INTRODUZIONI
NICK SRNICEK
Capitalismo digitale
Introduzione
Capitolo 1
La lunga recessione
La fine dell’eccezione postbellica
L’ascesa e il crollo delle Dot-com
La crisi del 2008
Conclusione
Capitolo 2
Il capitalismo delle piattaforme
Piattaforme di advertising
Piattaforme cloud
Piattaforme industriali
Piattaforme prodotto
Piattaforme lean
Conclusione
Capitolo 3
Le grandi guerre tra piattaforme
Le tendenze
Le sfide
Gli scenari futuri
Bibliografia
Molte persone hanno contribuito a far diventare realtà questo libro. Grazie a Laurent de Sutter per aver dato
il via al progetto e alla squadra della Polity, George Owers, Neil de Cort e Manuela Tecusan, per aver legato il
tutto. Alex Andrews è stato un consulente tecnico di grandissimo aiuto, e grazie a tutti coloro che hanno letto
le prime bozze – Diann Bauer, Suhail Malik, Benedict Singleton, Keith Tilford, Alex Williams, insieme a due
recensori che vogliono restare anonimi. In ultimo, ma non meno importante, grazie a Helen Hester, che mi
sostiene e che è sempre la mia osservatrice intellettualmente più stimolante e acuta.
Introduzione
Al giorno d’oggi ci viene ripetuto che viviamo in un’età di trasformazione di massa. Espressioni come sharing
economy, gig economy e quarta rivoluzione industriale sono ovunque, associate a immagini suggestive che
evocano spirito imprenditoriale e flessibilità. In quanto lavoratori, saremo liberati dalle costrizioni del lavoro
fisso e ci verrà data l’opportunità di costruirci la nostra strada, vendendo i beni o i servizi che preferiamo.
Come consumatori, ci viene offerta una cornucopia di servizi on-demand e promesso un network di
dispositivi interconnessi capaci di soddisfare ogni nostro capriccio. Questo libro parla del momento che
stiamo vivendo e delle manifestazioni a esso collegate sotto forma di tecnologie emergenti: piattaforme, big
data, stampa 3D, robotica avanzata, machine learning e l’Internet delle cose. Non è il primo libro a ragionare
di questi argomenti ma, rispetto agli altri, ha un approccio differente. Nella letteratura esistente, alcuni
osservatori si concentrano sulla politica della tecnologia emergente, ponendo l’accento sulla privacy e sul
controllo da parte dello Stato, ma trascurando i nodi economici relativi a possesso e redditività. Altri esperti
si concentrano su come le grandi società incarnino particolari idee e valori, e le criticano perché non agiscono
in maniera umana – ma ancora una volta trascurano il contesto economico e gli imperativi di un sistema
capitalistico1. Altri studiosi prendono in esame, effettivamente, questi trend economici emergenti, ma li
presentano come fenomeni sui generis, disconnessi dalla loro storia. Non si chiedono mai perché l’economia
di oggi abbia questa natura, né riconoscono come l’economia odierna sia la reazione ai problemi di ieri.
Infine, diverse analisi rilevano quanto la smart economy sia avara nei confronti dei propri lavoratori, e come
il lavoro digitale porti un cambiamento nella relazione tra lavoratori e capitale, ma lasciano fuori qualsiasi
analisi su trend economici più vasti e sulla competizione intercapitalista2. Questo libro mira a integrare punti
di vista di questo tipo, fornendo una storia economica del capitalismo e della tecnologia digitale, prendendo
al tempo stesso in considerazione la diversità delle forme economiche e le tensioni competitive insite
nell’economia contemporanea.
La piccola scommessa del libro è che possiamo imparare molto relativamente alle principali aziende tech se
le consideriamo come attori economici all’interno di un modo di produzione capitalistico. Questo vuol dire
astrarre da essi come attori culturali definiti dai valori dell’ideologia californiana, o in quanto attori politici
alla ricerca di potere. Invece, questi attori sono costretti a produrre utili per respingere la concorrenza.
Questo pone limiti rigidi su quanto può essere considerato una previsione attendibile e probabile su ciò che è
più possibile che accada. In particolare, il capitalismo richiede che le imprese cerchino sempre nuovi modi
per generare profitto, nuovi mercati, nuovi beni e nuovi metodi di sfruttamento. Per alcuni, questo volersi
concentrare sul capitale piuttosto che sul lavoro può suggerire un volgare economicismo; ma in un mondo in
cui il movimento operaio è andato indebolendosi in maniera significativa, dare al capitale il ruolo di attore
principale è solo restituire quella che è la realtà.
Ma allora su cosa dobbiamo concentrare la nostra attenzione se vogliamo osservare gli effetti della tecnologia
digitale sul capitalismo? Potremmo orientarci verso il settore tecnologico3 ma, a voler essere precisi, questo
non è che una parte relativamente piccola dell’economia. Negli Stati Uniti il suo contributo è pari a circa il
6,8% del valore aggiunto delle compagnie private, e impiega circa il 2,5% della forza lavoro4. Paragonandoli,
il settore manifatturiero negli Stati Uniti deindustrializzati impiega il quadruplo delle persone; nel Regno
Unito, la manifattura dà lavoro a tre volte le persone impiegate nel settore tecnologia5. Questo, in parte,
accade perché le aziende tecnologiche sono notoriamente piccole. Google ha 60.000 dipendenti diretti,
Facebook 12.000, mentre Whatsapp aveva 55 dipendenti quando venne venduta a Facebook per 19 miliardi
di dollari, e Instagram 13 quando fu acquistata per 1 miliardo. A confronto, nel 1962 le compagnie più
importanti impiegavano quantità ben più ampie di lavoratori: AT&T aveva 564.000 impiegati, Exxon
150.000 e General Motors 605.0006. Quando parliamo di economia digitale, perciò, dovremmo sempre
ricordarci che si tratta di qualcosa di più ampio rispetto al solo settore tecnologico così come esso è definito
dalle classificazioni standard. Come definizione preliminare, possiamo dire che l’economia digitale fa
riferimento a quel tipo di imprese che sempre più fanno affidamento sulla information technology, sui dati e
su internet per il proprio modello di business.
È un’area trasversale rispetto ai settori tradizionali – inclusi la manifattura, i servizi, i trasporti, il settore
minerario e le telecomunicazioni – e in effetti sta diventando fondamentale per gran parte dell’economia
attuale. Messa in questi termini, l’economia digitale è molto più importante di quanto potrebbe far credere
una semplice analisi di settore. In primo luogo, sembra essere il settore più dinamico dell’economia
contemporanea – un’area dalla quale emerge con evidenza una costante innovazione, e che sembra spingere
in avanti la crescita economica. L’economia digitale sembra essere una luce scintillante nell’ambito di un
contesto economico altrimenti stagnante. In più, la tecnologia digitale sta diventando sistematicamente
importante, in modo assai simile alla finanza. Poiché l’economia digitale sta diventando un’infrastruttura
sempre più pervasiva per l’economia contemporanea, il suo collasso risulterebbe in un disastro finanziario.
Infine, grazie al suo dinamismo, l’economia digitale viene proposta come un ideale in grado di conferire più
ampia legittimità al capitalismo contemporaneo. Il modello sta diventando egemone: le città devono
diventare smart, i business devono essere disruptive, i lavoratori flessibili e i governi lean e intelligenti. In
questo ambiente, chi lavora duro potrà sfruttare i cambiamenti e avere la meglio. O almeno è quello che ci è
stato detto. La tesi di questo libro è che, a causa di un lungo declino della redditività del settore
manifatturiero, il capitalismo abbia iniziato a occuparsi dei dati come un mezzo per mantenere crescita
economica e vitalità in presenza di un settore produttivo altrimenti pigro. Nel Ventunesimo secolo, sulla base
dei cambiamenti a livello di tecnologie digitali, i dati hanno assunto un ruolo sempre più centrale per le
aziende e per i loro rapporti con i lavoratori, con i clienti e con gli altri capitalisti. La piattaforma è divenuta
un nuovo modello di business, capace di estrarre e controllare immense quantità di dati, e con questo
cambiamento abbiamo assistito all’emersione di grandi marchi monopolistici. Oggi il capitalismo delle
economie ad alto e medio reddito è dominato sempre più da queste aziende, e le dinamiche tratteggiate in
questo libro portano a ritenere che il trend non farà altro che proseguire. Lo scopo qui prefisso è inquadrare
queste piattaforme nel contesto di una più ampia storia economica, cercare di comprenderle come strumenti
per generare profitto e sottolineare alcune delle tendenze che di conseguenza esse producono.
In parte, questo libro è la sintesi di lavori già esistenti. La discussione contenuta nel capitolo 1 dovrebbe
essere già nota agli storici dell’economia, perché si occupa delle varie crisi che hanno preparato il terreno
all’attuale economia post-2008. È il tentativo di storicizzare le tecnologie emergenti come risultato di più
profonde tendenze del capitalismo, mostrando come esse siano parte di un sistema di sfruttamento,
esclusione e concorrenza. Il materiale nel capitolo 2 suonerà familiare a quanti seguono l’ambito della
tecnologia. In più di un senso, questo capitolo è un tentativo di chiarire numerose discussioni aperte in quel
mondo. In esso è abbozzata una classificazione e una genesi delle piattaforme. Il capitolo 3, al contrario, offre
qualcosa di nuovo per tutti, o almeno lo spero. Sulla base dei capitoli precedenti, esso cerca di tracciare
alcune tendenze plausibili e di fare qualche predizione di ampia portata sul futuro del capitalismo delle
piattaforme. Queste prognosi che guardano al futuro sono essenziali per qualunque progetto politico. Il modo
in cui il passato e il futuro vengono concettualizzati è importante per come pensiamo strategicamente e
sviluppiamo tattiche politiche per trasformare oggi la società. In breve, un conto è vedere le tecnologie
emergenti come l’inizio di una nuova stagione di accumulazione, un altro è ritenereche esse siano il prosieguo
di vecchi regimi. Tutto ciò ha conseguenze sulla possibilità di una crisi e sul determinare da dove tale crisi
potrebbe originare. Tutto ciò ha conseguenze anche sul modo in cui immaginiamo il futuro probabile del
lavoro sotto il capitalismo. Parte della tesi di questo libro è che l’apparente novità della situazione che
viviamo oscuri la persistenza di trend a più lungo termine, ma anche che la situazione odierna presenti
importanti cambiamenti che dovrebbero essere presi al volo da un movimento progressista del ventunesimo
secolo. Capire la nostra posizione in un contesto più ampio rappresenta il primo passo per creare strategie
per trasformarlo.
1. Morozov, 2015b.
2. Huws, 2014.
3. Poiché la frase “settore tecnologico” è spesso usata a caso con pochissime spiegazioni, in questa sede si userà la definizione del North American
Industry Classification System (NAICS) con relativi codici. Secondo quel sistema, il settore tech può essere considerato quello che include la
manifattura di computer e prodotti elettronici (334), di telecomunicazioni (517), di elaborazione dati, hosting e servizi correlati (518), di altri
servizi di informazione (519) e di progettazione di sistemi informatici relativi servizi (5415).
4. Klein, 2016.
5. Office for National Statistics, 2016b.
6. Davis, 2015: 7.
Capitolo 1
La lunga recessione
Per comprendere la nostra situazione attuale, è necessario individuare come questa si leghi a ciò che l’ha
preceduta. Alla luce della storia, fenomeni che sembrano novità radicali, potrebbero rivelarsi delle semplici
continuità. In questo capitolo sosterrò la tesi che tre momenti nella storia relativamente recente del
capitalismo siano particolarmente rilevanti per la presente congiuntura: la risposta alla recessione degli anni
Settanta; il boom e la recessione degli anni Novanta; la risposta alla crisi del 2008. Ognuno di questi
momenti ha creato le condizioni per la nuova economia digitale e ha determinato i modi in cui essa si è
sviluppata. Tutto ciò deve essere come prima cosa collocato nel contesto del nostro vasto sistema economico
capitalistico e degli imperativi e delle restrizioni che questo impone a imprese e lavoratori. È vero che il
capitalismo rappresenta un sistema incredibilmente flessibile, ma è anche dotato di caratteristiche rigide, che
funzionano come parametri di massima per qualsiasi periodo storico dato. Se vogliamo comprendere le
cause, le dinamiche e le conseguenze della situazione odierna, dobbiamo come prima cosa capire come opera
il capitalismo.
Il capitalismo, caso unico tra tutti i modi di produzione conosciuti finora, è incredibilmente efficace
nell’innalzare i livelli di produttività1. Questa è la dinamica chiave che esprime la capacità senza precedenti
delle economie capitalistiche di crescere a grande velocità e di aumentare gli standard di vita. Cosa rende il
capitalismo diverso2? Ciò non può essere spiegato attraverso meccanismi psicologici, come se da un certo
punto in poi avessimo deciso tutti insieme di diventare più avidi o più efficienti nella produzione rispetto ai
nostri antenati. Piuttosto, quello che spiega la crescita di produttività del capitalismo è un cambiamento nelle
relazioni sociali, e particolarmente nei rapporti di proprietà. Nelle società precapitalistiche, i produttori
avevano accesso diretto ai propri mezzi di sussistenza: la terra da coltivare e da abitare. In quelle condizioni,
la sopravvivenza non dipendeva in maniera sistematica dall’efficienza del processo di produzione di ciascuno.
I capricci dei cicli naturali potevano significare che il raccolto non sarebbe stato adeguato in un certo anno,
ma queste erano ristrettezze contingenti e non di sistema. Lavorare abbastanza duramente per accedere alle
risorse indispensabili alla sopravvivenza era l’unica cosa necessaria. Con il capitalismo, questo cambia. Gli
agenti economici si separano dai mezzi di sussistenza e, per assicurarsi quanto necessario a sopravvivere,
devono ora rivolgersi al mercato. Anche se esistevano già da migliaia di anni, sotto il capitalismo gli agenti
economici si trovarono ad affrontare in maniera mai sperimentata prima la dipendenza generalizzata da
questi. La produzione si orientò, di conseguenza, al mercato: bisognava vendere beni per mettere assieme i
soldi necessari ad acquistare i beni di sussistenza. Tuttavia, visto che un’enorme quantità di persone ora
faceva affidamento sulla vendita, i produttori dovettero affrontare pressioni competitive. Con prezzi troppo
alti, i loro beni non sarebbero stati venduti, e in breve tempo avrebbero assistito al collasso delle loro attività.
La dipendenza generalizzata dal mercato portò come risultato all’imperativo sistemico di ridurre i costi di
produzione in relazione ai prezzi. A questo si può arrivare in diversi modi; tuttavia i metodi più significativi
furono l’adozione di tecnologie e tecniche efficienti nel processo di lavorazione, la specializzazione e il
sabotaggio dei concorrenti. Alla fine il risultato di queste azioni competitive fu espresso nelle tendenze a
medio termine del capitalismo: i prezzi declinarono tangenzialmente fino al livello dei costi, i profitti tra
settori industriali differenti tesero a diventare uguali e la crescita senza sosta si impose come logica ultima del
capitalismo. Quello dell’accumulazione divenne un elemento implicito e scontato all’interno della trama di
qualsiasi decisione d’affari: chi assumere, dove investire, cosa costruire, cosa produrre, a chi venderlo, e così
via.
Una tra le conseguenze più importanti di questo modello schematico di capitalismo è che esso chiede un
costante rinnovamento tecnologico. Nello sforzo di tagliare i costi, battere i concorrenti, controllare i
lavoratori, ridurre il tempo di rotazione e guadagnare quote di mercato, i capitalisti sono incentivati a
trasformare continuamente il processo lavorativo. Ciò è stato all’origine dell’immenso dinamismo del
capitalismo, poiché i capitalisti tendono ad aumentare costantemente la produttività del lavoro e cercano di
superarsi l’un l’altro nel generare utili in maniera efficiente. La tecnologia però è centrale nel capitalismo
anche per altre ragioni, che esamineremo in maggior dettaglio più avanti, ed è stata spesso utilizzata per
ridurre la manodopera e indebolire il potere dei lavoratori specializzati (anche se esistono controtendenze che
puntano a riqualificare la manodopera)3. Le tecnologie “despecializzanti” consentono a lavoratori meno
costosi e più flessibili di soppiantare quelli specializzati, e anche a trasferire i processi mentali lavorativi al
management piuttosto che lasciarli nelle mani di chi lavora in officina. Dietro questi cambiamenti tecnici,
tuttavia, ci sono la competizione e la lotta – sia tra classi, prese dal tentativo di guadagnare forza l’una a
scapito dell’altra, che tra capitalisti, che cercano di abbassare i costi di produzione al di sotto della media
sociale. È questa seconda dinamica, in particolare, che gioca un ruolo chiave nei cambiamenti che sono al
centro di questo libro. Ma prima di poter capire l’economia digitale dobbiamo prima guardare a un periodo
precedente.
Poiché i concorrenti più prossimi erano stati devastati dalla guerra, l’industria manifatturiera americana ne
approfittò diventando la superpotenza dell’era post-bellica6. Eppure Giappone e Germania avevano un loro
vantaggio comparativo – in particolare, i costi relativamente bassi del lavoro, una forza lavoro qualificata,
tassi di cambio vantaggiosi e, nel caso del Giappone, una struttura istituzionale di grande supporto – tra
governo, banche e aziende cruciali. In più, il Piano Marshall aveva gettato le basi per l’espansione dei mercati
di esportazione e per la crescita dei livelli di investimento in tutti questi paesi. Tra gli anni Cinquanta e
Sessanta del Ventesimo secolo, il settore manifatturiero giapponese e tedesco crebbe rapidamente sia in
termini di rendimento che di produttività. Fatto ancora più importante, mentre il mercato si sviluppava e la
domanda cresceva a livello globale, le imprese giapponesi e tedesche iniziarono a rosicchiare le quote delle
imprese americane. All’improvviso, numerose industrie manifatturiere di grandi dimensioni si ritrovarono a
produrre a livello mondiale. La conseguenza fu che il settore manifatturiero globale raggiunse un eccesso di
capacità produttiva tale da far subire ai prezzi dei beni prodotti una pressione al ribasso. A metà degli anni
Sessanta, l’industria manifatturiera americana si ritrovò colpita dal basso a livello di prezzi praticati dai suoi
concorrenti giapponesi e tedeschi, il che portò a una crisi di redditività per le aziende nazionali. Gli alti costi
fissi degli Stati Uniti semplicemente non erano più in grado di competere con dei concorrenti. Con una serie
di adattamenti dei tassi di cambio, questa crisi di produttività fu alla fine trasmessa al Giappone e alla
Germania, facendo scoppiare la crisi globale degli anni Settanta.
A fronte della redditività in calo, le aziende manifatturiere si sforzarono di ravvivare le proprie attività. Come
prima cosa, le imprese iniziarono a osservare i competitor di successo e a modellare loro stesse su quegli
esempi. Il modello fordista statunitense sarebbe stato rimpiazzato da quello toyotista, giapponese7. In
termini di processo del lavoro, la produzione andava sveltita. Una sorta di iper-taylorismo puntava a spezzare
il processo nelle sue parti più piccole, assicurandosi che ci fossero il numero minimo di impedimenti e di
tempi morti all’interno della sequenza. L’intero processo andava riorganizzato al fine di essere il più possibile
lean. Azionisti e consulenti aziendali non facevano che dire alle società di limitarsi alle proprie competenze di
base, di licenziare qualunque lavoratore in sovrappiù e di tenere le rimanenze al minimo. Questo fu innescato
e reso possibile dalla diffusione di software sempre più sofisticati pensati per gestire la filiera, con i produttori
a chiedere e ad attendere forniture solo quando veramente necessario. E dalla produzione di massa di beni
tutti uguali ci si spostò sempre di più verso beni su misura che rispondevano alla domanda dei consumatori.
Tuttavia a questi sforzi i concorrenti giapponesi e tedeschi risposero con contro-tentativi di aumentare la
propria redditività, contemporaneamente all’arrivo di altri concorrenti (Corea, Taiwan, Singapore e, infine, la
Cina). Il risultato fu una concorrenza internazionale continua, eccesso di capacità produttiva e pressioni verso
l’abbassamento dei prezzi.
Il secondo tentativo più importante per rianimare la redditività avvenne per mezzo di un attacco al potere
del lavoro. I sindacati di tutto il mondo occidentale si trovarono ad affrontare un assalto frontale e alla fine ne
uscirono sconfitti, con nuovi ostacoli legali, la deregulation di varie industrie e un conseguente declino nelle
iscrizioni. Le aziende ne approfittarono riducendo i salari e progressivamente dando i lavori in outsourcing.
La prima versione dell’outsourcing riguardava lavori con beni che potevano essere spediti (per esempio
piccoli beni di consumo) mentre servizi non commerciabili (come l’amministrazione) o beni non
commerciabili (come le case) non venivano toccati. Eppure, negli anni Novanta, le tecnologie
dell’informazione e della comunicazione permisero la delocalizzazione di molti di quei servizi, e la distinzione
pertinente divenne quella tra i servizi che richiedevano incontri faccia a faccia (per esempio i tagli di capelli,
attività di cura) e servizi impersonali che non ne prescrivevano (per esempio il data entry, il customer
service, i radiologi, e via dicendo)8. I primi venivano appaltati in ambito domestico, dove possibile, mentre i
secondi erano sotto sempre maggior pressione dai mercati del lavoro globale.
Il settore dell’ospitalità offre un esempio illuminante di questo trend generale: la percentuale di hotel
statunitensi facenti parte di un franchising sono cresciuti da un numero marginale negli anni Sessanta a oltre
il 76% di fine 2006. Accanto a ciò, si è avuto uno spostamento verso l’appalto esterno di tutto quel lavoro che
è associato al settore dell’ospitalità: le pulizie, il management, e i servizi di guardianìa9.
I fattori scatenanti dietro questo cambiamento cercavano la riduzione dei costi di beneficio e di passività,
in uno sforzo per mantenere i livelli di redditività. I cambiamenti in questione hanno dato il via ai trend di
lungo periodo che abbiamo osservato fin da allora, con l’impiego sempre più flessibile, salari ridotti e soggetti
a pressioni da parte del management.
Dunque, gli anni Settanta hanno preparato il terreno per la lunga recessione nella redditività dell’industria
manifatturiera che da allora è stata il riferimento delle economie sviluppate. Un periodo di sana crescita della
manifattura iniziò negli Stati Uniti quando il dollaro fu svalutato in seguito all’accordo di Plaza (1985), ma il
settore sprofondò nuovamente quando lo yen e il marco furono svalutati di fronte al timore di un collasso
giapponese10. Nonostante la crescita economica fosse ripresa dopo i bassi livelli degli anni Settanta, le
nazioni del G7 hanno visto calare i propri trend sia di crescita economica che produttiva11. L’unica eccezione
è stata rappresentata dalla bolla delle Dot-com degli anni Novanta, insieme con il frenetico interesse nelle
possibilità offerte da internet. In effetti questo boom degli anni Novanta è indicativo di molta dell’attrattiva
odierna nei confronti della sharing economy, dell’Internet delle cose, e di altri settori legati al mondo tech.
