’esperienza della filosofia sperimentale 151 e non se ne riesce a venire teo-
ricamente a capo in quanto la grande categoria causale è una categoria valida
solo per i nessi di causa efficiente, ovvero quelli validi per interpretare i mecca-
nismi automatici degli automi e dei motori. La forza motrice è una causa effi-
ciente, ma non è di questo tipo la forza formatrice. Kant scrive che quando noi
vediamo un albero che cresce, una mela che spunta, tutto il processo non può
essere spiegato con i nessi di causa efficiente. Come vedremo più avanti quella
di Kant è un’affermazione paradossale per due ragioni: la prima perché per esse-
re coerenti con la critica della ragione pratica è costretto a dire che l’essere vi-
vente è il perfetto nel senso che è perennemente percettibile, recettibile. La per-
fezione dell’individuo morale è la sua infinita percezione ed è paradossale perché
questo nesso di causa efficiente, stando alla Critica della ragion pura, dovrebbe
impedire a Kant di vederla in questo modo. Stando sempre alla Critica della ra-
gion pura, la seconda ragione paradossale è quella secondo la quale contradditto-
rio dovrebbe risultare anche il fatto secondo cui esistono una serie di fenomeni
che non possono essere incasellati, imbrigliati, irreggimentati, categorizzati, den-
tro dei nessi di causa efficiente; ciò perché nella serie di fenomeni dovrebbe ap-
plicarsi, a priori, lo schema delle categorie, tra cui, anche, la categoria di causali-
tà, che è quella categoria concorrente il nesso di causa efficiente. Cosa vuol dire
questo? Ciò vuol dire che nella serie dei fenomeni, se rimanessimo rigorosamen-
te alla I Critica, quando vedremmo crescere la mela dovremmo osservare un
rapporto di causa-efficiente, tra il movimento della mela che cade e la sua cresci-
ta sull’albero. Al contrario Kant afferma che non è così e ciò perché noi non ve-
diamo questo nesso, ma qualcosa d’altro che sfugge alla ragione; ci troviamo,
afferma Kant, al cospetto di una contingenza, di una casualità, di una mela che
matura e che cade dall’albero; esso è un caso, qualcosa che non è spiegato, che

151
La Nuova scienza di Galileo Galilei.
72 Capitolo II

non rientra nella griglia delle categorie. È attorno a questo problema della con-
tingenza che ruota buona parte della III Critica; scrive Kant:
«Questa contingenza della forma, in tutte le leggi empiriche relative alla ragione 152 è di per
sé stessa un argomento per considerare la causalità come possibile soltanto mediante la ra-
gione» 153.
Cosa ci dice Kant in questo passaggio? Kant scrive che noi, comunque, non po-
tremo vedere la contingenza di quel fenomeno se non disponessimo di categorie
dell’intelletto, che non si applicherebbero a quel certo fenomeno naturale. Qui
la contingenza è puramente il negativo della ragione. La contingenza e non sol-
tanto il nesso di causa efficiente, è visibile solo attraverso la ragione o
l’intelletto. La ragione, scrive Kant, è la facoltà di agire secondo fini e l’oggetto
che è rappresentato come possibile, la mela che è caduta dall’albero, viene rap-
presentato per mezzo di questa facoltà, la ragione, la facoltà dell’agire secondo
fini. Il movimento della mela viene tutto rappresentato come possibile in quan-
to fine. Ciò è il nucleo di ciò che Kant intitola con l’espressione di giudizio ri-
flettente. Nel giudizio riflettente la ragione scopre che la contingenza 154, questa
casualità, questa invisibilità resiste alla presa dell’intelletto, della ragione intellet-
tuale. Siccome la ragione deve rendere ragione e siccome la ragione è l’essenza
della facoltà di agire, interpreta, riflette, scorge, in questo “fenomeno” la volon-
tà, la finalità senza scopo, una finalità interna secondo le due accezioni del giu-
dizio estetico e del giudizio teleologico.
Ricapitolando in Kant abbiamo tre fasi della riflessione sulla volontà, la prima è
quella succitata, cioè quella secondo cui la cosa della natura, che in essa è orga-
nizzata in virtù della casualità e contingenza, reca per se stessa una volontà,
un’azione secondo fine, una finalità. La seconda fase è quella sulla finalità inter-
na. La finalità interna, la finalità in cui ogni parte dell’organismo è causa, mez-
zo, scopo ed effetto di ogni altra, (per cui l’organismo è causa di sé medesimo),
esprime una volontà di sé e un processo vitale di volontà volto al suo compi-
mento, alla definizione della sua forma. Lo scopo dell’organismo è l’obbedienza
alla sua forza formatrice, l’espressione di una volontà di sé; questo ci fa giungere

152
Ovvero all’intelletto, il quale comunque è interno alla ragione, e alle sue categorie.
153
I. Kant, 1790, pp. 237-238.
154
Ciò che rifiuta di essere investita dalle categorie dell’intelletto, della ragione intellettuale.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 73

alla terza fase della riflessione sulla volontà autonoma del fenomeno vitale e cioè
quella in cui ci rendiamo conto che questo processo di autoformazione
dell’organismo non finisce mai; se finisse si estinguerebbe la forza formatrice, la
quale, invece, secondo Kant deve essere continuamente attiva. Questo discorso
sembra astratto e in qualche modo circolare e vizioso, ma consente a Kant di
affermare che tutta questa riflessione 155 ha queste proprietà. La vita è una forza
formatrice ed essa appartiene a tutte le forme viventi, ma la vita non è definibi-
le, semplicemente, come la sommatoria di tutte le forme di vita. La vita diventa
una forza formatrice, una forza di vita che penetra e definisce le diverse forme
vitali. Questo passaggio è importante soprattutto per poter prescindere dalle
forme finali. Quello che Kant enuclea è una dinamis della vita, l’analoga e riflet-
tente dinamica della volontà autonoma. La dinamica della vita, da Kant in poi,
non è più pensabile come la dinamica delle forme di vita o meglio una dinamica
pensabile attraverso l’immagine di un processo che definisce le singole forme di
vita. Nel dire, da parte di Kant, che la vita è un processo di continua formazio-
ne, c’è una conseguenza implicita: l’organismo non è mai completamente for-
mato, poiché esso appartiene al processo stesso della vita. Questo vuol dire che
l’organismo è essenzialmente difettivo, manchevole. Una volta astratta dalla
forma di vita la vita come forza, le forme di vita saranno sempre difettose. Nel
suo terzultimo scritto 156 Kant afferma che la vecchiaia può dunque essere repu-
tata come qualcosa di meritorio sotto il profilo morale, cioè sopravvivere più a
lungo possibile assume una connotazione morale. A questo punto vivere più a
lungo e vivere ad ogni costo, è qualcosa che ha valore. Per Kant vivere a tutti i
costi ha un significato ben determinato e non può essere frainteso. Per Kant vi-
vere a tutti i costi non è un bene, in quanto la vita deve possedere un ordine. La
vita naturale, la vita biologica, la sopravvivenza, la nuda espressione della forza di
vita, in Kant, acquisisce un significato morale. La vita in questo orizzonte divie-
ne un valore e lo diviene in seguito a due operazioni: in seguito alla sua astra-
zione, che Kant abbozza, e in seguito all’investimento morale della vita. In altre
parole è come se la nostra vita organica, il soggetto morale, fosse l’espressione

155
A proposito del factum che il fenomeno vitale è un analogo della vita.
I. Kant, Der Streit der Facultäten, 1798; trad. it. Il conflitto delle facoltà, Morcelliana,
156

Brescia, 1994.
74 Capitolo II

nella nostra volontà autonoma e, quindi, più si vive e più questa volontà si
esprime. In Kant la volontà autonoma è una teoresi ben architettata; sul piano
morale la volontà autonoma è il comando della volontà del volere, e tende a
svincolarsi dallo schermo dei fenomeni psicopatologici. Al tempo stesso la vita
diventa un canale in cui la volontà pura si esprime fino a raggiungere questo esi-
to paradossale, per cui la vecchiaia diviene qualcosa di meritorio in senso morale
e la morte come qualcosa di patologico, e di inevitabile, da cui rifuggire.
La modernità del lavoro 75

Capitolo III. La modernità del lavoro

Se ci agganciassimo, almeno per un momento, a quella inusuale convinzione,


secondo la quale Hegel inaugura e termina l’intero suo percorso, teorico e mili-
tante, con la Fenomenologia dello spirito 157 e comprendessimo meglio come la
complessità del suo impegno sia stata necessitata e pungolata, nell’intero suo
tragitto, dal tentativo di oltrepassare, contemporaneamente, sia la vuota negati-
vità formale della morale kantiana, sia il vacuo finalismo schellinghiano del Sé
nel fenomeno, avremmo quasi sicuramente l’immediato riscontro di come qual-
siasi tentativo o abbozzo di epoché 158 della modernità del lavoro 159, o
dell’economia moderna, debba ritrovare il suo inizio ontologico nella filosofia
hegeliana e nel suo dichiarato recupero, in chiave storica e sociale, della metafi-
sica dell’autonomia (Selbstständigkeit).
Come è lo stesso Hegel del 1807, del 1821 160 e del 1830 161 a confermarci, la cri-
tica della ragione pura pratica muore per risorgere nella fenomenologia sia di
una libera e contraddittoria accidentalità storica dello Spirito, sia nella sua orga-
nizzazione concettuale. Entrambi gli aspetti, come fenomeno ed esperienza dello
Spirito, divengono rispettivamente il tema e il metodo di un criticismo dialettico
e speculativo, il quale si compie e si comprende storicamente. Nella pretesa
scientifica di una filosofia che vuole abbracciare, per quanto possibile, ogni cosa
nella mediazione e contenere il vero nella figura del vero, Hegel riflette il processo
di un pensiero che all’inizio di sé non è già un sapere ma solo la figurazione
aspettuale di una promessa progettuale e di una ragione programmatica, che,
nel movimento assoluto della certezza e nei deliri di traslucidità dello Spirito con
se stesso, trova solo storicamente e nella forma rivoluzionaria le conferme con-

157
G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, 1807; trad. it. Fenomenologia dello Spirito,
a cura di Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 1995.
158
Da intendere in accezione husserliana e merleau-pontyana.
159
L’Io che è Noi, Noi che è Io.
160
G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, 1821; trad. it. Lineamenti di
filosofia del diritto: scienza naturale e scienza dello stato, a cura di Vincenzo Cicero, Ru-
sconi Libri, Milano 1996.
161
G.W.F. Wissenschaft der Logik, 1831; trad. it. Scienza della logica, a cura di C. Cesa,
Laterza, Roma-Bari 1978.
76 Capitolo III

crete e auto-fondanti di sé. In base a ciò la Fenomenologia dello spirito è la storia


stessa della modernità, il farsi storia del pensiero, il quale una volta morto come
negativo, come differenza assoluta della religione nei limiti della sola ragione, fa
della scissione critica dell’umanità in se stessa il movimento contraddittorio e
l’energia paradossale di un ateismo trinitario suscettibile di divenire patrimonio
comune. La storia universale dell’umanità, abbracciata completamente nelle sue
figure attraverso la fenomenologia, è per Hegel l’auto-manifestazione storico-
concettuale dello Spirito come oggetto e soggetto di sé, l’espressione
dell’autobiografia romanzata dove narrazione e narratore si rispecchiano l’uno
nell’altro, nel compimento e nella crisi di sé. In altre parole, come hanno scritto
Proust e Blumenberg, lo Spirito hegeliano si comprende, si appropria di sé e del
reale, nella rassegna storico-concettuale delle sue contraddizioni dialettiche, risa-
lendo nel suo cammino dalla coscienza naturale sino allo Spirito che sa il Sé.
Avviandosi alla conclusione della Fenomenologia dello spirito, Hegel si fece auto-
re di un passaggio che, senza risultare affrettati, costituisce l’indice paradigmati-
co e la chiave di volta dell’intero suo pensiero, l’impronta originaria da cui par-
tire per il nostro intento: la fenomenologia dello spirito, in ciascun momento, è la
differenza tra il sapere e la verità, ed è il movimento in cui la differenza rimuove se
stessa, oltrepassa se stessa. Questo passaggio è il distillato filosofico di un intero
procedimento teoretico incardinato su tre concetti portanti: la vita (Leben), il
lavoro (Arbeit), il riconoscimento (Anerkennen). Per quanto riguarda il concetto
di vita, esso è una astrazione teorica che giunge fino al nostro autore solo dopo
un già lungo processo di elaborazione, il quale ha avuto nel suo amico e mento-
re Schelling una vera e propria figura di sintesi. Il Sistema dell’idealismo trascen-
dentale di Schelling considerava l’uomo come la punta in cui lo Spirito,
l’Indeterminato, della natura affiora e mette in moto un movimento,
un’evoluzione (Evolution), della natura storica. L’uomo è il punto in cui la natu-
ra è storia ed entrambe si rispecchiano l’una nell’altra. Il Sé è il processo riflessi-
vo dove io guardo e rifletto su di me, è la piega romantica dell’Autós (Aseität),
l’individuo a sé stante, un corpo senza organi che come un eterno frammento 162
è il lembo inafferrabile, la pura forza (Kraft), dell’astrazione pura della vita. La

162
F. W. J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, p. 541, Rusconi, Milano
1997; «Der Mensch ist ein ewiges Bruchstück».
La modernità del lavoro 77

vita è, dunque in Schelling, l’autonomia kantiana (Autonomie) nel fenomeno, lo


schema della libertà, la causalità fisica simultaneamente autonoma ed eteronoma,
che si rivela (sich offenbaren), appare, si evidenzia nella natura 163. Nel momento
in cui la natura parla di sé come un processo dinamico in perenne auto-
riflessione, come ciò che resiste e non può più essere catturato dalla presa identi-
ficante dell’umano, essa è il selvaggio borbottio della vita, il corpo senza organi
di un Sé che sfugge al movimento di auto-appropriazione dell’uomo. Ciò, per
Schelling, da una parte anima la marcia dell’uomo verso se stesso, dall’altra la
mortifica con la delusione in seguito all’impossibilità di un traguardo o di un
termine della storia naturale. In altre parole, come afferma anche Tarizzo 164, la
Naturphilosophie di Schelling si fonda sulla perfetta identità tra spirito e natura e
questa identità è quella che nel Sistema egli definisce l’Assoluto. Tutta la natura ap-
pare animata dalla vita, ovvero da quel processo di progressiva individuazione e or-
ganizzazione dello spirito stesso nella natura. La vita è l’epifania, l’apparizione dello
spirito nei processi organici e in questo senso è l’autonomia dello Spirito che penetra
nel fenomeno, lo schema della libertà che si rende fugacemente visibile nella natura.
Come ha scritto più volte nelle sue opere Didi-Huberman la filosofia naturale
di Schelling si fonda su un vacuo effetto di lembo, sul processo biodinamico di un
corpo senza organi della vita che sfugge nella trasparenza di ogni suo volto natu-
rale. Ciò vuol dire che la vita schellinghiana è una soggettività positivizzata, sa-
turata, in una nozione naturale e fenomenica. La natura stessa pulsa di soggetti-
vità, una soggettività che fermenta nel regno alimentare, nel circolo primordiale
della vita. La Fenomenologia dello spirito nasce dalla reazione hegeliana a questo
tipo di filosofia ingenua e vacua, in cui, a parere dello stesso, tutto è come la
notte «nella quale si suol dire tutte le vacche sono nere» 165. Questo tipo di pen-
siero, secondo Hegel, pretende di mantenersi al centro della Cosa, si concentra e
si oblia in essa, invece, di defalcarla e oltrepassarla costantemente, nello stare
presso di sé del sapere nella sua mediazione e progresso. Per Hegel l’autonomia

163
«La vita è l’autonomia nel fenomeno, è lo schema della libertà, in quanto si rivela
nella natura», (F.W.J. Schelling, Nuova deduzione del diritto naturale, in Lettere filoso-
fiche su dommatismo e criticismo, p. 90, Laterza, Roma-Bari 1995).
164
D. Tarizzo, La Vita, un’invenzione recente, p. 62, Laterza, Roma-Bari 2010.
165
G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, a cura di Vincenzo Cicero, p. 67, Ru-
sconi, Milano 1995.
78 Capitolo III

non è quella di una vita selvaggia nella sua immediatezza ma nella formazione e
nell’emancipazione storica e sociale. Al contrario in Schelling l’Assoluto non de-
ve essere concepito ma intuito nella sua autoaffermazione. Questa fermentazio-
ne della vita è un a-concettuale, ciò che è prima dell’ordine del pensiero e della
semplicità e trasparenza del Concetto, l’ardente entusiasmo di una coscienza
racchiusa e rapita nella sua estasi, priva di mediazioni e progressione. Al di là
della riflessione determinata e del sapere assoluto come scienza, per Schelling c’è
una intensità priva di contenuto, una forza senza espansione, una estensione della
sostanza cieca e selvaggia. Il sapere sostanziale e a-concettuale, non è che un ab-
bandonarsi alla vita, al caotico fermento della sostanza, all’abisso del suo vuoto, e,
dunque, ad un Assoluto dell’ingenuità e della vacuità.
Per Hegel il vero non è la vita ma lo Spirito, non la sostanzialità immobile e in-
differenziata166 ma l’elemento etereo della soggettività, il quale raggiunge
un’assoluta trasparenza, veridicità, solo nel suo movimento dialettico, dove il
pensiero si scopre nello Spirito e nell’interesse al sapere di sé come Sé universale.
Per Hegel la vita è l’oggetto, ciò che risulta dal processo di sdoppiamento e di
oggettivazione dello Spirito come il vivente dell’autocoscienza. Questo passag-
gio risulta evidente nelle pagine subito precedenti al paragrafo dedicato alla dia-
lettica signoria-servitù, dove il nostro autore ci introduce in uno scenario prei-
storico, in una dimensione in cui la storia dell’umanità, la storia reale, non ha
ancora avuto inizio e dove, invece di orientarci nella storia dell’autocoscienza, ci
scorgiamo immersi nella nuda vita naturale, nel circolo selvaggio e alimentare
della vita, in cui la sostanza della vita è sia lo sdoppiamento del suo processo in
figure, sia la dissoluzione di queste differenze sussistenti, l’indifferenza di queste
apparizioni oggettive dello spirito sdoppiato entro sé. Come ci insegnano le in-
dagini genealogiche della psicoanalisi questo è il momento in cui la coscienza 167
trova dinanzi a sé un oggetto che non è più il primo oggetto, l’oggetto volatile
della certezza sensibile, privo di ogni autonomia e sussistenza, ma è un oggetto
che a questo punto riflette in se stesso la composizione alla coscienza e acquista
una propria autonomia, un proprio carattere di sussistenza autonoma. Secondo

166
Il puro auto-riconoscimento nell’assoluto essere altro.
167
La quale soltanto adesso comincia a determinarsi come autocoscienza, come coscien-
za di sé.
La modernità del lavoro 79

la psicoanalisi lacaniana questo secondo oggetto capace di opporsi alla coscienza co-
me qualcosa che, tuttavia, l’autocoscienza tende a recuperare e letteralmente a in-
ghiottire più volte dentro di sé, in quanto l’autocoscienza non tollera l’autonomia di
un oggetto che non possa essere assunto da sé, è la vita, il vivente, l’oggetto del deside-
rio 168immediato.
In questi passi della Fenomenologia dello spirito abbiamo tre qualificazioni con-
comitanti della vita: come un oggetto autosussistente, distinto dall’oggetto vola-
tile della certezza sensibile; l’oggetto autonomo come oggetto vivente; l’oggetto
vivente come oggetto del desiderio immediato. Da queste qualificazioni capia-
mo bene che, per Hegel, la vita, il vivente, emerge come un oggetto autonomo
opposto all’autocoscienza, come l’apparizione di un desiderio immediato e na-
turale. In altre parole la vita affiora nella Fenomenologia solo quando
l’autocoscienza affiora nella figura del desiderio e questo perché l’autocoscienza
in un primo momento è mero desiderio. Queste qualificazioni della vita sono,
dunque, le figure di un ulteriore sdoppiamento e cioè quello di una vita che nel-
la sua incessante oggettivazione e simultanea dissoluzione 169 divora e consuma
(aufzehren) tutti i viventi. Il palcoscenico del reciproco consumo dei viventi è
per Hegel la fase naturale, feroce, che precede la storia, il circolo alimentare di
una vita170, la quale non è, come voleva Schelling, l’identità tra Spirito e vita,
ma l’opposizione tra l’autocoscienza e la vita. Il circolo alimentare e del consu-
mo reciproco dei viventi è il regno preistorico, primigenio, arcaico e ancestrale,
dell’ingordo, dell’avido, del vorace e insaziabile, desiderio naturale, ciò che è a
fondamento del concetto originario di organismo.
La natura organica, il suo universale che è la vita, non ha storia, essa è la natura
organica che cade immediatamente nella singolarità dell’esistenza. La Fenomeno-
logia dello spirito, al contrario, è la storia universale dell’umanità nelle sue figura-
zioni, il sistema come storia del mondo e delle figurazioni della coscienza, come
vita dello Spirito, il quale da ordine fino a diventare il Tutto. Hegel in questo
caso distingue una nuda vita naturale dalla vita, dalla storia, dello spirito e del
mondo. La nuda vita naturale è l’oggetto preistorico dell’Aufhebung compiuta
dall’intera Fenomenologia dello spirito. Da questo punto di vista la fenomenolo-

168
«L’oggetto di un desiderio immediato è un vivente».
169
Operante nel desiderio.
170
«Questo circolo nella sua totalità costituisce la vita», Ibidem, p. 269.
80 Capitolo III

gia espone la progressiva de-naturalizzazione dello Spirito e nell’oscillazione se-


mantica che a questo punto distingue la vita 171 dello spirito dalla vita naturale
Hegel elabora, oppone e divarica, la storia naturale della vita dalla vita storica
dello Spirito umano. Nella Scienza della logica Hegel scriveva che nello Spirito la
vita appare da un lato di contro, in opposizione allo Spirito stesso, dall’altro lato
come opposta in uno con lui, cioè, facente tutt’uno con lo Spirito e questa unità è
daccapo puramente generata dall’obiettività. La vita è, per la Scienza della logica,
da intendersi in generale nel suo senso proprio di vita naturale, poiché, nella Fe-
nomenologia, quella che si chiamava vita dello Spirito, la Storia, era «una pecu-
liarità dello Spirito, che si contrapponeva alla semplice vita. Il medesimo stato
di cose è ciò che accade nel momento in cui si parla della natura dello Spirito,
benché lo Spirito non sia qualcosa di naturale, ma sia anzi l’opposto della natura.
La vita dello Spirito, la Storia, è ciò che c’è di più contrapposto alla storia natu-
rale, alla semplice vita, alla blones Leben 172 fichteana, alla nuda vita. Nella Feno-
menologia la storia dello spirito e del mondo è descritta come «un faticoso ap-
prendistato e lungo esercizio» 173, come il calvario, l’immane, l’incessante fati-
ca 174, lavoro, dello Spirito, attraverso cui il medesimo rinviene se stesso, ricono-
sce se stesso, contraddizione dopo contraddizione, lacerazione dopo lacerazione,
Gestaltung dopo Gestantung, formazione dopo formazione.
«Poiché lo Spirito del mondo ha avuto la pazienza di attraversare queste forme per
l’intera loro durata temporale e di addossarsi l’immane lavoro della storia del mondo, e
poiché non le sarebbe stata possibile di pervenire alla consapevolezza di sé, alla consape-
volezza su di sé, con minore lavoro, allora, l’individuo non può giungere a concepire la
propria sostanza percorrendo un cammino più breve» 175,
l’individuo non può non attraversare l’immane lavoro della storia in un proces-
so di faticosa rammemorazione (Erinnerung). Questo immane lavoro della storia

171
La Storia.
172
J. G. Fichte, Il fondamento dell’intera dottrina della scienza, (Grundlage der gesam-
melten Wissenschaftslehre), a cura di G. Boffi, p. 586, Bompiani, Milano 2003.
173
G.W.F. Hegel, Ibidem, p. 135.
174
«Il movimento del riconoscimento», Ibidem, p. 275.
175
Ibidem, p. 135.
La modernità del lavoro 81

del mondo è definito, ancora, da Hegel come la serietà, il dolore, la pazienza, il


lavoro del negativo, il «lavoro del Concetto» 176.
«Il lavoro è desiderio tenuto a freno, è un dileguare trattenuto, e ciò significa: il lavoro
forma, coltiva [bildet]. Il rapporto negativo con l’oggetto diviene, adesso, forma
dell’oggetto stesso, e diviene qualcosa di permanente, proprio perché l’oggetto ha auto-
nomia agli occhi di chi lo lavora. Questo termine medio negativo, cioè l’attività forma-
trice, costituisce al tempo stesso la singolarità, il puro essere-per-sé della coscienza: col
lavoro la coscienza fuoriesce da sé passando nell’elemento della permanenza. E in tal
modo la coscienza che lavora giunge a intuire l’essere autonomo come se stessa. L’attività
formatrice però non ha solo questo significato positivo per cui la coscienza servile, in
quanto puro essere-per-sé, diviene qui a se stessa l’essente. Il formare ha un significato ne-
gativo rispetto al primo momento, il momento della paura. In effetti, formando la cosa,
la coscienza vede divenire suo oggetto la propria negatività, il proprio essere-per-sé, solo
perché rimuove [aufhebt] la forma essente opposta. Ma questo negativo oggettivo è pro-
prio quell’essenza estranea dinanzi a cui la coscienza servile ha tremato; adesso invece la
coscienza distrugge tale negativo estraneo, pone se stessa come negativo permanente e
diviene, per se stessa, un essente-per-sè» 177, un essere umano. Solo nel lavoro del Concet-
to si compie, dunque, il percorso, il viaggio, dello Spirito. In tal senso lo spirito non esi-
ste mai, e in nessun luogo se non dopo il compimento del suo lavoro […], di modo che
il movimento di produzione della forma del proprio sapere di sé è il lavoro che lo spirito
compie in quanto storia reale» 178.
Ricapitolando ogni formazione dello Spirito è al tempo stesso sia un paziente e
doloroso lavoro, sia un allontanamento dalla nuda vita naturale che si oppone
alla coscienza; ed è perché la vita è all’opposto dello Spirito che il lavoro di
quest’ultimo è tanto doloroso e faticoso, in quanto radicale processo di estra-
neazione dalla natura. L’intera Fenomenologia dello spirito come l’intera filosofia
hegeliana è regolata da questa insistente contrapposizione tra spirito e vita e tra
vita e lavoro.
Nelle pagine dedicate alla signoria e alla servitù, per la prima volta in Hegel,
emerge il lavoro come lavoro dello spirito e ciò proprio in quanto con il lavoro
inizia la storia dell’uomo. L’uomo emerge soltanto alla fine di una battaglia
(kampf), di una lotta cruenta. La gestaltung della signoria e della servitù è quella

176
Ibidem, p. 139.
177
Ibidem, p. 289.
178
Ibidem.
82 Capitolo III

formazione attraverso la quale alla preistoria subentra la storia. La storia


dell’opposizione tra la natura e lo spirito è l’inizio della storia del lavoro e il
momento in cui alla fine della lotta per la vita il lavoro emerge attraverso il ser-
vo. Il fatto che emerga il lavoro è indicativo del fatto che con esso emerga anche
lo spirito e si inauguri l’inizio della storia del mondo e dell’umanità. La storia
del lavoro è, dunque, la storia dello spirito del mondo nel senso di una lotta per
il riconoscimento, la quale sopraggiunge solo dopo l’oltrepassamento dialettico
di quella per la vita. Al termine della battaglia per la vita una delle due autoco-
scienze, quella perdente, si mette a lavoro e mettendosi a lavorare compie una
serie di operazioni in cui si riflette, in realtà, tutto il movimento dello Spirito,
del Concetto. Qui il servo smette di desiderare e smettendo di desiderare, di fat-
to, si esilia dal dominio alimentare e del consumo reciproco dei viventi, a cui la
nuda vita naturale è vincolata non secondo un processo in avanti, ma in base a
un processo circolare. Il servo è stato ridotto dal signore a una cosa, a una auto-
coscienza privata di ciò che innanzitutto la qualificava come tale e cioè del suo
desiderio. Proprio in virtù della rinuncia del proprio desiderio, il servo non in-
trattiene più con gli altri viventi lo stesso rapporto negativo originario. Tratte-
nendo, sedando, il desiderio, il servo vede estinguere davanti a sé lo spettacolo
antropofago della vita preistorica e oblitera gli altri oggetti viventi come oggetti
del proprio desiderio. In secondo luogo il servo, una volta educato (bildet)
all’astinenza del desiderio e del consumo, comincia a lavorare gli oggetti, a do-
nare una forma e una figura a ciò che si para innanzi; ciò non più a uso e con-
sumo di se stesso, del proprio desiderio (sedato), ma a uso e consumo del suo
signore. In questo modo il servo non solo infrange il circolo della vita, ma trat-
tiene anche il tempo ciclico della natura, lo domina. L’opera manufatta inter-
rompe il dileguare della natura e il rapporto negativo verso l’oggetto diviene
adesso forma dell’oggetto stesso. Non è più il rapporto negativo del desiderio con
sé, ma è un rapporto negativo che diventa, attraverso il lavoro, forma dell’oggetto e
diviene così qualcosa di permanente. L’idea stessa di poter fermare il tempo ciclico
della natura una seconda volta è ciò che sottolinea ulteriormente l’idea del lavo-
ro come l’istituzione della permanenza di sé della coscienza. Quest’ultima
uscendo fuori di sé stabilisce la permanenza del lavoro e con esso della coscien-
za.
Ciò ci riporta alla terza operazione della fenomenologia, in cui il servo lavora
contro la natura per far emergere lo Spirito. Il servo trattenendo, disciplinando
e dominando, il desiderio scolpisce il presente, ciò che, fuori dal dileguamento
La modernità del lavoro 83

della natura, mantiene la sua presenza (Gegenwart). Ora se queste prime sequen-
ze consentono di comprendere come l’abbattimento dell’idolatria della natura
coincida con l’avvio alla Storia del mondo e come il mondo del lavoro si oppo-
ne a quello feroce della preistoria, completa sarà la compenetrazione con il pen-
siero dell’autore solo se ci si soffermerà sul perché, ad un certo punto, il servo si
inginocchia davanti al signore.
Di cosa ha avuto paura il servo? In queste pagine Hegel è molto bravo a sottoli-
neare come nel corso della battaglia contro il signore non è a seguito di nessun
evento in particolare che il servo rimane turbato al punto di arrendersi e calare il
capo. Il servo o colui che sta divenendo tale non è perché ha avuto paura di
rendere la vita, non è per le ferite, il sangue versato o la sofferenza, che ha abdi-
cato. Al termine della lotta per la vita o per la morte è chiaro che il servo ha avu-
to salva la vita, ma ciò non significa che egli ha avuto paura di perdere la vita. Se
così fosse, come ci conferma anche Tarizzo 179, dovremo introdurre nell’intero ap-
parato logico e argomentativo hegeliano un controsenso. Dovremmo presupporre che
nelle due autocoscienze in lotta vi sia un conatus essendi, un impulso
all’autoconservazione di sé e che quest’ultimo in una delle due autocoscienze alla fi-
ne prevalga su quello che potremo chiamare un conatus dissolvendi, il conato della
dissoluzione e del consumo. In maniera recidiva Hegel sottolinea come entrambe le
autocoscienze in lotta incarnano la pura negatività, la negatività assoluta, oppure,
ancora «questo puro movimento universale, l’assoluto divenire fluido di ogni sussi-
stenza che è appunto l’essenza semplice dell’autocoscienza». Ciò non soltanto lo pre-
cisa nel caso delle autocoscienze in generale o in lotta, ma lo precisa proprio a propo-
sito della coscienza servile; ad un certo punto Hegel scrive che la «coscienza servile ha
tutto ciò in se stessa», dunque, non c’è traccia di un conatus essendi nelle due autoco-
scienze in lotta, non c’è una paura di perdere la propria sussistenza naturale.
Hegel non ci sta parlando del circolo della vita, ma, anticipando di gran lunga
Freud e la psicanalisi, qui ci sta descrivendo un orizzonte pulsionale e in parti-
colare della pulsione di morte (Todestrieb). Ad un certo punto uno dei due con-
tendenti, colui che diventerà il servo, prova l’angoscia per la totalità della sua
essenza, ma ciò non vuol dire cha ha avuto paura di perderla, anzi, il servo tre-
ma davanti al signore per una paura legata alla morte di sé. Nel servo ha furo-

179
D. Tarizzo, La Vita, un’invenzione recente, Laterza, Roma-Bari 2010.
84 Capitolo III

reggiato la paura non della morte naturale ma la paura della morte pulsionale,
del signore assoluto. Il servo cala la testa perché vive una esperienza molto più
sconvolgente della morte naturale. Lottando contro l’autocoscienza che divente-
rà il suo signore, il servo percepisce esplodere dentro di sé la pura negatività, in
cui rimane «catturato lui stesso fin nel suo più remoto recesso». La morte non è
qualcosa di eteronomo, qualcosa che proviene da fuori la sua essenza, ma spa-
droneggia, signoreggia, come una morte assoluta, ontologica, pulsionale. La
morte assoluta minaccia una delle due autocoscienze non come oggetto vivente,
naturale, ma come Desiderio. La morte assoluta penetra gradualmente
nell’essenza stessa della futura coscienza servile, durante la lotta, e scuote tutto
ciò che c’è di fisso in essa. Ciò che la futura coscienza servile intravede negli oc-
chi del suo futuro signore non è una morte minacciata ma una morte già reale,
che compenetra la prima durante il conflitto stesso. L’effettiva morte pulsionale,
ontologica, del Desiderio e la sua improvvisa e devastante irruzione nelle vesti
dell’assoluta negatività, di un repentino sprofondare dell’essenza ontologica nel-
la pura negatività 180, non è la banale vita naturale ma lo sciagurato e incontrolla-
to sconfinare della futura autocoscienza servile dalla sua intera essenza sino alla
sua essenza semplice.
La labilità del limes interno all’autocoscienza, tra l’intera essenza e l’essenza
semplice, è in Hegel la soglia tra ciò che è proprio e ciò che rimane estraneo a
qualsiasi pronome possessivo, il puro Sé, quella notte-del-mondo che ognuno di
noi scorge fissando nei recessi profondi degli occhi di colui che ci compare di
rimpetto. La notte-del-mondo è una morte spaventosa, racchiusa nel cuore stes-
so di ognuno di noi e che striscia come una bruciante frontiera tra la possibilità
temporanea di un sé concreto, singolare, dotato di un pronome possessivo e il
signore assoluto, il Sé di cui la futura coscienza servile ha fatto dentro di sé espe-
rienza già durante il conflitto. Lacanamente parlando è come se il futuro servo in
un’iperbole incontrollata della sua furia naturale uscisse di senno, uscisse da sé, per-
desse radicalmente ogni senso proprio, ogni senso di sé, l’autocoscienza di sé. Con la
resa delle armi da parte della coscienza servile Hegel rende all’Occidente la pri-
ma teoria pulsionale e il primo sguardo della lotta tra l’estraneazione,
l’esteriorizzazione, l’alienazione e il recupero di sé.

180
Detta da Hegel, anche, l’essenza semplice dell’autocoscienza.
La modernità del lavoro 85

Qualsiasi tipo di spiegazione della dialettica signoria-servitù con un’ottica e con


categorie appartenenti alla modernità classica, pre-critica, sarebbe inopportuna e
inappropriata, anche perché l’intero panorama ontologico post-kantiano non
riuscirebbe ad essere traducibile, ad esempio, con un linguaggio hobbesiano. La
scena hobbesiana della guerra di tutti contro tutti non è nemmeno di tipo biolo-
gica, ma addirittura zoologica e fondata sul conatus essendi per il quale il terrore
è la paura di perdere la propria vita naturale e la morale (come in Cartesio) è
una pura meccanica delle passioni in base alla quale ci si può giostrare tra le pos-
sibilità di perderla e quella di salvarla. Questo tipo di scenario è totalmente as-
sente e non può essere surrettiziamente inserito o ingenuamente applicato senza
correre il rischio di sventrare l’opera hegeliana.
Tornando alla battaglia tra servo e signore, ci chiediamo ora, cosa succede al
termine di essa? La coscienza che sta per rendere le armi perde completamente
la testa in una prima originaria estraneazione di sé, del Sé. La prossima coscien-
za servile aliena se stessa nel fragore di un eccesso d’ira, di collera, in una defla-
grante furia naturale, in cui non riesce più a distinguere se stessa dall’intero ciclo
della vita. Nel momento in cui l’equilibrio pulsionale decade, la futura coscienza
servile rimane un essere completamente inebetito, tutt’uno con la radicale auto-
negazione di sé. Alla condizione di quasi animale in cui la coscienza servile è ri-
caduta segue la grazia da parte del signore, il quale non lascia cadere la scure
proprio perché trova ciò che non ha mai realmente cercato e che nutre la radica-
le esigenza dell’autocoscienza, un’altra autocoscienza. Inoltre il signore dopo la
grazia la mette a lavoro, come una qualsiasi altra bestia da soma o cane da guar-
dia. Ciò che il signore d’ora in poi avrà davanti sarà, però, solo un’apparenza di
autocoscienza, una quasi animalità, un relitto umano, perfino incapace di desi-
derare.
Tornando alla terza operazione secondo la quale il servo lavora in opposizione alla
natura, lasciando così emergere l’alba della storia del mondo, l’ingresso dell’umanità
nel giorno spirituale del presente, Hegel sostiene che nel formare la cosa il servo co-
mincia a negare quella essenza estranea, quel puro negativo, quella estraneazione
pura di sé, l’alienazione assoluta del proprium davanti alla quale in precedenza
aveva tremato e si era annullato. Ora noi sappiamo che questa essenza estranea era
in effetti la stessa essenza della coscienza servile perché è proprio per la sua propria
essenza che ha tremato fino all’estremo sbigottimento. Il servo ha tremato in quel
momento davanti alla sua stessa essenza o per la sua stessa essenza, ma colta da lui
come un’essenza estranea. Orchestrando i due cardini della Fenomenologia dello
86 Capitolo III

spirito analizzati sin qui e l’intero processo di formalizzazioni che la trama sino a
questa fase, affermiamo che l’esperienza della morte assoluta di sé ha maturato
nella coscienza servile il sentimento puro di un’angoscia originaria,
dell’indistinzione assoluta tra il proprio e l’estraneo. Questo è importante per
comprendere bene cosa è il lavoro. È solo a partire dal terrore davanti alla morte
originaria di sé, del Sé, dalla esperienza sconvolgente della indistinzione tra ciò
che è estraneo e ciò che è proprio, dalla percezione di una prima confusione tra
ciò che è interno ed esterno, tra soggettivo ed oggettivo, che la coscienza servile
potrà fare leva col suo lavoro per ritrovare sé al di fuori di sé. Da quel momento
in avanti potrà avviarsi un processo di effettivo riconoscimento reciproco. Non
c’è dubbio che la figura servo-signore sia posta sotto il segno di una esigenza che è
quella del riconoscimento reciproco, il riconoscimento dell’autocoscienza da parte di
un’altra autocoscienza. Questo riconoscimento qualora divenga reciproco e assurga a
unità delle autocoscienze, esprime già il concetto stesso dello spirito, definito come un
Io che è Noi e un Noi che è Io; ora cosa significa riconoscimento e quando si realiz-
za? La lotta preistorica per il riconoscimento reciproco, all’interno della Feno-
menologia dello spirito, è portatrice di solo un’accezione dell’intera complessità
significativa dell’espressione tedesca Anerkennen; essa per Hegel è da definire
come formale e fenomenica, ovvero, quella di legittimazione. Quest’ultima non
è mai riportata all’interno della dialettica servo-signore, ma è indicativa per noi
del senso analitico con cui queste pagine e molte altre ancora 181 vengono compi-
late e dei processi costituenti e di legittimazione o di istituzione degli stati na-
zionali e delle sovranità politiche rivoluzionarie che in quegli anni si apprestava-
no a modificare le carte geografiche d’America e d’Europa. All’interno della Fi-
losofia del diritto Hegel scrive:
«L’inizio della Storia coincide con l’inizio della politica, ossia con la fondazione dello
stato. La Storia del mondo è una storia di popoli-stati che si alternano nel dominio del
mondo» 182,

181
Soprattutto della Filosofia del diritto e dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in com-
pendio.
182
G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto: scienza naturale e scienza dello stato,
tr. It. della Grundlinien der Philosophie des Rechts, a cura di Vincenzo Cicero, p. 349,
Rusconi Libri, Milano 1996.
La modernità del lavoro 87

ma la lotta guerriera per il riconoscimento, che precede la fondazione giuridica


dello stato, che precede l’evento della sovranità non è ancora un passo nella Sto-
ria del mondo ma è una lotta preistorica, che si svolge prima dell’inizio della Sto-
ria reale, è una lotta ancora esclusivamente formale 183, la cui importanza si deve
semplicemente dal fatto che da questa lotta scaturisce la fondazione dello stato e
l’inizio della storia reale. Su questo bordo si divide nuovamente la natura e la
storia, il ciclo della vita dal progresso del lavoro, biologia e umanità. All’interno
dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio Hegel scrive che la lotta per
il riconoscimento e la sottomissione a un signore è il fenomeno 184, l’apparizione, on-
de sorge la convivenza degli uomini come cominciamento degli stati. Hegel sottoli-
nea, immediatamente, che si tratta, però, di un inizio esterno e formale, appa-
rente. Il principio sostanziale degli stati sarà attivato solo con lo sporgersi dello
Spirito, dall’emergere dello Spirito, in un determinato popolo-stato. Una osser-
vazione cruciale da fare in questo passaggio è che la forza a fondamento di que-
sto fenomeno, di questo apparire, non è una Kraft che fonda lo stato di diritto
ma è una Gewalt. La Gewalt, in tedesco, indica una asimmetria, la prevaricazio-
ne di una parte su un’altra, una forza come violenza e nudo potere. Questo po-
tere è prima di quello giuridico e va assimilato a quell’accezione di riconosci-
mento, la quale si esaurisce nella banale ammissione di superiorità della signoria
sulla coscienza servile. In questo caso c’è semplicemente un capo che si china,
l’enigma di qualcosa di fenomenico, che appare in una rabbia cieca e inebetente.
Questo tipo di riconoscimento o di legittimazione iniziale coincide con la nega-
zione di una delle due autocoscienze considerate, la quale crudamente si riduce
ad essere un relitto umano, un quasi animale. Questo momento, anteriore al
diritto, è l’atto di fondazione della sovranità, è il fatto esclusivamente politico,
che inaugura una Storia fondata non sul sapere giuridico della signoria o della
coscienza servile o di entrambi o su un contratto o su un patto classicamente
stipulato tra soci ma a partire da una muta e originaria saggezza del servo. Lo
stato di potere politico e il suo riconoscimento precedono, dunque, la costitu-
zione dello stato di diritto e della sua sovranità, ispirata e regolata dalla sua legge
fondamentale e dall’architettura giuridica generale su di essa fondata.

183
Cioè priva di sostanza e contenuto etico.
184
Fenomeno come Erscheinung e non in senso kantiano.
88 Capitolo III

Da questo punto di vista Hegel ci sottolinea come l’ordinamento giuridico è so-


lo conseguente a una legittimazione e a un riconoscimento politico, il quale solo
poi si arricchirà di contenuti giuridici sul terreno di una sietlicheit. Lo stato di
cose politico non è figlio di un ordine o di un comando calato dall’alto di
un’autorità riconosciuta e legittimata come tale nel luogo di una sovranità costi-
tuita. Solo il signore può dare un comando e nel momento in cui non c’è anco-
ra un signore il primo è impossibile. L’evento politico non è nemmeno dovuto
all’atto coercitivo esercitato da una delle due autocoscienze sull’altra, in quanto
il riconoscimento o la legittimazione primaria segue solo a uno scenario di ob-
bedienza di cui chi cala la testa è l’unico attore. L’obbedienza della coscienza
servile scaturisce solo dall’atto che quest’ultima esercita da sé nella autonoma
negazione di sé, il cui esito è uno squilibrio interno tra il proprio senso proprio
e l’eclissi di sé e un’asimmetria fra due autocoscienze regolate da una superiorità
di una sull’altra promanata da un potere come Gewalt. A questo punto, quando
avverrà la piena legittimazione, il completo riconoscimento? Il riconoscimento
secondario avviene, secondo Hegel, quando siamo costretti a introdurre, per
quanto concerne il politico, l’espressione tedesca di uberzeugen 185. Nella Feno-
menologia dello spirito il concetto di uberzeugen è di importanza capitale, in
quanto nel suo enigma è racchiusa la dialettica del senso con cui il riconosci-
mento reciproco diviene pieno ed effettivo. Il riconoscimento reciproco viene
indicato da Hegel con un termine sinonimico, lo Spirito assoluto, in cui abbia-
mo ciò che, in relazione alla modernità negativa della morale kantiana, Hegel
nominava come versöhnung, riconciliazione, pacificazione. Da qui l’idea di
un’unità delle autocoscienze che si riconoscono e legittimano reciprocamente
non in base a un’asimmetria ma in base a una piena reciprocità simmetrica.
Nella fenomenologia il riconoscimento secondario è detto anche formalizzazione
della coscienzialità, das gewissen e momento dell’anima bella.
Hegel parla esplicitamente di uberzeugen, di convinzione e ci rende partecipi di
come questa figura della fenomenologia da una parte sia un sapere, il Sé come
movimento puro, dall’altra un’azione. Il punto sulla convinzione del sapere as-
soluto, su ciò che il sé sa, in quanto coscienza, gewissen, è il momento anche di

D. Tarizzo, Giochi di potere. Sulla paranoia politica pp. 101-107, Laterza, Roma-Bari
185

2008.
La modernità del lavoro 89

quella coscienza convinta di aver agito ogni volta a seconda del proprio dove-
re 186; in questo senso la coscienza è la convinzione di un sapere. Dall’altra parte
la convinzione è ciò che rende reale ed effettivo l’agire stesso della coscienza
(gewissen) e questo perché senza una convinzione questa stessa morale non sa-
rebbe tale e performativa. La convinzione è lo sfondo originario da cui il ricono-
scimento secondario si segrega e infatti è il punto in cui il dovere morale non si
contrappone più al sé di qualcun altro, come qualcosa di universale e di essen-
zialmente difforme dalla realtà. La morale di cui ci parla Hegel è un dovere ca-
tegorico, il principio di una volontà pura del volere, che come dover essere non
coincide mai a un essere, ma è sempre teso verso di esso. Questa morale è la
morale kantiana, la quale nella sua astratta e perentoria esigenza di universalità e
autonomia condanna il singolo, scrive Hegel, all’inazione, lo frena nell’atto stes-
so di un intervento attivo nel mondo. La coscienza morale kantiana schiaccia
sotto la purezza di un principio autonomo legiferante l’individuo, di cui la sfera
d’azione viene interdetta. L’inazione è distinta però dalla gewissen; nel momento
della gewissen il dovere non è più l’universale che si contrappone al sé, il dovere che
si contrappone a me in quanto agente, ormai si sa o si è convinti che in questo stato
di separazione il dovere non ha nessun valore. Qui Hegel pone sotto scacco la mo-
ralità kantiana e la invalida a partire dal regime folle che essa dipana. Ecco perché
ciò che è stato fatto con la convinzione del dovere è immediatamente qualcosa che ha
consistenza ed esistenza. La convinzione della gewissen, della coscienza, è in tal
senso il riconoscimento e la legittimazione reale di un atto compiuto e concreto;
di qui la coscienza è l’elemento comune delle autocoscienze, è la sostanzialità in cui
l’atto ha sussistenza e realtà, è il momento del venire riconosciuto. La coscienza co-
me convinzione è il momento del venire riconosciuto dagli altri non in base a
una legittimazione primaria, fenomenica e formale, apparente, che si attua con
l’atto di sottomissione cieca e ignorante, ma in relazione a un contenuto episte-
mico, di sapere, il quale concretizza il dovere morale nel singolo e determinato
atto. Hegel si chiede ora da dove trae la gewissen la propria convinzione? Come
fa la gewissen a essere convinta di sé e a permanere in questo stato? Cosa è la
convinzione o, almeno, di cosa è tramata la sicurezza, la certezza, della sua mo-
ralità?

186
Morale.
90 Capitolo III

Ciò che sorregge l’agire morale di una coscienza impegnata è l’elemento sinto-
matico di tutta la struttura fenomenologica dello spirito e cioè la convinzione
medesima. La convinzione è il punto in cui ogni sapere si scioglie da qualsiasi tipo
di conazione e condizione eteronoma. Essa, nella sua assolutezza, è la sigla sogget-
tiva dell’incondizionato, del sapere assoluto. La convinzione è il sapere assoluto, pro-
prio in quanto è già da sempre, per certi versi, qualcosa di riconosciuto; la moralità
dell’azione pone radici nell’eticità di un reciproco riconoscimento, che per He-
gel, è già dato a monte come qualcosa che ciascun individuo può solo ricevere.
In tedesco il verbo ricevere è espresso, anche, dal termine escutere, verbo con cui
si esprime l’azione dell’ascolto dei testimoni in un tribunale. In questo caso il
termine escutere deve il suo significato proprio all’orizzonte di senso a cui ap-
partiene e cioè non al tribunale della ragione kantiana ma a quello del processo
di erinnerung della filosofia hegeliana, in cui i testimoni della grande storia del
mondo vengono ascoltati. Escutere se stessi come testimoni del proprio tempo,
ed escutere la filosofia come il proprio tempo colto nel pensiero, è da intendere
in Hegel come il ricevimento di se stessi dentro un essere riconosciuto che è già
dato a monte. Non si pensi, afferma Hegel, di poter calcolare, misurare, la moralità
di un’azione perché l’essenza della coscienza consiste proprio nell’escludere un simile
calcolo, è nel decidere da sé. La convinzione ha la maestà inappellabile di una deci-
sione e nel frattempo esercita un valore e un potere al di là del vero e del falso e
al di la di qualsiasi disputabile soglia di critica. Con la convinzione noi siamo
dietro, a monte di qualsiasi tipo di contrapposizione di questo genere; se
l’asserzione di agire per convinzione del dovere sia vera è questione che non ha alcun
senso dal punto di vista della coscienza, della gewissen. Con la convinzione siamo
risaliti al di là di qualsiasi criterio galileiano e kantiano, di esattezza e di critica.
Per Hegel la gewissen non obbedisce a parametri scientifici e di sapere, ma, come
in Fichte, è la Sprache 187, la lingua di un popolo, la cultura storicamente confi-
gurata in un’eticità, nell’identità incarnata dalla viva voce degli individui di una
comunità. Nella maestà della sua elevazione la coscienza colloca qualsiasi contenuto
nel proprio sapere e volere simultanei. Essa è la genialità morale che sa, la voce inte-
riore del suo sapere immediato come voce divina 188 che trascende l’individuo 189; e

187
Che non è il linguaggio.
188
Divinità non in senso teologico ma nel senso di assoluto, di a sé.
189
Vedi la questione della religione.
La modernità del lavoro 91

poiché in questo sapere sa immediatamente anche l’esistenza, la genialità morale è la


divina forza creatrice nel cui concetto è insita la vitalità, la Lebenskraft, della vita
dello Spirito. Essa è anche il servizio divino 190 in se stesso, in quanto la sua azione è
l’intuizione della sua propria divinità, della propria assolutezza. A un tempo questo
servizio reso in solitudine è, essenzialmente, il servizio divino di una comunità,
nell’altro è il puro sapere interiore che sa se stesso, la pura ricezione di sé191.
L’ultima obiezione alla pura ricezione di sé come momento della coscienza e al
trionfo inappellabile della convinzione è quella dell’anima bella, la figura
dell’ostinazione (eigensinning). Nella Fenomenologia dello spirito l’anima bella è
l’ultimo rivolgimento diabolico capace di ricondurre all’interno della singola
soggettività lo spaesamento inaugurato dalla forza dell’esteriorizzazione,
dell’estraneazione, dell’alienazione dello Spirito dal suo senso proprio. Se il mo-
vimento della convinzione è il momento della pura ricezione di sé, attraverso la lin-
gua e la comunità, ed è il momento di quel riconoscimento reciproco che, in realtà,
non va nemmeno cercato in quanto già da sempre acquisito, il momento dell’anima
bella è il momento in cui a questa esteriorizzazione di sé l’individuo oppone ostina-
tamente l’estrema, l’ultima, non verità della convinzione. Tutto si gioca sul confine
abissale e non rintracciabile tra la verità e la non verità della convinzione di questo
misterioso concetto. Verità e non verità possono e in un certo senso devono convertirsi
l’una nell’altra. Nel momento del trionfo della convinzione, dove la coscienza
sprofonda nella massima sovranità dell’assoluto sapere di sé e dove fa e disfa ciò
che esiste, lascia rovinare il reale in se stesso, affermava Hegel che la certezza as-
soluta in cui si è risolta la sostanza, la certezza assoluta della convinzione in cui si
è risolta la sostanza 192, è la non verità assoluta, il punto misterioso in cui il sapere
assoluto è il sapere assoluto di una non verità assoluta. La convinzione è la non
verità assoluta che sprofonda in se stessa, un sospiro struggente che non fa che
smarrirsi e che al di là del suo smarrimento non fa altro che ricadere in sé, e ritro-
varsi come smarrimento 193. Questo è lo stato di purezza dell’anima bella, la coscien-
za infelice, che si affievolisce e guarisce in sé. L’anima bella è imprigionata nel suo

190
Vedi la coscienza servile.
191
Inizio della sessione della Fenomenologia dello spirito sulla religione.
192
La soggettività.
193
Qui Hegel richiama anche al sapere della vacuità di Schelling e allo smarrimento che
esso induce.
92 Capitolo III

struggimento, nell’obiezione di una assoluta non verità della convinzione. Qui la


coscienza diventa giudicante e condanna severamente, ostinatamente, ogni co-
scienza agente, la quale a questo punto è minacciata dallo spettro dell’inazione.
Ogni anima bella, nel nome dell’assoluta non verità di ogni convinzione morale,
mette in dubbio il valore di legittimità, di sovranità, della convinzione; questa
volta l’anima bella non solo pone in dubbio la verità della convinzione come sa-
pere ma, anche, la sincerità della sua moralità. La coscienza giudicante, nelle ve-
sti di una irrefrenabile e inamovibile anima bella, per quanto sia consapevole di
appartenere a una sprache condivisa e riconosciuta e per quanto sappia che
l’inazione stessa implica una scelta e una convinzione a capo, condanna ogni
azione in nome della sua inevitabile ipocrisia. Secondo Hegel la coscienza agen-
te potrà anche provare ad ammorbidire il cuore scettico della coscienza che si
limita al solo giudizio, rivolgendole contro i suoi stessi argomenti e i suoi stessi
contraddittori paralogismi, ma ciò che al massimo otterrà di accettabile non sarà
altro che lo spazio di un’attesa, la promessa di una risposta e di un riconosci-
mento reciproco. L’attesa per Hegel finisce solo con un atto 194 privo di qualsiasi
contenuto scientifico e morale; esso è l’atto del reciproco perdono tra autoco-
scienze, l’atto del riconoscimento pieno e secondario.
Ricapitolando, il riconoscimento prevede due fasi: in un primo tempo la co-
scienza agente, cercando una legittima riconciliazione, confessa la sua ipocrisia
all’anima bella, dimostrando, al contempo, che anche lo stesso giudizio negativo
è suscettibile della stessa condanna. La seconda fase è quella che segue
all’intransigente, del carattere sempre uguale a se stesso, mutismo di chi sta sul-
le sue e non cala la testa di fronte a nessuno; essa è la pazzia dell’anima bella,
che esce letteralmente di sé sotto il peso di una costruzione nostalgica e depone
le armi, si arrende alla potenza dello spirito, le cui ferite guariscono senza lascia-
re traccia. Parafrasando il Tarizzo di Giochi di potere, così come la Storia era ini-
ziata al termine della battaglia tra il servo e il signore, allo stesso modo lo Spirito
ritrova se stesso al termine del percorso nell’estraneazione da sé. L’estraneazione
estranea lo Spirito da se stesso, estranea l’uomo dalla sua umanità, fino al punto in
cui lo stesso si riconcilia con sé medesimo sulla base di una non riconciliabile eccen-
tricità. L’unico atto che l’uomo possa compiere, a questo punto, è ben diverso dal co-

194
«il vero essere dell’uomo è il suo atto».
La modernità del lavoro 93

nosci te stesso, quel conosci te stesso che si è avvicendato da Socrate a Kant e che da
Kant in poi diventa un imperativo inapplicabile. L’unico atto che resta da compie-
re, e che è il medesimo atto che sprigiona il sapere assoluto di Hegel, è un perdona te
stesso.
La fenomenologia dello spirito termina come ogni terapia psicanalitica
nell’accettazione da parte del paziente dell’impossibilità di aderire al Super-Io e
delle lacerazioni che quest’atto comporta. Il perdono è la possibilità stessa di un
nuovo cammino, di un nuovo inizio nel solco di una propria convinzione. La
fenomenologia dello Spirito, in ciascun momento, è la differenza tra il sapere e la
verità, ed è il movimento in cui la differenza rimuove se stessa, oltrepassa se stessa;
ciò vuol dire che il movimento di aufhebung della differenza tra sapere e verità,
il passaggio di figura in figura è necessario e cogente, mantiene il negativo, non
termina mai in una episteme, in un sapere colto nel pieno di sé, nella sua ogget-
tività 195, ma si mantiene in una tensione continua all’oggettività, in una tensio-
ne priva di contenuto e determinazione, la quale è in ultima istanza l’incessante
lavoro del negativo, il continuo calvario del Concetto che pone e toglie ripetu-
tamente la differenza tra sapere e verità. Cosi scrivendo Hegel non solo perdona
Kant e i moderni, ma anche la modernità classica e addirittura Dio di non aver
potuto incarnare la semplice identità tra sapere e verità. A differenza
dell’illuminismo kantiano quello storico accetta tutte le sue lacerazioni e perdo-
na le contraddizioni della coscienza, spingendo l’umano a compiersi pur rima-
nendo sempre non pacificato.

