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Una Ahnenerbe casalinga

Di Fabio Calabrese
www.ereticamente.net
2014 -2018

Una Ahnenerbe casalinga, prima parte

La Società Ahnenerbe era, come è noto, un'associazione esistita in Germania nel periodo fra le
due guerre mondiali, che si è occupata delle ricerche e dello studio dell'eredità degli antenati
germanici e indoeuropei. Era un'emanazione diretta del Terzo Reich, ed ha organizzato spedizioni
ai quattro angoli del mondo per chiarire il mistero dell'eredità ancestrale. Fra queste, le più
famose sono state probabilmente quelle guidate dall'esploratore Sven Hedin in Asia centrale.
“Ahnenerbe” significa appunto “Eredità degli antenati”.
Si fa spesso osservare che in queste ricerche i Tedeschi hanno speso più di quanto abbiamo fatto
gli Americani per la realizzazione della bomba atomica. Di solito, questa osservazione viene
presentata in maniera sgradevolmente ironica, come dire quanto folli e fuori dalla realtà fossero questi nazionalsocialisti. Si
tratta di una questione di priorità. Per i democratici yankee, miranti a un potere bruto e intrinsecamente violento sul resto del
nostro pianeta, attraverso il ferro e l'oro, il potere tecnologico-militare e quello del denaro, l'eredità degli antenati di
chicchessia, a cominciare dai loro, non aveva e non ha alcuna importanza, anzi, un'identità legata alle radici, una tradizione
veicolata dal sangue, era ciò che massimamente si opponeva, e ancora oggi si oppone all'universale trionfo della democrazia
che ha come premessa l'appiattimento e la cancellazione delle differenze fra gli uomini.
Per chi non la pensa così, sciogliere il nodo delle nostre origini, della nostra eredità ancestrale, capire chi veramente siamo,
è forse più importante che avere i mezzi per esercitare un bruto potere di distruzione sull'intero pianeta.
Come certo avete potuto notare, fra tutte le tematiche politiche, metapolitiche, filosofiche, esistenziali, religiose, quella su
cui ho concentrato maggiore attenzione negli ultimi tempi, è proprio il problema delle origini, al punto che mi sembra di
aver messo insieme quella che, tenendo conto di tutte le proporzioni del caso, si potrebbe forse definire una piccola
Ahnenerbe casalinga.
Il motivo di una simile scelta è collegato precisamente al successo che sta raccogliendo “Ereticamente”. Nel giro di un paio
d'anni la nostra testata è notevolmente cresciuta come diffusione e lettori, al punto che oggi la si può definire
tranquillamente un punto di riferimento della nostra “Area”. Un successo, spero che nessuno mi riterrà presuntuoso se lo
affermo, al quale col centinaio e passa di articoli che ho finora collocato sulla nostra testata, mi sembra di aver dato un
contributo non trascurabile.
Assieme ai lettori, è cresciuto il numero dei collaboratori, così che mentre all'inizio ci si poteva e ci si doveva occupare un
po' di tutto, è diventato giocoforza ritagliarsi un settore più specializzato.
Ben prima di arrivare alle pagine di “Ereticamente”, il problema delle origini della civiltà europea, delle culture
indoeuropee, dell'uomo caucasico, è un argomento a cui, da qualcosa più di una ventina d'anni, ho dedicato una particolare
attenzione, a prescindere dalla prospettiva di pubblicare qualcosa in merito.
Non so se finora ho avuto l'occasione di raccontarvi l'episodio che mi ha portato ad accendere un particolare interesse in
proposito. Eravamo nel 1991, quasi ventitré anni fa, mi trovavo a scuola (una scuola diversa da quella dove insegno
attualmente) durante un intervallo in sala insegnanti, e come spesso succede, fui coinvolto in una discussione fra colleghi,
una di quelle dove – una volta tanto – emergono argomenti non futili.
Una collega, docente di storia dell'arte e patita dell'oriente se ne uscì con l'affermazione che sebbene l'uso delle staffe
compaia per la prima volta in maniera documentata in Europa nell'Alto Medioevo, dovesse essere anche questa
un'invenzione orientale perché a suo dire, noi Europei “non avevamo mai inventato nulla”.
Questo discorso ebbe il potere di offendermi nel mio orgoglio di uomo europeo e caucasico. Risposi con enfasi che, se
anche quella delle staffe fosse stata la sola invenzione attribuibile a noi Europei, essa non era così da poco come la collega
pensava: prima di essa un cavaliere era costretto a stringersi con le gambe alla cassa toracica del cavallo e tenersi sempre
aggrappato almeno con una mano ai finimenti. Le staffe, scaricando verticalmente il peso del cavaliere, trasformavano
l'animale in una piattaforma molto più stabile che permetteva di tenere armate entrambe le braccia (con lancia o spada, e
scudo, di solito). Fu l'invenzione delle staffe che fece della cavalleria franca la più formidabile macchina da guerra che il
mondo avesse fin allora conosciuto, e che schiantò lo slancio della conquista arabo-islamica a Poitiers. Ricordo che rievocai
con toni epici dettati dalla passione quello scontro cruciale: questa battaglia durò tre giorni e due notti durante i quali i
cavalieri franchi (ce ne fossero oggi!) ributtarono costantemente indietro le orde mussulmane con tale slancio da far pensare

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che davvero in loro si fosse incarnato lo spirito dell'Europa che non accettava di veder trasformato il nostro continente in un
pezzo di mondo islamico.
Non mi fermai qui, credo che tirai fuori praticamente tutto, dalle pitture parietali di Altamira ai monoliti di Stonehenge, ai
templi, alle sculture alla pittura vascolare greca, alle strade e le mura romane, agli affreschi pompeiani, alle cattedrali
gotiche. Credo di averla lasciata tramortita, e gli altri colleghi stupefatti dalla mia irruenza, di solito sono una persona
alquanto posata nelle relazioni personali.
Io, tuttavia, non mi sentivo soddisfatto. Per certi versi, penso di essere un uomo all'antica, e aver avuto ragione di una
donna, sia pure in uno scontro verbale, non mi sembrava una gran vittoria, ma soprattutto non mi bastava aver avuto
ragione, volevo essere certo di AVERE ragione, e quell'episodio è diventato il punto di partenza di una serie di ricerche, sia
pure affidate alle fonti scientifiche e letterarie, non avendo io la possibilità di condurre spedizioni e campagne di scavi, e
riflessioni personali, il cui contenuto si è poi in gran parte riversato nei testi che avete letto su “Ereticamente”.
Più procedevo in questo genere di lavoro, più quello che scoprivo si è rivelato sorprendente ai miei stessi occhi. Quando si
salta dal livello della presunta informazione scolastica e divulgativa a quello dei lavori appena un po' più approfonditi degli
specialisti, ci si accorge che la storia che ci raccontano non è “la Storia”, ma letteralmente una bufala, una fiaba.
Cosa dire, ad esempio, delle tavolette “di Tartaria” (che nonostante il nome non hanno nulla di asiatico, furono ritrovate nel
1962 in uno scavo nel sito di Turda in Romania), che contengono i più antichi pittogrammi, i più antichi esempi di scrittura
conosciuti al mondo, e la cui esistenza da mezzo secolo è nota agli specialisti ma rimane rigorosamente celata al grosso
pubblico? Che dire, per citare solo un altro esempio, delle sepolture ritrovate nei pressi di Stonehenge, per citare soltanto
una, quella del ragazzo con la collana di ambra, che ha restituito i resti di un quindicenne proveniente dal Mediterraneo che,
data la sua giovane età, è inverosimile avesse raggiunto il santuario megalitico da solo ma doveva far parte di un gruppo
familiare, e aveva al collo un monile di preziosa ambra baltica. Ci lascia intravedere un'Europa preistorica molto diversa da
quella che ci viene solitamente descritta, dove le persone e le merci viaggiavano su grandi distanze, e non isolati
avventurieri, ma interi gruppi familiari.
I motivi di questa mistificazione sono, io penso, sia storici sia politici. Motivi storici: la “nostra” cultura, la cultura che ci è
stata imposta, di base è cristiana, biblica, ecclesiastica. E' semplicemente ovvio che per quanto riguarda la storia antica
attribuisca al Medio Oriente, la parte del mondo in cui è stata scritta la bibbia, la sola che i suoi estensori conoscevano, una
centralità spropositata. La nostra concezione del mondo si è affrancata dall'influenza biblica con Copernico e Galileo sul
terreno dell'astronomia e delle scienze fisiche, con Darwin su quello delle scienze biologiche, ma per quanto riguarda le
scienze storiche, un'analoga rivoluzione non è mai avvenuta.

A questi motivi storici, se ne sommano altri più recenti e contingenti di natura politica. Dopo due disastrose guerre mondiali
che hanno fatto perdere al nostro continente quell'egemonia planetaria che fin allora possedeva (E' inutile illudersi, tutti noi
Europei abbiamo perso ENTRAMBE le due guerre mondiali: i vantaggi territoriali acquisita dall'uno o dall'altro stato
europeo “vincitore” nell'uno o l'altro dei due conflitti, non sono valsi la perdita dell'egemonia planetaria del nostro
continente, e oggi rischiamo di scomparire come entità nazionali a causa di un'invasione camuffata da immigrazione),
l'Europa si è trasformata in una costellazione di stati a sovranità limitata, prima in un condominio americano-sovietico, oggi
in una serie di colonie degli Stati Uniti. In questa situazione, una cultura, una “scienza” storica strettamente ammanicate a
un potere politico che è di tipo PROCONSOLARE, subordinato a una potenza ad di fuori dell'ecumene europeo, si
guardano bene dall'incoraggiare negli Europei l'orgoglio di essere tali, e magari la volontà di resistere al potere mondialista
che ha deciso la loro sparizione per progressivo annegamento in un'ibrida società multietnica.
Io penso possa essere non privo d'interesse il racconto della storia della mia piccola Ahnenerbe casalinga prima della sua
confluenza in “Ereticamente”, possa essere fonte di qualche interessante insegnamento. Ricordo che qualche anno dopo
aver iniziato una serie di ricerche e riflessioni riguardo all'antichità e originalità della civiltà europea, decisi di condensare i
risultati raccolti in uno scritto da far circolare fra i miei colleghi nella speranza di suscitare un dibattito, e con il remoto
proposito di trovare da qualche parte un qualche sbocco di pubblicazione. E' ovvio che da questo scritto avevo espunto ogni
chiaro riferimento alla politica.
Devo dire di aver avuto veramente una pessima idea, o forse non tanto pessima, perché se non altro mi ha permesso di
constatare con mano di che pasta sono realmente fatti “gli intellettuali” a cui affidiamo inconsapevolmente la formazione
dei nostri giovani.
Ricordo un collega di taglio culturale inequivocabilmente marxista che reagì malissimo al mio scritto (sebbene non
contenesse alcuna affermazione politica esplicita), secondo lui, esso era intriso al massimo di “pregiudizi eurocentrici”. Egli
in pratica aderiva a quel concetto di relativismo culturale che ritroviamo nell' “epistemologia anarchica” di Feyerabend, nel
“rifiuto di distinguere fra le conoscenze e gli usi” di Levi Strauss. Secondo quest'orientamento di pensiero, una capanna di
paglia dell'Africa centrale e la cattedrale di Chartres sono la stessa cosa, come hanno l'identico valore un'operazione a cuore
aperto, prodotto di una raffinata tecnica chirurgica che a sua volta è il frutto di una conoscenza medica sviluppata attraverso
un'indagine sistematica del corpo umano, e la danza di uno stregone per scacciare gli spiriti maligni. In pratica, questo “non
eurocentrismo”, questo relativismo culturale è una sistematica svalutazione di tutto ciò che è europeo, caucasico, “bianco”.
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Ma io penso che l'avversione che lui e anche altri “compagni professori” hanno manifestato per il mio scritto (che in
apparenza, lo ripeto, non parlava per nulla di politica) avesse anche un'altra ragione più profonda. Io ancora non me ne ero
reso ben conto, ma li spiazzava perché LI COGLIEVA IN CASTAGNA. La dialettica materialista, il materialismo storico e
dialettico inventato da Marx, più che come un hegelismo frainteso, si presenta ai suoi adepti come una chiave magica in
grado di dare loro una comprensione profonda dei meccanismi del divenire storico. Il mio scritto lo e li sbugiardava, perché
non erano stati in grado di cogliere neppure la natura clericale di base della concezione corrente della storia. Senza propormi
tanto, avevo evidenziato che la pretesa di scientificità del “socialismo scientifico” marxista è una vera ridicolaggine.
Molto interessante è stata anche la reazione di una collega che non sapevo fosse, e ho appreso dalla reazione al mio scritto
che era, una fervente cattolica. Mi riferì di essere rimasta sbalordita nel constatare che nel mio scritto passavo direttamente
dall'antichità al rinascimento, saltando del tutto il contributo che il cristianesimo aveva dato allo sviluppo della civiltà
europea. Contributo che a suo dire consisteva soprattutto in due idee di origine biblico-ebraica che il cristianesimo aveva
apportato all'Europa: la linearità del tempo e la non sacralità della natura.
Che questa influenza vi sia stata, è fuori di dubbio, ma quel che ha apportato alla cultura europea, mi pare siano elementi di
crisi, di frizione. Nel mondo antico gli Ebrei erano forse i soli a non concepire il tempo come circolare, ciclico, ma lineare,
dalla creazione “nel principio” fino alla sua inevitabile fine. L'idea di un tempo lineare diventa facilmente quella di uno
sviluppo ascendente, si converte facilmente in quell'insidiosa fola del progresso, che sappiamo quanti danni abbia fatto
all'Europa e alla sua cultura. La pretesa che ciò che ci si presenta come più nuovo sia per ciò stesso migliore di ciò che lo
precede, è un grimaldello di cui le forze della sovversione si sono servite e continuano a servirsi per far saltare via pezzi
man mano più grandi della tradizione europea, e le conseguenze devastanti di ciò sono sotto gli occhi di tutti.
La non sacralità della natura. Questo rappresenta forse lo spartiacque più evidente fra il paganesimo, CIOE' L'AUTENTICA
TRADIZIONE EUROPEA e la concezione monoteistica-semitica-abramitica-cristiana. PER IL PAGANESIMO LA
NATURA E' SACRA e l'uomo ne fa parte. Secondo la mia collega, era proprio questa desacralizzazione della natura di
matrice cristiana che aveva permesso all'uomo europeo di sviluppare quell'atteggiamento aggressivo di dominio sulla natura
che aveva portato alla nascita della moderna tecnologia. Ciò può senz'altro essere ma ha portato anche a un atteggiamento
irresponsabile nei confronti della natura stessa, al saccheggio scriteriato delle risorse ambientali, all'inquinamento, alla
distruzione di specie viventi, ma soprattutto è una vera e propria malattia dello spirito: quando si arriva a vedere nella
cementificazione e distruzione di un habitat naturale qualcosa di cui entusiasmarsi, un “progresso”, vuole proprio dire che si
è entrati nel campo della psicopatologia. Abbiamo dimenticato l'insegnamento di Francesco Bacone: “Alla natura si
comanda soltanto obbedendole” o anche quello che in forma forse più poetica lo scrittore Giuseppe Festa presenta nel suo
libro “I boschi della luna”: “L'uomo non è l'artefice dell'arazzo della vita, è solo uno dei fili che ne compongono la trama”.
Nel cristianesimo, questa desacralizzazione della natura agisce anche all'interno dell'uomo, che viene indotto a percepire i
suoi istinti naturali come “peccaminosi”, “bassi”, “animaleschi”, e non credo occorra insisterci molto, sappiamo tutti quanto
l'atteggiamento morboso del cristianesimo nei confronti della sessualità abbia seminato nella nostra cultura una grandissima
scia di nevrosi e sofferenze.
Certamente, non si può negare che il mondo semitico abbia influito sull'Europa attraverso il cristianesimo o altri canali, ma
non credo proprio che in quest'influenza si possa ravvisare alcunché di positivo.
Torniamo al momento presente. A che punto sono le cose con la nostra Ahnenerbe casalinga? Diciamo che le ricerche
continuano. Se si ha in animo di raccontare una fola, è bene evitare di spingersi troppo oltre, perché i nuovi fatti che man
mano emergono tenderanno inevitabilmente a smentirvi, ma se da oltre vent'anni tutte le nuove ricerche e i fatti che
emergono tendono a confermare le vostre tesi, allora significa proprio che siete nel giusto. Per sorprendente che possa
apparire la cosa, abbiamo già ulteriori aggiornamenti riguardo alla nostra ricerca delle origini, e saranno l'oggetto della
seconda parte di questo scritto.
Ricordiamo sempre che questa non è una ricerca di valore puramente accademico: conoscere il passato significa capire il
presente e dotarsi dei mezzi per compiere le scelte giuste per avere un futuro.

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Una Ahnenerbe casalinga, seconda parte

Riprendiamo la nostra disamina, procediamo oltre nel chiarire quel che allo stato dei fatti presenti possiamo ancora dire sull'
“eredità degli antenati” che andiamo man mano riscoprendo, nel segno e con lo scopo di riscoprire e difendere la NOSTRA
identità, di guardare al passato per avere un futuro.
Sarà per prima cosa utile allo scopo di evitare equivoci, brevemente “ripassare i fondamentali”. Come certamente avrete
notato, nei miei scritti ho parlato spesso di civiltà europea, evitando scrupolosamente i termini “Occidente” e “civiltà
occidentale”. Io penso che tutte le volte che qualcuno parla di occidente in senso diverso da quello di “punto cardinale
coincidente con la direzione del tramonto” o addirittura lo scrive con la maiuscola, abbiamo motivo di considerare la cosa
con sospetto.
Questa terminologia aveva un significato fino a un secolo fa, quando indicava l'Europa più le sue propaggini extraeuropee:
le Americhe e l'Australia, ma in seguito alle due guerre mondiali in conseguenza delle quali il baricentro dell'occidente si è
spostato dall'Europa agli Stati Uniti, essa ha del tutto cambiato di segno. Di fatto, oggi “occidentalismo” significa la stessa
cosa che atlantismo o filo-americanismo, qualcosa che non è assolutamente possibile avallare, che equivale per l'Europa
all'accettazione di una mortificante dipendenza, una dipendenza che, come quella da sostanze stupefacenti, compromette
sempre di più la nostra salute, infatti assistiamo al progressivo svuotamento della cultura europea, man mano sostituita dagli
stereotipi anche molto bassi, che ci provengono da oltre oceano, hollywoodiani o altro.
Come se non bastasse, oggi parlare di Europa è diventato molto più difficile che nel passato. Oggi non si usa quasi più il
termine “europeismo” che è diventato un'etichetta che può coprire cose troppo diverse, e provoca (giustificate!) reazioni di
ostilità nella maggior parte delle persone, poiché con esso spesso e volentieri si indicano i sostenitori di quella pseudo-
unione europea che è la UE. Occorre ribadire con la massima energia che LA UE NON E' L'EUROPA, che è un'accolita di
burocrati al servizio del potere mondialista, che ha lo scopo di dissanguare economicamente i popoli europei e di favorire la
loro cancellazione etnica attraverso l'incoraggiamento dell'immigrazione e del meticciato. I veri, non diciamo europeisti,
diciamo EUROPEI, si contano fra coloro che si oppongono alla UE: i movimenti cosiddetti euroscettici e populisti, come
Alba Dorata in Grecia e Jobbik in Ungheria.
Sperando che su tutto ciò nessuno nutra dubbi di sorta, torniamo al lavoro della nostra piccola Ahnenerbe casalinga.
Un problema che mi è stato segnalato dalla redazione di “Ereticamente” riguarda un collaboratore che si è aggiunto da poco,
Michele Ruzzai, che si è anch'egli dedicato a scandagliare il problema delle origini. Non c'era il rischio che io e lui,
affrontando le stesse tematiche, finissimo per produrre articoli-fotocopia uno dell'altro? Li ho tranquillizzati: la nostra
impostazione è abbastanza diversa perché non ci sia un rischio simile. Ruzzai ha in sostanza sviluppato un commento alla
dottrina tradizionale indiana dei quattro Yuga, le quattro età del mondo, mentre io sono andato a esaminare le teorie
scientifiche, o che ci vengono presentate come tali, sulle nostre origini: quella che vorrebbe la civiltà nata da qualche parte
in Medio Oriente fra Egitto e Mesopotamia, la teoria “nostratica” che vorrebbe i popoli indoeuropei originari da popolazioni
di agricoltori mediorientali, quella che vorrebbe la nostra specie, homo sapiens, di origine africana.
Semmai si potrebbe forse pensare che vi sia un problema contrario, un possibile motivo di frizioni dovuto a un'impostazione
molto diversa su queste tematiche. E' ben vero, infatti, che ho analizzato queste teorie ma che io chiamerei piuttosto
leggende o favole “scientifiche” sulle nostre origini, la provenienza orientale della civiltà, l'origine mediorientale degli
indoeuropei e quella africana della nostra specie, per dimostrarne tutta la traballante inconsistenza, ma è anche vero che io
ho cercato di basare la mia risposta alle questioni delle origini piuttosto sull'indagine di tipo scientifico che sul mito e la
tradizione, e che a mio avviso, influenzati dalla strumentalizzazione che ne è stata fatta “a sinistra”, noi sbagliamo nel
respingere il darwinismo, idea che sembrerebbe ostica e difficile da accettare per un tradizionalista “integrale” e ortodosso.
In realtà, non c'è neppure questo pericolo. Michele Ruzzai è anche lui triestino, siamo entrambi in contatto con un circolo,
un'associazione molto informale dove più volte sia io che lui abbiamo tenuto delle conferenze per illustrare e approfondire
la nostra visione del mondo. Vi assicuro, un ambiente niente male di cui fa parte fra gli altri anche Gianfranco Drioli,

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l'autore del libro sulla Ahnenerbe (quella vera) pubblicato da Thule Italia, e più di una volta abbiamo avuto ospite Silvano
Lorenzoni.

Poco tempo fa, ho tenuto in questo circolo una conferenza, dove fra le altre cose ho esposto gli stessi concetti che trovate
nella terza parte di “Alla ricerca delle origini”, “Rifacciamo i conti con Darwin”. Il naturalista inglese è stato (volutamente?)
frainteso. Il punto centrale della sua teoria è il concetto di selezione naturale, ossia la sopravvivenza del più riuscito, del più
adatto, concetto tutt'altro che democratico. Per evoluzione (termine che non usa quasi mai) non intende la tendenza
all'ascesa del vivente verso le “magnifiche sorti e progressive” ma la trasformazione delle specie nel tempo per effetto della
selezione naturale. Che Darwin sia stato frainteso, era anche l'opinione del biologo francese Jacques Monod, che ha indicato
gli autori di questo fraintendimento/falsificazione: Karl Marx, Henry Bergson, Teilhard De Chardin (un bel terzetto, come si
vede: due ebrei e un gesuita).
Julius Evola, ho spiegato nella conferenza come nell'articolo, ha sviluppato un'alternativa non creazionista
all'evoluzionismo: la comparsa nella storia della vita di tipi man mano più complessi e “superiori” sarebbe il prodotto non di
un'evoluzione, ma della caduta nel piano materiale di entità progressivamente più elevate, sicché dal punto di vista
ontologico, non si tratterebbe di evoluzione ma di decadenza. Questa soluzione ha però un difetto, è di troppo difficile
comprensione per dei ragazzotti che si sono scoperti tradizionalisti perché hanno letto qualche pagina di Evola, magari solo
“Orientamenti” e che, in mancanza di meglio, finiscono per ripiegare sul creazionismo, quindi sul ritorno alle religioni
abramitiche. E' questo a mio parere che spiega come mai molti abbiano visto nel pensiero di Julius Evola una specie di
ponte per tornare verso il cattolicesimo e andare a intrupparsi fra i tradizionalisti cattolici, sono quelli che di Evola non
hanno capito un'acca!

Michele Ruzzai che era presente alla conferenza, ha assentito decisamente, soprattutto riguardo alla mia spiegazione della
metamorfosi da evoliani a cattolici di certi personaggi.
Sembra proprio che le recenti scoperte sul DNA e il crollo della leggenda dell'origine africana stiano creando un
atteggiamento nuovo. Persino un cattolico intransigente come Maurizio Blondet si è chiesto in un recente articolo come mai
“i compagni” accettino il darwinismo biologico ma non quello sociale. In realtà costoro non accettano nemmeno il
darwinismo biologico ma la versione falsificata, pseudo-scientifica MBT (Marx-Bergson-Teilhard) dell'evoluzione.
La nostra Weltanschauung non richiede un totalitarismo di tipo staliniano. Vi deve essere concordia sul piano dell'azione,
ma apporti culturali e sensibilità personali differenti sono ammissibili e direi doverosi. La situazione è opposta a quella della
democrazia, dove l'azione politica può partire nelle direzioni più caotiche e inconsulte (legate perlopiù a interessi personali),
ma se andiamo a considerare le cose in termini di visione del mondo, troviamo un'uniformità, una piattezza, un'incapacità di
elevarsi al disopra dell'interesse personale o di gruppo, spaventose.
Una persona che da sempre svolge un lavoro altamente meritorio nella nostra “Area” è Luigi Leonini, che fra le altre cose si
va pazientemente a spulciare i siti dei nostri avversari alla ricerca di cose che possono tornare utili a noi. Ultimamente, il
buon Luigi ha segnalato un articolo di Uriel Fanelli apparso sul sito Keinpfutsch: “Dialettica e propaganda” del 10 febbraio,
che si occupa proprio del crollo dell'ipotesi dell'origine africana. Naturalmente, l'intento di Fanelli è esattamente l'opposto
del nostro, SCONSIGLIA i compagni antirazzisti dall'usare ancora argomenti basati su di essa, visto che le più recenti
scoperte scientifiche l'hanno definitivamente sbugiardata. Nondimeno, la lettura dell'articolo si rivela parecchio interessante.
Apprendiamo in primo luogo che essa è stata fin dall'inizio formulata non in base a risultanze scientifiche ma per motivi
prettamente di propaganda ideologica.
“In passato, dopo la seconda guerra mondiale, si cerco' di costruire un insieme di dialettiche che consentissero all'uomo
della strada di combattere le ideologie basate sull'idea di razza(...).
Innanzitutto, raccontarono una stravagante storia di diete, pesce e carne, secondo cui un negro che arrivi dall'Africa e
colonizzi l'Europa diventerebbe bianco perché cambia dieta. Come se in Africa e in India mancassero zone dove la gente ha
la pelle nera, ma fa freddo e si mangia pesce. O carne. O chissà cosa: l'Europa non e' cosi' unica da avere condizioni

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irripetibili, e non si capisce come mai in Africa tutte le pelli siano scure, nonostante il continente offra un bel coacervo di
climi ed alimentazioni”.

Una storiella costruita senza prove, o in contrasto con le prove disponibili.

“[Gli antirazzisti] si inventarono una storia secondo coi gli africani avrebbero popolato l'europa, spazzando via i
neanderthal, che a detta loro sarebbero stati "culturalmente inferiori" perche' avevano tecnologie peggiori(...).
Anche questa storia era senza fondamento alcuno. La "migrazione" fu ricostruita praticamente senza scheletri, solo
notando la diffusione di strumenti "africani" dentro l' Europa, senza curarsi del fatto che il clima stesse cambiando, che
quindi cambiassero gli animali da cacciare, i tipi di legna a disposizione e che le zone ove trovare selce si stessero
scongelando, insomma, alla fine era tutta [un imbroglio]. Tracciando i DNA si vide poi che semmai questa "migrazione"
era arrivata dall'Asia.
La stessa migrazione fu ricostruita in maniera assurda. Si decise che siccome i monili africani si diffondevano in Europa,
non potesse essere concluso che il clima europeo stesse cambiando e richiedesse tecniche simili. No, doveva essere una
migrazione. Insomma, siccome ci sono iPhone ovunque, veniamo tutti da Cupertino. La quantità di reperti, poi, sul piano
statistico non bastava a dire nulla”.

Insomma, una favola assurda che non stava in piedi in nessun modo, presentata però come se avesse tutti i crismi della
scientificità, e che ancora adesso cercano di rifilarci come l'ortodossia “scientifica” e politicamente corretta sulle nostre
origini.
Questi antirazzisti quando decidono di essere sinceri hanno davvero il potere di sorprenderci, e quello di Fanelli non è il
solo caso. Ad esempio, il libro “Diversità genetica e uguaglianza umana” scritto negli anni '60 dal genetista di origine
ucraina Theodosius Dobzhansky è considerato un classico dell'antirazzismo, eppure ci troviamo l'affermazione che negare
l'esistenza delle razze perché esistono individui razzialmente indefinibili, frutto di ibridazioni remote o recenti, è come
negare l'esistenza delle città perché la campagna fra di esse non è spopolata, ma vi sono fattorie e paesi.
Non basta, perché nel libro c'è anche una tabella che riporta i coefficienti di correlazione (cioè i gradi di somiglianza) dei
quozienti d'intelligenza di persone con vari gradi di parentela. Apprendiamo che persone geneticamente estranee allevate
insieme (come nel caso di figli adottati) hanno una correlazione del 24%, mentre gemelli monozigoti separati alla nascita
hanno una correlazione del 75%. Davvero, non occorre altro per concludere che l'intelligenza è per tre quarti dipendente da
fattori genetici e solo per un quarto da fattori ambientali. Ma se la componente genetica è così importante, abbiamo tutti i
motivi di aspettarci differenze di livello intellettivo notevoli tra gruppi razziali, che ovviamente sono geneticamente diversi,
a prescindere da qualsiasi fattore ambientale ed educativo.

Conclude sconsolato Fanelli:


“Morale: il castello di carte crolla. (...). Nessuna delle argomentazioni prodotte per contrastare i razzisti e' integra.
Nessuna è più efficace. Nessuna funziona più. E' possibile, assolutamente possibile, che continuando a ricostruire i tasselli
della specie umana salti fuori quel che molti sospettano sempre di più e sempre più spesso”.

Il motivo di questo scacco è evidente le nuove ricerche sul DNA che hanno dimostrato fuori ormai da ogni dubbio la
presenza nelle moderne popolazioni europee e asiatiche di geni dell'uomo di neanderthal e di un altro homo finora
sconosciuto, l'uomo di Denisova: è il crollo dell'ipotesi africana, la conferma di quella multiregionale e la vendetta postuma
di un ricercatore la cui opera è stata finora ostracizzata e misconosciuta: Carleton S. Coon.

Non serve aggrapparsi al fatto che i geni specificamente riconoscibili come neanderthaliani o denisoviani nel nostro DNA
abbiano una frequenza bassa (rispettivamente il 4 e il 6%), perché ci spiega Fanelli:
“Possiamo discutere di quanto poco sia quel 3% del genoma, ma quando uno scimpanzé differisce da noi di ancora meno,
anche questa strada e' sbarrata”.
Io, se permettete, ve l'avevo già spiegato un po' meglio e con maggiore ampiezza:
“Il 4 o il 6 per cento possono sembrare percentuali molto basse, ma non bisogna dimenticare una cosa: non solo gli esseri
umani, ma tutto il ceppo dei primati antropoidi sembra poco differenziato dal punto di vista genetico, al punto che molte
ricerche indicherebbero fra uomini e scimpanzé una differenza genetica inferiore al 10%. Se una popolazione deriva dalla
fusione di due popolazioni ancestrali che presentano per molti caratteri lo stesso gene, è impossibile dire da quale delle due
sia derivato l'uno o l'altro, e se i geni e caratteri comuni sono assegnati “d'ufficio” a una delle due (in questo caso il Cro
Magnon di supposta origine africana) il contributo genetico dell'altra apparirà drasticamente ridimensionato. Se fosse
stata condotta una ricerca tesa a evidenziare nel patrimonio genetico degli odierni europei e asiatici i geni
SPECIFICAMENTE cromagnoidi di supposta origine africana, non è escluso che il risultato sarebbe stato ancora inferiore
o addirittura nullo”.
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“Alla ricerca delle origini, seconda parte: l'ipotesi multiregionale e il mito iperboreo”.

Fino a quando non ci sono fatti accertati, fino a quando si naviga nella nebbia (cosa che non pone certo al riparo da qualche
brutta collisione) si può lavorare di fantasia e inventarsi tutto quello che si vuole, ma quando i fatti compaiono, quando la
nebbia si dirada, per qualcuno è un amaro risveglio. Questo nuovo strumento, l'analisi del DNA, sta distruggendo una serie
di preconcetti consolidati; ad esempio, sembra che qualcuno sia rimasto molto disturbato da una ricerca di cui vi ho parlato
tempo addietro e che dimostrerebbe come le distanze genetiche fra Italiani del nord e del sud della Penisola siano
nettamente minori di quel che finora si è supposto, e che nel nostro meridione non si riscontrerebbe quella presenza di geni
di origine mediorientale che i ricercatori si erano aspettati di trovare in conseguenza della colonizzazione cartaginese
nell'antichità e/o delle invasioni arabe medievali. L'una e le altre sembrano aver inciso ben poco dal punto di vista genetico.
Ancora più importanti gli esiti di una ricerca tedesco-americana resi noti all'inizio di quest'anno, che dimostrano che gli
Europei di oggi sono in sostanza i discendenti dei cacciatori-raccoglitori che popolavano il nostro continente già nel
paleolitico, e non si riscontra proprio quel forte afflusso di geni di origine mediorientale ipotizzato dalla teoria del
nostratico, che ne esce definitivamente smontata. Adesso siamo in grado di seppellire anche la leggenda dell'origine africana
e il suo “politicamente corretto” ipocrita.

Le ricerche continuano, e dell'ultima ha dato notizia “Archaeology News” di gennaio, riguarda una comparazione fra il
DNA degli antichi Etruschi, quello dei toscani moderni e delle popolazioni anatoliche. Oggi un'impronta genetica etrusca, a
quanto pare, si mantiene in Casentino, nella zona di Volterra ma non in altre zone della Toscana, ma la cosa più interessante
che questa ricerca ha messo in luce, è che non c'è nessuna traccia di una derivazione anatolica degli Etruschi, che era stata
ipotizzata in passato da vari ricercatori, la civiltà etrusca, alla luce di questi dati, si caratterizza come una civiltà italica
autoctona, che raccoglie direttamente l'eredità delle culture terramaricola e villanoviana. E' chiaramente un altro scrollone,
l'ennesimo, alla leggenda della “luce da oriente”.

Le ricerche della nostra Ahnenerbe casalinga continuano. E' importante sapere da dove veniamo per capire dove ci troviamo
e quali strade occorre intraprendere per avere un futuro.

Una Ahnenerbe casalinga, terza parte

Di Fabio Calabrese

Il giorno che lo scrittore Michael Ende ha scritto nel suo romanzo “La storia infinita” che “E' più facile dominare chi non
crede in nulla”, ha probabilmente pronunciato la sciocchezza della sua vita. Sono coloro che credono a tutto i più facili da
dominare. Guardiamoci un attimo intorno: noi siamo letteralmente immersi in un sistema mediatico (ma non solo mediatico,
pensiamo alla scuola che da questo punto di vista è una vera agenzia diseducativa), che continuamente ci tempesta di
messaggi volti ad avallare e legittimare il persistente dominio di coloro, delle forze sia esterne sia interne, che settant'anni fa
vinsero il secondo conflitto mondiale. E' chiaro che noi non avremmo fatto le scelte ideologiche che abbiamo fatto, se non
fossimo animati da un testardo, irriverente, sano scetticismo.
Io mi sono dato un motto (se avessi un blasone, lo farei scrivere sul cartiglio), latino secondo la desueta tradizione dei padri:
“Nullius in verba”, ossia “non giurare sulle – non credere ciecamente nelle parole di nessuno”. Si ricordate, ho scritto anche
un articolo pubblicato su “Ereticamente” sull'argomento.
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E' ovvio che quella stessa indipendenza di giudizio che rivendico per me, la devo riconoscere anche agli altri. Non prestate
fede cieca alle parole di nessuno, beninteso, nemmeno a quelle di Fabio Calabrese! Io non vi chiedo di accettare le mie
parole a scatola chiusa. Desidero che soppesiate la validità delle mie argomentazioni nei limiti del possibile.
Il dialogo con un amico come Michele Ruzzai che rappresenta il tradizionalismo più classico, può essere interessante, e
certo le ammissioni provenienti dal fronte opposto come quelle di Uriel Fanelli possono essere sorprendenti, ma cosa dice la
scienza, quali sono le pezze d'appoggio scientifiche necessarie al nostro discorso?
Prima di andarle a vedere, una premessa è indispensabile: noi non dobbiamo mai dimenticare che IN DEMOCRAZIA LA
RICERCA SCIENTIFICA NON E' LIBERA, che tutte le informazioni di cui disponiamo sono quelle che in qualche modo
sono riuscite a superare il filtro di una ferrea censura che ha il preciso scopo di impedire che quelle conoscenze che possono
mettere in crisi i dogmi democratici dell'uguaglianza degli uomini e dell'inesistenza delle razze.
Può sembrare strano, ma di nuovo a questo riguardo ci viene incontro un documento che viene dal fronte dei nostri
avversari, e ancora una volta bisogna rendere merito al prezioso lavoro di ricerca fatto da Luigi Leonini.
Recentemente, il nostro Luigi ha scovato un documento proveniente da “Internazionale”, rivista bolscevica del 6 dicembre
1996, “Scienziati razzisti”, che non è chiaro se voglia accusare gli ambienti scientifici occidentali di essere un covo di
razzisti (non dimentichiamo che in Unione Sovietica era stata elaborata a opera di Lysenko una teoria “biologica” che
dichiarava la genetica una pseudoscienza e che fino a tutti gli anni '60 essa era la “dottrina ufficiale” imposta dal regime, e
non è certo da escludere che i compagni “duri e puri” la pensino ancora così) o mostrare che i meccanismi di censura contro
la libertà di ricerca nel cosiddetto occidente “libero” non differiscono sostanzialmente da quelli che erano in opera nel
sistema sovietico.
In ogni caso, gli esempi riportati da questo articolo sono molto istruttivi, tanto per cominciare il caso di Christopher Brand,
docente dell'Università di Edimburgo, autore del libro “The G Factor, General Intelligence and his implications” (“Il fattore
G, l'intelligenza generale e le sue implicazioni”), testo che è stato definito dall'editore newyorchese Wiley and Sons “Un
saggio critico e ben argomentato”, e lo stesso Brand “ben noto per i suoi contributi alla ricerca e al dibattito sull'intelligenza
e la personalità”. Bene, è bastato che in un'intervista a un giornale Brand facesse l'affermazione che per le donne che
intendono diventare madri single sarebbe bene avere rapporti con uomini intelligenti per garantire un migliore patrimonio
genetico ai loro figli, per farlo precipitare dall'empireo del prestigio accademico all'inferno dei “razzisti” proscritti. La canea
censoria di sinistra si è prontamente scatenata. L'editore ha ritirato il libro avendo scoperto di colpo che conteneva
“affermazioni repellenti”, il corpo studentesco dell'università scozzese ha votato per la rimozione di Brand dal suo posto di
insegnante (e tutti noi sappiamo bene quanto insensibili alle strumentalizzazioni, raziocinanti e obiettive siano le assemblee
studentesche), e il giorno dopo il rettore Stewart Sutherland ha dichiarato che le opinioni di Brand erano “false e odiose”.

E' interessante il fatto che questi democratici, il cui concetto di democrazia consiste nel togliere a chi la pensa diversamente
la libertà di esprimersi, sembrano incapaci di distinguere fra eugenetica e razzismo, la dice molto lunga sulla mentalità di
certe persone.
Altro caso interessante, quello di Arthur Jensen, psicologo della celeberrima California University di Berkeley, che nel 1967
aveva iniziato una ricerca allo scopo di dimostrare che “la scarsezza del quoziente intellettivo fra i neri (i neri americani
hanno un quoziente intellettivo medio di 85 a fronte del valore 100 della popolazione bianca, ma se consideriamo i neri
africani, indubbiamente più puri, questa media scende ancora di 10-15 punti) è dovuta a fattori sociali piuttosto che
razziali”, esattamente quel che prescrive il dogma democratico, ma due anni di ricerche gli fecero cambiare completamente
idea in proposito. Da allora, le sue pubblicazioni sono sempre state ferocemente contestate e ostacolate in ogni modo, ma
questo è ancora poco, perché andò incontro a una serie di minacce alla sua incolumità fisica, e ricorda: “La reazione fu
incredibile e in massima parte ostile. Dovevo prendere delle guardie del corpo, e venivo continuamente minacciato”. I tempi
non sono cambiati rispetto all'inquisizione che perseguitò Bruno e Galileo, ancora oggi l'eretico mette a rischio la sua vita,
solo che oggi l'inquisizione si chiama democrazia.
Come gli astronomi ai tempi di Galileo, il ricercatore che voglia evitare guai, deve essere opportunamente strabico, avere
una cecità selettiva. Così ad esempio per lo psicologo antirazzista Stephen Rose, quegli stessi test d'intelligenza che sono
largamente impiegati negli Stati Uniti nelle scuole, dalle industrie per la selezione del personale, nelle forze armate e via
dicendo, se utilizzati per un confronto statistico su base razziale della popolazione, di colpo diventano solo “Stupidi giochini
coi numeri”. Meglio, per la carriera e l'incolumità fisica.
Un altro di questi ricercatori “ribelli”, Marek Kohn, ha svelato l'esistenza di un “ordine antirazziale dell'UNESCO”. In altre
parole, non solo la ricerca scientifica non è libera, ma deve sottostare a ordini precisi che vengono dal potere politico, e fra
questi quello di negare a ogni costo le differenze razziali.
Veramente, confrontando questo articolo con quello di Fanelli, viene da pensare che “i compagni” nei momenti di lucidità
siano consapevoli che la causa a cui si sono votati è una colossale mistificazione.

Tuttavia, non è, per la verità, che le rivelazioni di cui sopra ci vengano interamente nuove. Già parecchi anni fa in un
articolo pubblicato sul n. 44 de “L'uomo libero” (1997), “La rivincita della scienza”, Sergio Gozzoli citava alcuni casi
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eclatanti, quello del sociobiologo Edward O. Wilson che, nel corso di una conferenza sulle differenze comportamentali fra
uomo e donna, era stato aggredito da un commando di femministe, e quello dello psicologo Frederick K. Goodwin, cui fu
impedito di presentare i risultati di uno studio decennale sulle basi genetiche dei comportamenti aggressivi nei giovani
maschi americani. Al di là della questione razziale, la democrazia esige che siano censurate, nascoste, cancellate tutte le
prove che indicano che il comportamento e la psiche umana hanno delle basi genetiche e non siano solo il prodotto delle
circostanze ambientali, per poter forzatamente imporre il dogma dell'uguaglianza.

Io ho fatto riferimento a questi eventi e al pezzo di Gozzoli nel mio articolo “La scienza manipolata” che trovate su
“Ereticamente”.
Si tratta di una storia davvero infinita, iniziata poco dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, e che dura tuttora,
la persecuzione contro gli scienziati “controcorrente” non si è mai allentata. Il caso forse più recente è probabilmente quello
di Bruce Lahn, genetista, ricercatore della University of Chicago, che avrebbe individuato alcuni geni connessi con
l'evoluzione recente (ultime decine di migliaia di anni) del cervello umano, geni che sono presenti nei caucasici e negli
asiatici, ma non nei neri. Ha dovuto abbandonare questi studi “perché controversi”; in pratica, gli è stato fatto capire che
proseguendo le sue ricerche, si sarebbe messo in grossi guai.

Ne ha parlato “La repubblica” del 17 giugno 2006.

Noi dobbiamo sempre tenere presente che quel che la scienza ha da dirci riguardo alle nostre origini, non è altro che quel
poco che filtra fra le maglie di una ferrea e vigliante censura. Nonostante questo, se andiamo a esaminare le cose con
attenzione, scopriamo più di quello che “i padroni del vapore” vorrebbero che sapessimo.

“La repubblica” del 22.3.2005 riporta un articolo che è la traduzione di un pezzo di Armand Marie Leroi apparso sul
“Times” di Londra dove si esamina la teoria avanzata nel dopoguerra a scopo propagandistico, ma “scientificamente”
formalizzata dal genetista di Harward Richard Lewontin nel 1972, secondo cui le razze non esisterebbero o sarebbero
semplicemente un costrutto sociale. Il ragionamento di Lewontin si basava su di una fallacia: se noi consideriamo un
qualsiasi carattere dell'enorme costellazione che forma un individuo (per non parlare delle popolazioni), esso non permette
di determinarne l'appartenenza razziale, ad esempio un certo livello di melanina nella pelle, può permettere di distinguere un
europeo, ma non un africano da un melanesiano, e lo stesso vale per qualsiasi altra caratteristica corporea, ma è evidente che
questo ragionamento conserva una parvenza di validità solo finché consideriamo i singoli caratteri isolati, ma viene
immediatamente a cadere appena consideriamo l'insieme delle caratteristiche: un certo colore della pelle tende ad associarsi
a un certo tipo di occhi, di naso, di cranio, di corporatura, esistono precise correlazioni fra caratteri, e le correlazioni
contengono informazioni. La stessa cosa avviene a livello genetico. Prendendo un gene alla volta, Lewontin ha evitato di
vedere le razze, così come guardando un albero alla volta, si può evitare di vedere la foresta.

Sebbene sia basata su un evidente errore logico, la teoria di Lewontin è ancora quella dominante: prendete un qualsiasi testo
di antropologia o di sociologia, vi racconterà LA FAVOLA che le razze e le etnie o non esistono, o sono un semplice
costrutto culturale.
La situazione è perfettamente descritta in un post della versione on line de “Le scienze” del 26 ottobre 2007:
“Le sottospecie di esseri umani [sinonimo di razze, come è spiegato più sopra] che si differenziano per colore, capelli,
biochimica, tratti del viso, dimensioni del cervello e così via, differiscono in intelligenza. Biologicamente, è innegabile che
questa differenza esiste, ma dirlo è un anatema”.

Tenete presente che questa non è una pubblicazione dell'estrema destra, questa è “Le scienze”. Non potrebbe essere più
chiaro di così che il sistema democratico e la pretesa uguaglianza degli uomini si fondano sulla mistificazione e la censura!
Noi siamo adesso in grado di conoscere la verità “scientifica” e politicamente corretta rispetto alle nostre origini: noi tutti
veniamo dall'Africa, abbiamo solo preceduto di 50-70.000 anni i migranti attuali, e con l'andare del tempo, più
procedevamo verso nord, più ci siamo sbiancati. Il nostro diretto antenato, l'uomo di Cro-Magnon era africano (anche se i
suoi resti non sono mai stati trovati fuori dall'Eurasia), e non si è mai incrociato coi nativi eurasiatici uomo di Neanderthal e
di Denisova (anche se chissà come, geni neanderthaliani e denisoviani si ritrovano nel patrimonio genetico delle
popolazioni non africane). L'ipotesi multiregionale, soprattutto nella versione di Christopher Stringer, con quella sottile
linea di primitivi geni homo erectus che va a finire nelle popolazioni africane, che sarebbero quindi il frutto di un incrocio e
di un regresso sulla via sapiens, spiegherebbe sia la comparsa dei caratteri negroidi che l'uomo di Cro Magnon non
possedeva, sia la minore intelligenza di queste ultime rispetto a quelle bianche e asiatiche, ma naturalmente non può essere
presa in considerazione, è eresia pura.

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Le razze non esistono (e se proprio rischiamo di vederle, si può sempre ricorrere alla tecnica di Lewontin: guardando gli
alberi uno per uno, non si vede la foresta).
Fra le diverse razze – scusate, gruppi umani – non esistono differenti livelli intellettivi. La differenza costante di quindici
punti di Q. I. fra bianchi e asiatici da una parte, e afroamericani dall'altra, ma che diventa di venticinque-trenta se
consideriamo africani puri, non significa niente e dipende, come ci spiega Stephen Rose, soltanto da “stupidi giochini
numerici”.
Che negli europei e asiatici vi siano geni correlati a un'evoluzione recente del cervello che nei neri non si riscontra, non è
vero, e se è vero, non è di dominio pubblico perché Bruce Lahn è stato ridotto al silenzio col timore, e le sue ricerche sono
state censurate. Le razze non esistono, la mafia nemmeno, in compenso, è definitivamente accertata l'esistenza di Babbo
Natale.

Una Ahnenerbe casalinga, quarta parte

Forse il momento di rimettere al lavoro la nostra piccola Ahnenerbe casalinga è venuto prima
di quanto mi aspettassi. Io non posso – naturalmente – fare alcun paragone fra la Ahnenerbe
del Terzo Reich e i miei modestissimi mezzi, ma la propaganda e la censura democratiche
intese a darci un'immagine falsata del nostro passato, funzionano in una maniera strana: non
esiste un'esplicita proibizione di verità vietate, ma le poche cose davvero significative sono
sommerse da un diluvio di “informazione” falsa o irrilevante che circola in quantità enorme
grazie ai media e alla rete. E' possibile allora, con pazienza, mettersi alla ricerca delle
pagliuzze d'oro nel fango e alla fine, se avremo fatto bene il nostro lavoro, mettere insieme un
dossier di elementi sufficienti a contestare “le verità” della cultura ufficiale.

Una cosa che non poteva non destare l'interesse di chi è impegnato in questo genere di ricerca, è la storia dell'ipogeo di
Glozel. Un amico mi ha segnalato un post relativo a questa scoperta di cui, per essere sinceri, non ero minimamente
informato, comparso recentemente sul sito del centrointernazionale diricercastorica (scritto così senza gli spazi fra le parole,
se volete andare a controllare, probabilmente per distinguerlo da altri siti con denominazioni analoghe), ma quella avvenuta
in questa località del centro della Francia, è una scoperta che risale al 1924, novant'anni fa.
A questo punto, ho fatto la cosa più ovvia, sono andato a controllare su Wikipedia.
Secondo quanto riferisce l'enciclopedia on line, la scoperta fu fatta nel 1924 da un giovane agricoltore, Emile Fradin, che
stava arando il campo assieme al nonno, quando il piede della mucca che trascinava l'aratro si impigliò in una cavità.
Liberando la zampa dell'animale, Emile scoprì l'accesso a una cavità sotterranea. Era l'inizio di una scoperta sconcertante,
perché dall'ipogeo di Glozel uscirono all'incirca tremila reperti fra ossa, manufatti di ceramica e pietre incise, molte delle
quali lastre che riportano una sorta di scrittura che nessuno è riuscito a decifrare. La cosa straordinaria è che questi reperti
sembrerebbero risalire a qualcosa come 8-10.000 anni fa e, se la loro autenticità fosse confermata, imporrebbero di
retrodatare e riscrivere completamente la storia dell'Europa. Non è spiegabile il disinteresse dell'archeologia ufficiale per
una scoperta come questa, se non con l'esigenza di difendere da nuove scoperte antichi e radicati pregiudizi. Provate solo a
immaginare che marea di pubblicazioni, interventi mediatici e discussioni, se una simile scoperta fosse avvenuta in Egitto o
in Mesopotamia!

I pochi pronunciamenti dei ricercatori ufficiali sono stati perlopiù indirizzati a bollare la scoperta come un falso, una bufala.
Immaginiamo se un giovane campagnolo diciassettenne come era allora Emile Fradin disponeva delle conoscenze e dei
mezzi per mettere in atto una truffa così complessa! E' interessante il giudizio di René Dussaud curatore del museo del
Louvre, che concluse senza essersi degnato di esaminarli, che i reperti di Glozel dovevano essere per forza falsi perché 8-
10.000 anni fa non poteva essere esistita una civiltà, dandoci davvero l'impressione di vedere uno dei pedanti che bollarono
le scoperte di Galileo, uscire dalla tomba.

Un discorso analogo vale per le piramidi bosniache di Visoko che sarebbero state individuate dal ricercatore e studioso dei
materiali Semir Osmanagic.
E' proprio l'evidente e preconcetto scetticismo dell'archeologia ufficiale che fa nutrire dubbi sul fatto che non si tratti di
bufale, ma di scoperte genuine.Riguardo a cose tuttora misteriose, dove si è ben lontani dal poter dare delle risposte
definitive, come l'ipogeo di Glozel e le piramidi di Visoko, non disponiamo di risposte definitive, ma c'è una questione che
possiamo comunque porre: la nostra specie, homo sapiens esiste da qualcosa come centomila anni, non stiamo parlando di
bruti scimmieschi, ma di esseri umani come noi. La storia documentata copre gli ultimi cinquemila. Per quale motivo
escludere dogmaticamente che non possa essere esistita alcuna civiltà preistorica, in quel 95% della nostra storia che ancora
non conosciamo? Abbiamo visto che molto spesso gli archeologi “ufficiali” respingono a priori l'autenticità dei reperti di
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Glozel o la natura di manufatti delle piramidi di Visoko perché la civiltà umana “non può essere” così antica come questi
reperti suggerirebbero. E' un atteggiamento che ricorda molto quello dei pedanti seicenteschi che rifiutarono la scoperta di
Galileo dei “pianeti medicei”, dei satelliti di Giove, perché sette erano le note musicali, sette i giorni della settimana, sette le
aperture del corpo umano (bocca, narici, orecchie, ano e genitali), e non più di sette dovevano perciò essere anche i corpi
del sistema solare. Io vi ho raccontato di aver avuto in passato un'esperienza di contatti con il CICAP. Se non altro, posso
dire che è un'esperienza che mi ha permesso di capire parecchie cose. Sulle civiltà misteriose, l'atteggiamento è quello del
rifiuto a priori esattamente come nei confronti del paranormale e dell'ufologia (e del resto del cosiddetto complottismo).

La credenza e la presunta casistica del paranormale contrastano con la concezione della realtà naturale fondata su quattro
secoli di ricerche scientifiche da Galileo in qua, l'ufologia non tiene conto dell'immensità del Cosmo e delle distanze
interstellari, ma le civiltà misteriose? Cosa giustifica una posizione di rifiuto a priori? Pensiamo davvero di poter dire che
conosciamo tutto del nostro remoto passato? La fobia del presunto complottismo fa il paio. Chi vede congiure dappertutto
potrà anche essere paranoico, ma chi pensa che la politica agisca sempre in base alle intenzioni dichiarate da quelle persone
di specchiatissima onestà che sono i politici, merita il nobel dei cretini.
In campo politico nel senso più stretto del termine, gli esponenti di questo laicismo da quattro soldi si contano
invariabilmente fra gli atlantisti e i filo-sionisti. Spirito critico? “Ma mi faccia il piacere!” (detto con le inflessioni e il gesto
del grande Totò). Costoro la pensano esattamente come l'establishment politico-culturale vorrebbe che tutti la pensassimo,
intellettualmente proni come più non si potrebbe essere, come se il potere non manipolasse anche la scienza.

Noi però dobbiamo fare i conti con un pregiudizio di altro tipo rispetto allo strabismo mediorientale, alla fissazione della
presunta “luce da oriente”. Per quale motivo si vuole negare a tutti i costi che in quell'enorme spazio di tempo che
costituisce i nove decimi e mezzo della nostra storia su questo pianeta non possano essere sorte e poi sprofondate nell'oblio
intere civiltà? In fin dei conti, cosa esisterà ancora di tutto quello che ci vediamo intorno, diciamo fra diecimila anni? Nulla,
se non delle tracce labilissime.
Bene, qui è visibile che ci confrontiamo con UN DOGMA della mentalità contemporanea che ha assunto dimensioni e
valenze tali da poter essere paragonato a un dogma religioso, tanto più forte quanto più in contrasto con la realtà, il dogma
del progresso. Dicendo che il dogma progressista è una sfacciata falsità, in realtà non si dice nulla di nuovo, l'aveva già
evidenziato (lasciando perdere il lavoro compiuto fra le due guerre mondiali da pensatori come Julius Evola e René
Guenon) un gruppo di scienziati riuniti nel Club di Roma nel 1970 con il celebre rapporto “I limiti dello sviluppo”, dove si
enuncia un concetto fondamentale che però in definitiva è un'ovvietà: in un sistema limitato con risorse limitate quale è il
nostro pianeta, uno sviluppo illimitato è impossibile. Nonostante si tratti di un'ovvietà, “I limiti dello sviluppo” provocò la
canea progressista che riuscì a dare un'eccellente dimostrazione del fatto che l'insulto e il ludibrio sono in grado di sopperire
in maniera eccellente alla mancanza di argomenti.
Ora provate a pensarci un attimo: se accettiamo l'idea che in quel 95% della storia della nostra specie che ci è sconosciuto
possano essere sorti e scomparsi nel nulla interi cicli di civiltà, questo cosa implica per noi? Implica la consapevolezza che
nulla esclude che la civiltà moderna della quale siamo tanto orgogliosi possa andare incontro allo stesso destino.
Per evitare, per esorcizzare questa idea “deprimente”, si preferisce mutilare la storia della nostra specie, pretendendo che
prima dell'Egitto dei faraoni non possa essere esistito alcunché se non bruti dalla faccia scimmiesca che andavano in giro
trascinando clave, pur di salvaguardare il pregiudizio che una volta avviata la civiltà, essa sarebbe spinta a uno sviluppo
ascendente, al raggiungimento di traguardi sempre più elevati da una sorta di provvidenza immanente che s'incarna in
questo ridicolo idolo moderno che chiamiamo “progresso”.
La civiltà umana è forse molto più antica di quanto ci hanno raccontato, di quanto se ne vuole negare anche soltanto la
possibilità in nome del dogma progressista, ma anche riguardo all'altro settore che ha interessato le nostre ricerche, quello
più remoto nel tempo dell'origine della nostra specie, ci sono delle novità interessanti, ma per prima cosa è giusto che vi
segnali una circostanza curiosa. Mi è stato segnalato un articolo non recentissimo, risalente al 4 novembre 2011 apparso su
“National Geographic” che fa il punto sulle ultime scoperte paleontologiche, e la gentile signora che me l'ha segnalato, altri
non è che la moglie dell'amico che mi ha segnalato il pezzo sull'ipogeo di Glozel. Due cari amici, una bella coppia dove la
consonanza ideologica è una delle cose che cementano il sentimento reciproco, una fortuna che – devo confessare – io non
ho.
Ma vediamo il contenuto di questo articolo. Uno studio condotto da un team guidato da Stefano Benazzi dell'Università di
Vienna ha accertato che alcuni frammenti dentari fossili rinvenuti negli anni '60 nella Grotta del Cavallo nella baia di
Uluzzo in Puglia e risalenti a 45.000 anni fa, non appartengono come si era finora creduto, a dei neanderthaliani, ma
all'homo sapiens anatomicamente moderno. I reperti litici rinvenuti nella baia di Uluzzo sono serviti per classificare una
cultura, la cultura uluzziana che si riteneva fosse l'ultima cultura neanderthaliana europea, invece adesso scopriamo che si
trattava di sapiens.