Nel prossimo capitolo vedremo se il destino di questi sviluppi più recenti seguirà la stessa spirale
discendente. Ai fini delle nostre attuali intenzioni, gli aspetti più significativi della bolla e del crollo degli anni
Novanta consistono nell’avviamento di una base infrastrutturale per l’economia digitale, insieme alla svolta
verso una politica monetaria ultra-accomodante in risposta ai problemi economici.
Il boom degli anni Novanta corrispose a tutti gli effetti alla commercializzazione fatidica di quello che era
stato, fino a quel momento, un internet per la maggior parte non a scopo di lucro. Si è trattato di un periodo
guidato dalla speculazione finanziaria, che a sua volta fu coltivata da grandi quantitativi di capitali di rischio
ed espressa in livelli alti di valutazione delle scorte. Mentre l’industria manifatturiera statunitense iniziava ad
andare in stallo per effetto del capovolgimento dell’accordo di Plaza, il settore delle telecomunicazioni
divenne la destinazione privilegiata del capitale finanziario della fine degli anni Novanta. Era un settore
ampio e nuovo, e la necessità di creare profitti si legò alle possibilità date dal portare online sia le persone che
le attività commerciali. Al culmine del settore, quasi l’1% del prodotto interno lordo (PIL) degli Stati Uniti era
costituito da capitali di rischio investiti in società tech; e l’entità media delle operazioni commerciali relative a
capitali di rischio quadruplicò fra 1996 e 200012. Complessivamente, oltre 50.000 società nacquero con
l’intenzione di rendere remunerativo Internet e più di 256 miliardi di dollari vennero forniti loro13.
Gli investitori inseguivano la speranza di una futura redditività e le società adottarono un modello del tipo
‘crescita prima dei profitti’. Nonostante molte di queste aziende non avessero fonti di reddito e, cosa
peggiore, mancasse loro un qualunque tipo di profitto, la speranza fu che grazie a una crescita rapida
sarebbero state in grado di accaparrarsi quote di mercato e, in definitiva, di dominare quello che era ritenuto
un settore nuovo e importante. In quello che è rimasto anche oggi l’elemento caratterizzante del settore
fondato sull’utilizzo di internet, sembrò scontato che le aziende tentassero di acquisire un’egemonia di tipo
monopolistica. Nelle prime, spietate fasi, gli investitori aderirono entusiasticamente, nella speranza di
scegliere l'eventuale vincitore. Molte società non dovettero nemmeno appoggiarsi a capitali di rischio, perché
i mercati azionari andarono in estasi per le azioni del settore tech. Spinto inizialmente da oneri finanziari in
declino e dai profitti delle imprese invece in aumento14, il boom del mercato azionario finì con lo sganciarsi
dall’economia reale quando si legò all’idea di “new economy” promessa dalle società che ruotavano intorno a
internet. Durante il picco, fra 1997 e 2000, le azioni tecnologiche salirono del 300% e assunsero un valore di
mercato di 5 trilioni di dollari15.
L’eccitazione per questo settore si tradusse in una massiccia iniezione di capitale nelle immobilizzazioni di
internet. Anche se gli investimenti su computer e information technology esistevano già da decenni, i livelli
di investimento fra 1995 e 2000 rimangono a tutt’oggi senza precedenti. Nel 1980, il livello annuale di
investimento in computer e loro periferiche era di 50,1 miliardi di dollari; nel 1990 aveva raggiunto i 154,6
miliardi di dollari, per arrivare a un picco, mai più raggiunto, di 412,8 miliardi di dollari al massimo della
bolla, nel 200016. Fu anche un cambiamento di proporzioni globali. Nelle economie a basso reddito, durante
gli anni Novanta le telecomunicazioni andarono a rappresentare il settore più esteso a livello di investimenti
diretti dall’estero – con oltre 331 miliardi impiegati17. Le società iniziarono a spendere quantitativi
eccezionali di denaro per modernizzare la propria infrastruttura di calcolo e ciò, unito a una serie di
cambiamenti nelle normative introdotti dal governo degli Stati Uniti18, andò a costituire la base per la
diffusione di massa di internet nei primi anni del nuovo millennio. All’atto pratico, questo investimento
significava che milioni di chilometri di cavi in fibra ottica e sottomarini furono messi a dimora, vennero fatti
grandi passi avanti in ambito di software e di progettazione delle reti, e furono fatti enormi investimenti a
livello di database e di server. Questo processo fece anche accelerare la tendenza all’outsourcing iniziata
negli anni Settanta, quando i costi di coordinamento furono tagliati in maniera drammatica in quanto le
comunicazioni globali e le filiere erano diventate più semplici da instaurare e gestire19. Le aziende spinsero
sempre più lontano i propri componenti, e la Nike divenne un simbolo dell’impresa lean: il branding e il
design venivano amministrati nelle economie ad alto reddito, mentre la fabbricazione e assemblaggio
venivano esternalizzati a sweatshop nelle economie a basso reddito. In tal senso, il boom tecnologico degli
anni Novanta ha rappresentato una bolla che ha posto le premesse per la futura economia digitale.
Nel 1998, mentre la crisi dell’Asia orientale acquistava velocità, anche il boom statunitense iniziò a perdere
colpi. Il crollo fu tenuto lontano attraverso una veloce serie di riduzioni del tasso di interesse decise dalla
Federal Reserve; e queste riduzioni segnarono l’inizio di un lungo periodo di politica monetaria ultra-
accomodante. L’obiettivo implicito era quello di far continuare la crescita del mercato azionario nonostante la
sua ‘esuberanza irrazionale’20, nello sforzo di aumentare la ricchezza nominale di imprese e famiglie e quindi
la loro propensione a investire e consumare. In un mondo in cui il governo statunitense stava cercando di
ridurre il deficit, lo stimolo fiscale era fuori discussione. Questo ‘keynesismo del prezzo dei beni’ offriva una
maniera alternativa per far crescere l’economia in assenza di deficit spending di un settore industriale
competitivo21. Era un segnale di cambiamento per l’economia degli Stati Uniti: senza un rilancio della
produzione USA, la redditività andava necessariamente cercata in altri settori. E per un po’ funzionò, in
quanto questo ha reso più semplici maggiori investimenti nelle nuove società Dot-com, mantenendo la bolla
dei capitali in salute fino al 2000, quando il mercato azionario della National Association of Securities
Dealers Automated Quotations (il NASDAQ) raggiunse il proprio picco. La fiducia in una politica monetaria
accomodante continuò anche dopo il crollo del 200122, sia attraverso tassi d’interesse più bassi che
attraverso la concessione di liquidità a valle degli attacchi dell’11 settembre. Uno degli effetti di questi
interventi da parte delle banche centrali fu l’abbassamento dei tassi ipotecari, coltivando così le condizioni
per una bolla immobiliare. I tassi di interesse più bassi fecero scendere anche il rendimento sugli
investimenti finanziari e spinsero a una ricerca di ulteriori investimenti – una ricerca che alla fine approdò
agli alti rendimenti dati dai mutui subprime e preparò il terreno per la crisi successiva. La politica monetaria
accomodante è una delle conseguenze cruciali del crollo degli anni Novanta, e continua tutt’oggi.
Nel 2006, i prezzi delle case negli Stati Uniti arrivarono a un bivio, e il loro declino iniziò a pesare sul resto
dell’economia. Il valore degli immobili, in parallelo, iniziò a scendere, portando a minori consumi e, infine, a
una serie di mancati pagamenti dei mutui.
Poiché il sistema finanziario era andato via via legandosi al mercato ipotecario, inevitabilmente il calo nei
prezzi degli immobili portò lo scompiglio nel settore finanziario. Tensioni iniziarono a emergere nel 2007,
quando due hedge fund collassarono dopo essere stati pesantemente coinvolti da cartolarizzazioni del tipo
garantito da ipoteca. L’intero settore si piegò nel settembre 2008, col collasso della Lehman Brothers, e una
crisi vera e propria scoppiò, mandando tutto in mille pezzi.
La reazione immediata fu veloce e massiccia. La Federal Reserve statunitense si mosse per provvedere al
salvataggio delle banche con somme pari a 700 miliardi di dollari, fornendo erogazioni di liquidità,
ampliando la portata dell’assicurazione dei depositi e addirittura prendendo parziale possesso di alcuni
istituti bancari importantissimi. Attraverso grandi salvataggi, aiuto a società in difficoltà, tagli d’emergenza
alle tasse e una serie di stabilizzatori automatici, i governi si assunsero il peso di aumentare i loro deficit per
tenere alla larga la parte peggiore della crisi. Il risultato fu che gli alti livelli di debito privato di prima della
crisi si trasformarono in alti livelli di debito pubblico dopo di essa. Allo stesso tempo, le banche centrali
intervennero per evitare il crollo dell’ordine finanziario globale. Gli Stati Uniti misero in moto un numero di
azioni di liquidità progettate per far continuare a funzionare le condutture del credito. Prestiti di ultima
istanza furono concessi alle banche e furono redatti accordi per swap in valuta con quattordici diverse
nazioni per assicurare che avessero accesso ai dollari necessari. Il provvedimento più importante, tuttavia, fu
che i tassi di interesse di riferimento andarono a picco in tutto il mondo: il tasso di riferimento dei federal
fund statunitense passo dal 5,25 per cento di agosto 2007 a uno 0-0,25 per cento a dicembre 2008. Allo
stesso modo, la Banca d’Inghilterra fece scendere il proprio principale tasso d’interesse dal 5,0 per cento di
ottobre 2008 al 0,5 per cento di marzo del 2009. Il mese di ottobre 2008 vide l’intensificarsi della crisi, che
portò sei fra le principali banche centrali a tagliare in maniera coordinata i tassi di interesse a livello
internazionale. Al 2016, i responsabili delle politiche monetarie avevano fatto scendere i tassi di interesse per
637 volte23. Questa tendenza è continuata durante il periodo successivo alla crisi e ha creato un ambiente con
tassi di interesse bassi per l’economia globale – una condizione fondamentale che ha permesso la crescita di
alcune aree dell’economia digitale odierna.
Tuttavia, con la scomparsa dell’immediata minaccia di un collasso, i governi si ritrovarono
improvvisamente con un conto salato da pagare. Dopo decenni di continui aumenti del deficit, la crisi del
2008 aveva condotto diversi governi a occupare posizioni sempre più precarie. Gli Stati Uniti videro il
proprio deficit salire da 160 milioni di dollari a 1.412 milioni di dollari nell’intervallo 2007-2009.
In parte a causa dei timori per gli effetti del debito pubblico elevato, in parte per costruire le risorse fiscali
per qualunque crisi di là da venire, e ancora per un progetto di classe volto a continuare la privatizzazione e
riduzione statale, l’austerity divenne la parola d’ordine nelle nazioni capitaliste. I governi avrebbero eliminato
i propri deficit e ridotto i debiti. Mentre altri paesi avevano dovuto affrontare tagli molto più severi alla spesa
pubblica, gli Stati Uniti non erano riusciti a sfuggire a che le politiche di austerità prendessero piede. Alla fine
del 2012 furono introdotti una serie di aumenti delle tasse e di tagli alla spesa, mentre allo stesso tempo
furono lasciati cadere quegli sgravi fiscali che erano stati implementati come risposta alla crisi. A partire dal
2011, il deficit è stato ridotto ogni anno. Eppure è probabile che l’influenza più grande sull’ideologia
dell’austerity negli USA sia stata l’impossibilità di ottenere un qualunque nuovo stimolo fiscale. Gli Stati Uniti
hanno un’infrastruttura notevolmente in decadimento, ma anche in questo caso le argomentazioni a favore
della spesa pubblica sono state come parole al vento. Il picco è stato raggiunto con prese di posizione
politiche che sempre più spesso sono andate manifestandosi relativamente al tetto dell’indebitamento
statunitense. Questo limite, deciso in sede di Congresso USA, fissò un massimo al debito che il ministero del
Tesoro statunitense poteva emettere, diventando un importante motivo di disputa fra coloro che pensavano
che il debito statunitense fosse troppo alto e chi riteneva che la spesa fosse necessaria.
Poiché lo stimolo fiscale è politicamente inaccettabile, ai governi è rimasto un unico meccanismo per dare
nuova vita alle loro economie fiacche: le politiche monetarie. Il risultato è stato una serie di interventi
straordinari e senza precedenti da parte delle banche centrali. Abbiamo già rilevato un susseguirsi di politiche
fondate su bassi tassi di interesse. Ma, bloccati su un limite inferiore pari allo zero, i responsabili sono stati
obbligati a rivolgersi a strumenti monetari meno convenzionali24. Il più importante di questi è
l’alleggerimento quantitativo: la creazione di moneta da parte della banca centrale, che poi la usa per
acquistare vari beni (per esempio titoli di stato, obbligazioni societarie, ipoteche) dalle banche. Gli USA
hanno aperto la strada per quanto riguarda l’alleggerimento quantitativo usandolo già a novembre del 2008,
mentre il Regno Unito ha fatto lo stesso a marzo del 2009. La Banca Centrale Europea, a causa del suo ruolo
particolare di banca centrale di diversi paesi, è stata più lenta nel passare all’azione, anche se alla fine ha
iniziato a comprare obbligazioni governative a gennaio del 2015. All’inizio del 2016, le banche centrali di tutto
il mondo avevano acquistato beni per oltre 12,3 miliardi di dollari25. La tesi principale a sostegno dell’uso
dell’alleggerimento quantitativo è che dovrebbe abbassare i rendimenti di altri beni. Se la politica monetaria
tradizionale opera principalmente alterando i tassi di interesse a breve termine, l’alleggerimento quantitativo
cerca di incidere sul tasso di interesse di attività a più lungo termine o alternative. L’idea cardine, in questo
caso, è un ‘canale di riequilibrio del portafoglio’. Poiché i beni non si sostituiscono l’un l’altro in maniera
perfetta (hanno valori differenti, diversi rischi e rendimenti), riprendere o ridurre l’offerta di un bene
dovrebbe avere un effetto sulla domanda di altri beni. In particolare, ridurre l’offerta di obbligazioni
governative dovrebbe aumentare la domanda di altre attività finanziarie. Dovrebbe sia diminuire il
rendimento delle obbligazioni (come per il debito societario), di conseguenza agevolando il credito, che alzare
i prezzi dei beni delle azioni (per esempio, nei capitali aziendali), con la conseguenza di creare un effetto
ricchezza per spingere a spendere. Anche se le prove sono ancora pregiudiziali, sembra che l’alleggerimento
quantitativo abbia avuto un effetto in questi termini: i rendimenti aziendali sono scesi e la borsa ha avuto
un’impennata26. Potrebbe aver avuto conseguenze anche sui settori non-finanziari dell’economia, facendo
diventare molta parte del recupero economico a carico dei 4,7 trilioni di dollari del debito societario che si è
venuto a creare a partire dal 200727. Il fatto ancora più importante per la nostra tesi è che l’ambiente fatto di
tassi di interesse genericamente bassi creato dalle banche centrali ha ridotto il tasso di profitto su un’ampia
gamma di attività finanziarie. Il risultato è che gli investitori alla ricerca di maggiori rendimenti sono stati
costretti ad affidarsi a beni sempre più rischiosi – portando i loro soldi in società del settore tech che sono
non redditizie o poco affidabili, per esempio.
***
Oltre a una politica monetaria ultra-accomodante, negli ultimi anni c’è stato un considerevole aumento nella
quantità di cash-hoarding aziendale e di paradisi fiscali. Negli Stati Uniti, con dati aggiornati a gennaio 2016,
9 trilioni di dollari sono detenuti da società in investimenti in liquidità o assimilabili – quindi in titoli liquidi
con bassi tassi di interesse28. Questo trend fa parte di una tendenza a lungo termine e mondiale che spinge
verso livelli maggiori di risparmi aziendali29; tuttavia, l’aumento del cash-hoarding è andato accelerando
con l’innalzarsi degli utili aziendali post-crisi.
In più, a parte alcune eccezioni come nel caso di General Motors, si tratta di un fenomeno dominato dalle
società del settore tech. Giacché queste aziende devono solo spostare proprietà intellettuali (e non intere
fabbriche) in altre giurisdizioni fiscali, evadere le tasse è per loro assai semplice. La tabella 1.1 descrive la
quantità di riserve30 detenute da alcune delle più importanti società del settore, insieme alla quantità di
quelle detenute dalle controllate off-shore.
Si tratta di cifre enormi: le riserve di capitale di Google sarebbero sufficienti ad acquisire Uber o la
Goldman Sachs, mentre quelle di Apple basterebbero a fare proprie la Samsung, la Pfizer o la Shell. Tuttavia
sono necessarie delle puntualizzazioni per capire queste cifre. Innanzitutto, queste non comprendono
passività e debito. Tuttavia, con rendimenti aziendali al minimo storico, molte aziende trovano più
conveniente contrarre nuovi debiti invece di far rientrare questi fondi off-shore, dovendo anche pagarci sopra
le imposte sulle imprese. Presentando la documentazione alla alla Securities and Exchange Commission, si
parla esplicitamente di evasione fiscale come di uno dei motivi per cui esistono riserve off-shore di una tale
entità. L’uso del debito societario da parte di queste aziende, quindi, deve essere messo nel contesto di una
strategia per evitare il pagamento delle tasse. Ciò fa anche parte di una tendenza più ampia verso l’uso
crescente dei paradisi fiscali. Sull’onda della crisi, la ricchezza all’estero è cresciuta del 25 per cento tra 2008
e 201431, equivalente a circa 7,6 trilioni di dollari di patrimonio finanziario privato presso paradisi fiscali32.
Il punto di vista è duplice. Da un lato, l’evasione fiscale e il cash-hoarding hanno lasciato le imprese
americane – in particolare quelle del ramo tech – con grandi quantità di denaro da investire. Questo eccesso
di risparmi aziendali si è unito – sia direttamente che indirettamente – a una politica monetaria ultra-
accomodante volta a rinforzare la ricerca di investimenti più rischiosi per poter avere rendimenti
soddisfacenti. Dall’altro, l’evasione fiscale consiste, per sua stessa definizione, in un’emorragia nei confronti
delle entrate pubbliche e di conseguenza ha peggiorato l’austerity. La gran quantità di denaro che va persa
nei paradisi fiscali va recuperata da qualche altra parte. Il risultato è ancora più limitazioni allo stimolo
fiscale e un bisogno maggiore di politiche monetarie poco ortodosse. Evasione fiscale, austerity e politiche
monetarie fuori dall’ordinario si rinforzano tutte l’una con l’altra.
Per definire la congiuntura attuale, dobbiamo aggiungere un elemento ulteriore: la situazione degli
impieghi. Con il collasso del comunismo, c’è stata una tendenza sul lungo periodo sia verso una maggiore
proletarizzazione che verso numeri sempre più alti di popolazione in esubero33. La maggior parte del mondo,
oggi, riceve un salario mediato dal mercato in cambio di lavoro precario o ‘informale’. Questo esercito di
riserva si è andato espandendo in maniera significativa dopo la crisi del 2008. Lo shock iniziale derivante
dalla crisi stessa ha fatto sì che la disoccupazione aumentasse in maniera drastica e su tutti i fronti. Questa è
raddoppiata negli Stati Uniti, passando dal 5 per cento prima della crisi al 10 per cento al suo culmine. Fra i
disoccupati, quelli di lungo periodo sono saliti dal 17,4 per cento al 45,5 per cento: non solo tante persone
hanno perso il posto, ma lo hanno perso per lunghi periodi di tempo. Ancora oggi, la disoccupazione di lungo
periodo rimane a livelli più alti rispetto a quella vista prima della crisi. Tutta questa situazione è risultata in
una pressione sulla restante popolazione già occupata – con guadagni settimanali più bassi, meno risparmi
familiari e maggiori debiti. Negli Stati Uniti, i risparmi personali sono andati scendendo da oltre il 10 per
cento degli anni Settanta a circa il 5 per cento di dopo la crisi34. Nel Regno Unito, i risparmi familiari sono
scesi al 3,8 per cento – il minimo da cinquant’anni a questa parte, e un trend di lungo periodo rimasto intatto
dagli anni Novanta35. In questo contesto, molti si sono adattati a fare qualunque lavoro fosse disponibile.
Conclusione
La congiuntura odierna è dunque la combinazione di trend di lungo periodo e movimenti ciclici. Continuiamo
a vivere in una società capitalista all’interno della quale competizione e ricerca del profitto fissano i parametri
del nostro mondo. Tuttavia, gli anni Settanta hanno determinato un passo decisivo all’interno di queste
condizioni generali, lontano dal lavoro fisso e da colossi industriali troppo ingombranti e più spostato verso
impieghi flessibili e modelli di business più lean. Durante gli anni Novanta ha preso piede una rivoluzione
tecnologica nella quale la finanza ha creato una bolla all’interno del settore internet che ha condotto a
massicci investimenti nell’ambiente urbano. Questo fenomeno ha anche annunciato una svolta verso un
nuovo modello di crescita: gli Stati Uniti hanno definitivamente detto addio alla propria base produttiva,
convertendosi al keynesismo del prezzo dei beni come alternativa più praticabile. Questo nuovo modello di
crescita ha portato alla bolla immobiliare dell’inizio del Ventunesimo secolo, e ha generato la risposta alla
crisi del 2008. Tormentati da preoccupazioni globali relative al debito pubblico, i governi si sono rivolti alle
politiche monetarie per migliorare le condizioni economiche. Ciò, unito agli aumenti dei risparmi societari e
l’aumento dei paradisi fiscali, ha liberato un eccesso di denaro, che è andato alla ricerca di tassi di
investimento accettabili in un contesto di bassi tassi di interesse. Infine, i lavoratori hanno sofferto
immensamente come conseguenza della crisi e sono diventati estremamente vulnerabili, vista la loro
necessità di arrivare a guadagnare un salario, a condizioni lavorative che li sfruttano. Tutto ciò contribuisce a
comporre la scena economica odierna.
1. A meno che non sia specificato nel testo, “produttività” si riferisce alla produttività del lavoro e non alla produttività totale dei fattori.
2. Il paragrafo che segue sintetizza le idee di Robert Brenner in Brenner, 2007.
3. Braverman,1978.
4. Piketty, 2014; Gordon, 2000; Glyn, Hughes, Lipietz e Singh, 1990.
5. Da diversi punti di vista, questo equilibrio è il risultato più radicale della sconfitta del lavoro e delle agitazioni di fabbrica, piuttosto che il
riflesso del successo del movimento del lavoro.