195
Come accade nel galileismo.
94 Capitolo IV

Capitolo IV. La modernità della vita

Successivo a Kant e secondo nella triade dell’idealismo tedesco, Friedrich Wi-


lhem Joseph Schelling riprese l’eredità kantiana rielaborando l’autonomia da un
punto di vista non solo critico ma, anche, naturale. Le sue lunghe indagini si
svilupparono lungo una determinata traccia teoretica, contenuta all’interno di
tre scritti fondamentali, ovvero: Nuova deduzione del diritto naturale 196(1); Criti-
cismo e idealismo. Rassegna generale della letteratura filosofica più recente197(2); Si-
stema dell’idealismo trascendentale 198(3). Nel paragrafo 9 dell’ (1) 199 Schelling af-
fermava che la vita era l’autonomia nel fenomeno, lo schema della libertà che si
rilevava nella natura. Questo era un concetto di vita che Schelling foggiava, co-
me vedremo, in maniera più completa nel (2), in cui si sottolineava, tra le altre
cose, la grande meraviglia suscitatagli in relazione a questo nuovo concetto di
vita. A partire dal paragrafo 1 dell’(1), Schelling discuteva della rivendicazione,
da parte della volontà, del primato della ragione pratica sulla ragione teoretica.
Da come si può comprendere, la Critica della ragion pura era già di per sé una
Critica della ragion pura pratica, della volontà autonoma kantiana che tracciava
un limite tra l’intelletto che conosceva e la ragione che formulava idee. Il prima-
to della ragion pratica era definito da Schelling, direttamente, come il primato
della libertà e la libertà era definita come l’incondizionato, vale a dire in Schel-
ling, l’assoluta autonomia del nostro volere. Fin qua siamo ancora entro il pen-
siero di Kant, come quello dello stesso Fichte, ma a partire dall’(1) Schelling si
staccava da Fichte, elaborando una propria teoria, dove affermava l’assoluta au-
tonomia del nostro volere. Nel paragrafo 2 dell’(1) Schelling scriveva:

196
F. W. J. Schelling, Neue Deduktion des Naturrechts, 1796; in Id., Lettere filosofiche su
dommatismo e criticismo, Laterza, Roma-Bari 1995.
197
F. W. J. Schelling, Allgemeine Übersicht der neuesten philosophischen Literatur, 1798;
tr. It. Criticismo e idealismo. Rassegna generale della letteratura filosofica più recente, Later-
za, Roma-Bari 1996.
198
F. W. J. Schelling, System des transzendentalen Idealismus, 1800; tr. It. Sistema
dell’idealismo trascendentale, Rusconi, Milano 1997.
199
Di cui ci interesseranno esclusivamente i paragrafi dal primo al nono, poiché dopo di
essi Schelling entrerà nel merito del tema dell’opera, la Filosofia del diritto.
La modernità della vita 95

«Se io dovessi realizzare l’incondizionato, esso dovrebbe cessare di essere un oggetto per
me».
Sul piano della ragione teoretica l’oggetto era solo l’oggetto della conoscenza 200.
Solo sul piano della ragione pratica 201 Schelling poteva realizzare
l’incondizionato (das Unbedingte), cioè l’assoluta autonomia come qualcosa che
era identico con me stesso, che non era condizionato da tutti gli schemi, cioè
non era eteronomo. La conoscenza era la conoscenza eteronoma di un oggetto.
Al paragrafo 3 dell’(1) Schelling, parafrasando Kant e lo stesso Fichte, prosegui-
va scrivendo:
«Sii! 202 Nel più alto significato della parola; cessa di essere fenomeno; tendi a diventare
un essere in sé! Questa è la più elevata esigenza di tutta la filosofia pratica».
Sulla base dello schema mentale che contrapponeva autonomia ed eteronomia
diciamo che la volontà autonoma era l’astrazione della soggettività da ogni trac-
cia empirica, sensibile e fenomenica. Se fin qui era tutto chiaro, le novità inizia-
vano ad apparire nel paragrafo 4 dell’(1):
«Se tu sei un essere in sé, nessuna forza contrapposta può mutare la tua condizione, né
alcuna forza può limitare la tua libertà. Aspira perciò a diventare un essere in sé, a essere
assolutamente libero, aspira ad assoggettare alla tua autonomia ogni forza eteronoma,
aspira ad allargare attraverso la libertà la tua libertà, alla forza assoluta illimitabile».
Questo testo contiene una tensione tra la nostra autonomia e la forza eterono-
ma, una forza esterna, la quale sceglie e definisce una forza assoluta e illimitabi-
le. Da un lato Schelling scriveva che questa forza era assoluta e illimitabile, era la
forza delle cose e dall’altro c’era la forza dell’autonomia, la libertà,
l’incondizionato. Come conciliare questa tensione 203, questa distensione tra au-
tonomia ed eteronomia, questa contraddizione tra il mondo del noumeno e il
mondo del fenomeno? Bisogna imporre un atto di volontà 204, comandarsi 205 di

200
Cioè l’oggetto della ragione teoretica.
201
Di cui prima Schelling ha rivendicato il primato, il primato del mio volere autono-
mo e pratico su quello puro e teoretico.
202
Imperativo del verbo essere.
203
Dal tedesco Streben, tendere.
204
È per questo motivo che Schelling scrive in prima persona.
205
Dal tedesco Gebolt, comando.
96 Capitolo IV

essere l’incondizionato, obbligarsi di assoggettare la forza esterna. Proseguendo


al paragrafo 5 dell’(1) Schelling scriveva che:
«Questo comando 206 è incondizionato, perché esige un incondizionato. Dunque anche
il tendere che esige» che l’eteronomia sia assoggettata alla volontà, ovvero, questo co-
mando, «l’incondizionato deve essere incondizionato, deve cioè dipendere solo da se stes-
so, e non deve essere determinabile da alcuna legge estranea».
Questo comando è un proclama, diceva Schelling, un proclamare l’autonomia.
Il proclama della volontà autonoma nel paragrafo 6 riaffermava la purezza e
l’autonomia della volontà medesima. Scriveva Schelling:
«Se io dovessi dominare sul mondo degli oggetti, anche in esso non si rivela altra causa-
lità che la mia, mi proclamo signore della natura, ed esigo che essa, la natura, sia deter-
minata dalla legge della mia volontà. La mia libertà ricatta ogni oggetto nei limiti del
fenomeno, e vi trascrive le leggi; soltanto all’individualità, soltanto al sé dell’autonomia,
al sé stesso dell’autonomia spetta autonomia. Tutto ciò che non è questa individualità,
tutto ciò che può diventare oggetto è eteronomo, il mondo è la mia proprietà morale».
Questa conclusione era ispirata da una chiara matrice kantiana e con essa com-
prendiamo come era ancora presente questa contrapposizione tra una forza ete-
ronoma, la forza del fenomeno, e la forza dell’autonomia, la quale era la forza
noumenica, la forza della libertà. Non c’era risoluzione di questa tensione, c’era,
semplicemente, il fatto che l’autonomia si riconosceva come forza propria, come
forza volta ad impattare contro una forza estrema. La libertà era questo tendere,
questo sforzarsi di essere autonomi 207, era l’astrazione costante dal mondo fe-
nomenico. Da questo punto di vista qual’era il canale attraverso il quale
l’autonomia risucchiava il mondo del fenomeno, dell’eteronomia, e lo assogget-
tava? Vi doveva essere un canale dalla libertà noumenica al fenomeno, dal nou-
meno della pura volontà al fenomeno del mondo dei dati sensibili 208. Nel para-
grafo 8 dell’(1), il paragrafo che anticipava il concetto di vita e di autonomia nel
mondo, Schelling scriveva che: se io dovessi dominare il mondo dei fenomeni e
reggere la natura secondo leggi morali, le leggi dell’autonomia, questa causalità
dovrebbe, allora, rivelarsi 209 attraverso la causalità fisica. Ora, la libertà in gene-

206
Il comando dell’autonomia.
207
Lo schema schellinghiano qui è lo stesso schema kantiano.
208
I quali rispondono ciecamente a leggi causali, a nessi di causa ed effetto.
209
Dal tedesco sich offenbaren.
La modernità della vita 97

rale si poteva proclamare soltanto mediante l’originaria autonomia. Questa cau-


salità fisica, di riflesso, sebbene era eteronoma secondo l’oggetto, ossia determi-
nabile solo per mezzo di leggi naturali, secondo il suo principio doveva essere
tuttavia autonoma, cioè non doveva poter essere raggiunta per il tramite di alcu-
na legge naturale. Essa deve unire in sé autonomia ed eteronomia.
Questa causalità fisica, per Schelling, doveva essere una forza di causalità nella
quale l’autonomia si manifestava, una forza fisica in cui l’autonomia si esercitava
nei nessi di causa efficiente del mondo fenomenico 210. Se partissimo dallo
schema kantiano, questo ragionamento non farebbe una grinza, soprattutto in
relazione a quanto detto sul dover essere di quel canale, di quel passaggio, tra il
noumeno e il fenomeno. La soglia critica tra questi due estremi era per Schelling
la vita stessa. La vita era l’autonomia nel fenomeno, ragion per cui la causalità
doveva allora rivelarsi come questa causalità che dominavo. Se io dovessi domi-
nare nel mondo dei fenomeni, questa sovranità dovrebbe, allora, rivelarsi attra-
verso una causalità fisica. La libertà in generale si poteva proclamare 211, afferma-
re, solo mediante l’originaria autonomia. La causalità fisica in questione, sebbe-
ne era eteronoma secondo l’oggetto 212, per Schelling, doveva essere determinabi-
le solo per mezzo di leggi morali nella natura, leggi di autonomia nel fenomeno.
La volontà, a questo punto, si innestava nei nessi di causa efficiente; tuttavia,
questa causalità pura, per il principio su cui si fondava 213, non poteva essere rag-
giunta nella sua fonte da alcuna legge naturale. La volontà doveva unire in sé
autonomia ed eteronomia. Per Schelling se l’autonomia, la volontà pura, avesse
dovuto proclamarsi, affermarsi al mondo, essa non avrebbe dovuto voltargli le
spalle, ma avrebbe dovuto proclamarsi nella fenomenicità. Pertanto ci doveva
essere un canale tra la libertà dell’autonomia e la necessità naturale dei fenomeni
eteronomi, fenomeni che, aderendo allo schema kantiano, seguivano, obbediva-
no, sempre in maniera forzata e meccanica, a nessi di causa efficiente. Ci doveva
essere, per Schelling, un canale, una causalità fisica, in cui il dover-essere morale

210
Qui la volontà entra nel fenomeno, quindi si spuria, diventa qualcosa di non assolu-
tamente svincolato, diventa qualcosa di visibile.
211
Dal tedesco kündigen.
212
Perché è una volontà che agisce nella fenomenicità.
213
Principio che non può essere raggiunto in alcun modo sino alla sua origine ultima.
98 Capitolo IV

scavava nell’eteronomia e si imponeva alle leggi di causa efficiente; per queste


ragioni al paragrafo 9 dell’(1) il filosofo dell’idealismo tedesco scriveva:
«Questa causalità si chiama vita. La vita è autonomia nel fenomeno, è lo schema della
libertà, in quanto si rivela nella natura». Io che proclamo la mia autonomia «divento
perciò, necessariamente, essere vivente» 214.
Per Schelling era la mia vita che radicava l’autonomia nel mondo del fenomeno.
Dunque il sé dell’autonomia era definito secondo questa deduzione, come il vi-
vente 215. La vita era l’espressione nel fenomeno dell’autonomia. Per quale ragio-
ne Schelling affermava ciò? Come scriveva Kant nella III Critica, quando ci tro-
vavamo di fronte un albero e osservavamo tutte le fasi del suo ciclo di crescita,
eravamo portati a considerare che questi fenomeni non corrispondevano a nessi
di causa efficiente, a vincoli e a forze fisiche; ciò perché l’autonomia non poteva
essere irreggimentata in questo schematismo. Nella (2) Schelling sviluppava
questo percorso e scriveva che:
«È quindi evidente che sia la filosofia teoretica, sia la filosofia pratica di Kant, fossero
ugualmente prive di fondamento e incomprensibili se non fossero derivate da un unico
principio, quello dell’originaria autonomia dello spirito umano» 216.
Sottolineato, da parte di Schelling, che Kant era l’architetto dell’autonomia, ci
chiediamo ora: a che proposito Schelling incominciava a parlare nella (2) di spi-
rito. Lo spirito in Schelling, come in tutto l’idealismo tedesco, era la volontà, il
volere puro e originario dei moderni, l’autonomia descritta e testimoniata nel
giudizio e nella morale kantiana. Lo spirito, autodeterminandosi, si definiva
come puro volere e libertà, come autonomia. Era solo per il fatto di volere che
lo spirito era un volere, ed era solo perché esso voleva se stesso che egli era puro
e autonomo. Il volere era un sinonimo della libertà che si autodeterminava, che
rifletteva se stessa.
«Questa autodeterminazione dello spirito si chiama volere. Lo spirito vuole, ed è libero.
Del fatto che esso voglia non si può fornire un fondamento ulteriore. Infatti, proprio
perché questa azione accade puramente e semplicemente, essa è un volere […]. È questa

214
F.W.J. Schelling, 1798, p. 90.
215
Questa vita è una vita soggettiva, di un soggetto. Senza questa soggettività, che Schel-
ling proclama, non ci sarebbe un nuovo concetto di vita.
216
F.W.J. Schelling, (2), p. 57.
La modernità della vita 99

l’azione che cercavamo fin dal principio, l’azione che unisce la filosofia teoretica e la fi-
losofia pratica. Di questa azione non si può fornire alcun fondamento ulteriore, perché
lo spirito è solo per il fatto che vuole, e conosce se stesso solo per il fatto che determina
se stesso. Oltre questa azione non possiamo andare, e perciò essa è a buon diritto il prin-
cipio del nostro filosofare. Lo spirito è un volere originario» 217.
Ora dov’era che lo spirito, per Schelling, si ritrovava, si determinava, in quanto
volere originario? Si ritrovava, per forza di cose, nella natura e in questa natura
trasfondeva la soggettività del volere. La filosofia schellinghiana era, dunque,
una teoria dell’identità di natura e spirito, una metafisica della vita. Su questa
scia:
«Lo spirito deve intuirsi come oggetto che ha in sé un principio di movimento interno. Un
tale essere si chiama vivente» 218.
A questo punto, in questi passaggi, il proclama dell’Io, della soggettività umana
che si riconosceva vivente non era più legata alla Nuova deduzione al diritto na-
turale, ma il discorso incominciava ad allargarsi; infatti, ogni oggetto che aveva
un principio di movimento interno autonomo, si organizzava, cresceva, si determi-
nava e in esso lo spirito si manifestava, si esprimeva come vita. Nella natura Schel-
ling testimoniava che vi erano più gradi del vivente, più gradi di vita, a seconda
di quanta autonomia il vivente riusciva ad esprimere; c’erano cioè dei gradi
dell’organizzazione, una gradualità attraverso la quale lo spirito si avvicinava a se
stesso; ciò perché? Cosa era più propriamente lo spirito? Lo spirito era
l’autonomia, ciò che si rivelava alla superficie del fenomeno, il controllo com-
piuto dal volere autonomo, originario, che determinava se stesso increspando,
sbalzando, attraversando la superficie del fenomeno. Questo principio di movi-
mento interno era un principio di organizzazione autonoma, dove la vita e il
paesaggio della vita diventavano il processo stesso di auto-organizzazione del vi-
vente, un sistema auto-poietico, auto-organizzato. All’interno del Sistema
dell’idealismo trascendentale, Schelling distingueva una serie di gradi dell’auto-
organizzazione e di conseguenza un nuovo concetto di vita. In una nota appor-
tata da Schelling, all’interno di quest’ultimo scritto, si diceva:

217
«Ein ursprüngliches Wollen», F.W.J. Schelling, (2), pp. 54-55.
218
F.W.J. Schelling, (2), pp. 47-49.
100 Capitolo IV

«Questo concetto di vita è totalmente nuovo alla storia del pensiero, ed è un concetto di
vita che è distinguibile in noi, e quindi un concetto applicabile molto facilmente ai fe-
nomeni della vita […]. È un concetto di vita utile, lo si può usare in scienza, è una cate-
goria, è un concetto denso che si può utilizzare facilmente per i fenomeni vitali; i pro-
cessi vitali come processi di auto-organizzazione di esseri autonomi, che sono i viven-
ti» 219.
In altre parole la filosofia di Schelling era una filosofia trascendentale del viven-
te. Quali sono le caratteristiche della vita, del nuovo concetto di vita, che Schel-
ling scriveva di aver inventato? La prima caratteristica era quella che esprimeva
l’esistenza stessa della vita come un’istanza autonoma dalle sue forme finali o vi-
tali. La vita era una pura forza, un fenomeno di auto-organizzazione rispetto al
quale, all’interno del quale, tutte le forme vitali, i viventi, si esprimevano. La
seconda caratteristica era quella secondo la quale la vita era un eterno progresso, un
processo eterno che conosceva dei gradi, dei livelli di vita, direttamente propor-
zionali all’autonomia del vivente, all’auto-affermazione della vita in sé stessa. La
vita progrediva, si auto-organizzava, rispetto a questa scala naturale, sino a rag-
giungere la vetta della natura 220, il massimo gradiente di volontà di vita. La terza
caratteristica della vita schellinghiana era la sua deficienza. Se la vita fosse stata il
continuo sforzo dell’auto-organizzazione, dell’autoformazione, la vita non
avrebbe raggiunto mai una forma definitiva. La vita era sempre alla ricerca di se
stessa e in questo processo si avvitava costantemente su se stessa come la volontà
kantiana, che, attraverso l’imperativo categorico, si piegava nell’autonomia di sé,
del Sé. Come in Kant la vita schellinghiana era condannata a un dover essere
difettivo, deficiente 221, volto per questo a una sfera di perfettibilità. Nel (3)
Schelling ripartiva dalla definizione di volere primordiale, di volere originario,
inteso questa volta non in termini di Geist ma di intelligenza. Il volere era intel-

219
F.W.J. Schelling, (3), p. 49.
220
L’uomo.
221
Nelle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti ad essa connessi
(Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit und die damit
zusammenhängendem Gegenstände), opera del 1809, questo concetto di deficienza mora-
le si trasformerà in una vera malattia ontologica. Questo perché in Schelling si radicaliz-
zerà fortemente la specularità tra facoltà morale e vita, sino a far divenire il difetto mora-
le una malattia organica.
La modernità della vita 101

ligenza, l’equivalente dello spirito dentro la natura. L’intelligenza 222 a questo


punto era organica, l’infinito sforzo di organizzazione graduale e progressivo
dello spirito nella natura. Alla fine del Settecento, all’interno di questo sistema,
per descrivere modernamente il progressivo organizzarsi della natura in viventi
sempre più complessi e autonomi, Schelling introduceva per la prima volta in
filosofia la nozione di evoluzione (Evolution) degli esseri organici.
«L’intelligenza è uno sforzo infinito ad organizzarsi» secondo «una sequenza di gradi
[…]. Tale sequenza dei gradi di organizzazione designa unicamente differenti momenti
dell’evoluzione dell’universo. Allo stesso modo in cui tramite la successione
l’intelligenza si sforza 223 costantemente di rappresentare la sintesi assoluta, così la natura
organica apparirà costantemente in cerca affannosa dell’organismo universale e in lotta
contro una natura inorganica» 224.
In questa ricerca affannosa la natura organica lottava contro una natura inorga-
nica 225, ma ciò cosa comportava? Questo ritorno in sé della vita, cioè
l’appropriazione di sé della vita nella sua autonomia, doveva impattare sempre
contro qualcosa di eteronomo, inorganico. Questa resistenza all’infinita orga-
nizzazione organica rendeva la vita continuamente in difetto, e il vivente costan-
temente malato. Da questo punto di vista per Schelling
«Il carattere fondamentale della vita, in particolare, consisterà nel suo essere una sequen-
za che ritorna in se stessa 226, fissata e mantenuta da un principio interno 227; e così come
la vita intellettuale, di cui è l’immagine, ossia l’identità della coscienza, viene mantenuta
unicamente dalla continuità delle rappresentazioni, altrettanto la vita può essere mante-
nuta solo dalla continuità dei movimenti interni; e così come l’intelligenza, nella succes-
sione delle sue rappresentazioni, lotta costantemente per la coscienza, la vita similmente

222
Dal tedesco Intelligenz.
223
Dal tedesco strebt.
224
F.W.J. Schelling, (3), pp. 331-335.
225
Vedi l’analogia con il dualismo kantiano tra autonomia ed eteronomia, che adesso
incomincia ad assumere la forma di una contrapposizione tra l’organico e l’inorganico.
Il mondo, la natura, è visto da Schelling come un grande organismo, volto all’auto-
organizzazione, graduale e progressivo, penetrato d’intelligenza.
226
Vedi la metafisica kantiana della volontà.
227
Il principio dell’autonomia.
102 Capitolo IV

deve venir pensata in un conflitto permanente contro il corso della natura, o nello sfor-
zo di affermare contro di esso la sua identità» 228.
Seguendo lo schema precedente, se la vita fosse stata un processo di organizza-
zione autonoma, vi sarebbe dovuto essere sempre un materiale da organizzarsi,
del materiale su cui la forza dell’autonomia agiva. L’idea che la vita lottava non
era un’idea così scontata, era un’idea estranea al pensiero sia scientifico che filo-
sofico. Nella lotta per l’affermazione di sé perché l’intelligenza lottava con la co-
scienza? L’intelligenza lottava con la coscienza proprio in quanto lottava contro
la discontinuità e la mediazione della stessa. La vita, per Schelling, non era nella
discontinuità, nella mediazione, ma nella dinamica ontologica in cui la vita, la
volontà autonoma, era potenza. Nell’uomo, la vetta della natura, vita e volontà
si incontravano e si incrociavano in un senso paradossale. Nell’uomo si raggiun-
geva sia la massima intensità del processo di auto-organizzazione, della natura
universale (o vita), sia la massima indeterminazione della natura umana.
L’uomo era non solo l’essere più organico ma anche l’essere più inorganico, e
ciò perché era l’essere in cui brillava maggiormente l’indeterminazione della vi-
ta. La vita, come natura universale della vita, nell’uomo scricchiolava, si sgreto-
lava, nella sua organicità sotto il peso della sua forza pura. Ragion per cui
nell’evoluzione di una storia naturale l’uomo differiva dagli altri viventi non so-
lo in quanto massima espressione dell’autonomia organica, espressione svincola-
ta e priva di qualsiasi vincolo di scopo, che invece stabilizzava e definiva gli esse-
ri inferiori, ma anche perché in esso la vita era pura indeterminazione, una pura
forma della finalità, una finalità senza scopo o semmai finalità in sé (del Sé).
Nell’uomo il processo stesso della natura si bucava e, invece di chiudersi nelle
forme finali di vita di una ontologia statica, rendeva visibile, nel suo più alto
grado di astrazione dalle forme di vita, una ontologia dinamica della vita. Ciò
vuol dire che l’uomo era il ponte in cui si intersecavano nel segno
dell’autonomia i due piani della volontà e della vita. Quest’ultima però non era
una buona notizia per l’uomo; e infatti, come scriveva lo stesso Schelling, «Ogni
pianta è interamente quel che deve essere», il principio del movimento interno
della pianta mette capo sempre a una certa forma ed è necessaria. Quindi ab-
biamo precedenza di libertà e necessità. C’è un movimento interno libero ma

228
F.W.J. Schelling, (3), p. 339.
La modernità della vita 103

racchiuso nella forma finalità. L’uomo è un eterno cambiamento, l’uomo è di-


sorganizzazione, l’uomo è il punto fallimentare della natura in cui affiora la vita
in quanto tale229.
Tutto questo perché l’uomo era libero, era il punto in cui la vita si manifestava
come libertà, si rendeva visibile nella sua massima astrazione, come pura auto-
nomia e questa libertà non obbediva a nessun profilo fenomenico. L’uomo inte-
so come genere naturale, specie specifica, era scisso da sé e lo era proprio in
quanto in esso si manifestava l’assoluto. Cos’era l’assoluto in Schelling?
L’assoluto era la totale identità di intelligenza e di natura, come l’uomo era il
segno dell’assoluta autonomia, il punto in cui il mondo naturale, il mondo fe-
nomenico, si indeterminava, si sgretolava, non obbediva più a schemi prefissati,
era il punto in cui affiorava la pura forza della volontà. A questo punto l’uomo,
in cui si manifestava l’assoluto, diventava un essere progressivo, la vetta in cui la
natura come progressione affiorava. Nell’uomo la natura, come processo di au-
to-organizzazione infinita, era il fulcro in cui la natura si traduceva in storia na-
turale. Questa progressione della storia naturale non apparteneva solo al singolo
individuo, al singolo che proclamava se stesso 230, ma apparteneva alla specie
umana come genere naturale. Tutte le mie azioni, secondo Schelling, tendevano
verso il loro fine ultimo, a qualcosa che non era realizzabile dal solo individuo
ma dalla specie intera. L’uomo aveva come suo fine la libertà, ovvero la finalità
senza scopo, la pura forma della finalità. La finalità senza scopo era una volontà
acefala e irraggiungibile, per cui sul piano morale la storia della natura umana,
dell’umanità, era convalidata come una cosa che non avrebbe mai avuto fine,
un’idealità 231, un ideale assoluto proiettato nella distanza storica di una deter-
minazione inafferrabile. Mentre sul piano naturale, della vita organica, avevamo
un uomo volto a una enigmatica “Grande Salute”.
«L’uomo è ammalato, organicamente, naturalmente ammalato» 232.

229
Anche in Darwin l’uomo sarà un eterno fallimento, fondamentalmente inconcluso. Esso
sarà il punto in cui la vita si manifesta nella sua totale incompiutezza, un puro processo.
230
Come nella Nuova deduzione al diritto naturale.
231
E da qui nasce il (3).
232
Tale enunciato sembrerebbe una cosa da poco, ma ha invece una portata enorme su
tutto il pensiero successivo, da Schelling a Sartre. Il concetto dell’uomo come eterno
frammento sarà il concetto base su cui verranno elaborate diverse nozioni negative e po-
104 Capitolo IV

Il sentimento della malattia proveniva dall’identità tra l’intelligenza e il suo orga-


nismo. Al contrario il sentimento 233 della salute era la sensazione del totale smar-
rimento dell’intelligenza nell’organismo. Se il sentimento della salute poteva es-
sere scontato nelle forme di vita animali e vegetali, questo non poteva essere nel-
la specie umana; in quest’ultima avevamo il verificarsi di un vero e proprio im-
passe della natura, un buco da cui l’Assoluto poteva affiorare nella sua identità
ma rifuggiva ogni tentativo di essere definito. Nel caso dell’uomo c’era quello
che Schelling chiamava un aufhebung dell’identità tra l’intelligenza e
l’organismo. Questo aufhebung era definito da Schelling con il sentimento della
malattia, l’uomo era un eterno frammento, una eterna contraddizione. Che
l’uomo fosse stato un’eterna contraddizione fu l’enigma dell’uomo;
«Se l’enigma si potesse svelare, vi potremmo riconoscere l’odissea dello spirito, che mi-
rabilmente ingannato, rifugge se stesso nell’atto di ricercarsi» 234.
L’odissea dello spirito fu un’espressione tecnica di Schelling ed esprimeva molto
bene come la pura finalità senza scopo poteva essere l’enigma stesso di una vo-
lontà come autonomia. La volontà autonoma in Kant era il continuo processo
di avvicinamento a se stessa su se stessa, nella propria autonomia, nell’astrazione
dal fenomeno di un principio ontologico. In Schelling e nell’identità del Sé con
la natura la vita diveniva la costante odissea dello spirito. Cosa interessante da
osservare è come l’idea di libertà era speculare a quella di salute. Sul piano mo-
rale della volontà la libertà diveniva l’assoluta autonomia, l’infinito processo
dell’uomo verso la propria universalità. Sul piano del vivente 235, della vita, ciò
che veniva a occupare il posto della libertà era la salute. La salute diventava
l’ideale che l’uomo, come specie, rincorreva, inseguiva, l’ideale che si imponeva
imperativamente e come un principio categorico. Nell’intero quadro evolutivo,
per Schelling, tutto diveniva un discorso di progresso delle forme viventi nelle
loro diverse ramificazioni. Questa evoluzione era come un albero della vita in

sitive della libertà. Lo stesso Darwin quando avrà bisogno di trovare uno spunto che gli
consenta di compiere l’astrazione della vita, egli ci riuscirà solo grazie a un autore, il
quale farà riferimento a sua volta all’ultimo Schelling.
233
Se mai si potesse considerarlo un sentimento, in seguito al fatto di essere una sensa-
zione vuota data dal silenzio degli organi.
234
F.W.J. Schelling, (3), p. 579.
235
Il quale è sempre speculare con quello della volontà morale.
La modernità della vita 105

cui l’unica forza che continuava ad evolversi nel tempo, nel punto in cui la na-
tura si convertiva in storia, era l’uomo, il quale come punto indeterminato ri-
maneva un eterno frammento. Tutto questo fa della filosofia naturale di Schel-
ling una metafisica della volontà e della vita autonoma, la prima del suo genere
e l’antesignana delle speculazioni di Schopenauer e di Nietzsche. Tutto questo
tornerà esplicito nel momento in cui chiariremo cosa è l’Assoluto.
Per comprendere l’assoluto schellinghiano bisogna partire da un altro termine
particolare, ovvero da quello di Aseità o più precisamente di Aseitas. L’Aseitas è
un altro concetto tecnico della metafisica occidentale in generale, di cui si co-
mincia a discutere nel Medioevo; l’ Aseitas esprime qualcosa che è a sé, da sé.
Nel medioevo per la cultura scolastica l’Aseitas era Dio, il sine causa. Seguendo
le quattro cause la filosofia scolastica poteva risalire sino alla causa prima, la
quale era la causa di tutto, addirittura di se stessa. Con Aseitas già nel Medioevo
si incominciava a riferirsi a qualcosa di assoluto, ma solo nelle due svolte succes-
sive236 iniziava ad avvicinarsi all’accezione elaborata da Schelling. In Cartesio
l’Aseità divina era la chiave per la fondazione razionale della soggettività. In Car-
tesio quest’ultima non poteva essere causa di sé, ma solo attraverso Dio poteva
giustificarsi la creazione del cogito. Affermare che Dio era senza causa esterna,
causa di sé, simultaneo e trascendente a sé, nel Sedicesimo secolo poteva signifi-
care un nuovo tipo di metafisica, anche se, comunque, Dio rimaneva il fulcro
del pensiero umano. La terza svolta riguardante l’Aseità si concretava in Kant, il
quale sradicò completamente l’A sé dal suolo teologico e lo travasava nel piano
di una soggettività umana. Nel momento in cui Schelling elaborava la volontà
autonoma kantiana per poter astrarre il concetto di vita, l’universo mutava radi-
calmente, divenendo la visione di un tutto organico. D’ora in avanti l’intera cul-
tura tedesca e buona parte della civiltà europea incominciava a parlare schellin-
ghiano in tutti i campi dello scibile umano. Da Schlegel a Savigny, da Müller a
Humboldt 237, da Gobineau ad Ancillon, da Spengler a Comte, Spencer, Lilien-
feld, sino a Darwin, Schopenauer e Nietzsche si orienteranno e trasformeranno,
letteralmente, la metafisica dell’organico per i loro studi. L’organismo da Schel-
ling in poi venne inteso sempre in termini organici, per cui la generazione-

236
In quella cartesiana e in quella kantiana.
237
Molto amato da Darwin.
106 Capitolo IV

degenerazione era il nuovo dualismo metafisico su cui fondare e legittimare


qualsiasi tipo di discorso e norma. A confermare quanto detto sul ciclo del genos
ci viene in soccorso un testo francese del 1971, dove la sua autrice scriveva che
da Schelling in poi:
«La degenerazione si afferma come un che di inevitabile, ma la si deplora, è un fatto na-
turale, eppure diviene un campo di imputazione» 238.
Questo estratto può essere compreso soltanto se ripartissimo sempre dalla spe-
cularità del piano morale e di quello vitale. Dentro questo schema teorico vo-
lontà e vita sono assolutamente identiche, la degenerazione può diventare un
capo d’imputazione e una colpa da espiare. Per questo continuava Shlanger:
«Di qui l’importanza», da Schelling in poi, «delle tematiche di tipo medico, igiene e pa-
tologia, applicati a tutti i campi in una prospettiva naturalistica: esse sole permettono di
elaborare una dottrina dell’azione politica. Esse sole consentono di immaginare che si
possa cambiare, flettere il corso della realtà biopolitica, con un controllo da non con-
fondersi con un arbitraria manipolazione» 239.
Schlanger descriveva come questa metafora dell’organismo, dalla fine del Sette-
cento ai giorni nostri, andava ad urtare con tutto l’apparato di concetti che si
portava dietro, tra cui la coppia generazione ↔ degenerazione, organico ↔
inorganico, nel punto di intersezione che era l’Assoluto. Questo è importante e
chiarisce perché il difetto vitale era un capo di imputazione. Nella prospettiva di
Schelling eravamo tutti imputati, così come lo eravamo in quella di Schope-
nauer o di Nietzsche. A questo punto, dando per scontato Nietzsche, citeremo
tre aspetti del pensiero di Schopenauer. In Il mondo come volontà e rappresenta-
zione egli definiva che:
«La volontà considerata in se stessa è incosciente: è un cieco impeto», un cieco volere
puro, «quale noi già vediamo apparire nella natura inorganica e vegetale, […]. Soprav-
venendo il mondo della rappresentazione, sviluppato» al servizio della volontà, è anche
essa conoscenza pratica della rappresentazione del proprio volere (di ciò che vuole); ciò
che ella, la volontà, vuole «altro non è se non il mondo, la vita, così come si presenta.
Perciò il mondo fenomenico lo abbiamo chiamato specchio della volontà, e sua oggetti-
vità: e ciò che la volontà sempre vuole è la vita, appunto perché quest’ultima non è altro

238
J. Schlanger, Les métaphores de l’organisme, p. 187, Vrin, Paris 1971.
239
Ibidem, p. 176.
La modernità della vita 107

che il manifestarsi di quel volere per la rappresentazione; perciò è tutt’uno, e semplice


pleonasmo, quando invece di “volontà” senz’altro diciamo “volontà di vivere”» 240.
Ora qual è la conseguenza finale che Schopenauer traeva da queste considera-
zioni? L’aspetto interessante del suo pensiero era l’insistenza che lo stesso rivela-
va per i concetti di dolore e malattia. La vita era tutto un dolore, era tutta una
malattia e questa malattia era al tempo stesso naturale e morale, biologica e spiri-
tuale.
«Ogni uomo che patisca una gran sofferenza corporea, o una grave sofferenza morale; o
addirittura ogni uomo che compia con sudore nel volto e con visibile sfinimento un
semplice lavoro fisico che gli richiede massimo sforzo; ogni uomo che sopporti con pa-
zienza e senza mormorare; questo uomo, dico, ci appare come un malato 241 il quale che
faccia una cura dolorosa, sopportando di buon animo, e addirittura con piacere il dolore
che da questa cura gli viene, perché sa che quanto più soffre, tanto più sarà estirpata la
causa del male 242. Il dolore presente è la misura della sua guarigione» 243.
Queste non erano parole proferite da un uomo disperato. Esse erano parole che
conseguivano logicamente dal discorso dell’uomo come un essere deficiente. In
Schopenauer non c’era scampo dalla malattia e la salute, sia in senso morale che
fisico, diveniva una Salus vitae, una salvezza irraggiungibile, quasi in senso reli-
gioso. Un’analoga caricatura religiosa era lo Zarathustra nietzscheano, ovvero
colui che portava la Grande Salute che guariva e che redimeva la vita, portando
l’uomo al di là dell’Umano. Perché Nietzsche insisteva sull’uscire dall’Umano?
Perché l’uomo era malato e l’unica via di scampo era uscire dall’umanità spe-
gnendo la vita o realizzando l’oltre-uomo. Vediamo come in Schopenauer e in
Nietzsche, si scatenava una vera e propria trasmutazione, cioè la filosofia diven-
tava religione; con essa il concetto di salute sfumava in quello di salvezza, l’idea
di redenzione si confondeva con l’idea di guarigione. Cosa si deduce da quanto
analizzato fin qui e dalle considerazioni di Schlanger? Si deduce una, esplicita ed
implicita, serie di migrazioni, di parole e di cose, tra i campi più disparati dello
scibile umano. Tra le contaminazioni semantiche e ontologiche regionali che

240
A. Schopenauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, pp. 365-366, 1818, tr. It. Later-
za, Roma-Bari 1982.
241
In Nietzsche l’uomo è un animale malato.
242
Più si soffre e più si guarisce, ma più si guarisce e più si soffre.
243
A. Schopenauer, Ibidem, p. 518.
108 Capitolo IV

seguivano tra le più importanti ricordiamo quelle che creavano la nuova teologia
politica (atea) e l’orizzonte della biopolitica. Nelle Philosophische Untersuchungen
über das Wesen der menschlichen Freiheit und die damit zusammenhängenden
Gegenstände del 1809 244 Schelling realizzava un passaggio importantissimo per
la comprensione del suo pensiero; poneva una tesi-trampolino secondo cui il
volere non era nient’altro che «l’essere originario» 245 (Urseyn). Ciò significava
prima di tutto che vita e volontà erano due entità identiche. Solo a partire da
questa considerazione possiamo capire come per Schelling ogni filosofia che non
teneva conto di questa identità era tendenzialmente contraddittoria davanti a se
stessa, in relazione alla forza della vita (Lebenskraft) e, soprattutto, alla pienezza
della realtà. Per Schelling la forza della vita era la forza della realtà, in quanto
l’aseità stessa era calata nella forza della vita. Per quest’ultimo se alla filosofia
fosse mancata questo fondamento, secondo cui la vita era l’essere originario, sa-
remmo caduti in un’astrazione politica. Ora se ci fossimo calati nelle viscere del-
la realtà, della verità, avremmo trovato sicuramente la malattia organica. Para-
frasando il filosofo tedesco, la malattia, essendo un disordine introdotto nella na-
tura da un abuso della libertà, era la vera immagine del male; ma qual è la novità
di questa affermazione? Schelling si chiedeva “e se sin dal principio ci fossimo
trovati sempre di fronte a un uomo come eterno frammento, dove sarebbe stato
possibile ritrovare una riconciliazione?” La soluzione era in un Dio di nuovo
genere, un Dio ateo, e diviso in sé tra fondamento ed esistenza.
«La filosofia della natura del nostro tempo 246 ha introdotto per la prima volta nella
scienza la distinzione tra l’essenza, in quanto esiste, e l’essenza in quanto mero fonda-
mento di esistenza» 247,
per il Sé. L’essenza, Dio, era diviso in esistenza e fondamento, dove il fonda-
mento precedeva la prima. Questa era una grande novità perché a partire da
questo punto riscontravamo due volti di Dio, uno in luce e l’altro osceno. Il
primo era quello del Dio, in quanto esistente (il Cristo), solo che quest’ultimo
non era più il fondamento, ma solo il Dio fatto persona che si riappropriava del

244
F.W.J. Schelling, tr. It Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti a
essa connessi, Rusconi, Milano 1996.
245
Ibidem, p. 103.
246
La filosofia della natura schellinghiana.
247
F.W.J. Schelling, Ibidem, p. 115
La modernità della vita 109

fondamento. Prima del Dio in quanto esistenza esisteva un Dio alle spalle, un
Dio osceno. Quest’ultimo, il fondamento, era l’essere originario che imponeva,
era il volere cieco e originario che bramava se stesso. A questo proposito Schel-
ling scriveva:
«Se volessimo rendere questa essenza umanamente comprensibile, potremmo dire che
essa è il desiderio 248, che l’eterno Uno prova, di generare se stesso. Il desiderio non è
l’Uno, ma è coeterno all’Uno. Il desiderio vuole generare Dio, cioè l’unità imperscruta-
bile, ma in quanto non è ancora in se stessa l’unità» 249.
L’uno era questo, era il Dio di amore, il Dio che ricomponeva in unità; il desiderio
che l’Uno aveva di ricomporre se stesso veniva prima, era il desiderio di sé che nutri-
va, era il Dio persona. Il Dio persona esisteva ed era Cristo, ma perché Dio fosse esi-
stito, avremmo avuto bisogno che Dio avesse voluto se stesso, che Dio fosse stata causa
di se stesso. Quindi fondava se stesso volendosi, ma così facendo questo desiderio di-
ventava la condizione di possibilità dell’esistenza di Dio. Dio per esistere doveva
causare se stesso e per causare se stesso doveva volere se stesso, e per volere se stesso ci
doveva essere un volere come fondamento. Il punto qui importante era capire il de-
siderio, questa brama cieca del volere di sé, il desiderio osceno di Dio per se
stesso. Il desiderio di sé era un puro e originario volere, era l’essere originario.
«Questa essenza non era altro che l’eterno fondamento dell’esistenza di Dio, essa doveva
contenere in sé, seppur nascosta, l’essenza di Dio come una scintilla di vita che brillava
nel buio più profondo» 250.
L’eterno desiderio era una scintilla di vita, un puro volere di volere, il volere di
Dio di sé. Il fondamento di Dio era un volere di vita, una metafisica, una reli-
gione della vita. Nell’intelletto divino, come un Dio persona che parlava, c’era
una sorta di sistema dove Dio architettava il mondo e parlava all’uomo, ma tut-
to questo che sistemava non era il fondamento originario (la volontà di vita) ma
solo ciò che esisteva. Le conseguenze di questa logica erano molte, tra queste
quelle che Dio era un processo di autodeterminazione dell’Assoluto, continuo e
infinito processo di autoidentificazione dell’Aseità, del Sé 251; l’uomo era quella

248
Sehnsucht.
249
F.W.J. Schelling, Ibidem, p. 119.
250
Ibidem, p. 123.
251
Schelling utilizza il termine di aseità e non di Sé.
110 Capitolo IV

fessura attraverso cui Dio viveva, cioè la fessura attraverso cui passava il processo
dinamico della pura formazione, della pura autodeterminazione, della pura au-
tonomia 252. Il processo dell’Aseità era un bene e rimaneva tale fin quando rima-
neva una dinamica, un vettore che scorre irrefrenabile. Era per questo motivo
che Schelling scriveva che vi era un:
«Velo di mestizia […] steso su tutta la natura, la profonda, insopprimibile malinconia di
ogni vita 253. […] Perfino la vita più corrotta e falsificata rimane e si muove ancora in
Dio, ma questa vita avverte Dio come furore distruttore e viene posta in una tensione
sempre più alta contro l’unità fino all’autodistruzione e alla crisi finale» 254.
Per questo, concludendo, Schelling affermava che la vita è lotta, la volontà è lot-
ta, l’uomo è al centro di questa lotta e «là dove non c’è lotta non c’è vita» 255.
Questi passaggi, tanto appassionati quanto complessi, ci interessano, fondamen-
talmente, per estrarre questa ulteriore elaborazione dell’identità tra vita e volon-
tà e le conseguenze che quest’ultima elaborazione comportarono. L’uomo mar-
ciava su un rogo di ricomposizione morale e organica impossibile da ultimare;
questa lunga marcia storico-naturale dell’uomo si rivelava come la rassegna filo-
sofica che nell’Ottocento consegnava all’Occidente sia un nuovo concetto di vi-
ta, una vita che finalmente retrocedeva, senza appello, dietro di sé e i fenomeni
vitali, sia nuove tradizioni filosofiche e scientifiche da essa discendenti.

***

252
E qui Schelling si rifaceva al suo scritto del 1800.
253
Vita era qui intesa come singole forme di vita. Il bene era la pura forza di vita, la pura
forza di volontà che travolgeva e bruciava le forme di vita, che a questo punto, soprat-
tutto nel caso dell’uomo, divenivano malate, immalinconite, tristi. Nell’ambito della
natura vigeva un fondamentale peccato del mondo. Di qui la necessità per cui ogni vo-
lontà doveva passare attraverso il rogo, il fuoco purificatorio (ibidem, p. 161) della pro-
cessualità della vita. Nel caso dell’uomo questo rogo non solo era organico ma anche
morale, e questo per la stessa ragione per cui attraverso Dio non solo esso si redimeva,
ma continuava, anche, a bruciarsi. La redenzione dell’uomo continuava ad agire nel ma-
le, come nella malattia continuava ad agire ancora la salute.
254
F.W.J. Schelling, Ibidem, pp. 193-201.
255
Ibidem, p. 195.
La modernità della vita 111

Nella storia dei saperi inerenti ai fenomeni vitali, a partire dall’Antichità fino a
ridosso di Kant e Schelling, si susseguirono grossomodo due metodi alternativi
per interpretare i fenomeni organici: il finalista 256 e il meccanicista 257. Nel finali-
smo antico di scuola aristotelica si sosteneva che in natura esistevano forme fina-
li scolpite, inscritte, dentro la materia; mentre in quella galenica si sosteneva che
queste stesse forme vitali erano disegnate nell’intelletto divino. Nell’orizzonte di
senso teologico della cristianità medievale l’oggetto del finalismo antico venne
rielaborato e individuato nuovamente in una forma vitale, in un’entità creata da
Dio che spiegava e non spiegava la differenza e la discontinuità tra l’organico e
l’inorganico, tra materia viva e materia inerte. Oltre il meccanicismo antico e
rinascimentale quello della prima modernità258 eliminava questa discontinuità e
con essa il finalismo aristotelico e galenico che nella scolastica erano stati pie-
namente integrati.
A metà del Settecento avvenne al contrario una sintomatica controtendenza e
cioè che l’osservazione naturalistica incominciava a non riconoscersi esaustiva-
mente negli argini teoretici imposti dalla Nuova fisica, così iniziando a riferirsi
alla vitalità al massimo come ad una qualificazione del mondo naturale non su-
scettibile di una quantificazione coerente. La vitalità non risultava obbedire alle
medesime leggi della materia inerte, ragion per cui la forza vegetativa non pote-
va essere assimilata a quell’orizzonte di esperienza quantitativa, in base alla qua-
le, come amavano affermare i newtoniani, il perché dei fenomeni doveva essere
rifuggito in favore di una oscena e retroagente esattezza della ragione. Soprattut-
to in Francia, contemporaneamente allo svedese Linneo, il naturalista francese
Buffon iniziava a interrogarsi intorno la questione della proprietà specifica della
materia vivente. In seguito alle osservazioni 259 di un suo collaboratore inglese, J.

256
Interno all’ontologia teologico-cristiana.
257
Galileiano-newtoniano.
258
Per ulteriori precisazioni sulle differenze ontologiche e strutturali tra il meccanicismo
tardo-rinascimentale e quello galileiano si consiglia di fare riferimento a L’illuminismo
prima dell’Illuminismo. Perché la Chiesa condannò Galilei, a cura di A. Calemme, contri-
buti di G. A. Di Marco, F. Minazzi, V. F. Polcáro, M. Torrini, Edizioni “La Città del
Sole”, Napoli 2013.
259
Osservazioni su raccolte di terra sigillate per periodi medio-lunghi in scatoloni di ma-
teriale opaco.
112 Capitolo IV

T. Needham, Buffon incominciava a parlare di generazione spontanea. Needham


e Buffon osservarono che la materia vivente si generava da materia apparente-
mente non vivente. Needham, per spiegare questo tipo di fenomeno, immagi-
nava che la materia, nel suo complesso, era costituita da due forze, una forza ve-
getativa e una forza resistente. La prima era una forza espansiva, la forza che go-
vernava la crescita dei viventi, la seconda era quella che contrastava l’espansione.
Needham non avanzava ipotesi sul perché della forza vegetativa e non tracimava
oltre una considerazione puramente descrittiva dei suoi effetti. Il modello della
generazione spontanea produceva più interrogativi di quanti ne risolvesse, uno
di questi è quello sulla collocazione della forza vegetativa, della forza che sentiva,
in quella materia inerte che gli resisteva.
A partire da Buffon e da Needham la teoria della generazione spontanea inco-
minciava a circolare per tutta Europa, sino ad arrivare attraverso Caspar Frie-
drich Wolff 260. Quest’ultimo nel 1759 era autore di una Theoria generationis, in
cui ridefiniva la forza genetica di Needham come una vis essentialis, formulando
poi le stesse ipotesi e sottolineando come gli interrogativi scientifici sulla fun-
zionalità della prima andavano tenuti lontani da quelli metafisici sul suo perché.
Ancora più interessanti apparivano gli sviluppi di questa ipotesi in Germania
attraverso la figura di Johan Friedrich Blumembach 261. Blumembach era un na-
turalista tedesco che nel 1781 pubblicava un libro nel cui titolo 262 compariva
l’espressione di Bildungstrieb, impulso alla formazione, impulso formativo, detto
anche nisus formativus. Il nisus formativus era un impulso, una tendenza
all’organizzazione, un impulso all’organicità, di cui andava ignorato il suo per-
ché e indagati i suoi effetti. Il nisus formativus, come si sarà ben capito, era il
concetto dal quale Kant nel 1781 formulerà la sua forza formatrice.
Tutto ciò che è stato detto su Schelling e oltre si innesta proprio sul dialogo tra
Kant e tutta la riflessione naturalistica del tempo, la quale in Blumembach si
riconosceva. Kant stesso non approvava l’idea di una forza vegetativa come una
forza fisica, nel senso di Galilei o di Newton. Il nisus formativus non si poteva
quantificare, non si poteva misurare, resisteva alla matematizzazione della fisica

260
Il quale non era il filosofo leibniziano ma un suo omonimo.
261
Con cui Kant si confrontava nella III Critica.
262
Über den Bildungstrieb und das Zeugungsgeschäfte.
La modernità della vita 113

sperimentale. Le teorie di Buffon-Needham e di Wolff-Blumembach si segrega-


vano da uno sfondo culturale che aveva a suo centro il dibattito settecentesco
dello sviluppo, dell’evoluzione del vivente. In questo dibattito si contrapponevano
una tesi pre-formista dell’inscatolamento, dell’emboîtement e una tesi epigenetica.
In base alla prima un embrione animale o qualsiasi seme vegetale conteneva già
in miniatura tutte le sue parti, che nel loro sviluppo si espandevano e si dispie-
gavano. L’idea pre-formista dell’inscatolamento non implicava una forza origi-
naria alla Kant, ma solo delle forme vitali locali, che nella loro singolarità dipa-
navano ed esaurivano, in maniera determinata e locale, come in una sistole e in
una diastole, la loro evoluzione ontogenetica; la vita non esisteva, esistevano so-
lo dei volti vitali 263. Questi stampi, queste forme finali, forme vitali, non erano
però forme attraversate da forze fisiche vegetative, che ad un certo punto irrom-
pevano fuori dalla materia inerte e resistente al vitale e spontaneamente organiz-
zavano ciò che di organico, non organizzato, già vi era disciolto. Il preformismo
dell’inscatolamento era privo di qualsiasi spontaneità, di qualsiasi margine di
indeterminazione e non solo a livello ontogenetico ma anche a livello filogeneti-
co. Nel mondo pre-formista non c’era né la vita shellinghiana, che da tergo alla
realtà retroagiva i viventi, né un meccanicismo classico che nell’inscindibilità
sfumata dello spazio organico e di quello inorganico considerava la natura come
un regime di automatismi fisici. La teoria epigenetica, al contrario, era una teo-
ria dei viventi che contro l’inscatolamento deterministico, definiva come possi-
bile un certo margine di indeterminatezza evolutiva. I germi di domani non
erano già contenuti, inscatolati, in quelli presenti e questa messa in dubbio
dell’assunto dell’inscatolamento implicava che le forme non solo evolvevano, si
dispiegavano, ma si configuravano, ontogeneticamente e filogeneticamente, nel
corso dell’evoluzione in maniere sempre diverse.
Senza dubbio non possiamo negare la bizzarria di queste tesi, ma esse sono inte-
ressanti, soprattutto, per rilevare l’impossibilità da parte dei filosofi dell’epoca
di, addirittura, immaginare la vita. Nella teoria del preformismo non c’era biso-
gno di un’idea di forza, in quanto il dispiegamento delle determinate forme or-
ganiche imitava un processo di pressione e depressione, che come scrisse J. G.

263
Per il pre-formismo non esisteva quell’astrazione della vita tanto evidente per Kant e
Schelling, elaborata nella riflessione sulla libertà.
114 Capitolo IV

Herder, nel suo Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, ebbe inizio a
partire dal giorno della creazione, quando il newtoniano dito di Dio animò la
materia. Tornando all’ipotesi della generazione spontanea di Needham, dob-
biamo ancora chiarire il perché, per il filosofo, della forza vegetativa;
quest’ultimo non chiariva nulla in proposito, anzi si rifiutava di rispondere a
domande in merito, anche perché ciò significava svolgere un lavoro speculativo
sulla forza vitale. Oltre di lui furono in molti a tentare di rispondere a questa
questione. La prima ipotesi elaborata fu quella animista, pampsichista, in base
alla quale la forza vegetativa era una forza psichica, un’anima. L’ipotesi che
identificava il vitale con lo psichico aveva antiche origini, che guardavano addi-
rittura a Platone, il quale scriveva che tutto era vivente, che il mondo era un
grande animale e ciò perché in tutto vi era un’anima. L’ipotesi platonica reintro-
duceva nella filosofia naturale l’organismo come un soggetto interagente con
l’ambiente; sulla stessa scia Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, nel 1754, boc-
ciava apriori il pampsichismo platonico, ma tuttavia ne riproponeva nient’altro
che una trasfigurazione. Contro il preformismo e il creazionismo di Malebran-
che, Leibniz, Bonnet, Boerhaave, Hoffman, Haller, Van Helmont egli sosteneva
l’esistenza di una forza che costruiva gli esseri organizzati, che la medesima forza
organizzante, vegetativa, era depositata nelle molecole, in piccole particelle della
materia dotate di desiderio, avversione e memoria 264. Queste particelle si deside-
ravano, si avversavano, si ricordavano l’una dell’altra, e nel loro zoo, invisibile e
intrinseco alla materia, testimoniavano un fenomeno macroscopico non spiega-
bile in termini meccanicistici. Le particelle non compattavano e si rifuggivano
in base a una cecità fisica e causale, ma si animavano secondo criteri psicologici;
e infatti Maupertuis si interrogava:
«Se tutte le parti hanno la stessa forza, la stessa tendenza a unirsi, perché alcune di esse
vanno a comporre un occhio e altre vanno a comporre un orecchio? Perché un accomo-
damento così meraviglioso? Perché non si assemblano tutte alla rinfusa? Se vogliamo
dire in proposito qualcosa di sensato, anche basandosi sull’analogia, dobbiamo dire che
esiste in esse un qualche principio di intelligenza, ossia qualcosa di analogo a ciò che
chiamiamo desiderio, avversione, memoria» 265.

Attributi tuttavia psichici.


264

Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, Essais sur la formation des corps organisés, in D.


265

Diderot, Pensées sur l’interpretation de la nature, p. 205, Flammarion, Paris 2005.