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Ma non ci fermiamo qui, perché l'articolo menziona un'altra ricerca condotta da un team guidato da Thomas Higham
dell'Università di Oxford che ha esaminato un frammento di mascella risalente a 44.000 anni fa e rinvenuto in una caverna
inglese, la Kents Cavern. Anche quest'ultimo è risultato non essere neanderthaliano ma sapiens.
Capite quello che significa? Se 50.000 anni fa l'eruzione del Toba fu davvero la catastrofe planetaria immaginata da
qualcuno e i nostri antenati erano ridotti a un pugno di superstiti sperduti in qualche angolo dell'Africa, come hanno fatto
nel giro di pochi millenni a popolare tutto il Vecchio Mondo, ad arrivare in Italia e anche in Inghilterra?
L'ipotesi dell'origine africana scricchiola sempre di più. Un ulteriore scrollone è poi venuto dallo studio di un altro uomo
fossile pugliese come quelli di Uluzzo ma parecchio più antico, l'uomo di Altamura, i cui resti, dopo essere caduto in un
inghiottitoio carsico della regione, sono stati inglobati nella matrice calcarea. Ebbene, quest'uomo risalente a 100.000 anni
fa, classificato come pre-neanderthaliano, presenta delle caratteristiche che preludono al sapiensmoderno, si trova con ogni
probabilità assai vicino alla biforcazione fra le due sottospecie umane. Considerato che la Puglia non è Africa (non ancora,
ma lo diventerà assieme a tutto il resto dell'Italia se continuiamo a essere sommersi dall'ondata dell'immigrazione), l'ipotesi
dell'origine africana diventa sempre meno verosimile.
Mi è capitato di ritrovarmelo giorni fa in una di quelle discussioni a volte foriere di spunti interessanti, a volte demenziali
che si trovano su Facebook, l'argomento che è un classico della retorica democratica su questo tema: “non esistono razze
pure”. L'implicazione è quella che dovremmo essere indifferenti al fatto di essere soppiantati e che il nostro retaggio sia
soppiantato da quello dei CUCULI che l'immigrazione ci porta in casa.
Non esistono razze ASSOLUTAMENTE pure, ma è una questione di proporzioni. Un certo scambio genetico fra le
popolazioni umane è sempre esistito, come dimostra il fatto che sono tutte mutuamente interfeconde, ma scambiare questo
sottile rivolo di geni che passava in altri tempi fra le genti del pianeta con la situazione attuale, è come confondere un
bicchiere di vino a pasto con un'assunzione da coma etilico.

Vogliamo fare un altro paragone tratto dalla biologia? I parameci sono protozoi, minuscole creature unicellulari che hanno
una caratteristica: sono attratti da un ambiente acido, perché è soprattutto nell'acido acetico che trovano i lieviti e gli altri
microorganismi di cui si nutrono. Solo che si precipitano con uguale “entusiasmo” verso una goccia di acido solforico che
invece li uccide. Questo meccanismo comportamentale si è certamente evoluto perché in natura la probabilità che hanno di
incontrare acido solforico è enormemente più bassa che quella di imbattersi nell'acido acetico. Quello che alle basse
concentrazioni è benefico, a quelle alte può essere mortale.
Il paramecio è una creatura microscopica, non ha un cervello, ma noi si. Vogliamo che i paraocchi della retorica
democratica rendano il nostro comportamento non più intelligente del suo?
In queste cose non è il caso di (s)ragionare in termini di tutto o niente: poiché L'ASSOLUTA purezza è irraggiungibile,
allora accettare l'universale meticciato nel quale la nostra gente è destinata a scomparire.
Pensiamo ai nostri figli: a ciascuno di loro trasmettiamo soltanto metà del nostro patrimonio genetico, mentre l'altra metà
deriva dall'altro genitore. Questo significa forse che, non essendo la nostra fotocopia, non dovremmo interessarci di loro più
di quanto non facciamo con perfetti estranei?I popoli europei si stanno avviando a una lotta mortale che deciderà della loro
sopravvivenza o della loro estinzione. Non è questo il momento di farci confondere dalle bugie democratiche.
Una Ahnenerbe casalinga, quinta parte

Dimensione del cranio in Europa secondo Coon


Della questione delle origini nei suoi diversi livelli (origini della
civiltà, dei popoli indoeuropei, della stessa specie umana), mi sono
occupato con ampiezza nei miei precedenti articoli, e onestamente
pensavo di lasciare l'argomento in sospeso per un po'. “Ereticamente”
non è una pubblicazione di archeologia né di paleoantropologia, ma di
politica e di metapolitica (Weltanschauung), tuttavia comprendere
quali siano le nostre origini, è fondamentale per capire chi davvero
siamo e qual'è il nostro posto nel mondo, il che a sua volta è una
premessa necessaria di un agire politico non cieco.
Noi abbiamo visto, e non è certamente un caso, che riguardo a queste tematiche esiste una “ortodossia scientifica” che in
realtà, in termini di elementi concreti, di prove, di testimonianze archeologiche e fossili, è fondata sul nulla. Si pretende che
la nostra specie si sia originata in Africa e che noi stessi saremmo degli africani “sbiancati”, che non si possa parlare
nemmeno di genti ma solo di lingue indoeuropee (senza nessun contenuto razziale, ovviamente, perché le razze non
esistono) portate in Europa da agricoltori mediorientali, che la civiltà sarebbe nata in Medio Oriente fra l'Egitto e la
Mezzaluna Fertile. Tutto questo complesso IDEOLOGICO E NON SCIENTIFICO sostenuto dal peso dell'autorità

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accademica è conforme ai dettami dell'ideologia democratica imposta all'Europa con le armi a seguito della sconfitta nella
seconda guerra mondiale, e ha precisamente lo scopo di cancellare negli Europei il senso di superiorità rispetto agli altri
popoli e alle genti “colorate” e di far accettare loro che le stesse etnie europee possano o meglio ancora debbano scomparire
in seguito all'immigrazione e al meticciato.
Tutto ciò l'abbiamo visto con ampiezza, ed era mia intenzione, come vi ho detto, lasciare l'argomento in sospeso per un po',
ma dopo il recente intervento di Michele Ruzzai sull'ipotesi dell'origine africana, mi sembra opportuno riprendere in mano
la questione con alcune osservazioni non in contraddittorio, ma in appoggio alle tesi del nostro amico.

Il nostro Michele parte da un'osservazione che io trovo molto acuta. In assenza di un qualsiasi sostegno all'ipotesi
dell'origine africana dai dati archeologici o paleoantropologici (strumenti litici o fossili umani) la prova principale
dell'origine africana consisterebbe IN UNA CERTA INTERPRETAZIONE dei dati genetici: le popolazioni dell'Africa
subsahariana sarebbero quelle che presentano un tasso di variabilità genetica maggiore di tutto il resto dell'umanità. Il
“modello evolutivo” che questa concezione presuppone, è quello di un “centro” magmatico e caotico da cui si irradiano
delle diramazioni che diventano più stabili man mano che si allontanano da esso. E' un albero genealogico valido della
nostra specie o di qualsiasi cosa, o non esprime piuttosto l'amore democratico per il caos, l'informe, l'assenza di strutture e
di regole?
Ora, fa giustamente notare Michele, l'alto tasso di variabilità genetica, più che essere ancestrale, potrebbe essere il risultato
di incroci recenti (recenti magari nel senso della paleoantropologia: per i paleoantropologi, decine di migliaia o migliaia di
anni sono un tempo recente, dato che di solito si ragiona sull'arco temporale dei milioni di anni). In fin dei conti, se noi
andassimo a studiare il genoma degli abitanti di New York, sicuramente troveremmo una variabilità genetica enormemente
maggiore di quella che possiamo riscontrare ad esempio nelle valli bergamasche, eppure sappiamo benissimo che con
l'eccezione, forse, dei nativi americani (volgarmente detti “pellirosse”) che ormai sono quasi estinti, nessun genoma
“americano” si trova lì e nel Nuovo Mondo da più di cinque secoli.
In realtà, sappiamo bene che l'ipotesi dell'origine africana non ha alcun valore scientifico, ma è stata inventata unicamente
per scopi di propaganda antirazzista. Lo ha ammesso perfino Uriel Fanelli in quel suo pezzo citato in precedenza, un autore
di sinistra che avverte “i compagni” che la falsificazione africana non funziona più. Nuove voci di dissenso sempre
maggiore a questa “teoria imposta” si sono recentemente levate dagli ambienti scientifici.
In particolare, secondo quanto riferisce una pubblicazione in lingua inglese, “Atlantean Gardens” nel numero di sabato 3
maggio 2014, l'ipotesi dell'origine africana è stata clamorosamente smentita dalle ricerche degli scienziati russi. Che questa
confutazione venga proprio dalla Russia oggi non più sovietica e i cui ricercatori non sono più costretti a ripudiare la
genetica, non è cosa che stupisca, dato che oggi costoro sono ancora liberi dalla dittatura mascherata della “political
correctnes” che imperversa in Occidente e impone il silenzio su tutto ciò che potrebbe intaccare i dogmi democratici e
antirazzisti.
Dunque, secondo quanto riferisce “I giardini di Atlantide”, nel 2012 i ricercatori russi Anatole A. Klysov e Igor L.
Rozhansky hanno esaminato la bellezza di 7.556 cromosomi Y di europei (caucasoidi), allo scopo di verificare se l'albero
genealogico degli aplogruppi che era possibile tracciare sulle base delle rispettive parentele, puntasse verso un'origine
africana. La risposta è stata chiaramente negativa.
L'articolo riporta anche l'opinione dello storico australiano Greg Jefferys che ribadisce che la “teoria” (favola sarebbe in
realtà un termine più appropriato) dell'origine africana non ha alcun elemento scientifico a suo sostegno, ma è stata
introdotta “per eliminare il concetto di razza”.
Secondo i ricercatori russi, almeno il 20% del DNA delle popolazioni umane moderne non discenderebbe dagli uomini di
Cro Magnon di presunta origine africana, ma deriverebbe da neanderthaliani, denisoviani, da un homo arcaico con cui le
popolazioni africane si sarebbero re-incrociate, forse anche dagli hobbit dell'isola di Flores.
E' la conferma eclatante della teoria multiregionale, ma è anche qualcosa di più. La specie umana sarebbe una specie ibrida,
e la prova migliore di ciò è data dal fatto che alcune parti del nostro genoma non sono reciprocamente compatibili. Lo si
vede bene ad esempio considerando il fattore sanguigno RH. Se una donna RH negativa rimane incinta di un uomo RH
positivo e quest'ultimo ha trasmesso la RH positività al nascituro, in questo caso il corpo della madre produrrà anticorpi
contro il feto che possono produrre gravi danni al bambino, reagisce proprio come se quest'ultimo fosse un “estraneo” di
altra specie.Queste scoperte e considerazioni vengono a sfasciare non solo il dogma democratico dell'inesistenza delle razze,
ma anche quello cristiano del monogenismo, cioè dell'origine unica di tutta l'umanità, ma cosa ci volete fare? I fatti sono
fatti.Bisogna però dire che, proprio perché dubito fortemente che il pubblico di “Ereticamente” sia composto in prevalenza
da esperti in paleoantropologia, sarà bene fare una precisazione importante per non dare luogo ad equivoci che potrebbero
facilmente ritorcersi contro di noi, che la questione della supposta origine africana recente di homo sapiens, è una questione
completamente diversa da quella dell'origine africana degli ominidi primitivi, la famosa Lucy e tutti gli altri che sono stati
esumati dal suolo del Continente Nero e la cui africanità nessuno contesta (anche se il continente nero, come vedremo, non
è l'unico ad aver restituito fossili ominidi).Per capire un po' meglio le cose, sarà meglio fissare alcuni paletti temporali. Gli
ominidi, i precursori, sembrerebbe, degli esseri umani, sembrano essersi distaccati da un lignaggio antropomorfo in un
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orizzonte temporale che andrebbe dai 5 ai 7 milioni di anni fa.Il primo essere che possiamo identificare come certamente
unano, l'homo erectus, compare all'incirca un milione di anni fa. Esiste certamente l'erectusafricano, il cui rappresentante
più noto è uno scheletro giovanile quasi completo, il “Ragazzo del lago Turkana”, ma esistono anche due varietà asiatiche,
l'uomo di Pechino e l'uomo si Giava, e una varietà europea, l'uomo di Heidelberg, testimoniato oltre che dalla famosa
mandibola ritrovata in questa località, da diversi altri reperti fra cui alcuni italiani di cui parleremo fra poco. Proprio l'uomo
di Giava ha dato il nome alla specie. Esso fu scoperto nel XIX secolo dal medico olandese Eugene Dubois che lo chiamò
“Pitecanthropus erectus”, cioè “uomo-scimmia eretto”. Ci volle del tempo perché si capisse che non si trattava di un uomo
scimmia, ma di un autentico uomo sia pure primitivo.
Interessantissimo fra gli erectus europei, un esemplare italiano, l'uomo di Ceprano detto anche Argill, che sembrerebbe
avere proprio le caratteristiche giuste per essere l'antenato comune dell'uomo di Neanderthal e di quello di Cro Magnon,
mentre l'uomo di Denisova sembrerebbe da collegarsi piuttosto all'erectus di Heidelberg. In ogni caso, non vi è proprio
nulla che rimandi a un'origine africana.
La comparsa dell'homo sapiens si dovrebbe collocare attorno ai 70-50.000 anni fa se parliamo dell'uomo di Cro Magnon
anatomicamente moderno, ma se includiamo le forme cosiddette pre-sapiens o sapiens arcaiche, questo tempo andrebbe
verosimilmente raddoppiato. La nostra specie appare distinta nelle tre varietà di Cro Magnon, di Neanderthal e di Denisova,
perché è chiaro che se neanderthaliani e denisoviani hanno potuto incrociarsi con l'uomo moderno, e generare una
discendenza fertile in modo che i loro geni sono giunti almeno in parte fino a noi, vanno considerati varietà della nostra
specie, non specie umane distinte.
A titolo puramente indicativo, 100.000 anni sono un compromesso ragionevole. Quel che importa rimarcare, però, è che
l'origine africana degli ominidi primitivi e quella di homo sapiens sono due questioni affatto differenti, e che i ritrovamenti
africani di Lucy e degli altri ominidi non ci dicono nulla riguardo alla seconda, l'origine della nostra specie.
Paradossalmente essi, anzi, potrebbero rappresentare una forte indicazione in senso contrario. Dai tempi di Darwin si
presenta ai biologi un problema di difficile soluzione. Se noi affianchiamo le une alle altre le diverse specie di un gruppo
animale o vegetale rispettando i rapporti cronologici, si ha l'impressione di un'evoluzione, di una transizione dall'una
all'altra forma, ma se consideriamo una singola specie, anche lungo un arco di tempo lunghissimo, essa è perlopiù stabile e
non mostra alcun segno di transizione verso la forma successiva. Come spiegare il mistero dell'evoluzione a scatti o, come
ha detto qualcun altro, dell'evoluzione punteggiata?
Una spiegazione è stata vista da alcuni in quella che è stata chiamata teoria della speciazione allopatrica. Una specie diffusa
e affermata colonizzerà una serie di habitat e di regioni con caratteristiche diverse. Forme che rappresentano delle
innovazioni evolutive si presenteranno come adattamenti ad habitat marginali, e perché si affermino sarà necessario che un
cambiamento delle condizioni ambientali le favorisca a scapito della popolazioni originale, e solo allora potranno re-
invadere l'area “centrale” di origine della stessa, e solo a questo punto, non quando i loro antenati erano colonizzatori
marginali di un'area periferica, compariranno nella documentazione fossile perché – ricordiamolo – quelli i cui resti ci sono
giunti fossilizzati, sono solo una piccolissima parte di tutti gli esseri vissuti. Quindi l'evoluzione ci apparirà “a scatti”.
Speciazione allopatrica significa letteralmente che una nuova specie avrà origine in una “patria” diversa da quella in cui si è
generata la specie originale. Se questa teoria è vera, e se partiamo dal presupposto che le leggi che regolano il divenire
dell'umanità sono le stesse che condizionano la storia di tutte le forme viventi, il fatto che gli ominidi primitivi si siano
generati in Africa, potrebbe essere una forte indicazione del fatto il percorso successivo non si è sviluppato lì, ma altrove.
I conti però ancora non tornano. Siamo sicuri, del tutto sicuri che gli ominidi primitivi abbiano una storia esclusivamente
africana?
Questo è un capitolo sconcertante. Nel 1983, un ricercatore siciliano, Gerlando Bianchini, ritrovò proprio in Sicilia i resti di
un ominide, un australopiteco dello stesso genere della famosa Lucy e dei reperti sudafricani come il “bambino di Taung”,
che battezzò australopithecus siculus. Da allora sono passati oltre trent'anni e non se n'è più parlato, nemmeno per
contestare l'autenticità del ritrovamento, è semplicemente sparito dalla documentazione. Non è ancora tutto: noi potremmo
chiamare pre-ominidi quelle creature che, vicinissime alla linea di demarcazione fra antropomorfe e ominidi, rappresentano
il primissimo, incerto passo in direzione dell'umanità. Resti di simili creature, che sono stati raggruppati nei due
generi ramapithecus esivapithecus dal nome di due figure della mitologia indiana, furono ritrovati appunto in India, e anche
su di essi è calato uno strano silenzio. Ma forse la cosa più singolare, e certamente la meno conosciuta, è che anche l'Italia
ha il suo pre-ominide, i cui resti emersero molti anni fa da un blocco di lignite nella cava di monte Bamboli in Toscana, che
fu chiamato oreopithecus bambolensis, e che sorprende per la faccia piatta e le caratteristiche stranamente umane della
dentatura.
Il sospetto che viene, è che tutti questi ritrovamenti siano stati censurati perché potrebbero dare ombra ai reperti africani ai
quali la ricerca sedicente scientifica ortodossa e “politicamente corretta” tiene tantissimo, perché pretende di basare su di
essi la leggenda dell'origine africana della nostra specie e il teorema dell'inesistenza delle razze.

La nostra Penisola sembra avere un ruolo singolare nella storia dello sviluppo dell'umanità, pare presentare una
documentazione completa di esso: dallo stadio pre-ominide (oreopiteco di monte Bamboli), all'ominide australopiteco
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(australopithecus siculus), all'homo erectus classico (rappresentato non molto bene, ma non è la quantità dei reperti che
conta, da un dente ritrovato nella grotta nota come abisso di San Cassiano sul carso triestino e attualmente conservato al
museo di storia naturale della città giuliana), all'erectus evoluto e in via di transizione verso il sapiens (l'uomo di Ceprano,
“Argill” che è forse il candidato migliore che conosciamo a ricoprire il ruolo di antenato comune fra l'uomo di neanderthal e
il sapiens di Cro Magnon), il pre-neanderthal (Saccopastore), il neanderthaliano classico (Monte Circeo), il pre-
sapiens (uomo di Altamura), e infine, proprio per non farci mancare nulla, i ritrovamenti nella grotta di Uluzzo, i resti di
una popolazione non di ceppo neanderthaliano come si era pensato, ma di Cro Magnon fra i più antichi ritrovati in Europa.
Dubito che altrove sul territorio di una nazione di estensione non grandissima, si trovi una documentazione altrettanto
completa della nostra storia biologica, e questo ci fa sospettare che proprio essa abbia giocato un ruolo cruciale nel divenire
dell'umanità su questo pianeta, che la nostra Penisola sia davvero quell' “antiqua mater” che Virgilio invitava a
cercare.Questa nostra povera Italia è oggi, come forse più non si potrebbe, sminuita e bistrattata, non solo all'estero ma, il
che è infinitamente peggio, all'interno, da parte di una fetta considerevole de propri cittadini, che non sembrano
minimamente provare quel senso di appartenenza, di orgoglio, di fierezza per la nazione cui si appartiene, che a qualsiasi
altra latitudine sarebbe del tutto normale.Se veramente l'Italia ha avuto un ruolo fondamentale nell'evoluzione della nostra
specie e la cosa può essere provata, provate a immaginare che smacco per costoro.
A pensarci, ci godo!

Una Ahnenerbe casalinga, sesta parte


PUBBLICATO DA ADMIN IL LUNEDÌ, GIUGNO 30, 2014

Di Fabio Calabrese

Io vi devo chiedere scusa se torno a insistere con la formula degli articoli “seriali”, essa risponde a due motivazioni. In certi
casi, mi sono imbracato in un lavoro che per la sua ampiezza non è possibile contenere dentro le dimensioni di un solo
pezzo, e credo che Opus maxime rhetoricum in cui mi sono assunto il compito di smascherare le falsificazioni che
accompagnano (o che formano) la narrazione della storia come ci viene presentata dall'antichità fino all'attualità
contemporanea ne sia l'esempio più evidente, oppure è anche possibile che la serie di articoli omonimi e successivi venga a
comporre una sorta di rubrica alla quale si possono, e direi si devono aggiungere periodici aggiornamenti.

Una Ahnenerbe casalinga è, mi pare, il luogo più adatto dove collocare gli aggiornamenti sulla questione delle origini. Le
risposte che possiamo dare, o crediamo di poter dare alla domanda da dove veniamo, sono una parte essenziale dell'idea che
possiamo avere su chi siamo, e sembra proprio che oggi su questo tema si sia riacceso un dibattito vivace, anche perché c'è
un dogma, un dogma che è stato forzatamente imposto alla conclusione della seconda guerra mondiale, elemento essenziale
della Weltanschauung dei vincitori, che oggi sta miseramente crollando sotto il peso delle evidenze scientifiche, quello
dell'inesistenza delle razze, o della loro riducibilità a costrutti culturali.

Prima di procedere oltre, vorrei però esprimere un sentito ringraziamento a Luigi Leonini, una persona che sta facendo un
lavoro davvero prezioso di raccolta delle informazioni attinenti a questo e molti altri ambiti. La maggior parte degli
aggiornamenti che citerò nel presente articolo, infatti, deriva da sue segnalazioni.

Cominciamo con il riportare una notizia che compare su “Atlantean Gardens” del 4 maggio di quest'anno. Gli scienziati
russi avrebbero ufficialmente confutato la “teoria” (anche se è certamente eufemistico considerarla tale) dell'Out Of Africa,
della presunta origine africana dell'homo sapiens. E' certamente paradossale, eppure è un fatto innegabile: ai tempi
dell'Unione Sovietica la ricerca scientifica in Russia non era libera, era pesantemente condizionata dall'ideologia comunista,
la genetica – tra l'altro – schiacciata da quella bufala che è stata la “biologia” socialista di Lysenko, è stata fuori legge fino
agli anni '70. Oggi, mentre gli scienziati russi non sono vincolati da preoccupazioni di ortodossia ideologica, quelle che
attanagliano i ricercatori statunitensi, sono diventate sempre più stringenti e la democrazia è divenuta un'ideologia sempre
più totalitaria e oppressiva che ha ben poco da invidiare al vecchio dogmatismo comunista, non possono non ribadire i
dogmi dell'inesistenza delle razze e dell'origine africana della specie umana senza mettere a serio rischio le loro carriere e
con possibilità di pesanti riflessi anche sul piano giudiziario. Il triste gioco della Guerra Fredda si ripropone oggi a parti
invertite.

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“Atlantean Gardens” riporta un articolo già apparso in “Anthroplogy” n. 2 del 2012, pagine 80-86 a firma di Anatole A.
Klyosov e Igor L. Rozhanski: Re-Examining the “Out of Africa” Theory and the Origin of Europoids (Caucasoids) in Light
of DNA Genealogy.(Riesaminando la teoria dell'origine africana e le origini degli Europei (Caucasoidi) alla luce della
genealogia basata sul DNA). Gli autori hanno esaminato 7556 aplotipi umani, in particolare riguardo al cromosoma Y
(quello che determina i caratteri maschili), suddivisi in 46 sub-cladi a loro volta raccolti in 17 aplogruppi maggiori, e il
responso è chiarissimo: gli aplogruppi europei (caucasici) NON derivano dagli aplogruppi africani A o B. La teoria
dell'origine africana delle popolazioni europee è chiaramente smentita dal DNA.

L'articolo riporta anche un commento dello storico australiano Greg Jefferys che spiega che “La leggenda (“the myth”)
dell'origine africana fu introdotta nel 1990 per cancellare il concetto di razza... ma è totalmente smentita dalla genetica”.

In realtà, favole antirazziste hanno costituito da sempre la base dell'ideologia “democratica” americana, e sono state imposte
come dogmi anche all'Europa a partire dal 1945. Semplicemente, dal 1990 in coincidenza, si noti bene, con la vittoria
yankee nella Guerra Fredda, esse diventavano in maniera più esplicita e aggressiva la base dell'ideologia pseudo-scientifica
che si voleva e si vuole imporre con ogni mezzo (il che il più delle volte significa tappare la bocca ai dissidenti) nella
prospettiva di imporre al mondo che ha avuto la sventura di cadere sotto il dominio statunitense l'universale meticciato.

Lo stesso articolo ci parla del sequenziamento del DNA di un uomo di Cro-Magnon vecchio di 28.000 anni, esso appare
sorprendentemente “moderno” e sostanzialmente identico agli Europei attuali, il che rende l'ipotesi africana sempre più
vacillante.

Un contributo a renderla ancora più precaria, a mostrare che questa favolainventata a giustificazione di tutta l'ideologia
antirazzista e pro-meticciato che sta alla base della politica yankee non ha alcun fondamento, potrebbe contribuire anche
una ricerca condotta da scienziati indonesiani che hanno studiato due siti lungo il corso del fiume Solo, già noto in passato
per aver dato alla luce importanti ritrovamenti di homo erectus, di questa ricerca ha parlato il “Daily Mail” del 30 giugno
2011 intervistando Etty Indriati della Gadjah Mada University.
Stando ai risultati emersi da questa ricerca, sembrerebbe che l'homo erectusindonesiano si sarebbe estinto al più tardi
143.000 anni fa, e forse già 550.000 anni fa, mentre l'homo sapiens anatomicamente moderno sarebbe giunto nella regione
circa 35.000 anni fa, più di centomila anni più tardi, e quindi non ci sarebbe stato nessun periodo in cui le due specie umane
abbiano convissuto nella regione, al contrario di quanto si è sempre creduto finora.

Secondo gli autori della ricerca, questo fatto andrebbe decisamente contro l'ipotesi dell'origine africana e a favore di quella
dell'evoluzione multiregionale, mentre ad esempio la scoperta degli hobbit dell'isola di Flores, piccoli homo erectus adattati
a condizioni di vita insulari che sarebbero sopravvissuti fino a 40.000 anni fa, andrebbe in qualche modo a sostegno
dell'ipotesi dell'origine africana.
E' un ragionamento che, lo confesso, non sono riuscito a capire. Semmai, mi sembra, la scoperta degli hobbit di Flores
dovrebbe rappresentare un duro colpo per l'ipotesi dell'origine africana. Secondo quest'ultima, infatti, tra 50 e 70 mila anni
fa una mega-eruzione del vulcano Toba nell'isola di Sumatra, una della maggiori dell'arcipelago indonesiano, avrebbe
provocato una sorta di inverno nucleare e portato quasi all'estinzione tutta l'umanità allora esistente, lasciando in vita solo
un'esigua popolazione di africani che sarebbero gli antenati di tutti noi.

La sopravvivenza degli hobbit di Flores fino a 30-10 mila anni dopo questa fantasticata catastrofe in un'area, quella
indonesiana, proprio vicina al suo presunto epicentro, rappresenta un colpo mortale a questa fantasiosa ricostruzione.

Comunque è importante constatare il fatto che sempre più scienziati in tutto il mondo stanno constatando, o per meglio dire
non possono fare a meno di ammettere, che la favola dell'origine africana con la sottintesa implicazione dell'inesistenza
delle razze, è una gigantesca bufala, forse la peggior bufala scientifica dei nostri tempi.

Non è finita qui, perché gli studi scientifici, soprattutto le ricerche sul DNA, stanno facendo emergere un quadro ben
diverso da quella che è l'ortodossia ufficiale “politicamente corretta” che ci si vuole imporre a tutti i costi, e quando una
pubblicazione come “Le scienze” riporta cose che solo pochi anni fa era impensabile che qualcuno dicesse, tranne forse in
qualche rivista o in qualche sito particolarmente coraggioso dell'estrema destra, viene davvero il dubbio: adesso cosa
faranno i “buoni democratici”, dovranno imporre anche agli studi di genetica la stessa censura liberticida che oggi soffoca le
ricerche revisioniste sul cosiddetto olocausto? Cosa dobbiamo pensare di una democrazia il cui ingrediente sostanziale si
rivela il blocco alla circolazione delle idee, il divieto di pensare e di essere a conoscenza dei fatti?

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“Le scienze” del 2 agosto 2012 riporta un'intervista con Sarah Tishkoff dell'Università della Pennsylvania. La ricercatrice,
che è considerata una star della genetica delle popolazioni, il 26 luglio dello stesso anno ha pubblicato sulla rivista “The
Cell” un articolo che illustra i dettagli del sequenziamento completo del genoma di cinque individui per ciascuno dei tre
gruppi di cacciatori-raccoglitori ancora esistenti: i pigmei del Camerun e gli Hadza e i Sandawe della Tanzania.

I risultati di questa ricerca sono poco meno che sbalorditivi.


“Vari studi hanno dimostrato un certo livello di incroci tra i primi umani moderni usciti dall'Africa e altre specie arcaiche
non africane, tra cui i Neanderthal e, in Asia, la specie detta di Denisova. Ma non si è mai trovata alcuna prova di un DNA
neanderthaliano in Africa. Il problema è che in Africa non si ha una buona conservazione dei fossili. Quindi, quello che
abbiamo fatto è stato usare i metodi statistici sviluppati da Josh e Ben Akey Vernot dell'Università di Washington per
riconoscere le regioni del genoma che sembrano essere di origine arcaica.

La prima cosa che abbiamo fatto è stata testare questa statistica applicandola a non-africani, trovando in questi genomi un
notevole arricchimento del DNA di Neanderthal. Ma non tra gli africani, che non avevano DNA neanderthaliano. Quando
abbiamo applicato la statistica agli africani, in compenso, abbiamo visto molto dati che testimoniano incroci con un ominide
che si è separato da un antenato comune circa 1,2 milioni di anni fa”.

Vi è chiaro quel che significa tutto ciò? Nel nostro DNA ci sono le tracce di incroci avvenuti tra il sapiens Cro-Magnon e
altre linee umane sviluppatesi in parallelo: uomini di Neanderthal e di Denisova, questo per quel che riguarda il ceppo
eurasiatico della nostra specie. Queste tracce non si riscontrano nei neri africani. In compenso, ci sono le prove genetiche
del fatto che queste popolazioni sono il risultato di un incrocio, avvenuto qualche decina di migliaia di anni fa, con
un homo primitivo il cui lignaggio si sarebbe separato dalla linea umana principale circa un milione e duecentomila anni fa,
e che quindi non poteva essere altro che una variante di homo erectus.

Il nero africano, dunque, ben lungi dall'essere il modello ancestrale di tutti noi, rappresenta un vero e proprio passo indietro
sulla via del sapiens. E' razzista affermarlo? Allora mi dispiace tanto, ma sono i fatti a essere razzisti.
Questa carrellata sulle scoperte recenti riguardo alle nostre origini più remote, si può ben concludere con un'altra notizia – di
cui sono debitore sempre al buon Luigi – ma che è apparsa sul sito di Stormfront. Tuttavia il punto importante da
sottolineare è il fatto che oramai ciò che appare sulle pubblicazioni scientifiche più accreditate si salda senza soluzione di
continuità con ciò che viene pubblicato sulle riviste e i siti dell'estrema destra. La scienza sta dando sempre più ragione a
qualcuno, e questo qualcuno non sono i “buoni democratici”.
La notizia è questa:

“Vincent Sarich (professore emerito di antropologia all’Università di Berkeley, California) e Franck Miele, senior editor di
“Skeptic” (“Lo scettico”),hanno scritto un libro a 4 mani, Razza: la realtà della diversità umana; nel libro essi documentano
dettagliatamente e ampiamente come il senso comune della gente sulla diversità umana stia gradualmente trovando consensi
nella comunità scientifica, nonostante conservatorismi duri a morire.
Innanzitutto confutano i programmi televisivi che passa la TV pubblica USA, i quali negano l’esistenza delle razze umane.
Leggere lo splendido articoloL’ultimo tabù, diversa razza=diversa capacità. (The Final Taboo: Race
Differences in Ability Vincent Sarich).

Richard Dawkins, il leggendario e popolarissimo autore de Il gene egoista, ha elogiato pubblicamente sul “New York
Times” Sarich per il suo lavoro di enorme importanza! Nel corso degli anni Sarich è diventato uno dei rari antropologi
fisici, esperti sia degli scheletri che della genetica, ha dissotterrato e studiato 2500 teschi umani di 29 razze diverse e li ha
comparati con quelli di 347 scimpanzé (compresi gli straordinari bonobo), e concludendo: “Non conosco nessun’altra specie
di mammiferi che sia cosi diversificati razzialmente, eccetto i cani, che però sono stati sottoposti, di proposito a tale
differenziazione”.

Qui ci sono alcune considerazioni che si impongono in tutta evidenza. Notiamo per prima cosa la contrapposizione fra “il
senso comune della gente” che riconosce a colpo d'occhio il fenomeno razziale, e l'ideologia diffusa a partire dagli ambienti
accademici e dalla cultura ufficiale, ma non certo su basi scientifiche, che tende a negare questo fatto evidente, anche se
proprio la comunità scientifica, nonostante la resistenza degli ambienti più “conservatori” non può, a lungo andare, non
riconoscere i fatti, e dobbiamo evidenziare che “conservatore”, cioè chiuso in una visione del mondo dogmatica ed estranea
alla realtà, tendente a ignorare le chiare smentite che vengono da essa, qui, come su questa sponda dell'Atlantico,
significa di sinistra.

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In secondo luogo, non può non far piacere il fatto che il libro di Sarich e Miele abbia ricevuto l'autorevolissimo avallo di
Richard Dawkins, stella di prima grandezza della biologia contemporanea, ma soprattutto pensatore coraggioso e
anticonformista che in più di un'occasione ha dimostrato di mettersi sotto i piedi i pregiudizi dominanti. Dawkins, oltre che
de Il gene egoista è l'autore deL'illusione di Dio, un saggio sulla religione che scava impietosamente il terreno sotto i piedi
del cristianesimo e delle religioni abramitiche, e questo non ce lo può rendere certo antipatico.

Il terzo punto che occorre toccare è un po' meno incoraggiante. Io credo che senza alcun dubbio gli autori abbiano confutato
in maniera efficace i programmi televisivi che passa la televisione pubblica, che cercano di negare l'esistenza delle razze
umane, cosa di certo che non presenterebbe alcuna difficoltà se si trattasse di un confronto di idee fatto su basi eque, ma –
ed è questo il punto – quanta gente leggerà il libro e quanta gente guarda i programmi televisivi, o per meglio dire subisce
giornalmente il plagio mediatico che proviene dal malefico apparecchio, totem familiare dei nostri tempi?

La questione di nuovo si può paragonare al confronto, anch'esso sicuramente non su basi che abbiano un minimo di equità,
sulla questione dell'olocausto. Gli studi di Faurisson, di Zundel, di Mattogno sicuramente sono seri e documentati, ma
dall'altra parte non c'è un contraddittorio, quando non c'è la risposta censoria e repressiva, c'è il diluvio mediatico, l'appello
continuo all'emotività, il lavaggio del cervello che gioca sulla difficoltà a livello inconscio di distinguere fra realtà e fiction.
Vi chiedete perché la democrazia non funziona? Perché è, a voler essere espliciti, una gigantesca truffa, forse la più enorme
della storia umana? Eccola la risposta, chiara come il sole: la diffusione di “idee”, atteggiamenti, stati d'animo nella
cosiddetta pubblica opinione è inversamente proporzionale in maniera pressoché esatta alla loro corrispondenza al reale.
Di sicuro, la lotta per la verità è ancora lunga e irta di difficoltà, ma noi in ogni caso siamo qui, senza paura, a combatterla.

Una Ahnenerbe casalinga, settima parte


La visione spirituale della vita e l’ideologia moderna
Come credo di avervi già spiegato, fra i diversi articoli “seriali” apparsi su “Ereticamente”, è probabile che quelli di Una
Ahnenerbe casalinga siano quelli destinati ad avere maggiore continuità, infatti, sotto questo titolo ho deciso di
comprendere i vari “pezzi” che affrontano il problema delle origini della nostra specie, e sempre sperando che il paragone
con la vera Ahnenerbe, quella creata dal Terzo Reich, non appaia eccessivamente ambizioso. In questa serie di articoli che
di fatto a questo punto assume l’andamento di una rubrica, vedrò di aggiornarvi man mano delle novità scientifiche che
emergono intorno alla questione delle origini.
Questa volta, vorrei cominciare col rimarcare un punto sul quale forse non mi sono finora espresso con sufficiente
chiarezza. Come sappiamo, come vi ho evidenziato più volte, come ha ribadito anche recentemente la ricerca dello
scienziato russo Anatole Klysov, la tesi dell’ “Out Of Africa”, dell’origine africana della nostra specie, è un falso, una
bufala spacciata per teoria scientifica, inventata negli Stati Uniti per distruggere non il razzismo inteso come tendenza di
una razza a imporsi sulle altre e a discriminarle, o la persecuzione di alcune persone in base alla loro appartenenza razziale,
ma – il che è molto diverso – l’idea stessa che l’umanità sia suddivisa in razze. Sostenere che le razze non abbiano una reale
esistenza, che gli Europei non siano altro che africani sbiancati col trascorrere dei millenni, non è una teoria scientifica, è la
quintessenza dell’ideologia democratica, come dire falsità allo stato puro.
“E gli ominidi africani i cui resti sono emersi nei siti della Rift Valley?”, si chiederà qualcuno, “E Lucy, e il bambino di
Taung e tutti gli altri, sono anch’essi dei falsi?”
E’ precisamente questo il punto che vorrei ora sviscerare con la massima chiarezza possibile. Può essere che non tutti
abbiano bene a mente la scala dei tempi, e allora sarà il caso di ribadire che UNA questione è l’origine degli ominidi alcuni
milioni di anni fa, UN’ALTRA COMPLETAMENTE DIVERSA è invece l’origine della nostra specie,homo sapiens alcune
decine di migliaia di anni fa.
Occorre fare una premessa a tutto il discorso: quel che comunemente si intende per “evoluzione” non è la teoria di Darwin e
rappresenta qualcosa che la scienza non ha mai avallato né potrebbe farlo, trattandosi di una concezione ibrida che mescola
dati di fatto e giudizi di valore.
Nell’accezione comune, il concetto scientifico di evoluzione, cioè di trasformazione delle specie viventi nel tempo per
effetto della selezione naturale, è arbitrariamente fuso con quello molto più ambiguo, non scientifico e non verificabile di
progresso, inteso come sviluppo globalmente ascendente delle società umane, sebbene l’evoluzione riguardi un arco
temporale che coinvolge l’intera storia della vita, mentre la nozione di progresso nasce da un’osservazione non scientifica e
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dalle speranze di alcune “anime belle” su di un segmento limitato di alcuni secoli su di una parte delle società umane. In
compenso, in questa visione sono amputati aspetti importanti dell’evoluzionismo darwiniano, quali la lotta per la
sopravvivenza, la selezione, la sopravvivenza dei più adatti, che rischierebbero invece di dare l’avallo scientifico a
una Weltanschauung di tipo aristocratico.
Questa specie di pappa ideologica che ne risulta si accorda molto bene con il marxismo e anche in una certa misura con il
cristianesimo, si veda ad esempio il lavoro di fusione fra l’evoluzionismo così inteso e il cristianesimo sviluppato dal
gesuita Teilhard De Chardin, è totalmente contraria alla nostra visione del mondo, e da qui viene l’ovvio rifiuto dei nostri
ambienti, rifiuto che spesso si estende anche al vero e mal compreso evoluzionismo scientifico, e al riguardo occorre stare
molto attenti perché esso facilmente si trasforma in una sorta di boomerang, offre il destro a chi vuole presentarci come
esponenti di un conservatorismo chiuso, al punto da rifiutare le più palesi asserzioni della scienza. Il che, se ci pensiamo, è
il colmo dell’assurdità, perché semmai i cacciatori di nuvole, coloro che si alimentano di benintenzionate sciocchezze e di
utopie sono loro, i “compagni”, i democratici marxisti e cristiani.
Premesso tutto ciò, e sapendo che i dati della biologia evoluzionista, quella vera, vanno presi in attenta considerazione, è
noto che la documentazione fossile presenta un problema: noi riscontriamo per un lungo arco di tempo fossili di una
determinata specie, che sono poi sostituiti da quelli della specie successiva che rimane stabile per tempi lunghissimi prima
di essere sostituita da un’altra ancora, ma non troviamo praticamente mai forme di transizione fra una specie e l’altra, o
segni di evoluzione di una specie verso la forma successiva. Si è spesso parlato di evoluzione punteggiata o evoluzione a
scatti.
Per risolvere il dilemma, è stata proposta quella che è stata chiamata teoria della speciazione allopatrica. In pratica, una
specie affermata e diffusa, occuperà un areale piuttosto vasto e produrrà una serie di varietà locali adattate a delle nicchie
marginali. Potrà succedere che un cambiamento ambientale, ad esempio climatico, favorisca quella che prima era una
popolazione marginale adattata a quelle che prima erano delle circostanze locali, che finirà per re-invadere l’areale centrale
a scapito della popolazione fin allora dominante e diventare di fatto la nuova specie.
Quello che si vedrà nella documentazione fossile sarà uno scarto improvviso dalla vecchia forma alla nuova senza gradi
intermedi, perché essi saranno avvenuti in un’area periferica, e il processo di fossilizzazione è statisticamente raro, e tocca
solo a una frazione molto piccola degli organismi vissuti.
Il punto è proprio questo, le nuove specie si formerebbero in aree diverse da quelle in cui hanno avuto origine le specie
madri, e quindi se partiamo dal presupposto che le leggi che hanno condizionato il divenire della nostra specie siano le
stesse che valgono in tutto il regno animale e l’insieme dei viventi, proprio i ritrovamenti dei resti di ominidi come la
famosa Lucy, costituiscono un forte argomento contro l’ipotesi dell’origine africana. Se è in Africa che si è verificato il
passaggio dalla scimmia all’ominide, questo rende non più probabile, ma maggiormente improbabile che negli stessi luoghi
si siano verificati i successivi passaggi dall’ominide all’uomo e da homo erectus a homo sapiens.
Noi abbiamo visto, e si è presentata l’occasione di rimarcarlo diverse volte, che quella che chiamiamo “scienza”, che nelle
democrazie occidentali passa per scienza, non è affatto una ricostruzione oggettiva della realtà basata sui dati di fatto, ma
una costruzione ideologica e, diciamolo pure, propagandistica che non è interessata alla conoscenza, ma a diffondere nel
popolo opinioni conformi alla legittimazione delle classi dominanti al potere.
L’ipotesi dell’origine africana (non credo proprio che la si possa considerare una teoria, e “ipotesi” è probabilmente il
termine più gentile e meno dileggiatorio che si possa usare) ne è forse l’esempio più chiaro anche se certamente non il solo,
essa infatti come sappiamo, e per ammissione di coloro stessi che l’hanno formulata, non si basa su alcuna prova ma
risponde allo scopo ideologico di distruggere il concetto di razza.
Se le cose stanno in questi termini, sarà allora il caso di dare la parola a ricercatori indipendenti al di fuori dei circuiti
accademici della cultura ufficiale, che meglio sapranno illuminarci sulle nostre origini.
A questo riguardo, io credo che vada citato innanzi tutto l’imponente lavoro che ha svolto Silvano Lorenzoni, e poi i
significativi apporti di Felice Vinci e di Gianfranco Drioli. [Per coloro che fossero interessati ad approfondire l'argomento,
ricordo che tutti i testi di Silvano Lorenzoni sono reperibili presso le edizioni Primordia di Milano].
Per quanto riguarda Silvano Lorenzoni, si può fare riferimento a tre opere: Involuzione, il selvaggio come decaduto, I
continenti perduti, la luna e le cesure epocalie la più recente, Il mondo aurorale. Come è facile capire fin dal titolo del
primo dei testi citati, il nostro è un “involuzionista”, cioè sostiene, almeno relativamente alla specie umana, che la sua storia
non rappresenta un’evoluzione, uno sviluppo ascendente, ma uno sviluppo discendente, potremmo dire una catabasi, almeno
all’interno di ciascuno dei cicli che la scandiscono, al termine di ciascuno dei quali si verifica quella che egli chiama una
cesura epocale. Lungi dall’essere dei primitivi, i selvaggi sono dei decaduti, popolazioni relitto di cicli precedenti.
Vorrei far notare che questa concezione “involuzionista” è certamente in contrasto con il concetto comune di evoluzione
intesa come sviluppo ascendente, le “magnifiche sorti, e progressive” e via dicendo, con tutto ciò di cui i nostri progressisti
si riempiono la bocca, ma non necessariamente con il pensiero di Darwin né con le effettive risultanze scientifiche. Gioverà
infatti ricordare che a differenza della maggior parte dei nostri avventati contemporanei, l’autore de L’origine delle
specie dava alla parola “evoluzione” semplicemente il senso di trasformazione delle specie nel tempo, senza applicarvi un
giudizio di valore “ascendente” o “discendente” che fosse, e amava inquietare i suoi interlocutori che interpretavano la sua
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teoria in senso “progressista” con esempi di “sviluppo discendente” quali la
rudimentalizzazione, la perdita di organi e di funzioni autonome di un parassita,
anch’essa evolutiva nel senso in cui egli l’intendeva, ossia adattiva ed effetto della
selezione naturale.Oso dire un’eresia (ma d’altra parte siamo su “Ereticamente”): la
teoria di Lorenzoni non è incompatibile con le risultanze scientifiche, mentre invece lo
è la favoletta dell’origine africana.
Il nostro fa notare che questa catabasi di decadenza
che attraversa ciascun ciclo è una discesa anche dal
punto di vista fisico-geografico. La direzione
dell’irradiazione della specie umana è esattamente il
contrario di quella presupposta dall’ “Out of Africa”,
cioè non sud-nord, ma nord-sud, e trova la sua origine
in una remota patria artica resa inabitabile da un
cataclisma climatico che ha reso l’Artide il deserto
ghiacciato che conosciamo oggi. A riprova di ciò c’è
perlomeno il fatto incontestabile che le popolazioni
più primitive, cioè secondo il nostro più decadute non soltanto in termini culturali, ma
anche fisici-antropologici, si trovano regolarmente nelle estreme propaggini meridionali
delle terre abitabili: Khoisanidi in Africa, Tasmaniani in Oceania, Fuegini nelle Americhe.
La questione dell’origine della nostra specie si interseca con un’altra più recente e ristretta
della quale ci siamo già ampiamente occupati, quella dell’origine degli Indoeuropei, se si
parte dal presupposto che gli Indoeuropei non fossero che un ramo dei discendenti di una civiltà primordiale da cui
sarebbero discese le popolazioni di ceppo caucasico e con ogni probabilità l’umanità attuale o almeno gran parte di essa o la
maggioranza dei suoi antenati. Se cerchiamo di localizzare geograficamente questa civiltà ancestrale, questo “paradiso
perduto” il cui mito (o il cui ricordo trasformato in mito) si trova nella letteratura e nelle tradizioni di popoli di tutto il
mondo, le stesse tradizioni ci indicheranno unanimemente la direzione del lontano nord.
Su questa tematica le osservazioni di Lorenzoni si saldano in maniera davvero mirabile (anche perché i due ricercatori non
si conoscono e non mi risulta che fra loro sia avvenuto alcuno scambio di idee, è proprio un convergere verso una verità
comune partendo da approcci diversi) con quelle riportate da Felice Vinci in Omero nel Baltico. Il clima del nostro pianeta,
come sappiamo, è soggetto a periodiche fluttuazioni. Vi sono ere glaciali e periodi interglaciali durante i quali la
temperatura si innalza a livelli dai quali oggi, nonostante l’effetto serra e il riscaldamento globale, siamo ancora ben lontani:
le nostre latitudini sono invase da una fauna e da una flora tropicali, mentre un clima temperato si estende fino all’estremo
nord e le coltri glaciali spariscono.
Da allora e fino circa all’8000 avanti Cristo, diecimila anni fa, una civiltà primordiale si sarebbe sviluppata nella regione
artica allora libera dai ghiacci e con un clima temperato. Circa dieci millenni or sono, l’optimum climatico avrebbe iniziato
a declinare, e gli antenati degli Indoeuropei, fra cui quelli degli Achei si sarebbero spostati nelle parti più meridionali della
Scandinavia e della Finlandia e nel Baltico, per poi migrare anche da lì attorno al 2000 avanti Cristo in conseguenza di un
ulteriore irrigidimento climatico.
Io non ho la competenza per pronunciarmi sulla tesi centrale della teoria di Vinci, che è stata aspramente contestata da
Ernesto Roli, altro studioso degno della massima credibilità, ossia che il Baltico e non il Mediterraneo sarebbe stato il teatro
della guerra di Troia e delle vicende di Ulisse raccontate da Omero, ma è altamente probabile che gli Achei fondatori della
civiltà micenea e poi di quella ellenica, così come gli altri popoli indoeuropei siano giunti nell’Europa mediterranea
provenendo da nord.
Gianfranco Drioli è un nome meno noto di quelli di Silvano Lorenzoni e di Felice Vinci, è un intellettuale triestino autore di
un libro bello e documentato sulla Ahnenerbe, quella vera, l’associazione nazionalsocialista che si occupava dello studio
dell’eredità degli antenati (questo è il significato della parola in tedesco), che è stato pubblicato dalle Edizioni Thule. Ad
essa e al suo scopo mi sono ispirato e spero di non aver fatto un lavoro troppo indegno.

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Recentemente Drioli mi ha dato in visione un suo testo ancora inedito e in una stesura non
ancora definitiva: Iperborea: ricerca senza fine della Patria perduta. Poiché si tratta di un
testo ancora inedito e che forse non ha nemmeno raggiunto la sua forma definitiva, mi
asterrò dall’entrare nei dettagli della trattazione, tuttavia vi devo dire che per me ha
rappresentato una vera sorpresa, perché il suo discorso si salda ammirevolmente a quelli di
Lorenzoni e di Vinci e li completa. L’idea di una remota patria perduta o forzatamente
abbandonata a causa di un cataclisma climatico si ritrova nei miti greci, neiVeda indiani,
nell’Avesta iranica, nelle tradizioni di svariati popoli, e tutti sono concordi nell’indicare la
localizzazione nordica di questa antica patria. Il nome di essa, Iperborea, in greco significa
letteralmente “oltre – o sopra – il nord”, il che è come dire l’estremo nord, la regione artica.
Le ricerche di questi tre studiosi puntano in maniera convergente in una direzione che, è ben
visibile, è esattamente opposta a quella della presunta origine africana, e non è nemmeno
detto che siano i soli, perché le voci dissidenti non hanno né la presunzione di autorevolezza
né i mezzi di diffusione del sistema cattedratico e mediatico che, per proprio conto rimane
dogmaticamente arroccato sulle proprie posizioni e rifiuta a priori tutte le novità che potrebbero metterlo in crisi.
Eppure anche qui le crepe cominciano a essere visibili. In apertura dell’articolo ho fatto un accenno alle ricerche del
genetista russo Anatole Klysov che smentiscono la tesi dell’origine africana degli Europei attuali. Ne abbiamo parlato con la
dovuta ampiezza la scorsa volta: il DNA non mostra alcuna traccia di questa presunta derivazione dall’Africa.
Nello stesso articolo della rivista “Atlantean Gardens” che riporta notizia delle
ricerche di Klysov, si parla del sequenziamento del DNA di un uomo di Cro
Magnon i cui resti risalgono a circa 28.000 anni fa: è risultato sostanzialmente
identico a quello degli Europei di oggi, senza alcuna traccia della presunta origine
africana. Possiamo risalire indietro nel tempo di una trentina d migliaia di anni (sei
volte, per essere chiari, il tempo che separa noi stessi dall’invenzione della scrittura
e dall’inizio delle prime civiltà conosciute). Non c’è niente da fare, gli Europei
rimangono Europei senza la minima traccia di “africanità”.
La “scienza” ufficiale rimane chiusa in un’ortodossia dogmatica, funzionale non alla
ricerca della conoscenza ma alla preservazione del potere sedicente democratico.
Ma ogni ortodossia dogmatica genera i Copernico, i Giordano Bruno, i Galileo
pronti a sfidarla.