6. I successivi tre paragrafi si ispirano in maniera decisa a quanto riportato in Brenner, 2006.
7. Dyer-Witheford, 2015: 49–50.
8. Blinder, 2016.
9. Scheiber, 2015.
10. Brenner, 2002: 59–78, 128–33.
11. Antolin-Diaz, Drechsel e Petrella, 2015; Bergeaud, Cette e Lecat, 2015.
12. Perez, 2009; Goldfarb, Kirsch e Miller, 2007: 115.
13. Goldfarb, Pfarrer e Kirsch, 2005: 2.
14. Brenner, 2009: 21.
15. Perez, 2009.
16. Federal Reserve Bank di Saint Louis, 2016b.
17. Comments of Verizon and Verizon Wireless, 2010: 8n12.
18. Schiller, 2014: 80.
19. Dyer-Witheford, 2015: 82–4.
20. Greenspan, 1996.
21. Brenner, 2009: 23.
22. Rachel e Smith, 2015.
23. Khan, 2016.
24. Il lower bound zero, o trappola della liquidità, prevede che i tassi di interesse nominali non possano andare al di sotto dello zero (altrimenti i
risparmiatori si porterebbero via i propri soldi per metterli sotto il proverbiale materasso). Il risultato è che i legislatori non possono spingere i
tassi di interessi nominali sotto lo zero. Per saperne di più, si veda Krugman, 1998. Di recente, alcuni paesi hanno iniziato a imporre tassi negativi
a riserve nella banca centrale, anche se gli effetti di una simile azione appaiono minimi e, se possibili, opposti a quelle che erano le intenzioni
(ovvero decrescere i prestiti, invece di accrescerli).
25. Khan, 2016.
26. Joyce, Tong e Woods, 2011; Gagnon, Raskin, Remache e Sack, 2011; Bernanke, 2012: 7.
27. Dobbs, Lund, Woetzel e Mutafchieva, 2015: 8.
28. Spross, 2016.
29. Karabarbounis e Neiman, 2012.
30. Riserve è il termine per descrivere la cassa, le disponibilità liquide e i titoli non negoziabili.
31. Zucman, 2017: 46.
32. Ibid., 35. In maniera particolare, questa stima esclude le banconote (valutate in circa 400 miliardi di dollari) e beni fisici come opere d’arte,
gioielli e proprietà immobiliari, anch’essi utilizzati per evadere le tasse.
33. Srnicek e Williams, 2015: cap. 5.
34. Federal Reserve Bank di Saint Louis. 2016a.
35. Office for National Statistics, 2016b.
Capitolo 2
Il capitalismo delle piattaforme
Quando una crisi colpisce, il capitalismo tende a essere ristrutturato. Nuove tecnologie, nuove forme
organizzative, nuovi modi di sfruttamento, nuovi tipi di lavoro, e nuovi mercati: tutto ciò emerge, creando un
modo nuovo di accumulare ricchezza. Come visto con la crisi della sovracapacità degli anni Settanta,
l’industria aveva cercato di riprendersi andando all’attacco del lavoro e rivolgendosi in maniera crescente a
modelli di business via via più lean. Alla luce del crollo degli anni Novanta, le società legate a internet si sono
orientate verso modelli di business che monetizzavano le risorse gratuite disponibili. Se il crollo delle Dot-
com ha smorzato l’entusiasmo degli investitori nei confronti delle società del World Wide Web, il decennio
successivo ha visto le imprese del settore tech avanzare in maniera significativa in termini di quantità di
potere e capitale nelle loro disponibilità.
Dalla crisi del 2008 in poi, c’è stata un’altra svolta di questo tipo? L’opinione dominante nei paesi
capitalisti avanzati è che il cambiamento ci sia stato. In particolare, c’è stata una nuova attenzione verso la
crescita della tecnologia: l’automazione, la sharing technology, le storie infinite su Uber for X e, più o meno
dal 2010, proclami sull’Internet delle cose. Questi sono stati etichettati come «cambiamenti di paradigma» da
McKinsey1 e «quarta rivoluzione industriale» dal presidente esecutivo del World Economic Forum e, con
definizioni ancora più assurde, sono stati paragonati per importanza al Rinascimento e all’Illuminismo2.
Abbiamo osservato una proliferazione massiccia di nuovi termini: la gig economy, la sharing economy,
l’economia on demand, la nuova rivoluzione industriale, l’economia della sorveglianza, la app economy,
l’economia dell’attenzione e via discorrendo. Lo scopo di questo capitolo è esaminare proprio questi
cambiamenti.
Molti teorici hanno osservato che questi mutamenti significano che viviamo in un’economia cognitiva,
informativa, o ancora immateriale. Un’economia della conoscenza. Ma cosa significa questo? Qui troviamo
una serie di affermazioni interconnesse ma distinte. Nell’ambito dell’autonomismo italiano, si tratterebbe di
un’asserzione sull’‘intelletto generale’, laddove la cooperazione collettiva e la conoscenza divengono una
fonte di valore3. Una simile posizione implica che il processo lavorativo sia sempre più immateriale,
orientato verso l’uso e la manipolazione di simboli e sentimenti. Alla stessa maniera, la classe lavorativa
industriale tradizionale viene via via rimpiazzata da knowledge worker, anche noti come ‘cognitariat’.
Contemporaneamente, la deindustrializzazione generalizzata delle economie ad alto reddito significa che il
prodotto del lavoro diventa immateriale: contenuto culturale, conoscenza, emozioni e servizi. Questo
comprende contenuti media come avviene su YouTube e sui blog, oltre a contributi più ampi che prendono la
forma di creazione di siti internet, partecipazione a forum online e produzione di software4. Un’ affermazione
relativa allo stesso ambito vuole che merci materiali contengano una quantità sempre maggiore di
conoscenza, in esse incorporata. Il processo produttivo anche delle produzioni agricole più essenziali, per
esempio, dipende da una vasta gamma di competenze scientifiche e tecniche. Dall’altro lato dei rapporti di
classe, alcuni affermano che l’economia odierna sia dominata da un nuovo ceto, che non ha il controllo dei
mezzi di produzione ma piuttosto dell’informazione5. C’è del vero in questo, ma il discorso non fila più
quando colloca questa categoria al di fuori del capitalismo. Visto che gli imperativi del capitalismo valgono
per queste società così come per qualunque altra, allora queste rimangono capitaliste. Eppure qui assistiamo
a qualcosa di nuovo, e vale la pena provare a capire esattamente cosa.
Uno dei nodi centrali di questo capitolo è che il capitalismo avanzato, nel Ventunesimo secolo, sia arrivato
a essere incentrato sull’ottenimento e l’uso di un tipo particolare di materiale grezzo: i dati. Tuttavia è
importante essere chiari su cosa questi siano. Prima di tutto, andremo a distinguere i dati (informazioni su
qualcosa che è accaduto) dalla conoscenza (informazioni sul motivo per cui quel qualcosa è accaduto). I dati
possono implicare la conoscenza, ma non si tratta di una condizione necessaria. I dati implicano anche una
registrazione, e quindi uno strumento materiale di un qualche tipo. In quanto entità registrata, ogni dato
richiede dei sensori che lo catturino e dei potenti sistemi di archiviazione atti alla conservazione. I dati non
sono immateriali, come sarà velocemente dimostrato anche solo da uno sguardo distratto al consumo di
energia dei centri dati (e internet nel suo insieme è responsabile di circa il 9,2 per cento del consumo di
energia elettrica a livello mondiale)6. Si dovrebbe anche essere cauti quando si pensa che la raccolta dati e la
loro analisi siano processi senza attrito o automatizzati. La maggior parte dei dati va pulita e organizzata in
formati standard per poter essere utilizzabile. Analogamente, generare gli opportuni algoritmi può
comportare l’immissione manuale di insiemi di regole nel sistema. Questo significa complessivamente che la
raccolta dati, oggi, dipende da una vasta infrastruttura che cattura, registra e analizza7. Cosa viene
memorizzato? In breve, dovremmo considerare i dati come il materiale grezzo che deve essere estratto, e le
attività degli utenti come la fonte naturale di questa materia prima8. Proprio come il petrolio, i dati sono un
materiale che va estratto, raffinato e usato in tanti modi diversi. Più dati si posseggono, maggiori sono gli
utilizzi che è possibile fare con essi.
I dati sono stati una risorsa disponibile già da diverso tempo e usati, in maniera minore, in precedenti
modelli di business (particolarmente nel coordinamento della logistica globale nella produzione in ottica
lean). Nel Ventunesimo secolo, tuttavia, la tecnologia che serviva per trasformare attività semplici in dati
registrati è diventata progressivamente sempre più economica; e lo spostamento verso comunicazioni basate
sul digitale ha reso la registrazione via via più semplice. Si sono rese disponibili nuove, enormi quantità di
dati potenziali, e nuove società sono nate proprio per estrarli e usarli per ottimizzare i processi di produzione,
per fornire indicazioni sulle preferenze dei consumatori, per controllare i lavoratori, per creare le basi per
nuovi prodotti e servizi (come ad esempio Google Maps, le auto senza pilota, Siri) e per vendere a
inserzionisti. Tutto ciò ha avuto dei precedenti in periodi antecedenti del capitalismo, ma con il cambiamento
tecnologico quello che è inedito è la quantità assoluta di dati a disposizione da qui in avanti. I dati sono
passati via via dal rappresentare un aspetto periferico degli affari a una loro risorsa centrale. Nei primi anni
del secolo, non era tuttavia chiaro che i dati sarebbero divenuti la materia prima che avrebbe innescato un
enorme cambiamento nel capitalismo9. Gli sforzi crescenti di Google hanno semplicemente messo al centro i
dati per togliere ricavi pubblicitari ai media tradizionali, come giornali o televisione. Google ha fatto un
nobile lavoro nell’organizzare internet, ma da un punto di vista economico nulla di questo è stato
rivoluzionario. Tuttavia, all’espandersi di internet, con le società che sono andate dipendendo sempre più
dalle comunicazioni digitali per ogni aspetto del proprio lavoro, i dati sono diventati sempre più importanti.
Cercherò di dimostrare in questo capitolo che i dati sono arrivati a svolgere un numero di funzioni capitaliste
chiave: educano e danno un vantaggio competitivo agli algoritmi; facilitano il coordinamento e l’outsourcing
dei lavoratori; consentono l’ottimizzazione e la flessibilità dei processi produttivi; rendono possibile la
trasformazione di beni a basso margine in servizi a margine elevato; e, in un circolo virtuoso, va detto che
l’analisi dei dati genera essa stessa altri dati. Visti i significativi avanzamenti nella registrazione e nell’uso dei
dati e considerate le pressioni competitive del capitalismo, forse era inevitabile che questa materia prima
sarebbe arrivata a essere una risorsa immensa dalla quale attingere.
Il problema delle aziende capitaliste, valido ancora oggi, è che i vecchi modelli di business non erano stati
particolarmente ben progettati per estrarre e usare i dati. Il loro metodo di lavoro consisteva nella produzione
di un bene in una fabbrica dove la maggior parte dell’informazione andava persa, poi di venderlo, senza mai
imparare niente sul cliente o sul modo in cui il prodotto stava venendo usato. Anche se la rete logistica
globale di produzione lean ha comunque rappresentato un miglioramento in questo ambito, con poche
eccezioni anche questa è rimasta un modello perdente.
Se le aziende capitaliste volessero approfittare dell’oscillazione nei prezzi di registrazione, servirebbe un
modello di business diverso. In questo capitolo si discuterà del fatto che il nuovo modello aziendale emerso
alla fine è un potente tipo nuovo di società: la piattaforma. Sviluppatesi spesso a causa del bisogno interno di
gestire dati, le piattaforme sono divenute un modo efficace per manipolare, estrarre, analizzare e usare le
quantità di dati sempre più grandi che si stavano memorizzando. Ora, questo modello è finito con
l’espandersi in tutti i settori dell’economia, con numerose società che incorporano piattaforme: potenti
imprese tecnologiche (Google, Facebook e Amazon), start-up vivaci (Uber, Airbnb), giganti industriali
(General Electric, Siemens) e potenze del settore agricolo (John Deere, Monsanto), solo per citarne alcune10.
Cosa sono le piattaforme?11 Genericamente, le piattaforme sono infrastrutture digitali che consentono a
due o più gruppi di interagire12. Quindi si posizionano come intermediari che avvicinano utenti diversi:
clienti, inserzionisti, prestatori di servizi, produttori, fornitori e anche oggetti fisici13. Nella maggior parte dei
casi, queste piattaforme sono anche dotate di strumenti che consentono ai loro utilizzatori di costruirsi
prodotti, servizi e luoghi di vendita personalizzati14. Il sistema operativo Windows di Microsoft lascia che gli
sviluppatori di software creino applicazioni che vengono vendute ai consumatori; l’App Store della Apple e
l’ecosistema a esso associato (XCode e SDK in iOS) fa sì che gli sviluppatori costruiscano e vendano nuove
app agli utenti; il motore di ricerca di Google fornisce una piattaforma agli inserzionisti e ai content provider
avendo come obiettivo chi cerca specifiche informazioni; e l’app taxi di Uber fa scambiare a guidatori e
passeggeri corse in auto in cambio di soldi. Piuttosto che costruire un sito di e-commerce da zero, una
piattaforma mette a disposizione l’infrastruttura di base per conciliare gruppi differenti. Questa è la chiave
del suo vantaggio sui modelli di business tradizionale quando si tratta di dati, poiché una piattaforma si
posiziona (1) fra gli utenti e (2) come il terreno sul quale si svolgono le attività di questi, che così concedono a
essa il permesso privilegiato di registrarli. In quanto piattaforma utilizzata per effettuare ricerche, Google
attinge a una grandissima quantità di attività di questo tipo, espressione dei desideri fluttuanti degli
individui. Uber, in quanto piattaforma per taxi, estrae dati sul traffico e sulle attività di autisti e passeggeri.
Facebook come social network conduce una quantità di delicate interazioni sociali che in seguito possono
essere registrate. E poiché sempre più società spostano le loro interazioni online (come Uber, che declina il
settore dei taxi in chiave digitale), sempre più aziende saranno soggette allo sviluppo delle piattaforme.
Queste, di conseguenza, sono molto di più che società legate a internet o del settore tech, visto che possono
operare in qualunque luogo, dovunque stia svolgendosi un’interazione digitale.
La seconda caratteristica essenziale è che le piattaforme digitali producono e sono dipendenti dagli “effetti
di rete”: più numerosi sono gli utilizzatori di una piattaforma, più valore questa assume per chiunque altro.
Facebook, per esempio, è diventato il social network di default per il solo fatto di avere un grande numero di
persone iscritte. Quando ci si vuole iscrivere a una piattaforma per socializzare, lo si fa su quella dove si
trovano già la maggior parte di amici e familiari. Allo stesso modo, più aumentano gli utenti che cercano su
Google, migliore diventa il loro algoritmo di ricerca, e più utile Google diventa per chi lo usa. Ma questo
genera un ciclo per il quale gli utenti generano nuovi utenti, il che porta le piattaforme ad avere una naturale
tendenza verso la monopolizzazione. Questo offre anche alle piattaforme quella dinamica di un crescente
accesso a più attività, e quindi a più dati. Per di più, l’abilità di ridurre molte attività commerciali su
piattaforma appoggiandosi a un’infrastruttura già esistente e a costi marginali contenuti significa che ci sono
pochi limiti naturali alla crescita. Una ragione, per esempio, dietro la rapida espansione di Uber, è che questo
non ha bisogno di costruire più fabbriche – ha solo bisogno di affittare più server. Unito agli effetti di rete, ciò
significa che le piattaforme possono crescere molto e molto velocemente.
L’importanza degli effetti di rete vuol dire che le piattaforme devono mettere in campo una serie di tattiche
per assicurarsi sempre più utenti. Per esempio – e questa è la terza delle loro caratteristiche – le piattaforme
spesso fanno utilizzo delle sovvenzioni incrociate: un ramo dell’azienda riduce il prezzo di un servizio o di un
bene (magari anche portandolo a essere gratis), ma un altro alza i prezzi per rientrare di quelle perdite. La
struttura del prezzo della piattaforma ha una grande importanza a causa del numero di utenti che vengono
coinvolti e della frequenza con la quale la usano15. Google, per esempio, fornisce gratis servizi come l’email
per far iscrivere utenti, ma guadagna attraverso il proprio ramo pubblicitario. Poiché le piattaforme devono
attirare numeri di utenti da diversi gruppi, una parte della loro attività consiste nel perfezionare l’equilibrio
tra ciò che è a pagamento, ciò che non lo è, ciò che è sovvenzionato e quello che non lo è. Qui siamo molto
lontani da un modello lean, che ambiva a ridurre una società alle proprie competenze di base e svendere tutte
le iniziative non redditizie16.
Infine, le piattaforme sono progettate anche in modo da renderle attraenti a vari tipi di utenti. Spesso si
presentano come spazi vuoti con i quali si può interagire, ma a tutti gli effetti esse sono l’incarnazione di una
forma politica. Le regole dello sviluppo dei prodotti e dei servizi, oltre che le interazioni di mercato, sono
decise da chi possiede la piattaforma. Anche se alle forze di mercato si presenta come un contenitore vuoto,
Uber si modella come mercato. Predice dove ci sarà una domanda di autisti e alza i prezzi prima di
un’effettiva domanda, al tempo stesso creando taxi fantasma per donare l’illusione di una maggiore offerta17.
Nel loro ruolo di intermediarie, le piattaforme guadagnano non solo accesso ad ancora più dati, ma anche
controllo e gestione delle regole di gioco. L’architettura di base delle regole fisse, tuttavia, è anche generativa
in quanto dà modo ad altri di creare in modi inattesi appoggiandosi alla struttura esistente. L’architettura di
Facebook, per esempio, ha dato la possibilità a sviluppatori di produrre app, a società di creare pagine e agli
utenti di condividere informazioni in maniera da attirarne ancora di più. Lo stesso vale per l’App Store di
Apple, che ha consentito la produzione di diverse utili app che hanno spinto utenti e sviluppatori sempre più
all’interno del suo ecosistema. La sfida nel mantenimento delle piattaforme consiste, in parte, nel
riconsiderare le connessioni con le sovvenzioni incrociate e le regole delle piattaforme allo scopo di
continuare a generare l’interesse degli utenti. Anche se gli effetti di rete sostengono fortemente i leader a
livello di piattaforme già esistenti, queste posizioni non risultano inattaccabili.
Le piattaforme, in sintesi, sono un nuovo tipo di azienda; sono caratterizzate dal loro fornire
l’infrastruttura necessaria a mediare tra diversi gruppi di utenti, mostrando tendenze monopolistiche spinte
da effetti di rete, utilizzando sovvenzioni incrociate per attrarre gruppi di utenti differenti e usando
un’architettura di base che regola le possibilità di interazione.
Possedere una piattaforma, a sua volta, è essenzialmente possedere il software (i 2 miliardi di linee di
codice di Google, e i 20 milioni di linee di codice di Facebook)18 e l’hardware (i server, i centri dati, gli
smartphone e così via), costruito appoggiandosi a materiale open source (per esempio, Facebook utilizza il
sistema di gestione dati Hadoop)19. Tutte queste caratteristiche fanno delle piattaforme dei modelli di
business cardine nell’acquisizione e controllo dei dati. Mettendo a disposizione uno spazio digitale all’interno
del quale interagire, le piattaforme si posizionano in modo da estrarre dati da processi naturali (condizioni
meteo, cicli delle colture, eccetera), da processi produttivi (catene di montaggio, fabbricazione a ciclo
continuo, eccetera), e da altre attività e utenti (web tracking, dati di traffico, eccetera). Sono un apparato per
acquisire dati.
Il resto di questo capitolo offrirà una panoramica sul contesto emergente delle piattaforme, presentandone
cinque tipi diversi. Per ognuna di queste aree, l’elemento importante è che la classe capitalista possieda la
piattaforma, non necessariamente che produca un prodotto fisico.
Il primo tipo è quello delle piattaforme di advertising (per esempio Google o Facebook) che acquisiscono
informazioni dai propri utenti, intraprende un lavoro di analisi e poi usano il prodotto di quel processo per
vendere spazi pubblicitari. Il secondo tipo è quello delle piattaforme cloud (come AWS, Salesforce), che
posseggono l’hardware e il software di aziende che dipendono dal digitale e che li affittano secondo bisogno.
Il terzo tipo sono le piattaforme industriali (General Electric, Siemens) che costruiscono l’hardware e il
software necessario per trasformare la produzione di tipo tradizionale in processi connessi a internet che
diminuiscono i costi di produzione e trasformano beni in servizi. Il quarto tipo sono le piattaforme prodotto
(come Rolls Royce o Spotify) che generano ricavi usando altre piattaforme per trasformare un bene
tradizionale in un servizio e incassando un canone o una quota di abbonamento in cambio di essi. Infine, il
quinto tipo sono le piattaforme lean (come Uber o Airbnb) che cercano di ridurre la proprietà di attività al
minimo e creano profitto riducendo i costi il più possibile. Queste distinzioni analitiche possono presentarsi
contemporaneamente all’interno di una stessa azienda, e spesso lo fanno. Amazon, per esempio, è vista
spesso come una società di e-commerce, ma si è anche rapidamente allargata fino a divenire una società di
logistica. Oggi si sta espandendo verso il mercato on demand con un programma di Home Services in
partnership con TaskRabbit, mentre il tristemente famoso Mechanical Turk (AMT) in un certo senso ha
anticipato la gig economy e, cosa ancora più importante, sta permettendo che gli Amazon Web Services si
trasformino in un servizio cloud. Amazon, dunque, abbraccia quasi tutte le categorie sopra descritte.
Piattaforme di advertising
Le più anziane in questa nuova forma di impresa, le piattaforme di advertising rappresentano il tentativo
iniziale di costruire un modello adeguato all’era digitale. Come vedremo, hanno favorito direttamente o
indirettamente lo sviluppo dei più recenti trend tecnologici – dalla sharing economy all’internet industriale.
Sono emerse dal crollo delle Dot-com, alimentato dal credito facile, il cui effetto è stato duplice. Uno dei suoi
aspetti è che molti competitor sono crollati, lasciando le diverse aree dell’universo tech sempre più sotto il
controllo delle imprese sopravvissute.
L’improvvisa mancanza di volontà da parte del venture capital (VC) a finanziare nuove entrate ha voluto
dire che anche l’ingresso allo scenario competitivo è rimasto chiuso. Le tendenze monopolistiche del primo
boom del settore tech si sono solidificate in questa sede, mentre una nuova gamma di società dominanti sono
emerse da quelle ceneri, continuando a imporsi da allora. L’altra importante conseguenza del crollo è stata
che l’esaurirsi del VC e dei finanziamenti azionari ha messo sotto pressione le società legate a internet
affinché generassero ricavi. Nel bel mezzo del boom non esisteva un metodo nettamente dominante per
generare un flusso di gettito sostenibile – le società si dividevano diverse proposte in maniera relativamente
simile20. A ogni modo, la centralità del marketing per finanziare la strategia di capitale “crescita prima dei
profitti” significava che le aziende del settore Dot-com avevano già gettato le basi per un modello di business
orientato verso la pubblicità e l’attirare clienti. Queste società spendevano, in percentuale rispetto alle
entrate, 3-4 volte di più degli altri settori in pubblicità, ed erano pioniere anche nell’acquisto di pubblicità
online21. Quando la bolla scoppiò, fu forse inevitabile che queste aziende finissero col rivolgersi alla
pubblicità come la principale fonte di entrate. Google e Facebook sono arrivate ad avere un ruolo di spicco in
questo processo.