La modernità della vita 115

I corpi organici, per Maupertuis, erano costituiti di minute particelle distribuite


in maniera organizzata. Qui si sconfinava subito nell’animismo o in quello che
Kant nella III Critica definiva con il nome di ilozoismo; questa tesi non era però
così fantasiosa, anche grandi e riconosciuti fisiologi 266 approdarono ad una con-
clusione simile. Nell’ilozoismo non esisteva un’astrazione della vita, ma solo una
psiche che, tutto sommato, a parte l’ingenuità teorica, presentava due facili in-
convenienti. In Maupertuis, ad esempio, osservavamo che la teoria considerava
la materia come composta di particelle organiche, eppure non si parlava mai di
particelle inorganiche, di materia inerte. L’inesistenza di una specifica distinzio-
ne tra materia organica e materia inerte metteva sotto scacco l’attrazione uni-
forme e cieca. L’animismo di Maupertuis trasformava la natura in un grande
animale. Questa ipotesi abbandonava contemporaneamente sì il preformismo e
il creazionismo, ma con una pesante ipoteca che finiva per attribuire alla mate-
ria attributi antropomorfi. Egli scrisse che:
«L’intelligenza che sentiamo in noi sta a indicare, necessariamente, una fonte da cui
emana l’intelligenza dell’uomo, quella degli animali e quella di tutti gli altri esseri, cia-
scuno nel grado che gli compete» 267.
Queste sono ipotesi esilaranti ma ci consentono, anche nella loro stranezza, di
cogliere le grandi difficoltà che i naturalisti esprimevano davanti ai fenomeni
vitali, una volta che essi rivelarono di non corrispondere ai criteri galileiano-
newtoniani d’indagine. Nello stesso anno Diderot nei suoi Pensieri
sull’interpretazione della natura giudicava l’ipotesi di Maupertuis non poco au-
dace e sollevandogli qualche riserva gli rispondeva nel modo seguente:
«L’ipotesi del dottor Bauhman 268 è un’ipotesi da cui alla fine emerge l’idea che il Mon-
do, simile a un grande animale, ha un’anima» 269.
In questo testo Diderot non si dichiarava nemmeno soddisfatto dell’ipotesi di
Georges-Louis Leclerc de Buffon. Buffon agli inizi della seconda metà del Sette-
cento contro il creazionismo e il preformismo introdusse una ipotesi mista; da
un lato affermava che nella materia esistevano particelle organiche e inorgani-

266
Come il tedesco Georg-Ernst Stahl.
267
Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, Ibidem, p. 221.
268
Lo pseudonimo con cui Maupertuis pubblicò il suo libro.
269
D. Diderot, Pensées sur l’interpretation de la nature, Flammarion, p. 104, Paris 2005.
116 Capitolo IV

che, in relazione alle quali erano spiegabili i fenomeni di epigenesi e di genera-


zione spontanea; dall’altro sosteneva che esistevano in natura dei moules inté-
rieurs, dei calchi interni, delle impronte, delle matrici interne alle forme organi-
che. Calchi e particelle componevano le forme organiche.
«I Calchi sono forse principi delle forme? Che cosa è un Calco? È un essere reale e pree-
sistente? […]. E se il Calco è un Essere reale e preesistente, in che modo si è forma-
to?» 270.
La soluzione che Diderot proponeva in risposta a quella di Buffon, e che ritor-
nava a testimoniarci l’effettiva difficoltà che i filosofi precritici dimostravano
davanti i fenomeni vitali, era una indebolita parafrasi di Maupertuis; e infatti:
«Accontentarsi di supporre nelle molecole organiche una sensibilità, mille volte più de-
bole di quella che l’onnipotenza ha accordato agli animali più stupidi e più prossimi alla
materia morta. In virtù di questa sensibilità sorda, e della differenza della configurazio-
ne, per ogni molecola organica esisteva così sempre una situazione più comoda delle al-
tre. Una molecola ha una certa forma geometrica, ha una certa sensibilità, e tendeva ad
accomodarsi con le altre. Una situazione che essa tendeva senza posa a ritrovare con una
inquietudine automatica. Così come capita agli animali che si agitavano nel sonno,
quando quasi tutte le facoltà sono sospese finché trovano la disposizione più conso-
na» 271.
Che cosa era questa sensibilità? Che cosa era questa inquietudine automatica,
che avrebbe dovuto definire la vitalità della materia organica? In realtà Diderot
non lo spiegava. Egli costruiva il suo testo come un dialogo che discorreva del
sottile imbarazzo in cui si muovevano i naturalisti. Questi non riuscivano ad
orientarsi, non trovavano i termini adatti per poter dare corpo a questi fenome-
ni. L’unica cosa che possiamo dire con certezza, analizzando il testo di Diderot,
era che questa inquietudine di cui egli parlava, era un concetto adottato da Loc-
ke, il quale definiva uneasyness, inquietudine, lo stato in cui l’intelletto si trovava
di fronte, in prossimità, di una scelta. Nuovamente si sceglieva di qualificare un
fenomeno incompreso con coordinate antropomorfe o almeno che esprimevano
un livello infimo di soggettività. Nell’Ottocento un medico e fisiologo francese
Xavier Bichat pubblicò un testo molto famoso, intitolato Ricerche fisiologiche

270
D. Diderot, Ibidem, p. 116.
271
Ibidem, p. 105.
La modernità della vita 117

sulla vita e sulla morte 272, attraverso il quale offrì una delle definizioni più celebri
della vita, dove appare finalmente il termine vita.
«La vita è l’insieme delle funzioni che resistono alla morte» 273.
Su questa formula, come ha scritto Tarizzo nel 2010, si versarono fiumi di in-
chiostro. Sembrava che Bichat ci offrisse una definizione della vita, una delle
prime definizioni, ma per comprendere se fosse stato o meno realmente così,
dobbiamo prima di tutto chiederci se dietro questa affermazione ci fosse stata
una teoria della vita, una compiuta astrazione concettuale della vita. Bichat non
possedeva una ontologia della vita e condivideva con tutti gli studi precedenti la
totale assenza di una concettualizzazione della vita. La sua definizione della vita
era una nozione negativa, in relazione alla quale “era vivo tutto ciò che non era
morto”. Bichat parlava di un principio vitale, non precisava la sua natura, e af-
fermava, come chi era a digiuno di metafisica, che non era suo compito farlo.
Chi citava Bichat, facendo notare che la fisiologia non aveva il compito di defi-
nire la vita? Bichat rimandava, certamente, al newtonismo 274. Il problema di Bi-
chat, come in Needham, era quello di considerare l’indagine fisica della natura
come estranea a qualsiasi tipo di speculazione. La celebre affermazione hipotheses
non fingo, ripresa da Needham, come da Bichat, era la prova non solo
dell’imbarazzo del naturalista, ma dell’insipienza della ragione teoretica di ispi-
razione newtoniana davanti i fenomeni vitali. Nel complesso, infatti, le afferma-
zioni di Bichat non ci informavano altro che di una chiara visione dell’ovvio, e
cioè che la vita era l’insieme delle funzioni che resistevano alla morte;
quest’ultima definizione non allargava certamente i nostri orizzonti conoscitivi,
ma esprimeva, indubbiamente, l’esigenza tattica di chi seguiva al problema di
un’ambasce intrinseca alla propria teoria, e al proprio metodo di riferimento, la
necessità di chi era come disorientato e imbarazzato dall’ingenuità del suo sape-
re, il quale si limitava a delimitare l’area d’interesse ignorando completamente il
senso strategico del suo fenomeno. A questo punto la fisiologia di Bichat si limi-

272
X. Bichat, Recherches physiologiques sur la vie et la mort, Alliance culturelle du livre,
Genève-Paris-Bruxelles 1962.
273
X. Bichat, p. 43, 1800.
274
Hypotheses non fingo.
118 Capitolo IV

tava a registrare e al massimo descrivere in maniera pseudologica e proto-


scientifica la vitalità. A proposito del principio della vita Bichat scriveva che:
«Ignota ne è la natura, lo si può apprezzare solo per i suoi fenomeni. […] La maggior
parte dei medici che hanno scritto sulle proprietà vitali hanno cominciato col cercarne il
principio; hanno voluto discendere dallo studio della sua natura a quello dei suoi feno-
meni, anziché risalire da ciò che l’osservazione mostra a ciò che la teoria insinua.
L’anima di Stahl, l’arché di Van Helmont, il principio vitale di Barthez, la forza vitale di
altri e cosi via, tutte queste nozioni, ritenute a turno il centro unico degli atti che porta-
no l’attributo della vitalità, sono state via via la base su cui si è fondata ogni spiegazione
fisiologica. Ma ciascuna di queste basi è crollata, prima o dopo, e tra i detriti sono rima-
sti i fatti, ricavati da una rigorosa esperienza sulla sensibilità e la motricità. Gli angusti
limiti dell’intelletto umano sono tali, infatti, da vietargli in pratica la conoscenza delle
cause prime. La spessa coltre da cui le cause prime sono velate avvolge nelle sue pieghe
chiunque tenti di strapparla. […] Facciamo quindi nella scienza degli animali ciò che i
metafisici moderni fanno nella scienza dell’intelletto: supponiamo le cause e concen-
triamoci solo sugli effetti» 275.
Ciò per dire che per quanto Bichat abbia dato una celebre descrizione della vita
non produceva alcuna ontologia della vita e ne vietava qualsiasi riflessione, la
quale a suo dire portava alla miseria del fallimento. Tutto questo era, certamen-
te, di più lontano che vi poteva essere dalla filosofia di Schelling, e dal suo nuo-
vo concetto di vita. Samuel Taylor Coleridge ne dava conferma nel 1848 nel
suo Hints Towards the Formation of a More Comprehensive Theory of life, che ri-
mase completamente plagiato da Schelling e del quale ne realizzò una mera tra-
duzione in lingua inglese. Il testo di Coleridge è molto interessante, in quanto
discuteva di ciò che Bichat giudicava impossibile; Coleridge scriveva a proposito
di Bichat che:
«Il fisiologo ci ha spiegato con chiarezza Y + X, dicendo che rappresenta l’antitesi di
Y- X. Se ci chiedessimo: che cos’è Y-X, la risposta sarebbe: l’antitesi di Y + X […]. Le
definizioni illustreranno meglio ciò che vogliamo dire. Comincerò da quella di Bichat:
“La vita è la somma di tutte le funzioni con cui si resiste alla morte”. Vanamente ho cer-
cato di trovarvi un significato differente da quello in base al quale la vita consiste nel
riuscire a vivere» 276.

275
X. Bichat, Ibidem, pp. 43-105-106.
276
S.T. Coleridge, tr. It. La teoria della vita, Marzorati, Milano 1994.
La modernità della vita 119

Prima di completare il quadro delle posizioni sulla interpretazione e descrizione


dei fenomeni vitali precedenti a Darwin è necessario discutere ancora di quella
di uno storico delle idee, che rappresentava una metafora molto ricorrente nella
storia d’Occidente. Arthur O. Lovejoy nel 1936 scrisse un testo 277, dall’esito
tuttavia fallimentare, in cui raccontava dell’ambiziosa pretesa analitica di ricon-
durre le maggiori tradizioni filosofiche e scientifiche a idee fisse della intera cul-
tura occidentale. Su questa strada arriverà addirittura a far intendere che
l’evoluzione darwiniana non è altro che l’esposizione per certi versi annacquata e
per altri, invece, scientifica della teoria della lunga catena dell’essere, idea, meta-
fora, quest’ultima che secondo l’autore sembrava nutrire le teorie da Platone e
Aristotele fino all’Ottocento. Ponendo in secondo piano l’idiozia del metodo e
del progetto di Lovejoy, affermiamo che il suo libro ci è comunque utile per de-
scrivere l’orizzonte ontologico che precedeva la modernità. Per i premoderni
l’universo era un tutto chiuso, in cui c’erano dei gradini che andavano dalla sen-
tina del mondo all’essere più perfetto. La scala dell’essere, degli esseri, era un
mondo del creato, un sistema di forme stabili, chiuso, e privo di alcun tipo di
evoluzione in senso schellinghiano o darwiniano, non esisteva trasformazione di
una forma nell’altra e il cosmo era un ordine fisso per l’eternità in senso soterio-
logico. Il filosofo e il genio sistematico di questo tipo di ontologia fu Pico della
Mirandola, che nel 1486 fu autore di un’Oratio 278 sulla dignitas279 della creatura
umana. In essa Pico scriveva che la grande catena dell’essere possedeva delle
proprietà essenziali e rispondeva a due principi portanti che governavano il co-
smo teologico come epifania di Dio: il principio di gradualità era quello per cui
gli esseri, dalla sentina dell’universo all’essere sommo (Dio), erano incastonati e
classificati tassonomicamente in una scala eternamente immutabile, gerarchica,
piramidale e verticistica. Il principio di continuità, di pienezza, era quello se-
condo cui ogni forma d’essere non conosceva intervalli tra l’una e l’altra e dove
tutto era trattato in base a rapporti di analogia e di perfezione. All’interno di

277
A.O. Lovejoy, The Great Chain of Being. A Study of the History of an Idea, Harvard
University press, Cambridge (Mass.); tr. It. La grande catena dell’essere, Feltrinelli, Mila-
no 1981.
278
Pico della Mirandola, tr. It. in Pier Cesare Bori, Pluralità delle vie. Alle origini del di-
scorso di Pico della Mirandola, Feltrinelli, Milano 2000.
279
Rango.
120 Capitolo IV

questa catena cristallina degli esseri Pico raccontava che lo stesso Dio, al termine
della creazione, era imbarazzato davanti all’uomo, sfuggente a qualsiasi archeti-
po, a qualsiasi imago e rango d’essere. In prima battuta Pico sembrava uscire
dalla grande catena degli esseri, in quanto afflitto dalla crepa, dal buco di un
horror vacui nella scala naturae che l’uomo sembrava incarnare. L’uomo picano
era un essere privo di effigie e infatti al termine della creazione
«Tutto era ormai pieno; tutto era stato distribuito tra gli ordini sommi, medi, infimi. E
Dio si rivolse, dunque, all’uomo, a quest’opera dall’immagine non definita 280, dicendo:
“Non ti abbiamo dato, o Adamo, una dimora certa, né un sembiante proprio 281, né una
prerogativa peculiare 282, un talento, affinché tu avessi e possedessi, come desideri e senti,
la dimora, il sembiante e prerogative che tu stesso avrai scelto. La natura degli altri esse-
ri, una volta definita, è costretta e vincolata entro leggi da noi prescritte, che abbiamo
descritto noi. Nel tuo caso il buco sarai tu, non costretto da alcuna limitazione, secondo
il tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho posto, a decidere su di essa 283. Ti ho posto in mezzo
al mondo, perché di qui tu potessi più facilmente, guardandoti attorno, osservare quan-
to è nel mondo. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale,
perché come libero, straordinario plasmatore e scultore 284 di te stesso, ti possa foggiare
da te stesso nella forma 285 che avrai preferito» 286.
Sulla base di questo passo, gli studiosi picani, hanno sostenuto che il suo autore
abbia teorizzato la fuoriuscita dell’uomo dalla grande catena dell’essere. Questa
convinzione è del tutto impropria e fuorviante anche perché e soprattutto è fuo-
ri da qualsiasi contesto rigoroso di studio. Quando Pico della Mirandola diceva
che l’uomo era plasmatore e scultore di se stesso non stava dicendo come si pen-
sa nella vulgata. L’uomo solo dopo Kant incominciava ad essere autonomo nella
sua libertà, non ubbidendo a leggi eteronome nello scoprimento della sua iden-
tità. Pico non apparteneva alla modernità e quando parlava di libero arbitrio e
di dignitas non lo faceva nell’accezione a noi evidente da Kant in poi.
L’autonomia dell’uomo non era la possibilità dell’uomo, di cui argomentava

280
Indiscretae opus imaginis.
281
Propriam faciem.
282
Munus ullum peculiare.
283
Della natura umana.
284
Plastes et fictor.
285
Formam.
286
Pico della Mirandola, Ibidem, pp. 102-105.
La modernità della vita 121

Origene, di stiparsi secondo il suo desiderio e spirito. L’idea di Pico era un tra-
gitto spirituale che l’uomo doveva compiere in un teologico mondo della grande
catena degli esseri. L’uomo poteva scegliere il proprio gradino nella scala, il pro-
prio posto nella concatenazione del tutto, in universi serie, poteva essere bestia
come poteva essere angelico, poteva degenerare negli esseri inferiori e bruti, co-
me poteva rigenerarsi negli esseri superiori e divini. L’uomo era sempre una
creatura obbediente alla legge eteronoma di Dio, espressione proto-tipica dell’
essere sommo, dell’Aseità trascendente e teologica dell’Uno;
«Nell’uomo nascente il Padre infuse semi di ogni tipo e germi di ogni specie di vita287. Quelli che
ciascuno coltiverà, in lui cresceranno e daranno i loro frutti. Se saranno vegetali, diventerà pianta;
se sensuali, abbruttirà. Se razionali, riuscirà animale celeste. E se non contento della sorte di nessu-
na creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fattosi uno spirito unico con Dio, nella solita-
ria caligine del Padre, colui che è collocato sopra tutte le cose su tutte primeggerà»288.
Nella visione di Pico della Mirandola funzionava la stessa configurazione del
mondo che troviamo in Johan Gottfried Herder nel suo Ideen zur Philosophie
der Geschichte der Menscheit 289, secoli più tardi, dove l’uomo non era il buco nel-
la grande catena dell’essere, la forma d’essere capace di sconvolgere la sequenza
delle forme naturali, ma il plasmatore di sé stesso, secondo una forma che non si
dava in autonomia ma tra ciò che era contemplato e stabilito tra il demoniaco e
l’angelico. All’interno di questa visione creazionista, il prototipo era la prima
forma, o campione, che faceva da modello per le forme successive. All’interno
delle diverse tradizioni teoriche creazioniste avevamo la comparsa di tre varianti
del concetto di prototipo: un prototipo teleologico 290; un prototipo morfologi-
co 291; un prototipo eziologico 292. Buffon, teorico dell’epigenesi e della genera-

287
Omnigenae vitae germina.
288
Pico della Mirandola, Ibidem, p. 105.
289
J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Laterza, Roma-Bari 1992.
290
In Pico della Mirandola, come in Herder, l’uomo era al vertice della creazione, era
l’essere più complesso e raffinato, sintesi e fine dell’insieme di tutte le facoltà disponibili
agli esseri creati. L’uomo era il fine verso il quale tende tutto l’ordine naturale, lo scopo
della natura creata, la causa finale di un ordine teologicamente teleologico.
291
Vedi Wolfgang Goethe e il suo La metamorfosi delle piante del 1790.
292
Il prototipo eziologico o della causa finale può essere inteso come la prima forma da
cui dipartono, in copia, le generazioni successive.
122 Capitolo IV

zione spontanea, sosteneva che esistessero in natura dei moule intérieur 293, degli
stampi interni alle forme viventi, in base ai quali le molecole si distribuivano e si
organizzavano organicamente. Buffon introduceva l’idea che una volta introdot-
ta la prima forma di ogni specie, questa forma si manteneva immutata nell’arco
delle generazioni. Questa fissità delle specie naturali era l’essenzialismo di Buf-
fon, ovvero la teoria di forme essenziali che fungevano da stampo per le succes-
sive. Buffon era il primo ad avanzare la convinzione di una storia della natura,
una storia in cui le molecole si cristallizzavano secondo calchi interni e specifici.
Ogni forma prima era una creazione divina, l’impronta divina che si tramanda-
va di generazione in generazione, una proto-forma, causa della ricorrenza della
medesima forma nella generazione delle forme successive. Diderot e Mauper-
tuis, sulla stessa scia del Buffon, radicalizzavano molto l’idea di una storia della
natura, ma cercando di eliminarne la fissità; essi rimasero sì persuasi che vi fosse
una maiuscola proto-forma in cui le molecole organiche, ad un certo punto del-
la loro storia, si organizzassero in forme naturali metamorficamente, ma cercan-
do di cancellarne il carattere immobile. La metamorfosi Diderot-Maupertuis fu
il primo tentativo o bozza teorica di ciò che Darwin discuterà, invece, come teo-
ria della discendenza comune, la teoria della discendenza da un unico ceppo di
tutte le specie naturali, che da un prototipo si diramavano per trasformazione.
La teoria Diderot-Maupertuis era la prima idea evoluzionista, certamente, ma
non aveva nulla di quella darwiniana, resa celebre con il nome di selezione natu-
rale e non poteva esaurire la ricchezza metafisica con cui si delineava
l’evoluzionismo darwiniano. La teoria darwiniana non era, primariamente, una
teoria della mera evoluzione, non era questo il suo specifico e come confermava
lo stesso Diderot l’evoluzionismo precedente in relazione a quello di Darwin, al
massimo, si spingeva a chiedersi per analogia che:
«Quando si prende in considerazione il regno animale e ci si accorge che tra i quadru-
pedi non ce n’è uno che non abbia le funzioni e le parti, soprattutto interne, del tutto
simili a quelle di un altro quadrupede, non si finisce per credere volentieri che non c’è
mai stato che un primo e unico animale prototipo di tutti gli altri, di cui la Natura non
fa che allungare, accorciare, trasformare, moltiplicare, obliterare certi organi?» 294.

293
Calchi interni.
294
D. Diderot, Pensées sur l’interprétation de la nature, Flammarion, Paris 2005.
La modernità della vita 123

In questo passo l’autore era persuaso dell’idea di un prototipo, la prima forma


di una serie che si evolveva solitamente, ma, siccome non c’erano calchi interni
che garantivano la fissità delle specie naturali, le molecole organiche si riordina-
vano variabilmente per quell’inquietudine automatica succitata; ma quali erano,
a questo punto, le leggi delle metamorfosi delle forme? Per Diderot era impossi-
bile comprenderlo, in quanto per poter pensare a leggi della vitalità bisognerà
compiere l’astrazione del concetto di vita, l’astrazione della forza-vita, lavoro
inaccettabile dal vecchio paradigma newtoniano dell’ipotesi non fingo. Secondo
quest’ultimo paradigma epistemologico l’astrazione della vita non era permessa,
in quanto gli studiosi si dovevano limitare a studiare gli effetti della forza vitale,
vegetativa, senza interrogarsi sulla sua natura, sul perché delle sue leggi. Ciò che
accomunava tutti i naturalisti prima di Darwin era concepire la vita come una
forza astratta dalla sua forma. È per questo motivo che Diderot parlava di me-
tamorfosi, proprio in quanto non riusciva ad immaginare la vita astraendola dal-
la forma. Il mondo di Diderot era un regno di forme che si trasformavano me-
tamorficamente l’una nell’altra. In questo modo la forma prototipica, la forma
eziologica, diventava un prototipo morfologico in Goethe 295, il quale affermava
che ogni pianta era la metamorfosi di una protoforma, di un Urphänomenon. Il
fenomeno originario 296 era la forma prima di ogni forma vegetale. Ogni tronco,
ogni fiore, erano variazioni metamorfiche delle foglie, come nel mondo animale
ogni sistema scheletrico era la metamorfosi di una vertebra originaria. Il feno-
meno della metamorfosi e della produzione delle forme di vita per il Filosofo
tedesco obbediva a due leggi: la legge della Polarität 297 e la legge della Steige-
rung 298. Sia nel caso di un modello eziologico, sia nei modelli teleologico e mor-
fologico ci trovavamo in un ordine chiuso, in un cosmo pari a quello picano.
Goethe, a differenza di Diderot, però compiva un passo in avanti e cioè indivi-
duava due leggi delle metamorfosi, che, come avvenne in Schelling, cercavano
di significare nuovamente il concetto blumembachiano di nisus formativus, di
Bildungstrieb, di forza formativa. Goethe, sulla scia di Needham, di Blumem-
bach e dei newtoniani, non si scollava, a differenza di Kant e di Schelling, da

295
Filosofo tedesco contemporaneo a Schelling.
296
Che nelle piante è rappresentata dalla foglia.
297
Polarità.
298
Ascensione.
124 Capitolo IV

una metafisica della vis centripeta 299, che vincolava la vitalità alle forme naturali.
Blumembach affermava di non interessarsi al perché della vitalità, in quanto do-
vevamo limitarci a conoscere che dati degli effetti esisteva una forma, ma Goe-
the al di là di quest’ultimo faceva un passo avanti ed elaborava questa complessa
teoria della morfogenesi, cioè della genesi delle forme; una genesi che non si
astraeva dalle forme. La teoria della morfogenesi era una teoria delle forme che
si trasformavano in altre forme e non conosceva alcuna vita come forza a sé
stante. Goethe temeva una siffatta astrazione e come scrisse nell’appunto del
1823 300 la metamorfosi non deve essere estremizzata; pena l’assenza di forma, la
distruzione del sapere, la disgregazione delle forme in una forza centrifuga che si
perde all’infinito. La metamorfosi è equilibrata dal contrappeso dell’istinto di
specificazione, di stabilizzazione, dalla forza centripeta che la forma possedeva,
mantenendosi in sé. In seguito si vedrà in questa epoché come l’estremizzazione
della metamorfosi portò all’assenza di forma caratteristica della metafisica della
vita, schellinghiana prima e darwiniana poi. Interna all’impostazione settecente-
sca e risalente alle teorie del prototipo teleologico, rimaneva, ancora, l’indagine
di Jean-Baptiste Lamarck. Lamarck, inventore della parola biologia 301, fu il pri-
mo teorico e naturalista che formulò una teoria abbastanza compiuta e consi-
stente della trasformazione delle specie. La sua era non tanto una biologia ma
una zoologia. In Lamarck l’essere vivente era una forma articolata, organizzata.
Le forme organizzate si disponevano su una scala naturale, che muoveva dal
primitivo al complesso, seguendo un’ascensione. All’interno di una impostazio-
ne legata all’epigenesi e alla generazione spontanea, Lamarck sosteneva che nella

299
«L’idea della metamorfosi è un dono che viene dall’alto, molto solenne, ma allo stes-
so tempo molto pericoloso. Essa conduce all’assenza di forma; distrugge il sapere, lo di-
sgrega. È dissimile alla vis centrifuga e si perderebbe nell’infinito se non avesse un con-
trappeso: voglio dire l’istinto di specificazione, la tenace capacità di persistere di ciò che
una volta è divenuto realtà. Quest’ultima è come una vis centripeta che, nel suo fonda-
mento più profondo, nessuna esteriorità può danneggiare», W. Goethe, Problemi in La
metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, cit. in D. Tarizzo, La vita,
un’invenzione recente, p. 90, Laterza, Roma-Bari 2010.
300
Parecchi anni dopo le pubblicazioni di Schelling.
301
Ma non ancora usata nella medesima accezione con cui Darwin fonderà la sua filoso-
fia politica.
La modernità della vita 125

natura tutto si originava spontaneamente e attivamente da forme di vita elemen-


tari, detti infusori. Per generazione spontanea la materia si organizzava da forme
inorganiche e disorganizzate in forme organiche organizzate e sempre più com-
plesse. Dagli infusori agli uomini, l’impulso alla organizzazione poteva arrestarsi
ad alcuni stadi primitivi, come del resto poteva complicarsi sino ai vertici della
sua scala naturale. In Lamarck per quanto non esisteva l’idea dell’albero della
natura e delle sue essenze, in favore di uno schema uniforme di generazione
spontanea, comunque rimanevamo in un orizzonte ancora non propriamente
biologico. Sia la diversificazione degli organi sia l’organizzazione e la complica-
zione della struttura delle forme vitali obbedivano a due principi precedenti
all’astrazione della vita in quanto tale. Uno era il principio dell’ereditarietà dei
caratteri 302, l’altro il principio di un impulso postulato verso l’ascensione. Il
principio lamarckiano dell’ereditarietà dei caratteri era un principio dei caratteri
acquisiti, per cui ad esempio le prime giraffe tendevano ad allungare sempre più il
collo e allungando il collo arrivavano a mangiare sempre più foglie sugli alberi.
Questa acquisizione trasmetteva alle generazioni successive il carattere del collo al-
lungato, fino ad arrivare alle lunghezze attuali. In Lamarck avevamo una tra-
sformazione dei caratteri durante il ciclo vitale degli individui in rapporto con
l’ambiente. Ogni carattere acquisito in vita veniva trasmesso da una generazione
all’altra attraverso quella che si chiamò poi teoria dell’ereditarietà debole. In
Lamarck, inoltre, non esisteva ancora l’idea secondo la quale la giraffa allungava
il collo per mangiare, vivere di più e vincere una lotta per l’esistenza 303, ma era
caratterizzata ancora dalla credenza creazionista secondo la quale le trasforma-
zioni erano interne ancora al sistema chiuso della grande catena dell’essere, del
disegno definito nella mente e dalla volontà divina. Scriveva nel 1809 Lamarck:
«Tutto si conserva nell’ordine prestabilito; i continui cambiamenti e rinnovamenti che
si osservano in quest’ordine sono mantenuti entro i limiti che non possono varcare; le
razze dei viventi sussistono tutte, malgrado le loro variazioni; i progressi acquisiti nel
perfezionamento dell’organizzazione non vanno mai perduti; tutto ciò che dà
l’impressione di disordine, sovversione e anomalia, riconfluisce senza posa nell’ordine

302
Per cui una prole conserva alcuni caratteri fondamentali che definiscono una forma
vitale.
303
Vedi Darwin.
126 Capitolo IV

generale, e anzi vi concorre; e dappertutto, e sempre, la volontà del sublime Autore della
natura e di tutto ciò che esiste viene eseguita, immancabilmente» 304.
In Lamarck avevamo un sistema chiuso, graduale, continuo, di forme di vita
volte al perfezionamento. Esisteva una tendenza al perfezionamento organico,
alla diversificazione e complicazione delle forme nelle loro strutture e non
c’erano fratture tra un gradino evolutivo e l’altro. In tutto questo schema ciò
che mancava era la vita, un’astrazione della vita, ciò che da Schelling in poi e in
Darwin era l’indice epistemologico del sapere della vita. A partire da Schelling la
natura veniva attraversata da una forza dinamica, una potenza che bruciava le
forme viventi, le de-formava e le sgretolava. La grande catena dell’essere con
Schelling e Darwin venne ridotta in mille pezzi e sostituita letteralmente con
l’evidenza di una nuova ontologia, quella della lotta per la vita. Questa lotta per
la vita non era però da confondersi, ancora una volta, con quella dell’orrendo
teatro di carneficina di cui parlava Carl von Linneo 305. La natura di Linneo non
era ancora una natura biologica, essa era priva di vita e nient’altro che una vi-
sione tassonomica delle forme viventi; in base ad essa, per il padre della prima
nomenclatura in botanica:
«La natura ha un’economia, quest’economia sottende una politica, un ordinamento
politico della natura; l’economia della natura consiste nella generazione, conservazione e
distruzione affinché l’opera del Creatore si conservi intatta, e a questo fine cospira
l’intera Natura» 306.
Lo stato della natura consisteva nella generazione, conservazione e distruzione
affinché l’opera del creatore si conservava intatta e a questo fine muoveva la na-
tura. I tre processi nell’insieme scandivano una lotta per la vita tra forme di vita,
specie diverse, ruoli diversi. Le creature sottostavano a una grande legge per cui
la quantità di vita rimaneva costante. Perché l’economia naturale funzionasse vi
era un governo politico, il quale come una repubblica comandava la sottomis-
sione di alcune forme viventi ad altre e tutte all’uomo. Dio era il creatore

304
Jean-Baptiste Lamarck, Philosophie zoologique, Culture et Civilisation, Bruxelles 1983.
305
Che si ispira ad Hobbes e alla guerra di tutti contro tutti.
306
C. von Linneo, Systema naturae, per regna tria naturae, p. 18, Jo. Th. Trattern, Vin-
dobonae 1767/1770.
La modernità della vita 127

dell’ordine gerarchico stabilito, il governatore dell’eterna lotta che lo caratteriz-


zava.
«La politia della Natura si manifesta al tempo stesso nei tre regni della Natura. Infatti,
come i popoli non sono nati per i governanti, ma, invece, i governanti sono istituiti, per
mantenere l’ordine fra i sudditi, così alcuni erbivori, riscuotendo un crudele tributo,
esercitano il proprio dominio per il bene dei vegetali, e così i carnivori per il bene degli
erbivori, e tra i carnivori i grandi per i piccoli, e l’uomo per tutti costoro e principal-
mente per se stesso; l’uomo governa, è al sommo della natura, e Dio ha voluto il fun-
zionamento della respubblica naturale. Così i singoli cittadini della Respubblica naturale
contribuiscono alla maestà dell’uomo, essere razionale e signore, cui spetta il compito di
riconoscere il Sommo Autore dello Stato» 307.
In questo schema teorico l’ordinamento naturale era nuovamente un quadro
stabile e statico; si parlava di una lotta per la vita, certamente, ma esso era privo
di una dinamica processualità, anzi, esso era racchiuso in un orizzonte immobi-
le, regolato dalla grande legge della conservazione dell’ordine naturale. La legge
della conservazione era l’idea di una quantità fissa di vita nel cosmo naturale, era
il postulato teorico frutto non di una osservazione naturalistica metodica, ma il
cardine dell’ordine metafisico della tassonomia dell’essere creato. Buffon, allo
stesso modo, considerava una fissità nella quantità di vita del cosmo, una defini-
ta e stabile quantità di molecole organiche disperse nella materia.
«Vincolando la conservazione della quantità di vita alla stabilità delle forme vitali esiste
quindi sulla terra, nell’aria e nell’acqua una quantità data di materia organica, e queste
forme si distruggono e si rinnovano istante dopo istante. Questo numero di stampi 308 è
sempre il medesimo, ed è sempre proporzionato alla quantità di materia vivente. Se la
quantità di materia vivente fosse sovrabbondante, se non fosse sempre impiegata in mi-
sura eguale, se non fosse, quindi, sempre interamente assorbita dagli stampi interni nelle
forme esistenti, si formerebbero altri stampi e si vedrebbero comparire specie nuove,
perché la materia vivente non può rimanere inoperosa, perché è sempre attiva, e basta
che si unisca a parti organiche per formare corpi organizzati. Da questa grande combi-
nazione, o meglio da questa invariabile proporzione, dipende la forma stessa della Natu-
ra» 309.

307
Ibidem, p. 17.
308
Moules.
309
Georges-Louis Leclerc de Buffon, De la nature, in Histoire naturelle, générale et parti-
culière, p. IX, Vol. XIII. Imprimerie Royale, Paris 1765.
128 Capitolo IV

Se ci fosse stata della materia organica in eccesso, l’ordine, la stabilità delle for-
me naturali sarebbe stata alterata, ci sarebbe stato uno scompenso, ci sarebbe
stata troppa vita per troppi pochi stampi interni. In altre parole, l’idea di una
stabilità dell’universo naturale implicava l’idea di una conservazione costante,
eterna, della stessa quantità di vita. La sovrabbondanza era esclusa a priori da
Buffon, nell’arco della storia naturale, perché gli stampi stessi erano entità ipote-
tiche introdotte ad hoc per il mantenimento della legge di conservazione e stabi-
lità della quantità di materia vivente. Dall’invariabile proporzione dipendeva la
forma stessa della Natura. A proposito del principio di invarianza della quantità
di materia vivente nella tassonomia naturale di Buffon, un altro autore,
l’economista inglese310 Malthus elaborò, nel 1826, An Essay on the Principle of
population 311. Il principio di popolazione fu elaborato in rapporto a quello di
Buffon; esso realizzava un’argomentazione che consentiva di quantificare
l’estensione delle specie e in particolare di quella umana. Per il Demografo la
popolazione era l’indice di quantità e non di qualità di una certa specie. Com-
prendere la differenza tra la sfera quantitativa e quella qualitativa, consentiva di
afferrare la tendenziale crescita della quantità delle specie viventi. Dopo sei edi-
zioni aggiornate dello stesso saggio, la diagnosi di Malthus era che l’aumento
della popolazione umana era la condanna dell’uomo, in quanto le risorse terre-
stri risultavano insufficienti. Essendo le risorse ambientali limitate, la popola-
zione non poteva accrescersi oltre una certa soglia e ciò perché, oltrepassandola,
si sarebbe raggiunta l’estinzione specifica. Tra la prima e la sesta edizione del
suo saggio Malthus cercò, senza dubbio, di smorzare il tono apocalittico e tragi-
co, della sua analisi, ma nella sua ultima esposizione parlò, comunque, di un
possibile infausto destino per tutta l’umanità. Nell’ultima edizione del saggio
l’economista poneva a rimedio della tendenziale crescita della popolazione, so-
prattutto delle classi inferiori 312, la morale, l’educazione e l’astensione sessuale.
Al di là di ciò, quello che è per noi interessante notare in Malthus è che la quan-
tità di vita poteva accrescersi e, che a questo aumento tendenziale della quantità
di vita, coniugato con la limitata quantità di risorse terrestri, corrispondeva,

310
Da cui Darwin confesserà di aver tratto molteplici spunti a partire dal 1826.
311
Thomas Robert Malthus fu considerato da Foucault il padre della demografia e della
biopolitica
312
Le quali sono ritenute le più prolifiche.
La modernità della vita 129

senza soluzioni di continuità, una lotta non solo interspecifica 313, ma, addirittu-
ra, intraspecifica. A differenza di Buffon in Malthus l’idea di un aumento quan-
titativo di vita nell’ordine naturale smetteva di essere un’ipotesi ad hoc per dive-
nire una tesi osservativo-interpretativa. Quest’idea, come abbiamo cercato di
dimostrare, non era scontata per l’epoca, ma, anzi, contraddiceva i postulati teo-
rici tradizionali. Sulla base di osservazioni Malthus muoveva contraddittoria-
mente al canone e alla maniera del naturalismo settecentesco, elaborando una
legge non solo valida per la popolazione umana, ma, anche, per tutte le specie in
generale.
«I germi di vita contenuti in questa terra, se potessero svilupparsi liberamente, riempi-
rebbero milioni di mondi nel volgere di poche migliaia di anni. Il bisogno, questa impe-
riosa e universale legge di natura, li contiene entro limiti prescritti. Le specie animali e
vegetali sono tenute a freno da questa legge restrittiva» 314,
cioè la legge della scarsità delle risorse ambientali. Malthus era molto interessan-
te, in quanto nella sua opera lo schema teorico di riferimento tendeva a diverge-
re da quello egemonico; era questo il motivo per cui Malthus catturò
l’attenzione di Darwin. Per Malthus la vita tendeva ad espandersi e la natura te-
neva a freno questa espansione. Quest’ultimo introdusse inoltre un nuovo prin-
cipio nel dibattito naturalistico a lui contemporaneo, un principio non integra-
to ma dissonante. Per i naturalisti dell’epoca questo principio era una chimera,
un errore, in quanto la stabilità e l’immutabilità dell’ordine naturale era garanti-
to da una costante quantità, e qualità, di forme naturali. Questo era ciò che Jo-
hannes Müller, naturalista tedesco degli inizi dell’Ottocento, formalizzava in
una legge paradigmatica della conservatio vitae. Müller elaborò questa legge per
due motivi: il principale fu il fatto secondo il quale in natura esisteva una forza
organica 315, una forza vitale 316 (1830). Quest’ultima poteva essere differenziata
dalle forme che poteva di volta in volta assumere in funzione della sua quantità.
Se la forma vitale indicava la qualità specifica, in specie, che assumeva ogni volta
la forza vitale, sotto la forma di vivente della vita in quanto tale, si poteva parla-

313
Come era quella di Linneo.
314
T.R. Malthus, An Essay on the Principle of Population (sesta edizione), Murray, Lon-
don 1826, p. 3.
315
Organischekraft.
316
Lebenskraft.
130 Capitolo IV

re, allora, di forza organica solo in termini di quantità, quantificandola. Da un


lato Müller insisteva costantemente sull’esistenza in natura di questa forza vitale,
forza organica, dall’altro sosteneva 317 che questa forza organica doveva rimanere
costante perché questa forza rimaneva vincolata alla forma organica. Ci rispar-
mieremmo di riportare le argomentazioni di Müller se non fosse per il fatto che
il suo lavoro venne citato da Darwin nei suoi taccuini. Darwin lesse Müller e
compì delle osservazioni molto importanti in merito, in particolare riguardo la
legge della proporzione inversa tra la forza organica e la forma vitale. Müller so-
steneva che nel seme di una pianta c’era molta più forza organica di quanto ce
ne era nell’albero sviluppato, nella sua forma dispiegata. Quanta più forma si
dispiegava, tanta più forza organica si consumava. Esisteva una proporzione in-
versa, ma il rapporto rimaneva costante. La legge della proporzione inversa ga-
rantiva a Müller la stabilità del cosmo naturale, il quale, come scriveva lui stesso,
era analogo al gioco dei volumi. La forza organica era una forza espansiva e so-
steneva che da una parte esisteva una definita quantità di vitalità, di forza orga-
nica, di forza vitale, che in linea di principio poteva essere misurata, ma che non
era necessario misurare, dall’altra che questa forza era inversamente proporzio-
nale al dispiegamento della forma organica. Se noi avessimo trasposto questo
discorso, come del resto fece lo stesso Müller, dal piano dell’individuo organico
al piano della specie, avremmo potuto dire che una specie poteva conoscere un
processo evolutivo di sviluppo dentro un programma (genetico), il quale doveva
condurre al completo dispiegamento di quella forma. Müller compì questa pun-
tualizzazione in seguito i primi scoprimenti di specie estinte, e per giustificare
l’estinzione filogenetica estese il suo principio ontogenetico a livello specifico.
Così come la forza organica del singolo individuo, quando si esauriva, provoca-
va la morte della pianta, così le specie viventi una volta giunte al compimento
della loro forma tendevano ad estinguersi. Ciò che non poteva spiegare la teoria
di Müller era l’origine delle specie318. Dato che era ormai assodato, sia per la fi-
losofia naturale che per la paleontologia, che nei reperti fossili non vi fossero
state delle forme di vita attuali, sorgeva ora l’interrogativo spontaneo sia del per-
ché dell’estinzione delle specie naturali, sia dell’origine delle specie naturali.

317
Come tra l’altro aveva già fatto Buffon.
318
E qui siamo veramente a ridosso di Darwin.
La modernità della vita 131

All’origine delle specie, in maniera implicita cercava di rispondere il grande na-


turalista francese Georges Cuvier 319, contemporaneo di Müller, con l’idea di
una creazione divina puntuale delle specie naturali. A partire dal 1836, in un
ciclo di lezioni, Isaac Owen, senza spiegare come, affermava che le tesi di Müller
risposero all’interrogativo sul perché dell’origine delle specie. Fra esse a noi inte-
ressa citare una lezione in particolare, a cui assistette anche Darwin, tenuta a
Londra nel 1837 320, nella quale emerse per la prima volta l’espressione di una
concettualizzazione nuova, la vita.
«Alcuni hanno supposto che la Vita fosse solo la conseguenza dell’armonia o del lavoro
consenziente delle primitive ruote della Macchina, ma noi siamo costretti a porre in
rapporto questa armonia con una causa che la sfrutta come strumento per operare attra-
verso il tutto, con una causa che è indipendente dalle parti individuali, poiché esiste
prima di queste parti e dunque prima della loro armoniosa cooperazione» 321.
In altre parole, Owen affermava che alcuni avevano pensato che la vita potesse
essere spiegata in termini meccanici, come le prime ruote di una macchina che
creano un’armonia, ma questi avevano torto, in quanto essa doveva essere pen-
sata come indipendente dalle diverse parti di cui era composta ogni forma vi-
vente, essa doveva essere astratta in quanto pre-esistente alle parti e all’armonia
tra esse. La domanda che sorge ora spontanea: Owen da chi traeva queste con-
clusioni? Poteva trarle solamente da Schelling, in quanto fu solo quest’ultimo,
nell’ultimo decennio del Settecento, ad aver scritto esplicitamente che:
«La vita non è né un prodotto né una proprietà della materia animale, ma se mai il con-
trario: la materia animale è un prodotto della vita» 322.
Come ci ricordava lo stesso Michael Foucault, Cuvier nella sua ultima lezione
universitaria (1832) ricordava che Schelling fu il primo ad argomentare l’idea di
una fondamentale unità della vita nella molteplicità dei viventi, dunque ad
astrarre e definire il concetto di vita. In una corrispondenza intrattenuta con

319
G. Cuvier, Le règne animal, Belin, Paris 1817.
320
R. Owen, The Hunterian Lectures in Comparative Anatomy. May-June 1837, Natural
History Museum Publications, London 1992.
321
Ibidem, p. 219.
322
F. W. J. Schelling, Von der Weltseele, eine Hypothese der höheren Physik zur Erklärung
des allgemeines Organismus (1797), in Schellings Werke, Beck u. Oldenbourg, München
1927, vol. I .
132 Capitolo IV

quest’ultimo, Kielmeyer, contemporaneo di Goethe e Schelling, ritornò più vol-


te sulla genialità di Schelling e sull’importanza che egli aveva per gli studi natu-
ralistici del suo tempo. Nel frattempo Charles Darwin, tra il 1831 e il 1836,
compì un lungo viaggio in giro per il mondo a bordo di una nave da guerra in-
glese, il Beagle e raccolse numerosi dati empirici e osservazioni interpretative. Al
suo ritorno dalle Americhe (1836), a Londra, scoprì che la figura di spicco del
naturalismo inglese era diventata quella di Richard Owen. Owen fu allievo di
Joseph H. Green, il quale a sua volta, all’inizio dell’Ottocento, fu membro del
circolo di Coleridge, poeta e filosofo inglese che alla fine del Settecento si recò
in Germania e conobbe Schelling. Coleridge traghettò l’idealismo tedesco, nato
dall’elaborazione nella filosofia naturale di Schelling del criticismo kantiano, in
terra inglese, inaugurando subito forti scambi culturali tra i due paesi. Il merito
sostanziale di Green fu quello di aver iniziato Owen alla filosofia naturale schel-
linghiana e di aver lavorato di maieutica per quanto riguarda il suo genio specu-
lativo. Già alla sua partenza, nel 1832, Darwin era carico di interessanti rifles-
sioni intorno il violento dibattito londinese a cui assistette nel 1819 tra John
Abernethy 323 e William Lawrence 324 sull’essenza della vitalità. La reazione cultu-
rale di Londra alle tesi di Lawrence fu violenta e in forte contrapposizione al suo
ateismo naturale. Questo spiegava, certamente, perché Darwin era così attento e
prudente a scusarsi del fatto di dover accantonare l’idea di una creazione divina
delle specie viventi. Negli anni della lunga assenza da Londra di quest’ultimo,
sulla scia di Green, Coleridge e Owen, la cultura britannica si arricchì di nume-
rose traduzioni di saggi scientifici e filosofici tedeschi, tra cui spiccarono soprat-
tutto quelli di Müller e Carus. Dal 1836, al suo ritorno, Darwin studiò il tede-
sco con suo fratello 325 e fino al 1838 rimase ad ordinare quelle raccolte di dati
empirici che nei suoi taccuini si configurarono come l’abbozzo teorico della se-
lezione naturale. Tra il 1836 e il 1838 Darwin nei suoi taccuini lavorava soprat-
tutto su Müller e su di una contraddizione teorica insita nella teoria della con-
servatio vitae o della proporzione inversa tra la forza organica e la sua forma.
Come detto sopra, per Müller la forza organica si dispiegava e si esauriva nella

323
Medico e naturalista che aderì alla teologia naturale.
324
Studioso che introdusse in Inghilterra Johann Blumenbach, che elaborò l’idea di un
impulso organico, di una forza vitale immanente agli organismi.
325
Erasmus, il quale durante l’assenza di Charles si era recato due volte in Germania.
La modernità della vita 133

crescita e nel dispiegamento dell’organizzazione dell’essere vivente. Una volta


esaurita questa forza, l’organismo deperiva, esauriva, la sua forma. Ad un certo
punto della sua esposizione, secondo Darwin, Müller cadeva in contraddizione
precisando che:
«La forza organica viene anche incrementata durante l’organizzazione della materia» 326.
A margine di uno dei suoi taccuini Charles osservava che:
«Con riferimento al non-sviluppo dei molluschi, che talvolta io ho pensato che fosse
dovuto a una quantità assoluta di vitalità “nel Mondo”, la produzione di vitalità, per
come essa è dedotta da Müller dalla propagazione di un numero infinito di individui da
uno solo, dice l’opposto» 327.
Perché Müller fu costretto a fare la precisazione che poi, di fatto, determinò
l’unica contraddizione interna che confutò la sua stessa legge? Questo perché le
osservazioni dimostravano che le piante rilasciavano più di un seme. La teoria
della conservatio vitae di Müller implicava che la forza contenuta in un seme si
esauriva nella fioritura di un albero; questa forza se fosse stata sempre costante
avrebbe dovuto mettere capo alla produzione di un unico seme. Questo, natu-
ralmente, non avveniva, in quanto una pianta rilasciava più di un seme. A parti-
re dalle osservazioni Müller fu costretto ad obiettare che la forza organica era
anche incrementata durante il processo di organizzazione della materia organica,
e ciò avveniva in base a forze esterne sconosciute. Le parole che Darwin sottoli-
neava in questo testo sono la forza organica è anche incrementale e annotava al
margine di un suo taccuino che questa era una contraddizione di Müller con se
stesso. Dalle letture che Darwin compiva di Müller, traiamo l’impressione che
in egli vi fosse la convinzione di una produzione di vitalità, dunque, di una
energia vitale, una forza vitale che pulsava indipendentemente dalle forme vi-
venti e dall’ambiente. Quest’idea non era nuova, ma apparteneva a Green, at-
tento lettore di Schelling, che in una lezione del 1828 affermava che:

326
C. Darwin, Notebooks 1836-1844, Cambridge University Press, Cambridge 1987;
trad. It. Parziale Taccuini 1836-1844 (Taccuino Rosso, Taccuino B, Taccuino E), p. 419,
Laterza, Roma-Bari 2008.
327
Ibidem.
134 Capitolo IV

«La natura non andava raffigurata come una scala 328, la gradazione e l’evoluzione 329 del-
la natura animata non è semplice e uniforme; la natura era sempre ricca, fertile, variava
nel suo agire e produrre. Noi forse possiamo azzardarci a rappresentare il sistema della
creazione animale come una specie di monarca della foresta: con radici che, ben piantate
in un suolo vivificante, si propagano al di là di ciò che noi percepiamo; con un tronco
che, fieramente eretto, punta in cima verso una regione di luce diafana; e con rami che,
propagandosi dappertutto, in ramoscelli sempre più piccoli e foglioline, infinitamente
diversificate, manifestano l’energia della vita che c’è all’interno» 330.
Green, dopo la metafora paradigmatica della scala degli esseri, fu il primo a par-
lare di albero della vita e di un’infinita diversificazione delle forme viventi. Con
l’infinita diversificazione delle forme viventi Green infranse l’orizzonte chiuso
della scala degli esseri e iniziò a parlare solamente di una energia, una forza vita-
le che pulsava. Fu probabilmente a partire da Green che provenne questa idea di
una infinita propagazione di individui da uno capostipite e che Darwin sovrap-
pose infedelmente o euristicamente a Müller 331. In quest’ultimo era impossibile
un passaggio del genere, in quanto non si muoveva nello stesso contesto teorico,
metafisico e ontologico di un sistema naturale aperto e infinito. Il principio del-
la conservatio vitae era strutturale a una ontologia di tipo chiuso, dove vi era solo
una relazione di corrispondenza e di proporzione tra quantità di materia viven-
te, quantità di forme organiche e numero di forme. Müller era un contempora-
neo di Buffon, il quale affermava, in un orizzonte chiuso e di vitalità costante,
che la quantità di forza organica non poteva risultare eccedente alla forma stessa
della natura, che altrimenti sarebbe stata infranta.
La totalità dello scenario delineato ci offre l’opportunità di segnalare da un lato
l’enorme imbarazzo dei naturalisti settecenteschi di fronte ai fenomeni dei pro-
cessi vitali, privi com’erano di un’adeguata formulazione teorica per
l’interpretazione dei fenomeni osservati, dall’altra le contraddizioni e l’assenza di

328
Scale, ladder.
329
Gradation and evolution sono in Green intese nell’accezione di Schelling e di Darwin,
nell’accezione dei giorni nostri.
330
J.H. Green, cit. in Phillip R. Sloan, Introductory Essay. On the Edge of Evolution, in
Richard Owen, The Hunterian Lectures in Comparative Anatomy. May-June 1837, Natu-
ral History Museum Publications, p. 36, London 1992.
331
In cui l’espressione «numero infinito di individui» non esiste.
La modernità della vita 135

caratura analitica e predittiva delle cornici epistemiche che erano a fondamento


dei saperi dell’epoca. Nei taccuini di Darwin troviamo un’altra serie di osserva-
zioni molto interessanti, in merito ad un testo tradotto in inglese nel 1837 di
Carl Gustav Carus 332. Darwin fu colpito da un’espressione di Carus e cioè
l’unità della vita attraverso la molteplicità. Abbiamo già detto che il grande natu-
ralista francese Cuvier aveva riconosciuto a Schelling il merito di essere stato il
primo a introdurre il concetto di una fondamentale unità della vita dentro tutti
i fenomeni vitali. Carus, allievo diretto di Schelling, parlava nuovamente di
questa unità nella molteplicità e Darwin rimase colpito così tanto da questa idea
che in un appunto, in parte confuso, sottolineò che:
«Dopo aver letto “Carus sui Regni della Natura, loro vita e affinità” sui “Scientific Me-
moirs” riesco a capire che si può parlare di perfezione rispetto alla vita in generale, dove
“unità sviluppa costantemente molteplicità” [la sua definizione “costante manifestazione
di unità attraverso molteplicità”, questa unità, questa distinzione di leggi dal resto dell’]
universo “che Carus considera un grande animale” diventa più sviluppata negli animali
superiori che nei vegetali» 333.
In Darwin abbiamo, a questo punto, l’idea di una vita e di un vivente, l’unità e
la molteplicità e l’idea della perfezione della vita a prescindere dal vivente. Le
leggi della vita sono indipendenti dai viventi. Questo era un passaggio teorico
che a noi può risultare scontato ma che per l’epoca rappresentava una svolta ri-
voluzionaria. Darwin appuntò che quest’ultima fu una «buona idea» 334 e lo stes-
so era «mostrare della vita solo leggi. Come universo» 335. Il testo di Carus, che
Darwin teneva fermo, era quello in cui si scriveva che:
«Avendo dedotto dalle precedenti osservazioni che la vita non è una singola realtà isola-
ta, siamo costretti a definirla in generale come la manifestazione costante di una unità
ideale attraverso la molteplicità reale, vale a dire come la manifestazione di un principio
o di una legge interna attraverso forme esteriori».
A proposito di quest’ultimo Darwin annotava che valeva «la pena di consultare
questo saggio, se bisogna introdurre speculazioni Metafisiche sulla vita» 336.

332
On the Kingdoms of Natur, pubblicato sugli Scientific Memoirs.
333
C. Darwin, Ibidem, pp. 269-270.
334
Ibidem, p. 270.
335
Ibidem.
336
Ibidem, p. 270.
136 Capitolo IV

Scrivere che la vita era la manifestazione costante di una unità ideale attraverso
la molteplicità reale, ossia la manifestazione di un principio, di una legge interna
attraverso forme esterne, sottolineava la discendenza schellinghiana di Darwin.
La good idea che Carus ereditava direttamente da Schelling era quella di indaga-
re la vita in quanto tale e non più le forme di vita. La vita come astrazione asso-
luta poteva ora obbedire a delle leggi autonome dalle forme. Lo stesso Darwin,
quasi in maniera incredula, sembrava sottolineare come era ormai necessario,
per un uomo della sua formazione, dare così tanto credito all’opera di Carus.
Darwin riconosceva, addirittura, l’impossibilità di abbozzare qualsiasi ordine
epistemico per una teoria biologica senza un lavoro metafisico all’origine. Dar-
win inoltre affermava che se fosse stata d’obbligo una speculazione metafisica
primordinale all’ordinamento del senso scientifico con cui una possibile biolo-
gia avrebbe potuto muovere consapevolmente le sue indagini, sarebbe stato op-
portuno una nuova speculazione metafisica. In seguito le pagine del taccuino
dedicate a Carus e in cui Darwin confidava a se stesso il debito metafisico che la
nascente biologia doveva accettare per ottenere lo statuto di scienza progettuale
e predittiva, verranno strappate. Le motivazioni di ciò sono ancora ignote, ma si
potrebbe ipotizzare che esse fossero state strappate o perché si voleva sbarrare la
strada a chi tentava genealogicamente di risalire alle fonti della svolta metafisica
interna al pensiero di Darwin o, che è lo stesso, per eliminare qualsiasi traccia di
metafisica all’interno di un percorso teorico dalla pretesa obiettiva. In una delle
pagine strappate, rinvenute poi in seguito, Darwin riportava un’ulteriore passo
di Carus, dove si scriveva che:
«Esiste un solo spirito vivente predominante in questo mondo, che assume una molti-
tudine di forme, ognuna avente un principio che agisce secondo leggi subordinate. Esi-
ste un solo spirito vivente (…). Esiste un solo principio sensibile e pensante che viene
modificato in forme infinite, vediamo così unità in un principio agente e pensante» 337.
In questo frammento troviamo di nuovo le infinite forme, l’unità ideale attra-
verso la molteplicità reale. Troviamo in sostanza l’idea di una vita produttiva, di
uno spirito vivente che creava le forme e così facendo sfondava le rovinate pareti
del mondo chiuso della grande catena dell’essere. La grande catena naturale

337
E infatti una delle prime obiezioni che verranno fatte a Darwin fu quella di diviniz-
zare in una teologia atea la natura.
La modernità della vita 137

dell’ontologia teologica cristiana crollava in seguito agli spasmi di uno spirito


vivente, di una energia infinita e autonoma. Le leggi della vita non erano le leggi
delle forme viventi. È sulla scorta di appunti come questi che oggi i massimi
studiosi statunitensi di Darwin338 sostengono che per ricostruire la genesi della
teoria della selezione naturale, bisogna ricollocare Darwin nel contesto della cul-
tura tedesca e non continuare a contestualizzarlo in quella inglese. Operazione,
tuttavia, complicata, anche, da ragioni politiche e culturali. Darwin rimane il
padre della biologia moderna e contemporanea, dunque, una tale operazione
non è vista con grande simpatia dai biologi e dagli storici della biologia, orto-
dossi e non. Questa operazione d’epoché, come in quelle effettuate per lo spe-
rimentalismo e per tutti gli altri volti della modernità matura, non vuole dire
che Darwin sia la copia di Schelling o di Carus o che le indagini della biologia
non meritano lo statuto scientifico, ma cerca di segnalare la struttura ontologi-
co-politica sulle quali si incardina il paradigma biologico del potere.
Sembrerebbe che l’ontologia di quest’ultimo si nutra di un gesto teorico che ri-
pete quello kantiano prima e shellinghiano poi; esso inietta, proietta, la volontà
autonoma, la struttura e la sovrastruttura teorica che fa capo all’idea di una vo-
lontà autonoma, dentro la natura per farne una vita autonoma. Tradotto in
termini più semplici si stratta di vedere se Darwin costruisse la sua teoria della
vita iniettandogli questa struttura teorico-concettuale, la quale pone la vita co-
me la pura forma della volontà priva di scopo nella natura, la vita come la finali-
tà cieca e acefala dell’autonomia della volontà. Nella vita ritroviamo un’assoluta
identità tra Natura e Spirito (vita e volontà) e la vita è l’autonomia nel fenome-
no. Bisogna rivedere se in Darwin troviamo scansioni teoriche simili. Per darci
un’idea del fatto che tale considerazione non è un’idea fallace, rileggiamo la
prima parte de L’origine delle specie. In essa i primi due capitoli vennero dedicati
alla variazione dei caratteri, allo stato domestico e allo stato di natura. In altre
parole Darwin derivava la sua teoria sulla selezione naturale dalla teoria sulla se-
lezione artificiale, cioè dalla selezione che la zootecnia compiva volontariamente
sugli allevamenti. Darwin lo ripeteva sino alla nausea che era giunto alla teoria
della selezione naturale iniettando e proiettando uno schema artificiale, antro-
pomorfico, sulla natura. Sintomi delle numerose incomprensioni su questo pun-

338
Phillip R. Sloan e Robert J. Richards.
138 Capitolo IV

to, sono i grandi dibattiti che gli interpreti di Darwin posero, e pongono ancora
oggi, in merito alla teleologia 339 darwiniana. Il vitalismo vecchia maniera era un
finalismo delle forme viventi, dalla parte del vivente c’erano altrettante forme
finali, le quali erano cause finali dei fenomeni naturali. Quest’ultimo non era il
tipo di finalismo che Darwin accoglieva e testimoniava. Il darwinismo delle
forme viventi è quello della divulgazione scientifica, scolastica e universitaria,
dei giorni nostri e che promuove l’idea solita e frequentata dei manuali di storia
della scienza e di biologia.
Nei campi citati, troppo spesso, i resoconti tematici restituiscono la teoria di
Darwin, la teoria della selezione naturale, come una teoria fisica dei fenomeni
naturali, la teoria di una vita che obbedisce alle leggi meccaniche della fisica ma-
tematico-sperimentale. Le nostre indagini dimostrano e dimostreranno ancora
meglio, come queste siano mistificazioni e pauperizzazioni ideologiche della
biologia in particolare e della biopolitica in generale, una volta che esse trasmi-
grano dall’orizzonte critico a quello obiettivo e viceversa e come è possibile par-
lare di finalismo in presenza di una finalità senza scopo e addirittura di come sia
possibile distinguere un finalismo di matrice kantiana da quello teologico-
cristiano e da quello galileiano. Come è lui stesso a confermarci nei suoi taccuini,
strappati e non, Darwin è prima di tutto un filosofo e non può non esserlo.
All’interno di una sua annotazione, egli scriveva che bisognava «fare chiarezza su
tre parole: Ragione, Volontà, Coscienza» 340. La questione della selezione natura-
le non poteva non essere impostata a partire dall’interrogazione su di una volon-
tà senza contenuto, in quanto essa, la selezione naturale, era una selezione incon-
scia, un atto della volontà inconscia.
Per capire Darwin si impone a questo punto una rigorosa comprensione della
filosofia, dell’ontologia e della metafisica che Darwin elaborò nel tentativo di
costruire una teoria della selezione naturale. Cosa era per Darwin la Volontà e
cosa voleva dire Coscienza, sono gli itinerari più adeguati per ricostruire la que-
stione del finalismo in biologia. Dopo diverse ristampe de L’Origine delle specie,
Darwin si vantava spesso di come era riuscito ad introdurre una forma final-
mente nuova e chiara della teleologia nei processi naturali; lo stesso Francis

339
Finalismo.
340
C. Darwin, Ibidem, pp. 612-613.
La modernità della vita 139

Darwin341 nella sua lunga autobiografia, in cui raccontava dei lunghi colloqui
con suo padre, scriveva che uno dei grandi meriti addebitabili a suo padre nello
studio della storia naturale fu quello di aver recuperato la teleologia. Thomas
Huxley, seguace convinto della prima ora di Darwin, ribattezzato poi dalla sto-
ria “il mastino di Darwin”, scriveva che il grande contributo dato da Darwin alla
filosofia della biologia fu quello di aver riconciliato la teleologia e la morfologia gra-
zie alla nuova interpretazione dell’una e dell’altra che la sua dottrina offriva. Quel-
lo che è importante far notare è che da un lato è escluso che, nel caso darwinia-
no, si possa parlare di teleologia in senso aristotelico, perché la teleologia delle
cause finali è tutta dalla parte del vivente; essa apparteneva al vecchio vitalismo.
Darwin si vantava di aver introdotto una teleologia della vita in quanto vita e
delle leggi della vita come leggi teleologiche; ma in che senso Darwin rifondava
la teleologia naturale? Per capirlo bisogna esplicare la teoria di Darwin.
La nostra esposizione della teoria della selezione naturale è incardinata su tutto
ciò che è stato analizzato fino adesso, poiché tutto quello che abbiamo introdot-
to è lo sfondo sul quale è possibile misurare la potenza del gesto teorico darwi-
niano. Quello di Darwin era un dramma metafisico, la definizione di un atteg-
giamento d’esperienza e di un pensiero rappresentato in tre atti: il primo era
quello dove il filosofo inglese scindeva la vita dalle forme di vita; il secondo era
quello che demoliva dalle fondamenta il mondo della lunga catena dell’essere; il
terzo era quello del disfacimento del paradigma epistemico e teologico cristiano
della conservatio vitae. La metafisica darwiniana342, era non solo una particolare
cornice di parole e di cose intessuto di pathos metafisico, di cui le condotte
umane, individuali e di gruppo, nella tarda modernità sono ancora intessute,
ma una vera e propria modalità in cui l’esperienza degli uomini, nella moderni-
tà, si declina concretamente. Darwin ci conferma tutto ciò alla fine di ogni capi-
tolo de L’Origine delle specie, dove polemizzava più volte, con toni sferzanti e
mordaci, contro il creazionismo e contro tutti i teorici che ritenevano che
l’origine delle specie fosse da attribuirsi all’intervento di Dio. Quest’ultima era
la versione teologica e sapienziale della Chiesa, già in forte declino tra i naturali-
sti a partire dalla svolta galileiana e in parte ancora applicata in seguito al succes-