Una Ahnenerbe casalinga, ottava parte

E’ venuto forse il
momento di
riorganizzare e semplificare tutta la materia degli articoli “seriali”. Prevedo, salvo casi eccezionali, di tenere in vita una sola
sezione che dovrebbe diventare una vera e propria rubrica, questa “Ahnenerbe casalinga” che spero sempre non rappresenti
un termine di confronto particolarmente disonorevole con la vera società nazionalsocialista per lo studio dell’eredità degli
antenati, perché sul controverso tema delle nostre origini sembra che di questi tempi emergano novità una dietro l’altra.Mi
era anche sembrato utile tracciare un raccordo fra lo smascheramento delle menzogne democratiche riguardo alle origini e
quelle della nostra storia recente e, dopo aver trattato l’antichità, il Medio Evo, l’età moderna in tempi molto rapidi, dal
discorso sulla contemporaneità non mi pareva possibile riuscire a venirne fuori. Questo spiega perché “Opus Maxime
Rhetoricum” (“soprattutto un lavoro di propaganda”, una definizione ciceroniana della storia) si è prolungato fino a dodici
parti.
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A parte l’affetto per la lingua dei Padri, “Ex Oriente lux” è un discorso diverso. Che quel che ci viene raccontato dai libri
di storia sulle origini della nostra civiltà con un’interpretazione preconcetta, sia una deformazione che tende a privilegiare il
ruolo del Medio Oriente e a sminuire quello della nostra Europa, è una tesi a me cara su cui sono ritornato da varie
prospettive. In particolare, negli ultimi due articoli mi sono soffermato su di un punto: la rivalutazione del mondo
germanico e nordico, e qui vorrei tornare a evidenziare un fatto fondamentale: quest’ultimo è il cuore dell’Europa non
soltanto geograficamente, e al fondo di ogni atteggiamento denigratorio anti-tedesco dobbiamo sospettare uno spirito anti-
europeo.
Ma la partita più grossa è forse quella che si gioca proprio sul tema delle origini della nostra specie, perché l’idea
assolutamente a-scientifica e anti-scientifica di un’origine africana recente di homo sapiens è stata introdotta senza un reale
straccio di prova, allo scopo di distruggere il concetto di razza, fa parte della dogmatica democratica allo stesso titolo della
mitologia olocaustica. Vogliono chiuderci gli occhi sul nostro passato e sul nostro presente, in modo che caschiamo inermi e
impreparati nel bel futuro che hanno preparato per noi!
Io credo che l’importanza di tutto ciò possa sfuggire solo al prezzo di una considerevole disinformazione, e nell’articolo
precedente ho fatto soprattutto un lavoro divulgativo, ma credo sia indispensabile sgombrare il campo dagli equivoci: la
questione della presunta origine africana recente della nostra specie è tutt’altra cosa da quella dell’origine africana remota
degli ominidi, Lucy e tutte le altre creature i cui resti sono riemersi da un lontano passato.
Stavolta invece ci concentreremo sugli ultimi aggiornamenti veri e propri di un quadro che si sta facendo sempre più
sorprendente.
Forse non è una circostanza del tutto secondaria il fatto che al momento in cui sto stilando queste note, sono reduce da una
brutta avventura di salute, e la raccolta del materiale per la stesura di questo articolo mi riuscirebbe assai gravosa se non
avessi la fortuna di essere nella lista dei corrispondenti di una persona del cui prezioso lavoro di informazione vi ho già
parlato altre volte: Luigi Leonini.
Questo articolo si basa su due segnalazioni di Luigi, entrambe del 31 luglio. La prima fa riferimento a un articolo comparso
sulla versione on line de “Le scienze” del settembre 2011, Il salto tecnologico di Homo erectus. Qui c’è un discorso
preliminare che occorre fare, perché il quadro paleoantropologico può non essere chiaro a tutti. Gli ultimi ominidi non
umani appartenenti al genere Australopithecus si sono estinti attorno al milione di anni fa. La nostra specie, homo
sapiens, ha qualche decina di migliaia di anni. Quel che c’è in mezzo nel vasto periodo intermedio è appunto l’Homo
erectus.
Si tratta di un personaggio assolutamente chiave per la ricerca delle nostre origini. Secondo l’ipotesi formulata
dall’antropologo Carleton S. Coon e poi sviluppata dalla teoria multiregionale che si contrappone all’Out Of Africa, non
solo questa remota specie umana sarebbe stata ampiamente differenziata con diverse varianti fisiche e culturali, ma proprio
in questa differenziazione affonderebbero le differenze razziali che ancora oggi suddividono le varie popolazioni umane. Il
passaggio da erectus a sapiens, infatti, non sarebbe avvenuto una sola volta e in un solo luogo.
Questa tesi, che è eresia pura per i sostenitori dell’origine africana e per gli antirazzisti, adesso trova ulteriori conferme,
infatti, secondo quanto riferisce il citato articolo de “Le scienze”, finora non ci si era provati ad accostare in parallelo
l’evoluzione fisica dell’homo erectus con quella culturale attestata dallo sviluppo degli strumenti litici. Una volta fatto
questo confronto, si scopre una complessità tale da escludere qualsiasi ipotesi di evoluzione uniforme e monogenetica.
I campioni della democrazia e dell’antirazzismo non sono sicuramente gente sulla cui sorte valga la pena di impietosirsi. Se
così non fosse, verrebbe da chiedersi come faranno in futuro a mantenere in piedi una visione delle cose in contrasto sempre
più stridente con i dati di fatto.
Questa domanda viene da porsela con evidenza ancora maggiore considerando la seconda segnalazione del nostro Luigi.
Quest’ultima, infatti, fa riferimento all’ampia ricerca su antico materiale genetico degli europei condotta da un team
americano-tedesco diretto da Johannes Krause dell’Università di Tubinga e da David Reich della Harvard Medical School
del Massachusets, e i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista “Nature”. Se ricordate, io vi ho già parlato di questa
ricerca, che però qui è disponibile in una versione più particolareggiata e con dettagli che non finiscono di sorprendere.
Diciamo per prima cosa che analizzando il DNA di resti umani risalenti ad alcune migliaia di anni fa, sono stati individuati
tre gruppi genetici fondamentali: il più antico, risalente a 40.000 anni fa, è quello dell’uomo di Cro Magnon per il quale,
come abbiamo visto, è stata supposta un’origine africana ma senza poter portare alcun genere di prove a sostegno di questa
congettura (semmai, come abbiamo visto, alcuni ricercatori si sono spinti a ipotizzare un’origine sull’altra sponda del
Mediterraneo risalente all’epoca del Sahara fertile, prima del formarsi del grande deserto attuale, ma è praticamente certa
l’assenza di correlazioni con i genomi delle popolazioni dell’Africa subsahariana attuale), si tratta comunque di un gruppo
alquanto localizzato che non permette certo di desumere un’origine africana per la grande maggioranza degli Europei.
Un secondo gruppo, che è quello di gran lunga maggioritario, è quello che è stato denominato eurasiatico settentrionale, il
cui genoma è tipico delle popolazioni di cacciatori paleolitici dell’Europa e della Siberia (regione che già da tempi
remotissimi sembra essere antropologicamente legata assai più all’Europa che al resto del continente asiatico). Questo
secondo gruppo è quello presente con una maggioranza schiacciante fra gli Europei preistorici, antichi, attuali, con una
continuità genetica che ha sorpreso i ricercatori.
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C’è infine un terzo gruppo più recente che rappresenta un lieve flusso genetico di origine mediorientale che avrebbe risalito
l’Europa attraverso i Balcani, e che secondo alcuni ricercatori sarebbe da collegarsi alla diffusione dell’agricoltura che si
suppone essere originaria dell’area mediorientale-anatolica.
Su questo punto, senza ripetere tutto quanto ho scritto nella serie di articoli “Ex oriente lux, ma sarà poi vero?”, è il caso di
soffermarsi un attimo.
Se davvero la diffusione dell’agricoltura, e con essa quella possibilità di surplus alimentare che ha permesso di avere classi
sociali impegnate in attività diverse dall’immediata produzione di cibo, quindi commerci, artigianato, navigazione, città,
stati e via dicendo, quindi tutto ciò che noi chiamiamo civiltà, e per soprammercato la diffusione delle lingue indoeuropee
come hanno sostenuto i paladini della tesi del nostratico, fossero giunti in Europa dal Medio Oriente, il flusso genetico da
esso all’Europa sarebbe dovuto essere molto più massiccio di quel che questa ricerca ha permesso di riscontrare, ma non
basta, si dovrebbe anche spiegare la priorità europea nella lavorazione dei metalli, nell’allevamento bovino (preceduto però
probabilmente da quello della renna da parte delle popolazioni eurasiatiche settentrionali) e perché la cultura megalitica
europea nonché le conoscenze tecniche e astronomiche rivelate dai sofisticati allineamenti di Stonehenge, Newgrange e via
dicendo, precedano di almeno un millennio le piramidi egizie e le ziggurat mesopotamiche, perché troviamo mummie dalle
caratteristiche nordiche fra le famiglie reali dell’Egitto faraonico, e non resti di sovrani nordafricani nelle sepolture micenee.
Sostanzialmente, questo gruppo eurasiatico settentrionale e che forse potremmo definire euro-siberiano, è la componente
nettamente predominante in tutte le etnie europee, oggi e fin dalla più remota preistoria, proprio quella innegabile realtà
biologica che oggi i sostenitori del mondialismo vorrebbero confutare per distruggere, la sostanza dell’uomo europeo che
oggi la democrazia vuole uccidere.
Un’ulteriore analisi del DNA di un ragazzo siberiano vissuto 24.000 anni fa, ha permesso di stabilire l’origine di questa
popolazione euro-siberiana da ovest, dall’Europa.
Anche su questo punto sarebbe il caso di aprire una riflessione che potrebbe portarci molto lontano. Soprattutto nell’età
medievale l’Europa è stata varie volte soggetta a invasioni non europee, ma mentre respingere arabi e ottomani ha richiesto
lotte spietate protrattesi per secoli fino alla definitiva cacciata degli invasori, Unni, Ungari, Avari sono stati presto
assimilati, si sono fusi con le popolazioni europee native. Questa differenza di risultati è con ogni probabilità legata al fatto
che questi ultimi discendevano come noi dal ceppo eurasiatico settentrionale, erano nostri parenti più stretti di quanto
pensassimo.
E oggi che ci dobbiamo confrontare con l’invasione di genomi a noi del tutto estranei: magrebini e subsahariani, quanti
secoli dovremo lottare per sbarazzarcene?
Noi oggi possiamo davvero renderci conto di quanta ragione avesse Adriano Romualdi quando nella sua bellissima
introduzione a Religiosità indoeuropea di Gunther sosteneva che è il sangue nordico-europeo a fare di un europeo ciò che è,
in qualsiasi proporzione sia presente, a differenziare un siciliano o un andaluso da un arabo, e un russo da un mongolo. Non
è un qualche fattore culturale (che semmai arriva dopo) a fare di un europeo quello che è, ma il suo sangue.
Questa ricerca ha ancora in serbo per noi una sorpresa non da poco, infatti, questo genoma eurasiatico settentrionale è
risultato presente in circa un terzo del patrimonio genetico degli amerindi nativi americani.
E’ la più chiara conferma della teoria di Clovis, quella che vede nella più remota industria litica del Nuovo Mondo il
prodotto dell’arrivo, costeggiando la banchisa artica dell’epoca, di cacciatori paleolitici europei dell’età glaciale, e
indirettamente del fatto che all’origine delle civiltà amerindie, così come di quelle eurasiatiche, ci sarebbe sempre un antico
popolamento “bianco”.
Un’eredità, la nostra, che le ricerche scientifiche ci svelano quasi a sorpresa essere inaspettatamente preziosa, e che abbiamo
il dovere di opporci con tutti i mezzi al “democratico” tentativo criminale oggi in atto di disperderla.
Fabio Calabrese

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Una Ahnenerbe casalinga, nona parte
Un noto detto afferma che citare diverse fonti è cultura, mentre citarne una sola rischia di essere plagio. E’ un rischio che va
tenuto presente, ma le informazioni contenute in un articolo recentemente comparso sul sito identità.com viene a collegarsi
così bene al discorso sin qui svolto su ciò che si può obiettivamente dire sulle nostre origini, che sarebbe davvero un peccato
ignorarlo, anche perché qui non si tratta di questioni di copyright letterario, ma di un’informazione che l’ortodossia ufficiale
cerca al massimo di nascondere, di impedirne la circolazione, e che appunto per questo, è importante diffondere il più
possibile.
Per prima cosa, occorre fare un’osservazione preliminare: stavolta non parliamo di teorie o interpretazioni. Stavolta si tratta
di fatti, fatti per di più che hanno cominciato ad emergere negli anni ’60 del secolo scorso, e che per mezzo secolo sono stati
coperti da un velo di silenzio omertoso perché potrebbero rivelarci un’immagine delle nostre origini e di noi stessi del tutto
difforme da quella che l’ideologia democratica vorrebbe inculcarci.
Adattare le teorie ai fatti, correggerle in base alla scoperta di nuove conoscenze è l’essenza del metodo scientifico
“galileiano” cui è legato qualsiasi progresso che abbiamo mai fatto nella comprensione del mondo che ci circonda e di noi
stessi. L’operazione contraria, adattare i fatti alle teorie, o se questo non è possibile, falsificarli oppure nasconderli,
censurarli, isolarli dietro una cortina di silenzio, invece è tipico del pensiero dogmatico, di chi in malafede vuole imporre
una visione distorta della realtà. Bene, precisamente questo è oggi il caso di quell’ideologia menzognera che conosciamo
come democrazia.
Questa storia inizia in Egitto oltre mezzo secolo fa, ma affonda le sue radici in un passato molto più antico, ecco cosa ci
racconta l’articolo pubblicato da identità.com il 4 agosto e che s’intitola: Scoperti i resti della prima guerra della storia: e
fu guerra razziale. E a proposito, non è quanto meno singolare che notizie e informazioni che dovrebbero apparire su riviste
di divulgazione scientifica se vivessimo in situazioni normali, debbano invece circolare su siti “di Area”?
La vicenda inizia con quella grande impresa ingegneristica di cui credo la maggior parte delle persone della mia età si
ricordino bene, che fu la costruzione della diga di Assuan.
“Siamo a sud dell’Egitto. La storia di questa grande scoperta archeologica inizia negli anni ’50, quando viene decisa la
costruzione della nuova diga di Assuan. E’ un grande progetto, che entusiasma i due ingegneri che vi si dedicano ( tra
cui un italiano), ma che terrorizza gli archeologi; e il motivo è chiaro: il nuovo ed immenso bacino che si creerà, finirà
con l’inondare i reperti presenti sulla costa sud-orientale del Nilo.
A questa preoccupazione, nel 1960, risponde l’Unesco, che lancia una missione in grande stile per individuare e spostare
i siti archeologici a rischio.
Ed è in quest’occasione che, nel 1964, nel nord dell’attuale Sudan, viene rinvenuto un primordiale cimitero, costituito di
tre siti contigui, risalente a oltre 13.000 anni fa.
E’ un rinvenimento già all’apparenza non da poco, in quanto più antico sito della zona. E tuttavia la sua importanza
non viene in un primo momento compresa; i mezzi a disposizione, non lo consentono. I resti scheletrici finiscono così nel
laboratorio dell’illustre antropologo americano Fred Wendorf; ove, di fatto, riposano per oltre 30 anni.
Fino a quando non hanno iniziato ad essere studiati con le moderne tecnologie del 21esimo secolo: e qui è iniziato il
bello. Per la prima volta, strumenti tecnologici di una certa “raffinatezza” hanno potuto esaminare questi residui ossei,
ed evidenziare particolari mai notati prima”.
Piccola, banale osservazione: 64 più 30 uguale a 94. Quindi, anche se l’analisi di questi resti partì con una trentina d’anni di
ritardo, deve essere stata compiuta all’incirca vent’anni fa. Evidentemente, non si aveva nessuna fretta di divulgare quanto
era stato scoperto, e quando ci rendiamo conto di quello che è saltato fuori, capiamo bene il perché.
“Una prima scoperta rilevante, è stata osservare che le ossa dei crani, delle braccia, di quasi il 50% degli scheletri
provenienti da Jebel Sahaba ( uno dei siti di cui è composto il cimitero), presentano innumerevoli segni di impatto di
frecce, e che frammenti appuntiti di pietra selce ( usati per la testa della frecce) sono sparsi sopra e tutto attorno alle
ossa: è evidente, questi sono scheletri di persone morte assassinate, a seguito di un attacco di arcieri.
E nelle ultimissime ricerche compiute dal British Museum, in collaborazione con scienziati francesi, si è visto che c’è
anche di più: si è infatti dimostrato che si ci fu un vero e proprio conflitto su larga scala, che toccò un po’ tutta la costa
orientale a sud del Nilo: durato molti mesi, e probabilmente anni. Non vi sono oramai dubbi di rilievo: quello trovato
non è un “semplice” cimitero, è altresì testimonianza di un conflitto armato organizzato: è, in pratica, un cimitero di
guerra, della prima guerra di cui si abbia notizia”.
Abbastanza sconvolgente, non vi pare? Quanto meno, ci impone di modificare radicalmente le nostre idee sulla guerra che
non è, come ci si è sforzati di farci credere, un frutto tardivo e perverso di civiltà evolute, ma accompagna l’uomo fin dalla
preistoria.
Come scrive l’autore del testo (che non è firmato):
“Senz’altro l’aspetto più avvincente dello sviluppo di questa prima guerra della Storia, è come si palesi ancora una volta
che la causa primigenia di guerra non sia, ad esempio, la brama di potere o di ricchezza, né tanto meno la presenza di
confini, ma anzi, l’assenza stessa dei confini”.
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L’interpretazione più canonica e ricorrente del fenomeno guerra, quella che ritroviamo esplicita o sottintesa praticamente in
ogni testo di antropologia e sociologia, non è un’idea che si sia in qualche modo affermata a partire dalla ricerca scientifica,
ma discende dai “magnanimi lombi” di Jean Jacques Rousseau, dai cascami dell’illuminismo.
“L’uomo nasce buono, la società lo corrompe”, è il celebre leitmotiv rousseauiano mille volte smentito dall’esperienza
reale, e che pure continua a essere alla base del pensiero di sociologi e antropologi. La guerra, hanno mille volte
argomentato costoro, è il frutto di società complesse, dove esistono la proprietà, soprattutto terriera, stratificazioni sociali,
differenze nell’accesso alle risorse, quindi potere e ricchezza per alcuni e per conseguenza l’ambizione di conseguire l’uno e
l’altra.
Il primitivo, l’uomo nello stato di natura che è ancora lontano da tutto questo, è per conseguenza pacifico e mite,
istintivamente benevolo verso il prossimo, “il mito” che sembra inestirpabile del “buon selvaggio” che sta ancora oggi alla
base di tanta antropologia culturale, tutta intesa a dimostrare quanto buoni e angelici siano i cosiddetti primitivi e quanto
malvagi e corrotti siamo noi europei.
Già l’esperienza dei navigatori e degli esploratori del XVIII e del XIX secolo aveva dimostrato inequivocabilmente che
tutto ciò è completamente falso: nonostante i paraocchi illuministi, costoro, da James Cook a David Livingstone, non hanno
potuto fare a meno di registrare i frequenti furti di cui erano oggetto da parte dei nativi, la ferocia delle guerre tribali, i non
infrequenti episodi di cannibalismo, ma quando ai paraocchi di Rousseau vengono a sommarsi quelli di Marx e quelli di
Levi Stauss, la realtà perde ogni potere di penetrare nelle menti ottenebrate degli “scienziati”.
L’esperienza dimostra che i conflitti fra popolazioni di cacciatori-raccoglitori sono meno cruenti di quelli fra popolazioni
agricole e stanziali semplicemente perché nel primo caso le popolazioni interessate sono demograficamente molto più rade,
ma vale sempre la stessa regola: quando due popolazioni diverse competono per le stesse risorse, il conflitto anche violento
è inevitabile. In più, molto più frequentemente di quanto oggi non si pensi, i “buoni selvaggi” che non hanno mai letto
Rousseau, tendono a considerare i loro vicini una fonte di proteine, il cannibalismo di cui gli antropologi attuali parlano il
meno possibile e sempre con imbarazzo e (simulato?) stupore, e che testimonianze recenti rivelano non essere per nulla
scomparso dall’Africa subsahariana.
Se la storia documentata ci ha dato ampi esempi di ciò, quale motivo abbiamo di pensare che nella preistoria le cose
andassero in maniera differente?
Un antropologo fuori dagli schemi, Melvin Harris, nel libro “Cannibali e re” ha ribaltato completamente la prospettiva con
cui di solito i suoi colleghi, discepoli di Rousseau, di Marx, di Levi Strauss guardano a questi fenomeni, nel senso che
secondo la sua teoria sarebbe stata proprio l’introduzione del tabù del cannibalismo a consentire il passaggio
dall’organizzazione tribale a quella di società complesse. Non solo non si cacciano altri esseri umani come fonte di cibo, ma
si rinuncia persino a divorare il nemico ucciso in battaglia, il che da un certo punto di vista può essere considerato uno
spreco di proteine, perché il nemico vinto è più utile come schiavo o come vassallo che come pasto.
“Siamo venuti qui per portarvi la civiltà” suona meglio di “Siamo venuti qui per mangiarvi”.
L’aspetto più importante e quello che entra maggiormente in conflitto con l’ideologia democratica della scoperta avvenuta
nella Valle del Nilo, però, è probabilmente un altro.
“Ma gli ultimi sviluppi di questa vicenda, hanno rivelato anche dell’altro. Ricerche parallele, compiute da università
come la John Moores di Liverpool o la Tulane di New Orleans, si sono concentrate sopratutto sul comprendere chi
fossero le vittime di quelle sepolture.
E il loro responso è chiaro: tutte le vittime sono parte di uno stesso ceppo razziale, assolutamente identificabile come
progenitore dei neri sub-sahariani di oggi: tutto nell’analisi delle ossa del cranio, del bacino e degli arti corrisponde.
Ma chi furono allora i loro rivali, i nemici in quella grande e primordiale guerra? Ebbene, i ricercatori sono convinti
che si trattasse senz’altro di genti di tutt’altro tipo; genti che a quel tempo erano situate in un po’ tutto il bacino del
Mediterraneo; ovvero: caucasici, popolazioni progenitrici dei nordafricani autoctoni ( come i Berberi), ed in parte anche
degli europei attuali. I resti stessi di popolazioni di tal tipo, vengono ritrovati a 200 miglia a sud del cimitero di Jabel
Sahaba.
Fu allora guerra razziale, tra popolazioni che con ogni probabilità differivano oltre che geneticamente, anche nella
cultura e nella lingua. Popolazioni che proprio nella zona settentrionale dell’odierno Sudan, per via della fertilità creata
dal corso del Nilo, vennero a contatto.
Si può notare, quindi, come quella prima guerra fu l’anticamera degli scontri che in epoca storica videro da una parte
gli egizi e dall’altra i nubiani”.
Insomma, a quanto pare, gli sconfitti di questo scontro erano neri antenati dei subsahariani odierni, mentre i vincitori erano
del ceppo caucasico nordafricano autoctono, quello che su basi linguistiche è identificato come camitico, a cui
appartenevano Egizi e Numidi, e a cui appartengono oggi Berberi ed Egiziani copti.
Come giustamente osserva l’articolista:
“Si potrebbe ad esempio notare, come già in epoca abbondantemente preistorica, le popolazioni caucasiche fossero
tecnologicamente più progredite delle popolazione sub-sahariane. Sempre a memento che quale che sia la causa di
questo divario, certo non è il colonialismo ( che ne è al più una delle conseguenze)”.
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In altre parole – diciamolo pure – la democrazia ha sempre considerato la questione razziale girando volutamente il
binocolo dalla parte sbagliata. Non sono le condizioni storiche, ambientali e culturali che hanno determinato l’arretratezza
dell’Africa e delle popolazioni “nere”; queste ultime sono appunto nient’altro che conseguenze. Ne volete una riprova? Ce
ne sono a pacchi, nonostante su di esse si sia esercitata da decenni una “democratica” operazione di “coverage” e censura.
Ad esempio, la media del Q. I. degli afroamericani è 85, contro il valore di 100 delle popolazioni caucasiche. Che questo
non sia dovuto a fattori culturali, sociali, ambientali, non è difficile da dimostrare. Gli ispanici di recente immigrazione
riportano un valore ancora più basso: 80, ma appena andiamo a considerare le seconde e terze generazioni di immigrati,
questo valore sale rapidamente allineandosi a quello della popolazione di origine anglosassone, mentre il dato degli
afroamericani è assolutamente stabile. E non è tutto, perché questi ultimi hanno in realtà parecchio sangue “bianco”. Se ci
spostiamo nell’Africa nera, si scende a un drammatico 70.
Non è ancora tutto. Avete osservato il piccolo particolare che i caduti dei due gruppi sono stati seppelliti in due siti, in due
“cimiteri di guerra” a 200 miglia di distanza l’uno dall’altro? Se si è mantenuta una tale separazione per i morti, possiamo
immaginare come stessero le cose tra i vivi.
Scopriamo così un’altra delle menzogne della democrazia. Quella di distinguere le persone in base a caratteristiche sia
fisiche sia culturali, e di prediligere ciò che ci è affine, cioè il proprio gruppo di appartenenza, cioè quel che noi chiamiamo
razzismo, non è un costrutto del colonialismo del XIX secolo né tanto meno un’invenzione del nazionalsocialismo del XX
secolo, è una costante della mente umana e della storia umana. E leviamoci dalla testa l’idea – massima espressione delle
mistificazioni democratiche – che sia un “peccato” nel quale indulgono solo i bianchi.
Come commenta l’articolista:
“E’ insito nella natura umana fare gli interessi della propria gente, per mandare avanti il proprio patrimonio genetico e,
non da meno, avere una terra in cui “sentirsi a casa”.
La verità è questa: una società multietnica quale quella che si è affermata negli Stati Uniti e che oggi attraverso
l’immigrazione si vuole imporre anche da noi, è quanto di più artificioso e innaturale possa mai esistere, e richiede un
prezzo enorme in termini di conflittualità interna e di violenza.
Come scrisse diversi anni fa Sergio Gozzoli in “L’incolmabile fossato”, uno stupendo saggio che ancora adesso è bene
andare ogni tanto a rileggersi:
“Le differenze di razza, di religione, di cultura creano sacche e compartimenti stagni. Ma non si tratta mai, come in altri
Paesi multirazziali – India, URSS, Sud Africa – di grosse sacche e grossi compartimenti geograficamente ben delimitati:
i loro confini dividono non gli Stati, le contee o i distretti, ma le città e i quartieri, talvolta i marciapiedi opposti della
stessa strada. Ed essi non convivono l’uno accanto all’altro, ma piuttosto si sovrappongono l’uno sull’altro, coincidendo
in tutto o in parte con un diverso status culturale ed economico.
Dai banchi di scuola agli uffici di collocamento, dalle relazioni sessuali alle carriere pubbliche, dai contatti interpersonali
alle stratificazioni sociali, tutto subisce la pesante influenza dell’appartenenza all’uno o all’altro gruppo; e i rapporti son
difficili e tesi, carichi di una incontenibile potenzialità di ricorrente violenza”.
Ed è esattamente quello che si sta sempre più verificando anche da noi, la tragica realtà che l’immigrazione ci porta ogni
giorno di più in casa.
Non a caso, l’articolista conclude:
“E non è rassicurante pensare che oggi, con l’esperimento “immigrazionista” e multirazziale in Europa, illudendosi che
gli uomini siano intercambiabili si stiano creando premesse anche peggiori: gruppi etnici molto diversi, in territori
sovrappopolati, e prossimi a carenza di risorse ( carenze denunciate, proprio negli ultimi giorni, anche da studi di rilievo
compiuti presso l’Università di Cambridge).
I disordini etnici che già ad oggi hanno falcidiato diverse zone d’Europa ( a volte anche portandosi dietro non pochi
morti), sono nulla rispetto a quello che con questo andamento, si scatenerà in futuro. Al confronto, la striscia di Gaza
sembrerà il posto migliore in cui vivere”.
Una conclusione certamente non incoraggiante ma con la quale, alla luce dei dati di fatto, non è possibile non essere
d’accordo.

Una Ahnenerbe casalinga, decima parte

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Intorno alla questione delle origini, non vi sarebbero più molte cose da dire, non ve ne sarebbero, beninteso, se si trattasse
semplicemente di esporre i dati in nostro possesso e le teorie che in base a essi si possono ragionevolmente formulare, ma le
cose sono alquanto più complesse e difficili di così, perché il compito non poco impegnativo che ci si presenta, è quello di
controbattere una visione del mondo falsata che ci si impone con tutti i mezzi propagandistici e coercitivi del potere, che
non ha alcuna base nella realtà, ma piuttosto nei dogmi dell’ideologia democratica che ci è imposta da settant’anni, e per la
quale la realtà dei fatti non ha alcuna importanza e, scopertamente mira al plagio delle coscienze, senza scrupolo,
naturalmente, di ricorrere a mezzi repressivi quando quest’ultimo non funziona.Sarà bene per prima cosa fare una rapida
sintesi delle conclusioni a cui porta il lavoro svolto finora, conclusioni che mi pare si possano riassumere in tre punti che
sono altrettante smentite dei dogmi che l’ideologia democratica tenta di imporre come ortodossia scientifica a questo
riguardo:
Primo: smentita dell’ipotesi dell’origine africana della nostra specie, la cosiddetta teoria (che poi non è una teoria per il
semplice fatto che queste ultime richiedono elementi di prova a loro sostegno) dell’ “Out of Africa”, talvolta indicata –
stante l’orribile vezzo anglosassone di siglare tutto – con l’acrostico OOA. Per chi non è addentro alla problematica delle
origini, sarà bene ricordare che quella dell’origine africana RECENTE della specie homo sapiens a cui apparteniamo, è
questione completamente diversa da quella dell’origine africana remota dei più antichi ominidi, Lucy e tutti gli altri le cui
ossa sono state ritrovate lungo la Rift Valley che solca il continente nero dall’Etiopia alla sua estremità meridionale. Questi
ritrovamenti, per quanto importanti dal punto di vista scientifico, non ci dicono nulla circa l’origine recente della specie cui
apparteniamo, quando si passa dall’arco temporale dei milioni a quello delle decine di migliaia di anni.
Ora, per malcelata ammissione dei suoi stessi creatori, l’OOA non ha nulla di scientifico: la presunzione che gli Europei
avrebbero avuto origine assieme a tutto il resto della nostra specie da una migrazione all’Africa che si suppone avvenuta
qualche decina di migliaia di anni fa, che sarebbero in sostanza dei neri “sbiancati” dal diverso clima, è stata inventata per
rendere impossibile la formulazione stessa del concetto di razza e, oggi siamo in grado di rendercene pienamente conto, in
prospettiva per farci accettare l’immigrazione e il meticciato che stiamo oggi subendo, LA NOSTRA SPARIZIONE COME
POPOLI.
L’OOA è imposta dal sistema “educativo” e mediatico come l’ortodossia scientifica dalla quale è proibito discostarsi, ma se
andate a leggere i lavori degli specialisti, non è difficile scorgere tra le righe un quadro del tutto diverso. Mi rifaccio, per
esempio, a un caso che ho già citato in precedenza: l’analisi del DNA dei resti di un uomo di Cro Magnon risalente a 28.000
anni fa, ha mostrato una forte affinità con gli Europei attuali, ma nessuna relazione con genomi africani.
Qui, direi, si svela il vero volto della democrazia: essa è un sistema tirannico formalmente ammantato di libertà ma nella
realtà dei fatti pronto non soltanto a colpire con la repressione i dissidenti, ma, ESATTAMENTE COME LA
MOSTRUOSITA’ SCOMPARSA NEL 1991 DAI NOSTRI CONFINI ORIENTALI, caratterizzata dall’imposizione
mediante il sistema propagandistico mediatico, di un dogmatismo avulso dalla realtà e finalizzato alla perpetuazione del
proprio potere.
Un punto che finora non abbiamo sufficientemente approfondito, è il ruolo giocato in tutta la faccenda dalla cosiddetta
sinistra. Essa è “ovviamente antirazzista” e per il dogmatismo a blocchi di cemento, la rigidità mentale che caratterizza
“l’essere di sinistra”, già la semplice constatazione che le razze esistono, NON il sostenere la supremazia di una razza sulle
altre, è già razzismo. Basta che voi guardiate in faccia la realtà senza lasciarvi abbagliare dai dogmi che cercano di imporvi,
e siete già sul libro nero di coloro che vanno sorvegliati a vista. E cosa dire poi del fatto che “i compagni” hanno accettato a
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scatola chiusa un dogmatismo preconfezionato creato da coloro che TEORICAMENTE negli anni della Guerra Fredda
sarebbero dovuti essere i nemici?
C’è da sentire un brivido gelido scenderci lungo la schiena vedendo quello che scriveva negli anni ’70 una psicanalista
francese, ovviamente di sinistra, Françoise Dolto. Costei, occupandosi dei complessi di un ragazzo mulatto, gli aveva detto
che “era l’avanguardia di una nuova umanità”, che un giorno tutti sarebbero stati come lui. Che lei e qualcun altro fossero
già edotti del destino che il mondialismo intendeva imporci, e che oggi è diventato sciaguratamente manifesto?
Il secondo punto, la seconda smentita che – abbiamo visto – si impone, riguarda l’origine dei popoli indoeuropei. Anche
qui, tanto per sgombrare il campo da equivoci e malintesi, sarà bene premettere una precisazione: i “buoni” democratici,
contagiati da un’ideologia avulsa dalla realtà, saranno pronti a obiettare che noi possiamo parlare di lingue, non di popoli
indoeuropei, e allora occorre sottolineare che di norma una lingua corrisponde a una comunità di parlanti che tende a essere
etnicamente e geneticamente omogenea (anche se non si tratta di un’omogeneità assoluta e scambi genetici fra popolazioni
vicine sono sempre avvenuti), che le società multietniche sono un’eccezione, e per di più un’eccezione quasi interamente
confinata all’età moderna, rara al punto da essere sconosciuta man mano che si risale indietro nel tempo.
Per la dittatura orwelliana che conosciamo come democrazia, la verità storica non ha, naturalmente, alcuna importanza, e le
sue mistificazioni sono demandate soprattutto alla fabbrica di menzogne hollywoodiana che condiziona il modo di pensare
della gente a livello planetario senza che quest’ultima se ne renda conto. Così, ad esempio, nelle pellicole “storiche” noi
vediamo spesso neri fra i legionari romani, gli spartani di Leonida o addirittura i guerrieri vichinghi. Ci si vuole
surrettiziamente dare a intendere per “normale”, “ovvio”, “scontato” ciò che normale non è affatto, ossia la società
multietnica.
Ciò premesso, è del tutto chiaro che man mano che si risale indietro nel tempo, possiamo essere sempre più certi della
coincidenza fra lingue e popoli etnicamente omogenei.
La concezione tradizionale che vede l’espansione dei popoli indoeuropei come il risultato di una serie di conquiste ad opera
di guerrieri-cavalieri-allevatori provenienti dall’Europa orientale o dalle steppe eurasiatiche, che sottomettono le società
agricole dell’Europa mediterranea e dell’area indo-iranica, è stata sostituita da una “nuova ortodossia” (pseudo)scientifica
che ne fa invece agricoltori di origine mediorientale che si sarebbero pacificamente espansi in Europa alla ricerca di nuove
terre da coltivare.
Non conquistatore guerriero, ma pacifico contadino, manca solo che ci venga detto che l’antico indoeuropeo era anche
hippy e figlio dei fiori!
I primi formulatori di questa ipotesi (escogitazione, delirio?) sono stati due linguisti “russi”, Aharon Dolgopolskij e
Vladislav Illic-Svityc (le virgolette si giustificano per il fatto che – guarda caso – dopo la caduta dell’Unione
Sovietica Dolgopolskij si è trasferito in Israele). Costoro ritengono di aver individuato un’antica proto-lingua da cui
sarebbero derivati i linguaggi indoeuropei oltre a quelli semitici (caldeo, babilonese, assiro, fenicio, ebraico, arabo) e
camitici (egizio, copto, berbero), e l’hanno chiamata “nostratico” dal latino “noster”, nostro.
Anche in questo caso, è evidente che si tratta di una formulazione ideologica volta a distruggere il “mito ariano” e,
esattamente come l’OOA, è chiaramente smentita da un’informazione corretta, soprattutto dai dati messi a nostra
disposizione dalle ricerche sul DNA. Se l’ipotesi del nostratico fosse corretta, infatti, sarebbe riscontrabile negli Europei di
oggi una forte presenza di geni di origine mediorientale, cosa che invece non si verifica, c’è una modesta presenza di geni di
origine mediorientale rilevabile soprattutto nell’area balcanica, ma non altro.
Le ricerche sul DNA dei popoli europei hanno rivelato soprattutto tre componenti: una componente molto antica, paleolitica
che è la traccia lasciata dal più antico popolamento “sapiens” del nostro continente, che si riconnette direttamente all’uomo
di Cro Magnon, una componente di origine mediorientale risalente probabilmente agli agricoltori neolitici, e un gruppo
denominato “eurasiatico settentrionale” che deriverebbe dai cacciatori del Paleolitico superiore. Quest’ultima componente è
maggioritaria in maniera schiacciante rispetto alle altre due. Noi portiamo nelle nostre cellule la traccia dei nostri antenati, e
questo nuovo strumento, l’analisi del DNA sta arricchendo in maniera notevole le nostre conoscenze; peccato che nello
stesso tempo distrugga i dogmi e i pregiudizi dell’ideologia democratica, o almeno li distruggerebbe se il confronto delle
idee avvenisse su basi eque, e dalla parte della democrazia non ci fosse il potere di un uso esorbitante degli strumenti
propagandistici e repressivi.
Io confesso di non avere dalla mia una conoscenza delle culture preistoriche e protostoriche paragonabile a quella di un
Ernesto Roli o di un mai troppo rimpianto Adriano Romualdi. Fra le non poche che l’archeologia preistorica ha identificato
sul suolo europeo, tuttavia, una che mi pare particolarmente significativa dal punto di vista simbolico, è quella dell’ascia da
combattimento, perché è proprio l’ascia da combattimento che i sostenitori del nostratico vogliono sfilarci metaforicamente
dalle mani per sostituirla con la zappa del contadino. Invece, considerando i difficili tempi che ci si preparano, abbiamo più
che mai bisogno di tenere affilata e impugnare la nostra ascia.
Anche il terzo punto è una confutazione, una smentita, ed è un argomento al quale tengo in maniera particolare e a cui sulle
pagine di “Ereticamente” ho dedicato non poco spazio: che le origini della civiltà siano da cercarsi in oriente, in pratica quel
che ci viene raccontato da tutti i libri di storia, che vedono le origini della civiltà tra il Nilo e la Mezzaluna Fertile, passare
dagli Egizi e dai Sumeri ai Babilonesi, agli Assiri, ai Fenici, agli Ebrei, ai Persiani, e solo in tempi successivi giungere in
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Europa attraverso i Greci e i Romani. Ho dedicato i dodici articoli di “Ex oriente lux, ma sarà poi vero?” alla confutazione
di questa tesi che viene presentata come una banale ovvietà.
Non solo la civiltà europea si è costruita con le proprie forze essendo debitrice di ben pochi apporti dall’esterno, come
dimostra ad esempio il fatto che la cultura megalitica del Wessex è di un millennio più antica delle piramidi egizie e
mesopotamiche, ma l’ottica di questo tipo di asserzioni andrebbe capovolta, infatti, dovunque nel nostro mondo troviamo i
segni di grandi civiltà, riconosciamo sempre un’impronta europea, europide, caucasica, “bianca”.
Un antico popolamento europide dell’Asia centrale e orientale potrebbe essere alle origini delle grandi civiltà di questa parte
del mondo. Ne sono testimonianza le mummie “europee” e “celtiche” di Cherchen nel Takla Makan, i resti del misterioso
popolo dei Tocari che abitavano il bacino del fiume Tarim, il popolo dei Kalash, biondi e pagani che ancora oggi nelle alte
valli dell’Afghanistan e del Pakistan resistono all’assedio dei bruni mussulmani delle pianure, le popolazioni europidi del
Giappone, gli Jomon e Ainu (il sostrato nativo del Giappone non è mongolico, è “bianco”), le sepolture dei kurgan, i grandi
tumuli funerari delle steppe eurasiatiche dove si vede bene che un tipo antropologico mongolico si sostituisce gradualmente
a uno caucasico.
Per quanto riguarda le Americhe, la più antica cultura litica del Nuovo Mondo, la cultura Clovis sarebbe stata introdotta da
“immigrati” europei, cacciatori paleolitici dell’età glaciale che vi sarebbero giunti costeggiando la banchisa artica, abbiamo
poi le leggende di “dei” bianchi e barbuti apportatori di civiltà: Viracocha, Quetzalcoatl, Gucumatz, e popolazioni di strani
amerindi “bianchi”, Mandan e Aracani.
Là dove non è possibile scorgere un’influenza europide/caucasica, vediamo che le popolazioni native non si sono schiodate
un millimetro dal paleolitico: Africa nera, Aborigeni australiani, Nuova Guinea.
Questo è il quadro complessivo che possiamo tracciare, e proprio perché ormai è abbastanza chiaro e definito, gli
aggiornamenti da fare non sono molti. Ci rifacciamo ancora all’ampia ricerca condotta dal team americano-tedesco diretto
da Johannes Krause dell’Università di Tubinga e da David Reich della Harvard Medical School del Massachusets sui
genomi preistorici, che, oltre ad averci dato un quadro di una chiarezza che finora non avremmo potuto sperare, della nostra
eredità ancestrale, ci permette di comprendere tante cose.
Questa indagine ha permesso di evidenziare nel DNA tratto dai resti di amerindi (vissuti, s’intende, prima del 1492) la
presenza di 1/3 di geni di origine europea. E’ una conferma schiacciante della teoria che collega la cultura Clovis alle
industrie litiche europee, e quindi della presenza di un’impronta caucasica, “bianca” tutte le volte che incontriamo culture
che hanno dato vita a una civiltà, la regola vale anche per il mondo precolombiano.
A conclusione (per ora!) del nostro discorso, vale la pena di menzionare un ottimo articolo di Alfonso De Filippi comparso
da poco sulle pagine di “Ereticamente”, e che ci racconta una storia molto interessante, ci parla di Charles Richet, (1850-
1935), scopritore della sierologia e premio nobel per la medicina, che fu anche un assertore dell’eugenetica e della
superiorità razziale dell’uomo bianco, la cui conservazione richiede l’evitare il mescolamento razziale. Ha espresso queste
idee in un saggio del 1919, “La sélection humaine”. E’ ovvio che questi concetti sono incompatibili con la democrazia e il
suo presupposto fondamentale, la presunta uguaglianza degli uomini.
Egli scrive:
“Invece di coltivare questo immenso errore che si chiama eguaglianza delle razze umane, errore che ci condurrà a dei
disastri, bisognerà marciare verso un altro scopo, elevato e nobile: il perfezionamento dell’uomo. Noi creeremo tra le
razze che popolano la terra una vera aristocrazia :quella dei bianchì, di razza pura, non mescolati con i detestabili
elementi etnici che l’Asia e l’Africa potrebbero introdurre tra di noi”.
Come fa notare De Filippi, gli fa eco un altro grande pioniere della medicina, Alexis Carrel:
“L’ eguaglianza dei… diritti è pura illusione. Il debole di mente e l’uomo di genio non debbono essere considerati uguali
di fronte alla legge; l’essere stupido, incapace di attenzione, abulico, non ha diritto ad una educazione superiore ed è
assurdo dargli, ad esempio, lo stesso potere elettorale che all’individuo completamente sviluppato. I sessi non sono
uguali. E ‘molto dannoso non riconoscere queste disuguaglianze Il principio democratico ha contribuito
all’indebolimento della civiltà, impedendo lo sviluppo dei migliori, mentre è evidente che le disuguaglianze individuali
debbono essere rispettate. Vi sono, nella società moderna, funzioni appropriate ai grandi, ai piccoli, ai medi e agli
inferiori; ma non bisogna attendersi di formare individui superiori con gli stessi procedimenti validi per i deboli. La
standardizzazione delle creature umane da parte dell’ideale democratico ha assicurato il predominio dei mediocri… il
solo mezzo di produrre l’uguaglianza fra gli uomini era di portarli al livello più basso”.
Queste, occorre sottolinearlo, non sono le opinioni di due persone qualsiasi, ma di due padri della medicina moderna con
una profonda conoscenza dell’essere umano dal punto di vista fisico e psicologico, formulate in un’epoca in cui, prima della
catastrofe del 1945 e l’imposizione planetaria della tirannide democratica, era ancora possibile parlare liberamente di questi
argomenti.
Le conclusioni le lascio a voi.
Una Ahnenerbe casalinga, undicesima parte

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Una delle Piramidi di Guimar, Isole Canarie e due mummie dei Guanci,originari abitanti delle isole.

In tutta sincerità, non pensavo di riaprire a così poca distanza dal mio articolo precedente, la mia Ahnenerbe casalinga, la
mia modesta e personale indagine sull’eredità degli antenati, e infatti, quello che mi propongo di fare questa volta, non è
tanto di aggiornarvi sulle novità emerse a questo riguardo, quanto piuttosto di mettere a fuoco alcune precisazioni e di
rispondere ad alcune obiezioni.
Come ricorderete, nella decima parte, l’articolo che ha preceduto questo, facevo riferimento a un ottimo pezzo di Alfonso
De Filippi apparso anch’esso sulle pagine di “Ereticamente”, dove si parla di Charles Richet, scienziato francese premio
nobel per la medicina come scopritore della sierologia, articolo che in pratica è un’ampia recensione del libro di
quest’ultimo del 1919, “La sélection humaine”. Esso ci rivela una verità di cui oggi facciamo fatica a capacitarci: prima
della sconfitta del 1945 che ha rappresentato per l’Europa un disastro non soltanto politico ma anche culturale, ossia nel
periodo antecedente alle due guerre mondiali e sotto le “bieche” dittature fasciste, uno scienziato, un premio nobel poteva
parlare liberamente di argomenti quali razze, selezione, eugenetica, mentre oggi sotto le “libere” democrazie, solo accennare
a questi argomenti distruggerebbe la carriera accademica di chiunque, di qualunque ricercatore che non si attenesse
all’ortodossia del più rigido conformismo democratico.
L’articolo di De Filippi è ampio, e certamente il testo di Richet lo è ancora di più, e forse un elemento che non ho messo
adeguatamente in evidenza, è la persuasione dello scienziato francese che a differenti caratteristiche fisiche delle diverse
razze umane, corrispondono diverse attitudini mentali.
Non si tratta di un’opinione vecchia di quasi un secolo e superata da ricerche successive, ma di un fatto riguardo al quale si
sono accumulate sempre più prove, che però in democrazia cadono sotto un’implacabile censura. Vorrei ricordare
l’ammissione davvero sorprendente che abbiamo trovato in un post sulla versione on line de “Le scienze” del 26 ottobre
2007:
“Le sottospecie di esseri umani che si differenziano per colore, capelli, biochimica, tratti del viso, dimensioni del cervello e
così via, differiscono in intelligenza. Biologicamente, è innegabile che questa differenza esiste, ma dirlo è un anatema”.
O meglio, dirlo espone ai peggiori anatemi, a vedersi impedita la pubblicazione delle proprie opere, alla perdita della
cattedra, anche a minacce alla propria incolumità personale, come vedremo più avanti.
Io direi che i risultati di settant’anni di “educazione” democratica a questo riguardo, si vedono. Tutte le volte che si affronta
questo argomento con un pubblico generico, le reazioni che saltano fuori sono un misto – in proporzioni variabili – di
ignoranza e di schizofrenia. Qualche mese fa era il momento di quel grande “panem et circenses”, “strilla dietro un pallone
davanti a uno schermo TV, così non vedi i problemi che ti stiamo creando”, che sono stati i campionati mondiali di calcio.
In quell’occasione feci l’errore di commentare su facebook che per quanto riguarda me personalmente, mi sono disamorato
della maglia azzurra quando l’ho vista indosso a un uomo di colore, non solo, ma come sappiamo tutti, un individuo
indisciplinato, arrogante, teatrale, portato a ostentare un disprezzo di ripicca per chi ha poca melanina nella pelle (perché
diciamocelo, non è che quelle persone siano tutte uguali).
Peggio, mi sono permesso di osservare che non ritengo che quella persona sia realmente un mio connazionale, perché
un’adozione e qualunque cosa possiamo scrivere sui documenti, non cambiano la genetica né il fenotipo delle persone. Mi
sono trovato di fronte a una salva di reazioni indignate, non credo di aver raccolto in vita mia tanti insulti, e probabilmente
quello che sono riuscito a stabilire non è soltanto un record personale.
Il modo migliore di tacitare certe persone, probabilmente, è quello di non rispondere loro, lasciarli blaterare a vuoto finché
non si stancano. Se non avessi fatto così, probabilmente sarei ancora a discutere della faccenda, facendo d’altro canto con
ogni verosimiglianza un’opera del tutto inutile, perché una convinzione che si è insinuata nella mente di qualcuno per vie
irrazionali, non può essere sconfitta da argomenti razionali.
La cosa più interessante, tuttavia, sono probabilmente i “ragionamenti” che hanno accompagnato questo tipo di reazioni.
Nel migliore dei casi, rivelavano un’evidente disinformazione. Qualcuno dei miei…(è troppo generoso chiamarli
“interlocutori”), per esempio, aveva asserito che in ciò che un essere umano è, la genetica conta per il 12 per cento. Il 12 per
cento? Sarei proprio curioso di sapere da quale fonte avrebbe tratto questo “dato”, perché la realtà delle cose è molto
diversa.

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Nel 1973, il genetista americano di origine ucraina Theososius Dobzhansky pubblicò il saggio “Diversità genetica e
uguaglianza umana”, un testo scritto al preciso scopo di essere democratico, antirazzista, anti-selezione, politicamente
ortodosso e chi più ne ha più ne metta. Tuttavia il diavolo, si dice, fa le pentole ma non i coperchi. Essendo una persona
dotata di un minimo di onestà scientifica, Dobzhansky fece un grave errore ai fini della causa che intendeva sostenere: non
ha falsificato i dati in contrasto con le idee che voleva affermare. Nelle ultime pagine del libro c’è una tabella coi
coefficienti di correlazione (potremmo dire in termini non matematici, le somiglianze) dei quozienti d’intelligenza di
persone con vari gradi di parentela. Gemelli monozigoti separati alla nascita presentano una correlazione del 75%, mentre
nel caso di persone non imparentate allevate insieme, essa scende al 24%. Ce n’è più che a sufficienza per capire che ciò
che noi siamo dipende per tre quarti dalla genetica e solo per un quarto dall’ambiente, altro che quel miserabile 12%!
Ma questa contrapposizione tra ereditario e appreso, con la preferenza data alla “cultura” (qualunque significato si
attribuisca in realtà a questa parola) che è così centrale nel modo di pensare “democratico” ha realmente senso? Il grande
naturalista Konrad Lorenz diceva: “L’uomo è PER NATURA un animale culturale”. E’ soltanto la sua base biologica a
farne un creatore e un produttore di cultura (con l’implicito corollario che poiché la base biologica e genetica non è identica
in tutti i gruppi umani, non è detto che tutti abbiano realmente accesso ai medesimi livelli culturali, per quanto le condizioni
ambientali possano essere favorevoli).
In questa mitizzazione dei fattori culturali-ambientali tipica di “democratici” e marxisti, c’è – io penso – qualcosa di più di
quel che non appaia a prima vista. E’ tipica del pensiero cristiano e abramitico in genere una percezione scissa del mondo: a
una dimensione naturale se ne contrappone una spirituale o soprannaturale. Il paganesimo, ad esempio, aveva un’altra idea
del sacro, il divino faceva parte della natura, non di una sorta di sovra-mondo. Bene, la contrapposizione cristiana natura-
spirito si ritrova sostanzialmente uguale nel marxismo come contrapposizione natura-cultura. Mascherata, travestita con
abiti laici, ma la teologia cristiana nel marxismo c’è ancora tutta. Il marxismo si rivela una volta di più la quarta delle
religioni abramitiche.
In una pagina memorabile del “Dialogo sopra i due massimi sistemi”, Galileo Galilei schizza un bellissimo ritratto dei dotti
pedanti del suo tempo a cui “Non piacendo il mondo reale, si sono fabbricati un mondo di carta”. Questo genere di pedanti
oggi non è estinto, si sono trasferiti dalle scienze fisiche alle scienze umane, alla politica, alla giurisprudenza, e continuano
a tenere in vita “un mondo di carta” dove si pretende che la nazionalità sia definita da fattori culturali, e dove basta un
semplice tratto di penna per trasformare in italiano qualcuno che non ha nulla a che fare con noi.
Essere attaccati, fatti oggetto di critiche più o meno malevole, è certamente sgradevole, ma da un lato fa anche piacere,
perché significa che le cose che scrivo hanno un’eco anche fuori dei nostri ambienti, che non sono una “predica nel nostro
cortile”, che non sto solo cercando di persuadere chi è già convinto di quel che dico.
Ultimamente mi è stato segnalato che una replica alla decima parte di questa serie di articoli, è stata pubblicata sul sito
“Tipologie europidi” in data 30 settembre. Oddio, si può anche capire che nella democraticissima e liberissima democrazia
nella quale viviamo, qualcuno che ha deciso di occuparsi di tipologie europidi abbia il terrore di essere considerato razzista,
e perciò tenda a manifestare atteggiamenti di segno contrario anche sopra le righe. Quello che è meno comprensibile, è che
l’articolo sia anonimo. Una volta di più mi trovo a confrontarmi con persone che nascondono la propria identità, dietro
l’anonimato o evidenti pseudonimi. E’ come lottare con i fantasmi. E’ possibile, mi chiedo, che sia solo io ad avere
abbastanza coraggio delle mie opinioni da firmarle con il mio nome?
L’articolo, non molto lungo, s’intitola “Ma l’uomo è nato in Africa?”, anche se nel testo vediamo che quella che nel titolo
dell’articolo è presentata come un’ipotesi soggetta al dubbio, diventa nel corpo del testo un fatto dimostrato.
L’autore, chiunque egli sia, si avvale di uno scontatissimo artificio retorico, simula una posizione di equidistanza fra i
“sinistroidi” che affermano la non esistenza delle razze, e i “destroidi” (di cui il sottoscritto ha avuto l’onore di essere preso
a esempio) che rifiutano l’ipotesi dell’origine africana. In questi casi l’apparente imparzialità è una ovvia “captatio
benevolentiae” verso il lettore. Tuttavia, tale equidistanza e tale imparzialità sono solo apparenti, infatti, è ovvio che se si
sostiene che i nostri antenati sono arrivati in Europa dall’Africa poche decine di migliaia di anni fa, e si sono rapidamente
“sbiancati” per le diverse condizioni climatiche, questo equivale a sostenere l’inesistenza delle razze.
L’argomento del contendere, è facile capirlo, è la famosa ricerca dei due scienziati russi Klysov e Rozhanskij, che studiando
gli aplogruppi del cromosoma Y avrebbero escluso un’origine africana recente per le popolazioni europee attuali.
“I due genetisti Russi”, ci dice l’anonimo “I quali sono arrivati a una conclusione sbagliata con dei dati giusti. Analizziamo
attentamente questo paper, che va molto di moda postarlo tra questi “negazionisti” per dare credibilità alla loro teoria, tanto
da diventare un loro cavallo di battaglia. Se solo si fossero impegnati a leggerlo e capirlo!”
In pratica, sostenendo che non veniamo dall’Africa, i due ricercatori russi non avrebbero affatto inteso dire che non veniamo
dall’Africa!
Credo che tutta la faccenda dev’essere spiegata un po’ meglio per non diventare incomprensibile.
“Questi due genetisti Russi dicono che dato che su un campione di 400 elementi, non è stato trovato alcun polimorfismo a
singolo nucleotide (SNP) tipico degli aplogruppi Y-DNA Africani A e B, allora “l’Homo sapiens non viene dall’Africa”.
Ma questo è palese: ogni aplogruppo differenziandosi acquisisce diversi markers, quindi le varie cladi dell’aplogruppo A
presentano vari SNP’s che sono invece assenti negli altri aplogruppi, lo stesso dicasi per il B.
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Nonostante ciò, tutti gli aplogruppi del mondo condividono un progenitore comune Africano Sub-Sahariano (A1 e
successivamente i suoi “figli” A1b e BT), in quanto tutti nel mondo hanno alcuni SNP’s nati in Africa”.
Detto in parole più semplici, noi non condividiamo gli aplogruppi africani, ma quelli africani attuali e i nostri sarebbero stati
originati da un progenitore più antico presente in Africa.
Quando? Il punto è precisamente questo. Vi avevo già fatto rilevare che due questioni diverse che non vanno confuse sono
l’origine africana dei più antichi ominidi milioni di anni fa, che è pacifica, e l’origine africana RECENTE di homo
sapiens alcune decine di migliaia di anni fa, che è invece controversa, e che ci permettiamo di contestare. Tra i milioni e le
decine di migliaia di anni c’è un altro ordine di grandezza, quello delle centinaia di migliaia di anni, e anche se la
differenziazione del ceppo eurasiatico da quello africano fosse avvenuta in questa fascia, la cosa cambierebbe poco, perché
saremmo in una fase in cui appena si può parlare di homo, e ancora molto lontana da sapiens.
Il ceppo dei primati antropomorfi a cui apparteniamo presenta grandi differenze comportamentali in presenza di una scarsa
differenziazione genetica, in termini di DNA la differenza fra noi e gli scimpanzé non sembra superare il 5%, e se la
comune origine africana si perde in una lontana notte pre-umana, possiamo non tenerne conto.
In realtà, noi abbiamo visto che quella dell’origine africana RECENTE di homo sapiens, che è una questione
completamente diversa da quella dell’origine africana REMOTA degli ominidi, non sia una teoria scientifica ma
un’invenzione ideologica creata negli anni ’70 per rendere impossibile NON il razzismo ma la percezione delle differenze
razziali, su questo ricordiamo anche che abbiamo visto su di un sito di sinistra, “Keinpfutsch” l’imbarazzata confessione di
Uriel Fanelli.
Chi è intriso di pregiudizi (“biases” perché questa gente sembra ritenere l’italiano così poco espressivo da dover ricorrere a
parole inglesi anche quando il sinonimo italiano è ben documentato e comune nell’uso), mi sembra sia l’anonimo autore
dell’articolo, che scrive, facendo un vero processo alle intenzioni:
“Uno dei tanti biases ideologici di questi destroidi, genera il rifiuto a priori da parte loro della teoria Out Of Africa, secondo
la quale l’Homo sapiens è nato in Africa e si è diffuso solo successivamente in tutto il mondo, perché non riescono ad
accettare il fatto che “veniamo dai negri”.
Ora, naturalmente io parlo per me e non a nome di tutti i “destroidi”, ma questo è un vero processo alle intenzioni,
l’attribuire a chi non accetta l’Out Of Africa un atteggiamento fobico rispetto all’idea di “venire dai neri”.
E’ chiaro che l’anonimo autore dell’articolo, se ha letto, non so con quale attenzione, il mio scritto, ignora del tutto quelli
che l’hanno preceduto, altrimenti gli sarebbe chiaro che mi sono dedicato alle riflessioni (alle indagini, nei limiti del
possibile per chi è fuori dai circuiti “autorizzati”) ben prima che da noi giungesse notizia delle ricerche di Klysov e
Rozhanskij, e un concetto che ho sempre sostenuto è che, anche se la separazione fra homo africano ed eurasiatico, fosse
effettivamente recente, le cose non cambierebbero molto, perché è stata l’uscita dall’Africa, in qualunque epoca sia
avvenuta, a fare di noi quello che siamo. E’ stato l’ambiente del nord, più difficile e ostile, sfidando l’intelligenza degli
uomini e operando una spietata selezione, che ha plasmato l’uomo eurasiatico, gli ha richiesto creatività, intelligenza,
preveggenza, previdenza per le incertezze del futuro, maggiori attenzioni nella cura della prole. E’ stato il nord la nostra
vera Urheimat. Questo, a chi non condivide il nostro tipo di ottica potrà dire ben poco, ma coincide con quanto al riguardo
ha tramandato il pensiero tradizionale.
Là dove però l’anonimo riesce davvero a raggiungere il grottesco (ma quale autorevolezza, mi chiedo, possono avere delle
affermazioni che il loro autore non si sente di sottoscrivere?), è quando presume che le opinioni si confrontino su di un
piano di parità, e non esista una persecuzione contro coloro che non sono “allineati”.
“Non c’è alcun “complotto”, nessuno impedisce a nessun altro di raccogliere evidenze scientifiche che favorirebbero
un’altra eventuale teoria sull’origine dell’Homo sapiens.
A questi complottisti perciò dico, in nome di questa democrazia che tanto schifate, siete liberi di divulgare le vostre teorie,
dimostrarle, scrivere paper scientifici, e perché no, vincere un premio Nobel.
Nessuno ve lo impedisce”.
Per il non manzoniano anonimo, l’ipotesi forse in questo caso non esattamente di un complotto ma certamente di una
parzialità delle istituzioni scientifiche, appare tanto ridicola da motteggiarla: “gombloddo”!
Ah davvero? Ah davvero?
Facciamo qualche esempio per chiarirci le idee, e vediamo se non esiste una censura democratica nei confronti di certe idee
e di certi filoni di ricerca dove NON SI VUOLE che emergano dei risultati.
Christopher Brand, docente dell’Università di Edimburgo, autore del libro “The G Factor, General Intelligence and his
implications” (“Il fattore G, l’intelligenza generale e le sue implicazioni”), è bastato che in un’intervista consigliasse le
donne single che vogliono avere figli fuori dal matrimonio, di avere relazioni con uomini intelligenti, per favorire la
trasmissione ai figli di questa qualità, per passare dall’olimpo accademico alla lista nera dei proscritti, si è vista impedita la
pubblicazione del libro ed ha perso il posto all’università.
Bruce Lahn, genetista: ha scoperto alcuni geni connessi allo sviluppo recente del cervello umano, e che tali geni si trovano
nelle popolazioni bianche e mongoliche, ma non in quelle nere. Ha dovuto abbandonare le ricerche perché “controverse”. In
pratica, gli è stato fatto capire che se avesse proseguito, si sarebbe trovato in grossi guai.
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Arthur Jensen, psicologo: in una ricerca ha constatato che gli afroamericani (che non sono neri puri, questi ultimi ottengono
punteggi più bassi), hanno un Q. I. in media di quindici punti inferiore a quello della popolazione americana bianca. E’ stato
vittima di numerose aggressioni e ripetute minacce, e costretto a vivere sotto scorta.
E’ abbastanza chiaro o devo continuare? Questi tre non sono esempi isolati. Per chi osa contestare l’imperante ideologia
democratico-egualitaria, la prospettiva non è il premio nobel, ma la morte professionale, se non anche quella fisica.
So naturalmente che si tratta di un pio desiderio, ma mi sarebbe piaciuto che le tesi da me esposte fossero state considerate
(e anche contestate) nella loro interezza piuttosto che là dove l’anonimo “interlocutore” pensava di avere buon gioco. Io
penso che non sia nemmeno necessario che vi evidenzi che il respingimento dell’ “Out Of Africa” è, per quanto mi riguarda,
solo un elemento di una tesi più vasta che comprende l’origine eurasiatica e non mediorientale dei popoli indoeuropei, e
l’origine endogena della civiltà europea. Su questi due punti, diciamo, non c’è più partita per i “democratici”. Il primo l’ha
messo a posto come si deve la genetica: se davvero le lingue indoeuropee fossero state diffuse in Europa da agricoltori
mediorientali “nostratici”, dovremmo vedere un forte flusso genetico dal Medio Oriente all’Europa, che invece proprio non
si riscontra. Quanto alla seconda, sarebbe interessantissimo che qualcuno provasse a spiegarci come possono la cultura
egizia o quella mesopotamica aver influito sulla cultura del Wessex, quella che ha creato Stonehenge e gli altri complessi
megalitici, visto che quest’ultima è più antica di circa mille anni delle prime due.
Le bugie hanno le gambe corte, e la democrazia sta camminando con l’inguine paurosamente vicina al suolo.
Fabio Calabrese

E’ quasi sorprendente dover ritornare sul tema delle origini dopo tutto quello che abbiamo già visto sull’argomento. Io
credo di aver tracciato al riguardo un quadro sufficientemente chiaro e che non vedo alcun motivo di modificare, tuttavia le
cose da dire sono ancora tante.
La cosa dovrebbe essere ovvia, ma per chiarezza e correttezza sarà bene spiegarla una volta di più: la questione delle origini
è strettamente connessa alla problematica razziale, infatti, le razze umane così come sono attualmente e la cui esistenza
l’ideologia democratica oggi dominante si sforza in tutti i modi di negare, sono ovviamente il risultato della storia, del
cammino nel tempo della nostra specie.
Chiaramente, se noi europei fossimo, ad esempio, come si è sostenuto e si sostiene da parte democratica, il prodotto di
un’immigrazione africana recente, le differenze fra noi e le popolazioni africane si limiterebbero forse alla pigmentazione
della pelle e poco altro, mentre in realtà sappiamo che non è così.
In tutte le specie animali ci sono razze, perché quella umana non dovrebbe averne? Il motivo è squisitamente ideologico, se
ne ammettiamo l’esistenza, dovremmo ammettere che le differenze ereditarie fra le diverse popolazioni umane non
riguardano solo l’aspetto fisico, ma anche le attitudini comportamentali e le capacità intellettive, che le differenze che
riscontriamo fra uomo e uomo non sono per intero il prodotto dell’ambiente e dell’educazione, e a questo punto il dogma
democratico dell’uguaglianza crolla miseramente.
Per questi motivi, stavolta l’aggiornamento del lavoro della nostra Ahnenerbe casalinga, più che la tematica delle origini in
senso stretto, riguarderà la problematica razziale.
Tutti noi conosciamo – penso – la vicenda di Galileo Galilei che fu uno degli episodi più drammatici della storia della
scienza. Nel 1633, in seguito alla pubblicazione del “Dialogo dei Massimi Sistemi”, Galileo finì davanti al tribunale