Creata nel 1997, Google è stata fra le prime a ricevere capitali di rischio nel 1998, ricevendo poi una grossa
tornata di investimenti nel 1999, per 25 milioni di dollari. A quel punto, essa aveva raccolto dati dei propri
utenti ottenendoli dalle ricerche effettuate, e aveva usato questi dati per migliorare le ricerche stesse22.
Questo è un esempio dell’uso tipico di dati nel capitalismo: serviva a migliorare i propri servizi per clienti e
utenti. Tuttavia non rimaneva del valore dal quale Google potesse generare ricavi. All’indomani dello scoppio
della bolla delle Dot-com, Google si trovò a dover trovare sempre più urgentemente un modo per crearne, ma
un servizio a pagamento avrebbe rischiato di alienare gli utenti che avevano rappresentato la base del suo
successo. Alla fine, iniziò a usare i dati delle ricerche insieme a cookies e altri frammenti di informazioni per
vendere spazi pubblicitari targetizzati attraverso un sistema di aste sempre più automatizzato23. Con il
NASDAQ al proprio picco del marzo del 2000, Google presentò AdWords a ottobre di quell’anno, iniziando la
propria trasformazione in azienda che produce ricavi. I dati estratti passarono dall’essere una maniera di
migliorare i servizi a quella per raccogliere introiti provenienti dal piazzamento di pubblicità.
Oggi Google e Facebook ne sono ancora quasi completamente dipendenti. Nei primi quattro mesi del 2016,
l’89 per cento delle entrate di Google e il 96,6 di quelle di Facebook sono arrivati dagli inserzionisti.
Questa è una parte integrante di un passaggio più ampio, nei primi anni del nuovo millennio, verso il web
2.0, fondato più sul contenuto creato dagli utenti che su vetrine digitali, e sulle interfacce multimediali e non
tanto sul testo statico. Sulla stampa, questo mutamento fu confezionato con una retorica di
democratizzazione della comunicazione, all’interno della quale chiunque sarebbe stato in grado di creare e
condividere contenuti online. I giornali e gli altri media non avrebbero più avuto il monopolio su quanto
veniva amplificato all’interno della società.
Per i teorici critici del web, questa stessa retorica nascondeva il passaggio a modelli di business basati sullo
sfruttamento del “lavoro gratuito”24. Dal loro punto di vista, la storia di come Google e Facebook producono
introiti è semplice: gli utenti sono lavoratori non pagati che producono beni (dati e contenuti) che sono loro
tolti e venduti dalle società agli inserzionisti e altri soggetti interessati. Questa versione però presenta diversi
problemi. Un primo nodo relativo al discorso sul lavoro gratuito è che spesso scivola verso grandi
dichiarazioni metafisiche. Ogni interazione sociale diventa lavoro gratuito per il capitalismo, e iniziamo a
preoccuparci che non ci sia via di uscita da esso. Il lavoro diventa inestricabile dal non lavoro e le categorie
esatte diventano sfumate, secondarie. È importante, tuttavia, tracciare delle distinzioni tra le interazioni che
avvengono su piattaforma e quelle al di fuori di essa, così come tra le interazioni che avvengono su
piattaforme orientate al profitto e piattaforme di altro genere25. Non tutte – e neanche la maggior parte –
delle nostre interazioni vengono cooptate in un sistema di generazione di profitto. In realtà una della ragioni
per le quali le aziende competono nel costruire piattaforme è che la maggioranza delle nostre interazioni
sociali non entrano in un processo di valorizzazione. Se tutte le nostre azioni fossero già state acquisite
nell’ambito di una valorizzazione capitalistica, non si capisce perché si dovrebbero costruire apparati
estrattivi come sono le piattaforme. Più in generale, il “lavoro gratuito” è solo una porzione della moltitudine
di fonti di dati sui quali fa affidamento un’azienda come Google: transazioni economiche, informazioni
raccolte da sensori con l’Internet delle cose, dati aziendali e governativi (come rapporti di credito e
finanziari), e sorveglianza privata e pubblica (come nel caso delle auto usate per costruire Google Maps)26.
Eppure, anche limitando la nostra attenzione ai dati creati dagli utenti, è giusto chiamare questa attività
con il termine lavoro? Nel contesto marxista, lavoro è un termine che ha un significato molto preciso: è
un’attività che genera un plusvalore in un contesto di mercati del lavoro, e un processo di produzione
orientato verso lo scambio. Se l’interazione sociale sia o no parte della produzione capitalista non è solo una
noiosa disquisizione accademica sulle definizioni. L’importanza del fatto che questa interazione costituisca o
no lavoro gratuito ha delle conseguenze. Se è capitalista, allora sarà soggetta alle stesse tensioni da parte di
tutti i consueti imperativi capitalisti: bisognerà razionalizzare i processi produttivi, abbassare i costi,
aumentare la produttività, e via discorrendo. Se non lo è, allora quelle richieste non saranno fatte.
Nell’esaminare le attività degli utenti online, è difficile sostenere si tratti di lavoro in senso stretto. Oltre
l’esitazione intuitiva a pensare ai messaggi mandati agli amici come lavoro, nessuna idea di ore di lavoro
socialmente necessarie – lo standard implicito sul quale si settano i processi produttivi – viene soddisfatta.
Questo vuol dire che non ci sono pressioni competitive che spingano gli utenti a fare di più, anche se ci sono
pressioni a che facciano di più online. Più in generale, se le nostre interazioni online sono lavoro gratuito,
allora queste società devono rappresentare un vantaggio significativo per il capitalismo in generale e aver
aperto uno scenario di sfruttamento del lavoro completamente nuovo. D’altro canto, se queste non
costituiscono lavoro gratuito, allora queste società sono parassitarie rispetto ad altre aziende che invece
producono valore, e il capitalismo globale di conseguenza gode di pessima salute. Uno sguardo veloce
all’economia stagnante mondiale suggerisce che il secondo scenario sia più probabile.
Invece di sfruttare del lavoro gratuito, la posizione qui presa è che le piattaforme di pubblicità si
approprino dei dati come materia prima. Le attività degli utenti e delle istituzioni, se registrate e trasformate
in dati, diventano sostanza che può essere raffinata e usata in varie maniere dalle piattaforme. Con le
piattaforme di pubblicità, in particolare, i ricavi sono generati attraverso l’estrazione dei dati dalle attività
online degli utenti, dall’analisi di quei dati, e dalle aste di spazi pubblicitari agli inserzionisti. Questo
comprende l’ottenimento di due processi. Prima di tutto, le piattaforme di pubblicità hanno bisogno di
osservare e registrare le attività online. Maggiore è il numero di utenti che interagiscono con un sito, più
informazioni possono essere raccolte e usate. Mentre gli utenti vagano per internet vengono monitorati con
cookies e altri strumenti, e questi dati sono ancora più approfonditi e hanno più valore per gli inserzionisti.
Nell’economia digitale avviene una confluenza tra sorveglianza e fini di lucro, che porta alcuni a parlare in
termini di “capitalismo del controllo”27. Cruciale ai fini dei profitti, a ogni modo, non è la sola raccolta dei
dati, ma anche la loro analisi. Gli inserzionisti sono meno interessati ai dati non organizzati e più ai dati che
danno loro spunti utili o che li accoppiano a potenziali consumatori. Si tratta di dati sui quali si è lavorato28.
Si è applicato loro un qualche processo, o attraverso il lavoro qualificato di un data scientist o con la
manodopera automatizzata di un algoritmo di tipo machine learning. Quello che è venduto agli inserzionisti
dunque non sono i dati in quanto tali (gli inserzionisti non ricevono dati personalizzati) ma piuttosto la
promessa che il software di Google farà abilmente incontrare un inserzionista con gli utenti più adatti al
momento del bisogno.
Se il modello di estrazione dei dati è stato rilevante per il mondo online, è anche vero che ha fatto il salto
verso il mondo offline. Tesco, uno dei più grandi supermercati al mondo, possiede Dunnhumby, una società
inglese di ricerche sui consumatori, valutata intorno ai 2 miliardi di dollari (la branca americana della società
è stata da poco venduta alla Kroger, uno delle più grande catene negli USA). L’azienda lavora sul
monitoraggio dei consumatori sia online che offline, con l’utilizzo di quelle informazioni che vengono vendute
a clienti come Coca Cola, Macy’s e Office Depot. Ha cercato anche di costituire una piattaforma
monopolistica, attraverso una carta fedeltà che attira clienti nei negozi Tesco con la promessa di premi. Allo
stesso tempo, vengono registrate informazioni ancora più varie sui consumatori (a tal punto che l’azienda
addirittura suggerisce l’uso di wearable devices come sorgente di dati relativi alla salute dei clienti)29. Anche
società non tech stanno sviluppando database di utenti e usando dati per adattarsi alle tendenze in materia di
consumi, per vendere beni in maniera efficace ai clienti. L’estrazione dei dati sta divenendo un metodo
cruciale per costruire una piattaforma monopolistica e per sottrarre risorse agli inserzionisti.
Queste piattaforme pubblicitarie sono al momento le più fortunate fra tutte quelle business, perché hanno
alti ricavi, profitti sostanziosi e un dinamismo vigoroso. Ma cosa fanno con i loro ricavi? I livelli degli
investimenti rimangono bassi negli USA, nel Regno Unito e in Germania, quindi c’è stata poca crescita di
capitale fisso. Invece queste società hanno teso a fare tre cose con i propri soldi. Una è stata di conservarli, e
alti livelli di liquidità aziendale sono stati un fenomeno bizzarro nell’epoca post-2008. Come si è visto nel
Capitolo I, le società del settore tech hanno preso una quantità sproporzionatamente alta di questo eccesso di
contante. Anche i leader dell’evasione fiscale sono società tech: Google, Apple, Facebook, Amazon e Uber.
Questi soldi sono stati secondariamente utilizzati per fusioni e acquisizioni di alto livello – un processo che
centralizza la capacità esistente invece di costruirne di nuova. Fra le grandi compagnie tech, Google ha
effettuato il maggior numero di acquisizioni negli ultimi cinque anni (in media, acquisisce una nuova società
a settimana)30, mentre Facebook ha compiuto quelle più grandi (per esempio comprando WhatsApp per 22
miliardi di dollari)31. Quando Google ha creato la Alphabet Record Company nel 2015 è stato come parte
integrante di questo processo; si è trattato di uno sforzo progettato per rendere Google in grado di acquisire
società in ambiti industriali diversi ma allo stesso tempo dando loro una chiara differenziazione rispetto al
proprio core business. In terza battuta, queste società hanno incanalato i loro soldi in start-up del settore
tech, con molte delle piattaforme di pubblicità a rappresentare i grandi investitori di questo ambito. Come
vedremo, esse stesse hanno creato le condizioni del più recente boom del settore tech. Cosa più importante,
tuttavia, esse hanno creato un modello di business – la piattaforma – che ora viene replicato in molti settori
diversi.
Piattaforme cloud
Se piattaforme di pubblicità come Google e Facebook hanno creato le condizioni per estrarre e usare quantità
massicce di dati, le emergenti piattaforme cloud rappresentano il passo che ha consolidato la piattaforma
come un business model unico e potente. La storia dell’affitto corporate del cloud inizia con l’e-commerce,
negli anni Novanta. Alla fine del decennio, le società del settore pensavano di poter delocalizzare gli aspetti
materiali dello scambio ad altri. Ma questo non fu sufficiente, e le società finirono col prendersi la
responsabilità di costruire magazzini e network logistici, assumendo grandi quantità di lavoratori32. Al 2016,
Amazon ha investito in immensi data center, in robot per gli spostamenti all’interno dei magazzini e in
massicci sistemi informatici, ha fatto da pioniere nell’uso di droni per le consegne e di recente ha iniziato a
noleggiare aerei per il suo settore spedizioni33. È anche e di gran lunga il più grande datore di lavoro della
digital economy, con 230.000 impiegati e decine di migliaia di lavoratori stagionali, la maggior parte dei
quali eseguono lavori a basso costo e ad alto stress in magazzino. Per crescere come piattaforma di e-
commerce, Amazon ha cercato di attrarre più utenti possibili con sovvenzioni incrociate. A detta di tutti, il
servizio di consegna Amazon Prime perde soldi a ogni ordine, e il reader di e-book Kindle viene venduto a
prezzo di costo34. Usando le metriche tradizionali per le produzioni di tipo lean, ciò rimane incomprensibile:
le iniziative svantaggiose dovrebbero essere tagliate. Eppure la consegna rapida ed economica è una delle vie
principali con le quali Amazon attira gli utenti sulla propria piattaforma per generare profitti altrove.
Nel momento in cui veniva costruita una enorme rete logistica, Amazon Web Services (AWS) è stata
sviluppata come piattaforma interna, al fine di gestire la logistica sempre più complessa della società. In
effetti, un tema comune nella genesi delle piattaforme è che queste emergono spesso dalle necessità interne
dell’azienda. Amazon aveva bisogno di modi per sviluppare nuovi servizi in maniera veloce, e la risposta è
stata di creare l’infrastruttura di base in una maniera che rendeva possibile ai nuovi servizi un suo utilizzo
semplice35. Presto è stato chiarito che questo avrebbe potuto essere noleggiato anche ad altre società. E in
effetti AWS affitta servizi di cloud computing, fra i quali servizi on demand per server, capacità
computazionale e di immagazzinamento, strumenti per sviluppo software e sistemi operativi, insieme ad
applicazioni ready-made36. L’utilità di una simile pratica per altre società è che queste non hanno bisogno di
impiegare tempo e denaro per costruire il proprio sistema di hardware, il proprio kit di sviluppo software o le
proprie applicazioni. Basta semplicemente affittarle “secondo necessità”. Il software, per esempio, è sempre
più utilizzato dietro abbonamento: Adobe, Google e Microsoft hanno tutte iniziato a incorporare questa
pratica. Allo stesso modo, i sofisticati strumenti analitici che Google ha sviluppato ora iniziano a essere
affittati come parte del suo concorrente AWS37. Altre società ora possono noleggiare la capacità di usare
algoritmi di riconoscimento dei pattern, e servizi di trascrizioni audio. In altre parole, Google vende i propri
processi di machine learning (ed è proprio questo il punto in cui Google vede il proprio vantaggio rispetto ai
competitor nell’ambito del cloud computing). Microsoft, nel frattempo, ha costruito una piattaforma di
intelligenza artificiale che dà alle aziende gli strumenti di sviluppo software che permettono loro di costruirsi
i propri bot (“intelligenza in quanto servizio”, in gergo contemporaneo). E la International Business Machines
(la IBM) sta muovendosi per trasformare in realtà il cloud computing quantico38. Le piattaforme cloud, in
buona sostanza, permettono la delocalizzazione di gran parte dei reparti di information technology (IT) di
ogni azienda. Questo processo estromette i knowledge worker e spesso consente anche l’automatizzazione
del loro lavoro. L’analisi dei dati, la conservazione delle informazioni dei clienti, il mantenimento dei server
di un’azienda – tutto questo può essere mandato nel cloud e giustifica la logica capitalista che porta
all’utilizzo di queste piattaforme.
La logica che c’è dietro è simile a quella del funzionamento dei servizi. Jeff Bezos, direttore generale di
Amazon, lo paragona all’approvvigionamento di elettricità: mentre le prime fabbriche avevano tutte il loro
personale gruppo elettrogeno, alla fine la produzione di elettricità venne centralizzata per essere noleggiata
“secondo necessità”. Oggi ogni area dell’economia è sempre più integrata di strati digitali: per questo motivo,
possedere l’infrastruttura necessaria a ogni altro tipo di industria è una posizione di immensa potenza e dalla
quale trarre enormi profitti. In più, il significato della piattaforma cloud nel caso dell’estrazione di dati è che
il suo modello di noleggio le permette di raccogliere dati continuamente, mentre il più vecchio modello
acquisto portava a venderli in quanto beni che a quel punto venivano separati dall’azienda. Nello spostare le
attività delle aziende su piattaforme cloud, società come Amazon acquisiscono l’accesso a nuovi, completi set
di dati (anche se alcuni sono preclusi alla piattaforma). Non è sorprendente, allora, che AWS sia al momento
valutata intorno ai 70 miliardi di dollari39, e che importanti competitor come Microsoft e Google si stiano
muovendo nel settore, insieme ai cinesi di Alibaba. AWS è attualmente la parte di Amazon che cresce più
velocemente – nonché la più redditizia, con margini di circa il 30 per cento e quasi 8 miliardi di ricavi nel
2015. Nei primi quattro mesi del 2016, AWS ha creato più guadagni del core business di vendita al dettaglio
in Amazon40. Se Google e Facebook hanno costruito le prime piattaforme per l’estrazione di dati, Amazon ha
costruito la prima grande piattaforma cloud allo scopo di affittare ad aziende contemporanee un mezzo di
produzione sempre più essenziale. Invece di contare sull’acquisto di dati da parte degli inserzionisti, queste
piattaforme cloud stanno costruendo l’infrastruttura base dell’economia digitale in maniera che possa essere
affittata o noleggiata ad altri in maniera da creare profitti, allo stesso tempo raccogliendo dati per i loro usi
personali.
Piattaforme industriali
Visto che la raccolta dati, la loro conservazione e analisi sono diventati sempre più economici, sempre più
società hanno cercato di portare le piattaforme nel campo dell’industria manifatturiera tradizionale. Il più
significativo di questi tentativi si trova nella categoria dell’‘Internet degli oggetti industriale’, o per semplicità
“l’internet industriale”. Al suo livello più semplice, l’Internet industriale prevede l’impianto di sensori e chip
di computer nel processo produttivo e di tracker (come i RFID) nel processo logistico, tutti connessi l’uno
con l’altro attraverso connessioni a internet. In Germania si parla del processo come di “Industria 4.0”. L’idea
è che ogni componente del processo produttivo diventi capace di comunicare con macchine di assemblaggio e
altre componenti, senza la guida di lavoratori o manager. I dati sulla posizione e lo stato di questi componenti
sono costantemente condivisi con altri elementi che fanno parte del processo produttivo. Secondo questa
visione, i beni materiali diventano inseparabili dalle loro rappresentazioni informative. Secondo i suoi fan,
l’Internet industriale ottimizzerà il processo produttivo: si è convinti che sarà in grado di ridurre il costo del
lavoro del 25 per cento, di ridurre il costo dell’energia del 20 per cento (con, per esempio, i centri dati in
grado di distribuire energia dove serve e solo al momento del bisogno), di ridurre i costi di manutenzione del
40 per cento attraverso l’emissione di allarmi in caso di usura, di ridurre i fermo macchina programmandoli
in momenti appropriati, e di ridurre gli errori, migliorando la qualità41. L’Internet industriale promette, in
effetti, di rendere il processo produttivo più efficiente, facendo per lo più quello che la produzione
competitiva ha già fatto da qualche tempo a questa parte: riducendo costi e fermo macchina.
Contemporaneamente, ambisce anche a legare maggiormente processo produttivo e processo realizzativo.
Piuttosto che appoggiarsi a focus group e sondaggi, i produttori sperano di sviluppare nuovi prodotti e
progettare nuove funzioni sulla base dei dati estratti da prodotti già esistenti (anche usando metodologie
online come l’A/B test per raggiungere il risultato)42. L’Internet industriale consente anche la
customizzazione di massa. In una delle prove di fabbrica della BASF SE, il più grande produttore di sostanze
chimiche al mondo, la linea di assemblaggio è in grado di personalizzare ogni unità in arrivo: singole bottiglie
di sapone possono avere differenti profumi, colori, etichette, tutte prodotte in automatico una volta che un
cliente effettua un ordine43. Il ciclo di vita di un prodotto, di conseguenza, può essere ridotto
significativamente.
Mentre le fabbriche iniziano a implementare i componenti per l’internet industriale, una sfida enorme sta
contribuendo a instaurare uno standard comune a livello di comunicazione: c’è bisogno di garantire
interoperabilità fra componentistica, e specialmente nel caso di macchinari più vecchi. È qui che entrano in
gioco le piattaforme industriali, che funzionano come il core framework di base nel collegare sensori e
azionatori, fabbriche e fornitori, produttori e consumatori, software e hardware. Queste sono le future
superpotenze dell’industria, che stanno costruendo l’hardware e il software che faranno funzionare l’Internet
delle industrie all’interno di turbine, pozzi di petrolio, motori, negli impianti di produzione, fra le flotte di
camion e in tanti altri settori. Come evidenziato da una relazione, con l’internet industriale “a vincere saranno
quelli che posseggono le piattaforme”44. Quindi non è sorprendente vedere superpotenze dell’industria
manifatturiera tradizionale come la General Electric (GE) o la Siemens, insieme a nomi storici del settore tech
come Intel e Microsoft, spingere verso un grande sviluppo delle piattaforme per l’internet industriale.
Siemens ha speso oltre 4 miliardi di euro per inglobare delle capacità produttive smart e per costruire la
propria piattaforma industriale, MindSphere45, mentre GE ha lavorato rapidamente per sviluppare la
propria, Predix. Il campo finora è stato dominato da queste aziende già consolidate invece che essere soggetto
a un’affluenza di nuove start-up. E anche quelle del settore dell’Internet industriale sono per lo più finanziate
dalla vecchia guardia (quattro su cinque dei più importanti investitori), il che ha mantenuto i fondi per il
settore in alto per il 2016, nonostante un generale rallentamento in altri ambiti analoghi46. La conversione
alle piattaforme industriali è anche un’espressione della concorrenza economica nazionale, visto che la
Germania (una superpotenza nel ramo dell’industria manifatturiera tradizionale con la Siemens) e gli Stati
Uniti (una superpotenza tecnologica grazie alla GE) sono fra i principali sostenitori di questo passaggio. La
Germania ha entusiasticamente aderito all’idea e sviluppato un consorzio domestico per supportare il
progetto, così come successo negli Stati Uniti, dove aziende come GE, Intel, Cisco e IBM hanno fatto squadra
col governo in un analogo consorzio no profit che spinge verso le produzioni smart. Al momento il suo
equivalente tedesco ambisce semplicemente ad aumentare la consapevolezza e il sostegno nei confronti
dell’Internet industriale, mentre il consorzio americano sta attivamente rafforzando le sperimentazioni con le
tecnologie.