341
F. Darwin, The life and Letters of Charles Darwin. Part Two, Kessinger, Whitefish
2004.
342
D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Roma-Bari 2010.
140 Capitolo IV

so del newtonismo 343. Se Darwin ritenne necessario riaccendere i toni tra le par-
ti, non fu semplicemente per riprendere la necessità dell’ateismo nelle questioni
di scienza, ma per mettere in evidenza come la teoria della selezione naturale
non fosse solo una teoria scientifica, ma, come nel caso del creazionismo, una
grandiosa visione complessiva dell’esperienza. Già per Darwin la biologia non
era una mera disciplina ma una grandiosa visione del mondo, un atteggiamento
con effetti di evidenza. Una sintesi molto suggestiva della teoria della selezione
naturale 344 ci venne offerta da un biologo contemporaneo 345 che nel 1977 faceva
sapere come:
«Le basi della selezione naturale sono molto semplici: due fatti innegabili e una conclu-
sione inevitabile. 1. Gli organismi viventi presentano variabilità e tali variazioni, almeno
in parte, vengono ereditate dalla prole. 2. Gli organismi producono una quantità di di-
scendenti che è di gran lunga superiore a quella che può sopravvivere. 3. In media, la
discendenza che sopravviverà e si propagherà sarà quella le cui variazioni saranno orien-
tate più nettamente nelle direzioni favorite dall’ambiente. Le variazioni favorevoli si ac-
cumuleranno nelle popolazioni, per effetto della selezione naturale».
A parte l’errore di Gould nell’attribuire a Darwin qualcosa di assolutamente
non darwiniano e cioè il condizionamento dell’ambiente sulla variazione dei ca-
ratteri, il Biologo ci aiuta a rendere in poche parole il dogma centrale della bio-
logia darwiniana e cioè che non esiste in realtà ereditarietà dei caratteri acquisiti,
ma solo una variabilità genetica e una ereditarietà delle variazioni genetiche. La
succinta ricostruzione di Gould ci consente subito di isolare e mettere a fuoco i
concetti essenziali del darwinismo e cioè quello di variazione, adattamento, sele-
zione. Ripercorrendo il lavoro di Darwin diviene evidente che essi sono prima di
tutto concetti metafisici, sovradeterminazioni teoriche dei fenomeni presi in
analisi 346. Essi sono postulati teorici 347 e appaiono come tali se, invece di fer-

343
Che a differenza del galileismo non era ateo.
344
Della quale sembrerebbe non esserci un’unica versione ma diverse letture.
345
S.J. Gould, Ever since Darwin. Reflections in Natural History, p. 3, Norton & Co., New
York; trad. It. Questa idea della vita. La sfida di Charles Darwin, Editori Riuniti, Roma 1984.
346
Premesso che oggi nessun biologo utilizzerebbe l’impalcatura teorica darwiniana ori-
ginale, ma semmai ne prende solo lo scheletro, il quale ancora oggi regge sia lo statuto
di senso della prima sintesi evoluzionistica, che integra la teoria della selezione naturale
con la teoria genetica mendeliana, sia la nuova o seconda sintesi evoluzionistica che in-
La modernità della vita 141

marci alla lettura di Gould, ritornassimo un momento ben oltre i riscontri spe-
rimentali di 50-60 anni fa e cioè ai tempi di Darwin e di Gregor Mendel. Sulla
scorta degli studi di Mendel, agli inizi del Novecento si compì quella che ab-
biamo già citato come la seconda sintesi della biologia, che attraverso
l’integrazione della teoria darwiniana e della genetica mendeliana con lo studio
del gene localizzava la variazione dei caratteri in quello che poi verrà chiamato
DNA. Tutto questo a Darwin era ignoto. Darwin compì un passo rivoluziona-
rio nel momento in cui affermò che le forme di vita variavano ed esisteva una
creatività della vita. La vita possedeva una forza creatrice variabile e in base a
questo vegetali e animali possedevano la capacità non di consegnare alle genera-
zioni successive la loro stessa forma ma una forma leggermente divergente.
Darwin era convinto che tra generazioni, intra e interspecifiche, vi fossero scarti
differenziali. La variazione era un attributo della vita e non delle forme di vita,
dato che la biologia si doveva occupare delle leggi e della logica della vita e non
dei viventi. Questi erano all’epoca di Darwin niente più che postulati teorici e
lo erano così tanto che lo stesso Darwin, a proposito della variazione sponta-
nea 348, esclamava:
«La nostra ignoranza sulle leggi della variazione è profonda, non possiamo trovare, un
solo caso su cento, la causa della variazione» 349.
Questa esclamazione era la prova di uno stratagemma teorico ben architettato,
un principio argomentativo che sull’ignoranza scindeva i fatti
dall’interpretazione dei fatti e su questa distanza critica l’intero scheletro di una
convinzione teorica e pratica performativa, suscettibile di divenire scienza e sa-
pere evidente. La vita in Darwin si profilava come la postulazione metafisica di

tegra la prima con lo scrutinio scientifico della variabilità dei caratteri (che rammentia-
mo variano da sé e non in base ai condizionamenti ambientali).
347
E qui si pone il problema annoso, ancora non molto chiaro ai più, di capire se Dar-
win fosse orientato per un finalismo adattativo all’ambiente o un finalismo adattativo
alla propria aseità naturale, alla propria autonomia.
348
Che è agli antipodi della variazione indotta dall’ambiente.
349
C. Darwin, On the Origin of Species By Means of Natural Selection, or the Preservation
of Favoured Races in the Struggle for life (sesta edizione), Murray, London; trad. It.
L’origine delle specie, Bollati Boringhieri, Torino 1967.
142 Capitolo IV

un principio cieco, spontaneo e casuale 350. La vita variava da sé, spontaneamen-


te. È importante a questo punto delle nostre analisi non cadere nell’errore di
proiettare al tempo di Darwin le acquisizioni biologiche di cui noi siamo infari-
nati oggi. Oggi noi consideriamo come evidenti, se non come ovvie, le variazio-
ni genetiche e la casualità con cui esse avvengono, ma nel 1872 non erano così
note, anzi erano inesistenti. La variazione casuale e autonoma della vita era un
punto rivoluzionario e imprescindibile di tutta la teoria della selezione naturale
e poneva tutte le teorie precedenti fino allora conosciute in una radicale messa
in discussione.
La variazione spontanea delle forme vitali che può essere ereditata e che si eredita di
generazione in generazione era un concetto talmente nuovo che neanche Darwin
stesso, ne L’Origine delle specie, seppe enucleare completamente, rischiando in
numerosi passaggi di sottoporlo, addirittura, nel gravoso rischio di cadere in
contraddizione con se stesso. Come scrisse lo stesso Ernst Mayr la teoria biolo-
gica fu un long argument dello stesso Darwin davanti a se stesso, un lungo ra-
gionamento focalizzato sulla questione di una scelta che lo avrebbe portato,
strutturalmente, in contrapposizione con l’ereditarietà dei caratteri acquisiti
(ereditarietà debole) e a favore della variazione spontanea (ereditarietà forte).
Nella prima edizione de L’origine delle specie, Darwin in talune occasioni sem-
brava cadere in una confusione tra le due ed è ormai accettato che questo, nella
prima edizione del 1872, alcune volte confonda le due formule, passando senza
soluzioni di continuità dall’una all’altra, ma è anche vero che l’opacità generale
iniziale della sua teoria si elimini nelle ultime edizioni e che nella sesta edizione
l’ereditarietà forte prenda il sopravvento e si delinei come un’idea imprescindi-
bile e irrinunciabile. L’ereditarietà debole verrà considerata come una connota-
zione spuria e infedele alla teoria generale della selezione, che è ontologicamente
retta dallo scheletro di un’autonomia della variabilità della vita dall’ambiente
fisico.
Dopo aver ripubblicato L’origine delle specie, Darwin ripubblicò un testo 351del
1868 dedicato espressamente al teorema delle variazioni, in cui riproponeva una

350
Termine tecnico che Darwin utilizza per sottolineare l’azione del principio di igno-
ranza.
351
C. Darwin, The Variation of Animals and Plants under Domestication, Appleton, New
York 1896.
La modernità della vita 143

teoria dell’ereditarietà debole di matrice lamarckiana. La differenza tra lamarcki-


smo e darwinismo è molto netta, il lamarckismo era la teoria newtoniana e zoo-
logica della ereditarietà dei caratteri acquisiti in relazione ai condizionamenti
dell’ambiente 352, il darwinismo era la teoria dell’ereditarietà dei caratteri in base
a variazioni che accadono in autonomia dall’ambiente 353. Fu in seguito ai rap-
porti sulle variazioni dei caratteri di piante e animali allo stato domestico che
Darwin pubblicò L’origine delle specie in cui insisteva sulla nostra ignoranza delle
leggi della variazione e proponeva una teoria della pangenesi in cui riproponeva
nuovamente l’ereditarietà debole, mettendo da parte, completamente, l’idea di
una variazione spontanea. Appena Darwin pubblicò questo testo, i suoi allievi
migliori, tra cui August Weismann e George Romanes, fecero seguire la pubbli-
cazione di numerosi scritti, nei quali affermavano che la teoria della selezione
naturale non poteva rimanere in piedi senza la tesi della variazione spontanea.
Questo a ragione del fatto che, altrimenti, Darwin sarebbe ricaduto nella vec-
chia forma del finalismo delle forme, per cui nell’ambiente esistevano dei calchi
in negativo delle forme organiche, le quali, in prima istanza, nel corso del ciclo
vitale e attraverso il pungolo ambientale si approssimavano al loro dispiegamen-
to completo.
Darwin non era questo e a conferma di ciò vi erano le letture schellinghiane e di
Carus, le quali argomentavano di una variazione cieca e spontanea della vita, per
cui nascevano giraffe con il collo più breve e altre con il collo più lungo; tra
quest’ultime si scatenava una lotta intraspecifica 354, nella quale interveniva la
selezione naturale che condannava a morte quelle col collo più breve e rispar-
miava le giraffe col collo più lungo. La variazione spontanea dei caratteri era una
variazione a priori e senza la quale non ci sarebbe stata alcuna selezione. La va-
riazione dei caratteri offriva un ventaglio di opzioni tra cui la selezione naturale
poteva scegliere. Se non ci fosse stata questa variazione non ci sarebbe stata sele-
zione e senza entrambe ci sarebbe stato solo l’ambiente, che avrebbe preordinato
la configurazione organica delle singole specie viventi 355. È interessante notare
come nelle opere precedenti a L’origine delle specie e nelle prime edizioni di que-

352
Ereditarietà debole.
353
Ereditarietà forte.
354
La quale è già da sempre accompagnata da una lotta interspecifica per la sopravvivenza.
355
In base al finalismo teologico cristiano.
144 Capitolo IV

sta, ripeta continuamente, ma pacatamente, questo principio di non contraddi-


zione, per cui l’ereditarietà debole escluderebbe la forte e come senza una varia-
zione spontanea si invaliderebbe l’intera svolta epistemica che il suo teorema
della vita inaugurava. Darwin prima della sesta edizione de L’origine delle specie
non riusciva in maniera definitiva ad isolare l’ereditarietà debole da quella forte,
oppure riusciva ad abbozzarla senza cristallizzarla in una formulazione definiti-
va.
La concezione completa dell’ereditarietà forte rimase storicamente non legitti-
mata fino a quando essa rimase, radicalmente, un postulato teorico o almeno
fino a quando non rimase un’osservazione critica priva di un riscontro speri-
mentale. All’epoca di Darwin non esisteva un galileiano che in quanto tale aves-
se osservato la variazione genetica, spontanea, delle forme di vita. La variazione
spontanea rimaneva un’interpretazione metafisica, sovradeterminata, o meglio
ancora solo un principio critico (kantiano) ma non esatto (galileiano). A questo
proposito Darwin scrisse che aveva fin qui «parlato come se le variazioni […]
fossero dovute al caso. È questa naturalmente un’espressione del tutto inesatta,
ma essa serve a riconoscere candidamente la nostra ignoranza sulla causa di ogni
variazione particolare» 356.
Darwin qui fa sapere che per quanto il suo teorema si fosse retto su una soglia
critica e in base ad essa pretendeva programmaticamente di raggiungere uno sta-
tuto obiettivo, il suo teorema non solo rimaneva inesatto, ma addirittura sareb-
be rimasto di matrice primieramente schellinghiana e critica. Inoltre in Darwin
notiamo ancora una volta una tendenziale contaminazione tra parole e cose di
due orizzonti ontologici e scientifici differenti e cioè tra l’ordine galileiano (esat-
to) e quello kantiano (critico). La biologia per quanto sapere critico coltivava
pretese di esattezza. Questa costante storica si rinnovava soprattutto nel caso
della declinazione mendeliana e genetica della variazione spontanea. Sia Darwin
sia Mendel, per quanto dipartirono da un orizzonte schellinghiano e kantiano e
instaurarono un regime scientifico di veridicità critica, mossero pretese fisiche,
cioè quelle pretese giustificabili solo ed esclusivamente a partire da riscontri ma-
tematico-sperimentali. Gregor Mendel, negli anni in cui Darwin357 pubblicava

356
C. Darwin, L’origine delle specie, p. 197, 1872.
357
È ormai assodato che Darwin non conosceva Mendel o i suoi studi.
La modernità della vita 145

la sua opera più grande, compiva i primi studi di genetica sui piselli 358. Come ci
confermava in alcune annotazioni, Mendel dichiarò di essere stato avviato allo
studio del particolare fenomeno della variazione genetica dal suo maestro Franz
Unger. Unger fu una figura piuttosto interessante, in quanto era un allievo di
Lorenz Oken, il quale a sua volta fu un allievo di Schelling.
Mendel cercava riscontri sperimentali a un fenomeno critico. Le genealogie teo-
riche che da Mendel risalgono a Unger e a Oken e da Darwin risalivano da
Green e Oken a Carus avevano un pensatore capostipite comune e cioè Schel-
ling. Unger era un ideologo molto attivo dal punto di vista speculativo, elabora-
tore sia di una teoria dell’evoluzione di carattere schellinghiano, sia di una teoria
della selezione naturale. Durante il suo lungo iter teorico Unger sosteneva che la
vita andasse a variare di generazione in generazione.
«La causa della diversità presente nel mondo vegetale non può essere esterna, non è
l’ambiente che induce la variazione, ma deve essere interna. In breve ciascuna specie di
piante di origine recente deve provenire da un’altra 359» 360.
Mendel annotava che proprio sentendo parlare Unger, si interrogherà sulle leggi
della variazione, si porrà lo stesso quesito che impegnò Darwin. Prima di porsi
questo quesito, da un punto di vista galileiano, da un punto di vista sperimenta-
le, Mendel abbisognò di un lavoro che potremmo definire tranquillamente me-
tafisico, che considerò la variazione della vita come una istanza che variava da sé,
una entità critica vincolata dalla sua forza autonoma a rimanere slegata da qual-
siasi condizionamento ambientale. Per adattamento361, prestanza, in Darwin si
intendeva il secondo concetto postulato della sua teoria, che venne elaborato in
associazione a un’altra espressione, proveniente da Herbert Spencer, che era
quella di survival of the fittest 362. Per Darwin avevamo forme di vita che variava-
no, tra queste solo alcune erano destinate a sopravvivere e riprodursi, e ciò in
seguito al riconoscimento di un indice del più adatto. Più adatto voleva dire più

358
Riscoperti solo agli inizi del Novecento.
359
È la teoria de L’origine delle specie per variazione.
360
Citato da E. Mayr, The Growth of biological thought. Diversity, Evolution and Inher-
itance, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), p. 336, 1982; trad. it. Storia del
pensiero biologico. Diversità, evoluzione, eredità, Bollati Boringieri, Torino 1999.
361
Dall’inglese fitness.
362
Sopravvivenza del più adatto.
146 Capitolo IV

adatto all’ambiente 363. Solo le forme di vita più adatte alle condizioni fisiche di
vita e alla lotta per la vita sopravvivevano e sopravvivevano, dunque, in base
all’elevato indice di adattamento. All’interno di questa teleologia Darwin rap-
presentava la superficie dell’ambiente, dell’adattamento, delle forme di vita,
come una superficie di variazione. L’adattamento darwiniano non poteva essere
pensato come un adattamento a forme finali, cioè a calchi sfiorati ogni volta in
negativo, improntati sulla superficie ambientale e attraverso i quali si induceva
l’emergenza e il dispiegamento di certe forme viventi. Per dirla in altre parole,
in Darwin non poteva esserci nessuna causa finale che preformava l’evoluzione
e, anzi, l’unica forza attiva di essa doveva restare una vis-a-tergo, una forza libera
ed autonoma del fenomeno, la quale da dietro l’ambiente muoveva l’evoluzione.
La vis-a-tergo era una forza generica, una forza priva di qualsiasi vincolo formale
e di specie, una forza biologica della nuda sopravvivenza. Più adatto significava
non più aderente a certi modelli formali, ma più conforme alla nuda sopravvi-
venza, alla vita. Scrivere che una forma particolare di vita era più adatta alla so-
pravvivenza, significava, per Darwin, testimoniare un nuovo tipo di teleologia
naturale, in base alla quale si consentiva di calcolare, approssimativamente, il
maggiore e il minore indice di espressione della vita. La vita per la teleologia na-
turale darwiniana era non un fine empirico o addirittura fisico ma puro. In que-
sta articolazione argomentativa sulla vita, era riconoscibile una caratteristica
marca kantiana, dove la finalità secondo la pura forma della finalità era, costan-
temente, priva di un contenuto e di uno scopo. Secondo Kant noi potevamo
parlare di finalità senza scopo ogni qual volta non potevamo porre in una volon-
tà la causa di quella forma e concepire, dunque, la spiegazione conoscitiva della
sua possibilità. In altri termini noi potevamo parlare di finalità senza scopo solo
quando non potevamo scorgere una volizione specifica, la causa di una forma,
o, al massimo, quando potevamo scorgerla solo derivandola da una volontà ge-
nerica.
Il caso della volontà generica, in Darwin, era riproposto nel volto opaco della
vita. La vita darwiniana era una volontà non specifica, generica, di sopravviven-
za. Era in base a questo principio e al criterio correlato che una forma di vita

363
Anche se Darwin non usava questo termine ma l’espressione composita di «condi-
zioni fisiche di vita».
La modernità della vita 147

poteva ritenersi più o meno adatta alla pura sopravvivenza. Questo discorso
chiariva molte cose, molte circonvoluzioni teoriche di Darwin e tra queste so-
prattutto quella in merito alla presunta introduzione da parte del filosofo inglese
di una nuova teleologia della storia naturale. Ritornando per un momento a
Kant, ricordiamo che l’indice di maggiore o minore perfezione di un fine della
natura, di un essere organizzato, era dato dalla sua maggiore o minore perfetti-
bilità. In Kant c’era un’implicita distinzione tra perfezione interna ed utilità 364.
La perfezione interna si aveva laddove una qualche cosa possedeva il suo scopo
dentro di sé365. In alcuni passaggi Darwin, kantianamente, affermava che gli es-
seri viventi erano più o meno perfetti, mentre altre volte faceva presente come
questa perfezione era inconoscibile, non quantificabile. Questa ambivalenza era
ancora una volta l’insorgenza sintomatica di una difficoltà interna al pensiero
darwiniano, la quale non poteva non riconoscere la sua indiretta discendenza
dalla filosofia kantiana. La svolta darwiniana era una svolta regionale e interna
all’ontologia kantiana e conseguentemente l’idea di perfettibilità darwiniana
non apparteneva alla perfezione immobile e immutabile del vecchio finalismo
aristotelico. Il finalismo aristotelico rispondeva a un vitalismo finalistico, una
teleologia vincolata al contenuto della forma, alla sua determinazione. Darwin
introduceva la teleologia kantiana nella storia naturale, traducendone la perfe-
zione in perfettibilità, adattabilità della forma vitale (non all’ambiente ma) alla
pura vita. La perfettibilità cosa rappresentava per Darwin? La perfettibilità era il
potenziamento della vita 366. A questo punto per Darwin affermare che la perfet-
tibilità faceva rima con variabilità il passo era breve e ancora più breve era quello
che lo conduceva a considerare che una forma di vita era tanto più adatta alla
sopravvivenza quanto più era variabile, ed era tanto più variabile quanto più era
perfettibile. In Darwin la pura vita era una pura variazione dove la potenza della
variabilità corrispondeva alla potenza con cui la forza della vita si espandeva.
Tutto questo ragionamento che legava consecutivamente la variazione
all’adattamento è, ricordiamo ancora una volta, una logica di postulati retta e
costruita attorno un principio di ignoranza. Darwin, però, non limitava il suo

364
Perfezione esterna.
365
Come nel caso dell’essere organizzato.
366
Più un organismo è perfettibile e più potentemente esprime forza di vita, più è capa-
ce di sopravvivere.
148 Capitolo IV

impeto speculativo a questa consapevolezza e anzi affermò addirittura che le sue


osservazioni non erano mere osservazioni speculative e, che anzi,
«secondo questa stessa ipotesi, possiamo comprendere perché in una regione ove molte
specie di un genere sono state prodotte, e ove esse oggi prosperano, queste stesse specie
presentino numerose varietà; infatti là dove la fabbricazione di specie è stata attiva po-
tremmo aspettarci come regola generale di ritrovarla ancora in azione» 367.
Altrove scriveva che:
«Quanto più una specie è vigorosa, tanto più facilmente essa si moltiplica, e tanto più
cresce la sua tendenza a moltiplicarsi» 368;
e ancora che:
«Non si può pensare che l’assoluta perfezione esista in alcun luogo» 369.
Dunque, dire che una specie era forte, che era tanto più vigorosa quanto più si
moltiplicava, tanto più variabile, adattabile quanto più vitale, non erano espe-
dienti stilistici, infiorettature teoriche, ma logiche precisazioni e affermazioni
specifiche. Tutte sembrano raggrumarsi in tre principi teorici, quello di perfetti-
bilità degli organismi, quello di diversificazione delle specie e il principio di spe-
cializzazione degli organi delle forme di vita. Il principio di diversificazione delle
specie era una regola generica che Darwin enunciava in svariati punti de
L’origine delle specie e fu in quest’ultimo che lo postulò scrivendo che più le spe-
cie si ramificavano più variavano 370, più accrescevano le loro possibilità di so-
pravvivenza, allontanandosi le une dalle altre, più ramificavano le estremità di
quel grande albero della vita;
«I verdi e germoglianti rametti possono rappresentare le specie esistenti; quelli prodotti
negli anni precedenti possono rappresentare la lunga successione di specie estinte. A
ogni periodo di crescita, tutti i rametti tentano di ramificarsi in tutte le direzioni e di
sorpassare e uccidere i ramoscelli e i rami circostanti, allo stesso modo in cui le specie e i
gruppi di specie hanno in tutti i tempi sopraffatto le altre specie nella grande battaglia
per la vita» 371.

367
C. Darwin, Ibidem, pp. 535-536.
368
Ibidem, p. 135.
369
Ibidem, p. 264.
370
Localizzando varietà che a loro volta possono divenire specie.
371
C. Darwin, Ibidem, p. 195.
La modernità della vita 149

Al principio di diversificazione quelli di perfettibilità e di specificazione erano in


qualche modo conseguenti, in quanto semplicemente squadernavano le costanti
implicite nella deformazione esponenziale che la forza-di-vita era davanti a se
stessa, nella sua costante invisibilità a se medesima. Il principio di perfettibilità
si qualificava in quello di diversificazione delle specie. Più le specie si diversifi-
cavano e più esprimevano variabilità e perfettibilità, che a ruota testimoniavano
gli indici relativi ed assoluti di adattabilità alla sopravvivenza. Lo stesso vale a
livello degli organi di ogni singola forma-di-vita che nella specializzazione degli
organi incrementava le possibilità di sopravvivenza e aumentava il suo vigore-di-
vita. In base alla coniugazione del principio di perfettibilità a livello intraorgani-
co e della specie, Darwin enucleava un rapporto di proporzione inversa tra la
forza-di-vita, il vigore e la definizione della forma-di-vita. Ciò perché più le
forme-di-vita e le specie si diversificavano, si specificavano, si deformavano,
perdevano unità e più cresceva la loro bruciante forza di vita, la loro capacità di
sopravvivere, il loro vigore vitale. Riducendo e schematizzando ai minimi ter-
mini tutto ciò, Darwin voleva dirci che più le forze di vita, intese sia come spe-
cie sia come organismi, rafforzavano la loro forza vitale e più deformavano le
loro forme vitali. Una forma-di-vita o una specie era rispettivamente tanto più
organizzata e consolidata nell’identità di specie quanto più l’organismo tendeva
a disorganizzarsi e rendeva autonomo, specializzato, ogni suo organo e, a livello
della specie, quanto più la specie tendeva a produrre variazioni di sé che poteva-
no rimpiazzare la specie ordinaria nella lotta per la sopravvivenza. È qui che
l’affermazione secondo la quale non esisteva alcun luogo dove si potesse rintrac-
ciare un assoluto perfetto acquisiva il suo senso pieno e ciò in seguito al fatto
che più un carattere variava più tendeva a variare. La vita, sempre se si fosse te-
nuta ben presente che la effimera possibilità di cogliere la sua visibilità a se stessa
era contenuta solo nel suo puro e bruciante rifuggire, era localizzabile solo nei
punti in cui esistevano zone di intensità della vita, regioni in cui tendeva a pul-
lulare e infiammarsi; l’infiammazione seguiva dove c’era variabilità e dove se ne
prospettavano di ulteriori.
Darwin da questo punto di vista era come se ci avesse cartografato i punti di
palpazione della vita, ma nel frattempo ci avvertiva come questa visione specula-
re e speculativa d’insieme era inesplicabile sicuramente «in base alla teoria della
creazione, perché una parte sviluppata in maniera molto insolita in una sola
specie di un genere e perciò, come possiamo logicamente dedurre, di grande
importanza per quella specie, debba essere particolarmente suscettibile di varia-
150 Capitolo IV

zione; ma», allo stesso tempo, «secondo la nostra ipotesi questa parte ha subito,
da quando le diverse specie si sono distaccate dal comune progenitore, una inso-
lita quantità di variabilità e modificazioni, e perciò ci si può aspettare in genera-
le che essa sia ancora variabile» 372.
In altre parole, era inspiegabile sia per il creazionismo sia per la teoria della sele-
zione naturale perché una parte tendente a variare era suscettibile a una ulteriore
e maggiore variabilità. Dopo tutto questo rimaneva ancora un gigantesco inter-
rogativo per Darwin: come si originano le specie? Le specie si originavano se-
condo questa istanza di variazione. Il bersaglio della selezione era l’organismo,
quello che nell’attualità si chiama fenotipo. Le variazioni sono sempre variazioni
organiche; e quale fosse l’origine delle variazioni, quali fossero le leggi delle va-
riazioni, era ignoto. In base a questa effervescenza vitale, nelle formulazioni più
scientifiche e contemporanee della teoria della selezione naturale, nessun geneti-
sta si sognerebbe di sostenere che un gene varia di più in base all’intensità della
sua variazione 373, ma è esattamente ciò che incalzava il gesto metafisico, e filoso-
fico, di Darwin. La terza espressione, e principio, che regolava l’intero impianto
teoretico darwiniano era quella di selezione naturale. Nelle edizioni successive
alla prima de L’origine delle specie Darwin ridefiniva la teoria della selezione na-
turale come la teoria della lotta per la sopravvivenza del più adatto. Essa era una
ridefinizione che, come già si è data la possibilità di comprendere, non aveva un
riscontro fisico ma critico; quest’ultimo era uno scarto, una soglia “del più o
meno adatto”. Questo punto era enigmatico nell’Ottocento come ai giorni no-
stri, tant’è che negli scritti divulgativi degli ultimi trent’anni si è scritto che la
selezione naturale non possiede una teleologia 374 o addirittura che se avesse una
teleologia sarebbe una teleologia delle forme e dell’ereditarietà debole. Questi
sono errori, in quanto la teoria della selezione naturale, consegnata alla storia,
non è una teleologia dell’antica maniera, ma è il finalismo moderno e kantiano,
il quale per quanto parli di forme “più o meno adatte” si continua a nutrire di

372
C. Darwin, Ibidem, p. 539.
373
In quanto la variazione è stocastica, è frutto di errori puramente casuali nella trascri-
zione dei messaggi genetici.
374
S. J. Darwin, «Darwin affermò che l’evoluzione non ha una direzione; essa non con-
duce inevitabilmente a forme più elevate. Gli organismi si adattano meglio ai loro parti-
colari ambienti, e nient’altro», Ibidem, 1984.
La modernità della vita 151

una forza-di-vita. A conferma di quanto scriviamo Mayr, biologo del darwini-


smo ortodosso e protagonista della nuova sintesi 375, affermò che «esiste una sele-
zione in natura secondo Darwin, che riguarda la vitalità in generale, che porta
alla sopravvivenza o alla conservazione, o al miglioramento, della condizione di
adattamento, e questa fu da lui chiamata la “selezione naturale”» 376. Nel testo di
Gould si utilizzava l’avverbio «meglio», in Mayr si parlava di «miglioramento».
Darwin nel corso della sesta edizione de L’origine delle specie offriva dalle 10 alle
12 definizioni della selezione naturale, ma tutte riconducevano allo stesso nu-
cleo teorico; e infatti:
«Se mai si verificassero variazioni utili ad un qualsiasi essere vivente sicuramente gli in-
dividui così caratterizzati avranno le migliori possibilità di conservarsi nella lotta per la
vita e per il saldo principio dell’eredità 377 essi 378tenderebbero a produrre discendenti
analogamente caratterizzati, cioè che presenterebbero le stesse caratteristiche. Questo
principio della conservazione o della sopravvivenza del più adatto l’ho denominato sele-
zione naturale. Esso conduce al miglioramento di ogni creatura in relazione alle sue
condizioni organiche e inorganiche di vita, e di conseguenza nella maggioranza dei casi
a quello che può essere riconsiderato un processo nell’organizzazione 379» 380.
In questo brano Darwin, come tutti i grandi innovatori, non era perfettamente
lucido nell’uso dei termini e tendeva ad esprimere queste idee non sempre con
le espressioni appropriate. Questo crea grossi problemi per la lettura e
l’interpretazione. Una delle cose che lui diceva era «conservazione o sopravvi-
venza»; i due termini non erano equivalenti perché qui il problema non era un
principio di conservazione o un principio di statica delle forme di vita, ma un
problema di trasformazione, di varianza. Nell’ultimo passo di Darwin il termine
più consono era sopravvivenza del più adatto. Darwin parlava poi di progresso di

375
Vedi Cause and Effect in Biology, in «Science», n. 134, 1961; Storia del pensiero biolo-
gico. Diversità, evoluzione, eredità, Bollati Boringhieri, Torino 1999; Un lungo ragiona-
mento. Genesi e sviluppo del pensiero darwiniano, Bollati Boringhieri, Torino 1994.
376
E. Mayr, 1991, p. 179.
377
Darwin si riferisce qui all’Eredità forte.
378
Questi esseri viventi.
379
Non c’è direzione piatta, ma c’è progresso, miglioramento. Il problema sta nel capire
i criteri di questo progresso.
380
C. Darwin, Ibidem, p. 193.
152 Capitolo IV

avanzamento nell’organizzazione, ma compì una svista importante. Quando


scriveva che la selezione naturale evidenziava le variazioni che si dimostravano
più utili, egli utilizzava l’espressione «utilità». Se il postulato dell’utilità fosse sta-
to realmente tale, la teoria darwiniana sarebbe stata una variante naturalistica
dell’utilitarismo 381 dove l’organismo avrebbe mutato la propria forma in rela-
zione al proprio utile. Lo schema humiano fisica → salute → piacere in Darwin
non avrebbe potuto funzionare perché non ci sarebbe potuto essere definizione
dello scopo nella teleologia di discendenza kantiana. Nella teleologia darwiniana
non si sarebbero potute introdurre cause finali, a meno che non si fosse intro-
dotto uno scopo dentro la spiegazione dell’evoluzione per selezione naturale. Se
l’espressione «utile» fosse stata intesa in tal maniera, nel senso di Hume e di
Berkeley, il darwinismo sarebbe caduto in una sorta di pampsichismo o, addirit-
tura, si sarebbe potuto dire che la selezione naturale, la natura, possedeva
un’intelligenza dell’utile. All’accusa di divinizzazione della natura Darwin ri-
spondeva che:
«Si è detto che io parlo di selezione naturale come di una potenza attiva o come di una
divinità, e lo si dice perché il criterio della selezione è l’utilità, qualcuno deve vedere
questa utilità, o lo vede l’organismo stesso o lo vede la natura che in questo caso diventa
una natura divinizzata, perché la natura vede quale è l’utilità e seleziona in funzione
dell’utilità» 382.

381
Nell’Indagine sull’intelletto umano del 1777 Hume scriveva che, «l’utilità è soltanto
una tendenza verso un certo scopo, ma l’utilità implica la definizione di un certo scopo.
Allora come riconoscere questo certo scopo? La ragione è ciò che ci consente di valutare
i mezzi con i quali raggiungere il nostro scopo […]». «Appare chiaro che gli scopi ultimi
delle azioni umane non possono mai comunque essere giustificati dalla ragione ma si
raccomandano da sé ai sentimenti e alle affezioni del genere umano, senza dipendere
affatto dalle facoltà intellettuali […]. Chiedete ad un uomo perché fa esercizi fisici, ri-
sponderà perché desidera mantenersi in salute; chiedetegli poi perché desidera la salute,
replicherà subito perché la malattia è dolorosa, e se andate oltre nell’indagine e vi chie-
dete perché quest’uomo odia il dolore non otterrete mai nessuna risposta. Questo è uno
scopo ultimo, evitare il dolore, e ciò non può essere spiegato in funzione di qualcosa»
(D. Hume, Enquires Concerning Human Understanding and Concerning the Principles of
morals, Clarendon Press, Oxford 1996).
382
C. Darwin, Ibidem, p. 147.
La modernità della vita 153

Questo avrebbe voluto dire reintrodurre la direzione dell’evoluzione alla Gould.


Laddove Darwin poneva l’espressione «utile» noi dobbiamo porre l’espressione
«vitale» e ciò in base a quanto affermava anche Ranciere, il quale in un suo cele-
bre testo andava affermando che il nuovo irrompe non con parole diverse da
quelle precedenti, ma con le stesse parole che veicolano un senso differente. La
selezione naturale non vedeva l’utilità di una certa variazione, non obbediva a
una meccanica eteronoma delle passioni delle forme viventi condizionate
dall’ambiente, essa era autonoma da qualsiasi utile, essa era al di là di qualsiasi
principio di piacere e manteneva in vita soltanto le variazioni organiche che assi-
curavano la nuda sopravvivenza. Essa era una risposta affermativa alla domanda
di vita che ogni variazione portava con sé. Le variazioni venivano selezionate
non, relativamente, in base ad un utile dell’organismo ma, assolutamente, in
quanto vitali, utile alla pura sopravvivenza. Secondo lo schema darwiniano la
selezione naturale non era nemmeno intelligente, essa era la variazione cieca,
acefala. In ultima istanza se si fosse voluto in primis continuare a considerare un
utile dell’organismo, esso sarebbe stato solo una secondarietà dipendente, sem-
pre e comunque, a un primordiale principio di vitalità. La variazione doveva ga-
rantire la vita e non l’utile.
Darwin, seguendo l’elaborazione del concetto di selezione naturale in analogia
con quella artificiale, affermava che esistevano due metodi di selezione: la sele-
zione metodica 383 e quella inconscia. Durante la selezione metodica e artificiale
delle mucche da latte, in una mandria c’erano mucche che producevano più lat-
te delle altre. Gli allevatori, a questo punto, consentivano la riproduzione esclu-
sivamente alle mucche più produttive di latte. Questa selezione metodica
nell’arco delle generazioni produceva a sua volta mandrie di mucche ad alto
rendimento di latte. In questo caso avevamo una selezione basata sul principio
di utilità e su una intelligenza del processo finalizzato alla selezione di certi ca-
ratteri evolutivi. Darwin affermava però che in molti casi gli allevatori selezio-
navano i capi di bestiame non in base a obiettivi precisi e determinati, ma in re-
lazione a un margine di casualità e privo d’utile. Nel margine casuale la selezio-
ne era di tipo inconscia, cieca e infatti:

383
Secondo cui gli allevatori, o gli agricoltori, selezionano, permettono la riproduzione
esclusivamente dei capi di bestiame, o delle piante, che presentano certe caratteristiche.
154 Capitolo IV

«I buoni allevatori cercano di ottenere una nuova discendenza o sottorazza superiore a


tutte quelle esistenti nel paese per mezzo di una selezione metodica, diretta verso uno
scopo determinato. Per noi che è molto più importante un altro tipo di selezione che
possiamo chiamare inconscia e che deriva dal desiderio di ciascuno di possedere e mol-
tiplicare i migliori individui di ciascuna specie […]» 384.
Il fatto che si fossero potute riprodurre casualmente delle variazioni per cui al-
cuni individui/specie sopravvivevano e altri/e perivano per Darwin divenne un
principio esplicativo per cui la sopravvivenza o la lotta per la vitalità era al di là
di qualsiasi orizzonte di utilità. Questo passaggio era fondamentale per capire
come la selezione naturale fosse inutile ma vitale e come si fondasse su un prin-
cipio dell’ignoranza dello scopo. Se la selezione metodica fosse stata diretta verso
uno scopo, quella inconscia sarebbe stata caratterizzata da un’assenza di deter-
minazione, essa sarebbe stata una pura forma della finalità, una finalità senza
scopo, nel senso kantiano dell’espressione. Avevamo, alla fine di questo lungo
ragionamento, tre criteri della teoria darwiniana: variazione o principio di va-
rianza, adattamento o principio di perfettibilità, selezione naturale o principio
di vitalità. Il concerto di questi ultimi ci consentivano di dire quali forme erano
“più o meno” adatte alla sopravvivenza 385. La teoria darwiniana non era utilitari-
stica, non presentava in sé alcun rapporto mezzo-fine o alcuna razionalità stru-
mentale, essa era una dinamis, non una lotta per uno scopo ma una lotta per la
vita. La vita era la nuda finalità senza scopo, la pura forma della finalità che
apriva un campo variegato, non uniforme di gradienti di intensità.
Ricapitolando, la vita per Darwin era scissa, era astratta dalle forme di vita e la
variabilità era tutto ciò che astraeva la vita dalle sue forme. La perfettibilità che
si sostituiva alla perfezione delle essenze aristoteliche mandava in frantumi
l’immagine della grande catena dell’essere ed usciva dall’universo chiuso, uni-
forme, per un universo infinitamente perfettibile. Dopo duemila anni di storia
la metafora paradigmatica della grande catena dell’essere 386 veniva sostituita
dall’immagine della vita 387. La vita darwiniana era perennemente alla ricerca di
un più di vitalità, della sopravvivenza e continuamente in crisi, in bilico. La se-

384
C. Darwin, Ibidem, p. 104.
385
Detta anche lotta per la sopravvivenza, guerra per la vita, la battaglia per la vita.
386
Della conservatio vitae.
387
Della salute della vita.
La modernità della vita 155

lezione naturale era la scelta affermativa o negativa alla vita, il processo inarre-
stabile e dinamico che infrangeva il paradigma hobbesano della conservatio vitae,
e come possiamo vedere dalle applicazioni o traslazioni politiche di questo
schema, l’impianto ideologico era completamente kantiano, condito di sconfi-
namenti possibili dall’orizzonte critico a quello galileiano. L’impianto teorico
darwiniano, come hanno sottolineato anche le recenti genealogie della psicanali-
si politica di scuola lacaniana 388, al contrario delle deformazioni divulgative, si
presterebbe ad una interpretazione molto più sofisticata e raffinata se si seguisse
quello che abbiamo più volte definito come il principio di ignoranza. Il princi-
pio di ignoranza era un principio epistemologico elaborato sulla base
dell’inconoscibilità delle leggi di variazione e sulla considerazione secondo la
quale la selezione naturale era cieca, spontaneus e non riconducibile ad alcuna
utilità e direzione. Darwin scriveva che noi ignoravamo le leggi della variazione,
ma quella che sembrava una resa in realtà era un prerequisito della soggettività
sul piano epistemologico; ma a questo punto cosa scoprivamo? Scoprivamo che
l’ignoranza era insita nella selezione naturale, dunque, che il principio
d’ignoranza non era solo di carattere epistemologico ma anche ontologico.
In Darwin i piani epistemologico, gnoseologico e metateorico si intrecciavano
continuamente e, in base a costanti associazioni, con loro i principi ontologici
di ogni livello. Nel caso in cui Darwin scriveva che laddove ci fosse stata continua
variazione ci sarebbe stata selezione e questa selezione ci avrebbe fatto ipotizzare,
plausibilmente, che ci sarebbe stata altra variazione, cioè la selezione avrebbe pro-
dotto variazione, doveva essere inteso nell’intreccio dei piani. In sintesi ciò che
Darwin rivoluzionava era il fatto di concepire non una teoria della forma della
vita ma della forza della vita. A dire che la vita era una forza conseguiva che la
vita era un più o meno, una soglia critica e variabile di intensità, un campo di
forza. Tutto questo complesso teorico affinché funzionasse realmente sarebbe
stato elaborato anche sull’esasperazione interpretativa, paranoica, di alcuni pro-
cessi vitali che li avrebbero trasformati in drammi metafisici regionali e sclerotiz-
zazioni deliranti, spesse volte addirittura esilaranti. Ciò perché, al contrario di
come affermano i pluralisti 389, la teoria della selezione naturale doveva essere

388
D. Tarizzo, La Vita, un’invenzione recente, Laterza, Roma-Bari 2010.
389
Come Gould.
156 Capitolo IV

onnicomprensiva, doveva spiegare ed esaurire il tutto della storia naturale, pena


la falsità e addirittura la mendacità ideologica di fondo di tutta la teoria. Un
esempio di queste esasperazioni le troviamo proprio in risposta a obiezioni falsi-
ficanti la teoria, susseguitesi tra il 1859 e il 1872; ad un certo punto Darwin
scriveva che:
«La coda della giraffa appariva uno scacciamosche artificialmente costruito 390; e, a tutta
prima, sembra incredibile che essa possa essersi adattata al suo scopo attuale attraverso
lievi modificazioni successive 391, ciascuna di esse sempre più adatta per uno scopo insi-
gnificante 392 come quello di allontanare le mosche; eppure dovremmo riflettere prima di
essere troppo categorici anche in questo caso, poiché sappiamo che la distribuzione e
l’esistenza del bestiame di altri animali nell’America meridionale dipende assolutamente
dal loro potere di resistenza agli attacchi degli insetti: cosicché gli individui che possono
con qualsiasi mezzo difendersi da questi piccoli nemici, sono in grado di insediarsi in
nuovi pascoli e ottenere così un grande vantaggio» 393.
Darwin aveva appena detto che l’esistenza del bestiame nell’America latina di-
pendeva, assolutamente, dal loro potere di resistenza. Nella frase successiva scri-
veva che:
«Non è che i grossi quadrupedi siano effettivamente distrutti [eccetto in casi rari] dalle
mosche, ma essi sono incessantemente molestati e la loro forza è ridotta 394, cosicché essi
sono più soggetti a malattie 395, o meno capaci di procurarsi il cibo al sopraggiungere
della carestia, o di sfuggire agli animali predatori» 396.
In questi passaggi Darwin esasperava le descrizioni dei fenomeni naturali, ciò
non era una deficienza ma un’esigenza intrinseca alla teoria della selezione natu-
rale. Queste descrizioni sono esasperazioni sconfessate, addirittura, da Darwin
stesso, il quale nel 1871 scriveva che:
«Ora riconosco, dopo aver letto i saggi di Nägeli sulle piante e le osservazioni di vari au-
tori sugli animali (specialmente quelle fatte di recente da Broca), che nelle prime edizio-

390
Ovvero non rientra nella selezione naturale.
391
Attraverso lievi variazioni.
392
Trifling, irrilevante.
393
C. Darwin, Ibidem, p. 254.
394
Fenomeno di cui non spiega né il come né il perché.
395
Fenomeno di cui non spiega né il come né il perché.
396
Ibidem.
La modernità della vita 157

ni dell’Origine ho attribuito, forse, troppa importanza all’azione della selezione naturale


o sopravvivenza del più adatto. Ho corretto la quinta edizione dell’Origine, limitando le
mie osservazioni ai cambiamenti di struttura davvero più adatti. Sono convinto, tutta-
via, anche dalle scoperte di questi ultimi anni, che moltissime strutture che ora ci paio-
no inutili verranno nel futuro riconosciute come utili e saranno, perciò, comprese nel
campo di azione della selezione naturale. Nondimeno, allora non presi sufficientemente
in considerazione l’esistenza di strutture che non sono né benefiche né nocive (per
quanto possiamo giudicare ora): io credo che questo sia stato uno dei miei più gravi er-
rori» 397.
A maggior ragione questo ci conferma quanto scrivevamo più sopra e cioè come
all’interno del discorso concernente i criteri di valutazione di un organismo più
o meno adatto alla sopravvivenza, l’ambiente non appare tra questi. Non c’è
condizionamento ambientale, in quanto se così fosse, i testi darwiniani dovreb-
bero sia riportare lunghe descrizioni di ambienti geografici, sia perché dovrebbe-
ro altrimenti riportare un principio di sopravvivenza del più adatto
all’ambiente. All’interno de L’Origine c’erano riferimenti all’ereditarietà debole,
ma essa non era discriminante dell’ereditarietà dei caratteri in generale.
All’interno dei criteri secondo cui era possibile interpretare e spiegare
l’evoluzione, il condizionamento ambientale, la variazione in base a condizioni
fisiche, non era determinante sino al punto di essere pari agli altri principi.
L’impatto ambientale non era un criterio dell’adattamento, come lo spazio so-
ciale non era altro che un circolo della vita, della lotta per la sopravvivenza. Se ci
fossero state modificazioni delle condizioni fisiche di sopravvivenza determinan-
ti, non ci sarebbe stato adattamento alla vita. Lo spazio vitale di cui parlava
Darwin non era lo spazio ambientale ma lo spazio intra/interspecifico di rela-
zioni conflittuali tra individui incipienti, tra individui che domandavano vita,
sopravvivenza e dove la forma di vita più adatta era quella, anche, più conflit-
tuale.
Le condizioni fisiche nel quadro darwiniano non erano condizioni prevalenti e
anzi esse erano modificabili da quelle autonome della vita. Lo spazio vitale,
l’ambiente come immanenza del campo vitale, non era l’ambiente fisico o della
distribuzione geografica delle specie, anzi esso deformava il secondo, il quale

397
C. Darwin, The Descent of man, pp. 70-71, Murray, London, 1871; trad. it. L’origine
dell’uomo, Edizione Studio Tesi, Pordenone 1991.
158 Capitolo IV

neanche nel caso di un evento straordinario poteva costituire una discriminante


per una estinzione specifica e interspecifica di massa. Se Darwin avesse ridotto la
selezione naturale a una selezione ambientale, ciò avrebbe implicato una rein-
troduzione dell’eteronomia del vecchio finalismo che l’impostazione kantiana
esauriva nello scarto critico e storico di una opacità ontologica di nuovo genere.
Nella selezione di una vita autonoma era lo spazio di variazioni spontanee a di-
panare un orizzonte di perfettibilità delle forme-di-vita alla pura vita. Nel caso
di una selezione ambientale avremmo avuto, una perfezione delle forme, un
completo ed equilibrato adattamento all’ambiente; quest’ultimo sarebbe stato il
raggiungimento di uno scopo, una causa finale.
La vita, in Darwin, non solo forgiava se stessa nello spazio vitale della sua aseità
naturale ma, anche, lo spazio ambientale delle condizioni fisiche. All’interno
della teorica dello spazio vitale le tendenziali sclerosi, esasperazioni ideologiche e
metafisiche, di Darwin raggiungevano l’apoteosi, ma non ne L’Origine dove era
strutturalmente impossibile giustificare l’altruismo e qualsiasi tipo di tendenza
alla costituzione di gruppi e comunità da parte di individui intessuti di insocie-
vole socievolezza; il contrario accadeva all’interno di un’opera precedente, del
1871 398, dove Darwin abbozzava un principio in netta contraddizione con i
principi del 1872. Il problema dell’altruismo sociale non era una questione di
cui Darwin si rendeva conto sin dall’inizio, ma rimarrà un ufficio concettuale
gravoso, ancora oggi, per l’ortodossia darwiniana. La lotta intraspecifica,
all’interno di ogni gruppo o popolazione era una conflittualità che per essere
reale presupponeva il contrario dell’altruismo, un vero e proprio egoismo gene-
tico. Dalle api alle formiche e da queste all’uomo Darwin scorgeva società com-
plesse in cui gli individui svolgevano ruoli distinti e integrati. All’interno de
L’origine dell’uomo Darwin postulava una selezione di gruppo, un postulato in
base al quale un gruppo ordinato di individui consentiva una maggiore capacità
di sopravvivenza. Con questo principio ci chiediamo ora: siamo letteralmente in
presenza di un punto falsificante l’intera teoria darwiniana o semplicemente di
un ulteriore punto di opacità? Entrambe le possibilità sono soluzioni accettabili,
anche perché i venti anni successivi alla pubblicazione de L’origine dell’uomo si
caratterizzarono con dibattiti che convalidarono la tesi di incompatibilità della

398
C. Darwin, Ibidem.
La modernità della vita 159

selezione di gruppo con quella generale della natura. L’argomento del battitore
libero era un argomento molto semplice per spiegare l’inconciliabilità di una
selezione di gruppo 399 con quella naturale. Esso poneva che si desse ad un certo
punto una società organizzata, una società di uomini regolata dall’altruismo, in
cui i singoli posponevano il proprio interesse all’interesse altrui, nell’interesse
della società. L’interesse per la collettività favoriva l’incremento delle possibilità
della sopravvivenza individuale e per quanto riguarda la collettività ne garantiva
la sua sopravvivenza nella lotta intercollettiva. Se fossimo rimasti a livello delle
collettività la teoria sarebbe funzionata; il contrario accadeva, invece, nel mo-
mento in cui si fosse risaliti alla radice della teoria della selezione naturale, in
seguito alla quale, ad un certo punto, all’interno di una comunità altruista sa-
rebbe nato il battitore libero, l’egoista. L’egoista non avrebbe posposto il pro-
prio interesse in favore di quello collettivo e anzi si sarebbe riprodotto così velo-
cemente che avrebbe portato la società a decomporsi.
Tra gli anni ’50 e ’70 del Novecento i teorici dell’evoluzione statunitensi furono
letteralmente assillati dall’esigenza di elaborare strategie evolutive stabili, ovvero
modelli teorici che avrebbero risposto positivamente all’obiezione dell’egoista in
un contesto darwiniano. Da Vero C. Wynne-Edwards a John Maynard Smith,
da Edward O. Wilson a Elliot Sober molteplici furono i modelli matematici per
strategie di cooperazione altruistica stabili, ma tra questi i più celebri furono
quelli del pan per focaccia, sviluppati a partire dal dilemma del prigioniero ite-
rato 400 e quello di Dawkins che spostava la questione da un piano di selezione
naturale di gruppo a un piano di pull genetico (o del gene egoista). In Dawkins
si diceva che nel caso in cui si fosse ammessa la tesi dell’altruismo noi non ci sa-
remo trovati di fronte una realtà dove si sarebbe operato altruisticamente, ma in
una realtà dove si sarebbe combattuto per gli stessi geni per cui si combatteva a
livello individuale. La contraddizione tra selezione naturale e quella di gruppo
era un falso problema per Dawkins, il quale la risolse a partire da una precisa-
zione di fondo, secondo la quale l’altruismo non era altro che una questione ap-
parente e superficiale. Dove tutti scorgevano altruismo tra individui differenti,

399
Detta anche darwinismo sociale.
400
Sul dilemma del prigioniero e la teoria dei giochi matematici vedi D. Tarizzo, La vi-
ta, un’invenzione recente, pp. 139-140, Laterza, Roma-Bari 2010.
160 Capitolo IV

Dawkins scorgeva la realtà genetica dei sistemi, dei pull genetici. All’interno di
un modello inter/intragenetico, invece che in uno intra/interorganico, non si
sarebbero scorti fenomeni di altruismo, ma solo comportamenti sociali corri-
spondenti alle dinamiche genetiche. L’altruismo non esisteva in realtà, essa era
un’illusione fenotipica di un atteggiamento del genotipo 401. Dawkins elaborava
una teoria superdarwinista, che portava la sua coerenza fino in fondo, tant’è che
il gene era ancora una volta nient’altro che un postulato e un’entità del tutto
fittizia. È innegabile che la teoria di Dawkins, del darwinismo sociale, sia ancora
oggi una teoria difficilmente suscettiva di riscontri sperimentali e scientifici. Le
discussioni di André Pichot 402 e di Richard Weikart 403 sembrano non lasciare
dubbi e cioè che a fondamento non solo della biopolitica, ma addirittura della
biologia, c’è un fondamento ideologico e metafisico forte, di cui addirittura
l’hitlerismo, il nazional-socialismo, il razzismo biologico tedesco, non fu altro
che una manifestazione conseguente tra tante e possibili ancora oggi sottoforma
di militarismo coloniale a legittimazione scientifica.
Nel Mein Kampf, il manifesto del partito nazional socialista, c’era un capitolo
particolare, intitolato «Popolo e Razza», in cui Hitler testimoniava di essere stato
cresciuto in una cultura del darwinismo sociale. Il darwinismo sociale era, come
abbiamo detto, un postulato della teoria darwiniana e trovava il suo più coeren-
te testimone, come scrive A. La Vergata 404, nel Darwin de L’origine dell’uomo.
All’interno di quest’ultimo la lotta per la sopravvivenza avveniva a livello di
gruppo, tra razze. La razza andava intesa nel senso biologico del termine, come
varietà, essa era un gruppo che variava all’interno di una specie. All’interno di
una prospettiva darwiniana, tra Otto e Novecento il razzismo era la tesi secondo
la quale esisteva una competizione tra razze, una lotta per la sopravvivenza di
una razza sull’altra. Hitler nel Mein Kampf scriveva esattamente di questo: della

401
Detto per questo gene egoista.
402
A. Pichot, Histoire de la notion de vie, Gallimard, Paris 1993; Histoire de la notion de gène,
Flammarion, Paris 1999; La société pure. De Darwin à Hitler, Flammarion, Paris 2000.
403
R. Weikart, From Darwin to Hitler. Evolutionary Ethics, Eugenics and Racism in Ger-
many, Palgrave, New York 2004.
404
A. La Vergata, L’equilibrio e la guerra della natura. Dalla teologia naturale al darwinismo,
Morano, Napoli 1990; Guerra e darwinismo sociale, Rubettino, Soveria Mannelli 2005.
La modernità della vita 161

lotta per la sopravvivenza tra popoli 405. Il primo teorico coerente della selezione
di gruppo, intesa come lotta tra razze, fu Ludwig Gumplowicz 406, il quale
all’interno di uno schema darwiniano discusse di una competizione tra gruppi
ariani. Darwin ne L’origine dell’uomo, non era propriamente un razzista, anche
se parlava di lotta tra razze inferiori e superiori. Darwin fu più che altro uno
specista e ciò venne sostenuto, anche, da un biologo americano, di lui collabora-
tore. Lo specismo era la teoria secondo la quale fra l’uomo bianco civilizzato e i
suoi simili c’era una differenza non di razza ma di specie. Darwin più volte
oscillava tra specismo e razzismo, tra due tesi teoriche determinate in relazione
alle quali il darwinismo sociale protendeva in favore dell’ultima. Tra Otto e
Novecento l’albero genealogico delle razze più in voga fu quello che contrappo-
neva ariani e semiti; ciò non vuol dire che l’antisemitismo discende
dall’evoluzionismo darwiniano, ma che, sicuramente, abbia conquistato la pro-
pria sistematizzazione teorica e scientifica sulle soglie molteplici di promiscuità
che in quegli anni si andavano stabilendo tra la cultura anglosassone e quella te-
desca 407. Hitler fu uno dei figli di questa cultura meticcia, tant’è che nel Mein
Kampf abbiamo delle precise coincidenze testuali tra Darwin e Hitler.
«Chiunque voglia vivere deve lottare, e chiunque non lotterà in questo mondo di eterna
lotta 408, non merita di vivere, anche se è dura […]» 409. «Il diritto da solo è inutile per chi
non abbia il potere di imporre, il forte ha trionfato sempre. Tutta la natura è una città
che lotta, tra il forte e il debole è un costante trionfo del forte sul debole» 410.
A nostro avviso sia i testi darwiniani sia i testi hitleriani sono incatenati tra loro
da precisi vincoli, in prima istanza ideologici, in ultima istanza filosofici e scienti-
fici. Hitler, come Darwin del resto, affermava di non credere nell’eguaglianza

405
Dove il popolo è da intendere come razza o popolazione biologica.
406
Autore di Der Rassenkampf, 1909.
407
Daniel Gasman, nei testi The Scientific Origins of National Socialism: Social Darwin-
ism in Ernst Haeckel and the German Monist League, MacDonald, London 1971 e in
Haeckel’s Monism and the Birth of fascist Ideology, Peter Lang, New York 1998, sosteneva
che Haeckel fu il padre dell’ideologia del fascismo tedesco.
408
Struggle, lotta.
409
C. Darwin.
410
A. Hitler.
162 Capitolo IV

delle razze, la razza non era una cosa astratta, ma un preciso principio, un con-
cetto, ideologico. Scriveva Hitler:
«Io riconosco la differenza tra le razze e non solo la differenza, ma anche il loro maggio-
re o minore valore; e grazie a questa conoscenza tutti ci sentiamo obbligati, in conformi-
tà all’eterno volere che governa, questo universo, a promuovere e a favorire la vittoria
del migliore e del più forte e vigere la sottomissione del più forte e del più debole».
Secondo la tesi di Weikart l’ideologia nazional-socialista non fu un’idea nichili-
sta, dove per nichilismo si intende credere nell’inutilità dei valori e semmai nella
loro inesistenza 411, ma un discorso retto da un’etica precisa e coerente con
L’origine dell’uomo. In quest’ultima Darwin scriveva che:
«Noi uomini civili cerchiamo con ogni mezzo di ostacolare il processo di eliminazio-
ne 412, costruiamo ricoveri per gli invalidi, per gli storpi, per i malati, facciamo leggi per i
poveri, e i nostri medici utilizzano la loro massima abilità per salvare chiunque, fino
all’ultimo uomo. Vi è ragione di credere che la vaccinazione ha salvato migliaia di per-
sone, che in passato sarebbero morte di vaiolo, a causa di una debole costruzione, così i
membri deboli delle società civili si riproducono. Chiunque si interessi all’allevamento
di animali domestici, non dubiterà che questo fatto, sia molto dannoso per la razza
umana; è sorprendente come la mancanza di cure, o le cure mal dirette, portino alla de-
generazione di una razza domestica. Ma escludiamo il caso dell’uomo stesso, difficil-
mente troveremo qualcuno tanto ignorante da fare riprodurre i propri animali peggio-
ri» 413; «In un tempo a venire, non molto lontano se misurato in secoli, le razze umane
civili stermineranno e sostituiranno in tutto il mondo le razze selvagge, nello stesso
tempo le scimmie antropomorfe saranno senza dubbio sterminate; la lacuna tra gli uo-
mini e i suoi prossimi affini sarà allora più larga, perché invece di essere interposta tra il
negro di Australia e il gorilla, sarà l’uomo speriamo in uno stato ancora più civile degli
europei, e le scimmie inferiori come il babbuino» 414.
L’espressione della «lacuna» viene attribuita a Haeckel, il pensatore tedesco che
portò Darwin in Germania, ma in realtà essa è propria di Darwin.
«Per quanto riguarda le qualità morali è sempre in corso una certa eliminazione delle peggio-
ri disposizioni, anche nelle nazioni più civili (che si prodigano cioè contro ogni criterio di
allevamento per soccorrere gli storpi, gli ammalati, eccetera), i malfattori sono giustiziati, o

411
Vedi relativismo debole.
412
Ovvero di selezione naturale.
413
C. Darwin, p. 175, 1871.
414
Ibidem, p. 207.
La modernità della vita 163

vengono tenuti in prigione per lunghi periodi, in modo che non possono liberamente tra-
smettere le loro cattive qualità. Gli alienati, gli psicotici e i melanconici vengono rinchiusi
oppure si suicidano, i violenti e i litigiosi hanno spesso una fine violenta […]» 415.
«Ci sono verità talmente ovvie che proprio per queste non sono viste o riconosciute
dall’uomo della strada […]. Le uova di Colombo stanno a centinaia di migliaia attorno
a noi, e, invece, i Colombo scarseggiano, così gli uomini guardano quasi incoscienti nel
giardino della natura e si illudono di sapere tutto, mentre poi, salvo alcune eccezioni,
passano accanto al fondamento stesso della loro esistenza senza riconoscerlo: qual è que-
sto fondamento? L’intima unicità delle specie di tutti i viventi su questa terra […].
Già ad una osservazione superficiale appare come legge ferrea di tutte le manifestazioni
di istinto vitale, la forma determinata della procreazione e della moltiplicazione. Ogni
bestia si accoppia soltanto con una femmina della stessa specie, la formica va con la
formica, la cicogna con la cicogna e il lupo con la lupa. Solo circostanze straordinarie 416
possono mutare questo fatto, ma in questo caso la natura vi reagisce con tutti i mezzi e
la sua più visibile protesta consiste sia nel rifiutare ai bastardi un’ulteriore capacità pro-
creativa, sia nel limitare la qualità dei prodotti. Nella maggioranza dei casi l’ibridazione,
la natura toglie loro la forza di esistenza contro la malattia e gli attacchi nemici. Un in-
crocio di due esseri di grado diverso da come prodotto una via di mezzo tra i diversi li-
velli dei due genitori. Il che significa la creatura sarà più su dell’elemento inferiore della
coppia, ma non sarà elevata quanto il superiore, perciò nella lotta contro questa specie
più alta essa dovrà soccombere 417. Simili accoppiamenti contraddicono la volontà della
natura che tende a migliorare i prodotti vitali. La premessa di ciò non sta
nell’accoppiare una specie più alta e una più bassa, quanto nella prevalenza della pri-
ma 418. Il più forte deve vincere e non mischiarsi mai al più debole, poiché è così che sa-
crificherebbe la sua grandezza 419. Soltanto i deboli di natura trovano crudele questa leg-
ge, ma sono appunto creature molli e succubi; e se questa legge non dominasse il mon-
do, qualsiasi miglioramento della vita organica sarebbe inconcepibile. La conseguenza di
questo istinto fondamentale della natura nei confronti della purezza della razza, non è
soltanto una rigida delimitazione delle singole razze verso l’esterno, quanto anche la loro
identità all’interno. La volpe è sempre una volpe e l’oca è sempre un’oca; mentre la dif-

415
C. Darwin, Ibidem, p. 180.
416
La costrizione dell’attività, l’impossibilità di accoppiarsi all’interno della stessa specie.
417
Cioè l’individuo che è frutto di questa unione , nella lotta per l’esistenza, soccomberà
rispetto a questa, al ceppo puro di uno dei due genitori.
418
Detta specie più alta.
419
Vedi i gradienti darwiniani di adattabilità.
164 Capitolo IV

ferenza interna consisterà soltanto in diversi gradi di forza, di intelligenza, di abilità, di


resistenza. Ma non si troverà mai una volpe che esprime dal suo interno sentimenti
“umani” nei confronti delle oche, né ci sono gatti che provino simpatia per i topi. An-
che qui, naturalmente, la lotta non si svolge in seguito ad avversioni intime 420, quanto
piuttosto per fame e per amore 421. In ambedue i casi la natura contempla soddisfatta
questa lotta. La battaglia per il pane quotidiano seleziona i deboli, i malati, gli imbecil-
li 422, mentre la lotta dei maschi 423 per conquistare la femmina garantisce solo ai più sani
il diritto o la possibilità di procreare 424. E la lotta è sempre un mezzo per aumentare la
salute e la resistenza della specie; è una causa cioè del suo progresso. Se le cose non stes-
sero così cesserebbe ogni miglioramento della specie e subentrerebbe il contrario. Sic-
come i mediocri sorpassano per numero i migliori, a uguali condizioni di procreazione e
possibilità vitali, i peggiori andrebbero più rapidamente finché i migliori verrebbero
emarginati. Bisogna, dunque, che intervenga una condizione a vantaggio del migliore e
ciò viene fatto dalla natura, in quanto essa sottopone i più deboli a condizioni di vita
così dure che i deboli che il loro numero è limitato […]» 425.
Darwinismo e hitlerismo, dunque, non sono fenomeni identici, ma quasi cer-
tamente il primo è la condizione di possibilità del secondo. Il darwinismo non è
una condizione sufficiente dell’hitlerismo ma una condizione necessaria; e
quest’ultima un’applicazione della teoria biologica alla politica.
«L’uomo che tenta di ribellarsi alla ferrea logica della natura è coinvolto in una lotta
contro i fondamenti a cui deve la sua stessa esistenza come uomo, e perciò la sua azione
contro la natura lo porterà irrimediabilmente alla rovina. A questo punto interviene
l’impudente e sciocca critica dei pacifisti ebrei 426. L’uomo è fatto per vincere la natura.
Miliardi di persone ripetono questa idiozia ebraica e magari credono di essere una razza
eversiva della natura, mentre non possiedono come arma che un’idea, e anche quest’idea
così limitata; ora anche a prescindere dal fatto che l’uomo non ha mai vinto la natura,
ma al massimo è riuscito a sollevare il velo sopra quel cupo dei suoi segreti, che perciò

420
Simpatia o antipatia.
421
Hitler si riferisce rispettivamente alla selezione naturale e a quella sessuale.
422
Passaggio tratto da un passo di Darwin.
423
Riferimento alla selezione naturale.
424
Riferimento alla selezione sessuale.
425
A. Hitler, Mein Kampf, Franz Eher, München 1925; tr. It. Il «Mein Kampf» di Adolf
Hitler, pp. 271-272, Kaos, Milano 2002.
426
Idiozismo.
La modernità della vita 165

egli non inventa niente ma scopre soltanto, non domina la natura, ma è diventato solo il
signore di altre creature alle quali manca la conoscenza della natura. A prescindere da
tutto ciò: una mera idea non può distruggere le leggi del divenire dell’umanità, dato che
quest’idea dipenda a sua volta dagli uomini e quindi dalle leggi che sono il fondamento
naturale dell’esistenza umana. L’uomo che misconosce le leggi della razza 427 rinuncia
alla felicità che voleva conquistare. Egli impedisce la vittoria della razza migliore e con
ciò la premessa di ogni progresso umano» 428.