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dell’inquisizione, che fu particolarmente duro nei suoi confronti perché nel 1616 aveva già ricevuto un’ingiunzione a non
divulgare la teoria copernicana.
Ora immaginate che Galileo, invece di essere il coraggioso ribelle che fu, si fosse adeguato a quanto l’inquisizione e lo
spirito censorio della controriforma pretendevano da lui. Con tutta probabilità, avrebbe cercato di non diffondere il
copernicanesimo ma, essendo uno scienziato onesto e competente, la verità sarebbe trapelata quasi da ogni sua parola, e non
sarebbe stato difficile “leggerla tra le righe”.
Il grande tabù della nostra epoca oggi non è la teoria di Copernico. Che il nostro pianeta giri intorno al sole, è un fatto
assodato quasi per tutti (fanno per la verità eccezione gli islamici estremisti che lo negano in base a un passo del corano.
Che l’islam sia un soprassalto di ignoranza e fanatismo fra le popolazioni meno acculturate di questo pianeta, questo è un
fatto indubbio, e quei tradizionalisti, a cominciare da René Guenon, che vedono nell’islam una forza “tradizionale”
probabilmente non si rendono conto a quale livello abbassano il concetto di tradizione, ma questo è un discorso che
abbiamo ampiamente visto altre volte).
Il grande tabù della nostra epoca è la questione razziale. L’ortodossia democratica, i cui metodi sono indubbiamente più
sottili ma non meno coercitivi, non meno in grado di distruggere la carriera e la vita delle persone di quanto lo fosse il
tribunale dell’inquisizione, vuole imporci di non vedere l’esistenza delle razze – stranamente, in tutto il mondo animale, la
specie umana sarebbe l’unica in cui non esistono razze – esattamente come l’inquisizione della controriforma pretendeva
che non ci si rendesse conto che la nostra Terra e tutti gli altri pianeti del nostro sistema ruotano intorno al sole.
Un esempio di “Galileo consenziente” in questo campo potrebbe essere Luigi Luca Cavalli-Sforza, che è stato un pioniere
nello studio della genetica delle popolazioni, e fa parte di una generazione di insigni ricercatori italiani che non è molto
probabile sia destinata ad avere successori, stante il degrado delle nostre istituzioni accademiche e il pochissimo che l’Italia
investe nella ricerca.
Mercoledì 5 novembre, “The Vice Channel Italia” ha pubblicato un’intervista a Cavalli-Sforza nell’occasione del
novantaduesimo compleanno dello scienziato. Apparentemente, le sue affermazioni sono quanto di più ortodossamente
antirazzista è possibile concepire, ma leggendo con attenzione fra le righe, si colgono i segni di una convinzione ben
diversa, da parte di un uomo che ha dedicato la sua vita a questo genere di studi, in contrasto con l’ortodossia che “occorre”
proclamare.
Tanto per cominciare, riflettendo le idee espresse da Cavalli-Sforza, l’articolo s’intitola “La sopravvivenza del più colto”.
La cultura, la trasmissione di idee è un elemento di grande importanza nella storia umana, e oggi possiamo constatare
quanto tende ad essere sottovalutata, sostituita dal fracasso mediatico e dall’esibizione di forza muscolare.
Come se non bastasse, sapete chi cita Cavalli-Sforza come grande esempio di grande sovrano promotore della cultura?
Qualcuno a noi molto caro e da sempre inviso ai guelfi di ogni specie: il grande Federico II di Svevia.
Passiamo oltre: lo scienziato si lascia scappare un’osservazione che un “buon” inquisitore democratico (e sappiamo che ce
ne sono a pacchi) dovrebbe avvertire come un campanello d’allarme:
“Le differenze veramente importanti vigono fra gli individui, non fra i gruppi”. Se è vero, e tutto lascia pensare che lo sia,
diamo addio all’idea di evoluzione dell’umanità come fenomeno collettivo. Di colpo, ci torna alla mente Nietzsche che, non
con il metodo scientifico, ma con l’intuizione poetica e il pensiero filosofico, è stato un geniale anticipatore:
“Lo scopo dell’umanità non può trovarsi al termine di essa, ma nei suoi tipi più elevati”.
Dal racconto che lo scienziato fa della storia delle sue ricerche, emergono fatti che è poco definire sconcertanti: ad esempio
ricorda che per studiare il genoma della popolazione italiana occorsero tre anni, ma, quando si tratto di avviare nel 1991 l’
“Human Genome Diversity Project”, ce ne vollero dieci solo per definire il protocollo etico. Non c’è dubbio, la genetica e
quello che potrebbe rivelarci su noi stessi, FANNO PAURA, fanno paura soprattutto al potere, perché potrebbero
distruggere le favole democratiche.
Un altro episodio lo conferma: un progetto di studio sul DNA degli indiani Na-Dene del Canada fu aspramente avversato da
un’associazione per la difesa dei diritti dei nativi americani, che l’accusò di essere “colonialista”, cosa tanto più assurda
vista la fama di ricercatore “antirazzista” dello stesso Cavalli-Sforza. Ma non c’è niente da fare, ricerche di questo tipo
fanno paura, anche perché sotto sotto c’è il timore generalizzato che da esse potrebbe uscire la verità che tutti, almeno a
livello istintivo, conoscono ma nessuno vuole ammettere: l’eccellenza dell’uomo caucasico rispetto ad altri tipi umani.
Infine, la ciliegina sulla torta, una breve frase: “Etnia o razza vogliono dire quasi la stessa cosa”.
Ma come? Per decenni tutta l’antropologia culturale si è sforzata di spiegarci che il concetto di etnia è un concetto culturale
che non ha nulla a che fare con l’ereditarietà biologica e la genetica, che a fare l’etnia sono il linguaggio, il modo di vestirsi,
le credenze religiose, le usanze culturali e via dicendo, e questo qui, con una semplice frasetta spazza via decenni di
elucubrazioni di Claude Levi-Strauss e allievi!
Non ci fermiamo qui, perché recentemente qualcuno, e precisamente gli amici del gruppo European and Indoeuropean
Identity and Ethnic Religions, hanno rimesso in circolazione in internet un articolo apparso su La Repubblica.it del 2005.
L’articolo di Armand Marie Leroi e tradotto da Emilia Benghi, ha un titolo che è tutto un programma (e almeno per questa
volta, non si tratta certo di un programma di sinistra): “Razza: gli scienziati negano che esista, ma i dati genetici lo
confermano”.
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In realtà, noi sappiamo bene che se gli scienziati negano l’esistenza delle razze, questo non avviene per una loro particolare
perversione o voglia di contrastare l’evidenza, ma – e ne abbiamo visto le volte precedenti diversi esempi che adesso non mi
sembra necessario ripetere – perché costretti dal potere democratico che può “democraticamente” distruggere le loro
carriere con estrema facilità.
L’articolo di Leroi è alquanto sorprendente, e tanto per essere chiari ne riporto uno stralcio:
“Se i moderni antropologi citano il concetto di razza, lo fanno invariabilmente solo per scoraggiarne l’uso e per bocciarlo.
Lo stesso vale per molti genetisti. «La razza è un concetto sociale, non scientifico», sostiene il dottor Craig Venter, voce
autorevole, poiché è stato il primo a “sequenziare” il genoma umano. L’ idea che le razze umane non siano altro che
costrutti sociali è opinione prevalente da almeno trent’anni. Ma ora forse le cose sono sul punto di cambiare. Lo scorso
autunno la prestigiosa rivista Nature Genetics ha dedicato un ampio supplemento all’interrogativo se le razze umane
esistano e, in caso affermativo, che valenza abbiano.
L’ iniziativa editoriale era motivata in parte dal fatto che varie istituzioni sanitarie americane stanno attribuendo alla razza
un ruolo importante nelle politiche per tutelare al meglio il pubblico, spesso a dispetto delle proteste degli scienziati. Nel
supplemento circa due dozzine di genetisti hanno espresso le loro opinioni. Sotto il linguaggio specialistico, le frasi prudenti
e la cortesia accademica, emerge chiaramente un dato: l’adesione alla tesi dei costrutti sociali si sta sfaldando. Alcuni
sostengono addirittura che, se correttamente esaminati, i dati genetici dimostrano chiaramente che le razze esistono”.
Quanto sia autorevole il parere di Craig Venter, adesso lo sappiamo bene: quest’uomo, capofila degli scienziati antirazzisti
si è (successivamente alla pubblicazione dell’articolo di Leroi che è del 2005, per la verità) rivelato niente altro che un
ciarlatano. A una decina di anni di distanza dalla famosa mappatura del DNA umano del 2001, ha confessato di non aver
mappato altro genoma che il proprio, e non – come aveva asserito – quello di centinaia di persone appartenenti alle più
diverse popolazioni del pianeta, e successivamente ha ancor più compromesso la propria credibilità scientifica cercando di
far passare un semplice batterio OGM come una vita artificiale creata ex novo.
Se gli antirazzisti fanno conto dell’autorevolezza di un uomo come Craig Venter, allora possiamo dormire sonni tranquilli, o
almeno potremmo dormirli se il confronto fra loro e noi avvenisse su di una base paritaria, e alle loro spalle non ci fosse
tutto il peso repressivo della macchina del potere, interessata a far sì che la gente non abbia modo di conoscere la verità.
Continuiamo ad esaminare questo articolo che contiene delle affermazioni davvero sorprendenti, si ha la sensazione che i
redattori di “Repubblica” non si siano resi conto di cosa stessero pubblicando, e io penso di dover esprimere tutta la mia
gratitudine agli amici che hanno ripescato dopo nove anni e mi hanno segnalato questo articolo davvero eccezionale:
“La razza è solo una semplificazione che ci consente di parlare razionalmente, benché non con grande precisione, delle
differenze genetiche, piuttosto che culturali o politiche. Ma è una semplificazione a quanto pare necessaria. E’
particolarmente penoso vedere i genetisti umani rinnegare ipocritamente l’ esistenza delle razze pur indagando la relazione
genetica tra «gruppi etnici». (…).
Il riconoscimento dell’esistenza delle razze dovrebbe avere vari effetti positivi. Tanto per cominciare eliminerebbe la
frattura che vede governi e opinione pubblica ugualmente pronti ad accettare categorie di cui molti, forse la maggior parte
degli studiosi e degli scienziati, negano l’esistenza. Secondo, ammettere l’esistenza delle razze può migliorare l’assistenza
sanitaria. Razze diverse sono predisposte a contrarre patologie diverse. Un afroamericano corre un rischio di ammalarsi di
cardiopatia ipertensiva o di cancro della prostata circa tre volte maggiore rispetto ad un americano di origini europee, ma nel
suo caso il rischio di sviluppare la sclerosi multipla è dimezzato. Tali differenze potrebbero derivare da fattori
socioeconomici, ma nonostante ciò i genetisti hanno iniziato a cercare di stabilire differenze legate alla razza nelle
frequenze delle variabili genetiche che provocano le malattie. Sembra che le stiano trovando.
La razza può anche influenzare la terapia. Gli afroamericani rispondono poco ad alcuni dei farmaci principalmente usati nel
trattamento delle cardiopatie – in particolare i betabloccanti e gli inibitori dell’enzima che converte l’angiotensina. Le ditte
farmaceutiche ne tengono conto. Molti nuovi farmaci oggi portano l’ avvertenza che la loro efficacia può risultare ridotta
per alcuni gruppi etnici o razziali”.
Queste ultime affermazioni appaiono alquanto utopiche: certamente per il potere “democratico” la salute della gente conta
enormemente di meno del mantenimento del dogma dell’inesistenza delle razze, e della spinta al mescolamento razziale, in
obbedienza ai dettami del piano Kalergi.
Alla fine, il discorso è sempre quello, SI VUOLE che la gente pensi contro ogni evidenza che le razze non esistano per
imporre una società meticcia frutto del mescolamento etnico, una società dove l’atomizzazione dell’individuo sia completa,
non esistendo fra l’uno e l’altro alcun legame di etnia, di nazionalità, di appartenenza, quindi un’umanità facilmente
manipolabile dal potere dietro le quinte.
La menzogna serve all’oppressione, e difendere la verità, la conoscenza della realtà delle cose, è il primo passo per
difendere la libertà.

Una Ahnenerbe casalinga, tredicesima parte

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Come certamente avrete avuto modo di notare, negli ultimi tempi ho considerevolmente ridotto la tendenza agli articoli
seriali. Come vi avevo già spiegato, fra tutti, l’unico che avrei intenzione di mantenere a mo’ di rubrica è “Una Ahnenerbe
casalinga” (sperando sempre che il paragone con la vera Ahnenerbe del Terzo Reich non risulti troppo presuntuoso) in cui
riportare tutte le novità che man mano dovessero presentarsi, sulla tematica delle origini della civiltà europea e dei popoli
indoeuropei.
Che si tratti di una tematica che, al di là del discorso prettamente scientifico, abbia anche un’importante valenza politica, su
questo non c’è dubbio. E’ ritrovando l’orgoglio delle proprie origini, la consapevolezza di essere fatti di una pasta di gran
lunga migliore di quella degli allogeni che oggi invadono il nostro continente, e respingendo tout court il bugiardo mito
cristiano, marxista e democratico dell’uguaglianza degli uomini, che noi Europei possiamo intraprendere la strada della
lotta per dare un futuro ai nostri popoli, ai figli dei nostri figli.
Va da sé però, che ciò richiede che nuove informazioni compaiano in questo campo, e questa serie di articoli/rubrica è
destinata comunque ad avere un carattere piuttosto saltuario che non di appuntamento fisso.
Io credo di avere tracciato già in precedenza un quadro sufficientemente chiaro, tuttavia è una cosa sorprendente di come
informazioni più recenti, diciamo pure novità, per quanto questo termine possa suonare paradossale quando ci si riferisce a
migliaia o milioni di anni fa, si siano accumulate con velocità che stupisce e rende opportuno un aggiornamento.
Cominciamo con una ricerca che ho ritrovato recentemente riportata in internet sul sito di “Venetikens – Veneti antichi” e
che deriva da un comunicato ANSA del 4 marzo 2015, che a sua volta riprende un articolo comparso sulla rivista “Science
Nature”. Sembra che il genere homo a cui noi tutti apparteniamo, sia più antico di ben 700.000 anni di quanto si pensasse
fino a ora, la sua comparsa risalirebbe a circa 2, 8 milioni di anni fa.
L’articolo mette insieme due ricerche, una compiuta dall’Università dell’Arizona su di un fossile, una mandibola ritrovata
nel sito di Ledi-Gerau in Etiopia, l’altra del Max Planck Institute di Lipsia (Germania) è consistita in un riesame dei resti
di homo habilis ritrovati in Tanzania negli anni ’50, che sono stati riesaminati con tecniche più moderne di quelle
disponibili allora, compresa la scansione computerizzata. Quest’ultima concorda con la precedente, infatti, se il fossile di
Ledi-Gerau, risalente a 2,8 milioni di anni fa è il più antico rappresentante del genere homo, il più antico fossile umano
finora conosciuto, anche gli homo habilis già noti appaiono più antichi di quanto finora si pensasse.
Quale significato si deve attribuire a tutto ciò. Io vi ho già spiegato che UNA questione è l’origine africana degli ominidi
primitivi (australopithecus e simili) o anche di un homoancestrale risalente, a quanto sembra, a quasi tre milioni di anni fa,
TUTT’ALTRA quella dell’origine RECENTE di homo sapiens (anch’essa presuntamente africana secondo l’ipotesi
“politicamente corretta” dell’Out Of Africa, o in sigla, secondo la brutta abitudine yankee che non sopporta espressioni
troppo lunghe, né il pensare troppo a lungo, OOA). La prima si situa nell’arco temporale dei milioni di anni, l’altra in quello
delle decine di migliaia di anni.
Mentre la prima è pacifica, la seconda è fortemente dubbia, e vi sono buoni motivi per ritenerla non un’ipotesi scientifica,
ma un’escogitazione propagandistica volta a distruggere il concetto di razza. Non è perlomeno singolare il fatto che mentre
della prima la documentazione fossile paleoantropologica ci offre prove a bizzeffe, per quanto riguarda la seconda, la prove
sono piuttosto nulle che scarse?
Potremmo persino essere così cattivi da arrivare a dire che tutte le argomentazioni a favore dell’OOA si basano sulla
confusione (deliberata o no) fra le due questioni. Poiché Lucy e gli altri ominidi, a cui ora si aggiunge il fossile di Ledi-
Gerau, sono stati ritrovati in Africa, tutti noi veniamo dall’Africa. Si, ma quando? Questa derivazione africana si situa a
livello remoto degli ominidi primitivi o a quello recente di homo sapiens? Non è la stessa cosa, e questo in ogni caso ci
obbligherebbe ad accettare come un fato inevitabile l’immigrazione-invasione africana attuale?
Tutti noi, tutta la vita di questo pianeta ha una remota origine nell’oceano. Questo ci obbliga forse a trasformare le strade in
canali dove possano nuotare liberamente tonni, sardine e seppie?
Da un altro lato, è invece evidente che, tanto più antico è il genere homo, tanto maggior tempo c’è stato perché potesse
formarsi una differenziazione razziale, quella stessa che si verifica in tutte le forme viventi ma che, stranamente, i
democratici negano possa avvenire per la specie umana.
Una persona di cui vi ho parlato altre volte e che merita i più ampi elogi per l’attento lavoro di scavo, ricerca e diffusione
delle informazioni, è Luigi Leonini. Ultimamente, Luigi ha segnalato un articolo comparso su “Le scienze” on line in data 3
marzo,Migrazioni preistoriche e lingue indoeuropee. Quest’ultimo è una ripresa di un articolo apparso su “Nature” a firma
di Wolfgang Haak. Siamo ovviamente in un orizzonte temporale molto più recente situato nell’arco delle migliaia di anni.
Il metodo che sta alla base della ricerca di quest’ultimo, è quello che abbiamo già visto impiegato diverse volte, ossia
l’analisi del DNA allo scopo di scoprire mediante le tracce lasciate negli Europei di oggi, delle varie fasi dell’antico
popolamento del nostro continente.
Naturalmente, l’analisi del DNA di per sé non ci può dire nulla circa le lingue parlate attualmente o nel remoto passato, ma
ci consente di riconoscere le diverse ondate migratorie che hanno attraversato l’Europa e l’epoca in cui esse vanno
collocate, e a questo punto è possibile collegarle in maniera plausibile con l’origine dei linguaggi.
Wolfgang Haak ha analizzato il genoma di 69 antichi europei vissuti fra 8000 e 3000 anni fa. I risultati che sono emersi
sostanzialmente concordano con quello che sapevamo già, ma si tratta in ogni caso di un’importante conferma. Come
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abbiamo già visto da altre ricerche, all’origine delle popolazioni europee, vi sarebbero tre gruppi distinti: prima di tutto i
cacciatori-raccoglitori paleolitici, poi due distinte ondate migratorie, una di agricoltori provenienti dall’Anatolia circa 8000
anni fa, e una seconda di allevatori-pastori provenienti dalle steppe eurasiatiche datata a circa 4.500 anni fa.
Noi abbiamo visto che è soprattutto sulla seconda che si fissano i sostenitori dell’ipotesi del nostratico, ma se avessero
ragione, quest’ultima avrebbe influito sul genoma degli europei in maniera molto più schiacciante di quanto effettivamente
non si riscontri.
Probabilmente, la diffusione dell’agricoltura in Europa non è avvenuta, o non è avvenuta tanto per sostituzione di
popolazioni, ma per diffusione culturale; i suoi portatori iniziali potranno anche essere stati coloni di origine anatolica, ma i
loro vicini devono essere stati svelti ad assimilare e copiare la novità. E’ indubbiamente vero che quando nell’età moderna
le esplorazioni del nostro intero pianeta ci hanno portati a contatto con svariate popolazioni ancora viventi di caccia e
raccolta, queste ultime si sono dimostrate assai poco propense ad abbandonare il loro stile di vita per adottare quello basato
sull’agricoltura e la sedentarietà, ma si dimentica un fatto fondamentale: queste ultime sono meno intelligenti degli Europei.
L’articolo presenta anche un link a un precedente pezzo pubblicato il 1 luglio 2002, La lingua degli antichi Europei di
Elisabeth Hamel e Theo Vennermann. Anche in questo caso, quel che questi due autori ci raccontano, non è un’assoluta
novità. In tutte le lingue parlate in Europa, indoeuropee o meno, esiste un tenue strato di fonemi “ultraconservati” che
rappresenta lo strato basale di questi linguaggi, quello a cui tutti gli altri si sono sovrapposti, la traccia delle lingue più
antiche parlate nel nostro continente, i linguaggi degli antichi cacciatori paleolitici. La cosa singolare, è che questi linguaggi
ricostruiti per via deduttiva presentano una forte somiglianza con una lingua parlata ancora oggi, il basco. I Baschi
sarebbero ancora oggi i diretti discendenti dei cacciatori-raccoglitori dell’Europa paleolitica.
Se vi ricordate, è qualcosa di cui avevamo già parlato perché il basco, assieme ai linguaggi riconducibili alle popolazioni di
ceppo mediterraneo (Etruschi, Minoici, Iberici, Liguri, Pelasgi) e alle lingue ugrofinniche, parlate da Ungheresi, Finlandesi,
ma anche Lapponi e svariate altre popolazioni ubicate nell’angolo più orientale e settentrionale del nostro continente,
dimostrano che lo schema tripartito semiti-camiti-indoeuropei che la leggenda biblica suppone essere derivati dai tre figli di
Noè: Sem, Cam e Jafet, si rivela inadeguato non solo alla spiegazione delle origini dell’umanità, anche solo a quella delle
popolazioni di ceppo caucasico “bianco”.
Ci ritroviamo in un percorso “a scala”, dai milioni passiamo alle decine di migliaia, alle migliaia di anni, fino ad avvicinarci
quasi alla soglia dell’orizzonte storico. Parliamo delle origini, della natura e – potremmo dire – dell’esistenza di un popolo
appartenente al contesto (indo)europeo-mediterraneo. Si, avete indovinato, parliamo proprio di quel popolo italico-italiano
al quale suppongo noi stessi perlopiù apparteniamo.
Sul sito del “Nuovo monitore napoletano” apparso recentemente un articolo di Marco Vigna sulla Teoria del pan-
italianesimo. Di che si tratta?
Tutti noi abbiamo, credo, una reminiscenza scolastica di Rutilio Namaziano, e dell’appassionata invocazione a Roma che si
trova nel De redito suo. “Italiam fecisti ex diversis gentibus unam. Urbem fecist quod prius orbis erat”. Il pan-italianesimo
sostiene una tesi inversa a quella di Rutilio Namaziano, ossia non è stato Roma a creare la nazione italiana mediante
l’unificazione politica, ma l’Italia come nazione dotata di una almeno relativa omogeneità linguistica e culturale preesisteva
ad essa, e ha continuato a esistere dopo la dissoluzione dello stato romano.
Il popolo italico (forse questo termine è preferibile a “italiano” che identificherebbe il fatto culturale e politico piuttosto che
quello etnico e genetico) infatti, nascerebbe dalla fusione fra un elemento mediterraneo e uno indoeuropeo; il primo
rappresentato da Etruschi, Liguri, Sardi, Corsi, Reti, il secondo da Italici propriamente detti (Latino-osco-umbri), Veneti e
Siculi. Entrambi questi elementi sarebbero stati al loro interno composti da gruppi strettamente affini, ragion per cui
un’affinità e omogeneità italica sarebbe esistita già da ben prima della conquista romana.
A tutto ciò avrebbe contribuito la forma stessa della nostra Penisola, che si affaccia sul mare per gran parte della sua
estensione, e là dove è saldata all’Europa continentale, è anche separata da essa dalla catena alpina, sì che si può parlare di
una “insularità” dell’Italia che avrebbe avuto i suoi effetti anche dal punto di vista etnico-biologico.
Io vi ho già in precedenza accennato, e ci sono tornato sopra ultimamente (Esiste il Volk italico?, Eurasia e Mitteleuropa) a
quella ricerca pubblicata da Geocities i cui risultati coincidono in pieno con questa concezione del pan-italianesimo, che ci
dice che gli Italiani sono un popolo con una precisa identità etnica, variegata nel nord dalla presenza di un elemento celtico,
e nel sud da uno greco, ma non in misura tale da non permettere di considerare gli Italiani come un unico popolo, anche se,
come precisavano gli autori, le differenze fra gli Italiani delle diverse parti della Penisola sono di solito esagerate per motivi
politici. Gli stessi autori si erano aspettati di trovare nel meridione italiano una traccia genetica mediorientale dovuta o alla
colonizzazione cartaginese o all’invasione araba della Sicilia, ma essa è risultata ben più flebile di quel che si erano
aspettato.
La cosa interessante è però che questa teoria pan-italiana è stata formulata da un autore anglosassone (non so se inglese,
americano o altro), Anthony D. Smith nel libroLe origini etniche delle nazioni e, a sua volta , è la ripresa delle tesi di un
insigne linguista francese, Michel Lejeune. D’altra parte, si ricorderà che anche la ricerca sulla genetica degli Italiani di cui
sopra, è stata pubblicata da Geocities in lingua inglese e, a parte gli stralci da me citati, non mi risulta sia stata tradotta in
italiano.
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E’ un fatto: parlare del nostro passato, delle nostre origini, non somiglia a una serena disamina di dati scientifici, ma a un
incontro di pugilato (anche se ammetto che la cosa non mi dispiace troppo, io sono combattivo di carattere). A dirci che
siamo un popolo, una nazione, devono essere gli stranieri, noi Italiani pare proprio che non ne vogliamo sapere, benché si
tratti di un fatto assolutamente cruciale: a fare una nazione non sono la cultura, la lingua, le usanze, le tradizioni – tutte
queste sono cose accessorie – e tanto meno lo sono lo stato, la lingua, le leggi, la politica, quell’aspetto astratto e formale
con cui i democratici, sapendo di mentire, vorrebbero definire le entità politiche. A costituire una nazione è un fatto
primario, il sangue, l’eredità etnico biologica, e tutto il resto non conta nulla.
Settant’anni di repubblica democratica hanno spinto gli Italiani a vergognarsi, a voler negare di essere tali: è una colpa
gravissima di cui la tirannide che ci governa e si cela sotto il nome ipocrita di democrazia dovrà prima o poi rispondere.
Tuttavia, come ho spiegato più volte e non mi stanco di ripetere, non è per il nostro essere italiani, ma per questa
democrazia fecale che bisogna provare repulsione e disgusto.
Della nostra eredità europea, indoeuropea, “bianca” nonché italica, abbiamo solo motivi di orgoglio.

Una Ahnenerbe casalinga, quattordicesima parte


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Riprendiamo il discorso sulla ricerca delle origini. E’ un discorso che abbiamo ormai consolidato, e si tratta di un lavoro di
rifinitura e aggiornamento delle nuove ricerche che compaiono in questo campo. Delle origini della civiltà europea, per la
verità, non ho mai smesso di occuparmi, e ve ne sarete resi conto leggendo i tre articoli che compongono il saggio Sull’orlo
della storia, è un discorso che io penso abbia un preciso significato politico: essere fieri della nostra eredità di uomini
europei, conoscere la ricchezza e l’antichità della nostra civiltà, legata a un preciso tipo umano, significa anche la volontà di
preservarla dalle invasioni allogene e di rialzare il nostro continente dall’umiliazione del dominio dei vincitori della seconda
guerra mondiale; ieri sovietico-americano, oggi esclusivamente yankee, il che è anche peggio.
Tuttavia, come sappiamo, il tema delle origini è più vasto, e prima ancora della civiltà del nostro continente si risale alle
origini dei popoli indoeuropei e, ancora più in là, della stessa specie umana, e implica, soprattutto riguardo a quest’ultimo
aspetto, la questione delle razze, di cui la tirannica democrazia che ci domina ha imposto il dogma della non-esistenza, con
l’intento preciso di distruggere l’uomo europeo, annegandolo nella senilità provocata ostacolando il ricambio generazionale,
nell’immigrazione allogena, nel meticciato.
Prima di addentrarci nell’esame delle novità in questo campo che, come vedremo, sono soprattutto delle conferme che una
volta di più vanno a SMENTIRE le versioni ufficiali dell’ideologia contemporanea mascherata da scienza che vorrebbe
imporre la favola dell’origine mediorientale degli stessi popoli indoeuropei declassati da conquistatori e guerrieri a pacifici
agricoltori, l’origine africana della nostra specie, l’inesistenza delle razze e via dicendo, sarà opportuno premettere una
precisazione.
Come certamente sapete, come vi ho più volte ribadito, è stata messa in giro e pompata dai media come “l’ortodossia
scientifica” la favola della cosiddetta “Out of Africa”, la leggenda dell’origine africana della nostra specie, e che noi stessi
non saremmo in realtà che dei neri “sbiancati” dall’esposizione millenaria a diverse condizioni climatiche. Si tratta di una
mistificazione volta a farci accettare l’immigrazione allogena che oggi sta invadendo il nostro continente e a distruggere il
concetto stesso di razza. Si tratta di una falsificazione basata sulla deliberata confusione fra la questione dell’origine arcaica
degli ominidi avvenuta milioni di anni fa (e testimoniata da fossili come la famosa Lucy) e quella dell’origine RECENTE
della nostra specie homo sapiens avvenuta qualche decina di migliaia di anni fa.
Recentemente, qualcuno, commentando un mio precedente articolo, mi ha “bacchettato” su questo punto. La mia
argomentazione sarebbe basata sull’attribuzione all’homo sapiens di un’origine TROPPO recente: 50-70.000 anni sono una
stima troppo bassa e prudenziale (non inventata da me, ma basata sulla data attribuita alla famosa esplosione del vulcano
Toba che avrebbe creato l’altrettanto famoso “collo di bottiglia” genetico, fino ad ora uno dei maggiori cavalli di battaglia
dei sostenitori dell’Out of Africa); altri ricercatori propendono per una maggiore antichità, 100 o 150.000 anni. Addirittura
alcuni ritrovamenti recenti farebbero pensare a un’antichità della nostra specie risalente intorno ai 200.000 anni.
E allora? Cosa cambia con ciò? Si vede bene che siamo ancora ben lontani dai tre milioni e mezzo di anni a cui risalgono
Lucy e gli altri ominidi. Per converso, è ben visibile che se spostiamo indietro nel tempo l’origine della nostra specie a una
distanza dal nostro tempo quadrupla rispetto a quella che avevamo supposto, abbiamo a disposizione un tempo molto
maggiore perché essa possa essersi differenziata in razze, se non abbandoniamo il presupposto che noi stessi siamo
governati dalle stesse leggi biologiche che regolano tutta la vita sul nostro pianeta.
Tuttavia, e questo è un aspetto che finora non credo di aver rimarcato con sufficiente attenzione, ed è pericoloso non farlo,
dal momento che siamo circondati da un ambiente malevolo e ostile alle nostre tesi, pronto ad approfittare di qualsiasi punto
debole, anche a questo livello la tesi dell’Out of Africa è formata dalla sovrapposizione di due ipotesi fra le quali non esiste
un legame di implicazione logica: un conto è sostenere un’origine africana IN SENSO GEOGRAFICO, altra cosa postulare
che noi stessi, le popolazioni europee di ceppo caucasico derivino da un tipo antropologicamente “nero” per mutazione e
sbiancamento, anche se i sostenitori dell’OOA si basano su di una deliberata confusione fra le due cose.
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Occorre, infatti, evidenziare che anche ammesso che si debba riconoscere un’origine africana della nostra specie, africano
non significa necessariamente nero. Migliaia di anni fa, quello che oggi è il deserto del Sahara era una grande pianura
verdeggiante e fertile dove sono stati trovati resti umani riconducibili al tipo di Cro Magnon, cioè i nostri antenati di
millenni or sono, anche se l’origine eurasiatica appare più probabile, ma non simili al tipo negroide che pare essere una
specializzazione di origine relativamente tarda. In fondo, per fare un paragone coi tempi storici, anche Mosè, Cleopatra,
John R. R. Tolkien, Christian Barnard sono nati su suolo africano, senza per questo essere neri.
Tuttavia, sebbene con prove scientifiche nulle, la mistificazione viene sostenuta dal sistema mediatico e dagli scienziati
accademici che hanno dovuto imparare molto spesso a loro spese, che esprimere un’opinione dissidente può avere riflessi
disastrosi sulle loro carriere.
A riprova del fatto che ipotizzare un’origine GEOGRAFICA nel continente africano, è altra cosa dal sostenere che
“veniamo dai neri”, vi riporto l’opinione espressa in proposito da Ernesto Roli. Roli, già amico e collaboratore di Adriano
Romualdi non è certo sospettabile di far parte della schiera di coloro che vogliono distruggere il concetto di razza,
nell’attesa di poter distruggere le razze anche materialmente, annegandole in una mescolanza multietnica in cui saranno gli
elementi migliori dell’umanità a soccombere.
“Tutta la fascia sahariana era una zona fertilissima fino a qualche migliaio di anni fa. Nel Sahara sono state rinvenute pitture
rupestri straordinarie con caccia ai bisonti, agli elefanti, alle renne e a tutti gli animali noti. Inoltre sono state scoperte
culture paleolitiche, mesolitiche e culture neolitiche. Infine boschi e fiumi e acqua in quantità. Si sa che sotto il deserto
esiste una immensa quantità di acqua potabile in grado di dissetare mezzo mondo. (…).
E’ mia convinzione che il Sahara sia stata la patria dei Cro Magnon derivati dall’ homo sapiens locale. Qui hanno
sviluppato la loro cultura. E’ il famoso Paradiso Terrestre o Giardino delle Esperidi o la Terra Felice dell’Umanità, di
tradizionale memoria greca? Con l’inaridimento del Sahara e il disgelo dei ghiacci in Europa i Cro Magnon si sono ritirati
verso nord, seguendo le renne, dove hanno dato origine ai famosi Megaliti e agli Indoeuropei”.
E subito dopo aggiunge:
“Nell’Africa sub tropicale la componente sapiens locale sembra abbastanza recente e vi è forse giunta dal sud Arabia.
Pertanto i popoli negridi sembrano estranei alla formazione dell’homo sapiens E’ sul posto che essi hanno acquisito la
melanina necessaria alla loro sopravvivenza”.
Quindi l’uomo di Cro Magnon, nostro verosimile antenato sarebbe derivato da unsapiens sahariano, NON sub-sahariano, e
le popolazioni nere, di origine più tarda, non avrebbero avuto alcuna parte nella sua ascendenza.
Quella esposta da Roli è certamente un’ipotesi sostenibile, ma le cose possono anche stare in una maniera diversa. Nel
febbraio 2014 su di un sito di sinistra, “Keinpfutsch” è apparso un articolo del suo curatore, Uriel Fanelli, Dialettica e
propaganda, che SCONSIGLIA i “compagni” dal ricorrere all’Out of Africa per “confutare i razzisti”, dati gli evidenti e
sempre più macroscopici buchi che essa presenta a livello scientifico; ecco un breve stralcio di questo “pezzo” tanto più
notevole in quanto proveniente “dalla parte opposta”:
“La “migrazione” fu ricostruita praticamente senza scheletri, solo notando la diffusione di strumenti “africani” dentro l’
Europa, senza curarsi del fatto che il clima stesse cambiando , che quindi cambiassero gli animali da cacciare, i tipi di legna
a disposizione e che le zone ove trovare selce si stessero scongelando, insomma, alla fine era tutta [un imbroglio].
Tracciando i DNA si vide poi che semmai questa “migrazione” era arrivata dall’Asia.
La stessa migrazione fu ricostruita in maniera assurda. Si decise che siccome i monili africani si diffondevano in Europa,
non potesse essere concluso che il clima europeo stesse cambiando e richiedesse tecniche simili. No, doveva essere una
migrazione. Insomma, siccome ci sono iPhone ovunque, veniamo tutti da Cupertino. La quantità di reperti, poi, sul piano
statistico non bastava a dire nulla”.
La prova principe, la “pistola fumante” come si dice nel linguaggio dei telefilm polizieschi, è rappresentata dal DNA, e
“Tracciando i DNA si vide poi che semmai questa “migrazione” era arrivata dall’Asia”.
Tanto basterebbe, ma si può ancora aggiungere che è stato l’ambiente europeo, soprattutto nordico, con la selezione imposta
dalla maggiore rigidità rispetto alle zone tropicali a fare dell’homo europeus quello che è. Certamente, un ruolo chiave
l’hanno avuto ad esempio le variazioni stagionali, il fatto di passare da periodi di abbondanza ad altri di penuria di risorse,
ha sicuramente stimolato lo sviluppo di capacità di preveggenza e di previdenza per il futuro.
Un ruolo non meno e probabilmente ancora più importante lo ha avuto, a mio parere, lo sviluppo della cura della prole: in
un ambiente non così favorevole e ricco di risorse come quello tropicale, solo un’attenta cura parentale poteva permettere ai
piccoli di sopravvivere, alle nuove generazioni di superare il periodo critico dell’infanzia.
Una riprova evidente del fatto che le cure parentali non sono un’acquisizione culturale ma dipendono da un istinto
determinato geneticamente, la si può avere dal fatto che presso gli afroamericani l’incidenza di infanticidi, gravidanze
minorili, abbandoni della prole, abbandoni del tetto coniugale da parte dell’uomo in presenza di figli, sono nettamente
maggiori rispetto alla popolazione bianca e chiaramente sovrapponibili alle statistiche di qualsiasi Paese dell’Africa nera,
nonostante il ben diverso ambiente culturale (fornito dai bianchi). Si tratta di una sgradevole realtà che senza dubbio
l’immigrazione porterà in maniera sempre più marcata anche in casa nostra.

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Una precisazione, come si vede, di notevole ampiezza, ma non è tempo sprecato, perché è più che mai indispensabile
spuntare le armi in mano ai nostri avversari. Vediamo ora quali sono le novità più recenti che possiamo segnalare nel campo
della ricerca delle origini. C’è da segnalare prima di tutto un libro disponibile con “Le scienze” di aprile 2015, Una scomoda
eredità, la storia umana tra razza e genetica di Nicholas Wade. Finalmente, possiamo dire, un testo pubblicato da “Le
scienze” ammette la verità ovvia per chiunque non sia prevenuto, ma recisamente negata dal dogmatismo democratico, che
la razza non è un costrutto culturale ma una realtà geneticamente determinata.
“La tesi di Wade, scrittore ed ex giornalista scientifico per il “New York Times”, ci dice la presentazione de “Le scienze”,
“E’ che sia possibile definire razze umane in base alle diverse frequenze degli alleli, le forme alternative di ogni gene che
compone il nostro patrimonio genetico. Oggi è possibile osservare questa variabilità nella frequenza allelica grazie al
progresso delle tecnologie di sequenziamento e analisi del genoma umano, che dagli inizi del XXI secolo, quando è stata
pubblicata la prima bozza del nostro patrimonio genetico, hanno fatto parecchia strada, permettendo di rilevare variazioni
sempre più sottili fra i geni degli individui.
Non poteva essere altrimenti, spiega Wade, perché negli ultimi 50.000 anni il nostro patrimonio genetico ha sperimentato
notevoli pressioni evolutive (…) Non è possibile pensare che in quasi 50.000 anni nulla o quasi sia cambiato nel nostro
genoma o meglio nel genoma di gruppi rimasti distinti e quasi isolati tra loro”.
In sintesi, a dispetto dell’ideologia democratica che nega l’esistenza delle razze o le vuole ridurre a meri costrutti culturali,
la genetica conferma quello che ci dice l’osservazione comune non prevenuta: i diversi gruppi umani sono geneticamente
distinti e questa differenza è il prodotto dell’adattamento a diverse condizioni ambientali nei diversi habitat che la nostra
specie ha raggiunto popolando quasi tutto il pianeta su cui viviamo. Il meccanismo biologico della formazione delle razze è
dunque esattamente quello che caratterizza tutte le altre specie viventi: adattamento locale e almeno relativo isolamento
genetico.
Preoccupa il fatto che Nicholas Wade sia indicato come EX giornalista scientifico del “New York Times”; che abbia perso
il posto a causa di questo libro che, ci dice la presentazione de “Le scienze” ci dice ha provocato negli Stati Uniti polemiche
roventi? Non sarebbe certamente la prima volta che la tirannide che conosciamo sotto il nome di democrazia, in mancanza
di argomenti, tappa la bocca a chi osa esprimere opinioni “scomode” negando l’accesso ai media, stroncando carriere o con
il carcere.
Curiosamente, a questo discorso si collega molto bene quello di un saggio di Stefano Vaj apparso in internet alla fine di
marzo, e che può essere consultato all’indirizzowww.biopolitica.it, Biopolitica, specie e razze.
Il saggio, piuttosto ampio e suddiviso in vari capitoli (se stampato potrebbe agevolmente essere un libro) parte precisamente
dal presupposto che l’eliminazione del concetto di razza dalla specie umana non ha nulla di scientifico ma è l’espressione di
un aprioristico dogmatismo ideologico che impone cosa sia “giusto” o “sbagliato” credere indipendentemente dai fatti:
“La logica di rimozioni già descritta trova però un’espressione saliente nell’eliminazione dal vocabolario del concetto stesso
di razza, come substrato propriamente biologico dei popoli e delle culture che essi esprimono. In effetti, c’è chi ha proposto
seriamente di bandire tale termine, curiosamente però soltanto per le accezioni che riguardano la specie umana (…) L’homo
sapiens sarebbe l’unica specie affetta da un’incapacità costituzionale di suddividersi in razze (…) Il famoso musicologo ed
indianista Alain Daniélou già negli anni ottanta diceva:
“Il timore di infrangere tabù concernenti l’uso blasfemo di parole proibite fa sì che i più grandi scienziati, sociologi, biologi,
storici, impiegano sbalorditive circonlocuzioni per evitare di essere accusati di eresia razzista, cosa che farebbe
immediatamente condannare la loro opera”.
Notiamo che il concetto di “razzismo” ha subito un singolare spostamento: dall’affermazione magari violenta della
superiorità di una razza sulle altre, è passato a indicare la semplice constatazione che le razze e le differenze razziali
esistono. E’ come dire che più l’ideologia democratica si sente forte, più spinge il lavaggio dei cervelli della gente.
Cambiamo completamente scenario, collocandoci in tempi ben più prossimi rispetto all’origine della nostra specie o anche
delle popolazioni bianche e ritorniamo su quella dei popoli indoeuropei. Come vi ho già spiegato altre volte, l’ipotesi del
nostratico che li vorrebbe discendenti da agricoltori mediorientali che si sarebbero diffusi nel nostro continente portandovi
l’agricoltura, non è sostenibile, perché se così fosse, noi dovremmo constatare un apporto di geni di origine mediorientale in
Europa molto maggiore di quanto in effetti non si riscontri.
Come vi ho detto, noi constatiamo grazie alla genetica l’origine degli Europei attuali da tre diverse popolazioni ancestrali;
quella denominata eurasiatica settentrionale, che è la maggiormente rappresentata, quella di origine mediorientale (che
esiste anche se in grado molto minore da quanto supposto dai sostenitori del nostratico) e un terzo gruppo, particolarmente
antico, discendente da cacciatori-raccoglitori paleolitici risalente forse all’uomo di Cro Magnon e fra i cui discendenti
attuali vi sono ad esempio i Baschi.
Ora, un articolo apparso su “Le scienze” on line dello scorso marzo ci dà un’esatta quantificazione di questi tre gruppi
ricostruiti su base genetica. La componente di origine mediorientale si situa a non più del 12% del pool genico degli
Europei odierni, quella “basca” al 5% e quella eurasiatico-settentrionale a ben l’83%.
I nostri antenati erano perlopiù non pacifici agricoltori (poi chi ha detto che gli agricoltori siano tanto pacifici?) ma cavalieri
e allevatori nomadi, guerrieri e conquistatori. L’Europa non è stata colonizzata dal Medio Oriente ma, posto che si debba
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collocare lì l’origine dell’agricoltura (cosa di cui si può dubitare, vista la priorità europea nell’allevamento bovino e
nell’utilizzo dei metalli), ne ha forse imparato le tecniche agricole per imitazione, perché, si, l’uomo europeo è un uomo
INTELLIGENTE.
Uno a uno, tutti i postulati dell’ideologia democratica crollano, si rivelano inconsistenti come fumo. Se non avesse dalla sua
parte il peso del sistema mediatico usato per raccontare menzogne senza scrupoli, non ci sarebbe partita.

Una Ahnenerbe casalinga, quindicesima parte

In attesa che la ricerca storica, archeologica, scientifica ci fornisca nuovi elementi sulla tematica delle origini, questa volta
procederemo in modo un po’ diverso dedicandoci a un approfondimento metodologico. Non si può affrontare il problema
delle origini della specie umana e del lungo lasso di tempo che va dalla sua genesi all’inizio della storia documentata senza
imbattersi nella questione delle razze. La specie umana, come tutte quelle esistenti (e verosimilmente esistite) nel mondo
animale o vegetale, è suddivisa in razze, ed è presumibile che alle differenze fisiche corrispondano differenti qualità
intellettuali e comportamentali.
Per la tirannide democratica da cui siamo oppressi, il concetto di razzismo si è spostato dal voler opprimere o peggio ancora
sopprimere una razza umana, o degli esseri umani per la loro appartenenza razziale, a questa semplice constatazione, che le
razze esistono. E’ il segno di un’ideologia che si fa man mano più soffocante e oppressiva quanto più si sente forte.
Alcuni studiosi vicini alla nostra “area” adoperano il termine “razzialismo”, volendo indicare la teoria, la constatazione, che
le razze esistono, senza pretesa, a differenza del “razzismo”, di stabilire una gerarchia di valore fra esse. Pur apprezzando il
tentativo, temo che non sarà sufficiente una parola per sventare gli strali di un nemico a cui della verità e dell’obiettività
scientifica non importa un bel nulla, ma che intenzionato a imporre con tutto il peso del potere mediatico e, all’occorrenza,
col pugno di ferro della repressione poliziesca, la più soffocante ortodossia.
L’aspetto paradossale della questione è che se noi intendiamo la parola “razzismo” nel suo significato “tradizionale” e
autentico, ossia discriminare, diffamare, perseguitare degli esseri umani in base a null’altro che alla loro origine etnica,
“razziale”, questa è una colpa dalla quale i democratici e i “sinistri” non possono certo chiamarsi fuori, anzi, è per davvero
la storia del bue che dà del cornuto all’asino.
Noi abbiamo sotto gli occhi l’esempio ripugnante dei democratici, della sinistra nostrana quella che si riconosce nelle sigle
del PD e di SEL, ma arriva fino all’estremismo dei sedicenti centri sociali, che pratica una politica di discriminazione
razzista verso i propri connazionali, gli italiani nativi, allo scopo di favorire gli stranieri, gli immigrati che, ultimi arrivati,
dovrebbero avere tutti i diritti e nessun dovere, ma questa politica non è unica, senza precedenti in Europa; è già stata
adottata vent’anni prima dai laburisti britannici, e per gli stessi sordidi motivi: calcolando che ogni voto di un immigrato
naturalizzato sarebbe stato un voto dato “a sinistra”, hanno pensato, come i nostri PDidioti, di procurarsi in tal modo il
margine che avrebbe consentito loro di rimanere al potere in eterno. Solo oggi alcuni di costoro hanno mostrato un tardivo
pentimento, rendendosi conto del danno arrecato alle classi lavoratrici inglesi, il valore del cui lavoro si è deprezzato e le cui
condizioni di vita si sono abbassate precisamente in conseguenza dell’importazione di braccia non qualificate a basso
costo, Nigel Farage e i suoi seguaci si sono staccati dal partito laburista dando vita a un movimento anti-euro e anti-
immigrazione. Quando i buoi sono scappati, ci si affanna a fare la porta alla stalla. Chissà se fra venti o trent’anni i nostri
PDidioti mostreranno analoghi segni di pentimento. C’è da dubitarne, visto che nessuno più di loro ha mai mostrato di
considerare il popolo “sovrano” altro che un gregge di pecore da sfruttare per fini di arricchimento personale.
Oltre a questo razzismo pratico, c’è un razzismo semi-argomentato o pseudo-argomentato sempre democratico, sempre di
sinistra e diretto, come al solito, verso chi ha la colpa di essere caucasico, “bianco”. Ve ne ho parlato con una certa
ampiezza nel mio precedente scritto La vergogna, la violenza e la stupidità, per cui ora ve lo richiamo in breve: si tratta di
un’invenzione dei liberal americani, analoghi dei nostri sinistrorsi: in poche parole, secondo costoro, l’appartenere a una
comunità unirazziale, scegliersi un partner della propria razza, come anche negli USA continua ad avvenire soprattutto negli
ambienti rurali, sarebbe l’equivalente dell’incesto. Un concetto, non occorre sottolinearlo, che vale solo per i bianchi
caucasici, non per gli afro-americani né per gli appartenenti ad altre etnie e tanto meno per gli intoccabili ebrei, che hanno
un’ “identità culturale” da preservare.
Noi abbiamo visto, e non credo sia necessario ritornarci se non con un fuggevole accenno, che la FAVOLA, che non si può
nemmeno considerare un’ipotesi né tanto meno una teoria scientifica, dell’ “Out of Africa”, dell’origine africana della
nostra specie, con il sottinteso che noi bianchi caucasici saremmo dei neri “sbiancati”, è stata inventata per distruggere il
concetto di razza, per imporre il dogma democratico che “le razze umane non esistono”.
Tuttavia, è difficile impedire alla verità di venire a galla: scienziati e ricercatori, etnologi, antropologi, linguisti sono
costretti a ricorrere a circonlocuzioni macchinose, imbarazzanti e ridicole per non dire le cose come stanno troppo
esplicitamente e venire così apertamente in urto con il dogma, il pregiudizio, la mistificazione democratica, ma talvolta la
verità che non vorrebbero dire scappa loro fra i denti.

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In un precedente articolo di questa serie, vi ho citato un’incauta ammissione di quello che è probabilmente almeno da noi il
top dell’antropologia “politicamente corretta”, Luigi Luca Cavalli Sforza a cui in un’intervista è scappata un’incauta
ammissione: “Etnia e razza sono praticamente la stessa cosa”.
Decenni di elucubrazione di Claude Levi Strauss e discepoli, che si sono sforzati di persuaderci che l’etnia è determinata da
fattori culturali: il linguaggio, le credenze, gli usi e i costumi, che non hanno nulla a che vedere con la genetica, la razza,
l’eredità biologica, spazzati via all’improvviso, come ragnatele sotto un colpo di scopa!
Naturalmente, si comprende bene che una cosa è un’osservazione casuale, quasi di sfuggita, come questa, ben altro è
quando un ricercatore ammette in maniera esplicita che i risultati delle sue ricerche vanno chiaramente a smentire
l’ortodossia democratica imposta e dominante.
Un esempio in questo senso è rappresentato da Edward O. Wilson, fondatore della sociobiologia, lo rilevava Sergio Gozzoli
in un bell’articolo, La rivincita della scienza, pubblicato nel 1997 su “L’uomo libero”: molte caratteristiche umane, e
proprio quelle che siamo portati a considerare specificamente umane, dipendono da un’ineludibile base genetica:
“Il problema centrale, conclude Wilson, è che dalla genetica non dipendono soltanto l’intelligenza, le inclinazioni, i ruoli,
l’aggressività e l’emotività, ma anche le scelte morali fondamentali, che non sono affatto il prodotto di un libero arbitrio, ma
espressione di tendenze iscritte da sempre nel patrimonio genetico del nostro cervello”.
Queste ammissioni in palese contrasto con il dogma democratico, devono essere costate a Wilson un’autentica sofferenza,
infatti ci racconta Gozzoli:
“Edward O. Wilson, è un vecchio liberal, infarcito da sempre delle antiche sciocche credenze politically correct –
antirazzismo, femminismo, permissivismo sessuale, bontà naturale dell’uomo, raziopacifismo – ed enuncia le verità
inconfutabili della scienza con palese rammarico”.
Il che però non ha impedito che le sue conferenze siano state bruscamente interrotte da violente aggressioni, soprattutto a
opera di commando di femministe, quando si è permesso di ipotizzare che le differenze di comportamento fra uomo e donna
non derivino da fattori educativi, ma affondino le loro radici nella differenza biologica fra i due sessi.
Un caso ancora più emblematico è quello di Arthur Jensen. Jensen, uno dei più eminenti psicologi americani, ha iniziato le
sue ricerche che lo hanno portato nella categoria dei reprobi, con l’intento di dimostrare che la ben nota differenza di Q.I.
medio di ben 15 punti fra bianchi caucasici e afroamericani, non dipende dalla razza ma da rimediabili fattori sociali e
culturali, come prescrive il dogma democratico, ma esse gli hanno presto dato l’evidenza del contrario, e vale la pena di
citare un esperimento davvero notevole, un experimentum crucis, avrebbe detto Francesco Bacone, uno di quegli
esperimenti cruciali che davvero tagliano la testa al toro.
Noi sappiamo che gli afroamericani non sono un gruppo razzialmente omogeneo, presentano un 20-30% di sangue
caucasico. Jensen usò come soggetti degli afroamericani che suddivise in tre gruppi, a seconda che si avvicinassero come
caratteristiche fisiche all’europeo caucasico, fossero in una situazione intermedia o fossero maggiormente vicini al nero
puro africano.
I tre gruppi appartenevano al medesimo strato sociale e culturale e tutti e tre erano composti da soggetti considerati “neri”,
si erano bilanciati, “randomizzati” si dice in gergo scientifico, i fattori di ordine ambientale, culturale, appreso. Jensen si
aspettava che, sottoposti a test d’intelligenza, fra essi non emergesse alcuna differenza significativa; invece i risultati furono
presto chiari: il gruppo più “bianco” risultava più intelligente e vicino allo standard della popolazione caucasica, quello più
“africano” otteneva i risultati peggiori, e quello “di mezzo” si poneva in una situazione intermedia. Era la prova evidente
della dipendenza del quoziente intellettivo da fattori genetici, cioè razziali.
Bisogna notare che Jensen non era affatto “un razzista”, riteneva di agire nell’interesse degli afroamericani evidenziando il
fatto che i loro ragazzi necessitano di programmi educativi differenziati, soprattutto commetteva l’errore di pensare che in
ciò che viene chiamata “scienza” i fatti contino più del pregiudizio ideologico. E’ in questa chiave che va letta la relazione
da lui presentata nel 1973 al XXVII Congresso Internazionale di Psicologia Applicata, Educability and Group Differences.
Il risultato fu la perdita della cattedra, l’essere additato come campione di razzismo, e diversi attentati alla sua vita che lo
costrinsero a vivere per parecchi anni sotto scorta (pagando i bodyguard di tasca propria, non era mica Saviano!). Bizzarro,
vero? I metodi con cui si difende l’ortodossia democratica somigliano stranamente a quelli della mafia.
In Italia, una traduzione della relazione di Jensen è stata pubblicata nel 1981 su “L’uomo libero” (non poteva essere che una
pubblicazione “di area”), Genetica, educabilità e differenze fra le popolazioni, un testo alquanto tecnico, di lettura non
facile, ma di estremo interesse.
“L’uomo è PER NATURA un animale culturale”, diceva il grande Konrad Lorenz, evidenziando il fatto che è precisamente
la sua NATURA biologica e genetica che gli consente di essere un produttore e portatore di cultura e che pertanto,
contrapporre le due cose è un assurdo. C’è, a dire il vero, l’implicito sottinteso che poiché la natura, l’eredità genetica
biologica non è uguale in tutti gli uomini e in tutti i gruppi umani, del pari differenti saranno le capacità di creare e
trasmettere cultura.
Il pensare il rapporto natura-cultura in termini di opposizione è tipico del marxismo (e dell’antropologia culturale di Levi
Strauss, che però rappresenta a livello di mentalità comune, dell’auto-percezione della gente, qualcosa di ben meno
rilevante dell’ideologia “rossa”), e non è altro che la traduzione in forma laicizzata e moderna della contrapposizione
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materia-spirito tipica del cristianesimo, ed è del pari una concezione innaturale e anti-naturale. Il marxismo per questo lato
si dimostra chiaramente una filiazione adattata alla nostra epoca del “bolscevismo dell’antichità”, una visione dell’uomo e
del mondo deformata e deformante.
Io credo tuttavia che sia sbagliato reagire a un errore con un errore di segno opposto, è meglio rispondere ad esso
imboccando la strada della ragionevolezza e, per quel che le nostre possibilità e conoscenze ce lo consentono, della verità.
Il rapporto fra natura e cultura è di tipo dinamico e dialettico; la base genetica e razziale è imprescindibile, ma a sua volta la
cultura, l’ambiente, l’appreso, hanno un’influenza su di essa. Lo si vede molto bene dal fatto, ad esempio, ben noto agli
antropologi, che fra popolazioni geograficamente vicine ma culturalmente differenti, lo scarto genetico è corrispondente allo
scarto culturale, in particolare linguistico. In questi casi, l’incomunicabilità linguistica agisce come ostacolo
all’interscambio genetico proprio come se fosse un ostacolo fisico, ed è il motivo per cui la lingua è solitamente un buon
indicatore (non assoluto, s’intende) della nazionalità.
La genetica dà delle potenzialità che poi saranno, l’ambiente, l’educazione, l’apprendimento a sviluppare o a deprimere. Un
esempio drammatico in questo senso è rappresentato dalla profonda giudaizzazione degli Stati Uniti, dovuta alla loro cultura
protestante, calvinista e all’ossessione biblica, a cominciare proprio dal nucleo caucasico anglosassone degli “States”. Come
faceva rilevare Silvano Lorenzoni, “Un calvinista è un ebreo in tutto fuorché nel nome”, pur trattandosi di persone
caucasiche dai tratti spesso nordici.
Gli Stati Uniti sono un’invivibile società multietnica, come l’Europa stessa si appresta a diventare in conseguenza di
un’immigrazione che si poteva evitare aiutando in loco le popolazioni povere del Terzo Mondo, e che invece e stata voluta e
incoraggiata per imbastardire i popoli europei, ma hanno almeno il vantaggio di presentarsi come un enorme laboratorio
dove le differenze fra le diverse etnie possono essere studiate.
Si constata che le persone di origine asiatica (cinese o giapponese) hanno un quoziente di intelligenza lievemente superiore
a quello dei bianchi caucasici, cinque punti, un terzo della distanza che separa i bianchi dai neri, tuttavia questa differenza
esiste.
En passant, essa costituisce una risposta nei fatti concreti a tutti i liberal che, arrampicandosi sugli specchi, sostengono che i
test di Q. I. non sarebbero obiettivi ma rifletterebbero gli standard culturali della popolazione caucasica.
Ricerche più attente hanno dimostrato che questa differenza non esiste nel momento dell’ingresso nella scuola elementare,
quando il livello dei bambini afroamericani si dimostra già nettamente inferiore a quello dei loro coetanei bianchi e asiatici,
ma si evidenzia man mano con gli anni.
La spiegazione più probabile, è che essa sia dovuta all’apprendimento e ai diversi stili educativi delle famiglie bianche e
asiatiche. I genitori asiatici sono in genere più severi di quelli europei, pretendono dai figli impegno e rispetto puntuale delle
consegne scolastiche, laddove questi ultimi sono di solito più lassisti e permissivi.
Capite quello che significa? L’educazione lassista, permissiva, “democratica” non soltanto impone ai ragazzi
un’acquisizione carente e imperfetta delle conoscenze culturali e anche delle nozioni tecniche che domani dovranno essere
loro utili sul lavoro, ma deprime lo sviluppo stesso dell’intelligenza.
Razza e cultura, quest’ultima si riassume soprattutto nel concetto di tradizione che parte dal rispetto dell’autorità genitoriale.
Purtroppo la direzione – LA CHINA – verso cui si sta sempre di più avviando il nostro mondo, non è certo questa

Una Ahnenerbe casalinga, sedicesima parte

Riprendiamo i lavori della nostra Ahnenerbe casalinga, la nostra ricerca sulle origini e l’eredità degli antenati, sperando
sempre che il paragone con la Ahnenerbe del Terzo Reich non appaia troppo presuntuoso. I nostri mezzi sono limitati, la
carne è debole, ma lo spirito è forte e non si lascia piegare tanto facilmente.