La concorrenza è fondamentalmente sull’abilità di arrivare a costruire una piattaforma monopolista per la
produzione: “È un caso in cui il vincitore si prenderà tutto”, è l’opinione dell’amministratore delegato di
GE47. Sia Predix che MindSphere offrono già servizi infrastrutturali (computing su cloud), strumenti di
sviluppo e applicazioni per gestire l’Internet industriale (vale a dire un app store per le fabbriche). Invece di
avere aziende che sviluppano il loro software personale per gestire l’Internet industriale, queste piattaforme
concedono l’utilizzo degli strumenti che servono. Servono competenze tecniche per, ad esempio, far fronte
alla massiccia quantità di dati che verranno prodotti e per sviluppare nuovi strumenti analitici per cose come
dati di serie temporali e dati geografici. Il ramo del gas naturale liquido in GE sta da solo già erogando la
stessa quantità di dati di Facebook e richiede una serie di strumenti dedicati per gestirne l’afflusso48. Lo
stesso vale per quel software disegnato per raccogliere e analizzare big data, per modellare sistemi inseriti nel
mondo fisico, oppure per quello che regola cambiamenti in impianti e centrali elettriche. Queste piattaforme
mettono anche a disposizione l’hardware (server, memorie e così via) che servono a gestire l’Internet
industriale. In competizione con piattaforme più generiche come AWS, le piattaforme industriali si vendono
come in possesso di conoscenze insider sulla produzione e sulla sicurezza necessaria a gestire un simile
sistema. Come altre piattaforme, queste società industriali si affidano all’estrazione dei dati come a uno
strumento per competere contro i loro concorrenti, strumento che garantisce servizi più veloci, più
economici, più flessibili. Posizionandosi come intermediari tra impianti, consumatori e sviluppatori di app,
queste piattaforme si pongono idealmente come monitoraggio di molta parte del funzionamento della
produzione globale, dal più piccolo attuatore all’impianto più grande, e traggono da questi dati per
solidificare ulteriormente la propria posizione di monopolio. Mettendo in campo una strategia da piattaforma
standard, sia Siemens che GE mantengono anche un’apertura in termini di chi può connettersi a questa, dove
sono immagazzinati i dati (sul sito o sul cloud) e chi può costruire delle app per essa. Gli effetti di rete sono,
come sempre, essenziali per guadagnare una posizione monopolistica, e questa apertura fa sì che le aziende
acquisiscano sempre più utenti. Queste piattaforme sono già fonti di grossi ricavi per le società: Predix
attualmente porta in GE 5 miliardi di dollari e ci si aspetta che triplicherà i ricavi entro il 202049. Le
previsioni valutano il settore a 225 miliardi di dollari entro il 2020 – più dell’internet delle cose per i
consumatori e del cloud computing per le imprese50. Ciononostante, a dimostrazione della potenza dei
monopoli, GE continua a usare AWS per i propri bisogni interni51.
Piattaforme prodotto
Cosa importante, gli sviluppi precedenti – in particolare quelli dell’Internet delle cose e del cloud computing
– hanno reso possibile un nuovo tipo di piattaforma on demand. Sono due modelli di business strettamente
connessi ma ben distinti: la piattaforma prodotto e la piattaforma lean. Si considerino per esempio Uber e
Zipcar; entrambe sono piattaforme progettate per consumatori che vogliono noleggiare un bene per un certo
periodo di tempo. Anche se sotto questo profilo sono simili, i loro modelli di business sono diversi in maniera
significativa. Zipcar possiede i beni che noleggia, i veicoli; Uber no. La prima è una piattaforma prodotto,
mentre la seconda è una piattaforma lean che cerca di delocalizzare quasi tutti i possibili costi (anche se Uber
vuole dirigere una flotta di auto che si guidano da sole, il che la trasformerebbe in piattaforma prodotto).
Zipcar, invece, potrebbe essere considerata come una piattaforma del tipo “beni come servizio”.
Le piattaforme prodotto sono forse uno dei modi maggiori in cui le società cercano di recuperare la
tendenza a costi marginali zero attraverso alcuni beni. La musica è il migliore degli esempi, visto che nei tardi
anni Novanta scaricarla gratis era diventato facile quanto installare un programmino. I profitti delle etichette
discografiche accusarono il colpo e al tempo stesso i consumatori smisero di comprare CD e altri supporti
fisici. Eppure, nonostante i numerosi necrologi, l’industria musicale si è ripresa di recente attraverso
piattaforme (Spotify, Pandora) che si appropriano delle quote degli ascoltatori, delle etichette e degli
inserzionisti. Fra il 2010 e il 2014, i servizi di abbonamento hanno visto i numeri di utenti schizzare verso
l’alto, da 8 milioni a 41, e i ricavi dalle subscription sono pronti a superare quelle dei download in quanto
maggior fonte di guadagni nel settore musicale52. Dopo anni di declino, l’industria musicale è pronta a
vedere i propri ricavi tornare a crescere nel 2016. Anche se i servizi in abbonamento esistono da secoli, per
esempio nei quotidiani, quello che oggi appare nuovo è il loro allargamento ad altri ambiti: alloggi, auto,
spazzolini, rasoi, addirittura aerei privati. Ciò che in parte ha permesso a queste piattaforme prodotto di
prosperare negli ultimi anni è la stagnazione a livello di salari e la diminuzione dei risparmi, come si è
sottolineato nel Capitolo I. Se meno soldi vengono messi da parte, acquisti importanti come auto e case
diventano quasi impossibili e commissioni anticipate, apparentemente più economiche, appaiono più
allettanti. Nel Regno Unito, per esempio, la proprietà di immobili è andata diminuendo dal 2008 in avanti,
mentre gli affitti privati sono andati impennandosi53.
Le piattaforme on demand non hanno un impatto solamente su software e beni di consumo. Uno dei
primissimi colpi all’economia on demand si basava sui prodotti manifatturieri, in particolare quelli durevoli.
Il più potente di questi sforzi è stata la trasformazione dell’attività di produzione di motori per aerei da una di
vendita a una di noleggio. I maggiori tre produttori – Rolls Royce, GE e Pratt & Whitney – si sono tutti
convertiti a questo modello di business, con Rolls Royce a guidare la fila già nei tardi anni Novanta. Il
modello storico in cui si costruiva un motore per venderlo a una compagnia aerea era un tipo di business con
margini relativamente bassi e alti livelli di competizione. Le dinamiche competitive tratteggiate nel Capitolo I
sono magnificamente illustrate in questa situazione. Nei passati quarant’anni, l’industria dei motori per aerei
è stata caratterizzata da pochissime nuove aziende, e nessuna ha lasciato il settore54. Al contrario, le tre
principali società hanno gareggiato intensamente fra loro introducendo miglioramenti tecnologici
incrementali, nel tentativo di guadagnare un margine di vantaggio. Questa competizione tecnologica continua
anche oggi, con l’industria dei motori per aerei che precorre l’uso della stampa 3D (per esempio, il più famoso
motore per aerei della GE ha una quantità di parti che ormai vengono stampate in 3D invece di essere saldate
insieme nei loro diversi componenti55). I margini sui motori stessi tuttavia rimangono bassi, e la
competizione è serrata. Per contro, la manutenzione di questi motori implica margini di profitto molto più
alti – sette volte più alti, secondo le stime56. La scommessa, con la manutenzione, è che è molto facile per
competitor esterni inserirsi nel mercato portandosi via i profitti. Questo ha spinto la Rolls Royce a introdurre
il modello “beni come servizio”, dove le compagnie aeree non comprano il motore ma pagano una quota per
ogni ora di utilizzo. In cambio, Rolls Royce fornisce la manutenzione e i pezzi di ricambio.
La materia prima dei dati rimane centrale in questo tipo di piattaforma esattamente come nelle altre. Dei
sensori sono installati su ogni motore e quantità massicce di dati sono estratte da ogni volo, incrociati con
dati sul tempo e informazioni sul controllo del traffico aereo, e inviati a un centro di comando in Inghilterra.
Vengono ottenute così informazioni sull’usura dei motori, su problemi possibili e tempistiche per la
programmazione della manutenzione. Questi dati sono immensamente utili per tagliare fuori i competitor e
per assicurarsi un vantaggio competitivo contro ogni tipo di società di manutenzione che speri di sfondare sul
mercato. I dati sulla performance dei motori sono anche fondamentali nello sviluppo di nuovi modelli: hanno
permesso alla Rolls Royce di migliorare il consumo di carburante e di prolungare la vita dei motori stessi,
generando un altro vantaggio concorrenziale sugli altri produttori dello stesso ramo. Ancora una volta, le
piattaforme sembrano essere una forma ottimale per estrarre dati e usarli per guadagnare margini sui
competitor. I dati e gli effetti di rete derivanti dalla loro estrazione permettono all’azienda di stabilire una
supremazia.
Piattaforme lean
Nel contesto di tutto ciò che è stato descritto, è difficile non considerare le nuove piattaforme lean come un
ritorno alle primi fasi dell’economia abilitata da internet. Mentre le prime piattaforme hanno tutte sviluppato
modelli di business che generano profitti in qualche modo, le odierne piattaforme lean sono tornate al
modello “crescita prima dei profitti” degli anni Novanta. Aziende come Uber e Airbnb sono rapidamente
divenute nomi prestigiosi e sono giunte a caratterizzare questo rianimato modello di business. Queste
piattaforme vanno da società che si specializzano in diversi servizi (pulizie, visite a domicilio da parte di
medici, spesa in generi alimentari, riparazioni idrauliche e così via) a comunità più generiche come
TaskRabbit e Mechanical Turk, che garantiscono una vasta gamma di prestazioni. Tutti, ad ogni modo,
cercano di affermarsi come la piattaforma sulla quale utenti, clienti e lavoratori possono incontrarsi. Perché
le chiamiamo piattaforme lean? La risposta è in un’osservazione che viene citata spesso: “Uber, la più grande
società di taxi al mondo, non possiede veicoli [...] e Airbnb, il più grande erogatore di servizi ricettivi, non
possiede immobili”57. Sembrerebbe che si tratti di società senza patrimonio: potremmo chiamarle
piattaforme virtuali58. La chiave è che queste invece posseggono quello che è il bene più importante: la
piattaforma di software e analisi dei dati. Le piattaforme lean operano con un modello iper-delocalizzato, ove
i lavoratori sono delocalizzati, il capitale fisso è delocalizzato, i costi di manutenzione sono delocalizzati, e la
formazione è delocalizzata. Non resta che un estrattivo minimo indispensabile – il controllo sulla piattaforma
che consente di acquisire una rendita di monopolio.
La parte più conosciuta di queste società è la delocalizzazione dei lavoratori. Negli Stati Uniti, queste
piattaforme intendono dal punto di vista legale i propri lavoratori “come collaboratori autonomi” piuttosto
che come “impiegati”. Questo permette alle aziende di risparmiare circa il 30 per cento sui costi del personale
tagliando i benefit, gli straordinari, i giorni di malattia e altro ancora59. Questo implica anche delocalizzare i
costi di formazione, visto che è accessibile solo agli impiegati: e questo processo ha condotto a forme
alternative di controllo attraverso sistemi legati alla reputazione, che spesso veicolano i pregiudizi di genere e
razzisti della società. I collaboratori dunque vengono pagati a incarico: una percentuale su ogni corsa
effettuata su Uber, su ogni affitto su Airbnb, su ogni attività completata su Mechanical Turk. Considerando la
riduzione del costo del lavoro che un simile approccio comporta, non c’è da stupirsi che Marx abbia scritto “il
lavoro a cottimo è la forma di salario che più corrisponde al modo di produzione capitalistico”60.
Eppure, come si è visto, la delocalizzazione del lavoro è parte di un trend in questo senso più ampio e di più
lunga durata, che ha preso piede negli anni Settanta. I lavori che interessavano merci oggetto di scambio sono
stati i primi a essere esternalizzati, mentre i servizi impersonali li hanno seguiti a stretto giro. Negli anni
Novanta la Nike è diventata l’esempio perfetto di questo modello, avendo esternalizzato gran parte del
proprio lavoro. Invece di adottare un’integrazione verticale, Nike si è basata sull’esistenza di un piccolo
nucleo di disegnatori e brander, i quali poi esternalizzavano la produzione dei propri beni ad altre società. Il
risultato è stato che già nel 1996 la gente lamentava la transizione verso un’era della produzione just in time
basata su lavoratori “usa e getta”61. Il problema però riguarda non soltanto le piattaforme lean. Apple, ad
esempio, impiega in maniera diretta meno del 10 per cento dei lavoratori che contribuiscono alla creazione
dei suoi prodotti62. Allo stesso modo, uno sguardo veloce al Dipartimento del Lavoro statunitense riesce a
individuare un gran numero di casi non-Uber che riguardano lo scorretto inquadramento di impiegati come
collaboratori esterni: casi legati a lavoratori edili, guardie giurate, baristi, idraulici e personale in ristoranti –
solo per citarne alcuni63. A tutti gli effetti, il mercato del lavoro tradizionale che si avvicina di più alla
piattaforma lean è antico e a bassissima densità di tecnologia: il mercato dei braccianti – lavoratori agricoli,
portuali, e altri che percepiscono un salario ridotto – che si presentano in un certo posto al mattino con la
speranza di trovare un impiego per quel giorno. Analogamente, una ragione fondamentale per la quale i
telefoni cellulari sono diventati essenziali nei paesi in via di sviluppo è che questi sono ora indispensabili per
trovare impiego attraverso mercati del lavoro informali64. La gig economy, semplicemente, mette questi
posti online e vi aggiunge uno strato di vigilanza onnipresente. Uno strumento di sopravvivenza è ora
commercializzato da Silicon Valley come uno strumento di liberazione.
Possiamo trovare questo grande passaggio a lavori non tradizionali anche nelle statistiche che riguardano
l’economia. Nel 200565, il Bureau of Labour Statistics statunitense (BLS) ha rilevato che quasi 15 milioni di
lavoratori nordamericani (10,1 per cento della forza lavoro) avevano un’occupazione alternativa66. Questa
categoria comprende lavoratori assunti attraverso un metodo di contratto alternativo (lavoro a chiamata,
collaborazione esterna) e quelli assunti attraverso intermediari (agenzie temporanee, ditte appaltatrici). Nel
2015 questa categoria era cresciuta al 15,8 della forza lavoro67. Quasi metà di questa crescita (il 2,5 per
cento) era dovuto a un aumento nelle esternalizzazioni, con lavori nell’ambito educativo, sanitario e
amministrativo spesso a rischio. Cosa sorprendente, fra il 2005 e il 2015, il mercato del lavoro USA si è
arricchito di 9,1 milioni di posti di lavoro – compresi 9,4 milioni di quelli con accordi alternativi. Questo
significa che l’incremento netto negli impieghi negli Stati Uniti a partire dal 2005 è arrivato soltanto da questi
tipi di posizioni (spesso precarie)68. Trend analoghi possono essere osservati nel lavoro autonomo. Anche se
il numero di persone che si identificano come tali è diminuito, la quantità di quelle che ha presentato il
modulo fiscale 1099 per il lavoro indipendente negli USA è aumentata69. Quella che si vede è in effetti una
accelerazione della tendenza sul lungo termine verso impieghi sempre più precari, in particolare a partire dal
2008. Gli stessi andamenti sono osservabili nel Regno Unito, dove il lavoro autonomo ha generato il 66,5 per
cento di impieghi netti dopo il 2008 ed è l’unico fattore che ha impedito livelli di disoccupazione altrimenti
più alti70.
Dove si inseriscono le piattaforme lean in tutto questo? Il punto più ovvio è la categoria di collaboratori
esterni e freelance. Questa ha registrato un aumento dell’1,7 per cento (2,9 milioni) fra 2005 e 201571, anche
se la maggior parte di questo incremento riguarda il lavoro offline. Considerato che non esistono attualmente
misurazioni dirette legate alla sharing economy, al loro posto sono stati usati sondaggi e altri tipi di
rilevazioni.
Quasi tutte le stime suggeriscono che circa l’1 per cento della forza lavoro statunitense sia associata nella
sharing economy online costituita da piattaforme lean72. Anche in questo caso, i risultati devono tenere
presente che gli autisti Uber rappresentano probabilmente la prevalenza di questo tipo di lavoratori73. La
sharing economy oltre Uber è poca cosa. Nel Regno Unito sono attualmente presenti pochi riscontri, ma
l’indagine più accurata fatta fino a questo momento indica che il numero di persone che in modo costante
vende il proprio lavoro attraverso piattaforme lean sia aumentato leggermente. Si stima che circa 1,3 milioni
di lavoratori inglesi (il 3,9 per cento della forza lavoro) sia occupato attraverso di esse almeno una volta a
settimana, mentre altri calcoli vanno dal 3 al 6 per cento della forza lavoro74. Altri studi indicano numeri
leggermente più alti, ma includono – in maniera problematica – una gamma ben più ampia di attività75.
Quindi si può concludere che la sharing economy sia solo la punta più piccola di una tendenza molto più
vasta. Oltretutto, è un settore esiguo, che si basa sull’assunto della grande crescita dei disoccupati dopo la
crisi del 2008. Seguendo le tendenza verso lavoro via via sempre più precario, come tracciato in precedenza,
la crisi ha portato la disoccupazione a raddoppiare negli Stati Uniti, con la disoccupazione a lungo termine
quasi triplicata. In più, una conseguenza della crisi è stata la ripresa senza creazione di posti di lavoro – un
fenomeno dove torna la crescita economica, ma non la crescita degli impieghi. Il risultato è stato che
numerosi lavoratori sono stati costretti a trovare qualsiasi mezzo disperato pur di sopravvivere. In questa
situazione, il lavoro autonomo non è un percorso scelto liberamente, ma più che altro un’imposizione forzata.
Uno sguardo ai rapporti demografici dei lavoratori delle piattaforme lean sembra avallare questa
impressione. Degli iscritti a TaskRabbit, il 70 per cento ha una laurea di primo livello, con il 5% in possesso di
un dottorato di ricerca76. Un’indagine dell’International Labour Organization (ILO) ha scoperto che anche i
lavoratori di Mechanical Turk di Amazon (AMT) hanno un livello di educazione superiore, con il 37 per cento
che usa il crowd work come impiego principale77. E Uber ammette che circa un terzo dei suoi autisti
londinesi provengono da quartieri dove i tassi di disoccupazione superano il 10 per cento78. In un’economia
sana, queste persone non avrebbero bisogno di rivolgersi al microtasking, perché avrebbero lavori veri.
Mentre tutti gli altri tipi di piattaforme hanno sviluppato elementi nuovi, c’è nulla di inedito nelle
piattaforme lean? Considerando il contesto più ampio appena delineato, è possibile vedere che si limitano a
portare tendenze antiche in nuove aree. Se la delocalizzazione un tempo aveva luogo essenzialmente nella
manifattura, nell’amministrazione e nel settore dell’hospitality, oggi è estesa a un ventaglio di nuovi lavori:
tassisti, barbieri, parrucchieri, addetti alle pulizie, idraulici, imbianchini, traslocatori, moderatori di
contenuti e così via. Si sta anche spingendo nell’ambito dei lavori impiegatizi – copy-editing,
programmazione e management, per esempio. E, in termini di mercato del lavoro, le piattaforme lean hanno
trasformato quelli che un tempo erano servizi non commerciabili in commerciabili, espandendo a tutti gli
effetti l’offerta di lavoro a livelli quasi globali. Una moltitudine di nuovi task può essere svolta online
attraverso Mechanical Turk e piattaforme analoghe. Questo consente alle aziende, ancora una volta, di
tagliare i costi sfruttando manodopera a basso costo in paesi in via di sviluppo e di porre più pressione al
ribasso sui salari inserendo questi lavori su mercati del lavoro globali. Pure notevole (anche se non inedita) è
la misura con la quale le piattaforme lean stanno esternalizzando altri costi: questi sono a oggi probabilmente
i tentativi più puri verso la costituzione di una piattaforma virtuale. Queste aziende di conseguenza sono
divenute dipendenti dalle capacità offerte dalle piattaforme cloud. Laddove le società un tempo dovevano
spendere grandi quantità di denaro per investire in apparecchiatura informatica e nella competenza
necessaria per le proprie operazioni, le start-up odierne sono cresciute perché semplicemente possono
affittare l’hardware e il software dal cloud. Il risultato è che Airbnb, Slack, Uber e molte altre start-up usano
AWS79. Uber in più si appoggia a Google per le mappe, a Twilio per l’invio di messaggi, a SendGrid per le
email e a Braintree per i pagamenti: è una piattaforma lean costruita su altre piattaforme. Queste aziende
hanno anche scaricato costi dal bilancio e li hanno caricati sui loro lavoratori: cose come costi di investimento
(l’alloggio nel caso di Airbnb, i veicoli per Uber e Lyft), di manutenzione, di assicurazione, di ammortamento.
Società come Instacart (che consegna generi alimentari) hanno addirittura esternalizzato i costi di consegna
ai fornitori (come la Pepsi) e ai rivenditori (ad esempio Whole Foods) in cambio di spazi pubblicitari80.
Tuttavia, nonostante questi aiuti, Instacart continua a non essere redditizia per il 60 per cento della propria
attività, e questo prima ancora di considerare i costi piuttosti alti degli uffici o i salari del core team81. La
scarsa redditività ha portato al prevedibile taglio dei salari – un fenomeno piuttosto diffuso fra le piattaforme
lean.
Questo ha anche portato le aziende a competere nel campo dell’estrazione di dati – ancora una volta, si
tratta di un processo ottimizzato grazie all’accesso consentito dalle piattaforme. Uber probabilmente è
l’esempio migliore di questo sviluppo, visto che raccoglie dati su tutti i propri viaggi, oltre che quelli sui
propri autisti, anche quando non vengono pagati82. I dati su quello che gli autisti stanno facendo e come
stanno guidando vengono usati in vari modi per battere la concorrenza. Per esempio, Uber li usa per
assicurarsi che i propri autisti non stiano lavorando per altre piattaforme di taxi; e i suoi algoritmi di
monitoraggio usano i dati sui pattern nel traffico per tracciare l’itinerario migliore per le varie corse. I dati
vengono inseriti in altri algoritmi per associare passeggeri con gli autisti più vicini, e anche per prevedere
dove saranno possibili più richieste. In Cina, Uber controlla addirittura se gli autisti vanno a cortei. Tutto
questo consente a Uber di avere un servizio veloce ed efficiente dal punto di vista del passeggero, portando
via in questo modo gli utenti ai competitor. I dati rappresentano uno dei principali mezzi di competizione tra
piattaforme lean.