Le leggi della selezione di gruppo.


427

A. Hitler, Mein Kampf, Franz Eher, München 1925; tr. It. Il «Mein Kampf» di Adolf
428

Hitler, pp. 271-272, Kaos, Milano 2002.


166 Capitolo V

Capitolo V. Modernità del diritto e Psicanalisi

In un tempo in cui il padre è assente e l’unica testimonianza di ciò che rimane a


noi non disponibile ci è resa dalla tecnocrazia 429, che con l’uscita di scena di una
politica delle identità squaderna un orizzonte di forze scientifiche (critiche ed
esatte) che pretendono coattamente obbedienza, una genealogia della modernità
del diritto e una epoché trascendentale della psicanalisi classica sono gli ultimi
due processi necessari più ambiziosi e ardui da eseguire per giungere a inquadra-
re l’orizzonte di senso nuovo di una psicanalisi ontologica e politica di ispirazio-
ne fenomenologica; e ciò sia perché una genealogia della modernità del diritto
non può essere - per ragioni storiche e teoriche - condotta a prescindere da una
epoché della psicanalisi, sia perché la psicanalisi in quanto tale nasce intorno
l’annosa questione dell’autorità e della servitù volontaria - in relazione alla quale
le scienze giuridiche moderne storicamente dipartono e si emancipano -, sia
perché la psicanalisi non è una scienza come tutte le altre.
A differenza delle scienze critiche e umane in generale, e come la critica marxia-
na all’economia politica capitalista, la psicanalisi classica non rivendica per sé
uno statuto di scientificità ma solo la sincerità di un punto di vista metacritico e
clinico. Sottoponendo a epoché addirittura quest’ultimo atteggiamento, che per
definizione non si colloca oltre la modernità ma solo in una sua possibile piega
teoretica ed elevazione a potenza, una psicanalisi politica di ispirazione fenome-
nologica apre un orizzonte di studio ontologico di più ampio respiro, al di là
delle modernità esatte, critiche e metacritiche, dove non solo le scienze tradizio-
nali ma anche quelle più o meno tali vengono disciolte nelle loro sclerosi e
smorfie patologiche. Tutto questo per poi ripartire da una filosofia fenomeno-
logica della carne, suscettiva di porci teoricamente e praticamente al di là della
differenza ontologica che divide le scienze galileiane da quelle kantiane e risco-

429
L’autorità dei saperi che non comandano direttamente, ma lasciano retroagire il co-
mando attraverso un regime, per un verso antipolitico per un altro impolitico, della pu-
ra socialità degli oggetti di scienza. I play politici, i giochi di libertà, sono sostituiti da
game di socialità, da agoni in cui la libertà di alternarsi spontaneamente nei rapporti di
comando e obbedienza viene sclerotizzata nella coercizione esercitata dal comando del
sapere, nell’obbedienza coatta a un’autorità indiscutibile e legittimata epistemicamente.
Modernità del diritto e Psicanalisi 167

prire nuovamente la prassi analitica da un punto di vista predittivo e performa-


tivo molto più concreto.
Nella epoché della psicanalisi classica faremo riferimento non alla lettura di Mil-
ler ma a quella di Tarizzo 430, e all’edizione italiana delle opere complete di
Freud 431 e Lacan 432 ed eleggeremo a punto di partenza delle nostre analisi la Psi-
cologia delle masse e Analisi dell’io (1921), opera spartiacque per l’intera architet-
tura della psicologia del profondo, per terminare poi con la “rilettura di Freud”
compiuta da Lacan.
Al contrario dell’interpretazione comune, che colloca la scrittura della Psicologia
delle masse e Analisi dell’io tra il 1919 e il 1921, - e a partire da approfondite
analisi testuali, riscontri teorici sparsi in tutta l’opera freudiana -, Tarizzo 433 ha
affermato che Freud incominciò a pensare alla Psicologia delle masse già a partire

430
S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io, a cura di D. Tarizzo, tr. It. di E. Gan-
ni, Einaudi, Torino 2014, diverge dalla lettura egemone curata da A. Miller. Come reci-
ta la sinossi della curatela, esso è «un testo tragico e profetico, questo saggio freudiano
del 1921 sulla psicologia dei gruppi e sui processi di massificazione che caratterizzano le
società tardo-moderne continua a sorprendere per la sua attualità. Lo sguardo clinico del
fondatore della psicoanalisi vi rivela tutta la sua capacità ispettiva. Da un lato, Freud
osserva e cataloga precisi fenomeni sociali con la stessa cura con cui un botanico classifi-
ca le piante. Dall’altro, affonda la lama dei concetti psicoanalitici nella carne della storia
con la stessa decisione con cui un chirurgo apre le viscere di un corpo. Il risultato è uno
spaccato inquietante sui vizi congeniti della modernità e sulla sua irresistibile tendenza a
scatenare violenti terremoti politici. Il sogno latente della modernità, il sogno di una
società senza padre, il sogno di una comunità in cui non vigano più rapporti asimmetri-
ci di potere, sembra destinato a rovesciarsi periodicamente nel suo opposto: la riappari-
zione di un Padre primordiale, dai tratti osceni e prevaricatori, cui viene prestata
un’obbedienza cieca e irrazionale. Massa è il nome di una malattia. L’introduzione di
Tarizzo non solo contestualizza il saggio, ma lo mette a confronto con le diverse sfide e i
nuovi problemi del nostro presente, rivelando al lettore tutta la ricchezza di spunti di
riflessione che la psicologia delle masse continua a offrire».
431
Della Bollati Boringhieri, 1977 e 2010.
432
A cura di D. Tarizzo.
433
S. Freud, Psicologia delle masse e Analisi dell’io, a cura di D. Tarizzo, Einaudi, Torino
2013.
168 Capitolo V

dal 1914, periodo a cui appartiene la prima traccia testuale in cui si introdusse
esplicitamente a una psicologia delle masse.
Come al solito la fase iniziale dell’epoché fenomenologica e trascendentale, sarà
quella di comprendere il significato di alcune categorie dell’epoca, interne al
contesto disciplinare e storico che nell’insieme facevano lo sfondo enunciativo a
cui la Psicologia delle masse apparteneva. Con calma cercheremo di capire cosa
significava il termine «massa», che ovviamente Freud utilizzava in tedesco e co-
me questo termine oscillava semanticamente a seconda della lingua in cui veniva
tradotta 434 o delle concettualizzazioni disponibili. Il testo di Freud era un testo
molto complesso sia per quanto riguarda il suo profilo terminologico, sia per
l’epoca in cui fu concepita 435. La stagione della psicologia delle masse da una
parte iniziò e finì simultaneamente alla nascita della sociologia, come disciplina
scientifica 436 e dall’altra alla nascita della psicologia dei popoli 437. La fase centrale
e terminale sarà invece un ulteriore elemento di complicazione, cioè
l’interpretazione della Psicologia delle masse a partire dalla esasperata caratterizza-
zione filosofico-politica che il pensiero freudiano rivela in Lacan. Al contrario di
quest’ultimo Freud non possedeva una struttura teorica omogenea, ma consiste-
va di inflessioni incoerenti, continui rivolgimenti critici, di cui è molto difficile
costruire tracciati evolutivi precisi. Tradizionalmente ci sono grandi scansioni
accertate 438, tra queste quella tra la prima e la seconda topica e rispettivamente
tra la descrizione topologica della psiche come «Inconscio, Preconscio, Con-
scio» 439 e quella tra «Es, Io, Super-Io». La Psicologia delle masse fu un rovescia-

434
In inglese, ad esempio, avevamo due alternative: crowd (folla) e group (gruppo). Nella
traduzione statunitense, che di quest’opera fu approvata da Freud, il titolo fu reso dal
tedesco «Massen-Psychologie» in «Group Psychology». A partire dalla francese Psycologie
des foules (Psicologia delle folle) di Gustav Le Bon, il termine massen era solitamente
espresso con quello di foule.
435
E ciò viene confermato sia dalle poche decadi del primo Novecento in cui la psicolo-
gia delle masse nacque e morì, sia dall’attuale dibattito freudo-marxista mondiale, in cui
oggi la psicologia delle masse ricompare e si rifonda.
436
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.
437
A cui Freud con Totem e Tabù cercò di contribuire nel 1912-1913.
438
In quanto riconosciute dallo stesso Freud.
439
Topica che fa da sfondo a L’interpretazione dei sogni (1900).
Modernità del diritto e Psicanalisi 169

mento critico di prima importanza per l’elaborazione della seconda topica, ma


dove, tuttavia, continuavamo ad essere sprovvisti ancora del concetto di «Super-
Io» 440. L’Ideale dell’Io e il Super-Io erano concetti che nell’opera del 1922 veni-
vano affiancati. Nella Psicologia delle masse 441 Freud non giungeva ancora al
concetto di Uber-Ich (Super-Io), dunque, non eravamo ancora, completamente,
interni alla seconda topica, ma anzi si disponeva al confine tra le due. Un testo
coevo alla Psicologia delle masse era Al di là del principio di piacere (1920), un te-
sto che spartiva il pensiero freudiano tra un Prima 442 e un Dopo 443. La categoria
spartitoria della teoria freudiana di Todestrieb fu elaborata nel 1920, periodo in
cui Freud teneva sempre ben presente il fenomeno clinico. Con la clinica psi-
coanalitica 444 Freud si prometteva di parlare di qualcosa di reale, della sofferenza
psichica e su ciò attuava le sue indagini in maniera molto più profonda rispetto
alla psicologia tradizionale e soprattutto nello scontro critico che la clinica della
sofferenza profonda aveva nei confronti dei quadri gnoseologici che via via in-
terpretava con categorie psicoanalitiche e a livelli ulteriori rispetto a quello indi-
viduale. Il caso della pulsione di morte 445 era esemplare in questo senso e ciò per-
ché essa era non solo una istanza da tener conto nella clinica psicoanalitica indi-
viduale ma, anche, in quella della psicologia delle masse, (dove la melanconia 446
era un fenomeno clinico paradigmatico, uno squilibrio psichico del crocevia tra
sfera individuale e sfera interindividuale). Freud ne L’Io e l’Es 447 scriveva, infatti,
che il «Super-Io» era stato concepito come una raine Kultur448 de Todestriebes,
una pura cultura, una pura civiltà della pulsione di morte, nella quale la melanco-
nia non risultava solo uno dei temi clinici di psicoanalisi individuale, ma appar-

440
Avevamo ancora, invece, quello di Ideal-Ich.
441
Opera che ruotava molto intorno all’Ideal-Ich e al Massen-Ideal.
442
Un Prima della prima teoria delle pulsioni (pulsioni dell’Io e pulsioni sessuali).
443
Un Dopo della seconda teoria delle pulsioni, che si basava sulla distinzione tra pul-
sioni sessuali e pulsioni/e di morte (Todestrieb).
444
Che in questo si distingue dalla filosofia pura.
445
Come Freud ne parlava ne L’Io e l’Es e ne Il disagio della civiltà (1929).
446
Detta anche depressione.
447
S. Freud, Das Ich und das Es, t. it. Opere (1917-1923) IX, pp. 491-501, Bollati Bo-
ringhieri, Torino 1977.
448
Traducibile in italiano sia con il termine «cultura» sia con «civiltà».
170 Capitolo V

teneva, anche, alla psicoanalisi delle masse. Afferrare teoricamente come il tema
della melanconia risultasse centrale sia a livello individuale sia a livello interindi-
viduale e come esso fosse stato strettamente legato all’analisi dell’eruzione feno-
menologica delle masse, permetterà di penetrare l’architettura teorica fonda-
mentale della psicologia del profondo e la regionale concettualizzazione del fe-
nomeno che corrisponde al termine di massa.
In Freud la massa, secondo Tarizzo, è una grandezza politica, una soggettività
politica priva di soggetto. A partire da questa grandezza politica Freud costruì la
sua psicoanalisi inter-individuale e si interrogò sul fenomeno delle soggettività
interindividuali desoggettivate. Le masse erano grandezze psichiche desoggetti-
vate, grandezze al di là di qualsiasi soggetto politico determinato. A partire da
un concetto di tal genere, al di qua della sua clinica, Freud impostava un nuovo
illuminismo critico capace di inquadrare la molteplicità dei dati empirici
nell’insieme di una struttura teorica e pratica coerente, isolandone e discuten-
done il fenomeno nevralgico della nascita e della morte dei popoli. Sia Le Bon sia
Freud, quando scrissero i loro capolavori, avevano questo interrogativo ben pre-
sente: cosa succedeva quando un soggetto collettivo, come un popolo o una na-
zione, moriva? Popolo e nazione sono espressioni dal significato leggermente di-
verso da quello di massa; la massa è una categoria, una concettualizzazione, più
astratta e generale di quella di popolo, ma in quanto tale suscettibile di essere più
adeguata a distinguere, ad esempio, il popolo dalla popolazione. La massa generi-
ca 449, di cui parlava Freud, era una soggettività politica desoggettivata contrap-
posta alle identità politiche stabili e organizzate, una grandezza che rendeva pos-
sibile in maniera accurata, all’ora come oggi, le specifiche per distinguere ad
esempio, in un orizzonte di modernità politica, le molteplici grammatiche che
aggregavano le collettività in dichiarative e in costituenti.
La massa freudiana era una grandezza politica che entrava in attrito con tutte le
forme di identificazione e di omogeneizzazione politica. Quando Freud accen-
nava alla massa come a una grandezza politica desoggettivata, depoliticizzata,
articolava la clinica di una patologia, di una turba psichica collettiva, di un fe-
nomeno al tempo stesso politico e impolitico. In questo senso Freud era illumi-
nista, critico e tragico allo stesso tempo; egli, sembrava, riservarsi dal rispondere

449
La popolazione priva di popolo (identità).
Modernità del diritto e Psicanalisi 171

scientificamente sull’umano, si limitava a un pensiero diagnostico, a una prassi


terapeutica dei disturbi pulsionali 450. In relazione a questa progettualità teorica e
pratica il popolo, nella modernità, diveniva un significante vuoto, un Noi, una
terza persona plurale, in relazione alla quale seguivano caratterizzazioni possibili
del fenomeno politico più facili da analizzare, tra cui Freud individuò ad esem-
pio quelle di nazione, di razza, di classe, di umanità. Il problema della massa è
un problema che Freud affrontò nella seconda decade del Novecento e che si
andò collocandosi all’interno di un orizzonte di senso stratificato sulla Psicologia
delle folle di Gustav Le Bon, le tesi contro la psicoanalisi della scuola psicologica
di Harward (e del suo rappresentante più prestigioso William McDougall 451), la
teoria della Capitolazione 452 di Ernst Haeckel 453, il contenzioso stabilitosi tra lo
psicologo dei fenomeni intermentali Gabriel Tarde e Durkheim, (padre della
nascente sociologia francese) e tutti gli sconvolgimenti storici e geopolitici
dell’Europa degli inizi del Novecento. Su questo campo di esperienze diverse
Freud, nella Psicologia delle masse e Analisi dell’io, interloquì in un primo mo-
mento con i testi di Le Bon e McDougall (edito pochi mesi prima del testo
freudiano) sia per alcuni elementi di interesse teorico che a Freud solleticavano
l’immaginazione, sia perché confutare la scuola psicologica di Harward voleva
dire conquistare alla psicoanalisi uno spazio preminente sullo scenario mondia-
le. In un secondo momento interloquì invece con autori come Tarde e Dur-

450
Di carattere ontologico, e cioè sia individuale sia interindividuale, sia intrapsichico
sia interpsichico.
451
W. McDougall, The Group Mind, Cambridge 1920.
452
La teoria della Capitolazione è la teoria che Haeckel sviluppò a partire dalle tesi di
Darwin, e che Freud utilizzò come elemento portante per fornire una caratura biologica
alle argomentazioni intorno l’addomesticamento sociale delle pulsioni e per spiegare
come la storia degli avi dell’umanità potesse determinare inconsciamente gli individui
delle masse storiche. La teoria della Capitolazione esprimeva in tedesco la darwiniana
legge biogenetica fondamentale, ovvero la legge biologica che individuava uno stretto
parallelismo tra l’ontogenesi, lo sviluppo individuale dell’organismo, e la filogenesi, lo
sviluppo della specie a cui un individuo appartiene. Per cui a ogni fase dello sviluppo
individuale di un biologico umano corrispondeva strettamente una fase evolutiva e di
selezione naturale dell’intera specie umana.
453
Celebre filosofo della natura che traghettò Darwin in Germania.
172 Capitolo V

kheim, citando il contenzioso tra la psicologia intermentale del primo 454 e la so-
ciologia del secondo 455, introducendo il lettore ad essi e cogliendo l’occasione
per oltrepassarli, dialetticamente, sia nei loro approcci intermentali sia in quelli
sociologici tradizionali e, entrando così finalmente nel merito delle questioni,
dipanando i lineamenti di una nuova psicologia politica.
Per poter penetrare la psicologia delle masse di Freud va sempre tenuto ben pre-
sente sia questo generico contesto antagonistico tra discipline accademiche, sia
la sua personale tesi di fondo secondo la quale esistevano fenomeni che non
rientravano né nella psicologia individuale né in una pseudo-psicologia sociale.
Nelle prime due pagine dell’ Introduzione a Totem e tabù Freud scriveva che
quest’ultimo era il suo personale contributo alla psicologia dei popoli. La freu-
diana psicologia dei popoli, in Totem e tabù, raccontava il modo in cui si sono
formate e istituite le comunità umane e il senso con cui la religione aveva influi-
to, in un intreccio indissolubile con le regole sociali, sulla formazione delle isti-
tuzioni umane primitive e pre-moderne. All’interno de Il disagio nella civiltà
Freud, a partire da un’analisi della modernità europea, individuava le ragioni
profonde e generali della crisi della cultura e della civiltà. La civiltà traeva uni-
versalmente origine da una crisi, da un conflitto dalle dimensioni quasi mitolo-
giche, interagente tra due forze 456, nel quale si esercitò continuamente una mol-
titudine di sacrifici pulsionali che lo sviluppo della civiltà in quanto tale poi im-
pose sugli individui, provocando turbe e parossismi. In sintesi è la psicologia dei
popoli, la psicologia delle civiltà, la psicologia delle religioni, le prospettive te-
matiche tramite le quali Freud si accostò ai fenomeni che non appartenevano
alla clinica individuale e alla psicoterapia, e che dal 1922 in poi collocarono la
psicologia delle masse nella fase di transizione teorica dalla prima alla seconda
topica. L’Es fu definito come il luogo delle pulsioni (l’inconscio della prima to-
pica), ma ciò che Freud ci tenne a sottolineare nella seconda topica fu il fatto
che anche il perturbante Super-Io rientrava nel livello inconscio.

454
Per L’opinione e la folla di Tarde esistevano fatti mentali e fatti intermentali, ma non
fatti o rappresentazioni sociali.
455
Per Durkheim non esistevano fatti mentali e intermentali ma solo la società, i fatti
sociali.
456
Eros e Thanatos.
Modernità del diritto e Psicanalisi 173

Di questi problemi si dibatté molto all’interno della Società psicanalitica di


Vienna, in quel luogo propulsivo e privilegiato d’Austria per lo sviluppo della
psicoanalisi in Occidente che, a differenza di quelli italiani e tedeschi, raccoglie-
va tra le più interessanti attività di scambio e confronto per le personalità e le
discipline più disparate. Per lo specifico discorso sulla psicologia delle masse a
noi interessano principalmente alcuni convegni e seminari, della Società vienne-
se, ai quali furono legati due nomi in particolare: Paul Federn e Hans Kelsen.
Contro le tesi teoriche freudiane 457 il primo, in un articolo del 1919 458 pubbli-
cato sul giornale austriaco Der Oesterreichische Volkswirt, elaborava un allonta-
namento non solo clinico e politico ma, anche, teorico da Freud. In una Europa
sconvolta dai movimenti rivoluzionari e dai consigli di fabbrica per suo conto
Federn teorizzava la svolta politica da una società verticalizzata del padre a
un’altra organizzata da un patto orizzontale tra i fratelli 459, rinnovato costante-
mente a cavallo del riformismo e dell’innovazione giuridica. Il principio esplica-
tivo di quest’ultima era di ordine psicanalitico e cioè la disillusione di massa nei
confronti degli stati ecclesiastici e militari con a capo le autorità paterne dei re
imperatori e del dio monoteista. I fenomeni catalizzatori di questa svolta furono
sia il nichilismo anarchico-insurrezionale sia il socialismo organizzato austriaco,
tedesco e italiano. Questi ultimi occuparono il vuoto lasciato dalle istituzioni
paterne spodestate, tra cui più di tutte il parlamentarismo borghese a difesa del-
la proprietà e dell’eredità patriarcale, con delle istituzioni fraterne (Bruderschaft).
Parafrasando Federn, egli affermava che in America e nella Russia bolscevica ave-
vamo degli esperimenti di società senza padre e questi esperimenti lasciavano sperare
per un futuro non troppo remoto. Il fatto che in America la repubblica fosse ancora-

457
Secondo le quali quando una comunità politica organizzata terminava storicamente
per divenire caotica, gli individui della massa disorganizzata esigevano un’autorità in
carne ed ossa in cui riconoscersi, e in cui si rappresentava il padre simbolico di una fra-
tellanza di individui regrediti in un branco primitivo di quasi biologici, e contro la con-
vinzione clinica secondo la quale era impossibile che avvenisse la liberazione dal padre
senza neanche il tramite della sua immagine.
458
Zur Psychologie der Revolution: Die Vaterlose Gesellschaft (Contributo alla psicologia
della rivoluzione: La società senza padre), di cui si tenne sia una conferenza nella Società
psicanalitica di Vienna, sia un convegno alla lega dei monisti di Haeckel.
459
Celebri i casi citati della rivoluzione americana e di quella bolscevica.
174 Capitolo V

ta in maniera così impressionante nel sentimento popolare, aveva probabilmente la


sua ragion d’essere psicologica nel fatto che tutti gli emigrati avevano lasciato in Eu-
ropa gli oggetti delle loro relazioni padre-figlio, si erano lasciati alle spalle il rappor-
to col padre e molti lo avevano fatto con i sentimenti più ostili e lo avevano fatto in
quanto la figura paterna era oppressiva; quello che trovavano profondamente nella
loro psiche, arrivando in America, era anche un distacco da queste origini insidiose.
Con la speranza che la liberazione di cui la statua del porto 460 recava loro il saluto li
trasformava in fratelli con pari diritti; oltre tutto mancava in America una discen-
denza comune che inconsciamente rafforzava l’idea di un padre comune. Il popolo
americano non era per Federn un popolo-nazione, come il popolo francese, ra-
gion per cui in ogni individuo del primo non era inculcata l’idea di un padre/di
una patria comune.
Questi esperimenti per Federn, per quanto importanti, non rappresentavano
ancora la realizzazione di una società senza padre. Sia nell’esempio bolscevico sia
in quello americano persisteva ancora un’asimmetrica dialettica della paternità,
una costante dell’intera filogenesi umana 461. Certamente in una società dei fra-
telli sembrava sparire il senso di colpa che seguiva sempre la sottomissione a un
padre, ma la risposta di Freud a questo genere di teorizzazioni nella psicologia
delle masse fu che, in realtà, le cose erano molto più complicate di quanto appa-
rissero e il processo verso la compiutezza della modernità e della sua utopia,
probabilmente, era molto più lento. Questo perché, innanzitutto, la figura fra-
terna apparteneva allo stesso schema della figura paterna, dove l’egualitarismo
fraterno era ossessionato dal parricidio e dove l’autonomia della fraternità dalla
paternità si interrompeva tragicamente. Nell’attualità in cui Federn scriveva,
una società senza padre, priva anche del suo totem, si sarebbe, secondo Freud,
autodistrutta in una lotta tra fratelli. Freud citava questo testo come indicatore
di un dibattito in atto all’epoca e decise di mettere nero su bianco quale era la

460
La statua della Libertà.
461
E qui Federn si riferiva a Totem e tabù, dove Freud affermava che la cultura come
civiltà umana ha le sue origini dentro la religione totemica, la prima apparizione di una
figura paterna in forma di dio, che costituisce il cemento delle istituzioni morali e poli-
tiche delle prime società umane. Freud era un’illuminista e credeva che la psicanalisi fos-
se una scienza. Egli sognava una liberazione dalla discendenza totemica, e ad esempio in
L’avvenire di un’illusione faceva letteralmente a pezzi la religione.
Modernità del diritto e Psicanalisi 175

sua lettura della questione e dunque, anche, quale era la sua posizione politica a
proposito della rivoluzione bolscevica. Federn divenne vicepresidente della So-
cietà psicanalitica di Vienna dal 1924 al 1938 462, ma non accetto mai comple-
tamente l’essenza tragica dell’illuminismo di Freud. A tale proposito molti teo-
rici conclusero, invece, in accordo con la tragedia freudiana, tra cui più di tutti
Sergej Tichakhotine, che nel suo Lo stupro delle folle attraverso la propaganda po-
litica 463, ricapitolava e convalidava le tesi freudiane. In base al ragionamento
freudiano per teorici come Tichakhotine la società umana doveva trarre origine
nella società primitiva totemica, frutto della rivolta conclusasi con l’assassinio del
padre, ma l’immagine del padre, il totem, avrebbe dovuto persistere nella società
primitiva e, a partire da questa immagine, creare le leggi e la morale sociale. Il
bambino diventato uomo adulto non poteva fare a meno dell’autorità del padre, e la
ricercava attivamente nel conduttore delle folle, nel conduttore-capo della collettivi-
tà, nel capo di stato. Reiwald, di cui Tichakotine riportò le tesi, affermava che
Lenin al pari di ogni rivoluzionario sincero aspirava a fare decadere il potere del
padre per instaurare la collettività fraterna, la vera democrazia. Lenin era un au-
tentico democratico, ma per poter realizzare questa aspirazione fu costretto a far ap-
pello a una disciplina di ferro e ad instaurare la dittatura. Si arrivò, quindi, a un
dominio della dittatura nella vita politica ed economica mentre la democrazia si
andava affermando nella vita culturale. Constatando, pertanto, che malgrado i ri-
volgimenti inauditi che la Russia subì in seguito la rivoluzione, le radici profonde
dell’affettività esteriorizzandosi nella vita sociale non erano state toccate. I rapporti
tra le masse e il conduttore non sembravano essere stati sensibilmente modificati. Il
complesso del padre dominava la Russia comunista, la posizione di Stalin
nell’unione sovietica ne era una prova eloquente. Questi passaggi ci danno l’aroma
lessicale delle questioni, e l’obliquità degli interrogativi, posti dagli psicologi del-
le masse, sui fenomeni storico-politici del tempo. Il problema cruciale è che la
questione della rivoluzione era un tentativo di cancellare l’asimmetria dei rap-
porti politici e sociali, che addirittura per Kelsen era di taglio paterno. Il proces-
so rivoluzionario era un processo molto complesso da portare avanti, in quanto
si trattava di lavorare affinché si apportassero dei cambiamenti sin alle radici
profonde dell’affettività o in altre parole sino alle radici psichiche profonde dei

462
Anno in cui fuggirà negli Stati Uniti d’America.
463
Testo del 1939.
176 Capitolo V

soggetti rivoluzionari, i quali da una parte tendevano ad abolire l’autorità pater-


na, ma, inconsciamente, non potevano fare altro che riscoprirla, riproporla, in
forme diverse e trasfigurate; e non erano i grandi capi a introdurre questo feno-
meno ma le masse.
Kelsen, grande filosofo del Novecento, sin da giovane fu un teorico del diritto
molto brillante, teorico tacitamente fedele alla modernità kantiana del diritto, e
già prima della redazione della Costituzione austriaca (1920) era venuto a far
parte dei seminari di Freud negli anni della Grande Guerra, in seguito
all’intervento di Hans Sachs, avvocato, psicanalista e redattore insieme a Rank
della rivista Imago. Nell’estate del 1921 a Seefeld, Freud e Kelsen trascorsero le
vacanze insieme e discussero ampiamente intorno la stesura della Massenpsycho-
logie und Ich-Analyse 464. Al 30 novembre 1921 risale l’intervento di Kelsen 465
alla Società psicanalitica di Vienna, testo decisivo per lo sviluppo del pensiero di
entrambi e soprattutto per quanto riguarda l’elaborazione della Dottrina pura
del diritto. In esso si proponeva alla personalità del padre e alla lotta tra i fratelli
l’impersonalità della legge, un insieme di norme pronte ad esprimere sempre in
maniera rinnovata il patto fraterno 466. Nel 1922 nel numero VIII, fascicolo 2, di

464
Vedi in proposito le precisazioni di E. Balibar, Invention of the Super-Ego. Freud and
Kelsen 1922, Univérsité de Paris X Nanterre and The University of California, Irvine.
Balibar mette in discussione le indicazioni di Jones e della sua biografia di Freud “Vita e
opere di Freud. L’ultima fase (1919-1939)”, p. 104, Il Saggiatore, Milano, 1962.
465
Intitolato Il concetto di stato e la psicologia sociale con particolare riferimento alla teoria
delle masse di Freud.
466
Ciò che Kelsen ignorava e forse anche volontariamente per distinguersi da C. Sch-
mitt - che alla tendenziale inazione giuridica kelsenana preferiva una costituzione come
scelta politico-giuridica fondamentale - è che la legge o il patto fraterno non era infinito
e quando esso non fosse stato più animato dal nucleo incandescente di un’ispirazione
politica e identitaria la legge sarebbe morta; non è solo opinione nostra, ma di molti al-
tri acutissimi studiosi marxisti. Secondo G. Preterossi, Carl Schmitt e la tradizione mo-
derna, Laterza, Roma-Bari 1996, per Schmitt Kelsen cadde in ciò che lo stesso si tenne
ben lontano da compiere e cioè una specie di tacito occultamento - dietro una supposta
neutralità e positività di un factum giuridico - dell’evento politico a fondamento di una
qualsiasi Costituzione. La Costituzione per Kelsen, almeno in ultima istanza, diviene un
evento giuridico-politico ma in base alla concezione secondo cui il presupposto politico
è considerato primariamente come ipopolitico e ipergiuridico. In Kelsen nei primi scrit-
Modernità del diritto e Psicanalisi 177

“Imago. Zeitschrift für Anwendung der Psycho-Analyse auf die Geisteswissenschaf-


ten”, Kelsen pubblicò l’intervento con il titolo di Der Begriff des staates und die
Sozialpsychologie. Mit Besonderer Berücksichtigung von Freuds Theorie der mas-
se 467. Freud replicò Kelsen con una nota alla seconda edizione della Psicologia
delle masse e Analisi dell’Io. Su cosa insistevano i due interventi di Federn e di
Kelsen?
Entrambi insistevano sulla questione, cruciale per Freud, della figura paterna
come fonte e modello dell’autorità di un uomo sull’altro. La modernità matura
di entrambi non si abbozzava però con il gesto lockiano del I Trattato sul gover-
no 468 - dove il filosofo inglese poneva, comunque, in discussione la tradizione -
ma riproponendo continuamente le prospettive inerenti a un orizzonte di senso
kantiano.
L’autonomia dalla paternità, teorizzata e praticata attraverso la sua immagine,
sia nella modernità classica sia in quella tarda, non è una questione che gode di
sufficiente attenzione, come del resto non si prende sufficientemente in conside-
razione la sua importanza per l’approccio freudiano. Al contrario di filosofi po-
litici dell’ultima ora, come Ernesto Laclau 469 ed Etienne Balibar, che non sotto-
lineano la questione della paternità in Freud, la I Scuola di Francoforte 470 affer-

ti si affermava che il fenomeno originario del diritto-stato era la Costituzione, il feno-


meno rivoluzionario e iperpolitico; negli scritti più maturi Kelsen riduceva la rivoluzio-
ne e il politico a diritto e norma costituente, giuridicamente fondamentale. Lo stato in
Kelsen diveniva sia sclerosi sociale, l’irrigidimento giuridico di una scelta popolare, sia la
dinamica produttiva di un diritto costituente e ispirato normativamente - dove per
normativo si intende ciò che è in autonomia rispetto allo psicologico e alla causalità fisi-
ca-.
467
La traduzione in inglese risale al 1924 nel vol. V, parte I, di The International Journal
of Psycho-Analysis, con il titolo di The conception of the State and Social Psychology with
Special Reference to Freud’s Group Theory.
468
Dove Locke faceva a pezzi un altro testo, Il patriarca di Robert Filmer, in un mo-
mento emblematico della filosofia politica moderna classica. Filmer sosteneva che dio-
padre conferì autorità a re-padre, al monarca, che questa autorità fosse naturale e che
tutto l’ordine pubblico si reggeva sull’indiscutibile ordine medesimo consolidato dalla
tradizione.
469
Vedi La ragione populista, a cura di D. Tarizzo, Laterza, Roma-Bari 2008.
470
Vedi gli studi di Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Erich Fromm.
178 Capitolo V

mava giustamente che l’autorità politica si radicava in un’autorità familiare e in


un processo continuamente reversibile. A parte la I scuola di Francoforte 471 già
Federn e Kelsen insistevano nei loro interventi sull’autorità tout court,
sull’autorità del padre. Abbiamo due testi di Kelsen sull’approccio psicoanalitico
alla questione dello stato e a quella dell’autorità e cioè Il concetto di stato e la psi-
cologia sociale con particolare riferimento alla psicologia delle masse di Freud e Dio
e stato. La giurisprudenza come scienza dello spirito.
In Dio e stato Kelsen ricapitolava le tesi freudiane su quella che era l’autorità tout
court, l’autorità paterna. In esso si scriveva che secondo Freud l’affinità psicologica
dell’atteggiamento religioso e di quello sociale andava spiegata non per ultimo col
fatto che i due legami (religioso e sociale) riportassero, si riferissero, a una medesima
e unica e fondamentale esperienza psichica, che opererebbe in modo uguale nella re-
lazione con l’autorità sociale. Era il rapporto 472 del figlio col padre che penetrava
nella mente del fanciullo come un gigante, come una forza superiore. Dopo
l’infanzia ogni autorità veniva vissuta come padre e come sostituti del padre e cioè
apparivano nelle vesti di un dio venerato, di un eroe ammirato, di un principe
amato con rispettoso timore. All’inizio del suo articolo Kelsen ripercorreva sem-
plicemente la sua lettura di Freud, ma essa è importante per noi in quanto colse
“il punto freudiano”, cioè l’insistenza di Freud sull’autorità come derivata di
un’esperienza psichica che metteva radici nell’infanzia e che scolpiva il rapporto
in funzione del legame con il padre. Tutto questo fu di estrema importanza per
tutto lo sviluppo successivo del pensiero di Kelsen, in quanto lo studio di questo
fenomeno lo riportò continuamente a confrontarsi con un’asimmetria costituti-
va dei rapporti sociali. Il fatto che l’autorità paterna, religiosa e sociale, il totem
del padre primordiale o la divinità, fosse il modello alla fonte di ogni civiltà era
ritenuto da Kelsen una sciagura. Così come sul piano religioso sul piano sociale

471
La Scuola di Francoforte si formò a partire dal 1922 nell’Istituto per la ricerca sociale e
ad essa appartennero autori come il sociologo Karl August Wittfogel, gli economisti Hen-
ryk Grossman, Friedrich Pollock, lo storico Franz Borkenau, i filosofi Max Horkheimer,
Theodor Wiesengrung Adorno, Herbert Marcuse, Walter Benjamin, Alfred Scmidt, Oskar
Negt, Jürgen Habermas (II Scuola di Francoforte), Max Honnet (III scuola di Francoforte),
il sociologo della letteratura Leo Löwenthal, il politologo Franz Neumann, lo psico-
sociologo Erich Fromm.
472
Questa esperienza psichica.
Modernità del diritto e Psicanalisi 179

la figura del dio-padre dava luogo a delle aporie e a dei paradossi interni che, ad
esempio, il pensiero teologico poteva sbarazzarsi abbracciando solo un radicale
ateismo 473. La teologia politica poteva eliminare le sue aporie morendo come
teologia e rinascendo come pensiero ateo. Allo stesso modo sul piano sociale era
la figura dello stato-padre che andava abbandonato. Nella concezione dello stato
che personificava l’autorità paterna nel corpo di una sua ipostatizzazione giuri-
dica474 andavano eliminate le sue aporie e andavano eliminate con il totale ab-
bandono del modello stato-padre. Questo abbandono nella disciplina del diritto
pubblico significava fare rotta verso una nuova dottrina del diritto, quella che
già in questo saggio Kelsen chiamava una Pura teoria giuridica, nozione che ri-
corda molto da vicino quella che verrà poi chiamata Dottrina pura del diritto.
Questa pura teoria giuridica dello stato, secondo Kelsen, dissolveva il concetto
di uno stato diverso dal diritto e lo dissolveva nel momento in cui oltrepassava
la questione annosa dell’impossibilità dell’auto-obbligazione del sovrano alla
legge dello stato. Eliminata la personificazione dello stato con il corpo del mo-
narca Kelsen dissolveva la teologia politica e con essa l’origine dell’abbaglio se-
condo cui l’autorità sociale e religiosa si scolpiva nel profilo personale della pa-
ternità (da cui la psicoanalisi ci aiutava a prendere congedo). Liberarsi
dell’ipostatizzazione sul piano della storia della cultura significava una cosa ab-
bastanza rilevante e cioè che nel percorso di Kelsen, nel percorso di colui che
disegnerà l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite), l’incontro con Freud
rilancerà il sogno profondo della modernità politica, il sogno che già nel I Trattato
sul governo di Locke era quello di disfarsi dell’autorità di un uomo sull’altro, di
un’autorità asimmetrica. La fonte e il modello tradizionale di questa asimmetria
era la figura paterna. La modernità politica poteva, anche, essere definita come
il progetto per una società senza padri, la quale voleva dire una società senza
rapporti asimmetrici di autorità.
Il programma di modernizzazione giuridica di Kelsen portava avanti
l’emancipazione della modernità non solo filosofica ma, anche, politica. Una
società senza padri, completamente democratizzata, per Kelsen non era né una
società ideale né una società reale ma una società migliore. Kelsen fu spinto in

473
Di ciò parla in Dio e stato.
474
Il monarca.
180 Capitolo V

questa direzione dal pensiero di Freud e su questa scia svuotò poi la costruzione
giuridica dello stato-presupposto del valore politico come sfondo delle norme
giuridiche; con Kelsen si varcò la soglia del diritto premoderno, nacque e si in-
sediò una modernità del diritto, una umanità giuridico-politica, quella umanità
che tende ad esaurire qualsiasi suo profilo possibile a un che di più o meno giu-
ridico. Tacendo la propria discendenza teorica da Kant e contrapponendosi alla
vena hegeliana di C. Schmitt, Kelsen potrebbe anche essere restituito come il
teorico kantiano dell’inazione giuridica. Kelsen in questo senso fondava
l’originalità e la specificità dell’alternativa a Schmitt, per il quale invece la
grammatica costituente era da considerarsi sì il fatto giuridico dello stato mo-
derno, ma anche come la scelta politica fondamentale dello stato in relazione al
quale il potere politico-giuridico costituente esprimeva un’autorità, una sovrani-
tà popolare. Al kantismo di Kelsen Schmitt preferiva e si riferiva tacitamente a
una gewalt hegeliana; più che alla Metafisica dei Costumi Schmitt amava riferirsi
nascostamente alla Fenomenologia dello Spirito in base alla quale il politico ri-
maneva il fondamento osceno e metafisico di ogni statualità giuridica.
In altre parole per Schmitt, a differenza di Kelsen, la costituzione moderna na-
sce soprattutto con le rivoluzioni francese e americana, esperienze in cui da una
parte è stata elaborata la dottrina del pouvoir constituant come attributo del po-
polo e costituzione di ciò che è costituente, dall’altro il riconoscimento nel po-
polo di una soggettività fino ad allora de-soggettivata. La rivoluzione francese
identificava il soggetto politico e il suo potere strettamente con quello giuridico,
con il suo potere costituente. La rivoluzione americana tiene ben distinti i due
momenti, quello più propriamente politico-dichiarativo e quello più propria-
mente giuridico-costitutivo. La rivoluzione francese, inoltre, si rappresenta co-
me immediatamente costituente e come la rottura rivoluzionaria con la Francia,
scissione che opera l’inizio storico del popolo-nazione francese. Prima della co-
stituzione del popolo come potere costituente quest’ultimo, il popolo, non è né
evidente né esistente. Solo quando l’esistenza politica diviene giuridica, potere
costituente, consapevole di sé nella forma di un popolo-nazione, il popolo legi-
fera come una sovranità autonoma, una soggettività emancipata e da emancipare
da qualsiasi dio-padre e dio-re. Hegelianamente Schmitt afferma, al contrario di
Kelsen, che nel momento in cui la rappresentazione monarchica viene negata di
fiducia, il popolo diviene il nuovo signore che detiene la sua positività
nell’effettiva prassi costituente, nell’atto formale stesso che compie l’esistenza e
la manifestazione di un’identità. Da questo punto di vista il politico è una forza
Modernità del diritto e Psicanalisi 181

di pura autonomia, una forza non imbrigliabile, in relazione alla quale il popolo
rimane una soggettività perennemente problematica (da farsi), una grandezza
negativa e, come scrive Preterossi, «il riconoscimento consapevole di un’esigenza
ineluttabile, la trasformazione di un presupposto in fine […], un’auto-finalità
vuota» 475.
Nel testo del 1919, La Società senza Padre, con riferimento a queste auto-finalità
vuote, in una Europa sottoposta a sommovimenti rivoluzionari Federn teorizza-
va una svolta teorica e clinica capace di incarnare il passaggio da una società ver-
ticale del padre a un’altra organizzata da un patto orizzontale tra fratelli, rinno-
vato costantemente da una espressione giuridica riformista e disposto al cam-
biamento e all’innovazione. In una società dei fratelli sembrava sparire la sotto-
missione a un padre, quando invece per Freud la liberazione dal padre non po-
teva non avvenire per il tramite della sua immagine 476. Una società senza padre,
priva anche del suo totem, per Freud si sarebbe autodistrutta in una lotta tra
fratelli. Kelsen, oltre Federn, ignorando il fatto che il patto totemico prima o
poi si sarebbe infranto, proponeva in alternativa, sia alla personalità del padre
sia alla lotta fratricida, l’impersonalità della legge totemica 477.

***

Per offrire un affresco ulteriore del dibattito entro il quale la Psicologia delle mas-
se venne concepita, approfondiamo oltre Kelsen, Federn e Schmitt, le due figure
di Le Bon e di McDougall, le quali a loro volta vanno inserite in un rapporto
dialettico con il dibattito tra Tarde e Durkheim. Prima di tutto bisogna com-
prendere cosa si intende con la parola «folla», con la parola «massa», o con gli
equivalenti nelle diverse lingue europee.