Come avete visto, recentemente ho derogato alla regola che mi ero dato, di concentrare sotto questo titolo, che vorrei
considerare quello di una vera e propria rubrica, tutte le tematiche riguardanti le origini, e vi ho presentato un nuovo
capitolo di “Ex oriente lux”, il quattordicesimo. Questo per venire incontro a una richiesta di diversi di voi, e soprattutto di
Ernesto Roli. Obiettivamente, era possibile non dare soddisfazione al nostro Roli, insigne ricercatore, già collaboratore di
Adriano Romualdi e nostro buon amico? Certamente no!

Ma torniamo alla nostra tematica principale, riguardo alla quale negli ultimi tempi sono emerse cose di notevole interesse di
cui dobbiamo dare conto. Si tratta, ve lo dico subito, di novità che vanno a rafforzare quel quadro che abbiamo già visto. La
realtà dei fatti ha il brutto difetto di non essere “politicamente corretta”, considerata da vicino, non può che dare brucianti
smentite a tutte le fole “democratiche” e “antirazziste” che ci vengono propinate.

Alla base dell’ideologia democratica e antirazzista c’è una DOPPIA FALSIFICAZIONE. Da un lato, infatti, si pretende che
“i razzisti” (concetto lasciato volutamente vago al punto da potervi includere tutti coloro che non “pendono a sinistra”) sono
presentati A PRIORI come individui ignoranti e beceri, dall’altro si è modificato il concetto di razzismo, estendendolo dal
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voler opprimere o addirittura sopprimere altre persone in base alla loro appartenenza razziale, alla semplice constatazione
che le razze umane esistono, in modo da impedirci di renderci conto che gli attuali trend demografici e l’immigrazione
puntano diritti alla sparizione della NOSTRA gente. Insieme, le due cose – se non ne abbiamo consapevolezza – finiscono
per costituire una sorta di morsa ideologica nella quale chiunque non sia un “democratico” e “antirazzista” sinistrorso col
cervello bacato precisamente nella direzione voluta dal sistema al potere, rischia di rimanere strangolato.

La verità dei fatti, ovviamente, è esattamente l’opposto: sono “i democratici”, gli “antirazzisti” gli ignoranti, coloro che
ignorano o hanno una visione distorta di ciò che la biologia, la ricerca scientifica fondamentale ha da dirci sulla natura di cui
facciamo parte, e su noi stessi.

Se qualcuno avesse dei dubbi a questo riguardo, forse troverebbe utile la lettura di un articolo apparso su “Le scienze” in
data 13 marzo 2014 (di cui sono venuto a sapere ultimamente – quasi non occorrerebbe dirlo – grazie alla segnalazione del
nostro ottimo Luigi Leonini). Stiamo parlando, lo voglio sottolineare, non di un sito dell’estrema destra, ma di “Le scienze”.

L’articolo: “Occhi e capelli chiari selezionati più che dall’ambiente, dalle preferenze sessuali”, è ripreso da un testo
pubblicato sui “Proceedings of National Sciences firmato da ricercatori dell’Università Johannes Gutenberg di Mainz
(Germania) e dell’University College di Londra guidato dalla paloeantropologa Sandra Wilde dell’ateneo tedesco, ed
espone i risultati di una ricerca condotta da un team di scienziati anglo-tedeschi confrontando il DNA ricavato dai resti di
150 individui vissuti nelle steppe caspiche e pontiche tra 6.500 e 4.000 anni fa con quello di 60 ucraini moderni.

Noi sappiamo che gli Europei di oggi e le caratteristiche razziali “bianche” sarebbero derivati da antenati più “scuri” anche
se non, con ogni verosimiglianza a dispetto di quel che sostiene “la teoria” antirazzista dell’Out Of Africa, da antenati simili
agli attuali neri subsahariani, che sono invece una derivazione molto più recente, in base a un processo di selezione naturale,
poiché la melanina nella pelle e quindi la pelle scura, alle latitudini europee ostacolano l’assorbimento della vitamina B e
provocano il rachitismo. Tuttavia, hanno osservato i ricercatori guidati dalla Wilde, questo va bene per l’epidermide, ma
non spiega la contemporanea acquisizione dei capelli biondi e degli occhi azzurri. Per spiegare quest’ultima, sarebbe entrata
in gioco la selezione sessuale, cioè il fatto che le persone dotate di tali caratteristiche risultano, e risultavano evidentemente
anche migliaia di anni fa, più attraenti per i potenziali partner dell’altro sesso.

“E’ possibile che i capelli più chiari e il colore degli occhi abbiano funzionato come segnale del gruppo di appartenenza,
giocando di conseguenza un ruolo nella selezione del partner, osserva la Wilde che ricorda che questo tipo di selezione è
comune negli animali, ma potrebbe essere stato una delle forze trainanti anche dell’evoluzione umana nel corso degli ultimi
millenni”.

Fermiamoci un momento, e cerchiamo di capire la rilevanza di questo discorso anche per chi, come la maggior parte di noi,
Italiani ed Europei dell’Europa meridionale, non ha affatto i capelli biondi e gli occhi azzurri. Il concetto-chiave è quello di
“segnale del gruppo di appartenenza” come elemento di attrattiva per un potenziale partner.

Ragioniamo, e cerchiamo di farlo in termini di scienza biologica. La tendenza inconscia insita in ogni vivente, è quella a
diffondere quanto più possibile i propri geni nelle generazioni future. I PROPRI geni, non quelli di qualcun altro.
Chiaramente, ciascuno di noi può trasmettere a un figlio solo la metà del proprio patrimonio genetico, e l’altra metà verrà
dal nostro partner. Quanto più il partner è simile a noi, tanto più a un figlio trasmetteremo oltre a quelli che sono
direttamente i nostri geni, geni simili ai nostri. Questo semplice fatto determina la prima e più naturale forma di “razzismo”,
la scelta di un partner SIMILE A NOI, che fa parte del nostro gruppo. Da questo punto di vista, se non è deviato da
strumenti di pressione “culturale”, l’atteggiamento naturale nella scelta del partner è “il razzismo”, non “l’antirazzismo”.
Dal punto di vista biologico, la propensione al meticciato è una scelta INNATURALE.

E’ vero però che migliaia di anni fa nelle steppe ucraine non c’erano né la pubblicità di Benetton, né Oliviero Toscani o altri
prezzolati e ben pasciuti propagandisti servi di un sistema che ha programmato l’estinzione dell’uomo europeo per
imbastardimento.

Negli Stati Uniti, dove l’imbonimento e il lavaggio del cervello mediatici sono più avanzati che da noi, l’abbiamo visto in
una serie di articoli precedenti, e la mescolanza razziale è diffusa in maniera disomogenea, con la popolazione bianca che è
minoranza nei centri urbani, mentre rappresenta la preponderanza quasi assoluta negli ambienti rurali, abbiamo le vere e
proprie campagne di calunnia contro “i campagnoli” rappresentate da pellicole hollywoodiane come Un tranquillo Week
End di paura o Le colline hanno gli occhi, e l’insinuazione dell’idea che avere un partner della nostra stessa razza sia più o

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meno l’equivalente di un incesto. IL SISTEMA, a cui della salute della specie non frega nulla, vuole un mondo meticcio. E’
il piano Kalergi all’opera su entrambe le sponde dell’Atlantico.

A fine giugno, sempre il nostro infaticabile Luigi, ha riproposto in internet un articolo già apparso nel 2006 su “La
Repubblica” (anche in questo caso, non un sito dell’estrema destra, “La Repubblica”!). Si tratta di una vicenda di cui vi ho
già parlato ma, dato che essa è estremamente rivelatrice di come realmente si svolge “La ricerca” scientifica in determinati
settori, è il caso di ritornarci brevemente sopra.

Il genetista Bruce Lahn della University of Chicago avrebbe individuato due geni che controllano lo sviluppo del cervello,
che sarebbero un’acquisizione avvenuta nelle ultime migliaia di anni, e sarebbero responsabili di quel “salto di qualità”
dell’intelligenza che avrebbe permesso l’utilizzo di nuove risorse e la creazione di società complesse come quelle nelle
quali viviamo, una scoperta fondamentale, MA QUESTI GENI SONO PRESENTI NELLE POPOLAZIONI BIANCHE ED
ASIATICHE E NON NEI NERI. Lahn, occorre sottolinearlo, è un sino-americano nato in Cina e non è sospettabile –
ammesso che esistano e non siano la pura e semplice constatazione dei fatti – di condividere i “pregiudizi bianchi”
sull’argomento.

Gli è stato fatto capire che negli USA (ma certamente anche da noi) esiste una vera e propria (la definizione è sua) “polizia
del politicamente corretto” e che se non avesse abbandonato simili studi “controversi”, la sua carriera scientifica sarebbe
stata rapidamente stroncata come è avvenuto per esempio a E. O. Wilson e Arthur Jensen. I metodi con cui la democrazia si
difende dai suoi nemici, soprattutto dal suo nemico peggiore, la conoscenza della realtà dei fatti, sono in tutto e per tutto gli
stessi della mafia.

La genetica non smette di rivelarci sorprese. Noi possiamo tranquillamente dire che oggi conosciamo meglio lo spazio
esterno al nostro pianeta di noi stessi. Forse alla base di ciò c’è un inconfessato timore di quel che essa ci potrebbe rivelare
su di noi e il divenire della nostra specie, forse è soprattutto per il potere che sta dietro la maschera delle nostre società
“democratiche”, che meno se ne sa, meglio è.

Una recente scoperta sembra rimettere in discussione molte cose che davamo per scontate, almeno in una certa misura
sembra essere una rivincita di Jean Baptiste de Lamarck e dell’idea dell’eredità dei caratteri acquisiti. E’ sempre,
curiosamente, la pagina scientifica della “Repubblica”, questa volta del 13 aprile 2014, a darci notizia dei risultati di una
ricerca condotta da un team del Brain Research Institute dell’Università di Zurigo coordinato da Isabelle Mansuy. Questi
ricercatori avrebbero individuato dei piccoli frammenti di materiale genetico, chiamati Micro RNA, che avrebbero un ruolo
chiave nel funzionamento di tessuti e organi, perché conterrebbero le istruzioni per il montaggio delle proteine, ma non è
tutto, perché essi conserverebbero anche la memoria degli eventi traumatici che hanno interessato l’organismo, e poiché si
tratta di materiale genetico, sarebbero trasmissibili fino alla terza generazione.

Un argomento su cui spereremmo di sapere presto qualcosa di più, anche perché sembra rimettere in gioco certe idee
tradizionali sull’effetto che il comportamento dei padri potrebbe avere su figli e nipoti.

Io devo ancora una volta esprimere la mia gratitudine per l’ottimo lavoro di ricerca e segnalazione del nostro Luigi Leonini,
che ci segnala un articolo che da adito a riflessioni del massimo interesse, e che proviene da una fonte che, in tutta sincerità,
a me sarebbe passata inosservata, ossia “Riza psicosomatica” di Raffaele Morelli.

L’articolo ha un titolo che più auto-esplicativo di così non potrebbe essere: “Il buonista fa male a sé e agli altri”. Il
buonismo esasperato, che è tutt’altra cosa dalla bontà, è indubbiamente uno dei grandi mali del nostro tempo, e colui che è
pronto a giustificare tutto, fa male non solo a se stesso ma anche a quanti gli stanno vicini.

“Mi tratta male perché in realtà vuole spronarmi”, “Si arrabbia con tutti ma in fondo è un buono”, “Non lo fa apposta, è
fatto così, è il suo modo di essere”, “Non è permaloso, è soltanto molto sensibile”. Sono alcune delle frasi che descrivono
l’atteggiamento ipercomprensivo che a ogni costo vuole vedere negli altri che prevaricano, offendono o tramano, aspetti o
intenti positivi che in realtà non ci sono. E’ un atteggiamento a tutto campo ma che viene espresso soprattutto con le persone
dai comportamenti più discutibili, che meriterebbero proprio il contrario”.

Nell’articolo, Morelli ha un target preciso, come è facile comprendere, le donne che tollerano e giustificano comportamenti
violenti e maneschi oppure manipolatori del loro partner, fino a quando non è troppo tardi, e vanno ad arricchire l’elenco dei
femminicidi. Noi capiamo facilmente però che lo stesso discorso può essere letto in un’altra chiave, anzi, in altre due chiavi
diverse: da un lato il buonismo esasperato di una magistratura prevalentemente di sinistra, che sembra non ritenere
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meritevole di punizione nessuno ad eccezione di chi si difende o reagisce alla violenza altrui, specie se in divisa, o se colui
da cui ci si difende è un extracomunitario. Dall’altro lato, più in generale, è una fotografia perfetta dell’atteggiamento
cristiano-sinistrorso nei confronti delle zecche, della feccia che la cosiddetta immigrazione porta sulle nostre coste.
L’atteggiamento è lo stesso: questi invasori cosiddetti immigrati non ci apportano altro che delinquenza, degrado, malattie,
stupri, insicurezza sociale, imbarbarimento del vivere quotidiano, ma i sinistrorsi si ingegnano a ogni modo a vedervi
positività inesistenti.

Involontariamente, con l’analisi psicologica di questo buonismo, Morelli ci dà una chiave importante per comprendere la
mentalità di sinistra. Alla base di esso, infatti, non c’è bontà, ma piuttosto un enorme narcisismo.

“E’ come se si trovasse una particolare soddisfazione nell’essere l’unico a scovare “la vera essenza”, ovviamente buona, di
qualcuno che agli occhi di chiunque altro, appare riprovevole. Come se ci si realizzasse nel vedere quel che gli altri non
vedono… Quella dell’ipercomprensione è una maschera: l’immagine della “bella persona” da cui non escono critiche o
emozioni negative”.

Il buonismo sinistrorso non solo è una visione deformata e narcisistica della realtà, ma paradossalmente, non è che l’altra
faccia della spietata brutalità del comunismo dei “tempi d’oro”; l’atteggiamento di base è sempre lo stesso: l’illusione di
essere virtuosi e con una conoscenza superiore agli altri, a dispetto delle conseguenze disastrose delle proprie azioni. D’altra
parte, l’antica violenza “rossa” non è certo morta, e continua a essere riservata a coloro che non condividono il narcisismo,
le illusioni e le ossessioni dei “compagni”, e che questi ultimi chiamano “fascisti”.

Difendere il futuro della nostra gente, è un’impresa titanica, ma la prima cosa da fare, è quella di denunciare le
deformazioni mentali e le falsità che stanno alla base della mentalità democratica e sinistrorsa.

Una Ahnenerbe casalinga – diciassettesima parte –


Riprendiamo i lavori della nostra Ahnenerbe casalinga, della nostra ricerca delle origini. Questa volta però ci dedicheremo a
un tema molto specifico. Secondo una vulgata molto diffusa nella mentalità democratica, marxista e via dicendo, i motivi
della guerra, del conflitto fra esseri umani diversi, nascono con le società storiche complesse e organizzate.

“l’uomo nasce buono e la società lo corrompe”. Questa famosa frase di Jean Jacques Rousseau è diventata una specie di
dogma per democratici e “sinistri” di ogni specie, assieme al rimpianto per una presunta condizione edenica precedente alla
presunta corruzione e il sogno di rifondare la società in modo da tornare alla dimensione paradisiaca delle origini. Che poi
tutti i tentativi di muoversi in una simile direzione si siano trasformati in nuove ondate di sangue, violenza, orrore, è una
contraddizione da cui queste anime pure non sono generalmente toccate.

Non occorrerebbe nemmeno dirlo, ma qui “il pensiero” (lo sragionamento) di sinistra s’incontra con quello cristiano; anche
qui è tipico il rifiuto di un mondo competitivo, l’invito a fare come i gigli dei campi, che “non filano e non tessono”, e mai
re Salomone non ebbe una veste più splendida della loro. Anche qui si passa dal porgere l’altra guancia all’inquisizione e ai
roghi degli eretici.

E’ importante capire che questa visione del tutto contraria alla realtà dei fatti continua a essere alla base della concezione di
sinistra e cristiana. Se non si vedesse nelle popolazioni extraeuropee che oggi l’immigrazione ci porta in casa una qualche
sorta di inesistente purezza primigenia, sarebbe impossibile capire come costoro riescono a vedere “delle risorse” in questi
immigrati che in realtà ci arrecano soltanto degrado, sporcizia, malattie, stupri, criminalità e violenza di ogni sorta oltre a
costituire un aggravio di bocche da sfamare che vengono a pesare su economie già in crisi.

Bene, gli indizi che la concezione democratica, cristiana e marxista sia al riguardo assolutamente errata, l’esatto contrario
della realtà, sono, per usare il linguaggio giuridico, “gravi, precisi, concordanti”.

Che i cosiddetti “buoni selvaggi” fossero in realtà caratterizzati dalla propensione al furto alla violenza, alla pratica
disinvolta dell’omicidio, se ne accorsero nonostante i loro paraocchi illuministi, già i navigatori europei del settecento, a
cominciare da James Cook e i suoi marinai a cui capitò di finire a riempire gli stomaci dei nativi delle Hawaii. Per inciso, al
contrario di quanto hanno cercato di darci ad intendere da mezzo secolo a questa parte, oggi abbiamo le prove che il
cannibalismo è tutt’altro che scomparso ad esempio dall’Africa.

All’altro estremo della scala, arretrando verso quel passato pre-umano da cui origina la nostra specie, sappiamo che gli
scimpanzé, i nostri parenti biologici più stretti nel mondo animale, sono tutt’altro che i pacifici mangiatori di frutta che si
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credeva un tempo, che sono abili e accaniti cacciatori di piccoli primati, che sono accanitamente territoriali e l’incontro di
una loro tribù con quella di altri consimili dà luogo a scontri violenti e spesso a episodi di cannibalismo.

Che anche l’uomo di Neanderthal fosse aggressivo verso i suoi simili appartenenti ad altre tribù e cannibale, appare oggi
altamente probabile. C’è da segnalare tra l’altro il recente ritrovamento in un sito musteriano di un osso cranico umano che
mostra i segni di essere stato a lungo usato come raschiatoio. Chi considera i suoi simili materia prima per utensili, non avrà
certo difficoltà a considerarli anche riserve ambulanti di proteine.

E’ probabile che fino a quando le società umane sono rimaste allo stadio di cacciatori-raccoglitori nomadi, le guerre siano
rimaste delle scaramucce locali, ma questo in primo luogo perché il popolamento umano del nostro pianeta era
estremamente rado, e secondariamente perché ciò che ciascuna tribù possedeva era poco e ben poco diverso dal patrimonio
dei suoi vicini, al punto che non valeva la pena rischiare la pelle per impadronirsene, NON perché costoro avessero nei
confronti dei non appartenenti al loro gruppo un atteggiamento amichevole e non aggressivo.

Le conclusioni sono estremamente chiare: la guerra, la violenza, il razzismo, l’odio verso chi non appartiene al proprio
gruppo NON SONO un’invenzione delle società storiche organizzate, ma affondano le radici nel passato pre-umano,
derivano direttamente dagli atavici istinti sociali dei primati. Ciò che cristiani e sinistri fanno oggetto di un rimpianto
edenico, è qualcosa che in realtà non è mai esistito.

Bene, ora siamo in grado di passare dagli indizi gravi, precisi, concordanti alle prove irrefutabili. Naturalmente, si tratta di
nozioni che restano piuttosto circoscritte nell’ambito degli specialisti e si evita che arrivino al grosso pubblico, dato che
potrebbero mettere in crisi la concezione cristiana, illuminista e marxista. E’ impossibile non pensare ai reperti egiziani di
Jebel Sahaba che suggerivano conclusioni simili, e sono rimasti in un magazzino per trent’anni senza essere studiati.

“Le scienze” on line del 24 agosto riporta un articolo già apparso sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”,
firmato dai ricercatori di un team tedesco-svizzero delle Università di Mainz e Basilea guidati da Christian Meyer, e già il
titolo dell’articolo non potrebbe essere più esplicito: Massacri e torture nei conflitti del neolitico europeo. I ricercatori hanno
studiato i resti umani emersi da una fossa comune di età neolitica risalente a 7000 anni fa nella località tedesca di Schoneck-
Kilianstandten in Germania, contenente i resti di almeno 26 persone. Il ritrovamento si colloca nella facie culturale della
ceramica a nastro (LBK per gli specialisti) e fa seguito al rinvenimento di altre due fosse comuni all’incirca coeve scoperte
ad Asparn/Schletz in Austria e a Talheim in Germania.

Le sepolture non presentano nessuno dei segni di inumazioni rituali caratteristiche dell’epoca, i corpi vi sono stati buttati
dentro alla rinfusa. Tutti gli scheletri, fra cui ve ne sono diversi di bambini, presentano i segni di torture e mutilazioni.
Colpisce in modo particolare una delle foto che corredano l’articolo, quella del cranio di un bambino di età presumibile fra i
tre e i cinque anni, sfondato da un violento colpo d’ascia. Tutti gli scheletri hanno le gambe sistematicamente spezzate, a
riprova che torture e mutilazioni furono inflitte in modo intenzionale. E’ la prova evidente della distruzione di un gruppo
umano ad opera di un gruppo rivale.

L’articolo fa parte un vero e proprio fascicolo che la più nota rivista di divulgazione scientifica dedica al tema
dell’aggressività umana e al radicamento di quest’ultima nel passato biologico della nostra specie, perché è certo che
Rousseau si sbagliava attribuendola alla “civiltà corruttrice”, tanto quanto è in errore la bibbia disegnando una prospettiva
edenica ante-peccato originale, tanto quanto si sbagliava Marx illudendosi che bastasse cambiare la struttura sociale per
porvi rimedio (ma naturalmente, che cristianesimo, illuminismo e marxismo abbiano preso delle cantonate grosse come
montagne, non è una conclusione de “Le scienze” ma mia, sebbene mi sembra che tutto il discorso non lasci spazio a esiti
diversi).

Sempre di questo “fascicolo” fa parte un articolo di Gianbruno Guerriero (nomen est omen?), che s’intitola Nati per
distruggere? Guerre e aggressività nella specie umana. Quest’ultimo parte da una considerazione di politica/storia recente:
la caduta del muro di Berlino, la sparizione del sistema sovietico, la fine del mondo diviso in blocchi contrapposti, avevano
ingenerato la speranza dell’inizio di un’epoca di pace per l’umanità, speranza che gli eventi successivi hanno amaramente
deluso. Oggi la tipologia dei conflitti appare mutata rispetto al passato: in genere cominciano come crisi interne di uno stato
che man mano diventano l’epicentro di convulsioni sempre più gravi, di un sisma che progressivamente coinvolge i Paesi
vicini; la crisi della ex Jugoslavia e quella siriana-irachena con l’emergere dell’ISIS sono forse gli esempi più tipici.

Subito dopo, l’autore fa un’osservazione a mio parere estremamente importante: la globalizzazione e l’avvento di società
multietniche non hanno portato a una riduzione della conflittualità umana ma, al contrario, l’hanno decisamente inasprita,
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perché hanno portato al formarsi di una serie di “identità di ghetto”, una frammentazione in gruppi ciascuno dei quali
indifferente od ostile (potenzialmente ostile) a ciò che lo circonda. Basterebbe questa constatazione a tagliare le gambe a
qualsiasi buonismo sinistroide (catto-sinistroide, perché la differenza tra cristianesimo e sinistra è diventata sempre più
impalpabile).

La tradizione illuminista-buonista risalente a Rousseau che ha trovato i suoi interpreti moderni nell’antropologia culturale,
Margareth Mead oltre a Claude Levi Strauss, ha trovato una totale smentita nelle ricerche etologiche recenti, Konrad Lorenz
innanzi tutto, ma l’autore si lascia scappare anche un’allusione a Robert Ardrey e al suo discusso e ingiustamente
ghettizzato L’istinto di uccidere, e agli studi sul comportamento dei primati a noi affini, che rimandano all’idea che
comportamenti aggressivi che possiamo “in nuce” definire bellici, fossero già propri del pan ancestrale, l’antenato comune
dell’uomo e dello scimpanzé.

Ciò non toglie naturalmente che con l’emergere della nostra specie, i conflitti abbiano fatto un netto salto di qualità, poiché
asce, lance e zagaglie, le stesse armi forgiate per la caccia, si rivelavano ancor più utili nelle dispute con gruppi concorrenti.

Infine Guerriero si sofferma sull’influenza del fattore religioso: la religione non sarebbe di per sé causa di conflitti, ma ha la
proprietà di rendere qualsiasi contrasto non negoziabile, perché posizioni che riguardano vantaggi e risorse di natura
materiale, grazie ad essa diventano questioni di principi e di valori sulle quali non è ammesso transigere o ricercare un
compromesso.

So che questo è ovviamente impossibile, ma sarebbe davvero bello che il signor Bergoglio e soci prendessero atto di queste
considerazioni che si appoggiano su ricerche seriamente documentate, capissero quanto sia pericoloso e irresponsabile
favorire l’importazione in Europa di sempre più massicce comunità islamiche, e la smettessero di raccontarci favole che non
hanno alcun fondamento nella realtà e con le quali vorrebbero indurci a comportamenti suicidi, comportamenti che vanno
nella direzione del suicidio etnico.

In base al principio di par condicio o quello che comunemente si dice “dare un colpo al cerchio e uno alla botte”, nel
fascicolo de “Le scienze” è presente anche una difesa d’ufficio delle tesi illuministe-democratiche-marxiste che vedrebbero
nella guerra il portato recente delle società storiche complesse. Quest’ultima è affidata a un articolo non firmato ma che
sintetizza le opinioni di due ricercatori finlandesi, Douglas Fry e Patrick Sonderberg, e s’intitola Origini recenti per la
passione umana per la guerra. Tuttavia, l’argomento è alquanto debole e inconsistente, interamente basato sul fatto che le
odierne società di cacciatori-raccoglitori non appaiono particolarmente aggressive, un argomento che presta subito il fianco
a una grossissima obiezione: fino a che punto le società di cacciatori-raccoglitori oggi superstiti possono essere considerate
rappresentative dei nostri antenati precedentemente alla scoperta e alla diffusione dell’agricoltura?

A mio parere, molto poco: bisogna innanzi tutto tenere conto del fatto che si tratta di frazioni marginali dell’umanità,
rimaste attardate in uno stile di vita arcaico probabilmente proprio perché meno competitive di altri gruppi, e in secondo
luogo che queste ultime oggi sono circondate per ogni dove da popolazioni di agricoltori sedentari demograficamente ben
più numerose e compatte che le costringono a essere molto meno aggressive di quel che sarebbero in un ambiente per loro
naturale. Pretendere di prendere a modello del comportamento dei nostri antenati del paleolitico superiore un ipotetico
incrocio fra l’esquimese e il pigmeo di oggi, in definitiva è un’insensatezza.

Alla fine, il ritratto più veritiero della nostra specie è quello disegnato da Konrad Lorenz e da Robert Ardrey, anche se
questo può dar fastidio alle “anime nobili” che ci vorrebbero più simili a un gatto da salotto, possibilmente castrato, che a
un leopardo.

Io so che il contenuto di questo articolo sarà di difficile accettazione per alcuni di voi, mi si rimprovererà, suppongo, un
atteggiamento eccessivamente “scientistico”. Ebbene, ciò dipende da un errore di prospettiva sul quale mi sono soffermato
più volte ma sul quale è forse il caso di tornare ancora, la credenza che “la scienza” avalli in definitiva una visione di
sinistra, il che porta molti di noi a un deprezzamento del pensiero scientifico stesso. In realtà “la scienza di sinistra”,
chiamiamola così, questo impasto di Marx, Freud, Levi Strauss, Margareth Mead, di scientifico non ha proprio nulla se per
scienza intendiamo l’applicazione sistematica del metodo galileiano, si appoggia su di una serie di concezioni chiaramente
smentite dai fatti.

Vediamo invece cosa c’è sull’altro piatto della bilancia. Il miraggio di un mondo pacifico ed edenico non “corrotto dalla
civiltà” secondo il falsissimo cliché inventato da J. J. Rousseau induce nei “compagni” (sinistri o mentecattolici) il

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disprezzo per tutto ciò che è “occidentale” oltre alla cecità totale su cosa sono questi invasori che costoro cercano in ogni
modo di favorire.

Tutto ciò si traduce in disprezzo verso i propri connazionali che hanno il torto di essere “occidentali” e bianchi, un vero e
proprio razzismo anti-bianco celato (talvolta piuttosto malamente) sotto la maschera dell’antirazzismo. Come ricorderete,
tempo addietro avevo dedicato al razzismo rosso un articolo sulle pagine di “Ereticamente” che ha precisamente questo
titolo.

Ricordo in particolare una certa signora, una conoscenza – non certo un’amicizia – di quelle con le quali occasionalmente
(più occasionalmente possibile) tocca avere contatti e alla quale mi sono ben guardato dal rivelare i miei punti di vista, una
tale che, se ve n’è qualcuno, si può definire un’autentica fan del cosmopolitismo, la cui casa è assiduamente frequentata da
gente di tutte le etnie extraeuropee finché non avrà qualche brutta sorpresa (quando, e non se). Bene, un giorno la udii fare
una violenta sparata anti-meridionale motivata (si fa per dire!) dal fatto che un suo collega di lavoro proveniente dal sud le
aveva confidato di trovarsi male a Trieste e di desiderare di avere l’occasione di tornare a casa propria. Particolare
grottesco: questa donna è di madre siciliana.

Rimasi di sasso; lì per lì trovai la cosa grottesca: ma come? Tu noi sei disposta a concedere a un tuo connazionale pugliese o
siciliano nemmeno un’unghia della benevolenza e disponibilità che effondi con larghezza a qualsiasi nero o pachistano? Mi
parve un’incoerenza assoluta, ma poi mi sono reso conto che alla base c’è una sorta di logica per quanto aberrante.

A chiunque provenga da una “cultura” extraeuropea (prescindiamo dal fatto che gli ingredienti di questa “cultura” sono
spesso l’inferiorità della donna, l’infibulazione, l’odio verso altri gruppi etnici o magari il cannibalismo) è concesso
l’imprescindibile diritto alla conservazione della sua “identità culturale”, ma se sei “occidentale” DEVI essere cosmopolita,
senza radici, per te un posto deve valere l’altro e una gente deve valere l’altra.

Questo mi porta a una domanda. Abbiamo chiesto noi di essere “occidentali”? Abbiamo chiesto noi agli angloamericani
durante la seconda guerra mondiale di venire a seppellire le nostre città sotto tonnellate di bombe per “occidentalizzarci”?

La realtà delle cose è molto semplice: poiché la conflittualità è ineliminabile nei rapporti fra i gruppi umani, noi non
possiamo considerare le cose con neutrale distacco, sub specie aeternitatis, ma è DALLA PARTE DELLA NOSTRA
GENTE che bisogna essere.

Una Ahnenerbe casalinga - diciottesima parte -

Come sapete, ho deciso di fare di questa serie di articoli una sorta di rubrica attraverso la quale tenervi al corrente degli
ultimi sviluppi della ricerca della tematica delle origini europee ed indoeuropee, sempre sperando che questa mia
Ahnenerbe, casalinga e solitaria, “one man’s band”, consentita soltanto dall’abbondanza di informazioni spesso ignorate che
circolano nel web, non sfiguri troppo, non risulti eccessivamente velleitaria a confronto di quella che fu la Ahnenerbe del
Terzo Reich.
Naturalmente, le tematiche di cui ci occupiamo variano a seconda di quali novità emergano di volta in volta, sebbene mi
sembra che complessivamente emerga un quadro molto chiaro delle nostre origini che va a smentire in maniera netta le tesi
di una storiografia e di una antropologia mercenarie che negano al mondo europeo qualsiasi creatività, ma lo riducono a una
dependance dell’oriente semitico e asiatico, che vorrebbero ridurre i nostri antenati indoeuropei da guerrieri e cavalieri delle
steppe a pacifici agricoltori di provenienza mediorientale, che vorrebbero la nostra stessa specie originata in tempi recenti
dall’Africa per rendere impossibile qualsiasi distinzione razziale, cioè in poche parole, tutta la fuffa dell’ideologia
democratica che si rivela sempre più falsa a ogni nuova scoperta.
Questa volta ci occuperemo di una serie di fatti che riguardano degli orizzonti temporali già storici, e in particolare la
tematica religiosa.
Cominciamo con quella che, diciamolo pure, è una fonte alquanto imprevista, il “Sole 24 ore”, il più noto quotidiano
economico italiano che ogni tanto è uso pubblicare anche articoli culturali, in più di un caso degni d’interesse. Un articolo di
Armando Torno del 23 agosto è dedicato all’antico politeismo greco, ed ha un titolo molto esplicito: La loro bibbia era
Omero. L’articolo è in realtà una recensione del libro Dictionnaire du paganisme grec di Reynal Sorel. I concetti espressi
per la verità non ci sono nuovi: le antiche religioni pagane non erano basate come invece quelle abramitiche (ebraismo,
cristianesimo, islam) su di una rivelazione; la religione greca, tuttavia, era basata su concetti comuni, ad esempio la natura
antropomorfa delle divinità, fondati oltre che su di una tradizione ancestrale, sulla narrazione dei poemi omerici (non solo,
naturalmente; si pensi a Esiodo, o a quanto ci hanno raccontato i grandi tragici ellenici che hanno drammaticamente fissato

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per la posterità l’idea del fato ineluttabile), una religione fatta di costumi, tradizioni, memorie, senso, di appartenenza a una
civitas a una polis che è anche un culto.
A margine, mi è venuta spontanea una riflessione: gli islamici hanno sempre tenuto moltissimo a definirsi popolo del libro,
vedendo in ciò una discriminante assoluta rispetto ai pagani “senza libro”, e mentre in certi periodi si sono dimostrati
disponibili ad accordare una relativa tolleranza a ebrei e cristiani, altre genti del libro, nei confronti dei pagani l’islam non
prescrive alternative alla conversione o la messa a morte. I cristiani, all’epoca della fase espansiva della loro religione hanno
mostrato uno spirito analogo, considerando i politeisti “pagani”, cioè villici, sempliciotti, senza contare che l’editto di
Tessalonica emanato da Teodosio prescriveva la pena di morte per chi rifiutava il battesimo e voleva continuare a seguire la
religione dei Padri. Dell’ebraismo, è meglio non parlarne, per esso, il goj, il non circonciso è un subumano alla stessa
stregua di una bestia.
Tralasciamo il fatto che la tolleranza accordata dagli abramitici ad altri abramitici è sempre molto relativa; oggi ad esempio
storici tutt’altro che imparziali e intesi a mettere l’islam nella miglior luce possibile, ci dicono che i mussulmani si
accontentavano di “un tributo” dai cristiani; spesso questo “tributo” era quanto di più violento e atroce si possa immaginare;
nell’impero ottomano consisteva nel sequestro di un figlio per famiglia cristiana, un figlio che sarebbe stato allevato
nell’islam più fanatico per diventare membro dei giannizzeri, il corpo di guardia del sultano, composto per intero di figli
rubati alle famiglie cristiane.
Questo modo di pensare (non è il caso di usare il termine “ragionare”) ha forse un senso là dove l’abramitico si confronta
con tribù analfabete di idolatri primitivi, ma i pagani come gli ellenici non avevano “un libro” per il semplice fatto che
avevano biblioteche intere: I poemi di Omero, di Esiodo, le tragedie di Eschilo, Sofocle, Euripide, i dialoghi di Platone. La
stessa cosa possiamo dire dei Romani e del politeismo italico, non possiamo non ricordare quanto meno Virgilio e De natura
deorum di Cicerone. Non “un libro” ma biblioteche, non “una rivelazione”, ma una cultura vasta e articolata basata su
tradizioni condivise che creava un sentire comune.
Il 31 agosto studirazziali.xoom.it (ma ci vuole davvero coraggio a tenere oggi aperto un sito del genere) ha pubblicato in
versione on line lo scritto di Hanns F. K. Gunther Tipologia razziale del popolo ebraico. A rileggere oggi questo testo, si
nota la difficoltà, che costringe a perdersi in una tipologia davvero complicata, di distinguere le caratteristiche
antropologiche degli ebrei da quelle delle popolazioni non ebree fra le quali questi ultimi vivono. Per dirne una, in
Germania, in Lituania, in Russia non era infrequente trovare ebrei dagli occhi azzurri e dai capelli biondi o rossi.
Io ora non mi addentrerò nei dettagli di questa analisi, ma penso che sia il caso di approfittare della circostanza per chiarire
alcuni luoghi comuni esistenti a questo riguardo. Già il testo di Gunther, e non dimentichiamo l’epoca in cui è stato scritto,
riconosce che le caratteristiche esteriori che permettono di riconoscere un ebreo come tale, hanno a che fare più con
l’abbigliamento, la postura, il modo di atteggiarsi che con caratteri propriamente razziali. Dirò di più, gli ebrei a mio parere
non costituiscono se non molto impropriamente “una razza”, e a stento si possono considerare “un popolo”. L’endogamia
praticata per secoli dai seguaci della religione di Mosè ha finito per creare fra loro un’affinità etnico-biologica, ma il
principale collante e la vera ragione, in ultima analisi, della loro esistenza come gruppo, è il culto mosaico. Tanto per
capirci, date un paio di millenni di tempo ai testimoni di Geova, e avremo un fenomeno analogo.
Pensiamo al fatto che esistono addirittura ebrei neri, i cosiddetti falascià di origine etiope; sicuramente il loro genoma non è
riconducibile alle popolazioni dell’antica Palestina.
Questo è molto importante soprattutto se cerchiamo di capire quale dei due popoli, quello ebraico-israeliano (o presunto
tale) e quello arabo palestinese abbia un diritto naturale su quella terra che conosciamo come Palestina e dove oggi si è
prepotentemente (è proprio il caso di dirlo) installato lo stato sionista di Israele.
La leggenda della diaspora come viene ordinariamente raccontata, in realtà non ha nessun fondamento storico. SI
PRETENDE che dopo la guerra giudaica del 66-70, gli ebrei avrebbero abbandonato la Palestina per sparpagliarsi per tutto
l’impero, e sarebbero stati gli antenati degli ebrei di oggi. E’ un’idea semplicemente assurda; i Romani non hanno mai
condannato all’esilio, sradicato dalla loro terra le popolazioni assoggettate, ed è ancora più assurdo pensare a una
dispersione volontaria: rifugiarsi in casa dei propri nemici, non ha alcun senso.
E’ vero invece che, molto prima di allora, nel clima multietnico che la tarda romanità aveva ereditato dall’ellenismo, in vari
luoghi dell’impero, Roma compresa, vi erano piccole comunità di ebrei spostatesi per motivi economici e commerciali;
sono gli antenati di una piccola frazione dell’ebraismo odierno, i cosiddetti sefarditi, circa il 5-10% degli ebrei attuali.
Secondo la versione classica della leggenda della diaspora, la Palestina sarebbe rimasta disabitata per 5-6 secoli ed essere
ripopolata dagli Arabi ai tempi dell’espansione islamica califfale, e anche questa idea è un’autentica assurdità.
L’espansione dell’impero arabo califfale in età medioevale, seguita alla predicazione di Maometto, fu conquista militare a
cui fecero seguito a loro volta l’imposizione della religione islamica e della lingua araba (per poter comprendere il corano
che per secoli non venne tradotto) alle popolazioni assoggettate. Tranne piccole guarnigioni militari e numericamente ancor
più esigue élite di governatori e amministratori, non vi fu nessuna migrazione araba nel vasto impero che andava dalla
Persia alla Spagna, per il semplice fatto che non c’era così tanta popolazione da far emigrare; già allora la Penisola araba era
una terra desertica, scarsamente popolata, abitata da tribù nomadi di beduini. La popolazione della Palestina fu islamizzata e
arabizzata esattamente come le altre dell’impero dei califfi; la popolazione della Palestina che non si era affatto dispersa in
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seguito all’immaginaria diaspora, vale a dire coloro che hanno abitato questa terra da tempo immemorabile, i discendenti
carnali dell’ebraismo biblico, gli antenati degli odierni “arabi” palestinesi.
Si pensi al fatto che al di là della religione islamica e dell’uso comune della lingua araba, magrebini, egiziani, arabi della
penisola arabica, mesopotamici (iracheni e siriani) si considerano e sono popoli diversi. I magrebini parlano in famiglia
dialetti berberi, vale a dire di ceppo camitico, che non hanno nulla a che fare con l’arabo e derivano dalla lingua degli
antichi Numidi. Allo stesso modo, gli egiziani cristiani parlano una lingua, il copto, che deriva da quella egizia di età
faraonica (e della cui conoscenza si servì Champollion per la decifrazione dei geroglifici). Questa differenza esistente
all’interno del mondo “arabo” si esprime anche visivamente nell’abbigliamento: avrete presente il cappuccio-copricapo
tradizionale dei beduini, la kefiah. Gli arabi della penisola arabica e della Giordania, vale a dire i “veri arabi”, usano una
kefiah tessuta in lana bianca e rossa, il cui uso si arresta sulla riva orientale del fiume Giordano, gli “arabizzati”, e tra questi
i palestinesi, ne indossano una bianca e nera.
In età medioevale noi troviamo gli ebrei in Europa concentrati soprattutto in Ucraina, in Polonia, nella Russia meridionale e
occidentale, con una penetrazione relativamente scarsa in Germania, ed estremamente rada nel resto dell’Europa, sebbene si
trattasse di gente dall’istinto cosmopolita, pronta a insediarsi ovunque le circostanze promettessero di fare buoni affari.
Prendendo per buona la favola della diaspora, per raggiungere queste aree dal Medio Oriente, costoro avrebbero dovuto
migrare attraverso i Balcani o, provenendo dall’Europa occidentale avrebbero dovuto attraversare la Germania. Come mai
la storia non ha registrato alcuna traccia di migrazioni di questo genere?
In poche parole, da dove vengono costoro, gli askenaziti, il gruppo che comprende il 90-95% degli ebrei attuali?
A svelare l’arcano, probabilmente senza rendersi conto che ciò rappresenta una totale smentita delle rivendicazioni sioniste
sulla Palestina, è stato proprio uno scrittore ebreo, Arthur Koestler nel suo libro La tredicesima tribù. In poche parole, la
storia è questa: nell’alto medioevo nella zona stepposa dall’attuale Ucraina alla Russia meridionale esistevano varie
popolazioni nomadi o seminomadi che si sono man mano sedentarizzate con l’adozione dell’agricoltura e hanno dato vita a
vari stati più o meno effimeri, dei khanati. Fra questi vi era quello dei Kazari stanziati tra i corsi meridionali del Don e del
Volga. A un certo punto, l’aristocrazia kazara decise che era ora di abbandonare l’idolatria ancestrale e convertirsi a una
religione monoteistica, ma quale? Proclamarsi cattolici sarebbe equivalso a dichiararsi sudditi del Sacro Romano Impero,
dichiararsi ortodossi ad accettare la dipendenza da Bisanzio; mussulmani peggio che mai, rendersi tributari del califfato,
così costoro scelsero l’ebraismo e l’imposero alla massa della loro popolazione.
La verità è che la stragrande maggioranza degli ebrei attuali, gli akenaziti, sono di origine kazara, e non possono vantare
alcun diritto atavico sulla Palestina. Il fatto di condividere la religione di Mosè non è un titolo sufficiente; normalmente gli
stati sono a base etnica, non religiosa; la sola altra eccezione, il Vaticano, è anch’esso un’anomalia, e si tratta d’altra parte di
uno staterello di dimensioni molto modeste, che non ha certo la pretesa di riunire tutti i cattolici sotto di sé. C’è un solo
popolo che può vantare un diritto ancestrale sulla Palestina, ed è quello “arabo” palestinese. Israele, l’entità sionista non vi
esercita altro diritto se non l’uso della forza più brutale e spietata.
Da buon servitore che non dimentica di rendere omaggio propri padroni, il nostro toy premier Matteuccio Renzi si è
recentemente recato in Israele a omaggiare l’entità sionista. Per la circostanza, se n’è uscito con una dichiarazione che
merita qualche parola di commento: “Israele è le nostre radici e il nostro futuro”.

“Le nostre radici”. Questa è una mezza verità, nel senso che, nonostante tutti gli sforzi compiuti ad esempio dai cattolici
tradizionalisti che al riguardo si arrampicano disperatamente sugli specchi, le radici ebraiche del cristianesimo, sono chiare
ed evidenti, fuori discussione, ma un europeo profondamente tale che non si riconosce nella religione del discorso della
montagna, si renderà altrettanto facilmente conto di non avere alcuna radice in Israele. Le radici dell’Europa non stanno
certo lì, sono elleniche, romane, celtiche, germaniche. L’ebraismo e tutto ciò che proviene dal Medio Oriente, cristianesimo
compreso, sono per definizione ciò che ci è estraneo e nemico.

L’altra parte della dichiarazione di Renzi, “Israele è il nostro futuro”, si presta a una lettura diversa: Israele è l’esempio di
uno stato in cui gli immigrati (gli israeliani) hanno schiacciato, emarginato, costretto all’esilio, ghettizzato in spazi sempre
più ristretti, sterminato senza pietà, soppiantato la popolazione nativa, i palestinesi. E’ quel che accadrà in un futuro più o
meno prossimo con gli immigrati che oggi ci invadono? Perlomeno sembra che sia questo che il governo Renzi intende
favorire, in obbedienza al potere mondialista e secondo il piano Kalergi. Qui, probabilmente senza che lui lo volesse o se ne
rendesse conto, ma la dichiarazione dell’ebetino di Rignano sull’Arno assume il significato di una sinistra profezia.

Questi ultimi tempi ci hanno riservato una scoperta davvero sorprendente, la notizia viene dall’Inghilterra, ed è riportata dal
“Daily Mail” del 31 agosto in un articolo a firma di Jennifer Newton. A volte capita di ritrovare nelle biblioteche antichi
testi di cui si erano perse le tracce o di cui non si conosceva l’esistenza perché non adeguatamente catalogati. Così, la
scoperta avvenuta mesi fa di un antico manoscritto arabo nella biblioteca dell’Università di Birmingham, un manoscritto
redatto su pergamena contenente tre sure del corano, dalla diciottesima alla ventesima, è sembrata una scoperta importante
ma non eccezionale; tuttavia gli studiosi si sono insospettiti per il fatto che il testo appariva stilato con una grafia
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particolarmente arcaica, e un team dell’Università di Oxford guidato da Kay Piccolo ha sottoposto il testo a un’analisi al
radiocarbonio.

Il risultato è sconcertante, ha fornito una datazione oscillante tra il 568 e il 645, mentre si suppone che il corano non sia
stato messo per iscritto se non dopo il 650, in gran parte dopo la morte di Maometto, basandosi su suoi detti tramandati
oralmente.

Vi è chiaro quali implicazioni ci potrebbero essere?

Quando, dopo i geroglifici, si riuscirono a decifrare le scritture cuneiformi, fu un brutto momento per il cristianesimo,
perché saltarono fuori gli originali di molte storie presenti nella bibbia. Ad esempio la storia di Noè e del diluvio universale,
oggi sappiamo che è ricalcata su di un episodio la cui narrazione è contenuta nell’epopea di Gilgamesh. Se la bibbia è opera
umana, non c’è nulla di strano che gli ebrei abbiano ripreso narrazioni presenti nelle culture ad essi adiacenti, ma se i suoi
autori hanno scritto sotto ispirazione divina, è poco verosimile che questa ispirazione abbia scopiazzato i miti di altri popoli.
Ora, nei confronti del corano si può avanzare un’obiezione analoga, dato che alcune sure sembrerebbero essere prese di
peso da un testo pre-islamico di cui il “corano di Birmingham” sarebbe la copia giunta fino a noi.
Ma state tranquilli, potete essere certi che di tutto questo, i milioni di mussulmani che esistono nel mondo, saranno tenuti
all’oscuro. Con la distruzione delle opere d’arte dei monumenti storici, delle testimonianze del passato, prima i Talebani e
oggi l’ISIS dimostrano di avere ben capito una cosa: che l’ignoranza è la condizione più favorevole per la diffusione della
loro “fede”.

Una Ahnenerbe casalinga – Diciannovesima parte –


Questa volta torniamo al tema principale della nostra ricerca dopo due digressioni peraltro, penso, pienamente giustificate:
le tre fosse comuni risalenti a 7000 anni fa e gli altri elementi emersi dall’esame del fascicolo de “Le scienze” di cui vi ho
parlato precedentemente (e stiamo parlando de “Le scienze”, non certo una pubblicazione “di area”) dimostrano che la
propensione per la guerra non è un frutto delle società storiche, ma ha accompagnato l’uomo fin dagli albori della nostra
specie, per quanto questa constatazione possa turbare democratici, marxisti e cristiani che ci vorrebbero più simili a castrati
gatti da salotto che a leopardi.

Altrettanto importante il discorso sulla religione che abbiamo affrontato la volta scorsa: abbiamo visto che il cosiddetto
paganesimo, la religione ancestrale dei nostri antenati indoeuropei, non si appoggia su di “un libro”, una presunta
rivelazione, ma su di un’intera cultura. Parlando di religioni abramitiche, abbiamo visto che le pretese del sionismo sulla
Palestina, di cui il popolo arabo palestinese paga oggi le conseguenze in maniera atroce, sono del tutto infondate, dato che la
favola della diaspora ebraica non ha nessun fondamento storico. La scoperta del “Corano di Birmingham”, un testo
probabilmente pre-islamico che contiene tre sure, ci permette poi di avanzare consistenti obiezioni alla presunta ispirazione
divina del profeta Maometto.

Ora è però venuto il momento di tornare a gettare lo scandaglio più in profondità, rimontando più indietro la corrente del
tempo. Pare strano, ma la nostra conoscenza del passato non cessa di arricchirsi, e con sorprendente rapidità. Qualcuno ha
detto con un’immagine suggestiva, che la storia si espande quotidianamente, un giorno avanti nel futuro e uno indietro nel
passato. Peccato che tutto ciò abbia l’imperdonabile difetto di apparire sempre meno compatibile con l’immagine del nostro
passato e di noi stessi che l’ortodossia democratica ci vorrebbe imporre.

Cominciamo tuttavia con qualcosa che è sicuramente ben lontano dal rappresentare una novità assoluta.

Recentemente, un mio amico mi ha segnalato un video postato su you tube in data 3 maggio 2013 (oltre due anni fa, ma
cosa volete farci: il materiale presente sul web è immenso, e si finisce fatalmente per dipendere da collaboratori, per la cui
generosità non si può comunque essere abbastanza grati), firmato Voluspa/Asatru. Il testo è in inglese, ma comunque ne
vale la pena.

La nota introduttiva al video riporta (la traduzione è mia):

“Circa 40.000 anni fa, gli Europei preistorici furono il primo popolo al mondo che ha inventato l’arte: pittura, scultura,
musica. Lo sviluppo di questa concezione del tutto nuova ha avuto una delle influenze più profonde sul successivo sviluppo
intellettuale dei nostri antenati”.

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Non ci sarebbe in sostanza altro da dire: prima di allora non si era visto nulla di simile alle grandi pitture parietali del
paleolitico superiore delle grotte della Dordogna e della Spagna settentrionale, opera degli uomini di Cro Magnon, e ancora
per molti millenni fuori dall’area europea non si avrà nessuno sviluppo artistico lontanamente paragonabile a esse.

L’arte e l’estetica sono invenzioni europee e sono manifestazioni dello spirito europeo. Silvano Lorenzoni faceva notare che
i popoli mediorientali sono caratterizzati dall’insensibilità, da una sorta di cecità per le arti visive, che è genetica, e di cui il
tabù religioso verso le immagini di ebraismo e islam, teoricamente giustificato dalla precauzione contro il pericolo
dell’idolatria, è solo una copertura esteriore.

Io penso che Lorenzoni abbia pienamente ragione: si pensi, per dirne una, alla rozzezza e all’infantilismo degli idoli fenici,
che non sembrerebbero proprio il prodotto di una cultura evoluta sotto altri aspetti, oppure si pensi a cosa è diventata l’arte
moderna man mano che “artisti” di origine ebraica hanno eliminato il tabù verso la raffigurazione delle immagini, tipico
della religione dei loro padri così come dell’islam. L’arte del nostro continente si degrada nella misura in cui in essa lo
spirito europeo si diluisce e si rarefà.

Tuttavia è interessante il breve commento di tale Torin Webster (la traduzione è sempre mia): “Questo titolo è uno scherzo,
molto eurocentrico!”

Questo, direi, è un esempio tipico della mentalità abramitica (nella quale il marxismo rientra in pieno, e penso si possa
considerare la quarta delle religioni “figlie di Abramo”): il (pre)giudizio morale non deriva dai fatti ma li precede e li
determina. La superiorità europea DEVE essere negata in nome della supposta purezza atavica dei non europei (il fantasma
di J. J. Rousseau, tetragono a qualsiasi esorcismo); di conseguenza, IL FATTO INCONTESTABILE della grande arte
paleolitica europea va sminuito, ridicolizzato, se possibile cancellato (orwellianamente, ciò di cui si sono cancellate le
testimonianze non è mai esistito, come l’ISIS insegna). Dietro questa stupida frasetta, leggiamo il senso della tragedia della
nostra epoca.

Un’altra notizia ci porta a considerare le steppe eurasiatiche che sono in ultima analisi il bordo più orientale del nostro
continente se diamo peso alla continuità antropologica più che alla geografia (non dimentichiamo che il tipo antropologico
dei cacciatori paleolitici denominato dai genetisti eurasiatico settentrionale è ancora oggi alla base di oltre l’80% del
patrimonio genetico degli Europei), come luogo di origine della civiltà. La rubrica scientifica de “La Repubblica” on line.
(anche qui “La Repubblica”, mica un sito dell’estrema destra!), riporta la notizia del ritrovamento dell’idolo di Shigir. Si
tratta di una grande statua lignea, un palo scolpito con sembianze antropomorfe, che in origine era alto 5,3 metri di cui oggi
ne restano poco più della metà, 2,8.

Ritrovato nel 1890 in un acquitrino della regione degli Urali, l’idolo era stato datato a 9500 anni fa, ma una più accurata
analisi col radiocarbonio, ha permesso di riconoscergli un’età di 11.000 anni, ed è dunque la più antica scultura lignea
conosciuta al mondo. Secondo gli scienziati dell’Università di Mannheim (Germania) che lo stanno attualmente studiando,
le misteriose incisioni che si trovano sul corpo dell’idolo potrebbero costituire un vero e proprio codice. Se questo fosse
confermato, si tratterebbe dell’esempio di scrittura di gran lunga più antico conosciuto.

L’idolo è attualmente esposto nel museo di Yekaterinburg.

Dell’idolo di Shigir si è occupato anche Maurizio Blondet in un articolo pubblicato il 3 settembre sul suo sito “Blondet &
Fiends”, “La più antica religione vivente”. L’idolo, infatti, presenterebbe una netta somiglianza con i pali sciamanici tuttora
piantati dagli sciamani siberiani, spesso terminanti in teste umane come quella che sormonta il manufatto di Shigir, e con
facce umane incise in vari punti del palo. Questi pali rappresenterebbero il “collegamento con l’Alto”. Ciò ci consentirebbe
di retrodatare il culto sciamanico eurasiatico alla stessa età dell’idolo (o forse maggiore), facendone in assoluto la più antica
religione tuttora praticata.

Blondet rileva che tracce di questo sciamanesimo si trovano nello scintoismo giapponese, nei culti misterici e dionisiaci
ellenici, e sciamani in trance sarebbero riconoscibili perfino nelle pitture parietali paleolitiche della grotta di Lascaux.
Abbiamo forse raggiunto, riscoperto, un fondo molto antico della nostra storia.

Entrambi, sia l’articolo de “La Repubblica”, sia quello di Blondet fanno notare che l’idolo di Shigir è più antico del
complesso templare anatolico di Gobekli Tepe.

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Fermiamoci un momento a questo punto. Quella di Gobekli Tepe è probabilmente la scoperta archeologica più importante
degli ultimi anni. Questo tempio o complesso di templi megalitici rimasto celato fino a tempi recenti in una collina anatolica
in quella che è oggi la Turchia, risalirebbe al 9000 avanti Cristo, ben più antico quindi dei complessi megalitici di Malta e di
Stonehenge, e sta mettendo in crisi molte idee finora comunemente accettate dagli archeologi, a cominciare da quella che
costruzioni del genere non sarebbero state possibili prima del neolitico, cioè prima che la scoperta dell’agricoltura
permettesse non soltanto un consistente incremento della popolazione, ma il fatto di avere disponibile una sufficiente
quantità di braccia da lavoro di persone non direttamente impegnate nella ricerca di cibo (un’economia di caccia e raccolta
non produce eccedenze, un cacciatore-raccoglitore riesce a procurarsi a malapena di che far sopravvivere se stesso e la
propria famiglia). In un certo senso, potremmo dire che Gobekli Tepe è il più grande OOPART (oggetto anacronistico)
conosciuto.