Ciononostante, queste società ancora faticano ad essere redditizie, e i soldi che le sostengono devono
arrivare dall’esterno. Come visto in precedenza, una delle conseguenze cruciali della crisi del 2008 è stato
l’intensificarsi di una politica monetaria ultra-accomodante e un crescente eccesso di cassa aziendale. Il boom
delle piattaforme lean è, fondamentalmente, un fenomeno post-2008. La crescita di questo settore si riflette
in maniera chiarissima nel numero di operazioni commerciali che hanno coinvolto start-up: le operazioni VC
sono triplicate a partire dal 200983. Anche dopo aver escluso Uber (che aveva una posizione fuori misura nel
mercato) i servizi mobili on demand hanno raccolto 1.7 miliardi di dollari nel corso del 2014 – il 316 per
cento in più rispetto al 201384. E nel 2015 la tendenza è proseguita con un numero maggiore di operazioni e
maggiori quantità. Ma vale la pena fermarsi un attimo per contestualizzare i finanziamenti alle piattaforme
lean. Quando si considerano le piattaforme lean che si occupano di servizi mobili on demand, più che altro si
pensa a Uber. In termini di finanziamenti, nel 2014 Uber ha superato del 39 per cento tutte le altre società
dello stesso tipo messe assieme85. Nel 2015 Uber, Airbnb e l’equivalente cinese di Uber Didi Chuxing insieme
prendevano il 59% dei finanziamenti per le start-up on demand86. E anche se l’entusiasmo per le nuove
start-up del settore tech ha raggiunto livelli esagerati, i finanziamenti erogati nel 2015 (59 miliardi di dollari)
sono irrisori se paragonati ai picchi raggiunti nel 2000 (quasi 100 miliardi di dollari)87. Da dove arrivano i
soldi? Sostanzialmente si tratta di eccedenze di capitale alla ricerca di alti tassi di rendimento in un ambito
con bassi tassi di interesse. I bassi tassi di interesse hanno compresso i rendimenti degli investimenti
finanziari tradizionali, costringendo gli investitori a cercare nuove strade per ottenere rendimenti. Invece di
avere un boom finanziario o immobiliare, le eccedenze di capitale oggi sembra stiano costruendo un boom
tecnologico. Il livello di coazione è tale che anche i finanziamenti non tradizionali provenienti da hedge fund,
fondi comuni e banche di investimento stanno rivestendo un ruolo primario nel boom tech. In effetti, nel
settore tecnologico delle start-up, la maggior parte degli investimenti a scopo finanziario viene da hedge fund
e fondi comuni88. Sono coinvolte anche le aziende più grandi, con Google che è stato il principale investitore
nello sfortunato caso Homejoy, mentre la società di logistica DHL ha creato il proprio servizio on demand,
MyWays, e imprese come Intel e Google acquistano anche partecipazioni in diverse nuove start-up. Aziende
come Uber, che schiera 135 sotto-società in tutto il mondo, sono anche agevolate da tecniche di evasione
fiscale89. Eppure la redditività di queste piattaforme lean rimane per lo più ancora da provare. Proprio come
nel precedente boom delle Dot-com, la crescita nel settore delle piattaforme lean si basa sulle aspettattive di
profitti di là da venire piuttosto che effettivi. La speranza è che attività con poco margine come è quella dei
taxi finiscano con l’essere redditizie una volta che Uber raggiungerà una posizione di monopolio. Fino a
quando non succederà (e probabilmente anche in quel momento) la redditività di queste società sembra
essere generata solo dalla rimozione dei costi e dall’abbassamento dei salari, e non da qualcosa di sostanziale.
In sintesi, le piattaforme lean appaiono come il risultato di alcune tendenze e andamenti: la tendenza a
delocalizzare, alle popolazioni in esubero, e alla digitalizzazione della vita, insieme all’aumento post-2008
della disoccupazione e all’incremento di una politica monetaria accomodante, delle eccedenze di capitale e
delle piattaforme cloud che consentono un potenziamento rapido. Se il modello lean ha generato grande
clamore e, nel caso di Uber, una grande quantità di VC, non ci sono molti segnali che lascino pensare che
terrà a battesimo un cambiamento epocale nelle nazioni capitaliste avanzate. In termini di delocalizzazione, il
modello lean resta un attore di minore importanza in un trend di lungo periodo. Allo stesso modo, la capacità
lucrativa della maggior parte dei modelli lean sembra essere minima e ridotta ad alcuni compiti specializzati.
Anche in quei casi, i più fortunati fra i modelli lean sono stati sostenuti dall’assistenza del VC invece che da
una generazione di reddito significativa. Questi modelli sono lontani dal rappresentare il futuro del lavoro o
quello dell’economia, e sembrano destinati a sfaldarsi negli anni a venire.
Conclusione
Questo capitolo è iniziato affermando che il capitalismo del Ventunesimo secolo ha trovato una massiccia
quantità di una nuova materia prima della quale appropriarsi: i dati. Attraverso una serie di sviluppi, la
piattaforma è diventata una maniera via via più dominante per organizzare le attività commerciali in maniera
da monopolizzare questi dati, per poi estrarli, analizzarli, usarli e venderli. I vecchi modelli di business
dell’era fordista avevano una capacità solo rudimentale di estrazione dei dati dal processo produttivo oppure
dall’utilizzo da parte dei consumatori. L’era della produzione lean ha modificato leggermente lo stato di cose,
con le filiere globali just in time a chiedere dati sullo stato delle rimanenze e la location delle forniture.
Eppure i dati fuori dalle aziende rimanevano impossibili da ottenere; e anche in azienda, la maggior parte
delle attività non era registrata. La piattaforma, d’altro canto, ha l’estrazione dei dati iscritta nel proprio
DNA, in quanto modello che rende possibile la costruzione di altri servizi, beni e tecnologie sopra di sé, in
quanto modello che richiede un numero maggiore di utenti per raggiungere effetti di rete, e in quanto mezzo
che si basa sull’uso della tecnologia digitale per rendere semplici la registrazione e la memorizzazione. Tutte
queste caratteristiche rendono le piattaforme un modello centrale per l’estrazione di dati come materia
prima, da usare poi in varie maniere. Come visto in questo breve panorama sui diversi tipi di piattaforme, i
dati possono essere usati in modi differenti per generare profitti. Per società come Google o Facebook, i dati
sono per lo più una risorsa che può essere usata per attirare inserzionisti e altri soggetti interessati. Per
aziende come Rolls Royce e Uber, i dati sono cruciali per battere i competitor: permettono a queste di offrire
prodotti e servizi migliori, di controllare i lavoratori e di ottimizzare i propri algoritmi per rendere le attività
commerciali più competitive. Analogamente, piattaforme come AWS e Predix sono orientate a costruire (e
possedere) l’infrastruttura necessaria a raccogliere, analizzare e impiegare i dati che saranno usati da altre
società, e un affitto è richiesto per questi servizi su piattaforma. In ogni caso, raccogliere enormi quantitativi
di dati è centrale al modello di business e la piattaforma rappresenta l’apparato estrattivo ideale in questo
senso.
Questa nuova forma di attività commerciale si è intrecciata con una serie di tendenze a lungo termine e di
movimenti ciclici a breve termine. Lo spostamento verso la produzione di tipo lean e verso filiere just in time
è un processo in corso dagli anni Settanta, e le piattaforme digitali proseguono in questa scia in maniera più
intensificata. Lo stesso si può dire della tendenza all’esternalizzazione. Anche aziende normalmente non
legate alla delocalizzazione ne sono coinvolte. Per esempio, la moderazione dei contenuti per Google e
Facebook tipicamente viene svolta nelle Filippine, dove si stima che circa 100.000 lavoratori cerchino nei
contenuti di social media e di archiviazione nel cloud90. E Amazon possiede una forza lavoro di impiegati
notoriamente sottopagati che sono soggetti a sistemi di sorveglianza e controllo incredibilmente approfonditi.
Queste società continuano semplicemente la tendenza del lungo periodo a delocalizzare i lavoratori meno
qualificati mantenendo un nucleo di impiegati ben pagati e altamente qualificati. Più in generale, tutti i
guadagni netti in termini di occupazione negli Stati Uniti dopo il 2008 sono derivati da lavoratori impiegati
in maniera non tradizionale, come ad esempio collaboratori e lavoratori a chiamata. Questo processo di
delocalizzazione e di costruzione di modelli lean viene portato al suo estremo da realtà come Uber, che si
appoggiano a una forma virtualmente senza asset per generare profitti. Come si è visto, molta della loro
redditività post-crisi è arrivata dall’aver tenuto bassi i salari. Anche l’Economist è stato costretto ad
ammettere che, a partire dal 2008, “se la quota di retribuzioni lorde interne spese in salari dovesse ritornare
ai livelli medi degli anni Novanta, i profitti delle aziende americane crollerebbero di un quinto”91. Una
popolazione in esubero sempre più disperata ha quindi fornito una gran quantità di lavoratori sia poco pagati
che poco qualificati. Questo gruppo di lavoratori sfruttabili si è intersecato con ingenti eccedenze di capitale
in un mondo con bassi tassi di interesse. L’evasione fiscale, gli alti risparmi societari e le politiche monetarie
accomodanti si sono combinate ottenendo che capitali estremamente elevati abbiano cercato rendimenti in
varie maniere. Allora non deve sorprendere che i finanziamenti alle start-up del settore tech siano aumentati
a dismisura a partire dal 2010. In questo quadro, l’economia delle piattaforme lean appare come uno sbocco
alle eccedenze di capitale in un’era di tassi di interesse estremamente ridotti e dalle opportunità di
investimento difficile e non l’avanguardia destinata a far risorgere il capitalismo.
Se le piattaforme lean sembrano essere un fenomeno dalla vita breve, gli altri esempi illustrati in questo
capitolo invece sembrano indicare un importante cambiamento nel modo in cui operano le imprese
capitaliste. Attivate dalla tecnologia digitale, le piattaforme emergono come il mezzo che consente di guidare
e controllare l’industria. Al loro culmine, sono più importanti dell’industria manifatturiera, della logistica e
del design, perché offrono il panorama di base sul quale il resto del settore opera. Hanno consentito uno
spostamento dai prodotti ai servizi in una molteplicità di nuovi settori, portando alcuni a dichiarare che l’era
della proprietà è finita. Che sia chiaro, però: questa non è la fine della proprietà, ma piuttosto il suo
concentrarsi. Le sviolinate su una “era dell’accesso” sono solo retorica priva di significato che oscura la realtà
della situazione. Analogamente, se le piattaforme lean hanno cercato di essere virtualmente prive di asset, le
piattaforme più importanti stanno tutte costruendo grandi infrastrutture, e stanno spendendo enormi
quantità di denaro per acquisire altre società e per investire nel proprio potenziale. Lungi dall’essere semplici
proprietarie di informazioni, queste aziende stanno diventando proprietarie delle infrastrutture della società.
Per cui le tendenze monopolistiche di queste piattaforme devono essere tenute in considerazione in
qualunque analisi dei loro stessi effetti sull’economia in senso più generale.
1. Löffler e Tschiesner, 2013.
2. Kaminska, 2016a.
3. Vercellone, 2006.
4. Terranova, 2000.
5. Wark, 2004.
6. Calcolo dell’autore sulla base dei dati da Andrae e Corcoran, 2013 e dell’US Energy Information Administration, n.d.; per saperne di più, si
vedano Maxwell e Miller, 2012.
7. Un esempio particolarmente illuminante di questa situazione viene dalla scienza del clima; si veda Edwards, 2010.
8. Qui mi collego alla definizione di Marx di materia prima: “La terra (nella quale, dal punto di vista economico, è altresì compresa l’acqua), così
come originariamente rifornisce l’uomo di cibo, di mezzi di sussistenza già pronti, è presente, senza alcun contributo dell’uomo stesso, come
l’oggetto generale del lavoro umano. Tutte le cose che l’uomo si limita a sciogliere dal loro legame immediato con l’orbe terracqueo, sono oggetti di
lavoro preesistenti in natura: così il pesce, che viene preso strappandolo al suo elemento vitale, l’acqua; così il legname abbattuto nelle foreste
vergini; così il minerale estratto a forza dalla sua vena. Se invece lo stesso oggetto di lavoro è, per così dire, già filtrato da lavoro precedente, lo
chiamiamo materia prima: per esempio, il minerale già estratto e sottoposto a lavaggio”. (Marx, 2013: pp. 559-560, corsivo aggiunto).
9. Forse può essere tracciata una connessione utile con il concetto di “input a buon mercato” di Jason Moore, anche se questo è al di là
dell’obiettivo di questo studio; si veda il Cap. 2 di Moore, 2015.
10. Apple è un esempio di una grande azienda esclusa da questo focus, in quanto è principalmente un produttore di elettronica di consumo con
delle prassi ormai consuete di delocalizzazione nella produzione. Ha degli elementi propri delle piattaforme nelle sue attività (iTunes, l’App Store),
ma questi generano solo l’8 per cento dei ricavi per i quali Apple è famosa. La stragrande maggioranza (68 per cento) dei profitti arrivano dalle
vendite degli iPhone. Apple assomiglia di più al modello di business della Nike degli anni Novanta che a quello degli anni 2010 di Google.
11. Per degli utili approcci complementari alle piattaforme, si veda Bratton, 2015: cap. 9 e Rochet e Tirole, 2003.
12. Anche se tecnicamente le piattaforme possono esistere in forme non digitali (per esempio, un centro commerciale), la facilità di registrazione
delle attività online rende le piattaforme digitali il modello ideale per estrarre dati nell’economia odierna.
13. Fra gli “utenti” consideriamo anche le macchine – un’aggiunta importante quando consideriamo l’Internet delle cose. Si veda Bratton, 2015:
251–89.
14. Gawer, 2009: 54.
15. Rochet e Tirole, 2003.
16. Kaminska, 2016b.
17. Hwang e Elish, 2015.
18. Metz, 2012.
19. È possibile immaginare uno scenario in cui una società possiede il codice di una piattaforma ma affitta tutto ciò che le serve a livello
computazionale da un servizio cloud. L’hardware a quel punto non è fondamentale per esercitare la proprietà di una piattaforma. Eppure, date le
richieste competitive che andremo a delineare più avanti, le piattaforme più grandi hanno tutte adottato hardware proprietario. In altre parole,
possedere del capitale fisso è ancora importante per queste società, quando non addirittura essenziale.
20. Goldfarb, Kirsch e Miller, 2007: 128.
21. Crain, 2014: 377–8.
22. Zuboff, 2016.
23. Varian, 2009.
24. Terranova,2000.
25. Wittel, 2016: 86.
26. Zuboff, 2015:78.
27. Ibid.
28. Per un esempio di catena di valore dei dati, si veda Dumbill, 2014.
29. Finnegan, 2014.
30. Davidson, 2016.
31. CB Insights, 2016b.
32. Henwood, 2003: 30.
33. Hook, 2016.
34. Clark e Young, 2013.
35. Burrington, 2016.
36. Nel settore, sono noti rispettivamente come “infrastructure as a service” (infrastruttura come servizio, IaaS), “platform as a service”
(piattaforma come servizio, Paas) e “software as a service” (software come servizio, SaaS).
37. Clark, 2016.
38. Miller, 2016.
39. Asay, 2015.
40. McBride and Medhora, 2016.
41. Webb, 2015; Bughin, Chui, e Manyika, 2015.
42. Bughin, Chui, e Manyika, 2015.
43. Alessi, 2014.
44. World Economic Forum, 2015: 4.
45. Zaske, 2015.
46. CB Insights, 2016c.
47. Waters, 2016.
48. Murray, 2016.
49. Miller, 2015b.
50. Waters,2016.
51. Miller, 2015a.
52. International Federation of the Phonographic Industry, 2015: 6–7.
53. Office for National Statistics, 2016a.
54. Bonaccorsi e Giuri, 2000: 16–21.
55. Dishman, 2015.
56. “Britain’s Lonely High-Flier”, 2009.
57. Goodwin, 2015.
58. Per inciso, pare che siano proprietà di quella che McKenzie Wark chiama la classe vettorialista; si veda Wark, 2004.
59. Kamdar, 2016; Kosoff, 2015.
60. Marx, 1990: 697–8.
61. Polivka, 1996: 3.
62. Scheiber, 2015.
63. Dipartimento del Lavoro USA.
64. Dyer-Witheford, 2015: 112–14.
65. Il BLS misura la gig economy indirettamente, attraverso “impieghi contingenti e alternativi” – ma ha smesso nel 2005, quando sono stati
interrotti i suoi finanziamenti. A ogni modo è previsto che compiano un’altra indagine nel 2017; si veda il Commissario del BLS, 2016.
66. Dipartimento del Lavoro USA, 2005: 17.
67. Questa stima si basa sul tentativo di reiterare il più possibile gli studi del BLS. Si vedano Katz e Krueger, 2016.
68. Ibid.
69. Wile, 2016.
70. Office for National Statistics, 2014: 3.
71. Katz e Krueger, 2016.
72. Varie stime comprendono: lo 0,5% della forza lavoro (Katz e Kreuger, 2016); lo 0,4–1,3% (Harris e Kreuger, 2015: 12); l’1,0% (McKinsey: si
vedano Manyika, Lund, Robinson, Valentino e Dobbs, 2015); il 2,0% (Intuit: si veda Business Wire, 2015). Un sondaggio anomalo di Burson-
Marsteller suggerisce che ammonti al 28,6% della forza lavoro americana che ha fornito servizi attraverso la gig economy (si veda Burson-
Marsteller, Aspen Institute, e TIME, 2016).
73. Harris e Krueger, 2015: 12.
74. Varie stime indicano: 3,0 per cento della forza lavoro (Coyle, 2016: 7); 3.9 per cento (Huws e Joyce, 2016); 6.0 per cento (Business Wire,
2015). Si veda anche Hesse, 2015.
75. Un’indagine Nesta ha trovato che il 25 per cento degli inglesi era stata coinvolta in attività collaborative attraverso il collegamento a internet,
ma in questa categoria ricadono quelle persone che comprano attraverso la rete e non solo lavoratori. Ci rientrano anche quelli che fanno
donazioni di beni o comprano media online. Uno studio Intuit, d’altra parte, a quanto pare ha trovato che il 6 per cento della popolazione del
Regno Unito è impiegata nella sharing economy, ma i dati veri e propri non sembrano essere disponibili. Si vedano Stokes, Clarence, Anderson e
Rinne, 2014: 25; Hesse, 2015.
76. Henwood, 2015.
77. Berg, 2016.
78. Knight, 2016.
79. Per molti altri esempi, si consulti Amazon Web Services, 2016.
80. Huet, 2016.
81. Ibid.
82. Anche se la sorveglianza da parte del governo è spesso al centro dell’attenzione pubblica al giorno d’oggi, quella da parte delle aziende è
altrettanto pericolosa. Pasquale, 2015.
83. “Reinventing the Deal”, 2015.
84. CB Insights, 2015.
85. Ibid.
86. CB Insights, 2016a.
87. National Venture Capital Association, 2016: 9; Crain, 2014: 374.
88. CB Insights, 2016d.
89. O’Keefe e Jones, 2015.
90. Chen, 2014.
91. “The Age of the Torporation”, 2015.
Capitolo 3
Le grandi guerre tra piattaforme
Se le piattaforme sono il modello aziendale emergente per l’economia digitale, come appaiono quando sono
inserite nella storia assai più lunga del capitalismo? In particolare, fino a questo punto è stato ampiamente
tralasciato uno dei vettori essenziali del capitalismo: la concorrenza intracapitalista. Nel Capitolo I è stato
tratteggiato il contesto della lunga recessione – quel periodo iniziato negli anni Settanta durante il quale
l’economia globale è stata gravata da eccesso di capacità e sovrapproduzione nel settore manifatturiero. Con
le aziende riluttanti o incapaci di distruggere il proprio capitale fisso o di investire in nuove linee, la
competizione internazionale è andata avanti in maniera costante e, con essa, la crisi dell’eccesso di capacità
nella produzione. Non più in grado di generare crescita in questa situazione, negli anni Novanta gli Stati Uniti
hanno cercato di stimolare l’economia attraverso un keynesismo del prezzo dei beni che si muoveva
inducendo bassi tassi di interesse per generare prezzi delle attività più elevati e un effetto ricchezza che
avrebbe innescato una più ampia crescita economica. Questo ha condotto al boom delle Dot-com negli anni
Novanta e alla bolla immobiliare dei primi anni del Ventunesimo secolo. Attualmente, come si è visto nel
precedente capitolo, il keynesismo del prezzo dei beni prosegue a ritmo elevato ed è uno dei principali fattori
alle spalle della presente fissazione per le start-up del settore tech. Eppure, dietro la luccicante nuova
tecnologia e la facciata raffinata delle interfacce delle app, quali conseguenze a più ampio spettro potrebbero
serbare queste nuove società per il capitalismo? In questo capitolo si torneranno a esaminare le tendenze
scatenate nell’ambiente più ampio della lunga recessione. Secondo alcuni, il capitalismo si autorinnova
attraverso la creazione e l’adozione di nuovi complessi tecnologici: motori a vapore e ferrovie, acciaio e
settore metalmeccanico, automobili e petrolchimici – e ora informazione e tecnologie della comunicazione1.
Stiamo forse assistendo all’adozione di una nuova infrastruttura che potrebbe riportare in vita la crescita
moribonda del capitalismo? La concorrenza è destinata a sopravvivere nell’era digitale, oppure siamo diretti
verso un nuovo capitalismo monopolistico?
Grazie agli effetti di rete, una tendenza verso la monopolizzazione è nel DNA delle piattaforme: più
numerosi sono gli utenti che interagiscono su di essa, più valore l’intera piattaforma acquista per ognuno. Gli
effetti di rete, per di più, tendono a significare che i benefici iniziali si solidificano come posizioni permanenti
di leadership nel settore. Le piattaforme hanno, come se non bastasse, una capacità unica di collegare e
consolidare differenti effetti di rete. Per esempio, Uber beneficia degli effetti di rete di sempre più autisti oltre
che di quelli di un numero via via maggiore di utilizzatori2. Le piattaforme leader tendono in maniera
consapevole a perpetuarsi anche in altri modi. I vantaggi nella raccolta dati implicano che più una società ha
accesso ad attività, più dati può estrarre e maggiore è il valore di quelli, di conseguenza avendo la possibilità
di accedere ad ancora più attività. Allo stesso modo, l’acquisizione di una grande quantità di dati da diverse
aree delle nostre vite rende più utile la predizione, e questo stimola la centralizzazione dei dati all’interno di
una sola piattaforma. Diamo a Google accesso alla nostra email, ai nostri calendari, allo storico dei video che
abbiamo cercato, alle nostre cronologie di ricerca, alle nostre localizzazioni – e con ogni fattore che forniamo
a Google, come risultato otteniamo servizi predittivi migliori. Analogamente, le piattaforme puntano a
favorire prodotti complementari: un software utile costruito per Android porta più utenti a usare questo
sistema operativo, il che spinge più sviluppatori a creare nuovi programmi per Android, e così via. Le
piattaforme cercano anche di costruire ecosistemi di beni e servizi che tagliano fuori i competitor: app che
girano solo su Android, servizi che necessitano di un login da Facebook. Tutte queste dinamiche trasformano
le piattaforme in monopoli con un controllo centralizzato sui numeri di utenti (e dei dati che essi producono)
sempre più enormi. Ci si può rendere conto di quanto siano già importanti questi monopoli guardando al
modo in cui consolidano i ricavi pubblicitari: nel 2016 Facebook, Google e Alibaba da soli hanno raccolto la
metà della pubblicità digitale mondiale3. Negli Stati Uniti, Facebook e Google ricevono il 76 per cento dei
ricavi legati alla pubblicità digitale, e guadagnano l’85 per cento di ogni dollaro investito in nuove
pubblicità4.