TEDESCO INGLESE FRANCESE ITALIANO


Crowd Foule Folla
Masse Mass Massa
Gruppe Group (Groupe) Gruppo

475
G. Preterossi, Carl Schmitt e la tradizione moderna, p. 29, Laterza, Roma-Bari 1996.
476
La quale è impossibile da cancellare.
477
Un’insieme di norme pronte ad esprimere, criticamente, il patto tra fratelli.
182 Capitolo V

La psicopatologia era l’ambito disciplinare che si occupava di studiare i fatti


mentali dei singoli individui. Quest’ultima era condotta sempre in una prospet-
tiva clinica e psicologica. La psicologia delle masse studiava i fatti mentali sul
piano delle collettività, studiava quelli che Gabriel Tarde avrebbe chiamato fatti
intermentali o interindividuali. Questi fatti inter-individuali, erano, per Tarde,
processi collettivi in cui i processi mentali costruivano dei fondi sotterranei, de-
gli insiemi di asserzioni fondamentali, su ciò che esisteva in realtà. Fuori, nella
realtà, per la psicologia delle masse, esistevano fatti mentali collettivi, fatti inter-
individuali. Questo tipo di approccio era quello che trovavamo nel testo molto
celebre, di Gustav Le Bon, La psicologia delle folle, ma in generale esso era un
orientamento assai complesso; a cavallo tra il XIX e il XX secolo ci furono studi
di psicologia delle masse in USA (Stati Uniti d’America), in UK (Regno Unito),
in Francia, in Italia478. Contemporanea alla nascita della psicologia delle masse fu
quella della sociologia in lingua tedesca, francese e inglese. Le tre sociologie, cre-
sciute nell’interdipendenza e nel continuo riferimento ai loro contesti di cultura
e di lingua nazionali, furono sin dagli inizi biologiche, darwiniane. In altre paro-
le, il darwinismo sociale 479 creò la sociologia e la strutturò nelle sue linee guida.
Molto interessante per noi fu la nascita della sociologia in Francia, la quale fu
fondata come disciplina moderna e autonoma durante una vera e propria batta-
glia per la lottizzazione scolastica e universitaria, che ebbe tra i suoi protagonisti
il padre della sociologia moderna, Emile Durkheim, e il più importante espo-
nente della psicologia dei fatti intermentali, Tarde 480. Entrambi, in questi dibat-
titi, discussero di ontologia: secondo Durkheim esistevano fatti sociali, fatti irri-
ducibili a quelli che Tarde chiamava fatti intermentali. La disciplina a sé che
studiava questi fenomeni sociali era, per Durkheim, la sociologia. Lo scontro tra
la sociologia e la psicologia inter-mentale e tra le rispettive evidenze, si risolse
con la vittoria a favore della sociologia e con il temporaneo abbandono
dell’approccio psicologico. Per la sociologia come non esistevano i fatti inter-
mentali, cioè quei fenomeni di suggestione, di imitazione 481 tra individui alla

478
Dove Sigele, in virtù di una clinica dei fatti mentali collettivi, divideva quelli politici
da quelli criminali, o attinenti alla criminologia.
479
La biologia.
480
Su internet sono disponibili i dibattiti tra Tarde e Durkheim.
481
Categoria centrale in Tarde.
Modernità del diritto e Psicanalisi 183

Tarde, non reputava come reali nemmeno i fenomeni di identificazione 482 col-
lettiva alla Freud. Secondo la psicologia di Tarde il fatto collettivo era sì radica-
to nel fatto mentale individuale, ma era, a sua volta, anche il primo dato di real-
tà esistente fuori dagli individui. Per la sociologia il fatto sociale era indipenden-
te e irriducibile ai fatti inter-mentali: i fatti sociali erano rappresentazioni colletti-
ve 483, a priori storici paradigmatici, a cui i soggetti venivano assoggettati o in ba-
se ai quali venivano influenzati. Il tipo di ontologia della sociologia rendeva im-
possibile l’elaborazione di una clinica dei fatti politici e, in ultima istanza, di
una psicologia dei gruppi come psicanalisi politica. Secondo Durkheim noi era-
vamo già sempre, in quanto individui, dentro delle rappresentazioni collettive e
non esisteva alcuna possibilità di porsi fuori da un orizzonte culturale, da una
rappresentazione collettiva; esistevano solo diversità culturali, a partire dalle
quali era impossibile addirittura ipotizzare un punto di vista esterno. In base a
ciò non esistevano gradienti di morbosità secondo i quali una cultura poteva es-
sere giudicata sana o malata. Secondo Durkheim non esistevano fatti inter-
psichici ma solo fatti sociali. Nell’ottica del sociologo se i fatti sociali non fosse-
ro esistiti, se essi non avessero avuto una consistenza ontologica, il piano delle
rappresentazioni collettive sarebbe potuto essere ricomposto, reinterpretato, sul
piano interiore e particolare dei fatti mentali e inter-mentali; questa possibilità
per Durkheim era solo una pseudologia fantastica 484, il sogno di una indagine dei
fatti individuali a partire da passioni collettive. Per Durkheim solo le rappresen-
tazioni collettive avevano uno spessore e una gravità ontologica reale. La dimen-
sione psicologica, delle passioni, dei fenomeni estemporanei, fugaci, delle collet-
tività, come quelli più stabili e prolungati, era una chimera per l’approccio so-
ciologico. Per la sociologia la psicologia collettiva era priva di uno statuto onto-
logico proprio ed evidente. Tale operazione schiacciava i fenomeni umani tra il
dato biologico e quello sociale. L’essere umano, nella prospettiva della sociologia
e di tutte le sue sub-discipline 485, era un biologico 486, l’unità integrata di un dato

482
Categoria centrale in Freud e Lacan.
483
Espressione da prendere in considerazione per una genealogia degli studi che elabo-
rano i concetti di a priori storici.
484
Termine non durkheimano ma di Le Bon.
485
Come la sociobiologia, eccetera.
486
Il che, ricordiamo, non è etologia.
184 Capitolo V

naturale e di un più di umano 487, il quale era il dato culturale o sociale. La so-
ciologia era lo studio, dunque, di biologici in collettività 488. Le rappresentazioni
collettive erano le rappresentazioni con le quali le collettività biologiche pensa-
vano di distribuirsi. Da questo orizzonte scompariva la scena passionale, emoti-
va, affettiva, pulsionale, politica degli assembramenti umani. La società, come la
sfera delle rappresentazioni collettive, era una elaborazione tipicamente kantia-
na, ma che esauriva la psicologia a coscienza morale, pubblica o sociale.
Quest’ultimo passaggio è molto interessante, in quanto faceva seguire, senza so-
luzioni di continuità, all’elaborazione di una specifica definizione dell’uomo e
della sua umanità, la dimostrazione della pseudo esistenza dei fatti mentali e
della realtà di quelli sociali. Era impossibile, per la sociologia, accettare una cli-
nica delle geometrie pulsionali del politico, in quanto, per essa non esistevano le
pulsioni e non esisteva niente al di fuori di un orizzonte sociale della biologia.
L’uomo rimaneva scisso tra il suo sostrato naturale, la sua falda biologica e la sua
appartenenza culturale. Secondo Durkheim molti se non tutti i fenomeni che
Tarde chiamava fatti mentali erano nient’altro che dinamiche sociali tra organi-
smi biologici. Ciò di cui Tarde discuteva, era per Durkheim nient’altro che bio-
logia e, infatti, sulla sua stessa prospettiva, Lévy-Bruhl andava affermando che:
«Nella vita mentale tutto quanto non equivale a una semplice reazione dell’organismo
alle eccitazioni ricevute è necessariamente di natura sociale» 489.
Per un sociologo come Lévy-Bruhl, tutto ciò che non rientrava nel biologico o
in tutto ciò che alla lontana poteva ridursi a fisiologia e chimica, era da definirsi
come un che di sociale. Tutto ciò che da uno sguardo volgare era considerato
come un dato psicologico per la sociologia era, invece, una espressione morale
coordinata in un sistema socioculturale. Durkheim non solo distingueva tra il
fatto sociale e il fatto mentale, ma il fatto sociale andava a fagocitare il fatto
mentale. Così terminava la battaglia tra sociologia e psicologia intermentale,
una battaglia politica tra lobby interne alle università, all’editoria, all’industria.
A partire da questo dibattito su fatti mentali e fatti sociali Tarizzo si chiede se

487
Il dato non esclusivamente biologico, ma riconducibile ad esso.
488
In ultima istanza lo spaccato socio-biologico.
489
L. Lévy-Bruhl, Les Fonctions mentales dans les societies infeérieures, p. 4, Alcan, Paris,
1910.
Modernità del diritto e Psicanalisi 185

esistono degli eventi o dei fenomeni con una evidenza ontologica tale da poter-
ne rivendicare uno statuto prettamente politico e non meramente sociale. Se si
rimanesse all’interno di un orizzonte sociologico, a cui la Arendt e Foucault ri-
masero ancora ispirati, la politica non esisterebbe; esisterebbero solo problema-
tiche sociali o al massimo biopolitiche490, di governo delle condotte umane.
Tutto cambia, però, quando Tarizzo rivendica i grandi passi in avanti effettuati
da Freud e Lacan, i quali diedero alla psicologia dei gruppi nuova linfa teorica e
struttura pratica. La zampata del leone alla sociologia fu realizzata solo dalla psi-
canalisi, la quale, come scrisse Merleau-Ponty, riconfermò la sua radicale ambi-
zione e, cioè, di essere non una psicanalisi esistenziale ma una psicanalisi pulsiona-
le, ontologica.
Come scrisse anche Carl Schmitt, il fenomeno politico ha una propria specifici-
tà; quest’ultimo infatti sosteneva che c’era una differenza tra il legame sociale e
il legame politico. L’uno e l’altro si presentavano come due tipi di legami collet-
tivi differenti. In una prospettiva politologica, alla Schmitt, i legami sociali sono
legami di tipo culturale, rappresentazioni collettive di cui i fili che ci tengono
insieme, in quanto corpi organici appartenenti a una cultura, ci fanno ricono-
scere come membri di una rappresentazione: l’ordine che il legame sociale stabi-
lisce è un ordine di legami culturali, morali. Un tipo di legame sociale è anche il
legame giuridico il quale non è politico e questo è evidente, ad esempio, nel ca-
so in cui la legge dello stato è sospesa 491, nell’assenza dello stato, nell’assenza del-
la sovranità della legge, nell’assenza della cittadinanza; nella sospensione
dell’appartenenza giuridica degli individui, nell’obliterazione della personalità e
dello stato di diritto, il politico resiste. Il legame politico, secondo Schmitt, non
era il legame giuridico, ma quello amico-nemico. Secondo Schmitt c’era un fat-
to politico dove c’era una decisione, un pronunciamento su chi era amico e chi
era nemico; era quest’ultimo atto a fondare la sovranità della legge. La dichiara-
zione di guerra era un fatto politico, dove si decideva pubblicamente su un ne-
mico; ma cosa era nemico per Schmitt? Cosa era implicito nella decisione sul
nemico? Schmitt affermava che il nemico era tale solo quando era pubblico,
cioè quando era un nemico politico. Il nemico politico non era, però,

490
O di economia politica.
491
Ad esempio nello stato di guerra.
186 Capitolo V

l’avversario spirituale, la controparte agonica o il concorrente economico; tutti


questi erano nemici privati. Il nemico pubblico era il nemico di un intero popo-
lo, di un volk. La decisione sul nemico pubblico era presa da un popolo e rap-
presentava la sua soggettività politica attiva. Questo passaggio schmittiano è
molto interessante, anche se tutto sommato molto trascurato nel dibattito con-
temporaneo. In Schmitt il fatto politico era la decisione popolare su chi era
amico o nemico, ma questo era solo il fatto politico primitivo, ovvero, lo sfondo
su cui noi vedevamo baluginare un fatto politico. Siccome il nemico in questio-
ne non era un nemico privato ma pubblico, la decisione presupponeva, alla ba-
se, un soggetto pubblico che decideva. Il soggetto pubblico 492 non era però isti-
tuito dalla decisione amico-nemico; questo perché se due popoli dichiaravano
guerra ad un nemico comune, questa decisione sul nemico non li rendeva un
unico popolo. Per Schmitt il presunto criterio formale che faceva di un fatto
una realtà politica non era, neanche, la decisione popolare amico-nemico, ma il
popolo stesso, in base al quale seguiva sempre una determinata decisione
sull’amico-nemico pubblico. Solo il popolo produceva uno spazio pubblico, so-
lo a partire da un determinato soggetto politico si poteva comprendere che tipo
di decisione sull’amico-nemico si realizzava. Il popolo preesisteva a qualsiasi tipo
di pronunciamento, di nominazione politica. Solo il popolo produceva la pub-
blicità e in base a ciò Durkheim aveva torto a ridurre il fatto politico a fatto so-
ciale. Per Schmitt il popolo non era la società ma era una etnia, quello che in
una sua opera del 1942 493, intitolata Terra e mare, sul tema degli spazi politici,
tematizzò con l’espressione di razza ariana 494.
In altre parole, parafrasando Schmitt, non si poteva negare che i popoli si potessero
raggruppare in base alla contrapposizione di amico e di nemico e che quest’ultima
potesse essere realmente la possibilità concreta di ogni popolo dotato di esistenza poli-
tica. Nemico non era il concorrente o l’avversario in generale, non era neppure
l’avversario privato che ci odiava in base a sentimenti di antipatia; nemico era solo
un insieme di uomini che combattevano almeno virtualmente e che si contrappone-
vano ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere. Nemico era solo il ne-

492
Da non confondersi con l’opinione pubblica.
493
Figlia di considerazioni già maturate nel 1933.
494
Che a differenza della razza culturale, teorizzata dal fascismo mussoliniano, ha una
valenza geopolitica e biologica, ispirata tra gli altri agli studi di Ratzel.
Modernità del diritto e Psicanalisi 187

mico pubblico, poiché tutto ciò che si riferiva ad un raggruppamento, e in particola-


re a un intero popolo, diventava perciò stesso pubblico. Finché un popolo esisteva in
senso politico, era esso stesso a dover decidere, almeno nel caso estremo, la distinzione
tra amico e nemico. In ciò consisteva l’essenza della sua esistenza politica, l’essenza
politica del popolo, che era la decisione amico-nemico; il che, comunque, continuava
a rivelare che era il popolo a preesistere alla decisione amico-nemico, la categoria po-
litica primitiva, il fatto politico primitivo del popolo. Un popolo dotato di esistenza
politica non poteva evitare di distinguere tra amico e nemico.
Sulla scia di Schmitt Tarizzo stesso afferma che per Freud e Lacan ogni feno-
meno sociale, giuridico, economico, è solo la stabilizzazione di un fenomeno
primitivo, originario e magmatico, di soggettivazione politica. Questa non è
pseudologia, ma il dato pulsionale, ontologico, in relazione al quale la psicanalisi
classica considera il fatto politico come un evento specifico e irriducibile, secon-
do il quale ognuno di noi abita il mondo come soggettività, e questo è valido sia
a livello intrapsichico sia a livello interpsichico.
Ora cosa intese Le Bon quando parlò di «foule»? Egli con «foule» intese la «fol-
la», la «massa» e il «gruppo». Le Bon parlò sia delle «folle» come delle «adunate»,
sia di folle come quelle «elettorali» o di «giurie». La «folla» era una massa disor-
ganizzata, un assembramento nella quale non c’era nessuna organizzazione; lad-
dove, invece, il gruppo era organizzato, dovevamo parlare di massa organizzata.
Il termine inglese crowd non ha la stessa elasticità del termine foule, e ancora di
meno del termine folla; crowd indica propriamente gli assembramenti. Di Le
Bon Freud apprezzava la lucidità con cui enucleava alcune caratteristiche feno-
menologiche delle folle e, naturalmente, se nella dimensione descrittiva il termine
folla aveva questa ampiezza di significato, assumeva queste oscillazioni semanti-
che, queste caratteristiche, in una dimensione più avanzata andavano ulterior-
mente elaborate.
Le caratteristiche rilevate da Le Bon, e che più incuriosivano Freud, erano, ad
esempio, la facilità con cui la folla si sottometteva al volere del capo. Un altro trat-
to era il sentimento di onnipotenza del corpo compatto. Quest’ultimo andava di
pari passo con una perdita del senso di responsabilità. Un’ulteriore tratto era
un’estrema credulità e suggestionabilità della folla, una credulità indipendente dal-
le singolarità, le quali prese individualmente non mostravano. Queste caratteri-
stiche secondo Le Bon, e a ruota secondo Freud, corrispondevano a una estin-
zione quasi totale delle facoltà intellettive: le folle non ragionavano o l’uomo in
folla o l’uomo in massa o l’individuo massificato tendeva a perdere parte delle
188 Capitolo V

proprie facoltà superiori e a non farne uso. Altro carattere era una sorta di regres-
sione delle folle allo stadio primitivo di civiltà 495. Quest’ultimo era già un tratto
altamente descrittivo, forse più che descrittivo, con cui Le Bon iniziava ad ab-
bozzare un’interpretazione e lo scarto interpretativo e teorico che questo eviden-
ziava nella sua teoria era un nucleo più o meno denso da sciogliere. Un altro
tratto tipico della folla, su cui soprattutto la letteratura ottocentesca sulla rivolu-
zione francese aveva insistito, era la violenza, l’estrema instabilità, l’estrema cru-
deltà; la folla poteva cambiare condotta con estrema facilità e nello spazio breve
di un momento reclamare un linciaggio e una grazia. In ultima istanza per Le
Bon la folla, il comportamento in massa 496, era il fenomeno che si originava al
crocevia di questi tratti. Per Freud una definizione di tal genere, puramente de-
scrittiva o sociologica, non era sufficientemente rigorosa e tutti i tratti suddetti
potevano essere chiariti ulteriormente solo se riconsiderati in relazione alla figu-
ra del meneur des foules, del dux, del capo, della guida. Parafrasando Freud, Le
Bon aveva ragione a sottolineare quello che indicava come il necessario prestigio

495
Il cuore del fenomeno delle masse per Freud.
496
Volendo fare una parentesi che approfondisca il punto della questione e la serie di
controversie teoriche esistenti all’epoca in cui ci riferiamo, ricordiamo gli studi di Ga-
briel Tarde, i quali individuarono un altro tipo di assembramento, un altro tipo di folla,
e cioè il pubblico. Nel Capitolo II de L’opinione e la Conversazione, oltre a proporre
questa nuova categoria concettuale di pubblico come riferimento importante per
l’analisi dei fenomeni sociali del tempo, ricostruisce anche un po’ la storia del pubblico
e la storia della conversazione. La capacità di recuperare una dimensione di conversazio-
ne, un primo scambio reciproco di uso della parola ad un livello inter-individuale, per
Tarde, è una specie di freno, di katekon paolino, una salvezza da queste derive del pro-
cesso pubblico. È interessante vedere come quest’Etica della parola e della conversazione
- di cui parlò anche Simmel - sopravive sino a esiti normativi, come quelli di Habermas.
Secondo Tarde l’essere umano è l’animale capace di conversare, suscettivo di trattenersi
in una conversazione; è interessante al di là dell’etica della conversazione che lui intro-
duca questa categoria di pubblico in quanto oggi esiste un pubblico televisivo, una folla
televisiva, così come Freud parlerà di una folla, di un assembramento, di una massa ra-
diofonica - similitudini e differenze tra masse radiofoniche, televisive e telematiche van-
no seriamente studiate per aggiornare Freud, anche se quest’ultimo stenta ad essere
eguagliato nei punti strutturali alla sua teoretica -.
Modernità del diritto e Psicanalisi 189

esercitato sulle masse dal duce però non offriva alcuna spiegazione del fenomeno
del prestigio, (del carisma).
Leggendo la Psicologia delle masse e analisi dell’io si comprende come Freud rite-
nesse importante questo punto, cioè come «la massa è un gregge docile che non
può vivere senza padrone» 497, senza un signore, senza un Herr 498.
«La massa è talmente assetata di obbedienza da sottomettersi istintivamente a chiunque
se ne proclami padrone» 499.
Su quest’ultimo passaggio Freud calava la sua attenzione per comprendere ciò
che erano i punti oscuri di Le Bon. Questo passaggio è il nodo concettuale della
servitù volontaria, dell’obbedienza spontanea 500, della sottomissione di se stessi a
un capo in virtù di ciò che Freud chiamava una sete di obbedienza, una sete di
soggezione, una sete di abiezione. Queste parole di Freud da un lato facevano eco
a Le Bon da un altro lato le oltrepassavano. Le Bon ne La Psicologia delle Folle
scriveva che «l’autorità dei capi è assai dispotica e riesce ad imporsi solo in virtù
di questo dispotismo» 501.
In questa citazione, come si può notare, Le Bon non offriva nessuna traccia di
spiegazione, semmai avevamo solo una tautologia, in quanto la ragione del di-
spotismo stava nel dispotismo stesso. Per Le Bon è la volontà dispotica, la vo-
lontà di ferro del capo, che è ragione di se stessa, che è ragione del suo successo.
In questa prospettiva c’è sia una mitologia della forza sia qualcosa di soggetti-
vamente oscuro - in quanto è come se a questa volontà dispotica non si potesse
opporre nessuna resistenza -. Ne La psicologia delle folle a proposito di questa at-
titudine soggettiva e teoretica di Le Bon leggiamo che

497
S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io, in Opere, p. 271, Bollati Boringhieri,
Torino, 1977.
498
Che nella Fenomenologia hegeliana è la morte immaginaria, il padrone assoluto, il
dominus.
499
S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io,tr. it. E. A. Panaitescu, p. 23, Bollati
Boringhieri, Torino 2010.
500
Che Tarizzo in Giochi di potere. Sulla paranoia politica enuclea magistralmente non
solo rileggendo Freud e Lacan ma già a partire da Kant ed Hegel.
501
G. Le Bon, Psicologia delle folle, http://digilander.libero.it/rivista.criminale/e-
book/psicologia_folle.pdf.
190 Capitolo V

«la volontà persistente che i meneurs possiedono è una facoltà infinitamente rara e infi-
nitamente possente che riesce a piegare […]. Non ci si rende abbastanza conto di ciò
che è possibile a una volontà forte. Nulla può opporre resistenza, né la natura, né gli dei,
né gli uomini» 502.
In Le Bon esisteva questa infatuazione per la volontà forte, per il despota, capa-
ce di esercitare una volontà di ferro, inflessibile e continua. Per Freud in questo
passaggio si nascondeva un grosso problema: la massa è un gregge docile che
non può vivere senza un padrone. La ragione del dispotismo non era dal lato del
signore ma dal lato di chi calava la testa, il quale si sottometteva. In Freud il di-
spotismo non poteva spiegarsi con il dispotismo ma con la docilità, la sete di
obbedienza delle masse e degli individui che regrediscono a una condizione di
singoli massificati. La domanda che a questo punto sorgeva spontanea e che po-
neva Freud, era: quale è il motivo di questo prestigio dispotico che «paralizza
ogni nostra capacità critica e ci colma di stupore e di rispetto» 503? Questa è
l’interrogazione legata al problema del capo e a come si produce, si articola e da
quali forze è mossa, la politica nella realtà. La politica è innanzitutto un fatto di
capi e questo lo scriveva non Mussolini ma Gramsci. Il fatto politico si ha quando
molti seguono un unico. Ora quale è l’origine del prestigio dispotico? Per spie-
garlo Freud incominciava a distinguere due tipi di massa: la massa organizzata e
la massa disorganizzata.
«Esistono masse transitorie e masse estremamente stabili, masse omogenee composte di
individui affini e masse non omogenee, masse naturali e masse artificiali, la cui coesio-
ne 504 richiede anche la coercizione esterna. Esistono dunque masse primitive e masse
articolate, organizzate» 505.
Delle masse prive di organizzazione e delle masse organizzate sono esempi rispet-
tivamente i cortei e l’esercito (in cui ogni comportamento è codificato) - o la
Chiesa -. Quella che Freud chiamava la massa non organizzata era quella che
chiamava anche con la nomenclatura di massa primaria, la quale è quella gran-
dezza politica di cui abbiamo già accennato qualcosa a proposito del fenomeno

502
Ibidem.
503
S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io, tr. it. di E. A. Panaitescu, p. 23, Bolla-
ti Boringhieri, Torino 2010.
504
Delle masse artificiali.
505
G. Le Bon, Ibidem, p. 283.
Modernità del diritto e Psicanalisi 191

della de-soggettivazione. La massa primaria è una soggettività de-soggettivata,


disorganizzata, una grandezza politica che non aveva una strutturazione simbo-
lica, ma in compenso era ipnoticamente verticalizzata rispetto al suo capo. Nel
momento in cui si toglieva il vertice, nel momento in cui questa grandezza poli-
tica veniva decapitata, la massa si scioglieva.
La distinzione tra masse organizzate e disorganizzate venne proposta per la pri-
ma volta da McDougall 506, per il quale la massa non organizzata era crowd, una
folla. L’esempio di massa organizzata più importante che McDougall compiva
nel suo saggio era quello di un esercito patriottico, nazionale, popolare (e non
mercenario). La nazione o la razza (race) o il popolo in McDougall e in Le Bon
erano ancora sinonimi ed erano precedenti alle caratterizzazioni che il fascismo
italiano e il biologismo nazista ne offrirono poi. Razza, popolo, nazione, erano
semplicemente masse altamente organizzate, in quanto si trattava di popoli ra-
dicati in una storia e con dei precisi principi, costumi, cultura e assetti giuridici
(istituzioni). Leggendo McDougall per Freud il popolo si iniziò a ritagliare co-
me una massa istituzionalizzata e, quindi, stabile e non transitoria, artificiale e
non naturale, omogenea. Lo stesso McDougall 507 faceva riferimento alla Psicolo-
gia delle folle (1895) di Le Bon affermando che giunta a un certo livello di poten-
za e di complessità la civiltà cessava di crescere e non appena cessava di crescere era
condannata a declinare rapidamente. Con la scomparsa definitiva del suo ideale, la
razza 508 perdeva via via ciò che la rendeva coesa, unita, forte. A questo punto
l’individuo poteva crescere in personalità e in intelligenza ma al contempo l’egoismo
collettivo della razza era rimpiazzato dallo sviluppo eccessivo dell’egoismo indivi-
duale, accompagnato da un indebolimento del carattere e da una interiore attitudi-

506
In Group Mind argomentava sulla facoltà di resistere del popolo britannico durante
la Grande Guerra, giustificandola a partire dalla virtù anglosassone della razza e delle sue
istituzioni superiori.
507
W. McDougall, The group Mind. A sketch of the principles of collective psychology with
some attempt apply them to the interpretation of national life and character, Cambridge
University Press, Cambridge 1920 (ristampa 2012 in formato e-book in
http://www.gutenberg.org/files/40826/40826-h/40826-h.htm).
508
Il popolo.
192 Capitolo V

ne alla psiche. Ciò che formava una razza 509, una unità, un blocco, finiva per di-
ventare un agglomerato di individui senza coesione.
La disgregazione della massa compatta avveniva per Le Bon con la scomparsa
definitiva dell’ideale di una certa civiltà, di una certa razza, di un certo popolo,
di una certa nazione.
«Con la perdita definitiva dell’ideale antico, la razza finisce per perdere anche la sua
anima. Non è più una polvere di individui isolati, e ridiventa ciò che era all’inizio. Pri-
ma che si formasse, una civiltà 510 ridiventa ciò che era all’inizio, una folla. Ne mostra
tutti i caratteri transitori, senza consistenza e senza un domani. La civiltà non ha più
alcuna fissità e cade in balia del caso. La plebe è regina e i barbari avanzano. La civiltà
può dare l’impressione di brillare ancora perché conserva la facciata esterna prodotta dal
suo lungo passato, ma è in realtà un edificio tarlato che non regge più, e che crollerà alla
prima bufera» 511.
In questo passaggio di Le Bon abbiamo una netta distinzione tra massa organiz-
zata, istituzionalizzata e la massa transitoria. In altre parole ci sono i popoli, le
collettività stabili, le nazioni, le razze e ci sono le folle o masse. Entrambe sono
due entità collettive, due grandezze sociali e storiche differenti.
Un anno prima di pubblicare la Psicologia delle folle, nel 1894 Le Bon pubblicò
un saggio di psicologia dei popoli, il quale si intitolava: Psicologia dell’evoluzione
dei popoli. Molti anni dopo, nel 1910, Le Bon scrisse una specie di summa, di
ricapitolazione finale delle sue riflessioni, intitolata Psicologia politica. Ora nella
Psicologia politica di Le Bon si scriveva, in maniera chiara e semplice, che la psi-
cologia politica si componeva di materiali diversi. I principali materiali erano la
psicologia individuale, la psicologia delle folle e la psicologia delle razze. Lo stes-
so Freud nel 1912-1913, a proposito della Psicologia delle masse e di Totem e
Tabù, scrisse che le sue opere erano un contributo a questa disciplina 512 e che a
una psicologia dei popoli sarebbe seguita una psicologia delle masse.
A questo punto della nostra analisi cominciamo a vedere quale è la geografia di-
sciplinare e teorica in cui si sono mossi questi contributi e quali sono stati le
grandi categorie che introdussero questa distinzione - la quale va intesa innanzi-

509
Un popolo.
510
Una nazione, una razza.
511
G. Le Bon, Ibidem.
512
La psicologia dei popoli.
Modernità del diritto e Psicanalisi 193

tutto come una distinzione ontologica 513 -. La tesi di Psicologia delle masse po-
trebbe essere ritenuta in ultima istanza un calco della tesi di Le Bon. Secondo Le
Bon con la perdita definitiva dell’ideale antico la razza finisce per perdere anche
la sua anima, ridiventando ciò che era all’inizio: una folla; ovviamente la folla è
lo stato regressivo, uno stato di barbarie, di pre-civilizzazione, uno stato di natu-
ra. Se questa fosse la tesi di Le Bon questa sarebbe anche la tesi di Freud. Nella
Psicologia delle masse Freud parlava della psicologia di massa come di una psico-
logia delle collettività umane allo stadio di pre-civilizzazione. La regressione era
chiamata massa primaria e la massa primaria non era altro che la riproposizione
di ciò che fu all’inizio della storia dell’umanità, l’orda primordiale (Urhorde).
Anche l’opera di McDougall, come quella di Le Bon, seguì queste linee di de-
marcazione: masse organizzate → popoli → nazioni → razze e folle → crowds.
Tuttavia c’erano in McDougall altri due lampi di genio, costruiti a partire da Le
Bon514: essi erano la spersonalizzazione e l’identificazione. Per McDougall sper-
sonalizzato era l’individuo che entrava a far parte di una massa disorganizzata, di
una folla (crowd). L’individuo quando diventa uno della folla perde in qualche mi-
sura la coscienza di sé, l’autocoscienza, perde la consapevolezza di sé come personali-
tà distinta e così sparisce anche qualcosa della coscienza e dei suoi specifici e dei pro-
pri rapporti personali. L’individuo diventa, almeno in una certa misura, spersona-
lizzato 515. L’altro lampo di genio che si trovava nel testo di McDougall aveva a
che fare con un concetto, una categoria, che divenne centrale nel testo di Freud:
identification. Identificare se stesso, secondo McDougall, era ciò che l’Io o il Sé
o l’individuo faceva ogni qual volta aderiva a una massa organizzata. Se nella
massa disorganizzata il Sé si fosse spersonalizzato, si fosse de-identificato, si fosse
de-soggettivato, nella massa organizzata il Sé individuale sarebbe entrato a far
parte di un Sé allargato, un Sé da cui il proprio Sé avrebbe trovato anche spunto
di identificazione 516. Parafrasando, McDougall considerava che il sentimento di

513
Il problema in questione è che esistono entità come i popoli che si distinguono da
altre entità, le masse.
514
Rielaborati e riconcettualizzati dallo stesso Freud.
515
L’individuo perde i caratteri della sua personalità, diventando un individuo massifi-
cato, un individuo-massa.
516
È per questo motivo che il testo di McDougall si intitola The Group Mind, la psiche,
la mente, l’identità, di gruppo.
194 Capitolo V

amor proprio può diventare un sentimento esteso ad oggetti diversi dal Sé individua-
le, esteso cioè a tutti quegli oggetti con cui il Sé si identifica. Fu proprio da
quest’ultima considerazione a proposito di un’identificazione collettiva come mo-
tore dell’identificazione individuale, come fattore di individualizzazione, di perso-
nalizzazione dei soggetti, che McDougall elaborò un’analisi del sentimento pa-
triottico, nazionalistico, quel sentimento che affratellava tutti i soldati di un
esercito popolare517.
Freud riprese questi due esempi per mettere in luce due tipi di legame che sussi-
stono in una massa organizzata, artificiale, stabile: un legame verticale con un
capo e un legame orizzontale con gli altri membri del gruppo. Anche McDou-
gall insistette sull’importanza della figura del capo, però insistette ancora di più
sul vincolo orizzontale, cioè su quello che per lui era un legame di identificazio-
ne orizzontale fra tutti gli appartenenti al gruppo, identificazione di tutti costo-
ro con una idea e cioè con un insieme di elementi simbolici che davano coeren-
za e forza al gruppo e che conferivano al gruppo una volontà collettiva 518, una
volontà generale. Questa idea, questi elementi simbolici che creavano coerenza e
forza al gruppo, conferendogli una volontà collettiva, creava un Sé di identità
collettiva, cioè una mente di gruppo, foggiavano una soggettività politi-
ca,“storico-sociale”; e infatti parafrasando McDougall 519 capiamo bene che
l’importanza dell’idea e del sentimento collettivo appare chiaramente se riflettessimo
su un tipo di esercito che in genere si è dimostrato il più efficiente di tutti, un eserci-
to di volontari messi insieme per raggiungere un particolare obiettivo. Un esercito
del genere, per esempio l’esercito di Garibaldi, deve la sua esistenza all’operare di
questa idea collettiva nella mente di tutti gli uomini. L’idea dell’esercito si è formata
forse nella mente di uno solo all’inizio (Garibaldi) ma questi la comunica ad altri
che l’accettano come mezzo per raggiungere lo scopo desiderato da ciascuno di loro.
L’idea dell’intero gruppo opera così per creare la collettività, per portarla
all’esistenza. Ipotizziamo che una città sia presa d’assedio da un esercito di crociati
di una sola nazionalità 520 e ipotizziamo che questo esercito abbia goduto di una esi-
stenza collettiva nel tempo e che nella mente di ciascun membro il sentimento di

517
L’esempio dell’esercito verrà ripreso da Freud e affiancato a quello della Chiesa.
518
Vedi volontà collettiva in A. Gramsci e volontà generale in Rousseau.
519
W. McDougall, Ibidem.
520
Un esercito patriottico.
Modernità del diritto e Psicanalisi 195

amor proprio sia esteso all’esercito come a un intero, così come ciascuno identifica se
stesso con l’esercito ci tiene alla sua reputazione e desidera il suo successo come un
successo di sé. Di questo esercito potrebbe essere detto a ragione che possiede ed eserci-
ta una volontà generale o una volontà collettiva.
McDougall metteva in luce questo rapporto di identificazione simbolica di tutti
nel gruppo con un ideale, con un insieme di elementi simbolici che costituiva-
no, per esempio, l’asse di un discorso nazionalistico e diceva che questo ideale,
questa idea, cementava il gruppo e lo organizzava, lo produceva, creava una vo-
lontà generale o una soggettività collettiva (una soggettività politica). Il testo di
McDougall è un testo del 1920, anno in cui Freud scrisse e pubblicò la Psicolo-
gia delle masse. Indubbiamente anche nel testo di McDougall Freud vide riflessa
tutta una trama di riflessioni che lui stesso iniziò nel 1914 in un’opera che si in-
titolò L’introduzione al narcisismo, opera in cui si affacciò l’ipotesi di un ideale
dell’Io. Freud verso la fine del testo scrisse che l’ideale dell’io schiudeva importan-
ti prospettive per la comprensione della psicologia delle masse. Oltre al suo aspetto
individuale, oltre l’importanza che questa categoria assumeva per la comprensione
dei fenomeni psichici individuali, questo ideale aveva un aspetto sociale, esso era
l’idea che accomunava una famiglia, un ceto, una nazione; in altre parole Freud
lesse in McDougall qualcosa che lui stesso e in parte già Le Bon elaborò cioè il
fatto che vi siano idee o ideali collettivi che producono e disegnano le soggetti-
vità 521. Tornando al problema del rapporto di tutti con questa idea e di tutti gli
appartenenti alla collettività con il capo diciamo che il piano orizzontale degli
individui della massa è il piano dell’inter-individuale, dove tutti i singoli sono
allineati in una massa organizzata (Künstliche Massen), su una identificazione
che li affratella, li accomuna, li proietta in una “mente di gruppo” (la quale è
appesa a un ideale collettivo); al tempo stesso in una massa 522 tutti gli apparte-
nenti al gruppo sono anche allineati verticalmente alla figura del capo; ma qual
è l’elemento più problematico? L’elemento più problematico è quello che con-
cerne i rapporti di priorità tra l’ideale e il capo. Il capo è una persona in carne
ed ossa mentre l’ideale è un elemento simbolico 523. Il rapporto che si stabilisce
primordinalmente è il rapporto immaginario con l’immagine del capo oppure

521
Soggettività stabili.
522
Come scrivono Le Bon, McDougall e lo stesso Freud.
523
Espressione lacaniana.
196 Capitolo V

quello simbolico con l’ideale? Quali sono i rapporti di priorità tra essi? Queste
sono domande fondamentali, in quanto abbiamo due possibili alternative: il ca-
so in cui sia il capo sia l’ideale sono al vertice del gruppo, ovvero se le masse ob-
bedissero ciecamente al despota, quest’ultimo imporrebbe un ideale al gruppo -
il quale verrebbe accettato dal gruppo - ; il secondo caso è quello in cui se do-
minasse l’ideale, la figura stessa del capo sarebbe ritagliata dentro i confini
dell’ideale.
Per capirci osserviamo per un momento l’esempio del popolo-nazione: in esso
c’è un ideale collettivo che governa questa collettività ed è a partire da questo
ideale collettivo che si produce una identificazione trasversale e orizzontale, tra
tutti gli individui del gruppo. Il capo non è seriamente dominus di questo grup-
po, ma dovrà piegarsi alle esigenze dell’ideale politico. Non si può diventare ca-
po di un popolo-nazione sbandierando, ad esempio, il proprio antinazionali-
smo. La priorità sarà dell’idea, dell’ideale e la griglia simbolica conterrà il capo,
da cui egli non potrà uscire; ma è sempre così? In alternativa è possibile pensare
che il capo possa essere dominus della massa senza un ideale, anche laddove,
come affermava Le Bon, un popolo muore o una civiltà declina, una nazione
scompare? In quest’ultimo caso ci sarebbe ancora la griglia simbolica o avremmo
un fenomeno differente? Un capo potrebbe imporsi a prescindere da qualsiasi
intelaiatura simbolica in virtù di altre caratteristiche, di altri processi? E se cosi
fosse quali sarebbero questi processi? È l’idea (o l’ideale) che ha la funzione di
assembrare il gruppo (e successivamente di disegnare il profilo del capo) oppure
è il capo che assembra la massa 524? Se fossimo in una massa organizzata l’ideale
prevarrebbe sul capo, mentre se fossimo in una massa disorganizzata, una massa
tout-court, una massa primaria 525, il capo prevarrebbe sull’ideale. Freud più volte
affermava che il capo era l’ideale della massa e questo ideale era un ideale in car-
ne e ossa. È a questo tipo di fenomeno che Freud dedicherà le pagine più pro-
fonde e illuminanti. Affermava più volte Freud che noi potevamo pensare
all’esercito come massa, una massa tenuta assieme solo dalla presenza di un ca-
po, di un invincibile condottiero come Cesare, Napoleone, senza ricorrere ob-

524
E dall’alto del suo dispotismo comunica l’idea, l’ideale, al gruppo che si assoggette-
rebbe.
525
Termine freudiano.
Modernità del diritto e Psicanalisi 197

bligatoriamente a idee di patria cittadina, eroe nazionale o altre idealità. In que-


sto ultimo caso, criticando McDougall, Freud affermava che le idee non erano
indispensabili per la sussistenza di un esercito. Il terzo interrogativo che assillava
Freud era quello secondo cui né Le Bon né McDougall spiegavano, in chiave
argomentativa, esplicativa, di cosa fosse fatta la distanza abissale che divideva le
masse organizzate dalle masse disorganizzate; i contributi di questi ultimi ci
mettevano davanti una evidenza, ci lasciavano sbattere di fronte la distanza e la
differenza tra questi due tipi di raggruppamenti e sottolineavano (sia Le Bon sia
McDougall) l’effetto spersonalizzante (de-soggettivante) dei singoli individui
nelle masse disorganizzate; tuttavia essi non ci spiegavano l’articolazione fra que-
ste due forme di raggruppamento, non entravano nel dettaglio della dinamica
che si stabiliva tra una regressione imbarbarente e la soggettivazione che orga-
nizzava le collettività.
L’ideale dell’io si creava in rapporto all’intreccio tra i processi di soggettivazione
collettiva e quelli di soggettivazione individuale. Quando entravano in crisi i
processi di istituzionalizzazione o le istituzioni, l’individuo andava in pezzi ed
era a questo punto che fioccavano le nevrosi. Nel caso delle grandi religioni
quando esse dominavano la nostra civiltà e quando esse, in quanto grandi arma-
ture simboliche, avevano azione, tutto questo negava l’emergenza di nevrosi in-
dividuali. La crisi della soggettività a livello dell’individuo era sempre un sinto-
mo della crisi di appartenenza collettiva, di quel processo di intrasoggettivazione
che creava l’appartenenza a un Self esteso. A questo proposito Freud scrisse che
l’ideale dell’io è il più importante elemento da comprendere per capire la psico-
logia delle masse. L’ideale dell’io era intrecciato a dei Form bilden, dei modelli,
degli ideali, e la costruzione a livello individuale dell’io seguiva sistematicamente
i binari dei form bilden collettivi. Quando entravano in crisi questi modelli col-
lettivi? Quando si moltiplicavano i casi di nevrosi, di psicosi o di depressio-
ne/melanconia e delle possibili compensazioni maniacali a queste nevrastenie.
L’ipotesi di Freud era che le masse primarie producevano effetti di compensa-
zione, le quali a livello di individuo si manifestavano in termini di depressione.
Nel caso dei fenomeni maniaco-depressivi il lato depressivo era tutto sulla
sponda della soggettività individuale mentre il lato maniacale era trasferito sui
processi collettivi e sulle dinamiche delle masse primarie che erano dinamiche
trionfalistiche, euforiche.

***
198 Capitolo V

Se il processo di soggettivazione è il processo che sottende alla formazione


dell’ideale collettivo, esso lascia margini di consapevolezza o è totalmente incon-
sapevole? Dietro questa domanda sembra che parli la voce della macchina ideo-
logica che ci appartiene e ci tritura perché essa non è una domanda di conoscen-
za ma un interrogativo di salvezza. C’è qualche margine in cui noi, in quanto
soggetti autocoscienti, possiamo fare i conti con questi processi di soggettiva-
zione, oppure questi processi di soggettivazione sono alle nostre spalle e agisco-
no da tergo? In termini foucaultiani questi processi sono solo processi di assog-
gettamento o i processi di soggettivazione sono anche assoggettamento e, dun-
que, la soggettivazione necessita di un minimo di assoggettamento per delinear-
si?
Foucault affermava che i due processi erano processi che, in termini freudiani,
costituivano il processo di individuazione, di acquisizione di un rapporto con se
stessi e con l’alterità. I processi di soggettivazione, secondo Foucault, erano
sempre catturati dentro reti di assoggettamento, dispositivi che erano alle spalle
dei processi di soggettivazione e che producevano questa circolarità tra soggetti-
vazione e assoggettamento; c’era sempre un lato eteronomo in ogni processo di
autonomia, di appropriazione di sé. L’autonomia era già sempre da stabilire, in
quanto progettualità interna a quelle strutture da cui il Sé era alienato. A queste
stesse domande Freud già fu più radicale di Foucault. Nel discorso di Freud si
enucleava che il processo di soggettivazione era reso possibile da macchine, di-
spositivi simbolici, che erano alle spalle. Dentro le strutture di soggettivazione i
singoli affioravano come soggetti parlando e imparando a fare delle cose, cre-
scendo dentro dispositivi simbolici che potevano consentire sia di arrivare alla
soggettivazione sia di comprometterla. In alcuni casi quando questi ingranaggi
simbolici smettevano di funzionare o cominciavano a funzionare male, si pro-
ducevano crisi di appartenenza collettiva o quelle che Foucault chiamò processi
di assoggettamento. Non era una cosa scontata una corretta soggettivazione e
quando entrava in crisi il processo di soggettivazione a livello collettivo, entrava
in crisi in profondità anche il processo di soggettivazione individuale; affermare
ciò era sicuramente già molto più radicale di quanto disse Foucault. Il discorso
freudiano era in fondo un discorso ottocentesco, una discorsività specificata-
mente legata a un determinato tempo e contesto. Gli anni in cui scriveva Freud
erano gli anni della nascita della sociologia e degli accesi conflitti accademici
inerenti al suo problematico statuto ontologico. Come già accennato, secondo
Modernità del diritto e Psicanalisi 199

Durkheim esistevano rappresentazioni sociali collettive entro le quali i singoli


erano catturati e dove i singoli in quanto tali non possedevano alcuna personali-
tà. I fatti sociali erano coercitivi e obbedivano a delle leggi scientifiche 526.
Quando le rappresentazioni collettive entravano in crisi, gli individui accedeva-
no a una sfera di anomia dove questi smettevano di individuarsi 527. Era più o
meno questa l’impostazione di Freud, se non che le dinamiche di questa crisi
erano analizzate da lui con strumenti esponenzialmente più raffinati rispetto a
quelli di Durkheim. L’intero inquadramento teorico della psicanalisi, come cli-
nica degli individui, fu collocato da Freud, in queste opere sulla psicologia delle
collettività, dentro un’analisi molto più vasta, la quale si voleva storica e dialetti-
ca, una storia di civiltà, una storia di culture e in quanto tale molto astratta,
molto filosofica e allo stesso tempo aperta all’empiria della clinica.
Non sempre quindi il processo di assoggettamento collettivo riusciva e quando
non riusciva, con le parole di Freud, quando l’ideale dell’io nel singolo non aveva
fatto molti passi avanti, quando la costruzione degli ideali dell’io nella storia del
singolo non seguiva il suo percorso, entravamo in una penombra soggettiva, in un
ambito in cui non potevamo più parlare di nevrosi ma di psicosi collettive. Questi
non erano fenomeni sporadici di una generale follia sociale , ma, in termini tecnici,
veri e propri eventi clinici che si collocavano su quel luogo sfumato che era la sogget-
tività a livello individuale e a livello collettivo. Il tipo di analisi che incrociava il
livello individuale e quello collettivo fu condotto da Freud con una potenza teo-
rica inusuale nel panorama del suo tempo e nel panorama del resto del Nove-
cento. Se noi prendessimo, ad esempio, il testo di una filosofa americana Judith
Butler, La vita psichica del potere, ci accorgiamo immediatamente che è un libro
nel quale si ritorna sul come è possibile incrociare l’analisi individuale con quel-
la dei processi collettivi; ma come si produce l’intersezione e come si ingranano i
due piani rimane una questione difficile da penetrare per una personalità della
caratura teorica come quella della Butler. Negli autori discussi dalla Butler si in-
crociano questi livelli 528, ma ciò che risalta nella lettura è l’assenza di una caratu-
ra filosofica di un certo livello. In fondo la prospettiva di Freud sul piano politi-

526
Vedi lo studio intorno il suicidio.
527
Di qui l’aumento statistico dei suicidi.
528
Butler attraversa Althusser, Benjamin, Foucault, Freud, Hegel, Klein, Lacan, Nie-
tzsche, Taylor, Žižéck.
200 Capitolo V

co era conservatrice, era una figura tragica, eppure, egli rimaneva un illuminista
convinto, guardava al sogno e al cammino della modernità come a una marcia
storica e dialettica, che la psicanalisi aveva il compito di accompagnare e non di
frenare. Questo sogno era quello di una fine dell’illusione, era il sogno di una
società senza padre, era il sogno di una dittatura laica della ragione, era il sogno
che nel suo giovane allievo Federn si espresse nell’entusiasmo per la rivoluzione
bolscevica e per l’utopia americana 529. Esisteva in Freud una tensione tragica che
si esprimeva da una parte con l’elaborazione della teoria e della clinica psicanali-
tica come metacritica della modernità, dall’altra con l’osservazione della psiche e
delle sue storture, individuandone e catalogandone le radici problematiche da-
vanti le quali la modernità stessa sbatte 530, a livello individuale e a livello della
storia dell’umanità 531. Siccome Freud assumeva la legge biogenetica fondamen-
tale, cioè la legge della ricapitolazione per cui l’ontogenesi ricapitolava l’intera
storia della specie nell’infanzia dell’umanità e nell’infanzia del fanciullo, nella
teoria psicoanalitica la questione dell’autorità paterna (che di per sé era molto
difficile intaccare ed eliminare) si scolpiva automaticamente sia a livello indivi-
duale sia a livello interindividuale. Per queste ricapitolazioni ottocentesche e fi-
logenetiche Freud non poteva pensare alla scomparsa del complesso edipico o
almeno se essa fosse stata possibile non avrebbe previsto tempi brevi. Ciò perché
ogni volta che si tentava di eliminare la figura dell’autorità, quest’ultima ricom-
pariva e ricompariva in forme sempre più gravi, in forme spogliate di tutte quel-
le griglie e gabbie simboliche che, comunque, consentivano di fare attrito sulla
forza di traino delle figure dominanti, delle figure paterne, dei capi, dei meneurs.
Freud, psicoanaliticamente, nel 1932 532 affermava che:
«La nostra più viva speranza è che l’intelletto, lo spirito scientifico, la ragione, ottenga
con l’andare del tempo una preminenza dittatoriale sulla vita psichica umana. L’essenza
stessa della ragione garantisce che in seguito», dopo aver acquisito questa preminenza
dittatoriale sulla vita psichica umana, «essa non mancherà di concedere al lato emotivo
dell’animo umano e a quanto ne discende il posto che gli spetta; ma la coattazione col-

529
Al quale guardava con ammirazione e speranza lo stesso Marx.
530
Ovvero della profonda asimmetria, della questione dell’autorità/della sottomissione
volontaria.
531
Menschen.
532
S. Freud, Introduzione alla psicanalisi, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1977.
Modernità del diritto e Psicanalisi 201

lettiva imposta da un simile dominio», errschaft, «della ragione si rileverà come il più
forte elemento di coesione tra gli uomini e aprirà la strada a unificazioni più ampie» 533.
In questa citazione pulsa la modernità e il suo sogno ed è qui che Freud affer-
mava che «la voce della ragione è bassa, ma dice sempre la stessa cosa» 534; tutta-
via sei anni prima in L’avvenire di un’illusione 535 Freud affermava che: «non è
possibile evitare che la massa sia dominata da una minoranza» 536; per Freud
siamo molto lontani dalla dittatura laica della ragione «così come non si può fa-
re a meno di imporre il lavoro nella vita civile, le masse sono svogliate e prive di
senno. Le masse non amano la rinuncia pulsionale e non possono con argomen-
to alcuno essere convinte della inevitabilità di quest’ultima» 537, della rinuncia «e
gli individui che le compongono si offrono vicendevolmente appoggio del libe-
ro corso alla propria sfrenatezza» 538. Accostando queste due citazioni abbiamo
un contrasto, un conflitto tra due connotazioni in realtà, tra un’esigenza, una
speranza e una constatazione 539. Questa è la struttura della tragedia freudiana
dove emerge una forza come necessità, destino, ananke, un eroe tragico che
sbatte contro l’inevitabile. Il senso politico pratico di Freud era un “conservato-
rismo illuminato”, un illuminista prudente. I grandi momenti ideologici di in-
novazione erano considerati come un problema e ciò perché le istituzioni sociali
tramandate - e che delineavano il profilo di un’appartenenza - attraverso il
complesso edipico e la figura paterna, venivano, ad un certo punto, messi in di-
scussione e con loro andavano in crisi sia la psiche a livello individuale sia a li-
vello collettivo. Nel caso delle masse rivoluzionarie 540, anche se fornite di arma-
ture ideologiche che sostenevano il momento successivo all’ insurrezione, ci tro-
vavamo di fronte a masse disorganizzate. Lacan, con Freud, riteneva l’armatura
ideologica non una istituzione ma una impalcatura simbolica, in cui ciò che

533
Ibidem.
534
J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi
(1964), Einaudi, Torino 1979, p. 259.
535
S. Freud, L’avvenire di un’illusione, in Opere, Vol X.
536
S. Freud, Ibidem, pp. 437-438.
537
Ibidem.
538
Ibidem.
539
Non è possibile evitare l’inevitabile.
540
Come quelle bolsceviche.
202 Capitolo V

contava era la preminenza della figura del capo che instillava nelle masse una
serie di ideali, ma che riusciva a raggiungere questo effetto soltanto perché en-
travano in funzione alcuni processi, dinamiche psico-collettive, che a loro volta
spiegavano il successo temporaneo di questo tipo di operazione. Ciò non vuol
dire che Freud era un fascista, ma solo un fine osservatore.
Uomini come Freud o Lacan avrebbero sorriso di fronte alle analisi della Butler,
di Laclau, di Negri 541. Dove c’erano delle moltitudini, delle masse, per Freud ci
dovevano essere sempre dei capi 542. Qualsiasi fenomeno di massificazione si pro-
duce sempre intorno a un fenomeno di leadership. La politica per Freud era sì
un problema di masse, ma anche, e soprattutto, di capi e di relazioni tra questi e
gli individui delle masse. Quando venivano meno le griglie simboliche dentro le
quali le figure di leadership si stagliavano, Freud, in base a quanto ci dice Lacan,
argomentava che vi erano sempre dei leader primari. Il problema a questo punto
era però comprendere come questo legame tra masse e capi primari si produce-
va; cosa è la massa primaria? Che tipo di vincoli strutturavano? Per Freud sulla
linea verticale che lega i singoli al duce, nel caso della massa primaria, avrebbe
posto l’ipnosi, sulla linea orizzontale l’identificazione.
C’è una certa vulgata della Psicologia delle masse 543 che ritiene che Freud soste-
neva ci fosse un legame di identificazione di tutti con il capo, non è così; esiste-
vano, secondo Freud, un legame d’identificazione tra i membri e un legame ip-
notico con il capo. Freud amava dire a Federn che era condivisibile l’entusiasmo
per la rivoluzione bolscevica ma il problema era che quando ci trovavamo in un

541
M. Hardt e A. Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine mondiale, a
cura di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2004.
542
Curioso è cogliere questo fenomeno nelle “Primavere arabe”, le quali sono state fatte
apparire in un primo momento come moltitudini sociali e democratiche; in effetti, sono
rimaste masse opache fino a quando non si sono scoperte le leadership filo-occidentali
che le comandavano. Questa opacità fu autoimposta all’interno e imposta dall’esterno
contemporaneamente dai giornalisti locali e dai magnati delle telecomunicazioni estere;
ma quali erano gli interrogativi che, invece, andavano urgentemente posti in quel mo-
mento a livello locale e internazionale? Forse quale era il filo di conversazione con il
quale queste persone in rivolta si sono assembrate? Erano discorsività religiose o laiche?
Chi erano i capi? Come si caratterizzavano i fenomeni di leadership?
543
www.politicacomun.org.
Modernità del diritto e Psicanalisi 203

tempo di crisi della nostra appartenenza bisognava fare attenzione, in quanto


emergevano capi liberi dalle griglie simboliche e le masse organizzate cedevano
rispetto a quelle primarie.
Freud discuteva di due termini importanti: dell’individuazione e della massifica-
zione. L’individuazione era collegata all’edificazione di un ideale dell’io in cia-
scun singolo soggetto, il quale faceva poi da traino per un processo di singolariz-
zazione della sua identità. Tutto questo, secondo Freud, era possibile soltanto
dentro masse organizzate (artificiali), istituzionalizzate. Il processo della massifi-
cazione era quello in cui l’ideale dell’io cessava di funzionare, era sostituito
dall’ideale della massa e prendeva questa nomenclatura in quanto produceva il
fenomeno di perdita della personalità da parte di ogni singolo individuo della
massa. Nello spazio critico tra il polo di una individuazione e il polo di una
massificazione Freud poneva l’analisi delle nevrosi e delle psicosi; mentre le ne-
vrosi (tra cui la fobia, l’isteria, la nevrosi ossessiva) producevano sintomi non
gravi, nel caso delle psicosi (paranoia, schizofrenia, sindromi maniaco-
depressive) la soggettività era letteralmente smembrata. Per Freud la nevrosi era
il fenomeno di eccessiva individuazione, che constava sostanzialmente di un iso-
lamento dell’individuo dalla società, a cui corrispondevano stati di idiozia. Nella
Psicologia delle masse Freud compiva un paragone tra la nevrosi ossessiva e la ri-
tualità religiosa. Nel caso dell’individuo massificato della massa primaria, disor-
ganizzata, eravamo più vicini all’estremo psicotico, il polo di sgretolamento del-
le soggettività. La mancata risoluzione delle dinamiche edipiche non consenti-
vano a questi soggetti di accomodarsi tranquillamente su un personale ideale
dell’io, incatenato su modelli collettivi; qualcosa non funzionava e il rapporto
tra il soggetto e il proprio ideale dell’io diventava problematico. Quest’ultimo,
diventando problematico, generava un conflitto intrapsichico, una scabrosità
nella soggettività che corrispondeva direttamente a un antagonismo nei con-
fronti dei modelli culturali 544. Il mancato completamento del complesso edipico
produceva asocialità, che nel caso del nevrotico veniva compensata dalla ritualità
ossessiva (religiosa).

544
I quali sono incanalati dall’ideale dell’io.
204 Capitolo V

Per quanto riguarda il problema dei rapporti tra idea-ideale e capo Freud scris-
se 545 che:
«Occorrerebbe considerare attentamente le svariate masse più o meno stabili che si for-
mano spontaneamente e studiare le condizioni del loro costituirsi e del loro disgregarsi e
dovremmo occuparci tra masse che hanno un capo e masse prive di un capo 546 e chie-
derci se le prime non siano più originarie e più complete e se nelle altre il capo non pos-
sa venire sostituito da un’idea, da un’astrazione e se una tendenza comune, un desiderio
espresso da molti non possa farne in tutto le veci» 547. «Tra le entità astratte potrebbe a
sua volta più o meno perfettamente incarnarsi in un capo per così dire secondario e dal-
la relazione tra idea e capo potrebbero derivare interessanti esiti diversificati» 548.
Cosa ci diceva in questo passaggio Freud? Le masse che avevano un capo e le
masse prive di un capo erano masse diverse ma entrambe, comunque, necessita-
vano di una leadership. In tal senso per Freud le masse avevano sempre un lea-
der; ciò non toglie però che brilli la speranza, in Freud, di una dittatura laica
della ragione 549; questo è il modo in cui Freud pone il problema. La questione
delle masse diventa qui il problema delle leaderships550. Il problema è, per Freud,
che questa questione nella teoria politica classica non esisteva e nessun lavoro
teorico precedente poteva contribuire allo studio che la psicoanalisi si propone-
va di intraprendere.
A questo punto quali erano i rapporti tra idea e capo? È l’idea che pre-esiste al
capo, delineandone il profilo, o è il capo che pre-esiste all’idea, una volta in-
ghiottita dal leader per un effetto di suggestione? Per Freud c’erano due risposte
alternative: o la massa si costituiva attorno alla figura in carne e ossa del capo,
con cui i singoli instauravano una relazione di tipo ipnotico; o intorno a un
ideale simbolico dove il capo svolgeva una funzione secondaria. I due tipi di

545
S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io, in Opere, p. 289, Bollati Boringhieri,
Torino, 1977.
546
Esisono masse senza un capo?
547
S. Freud, Ibidem; questo periodo è costruito tutto con un tempo verbale condiziona-
le, particolarità che non va trascurata.
548
Ibidem.
549
Cosa che rimane una speranza e non un dato storico.
550
In altre parole interrogarsi sulla formazione della massa, sulle sue dinamiche, è come
interrogarsi sulla leadership.
Modernità del diritto e Psicanalisi 205

masse erano possibilità distinte: le masse temporanee, le masse primarie, le mas-


se disorganizzate, si legavano intorno la figura del capo; le masse stabili, le masse
secondarie, le masse organizzate, si legavano intorno a un ideale, il quale irreg-
gimentava il capo e al quale il capo era sottomesso. Quali erano però le ipotesi
che circolavano al tempo in cui Freud rifletteva su questi passaggi? Quale era
l’ipotesi che andava per la maggiore tra gli psicologi delle masse? L’ipotesi più
affermata era che la massa fosse sempre primariamente raccolta intorno a un ca-
po e questo in virtù non dell’ipnosi, come scriverà Freud, ma di un rapporto di
suggestione. Ogni singolo individuo della massa era suggestionato passivamente
da un suggestionante (il capo); ma con lo svilupparsi di relazioni sempre più ar-
ticolate dentro la massa l’idea era che questo rapporto di suggestione, che il capo
esercitava sui singoli membri della massa, alla fine si retro-flettesse sul capo stes-
so. Come si esercitava la suggestione? Il duce era un agente catalizzatore e
nell’esercitare questo effetto di suggestione, poteva muovere un discorso. L’idea
era che col passar del tempo questo effetto di suggestione del discorso apportato
dal capo si retro-flettesse e il capo stesso diventasse un elemento suggestionato
dal suo stesso discorso, producendo un progressivo ma radicale appiattimento
della iniziale asimmetria tra il capo e i seguaci della massa.
Tarde affermava che in ogni coppia si trovava più o meno appariscente o celata la
distinzione tra il suggestionante e il suggestionato, una distinzione questa di cui si
abusava parecchio. Il problema per Tarde era capire cosa era la suggestione e
come interpretarla in quanto fenomeno. Tuttavia a mano a mano che
l’associazione si ingrandiva con l’aggiunta di neofiti, a mano a mano che la coppia
diveniva un gruppo, la distinzione tra suggestionante e suggestionato scompari-
va. Questo plurale, la massa, in fondo non era mai altro che un grande duale e per
quanto numerosa fosse stata una corporazione o una folla anch’essa sarebbe stata
una sorta di coppia in cui talvolta ciascuno, incluso il dominante, sarebbe stato sug-
gestionato da tutti gli altri, dal loro insieme che funge da suggestionante collettivo.
Talvolta, invece, il gruppo intero era suggestionato dal dominante. In quest’ultimo
caso la suggestione rimaneva unilaterale, mentre nel primo la suggestione diventa-
va in buona misura reciproca, tendeva cioè ad annullare il rapporto di asimme-
tria. In un momento successivo, della sua Summa, Tarde scriveva che le quattro
specie principali di influenza suggestionante (una volontà di ferro, un colpo
d’occhio aquilino, una potente immaginazione, un orgoglio intrattabile), di ca-
nali di suggestione, si trovavano spesso riunite tutte assieme fra i primitivi, nei
gruppi umani non civilizzati. Questo spiegava la profonda idolatria dei primitivi
206 Capitolo V

per certi capi. Tuttavia nel corso del processo di civilizzazione queste quattro specie
di influenza tendevano a separarsi e tendevano, fatte salve alcune eccezioni (per
esempio il caso di Napoleone), a divergere sempre più. Da tutto ciò risultava che
l’intelligenza si affinava a spese del carattere; in altre parole, nel gruppo al posto
del carattere forte si raffinava l’intelligenza, in quanto i soggetti erano meno in-
clini a farsi suggestionare da questi tratti riuniti in un capo che li possedeva tutti
e quattro. Mentre il carattere si indeboliva il vantaggio era che in tal modo
l’azione suggestiva primitivamente unilaterale tendeva a farsi reciproca. Nel terzo
capitolo de L’opinione e la folla Tarde disegnava un abbozzo di teoria: inizial-
mente le masse si raccoglievano intorno a un capo, che possedeva dei tratti po-
tenti, capaci di fargli esercitare una incisiva suggestione sul resto del gruppo, ma
nel corso del processo di civilizzazione questo rapporto di suggestione, il quale
inizialmente è profondamente unilaterale, tendeva a diventare reciproco.
Questo disegno è abbastanza paradigmatico di come gli specialisti vedevano le
cose al tempo sia di Tarde sia di McDougall e di quali difficoltà vivessero nel
momento in cui le loro teorie rimanevano puramente descrittive. Inizialmente si
riteneva che l’idea che cementava il gruppo, producendo una volontà collettiva,
nasceva nella mente di uno solo, poi questa idea si diffondeva, divenendo pro-
pria di tutti. A questo punto si entrava in un altro tipo di cemento collettivo, il
quale si scioglieva sempre più dall’effetto di suggestione esercitato direttamente
dal capo, l’idea, l’ideale.
Volendo sottolineare due cose, ricapitoliamo che:
1. Tutti questi psicologi delle masse parlavano di suggestione. Essa non era pe-
rò un concetto, come del resto non esisteva una teoria a cui questa faceva ri-
ferimento. Freud respinse la nozione di suggestione, in quanto ritenuta uno
pseudoconcetto, una finta esplicazione. La suggestione era un termine che
aveva un valore meramente descrittivo, esso fotografava qualcosa che succe-
deva ma non bastava per spiegare tale fenomeno.
2. In La ragione populista Laclau ripropone ai giorni nostri una lettura della
Psicologia delle masse di Freud con lenti teoriche appartenenti agli psicologi
della suggestione e quindi del tutto sorpassate già ai tempi di Freud; perché
questo anacronismo? Per due ragioni: Tarde sosteneva che noi dovevamo
produrre una fenomenologia delle masse e una spiegazione di quello che
succedeva nella formazione collettiva a prescindere dalle caratteristiche psi-
chiche dei singoli soggetti. Quando parlavamo di suggestione non aveva
importanza chi fosse stato suggestionato, quale fosse stato il profilo di chi
Modernità del diritto e Psicanalisi 207

faceva da agente suggestionante. Tutti erano suggestionati allo stesso modo.


La psicologia della suggestione era cosa ben diversa da ciò che scriveva
Freud, in quanto egli metteva in luce una distinzione dentro la psiche degli
individui, i quali potevano entrare a far parte di una massa primaria o di
una massa organizzata. Molto importante era infatti tener conto del caso
dove gli individui avevano ben sviluppato un ideale dell’io e quello in cui
gli individui possedevano un ideale dell’io poco sviluppato; in altre parole
bisognava tener conto delle storie psico-individuali, della differenza tra sog-
getti in cui si era avuta una corretta attivazione del complesso di Edipo e
individui in cui, per ragioni contingenti, non si erano attraversate corretta-
mente le sue dialettiche e non avevano potuto sviluppare, internamente,
nella loro psiche un solido ideale dell’io. Tener conto della psicologia indi-
viduale era importante per la comprensione a monte di quei mattoni con
cui una massa si costruiva. Questa distinzione non esisteva in Tarde, in Le
Bon, in McDougall, come in tempi più recenti non esiste in Laclau. Freud
al contrario introduceva un elemento di assoluta novità.