Nel suo articolo, Blondet ipotizza che non sia stata la scoperta dell’agricoltura ma l’impulso religioso a determinare la
nascita di comunità umane sedentarie, e che, appunto, come sembra essere accaduto a Gobekli Tepe, la costruzione di
grandi santuari abbia preceduto gli insediamenti agricoli. E’ un’ipotesi inverosimile, qualcosa di materialmente impossibile:
dove mai una popolazione di cacciatori nomadi avrebbe potuto trovare la manodopera necessaria a costruire Gobekli Tepe o
i templi maltesi o Stonehenge? E anche ammesso e non concesso, chi avrebbe potuto provvedere al sostentamento, le
esigenze alimentari e il resto, delle persone che dovevano dedicare tutte le loro energie alla costruzione del santuario?
Teniamo presente tutto questo ai fini del discorso che segue.

Uno dei maggiori peccati intellettuali abramitici, forse il vizio intellettuale che fonda la mentalità abramitica, lo abbiamo
rilevato poco fa, è il vizio di anteporre il pregiudizio morale ai fatti, di accordare a esso questi ultimi invece di fare il
contrario come sarebbe giusto. Probabilmente, avrete notato che finora in questa serie di scritti non ho menzionato una
scoperta importante come quella di Gobekli Tepe, sebbene quest’ultima abbia creato parecchio rumore nel mondo
dell’archeologia. Sono anch’io caduto nello stesso peccato, cioè di ignorare deliberatamente un fatto importante in contrasto
con le mie tesi, che avrete certamente notato e io non ve lo nascondo, una decisa perorazione in favore dell’originalità, della
creatività dell’uomo europeo, la cui cultura è a mio parere a fondamento dell’intera civiltà umana?

Personalmente, a questo riguardo intendevo semplicemente aspettare finché non mi fossi fatto un’idea di come “far
quadrare” Gobekli Tepe con tutto il resto.

L’ipotesi che mi sembra di gran lunga più verosimile è questa: noi sappiamo che durante l’età glaciale il livello dei mari era
considerevolmente più basso di quello attuale, perché enormi quantità d’acqua si trovavano imprigionate nelle coltri
glaciali. L’innalzamento del livello dei mari che si verificò con la deglaciazione, con ogni probabilità non è stato
dappertutto un fatto progressivo e tranquillo, poiché in più di un luogo, innalzandosi il mare poteva finire per superare o
rompere all’improvviso gli argini naturali che esistevano, provocando allagamenti violenti e catastrofici. E’ probabile che il
ricordo di alcuni di essi sia alla base della leggenda di Atlantide e del racconto biblico del diluvio.Fabio 2

Secondo l’ipotesi esposta da Ian Wilson in I pilastri di Atlantide, ipotesi che trova un forte sostegno in dati archeologici,
rilevamenti satellitari, carotaggi, rilevazioni sottomarine effettuate da piccoli sommergibili teleguidati e via dicendo, quello
che oggi è il Mar Nero, in età glaciale era un lago di acqua dolce di dimensioni molto inferiori al mare attuale. Tutto attorno
alle sue rive, esisteva una vasta area oggi sommersa, che non ha molto senso se considerare europea o asiatica, ma che era
probabilmente popolata da genti bianche di ceppo caucasico fra cui forse gli antenati degli odierni indoeuropei, che
potevano, date le condizioni favorevoli, già aver raggiunto un discreto livello di civiltà.

A un certo punto, il crescere del livello del Mediterraneo e la sua crescente pressione, avrebbero fatto crollare il ponte di
terra che si sarebbe trovato dove attualmente c’è il Bosforo, che separava il Mediterraneo dal lago del Mar Nero. Le acque
del mare avrebbero sommerso il lago e le terre circostanti con un’inondazione catastrofica – forse quella ricordata dal mito
di Atlantide – costringendo gli abitanti alla fuga. I superstiti sarebbero fuggiti in ogni direzione; fra questi, alcuni avrebbero
raggiunto l’Asia minore, e poiché provenivano da una società probabilmente già agricola, potevano avere la densità
demografica necessaria a realizzare edifici come quelli di Gobekli Tepe. Probabilmente avranno realizzato anche altro di cui
il tempo ha cancellato le tracce: edifici civili, abitazioni, campi coltivati. Vediamo che questa ipotesi risolve anche il
mistero di cui gli archeologi non sembrano trovare il bandolo, di un complesso templare realizzato in età paleolitica.

Facciamo un esempio che dovrebbe rendere chiare le idee. Voi sapete che gli aborigeni dell’Australia sono rimasti fermi al
paleolitico fino all’arrivo dei coloni europei nel XVIII-XIX secolo. Immaginate che a un certo punto i coloni europei in
Australia siano scomparsi, o perché assorbiti dalla popolazione aborigena o perché migrati altrove. Ora immaginatevi gli

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archeologi di millenni a venire chiedersi: “Ma come avranno fatto gli aborigeni che non sapevano nemmeno levigare la
pietra, a realizzare l’Opera di Sidney?”

Questa tematica, delle terre che oggi si trovano al disotto di parecchi metri d’acqua marina, ma che nell’età glaciale erano
emerse, potrebbero essere state oggetto di popolamento umano, e forse le sedi più antiche della civiltà del nostro continente,
è probabilmente quella che impegnerà maggiormente la ricerca archeologica nei prossimi decenni.

Una delle aree più estese che la deglaciazione ha fatto scomparire sotto i flutti, è il cosiddetto Doggerland che gli archeologi
inglesi sono impegnati a studiare da decenni. I Dogger Bank è una zona di acque basse che si trova fra Inghilterra e
Danimarca, rimasta emersa fino al 7000 aventi Cristo, ma l’antico Doggerland, questa vera e propria “Atlantide britannica”
fosse nel remoto passato molto più estesa, comprendendo 18.000 anni fa praticamente tutta la sezione di quello che è oggi il
Mare del Nord dalle Isole Britanniche, alla Scandinavia, alle coste francesi prospicienti a quella che è oggi la Manica.

Bene, corriere.it, la versione on line del “Corriere della sera” del 2 settembre, ci informa che il governo britannico ha
stanziato per le ricerche riguardo a Doggerland, 2,5 milioni di euro messi a disposizione dall’Unione Europea, una cifra
notevole, considerando il periodo di crisi economica che stiamo attraversando.

La stessa notizia è riportata anche da “La Repubblica” del 3 settembre con un vistoso titolo: Sommersa nel Mare del Nord
c’è un’Atlantide europea tutta da scoprire.

Tuttavia, le maggiori sorprese in questo campo potrebbero non venire da lì. Noi non dobbiamo dimenticare che non solo il
Mare del Nord ma anche il Mediterraneo ad essere durante l’età glaciale di un livello inferiore di diverse decine di metri, e
anche qui esistevano terre emerse oggi sprofondate sotto i flutti, anch’esse oggetto di antico popolamento umano, e dove la
ricerca archeologica potrebbe rivelarci notevoli sorprese.

“La Repubblica” dell’11 agosto ci informa che ricercatori dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica
Sperimentale di Trieste hanno recentemente individuato nel Canale di Sicilia approssimativamente a mezza strada fra
Pantelleria e le coste siciliane un sito archeologico sommerso di età mesolitica risalente a 9500 anni fa. Il resto più evidente
è un grosso monolito di forma squadrata con fori disposti regolarmente sui lati e un foro che lo attraversa da parte a parte.
Secondo i ricercatori, avrebbe fatto parte di un antico edificio, probabilmente un tempio.

Ancora siamo appena agli inizi della ricerca, così come adesso sappiamo ancora ben poco delle antiche popolazioni che
avrebbero abitato Doggerland. E’ certo tuttavia che molti capitoli importanti della nostra storia remota sono ancora tutti da
scrivere.

Una Ahnenerbe casalinga – Ventesima parte –

Fino a qualche tempo fa, sarebbe sembrato un obiettivo difficile da raggiungere in questa nostra ricerca delle origini, anche
perché questa rubrica (permettetemi di considerarla tale) non è la sola in cui mi sono occupato del tema della ricerca delle
origini, della nostra eredità ancestrale come mezzo per comprendere chi veramente siamo, a dispetto di quel che vogliono
“democraticamente” farci diventare; forse è il caso di ricordare anche una serie di saggi più specifici che hanno trovato
spazio sulle pagine di “Ereticamente”: “Ex oriente lux” innanzi tutto, ampia confutazione della leggenda dell’origine della
civiltà da oriente, in particolare dall’area mediorientale secondo le favole che la storia ufficiale si ostina a raccontare,
mentre in realtà dal mondo mediorientale-semitico non sono venuti all’Europa altro che fermenti di decadenza, il
cristianesimo in primis.

Poi qualche altro scritto senz’altro meno corposo, “L’origine degli indoeuropei” in cui abbiamo visto l’inconsistenza
dell’altra leggenda che vorrebbe declassare i nostri antenati da conquistatori e guerrieri delle steppe a pacifici agricoltori di
origine (guarda un po’ la coincidenza!) mediorientale, e “Sull’orlo della storia” dove abbiamo cercato di vedere più da
vicino i popoli e le culture antiche che la leggenda dell’origine mediorientale della civiltà lascia nell’ombra, confina in una
sorta di terra di nessuno: gli Etruschi prima di tutti, ma anche Traci e Sarmati. Insomma, e non credo sia presuntuoso dirlo,
un bel po’ di lavoro, un lungo viaggio che abbiamo fatto assieme.

Bene, a questo punto, è forse sorprendente che vi siano ancora cose da dire e novità da registrare, eppure è così.
Ultimamente, un nostro buon amico, l’ottimo Joe Fallisi (e sono sempre lieto di dare il giusto riconoscimento agli amici che
mi hanno aiutato e mi auguro continueranno ad aiutarmi in questo percorso, come il nostro Joe e l’altro ottimo amico Luigi
Leonini, il cui lavoro poco appariscente merita i più ampi elogi) mi ha segnalato un articolo per la verità non recentissimo,
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risalente al febbraio 2014, e apparso (in inglese e non tradotto in italiano) sulla rivista on line di informazioni scientifiche
“Scirp.org Journal” (www.scirp.org.). L’articolo, a firma del genetista russo Anatole A. Klysov s’intitola (traduzione mia)
Riesame della teoria Out of Africa, non sufficientemente provata.

Si tratta di una questione della quale ci siamo già occupati, ma sarà utile un breve riepilogo. Io penso che non la si possa
neppure chiamare una teoria, ma piuttosto una FAVOLA PROPAGANDISTICA che è stata imposta come ortodossia
scientifica dal sistema democratico, l’Out of Africa, spesso citata in sigla, OOA, è una tesi che pretenderebbe di far risalire
l’origine della nostra specie a una migrazione proveniente dall’Africa poche decine di migliaia di anni fa. Tutti noi in
sostanza saremmo dei neri “sbiancati” (o “ingialliti” nel caso degli asiatici). Questa concezione, assolutamente priva di
riscontri fattuali, di prove vuoi paleoantropologiche, vuoi archeologiche, vuoi genetiche, è stata IMPOSTA per distruggere
il concetto stesso di razza.

Notiamo subito uno scivolamento concettuale, accorgersi del quale è un fatto della massima importanza: il concetto di
“razzismo” è stato spostato dall’affermazione della superiorità di una razza sulle altre, alla semplice constatazione che le
razze esistono. In pratica, se ti accorgi che un immigrato africano ha la pelle più scura della tua, sei un abominevole
complice della Shoah, con tutte le implicazioni emotive che seguono. Siamo, è chiaro nella patologia del pensiero, ma in
ultima analisi, patologia e democrazia sono la stessa cosa, e oggi non esiste un veleno più potente, un acido più corrosivo
della democrazia per distruggere la libertà di pensiero.

Oggi in campo scientifico assistiamo a una sorta di guerra fredda a parti invertite. Laddove i ricercatori russi non sono
vincolati da un’ortodossia e possono esprimersi liberamente, quelli statunitensi devono per forza sostenere un’ortodossia
decisa a priori e indipendentemente dai dati di fatto, pena lo stroncamento delle loro carriere o peggio (ricordiamo Arthur
Jensen che, dopo la pubblicazione delle sue ricerche sulla differenza di Q. I. fra bianchi e neri americani, ha subito vari
attentati. Nei “liberi” USA, dire la verità può costare la vita). Se poi vogliamo capire chi decide ciò che è scientificamente
ortodosso negli USA e, attraverso gli USA impone questa ortodossia al mondo intero, forse sarà il caso di ricordare che
l’élite intellettuale americana è composta principalmente da persone col naso voluminoso e piuttosto circoncise che non
battezzate.

Bene, Klysov e colleghi se n’erano già occupati, i dati genetici SMENTISCONO l’OOA. Sebbene le prove genetiche non
vadano in questa direzione, l’Africa sahariana, oggi desertica, ma che decine di migliaia di anni fa, durante l’età glaciale era
una terra fertile, non può essere esclusa come luogo di provenienza dell’homo sapiens, ma questo non significa che la sua
origine abbia a che fare con i neri subsahariani che invece rappresenterebbero il risultato di una specializzazione ambientale
piuttosto tarda. In fin dei conti, per fare un paragone, Cleopatra, Annibale, John R. R. Tolkien, Giuseppe Ungaretti, sono
nati in Africa, e questo non significa che fossero neri.

L’OOA si appoggia su di un equivoco deliberato, la tendenza a confondere la questione dell’origine RECENTE della nostra
specie con quella, completamente diversa, dell’origine REMOTA degli ominidi primitivi, approfittando del fatto che
l’uomo della strada, poco capace di orientarsi coi numeri e gli ordini di grandezza, può facilmente confondere tra i milioni e
le decine di migliaia di anni.

Riparlare delle smentite portate dalla ricerca genetica all’OOA è quanto mai opportuno, o almeno lo sarebbe se il
ragionamento riuscisse per una volta a prevalere sul clamore mediatico, dal momento che la confusione tra la questione
dell’origine della nostra specie e quella degli ominidi primitivi, non può essere che aumentata dalla notizia del ritrovamento
avvenuto poco tempo fa in una grotta sudafricana dei resti di un ominide o di un gruppo di ominidi che è stato battezzato
“uomo di Naledi”. Che senso ha parlare di “uomo” a proposito di un ominide di quasi 3 milioni di anni fa, più primitivo del
pitecantropo (uomo di Giava) e del sinantropo (uomo di Pechino) e che, a quanto è dato da capire dalle foto dei reperti
ossei, ben poco o nulla si distingue dagli australopitechi già conosciuti? Nessuno, tranne forse il fatto di voler creare agli
occhi dell’uomo comune digiuno di scienza, una fraudolenta “prova” a favore dell’OOA.

Qualche volta il dio delle coincidenze fa gli straordinari. Questo messaggio di Joe Fallisi mi è arrivato domenica 13
settembre stranamente assieme ad altri due, uno di Alessandro Mezzano, l’altro di Luigi Leonini.

Le questioni sollevate dai nostri due amici non riguardano in senso stretto il tema delle origini, ma è chiaro che se noi non
abbiamo per l’argomento un interesse di tipo erudito, ma lo vediamo come punto di inizio e parte di un cammino che arriva
fino a noi ed è destinato a oltrepassarci, allora si comprende che si tratta di argomenti ampiamente collegati alla nostra
tematica: il destino della nostra specie, dove le vicende politiche in ultima analisi non sono altro che una parte e uno
strumento del divenire biologico.
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Alessandro Mezzano si pone una domanda che, io penso, dovrebbe interessare tutti noi, ed è il titolo del suo scritto: A chi
da fastidio l’eugenetica?

Sarà bene ricordarlo, e uso le parole del suo scritto, “L’Eugenetica è quella dottrina che auspica una selezione della specie
umana attraverso la sterilizzazione dei tarati, degli handicappati mentali, dei pedofili, degli assassini violenti, di coloro con
un quoziente d’intelligenza al di sotto del minimo, insomma di tutti coloro che, per la legge naturale della ereditarietà,
hanno alta probabilità di procreare figli tarati. (…) Lo scopo è quello di realizzare, nel corso di una trentina di generazioni,
una selezione positiva di qualità e di migliorare così la specie umana”.Calabrese 2

Sarà bene ricordare che tutto ciò non rappresenta un tentativo di forzare o manipolare la natura, bensì di assecondarla e
ripristinarla, considerato il fatto che la civiltà ha messo in condizioni di sopravvivere, di arrivare all’età adulta e di
riprodursi un gran numero di individui tarati che in condizioni di vita meno artificiose di quelle in cui viviamo, la selezione
naturale avrebbe impietosamente spazzato via (qui non si parla in ogni caso di sopprimerli, e neppure di impedire loro di
avere una vita sessuale, ma unicamente di riprodursi, di mettere al mondo altri malati). Si tratta in sostanza di nulla di
diverso da quello che qualsiasi allevatore fa con i propri animali; anzi, sarebbe interessante chiedersi come mai, mentre ci
preoccupiamo tanto della salute biologica dei cani, dei cavalli, dei bovini che alleviamo, ce ne infischiamo allegramente di
quella della nostra stessa specie.
Coloro a cui non piace l’eugenetica, li conosciamo, sono i nostri nemici di sempre: cristiani, democratici e marxisti. Si può
aggiungere che, in particolare il comunismo ha condotto e conduce là dove è ancora al potere, una vera e propria politica
CACOGENETICA, cioè mirante al peggioramento anche biologico della specie umana. Se ricordate, ve ne ho parlato in
alcuni articoli precedenti a questo, dove mi sono permesso di introdurre questo neologismo. L’opera livellatrice della peste
rossa, del presunto “socialismo” con la falce e martello, infatti, non mira a eliminare soltanto le differenze sociali, ma le
superiorità di qualsiasi genere di un essere umano rispetto all’altro. Ricordavo, durante la seconda guerra mondiale,
l’eccidio di Katyn compiuto dall’armata rossa staliniana. I Sovietici non miravano solo a sottomettere col terrore la Polonia
ma, con un eccidio mirato di persone che erano andate a costituire i ranghi di ufficiali dell’esercito, a decapitarla della sua
classe intellettuale, a eliminare le teste pensanti.

Stessa cosa in tempi più vicini a noi, quell’autentico orrore degli orrori che è stata la Cambogia dei Khmer rossi. Qui furono
sistematicamente trucidate tutte le persone che portavano occhiali, sospettate per ciò stesso di essere degli intellettuali.
Vorrei aggiungere a ciò un ricordo personale. Quanto più si conosce la storia, tanto più ci si rende conto di quanto
cristianesimo e marxismo, la dottrina del “discorso della montagna” e quella del rabbino di Treviri siano simili, soprattutto
nelle loro nefandezze, orrori e vergogne. Ricordo un insegnante di religione che riuscì ad angosciarmi raccontando che gli
esperimenti di eugenetica condotti dai nazionalsocialisti avevano portato solo alla nascita di individui tarati, cosa
assolutamente non vera, ma che il “brav’uomo” avrebbe ardentemente voluto che fosse stata.
Ammesso che nel tentativo di prendere in mano il nostro destino biologico, mi chiesi, ci fosse stato qualcosa di blasfemo,
cosa si poteva pensare del senso di giustizia di un Dio che faceva pagare la colpa di ciò a dei nascituri innocenti? Allora non
conoscevo ancora la bibbia abbastanza bene per capire che il Dio veterotestamentario, il Dio della Torah gode del sangue
degli innocenti, è un Dio iroso, vendicativo e spietato, è in realtà dal punto di vista caratteriale, la fotocopia del popolo che
l’ha inventato e crede di essere il suo “eletto”.
In tutto ciò, si potrebbe vedere una sorta di riflesso condizionato. Sappiamo che cristianesimo, democrazia e marxismo sono
visioni non realistiche dell’uomo, basate sulla deliberata ignoranza o addirittura la negazione della realtà biologica della
nostra specie. I nazionalsocialisti si erano proposti un serio impegno di eugenetica, di miglioramento biologico del loro
popolo, basta questo perché i cristo-demo-marxisti per puro spirito di contraddizione, per cecità antifascista, abbiano
puntato nella direzione opposta.
Ma forse c’è dell’altro, vediamo un meccanismo ricorrente dell’antifascismo, quello che a livello di base è stupidità pura e
semplice, da parte di chi ha in mano il potere, è consapevole malafede. Alessandro Mezzano suggerisce un altro motivo
dietro l’avversione per l’eugenetica; un’umanità mediocre, anzi, quanto più di basso livello tanto meglio, è un’umanità
facilmente manipolabile da parte di coloro che detengono il potere: essa “Non piace a coloro che basano il proprio potere
sull’inganno, sulla suggestione, sul condizionamento e sulle menzogne che essi possono propinare senza il timore di essere
scoperti e smentiti a causa della mediocrità generale.
Non piace a coloro che si considerano i “pastori di un gregge umano”. Non piace a coloro che riescono a rimanere potenti,
nonostante una loro mediocrità, solamente perché la maggioranza delle persone è ancora più mediocre”.
Che dire, ineccepibile, e una tematica su cui vi invito tutti a riflettere.
Poter parlare di uno scritto di Luigi Leonini, mi dà una particolare soddisfazione, perché il nostro amico ha fatto e sta
facendo in questi anni un lavoro eccellente di raccolta e segnalazione di testi importanti, della nostra Area, del fronte

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avverso, dalle riviste scientifiche e via dicendo, ma per quanto riguarda lavori di suo pugno, è estremamente parco, anche se
tutte le volte si rivelano contributi interessanti e intelligenti.
Stavolta lo scritto di Luigi, Donne bianche e preferenza per i balordi, tratta di un tema che chi ha a cuore il nostro destino
come popolo, come cultura, come specie, non può considerare senza angoscia, un esempio potremmo dire, non marginale di
cacogenetica in questo caso spontanea.
Noi sappiamo che con il flusso umano che l’immigrazione oggi ci riversa in casa, il meticciato con gli invasori, sui grandi
numeri, è in una certa misura inevitabile, ma è abbastanza facile notare che sono soprattutto le nostre donne ad avere
rapporti, a stabilire relazioni, magari a sposarsi con uomini extracomunitari, laddove i nostri uomini sembra perlopiù nutrire
ancora nei confronti delle extracomunitarie un sano disinteresse.
Questo, se ci pensiamo è paradossale, perché tutti costoro vengono da culture che attribuiscono alla donna una posizione
infima, e non parliamo solo degli islamici: nella cultura indiana le donne sono trattate ancora peggio, un indiano ha
certamente molto più rispetto per una vacca che per sua moglie, per i bengalesi, sfregiare con l’acido una ragazza che li ha
lasciati, è un comportamento “normale”, e via dicendo. Le donne occidentali che si mettono con i “migranti” hanno una
ragionevole aspettativa di essere trattate molto peggio del cane di casa: di essere segregate, percosse, violentate, di vedersi
portare via i figli, e via dicendo, eppure frequentemente vanno a cercare disgrazie mettendosi assieme a questi energumeni,
perché?
Certamente noi possiamo pensare che, una volta date le opportune avvertenze, ognuno rimane libero di impiccarsi all’albero
che preferisce, in fondo, per la mentalità corrente, quale faccenda c’è più privata e personale di questa?
In realtà le cose non stanno così, perché quando questo diventa un fenomeno largamente diffuso, non può che andare ad
accelerare la diluizione e la scomparsa dei geni europei in mezzo alla turba dei nuovi venuti, cioè la nostra sparizione come
popoli, e di questo non ci possiamo disinteressare.
Si tratta di un fenomeno abbastanza semplice da spiegare in termini biologici: non solo nella specie umana ma, a maggior
ragione in tutto il mondo vivente, esistono comportamenti istintivi che ordinariamente sono utili ma, proprio perché istintivi
e irriflessi, in circostanze “speciali” si rivelano micidiali. Un esempio è quello dei parameci che sono attratti da un ambiente
acido, poiché è nell’acido acetico che trovano i microorganismi di cui si nutrono, solo che sono attratti con lo stesso
“entusiasmo” dall’acido solforico che li uccide. Un meccanismo che si è evoluto perché in natura le probabilità di incontrare
acido solforico sono enormemente inferiori a quelle di trovare acido acetico.
Allo stesso modo, molte donne tendono a essere attratte dai “cattivi ragazzi”, balordi i cui comportamenti aggressivi e
prepotenti rivelano l’abbondanza di testosterone, di ormone maschile.
“Molte donne sono attratte dai prepotenti in quanto vedono in essi un’energia maschile molto forte, una volontà che esce dai
loro corpi e irruma il mondo circostante. Vedono l’uomo testosteronico, laddove il bravo ragazzo gentile e collaborativo
mostra l’attitudine femminile verso cura e protezione, e dimostra la prevalenza di ossitocina, l’ormone materno.

Mentre quindi l’uomo testosteronico viene percepito come dominante e quindi istintivamente adatto a trasmettere i suoi geni
prevaricando i deboli, l’ossitocinico attrae più che altro come amico utile, ma sessualmente inferiore e quindi adatto solo
come seconda scelta, quando cioè la donna vuole “sistemarsi” e cerca il buon partito. (…) Quindi si crea una realtà in cui i
balordi, prepotenti, parassiti della società non hanno problemi ad avere una ricca vita sessuale e riproduttiva, mentre i gentili
e collaborativi si trovano ad annaspare nel vuoto e a cooperare alla cura dei bambini messi al mondo dai cattivi e dalle loro
donne”.
In circostante normali CHE NON SONO QUELLE NELLE QUALI VIVIAMO, questo meccanismo ha una sua utilità,
consente il mantenersi nella popolazione di geni che rendono gli uomini dominanti e aggressivi, e una comunità ha bisogno
di leader e di guerrieri, anche se quegli stessi geni rendono costoro inadatti a prendersi cura della famiglia e della prole, ma
per tornare all’esempio dei parameci, l’immigrazione è l’acido solforico che viene a sostituirsi all’acido acetico.
“Per la donna bianca il mandingo nero è un giocattolo sessuale (…) preferito a un bianco ormai virilmente debole e
intellettualmente complesso”.
Alla fine, il male, la ragione della nostra debolezza è la “cultura” cristiana-democratica-marxista con la sua astrattezza, la
sua negazione del dato biologico, in ultima analisi “Un razzismo inespresso la cui base non è la difesa del corpo fisico di
una stirpe, ma quella intellettuale di una civilizzazione esteriore in cui gli occidentali hanno fatto risiedere il significato
della loro esistenza”, un razzismo rivolta non contro i nuovi venuti, ma contro noi stessi.
Verrebbe voglia di concludere commentando questa penetrante analisi di Luigi Leonini con le parole che costituiscono la
chiusa dello scritto di Alessandro Mezzano; premesso che la sparizione dell’uomo europeo, la sua sostituzione con una
turba meticcia di allogeni è quanto di più cacogenetico ci possa essere, ed è voluta proprio per questo motivo, per avere un
gregge facilmente manipolabile, dagli sciacalli che attualmente reggono le sorti del mondo (piano Kalergi), noi
combatteremo questa sinistra tendenza con tutte le nostre forze; per ora, in mancanza di altri strumenti, con la parola e
l’informazione, consci di difendere non solo l’avvenire dei nostri popoli, ma la salute della specie umana.
“Noi lotteremo per il trionfo della nostra idea, per un migliore avvenire e per un’umanità più sana, più integra, più
UMANA..!!”
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Una piccola nota riguardo all’ “immagine di copertina di questo articolo. Avevo pensato di usare una ricostruzione dell’
“uomo di Naledi”, ma si tratta di un bruto dall’aspetto davvero poco accattivante; eccovi quindi invece un’immagine del
complesso templare anatolico di Gobeckli Tepe di cui abbiamo parlato la volta scorsa.

Una Ahnenerbe casalinga – Ventunesima parte – Fabio Calabrese

Riprendiamo il nostro discorso sulle origini. Forse è il caso di ripartire da una precisazione che sembrerà ovvia: questa
Ahnenerbe non ha a sua disposizione i mezzi che aveva la Ahnenerbe del Terzo Reich, è un lavoro fatto non solamente da
un’unica persona, ma una persona che per gran parte del tempo deve dedicarsi ad altre cose per procurarsi i mezzi per
sopravvivere e mantenere la propria famiglia. Si tratta di un lavoro, come è facile da capire, molto vincolato a quel che
fornisce il web; eppure, scavando con attenzione, come abbiamo visto, quel che salta fuori è davvero notevole, e ogni volta
si aggiunge nuovo materiale. Ars longa, vita brevis, dicevano gli antichi: la vita umana è necessariamente limitata nello
spazio e nel tempo, mentre il cammino della conoscenza sembra non avere mai fine, e la conoscenza di noi stessi sembra
non essere un argomento più facile dello studio delle particelle elementari o delle lontane galassie. Ci rimettiamo quindi
all’opera con umiltà, ma anche con volontà e la speranza di raggiungere risultati significativi che non siano pura erudizione
ma ci aiutino a orizzontarci nel tempo presente.
Cominciamo con il citare una ricerca molto interessante pubblicata da Francesco Tartarini nel gruppo facebook “Etnografia,
glottologia, genetica ed europeistica” in data 27 settembre 2015. Una ricerca, lo dico subito, che a mio parere meriterebbe di
essere pubblicata non su un gruppo facebook, ma su di una rivista scientifica di prestigio (questo sempre nell’ipotesi che
certi argomenti fossero posti nella giusta luce invece di essere più o meno tabù, cioè se non vivessimo in una democrazia
che vuole la gente sempre più ignorante e incapace di pensare): sembrerebbe esistere una forte correlazione fra gli
aplogruppi umani e i gruppi linguistici.
Gli aplogruppi sono i diversi gruppi umani caratterizzati ciascuno da una propria mutazione del DNA del cromosoma Y.
E’ forse il caso di ricordare che, dato che il genoma umano è enormemente complesso, come quello di quasi tutti gli esseri
viventi eccetto i batteri, i ricercatori preferiscono studiare gli aplogruppi del cromosoma Y che si trasmette esclusivamente
per via paterna oppure il DNA mitocondriale che si trasmette esclusivamente per via materna.
Un altro concetto importante da tenere presente è quello di gradiente. Se noi prendiamo un qualsiasi gruppo umano
abbastanza ampio, vi troveremo un campionario praticamente di tutto il genoma umano, ed è di ciò che gli “studiosi”
democratici e antifascisti (che per la verità trovano solo quello che cercano) si servono per negare l’esistenza delle razze, ma
noi dobbiamo appunto tenere presente il concetto di gradiente, cioè la differenza di diffusione di un dato gene o carattere
nelle diverse comunità umane: se un dato gene è diffuso nel 99% della popolazione A e presente solo nell’1% della
popolazione B, è legittimo dire che è tipico della popolazione A.
L’elenco delle correlazioni fra aplogruppi e gruppi linguistici tracciato da Tartarini è impressionante: L’aplogruppo N
corrisponde alle lingue del ceppo uralico, quello H alle lingue dravidiche (India meridionale), HG Q all’amerindio
(Americhe), HG G al khartvelico (Anatolia, Caucaso), HG J all’afroasiatico (popolazioni semitiche e camitiche) e
l’aplogruppo R alla diffusione delle lingue indoeuropee (fra le varie mappe riportate, riprendo nell’intestazione di questo
articolo quella relativa all’aplogruppo R indoeuropeo). L’elenco non è completo, infatti non ci dice nulla dell’estremo
oriente né degli aborigeni australiani, tuttavia per quanto riguarda gli esempi portati, estremamente persuasivo.
Cosa significa questa evidente correlazione tra aplogruppi e gruppi linguistici? Se vi ricordate, vi avevo già accennato a
un’ammissione di Luigi Luca Cavalli Sforza circa la “sorprendente” somiglianza tra l’albero genealogico delle lingue
umane e quello costruito sulla base della genetica.
Perché sorprendente? Questo ci apre uno spiraglio sulla mentalità democratica, sul suo “pensare” le culture su un’assenza di
correlazione fra cultura e genetica, con il genoma sparso a casaccio in tutte le culture umane che dipenderebbero
esclusivamente da fattori genetici-acquisiti; un’assurda aspettativa di multietnicità di tutte le società umane, viste secondo il
“modello” oggi rappresentato dagli USA e di ciò che vogliono far diventare l’Europa, salvo ammettere a malincuore che le
cose non sono così, salvo dover ammettere che “Etnia e razza sono praticamente la stessa cosa” (la frase è sempre di Cavalli
Sforza), il che ci permette di buttare senza problemi nel bidone delle immondizie che meritano, decenni di speculazioni dell’
“antropologia culturale” di Claude Levi Strauss e discepoli, intesa a persuaderci che l’etnia dipende esclusivamente da
fattori culturali-ambientali-acquisiti e non ha nulla a che fare con genetica e razza.
Come si spiega questa coincidenza fra lingua e affinità/differenza genetica? E’ probabile che la differenza linguistica fra due
comunità umane geograficamente vicine costituisca un ostacolo allo scambio genetico come se si trattasse di un ostacolo
fisico (il che non significa, ovviamente, un impedimento totale), e questo è in ultima analisi il motivo per cui la lingua è un
buon indicatore – non assoluto, però – della nazionalità.
Qui vediamo l’influenza di un fattore culturale, la lingua, sulla genetica. All’errore dei democratici e antifascisti che
vorrebbero negare ogni importanza alla genetica, ai fattori ereditari, noi non dobbiamo reagire, io penso, con l’errore
opposto e simmetrico di negare ogni importanza alla cultura, anche se a volte la tentazione sarebbe forte, ma con
l’obiettività e l’intelligenza.
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Ciò che fa di noi ciò che noi siamo, è un equilibrio di fattori genetici, culturali e ambientali o, detto in altre parole
SANGUE, SUOLO E SPIRITO, più che il semplice dato biologico inteso in senso materialistico, anche se rimane prioritaria
l’eredità genetica, il “buon sangue” che “non mente”. Tutte le società del passato sono state caratterizzate dall’equilibrio fra
eredità biologica, “ghenos”, cultura e collocazione geografica, sangue, suolo e spirito, ed è precisamente questo equilibrio,
questa armonia che la moderna democrazia (DEMONIOcrazia l’ha definita qualcuno) cosmopolita e mondialista sta
distruggendo per lasciare un mondo di sradicati ridotti al livello animico e alla consapevolezza di sé più bassi possibile.
Noi oggi stiamo subendo le conseguenze della vittoria della democrazia, cioè del TRIONFO DEL MALE nella seconda
guerra mondiale, conseguenze che il lungo stallo della Guerra Fredda ha tenute in sospeso per mezzo secolo, con il potere
mondialista che favorisce e IMPONE l’immigrazione al preciso scopo di cancellare i popoli europei, perché deve essere
chiaro che nel 1945 non è stata sconfitta l’Asse ma l’Europa, comprese le potenze europee uscite teoricamente vincitrici.
LA PROPAGANDA DI REGIME della democrazia, votata alla distruzione dei popoli che la subiscono e dove la cosiddetta
libertà di espressione è una menzogna ridicola, fa di tutto per “indorare la pillola”, per persuaderci alla rassegnazione al
destino di morte che ci hanno preparato. Un articolo de “Il primato nazionale” del 17 settembre fa il punto su quello che
possiamo chiamare il RAZZISMO DI REGIME, inteso a non soltanto a indurci a uno spirito di rassegnazione, ma a
convincerci della desiderabilità della nostra sparizione come etnia attraverso il meticciato, presentando i cosiddetti migranti
come la nuova “razza superiore”; questo testo fa riferimento a un pezzo de “L’Espresso” (e te pareva!) intitolato I figli degli
immigrati? Tra i più bravi a scuola! Questa idiozia di regime, a sua volta fa riferimento a una “ricerca” della fondazione
ISMU, “Istituto per lo Studio della Multietnicità”, e già pensare che una fondazione siffatta non sia affetta da pregiudizi
xenofili equivale all’aspettativa di vedere gli asini spiccare il volo.
Disgrazia vuole che io sia un insegnante e la situazione della nostra scuola la conosca molto bene, lavorando per di più in
una scuola con un’alta percentuale di figli di immigrati. “Immigrati”, naturalmente, è un termine molto generico. La mia
esperienza mi ha permesso di constatare che ragazzi di origine polacca, ucraina o serba, una volta superato l’ostacolo della
lingua, in genere, si inseriscono senza problemi e hanno rendimenti scolastici in linea con quelli dei loro coetanei italiani. Al
contrario, neri, colombiani, magrebini sono REGOLARMENTE soggetti problematici, sia per il profitto sia per la
disciplina; frequentemente sono portatori di ritardo mentale, dislessia o (la nuova grande trovata del nostro ministero della
pubblica istruzione) affetti da BES (Bisogni Educativi Speciali), hanno quindi accesso a una corsia privilegiata che permette
loro l’accesso senza sforzo al diploma o all’attestato di frequenza. Figli di immigrati, adottati o anche figli di coppie miste,
in genere non fa molta differenza.
In più, c’è quello che io chiamerei l’effetto Prentice, con riferimento al dottor Prentice, il personaggio di colore di Indovina
chi viene a cena, che confessa candidamente il fatto di essere stato molto aiutato nella sua carriera, di essere stato
costantemente sopravvalutato per il fatto che tantissime persone si erano astenute dal pronunciare giudizi negativi su di lui
per la paura di sembrare razziste, un effetto Prentice che nella scuola italiana SUCCUBE DELLA SINISTRA risulta
particolarmente amplificato. Si tratta, in sostanza di una forma di RAZZISMO ANTI-BIANCO.
Ecco spiegata la deformazione statistica che sta alla base dei dati della “ricerca” dell’ISMU, che in effetti danno un quadro
che è l’esatto contrario della realtà.
Altre statistiche provenienti da fonti meno prevenute ci danno un quadro ben diverso: il 50% di tutti i reati che avvengono
in Italia sono commessi da immigrati, e dato che costoro costituiscono attualmente circa il 5% della popolazione residente,
questo vuol dire una propensione a delinquere dieci volte maggiore rispetto agli Italiani nativi. Parliamo di alcune categorie
di reati. Gli extracomunitari sono responsabili dell’80% degli stupri, e non parliamo dello spaccio di stupefacenti, dove
detengono un monopolio quasi assoluto.
A smentire le FARNETICAZIONI DI REGIME riprese da altri organi di disinformazione, (“La Stampa” dopo “l’Espresso”
secondo la prassi dittatoriale della nostra sedicente democrazia), nemmeno a farlo apposta, il giorno dopo, 18 settembre,
pubblicata su “Riscatto nazionale” è arrivata una ricerca dell’associazione tedesca di psichiatria “Dietrich Munz” che rivela
che il 40% degli immigrati soffre di turbe psichiche che possono indurre a comportamenti violenti (vi ricordate di Kabobo?
Non è stato e non sarà il solo).
In compenso, c’è almeno una categoria di reati che è esclusivamente nostra e che gli extracomunitari non commetteranno
mai, i reati di opinione, perché in un sistema oppressivo come la nostra cosiddetta democrazia, DIRE LA VERITA’ E’ UN
REATO.
Parliamo di un ordine di fatti che a prima vista può sembrare lontano da tutto ciò. Voi probabilmente saprete che negli
ultimi anni si sono moltiplicati gli studi intesi a collegare certi comportamenti a determinate aree del cervello, creando una
serie di connessioni sempre più dirette fra psicologia e fisiologia del sistema nervoso centrale. Proprio ultimamente, uno dei
miei corrispondenti (a cui devo sempre riconoscere un grande merito, perché senza di loro questa rubrica probabilmente non
esisterebbe) mi ha segnalato un articolo apparso su VoxNews in data 27 agosto, Una spiegazione biologica al buonismo, che
riferisce di una ricerca condotta dalla dottoressa Shelley Taylor dell’Università di Los Angeles.
La capacità di distinguere gli appartenenti al nostro gruppo, “i nostri” dagli estranei, verso i quali è sempre bene mantenere
la diffidenza perché potrebbero essere anche malintenzionati, è un carattere essenziale per la sopravvivenza che si è evoluto
nella specie umana. La ricerca della dottoressa Taylor collega questa capacità con un’area del cervello nota come insula
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anteriore. Quest’area tende a degenerare negli anziani, e questo potrebbe darci una spiegazione biologica dal fatto che le
persone anziane tendono così facilmente a essere vittime di truffe da parte di malintenzionati che riescono a carpire la loro
fiducia con raggiri di varia natura.
Questo però non è tutto: esiste una vera e propria patologia psichiatrica, la sindrome di Willis, nella quale si verificherebbe
una degenerazione precoce dell’insula anteriore. Le persone che ne sono affette sono incapaci di distinguere i familiari dagli
estranei. Le cause di questa sindrome non sono chiare, ma sembra che possano essere ricondotte alla diffusione
nell’ambiente dei pesticidi e/o all’inquinamento elettromagnetico.
Il buonismo esasperato di tanti sinistrorsi, non solo l’incapacità di distinguere fra “i nostri” e gli stranieri, ma la preferenza
accordata a questi ultimi a discapito dei propri connazionali, potrebbe essere una variante della sindrome di Willis.
L’articolo presenta un accattivante raffronto fra le caratteristiche fisiognomiche tipiche della sindrome e quelle di un noto
esponente xenofilo. Si tratta di una spiegazione degna di interesse ma sulla quale non giurerei. In ogni caso, il risultato non
cambia. Che l’esasperata xenofilia che caratterizza i democratici-cristiani-marxisti-antifascisti sia dovuta a una patologia
psichiatrica connessa a una degenerazione cerebrale, o sia esclusivamente il risultato delle lenti deformanti culturali
cristiane e marxiste, siamo ugualmente nel campo della patologia del pensiero.
A noi, in ogni caso, che sappiamo bene che dalle predicazioni bugiarde del “Discorso della Montagna” e del rabbino di
Treviri (in arte Karl Marx) non possono scaturire altro che disastri, spetta l’onere di difendere il futuro nostro e dei nostri
figli e nipoti.
In questi giorni, precisamente il 9 ottobre, il nostro infaticabile Luigi Leonini mi segnala un articolo di Maurizio Blondet
anch’esso riguardante la genetica, pubblicato il 13 gennaio 2014 sul sito Effe DiEffe: Nel DNA c’è una seconda lingua
(fermate Monsanto).
La scoperta è importante ma forse non così sorprendente come sembrerebbe a prima vista, da molto tempo si sospettava che
esistesse, per così dire, un doppio livello nel DNA: tutte le cellule di un organismo hanno lo stesso DNA che decide se
questo organismo è un uomo o una cavalletta, una primula o una sequoia, ma ci dev’essere oltre a ciò “qualcos’altro” che
dice ad alcune cellule embrionali di diventare ossa, muscoli, pelle, polmoni o cervello, oppure tronco, radici, foglie, a
seconda della specie.
Ora, sembra che questo “secondo livello”, i geni che regolano il funzionamento degli altri geni, sia stato individuato da un
team di genetisti della University of Washington guidato dal professor John Stamatoyannopulos che ha commentato
“Adesso sappiamo che quando leggevamo il genoma umano, ci perdevamo la metà del testo”.
Naturalmente, quel che interessa di più a Blondet (e a noi) non è tanto il dato strettamente scientifico, quanto le implicazioni
socio-politiche che sottintende. Per prima cosa, un punto su cui Blondet ha pienamente ragione è il fatto che finora la
complessità del DNA è stata enormemente sottovalutata, e coloro che si dedicano a manipolarlo nel finora lucroso esercizio
dell’ingegneria genetica al servizio delle grosse multinazionali come Monsanto, sono apprendisti stregoni che giocano col
fuoco, e potrebbero mettere in pericolo la vita su questo pianeta.
E’ tuttavia il solito discorso di sempre su Blondet; riesce a essere estremamente persuasivo finché non spunta fuori il
cattolico creazionista; ovviamente, la scoperta viene usata per avanzare dubbi sulla teoria dell’evoluzione perché il DNA
sarebbe “troppo complesso”, un vestito nuovo per un vecchio argomento che non tiene conto dell’effetto di miliardi di anni
di selezione su innumerevoli miliardi di esistenze, quanto basta per spiegare qualsiasi complessità del vivente. Alla base c’è
l’errore di ritenere l’evoluzionismo una cosa “di sinistra” come “i compagni” hanno sempre cercato di farci credere. Di
sinistra il concetto di selezione? Di sinistra la tendenza a preservare nelle generazioni future Il PROPRIO genoma in
competizione con altri? Ma questo è l’esatto contrario di quel che la sinistra da sempre predica e vuol farci credere!
Da parte nostra si è sempre rimproverato ai “compagni” di accettare il darwinismo biologico e non quello sociale, ma
accettare il darwinismo sociale e non quello biologico, l’inevitabile base naturalistica su cui esso si fonda, è un’incoerenza
ancora maggiore.

Ancora più alla base, proprio al fondo di questo errore, c’è una menzogna raccontata dallo stesso Marx e da tutti accettata
acriticamente, che il suo pseudo-socialismo, la concezione di sinistra sia “scientifica”; da qui la tendenza da parte nostra a
reagire facendo appello a spiritualismi, vuoi cristiani, vuoi esoterici (magari l’islam come “ultima ratio”: Guenon, Mutti e
Buttafuoco insegnano). Bene, è precisamente questo l’errore o la mistificazione. L’abbiamo visto più volte: dalla leggenda
rousseauiana del “buon selvaggio” alla psicanalisi, all’antropologia culturale, e ovviamente il marxismo stesso, la “scienza
si sinistra” di scientifico non ha niente, è solo fuffa, fumo negli occhi. Ci sono due fantasmi che percorrono la scienza
biologica e che la sinistra non riesce a esorcizzare, quelli di Konrad Lorenz e di Robert Ardrey, la dura lezione della lotta
per la vita, che è l’esatto contrario del buonismo sinistrorso, mentre è proprio quest’ultimo come inevitabile nemesi, a
portare ai massacri della Vandea e ai gulag.
C’è anche un terzo fantasma, fuori dal campo scientifico ma che è ancora più difficile da esorcizzare e più coriaceo: è
insensato negare il fatto della trasformazione delle specie viventi nel tempo, ma appiccicarci un giudizio di valore per cui
essa debba necessariamente essere concepita come miglioramento, la confusione fra conoscenza ed etica, è un tipo vizio
abramitico. La comparsa nel vivente di forme man mano più complesse, può ugualmente bene essere interpretata come il
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decadere sul piano materiale di forme superiori. Si, stiamo parlando proprio di lui, il barone Julius Evola, con cui dobbiamo
fare i conti, e la fine del computo non uscirà di certo a favore del pensiero cristiano, o islamico, o abramitico in una
qualsiasi forma

Una Ahnenerbe casalinga, ventiduesima parte – Fabio Calabrese


www.ereticamente.net/2015/12/una-ahnenerbe-casalinga-ventiduesima-parte-fabio-calabrese.html

Torniamo alla nostra tematica delle origini che ultimamente abbiamo lasciato da parte per affrontare un argomento non
meno importante, quello dell’intelligenza. Vale la pena di ribadire che questo tema è in ogni caso strettamente connesso al
primo, non soltanto perché ci ha permesso di confutare una volta di più la leggenda della “luce da oriente”, ma perché è
emersa in tutta chiarezza la componente genetica dell’intelligenza, a dispetto della favola democratico-sinistrorsa che
vorrebbe vedervi soltanto l’effetto di fattori ambientali. Per dirla con i nostri vecchi, “buon sangue non mente”.
Io non vorrei che nessuno pensasse a un’insensibilità da parte mia se non ho ritenuto opportuno dedicare un articolo
specifico alla strage di metà novembre avvenuta a Parigi ad opera di fondamentalisti islamici. Cosa si debba pensare
sull’islam l’ho detto e ridetto, sui miei scritti già pubblicati su “Ereticamente” trovate tutti gli elementi per farvi un’idea in
proposito, nonché sui pericoli a cui ci espone il buonismo democratico-cristiano-sinistrorso che è prima di tutto una forma
profonda e radicata di vigliaccheria, pericoli che sono solo la punta di un iceberg, i momenti di frizione violenta di un
processo che si vorrebbe indolore, e nelle “buone” intenzioni dei buonisti di cui sopra, dovrebbe portare alla sostituzione dei
popoli europei con masse allogene. In questa prospettiva, fra allogeni “buoni”, “moderati”, “integrati” e allogeni “cattivi”
non c’è in fondo nessuna differenza. Gli uni e gli altri sono cellule di non-Europa che proliferano nel nostro tessuto civile
come un cancro.
Semmai, non si può non notare nella sensibilità dell’opinione pubblica (costruita ad arte dal sistema mediatico) una “strana”
asimmetria: cento morti causati in Francia da un commando fondamentalista islamico, provocano lo sconcerto mondiale;
mille morti provocati da un raid israeliano in Cisgiordania o a Gaza, compresi donne e bambini, beh, di quelli non importa
niente a nessuno. Potenza congiunta del plagio mediatico mondiale e della pedagogia olocaustica che rende tutto quello che
fanno gli assassini circoncisi impunito e lecito.
Torniamo dunque a vedere cosa c’è di nuovo SUL FRONTE della tematica delle origini; sottolineo sul fronte perché, come
ben sappiamo, anche a questo riguardo non si tratta di una curiosità erudita e accademica, ma di una vera e propria battaglia
culturale, perché dall’idea delle nostre origini dipende l’idea che abbiamo di noi stessi, e le idee correnti al riguardo non
hanno nulla di scientifico ma sono pura ideologia, propaganda del regime democratico: veniamo tutti dall’Africa, le razze
non esistono, gli uomini sono tutti uguali, il sistema democratico garantisce la libertà, Babbo Natale esiste e gli asini volano.
Tempo addietro, un mio conoscente ha postato su facebook un brano scannerizzato da un testo rivolto ai pargoli delle scuole
medie, che evidenziava sia la radicale falsità della propaganda democratica e antirazzista, sia la precocità
dell’indottrinamento a cui i nostri figli sono sottoposti. In esso si sosteneva la non esistenza delle razze e si spiegava che
“Due vicini di casa possono essere geneticamente più distanti di due persone che vivono ai capi opposti del mondo”. Oh,
certo, è senz’altro così se i due vicini abitano a New York e uno dei due è un afroamericano e l’altro un immigrato di
origine scandinava.
Io spero che adesso mi scuserete se devo citare (a memoria) un post di cui non ho conservato i riferimenti; colpa del fatto di
riprendere questa tematica dopo un ampio intervallo di tempo e anche del fatto che lì per lì non ho prestato attenzione
all’interesse che può rivestire la cosa; in fondo, le origini degli Africani ci interessano meno delle nostre, tuttavia penso che
ricorderete che la notizia era circolata sulla stampa un paio di mesi fa: è stato analizzato il DNA proveniente da uno
scheletro umano ritrovato in una caverna etiopica e risalente a circa 40.000 anni fa. E’ emerso il fatto che questo individuo
presentava una somiglianza relativamente scarsa con gli attuali abitanti della regione, che invece sarebbero il frutto di
un’ibridazione tra le popolazioni locali e una migrazione proveniente dal lato opposto del Mediterraneo, dall’Eurasia o
dall’Europa. Un tipo umano eurasiatico a cui sembrerebbe che la popolazione attuale più vicina siano i sardi (a parte –
suppongo – i fenomeni di deriva genetica e di riduzione di taglia connessi con l’insularità).

E’ una conferma della constatazione visuale del fatto che Etiopi e Somali presentano spesso lineamenti meno “africani”
degli altri abitanti dell’Africa al disotto del Sahara.
MA GUARDATE CHE STRANO! Queste popolazioni del Corno d’Africa sono gli unici subsahariani che abbiano mai dato
vita prima dell’arrivo dei coloni europei a una società in qualche modo organizzata, a un’organizzazione statale, a
manifestazioni artistiche non puerili, e ora abbiamo la prova provata che NON SI TRATTA DI NERI PURI!
L’articolo, e mi dispiace più che mai di aver perso i riferimenti, diceva che in questo caso l’antica migrazione che avrebbe
dato origine alle popolazioni etiopi attuali sarebbe avvenuta “in senso inverso”. In senso inverso rispetto a che cosa? Ma è
chiaro, qui rispunta surrettiziamente, presentata come qualcosa di talmente ovvio che non vale la pena di parlarne, la tesi
dell’OOA, dell’Out Of Africa, dell’origine africana della nostra specie. Negli ambienti “scientifici” ufficiali essa è “la

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verità” ortodossa, anche se in realtà non è suffragata da nulla se non dalla deliberata confusione tra la questione dell’origine
dell’uomo moderno e quella degli antichi ominidi di milioni di anni or sono.
Naturalmente, ciò che rende questa tesi che si vorrebbe imporre a tutti i costi come l’ortodossia scientifica, è il bel “buco”
temporale che c’è fra gli ominidi di tre-quattro milioni di anni fa, e l’uomo anatomicamente moderno che risale
probabilmente a 70-100.000 anni fa, forse qualcosa di più, ma sicuramente non oltre i 200.000. Ecco allora la trovata, la
“genialata” di qualcuno: promuovere a “uomo” il prossimo australopiteco i cui resti dovessero emergere da una qualsiasi
grotta africana, meglio se lo si potesse collocare intorno ai due milioni di anni, cioè proprio in mezzo al “buco”.
L’operazione è scattata con il cosiddetto “uomo” di Naledi; in realtà l’ennesimo bruto scimmiesco emerso dal suolo
africano.
“Se avete la necessità di far credere una bugia, ditene a suo sostegno una più grossa, nessuno penserà che osiate mentire
fino a quel punto”. Vi ricorda qualcosa?
In realtà, se parliamo della nostra specie, dell’uomo anatomicamente moderno, dell’homo sapiens, non solo non c’è nessuna
prova di un’origine africana, ma c’è una forte evidenza del contrario. Quale che sia l’origine ancestrale degli ominidi, “noi”
siamo nati in Eurasia.
E’ bene ricordare, in ogni caso, ma le informazioni che possediamo suggeriscono piuttosto l’origine eurasiatica, che
“origine africana” non significherebbe in ogni caso che “veniamo dai neri” con il corollario dell’inesistenza del ceppo
umano caucasico (a cui tende l’abilmente orchestrata propaganda di regime spacciata per scienza); il ceppo dei nostri
antenati potrebbe per ipotesi anche essersi formato nell’Africa sahariana oggi desertica ma un tempo fertile e rigogliosa,
senza nessun apporto da parte di quello nero che invece è con ogni verosimiglianza frutto di un adattamento relativamente
tardo, ma allo stato dei fatti, è un’ipotesi che non c’è motivo di formulare.
In data 14 ottobre, una mia corrispondente mi ha segnalato un articolo apparso il 13 maggio sulla versione on line del
“Corriere della sera”, che a sua volta riprende un pezzo pubblicato (in data non specificata) su “Nature Communications”;
esso riferisce di una ricerca condotta da un team dell’Università di Seattle coordinato dal professor George
Stamatoyannopulos (forse non è un caso che questo ricercatore sia di origine greca, come fa ben capire il cognome) sul
DNA dei resti estratti da sepolture cretesi risalenti a circa 3.700 anni fa ritrovate in una grotta dell’altopiano di Lassithi,
quindi appartenenti al periodo minoico.
In passato, diversi studiosi avevano supposto un’origine africana delle popolazioni minoiche, basandosi per la verità su
nulla di più di una superficiale somiglianza fra l’arte minoica e quella egizia (magari resterebbe da vedere chi può aver
influenzato chi, una volta che l’origine mediorientale della civiltà non sia più ciecamente accettata come un dogma).
Bene, il responso dell’analisi del DNA è estremamente chiaro: i minoici, oltre a presentare una stretta affinità con i cretesi
attuali, erano inequivocabilmente europei; il loro genoma non mostra somiglianze con quello di popolazioni africane o
mediorientali, ed è invece affine a quello delle popolazioni dell’Europa occidentale e settentrionale, della Penisola iberica e
della Sardegna.
In questo caso, probabilmente, dato che gli Egizi possono essere considerati sia africani sia mediorientali, la leggenda
dell’OOA viene a sovrapporsi a quella dell’origine mediorientale della civiltà, leggenda che, l’abbiamo visto altre volte
(“Ex oriente lux”) nasce dallo scambiare la narrazione biblica per resoconto storico e addirittura storia del mondo, mentre si
tratta solo di una raccolta di favole per di più radicalmente estranee alla nostra cultura profonda le cui radici sono
indoeuropee. Bene, una volta di più, questa ricerca le smentisce entrambe.
Un particolare grottesco: L’articolo del “Corriere” titola “I minoici venivano dall’Africa”, quando il testo dimostra
esattamente il contrario. Lapsus freudiano generato dalla voglia di dimostrare l’indimostrabile, o stratagemma calcolato per
ribadire comunque la favola africana, dal momento che c’è molta gente che legge il giornale scorrendo semplicemente i
titoli dei pezzi che non parlano di attualità, gossip o sport?
Verrebbe voglia di mettere una postilla a questo discorso. Una nota che penso farà piacere ai nostri amici sardi (e mi
piacerebbe sentire al riguardo ad esempio l’opinione di uno studioso come Massimo Pittau); come vedete, torniamo a
parlare della seconda grande isola italiana. La sua popolazione non è solo una delle più longeve in assoluto al mondo ma,
favorita in questo dalla sua condizione insulare, è una testimonianza vivente del profilo antropologico dell’Europa dell’Età
del Bronzo, è da questo punto di vista un “documento” di eccezionale valore. Un “documento” però fragile, che rischia di
essere cancellato come tutto il resto dalla globalizzazione multietnica imposta dal potere mondialista.
Ma non vi preoccupate: l’uomo meticcio del futuro probabilmente non nutrirà alcun interesse per la storia della nostra
specie, o si limiterà a “bere” passivamente tutto quel che gli ammanniranno i futuri “padroni del vapore”; programmato per
essere quanto più possibile uno schiavo stolido e ubbidiente, avrà fatto parecchi passi indietro sulla via della sub-umanità
quando il potere sedicente democratico avrà definitivamente gettato la maschera.
Torniamo al nostro tema. In data 18 ottobre il nostro Luigi Leonini, una persona a cui non posso riservare altro che i più
ampi elogi per il contributo di informazione, di riscoperta, di selezione di articoli da lui svolto e di cui anche io mi sono
largamente servito per i miei scritti su “Ereticamente”, ha presentato in un post il link a una serie di pezzi de “Le scienze”
che riguardano la genetica degli antichi europei, di cui quello di riferimento (a cui sono linkati gli altri), “Il nuovo albero
genealogico degli Europei”, è del 18 settembre 2014.
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Prima di procedere oltre, vorrei farvi osservare una cosa: “Il Corriere della Sera”, “Le scienze”; su queste pagine mi è
capitato di citare spesso più di una volta la pagina scientifica della “Repubblica” e anche quella culturale del “Sole 24 ore”,
tutte pubblicazioni dell’estrema, estremissima destra e di area neofascista, come potete ben vedere.
In un sistema globalmente menzognero come quello democratico, la menzogna TOTALE è pericolosa, si presta facilmente
alla smentita in blocco, è più efficace un’abile mescolanza di bugie e di verità, anche per mantenere la finzione della libertà
di ricerca. Quello che conta, è che certi contributi rimangano limitati e settoriali, accessibili per lo più agli specialisti, e non
tocchino il grosso pubblico che deve continuare a bere la favola dell’origine africana e dell’inesistenza delle razze.
L’articolo citato dal nostro Luigi è linkato ad altri cinque. Nel complesso essi disegnano un quadro della preistoria europea
che conoscevamo già, ma sul quale è il caso di tornare brevemente: gli europei attuali deriverebbero sostanzialmente
dall’incontro di tre popolazioni preistoriche la cui eredità è presente in vario grado nelle genti dell’Europa di oggi.
L’impronta genetica che sembra prevalente è quella del gruppo che è stato denominato eurasiatico settentrionale (che tra
l’altro è presente per un terzo anche nel genoma degli Amerindi, e qui ci sarebbe da fare tutto un discorso sul fatto che
popolazioni bianche potrebbero essere anche all’origine delle civiltà precolombiane, e l’abbiamo visto in altre parti di
questa ricerca alle quali ora vi rimando); c’è poi una piccola componente che sembra si possa far risalire al sapiens più
antico d’Europa, l’uomo di Cro Magnon e che sarebbe rappresentata soprattutto fra le popolazioni basche e pirenaiche. C’è
infine una componente che testimonia un’immigrazione di età neolitica proveniente dal Medio Oriente, che molti ricercatori
mettono in relazione con la diffusione dell’agricoltura, ma occorre evidenziare una volta di più che questa componente è
assai meno rappresentata di quel che vorrebbero coloro che sostengono che essa si sarebbe diffusa nel nostro continente con
l’espansione di questi immigrati che avrebbero man mano strappato aree sempre più consistenti ai cacciatori paleolitici
autoctoni. Quindi l’agricoltura dovrebbe semmai essersi diffusa nel nostro continente per imitazione, di popolazioni già
nomadi che sarebbero progressivamente diventate agricole e sedentarie, perché diciamolo, l’uomo europeo è un uomo
ingegnoso, capacissimo di apprendere tecniche nuove quando dimostrino di funzionare, in contrasto con la rigidità culturale
mostrata da genti estranee al nostro continente.
Vi sono tuttavia validi motivi per ritenere che le cose non siano andate in questo modo, e anche questo l’abbiamo già visto,
ma repetita iuvant, prima di tutto la scoperta dei metalli che va senz’altro connessa allo sviluppo dell’agricoltura, alla
necessità di fornire strumenti di lavoro a popolazioni in crescita, mentre il corredo paleolitico di utensili in pietra scheggiata
era pienamente adeguato alle necessità dei cacciatori paleolitici. Bene, le più antiche miniere che presentano tracce di
sfruttamento si trovano in Europa e non in Medio Oriente, così come europeo e non mediorientale è il più antico attrezzo
metallico conosciuto: l’ascia (o meglio la sua lama) di Oetzi, l’uomo del Similaun, mentre in Medio Oriente questo genere
di oggetti non si ritrova che cinque secoli dopo. Allo stesso modo, da collegare all’agricoltura è l’allevamento bovino, e non
vi è dubbio alcuno che esso sia iniziato in Europa.
A parte alcune ovvie divergenze e sfumature interpretative da parte dei diversi autori, il quadro che ne emerge è piuttosto
coerente e conferma quel che sapevamo già, e soprattutto non si scorge alcun indizio di un’origine africana.