Eppure è anche vero che il capitalismo sviluppa non solo mezzi per un maggior monopolio ma anche mezzi
per una maggiore concorrenza. La comparsa della società per azioni come modello, l’ascesa delle grandi
istituzioni finanziarie, e le risorse monetarie alle spalle degli stati sono tutti indicatori della capacità da parte
del capitalismo di avviare nuovi tipi di industrie e di far crollare i monopoli già esistenti5. Un altro aspetto
altrettanto importante, le piattaforme digitali tendono a sorgere in settori industriali che sono soggetti a
disturbo da parte di nuovi competitor6. I monopoli, in quest’ottica, dovrebbero dunque essere solo
temporanei. La sfida odierna, tuttavia, è che l’investimento di capitale non sia sufficiente a rovesciare i
monopoli; l’accesso ai dati, gli effetti di rete e la cosiddetta path dependency implicano ancora più ostacoli
sulla via che conduce al superamento di un monopolio come quello di Google. Questo non significa la fine
della concorrenza o della lotta per accaparrarsi quote di mercato, ma piuttosto un cambiamento nel modo in
cui la concorrenza si svolge7. In particolare, si tratta di un allontanamento dalla concorrenza sui prezzi (per
esempio laddove molti servizi sono gratuiti). Qui si arriva a un punto fondamentale. Diversamente dal settore
produttivo, la concorrenzialità tra piattaforme non si giudica esclusivamente usando il criterio di una
differenza massima tra costi e prezzi; la raccolta dati e la loro analisi contribuiscono altresì a giudicare e
classificare la concorrenzialità. Questo vuol dire che, se queste piattaforme desiderano continuare a essere
competitive, devono aumentare la propria attività di estrazione, analisi e controllo dei dati – e per farlo
devono investire in capitale fisso. Se nel loro DNA c’è la tendenza alla monopolizzazione, al momento attuale
si trovano ad affrontare un ambiente sempre più competitivo del quale fanno parte altre importanti
piattaforme.
Le tendenze
Poiché le piattaforme si fondano sull’estrazione di dati e la generazione di effetti di rete, dalle dinamiche
competitive di queste enormi piattaforme emergono alcune tendenze: aumento dell’estrazione,
posizionamento come gatekeeper, convergenza dei mercati, e chiusura degli ecosistemi. Queste tendenze
vengono perpetuate riproducendosi nei nostri sistemi economici.
Da un lato, all’espansione delle piattaforme hanno contribuito le sovvenzioni incrociate su servizi usati per
attirare utenti verso un network. Se è probabile che un servizio attiri consumatori o fornitori verso una
piattaforma, allora una società potrebbe voler sviluppare gli strumenti perché ciò si verifichi. Tuttavia
l’espansione può anche essere causata da fattori diversi che non siano la domanda degli utenti. Uno di questi
è la spinta verso l’estrazione di dati ulteriori. Se raccogliere e analizzare questa materia prima è la fonte di
reddito principale per queste società e dà loro vantaggi competitivi, c’è l’imperativo a metterne insieme
sempre di più. Come si legge in una relazione, con rimandi alle imprese coloniali, «Da un punto di vista della
produzione dati, le attività sono come territori che aspettano di essere scoperti. Chiunque arriverà lì per
primo e li occuperà, avrà le sue risorse – in questo caso, abbondanza di dati»8. Per molte di queste
piattaforme, la qualità dei dati ha meno interesse della loro quantità e diversità9. Ogni azione compiuta da un
utente, non importa quanto minuscola, serve a riconfigurare algoritmi e a ottimizzare processi. L’importanza
dei dati è tale che molte società potrebbero rendere open-source tutto il proprio software continuando a
mantenere la propria posizione dominante grazie ai dati stessi10. Non deve sorprendere allora che queste
società siano state acquirenti e sviluppatori attivissimi di beni che consentono loro di aumentare la capacità
che hanno nell’acquisire informazioni. Le fusioni che hanno a che fare con i big data, per esempio, sono
raddoppiate fra 2008 e 201311. L’enorme eccesso di liquidità e il ricorso frequente a paradisi fiscali ha
contribuito a rendere possibile questa situazione. Una vasta eccedenza di capitale inutilizzato ha permesso a
queste società di costruire e sviluppare un’infrastruttura dedicata all’estrazione di dati.
È in questo contesto che dovremmo interpretare gli investimenti significativi fatti nel settore dell’Internet
delle cose (o Intenet of Things, abbreviato IoT) lato consumatore, con sensori messi a dimora in determinati
beni e nelle case12. Per esempio, il fatto che Google abbia investito in Nest, un sistema di riscaldamento per
abitazioni private, appare molto più logico quando è inteso come un allargamento della raccolta dati. Si può
dire lo stesso per Amazon e il suo nuovo apparecchio, Echo, un dispositivo che rimane sempre acceso e che i
consumatori installano in casa. Se viene fatto il suo nome, Echo risponderà a domande; ma è anche in grado
di registrare attività che si svolgono vicino a esso. Non è difficile rendersi conto di come questo possa tornare
utile a un’azienda che vuole capire le preferenze dei consumatori. Analoghi apparati esistono già in molti
telefoni – Siri in Apple, Google Now in Android, per non parlare della comparsa delle smart TV13. Le
tecnologie indossabili sono un’altra componente essenziale dell’IoT lato consumatore. La Nike, ad esempio,
sta usando i wearable e la tecnologia applicata al fitness per avvicinare gli utenti alla propria piattaforma ed
estrarre i loro dati. Anche se tutti questi dispositivi possono avere un certo valore per i consumatori, il settore
non è ancora animato da folle di utenti che li chiedono a gran voce. Al contrario, l’IoT lato consumatore è
pienamente comprensibile solo in quanto estensione, gestita da una piattaforma, della registrazione dati
durante le attività quotidiane. Con l’IoT lato consumatore, i nostri comportamenti di ogni giorno iniziano a
essere monitorati: come guidiamo, quanto camminiamo, quando siamo attivi, cosa diciamo, dove andiamo e
così via. Si tratta semplicemente dell’espressione di una tendenza innata all’interno delle piattaforme. Quindi
non deve sorprendere che una delle acquisizioni più recenti di Facebook, il sistema di realtà virtuale Oculus
Rift, sia in grado di raccogliere ogni tipo di dato su chi lo indossa e usi queste informazioni per persuadere gli
inserzionisti14.
Il fatto che la piattaforma basata sulla raccolta di informazioni necessiti di un’estensione a livello di sensori
significa che sta contrastando la tendenza verso una piattaforma di tipo lean. Qui non si tratta di aziende
senza asset, al contrario; esse spendono miliardi di dollari per acquisire capitale fisso e prendere il
sopravvento sulle concorrenti. Cosa importante, «una volta compresa questa [tendenza], diventerà chiaro che
esigere privacy da capitalisti nel ramo della sorveglianza o esercitare pressioni per porre fine al controllo
commerciale su internet sarebbe come chiedere a Henry Ford di costruire ogni Model T a mano»15. Inviti alla
riservatezza perdono di vista il fatto che la sua soppressione è centrale a questo tipo di modello di business.
Questa tendenza implica un pressing costante contro i limiti di ciò che è accettabile socialmente e legalmente
a livello di raccolta dati. Per lo più, la strategia finora è stata quella di accumularli, salvo poi ridimensionare i
programmi in caso di clamore, piuttosto che consultarsi con gli utenti a monte16. Questo è il motivo per cui
continueremo ad assistere o a diverse proteste legate alla raccolta dati da parte di queste aziende.
Se questa attività è determinante per le piattaforme, l’analisi ne rappresenta il necessario complemento. La
proliferazione di apparecchi che generano dati crea una nuova, enorme miniera di dati, che richiede
strumenti di immagazzinamento e studio sempre più grandi e sofisticati, incoraggiando ulteriormente la
centralizzazione di queste piattaforme17. Se per queste aumentare la capacità di raccolta dati è un obbligo
competitivo, sviluppare un corrispondente strumento di analisi ne rappresenta un altro. Gli avanzamenti
nell’hardware, nell’organizzazione dei database e nell’infrastruttura dei network dunque giocano tutti un
ruolo significativo per l’ottenimento di più rapidità e vantaggi sugli insight rispetto ai propri competitor. Per
esempio, molto del successo iniziale di Google proviene dal suo lavoro pionieristico nella creazione di un utile
software interno e di una architettura hardware innovativa18. In maniera piuttosto inedita, Google progetta e
costruisce i propri server su misura invece di comprarne di standard – ancora una volta, si tratta di un
tentativo di ottenere vantaggi competitivi19. E anche se spesso alla fine rende pubbliche le informazioni sulle
proprie attività (che sono poi state copiate da molti altri), lo fa solo dopo aver raggiunto un evidente
margine20. È l’importanza delle analisi che ci permette di capire come mai Google sia anche così impegnata
nel campo della ricerca sull’intelligenza artificiale (IA), considerando che questo è un ramo cruciale per lo
sviluppo di un vantaggio competitivo su altre piattaforme.
Google è il maggiore investitore in questo ambito, ma anche Amazon, Salesforce, Facebook e Microsoft vi
stanno collocando molte risorse. Le società sono anche obbligate a sviluppare la totalità dello stack, non solo
una delle sue parti (per esempio, il data management, o gli strumenti di analisi)21. Ostacoli nel flusso dei
dati che va dai sensori al prodotto sono un impedimento alla produzione di ancora più valore. Il risultato è
una tendenza a occuparsi di tutte le caratteristiche dello stack, dall’hardware al software.
Questo si accompagna a una seconda tendenza, nella quale l’espansione in tutto l’ecosistema attorno a un
segmento di core business è in parte motivato dal bisogno di occupare posizioni chiave all’interno di quello
stesso ecosistema. Queste espansioni sfuggono alle distinzioni tradizionali: non si tratta né di concentrazioni
orizzontali (che vanno a unire società che competono direttamente), né verticali (con la fusione di società
all’interno della medesima filiera produttiva) e nemmeno fusioni conglomerali (che combinano fornitori di
prodotti simili e complementari)22. Consistono non tanto nell’integrazione verticale delle classiche società
fordiste o nelle competenze lean dell’era post-Ford: sono più simili a connessioni rizomatiche animate dallo
sforzo permanente di volersi posizionare in punti chiave delle piattaforme. Facciamo un primo esempio.
Mentre l’accesso a internet è andato spostandosi dai computer da scrivania agli smartphone portatili, il
controllo sulle piattaforme di sistema operativo (SO) è diventato fondamentale. Questo cambiamento ha
spinto le aziende a correre per posizionarsi sul mercato degli smartphone: Google ha seguito le orme della
Apple, e Amazon e Facebook hanno successivamente tentato di raggiungerle. Google ha usato la tattica,
classica per le piattaforme, delle sovvenzioni incrociate per occupare il mercato dei sistemi operativi mobili:
ha dato Android in licenza gratuita a chi costruiva l’hardware, per tagliare le gambe al sistema chiuso di
Apple. La mossa ha funzionato, e Android oggi possiede oltre l’80 per cento del mercato ed è il SO più
utilizzato su qualunque dispositivo23. Analoghe battaglie fra concorrenti – con conseguenti espansioni del
business – si sono svolte anche a livello di interfaccia. Essendo il mezzo principale attraverso il quale gli
utenti interagiscono con le piattaforme, le interfacce occupano una posizione di sostegno essenziale in un
ecosistema più ampio. Negli ultimi dieci anni, il motore di ricerca di Google è stato l’interfaccia principale per
l’accesso al resto di internet, superando gli sforzi di chiunque altro. Le piattaforme rivali hanno dovuto girare
attorno al dominio del motore di ricerca allargando il proprio business a interfacce per altri ambiti.
Espressione di ciò è che i motori di ricerca all’interno delle app (e non nel web aperto) si stanno diffondendo
sempre di più. Invece di cercare su internet con Google, gli utenti possono farlo internamente, via Amazon o
Facebook. Se la gente si spostasse all’interno delle app o iniziassero a cercare su Amazon e non più su Google,
queste modalità rappresenterebbero una minaccia al modello di business base di Big G.
Ognuna delle principali società piattaforma sta sempre più posizionandosi anche nel mercato delle
interfacce in linguaggio naturale. Nel 2016, Facebook ha iniziato a spingere in maniera considerevole verso i
“chatbot”, vale a dire intelligenze artificiali di basso livello impiegate per chiacchierare con gli utenti sulla
piattaforma Facebook (questo è anche il motivo per cui Facebook – e molte altre aziende – stanno investendo
pesantemente nelle IA e nell’elaborazione del linguaggio naturale che serve a sviluppare i chatbot. La
scommessa è che questa tecnologia diventerà la maniera preferita per interagire con internet da parte di chi
lo usa. Su questa piattaforma aperta, le aziende vengono dotate degli strumenti per sviluppare i propri bot e
per creare mezzi intuitivi per far ordinare ai clienti cibo, biglietti ferroviari, o prenotare un tavolo in un
ristorante24. Invece di usare una app a parte o un sito per accedere ad esercizi commerciali e loro servizi, gli
utenti semplicemente potrebbero avvicinarli attraverso la piattaforma Facebook, che renderebbe il chatbot lì
presente la principale interfaccia per le transazioni commerciali online. Invece di provare a competere con il
motore di ricerca di Google o il network logistico di Amazon, Facebook vuole provare a dominare la
piattaforma di e-commerce controllandone l’interfaccia.
Che questo finisca col funzionare o no è discutibile, ma il principio è che queste aziende si ampliano in
maniere comprensibili, allo scopo cioè di andare a occupare posizioni chiave. Gli stessi concetti fondamentali
sono veri nel caso degli sforzi da parte di Apple, Google o Facebook di diventare piattaforme in grado di
accettare pagamenti e di costituire una base sulla quale svolgere transazioni economiche raccogliendo ogni
volta oltre ai dati anche una piccola commissione. Questo è altrettanto vero nel caso della concorrenza nel
settore delle mappe: l’offerta di Uber per acquistare un fornitore di rilevamenti, l’uso da parte di Google del
proprio Google Maps come base per la navigazione in auto, la costruzione da parte di Apple dei propri servizi
di localizzazione nel 2012, e ancora la possibilità che Uber progetti il proprio provider interno di mappe. Lo
scopo è occupare una posizione nello stack, questa megastruttura dove certi livelli sono più determinanti e
quindi più importanti, ma anche più difficili da bloccare e più soggetti a potere monopolistico e alte barriere
all’ingresso. Potremmo pensare che avere una posizione più bassa nello stack sia correlato a un potere
maggiore, ma questo non è sempre vero. Forse sorprendentemente, gli operatori di rete (vale a dire coloro
che forniscono l’infrastruttura di telecomunicazione di base) occupano una posizione a basso margine
nell’ecosistema che ruota attorno alle piattaforme – una posizione che li ha portati a spingere verso tariffe
discriminatorie per spostare i dati (la fine della “net neutrality”), una strategia per generare più ricavi25.
L’importanza strategica di una data posizione ha molto più a che vedere con il controllo dei dati da parte delle
aziende e dei clienti che semplicemente con una posizione di stack più bassa.
Queste prime due tendenze espansive danno ai monopoli di piattaforma uno specifico percorso di
espansione rispetto a modelli di business tradizionali che si basano sull’integrazione verticale od orizzontale o
sulla conglomerazione26. Piuttosto, l’espansione delle piattaforme è messa in moto dal bisogno di maggiori
quantità di dati, che porta a quella che potremmo chiamare la tesi della convergenza: ovvero la tendenza da
parte di diverse società che ruotano intorno a piattaforme ad assomigliarsi sempre di più quando toccano lo
stesso mercato e segmenti di dati. Attualmente esistono una miriade di diversi modelli di piattaforme emersi
da condizioni economiche contingenti e da decisioni strategiche basate su punti di forza in aree diverse27.
Una questione essenziale è cosa riservi lo sviluppo futuro di queste forme: convergeranno per andare a
formare una superpiattaforma? Oppure al contrario manterranno competitività attraverso la
specializzazione? Considerato il bisogno di sviluppare l’estrazione dati e di posizionarsi in location
strategiche, sembrerebbe che le società, tendenzialmente, finiscano con l’essere attirate dagli stessi campi.
Questo significa che, nonostante le loro differenze, aziende come Facebook, Google, Microsoft, Amazon,
Alibaba, Uber e General Electric (GE) sono anche concorrenti dirette. IBM, per esempio, si è spostata verso il
campo delle piattaforme con l’acquisto di Softlayer per il cloud computing, e Bluemix per lo sviluppo di
software. La tesi della convergenza contribuisce a spiegare come mai Google stia esercitando pressioni
insieme a Uber sul tema delle automobili senza pilota e come mai Amazon e Microsoft siano valutando delle
partnership con produttori tedeschi di auto relativamente alla piattaforma di cloud che serve proprio a quel
tipo di veicolo28. Alibaba e la Apple hanno entrambe investito significativamente su Didi con la partnership
di Apple particolarmente strategica visto che gli iPhone sono una fondamentale interfaccia nel caso dei servizi
di taxi. E quasi tutte le più importanti realtà si stanno impegnando per sviluppare piattaforme per dati
medici. La tendenza alla convergenza sta anche infiammando la concorrenza internazionale: lotte intense
stanno avendo luogo in India e in Cina per stabilire chi dominerà il settore del ride-sharing (Uber, Didi, Lyft)
e chi quello dell’e-commerce (Amazon, Alibaba, Flipkart). Alibaba è già il più grande sito di e-commerce al
mondo, se misuriamo il volume delle sue vendite29, e Flipkart è valutato intorno ai 15 miliardi di dollari.
Sotto la pressione di concorrenza e del conseguente obbligo a espandersi, dovremmo aspettarci che queste
piattaforme acquisiscano tante imprese quante gliene servono. Anche piattaforme di secondo livello come
Twitter e Yahoo rappresentano dei possibili acquisti, visto l’eccesso di liquidità in possesso dei campioni del
settore (e infatti, mentre scrivevo questo libro Microsoft ha acquisito LinkedIn per 26 miliardi di dollari,
garantendosi l’accesso ai diversi interessi, alle capacità e alle professionalità di milioni di lavoratori). Al 2015,
le fusioni e acquisizioni globali erano schizzate al 40 per cento al di sopra dei livelli di prima della crisi30, e le
piattaforme leader hanno tutte compiuto passi per acquisire risorse necessarie a competere con le proprie
rivali. In ultima analisi, si può considerare la convergenza – e quindi la concorrenza – a 360 gradi:
smartphone, lettori di e-book, IoT lato consumatore, piattaforme di cloud, servizi di videochat, servizi di
pagamento, automobili senza pilota, droni, realtà virtuale, attività sui social network, interfacce, forniture di
rete, di ricerca e probabilmente altro ancora in futuro.
Una terza tendenza dominante è l’incanalare l’estrazione dei dati in piattaforme cosiddette “silo”. Quando i
grandi mezzi non sono sufficienti a raggiungere un vantaggio competitivo, questo specifico approccio prova a
vincolare utenti e dati alla piattaforma legandoli al sistema con misure diverse: dipendenza da un servizio,
impossibilità a usare alternative, o mancanza di trasferibilità di dati, per esempio. La Apple è probabilmente
leader di questa tendenza, visto che rende i suoi servizi e dispositivi tutti altamente dipendenti fra loro e
chiusi ad alternative (con l’eccezione di rilievo dell’App Store, semiaperto). Facebook è un altro esempio
evidente di questo andamento. Infatti, una delle ragioni principali del successo di Facebook è che mentre
Google ha dominato il web libero attraverso la tecnologia applicata alle ricerche, Facebook è stato costruito
come una piattaforma chiusa che si è sottratta alla morsa di Google. L’obiettivo di Facebook era di fare in
mondo che gli utenti non dovessero mai lasciare quell’ecosistema, per così dire chiuso: notizie, video, audio,
messaggi, email, e anche comprare generi di consumo sono progressivamente stati portati all’interno della
piattaforma stessa. Questa forma di enclosure in Facebook assume connotati ancora più rigidi grazie al suo
tentativo di portare l’accesso a internet in India e in altri paesi grazie al programma Free Basics. I servizi di
Facebook verrebbero forniti gratuitamente, ma altri dovrebbero associarsi a Facebook passando attraverso di
esso, chiudendo a tutti gli effetti l’intera esperienza di internet nel silo di Mark Zuckerberg31. Anche se in
India è stato respinto, il servizio Free Basics è attualmente attivo in 37 nazioni e usato da oltre 25 milioni di
persone32. Anche Uber sta concretamente costruendo un sistema che incanala i passeggeri nel proprio
apparato. Una minore richiesta di taxi non facenti parte del network Uber significa minore domanda di
autisti fuori da Uber, questo mentre sempre più servizi si spostano sulla piattaforma. Con un numero di
utenti sempre più alto che si rivolgono a Uber, gli autisti che non vi aderiscono andranno a perderci e saranno
costretti a passare a Uber se vogliono sopravvivere. Lo stesso vale per i passeggeri: con meno taxi non-Uber
che girano per strada, l’unico modo per garantirsi il servizio sarà, alla fine, attraverso di esso. Anche il settore
delle piattaforme industriali è quasi sicuramente diretto verso la creazione di spazi enclosed, con Siemens e
GE incapaci (e non disposti) a comunicare fra di loro. I produttori finiranno col rimanere chiusi all’interno
del particolare ecosistema che andranno a scegliere. Questo è particolarmente importante in termini di
concorrenza intracapitalista: se società che non hanno piattaforme sono costrette a usarne per continuare a
lavorare, crescerà un divario fra questi due gruppi. Le società prive di piattaforma premeranno sulle altre per
far scendere i loro prezzi, e quelle reagiranno facendo sì che cambiare piattaforme sia sempre più costoso e
monopolistico. Anche Amazon ambisce a diventare una piattaforma chiusa, separata da Google. Invece di
rivolgersi a un motore di ricerca per cercare prodotti online, gli utenti andrebbero a cercarli, li
paragonerebbero, li acquisterebbero, li monitorerebbero e recensirebbero senza mai lasciare la piattaforma
Amazon.