Ora perché Freud poneva una differenza sul piano della teoria delle masse?
Freud poneva questa distinzione perché, ad esempio, in Tarde noi avevamo un
passaggio diretto da masse in cui c’era profonda asimmetria tra il capo e la mas-
sa a masse in cui, grazie a un processo di civilizzazione, l’effetto di suggestione si
retro-fletteva sul capo, sulla guida. Nell’esempio di Tarde passavamo da una
massa disorganizzata a una massa organizzata senza soluzioni di continuità. Il
principio di spiegazione era questo misterioso “concetto” di suggestione. Nella
prospettiva precedente a Freud (come di recente in Laclau) eravamo in un oriz-
zonte continuo. Freud scriveva che «occorrerebbe551 considerare attentamente le
svariate masse» più o meno stabili che si formano spontaneamente «e studiare le
condizioni del loro costituirsi e del loro disgregarsi», studiare quali tipi di masse
esistono, come si costituiscono, come si disgregano e «soprattutto dovremo oc-
cuparci della differenza tra masse che hanno un capo e masse prive di capo e

551
L’uso del tempo condizionale è tipico di Freud e della sua analitica, della sua osserva-
zione clinica.
208 Capitolo V

chiederci se le prime non siano più originarie e complete 552 e se nelle altre il ca-
po non possa venir sostituito da un’idea, da un’astrazione. Questa entità astratta
potrebbe a sua volta essere più o meno perfettamente in un capo, per così dire,
secondario» 553.
Freud utilizzava il condizionale perché questo tipo di domande erano più o me-
no il genere di interrogativi che venivano alla mente nel momento in cui ci si
limitava a discutere di tali questioni a partire dalla letteratura scientifica a lui
contemporanea. Certamente non era su questo piano che l’analisi di Freud si
sviluppò e infatti quest’ultimo cambiò letteralmente livello e mutando piano si
chiese direttamente che tipo di legame cementava la relazione tra i membri del
gruppo e che tipo di legame cementava la loro relazione con il capo o con l’idea.
Con tale domanda Freud scartava l’ipotesi della suggestione, in quanto, in ulti-
ma istanza, essa non poteva nemmeno dirsi un’ipotesi. Di che tipo erano questi
legami affettivi, emotivi, libidici? Freud escludeva che questi legami fossero stati
di tipo sessuale.
«Nella teoria psicanalitica delle nevrosi ci siamo finora esclusivamente occupati del le-
game che danno con i loro oggetti le pulsioni amorose 554, le quali perseguono mete ses-
suali dirette. Nelle masse non può essere questione di mete sessuali di questo tipo» 555;
l’orda primordiale non è l’orgia primordiale, semmai è il contrario. Per Freud
da una parte esistevano legami evidenziati dalle pulsioni amorose, dove l’amore
oggettuale era l’espressione libidica, ad esempio, per una persona eletta ad og-
getto e meta di una pulsione sessuale; dall’altra esistevano legami identificatori,
ancora più primitivi. L’amore oggettuale e l’identificazione erano due legami
libidici.
«L’identificazione è la più primitiva e originaria forma di legame emotivo. […]
L’identificazione primaria 556 è l’identificazione con il padre» 557.

552
In questo passaggio Freud si pone sulle linee d’indagine degli psicologi delle masse a
lui precedenti, e per cui le masse primitive hanno un capo.
553
S. Freud, Ibidem, p. 295.
554
Erotiche.
555
S. Freud, Ibidem, p. 294.
556
La prima identificazione, il primo legame emotivo che affiora nella vita di un sogget-
to umano.
557
S. Freud, Ibidem.
Modernità del diritto e Psicanalisi 209

Ciò vuol dire che del padre il bambino introietta alcuni tratti della sua persona,
della personalità paterna sin dai primi mesi; in questo senso possiamo dire che
«un oggetto è stato collocato al posto dell’io» 558. Nel legame libidico sessuale
l’oggetto si mantiene nella sua dimensione oggettuale. Nel legame libidico
d’identificazione abbiamo l’introiezione e la collocazione dell’oggetto al posto
dell’io, l’io introietta alcuni tratti dell’oggetto. Perché il rapporto col padre nella
teoria psicanalitica freudiana rimaneva centrale? Il rapporto paterno rimaneva
centrale nella teoria psicoanalitica perché l’identificazione col padre veniva, ad
un certo punto, ostacolata e resa inagibile. Il motore di questo processo era il
complesso di Edipo. In Freud il complesso edipico operava un passaggio che
non sempre veniva attraversato correttamente. Nella seconda elaborazione del
complesso di Edipo Freud affermava che esso ordinava, dettava, al bambino, al
soggetto, un duplice imperativo: “così come il padre tu devi 559essere, così come il
padre non ti è permesso essere” 560. A questo punto cosa succedeva quando si atti-

558
Ibidem.
559
In questo caso dovere è restituito in tedesco con sollen, con il dovere morale, con
un’ingiunzione.
560
Tu come il padre devi essere, tu come il padre non puoi essere! Questo è il doppio impe-
rativo kantiano dove lo sollen non è un müssen. Lo sollen non è un dovere come necessità
oggettiva (necessità naturale) ma è il dovere morale. Freud avrebbe potuto fermarsi allo
sollen kantiano se avesse letto meglio Kant, in quanto nello stesso Kant è già scritto il
fatto che tu come il padre non potrai essere; siccome Freud non ama lasciare niente per
scontato, egli aggiunse così come il padre non ti è permesso essere. Freud rimane sullo stes-
so piano dello sollen kantiano, ma lo restituisce negativamente. Esiste un duplice impe-
rativo, e non un ponte deduttivo, in Freud, ma già in Kant e nel suo imperativo catego-
rico era implicito che questo sollen non mette mai capo a uno sein, a un essere. Lo sollen
è un imperativo che vibra di continuo, che implica una continua tensione verso qualco-
sa: nell’imperativo categorico questo qualcosa è la libertà, la libertà come autonomia, la
libertà come l’obbedienza a se stessi. La forma dell’obbedienza a se stessi è l’imperativo
categorico. L’imperativo categorico traduce in tedesco quello che è scritto in greco con
la parola autonomia. C’è però solo una precisazione da fare e cioè che per i greci antichi
l’autonomia era un attributo solo delle collettività, delle città-stato libere dall’invadenza
delle città straniere, obbedienti esclusivamente a se stesse. L’unico momento in cui au-
tonomos viene utilizzato per descrivere un individuo è quello della tragedia sofoclea
dell’Antigone, tragedia che nell’antica Grecia non faceva il minimo scalpore, ma che nel
210 Capitolo V

vava questo duplice imperativo (il complesso di Edipo)? Succedeva che


l’identificazione primaria, l’identificazione con il padre, diventava inagibile, ve-
niva ostacolata; era a partire da questo momento che si produceva non più, o
non tanto, una identificazione con il padre ma un’idealizzazione del padre; cioè
il padre diventava quel modello col quale ci si sarebbe dovuti identificare, ma
con cui non ci si sarebbe potuti identificare. Cosa succedeva a questo punto del
complesso edipico? Nel complesso edipico succedeva che nell’io si scavava uno
scalino all’interno, un gradino tra l’io e il suo ideale. Questo ideale non era sullo
stesso piano dell’oggetto con cui l’io si identificava, ma si scavava dentro l’io, si
poneva più in alto dell’io. Era proprio la presenza attiva di un ideale paterno
scavato come un dislivello sopra l’io che nel seguito dell’esistenza l’io medesimo
avrebbe potuto strutturare in un tessuto soggettivo unitario i diversi vissuti
emotivi di identificazione. Se fosse venuto a mancare questo ideale, noi avrem-
mo avuto comunque un processo di identificazione, ma non ci sarebbe stata la
costruzione di un individuo unitario. In altre parole se l’individuo non avesse
avuto un punto di fuga fisso, non avesse avuto un ideale paterno verso il quale e
attraverso il quale guardare continuamente dentro il suo inconscio, le sue iden-
tificazioni sarebbero state slegate tra loro, non ci sarebbe stata una immagine
ordinatrice che le avrebbe tenute assieme .
Cosa sarebbe successo se la subordinazione all’ideale paterno di tutte le identifi-
cazioni non fosse avvenuta? Avremmo avuto un tessuto non nevrotico ma di-
sgregato, scisso, psicotico. In un tessuto psicotico come quello della schizofrenia
non avremmo mai avuto un soggetto, saremmo stati sempre davanti a più sog-
getti che convivevano parallelamente. Nel caso della schisi, della schizofrenia, la
paranoia già sarebbe stata un tentativo di guarigione. Nella paranoia il soggetto
si muoveva in un corpo in frammenti, dove la figura paterna che non si era po-
tuta consolidare sul piano simbolico, sul piano dell’ideale, riemergeva - come
scriveva Lacan - nel reale sotto le vesti di un dio oscuro. La paranoia, dunque, era
sì un processo di idealizzazione, ma da un lato era allucinatorio, dall’altro era
delirante. Ciò va sottolineato perché quando Freud diceva che non c’era un
ideale dell’io ben sviluppato, con ciò voleva dire proprio che non ci trovavamo

mondo della modernità politica compiuta diventa paradigmatica di un intero sguardo


teorico.
Modernità del diritto e Psicanalisi 211

in un tessuto nevrotico 561. Cosa è più propriamente l’io di cui ci parlava Freud?
In prima approssimazione potevamo definire io colui che diceva io nel momen-
to in cui lo diceva sullo sfondo di un ideale dell’io - introiettato tramite
l’interiorizzazione dell’ideale paterno -. Nel passaggio edipico l’io diceva io sem-
pre tenendo sullo sfondo questo ideale a cui aspirava ad avvicinarsi, ad assomi-
gliare, ad approssimarsi, il più possibile. Secondo Freud ogni individuo edifica-
va, costruiva, il suo ideale dell’io in base ai modelli più diversi; questi modelli
erano i modelli sociali, simbolici, che negli scritti freudiani strutturavano le
masse organizzate, istituzionalizzate. La figura paterna era il canale attraverso cui
al bambino arrivava, perveniva, sia agli ideali sociali sia ai modelli universali.
Detto ciò Freud sosteneva che «in molti individui» la separazione tra l’io e
l’ideale dell’io poteva non essere molto sviluppata, poteva non aver fatto molti
passi avanti. Chi erano questi individui?
Erano individui in cui non vi era quasi traccia di rimozione; in una nota della
Psicologia delle masse Freud riprendeva una intuizione del 1914:
«La formazione di un ideale sarebbe, è, da parte dell’io la condizione della rimozio-
ne» 562.
Vi era costruzione dell’ideale dell’io tramite l’attivazione del complesso edipico
ed erano soltanto dentro l’attivazione del complesso edipico che si produceva
rimozione dei contenuti libidici 563. In altre parole poniamo che vi sia costruzio-
ne dell’ideale dell’io, questo non risolve l’intera vita psichica del soggetto. Ad
esempio il bambino nel momento in cui ha costruito il suo ideale materno, con-
tinuerà sempre a nutrire un desiderio libidico oggettuale per la madre, conti-
nuerà a volere la madre, l’oggetto materno, esclusivamente per sé; il padre nel
complesso edipico rivendica per sé il possesso della madre 564. Tutto ciò in pri-
mis rende inagibile l’oggetto materno, in secondo luogo rende inagibile
l’identificazione con il padre; l’inagibilità dell’identificazione con il padre pro-
duce l’idealizzazione, ma produce anche il fatto secondo cui questo desiderio

561
Relativamente normale.
562
S. Freud, Ibidem, p. 318
563
I quali non possono venire integrati da questo ideale e per questo vengono respinti
nell’inconscio.
564
Ricordiamo il motivo così come il padre devi essere, così come il padre non puoi essere.
212 Capitolo V

viene respinto in basso, schiacciato, rimosso. In questa fase consideriamo la sfera


dell’inconscio come serbatoio di contenuti libidici rimossi 565, il quale rimane
tale anche nella vita adulta. I modelli sociali che vengono incanalati tramite
l’ideale dell’io e recepiti dal bambino in funzione dell’ideale paterno darà al
bambino usi e costumi da assumere nella vita adulta. Nel momento in cui il de-
siderio libidico entra in conflitto con l’ideale, l’über-ich, si produce un conflitto
intrapsichico, il quale scatena la rimozione di quella pulsione. Tutto questo pre-
suppone l’edificazione di un ideale dell’io. Se questa edificazione non ci fosse,
non ci sarebbe nemmeno rimozione; ecco perché Freud diceva che i soggetti in
cui l’ideale dell’io non ha fatto molti passi avanti sono quelli in cui non vi è
traccia di rimozione, sono cioè soggetti psicotici.
A questo punto ritornando alla questione dei tipi di legame vigenti nelle masse
(sia organizzate sia disorganizzate), dei tipi di legame emotivo che cementavano
le masse, Freud individuava due tipi di legami: c’era un legame orizzontale tra i
singoli membri della massa e un legame verticale con il capo primario (o con il
capo secondario, cioè il riflesso dell’idea). In un passo già citato Freud scriveva
che il legame con la guida era un legame di tipo ipnotico, mentre il legame tra i
singoli membri, quello orizzontale, era un legame di identificazione.
L’identificazione è un tipo di legame emotivo, affettivo, libidico, differente dalla
scelta oggettuale 566, infatti l’amore oggettuale, la pulsione sessuale, che prende
ad oggetto una persona, non mette capo di per sé ad alcuna identificazione;
l’identificazione, ovvero lo scambio di posizione che pone l’oggetto al posto
dell’io, cioè l’oggetto (o la persona) con la quale si stabilisce un legame di iden-
tificazione, è un processo che introiettata qualcosa dentro l’io, all’interno della
soggettività. L’identificazione è quel tipo di legame affettivo, quel tipo di legame
che tutti noi stabiliamo primariamente con il padre, (o con uno dei due genito-
ri). L’identificazione, il legame che pone l’oggetto al posto dell’io, vuol dire che
l’io, il singolo soggetto, prende, assorbe, i tratti dell’oggetto con cui si identifi-
ca 567, li fa propri in un meccanismo che, superficialmente, noi chiameremo
emulativo (mimetico) ma che Freud interpretava e qualificava in termini affetti-

565
In quanto non integrabili con le richieste dell’ideale dell’io.
566
Essa è la pura vettorialità della pulsione sessuale sulla sua meta.
567
I fanciulli iniziano col far proprie le smorfie dei genitori ad esempio.
Modernità del diritto e Psicanalisi 213

vi. L’identificazione non era, semplicemente, una emulazione teatrale del bam-
bino ma un processo di soggettivazione, di costruzione dell’identità del sogget-
to. Il processo di identificazione era in fieri per tutta la durata dell’esistenza, ed
era sempre una identificazione con la figura paterna 568. Ad un certo punto del
complesso edipico l’identificazione primaria con il padre veniva resa inagibile,
veniva ostacolata e ciò perché così come il padre si doveva essere e così come il pa-
dre non si poteva essere. Il doppio comando kantiano spezzava il legame identifi-
cativo e nella costruzione della soggettività era come se fossimo passati da un
piano dell’identificazione (legame orizzontale), tra l’io e l’oggetto, a un piano in
cui l’oggetto veniva innalzato a una posizione di ideale con cui ci si sarebbe do-
vuti identificare ma non ci si sarebbe potuti identificare. Questo ideale era come
se finisse sopra l’io. Mentre l’oggetto dell’identificazione veniva messo nell’io,
incorporato nell’io, a livello orizzontale, l’ideale edificato, costruito in virtù del
complesso edipico, veniva introiettato non a livello dell’io ma spostato sopra
l’io. Per un nevrotico il complesso edipico si era attivato correttamente; ma ciò
voleva dire solo che si era attivato un processo di rimozione. Quando Freud di-
scuteva della Psicologia delle folle di Le Bon, egli affermava che in quest’ultimo
esisteva una certa idea dell’inconscio, ma esso era però un inconscio razziale,
popolare, culturale. Questo inconscio razziale era per Le Bon la memoria di un
popolo, la storia di un gruppo. Questa storia si incarnava in un ideale traman-
dato di generazione in generazione, una eredità parzialmente inconscia. Ciò che
sfuggiva a Le Bon era la caratteristica psicanalitica dell’inconscio, ovvero il fatto
di essere un contenuto rimosso.
A proposito della rimozione Freud scrisse che:
«La formazione di un ideale è una condizione senza la quale non c’è rimozione» 569;
ma cosa era ancora meglio la rimozione in Freud? Perché Freud legava la rimo-
zione alla presenza di un ideale dell’io? Una volta che tramite il complesso edi-
pico si formava un ideale dell’io (un Super-io)570 tutto il processo di soggettiva-

568
E infatti il complesso di Elettra verrà sistematizzato solo da Lacan.
569
S. Freud, Ibidem, p. 318.
570
Quel qualcosa che sta sopra l’io, über-ich, quel qualcosa che come un punto idealiz-
zato si sostituisce dentro la psiche e va a configurare un modello a cui l’io si approssima
214 Capitolo V

zione risultava coerente se si confaceva all’ideale dell’io medesimo. Ciò voleva


dire che nel tessuto dell’esperienza soggettiva si costruivano dei binari, delle reti
simboliche, in cui questo ideale era sempre presente. Cosa governava questo
ideale a questo punto? L’ideale dell’io governava un processo che non potevamo
più definire solo come un legame di identificazione ma, freudianamente, di in-
dividuazione. Il processo che portava a ciò che non era diviso, non era solo un
processo di identificazione, ma era anche un processo che governava la storia
delle identificazioni soggettive (le quali a loro volta producevano un individuo
storico, un soggetto che rimaneva appeso all’ideale dell’io). L’ideale dell’io, in
una forma più generale, era un modello con cui l’io doveva ma non poteva
identificarsi, era l’espressione figurata di richieste, di esigenze familiari e sociali.
Il modello, o qualsiasi tipo di ideale, paterno attraverso queste richieste, questi
imperativi, questi dettami, ogni volta variabili e specifici, disegna
un’appartenenza, un certo tessuto storico familiare, popolare. Questi imperativi
potevano a volte entrare in conflitto con la nostra vita pulsionale571, con quel
magma di pulsioni erotiche (produttive) e thanatofile (distruttive) 572, che è l’Es.
Non tutte queste pulsioni erano integrabili con le richieste dell’ideale dell’io,
anzi l’ideale dell’io richiedeva un notevole sacrificio pulsionale. Nella chiave me-
taforica e paradigmatica del complesso edipico il concetto di sacrificio pulsionale
sembrava essere più intellegibile; e infatti il complesso edipico risultava già più
chiaro sin da quando si cercava di spiegare come e perché il bambino nutriva un
desiderio di presenza materna. Questo desiderio della presenza materna non era
volgarmente un desiderio del consumo sessuale ma il desiderio, ad esempio, del
seno materno, della voce materna. La madre era un oggetto ancora scomposto
da cui il bambino cercava di succhiare in tutti i modi. Questo succhiare non era
un succhiare biologico ma pulsionale. In questo caso la pulsione orale ad un cer-
to punto incontrava un ostacolo, tra il bambino e la madre si frapponeva
l’immagine paterna, la quale produceva nel bambino una sorta di separazione, la
constatazione dell’impossibilità di possedere esclusivamente la madre; la madre

- dovrà identificarsi e non potrà identificarsi -. Il Super-io è il punto di traino in rela-


zione al quale verranno ordinate tutte le successive identificazioni.
571
Tutto ciò che si svolge nell’Es.
572
Distruttive è da intendere contemporaneamente sia in senso autodistruttive sia in
senso etero-distruttive.
Modernità del diritto e Psicanalisi 215

diveniva il possesso del padre. A questo punto le pulsioni del bambino nei con-
fronti della madre non erano compatibili con l’ideale dell’io, creando così un
conflitto intrapsichico 573 al fanciullo. Il conflitto intrapsichico - in cui l’io non
giocava quasi alcun ruolo, era schiacciato tra l’Es e l’ideale dell’io - si risolve in
una rimozione. Queste pulsioni non potevano essere eliminate, ma potevano
essere, come diceva Freud, unterdrückt 574, soffocate, schiacciate, rimosse, repres-
se. Nella rimozione vedevamo affiorare l’inconscio come serbatoio di contenuti
libidici 575 rimossi, di tutto ciò che non era io. L’inconscio era l’intero conflitto
intrapsichico proprio perché non si poteva rimuovere soltanto il contenuto libi-
dico tenendo salvi gli effetti di censura sui contenuti libidici. La parte dell’ideale
dell’io - che rimaneva conscia - però non era la parte dell’ideale dell’io che effet-
tuava la censura. Noi potevamo diventare consci delle nostre pulsioni certe vol-
te, ma non potevamo mai essere consci dell’intera dinamica intrapsichica (se
non nella forma di un senso di colpa) 576.
Tutto questo considerare, all’interno del dibattito teorico contemporaneo a
Freud, conduceva la psicanalisi a una svolta epocale. Mentre Le Bon osservava la
formazione delle masse e spiegava la dinamica delle masse prescindendo dalla
struttura psichica dei singoli che entravano a far parte delle masse, postulando
che esistevano dei legami di suggestione valevoli in ogni caso nella costituzione
della massa, per Freud il legame con il capo era un legame che variava a seconda
della struttura psichica dei soggetti che formavano la massa. Se nel gruppo fosse-
ro prevalsi soggetti di un tipo invece che di un altro, la massa avrebbe avuto ca-
ratteristiche differenti. Questa considerazione consentiva veramente di cambiare
lo sguardo sulla psicologia delle masse. Quella di Freud non era più una socio-
logia e in relazione a quest’ultima quella di Le Bon scadeva in un approccio
troppo poco psicologico. Per Tarde, per McDougall, per Le Bon la suggestione
era un fenomeno reale, un fatto sociale, mentre per Freud era invece una chime-

573
Che secondo Levi-Strauss trova una corrispondenza nel conflitto tra natura e cultura,
il conflitto istaurato a partire dall’interdizione familiare e sociale dell’incesto.
574
Freud approva la traduzione francese di repression dal tedesco unterdrückt.
575
Affetti e rappresentazioni.
576
Il quale a sua volta è tutto ciò che affiora alla coscienza del conflitto intrapsichico
che, secondo Lacan, la psicanalisi deve sedare nei suoi risvolti più feroci, aiutando
l’individuo ad emanciparsi come tale.
216 Capitolo V

ra. La suggestione scomparse in Freud nel momento in cui la psicanalisi insistet-


te su una questione e cioè sulla differenza tra soggetti di una massa in cui si ave-
va una compiuta e solida edificazione dell’ideale dell’io e individui di una massa
in cui questa edificazione non aveva fatto molti passi avanti, la separazione tra
l’io e l’ideale dell’io non era molto sviluppata. Questi ultimi per Freud erano i
soggetti che sarebbero diventati trainanti nell’occasione di masse primarie577,
nelle masse in cui sarebbe prevalso il rapporto verticale, ipnotico, con il capo
(l’ideale incarnato della massa) 578. Questo tipo di massa, in cui in molti singoli
l’ideale dell’io non era molto sviluppato, era la massa primaria; ma chi erano
questi molti? La definizione di psicotici non è sufficiente e per supplire a tale
mancanza è doveroso ritornare ad interrogarsi sulla rimozione.
Quando si effettua la rimozione, un soggetto si caratterizza come più o meno
nevrotico, ovvero come un soggetto che ha realizzato una serie di compromessi
inconsci 579 tra le pulsioni magmatiche di carattere erotico o thanatoliche (che
pullulano nell’Es) e le richieste dell’ideale dell’io, le richieste di quelle istituzioni
alle quali ogni soggetto appartiene. Il conflitto intrapsichico prodotto tra queste
due polarità è frutto della rimozione, alla quale, in base a Freud, saranno dipen-
denti da qualsiasi tipo di significanti. È chiaro che in una nevrosi il rapporto tra
l’io e l’ideale dell’io può essere più o meno sollecitato, più o meno scosso; ragion
per cui si potrà essere più o meno nevrotici. Nel momento in cui il rapporto tra
questi viene particolarmente sollecitato, il rapporto stesso si riconfigura nel sen-
so in cui le richieste libidiche tendono a deformare il profilo dell’ideale dell’io e
ad estrarlo dal suo contesto di provenienza 580. Ecco che in un processo di sog-
gettivazione di stampo nevrotico abbiamo una forte individuazione, la quale
può diventare al limite caricaturale, idiota. Quello che il nevrotico ossessivo sarà
portato ad agire nella sua vicenda, sarà una riproduzione in forma personale, e
caricaturale, di modelli sociali originali 581. Nell’altra polarità del processo Freud

577
S. Freud, Ibidem, cap. XI.
578
A questo proposito più avanti vedremo la differenziazione freudiana tra ideale dell’io
e ideale della massa.
579
Di cui i sintomi sono informazioni significanti.
580
Cioè quei modelli sociali che erano stati incanalati originariamente dall’ideale interno.
581
Per cui la nevrosi ossessiva verrà definita da Freud una caricatura della religione, una
caricatura della ritualità religiosa.
Modernità del diritto e Psicanalisi 217

parlava di ciò che noi possiamo oggi esprimere con un termine non proprio
freudiano e cioè quello di massificazione. Nella massificazione siamo in presenza
di soggetti che non hanno edificato un solido ideale dell’io e il processo di indi-
viduazione di questi soggetti zoppica gravemente. In quest’ultimo contesto il
legame emotivo delle identificazioni, che nel corso dell’esistenza si succedono,
non è subordinato al processo di individuazione. Questi soggetti, che solo per il
momento definiamo psicotici, sono in ultima istanza soggetti depressi (o melan-
conici). Il soggetto psicotico è un soggetto schizofrenico, un soggetto con più
personalità, un soggetto che non è unico, un individuo. Il soggetto paranoico è
anch’esso uno schizofrenico, ma già è più caratterizzato positivamente in base
alla comparsa di ricostruzioni deliranti. Il delirio paranoico è un tentativo di cu-
ra che lo schizofrenico esercita nei confronti di se stesso, un tentativo di guari-
gione che cerca di delineare una coerenza in un orizzonte di membra scompo-
ste. Secondo Freud schizofrenici e paranoici andavano ben distinti dai melan-
conici e ciò non solo perché questi ultimi erano in netta maggioranza rispetto ai
primi. I melanconici erano psicotici che confinavano con i depressi ciclici. Per i
melanconici la formazione della massa primaria era una soluzione, era una
compensazione, era un tentativo di guarigione. La mania e il trionfalismo, il
senso di onnipotenza, erano compensazioni per i melanconici.

***

Ci avviciniamo ora a una distinzione assolutamente cruciale che Freud stabilì


nel testo e su cui è costruita l’intera Psicologia delle masse in quanto tale e cioè
tra ciò che lui chiamava ich-ideal e ciò che definiva come il massen-ideal. La dif-
ferenza sostanziale tra queste due forme dell’ideale era che l’ich-ideal era una en-
tità vera e propria, una istanza psichica e dunque un che di completamente inte-
riorizzato, frutto di quella prima identificazione e successiva inagibilità
dell’identificazione primaria 582. Naturalmente questa istanza, l’istanza
dell’autorità interiore, era frutto dell’interiorizzazione di un’autorità esterna 583
che era quella rappresentata, agli occhi del bambino, dai genitori e primaria-
mente dal padre. Qui eravamo in una dimensione derivata, dove una istanza in-

582
Dell’identificazione con il padre.
583
Inizialmente.
218 Capitolo V

teriore psichica proveniva da istanze oggettuali esterne, dunque, istanze che ne-
cessitavano di essere incarnate. Cosa voleva dire ciò? Voleva dire che una volta
che questo processo era compiuto, che questo processo edipico 584 era attivato,
l’oggetto esterno cessava di essere la fonte, l’incarnazione primaria, dell’ideale 585.
Agli occhi del bambino era l’autorità del padre a dettare la legge ed era proprio
la sua immagine in carne ed ossa che successivamente spingeva un legame di
semplice identificazione a tramutarsi in un processo di interiorizzazione (idealiz-
zazione) della figura paterna - la quale poi diventa l’ideale dell’io -. Inizialmente
questa figura che dettava legge (il padre) non era ancora interiorizzata ma una
volta che lo diveniva, era a partire dal profilo dell’ideale dell’io che istanze ester-
ne, personificazioni in carne ed ossa dell’autorità, potevano essere prese a riferi-
mento.
Per il soggetto singolo, una volta che ebbe interiorizzato l’ideale dell’io tramite il
percorso edipico, il padre in carne e ossa poteva anche sparire, ma questo però
non impediva un suo ritorno. Il massen-ideal, in base a ciò che affermava Freud,
prendeva il posto dell’ideale dell’io: è così che si forma una massa primaria. Lo
schema seguente di Freud descriveva il caso di una massa organizzata. Questi Io,
nello schema freudiano, che erano tenuti insieme da legami di identificazione si
raccoglievano anche a partire da una certa analogia con il loro ideale dell’io - in
quanto era un ideale dell’io costruito secondo modelli, parametri comuni a que-
sti soggetti - . Freud parlava della verticale dell’identificazione e dello sfondo
comune che orientava i processi di individuazione, seguendo percorsi analoghi
ricalcati, ovviamente, e adeguati alle circostanti contingenze dell’esistenza di cia-
scun singolo; ed era sullo sfondo di questa appartenenza comune che era possi-
bile tra questi soggetti, intrecciare stretti rapporti di identificazione reciproca;
ciò vuol dire che il legame emotivo dell’identificazione era qualcosa di conti-
nuamente in moto, era un ingrediente della nostra vita psichica, era questo le-
game cieco 586. Nel celebre esempio freudiano delle collegiali il Nostro faceva no-
tare come, un giorno, una di queste ragazze ebbe una crisi di pianto; a ruota si
verificò quello che gli psicologi delle folle chiamavano un contagio. Per sugge-

584
Il processo edipico è un processo prima di identificazione e poi di idealizzazione e
interiorizzazione di questa autorità esterna sotto forma dell’ideale dell’io.
585
Ciò ha strettamente a che fare, secondo Freud, con il caso del capo secondario.
586
Vedi la forza cieca e l’esempio freudiano delle collegiali.
Modernità del diritto e Psicanalisi 219

stione tutte le ragazze si misero a piangere. Freud interpretò il fenomeno del


contagio, della suggestione, come, in realtà, un fenomeno dove il pianto diveni-
va un tratto unico di identificazione. Il contagio era alimentato dal desiderio di
ognuna di identificarsi con la prima e, dunque, dal desiderio di tutte di avere un
fidanzato segreto.
Esiste un desiderio di identificazione che muove il legame identificativo e que-
sto desiderio può essere motivato nelle maniere più disparate, le quali a loro vol-
ta producono meccanismi di identificazione ogni volta con tratti specifici.
L’esempio delle collegiali è un esempio di identificazione molto chiaro ed è una
identificazione basata sulla relazione con un capo. La presenza di sfondi sociali,
sfondi simbolici comuni dietro l’allineamento di ciascuno di questi soggetti sul-
la stessa verticale, consente di produrre anche forti legami identificativi tra i
membri di un gruppo. È chiaro che in una massa organizzata l’oggetto esterno,
ciò che è a monte del processo di interiorizzazione di questo ideale dell’io, ad un
certo punto viene occultato 587. Quest’ultimo è un processo psichico, un proces-
so di maturazione ed è un processo che sul piano individuale ripercorre quello
che sul piano della storia dell’umanità è il passaggio del padre primordiale 588,
dell’autorità paterna dell’orda 589; il padre dell’orda presenta le stesse caratteristi-
che del padre per il bambino piccolo, ovvero è colui che possiede esclusivamente
la donna, la madre, l’oggetto materno. Nel complesso edipico dell’umanità, nel
complesso totemico 590, accadeva, secondo Freud, ciò che avevamo già visto in
quello edipico. Molto brevemente il complesso totemico narrava che nelle orde
il padre gestiva i giovani figli-fratelli. Ad un certo punto questi assassinavano il
padre primordiale, lo facevano a pezzi e lo introiettavano, incorporavano simbo-
licamente, sottoforma non di una identificazione ma di una idealizzazione (cul-
turale). Il processo totemico che Freud elaborò in Totem e tabù, dopo aver letto
e riflettuto su Darwin e Robinson, condusse lo stesso a una riflessione di livello
ulteriore e cioè quella che individuava una stretta specularità tra il Totem e
l’Edipo.

587
Tener ben conto che occultare non vuol dire sparire.
588
Vedi Totem e Tabù.
589
L’orda è un mito scientifico di origine darwiniana.
590
Cioè il passaggio dal padre primordiale all’introiezione dell’autorità esterna come
ideale interiorizzato.
220 Capitolo V

Le comuni radici dell’umanità erano per Freud da ritrovarsi nei primi gruppi
culturali che passarono dalla natura alla cultura per il tramite di un determinato
rito, il pasto totemico. Freud interpretava questi riti tribali come riti di incorpo-
razione simbolica dell’istanza paterna, che nelle vesti di un totem, di
un’immagine divina, moriva come una presenza in carne e ossa che dettava leg-
ge e rinasceva, successivamente la ribellione e l’occultamento del pasto parricida
dei figli-fratelli, come idealizzazione e modello di civilizzazione. Il principio or-
dinatore nel complesso totemico assumeva ogni volta la forma di un precetto a
carattere essenzialmente morale, giuridico, religioso. Nei gruppi primitivi a reli-
gione totemica i capi dovevano essere coerenti con quelli che erano i modelli
culturali preistorici, pena la morte. In questo stato di natura, in questo punto
zero della civiltà, un oggetto, un ideale della massa nella figura di un capo, una
presenza esterna in carne e ossa, emergeva e prendeva il posto dell’ideale dell’io.
La massa primaria, in tal senso, era costituita principalmente o essenzialmente
da soggetti in cui la separazione tra l’io e l’ideale dell’io non era ancora molto
sviluppata e dove l’ideale della massa prendeva il posto dell’ideale dell’io nel sen-
so che non si doveva adeguare alla configurazione, al tracciato simbolico, che era
scritto interiormente ai soggetti. Secondo Freud all’interno del fenomeno di
massa primaria non ci trovavamo in un processo di sviluppo dell’individuo (o
dell’umanità) ma in un processo di regressione. A questo punto i fenomeni pa-
tologici, dal punto di vista della psicanalisi individuale e collettiva, tutti quei fe-
nomeni che esulavano dal processo di progresso edipico e totemico, erano fe-
nomeni che arrestavano rispettivamente il cammino dell’individuo e della civil-
tà. I due complessi ricapitolavano la vita psichica di ciascun soggetto in relazio-
ne alle dinamiche collettive, ragion per cui per considerare qualsiasi tipo di re-
gressione nei complessi non bastava una decisione, ma era necessario qualcosa di
più. Affinché emergevano fenomeni di massa primaria occorreva che avvenisse
un processo di sostituzione di un oggetto esterno all’ideale dell’io, cioè il suben-
tro di un oggetto non al posto dell’io - cosa che accade invece nel processo di
identificazione - ma dell’ideale dell’io; questo è ciò che si poteva chiamare mas-
sificazione. L’ideale dell’io era il centro di individuazione del soggetto, era ciò
che lo rendeva individuo; nel momento in cui saltava l’ideale dell’io e veniva
scalzato da qualcosa di differente, cioè da un oggetto esterno uguale per più in-
dividui, questi individui, almeno in quanto membri della massa, perdevano la
loro individualità, diventavano massen individuum, individui-massa, individui
della massa. Il legame di massificazione era un legame di carattere ipnotico, era
Modernità del diritto e Psicanalisi 221

la nozione tecnica dell’ipnosi che si stabiliva con il duce della massa primaria,
mentre il legame orizzontale era il legame di identificazione con i membri di
uno stesso gruppo. La massa organizzata era il contrario della massa primaria e
nasceva, dunque, dall’inversione del regresso. Nello schema freudiano il pro-
gresso implicava il fatto di porre una croce sopra il capo, sopra l’ideale della
massa. Questa croce significava il passaggio a un regime di articolazione simbo-
lica più profondo, il quale poneva il tracciato di un’appartenenza comune che si
iscriveva in modelli sociali, condivisi. Il duce della massa organizzata era
un’apparizione secondaria, l’incarnazione secondaria di ciò che era la profonda
strutturazione simbolica della collettività 591. Nella misura in cui nella massa or-
ganizzata un capo, comunque, rimaneva presente, diceva che insieme a legami
di identificazione convivevano anche legami ipnotici. Questi ultimi erano però
molto più deboli, non erano predominanti e venivano ingabbiati dentro certe
griglie simboliche.
Ricapitolando quale è, dunque, la funzione civilizzatrice della massa organizzata,
dell’istituzione umana? La funzione civilizzatrice è quella di frenare, di contene-
re, la riemersione della massa primaria. La massa organizzata è come un katekon,
un contenimento simbolico e artificiale che tiene le forze pulsionali e preistori-
che. Perché riemerga la massa primaria deve accadere che per ragioni storiche si
incrinino i modelli sociali su cui si costituisce un’appartenenza collettiva, politi-
ca. Quando c’è una crisi dell’appartenenza è più semplice che esplodano feno-
meni di massa primaria, che emergano queste grandezze politiche desoggettiva-
te, che vanno a sovrapporsi e a spazzare via le altre formazioni più stabili. Con
fenomeni di massa primaria si possono accelerare i processi di declino dei sog-
getti politici, i quali, in un circolo vizioso, indeboliscono le formazioni
dell’ideale dell’io. Se le istituzioni 592, sulle quali è ricalcato 593 l’ideale dell’io di
ciascun individuo, cominciassero a vacillare e a perdere pezzi, i modelli sociali di
riferimento, i modelli dell’appartenenza, comincerebbero a non cementare più
le collettività, e con ciò la stessa formazione dell’ideale dell’io diventerebbe più
faticosa. La crisi delle istituzioni produrrebbe soggetti con un ideale dell’io poco

591
Che Le Bon chiamava popolo o razza.
592
Modelli sociali.
593
Tramite il canale paterno.
222 Capitolo V

sviluppato, con un ideale dell’io che non riuscirebbe a fare molti passi avanti.
Come abbiamo scritto più sopra, soggetti di tal genere sarebbero più inclini, più
predisposti, alla sostituzione dell’ideale dell’io con un ideale della massa,
quell’elemento suscettibile di provocare un vero e proprio processo a valanga in
cui la civiltà (o qualsiasi soggetto politico) precipiterebbe verso l’oblio. Le Bon a
tale proposito amava dire che quando moriva un popolo, il gruppo regrediva
alla condizione di folla; la plebe diveniva così regina e i barbari avanzavano.
Freud ripercorse le descrizioni di Le Bon ma le ricontestualizzò, in base a
un’impalcatura teorica e concettuale più avanzata e profonda.
Prima di andare avanti e volendo fare delle precisazioni, stabiliamo che alla fine
l’ideale dell’io è il principio di individuazione del soggetto, è la superficie virtua-
le catalizzatrice della sua soggettivazione; a questo punto si può dire che c’è un
individuo quando c’è un ideale dell’io. L’interrogativo che potrebbe sorgere ora
spontaneo è: nell’orda primordiale, nella preistoria in cui l’ideale dell’io non esi-
steva, avevamo degli individui? Potevamo trovare nella preistoria processi di
progresso nella formazione individuale? Secondo Freud la risposta è no. Nel ca-
rattere preistorico delle masse primarie siamo in una dimensione non della ich
psychology ma della massen psychology. La psicologia delle masse diventa la psico-
logia della condizione di un essere umano non ancora individuato, soggettivato.
Nella psicologia delle masse siamo sulla soglia tra l’umano e l’animale, siamo a
livello dell’orda. Nella dimensione d’orda non possiamo parlare di psicologia
dell’individuo, eppure, la massa primaria si ripresenta nel corso della storia, può
fare irruzione anche a storia già iniziata come fenomeno di improvvisa regres-
sione preistorica. La massificazione diviene una potenza che si nasconde dentro
ciascuno di noi, è la falda minima della nostra umanità, la soglia della nostra
psichicità. La posizione di Freud rimaneva perciò una posizione semiparadossa-
le, in quanto con lui parlavamo di psiche anche quando ci trovavamo a discorre-
re di psicologia della massa. Seguendo l’analisi di Freud, nel caso della massa
primaria ci scopriamo come singoli non di una dimensione animale, ma di una
condizione già umana o almeno più o meno umana cioè su quella soglia tra sto-
ria e preistoria. A questo proposito Freud scrisse che:
Modernità del diritto e Psicanalisi 223

«Già in precedenti occasioni abbiamo dovuto avanzare l’ipotesi che nel nostro io si svi-
luppi una istanza suscettibile di separarsi dal resto dell’io 594 e di entrare con esso in con-
flitto. Abbiamo chiamato questa istanza ideale dell’io e lo abbiamo attribuito a come
funzioni l’auto-osservazione, la coscienza morale, la censura onirica e l’influsso determi-
nante nel processo di rimozione […]. Abbiamo poi stabilito che nel delirio di essere os-
servati la disgregazione di questa istanza 595 diventa qualcosa di palese e con ciò diventa
altrettanto palese 596 la provenienza di questa istanza dagli influssi dell’autorità, in primo
luogo dell’autorità dei genitori» 597.
In precedenza Freud ci aveva spiegato cosa fosse l’ideale dell’io, ora in questo
passaggio ci spiegava due cose e cioè da dove proveniva l’ideale dell’io e che non
sempre la costruzione di quest’ultimo era solida o compiuta.
«Non abbiamo però dimenticato di aggiungere che la misura dello scostarsi di questo
ideale dell’io dall’io attuale 598 è assai variabile da individuo a individuo e che in molti
casi questa differenziazione all’interno dell’io non va al di là di quella esistente nel bam-
bino» 599;
ciò significava che nella melanconia poteva esserci un ideale dell’io, ma esso sa-
rebbe stato solo appena accennato, sarebbe stato solo un ideale dell’io che
avrebbe tormentato il soggetto, restando in un certo senso disancorato dai mo-
delli che sarebbero dovuti essere incanalati e trasmessi al soggetto tramite una
corretta idealizzazione e introiezione della figura paterna. Quando questa in-
troiezione della figura paterna non funzionava, l’ideale dell’io era appena abboz-
zato, non era il tramite delle griglie di contenimento simbolico e diventava una
istanza “folle”, crudele, una istanza priva dei criteri di censura tollerabili che fu-
roreggiava sull’io. Nella melanconia lo stato depressivo era uno stato in cui un
soggetto era letteralmente abbattuto da un’istanza superiore che ne produceva
un’autentica mortificazione. È un ideale dell’io poco sviluppato questo che, di-
ceva Freud, può essere spazzato via dall’ideale della massa in un processo di re-

594
Questo altro io non vuol dire che ci siano due io ma che c’è l’ideale dell’io, il punto
di soggettivazione, e l’io.
595
L’ideale dell’io.
596
In questa forma di delirio.
597
S. Freud, Ibidem, pp. 297-298.
598
Dunque la costruzione dell’ideale dell’io.
599
S. Freud, Ibidem, p. 298.
224 Capitolo V

gressione ulteriore, cioè in quello dell’apparizione dell’ideale in carne e ossa co-


me reminescenza del padre primordiale (la guida della massa primaria). Perché
questo accada, il capo primario deve presentare le stesse o alcune caratteristiche
che presentava il capo dell’orda. Le caratteristiche del capo primario sono carat-
teristiche pre-simboliche, pre-istituzionali e in un certo senso contro-sim-
boliche, contro-istituzionali. Il leader primario deve presentare i caratteri di in-
continenza, di virilità, pretese libidiche che esulano dalle griglie simboliche.
Quando si scatena la regressione, quando emerge la figura di un capo del gene-
re, cosa succede ai soggetti inclini? La regressione è possibile quando il massen-
ideal, la figura del capo, viene collocata ipnoticamente al posto dell’ideale
dell’io. Ciò che conduce questa regressione è la riemersione di una massa prima-
ria, uno stato in cui si manifesta sia una profonda soggezione al capo, un timore
reverenziale, una sottomissione, sia dipendenza da questo. L’apparizione del ca-
po libera il soggetto melanconico dal suo ideale feroce e produce un rovescia-
mento della melanconia in stato maniacale, in cui si scatenano nuovamente le
forze libidiche. A questo punto il maniaco chiede la sottomissione, pretende di
piegare la testa davanti a un capo di cui è profondamente impressionato. In ba-
se a ciò osserviamo che Freud ipotizzava una sorta di servitù volontaria, la quale
per quanto potesse risultare fastidiosa accadeva realmente. Intere collettività pos-
sono inginocchiarsi con un’autentica sete di sottomissione e giubilare per que-
sto. Freud interpretava questo fenomeno come il fenomeno-tipo successivo alla
crisi delle appartenenze.

***

L’ipnosi scrive Freud: «consiste nel collocare l’oggetto al posto dell’ideale


dell’io» 600. Nelle stesse pagine Freud definiva l’identificazione come la colloca-
zione dell’oggetto al posto dell’io; ma cosa avveniva nella formazione della mas-
sa? Tutti i soggetti collocavano al posto dell’ideale dell’io un oggetto esterno.
L’ipnosi è un processo che implica un ipnotizzatore e un ipnotizzato. Nella
formazione della massa l’ipnosi si estende a tutti i soggetti. In tutti i soggetti
della massa sparisce o tende a sparire l’ideale dell’io, il quale viene sostituito da

600
Ibidem, p. 302.
Modernità del diritto e Psicanalisi 225

un oggetto esterno, una persona in carne e ossa, il capo primario, la guida e


l’ipnotizzatore. In questo modo tutti i soggetti si equivalgono nella misura del
loro legame ipnotico col capo e non soltanto si equivalgono ma perdono il loro
principio di individuazione, il loro ideale dell’io, regredendo a condizione quasi
desoggettivata, de-individualizzata. È soltanto in questo caso che si ha
l’emergenza di una massa primaria (originaria). Quando le masse si inaugurano,
riprendono sempre le caratteristiche di una massa primaria. A tale proposito
Freud diceva che nella massen bildung, nella costituzione della massa, gli indivi-
dui perdevano la specificità della loro formazione individuale. Quali sono le ca-
ratteristiche degli individui de-soggettivati di una massa primaria?
«Mancanza di autonomia e di iniziativa del singolo, coincidere della reazione del singolo
con quella di tutti gli altri, abbassamento del singolo - per così dire - a individuo massi-
ficato» 601, massen individum.
In questi passaggi è molto importante capire il perché un pensatore come Freud
quando scriveva sceglieva di utilizzare determinate parole. Quest’ultimo pole-
mizzava con la tesi dell’istintiva socialità dell’essere umano partendo dalla con-
futazione del medico britannico Thomas Trotter, che pubblicò un libro intito-
lato L’istinto gregario in tempo di guerra e in tempo di pace. Freud polemizzava
contro la convinzione secondo cui alla radice dell’essere umano esisteva un istin-
to gregario (gregariousness); per Freud l’uomo non aveva un istinto per il gregge
(herde) ma per l’orda (horde); ma quale era la differenza tra il gregge (herde) e
l’orda (horde)? La differenza era tra il fatto che la horde, l’orda primordiale, era
un gruppo, ma era un gruppo sempre appeso verticalmente a un capo; mentre
l’istinto gregario di cui parlava Trotter era qualcosa che non prevedeva
l’esistenza di un capo. La horde freudiana era un gruppo sempre vincolato alla
presenza in carne e ossa di un capo, di un dux, di un padre primigenio. Per il
tramite di un attacco a Trotter, Freud poneva in discussione un’intera tradizio-
ne compresa dallo ζῷον πολιτικόν, zoon politikon 602 aristotelico 603, in poi. Per
Freud l’uomo non era un animale sociale ma un animale da orda. Più avanti

601
Ibidem, p. 305.
602
Cioè all’idea che l’essere umano non è solo un animale razionale ma anche un anima-
le sociale.
603
Aristotele, Politica, 1252b.
226 Capitolo V

Freud citava Trotter e in seguito Aristotele, mentre alla fine del capitolo 9 ter-
minava scrivendo:
«Correggiamo quindi arditamente l’affermazione di Trotter secondo il quale l’uomo è
un animale che vive in gregge e sosteniamo che egli è piuttosto un animale che vive in
orda, un essere singolo appartenente a un’orda guidata da un capo supremo» 604.
In questo caso in un’orda abbiamo dei singoli e non degli individui. A questo
punto bisogna ricapitolare differenziando i due legami emotivi, affettivi, libidici,
che sono in gioco dentro la costruzione delle masse: il legame
dell’identificazione, il legame orizzontale tra gli appartenenti del gruppo e il le-
game di massificazione, il legame ipnotico, che produce ciò che già McDougall
chiamava la spersonalizzazione, la de-individualizzazione605. Nella massa prima-
ria diventa fondamentale, imprescindibile, il legame immediato e ipnotico avul-
so da qualsiasi prerequisito simbolico, il quale invece nel caso di una massa or-
ganizzata contiene e predetermina il profilo del duce.
In precedenza avevamo fatto l’esempio del nazionalismo, un tipo di massa orga-
nizzata all’interno di precise cornici simboliche. All’interno delle guerre civili
inglesi 606, ad esempio, sarebbe stato impossibile che i principali leaders potessero
dirsi cattolici, in quanto solo entro cardini puritani si sarebbero potuti ritagliare.
Quando ci troviamo in masse organizzate, freudianamente, l’individuo può ar-
rivare a sviluppare perfino un minimo di autonomia e originalità, questo perché
è in piedi il principio di individuazione (l’ideale dell’io), seppure incanalato, in-
quadrato, dentro i modelli sociali di sfondo che disegnano un’appartenenza cul-
turale, simbolica, collettiva. Essendo in piedi tutto questo edificio simbolico,
tutte queste form bilden sociali e istituzionali, l’ideale dell’io individuale (che in-
canala per il tramite dell’Edipo la figura paterna) è ciò che permette margini di
individuazione all’interno della massa. All’interno della massa organizzata è pos-
sibile uscire dalla totale massificazione che la massa primaria impone, ma appe-
na l’individuo oltrepassa quella certa originalità tocca le soglie dell’idiozia nevro-
tica 607. A proposito delle nevrosi Freud scrisse che:

604
S. Freud, Ibidem, p. 309.
605
Vedi Le Bon.
606
Vedi i Dibattiti di Putney.
607
Dove il mito individuale del nevrotico si sostituisce ai miti collettivi della società.
Modernità del diritto e Psicanalisi 227

«Laddove la massa emerge le nevrosi recedono e per un certo periodo almeno possono
scomparire: ciò significa almeno tre cose, nel caso sia della massa primaria che nella
massa organizzata. 1) Laddove siamo in presenza di masse primarie non saremo in pre-
senza di fenomeni psicopatologici a livello individuale che possiamo caratterizzare come
nevrotici. Quindi se la psicologia della massa è una psicopatologia della massa, la psico-
logia della massa non è una psicopatologia delle nevrosi; 2) laddove siamo in presenza di
masse organizzate, stabili, istituzionalizzate, nemmeno vi saranno, tendenzialmente,
tracce di nevrosi, al punto che in una situazione del genere, una disciplina come la psi-
canalisi nemmeno sarebbe potuta nascere. La psicanalisi nasce, sorge, come pratica di
cura, di trattamento delle nevrosi, ma perché sorga la psicanalisi vi devono essere dei
nevrotici; 3) ciò significa che la psicanalisi, come pratica di cura del singolo nevrotico,
sorge soltanto nel momento in cui si produce una crisi delle masse organizzate, una crisi
delle istituzioni in senso profondo» 608.
La psicanalisi come pratica di pura interpretazione del sintomo nevrotico era per
Freud al tempo stesso e per forza di cose una pratica d’interpretazione del pro-
prio tempo, della propria epoca, come epoca della crisi di una appartenenza col-
lettiva 609. Tornando per un momento al fenomeno della massa primaria, dicia-
mo che per Freud il capo era ritenuto fondamentale per la formazione di
quest’ultima. Ciò perché un oggetto, in questo caso l’ideale della massa, veniva
collocato al posto dell’ideale dell’io. L’ideale della massa non era l’ideale dell’io,
ma era qualcosa che andava a rimpiazzare l’ideale dell’io; ma se a questo punto
l’ideale della massa avesse reso impossibile l’idealizzazione e con ciò
l’individuazione dell’io, come sarebbe stato possibile per Freud continuare a
parlare di ideale della massa? In queste crepe e in queste divaricazioni dell’opera
freudiana lo stesso Lacan dava origine al suo tentativo di ritornare a Freud per
enuclearne gli aspetti e i retroscena più oscuri, ma per quale motivo in questo
caso si parlasse ancora di ideale della massa ciò era dovuto a tutta una serie di
coincidenze teoriche che ad un certo punto venivano tirate in ballo. Perché
Freud utilizzava l’espressione ideal in un processo che implicava qualcosa di to-
talmente esterno al soggetto e rimandato a una presenza in carne e ossa, a un
capo d’orda che non costituiva né una fibra interiorizzata né un introiezione sul

608
S. Freud, Psicologia delle mosse e Analisi dell’io, in Opere, p. 328, Bollati Boringieri,
Torino, 1977.
609
Sono cose queste che Lacan riprese integralmente nei suoi scritti.
228 Capitolo V

modello dell’ideale dell’io? Come può esserci un ideale esterno a un processo di


idealizzazione? Il capo della massa è un ideale in un senso diverso rispetto a
quello dell’ io. Possiamo innanzitutto individuare due livelli di spiegazione:
quello edipico e quello totemico. L’idea della massa è un ideale in primis per-
ché il capo si presenta in una posizione di totale asimmetria rispetto a coloro
che sono i soggetti. Nella misura in cui ci sia questa doppia asimmetria, la figura
del capo è una figura reale, ma è anche una figura idealizzata, cioè va a rappre-
sentare tutto ciò che i singoli membri del gruppo vorrebbero essere, tendono
continuamente a voler essere. Questa dinamica è la stessa faccenda della dina-
mica edipica ma con una differenza cruciale610: il complesso edipico è la funzio-
ne di rendere inagibile, impossibile e necessaria, l’identificazione con il padre. Il
complesso edipico ruota tutto intorno a un veto, all’inagibilità di una completa
e definitiva identificazione con la paternità. È per questa ragione dell’inagibilità
dell’identificazione con l’immagine paterna che esiste il fenomeno
dell’idealizzazione e la necessità affinché ciò avvenga della morte reale del padre.
Allo stesso modo del complesso edipico termina quello totemico delle pagine di
Totem e Tabù. All’origine dell’umanità vi è stata un’azione e non un verbo, un
parricidio; è per questa morte, puramente virtuale, psichica, di un fantasma in-
teriore, che ad un certo punto discutiamo - all’interno delle dinamiche edipiche
- della morte del padre. Con un padre morto è impossibile identificarsi, ed è
quest’ultimo evento a rendere inagibile la completa identificazione paterna.
All’interno di una complessa attivazione del complesso edipico tutto termina
con una idealizzazione, una introiezione come ideale dell’io. Con l’ideale della
massa siamo invece come arrestati al punto in cui il padre non è ancora morto.
Quest’ultimo è una presenza ma è già ideale, è già qualcosa con cui i singoli
(che non sono individui) membri del gruppo desiderano identificarsi. Questo
desiderio d’identificazione è dovuto al fatto che persiste di fatto un’asimmetria.
I membri della massa primaria in parte riescono a identificarsi e in parte conti-
nuano a desiderare l’identificazione, oscillando tra una sorta di riconoscimento
speculare di se stessi nel capo e la tensione, il desiderio, l’attesa di accrescere
questa identificazione. Cosa succede dunque nella formazione della massa pri-
maria? Nella massa primaria vi è un ideale dell’io poco sviluppato, un ideale

610
Che nel testo di Freud non è esplicitata, ma che il lacanismo pone in luce molto bene.
Modernità del diritto e Psicanalisi 229

dell’io che non si è cristallizzato e consolidato come una vera e propria istanza
psichica sul piano edipico. Nell’orda i soggetti non hanno finito di attraversare
l’Edipo e non presentano fenomeni di rimozione, dunque non hanno scavato
entro se un ideale dell’io. In questi soggetti de-soggettivati abbiamo più che al-
tro fantasmi di ideale dell’io, è qualcosa che dovrebbe mettere capo a un ideale
dell’io, ma ancora non riesce a cristallizzarsi. In tali soggetti, in cui c’è soltanto
un’ombra di ideale dell’io, seguendo Freud, è possibile che quest’ombra venga
spazzata via dalla comparsa di un ideale della massa esterno e incarnato; ciò ren-
de possibile delle regressioni improvvise. Il cammino dell’Edipo non arrivando
fino in fondo, espone sempre i soggetti in questione al rischio di una regressio-
ne, nella quale a scomparire sarà anche l’ombra dell’ideale dell’io. Senza l’ombra
di un ideale dell’io ricompare l’ideale della massa, il capo primario. A livello
d’orda i singoli membri vigono in una condizione di totale massificazione, i
quali proprio per questo non possono dirsi individui di un processo di soggetti-
vazione. Per Freud:
«Nell’evoluzione psichica dell’umanità sarebbe possibile», sembrerebbe possibile, «indi-
care il punto in cui il progresso dalla psicologia collettiva si attuò anche per il singolo
membro della massa» 611.
Tutta questa faccenda dell’orda primordiale, che Freud narrava per la prima vol-
ta nel 1912 in Totem e Tabù, per il tempo non rappresentava un nocciolo duro,
in quanto di romanzi antropologici di questo tipo ne fioccavano a bizzeffe. To-
tem e Tabù nel 1912 non creò stordimenti come ne crea oggi, in quanto
nell’attualità il mito dell’orda primordiale non suona molto bene, non regge af-
fatto, ma per Freud il mito scientifico dell’orda primordiale era più che altro
una metaforica e temporanea piattaforma teorica; ciò cosa implicava? Freud, di-
cendo che l’orda primordiale era un mito scientifico, provava ad introdurre, per
il tramite di un linguaggio più metaforico del previsto, ciò che sarebbe dovuto
essere poi riproposto e ri-codificato in termini scientifici, biologici. L’orda pri-
mordiale, per Freud, era un mito scientifico nella stessa accezione degli antichi.
È proprio per tale ragione che poi il lacanismo si sforzò di ritradurre questo mi-
to scientifico in un linguaggio psicanalitico più aggiornato e più accettabile. Ri-
tornando al racconto mitico dell’orda pre-edipica in quanto tale, ciò che a que-