In coda, metterei una nota per così dire interna. Ultimamente, lo staff di “Ereticamente” mi ha girato la lettera di un lettore
che mi ha chiesto lumi circa una notizia comparsa fuggevolmente sui media tempo addietro, a proposito del ritrovamento
dei resti di una “città” dell’Africa meridionale che sarebbe stata datata a 200.000 anni fa. Qualcosa del genere, per la verità,
avevo già sentito anch’io, ma non ho approfondito la cosa perché non ho molta voglia di occuparmi di ciò che puzza
evidentemente di bufala. Gli ho dato la stessa risposta che adesso do a voi: se si fosse trattato di una datazione di uno o due
ordini di grandezza inferiore la cosa sarebbe stata accettabile: 2000 anni, possibile; 20.000 anni sarebbe dura da mandare già
ma al limite ancora credibile. 200.000 anni francamente no; significano un’epoca in cui l’homo sapiens non esisteva ancora
o era appena iniziata la transizione tra homo erectus e i primissimi sapiens e anche l’uomo di Neanderthal era al di là da
venire, siamo ben lontani dalla comparsa in una qualsiasi parte del mondo di uno stile di vita che si possa anche
lontanamente definire civile. O si è trattato di un clamoroso errore di datazione, o semplicemente di una bufala, una bufala
come sempre a sostegno di questa presunta origine africana che vorrebbero imporci di credere a tutti i costi, ma il fatto
stesso che “la notizia” abbia fatto sui media una comparsa sibillina e meteorica, fa pensare che coloro che l’hanno inventata
devono essersi accorti stavolta di averla sparata troppo grossa.

Come voi vi rendete facilmente conto, la questione delle nostre origini non è una faccenda accademica ed erudita: si tratta di
spuntare un’arma propagandistica in mano al nemico: la leggenda dell’origine africana e dell’inesistenza delle razze è
strettamente finalizzata al tentativo di farci accettare senza ribellarci la nostra sparizione come popoli nel marasma
multietnico che si sta preparando. Io di solito concludo gli articoli di questa serie ricordando il valore e la necessità di
difendere la nostra eredità in quanto uomini europei. Non vorrei ripetermi troppo, anche perché certe acquisizioni credo di
poterle dare ormai per scontate soprattutto per chi mi segue da tempo. Ricordate che tutte le volte che vi accusano di
eurocentrismo, è il nemico che parla, non importa attraverso la bocca di chi.

Una Ahnenerbe casalinga, 23sima parte


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www.ereticamente.net/2016/02/una-ahnenerbe-casalinga-ventitreesima-parte-fabio-calabrese.htmlnzialità e
proporzione nella visione del mondo indoeuropea
Dopo un congruo lasso di tempo riguardo al quale abbiamo delle novità che sono emerse, riprendiamo il nostro discorso
sulle origini. In realtà, non si tratta di aggiungere molto a un quadro che ci è ormai ben chiaro, quelle che troviamo sono
ormai semplicemente delle conferme.Tuttavia, questo non fa che evidenziare la situazione paradossale della verità sempre
più difficile da nascondere che contrasta con la “verità” ufficiale imposta dall’ortodossia democratica che da settant’anni
spaccia come dogmi irrefutabili (o ad andare contro i quali si va incontro a una dura repressione), una serie di menzogne:
l’inesistenza delle razze, l’uguaglianza degli uomini, la non centralità nella civiltà umana del nostro continente e dell’uomo
caucasico di ceppo europeo-indoeuropeo, tutto ciò, palesemente, allo scopo di indorarci la pillola dell’imminente sparizione
dei popoli europei nel marasma dell’imbastardimento multietnico.Naturalmente, le informazioni importanti circa le nostre
origini, come su tutto il resto, continuano a circolare in forma clandestina o semi-clandestina, approfittando soprattutto del
fatto che, almeno per ora, internet è difficilmente controllabile dal potere, mentre le riviste, i testi di divulgazione
scientifica, i corsi universitari, continuano perlopiù a ripetere le solite inattendibili, falsissime banalità a cui il potere
“democratico” vorrebbe che credessimo.Da questo punto di vista, un gruppo presente su facebook dal cui materiale
pubblicato ho tratto più volte ispirazione perquesti articoli, è “European and indo-european Identity and ethnic Religions”,
che alterna testi in lingua inglese e in italiano.Ultimamente, “European…” ha pubblicato alcuni estratti di Amnesia, our
forgotten History (“Amnesia, la nostra storia dimenticata”) e/o Atlantis, Lemuria and lost Civilizations (“Atlantide, Lemuria
e civiltà perdute”) di Robert Sepehr. (l’e/o va inteso nel senso che non è chiaro se si tratti di due testi diversi o del titolo e
sottotitolo della medesima opera). Che non ne sia disponibile in Italia nulla di più ampio, è in ogni caso una circostanza di
cui non ci si può che rammaricare, perché da quello che se ne può desumere, l’autore ha da raccontarci della nostra storia
più remota una versione molto diversa da quella

ufficiale.Uno di questi stralci ci racconta di Gobeckli Tepe ma, al riguardo, prima di parlarne, sarà bene fare un passo
indietro. In questa località anatolica non prima del 1995, gli scavi archeologici hanno messo in luce il fatto che sotto la
“collina rotonda” (tale è il significato del nome in lingua turca) si celava un complesso megalitico interrato risalente a
12.000 anni fa, e quindi più antico di tutti quelli finora conosciuti.
Io vi ho già parlato altre volte di quegli oggetti misteriosi che vengono chiamati OOPARTS (Out of Place Artifacts), oggetti
fuori posto, fuori dal tempo, nel senso che sembrerebbero essere estranei al contesto storico nel quale sono ritrovati, alle
conoscenze tecniche delle rispettive epoche. In un certo senso, possiamo dire che Gobeckli Tepe sia il più gigantesco
OOPART conosciuto; infatti, sarebbe datato a un’epoca anteriore a quella della rivoluzione agricola neolitica, ed è
letteralmente impossibile che rade tribù di cacciatori-raccoglitori come quelle che si suppone vivessero prima del neolitico,
che dovevano impegnare tutti i loro sforzi nella sopravvivenza giorno per giorno, che non disponevano di eccedenze
alimentari, e tra le quali, quindi, non ci potevano essere lavoratori specializzati in altro che il procacciamento del cibo che
consentisse di sopravvivere possano aver creato una struttura come il grande complesso megalitico emerso dalla “collina
rotonda” anatolica (in realtà un tumulo artificiale sotto il quale il monumento megalitico è rimasto interrato e preservato per
millenni).
La spiegazione che viene addotta, che la religione sarebbe stata il centro di aggregazione delle diverse comunità umane in
contesti più vasti prima ancora della rivoluzione agricola, in realtà non dà una vera risposta, essa ci dà una credibile
motivazione, ma non spiega assolutamente quali mezzi avrebbero reso possibile l’edificazione del complesso
megalitico.Come ricorderete, in una parte precedente, la diciannovesima, di questa serie di scritti, avevo proposto una
spiegazione del mistero di Gobeckli Tepe rifacendomi alla teoria dell’ “Atlantide pontica”.Noi sappiamo che durante l’età
glaciale il livello dei mari era considerevolmente più basso che nell’era odierna, perché una grande quantità di acqua si
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trovava sulla superficie delle terre emerse sotto forma di ghiaccio. Il disgelo dei fronti glaciali non sarebbe avvenuto sempre
in maniera graduale, ma avrebbe dato luogo in diversi tempi e luoghi a inondazioni improvvise e violente che sarebbero alla
base di leggende come quella del diluvio e di sommersioni di terre come Atlantide, e il ricordo di questi episodi si ritrova
nel patrimonio mitico-leggendario praticamente di ogni popolazione del nostro pianeta.Secondo gli oceanografi Bill Ryan e
Walter Pitman, fino a una dozzina di migliaia di anni fa, quello che oggi è il Mar Nero, era un lago di acqua dolce di
dimensioni considerevolmente inferiori a quelle attuali. Questa teoria non deriva da speculazioni astratte, ma dallo studio
dei fondali del Mar Nero con l’ecoscandaglio, che avrebbe permesso di individuare la linea di costa dell’antico lago a circa
110 metri di profondità attuale. Non esistendo di fatto il Mar Nero così come è oggi, l’Anatolia sarebbe stata unita
all’Europa, e proprio nella fertile pianura oggi sommersa che si stendeva attorno all’antico lago pontico, che doveva
presentare le condizioni più favorevoli all’insediamento umano, si sarebbe sviluppata la più antica civiltà agricola. Questa
teoria è esposta in dettaglio nel libro “I pilastri di Atlantide” di Ian Wilson.
Quando 12.000 anni fa, l’inondazione proveniente dal Mediterraneo avrebbe distrutto il ponte di terra che si trovava là dove
oggi sono il Mar di Marmara, i Dardanelli e il Bosforo, le popolazioni rivierasche sarebbero state costrette a darsi
precipitosamente alla fuga, irradiandosi verso l’Europa e verso l’Asia. Fra loro, ipotizza Wilson, vi sarebbero stati anche gli
antenati degli Indoeuropei.Si può anche osservare una coincidenza temporale che se fosse davvero una coincidenza, la cosa
sarebbe francamente sbalorditiva: è precisamente a dieci millenni prima della sua era che Platone pone la narrazione dello
sprofondamento di Atlantide, cioè proprio all’epoca della catastrofe del Mar Nero.
Ora, io vi avevo fatto osservare che se accettiamo questa teoria, il mistero di Gobeckli Tepe non è più tale: tutto quadra.
Gobeckli Tepe sarebbe stata realizzata da una comunità di profughi dall’Atlantide pontica, una comunità già agricola e
verosimilmente urbana. Sarebbe come se gli attuali Australiani fossero assorbiti dalla popolazione aborigena o magari si
trasferissero altrove, lasciando gli archeologi di un remoto futuro a domandarsi “Ma come avranno fatto gli aborigeni che
non sapevano nemmeno levigare la pietra a costruire l’Opera di Sidney?”
Sebbene questa sia la spiegazione più logica del mistero di Gobeckli Tepe, l’unica che combacia con i dati disponibili,
dubito molto che diventerà popolare, ha il “difetto” di rimarcare il fatto che l’antico santuario megalitico è stato creato da
una popolazione bianca di ceppo caucasico affine agli attuali indoeuropei, di sottolineare una volta di più l’idea “razzista”
che tutto ciò che conosciamo sul nostro pianeta come civiltà è il prodotto di un determinato tipo umano, proprio quello che
l’attuale potere mondialista vuole “graziosamente” e gradualmente portare all’estinzione.
Bene, al riguardo Robert Sepehr ci fornisce una prova difficilmente eludibile, il ritrovamento di una statua proveniente
precisamente dal santuario megalitico anatolico e risalente a 12.000 anni fa, verosimilmente la più antica conosciuta, che
con ogni probabilità raffigura uno degli abitanti di Gobeckli Tepe, un uomo dai lineamenti prettamente europidi e le cui
pupille sono costituite da due pietruzze azzurre. Nell’illustrazione che trovate nell’intestazione di questo articolo, è la figura
di sinistra. Quella che l’affianca è una figura molto più recente, risalente “solo” a tre millenni or sono, ma che ha il pregio di
farci notare come novemila anni dopo l’edificazione del santuario megalitico, popolazioni dagli occhi cerulei fossero ancora
presenti in Anatolia.
Un altro frammento di Robert Sepehr ci racconta un’altra storia molto interessante. In una caverna del Nevada nota
come Spirit Cave (caverna dello spirito) nel territorio degli indiani Paiute sarebbe stato ritrovato lo scheletro di “un gigante”
parzialmente mummificato, il cui cranio conserverebbe ancora ciuffi di capelli rossi. Purtroppo il testo non ci dà
un’informazione esatta della reale statura di questo gigante (noi sappiamo che spesso anche persone con una statura di una
ventina di centimetri maggiore di quella della media della popolazione più diffusa, sono indicati come “giganti”), che i
ricercatori si sarebbero rifiutati esaminare “per motivi politici” (e noi sappiamo benissimo quali, soprattutto negli USA,
sedicente “patria della libertà”, gli scienziati devono camminare sulle uova per non contraddire i dogmi democratici,
esponendosi a pesanti ritorsioni sulle loro carriere e sulle loro vite).

Sarah Winnemucca, discendente di capotribù Paiute, esperta delle


tradizioni del suo popolo e attivista per i diritti dei nativi, racconta in proposito una storia molto interessante. Questo
ritrovamento si accorderebbe molto bene con le tradizioni della sua gente, che raccontano che essa si sarebbe sostituita,
sterminandola in tempi remoti, a una popolazione di pelle chiara e dai capelli perlopiù biondi o rossi. Lei stessa conserva

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alcuni ciuffi di capelli chiari appartenuti a questo popolo scomparso, che avrebbe voluto consegnare ai ricercatori perché li
esaminassero, ma questi ultimi si sono rifiutati di prenderli in considerazione.
Come sempre, l’armamentario della democrazia consiste nel rifiuto dei fatti, nel non prendere in considerazione l’evidenza,
nella censura delle informazioni e delle idee.
Quella della presenza di un antico popolamento bianco delle Americhe, molto più antico di Colombo e anche dei Vichinghi,
è una tematica che abbiamo affrontato più volte. Secondo l’ipotesi formulata nel 1999 da Dennis Stanford e Bruce Bradley,
archeologi dello Smithsonian Institute, l’industria litica Clovis, la più antica delle Americhe, testimonierebbe l’arrivo nel
Nuovo Mondo di popolazioni provenienti dall’Europa, cacciatori di foche e trichechi che si sarebbero mossi lungo l’estesa
banchisa artica esistente nell’età glaciale; essa infatti ha una spiccata somiglianza con l’industria solutreana europea mentre
non ne ha con le contemporanee produzioni litiche della Siberia. A ciò vanno aggiunte le testimonianze su popolazioni
“amerindie” bianche estinte in epoca storica (i Mandan) o tuttora esistenti ( gli Aracani e i Kilmes; in particolare, riguardo
ai Kilmes si può fare riferimento all’ottimo libro Iperborea di Gianfranco Drioli), ma soprattutto in tempi recenti è venuta la
prova irrefutabile del DNA. Circa un terzo del genoma degli attuali amerindi è riconducibile al tipo genetico detto
eurasiatico settentrionale che costituisce la componente principale del genoma europeo.
Che proprio questa impronta genetica caucasica sia alla base delle civiltà precolombiane, lo confermerebbero le stesse
tradizioni dei nativi con le leggende di Quetzalcoatl e Viracocha.
Bizzarro, vero? Là dove un’influenza caucasica non è avvertibile, come nel caso dell’Africa subsahariana, dell’Australia,
della Nuova Guinea fino all’arrivo della colonizzazione europea, le popolazioni indigene non si sono mai schiodate di un
millimetro dal paleolitico.Sempre sul sito di “European…” troviamo un’altra notizia di grande interesse dal nostro punto di
vista. Come sappiamo, la mummia del faraone egizio Ramesse II è stata recentemente sottoposta a uno studio
particolareggiato da parte di ricercatori francesi, ma PER OVVI MOTIVI i risultati non sono stati resi noti al grosso
pubblico se non in maniera molto parziale e vaga.A darci qualche informazione ulteriore è sempre Robert Sepehr, ancora da
“Amnesia, our forgotten History” (e le cose della storia che sono state volutamente tralasciate o dimenticate sono davvero
tante).Bene, sembra che il sovrano, che è deceduto ultraottantenne, un’età insolitamente avanzata per quei tempi, negli
ultimi anni usasse tingersi i capelli incanutiti con l’henne, ma che in gioventù la sua chioma fosse rossa. In questo, pare che
la sua non fosse una caratteristica unica e isolata, ma presente in tutto il clan dei “seguaci di Seth” di cui il faraone faceva
parte.Stranamente, una notizia del genere non ci coglie affatto di sorpresa. Se ricordate, già in precedenza vi ho citato il
libro “Ricerche archeologiche non autorizzate” di Marco Pizzuti, che ci racconta il fatto, ovviamente occultato
dall’archeologia ufficiale, che a quel che si può desumere dallo studio sia delle mummie, sia di molte raffigurazioni
pittoriche, le élite dell’antico Egitto appartenevano in maggioranza a un tipo umano alquanto diverso da quello che
costituiva e costituisce ancora oggi la popolazione prevalente della regione, avevano caratteristiche europee o decisamente
nordiche, e la stessa cosa sembra di poter dire riguardo alle élite delle culture mesopotamiche dell’antica Mezzaluna Fertile,
anche se qui le prove sono più elusive perché l’assenza di una pratica come la mummificazione in uso presso gli Egizi,
rende di gran lunga più difficoltoso lo studio dei resti umani che ci sono pervenuti.
Circa l’origine di queste élite di pelle chiara che avrebbero civilizzato l’Egitto e il Medio Oriente, possiamo oggi avere
un’idea alquanto più chiara che in passato, riconducendole a un’ondata migratoria di superstiti dell’Atlantide pontica,
verosimilmente imparentati con gli uomini dagli occhi azzurri che eressero Gobeckli Tepe.
Io direi che a questo punto va a posto un importante tassello della nostra storia più remota. Se ricordate, vi avevo già fatto
notare il paradosso della storia della civiltà egizia: essa compare all’improvviso già adulta, completa in tutte le sue
manifestazioni tecniche, culturali, artistiche, religiose, poi, per i tre millenni che vanno dall’edificazione delle piramidi della
piana di Giza fino alla conquista persiana, non assistiamo a nessuna innovazione, nessun progresso: o meglio, l’unica
innovazione che vi compare, è l’introduzione del carro da guerra portato in Egitto da invasori, i nomadi Hyksos. In
compenso si avverte una progressiva decadenza, già poche generazioni dopo l’erezione della piramide di Cheope, gli Egizi
non sono più in possesso delle conoscenze per erigere edifici simili o altrettanto imponenti.
Bene, ora vediamo che il mistero non è affatto tale: con l’affievolirsi dell’elemento europeo-nordico presente nelle élite
egiziane, probabilmente per l’immissione di sangue a esso estraneo, con accoppiamenti e matrimoni con membri della
popolazione nativa, lo spirito creativo che aveva portato all’edificazione della civiltà della Valle del Nilo, semplicemente
viene meno.
Noi sappiamo che quello di democrazia non è solo un concetto falso in se stesso, come già aveva dimostrato Platone
venticinque secoli or sono, ma che il potere cosiddetto democratico crea la sua legittimazione attraverso un’estesa serie di
falsificazioni che tendono a imbrigliare il pensiero umano in un’unica direzione, un “pensiero unico” che esclude sempre
più le alternative in ogni campo, e trova nella realtà dei fatti un nemico mortale.
La falsificazione non risparmia nessun campo, nemmeno le scienze fisiche dove, come abbiamo visto, è proibito toccare il
feticcio Einstein (feticcio ebraico, naturalmente), ma come è ovvio che sia, è più pesante e censoria sul terreno delle scienze
umane e storiche, dove occorre occultare a tutti i costi una verità fondamentale, che l’incivilimento umano è ed è stato in
ogni epoca legato a un preciso tipo umano, quello caucasico-indoeuropeo-europeo, precisamente quello di cui oggi il potere

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mondialista attraverso la sterilità e la senescenza imposte, l’invasione allogena, il meticciato, ha programmato l’estinzione,
il genocidio “soft”.
Una Ahnenerbe casalinga, 24sima parte
www.ereticamente.net/2016/03/una-ahnenerbe-casalinga-ventiquattresima-parte-fabio-calabrese.html

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Eccoci di nuovo. Io vorrei dare agli articoli riuniti sotto questo titolo il significato di una rubrica periodica sotto la quale
raccogliere le notizie che man mano riceviamo sulla tematica delle origini, questione affascinante in sé, ma soprattutto
legata all’idea che ci facciamo di noi stessi, del nostro posto nel mondo, che non è disgiunta dall’agire politico.
Una volta di più, direi, quelle che possiamo registrare attualmente sono una serie di conferme di un quadro che nelle sue
linee generali è piuttosto chiaro.
Cominciamo con il segnalare un recente intervento riportato da varie fonti di stampa, di Semir Osmanagic, lo scopritore
delle tre piramidi bosniache di Visoko. Questa scoperta, come sappiamo, è ancora molto controversa, e secondo i ricercatori
ufficiali le tre piramidi “del sole”, “della luna” e “del drago”, non sarebbero altro che formazioni naturali, colline di forma
casualmente piramidale.Nel suo intervento, Osmanagic mette in relazione le piramidi di Visoko, cui attribuisce un’età fra
20.000 e 12.000 anni con la scoperta del santuario anatolico di Gobeckli Tepe, che allo stesso modo ci suggerisce che la
civiltà umana potrebbe essere ben più antica dei cinque millenni che le sono ufficialmente attribuiti, e che potrebbe non
essere affatto sorta in Medio Oriente fra la Valle del Nilo e la Mezzaluna Fertile mesopotamica.
“La storia umana”, afferma il ricercatore bosniaco, “Potrebbe essere tutta da riscrivere”.
Di Gobeckli Tepe vi ho già parlato nei miei articoli precedenti, ai quali vi rimando. Per quanto riguarda le piramidi di
Visoko, non metterei la mano sul fuoco né in un senso né nell’altro, mi sembra che non vi siano ancora elementi sufficienti
per chiarire una volta per tutte l’origine artificiale o naturale di queste singolari colline piramidali. Tuttavia, e questo mi
sembra il fatto veramente notevole che occorre rimarcare, è evidente che Osmanagic si è scontrato con un pregiudizio
ideologico in base al quale esiste un vero e proprio rifiuto a considerare gli argomenti addotti a sostegno delle sue tesi da
parte dei sedicenti scienziati e “ricercatori” (termine che suona leggermente ironico, quando non si ricerca che ciò che si è
già deciso in anticipo che sarà trovato) ufficiali.
“E’ impossibile” che la civiltà umana sia più vecchia di cinque millenni, così come per i dotti dell’epoca di Galileo “era
impossibile” che la Terra orbitasse intorno al sole perché, essendo il luogo dell’incarnazione di Cristo, doveva essere
necessariamente il centro dell’universo.
Il dogma che non può essere toccato per quanto i fatti possano contraddirlo, è in questo caso il dogma progressista; se infatti
interi remoti cicli di civiltà possono aver preceduto il nostro ed essere poi scomparsi nell’oblio, non è affatto detto che
questa sia la volta buona, e che abbiamo di fronte un luminoso destino ascendente.
Il caso è analogo a quello di Glozel. In una grotta scoperta per caso nel 1924 nei pressi di questa località della Francia da un
giovane agricoltore allora sedicenne, Emile Fradin, furono ritrovati oltre 3.000 reperti che risalirebbero all’età neolitica,
consistenti in vasi, statuette e tavolette incise con i segni di una scrittura che ancora nessuno è riuscito a decifrare (anche
perché nessuno con le adeguate competenze ci si è seriamente provato). Subito, la scoperta fu etichettata come un falso, e
condannata all’oblio, da parte di “ricercatori” che non avevano neppure visto, e tanto meno esaminato i reperti, in base al
dogma che non sarebbe potuta esistere una civiltà così antica, e non in Medio Oriente, ma nella “barbara” Europa poi, senza
neppure porsi il problema di come avrebbe potuto fare un ragazzo di campagna di 16 anni a mettere insieme un falso di
quell’entità e di quella complessità.Visoko formazioni naturali, Glozel un falso; adesso non gli resta che tornare a seppellire
il santuario di Gobeckli Tepe sotto la “collina rotonda” dalla quale è emerso, e tanto per prudenza fare legna da ardere
dell’altrettanto antico idolo siberiano di Shingir, e poi il trionfo del dogma progressista sarà assicurato.
L’idea che emerge da questi fatti, così come del resto dalle scoperte di Ryan e Pitman sull’ “Atlantide pontica”, ossia che
intorno all’antico Mar Nero un tempo un lago di acqua dolce assai meno esteso dell’epoca attuale, dove sarebbe esistita
un’antica civiltà, non mettono in crisi soltanto il dogma progressista ma, sia pure in maniera più indiretta, minano un altro
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dei pilastri dell’idea di noi stessi e del nostro passato che l’ortodossia democratica ci vuole forzatamente imporre, cioè
quella “teoria”, ma che sarebbe più giusto chiamare favola, dell’ “Out of Africa”, dell’origine africana della nostra specie in
tempi relativamente recenti, che avrebbe come sfondo concettuale l’inesistenza delle razze e l’impossibilità di tracciare
confini razziali tra i membri della nostra specie.Cerchiamo di fissare bene questo punto, che è fondamentale.
Noi pensiamo ordinariamente che l’evoluzione culturale e tecnologica che caratterizza la nostra specie sia un
prolungamento dell’evoluzione biologica, ed è logico che sia così, perché uno sviluppo culturale e tecnico non sarebbe
potuto innescarsi, o quanto meno oltrepassare il livello delle pietre e delle ossa scheggiate prima che l’evoluzione biologica
abbia potuto mettere a punto quel prodigioso strumento che è il cervello di homo sapiens in tutta la sua complessità.
Ora, se la civiltà umana risale non a qualche migliaio ma a decine di migliaia di anni fa, questo è difficilmente compatibile
con l’idea che la nostra specie si sia formata dal punto di vista biologico in un’epoca di poco precedente, con l’ “Out of
Africa” che ne fissa l’origine a 50-70.000 anni fa e la comparsa sul nostro continente a 30-50.000; semplicemente, VIENE
A MANCARE IL TEMPO.A volte sembra che il dio delle coincidenze faccia gli straordinari. Poco dopo la comparsa sulla
stampa dell’intervento di Osmanagic, sono a loro volta comparsi in rete tre articoli che da diversi punti di vista costituiscono
altrettante smentite della favola dell’origine africana.Cominciamo a vedere innanzi tutto come è nata questa favola; essa si
basa su una premessa, la non esistenza nella nostra specie di razze (il che è davvero strano, considerando che razze e varietà
si trovano in tutte le specie del mondo animale e vegetale, e che i nostri occhi “politicamente scorretti” ce ne attestano
l’esistenza anche riguardo alla specie umana).Questa idea venne formulata in uno “studio” del genetista americano R. C.
Lewontin del 1972, e benché fosse palesemente una fallacia, fu subito imposta PER MOTIVI POLITICI, cosa francamente
ammessa dai ricercatori più seri, come “l’ortodossia scientifica” dal potere dominante, in palese violazione del principio
scientifico fondamentale che una qualsiasi idea o teoria che pretende di essere scientifica, deve essere sempre sottoponibile
a nuove verifiche, critiche e revisioni, è diventata un dogma intoccabile perché così faceva comodo al potere che vuole
imporre il meticciato a livello mondiale.Giusto il 3 gennaio il nostro Luigi Leonini ha riproposto in rete la traduzione di un
articolo non nuovo, che risale al 2003, ma repetita iuvant più che mai in questo caso, del genetista A. W. F. Edwards che
svela “La fallacia di Lewontin”.In poche parole, costui ha considerato i singoli geni del genoma umano MA NON LE
CORRELAZIONI FRA ESSI.
“Questa conclusione … è totalmente inesatta perché viene ignorato il fatto che la maggior parte delle informazioni che
distinguono le popolazioni è nascosta nella struttura della correlazione dei dati e non semplicemente nella variabilità di
fattori individuali”.Un singolo gene potrebbe ritrovarsi sparso in tutta l’umanità vivente da un capo all’altro del pianeta, ma
questo non ci dice nulla, bisogna vedere come i geni si raggruppano in costellazioni specifiche che determinano le
caratteristiche delle diverse popolazioni. Semplicemente, se come Lewontin ha fatto, si guardano solo gli alberi uno alla
volta, si può riuscire a non vedere la foresta.Una volta costruito lo scenario di cartapesta della non esistenza delle razze, si è
provveduto a scrivere il copione della sceneggiata, ossia la favola dell’origine africana, partendo da un presupposto: l’uomo
della strada è ignorante, soprattutto se ci si sforza di mantenerlo tale, tutto quanto riguarda la preistoria si perde in una
nebbia indistinta dove i riferimenti temporali si perdono, e non si percepisce una grande differenza fra i trilobiti di miliardi
di anni fa e i triliti di Stonehenge. La questione dell’origine africana degli ominidi milioni di anni fa, può essere facilmente
confusa con quella dell’origine africana recente di homo sapiens qualche decina di migliaia di anni fa, le ossa di Lucy
emerse dal suolo etiopico nel 1974 sembravano avvalorare le farneticazioni di Lewontin subito trasformate in ortodossia
“scientifica” dal potere non solo mediatico.I sostenitori dell’OOA (l’ipotesi dell’origine africana) si accorsero presto di
trovarsi in una posizione imbarazzante: circa 100.000 anni fa il mondo, quanto meno l’ecumene eurasiatico, era abitato da
numerose popolazioni umane pre-sapiens o sapiens primitive (fra cui il più noto ma non il solo è l’uomo di neanderthal).
Volendo a tutti i costi negare che esse, come è invece sostenuto dalla molto più solidamente fondata ipotesi multiregionale,
possano aver dato un contributo di ascendenza all’umanità attuale che si voleva di “pura” origine africana, rimaneva da
spiegare che fine avessero fatto, potendo escludere che si siano graziosamente estinte di propria iniziativa per far posto ai
nuovi arrivati africani.Le avrebbe sterminate il nuovo venuto uscito dall’Africa? La cosa non sarebbe a rigore impossibile,
ma di certo non fa fare una bella figura a una “teoria” che al di là dei trasparenti pretesti “scientifici” ha palesemente lo
scopo di esaltare “l’accoglienza”, anzi da questo punto di vista rischia di trasformarsi in un boomerang, ingenerare il
sospetto – tutt’altro che infondato – che magari i figli dell’ondata attuale di immigrazione africana potrebbero sterminare
noi.Ecco che a questo punto qualcuno se ne è uscito con una trovata “geniale”. Circa 50-70.000 anni fa il vulcano Toba
nell’isola di Sumatra in Indonesia avrebbe avuto un’eruzione di proporzioni gigantesche. Si è preteso che questa eruzione,
immettendo nell’atmosfera enormi quantità di ceneri, avrebbe prodotto un “inverno vulcanico” simile all’ “inverno
nucleare” di cui andava di moda parlare anni fa, che avrebbe sterminato tutta l’umanità allora esistente, tranne un gruppetto
africano da cui la colonizzazione del nostro pianeta sarebbe partita daccapo.
IL DIAVOLO FA LE PENTOLE MA NON I COPERCHI! Era stata appena messa in piedi la sceneggiatura di questo
psicodramma pseudoscientifico, che sempre in Indonesia, nell’isola di Flores sono stati scoperti i resti di un piccolo homo,
homo floresiensis o familiarmente “hobbit” come i personaggi di Tolkien. L’ “hobbit” non era un homo sapiens ma una
forma nana di erectus (il nanismo è chiaramente un adattamento a condizioni di vita insulari e si presenta in molti
mammiferi che vivono sulle isole), era quindi di origine molto antica ed è sopravvissuto fino a 20.000 anni fa, quindi fino a
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30-50.000 anni dopo l’eruzione del Toba, pur trovandosi a due passi dall’epicentro della presunta catastrofe planetaria che
avrebbe quasi cancellato l’umanità dalla faccia della Terra. “Cari piccoli hobbit”, per dirla con Gollum, sono la più netta e
bruciante sconfessione dell’ “Out of Africa”.Tuttavia, il discorso non finisce qui, e le prove che confutano l’OOA negli
ultimi tempi si sono letteralmente accumulate, al punto tale che per i paladini dell’ortodossia “scientifica” democratica
diventerà impossibile continuare a definirsi scienziati piuttosto che i propagandisti di un’ideologia faziosa quali
effettivamente sono.In realtà, le prove che smentiscono l’ipotesi (o la favola) dell’origine africana si sono accumulate negli
anni, e sono schiaccianti. L’esame del DNA dei resti degli uomini fossili comparato a quello delle popolazioni moderne ha
dimostrato che nelle popolazioni europee attuali vi è una componente di DNA risalente all’uomo di Neanderthal pari
all’1/3%. In più, è stata individuata una popolazione umana antica finora sconosciuta, l’uomo di Denisova, che avrebbe
contribuito in una misura stimata attorno al 6% al patrimonio genetico delle attuali popolazioni asiatiche e aborigene
dell’Australia.Queste percentuali apparentemente basse non devono trarre in inganno, si pensi al fatto che abbiamo in
comune oltre il 90% del DNA con gli antropoidi, nostri parenti biologici più stretti.Tutto ciò non si accorda con l’OOA,
mentre si concilia molto bene con l’ipotesi dell’evoluzione multiregionale. Diciamo pure che LA CONFERMA, e se non
fosse cara a determinati ambienti che detengono, oltre al potere politico, il controllo della cultura e della scienza, per motivi
che ovviamente di scientifico non hanno nulla, la tesi dell’ “Out of Africa”, sarebbe già stata abbandonata da un
pezzo.Ultimamente, a questo ricco mosaico di evidenze, si è aggiunto un nuovo tassello. La notizia è riportata da “The New
Observer” del 10 gennaio che riporta i risultati di uno studio dell’EURAC (Accademia Europea) di Bolzano, un importante
centro di ricerche privato sul DNA dei batteri presenti nel corpo di Oetzi, la famosa mummia naturale del monte Similaun, il
corpo di un uomo vissuto 5.300 anni fa ritrovato congelato in un ghiacciaio nel 1991. La diffusione e la differenziazione dei
ceppi di batteri presenti nell’organismo umano seguono ovviamente quelle delle popolazioni umane. I ricercatori hanno
studiato in particolare l’helicobacter pilori, un batterio presente nell’apparato digerente. In base all’ipotesi dell’Out of
Africa, si pensava che gli helicobacter europei discendessero dai loro omologhi africani, e ci si aspettava che il DNA di
questi batteri nel corpo di Oetzi mostrassero una somiglianza con questi ultimi, essendo di cinque millenni più vecchi di
quelli attuali; invece questo non si verifica, e quelli di Oetzi presentano una marcata somiglianza con il tipo asiatico, una
prova che al ceppo ancestrale degli Europei si può semmai attribuire una provenienza asiatica.Caro Oetzi; dobbiamo proprio
essergli grati, già il suo corredo di attrezzi, in particolare l’ascia dalla testa di rame, che è il più antico attrezzo metallico
conosciuto, ci si era presentato come un forte indizio a favore del fatto che proprio in Europa e non in Medio Oriente o
altrove, è verosimilmente iniziata la lavorazione dei metalli, e con essa probabilmente il cammino umano verso la civiltà.La
democrazia, l’antirazzismo (parola in codice il cui significato reale è anti-bianco, tutto ciò che cospira nella direzione
dell’estinzione dell’uomo caucasico e indoeuropeo) si basano su di un’immagine falsata dell’uomo e della sua storia. C’è da
chiedersi quanto resisteranno ai duri colpi dell’evidenza, e certamente se non fossero sostenuti dal sistema mediatico al
servizio del potere, ma fossero i fatti a parlare, sarebbero scomparsi da un pezzo.

Oggi, nell’era dell’informatica e della “comunicazione totale” in cui – in teoria – qualsiasi informazione dovrebbe essere
disponibile per chiunque, nel campo della conoscenza storica la gente è grandemente ignorante, senz’altro più che in recenti
epoche passate di alfabetizzazione forse meno estesa, ma reale e non virtuale.
Non si tratta certamente di un caso, ma del fatto che questa ignoranza è funzionale alla sopravvivenza delle fole, delle
favole su cui si fondano l’ideologia e – più basilarmente – la mentalità democratica, che troverebbero nella conoscenza
storica la più bruciante smentita.
Una delle favole strettamente connesse e profondamente radicate nella mentalità democratica, è quella progressista, l’idea
che la storia sarebbe globalmente ascendente, che ogni novità sarebbe, per il solo fatto di essere più recente, qualcosa di
migliore di ciò che la precede, al punto che nel linguaggio ordinario, modellato dal sistema mediatico e dalla pubblicità,

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“nuovo” diventa ipso facto sinonimo di “migliore”, e si dà a ogni cretino l’illusione di essere più intelligente e a ogni
ignorante quella di essere più colto di suo padre.
Fa eccezione l’età medioevale contro la quale si sono appuntati gli strali calunniosi degli illuministi presentandola come
un’epoca buia per definizione. Un’epoca buia quella che ha riempito l’Europa di cattedrali, di castelli, di capolavori artistici
di ogni sorta? Quella in cui sulla scena politica compaiono personaggi come Carlo Magno o Federico II di Svevia? Quella
che ci ha dato capolavori della letteratura come la Divina Commedia? Che conosce la civiltà feudale e quella comunale?
Un fatto che pochi sanno: anche il movimento umanistico-rinascimentale si svolge in gran parte entro i limiti cronologici
del Medioevo, e Lorenzo il Magnifico che ne è stato il grande promotore, muore nel 1492, qualche mese prima della
scoperta dell’America.
“Secoli bui” vanno ritenuti solo quelli immediatamente successivi alla caduta dell’impero romano e al caos che ne è
inevitabilmente conseguito.
Comunque, con l’eccezione dell’età medioevale, per la mentalità corrente la storia appare come uno sviluppo ascendente, le
“Magnifiche sorti, e progressive” che, non molti lo ricordano, già Leopardi citava in senso ironico.
La fola progressista ha una doppia funzione: in passato è servita soprattutto ad attaccare le strutture politiche, sociali,
culturali dell’Europa tradizionale, oggi ha una funzione consolatoria, serve a non farci percepire l’abisso che la modernità
sta spalancando sotto i nostri piedi, sebbene i sintomi ci siano tutti: le ricorrenti crisi economiche, l’esaurimento delle
risorse essenziali, la distruzione dell’ambiente naturale, le migrazioni di popolazioni che si riversano dal Terzo Mondo sulle
aree “del benessere”, e non basta certo chiamarli “risorse” per esorcizzare i problemi.
La storia ci mostra esempi di regresso della civiltà che sono una diretta confutazione dell’idea progressista e della
consolante convinzione che “alla fine tutto andrà per il meglio”, che è in ultima analisi un cloroformio che il potere ci
elargisce a piene dosi.
In data 19 gennaio, il nostro Luigi Leonini ha postato un pezzo: “Il collasso della società mediterranea nell’Età del Bronzo”,
a sua volta tratto da un post di Massimiliano Rupalti del 13.1, che è la traduzione in italiano dell’introduzione del libro
“1177 b. C., The Year Civilization collapsed” (“1177 avanti Cristo, l’anno in cui la civiltà collassò”) di Eric H. Cline.
La fine dell’Età del Bronzo è stata uno dei momenti più crepuscolari di regresso della civiltà umana, almeno per quanto
riguarda l’area mediterranea, difatti leggiamo:
“Abbiamo prove archeologiche di una civiltà brillante e prosperosa: palazzi, opere d’arte, commercio, metallurgia ed altro.
Ma abbiamo anche prove che questa civiltà ha avuto una fine violenta: ci sono tracce di incendi che hanno distrutto palazzi
e città, ci sono prove di siccità e carestie ed alcune popolazioni che vivono nella regione, gli Ittiti per esempio, sono per
sempre scomparsi dalla storia”.
Le cause di questa catastrofe improvvisa costituiscono tuttora un imbarazzante enigma per gli archeologi. E’ verosimile che
più che di un solo motivo si sia trattato di una serie di concause interagenti. Eric H. Cline in ogni caso ipotizza come causa
principale l’esaurimento o la penuria di quello che era allora l’equivalente di una risorsa energetica fondamentale. Il bronzo
era allora il metallo maggiormente in uso, per la produzione di ogni cosa: dalle armi agli strumenti di lavoro quotidiani, alle
statue degli dei, e con ogni probabilità era una risorsa assolutamente centrale nell’economia di quella civiltà, ma noi
sappiamo che il bronzo è una lega di rame e stagno.
Ora, mentre il rame si ritrova con relativa abbondanza nell’area mediterranea, lo stagno vi è raro, e doveva essere importato
da luoghi lontani come le Isole Britanniche. Una perturbazione della filiera di questa risorsa dovuta a motivi politici come
guerre, migrazioni di popolazioni, o magari a una spedizione fallita per un qualsiasi motivo, sarebbe bastata a mettere in
crisi questa civiltà, letteralmente attaccata a un filo.
Ora, è difficile non vedere l’analogia con la situazione nella quale noi stessi ci troviamo. Analogamente all’antico mondo
mediterraneo, la civiltà cosiddetta occidentale dipende interamente da una risorsa importata la cui penuria ne provocherebbe
rapidamente il collasso: il petrolio, ed è strano come tutti noi siamo generalmente inconsapevoli della spada di Damocle che
abbiamo sulla testa.

Tuttavia, vi possono essere state altre concause. Il nostro Luigi, nel suo lavoro di ricerca e diffusione di testi importanti, in
questi anni si è dimostrato eccezionale, ma è stato sempre estremamente parco di interventi personali che però, quando ci
sono, dimostrano una comprensione delle cose che merita di essere tenuta in attenta considerazione.
In questo caso, mi sembra si sia limitato a una modifica del titolo del post di Massimiliano Rupalti, che diventa: “Effetto
risorse: il collasso della civiltà mediterranea nell’Età del Bronzo”.
“Effetto risorse”, ci si può riferire sia alla penuria di risorse materiali come lo stagno per gli antichi Mediterranei e il
petrolio come potrebbe succedere per noi, sia a quelle che sono chiamate “risorse” nel falsissimo lessico “politicamente
corretto” di sinistra, cioè gli invasori detti anche e altrettanto falsamente “migranti”, che oggi ci apportano parassitismo
sociale, delinquenza, malattie, degrado, problemi di ordine pubblico e via dicendo, e che la sinistra e la Chiesa coccolano a
nostre spese nella speranza di procurarsi un elettorato e un “gregge” alternativo, mentre i nostri giovani non trovano lavoro,
e i nostri anziani sono costretti a sopravvivere, quando ci riescono, con pensioni da fame.

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Che invasioni di nuove popolazioni abbiano contribuito al declino della civiltà mediterranea dell’Età del Bronzo, è
altamente probabile, e nel caso della civiltà minoica spazzata via dall’invasione achea, è del tutto certo. Qui c’è un’altra fola
progressista, democratica, “politicamente corretta” da sfatare, la presunzione che le migrazioni di popoli diversi in aree già
densamente abitate da popolazioni native, rappresenti un apporto positivo. Le società multietniche sono rare nella storia (la
società ellenistica o quella romana del periodo della tarda decadenza dell’impero), sono intrinsecamente instabili e portano
regolarmente al crollo delle civiltà.
Una recente scoperta viene a distruggere implacabilmente un’altra delle favole in totale contrasto con la realtà dei fatti su
cui si basa la mentalità di sinistra, e questa volta è riportata non su un sito dell’estrema destra, ma su “Le scienze”.
Un’altra delle favole su cui si fonda l’ideologia democratica, è che l’uomo sarebbe fondamentalmente pacifico e
collaborativo con i propri simili. L’aggressività, la violenza, la guerra sarebbero il frutto di rapporti sociali distorti nelle
società organizzate, a cominciare dall’introduzione della proprietà privata, e che gli ovviamente buoni selvaggi vivrebbero
in una condizione edenica alla quale pure noi civilizzati potremmo tornare con una brusca cesura “rivoluzionaria” rispetto al
tempo presente, insomma tutto lo sciocchezzaio messo a punto da J. J. Rousseau, e passato da quest’ultimo attraverso Marx
fino alla sinistra attuale (tralasciamo il fatto che si tratta di una riverniciatura del millenarismo cristiano a riprova, una volta
di più, della stretta parentela tra marxismo e cristianesimo).
Bene, tutto questo è falso, e la riprova ci è fornita dai resti emersi dal sito di Natatuk in Kenia, un sito che si trova sulle rive
di quel lago Turkana ben noto per il rinvenimento di fossili paleoantropologici. Ne parla l’edizione on line de “Le scienze”
del 20 gennaio. L’articolo, non firmato, s’intitola “La guerra più antica ha 10.000 anni”.
In realtà, quello di Natatuk non sembrerebbe essere il più antico episodio bellico conosciuto, sarebbe più recente di quello
avvenuto in Nubia le cui tracce sono venute alla luce nel 1964 con lo spostamento dei templi di Abu Simbel che rischiavano
di essere sommersi in seguito alla costruzione della diga di Assuan. L’articolo pubblicato in proposito da identità.com
indica il sito del ritrovamento, che si trova oltre il confine sudanese, come Jebel Sahaba, ma mi è stato fatto rilevare che
potrebbe trattarsi di una deformazione di “Gebel Sahara”. (E’ interessante notare che questi resti umani sono rimasti per più
di trent’anni in un magazzino senza essere studiati, ma i risultati sono stati pubblicati soltanto nel 2014, dopo altri vent’anni.
Mezzo secolo di oblio, come se i ricercatori fossero stati consapevoli di aver fatto una scoperta pericolosa che poteva
mettere a rischio le loro carriere).
Tuttavia, la scoperta di Natatuk è forse più importante di quella nubiana per vari motivi: inanzi tutto perché qui abbiamo le
tracce di uno scontro tra cacciatori-raccoglitori nomadi, cioè proprio quelli che nelle farneticazioni della sinistra dovrebbero
essere i “selvaggi” rousseauianamente “buoni”.
Quelli che invece troviamo, sono i segni di una violenza estremamente brutale.
“A 30 chilometri dal lago Turkana, in Kenya, sono state trovate ossa fossili di un gruppo di cacciatori-raccoglitori
preistorici in quella che rappresenta la prima testimonianza storica scientificamente datata di un conflitto definibile come
guerra. (…). Dagli scavi di Natatuk, scoperto nel 2012, sono emersi i resti di 27 individui, 21 adulti e 6 bambini, che furono
vittime di un massacro perpetrato circa 10.000 anni fa.
Dei dodici scheletri pressoché completi, dieci mostrano infatti chiari segni di morte violenta: traumi cranici e agli zigomi
dovuti a una forte percussione con un corpo contundente, proiettili di pietra penetrati nella scatola cranica o nel torace, segni
di lesioni da frecce al collo, e mani, ginocchia e costole spezzate.
Molti degli scheletri sono stati trovati a faccia in giù, e quattro sono stati rinvenuti in una posizione che indica che molto
probabilmente le mani erano state legate; fra questi vi era anche lo scheletro di una donna nelle ultime fasi della gravidanza,
alla quale erano state spezzate le ginocchia.
I corpi non erano stati sepolti, ma erano caduti nelle acque poco profonde di quella che all’epoca doveva essere una bassa
laguna, dove sono poi stati coperti e conservati dai sedimenti”.
Tutto questo vi ricorda nulla? Non è solo la favola della guerra come prodotto delle società organizzate e della proprietà
privata a uscirne distrutta, vediamo che va a pezzi un’altra leggenda cara alla sinistra, quella che i comportamenti incivili e
violenti che dimostrano gli africani, ci invasori che costoro ci costringono ad accogliere come “profughi” e “rifugiati”
sarebbero il prodotto di “situazioni di disagio” secondo il loro ipocrita linguaggio buonista. Allora, si tratta di un disagio che
dura almeno da dieci millenni. Questa donna incinta torturata e massacrata ci ricorda il destino delle donne di Colonia, delle
nostre donne dell’Italia centrale settant’anni fa, delle loro nipoti che oggi, anche in assenza di un disastro bellico i loro
uomini drogati di buonismo sinistrorso sembrano incapaci di difendere (ricordiamo che l’80% degli stupri che avviene oggi
in Italia è opera dei cosiddetti immigrati, in schiacciante maggioranza africani).

E non scordiamoci neppure che un quarto circa delle vittime di quell’antico massacro erano bambini. La verità pura e
semplice è che la ripugnanza a infierire sugli inermi, il rispetto cavalleresco verso i deboli e gli indifesi, prima ancora di
essere ratificato da qualsiasi morale, fa parte del retaggio istintivo dell’uomo caucasico indoeuropeo, ed è assente in altre
culture ed etnie. La crudeltà degli orientali è un luogo comune, ma bisogna essere del tutto ciechi per immaginare che i neri
siano anche lontanamente capaci di una maggiore umanità.

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Le lezioni della storia sono chiare ed evidenti a ogni livello, quanto prima capiremo che l’ideologia democratica, cristiana e
marxista è, prima ancora che una totale falsità, solo un veleno per appannare la nostra vista e intorpidire le nostre reazioni di
difesa, e cominceremo a darci da fare per difendere il futuro della nostra gente, tanto meglio sarà.

Nell’immagine: a sinistra, il libro di Cline, a destra, resti umani ritrovati a Natatuk.

Io credo di avervi già parlato varie volte del saggio Congetture e confutazioni del filosofo della scienza Karl Popper, esso ha
l’immenso merito di sbugiardare il marxismo e la psicanalisi per le ciarlatanerie pseudoscientifiche che sono, mettendoli
sullo stesso piano dell’astrologia.
Il concetto fondamentale da cui parte questo pensatore, è il principio di falsificazione. Nessuna idea può essere
definitivamente dimostrata, perché non si può escludere a priori che in futuro si possano presentare casi che la
contraddicano. Ad esempio, quando diciamo “I cani non parlano”, non possiamo escludere che prima o poi in futuro non
nasca un cane parlante, essa non è definitivamente dimostrata, d’altra parte, basterebbe la nascita di un solo cane che parla
per smentirla.
La soluzione di Popper è quella di ritenere scientificamente valide le concezioni che potrebbero essere smentite in linea di
principio, ma che di fatto non trovano confutazioni. “I cani non parlano” la riteniamo vera fino al giorno in cui non ci
troveremo a intavolare una conversazione con il nostro migliore amico quadrupede.
INVECE, non sono concezioni scientifiche quelle che non ammettono confutazioni in linea di principio, perché sono troppo
vaghe o stiracchiabili al punto da far spiegare loro qualsiasi cosa. Potremmo sintetizzare il principio di falsificazione
dicendo che le idee sono come gli uomini: devono essere disposte a correre qualche rischio, se vogliono dimostrare di valere
qualcosa, il che certamente non avviene per i ciarlataneschi garbugli dell’astrologia, del marxismo, della psicanalisi.
Io sarei però incline ad aggiungere che esiste un altro modo di fare ciarlataneria pseudoscientifica, ed è quando le tesi che si
sostengono sarebbero si smentibili in linea di principio, ma si fa in modo che questo non possa avvenire grazie
all’intervento di un potere censorio che impedisce a chi non condivide questi assunti di esprimersi e di portare le prove che
li contraddicono. Questo tipo di ciarlataneria travestito da scienza, è tipico dei poteri tirannici, che impongono con la forza
le opinioni “scientifiche” ad essi gradite; è stato il caso della “teoria biologica” di Lysenko nell’Unione Sovietica, è il caso,
su di una scala ancora maggiore di falsificazione e di censura della verità, oggi per quanto riguarda la pseudo-teoria dell’
“Out of Africa” e le tesi antirazziste, riguardo al problema delle origini della nostra specie. L’imposizione con la forza e la
censura di queste tesi, dimostra al di la di ogni dubbio che LA DEMOCRAZIA È UN POTERE TIRANNICO.
L’antirazzismo, così diffuso oggi nella (non) visione del mondo contemporanea è a tutti gli effetti un’ideologia truffaldina e
tirannica. Basta pensare al fatto che “il razzismo” che esso prende a bersaglio, nell’ultimo mezzo secolo ha cambiato
completamente significato, si è passati dall’indicare con tale termine non l’affermazione di una prevalenza di una razza sulle
altre, ma la semplice constatazione del fatto che le razze umane esistono. “Il messaggio” che viene fatto passare
surrettiziamente, è quello della “bellezza” di un mondo imbastardito dal quale si vogliono far sparire etnie, popoli e culture.
Al fondo di questo antirazzismo, c’è il razzismo più stupido e feroce che si possa immaginare, il RAZZISMO DI
SINISTRA, della sinistra mondialista, caratterizzato dal totale disprezzo verso i propri connazionali che hanno la sfortuna di
essere di ascendenza unirazziale e di essere nati negli stessi luoghi in cui sono vissuti i loro antenati.
Il ciarlatano finto scienziato guru di questo antirazzismo è stato nel 1972 R. C. Lewontin che in un saggio del 1972 subito
diventato l’ortodossia “scientifica” imposta dal sistema, ha negato l’esistenza delle razze sulla base del fatto che la maggior
parte dei geni che costituiscono il genoma umano si ritrovano un po’ in tutte le popolazioni.

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Si tratta di una ragionamento capzioso fino all’idiozia che (deliberatamente) non tiene conto: a) del fatto che se un
determinato gene si trova diffuso poniamo nel 98% della popolazione A e nel 2% della popolazione B va considerato tipico
della popolazione A e non della B, b) del fatto che i geni si correlano formando costellazioni che sono tipiche di ciascuna
popolazione.
Una bella ed estesa confutazione degli argomenti di Lewontin è stata pubblicata nel 2003 dal genetista A. W. F. Edwards.
Chiunque si occupi seriamente di genetica si rende conto che le tesi di Lewontin hanno lo stesso valore dello sterco, ma
naturalmente il potere mediatico che è strettamente dipendente dal potere politico, fa in modo che queste constatazioni non
arrivino al grosso pubblico, e un ricercatore che le esprima troppo apertamente può trovarsi in grossi guai.
Tanto per dimostrare l’inesistenza delle razze, sapete quali sono le ascendenze di Lewontin? Si, esatto, avete indovinato,
appartiene allo stesso popolo di ciarlatani e truffatori circoncisi che ci ha dato Marx e Freud!
Resterebbe da spiegare come mai i correligionari di Lewontin (e di Marx e Freud, naturalmente), mentre negano l’esistenza
delle razze e predicano per tutti gli altri popoli i supposti benefici del meticciato, pratichino fra di loro la più rigorosa
endogamia.
Un’altra ciarlataneria, o forse un altro aspetto della stessa ciarlataneria pseudoscientifica è l’OOA, l’Out of Africa a cui si fa
troppo onore considerandola una teoria, la presunzione, la favola secondo la quale la nostra specie avrebbe avuto un’origine
africana recente attorno ai 50.000 o al massimo 70.000 anni fa. Questa specie di leggenda metropolitana anch’essa imposta
coattivamente come “l’ortodossia” sulle nostre origini, del pari urta contro una serie schiacciante di evidenze scientifiche.
A fare il punto su queste evidenze, è stato nel 2014 un articolo di Jason Randall Thompson, Archaic Modernity vs the high
Priesthood pubblicato sulla rivista australiana “Rock Art Research”. Il punto è relativamente semplice, le evidenze fossili
CONTRADDICONO l’OOA, perché abbiamo numerosi reperti umani dalle caratteristiche anatomiche moderne, non
ominidi scimmieschi, ma uomini appartenuti alla nostra specie homo sapiens più antichi dell’orizzonte temporale di 50-
70.000 anni fa che sono stati ritrovati in Europa, in Asia e anche in Australia (Thompson è interessato soprattutto a questi
ultimi, che però possono essere rappresentativi solo di un ramo collaterale della nostra specie).
Prove che vanno ad aggiungersi alla smentita dell’OOA su base genetica già portata avanti dal genetista russo Anatoly
Klysov di cui vi ho già parlato più volte. Veramente, se fossero solo le prove scientifiche a parlare, e non ci fosse
l’interposizione interessata di un potere politico e mediatico che vuole imporre la sua “verità” allo scopo di distruggere
popoli ed etnie per creare dovunque una società meticcia facilmente manovrabile, dell’Out of Africa non rimarrebbe nulla.
Sull’argomento, si può segnalare un bell’articolo a firma di Carlomanno Adinolfi apparso su “Il primato nazionale” lo
scorso 8 febbraio, Davvero veniamo tutti dall’Africa?
Adinolfi precisa un fatto ben noto ai ricercatori ma di cui il grosso pubblico è tenuto graziosamente all’oscuro:

“Chi sbandiera [la “teoria” dell’origine africana] come un dogma inappellabile spesso dimentica di dire che ha anche molti
“buchi” e soprattutto che alcune recenti scoperte la stanno mettendo a durissima prova”.
Quali sono queste scoperte? Prima di tutto quelle australiane di cui parla Thopson. In poche parole, resti di homo sapiens o
molto vicini a noi a cui sarebbe attribuita provvisoriamente un’età dei ben 400.000 anni (una stima che per la verità mi
sembra troppo alta, ma che anche se dovesse essere riveduta considerevolmente al ribasso, resta comunque incompatibile
con l’OOA), ma c’è anche dell’altro. Adinolfi cita un recente studio compiuto da ricercatori italiani delle università di
Firenze e Siena sul genoma di 35 cacciatori-raccoglitori vissuti tra 35 e 7.000 anni fa, che sembrerebbe indicare che
l’Europa 14.000 anni fa dopo la fine dell’ultima glaciazione è stata occupata da una popolazione eurasiatica dall’origine per
il momento sconosciuta (ma si ipotizza il nord) portatrice di un genoma completamente diverso da quello africano. Questi
ultimi sarebbero i veri antenati degli Europei attuali.
Questa recente scoperta combacia con quella dello studio delle ferite ritrovate sui resti di un mammut morto 45.000 anni fa,
che sembra essere stato abbattuto da cacciatori umani. A quell’epoca la zona artica era dunque sicuramente abitata da
cacciatori raccoglitori che si sarebbero poi spostati verso sud per il peggioramento delle condizioni climatiche, dando
origine alla migrazione di 14.000 anni fa, e verosimilmente alle popolazioni e alle lingue che conosciamo come
indoeuropee. Tutto ciò, mentre fa a pugni con l’OOA, coincide pienamente con i miti ancestrali di quasi tutte le popolazioni
del mondo, comprese quelle africane, che parlano di una remota patria perduta nel nord.
E, scusate, ma a questo proposito non posso fare a meno di citare lo splendido libro Iperborea di Gianfranco Drioli.