Vediamo anche che il modello della piattaforma guida il cambiamento da web di tipo aperto ad app sempre
più chiuse. L’espansione degli smartphone ha portato sempre più utenti a interagire con internet via app e
non più visitando siti, e questo è un modo che permette alle società sia di espandersi che di chiudere la
raccolta dati. Con un numero sempre maggiore di persone che usano una specifica app, i loro dati vengono
estratti in quella sede, e le altre piattaforme ci vanno a perdere. Questo trend implica anche che i rivali
cerchino di sganciarsi dalla dipendenza da altri: Dropbox sta spendendo grandi quantità di denaro per
separarsi da AWS, e Uber sta cercando di slegarsi dal proprio bisogno di Google Maps. Anche in profondità
nello stack, le piattaforme stanno lavorando alla costruzione della loro infrastruttura di rete. Google, per
esempio, sta costruendo il proprio browser privato per internet, sistemi operativi, network via fibra e centri
dati – con informazioni che potrebbero non dover mai più viaggiare attraverso un’infrastruttura pubblica33.
Analogamente, il network via cloud di Amazon non è nulla se non un internet privato, con Microsoft e
Facebook a collaborare per la creazione di un proprio cavo transatlantico in fibra34.
Se portata a una conclusione logica, questa tendenza potrebbe condurre le piattaforme specializzate a
rinunciare all’idea di informatica generale per concentrarsi invece sull’ottimizzazione dei loro specifici servizi
e delle tariffe associate a questi servizi35. Alla fine, la predisposizione delle piattaforme principali a crescere
fino a una dimensione enorme grazie agli effetti di rete, insieme all’inclinazione a convergere verso una forma
simile, come dettato dalle richieste del mercato, le porterà a chiudersi – lo strumento cruciale per la
competizione contro i diversi rivali. Se questa analisi è corretta, allora la concorrenza capitalistica sta
portando internet a frammentarsi. Non c’è necessità perché si arrivi a questo risultato, visto che gli sforzi
politici possono bloccarlo o ribaltarlo, ma all’interno di un modo di produzione capitalista ci sono forti
pressioni concorrenziali che vanno verso questa conclusione.
Le sfide
Nonostante tutta la retorica sul superamento del capitalismo e sul passaggio a un nuovo modo di produzione
– una retorica relativa alla tesi post-industriale degli anni Sessanta, alle idee dei discepoli della “new
economy” degli anni Novanta e agli elogi radicali e conservatori nei confronti della sharing economy odierna
– rimaniamo ancora legati a un sistema di concorrenza e redditività. Le piattaforme offrono nuove forme di
concorrenza e controllo, ma alla fine la redditività rimane il grande giudice del loro successo. Considerati
questi vincoli, dobbiamo aprire le piattaforme all’economia in senso più ampio. Si può iniziare tornando sulla
scena della lunga recessione e del problema della sovracapacità produttiva a livello mondiale. Se guardiamo
al settore dell’industria americana, troviamo pochi segnali che stia migliorando. Dal punto di vista della resa,
la crescita della produzione è scesa da un tasso di crescita annuo del 2,1 per cento fra 1999 e 2008 a un 1,3 per
cento subito dopo36. Andamenti analoghi si registrano nella produttività del lavoro nel settore, che cresceva
a un tasso annuale pari a un buon 4,9 per cento fra 1999 e 2008 ma è crollata all’1,9 per cento di dopo la
crisi37. Questo forse bisognava aspettarselo, considerato che l’economia degli Stati Uniti continuava a fare
affidamento sulla crescita del settore non manifatturiero. Ma dando uno sguardo più ampio allo stato di cose
a livello mondiale non va meglio. In particolare, c’è l’enorme sovracapacità nella produzione della quale si è
resa responsabile la Cina. Per fare un solo esempio, la Cina rappresenta il principale produttore di acciaio al
mondo, e al 2015 era responsabile di oltre la metà del fabbisogno globale38. La Cina attualmente ha bisogno
di circa 700 tonnellate di acciaio per uso interno e 100 milioni di tonnellate per l’esportazione. Eppure,
nonostante gli sforzi continui volti a ridurre la sua capacità, ci si aspetta che la Cina vada ancora a produrre
1,1 miliardi di tonnellate d’acciaio nel 202039. La conseguenza della sovracapacità e della sovrapproduzione è
stata il dumping dell’acciaio in tutto il mondo a prezzi estremamente bassi, che ha portato ad abbassare i
prezzi in altre nazioni e ha condotto società come la Tata Steel in Gran Bretagna sull’orlo del disastro. Il
quadro d’insieme è ancora più terribile in Cina. Le stime indicano che il carbone arriverà presto a 3,3 miliardi
di tonnellate di eccesso di capacità, la produzione di alluminio continua a svilupparsi nonostante l’eccesso di
offerta a livello mondiale, potrebbero esserci 200 milioni di tonnellate di sovracapacità nell’ambito della
raffinazione petrolifera, e molte aziende chimiche stanno aumentando la capacità nonostante siano indietro
rispetto alla produzione potenziale40. In questo contesto le aziende del settore manifatturiero scommettono
sul fatto che l’internet industriale cambierà le cose. Sia Germania che Stati Uniti vedono la situazione come
una enorme opportunità – la prima vuole mantenere la propria posizione dominante nella produzione di alto
livello, la seconda rivitalizzare il ruolo che aveva guadagnato nel dopoguerra. L’internet industriale
sicuramente farà nascere alcune società di successo che per un po’ saranno in grado di ottenere maggiori
profitti, molto superiori rispetto a quelli dei competitor. La domanda cruciale tuttavia è se nel lungo periodo
questo supererà o no la mancanza di redditività e la sovracapacità del settore produttivo a livello mondiale.
Sembra improbabile, perché niente nel sistema dell’internet industriale sembra trasformare radicalmente il
concetto di produzione, ma semplicemente si limita a ridurre costi e fermo macchina. Invece di migliorare la
produttività o sviluppare nuovi mercati, l’internet industriale sembra portare ancora più in basso i prezzi e
sembra aumentare la concorrenza per le quote di mercato, esacerbando di conseguenza uno dei principali
ostacoli alla crescita globale. Chi possiede le piattaforme semplicemente sottrarrà ancora di più dei ricavi
generati, lasciando ancora meno a chi produce direttamente. Inoltre, la diffusa virata verso l’austerity
continuerà a deprimere la domanda aggregata in tutto il mondo, e le tendenze mondiali relative alla
produttività sono in calo. Fra il 1999 e il 2006 la produttività del lavoro era cresciuta del 2,6 per cento
annualmente, ma dalla crisi in poi il trend è andato riducendosi fino a circa un 2 per cento41. La produttività
totale dei fattori è ancora più bassa, con una crescita di circa lo zero per cento negli ultimi anni – una
congiuntura costante in quasi tutte le principali economie42.
In questo scenario – considerato anche la spinta verso il basso dei tassi di interesse a breve e a lungo
termine (a volte fino a toccare territori negativi) – è comprensibile che il patrimonio eccedente abbia cercato
ricavi dove possibile. In maniera simile al boom degli anni Novanta, quello delle start-up di oggi sembra
essere guidato in grandissima parte da forze di questo tipo: è una continuazione del keynesismo del prezzo
dei beni e non una rinuncia ai suoi principi di base. Eppure ci sono altri limiti che impediscono alle
piattaforme lean di fornire una fonte sostenibile di dinamismo. Forse i più rilevanti sono quelli che hanno a
che fare con la delocalizzazione. I bassi margini del modello di business indicano che i servizi che si
appoggiano a lavori infrequenti (fare la spesa, le pulizie e così via) sono destinati a soffrire, perché
semplicemente non generano sufficienti ricavi per sopravvivere. Uber, caso abbastanza unico, ha una
posizione ottimale, perché ci sono tante persone che prima o poi avranno bisogno di viaggiare. I dati
suggeriscono inoltre che i lavori svolti da personale altamente qualificato hanno scarse possibilità di successo
su una piattaforma lean, perché richiedono formazione (e di conseguenza impiegati) e sono soggetti a
lavoratori che tendono a mettersi in proprio (invece di rimanere in una relazione di sfruttamento con una
piattaforma). Addetti alle pulizie autonomi, per esempio, spesso possono guadagnare più di quanto possa
offrire una piattaforma e senza andarci a perdere, e questo alla fine è stato uno dei motivi per i quali Homejoy
è fallita43. Delocalizzare verso singoli non professionisti significa anche ridurre le rese che sono proprie di un
servizio professionale su ampia scala44. Per esempio, non è Uber che compra in massa i taxi per la propria
flotta, ma sono i singoli autisti a comprare i veicoli. Oppure con Airbnb, invece di avere una sola squadra
professionale di addetti alle pulizie, ci sono più non professionisti che cercano di svolgere le stesse mansioni.
Cose come queste significano che i costi complessivi sono più alti, il che rischia di rendere gli e-services più
costosi e meno produttivi rispetto ai loro concorrenti tradizionali. Alcuni servizi che possono appoggiarsi a
una forza lavoro globale – piccoli incarichi online, data entry, controllo dei contenuti, micro-programming,
e via dicendo – hanno buone possibilità di continuare a operare, semplicemente perché possono contare su
lavoratori iper-sfruttati in paesi a basso reddito. Per lo più, tuttavia, il tentativo di esternalizzare tutto si è
esteso in maniera eccessiva. Questo diviene ancora più rilevante se si considera che sta già avendo luogo una
protesta degli impiegati contro queste società (per esempio ci sono scioperi contro Uber o sindacati di autisti
Uber), e questo inevitabilmente porterà a dei rialzi nei costi operativi di queste piattaforme. Secondo i calcoli
di una class action, Uber dovrebbe ai propri autisti 852 milioni di dollari se fossero dipendenti (Uber si
difende dichiarando che in realtà sarebbero 429 milioni)45. Il risultato di queste pressioni verosimilmente
risulterà in un’azienda economicamente non sostenibile, se i diritti di base dei lavoratori verranno
riconosciuti ai dipendenti.
Nonostante questi vantaggi, la maggior parte di queste società non hanno alcuna redditività. Numerose
aziende hanno già dovuto tagliare i costi e i salari ulteriormente almeno per dare l’impressione plausibile di
poter diventare redditizie prima o poi. Tuttavia il modello “crescita prima dei profitti” stabilisce che perdite
rilevanti siano semplicemente parte della strategia. Homejoy, una piattaforma per le pulizie domestiche,
aveva provato a mettere fuori gioco i competitor con prezzi che erano inferiori ai costi, e alla fine il risultato è
che è collassata46. Uber è, fra questi, probabilmente il peggiore, visto che si segnala che andrà a perdere 1
miliardo di dollari all’anno solo per combattere un’altra società non redditizia cinese47. È difficile che una
lotta furibonda tra due società non redditizie finisca col simboleggiare il faro del capitalismo. Uber, tra l’altro,
spende una quantità immensa di denaro con azioni di lobbying e marketing, cercando di assicurarsi
regolamenti favorevoli e crescita nella base dei suoi utenti. La sua disperazione è tale che Uber ha addirittura
cercato di sabotare i propri concorrenti. Ha usato abbondantemente questa tattica nelle proprie relazioni sia
con società di taxi di lungo corso, sia con piattaforme alternative di ride sharing. Per respingere un
competitor, per esempio, Uber è arrivato a prenotare chiamate col rivale per poi cancellarle, nel tentativo di
intasare la sua disponibilità di autisti48. Quando la concorrenza attraverso i dati non funziona, soldi e azioni
di sabotaggio rimangono opzioni praticabili per le piattaforme lean.
Questo ci porta all’ultimo dei limiti significativi: le piattaforme lean sono completamente dipendenti da
un’immensa mania di eccedenza di capitale. Investire in start-up del settore tech oggi è sempre meno
un’alternativa alla centralità della finanza e più che altro una sua espressione. Proprio come nel primo boom
del settore tech, anche questo è stato innescato e sostenuto da una politica monetaria accomodante e da
grandi quantità di capitale alla ricerca di ricavi più alti. Anche se è impossibile dire quando la bolla scoppierà,
ci sono segnali che indicano che l’entusiasmo per questo settore si è già esaurito. Le azioni del settore tech
hanno subìto perdite enormi nel 201649. Si è verificata un’ondata di tagli sui privilegi dei dipendenti delle
start-up – con la fine degli open bar e degli snack gratuiti50. Cosa ancora più significativa, la crescita dei
finanziamenti per le start-up statunitensi è crollata drasticamente negli ultimi quattro mesi del 2015, di 6
miliardi di dollari. Con un calo improvviso dei finanziamenti in venture capital, le aziende si trovano
costrette a diventare redditizie più velocemente. Per molti servizi a basso margine le opzioni sono due: o
cessare la propria attività o tagliare i costi, alzando i prezzi allo stesso tempo. Quello che probabilmente
succederà è che un gran numero di queste società fallirà nel prossimo paio d’anni, mentre altre si
trasformeranno in prodotti di lusso, fornendo comodità on demand a prezzi elevati. Mentre il boom del
settore tech degli anni Novanta almeno ci aveva lasciato le fondamenta di internet, sembra che quello attuale
semplicemente ci lascerà con servizi premium per ricchi.
Laddove la maggior parte degli altri tipi di piattaforma sembrano occupare una posizione abbastanza forte
per sopportare qualunque crisi economica e ogni colpo inferto al loro modello di business, le piattaforme
pubblicitarie continuano a essere dipendenti in maniera incerta dai ricavi pubblicitari (come si è visto, Google
all’89,0 per cento e Facebook al 96,6 per cento). Bisogna anche ricordare che le piattaforme usano le
sovvenzioni incrociate per costruire i propri imperi. Il portfolio di servizi gratuiti messi a disposizione da
Google e i suoi investimenti in tecnologia di alto livello sono completamente basati sui profitti generati dai
suoi servizi pubblicitari (e vale la pena sottolineare che il mondo della finanza rappresenta il suo maggiore
cliente in questo senso)51. La pubblicità è, nel processo di valorizzazione capitalista, un mezzo per assicurarsi
che il valore delle materie prime venga raggiunto attraverso le vendite. È un’espressione della concorrenza tra
società, ma non produce nuovi beni. Per di più, la pubblicità non è immune alle crisi economiche. Fra il 2007
e il 2012, la spesa in pubblicità diminuì della metà in Grecia e di un terzo in Spagna, mentre nel 2012 in tutta
l’Eurozona si registrò un calo dell’ 1,1 per cento nella spesa52. Negli Stati Uniti, la spesa per le inserzioni è
tornata ai livelli del 2008 solo nel 201253. Più in generale, una lunga serie di studi in ambito economico
mostra come la pubblicità sia altamente correlata alla crescita economica complessiva54. Il basso costo delle
inserzioni pubblicitarie digitali rispetto a quelle tradizionali ha anche implicato che la crescita del settore
abbia accusato un ritardo rispetto alla crescita economica, ed è destinata a calare ancora di più nei prossimi
anni55. È semplicemente più economico che mai avere la stessa quantità di visibilità pubblicitaria. Cosa
problematica per Google e Facebook (o altri servizi che fanno affidamento sulle inserzioni), si prevede che la
crescita pubblicitaria digitale rallenterà in maniera significativa, da un 14,7 per cento annuo tra 2009 e 2014
a un 9,5% fra 2014 e 201956. Oltre a tutto ciò, non è chiaro come il settore pubblicitario possa prosperare in
un mondo di ad blocker, di bot che falsano il numero di view degli spot, e di spam sistematico. L’uso globale
degli ad blocker è cresciuto del 41 per cento nel 2014 (in quell’anno ha impedito ricavi pubblicitari stimati in
21,8 miliardi di dollari) e del 96 per cento nel 201557. Per fare un paragone, Facebook ha guadagnato 11,5
miliardi di dollari attraverso le pubblicità nel 2014 – il che significa che gli ad blocker non sono affatto poca
cosa per l’industria. Le aziende combattono contro questi trend tecnici – ma bisogna chiedersi se la ricchezza
della società sia ben spesa finanziando una corsa alle armi pubblicitaria. Nel frattempo, nuovi tipi di software
danno alle persone ancora più controllo sui dati che rendono disponibili, e i governi mondiali iniziano a
legiferare sulla raccolta dati online58. La pubblicità rimane una fonte di ricavo instabile per queste aziende.
Anche il chief economist di Google Hal Varian prevede che la pubblicità perderà la propria importanza e che
Google alla fine adotterà un modello pay-per-view59.
Cosa ci riserva, dunque, il futuro? Se le tendenze delineate in questo libro continueranno, possiamo aspettarci
uno scenario in particolare. Le piattaforme andranno avanti a espandersi in tutto l’ambito economico, e la
concorrenza le condurrà sempre di più verso una forma di enclosure. Le piattaforme che dipendono dai ricavi
pubblicitari saranno portate a trasformarsi maggiormente in aziende con possibilità di pagamenti diretti. Allo
stesso tempo, le piattaforme lean che dipendono da costi di delocalizzazione e dalla ampiezza dei capitali di
rischio andranno fallite o si trasformeranno in piattaforme prodotto (come Uber sta provando a fare con le
automobili senza pilota). Alla fine, appare chiaro che il capitalismo delle piattaforme incorpori tendenze che
lo portano a richiedere dei canoni in cambio di servizi (sotto forma di piattaforme cloud, piattaforme
infrastrutturali o piattaforme prodotto). In termini di redditività, Amazon è più vicina al futuro di Google,
Facebook o Uber. In questo scenario, le sovvenzioni incrociate dietro molta parte dell’infrastruttura rivolta al
pubblico di quello che è attualmente internet andrebbero a sparire, e le disuguaglianze già esistenti a livello di
reddito e ricchezza verrebbero ripetute sotto forma di disparità di accesso. Per di più, queste piattaforme
arriverebbero a sottrarre grandi quantitativi di capitale alle società che dipendono da esse per i loro processi
produttivi.
Alcuni sostengono che potremmo combattere queste tendenze monopolistiche costruendo piattaforme
cooperative62. Tuttavia tutti i problemi tradizionali di queste strutture (come la necessità di un auto-
sfruttamento sotto relazioni sociali capitalistiche) sarebbero peggiorate dalla natura monopolistica delle
piattaforme, dalla dominazione degli effetti di rete, e dall’ingente quantità di risorse dietro queste aziende.
Anche se tutto il loro software divenisse open-source, una piattaforma come Facebook avrebbe ancora il peso
di tutti i dati che ha già, insieme agli effetti di rete e le risorse per combattere ogni rivale cooperativo.
Lo stato, invece, ha il potere di controllare le piattaforme. Le cause in materia di antitrust possono rompere
i monopoli, le normative locali possono impedire o addirittura vietare le piattaforme lean che tendono allo
sfruttamento, le agenzie governative possono imporre nuovi controlli sulla privacy, e azioni coordinate
sull’evasione fiscale possono far tornare il capitale in mani pubbliche. Queste iniziative forse sono tutte
necessarie, ma bisogna ammettere che rimangono abbastanza prive di fantasia, e piccole. Inoltre trascurano
le condizioni strutturali che hanno giocato un ruolo nell’ascesa delle piattaforme. Nel bel mezzo di una
recessione lunga nel campo produttivo, le piattaforme sono emerse come un modo per deviare i capitali in un
settore relativamente dinamico orientato all’estrazione di dati.
Invece di regolamentare semplicemente le piattaforme corporate, potrebbero essere fatti degli sforzi per
creare piattaforme pubbliche – di proprietà e controllate dalla popolazione (e, cosa importante, autonome dal
sistema di sorveglianza da parte dello stato). Questo vorrebbe dire investire le enormi risorse a disposizione
delle nazioni nella tecnologia necessaria a sostenere queste piattaforme, per offrirle come servizio pubblico.
In maniera ancora più radicale, si potrebbe spingere per ottenere piattaforme post-capitaliste che usino i dati
in esse raccolti allo scopo di distribuire risorse, garantire partecipazione democratica, e generare ulteriore
sviluppo tecnologico. Forse al momento attuale dobbiamo andare verso una collettivizzazione delle
piattaforme.
Tuttavia, ogni tipo di sforzo per trasformare la nostra condizione deve considerare l’esistenza delle
piattaforme. Capire effettivamente la congiuntura attuale è essenziale per creare strategie e tattiche utili in
questo passaggio. Sebbene non appaiano indirizzate a superare le condizioni che hanno determinato la lunga
recessione, le piattaforme stanno consolidando il proprio potere monopolistico, accumulando una ricchezza
immensa. Mentre si inseriscono sempre più nella nostra infrastruttura digitale e la società ne diventa
progressivamente più dipendente, è cruciale capire come funzionano e cosa può essere fatto. La costruzione
di un futuro migliore dipende da questo.
1. Perez, 2009: 782.
2. MIT Technology Review, 2016: 7.
3. Vedi Burson-Marsteller, 2016.
4. Meeker, 2016; Herrman, 2016.
5. Brenner e Glick, 1991: 89.
6. Questa è la giustificazione data dalla Camera dei lord inglese nel dichiarare che i monopoli nelle piattaforme non sono una grossa
preoccupazione. Commissione speciale sull’Unione Europea, 2016.
7. Wheelock, 1983; Baran e Sweezy, 1966: 76.
8. MIT Technology Review, 2016: 6.
9. Zuboff, 2015: 79.
10. Stucke e Grunes, 2016: 45.
11. Ibid., 40.
12. Stranamente, il primo caso di “Internet delle cose” consisteva in un tostapane connesso e controllato via internet, nel 1989.
13. Kelion, 2013.
14. Mason, 2016.
15. Zuboff, 2016.
16. Zuboff, 2015: 79–80.
17. Bratton, 2015: 116.
18. Metz, 2012.
19. Shankland, 2009.
20. Metz, 2012.
21. MIT Technology Review, 2016: 8.
22. Stucke e Grunes, 2016: 127–8.
23. Bradshaw, 2016.
24. Kuang, 2016.
25. Schiller, 2014: 91–3.
26. Stucke e Grunes, 2016: 106.
27. Bratton, 2015:142.
28. Taylor, 2016.
29. World Bank, 2016: 109.
30. Kawa, 2016.
31. Morozov, 2015a: 56.
32. Bowles, 2016.
33. Bratton, 2015: 118.
34. Lardinois, 2016.
35. Ibid., 119.
36. Dipartimento del Lavoro USA, 2016a.
37. Dipartimento del Lavoro USA, 2016b.
38. Word Steel Association, 2016.
39. Mitchell, 2016.
40. “Gluts for Punishment”, 2016.
41. The Conference Board, 2015: 4.
42. Ibid., 5.
43. Farr, 2015.
44. Kaminska, 2016c.
45. Levine e Somerville, 2016.
46. Farr, 2015.
47. Jourdan e Ruwitch, 2016.
48. Biddle,2014.
49. Shinal, 2016.
50. Kim, 2016.
51. WordStream, 2011.
52. Bradshaw, 2012.
53. Vega e Elliott, 2011.
54. Jones, 1985; Chang e Chan-Olmsted, 2005; van der Wurff, Bakker e Picard, 2008.
55. McKinsey & Company, 2015: 7, 11.
56. Ibid., 17.
57. “The Cost of Ad Blocking”, 2016: 3; Meeker, 2016.
58. Pollack, 2016.
59. Varian, 2015.
60. Morozov, 2016.
61. Smith, 2016.
62. Scholz, 2015.
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