611
S. Freud, Ibidem, p. 322.
230 Capitolo V

sto punto ci incuriosisce è il fatto che qualora non si arrivi alla costruzione defi-
nitiva di un ideale dell’io, inteso come principio di individuazione, dunque edi-
pico, interiorizzato, anche se questo processo rimane in sospeso, noi possiamo
comunque osservare nella topica psichica il fatto che si scavi uno scalino, un di-
slivello tra l’io e qualcosa sopra l’io. Questo qualcosa al di sopra dell’io, anche se
non arriva a cristallizzarsi come un ideale dell’io individuale, è comunque scava-
to e nel suo luogo saturato dall’ideale della massa che scalza qualsiasi ombra o
abbozzo dell’ideale dell’io. L’ideale della massa è tale per due ragioni: una che
riguarda la configurazione dell’orda primordiale, in cui i membri del gruppo
rimangono sospesi in un’altalena immaginaria612 tra una identificazione e un
desiderio di identificazione, tra uno stato di gaudio giubilante - nel momento in
cui ogni singolo si riconosce e ama se stesso dentro la figura del capo - e il mo-
mento della frustrazione - in cui sente, che non è all’altezza del medesimo-. In
questo modo l’ideale diventa venerato, amato, idolatrato (ed è in un certo senso
se stesso che ciascun individuo idolatra nel capo) e al tempo stesso temuto come
un che di slegato, staccato. Come mai esiste questa altalena immaginaria? Esiste
questa altalena immaginaria perché non è intervenuta la cesura edipica, il taglio
edipico che solidifica l’ideale dell’io in quanto ideale 613. «In molti individui»,
dove l’ideale dell’io non ha fatto molti passi avanti, «la separazione fra io e ideale
dell’io non è molto sviluppata, entrambi coincidono ancora senza fatica». La si-
tuazione descritta è ciò che sopra avevamo restituito con il caso dell’ombra
dell’ideale dell’io o dell’altalena immaginaria tra identificazione e desiderio di
identificazione. «L’io ha spesso serbato il precedente autocompiacimento narci-
sistico»; ovvero siamo in presenza di soggetti in cui non è attivato il processo di

612
Vedi Lacan.
613
È per questo motivo che Freud è costretto a tener conto di ogni individuo. Non a
tutti gli individui è consentito il processo di regressione che produce la massificazione.
Non a tutti è consentito il legame primario; bisogna, in compenso, vedere come è fatta
la psiche di ciascun individuo. È per quest’ultimo motivo che Freud dirà che nelle mas-
se primarie contemporanee i soggetti che presentano un ideale dell’io ben sviluppato e
quelli che ne hanno uno poco sviluppato possono entrare insieme nella massa primaria,
ma non in virtù di un legame ipnotico - che ciascuno di loro stabilisce con il capo - ma
in virtù di legami molto più deboli, di carattere identificatorio con gli altri membri della
massa.
Modernità del diritto e Psicanalisi 231

rimozione, la cesura edipica e questi soggetti, in cui non è attivo un principio di


individuazione sottoforma di ideale dell’io edipico, il ribollio, il magma pulsio-
nale dell’Es, è molto più libero, tende ad invadere la vita psichica senza alcun
contenimento 614. Dove non c’è rimozione «la scelta del capo», la costituzione
del legame ipnotico, «viene notevolmente facilitata. Costui, spesso, non deve far
altro che possedere in forma particolarmente pura e incisiva le caratteristiche
tipiche di questi individui», di individui in cui la separazione di io e ideale
dell’io è molto sviluppata, «dando loro l’impressione di una maggior forza e di
una maggiore libertà libidica. In tal caso il bisogno di un capo forte e supremo
lo favorisce, conferendogli un potere alle cui forze altrimenti non potrebbe aspi-
rare615». «Gli altri - quelli in cui l’ideale dell’io, a parte questo bisogno, non si
sarebbe altrimenti incarnato senza correzioni nella persona», e il cui ideale
dell’io traccia dei binari che ritagliano e predeterminano le caratteristiche del
capo come capo secondario, sono quelli il cui ideale dell’io è ben strutturato e
può dettare le sue condizioni. Questi altri «vengono poi trascinati per “sugge-
stione”, vale a dire mediante identificazione» 616. Questi ultimi sono insensibili al
fascino ipnotico del leader primario perché in loro l’ideale dell’io resiste a questo
fascino. Scrisse Freud però che questo non voleva dire che rimangono fuori
l’ideale della massa, ma potevano essere trascinati, rastrellati, tramite legami pu-
ramente orizzontali, assai più deboli, con i membri che aderivano ipnoticamente
al fascino del duce.
In questi passaggi abbiamo una descrizione minuziosa di come sono fatte queste
masse, queste grandezze politiche de-soggettivate. Avendo già insistito sul parri-
cidio e sull’interiorizzazione della figura paterna - che caratterizza sia l’entrata
dell’umanità nella storia sia il processo di introiezione dell’edipico ideale dell’io
- nella possibilità della massa primaria si passa ad un padre vivo e vegeto che
non presenta contenimenti libidici. La forza del legame ipnotico si impone pro-
prio per questa mancata rimozione, per questa assenza di contenimenti libidici
che suscita sia timore sia idolatria. L’ipnosi è il fenomeno per cui un oggetto è
posto nel luogo dell’ombra dell’ideale dell’io, ma ciò non è come veniva spiega-

614
Ovvero un ideale dell’io.
615
I casi in cui il capo non potrebbe aspirare a tale potere sono la situazione di una mas-
sa organizzata.
616
S. Freud, Ibidem, p. 316.
232 Capitolo V

to da Freud. Freud spiegava l’ipnosi attraverso una giravolta teorica, partendo


cioè dal mito dell’orda primordiale e così facendo intrecciando il piano filogene-
tico con quello ontogenetico.
«I due stati, ipnosi e formazione collettiva, sono entrambi sedimenti ereditari la cui ori-
gine è nella filogenesi della libido umana: l’ipnosi in quanto predisposizione, la massa
anche in quanto retaggio diretto» 617;
la massa primaria, invece, è la riemersione della stessa scena, è lo stato di natura
che esplode dentro la società. Quest’ultimo, lo stato di natura, non è quello de-
scritto da Hobbes o da Rousseau, ma è quello freudiano. In questi passi, sullo
stesso stile di Hegel, Freud propone uno stato di passaggio dall’orda primordiale
al pasto totemico (edipico). Come in Hegel questo è il problema della soglia tra
il biologico e l’uomo, tra la preistoria e la storia, tra la natura e la cultura. È
dentro tutto questo inquadramento teorico che Freud proponeva la sua teoria
politica. A questo punto sono doverose tre piccole precisazioni:
1. Freud parlava di regressione psichica quando si passava da uno stato di mas-
sa organizzata, istituzionalizzata, a una massa primaria, in cui emergeva una
figura paterna slegata da ogni binario simbolico; la regressione psichica era
sempre un fenomeno patologico, essa era il contrario del progresso e della
maturazione sia sul piano ontogenetico che filogenetico.
2. La regressione che si attua nelle masse primarie non è ciò che Freud chia-
mava, in altri passi, un ritorno del rimosso. Il ritorno del rimosso è il sin-
tomo nevrotico, il quale è una formazione di compromesso tra i contenuti
libidici rimossi e le esigenze portate avanti dall’ideale dell’io. Quando siamo
in una nevrosi, che in ultima istanza caratterizza lo stato di normalità - mes-
sa in discussione solo da una sua sclerosi - , nel caso in cui la rimozione è
agente ed esiste un inconscio, la regressione non esiste. Il ritorno del rimos-
so non è qualcosa con cui possiamo spiegare il ritorno del padre primordia-
le, allo stesso modo in cui la ricomparsa in carne e ossa del padre dell’orda
non è il ritorno del rimosso. Il ritorno del rimosso è, parafrasando Lacan,
ciò che non è nato a-simbolico, appare nel reale o ritorna nel reale. Lacan ela-
borò questa espressione rileggendo proprio la Psicologia delle masse. Ciò che
non è nato a-simbolico (l’ideale dell’io) appare, ritorna nel reale in una pre-

617
Ibidem.
Modernità del diritto e Psicanalisi 233

senza corporea, la quale è quella del capo, o come affermò Lacan, il dio
oscuro. La massa primaria è, dunque, una forma di psicosi sociale, di psicosi
collettiva, una psicopatologia della massa.
3. La massa primaria nell’opera di Freud è il nome di una malattia, è il nome
clinico che descrive, in un quadro gnoseologico dato, un fenomeno patolo-
gico in cui la regressione arriva fino al suo polo estremo, la soglia minima
tra umanità e barbarie. «La massa ci appare quindi come una reviviscenza
dell’orda primordiale. Come in ogni singolo è virtualmente conservato
l’uomo primigenio», il quale può sempre riemergere, «così a partire da un
raggruppamento umano qualsivoglia può ricostituirsi l’orda primordiale;
nella misura in cui la formazione collettiva domina abitualmente gli uomi-
ni, in essa riconosciamo la continuazione dell’orda primordiale. Dobbiamo
concludere che la psicologia della massa è la psicologia umana più antica;
ciò che, omettendo tutti i residui collettivi, abbiamo isolato come psicologia
individuale, si è venuto staccando dalla vecchia psicologia collettiva solo in
un secondo tempo, gradualmente e in un certo senso in modo tuttora par-
ziale» 618.
Anche in questo senso la psicologia individuale è al tempo stesso sin
dall’inizio una psicologia sociale. La psicologia della massa è la psicologia
umana più antica. Freud con il passaggio «la massa ci appare quindi come
una reviviscenza dell’orda primordiale» non ci spiegava proprio nulla, sem-
mai ci rimandava a qualcosa d’altro come se il mito stesso fosse un signifi-
cante. Il mito scientifico è ciò che servì a Freud per abbozzare una dimen-
sione metaforica in cui e in relazione alla quale cercare di interpretare il fe-
nomeno della massa primaria. Il fatto di sostenere che l’orda primordiale è
la causa filogenetica della massa primaria non spiega nulla, oltre ad essere
un’ipotesi inverificabile e ad hoc, è puramente metafisica. Come di fronte
alla teoria darwiniana, in Freud ci troviamo sul piano immaginario di una
teoria che non fa che duplicare ciò che appartiene a dati di realtà. Da una
parte il mito non spiega nulla, dall’altra avvia un processo di ricerca, delinea
una piattaforma d’esperienza scientifica. «Il carattere perturbante, costritti-
vo, della formazione collettiva, il quale è manifesto nei fenomeni di sugge-

618
Ibidem, p. 311.
234 Capitolo V

stione che la contraddistinguono, può quindi venir con ragione ricondotto


alla sua derivazione dall’orda primordiale. Il capo della massa è ancora sem-
pre il temuto padre primigenio, la massa continua a voler essere dominata
da una violenza senza confini, è sempre sommamente avida di autorità, ha,
secondo l’espressione di Le Bon, sete di sottomissione. Il padre primigenio è
l’ideale della massa che domina l’io», signoreggia (herrschen) l’io, «al posto
dell’ideale dell’io» 619.

Ora questo passo ci riporta alle questioni iniziali e alla necessità di queste analisi
genealogiche, di questa epoché fenomenologica e psicanalitica, delle modernità
politiche europee. Una teoria politica, una filosofia dei corpi politici, una psica-
nalisi ontologica di ispirazione fenomenologica della politica, deve cercare di
rendere conto anche di questi fenomeni, i quali sono costitutivi dell’espressione
politica. La sete di sottomissione e non l’autonomia della volontà all’insegna di
una razionalità astratta e normativa, i fenomeni oscuri che spesso nell’ultima
modernità hanno prodotto la spontanea e avida sottomissione a una figura te-
muta e idolatrata al tempo stesso, oppure l’obbedienza spontanea a una convin-
zione per l’organizzazione e l’emancipazione storica dell’umanità, sono queste
trame che tracciano l’orizzonte performativo e predittivo del politico; ma cosa si
nasconde dietro queste trame dialettiche?
Freud nelle pagine finali della Psicologia delle masse formulò una sua ipotesi con-
giungendo due ordini di problemi apparentemente molto differenti tra loro, la
formazione della massa, la massen bildung, a livello collettivo e la psicopatologia
della melanconia a livello individuale. Laddove vi era una diffusa patologia de-
pressiva, di carattere melanconico, erano più probabili le riemersioni di masse
primarie con tutte le caratteristiche maniacali di queste (il trionfalismo radicale
e l’invincibile sottomissione al capo). Verso la fine della Psicologia delle masse
Freud dedicava le ultime pagine al tema della melanconia, la quale lo stesso più
volte incontrò nella sua carriera medica. Per Freud la melanconia era un rebus,
in quanto sotto questa dicitura comparivano un insieme di psicopatologie spesse
volte con manifestazioni radicalmente differenti. Ci sono due poli in relazione
ai quali gli stati depressivi possono appartenere più o meno alla normalità

619
Ibidem, p. 315.
Modernità del diritto e Psicanalisi 235

dell’esistenza oppure possono essere strutture soggettive melanconiche. Tra que-


sti due poli, della normalità e della melanconia acuta, c’è una ricca gamma di
sfumature. Ambigua è la definizione di depressione, ma sicura è la convinzione
di Freud secondo cui la massa era un buon antidepressivo, un farmaco per sin-
goli privi di un ideale dell’io sviluppato e con una forte inclinazione agli stati
bipolari. Per i singoli di una massa primaria la massen bildung è una risorsa, un
processo in grado di trasformare lo stato depressivo. Quando il Super-io assume-
va un volto feroce, come nel caso melanconico, cioè pesava in maniera mortifi-
cante e umiliante con i suoi rimproveri sull’io, Freud parlava di una pura cultu-
ra, di una pura civiltà della pulsione di morte. Nel bel mezzo della Psicologia delle
masse, mentre si stava spiegando il concetto di ideale dell’io, Freud scriveva a
proposito della melanconia che:
«Le melanconie ci mostrano l’io diviso, scisso in due parti, una delle quali infierisce
sull’altra» 620. La parte mortificante «include la coscienza morale, un’istanza critica
nell’ambito dell’io che anche in tempi normali criticamente si contrappone all’io, sep-
pure mai così spietatamente e in maniera così ingiusta» 621.
Nella melanconia un’istanza critica dentro l’io si accanisce in maniera spietata e
ingiusta, nel senso di slegata dalle formazioni e dai modelli sociali che dettano e
imbrigliano le richieste avanzate dall’ideale dell’io. Nell’ultimo capitolo della
Psicologia delle masse Freud ritornava sulla melanconia e ci ritornava per sottoli-
neare innanzitutto un fenomeno noto agli specialisti, ma misterioso, cioè sem-
pre il potenziale possibile rovesciamento dello stato depressivo in uno stato ma-
niacale, di estrema euforia, uno stato caratterizzato da sensazioni di onnipoten-
za, di trionfo e di festa grandiosa 622. Durante gli stati maniacali è come se
l’ideale dell’io fosse abrogato. «Quando qualcosa nell’io coincide con l’ideale
dell’io», quando si annulla l’intervallo tra l’io e l’ideale dell’io, quando l’ideale
dell’io scompare e quando non c’è più differenza tra l’io e l’ideale «si determina
sempre una sensazione di trionfo». Questo perché l’ideale dell’io è quella istanza
psichica che si oppone alle richieste pulsionali, alle pulsioni che bollono nell’Es.
«Anche il senso di colpa e il senso di inferiorità possono essere intesi come

620
Ibidem, pp. 297-298.
621
Ibidem.
622
Questi attributi sembrano rinviare alle descrizioni di Le Bon.
236 Capitolo V

espressione della tensione tra l’io e l’ideale dell’io»; ciò vuol dire che quando, o
laddove, la separazione tra l’io e l’ideale dell’io si annulla, le due istanze vengono
a coincidere, scompaiono anche il senso di colpa e il senso di inferiorità, il cui
rovescio è il senso di onnipotenza e il trionfalismo maniacale.
«Esistono come è noto degli individui il cui stato d’animo generale oscilla periodica-
mente, passando attraverso un certo stadio intermedio, da una depressione eccessiva a
una grande sensazione di benessere; tali oscillazioni comportano ampiezze assai diverse,
da quelle appena percettibili a quelle estreme che, sottoforma di melanconia e mania,
incidono in modo assai tormentoso o disturbante nella vita delle persone che ne sono
affette» 623.
Il maniaco depressivo è quel soggetto in cui esiste soltanto un’ombra dell’ideale
dell’io, cioè l’ideale dell’io non è un ideale dell’io completamente edipico. Il
maniaco depressivo è in un complesso edipico sospeso e dove la cesura edipi-
ca 624 - che rende definitivamente inagibile l’identificazione con il padre e quindi
completa il processo di idealizzazione e interiorizzazione della figura paterna sot-
toforma di ideale dell’io - è rimasta a metà. Lacan chiamò questa sospensione
forclusione del nome-del-padre. Per delle contingenze che appartengono ogni
volta alla storia soggettiva nell’individuo capita - e capita in molti casi - che
qualcosa non funzioni nella dinamica edipica e, in un certo senso, in questo ca-
so il soggetto resta fuori dall’Edipo 625, forclude, preclude, l’incisione del Nome-
del-Padre, del complesso edipico, sulla sua psiche. In questi soggetti non è che il
complesso non avvenga completamente ma è come se in essi, sin dalla prima in-
fanzia, si muovessero come tutti tra una duplice e ambivalente attitudine nei
confronti del padre, di identificazione e di desiderio di identificazione. In que-
sto duplice movimento oscillatorio, in questa altalena immaginaria, di desiderio
e di identificazione sempre parziale, vige un’asimmetria che crea un abbozzo di
idealizzazione della figura paterna alla quale segue la creazione di un primo di-
slivello importante nell’io; questo primo dislivello è l’ideale della massa. Il padre
primigenio dell’orda o il padre così come appare prima che si azionino le dina-
miche edipiche è la stessa figura che ricompare nell’immagine del duce prima-
rio. Nella misura in cui il soggetto si identifica con l’oggetto esterno del leader

623
S. Freud, Ibidem, p. 318.
624
Che in Lacan è definito complesso di castrazione.
625
Dal Nome-del-Padre.
Modernità del diritto e Psicanalisi 237

prevalgono le sensazioni di onnipotenza (il soggetto si identifica con una figura


dalla grande forza e libertà libidica). Nella misura in cui, invece, nutre il deside-
rio d’identificazione, motivato dalla totale asimmetria tra sé e questa figura,
l’individuo soccombe a una sensazione di invincibile soggezione.
Ricapitolando, nel complesso edipico attivato il padre primordiale diventa idea-
le interiorizzato dell’io, una istanza psichica che perde ogni tratto di presenza
carnale, a meno che il processo non si arresti all’elaborazione minima
dell’Edipo, a una dimensione pre-edipica. Il processo di costruzione dell’ideale
dell’io si può fermare a metà strada 626; in questi soggetti l’ideale dell’io è estre-
mamente volatile, non riesce a incanalare la standardizzazione dei processi di
individuazione soggettiva sulla base di modelli sociali di appartenenza. Quando
l’ideale dell’io rimane ancora un fantasma senza riuscire a cristallizzarsi, in base
a Freud, ci troviamo in presenza di un ideale dell’io volatile ed estremamente
feroce. La ferocia è dovuta al fatto dello svincolo nelle sue richieste dalle gri-
glie/briglie simboliche in cui dovrebbe essere trattenuto qualora compisse com-
pletamente il percorso edipico. In virtù di tale passaggio è possibile un processo
di regressione, lo scalzamento dell’ombra di ideale dell’io da parte
dell’emersione in carne e ossa del padre primigenio. Quando il padre primige-
nio si insedia l’ideale dell’io scompare, viene risucchiato indietro e in questo
senso scompare ogni intervallo interno all’io. L’ideale dell’io viene risucchiato
all’esterno e proiettato nuovamente nelle fattezze di una immagine paterna pre-
edipica e pre-totemica. La formazione della massa primaria può essere un far-
maco per questa altalena melanconica. L’ideale della massa consente di passare
da una fase di rimprovero feroce di questo io a una fase di rapporto ambivalente
fatto di venerazione e timore nei confronti di un padre padrone reincarnato.
Quando attraverso la massificazione avviene la regressione, il trionfalismo collet-
tivo diviene di casa, ma questo si accompagna sempre a una sete di sottomissio-
ne - alla quale corrispondono strutture psichiche infantili dei soggetti - . Il pia-
no su cui l’altalena melanconica si esercita venne chiamato da Lacan
l’immaginario, cioè quel piano orizzontale tra l’io e il padre presente in carne e
ossa - che Lacan ribattezzò come io-ideale, distinguendolo dall’ideale dell’io - .
La regressione e l’intera struttura primaria è in grado, seguendo Freud, di spie-

626
Che per Lacan è il punto in cui il complesso di castrazione non è stato compiuto.
238 Capitolo V

gare il legame ipnotico tra l’io e un oggetto esterno, il legame che non si ha con
una semplice identificazione ma con la sostituzione dell’ideale dell’io con qual-
cos’altro. Il ritorno alla struttura primaria è in effetti non una spiegazione ma
un mito scientifico, suscettibile comunque di abbozzare e significare una com-
prensione del fenomeno. Certamente il mito dell’orda è un modo possibile per
riflettere il mistero della servitù volontaria, dell’obbedienza spontanea 627.
Ora quali sono i legami tra il fenomeno di depressione individuale e il fenome-
no di crisi dell’appartenenza collettiva? In che misura la dissoluzione delle istitu-
zioni è capace di indebolire la costruzione dell’ideale dell’io in ciascun singolo?
In che misura può non essere un caso il fatto della coincidenza tra la crisi delle
grandi griglie simboliche che pilotano l’individuazione e l’esplosione della de-
pressione come malattia del XX secolo? In che misura le dinamiche storiche di
questa crisi dell’appartenenza collettiva che si vanno a intrecciare con le dinami-
che psichiche individuali può essere causa di personalità a carattere depressivo?
Come mai fenomeni di depressione individuale, i quali favoriscono la forma-
zione di masse primarie, costituiscono una frizione con le masse istituzionalizza-
te? Se la psicanalisi politica freudiana stabilisse una relazione biunivoca tra la
configurazione psichica soggettiva e la situazione storico-politica, in che misura
la seconda potrebbe avere ricadute sulla prima e la prima sulla seconda? In che
misura la diffusione di patologie depressive individuali sollecitano l’insorgenza
delle masse primarie e la sovrapposizione di queste su quelle organizzate? Nel
momento in cui i due aspetti già interagiscono sin dall’inizio del fenomeno
umano. Studiando un caso storico-politico come il cristianesimo Freud si avvia-
va a comprendere clinicamente questi fenomeni a un livello superiore. Per
quanto riguarda il cristianesimo Freud affermava che il legame con il capo e con
i fratelli di una chiesa, di un gruppo, erano differenti. Il legame orizzontale è un
legame di identificazione, il legame verticale è un legame ipnotico. In questo
senso il cristianesimo fino ad un certo punto rispetta le leggi del gruppo, i grup-
pi seguono queste leggi e il cristianesimo fino ad un certo punto segue le leggi
medesime.

627
D. Tarizzo, Giochi di potere. Sulla paranoia politica, Laterza, Roma-Bari 2008.
Modernità del diritto e Psicanalisi 239

«Ogni cristiano ama il Cristo, quale proprio ideale e si sente legato agli altri cristiani in
virtù di una identificazione» 628.
Quindi in una certa misura la chiesa cristiana rispetta la duplicità del legame
verticale e di quello orizzontale, ma la Chiesa esige dal cristiano di più. Il cri-
stiano deve identificarsi con il Cristo e amare il prossimo come lui li ha amati.
Questo travalica evidentemente la costituzione della massa. Quest’ultima richie-
sta della morale cristiana deforma le dinamiche della massa e diventa un ele-
mento storico-culturale potenzialmente critico, di crisi dell’ordinamento simbo-
lico. Il cristianesimo nella misura in cui esige da ogni singolo membro del grup-
po l’identificazione con l’ideale - con quel che il quale l’Edipo dovrebbe rendere
inagibile - è una struttura perversa. Il cristianesimo è qualcosa che tende a far
regredire la struttura della massa verso una dimensione che non è quello che,
secondo Freud, dovrebbe in linea di principio rispettare. Quest’ultimo è un
punto estremamente interessante del testo freudiano, ed è ciò che Lacan chiamò
pere-version, la versione del padre cristiano, il quale è assonante con perversione.
Secondo la lettura di Freud il cristianesimo diviene una massa organizzata, un
certo ordinamento simbolico, molto particolare nel senso che presenta elementi
di criticità che tendono a mettere in crisi l’ordinamento simbolico delle masse,
cioè tende a provocare in se stesso crisi di appartenenza. La crisi
dell’appartenenza, secondo la lettura di Freud, nella modernità avviene dentro
lo sfondo culturale disegnato da una precisa religione: il cristianesimo. Il cristia-
nesimo è sia la religione della continua crisi interna, ma è anche lo sfondo cultu-
rale e religioso dentro il quale avviene la secolarizzazione, lo smantellamento
stesso dell’illusione religiosa. È nella modernità che le grandi impalcature sim-
boliche, dei totem, cominciano ad essere scossi e ad entrare in grave crisi e a non
fornire più dei binari scontati di soggettivazione politica. È nella modernità che
si producono questi segni, sempre più invadenti, e che producono, come un’
onda di ritorno, il fenomeno delle masse primarie. L’analisi di Freud restituisce
la dinamica profonda di qualcosa che appartiene alla storia politica e sociale del-
la modernità dove, oltre il cristianesimo con le sue eresie e i suoi scismi, nella
modernità vi sono tante e diverse soggettività politiche collettive di carattere
gravemente patologico e che non riescono ad essere filtrate dagli impianti teorici

628
S. Freud, Ibidem, p. 321.
240 Capitolo V

tradizionali. Un’analisi va ulteriormente articolata e va soprattutto ogni volta


completamente contestualizzata nelle contingenze storiche che creano innanzi-
tutto identità collettive.
Il discorso intorno le rivoluzioni politiche moderne e le dichiarazioni di massa,
quei momenti in cui soggetti politici, Noi politici, prendono la parola come col-
lettività e affermano la propria esistenza, sono un fenomeno cruciale per svilup-
pare un ulteriore impianto teorico che sia allo stesso tempo performativo (senza
essere normativo) e predittivo nello studio dell’attualità. Il momento in cui un
soggetto politico si annuncia sulla scena del mondo è sempre un momento sto-
rico contingente, legato a certi eventi, a una catena complicata di cui occorre
ricostruire il più possibile la genealogia frastagliata, al tempo stesso materiale e
simbolica. Ogni dichiarazione collettiva si produce sempre in occasione di una
rivoluzione; e questa simultaneità di eventi costituiscono fenomeni suscettibili
di un’analisi psicanalitica. Ovviamente quelle di Freud e Lacan non sono suffi-
cienti, ma sono comunque le piattaforme di ricerca più avanzate dell’ultimo il-
luminismo, metacritico e psicanalitico classico. È un gradino all’interno della
psicanalisi freudiana, e lacaniana, che secondo Tarizzo bisogna scavare, in modo
da poterli complicare, raffinare, fino al punto in cui aderiscano il più possibile
alla realtà storica. Secondo Merleau-Ponty e secondo noi ad esempio oltre Ta-
rizzo, bisogna bucare, addirittura, la modernità Illuministica stessa e l’ontologia
della rappresentazione (Vorstellung) che la trama e, attraverso le alienazioni e gli
scarti molteplici di una psicanalisi ontologica di ispirazione fenomenologica,
giungere a dei modelli teorici rigorosamente alternativi, tra cui sicuramente la
carne ritorna a essere uno dei più produttivi. Una volta che questo ultimo in-
comincia ad aderire alle realtà storiche, si può cominciare a disegnare un pae-
saggio di comprensione storica, di come accade la storia, che può diventare per-
formativo. Questo carattere performativo non è però astratto o normativo, ma è
legato sempre ogni volta alla contingenza storica (Darstellung) di tutto ciò che
accade in un determinato frangente; da qui la possibilità di selezionare un ven-
taglio di previsioni possibili dello scenario storico a venire.
Psicanalisi ontologica e filosofia della carne 241

Conclusioni. Psicanalisi ontologica e filosofia della carne

Al punto in cui siamo arrivati e nel momento in cui ci si è riconosciuti


nell’intenzione paradossale di voler, persino, sfilare i veli di mestizia delle nostre
modernità, nella filigrana delle procedure genealogiche, di epoché, degli atteg-
giamenti scientifici e politici considerati, una scoperta orribile, secondo Lacan,
un ritrovamento che ci colma di stupore e meraviglia, secondo Wittgenstein, ci
restituisce finalmente a uno zero d’essere del mondo, alla carne dell’esperienza,
allo sfondo delle cose. Intorno ai cardini, ai perni, a quei nervi conficcati in tut-
to ciò, che i nostri corpi sono, una psicanalisi ontologica di ispirazione fenome-
nologica 629 dei fenomeni di soggettivazione e desoggettivazione politica ritaglia il
proprio luogo, può finalmente individuare un proprio orizzonte di senso rigoro-
so.
La carne 630, come scriveva Paul Veléry, è la nerezza del latte, ciò di cui delle cose
non si vede mai, il fondo paradossale di qualsiasi espressione, il rovescio pro-
fondo ed enigmatico dei nostri sguardi, la visione tutt’altra da quell’angoscia in
cui, secondo Lacan, lo sguardo dell’uomo sprofondava e non trovava riscontri,
ma in cui poteva costruire e dimostrare il proprio carattere. A questo oblio, in
questa identificazione di angoscia, la psicanalisi classica ci orientava e
nell’orientarci ci affiancava e ci guidava. Tutt’altro ci suggerisce la lezione fe-
nomenologica di Merleau-Ponty, la quale propone una militanza filosofica in
cui non è l’oblio a palesarsi ma l’espressione di esperienze emblematiche e carat-
terizzate dell’essere, dove perdevamo il nostro corpo ma solo per poi riguada-

629
«Fare non una psicanalisi esistenziale, ma una psicanalisi ontologica. Ciò che freud
vuole segnalare, non sono catene di causalità; è, a partire, da un polimorfismo o ana-
morfismo, che è contatto promiscuo transitivo con l’Essere, la fissazione di un “caratte-
re” tramite l’investimento in un Essente dell’apertura all’Essere - che, ormai, si fa attra-
verso questo Essente -». (M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’Invisibile, a cura di M. Carbo-
ne, tr. It. di A. Bonomi, postilla di C. Lefort, pp. 280-281, Bompiani, 2007).
630
«La carne in quanto sofferente, informe, in quanto la sua forma è per se stessa qual-
cosa che provoca l’angoscia. Visione di angoscia, identificazione di angoscia, l’ultima
rivelazione del tu sei questo - Tu sei questa cosa che è la più lontana da te, la più informe»
(J. Lacan, Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicanalisi,
1954-55).
242 Conclusioni

gnarlo sullo sfondo delle cose. Il chiasma di figura e sfondo è il modello ontolo-
gico con cui la fenomenologia riscopre l’esperienza non più come pensiero di
mondo ma in quanto corporeità, emblema iperdialettico con cui l’essere di una
psicanalisi e di una fisica della carne si apre all’interrogazione e al riconoscimen-
to. Ogni mano toccante non può mai essere simultaneamente anche toccata, ma
ognuna può esserlo reversibilmente in base a una differenza, uno scarto,
un’alienazione ontologica. Il presentimento che abbiamo di sorprenderci con-
temporaneamente toccanti e toccati, di toccarci toccanti, non è però una chime-
ra e ciò in quanto se il nostro corpo, in questo punto, non si percepisce, ciò è
perché quest’ultimo fa da sfondo per una espressione che da quest’ultimo si se-
grega. La corporeità, secondo Merleau-Ponty, ci insegna che essa non può essere
continuamente presente a se stessa, ma necessita di localizzarsi dialetticamente
(come in una specie di chiasma) per simbolizzarsi, per aprirsi in un orizzonte di
senso virtuale e codificato. L’altro per lo stesso chiasma ontologico non può es-
sere esaurito in quella relazione ambigua tra le mie cose e il mio corpo, ma è ri-
trovato come un dietro il suo corpo; infatti come un fenomeno originario in cui
l’essere si offre, come stile d’essere situato e parziale, esso si presenta come uno
spettacolo trascendente a se stesso e che ci trascende negli adombramenti e nelle
pregnanze di cui l’esperienza consta. Le alienazioni restituiscono il corpo come
un doppio fondo dell’esperienza, la quale in un certo qual modo è già sempre
sollecitata da un altro. Il mio mondo non mi appartiene mai completamente ed
esso è già sempre plasmato da un altro, sul quale il mio corpo si scopre coinvol-
to. Il mio mondo e il mondo dell’altro non sono che punti croce di un medesi-
mo tessuto, del quale noi tutti siamo tramati. Il mio mondo come il mondo-
mio dell’altro non è aperto che da un mondo che ci trascende tutti e che
nell’ambiguità del proprio e dello spossessato rende possibile l’incontro e il con-
traddittorio di ciò di cui noi siamo deformazioni senza precedenti. L’intreccio
comune, nella sua fede percettiva, è come sfuggente, sclerotizzato, reso cadavere,
dalle riflessioni galileiane e kantiane, le quali lo bypassano per il tramite di una
fede del pensiero. In base all’esperienza secondo cui il mondo vissuto è già più
vecchio del pensiero e che la filosofia non può avanzare pretese di carattere se-
riamente scientifico se non rinunciando a queste e riaffacciandosi costantemente
al mondo, la fenomenologia trascendentale infrange le superfici speculari di cui
i loro globi teoretici sono strutturati, per ritrovare oltre le loro aseità la passione
della carne. L’iperdialettica, il chiasma, dell’esperienza, di cui il pensiero non è
che un’alienazione tra tante, non può essere predeterminata come nei casi gali-
Psicanalisi ontologica e filosofia della carne 243

leiani e kantiani, la prassi umana deve potersi segregare-dallo e aderire-allo


sfondo delle cose, per poterle poi pensare e incarnare dialetticamente. A un pen-
siero dell’enunciazione esatta o di quella critica, secondo Merleau-Ponty, deve
essere preferita una filosofia dell’ascolto e della testimonianza, cioè una psicana-
lisi che oltre l’antropologia riscopra la materia attraverso una filosofia della car-
ne. In questo modo ogni campo di visione si apre come un raggio di mondo
dove le figurazioni nostre, dell’altro e delle cose, non sono che le passioni, le
espressioni sintomatiche, emblematiche, di una medesima carne che resiste a
ogni presa, a ogni tentativo coercitivo di completa codificazione, a ogni pretesa
di continua e scientifica prensione.
Da questo punto di vista la cosa generale dell’esperienza «non è né la cosa che io
vedo, né l’altro uomo che parimenti vedo con i miei occhi» 631 - né infine la tota-
lità dell’essere, né i predicati delle cose scaturite dal nostro incontro con esse -.
Per il galileismo l’esperienza è la ricerca di una oggettività 632, che continuamente
resiste alla quantificazione esatta, «mediante la misura o più in generale median-
te le operazioni autorizzate dalle variabili o dalle entità che si definiscono a pro-
posito di un ordine di fatti» 633; d’altra parte per il kantismo l’esperienza è, inve-
ce, la lacerazione critica tra ciò che è e ciò che deve essere, la visione d’angoscia e
l’enunciazione sincera di un pensiero strappato dal mondo. Per entrambi il con-
tatto con le cose è solo una illusione, in cui non indulgere e da obliterare in fa-
vore di sguardi senza pupilla, di visioni autoscopiche. In alternativa a queste
asfittiche teoresi ne Il visibile e l’invisibile Merleau-Ponty ci parlava del quinto
elemento, di un vedente e di un visto che si permeavano. La corporeità in que-
sto caso non era mai un modulo coerente ma sempre la soglia promiscua e tran-
sitiva di appropriazioni e spossessamenti, tra aperture appartentive ed estranian-
ti. Ogni corpo che vedeva e che desiderava in qualche modo essere visto, non
era una nuda vita ma la viva piaga, l’immagine aperta, la figura sintomatica di
una trama fatta di visibile e invisibile. Ogni incorporazione, ogni alienazione, di

631
M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’Invisibile, a cura di M. Carbone, tr. It. di A. Bono-
mi, postilla di C. Lefort, Bompiani, 2007, p. 41.
632
«Questa unità ideale o di significazione […] fa sì che il triangolo del geometra sia il
medesimo a Tokyo e a Parigi, nel V secolo prima di Cristo e adesso» (Ibidem, p. 56).
633
Ibidem, p. 41.
244 Conclusioni

sé non era mai completa ma era sempre incompiuta e in relazione a questa di-
scontinuità il pensiero rimaneva una figurazione (darstellung) sempre parziale.
Ciò per cui Husserl, secondo Merleau-Ponty, rimaneva una svolta nella filosofia
europea, non era per aver scoperto l’intenzionalità, ma per aver rintracciato il
perno, il cardine, il contatto natale, con il mondo nella prassi fenomenologica,
in trasparenza alle epoché del moderno. Attraverso la messa tra parentesi tra-
scendentale dei mondi supposti esistenti, era ritornato al mondo, a una nuova
soglia di psichicità, dove la carne si figurava nel quinto elemento di un essere
massiccio. A partire dagli inediti husserliani di Lovanio, la psicanalisi ontologi-
camente fenomenologica si proponeva di riconsiderare la filosofia come una in-
terrogazione ultradialettica, chiasmica 634, della cosa in generale. Ciò ci riconse-
gnava a una esperienza non come nudi fatti - di cui il galileismo cerca l’esattezza
- o come quella crisi tra particolare e universale - che ai kantiani appartiene -,
ma come un tessuto in cui i nostri corpi erano come conficcati, erano dei nodi
Borromeo tra infinite relazioni. Il galileismo e il kantismo erano idealizzazioni
solidali e dovevano perciò, insieme, essere ridotte fenomenologicamente sino a
ciò che presupponevano di non sapere dell’esperienza. A partire da queste con-
siderazioni, sicuramente più rigorosamente dispiegate nei capitoli precedenti,
Merleau-Ponty risaliva la modernità dai suoi esiti metacritici fin sino alle soglie
della cristianità e riscopriva, oltre l’Illuminismo e l’illuminismo prima
dell’Illuminismo, un rapporto carnale con le cose dove psiche e fisica si radica-
vano l’una nell’altra. In altre parole oltre l’esperienza come un dominio di pure
forme limite, di oggettualità ideali evocate e trattate operativamente, di superfici
oggettuali inesatte ma suscettibili di divenire oggettive e oltre un’esperienza so-
spesa criticamente ma ben ancorata in una fede oscura e oscena di sé, Merleau-
Ponty ci indicava una porta d’uscita dalla modernità: una nuova ontologia.
È alla carne che ora una psicanalisi ontologica di ispirazione fenomenologica ri-
volge le sue indagini, è attorno alle sue passioni che una psicanalisi dei fenomeni
politici riparte a interrogarsi. Allentando la presa delle ipnotiche esperienze del
sé, che nella modernità si schiudono, la psicanalisi politica merleau-pontyana
riscopre il mondo al di là del mondo come scienza e al di qua della prensione
immaginaria e simbolica con cui la corporeità è sempre caratterizzata.

634
«Specie di chiasma» (Ibidem, p. 176).
Psicanalisi ontologica e filosofia della carne 245

L’esperienza della carne, come esperienza della voce e del silenzio, riconsidera il
pensiero non come un sorvolo sulle cose ma come l’alienazione delle cose stesse
rispetto a se stesse. In questo modo la fede nel pensiero, dimostrata dal galilei-
smo e dal kantismo, si scioglie di quel tanto per concederci di indulgere 635 in
una percezione al di là di un mondo come pensiero. La psicanalisi ontologica di
ispirazione fenomenologica riammaestra all’equivocità di un essere di cui la ri-
flessione non è una auto-scopia ignorante di sé ma una «superriflessione» 636, una
riflessione che tiene conto di se stessa e del mutamento che introduce nello spet-
tacolo che interpreta, che prende atto e non occulta la percezione grezza del si-
lenzio e della selva di riferimenti che ha posto con il mondo. Il mondo a questo
punto mi può essere aperto solo nell’incontro di un altro come corpo e non nel-
le astrazioni positive del negativo che di questo il galileismo e il kantismo sem-
pre operano. Merleau-Ponty, polemizzando con Sartre e Lacan, scriveva, infatti,
che la riproposizione continua del galileismo o del kantismo e di qualsiasi tenta-
tivo meta-critico volto a sedarli nei loro risvolti più pericolosamente patologici,
non dovevano essere incoraggiati:
«L’analitica dell’Essere e del nulla è il vedente che dimentica di avere un corpo, e che
dimentica altresì che ciò che egli vede è sempre sotto ciò che vede, che tenta di aprirsi il
varco verso l’essere puro e il nulla puro installandosi nella visione pura, che si fa visiona-
rio, ma che è rinviato alla sua opacità di vedente e alla profondità dell’essere» 637.
Per questa ragione la psicanalisi politica lacaniana, come la filosofia sartriana,
non può non ricadere nell’ideologico, proponendo meta-criticamente
un’astrazione kantiana; in ultima istanza questa non potrà non ripresentarsi
come la cubica trasfigurazione di un idealismo che ignora se stesso e il suo pun-
to cieco. Le analisi politiche della psicanalisi classica, soprattutto dal punto di
vista lacaniano 638, sono una riproposizione elevata a potenza del criticismo, una
teoria pura due volte auto-scopica. Per una metacritica politica di tal genere la
sua presunta libertà a due non è altro che un’astrazione logica, una lacerazione
doppiamente critica stabilizzata tra un in In-sé e un Per-sé che esclude a priori

635
La filosofia come una fede non del pensiero ma una «fede percettiva che si interroga
su se stessa» (Ibidem, p. 123).
636
Ibidem, p. 63.
637
Ibidem, p. 100.
638
D. Tarizzo, Giochi di potere. Sulla paranoia politica, Laterza, Roma-Bari 2008.
246 Conclusioni

l’altro 639; ragion per cui la psicanalisi non deve né essere rottura critica (kantia-
na) con il mondo né coincidenza esatta (galileiana) con esso, «ma non è nem-
meno l’alternarsi della rottura e della coincidenza» 640. Essa deve riscoprirsi oltre
una critica delle modernità come una riflessione intorno l’attualità. In un ambi-
to rigorosamente fenomenologico il corpo umano è il cordone ombelicale col
mondo, la culla del mondo su cui si fonda il mondo, un sensibile senziente che
come una vibrazione dell’essere nasce al mondo per una segregazione incomple-
ta. La corporeità che si apre come nella prospicienza dell’essere con se stesso fi-
gura la corporeità come un Giano bifronte, un faccia a faccia con le cose, dove
una faccia è la faccia come cosa e l’altra è una faccia come senziente. Entrambi, i
corpi e le cose, sono l’uno l’archetipo dell’altro e ciò perché c’è un inserimento
reciproco dell’uno nell’altro. Una visibilità non appartiene completamente né al
corpo né al mondo ma alla prospicienza tra i due, dove il vedente è preso nel
visibile e può essere visto da sé e dalle cose; non si sa più chi vede e chi è visto.
Oltre la modernità Merleau-Ponty affermava di indagare il mondo di tutte le
nostre proiezioni, «fatta riserva di ciò che (il mondo) poteva essere sotto la ma-
schera umana» 641, dunque, un tipo di razionalità scandalo per i galileiani e follia
per i kantiani, una nuova discorsività al di là dei criteri tradizionali. Mettendo
sotto scacco qualsiasi tipo di teoria normativa e descrittiva del politico, la psica-
nalisi politica attraverso una filosofia della carne contribuisce al dibattito intor-
no la psicanalisi classica e ne risolve la questione trascendentale su cui inciampa-
va; una volta riproposta come una non scienza, rigorosa e paradossale, lo psicana-
lista può finalmente analizzare, in maniera predittiva e performativa, lo sfondo

639
Vediamo altri vedenti, noi non abbiamo più solamente davanti a noi lo sguardo sen-
za pupilla […]: ormai grazie ad altri occhi, siamo pienamente visibili a noi stessi; quella
lacuna in cui si trovano i nostri occhi e la nostra schiena […], colmata da qualcosa, an-
cora, di visibile, ma di cui non siamo i titolari […]. La peculiarità del visibile […] è di
essere superficie di una profondità inesauribile: ed è ciò a far sì che esso possa essere
aperto ad altre visioni oltre la nostra […]. E perciò, movimento, tatto, visione, appli-
candosi all’altro a se stessi, risalgono verso la loro sorgente e, nel lavoro paziente e silen-
zioso del desiderio, comincia il paradosso dell’espressione» (M. Merleau-Ponty, Ibidem,
pp. 159-160).
640
Ibidem, p. 119.
641
Ibidem, p. 136.
Psicanalisi ontologica e filosofia della carne 247

massiccio, passionale, di senso corporeo, da cui il politico si segrega e può essere


riconosciuto, per qui rimanere di guardia alla cosa in generale.
Per poter essere più chiari possibili concludiamo contestualizzando, storicizzan-
do, ulteriormente il nostro discorso in un preciso orizzonte di senso, da cui poi
poter ripartire in futuro senza fraintendimenti: l’attualità europea e la sua crisi
politica. A 5 anni dal crollo dei mercati, dalla bancarotta Lehman e
dall’esplosione della bolla speculativa dei mutui statunitensi la raccolta dei dati
empirici dimostra che l’attuale modello di integrazione europea è fallimentare e
che sia l’economia sia il diritto non possono esaurire, sostituire, l’invenzione po-
litica in tali pretese. Qualsiasi esperimento teorico pratico di integrazione com-
pleta esige un preliminare lavoro politico di costruzione immaginaria e simboli-
ca di identità e cioè di soggettivazione politica, di nominazione e segregazione
dallo sfondo muto e desoggettivato delle cose di una progettualità storica e in-
carnata. Qualsiasi forma di potere giuridico e di pianificazione economica di
sistema sono fenomeni successivi e conseguenti alla caratterizzazione politica
delle masse e non viceversa. Comprendere l’irriducibilità del fenomeno politico,
soprattutto in una situazione antagonistica tra classi dominanti e classi subalter-
ne così esasperata come è quella di oggi, porta a interpretare la crisi dell’unione
dell’euro come l’espressione fenomenologica e sintomatica più evidente del fatto
che non si può fare a meno della politica per unire l’Europa e che il modello di
integrazione dell’area valutaria ottimale proposto dalle scienze politiche (tecno-
cratiche) europee non solo non conduce ad alcuna salda integrazione politica
europea ma - come testimoniano anche 150 anni di storia unitaria italiana -,
addirittura, traghetta i popoli nazionali verso forme di spoliticizzazione e di pa-
tologie sociali. L’Europa dell’euro e la sua crisi è la disfatta non solo di un eco-
nomicismo e di un riduzionismo giuridico rampante ma anche quello di una
determinata concezione del politico, che nella tecnocrazia riconosce, in un certo
senso, la smorfia parossistica della propria soggettività. Se dagli anni ’90 a oggi il
modello di integrazione esistente gode ancora di un vasto consenso non è per-
ché è stato legittimato da masse popolari che - in libertà e sulla base di regimi
discorsivi di pura convinzione - hanno acconsentito spontaneamente al suo per-
durare, ma in quanto sulla base di saperi politici le masse sono state retroagite in
maniera coatta. Tutti i giochi puramente politici sono regimi discorsivi nutriti e
orientati da pure promesse di umanità e non di scienza dell’umano o
sull’umano, ragion per cui l’obbedienza indotta non è scaturita dal potere coer-
citivo del sapere ma da un’obbedienza spontanea, da una conversione, al potere
248 Conclusioni

di una invenzione, di una convinzione. Tutt’altro accade quando ai giochi di


convinzione si sostituiscono i giochi di sapere, ai quali corrisponde sempre una
servitù involontaria. Il regime di sapere che la tecnocrazia instaura non solo de-
nigra su una base scientifica qualsiasi alternativa politica di unione europea, ma
addirittura delegittima scientificamente l’inventività politica in quanto tale, spo-
liticizzando e deprimendo qualsiasi forma di identificazione possibile delle mas-
se. In gergo psicanalitico (classico) il discorso tecnocratico è un agone paranoi-
co, un game di pura socialità, dove la dimensione creativa e di invenzione
dell’umano, di libertà dell’umano, in cui le singolarità si impegnano, si sclero-
tizza patologicamente in un ordine di obbedienza coatta, sociale. Un capo si
china coercitivamente solo quando un sapere agisce retrospettivamente
l’umanità, spegnendo e saturando la sua libertà nell’enunciazione scientifica; al
contrario c’è servitù volontaria solo quando c’è in ballo una promessa e il con-
senso sulla base della fiducia (pistis).
Nell’evenienza in cui si decidesse di non porre fine all’area valutaria ottimale, e
nonostante l’aggravamento della crisi, si decidesse di perseverare in maniera tec-
nocratica in un modello così rigido d’integrazione fondata sulle scienze politiche,
secondo alcuni critici 642 del modello d’integrazione attuale, occorrerebbero al-
meno alcuni accorgimenti - pena la destabilizzazione del mercato globale, la di-
sintegrazione degli stati sociali nazionali, il ritorno dei fascismi e di scenari belli-
ci incontrollabili:
• Una riforma per l’integrazione dei mercati nazionali del lavoro in un uni-
cum. Quest’ultimo dovrebbe essere finalizzato ad ammortizzare e ad argina-
re i fenomeni dilaganti della disoccupazione e della precarizzazione.
L’abbattimento delle barriere linguistiche, formative e giuridiche nazionali
consentirebbe una maggiore mobilità (migrazione) dei lavoratori vittime
della stagdeflazione dai paesi in deficit a quelli in surplus 643;
• Una maggiore flessibilità dei salari o almeno sino al punto di non esagerare
ulteriormente i livelli di precarietà;

642
A. Bagnai, Il tramonto dell’Euro. Come e perché la fine della moneta unica salverebbe
democrazia e benessere in Europa, Imprimatur Editore, Reggio Emilia 2012.
643
R. Mundell, Theory of optimum currency areas, American Economic Review, n. 51,
pp. 657-665, 1961.
Psicanalisi ontologica e filosofia della carne 249

• Una diversificazione delle attività produttive all’interno di ogni singolo sta-


to membro, capace di fortificare finanziariamente le nazioni più piccole e,
dunque, più fragili ed esposte alla crisi di determinati comparti industria-
li 644;
• Maggiore apertura al commercio estero e complementare limitazione dei
criteri mercantilistici di sviluppo;
• L’impegno ad allineare i tassi di inflazione dei singoli paesi che a questo
punto sarebbero meno fragili finanziariamente;
• L’integrazione fiscale, ovvero, una tassazione unica ed europea esercitata da
organi europei eletti e gestiti democraticamente;
• Istituzioni economiche politicamente condivise, cioè a controllo democrati-
co, capaci di apportare, in caso di crisi, iniezioni di liquidità e risorse nelle
aree regionali in recessione o in stagnazione, dalle aree in surplus 645;
• L’elaborazione di una cittadinanza europea rispettosa delle identità naziona-
li, capace di definire uno spazio europeo di ospitalità in cui i lavoratori mi-
granti potrebbero, sottoscrivendo dei diritti-doveri, essere riconosciuti in
quanto ospiti.
Inutile sottolineare che non esiste nulla del genere nell’Europa attuale e che
tutti i tentativi in tal senso sono stati mancati o rinviati in seguito alla man-
canza di presupposti politici, di una cultura e di un’identità storicamente
condivisa e consolidata, in ultima istanza per la totale assenza di qualsiasi tipo
di soggettività politica (un popolo) primordinale, agente, capace di impugnare
queste riforme e affermarle; inoltre:
• La mobilità dei lavoratori è minima a causa delle barriere linguistiche, della
disomogeneità nella regolamentazione del lavoro e delle differenze tra i si-
stemi educativi. A una unica valuta e al libero movimento dei capitali non è
seguito un intenso ciclo di flussi migratori;
• Da parte dei paesi in surplus e tra questi di quelli egemonici vi sono campa-
gne mediatiche, ideologiche e mercantilistiche, che scaricano il peso degli

644
P. Kenen, The theory of optimum currency area san eclectic view, in R. Mundell e A.
Swoboda, Monetary problems of the internazional Economy, pp. 48-60, University of
Chicago Press, Chicago 1969.
645
Ibidem, pp. 48-60.
250 Conclusioni

aggiustamenti del deficit complessivo europeo su quelli più deboli, esaspe-


rando gli indici già molto alti di disoccupazione, di precarietà, di flessibilità
salariale;
• La carenza di misure comuni, a livello interregionale e internazionale, per
l’allineamento dei sistemi economici e giuridici vanifica gli sforzi;
• L’arretramento della solidarietà sociale, lo smantellamento degli stati sociali
e l’indisponibilità da parte delle classi dominanti di procedere verso una più
equa redistribuzione della ricchezza in favore delle classi subalterne 646 crea
disparità;
• il criterio della diversificazione economica e produttiva sfavorisce i tessuti
industriali nazionali più esigui;
• la rinuncia al cambio nominale ha reso impossibile ad ogni singolo paese di
effettuare misure di aggiustamento per dare respiro, in caso di crisi,
all’economia reale con l’incremento delle esportazioni;
• i tassi di inflazione non sono simmetrici ma, anzi, il surplus dei paesi del
centro-nord si regge sull’indebitamento di quelli del Meridione;
• le attuali riforme fiscali sono insufficienti addirittura per iniziare una con-
creta integrazione politica;
• come dimostrano le analisi storiche e psicanalitiche dei processi di unifica-
zione nazionale, i tentativi di unione politica delle masse, a cavallo di inte-
grazioni giuridiche ed economiche sono falliti o tendenzialmente instabili e
precari;
• come dimostra l’esito referendario del popolo francese per la sottoscrizione
della costituzione europea, le suddette riforme sono inaccettabili o inattuali
in una Europa priva di un popolo europeo;
• il progetto tecnocratico di integrazione europea attraverso economia e dirit-
to è ontologicamente antidemocratico, autoritario e spoliticizzante. Ciò
comporta la disintegrazione degli attuali presupposti a favore di

646
P. Ji. Y. De Grauwe, What Germany should fear most is its own fear, 18 settember,
www.voxeu.org/article/How-Germany-can-avoid-wealth-losses-if-euro-zone-breaks-
limit-conversion-german-residents e in Search of symmetry in the euro zone, Ceps policy
Brief, n. 268, may 2012.
Psicanalisi ontologica e filosofia della carne 251

un’integrazione, il ritorno rapace dei nazionalismi e dei fascismi,


l’insorgenza di incontrollabili scenari bellici internazionali.
Rispetto alle attuali condizioni si prevede o il tramonto dell’Euro 647 - il quale
rammentiamo non implica la decadenza dell’Unione europea in quanto tale -
per ripartire da nuove valute nazionali che consentirebbero la possibilità di sva-
lutazioni valutarie controllate e il ripristino della crescita economica (su cui
fondare poi un più lento e graduale processo di integrazione economica e giuri-
dica dagli esiti quasi sicuramente precari); o il ripensamento totale
dell’integrazione europea a partire da un pensiero e da una militanza politica di
nuovo genere. Quest’ultima possibilità sarebbe l’opzione più credibile ed effica-
ce, ma questa potrebbe esprimersi a sua volta in due declinazioni: un modello
debole e un modello forte.

I. Il primo è un modello a incipiente rischio patologico, più o meno tecnocra-


tico, che prevede, sulle ceneri dei trattati e dell’Europa monetaria, di ripro-
porre un nuovo tragitto costituente, volto però a costruire non una soggetti-
vità normativa, giuridico-politica, europea, ma le condizioni di possibilità
per il riconoscimento economico e giuridico di uno spazio di inclusione e di
integrazione possibile, una dimensione di ospitalità, in cui ad esempio la
semplice mobilità dei lavoratori, catalizzi gradualmente una integrazione
culturale, linguistica, sociale, politica dei popoli europei in un unicum. Uno
spazio di ospitalità che regolamentasse sul suolo europeo i flussi migratori
agirebbe, a questo punto, da laboratorio per la costruzione di un unico po-
polo europeo. Questo modello è però molto rischioso in quanto implica, in
maniera trasfigurata, la possibilità di riconsegnare le sorti d’Europa nelle
mani di una più raffinata soggettività tecnocratica, la quale a questo punto
si troverebbe legittimata a gestire in maniera metacritica e nascostamente
scientifica, un processo di sincera (o presunta tale) transizione
all’integrazione completa per una unione politica europea.
II. Il modello forte è, invece, quello in parte più tradizionale e in parte più in-
novativo, finalizzato a costruire un processo di unificazione politica europea

A. Bagnai, Il tramonto dell’Euro. Come e perché la fine della moneta unica salverebbe
647

democrazia e benessere in Europa, Imprimatur Editore, Reggio Emilia 2012.


252 Conclusioni

a partire non da un processo di sovranizzazione, di rafforzamento dall’alto


di uno stato giuridicamente ed economicamente imposto, come neanche
secondo regole certificate tecnocraticamente, ma di emancipazione dal bas-
so delle masse invisibili e subalterne in un’unica identità, in un unico signi-
ficante vuoto. In altre parole unire l’Europa in un popolo europeo a partire
da una soggettività rivoluzionaria (che per principio non è né democratica
né necessariamente fascista) che sulla spinta di una progettualità emanci-
pante integrerebbe in un unico corpo l’Europa. Un popolo europeo sarebbe
un popolo risorto a una missione mondiale, a una utopia capace di rivendica-
re per l’Europa stessa un’eccezionalità, una progettualità storica specifica.
Uno degli sfondi di senso possibili e attuali in cui individuare una soggetti-
vità politica catalizzatrice e rivoluzionaria è sicuramente quello offerto dal
fenomeno migratorio o della mobilità dei lavoratori, in cui ad essere seria-
mente riflesso e messo in discussione non è più una questione di frontiere
dell’Europa ma di un «europeismo delle frontiere dell’Europa» 648. A partire,
dunque, non da uno spazio di ospitalità tracciato meta-criticamente e scien-
tificamente, ma sin dall’inizio a partire da una lotta egemonica per il rico-
noscimento della propria identità migrante, della propria soggettività di
frontiera, si può finalmente ricostruire politicamente l’Europa. In direzione
di una civiltà migrante che si determini oltre i bordi delle modernità, oltre
le frontiere giuridiche, economiche, biologiche, che pieghi ed abbatta addi-
rittura le frontiere fisiche, un popolo europeo può inventare e affermare la
propria utopia.

In entrambi i casi bisogna comunque ritornare a pensare, a riflettere politica-


mente l’attualità (abitudine ormai rara di questi tempi anche perché le scienze
sclerotizzano il politico), solo che nel primo modello scadiamo immediatamente
in un orizzonte più o meno scientifico (metacritico) che orienta prima o poi
tecnocraticamente la riflessione politica; verso tutt’altra direzione si spinge il se-
condo modello, in cui qualsiasi tipo di riflessione sulle frontiere è già organica
alle masse che le percepiscono e le esprimono.

648
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SOMMARIO
Pag.
Introduzione.
Le modernità politiche e le rivoluzioni del sapere 5

Capitolo I.
La sacertà e l’incarnazione cristiana 23

Capitolo II.
L’Illuminismo dopo l’illuminismo: la modernità come Autonomia 43

Capitolo III.
La modernità del lavoro 75

Capitolo IV.
La modernità della vita 94

Capitolo V.
Modernità del diritto e Psicanalisi 166

Conclusioni.
Psicanalisi ontologica e filosofia della carne 241

Riferimenti bibliografici 253


Finito di stampare nel mese di febbraio 2017
presso “A. De Frede Editore”
via Mezzocannone, 69 - Napoli

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