(L’illustrazione che correda questo articolo è la stessa che compare in quello di Adinolfi nella versione on line de “Il
primato nazionale”, e mi pare sintetizzi pienamente “il mistero”, l’assurdità creata dall’Out of Africa, un bianco caucasico
che all’improvviso compare “stranamente” in mezzo agli africani).
Sarà forse il caso ora di fare un salto indietro nel tempo, un salto piuttosto considerevole, spostandoci in un orizzonte
temporale di 400.000 anni or sono. Un articolo apparso su “Il navigatore curioso” del 9 febbraio, “Il DNA di un ominide
misterioso confonde gli scienziati”, ci racconta una storia molto interessante. Il DNA di antichi resti umani ritrovati nella
caverna spagnola di Sima de lo Huesos, finora attribuito a una popolazione intermedia fra homo heidelbergensis e
neanderthaliani, mostrerebbe invece una spiccata somiglianza con quello dei denisoviani, la misteriosa popolazione che
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avrebbe costituito una varietà “terza” tra Cro Magnon e Neanderthal, i cui resti sono stati trovati in Russia nella grotta di
Denisova nell’Altai, e che avrebbe contribuito fino al 6% del genoma delle attuali popolazioni asiatiche e australoidi.
La storia della nostra specie è probabilmente più complessa di quel che abbiamo pensato finora, e la supposta derivazione
africana appare sempre più improbabile.
Torniamo all’articolo di Adinolfi apparso su “Il primato nazionale”. Il 14 febbraio è stato ripreso sul gruppo facebook “Il
sangue e la terra” con un’ampia introduzione del nostro Michele Ruzzai, un’introduzione che è una buona rassegna dei
motivi che rendono l’Out of Africa insostenibile.
Li ricapitolo anch’io: prima di tutto la datazione di un buon numero di reperti sapiens non africani troppo alta per essere
compatibile con l’OOA.

“i reperti sapiens extra africani presentano in vari casi delle datazioni molto elevate, difficilmente compatibili con la OOA
che, nelle sue formulazioni più recenti, postulerebbe un’uscita dal continente nero solo attorno a 50.000 anni fa. Ad
esempio: in Arabia Jebel Faya (circa 120.000 anni fa), in Cina Liujiang (fino a 139.000 anni fa), in Australia Kununurru
(forse fino a 174.000 anni fa), in Palestina Skuhl e Qafzeh (risalenti a circa 100.000 anni fa) ma soprattutto Qesem che
potrebbe arrivare a 400.000 anni fa. Oltre a diversi altri di età anche maggiore che ho già elencato in un post precedente
(“L’enorme antichità della forma Sapiens”) e potrebbero spingersi fino a qualche milione di anni”.

Poi il fatto che “Elementi archeologici e culturali di chiara origine africana non sono stati rilevati negli altri continenti a
supporto di un ingresso di allogeni”.

E per concludere, il fatto che i miti e le tradizioni di tutti i popoli indicano per i propri più remoti antenati un’origine ben
diversa, addirittura opposta.

“I miti tradizionali – dulcis in fundo – di chi ha tramandato una storia effettivamente vissuta (ma conterà pur qualcosa o
no?) non sembrano ricordare mai l’Africa come antica terra d’origine, mentre al contrario una moltitudine di elementi
RIMANDA AL NORD. Spesso anche le stesse popolazioni africane ricordano di essere giunte da altrove, soprattutto “da
nord-est”.

Quest’ultimo argomento, per la verità, conta assai poco per la mentalità dei ricercatori “progressisti” per la quale i nostri
antenati erano dei rozzi primitivi che nulla avrebbero da tramandarci e da insegnarci, ma abbiamo visto più volte come sia
piuttosto la fola progressista a essere in stridente contrasto con i fatti.

Un ulteriore punto che per la verità si potrebbe ancora aggiungere, e ne abbiamo parlato più volte, è che “africano” non
significa necessariamente “nero”; anzi, è di gran lunga più verosimile che quando durante l’Età Glaciale il Sahara era fertile
e abitato, la sua popolazione fosse bianca, di stirpe cromagnoide, se la migrazione dall’Africa è effettivamente avvenuta, è
probabile che da quest’ultima, e non dagli antenati degli odierni neri, provenissero questi ipotetici migranti.

L’OOA, soprattutto nella versione grottescamente semplificata secondo la quale “veniamo dai neri”, non sta in piedi in
nessun modo, è solo il fatto di essere fatta propria dal sistema mediatico e propagandata in ogni modo nonostante la sua
totale inconsistenza scientifica, che le permette di esistere ancora; è, in poche parole, una cortina fumogena che ha lo scopo
di nasconderci le nostre vere origini, e di indurci a un atteggiamento di rassegnata accettazione nei confronti di coloro che
oggi vengono chiamati eufemisticamente “migranti”, ma che si dovrebbero invece chiamare con il loro vero nome: invasori.

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Io vorrei ritornare brevemente su di un argomento che abbiamo affrontato nella venticinquesima parte di questa serie di
scritti, vale a dire il ritrovamento dei resti umani emersi nel sito di Natatuk in Kenya. Sarà il caso di ricordare che la fonte a
cui ho fatto riferimento non è un sito dell’estrema destra, ma “Le scienze” dello scorso 20 gennaio, il che è come dire il top,
la voce più autorevole dell’ortodossia scientifica.
Bene, questo ritrovamento, i resti di una banda di cacciatori nomadi africani massacrati da un’altra banda di cacciatori
nomadi, è estremamente importante, anche se cronologicamente meno antico di quello nubiano di Jebel Sahaba dove invece
sono emerse le prove di una vera e propria guerra a sfondo razziale tra agricoltori camitici “bianchi” antenati degli Egizi e
una popolazione nera, perché in Kenya 10.000 anni fa si sono scontrate due bande entrambe nomadiche, il cui stile di vita,
secondo il pensiero di sinistra, da Rousseau a Levi Strauss, sarebbe dovuto essere edenicamente “buono”, essendo secondo
loro la guerra e la violenza emerse perversamente con le società organizzate e la proprietà privata.
Quante volte ce la siamo sentita ripetere questa solfa! Bene, è falsa, smentita dai fatti. Questi “buoni selvaggi” africani non
si sono peritati di massacrare brutalmente oltre agli uomini adulti della tribù rivale, almeno cinque bambini e una donna
incinta agli ultimi mesi di gravidanza.
Natatuk è lì a smentire anche un’altra fola cara alla sinistra e a quei sinistrorsi di complemento che sono usciti dai seminari,
e di cui neppure Nietzsche è riuscito a parlare troppo male, a indicare fino in fondo tutte le responsabilità nello sviare la
coscienza dell’Europa, che la tendenza a delinquere, la violenza, la brutalità, gli stupri di cui i cosiddetti migranti, gli
invasori che calpestano il suolo europeo e dovremmo rispedire da dove sono venuti, siano il frutto di condizioni di disagio
dovuto alle guerre, alle carestie, alle privazioni o che so io, a flagelli biblici apocalittici quanto immaginari. Se è così, è “un
disagio” che dura da almeno dieci millenni!
In un’altra serie di articoli già apparsi su “Ereticamente”, mi ero occupato delle assurdità, delle falsificazioni, talvolta ben
congegnate talaltra grossolane, che il sistema mediatico americano elargisce a piene mani al pubblico di casa propria e al
mondo intero, e avevo rilevato, ad esempio, che in una serie sedicente poliziesca come “Criminal Minds” si fa ampiamente
uso della tecnica del profiling in maniera alquanto aberrante; tutte le volte che questi sedicenti agenti si imbattono in un
delitto a sfondo sessuale, la prima cosa che deducono (misteriosamente) circa il presunto assassino, è che è “bianco”. I neri
no, devono essere sempre innocenti, rousseauianamente “buoni”.
E’ un messaggio che fa deliberatamente leva su quello che io chiamo l’effetto Prentice. Avete presente Indovina chi viene a
cena?, dove il protagonista di colore, il dottor Prentice confessa di essere stato molto aiutato nella sua carriera dal fatto di
essere sempre stato valutato al di sopra dei suoi meriti dalla paura dei suoi interlocutori di sembrare razzisti. L’effetto
Prentice non va sottovalutato, ha regalato agli Stati Uniti e al mondo intero una disastrosa presidenza come quella di Barack
Obama, e adesso non è il caso di approfondire la devastazione causata in Medio Oriente istigando le cosiddette “primavere
arabe”.
E’ un peccato che altri programmi USA oggi “generosamente” importati dalle nostre TV, quelli basati su casi criminosi
reali, ci diano un quadro del tutto differente: quando abbiamo delitti a sfondo sessuale o di gelosia, i responsabili sono
uomini di colore in proporzione numericamente schiacciante. Dato che è perfettamente in linea con quanto, grazie
all’immigrazione, oggi riscontriamo in Italia e in Europa, dove gli immigrati, in grande maggioranza africani, sono
responsabili dell’80% di tutti gli stupri che avvengono.
Ultimamente c’è da segnalare un nuovo capitolo di quello psicodramma, o favola, o romanzo, tutto quello che volete tranne
che una teoria scientifica, che è l’OOA, la leggenda dell’origine africana che costituisce la “verità ufficiale” “politicamente
corretta” sulla genesi della nostra specie.
Secondo questa cosiddetta teoria, una mega eruzione vulcanica del vulcano Toba in Indonesia 70-50 mila anni fa, avrebbe
eruttato enormi quantità di polveri nell’atmosfera del nostro mondo provocando un effetto simile a un inverno nucleare, che

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avrebbe sterminato le numerose popolazioni umane pre-sapiens o sapiens antiche allora esistenti, salvo uno sparuto
manipolo di sopravvissuti africani da cui tutti discenderemmo.
Poiché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, poco dopo la formulazione di questa brillante pensata, si sono scoperti
nell’isola di Flores, sempre nell’arcipelago indonesiano, i resti di alcuni piccoli uomini chiamati perciò hobbit come i
personaggi di Tolkien. Questi ultimi non sarebbero stati sapiens ma una forma nana di erectus (nanismo insulare), e
sarebbero vissuti fino a 20.000 anni fa, quindi fino a 50-30.000 anni dopo la presunta catastrofe planetaria del Toba e su
un’isola a due passi su scala mondiale, dall’epicentro di essa.
I nostri piccoli amici, ve lo avevo già fatto notare, tolgono qualsiasi credibilità alla storia del Toba e all’OOA, permettono di
relegarla nel regno delle favole, una delle tante menzogne, con il corollario dell’inesistenza delle razze, che la democrazia
vorrebbe obbligarci a credere.
Bene, sembra che ultimamente qualcuno, qualcuna delle vestali dell’ortodossia democratica, se ne sia accorto, anche se non
oso sperare che abbia acquisito tale consapevolezza leggendo i miei articoli su “Ereticamente”, e se n’è venuto fuori con
questa bella pensata: gli hobbit di Flores sarebbero stati sapiens di origine recente, non solo nani ma affetti da sindrome di
down.
Davvero si richiede troppo alla nostra credulità: UN’INTERA POPOLAZIONE di down? E perché non una popolazione di
cardiopatici, di emofiliaci o magari di paraplegici? Veramente verrebbe da pensare che affetti da sindrome di down siano
coloro che hanno formulato un’ipotesi del genere, se non sapessimo che è un tentativo estremo di salvare ciò che non può
essere salvato.
L’ipotesi più convincente sull’origine della nostra specie è quella multiregionale, e la riprova più chiara è data dallo studio
del DNA che ha permesso di identificare negli Europei attuali una lieve traccia di geni di neanderthal, negli asiatici e negli
australoidi un’impronta consistente di un’altra popolazione umana pre-sapiens, i denisoviani, i cui resti sono stati
identificati nella grotta di Denisova nell’Altaj. Per quanto riguarda i neri africani sappiamo che né neanderthaliani né
denisoviani hanno concorso al loro pool genetico, in compenso vi si trova traccia di un incrocio con un homo molto antico
non ancora identificato, probabilmente allo stadio di erectus. Si tratta forse della creatura i cui resti sono recentemente
emersi dalla grotta di Naledi, o di un suo discendente.
A tutt’oggi, l’albero genealogico più credibile della nostra specie rimane quello tracciato da Chris Stringer, ricercatore
britannico docente alla Bristol University e responsabile del Museo di Storia Naturale di Londra. In esso si vede
chiaramente che homo sapiens è una specie poligenica. Ci sono quattro linee evolutive discendenti da homo erectus che
sboccano nel pool genetico dell’umanità attuale: Cro Magnon, con cui l’umanità consegue lo stadio sapiens, e le tracce
genetiche dell’incrocio con altre tre linee di discendenti dell’homo erectus: neanderthal in Europa, Denisova in Asia, e
l’allora sconosciuto homo africano che ora possiamo forse identificare con un discendente dell’uomo di Naledi.
Nuove specie si possono formare per isovariazione, cioè per modificazioni lungo la stessa linea genetica, e per
mistovariazione, cioè per incrocio tra forme diverse, che ovviamente devono essere sufficientemente affini da poter
generare una discendenza fertile. Quest’ultimo sembra essere il caso della nostra specie, il cui divenire biologico, piaccia o
no, risponde alle stesse leggi che regolano il resto del mondo vivente. Tutto ciò non è compatibile con la favola di Adamo
ed Eva? Beh, ce ne faremo una ragione.
La confutazione dell’OOA non significa che l’Africa non abbia avuto una parte nella formazione dell’umanità, ma dire
questo è altra cosa dall’affermare che “veniamo dai neri”; è probabile che il Sahara attuale, oggi desertico ma fertile e
lussureggiante nell’Età Glaciale, fosse abitato all’epoca da una popolazione simile ai Cro Magnon, che può aver concorso al
patrimonio genetico degli Europei, mentre il nero subsahariano “classico”, “congoide” secondo la definizione di Carleton S.
Coon, sarebbe di formazione più tarda, prodotto da un incrocio coi discendenti dell’uomo di Naledi, un vero e proprio passo
indietro rispetto all’emergere del sapiens.
Il ruolo dell’incrocio dei nostri antenati con forme ominidi oggi estinte è stato ribadito recentemente in un articolo di Carl
Zimmer apparso sul bollettino di marzo 2016 della Richard Dawkins Foundation for Reason and Science, il cui titolo
tradotto in italiano suona così: “Gli antenati degli esseri umani moderni incrociati con ominidi estinti”. L’autore spiega che
questo scambio genetico avrebbe avuto un ruolo chiave nel conferire agli esseri umani l’immunità ai vari patogeni diffusi
nelle diverse aree del mondo, e afferma:
“Questo è un altro chiodo nella bara dei nostri modelli troppo semplicistici dell’evoluzione umana”.
A questo riguardo, si può anche ricordare un fatto di cui vi ho dato notizia la volta scorsa: l’esame del DNA di resti umani
ritrovati nella caverna spagnola di Sima de los Huesos, risalenti a 400.000 anni fa, una popolazione considerata intermedia
fra homo erectus-heidelbergensis e sapiens, ha mostrato a sorpresa una spiccata somiglianza con quello dei denisoviani
dell’Altaj. Le relazioni di parentela e le migrazioni di queste antiche popolazioni sono tuttora tutt’altro che chiare, ma tutto
quel che è emerso finora va a favore dell’ipotesi multiregionale, di un’origine eurasiatica della nostra specie, mentre l’OOA
non trova alcun appoggio nei fatti.
Riguardo a Richard Dawkins, creatore di questa fondazione, e impegnato da sempre in una difficile battaglia scientifica e
culturale, vi sarebbe da fare un ampio discorso, ma cercherò di essere sintetico.

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L’opera più famosa di questo ricercatore, che ha provocato una caterva di polemiche, è Il gene egoista. In essa, Dawkins che
è un genetista, espone un’idea in fondo semplice: gli esseri viventi sono veicoli e contenitori dei geni; attraverso essi, i vari
patrimoni genetici attuano lo scopo di sopravvivere e diffondersi quanto più possibile nelle generazioni future.
Si tratta, in sostanza, di un ritorno all’AUTENTICO SPIRITO di Darwin, mistificato nelle versione corrente dell’idea
evoluzionista dal miscuglio delle concezioni darwiniane con il progressismo sinistrorso e il buonismo di origine cristiana,
che ne hanno fatto l’apologia di un presunto sviluppo ascendente indefinito nel tempo e garantito nella direzione mettendo
in secondo piano o ignorando gli elementi veramente cruciali di questo pensiero biologico: la competizione fra gli individui,
le popolazioni e i genomi, la selezione naturale, la sopravvivenza del più adatto, la spietata legge che condanna
all’estinzione i più deboli e i mal riusciti.
Io ho affrontato diverse volte l’argomento, ma non sono stato certo il solo, sempre sulle pagine di “Ereticamente” vi ricordo
il bell’articolo del nostro Michele Ruzzai Quale evoluzione?. Darwin è stato frainteso e falsato in modo da non fargli dire
nulla che contrasti con l’ideologia progressista e democratica dominante. Come Konrad Lorenz, Dawkins è un ricercatore
ONESTO che vuole ristabilire la verità senza preoccuparsi troppo che essa piaccia o non piaccia al potere dominante, e
questo naturalmente, come nel caso di Lorenz, gli ha attirato l’odio della canaglia di sinistra.
La lezione della scienza biologica magistralmente dataci da Dawkins, ci fa comprendere che l’essenza della nostra civiltà
non può consistere semplicemente in un complesso di idee, in una “cultura” rispetto a cui la genetica di coloro che ne sono
portatori sia indifferente e intercambiabile con quella dell’ultimo venuto arrivato dall’altro capo del mondo. Un popolo,
un’etnia, una cultura è essenzialmente la comunità di sangue tra i suoi membri. Gli alfieri della multietnicità hanno un solo
obiettivo consapevole o inconsapevole: farci regredire a livello subumano e distruggerci come popoli attraverso
l’imbastardimento e la sostituzione etnica.

Riprendiamo in mano la tematica delle origini. Io vi ho premesso più volte il fatto che realizzare una serie di lavori come
questi, a un livello casalingo, o meglio ancora one man’s band, senza avere certamente a disposizione i mezzi su cui poteva
contare la Ahnenerbe del Terzo Reich, sarebbe impossibile senza la grande massa di informazioni fornita dal web, spesso
futili e irrilevanti, ma dove un occhio bene addestrato può riconoscere le poche pagliuzze d’oro sparse in mezzo al fango.
Ogni tanto è utile, per usare il linguaggio degli sportivi, ripassare i fondamentali. Noi abbiamo visto che il nostro discorso si
è mosso su tre piani distinti; la rivendicazione dell’originalità e creatività della civiltà europea rispetto alle supposte
influenze civilizzatrici asiatiche e mediorientali (e questo aspetto più che in questa sede, l’abbiamo esaminato nella serie Ex
Oriente Lux, ma sarà poi vero?), e a questo riguardo a mio parere è bene rimarcare il fatto che la più vistosa influenza
mediorientale sull’Europa, ossia la cristianizzazione, ha apportato solo elementi negativi di conflitto e di degrado, a
cominciare dalla dissoluzione dell’impero romano. Coloro che vorrebbero far cominciare la civiltà europea con il
cristianesimo di cui la conquista romana dell’orbe mediterraneo sarebbe stata solo una sorta di premessa, ignorano sia il
valore della civiltà romana, sia della costruzione intellettuale ellenica che il cristianesimo ha del pari vampirizzato e
stravolto a proprio uso e consumo, per non parlare dell’ingiustamente misconosciuto mondo celtico.
Del pari, scarsamente conciliabili con il cristianesimo sono stati i valori e le tradizioni dei popoli germanici entrati in scena
successivamente e che, attraverso il sistema feudale, hanno portato a una ricostruzione di quel che la caduta di Roma aveva
lasciato nel caos, e le continue lotte fomentate dall’ideologia cristiana e dalla struttura di potere ecclesiastica contro l’ordine
feudale che hanno travagliato il mondo medioevale: lotta per le investiture, guelfi e ghibellini, ne sono una riprova.
Un discorso complementare a questo, è che l’estremo Occidente, la “cultura” (e il termine è enormemente eufemistico)
americana, basata su una forma radicale di cristianesimo, quella calvinista, e sull’ossessione biblica, non è che un’appendice
dell’anti-Europa d’Oriente, ne è semplicemente l’altra faccia, e nessun atlantismo, nessun filo-americanismo può essere

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giustificato o compatibile con il nostro punto di vista, soprattutto oggi, a un quarto di secolo dalla scomparsa dell’Unione
Sovietica.
Il secondo piano del nostro discorso riguarda l’origine dei popoli indoeuropei, e al riguardo abbiamo visto l’inconsistenza
della favola del cosiddetto nostratico che li vorrebbe originati dall’infiltrazione nel nostro continente di tribù di agricoltori
mediorientali, laddove invece la genetica e l’antropologia, ma anche le tradizioni comuni, la memoria storica in essi
radicata, indicano piuttosto il nord; e al riguardo è opportuno sottolineare il contributo prezioso di Felice Vinci che in
Omero nel Baltico ci ha segnalato il fatto che l’archeologia nordica è oggi la grande misconosciuta (sull’ipotesi che anche il
contenuto dei poemi omerici sia da trasportare nel settentrione del nostro continente, sappiamo che è fieramente contestata
dal nostro Ernesto Roli, e io eviterei di esprimere un giudizio definitivo, ma sul fatto che nel raccontare la storia più antica
del nostro continente, il settentrione è volutamente ignorato, non sussiste dubbio alcuno).
A questo proposito, correrò un rischio. Vi dirò di un commento estremamente interessante che ho trovato in internet.
Secondo il suo autore di cui adesso mi sfugge, prima della seconda guerra mondiale, si poteva usare un termine appropriato
per indicare i popoli parlanti lingue indoeuropee: “ariani”. Dopo la guerra il termine è diventato tabù, il suo uso evoca
immediatamente concetti razzisti, e così siamo costretti a sostituirlo con “indoeuropei” che in fondo è una perifrasi. È,
commenta, se come per un qualche motivo fosse diventato tabù usare la parola “italiani” e dovessimo dire siculopiemontesi.
Il terzo piano del nostro discorso è il più ancestrale, parliamo dell’origine della nostra specie homo sapiens che la scienza
ufficiale piegata al dogmatismo dell’ortodossia democratica vuole identificare nel continente africano, basandosi sulla
deliberata confusione fra l’origine degli antichi ominidi milioni di anni fa, e quella della nostra specie qualche decina di
migliaia di anni fa. La favola dell’origine africana ha palesemente lo scopo di negare l’esistenza delle razze e di indurci ad
accettare senza resistere l’invasione di milioni di africani che oggi si riversano sul nostro continente.
A ben guardare, però, c’è anche un quarto piano che è venuto ad aggiungersi alla nostra costruzione, ed è quello della
smentita di altre due favole che costituiscono la struttura portante dell’ideologia democratica: la presunzione della “naturale
bontà” dell’essere umano, per la quale la violenza e la guerra sarebbero il frutto delle società organizzate, della suddivisione
della società in classi, della civiltà, della proprietà privata, e l’ideologia progressista che vede la storia come un costante
sviluppo ascendente (lasciamo stare il fatto di quanto queste due idee siano fra loro in conflitto e costituiscano una
contraddizione evidente alla base dell’ideologia democratica, che difatti oscilla costantemente fra l’utopismo
“rivoluzionario” e le “magnifiche sorti e progressive”).

Per quanto riguarda la prima questione, possiamo ricordare i reperti nubiani venuti alla luce negli anni ’60 con i lavori per lo
spostamento del complesso templare di Abu Simbel che sarebbe andato sommerso con la formazione del lago Nasser sul
Nilo. Questi reperti sono rimasti occultati in un magazzino senza essere studiati per oltre mezzo secolo. Chi li ha ritrovati,
probabilmente si è reso canto di aver messo le mani su di una bomba che avrebbe potuto deflagrare scuotendo l’ideologia
democratica dalle fondamenta. Essi risalgono a 9.000 anni fa, e sono la prova del conflitto fra una popolazione bianca
probabile antenata degli Egizi, e una nera.
Ancora più rilevante, anche se risalente a un’epoca di poco posteriore, la scoperta dei fossili umani ritrovati a Natatuk in
Kenia: qui abbiamo le prove di uno scontro fra due bande di cacciatori nomadi conclusosi con uno sterminio feroce che non
ha risparmiato né bambini né una donna incinta che è stata crudelmente seviziata. Cacciatori nomadi, cioè proprio i “buoni
selvaggi” che secondo l’idea rousseauiana ancora largamente diffusa a sinistra, dovrebbero essere miti e pacifici per
definizione.
L’altra fola complementare alla base dell’ideologia democratica è la favola progressista. Rimuoviamo Platone, Aristotele,
Cartesio e Kant dal cuore della nostra cultura e sostituiamoli con Pollyanna: tutto alla fine andrà sempre per il meglio. Il
progressismo è l’idea che la storia umana segue uno sviluppo lineare verso mete sempre più elevate (con la bizzarra
eccezione, per la verità, dei mille anni all’incirca che vanno dalla caduta dell’impero romano alla scoperta dell’America).
Questa concezione obbliga a ritenere che non possano essere esistite civiltà di livello elevato in quella che noi chiamiamo
preistoria, perché questo implicherebbe che anche la nostra civiltà di cui siamo tanto orgogliosi, potrebbe un giorno crollare
e cadere nell’oblio, eppure i fatti che la contraddicono non mancano di certo.
Ne abbiamo visto più volte diversi esempi; uno per tutti, agli inizi del novecento, nella località francese di Glozel, un
giovane agricoltore, un ragazzo di sedici anni, Emile Fradin, scoprì migliaia di reperti consistenti in vasi, statuette e
tavolette scritte in una scrittura sconosciuta. Questi reperti, cui sembrerebbe si debba attribuire un’età di 8.000 anni, furono
subito etichettati come un falso da archeologi che non si erano nemmeno degnati di esaminarli, né tanto meno si erano posti
il problema di come avrebbe potuto un ragazzo sedicenne e semi-analfabeta architettare una falsificazione di questa
ampiezza e complessità.
No, per l’archeologia ufficiale NON CI DEVONO ESSERE testimonianze di civiltà più antiche di quelle egizie e
mesopotamiche, e soprattutto non in Europa. Io mi immagino la soddisfazione di costoro se fosse possibile far scomparire
con un colpo di bacchetta magica Stonehenge e i templi maltesi che, oggi lo sappiamo senza ombra di dubbio, pure essi
sopravanzano per antichità almeno di un migliaio di anni le piramidi di Giza e le ziggurat.

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In tempi recenti il caso si è ripresentato con le piramidi bosniache di Visoko. Queste ultime, che sembrerebbero essere
molto più grandi e antiche di quelle egizie, sono tuttavia costituite non di blocchi di granito ma di terra compressa e
sebbene, a detta dell’archeologo Semir Osmanagic che le ha studiate, sono troppo regolari per essere delle formazioni
naturali casualmente simmetriche, questa è invece appunto l’opinione dell’archeologia ufficiale.
Ciò che ha reso finora debole la posizione di Osmanagic, è il mancato ritrovamento di manufatti. Bene, adesso qualcosa
l’abbiamo, infatti, come riferisce il “Daily Mail” del 7 aprile (articolo di Sarah Griffiths), il ricercatore bosniaco ha ritrovato
nella foresta di Podubravlje non distante dalla città di Zdanovici, sempre nella stessa zona di Visoko, un’enorme sfera di
pietra, chiaramente lavorata dall’uomo, che sembrerebbe coeva delle piramidi stesse. L’immagine che correda questo
articolo, ripresa appunto dal “Daily Mail”, è una foto del ricercatore bosniaco accanto al reperto da lui trovato e
parzialmente scavato.

Torniamo sull’altro tema di quello che costituisce quello che abbiamo chiamato il quarto piano del nostro discorso. Sembra
che la ricerca scientifica quando è condotta senza paraocchi, senza voler arrivare a interpretazioni precostituite, abbia il
potere di dissolvere le illusioni utopiche su cui si fonda l’ideologia democratica senza lasciare loro scampo.
A marzo di quest’anno è stato pubblicato uno studio, “Race, Wealth and Incarceration: Results from the National Survey of
Youth” di tre ricercatori americani: Khain Zaw della Duke University, Darrick Hamilton della New School of Economics di
New York, e William Darity anch’egli della Duke University. Questo studio aveva lo scopo di dimostrare che la maggiore
frequenza di popolazione carceraria nera rispetto alla popolazione generale degli Stati Uniti dipenderebbe da condizioni di
inferiorità sociale in cui tuttora la popolazione di colore si troverebbe rispetto ai bianchi, e occorre notare che mentre Zaw è
di origine cinese, Hamilton e Darity sono neri.
Lo studio ha analizzato i dati forniti dal US Boureau of Labor (il ministero del lavoro americano) che riguardano un
campione di varie migliaia di persone attraverso vari decenni.
Bene, i tre ricercatori si sono dovuti arrendere all’evidenza: la tendenza a delinquere dei giovani afroamericani, nettamente
più spiccata nei confronti della popolazione bianca o asiatica o ispanica, soprattutto per quanto riguarda i reati violenti, non
sembra dipendere in alcun modo da fattori sociali come lo status socio-economico della famiglia di origine, ma è
riconducibile a fattori genetici. A parità di status socio-economico, i neri delinquono 5 volte di più dei bianchi o degli
ispanici.
La cosa che francamente stupisce di più, è che i tre ricercatori siano stati tanto onesti da pubblicare questi risultati.
Sul tema della fallacia dell’idea progressista è recentemente tornato Maurizio Blondet in un articolo pubblicato sul suo sito
EffeDiEffe in data 9 febbraio: Come si diventa selvaggi. L’autore espone un complesso di idee che ci sono familiari. I
cosiddetti selvaggi potrebbero essere non dei “primitivi” ma i resti degenerati di culture un tempo evolute. La civiltà umana
potrebbe essere molto più antica di quanto generalmente non si pensi, e nulla esclude che potremmo un domani anche noi
decadere e ritornare allo stato selvaggio, che l’archeologia ci mostra ancora tutto intorno a noi i segni di antiche civiltà che
ci rimangono enigmatiche.
Anche Blondet si riferisce qui a Stonehenge e ai templi maltesi (strano però che tutti, lui compreso, si dimentichino o non
siano a conoscenza dei complessi megalitici esistenti nel centro dell’Europa, come Externsteine e Gosek), evidenzia che
tuttora ci sfugge la conoscenza che ha guidato a realizzare Stonehenge e altri complessi megalitici secondo precisi
allineamenti astronomici, e fa un’osservazione inedita e interessante: il menhir celtico è in sostanza una proiezione in
dimensioni accresciute della bifacciale magdaleniana. L’uno e l’altra sono materializzazioni di uno stesso simbolo, tracce di
una tradizione culturale e probabilmente religiosa di cui ci sfugge il significato.
In realtà si tratta di un complesso di idee che ci sono familiari, che fanno parte per così dire del nostro DNA, queste idee le
ritroviamo in Julius Evola, tanto per cominciare, e in tutta la nostra pubblicistica, e come non menzionare il libro
Involuzione, il selvaggio come decaduto di Silvano Lorenzoni, che è probabilmente la rassegna più completa degli
argomenti a sostegno di questa tesi?
Da questo punto di vista, non ci sarebbero grosse novità, ma vorrei aggiungere che queste tesi non vengono realmente a
conflitto con la visione biologica darwiniana, una volta che si separi il concetto di evoluzione culturale da quello di
evoluzione biologica (quest’ultimo, infatti, a differenza del primo, va considerato su una scala dei tempi estremamente
lunghi, ed è chiaramente compatibile con involuzioni culturali), anche se naturalmente falcia l’erba sotto i piedi alla
versione corrente e volgarizzata, ma sostanzialmente mistificata rispetto alla visione darwiniana, dell’idea di evoluzione. Ve
ne ho parlato nel mio articolo su Il gene egoista.
Man mano che il tempo passa i nuovi dati si accumulano, e c’è da chiedersi fino a quando la dominante ideologia
democratica riuscirà ancora a mantenere tabù certi argomenti, ma man mano che si sforza di impedire che circolino le
conoscenze che potrebbero metterla in crisi, tanto più svela il suo carattere tirannico.

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Riprendiamo ancora una volta in mano la tematica delle origini, è uno di quei temi sui quali quando sembra di aver detto
tutto, saltano fuori sempre nuovi elementi. A parte l’interesse scientifico, questa tematica non è priva di relazione con la
politica e con la nostra dimensione esistenziale, infatti, dall’idea che abbiamo delle nostre origini, dipende l’idea che ci
facciamo di noi stessi, da cui a loro volta dipendono le scelte che facciamo in campo politico e culturale, il nostro
atteggiamenti – potremmo dire – verso la vita.
Non a caso, l’ortodossia “scientifica” dominante cerca di imporre a tutti i costi come “verità” la tesi dell’Out Of Africa (in
sigla, OOA), ossia dell’origine africana della nostra specie, sebbene essa noi sia supportata da prove meno che risibili. Essa
implicherebbe la non esistenza di distinzioni razziali all’interno della nostra specie, il fatto che i popoli europei e in genere
caucasici sarebbero, per così dire dei neri “sbiancati”, ed è stata costruita, diffusa, sostenuta da una censura per la quale i
ricercatori che la vogliono mettere in discussione, mettono con ciò a repentaglio le loro carriere, ribadita in mille modi con
tutta la forza e l’insistenza del potere mediatico, per indurci ad accettare supinamente l’immigrazione allogena e con essa il
meticciato e il definitivo declino del nostro continente, millantando la storia (la storiella, la favola) che i nostri antenati
avrebbero preceduto semplicemente gli invasori allogeni nella migrazione sul nostro continente, e che condivideremmo con
loro una “patria ancestrale” africana.
Essa si fonda in definitiva su di una confusione che a me sembra assolutamente deliberata – approfittando del fatto che il
grosso pubblico non è portato a fare distinzioni sottili, soprattutto quando si tratta di ordini di grandezza numerici – fra
l’origine degli ominidi primitivi milioni di anni fa, che è effettivamente avvenuta in Africa, e quella della nostra specie
homo sapiens, che può benissimo essersi originata altrove.
In altre parole, il ritrovamento dello scheletro della famosa Lucy e quelli degli altri ominidi emersi dal suolo africano (anche
perché non è che altrove siano state fatte molte ricerche) non dimostrano che i nostri antenati UMANI siano originari
dell’Africa. Ma anche ammesso che sia assodato questo, sarebbe tutto da dimostrare che questi nostri antenati fossero affini
o più affini di quanto lo siamo oggi noi, agli odierni neri subsahariani.
A parte ciò, c’è una circostanza che io trovo davvero bizzarra: il ricercatore che avrebbe dimostrato negli anni ’70
l’inesistenza delle razze (e già questo è davvero strano, si può dimostrare l’esistenza di qualcosa, ma, dagli UFO ai
fantasmi, allo yeti, al mostro di Loch Ness, non la sua inesistenza, al massimo si può dire che non ci siano prove sufficienti
per ritenere che esista), Richard Lewontin, appartiene a un popolo che proclama l’inesistenza delle razze da quasi due
secoli, da quando nel 1848 un suo moderno profeta, Karl Marx, se ne uscì col suo famoso appello “Proletari di tutto il
mondo unitevi”, ma poi al suo interno pratica la più rigida endogamia e separazione dagli altri gruppi umani, e considera
coloro che non appartengono a questo gruppo etnico-religioso, i cosiddetti gojm, subumani allo stesso livello delle bestie, è
a tutti gli effetti l’inventore del razzismo, se per esso intendiamo non il riconoscimento dell’esistenza delle razze, ma il
disprezzo verso gli altri gruppi umani.

I resti di ominidi primitivi, di gruppi ancestrali da cui homo potrebbe essere disceso non sono mai stati trovati fuori
dall’Africa? Certamente se ne sono trovati, anche se hanno avuto molta minore pubblicità dei reperti africani: Ramapithecus
e Sivapithecus sono stati ritrovati in India e non a caso prendono il nome da due divinità del pantheon indiano; in Italia
abbiamo un antropomorfo di sospetta tendenza ominide Oreopithecus Bambolensis, i cui resti, uno scheletro quasi completo
emersero da una cava di carbone a Monte Bamboli in Toscana, ma anche l’Australopithecus, cioè il ceppo ancestrale da cui
si sarebbe originato homo, è stato ritrovato fuori dall’Africa, e proprio in casa nostra. Nel 1983 un ricercatore italiano,
Gerlando Bianchini, diede notizia del ritrovamento in Sicilia dei resti di un australopiteco da lui chiamato Australopithecus
Siculus, e di questa scoperta ricordo che “L’Espresso” diede notizia con grande scalpore.

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In quel periodo girò addirittura una barzelletta nella quale si immaginava che questi ominidi giunti nella grande isola
mediterranea si sarebbero detti: “Adesso dobbiamo metterci d’accordo per non farci fregare da tutti quelli che verranno
dopo di noi”, e avrebbero costituito un’associazione chiamata Mutua Assistenza Fra Immigrati Australopitechi, MAFIA. La
mafia è difficile da estirpare perché le sue radici sono molto profonde e molto antiche.
Fuori dalla battuta di spirito, noi capiamo che si è trattato di una scoperta di grande importanza, però stranamente dopo un
poco su di essa è sceso il silenzio, come se fosse troppo scomoda per la versione delle nostre origini che si voleva avallare a
tutti i costi.
Dell’homo erectus, nostro predecessore lungo la linea umana, e in effetti già pienamente homo, non parliamo proprio: i suoi
resti sono stati ritrovati dappertutto in Eurasia, partendo dai ritrovamenti di Giava (all’inizio erroneamente classificato come
Pithecanthropus) e Pechino, ma uno dei soi resti più importanti è emerso nel pieno del continente europeo, a Heidelberg in
Germania, al punto che diversi ricercatori preferiscono classificare l’intera specie come Homo Heidelbergensis.
Quindi, un punto che va bene evidenziato, è che i ritrovamenti degli ominidi africani non dimostrano minimamente l’origine
africana della nostra specie.
Premesso tutto ciò, vediamo quali sono le novità emerse recentemente riguardo a queste tematiche, e quali tasselli
aggiungono alla comprensione delle nostre origini e di noi stessi.
Cominciamo con il segnalare una ricerca dell’Università degli Studi di Firenze in collaborazione con l’Università di Siena, i
cui risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista “Nature”, a condurre questa indagine sono stati David Caramelli e
Martina Lari dell’ateneo fiorentino e Annamaria Ronchitelli e Stefano Ricci di quello senese. Sottolineo il fatto che la
pubblicazione su “Nature” dimostra che a differenza di quel che spesso si pensa, la ricerca italiana è in grado di produrre
lavori di eccellenza internazionale.
Si è trattato di una ricerca che ha analizzato il DNA di cinquantuno individui vissuti in varie parti dell’Europa durante l’età
glaciale tra 45.000 e 7.000 anni fa.

Questa indagine non ha aggiunto molte cose nuove a quel che sapevamo già, tranne il fatto che la componente di geni di
Neanderthal passati ai sapiens del paleolitico era maggiore di quella che si rileva negli Europei odierni (dal 3 al 6% contro il
2% attuale), ma ha permesso di approfondire quel che sapevamo già con un dettaglio molto più accurato di quel che si
poteva avere finora.
Il bollettino dell’Università di Firenze che riporta le informazioni in proposito è del 4 maggio, e da qui traggo
un’osservazione importante:

“Un’altra importante scoperta evidenzia la comparsa, già 14.000 anni fa, di una nuova componente genetica”. Ora, se voi
ricordate, di questa comparsa 14.000 anni fa nel patrimonio genetico degli Europei di un genoma “misterioso” di cui non si
comprende bene la provenienza, avevamo già parlato, ne aveva accennato Carlomanno Adinolfi in un articolo pubblicato su
“il primato nazionale” in data 8 febbraio, Ma davvero veniamo tutti dall’Africa?, e io avevo ripreso l’argomento nella
ventiseiesima parte di questa serie di articoli.
“L’Europa 14.000 anni fa, dopo la fine dell’ultima glaciazione è stata occupata da una popolazione eurasiatica dall’origine
per il momento sconosciuta (ma si ipotizza il nord) portatrice di un genoma completamente diverso da quello africano”.
Si ipotizza il nord, ma forse è possibile avanzare un’ipotesi ancor più suggestiva: il 12.000 avanti Cristo non è troppo
lontano dall’epoca in cui sarebbe iniziata la grande deglaciazione in conseguenza della quale molte aree del nostro
continente o limitrofe a esso sarebbero finite sommerse per l’innalzamento del livello dei mari provocato dal ritorno allo
stato liquido di enormi quantità d’acqua fin allora accumulate nei ghiacciai terrestri, e guarda caso, sempre quest’epoca non
è molto lontana neppure da quella in cui Platone (che non ne poteva sapere nulla di variazioni del livello degli oceani in
conseguenza dello scioglimento della calotte glaciali, colloca la leggenda, il mito di Atlantide.
Noi Europei potremmo avere un’origine iperborea, atlantica o magari entrambe le cose.
L’idea che la nostra specie potrebbe aver avuto origine nel lontano nord in un’epoca in cui esso presentava condizioni di
gran lunga più favorevoli alla vita umana di quelle di oggi, trova appoggio nelle tradizioni dei popoli praticamente di ogni
parte del nostro pianeta, e ricordiamo una volta di più la rassegna che ne ha fatto Gianfranco Drioli nel bel libro Iperborea,
ricerca senza fine della Patria perduta, ma non ha dalla sua prove materiali tangibili, anche se resterebbe da spiegare il fatto
che tutte le tradizioni dei popoli civili e selvaggi che conosciamo diano delle nostre origini una collocazione geografica
opposta a quella oggi stabilita “dalla scienza” – in realtà dal potere politico – come “verità ufficiale”.

(Se è per questo, prove tangibili a suo sostegno non ne ha neppure l’Out of Africa, ma essa ha dalla sua la consacrazione
ufficiale delle istituzioni, così come nel seicento ce l’avevano i detrattori di Galileo, e soprattutto il potere suggestivo del
sistema mediatico).

Forse in un futuro non lontano, quelle prove che ancora mancano potranno venire dall’analisi del DNA. Un giorno che i
fautori della democrazia antirazzista e sostenitrice del mescolamento etnico, dovrebbero augurarsi di non vedere mai.
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Cosa abbastanza sorprendente, negli ultimi tempi su queste tematiche è tornato anche Anatole Klysov, lo scienziato russo
che è un deciso e combattivo avversario dell’Out of Africa. La Guerra Fredda sembra oggi ritornata tra scienziati russi e
americani, ma per così dire a parti invertite. Ai tempi dell’Unione Sovietica, infatti erano i ricercatori russi a dover piegare
la realtà dei fatti a un dogmatismo di tipo ideologico; il loro compito non era cercare la verità delle cose, ma riconfermare
l’ortodossia ideologica dominante, ed è proprio quello che accade oggi ai ricercatori statunitensi che non possono derogare
dall’ortodossia democratica politicamente corretta che impone di proclamare l’inesistenza delle razze e il dogma dei
benefici della società multietnica, oggi sono loro “i sovietici”, mentre gli scienziati russi non hanno, o hanno molto di meno
queste preoccupazioni e, guarda caso, in campo antropologico, sul problema dell’origine dell’uomo sono schierati su
posizioni di netta contrarietà all’OOA.
Ebbene, proprio in sintonia con le ricerche che abbiamo visto, in un articolo comparso recentemente (4 maggio) sul blog di
Anatole Klysov si spiega che “Certamente parte dell’estremo nord, fu in tempi pre-storici, stabilmente abitata, perché ben
diverse dalle attuali ne erano le condizioni climatiche e possibilità di vita”. (devo la segnalazione al nostro Giuseppe “Joe”
Fallisi).
Tanto per completare il quadro, sempre in questo periodo tra fine aprile e inizio maggio 2016 nel quale sembra proprio che
per quanto riguarda la ricerca dei nostri remoti antenati si siano smosse le acque, è arrivata una notizia ripresa dal sito
vvox.it e precedentemente apparsa sul “Corriere del Veneto”. Sembrerebbero essere stati ritrovati in questa regione i resti di
homo sapiens più antichi d’Europa finora conosciuti. Non si tratta di una traccia imponente, un dente che è stato ritrovato in
una grotta, il Riparo Solinas nei pressi di Fumane (Verona) e che sembrerebbe essere pressoché coevo di un altro dente
ritrovato in una grotta ligure. I due reperti sono stati studiati e sottoposti all’analisi del radiocarbonio per determinarne l’età
da Stefano Bonazzi dell’Università di Bologna e Marco Paresani dell’Università di Ferrara. Il reperto veneto parrebbe
essere il più antico mai rinvenuto in Europa, risalente a 40.000 anni fa, e il secondo al mondo, superato solo da un
ritrovamento avvenuto in Siberia in una grotta nella catena dell’Altaj (anche in questo caso, siamo piuttosto lontanucci
dall’Africa, mi pare).
In più, come ha precisato Marco Paresani nell’intervista rilasciata al Corriere del Veneto, si tratta di un ritrovamento di
particolare valore perché associato a un preciso contesto culturale formato da ornamenti, utensili, incisioni sulla pietra.
Out of Africa? Forse sarebbe più appropriato parlare di Out of Veneto!
A tutt’oggi è difficile stabilire se le nostre remote origini siano iperboree, atlantiche o semplicemente europee autoctone nel
senso nobile e atavico che gli antichi davano a questa parola. Quello di cui possiamo essere davvero certi, è che noi
rappresentiamo la continuazione di un retaggio antico e nobile, la parte più creativa e migliore della specie umana, quello
stesso retaggio che oggi la tirannide mondialista vuole distruggere, e cancellare con ciò stesso il futuro dell’umanità.

NOTA: nell’immagine una possibile ricostruzione della terra iperborea in un’epoca in cui il polo artico sarebbe stato libero
dai ghiacci.

Di fatto, la serie di articoli che avete visto raccolti sotto questo titolo, e che costituiscono il mio personale e casalingo studio
sull’eredità degli antenati, non possono essere considerati le varie parti di un saggio, per quanto ampio, ma una vera e
propria rubrica da aggiornare periodicamente (anche se vi confesso di aver raccolto e rielaborato parte di questo materiale in
forma di una trattazione sistematica, un libro che dovrebbe/sarebbe dovuto uscire presso “I quaderni di Thule” dell’editore

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Ritter, se non che l’attività di questa casa editrice è stata ritardata dall’attentato subito, e tappare la bocca a chi la pensa
diversamente, la violenza, la prevaricazione rimangono sempre l’argomento principale della democrazia antifascista).
Questo fatto comporta una certa pluralità di tematiche, che rimangono molto condizionate da quello che di volta in volta
offre il web, uno strumento di ricerca indispensabile senza il quale tutto questo lavoro svolto finora da una sola persona, non
sarebbe stato materialmente possibile.
La volta scorsa (ventinovesima parte) abbiamo ripreso in mano il discorso delle remote origini della nostra specie, e
abbiamo visto che, alla luce dei dati attualmente disponibili, non solo si possono avanzare considerevoli dubbi sull’origine
africana di homo sapiens, ma che allo stato dei fatti, il nord del mondo, un’origine per così dire iperborea, appare non meno
e forse più probabile. Questa volta invece ci concentreremo principalmente su di un tema molto più ristretto e molto più
vicino a noi sulla scala temporale: le origini e la composizione genetica di quel particolare segmento della specie homo
sapiens i cui membri conosciamo come Italiani.
Prima di addentrarci in questa tematica, vorrei però segnalarvi una mia piccola scoperta, e mi scuso se qualcuno di voi è già
a conoscenza di quanto sto per dirvi, tuttavia comprenderete che in un campo di questa vastità è impossibile sapere tutto,
anche perché non è che il sistema con le cui false interpretazioni abbiamo a che fare, si affretti a rendere disponibili tutte le
informazioni che potrebbero metterlo in crisi.
Bene, è probabile che abbiate già sentito parlare dello scomparso (e non rimpianto) Stephen Jay Gould. Gould non è stato
propriamente uno scienziato, un ricercatore, quanto piuttosto un divulgatore scientifico che ha ottenuto una fama planetaria
in questa veste. Forse ricorderete, ne abbiamo parlato a suo tempo, che si è fatto notare per i suoi durissimi attacchi contro
Konrad Lorenz, da lui accusato più o meno di essere il padre, il mentore o il responsabile di quella “svolta fascista” nella
biologia che etologia, darwinismo sociale, sociobiologia stanno delineando, quella che in un bell’articolo apparso anni fa su
“L’uomo libero”, Sergio Gozzoli aveva definito come La rivincita della scienza contro il buonismo, l’antirazzismo, il
femminismo e la camicia di forza di tutti i dogmi della Political Correctness democratica.
Bene, la cosa strana che ho scoperto recentemente, è che Gould appartiene allo stesso gruppo etnico-religioso di cui fanno
parte Richard Lewontin, il teorico dell’inesistenza delle razze, ed Aaron Dogolpolskij, il linguista teorico del nostratico,
cioè in pratica della teoria secondo la quale gli antenati degli indoeuropei non erano nomadi e cavalieri delle steppe
eurasiatiche, ma pacifici agricoltori di origine mediorientale, un “russo” che dopo la caduta dell’Unione Sovietica – guarda
un po’ – si è trasferito in Israele.
Vi rendete conto di quello che significa? In pratica, tutte le idee “politicamente corrette” su noi stessi e le nostre origini che
la democrazia cerca di imporre al mondo intero volente o nolente, spesso ricorrendo alla censura e alla repressione dei punti
di vista non conformi con modi che hanno ben poco da invidiare a quelli dell’Unione Sovietica di Breznev, derivano da un
piccolo gruppo di persone legate reciprocamente da una PRECISA appartenenza etnico-religiosa, lo stesso gruppo da cui a
suo tempo sono “germogliati” Marx e Freud.
STRANO, DAVVERO STRANO: questo stesso gruppo, mentre predica appassionatamente per tutti gli altri i benefici del
meticciato, del mescolamento razziale, per quanto riguarda se stesso e i suoi membri, pratica la più rigorosa endogamia.
Tutte le idee sulle nostre origini che la democrazia vuole imporre a livello planetario come “l’ortodossia scientifica” che si
pretende indiscutibile, dall’inesistenza delle razze all’origine africana della nostra specie, alla provenienza mediorientale
degli indoeuropei, alla totale dipendenza della civiltà europea da influssi orientali (quest’ultimo aspetto della tematica l’ho
esaminato nella serie di scritti Ex oriente lux, ma sarà poi vero?), hanno il chiaro marchio di fabbrica di coloro che, diceva
Louis Ferdinand Celine, “mentono anche quando respirano”.
Il problema dell’origine e della composizione genetica degli Italiani (quelli veri, beninteso, quelli nativi, perché i “nuovi”
italiani sono italiani nella stessa misura in cui un grizzly nato in uno zoo cinese è un panda), è un problema che ho già
affrontato sulle pagine di “Ereticamente”. In un articolo di qualche anno fa, avevo citato una ricerca condotta da un team di
genetisti stranieri e pubblicata in lingua inglese su “Digilander” che spiegava che dal punto di vista genetico, nella
popolazione italiana del nord è riscontrabile un’influenza celtica, e in quella del sud un’influenza greca, ma che esse, a
parere dei ricercatori, non sono tali da non poter parlare della popolazione italiana come qualcosa di coerente dal punto di
vista genetico e che, a parere degli stessi, la differenza fra italiani del nord e italiani del sud – che in una certa misura esiste
– è perlopiù esagerata per motivi politici.
Gli stessi autori affermavano di essersi aspettati di ritrovare nell’Italia meridionale un’influenza genetica mediorientale, in
conseguenza della colonizzazione cartaginese o della conquista araba della Sicilia, ma di aver constatato nei fatti che essa è
di gran lunga più tenue di quanto avessero previsto.
Quella che francamente non mi aspettavo, è stata la reazione dei lettori che ho potuto desumere dai commenti apparsi su
“Ereticamente” in coda al mio articolo, tutti negativi, e spesso con toni fortemente negativi, sebbene non avessi nemmeno
espresso un’opinione personale ma mi fossi limitato a riportare gli esiti di una ricerca scientifica. Probabilmente, nel corso
degli anni e tra l’ampia mole di scritti da me pubblicati sotto la nostra testata, questo è stato uno di quelli maggiormente
contestati.

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Confesso che la cosa mi lasciò spiazzato, avevo (ingenuamente!) pensato che in ambienti che amano spesso definirsi
“nazionali”, la notizia che dopotutto GLI ITALIANI ESISTONO dal punto di vista genetico, fosse accolta come una buona
notizia, mentre a giudicare dalle reazioni che avevo suscitato, era vero esattamente il contrario.

E’ un atteggiamento che in seguito a quest’esperienza mi sono sforzato di analizzare: vogliamo essere padani, galli
cisalpini, longobardi, etruschi, bi-siculi (delle Due Sicilie) o promuovere identità regionali lombarde, sarde, venete al rango
di nazionalità, tutto meno che italiani, perché settant’anni di Italia democratica e antifascista ci hanno portati ad avere
nausea dell’Italia e di noi stessi, è questa una responsabilità gravissima che la democrazia porta con sé, di avere
letteralmente avvelenato l’anima di un popolo, ma non è di essere italiani che dobbiamo avere nausea, è la democrazia
antifascista che ci deve fare schifo, che va riconosciuta come la lebbra che è.
Tuttavia, questa è ancora solo una parte della spiegazione. Al di sotto c’è qualcos’altro che non interessa soltanto l’Italia,
ma coinvolge un po’ tutta l’Europa. Contro le tendenze planetarie, mondialiste, la globalizzazione, la tendenza alla
creazione di società multietniche e razzialmente ibride, siamo portati alla riscoperta e alla valorizzazione della nostra
identità etnica, culturale e storica. E’ giusto che sia così, ma non dobbiamo dimenticarci mai che ci confrontiamo con un
nemico estremamente abile e capace di rivolgere le nostre armi contro di noi.
Questo è un punto sul quale mi riprometto di ritornare con maggiore ampiezza nella quarta parte di Uomini e tempi, un
articolo che sarà dedicato precisamente alle ideologie nate dalla globalizzazione, ma non vi pare che al riguardo si debba
prendere in considerazione quanto ha da dirci lo scrittore austriaco Gerd Honsik che ha pagato “la colpa” di aver svelato al
mondo Il piano Kalergi in 28 punti con un lungo periodo di detenzione inflittogli da una democrazia per la quale esprimere
le proprie idee e ancor di più dire alla gente la verità è un reato inammissibile?
Ecco cosa ci racconta nel suo libro:

“Kalergi proclama l’abolizione del diritto di autodeterminazione dei popoli e, successivamente, l’eliminazione delle nazioni
PER MEZZO DEI MOVIMENTI ETNICI SEPARATISTI o l’immigrazione allogena di massa”.
Le identità nazionali, prevedeva Kalergi, devono essere sottoposte a un doppio attacco, “dall’alto” attraverso
l’immigrazione e il meticciato multietnico, e “dal basso”, scatenando i separatismi e i localismi. Molti “identitari” non se ne
rendono conto, ma spingendo all’assurdo il separatismo e il localismo, contribuendo a frantumare le identità nazionali,
fanno semplicemente il gioco del nemico, diventano suoi strumenti.
Noi tutti sappiamo che molto spesso le “amicizie” contratte in internet, o anche attraverso uno strumento come facebook,
soprattutto quando si tratta di qualcuno che non abbiamo avuto modo di conoscere di persona ma solo attraverso questa
nuova forma di rapporto epistolare, sono amicizie per modo di dire, ma ogni tanto c’è qualche eccezione, qualcuno che
impariamo a conoscere davvero e ad apprezzare, anche se queste persone sono piuttosto l’eccezione che non la regola.
Una di queste eccezioni, una persona che ho imparato ad apprezzare e a considerare un amico a tutti gli effetti anche in
assenza (finora) di un contatto diretto, è un mio corrispondente siciliano anche se vive fuori dall’Isola. Poiché non so se
abbia piacere che io lo citi pubblicamente, lo menzionerò con il suo nome di battaglia, Mamer. Mamer è da tempo
impegnato in una vera e propria battaglia culturale per dimostrare la falsità della leggenda della Sicilia araba. In età
medioevale l’Isola è stata dominata dai Saraceni per un periodo di tempo relativamente breve, costoro impiegarono più di
un secolo per conquistarla, scontrandosi con un’accanita resistenza delle popolazioni locali, mentre una volta insediatisi
sull’Isola, i Normanni che pure erano un gruppo di mercenari alquanto esiguo riuscirono a cacciarli in breve tempo
soprattutto grazie all’appoggio dei Siciliani che detestavano la dominazione della Mezzaluna.
Questa è la verità storica, e se oggi la leggenda della Sicilia araba è gonfiata e dilatata, questo avviene in ragione di quello
spirito anti-nazionale che ho ricordato più sopra, e perché è una falsità che fa comodo alla sinistra e alla Chiesa, tese come
sempre a creare un clima psicologico quanto più accogliente possibile all’immigrazione. È indiscutibile che tutto ciò sia
puro delirio, di femministe che smaniano di essere costrette a indossare il burqa e di preti che non vedono l’ora di vedere le
loro chiese trasformate in moschee, tuttavia qui noi possiamo vedere come il localismo anti-nazionale si saldi senza
soluzione di continuità con i disegni mondialisti, vediamo l’attuazione del piano Kalergi allo stato puro.
Il caso siciliano non è – purtroppo – isolato. Noi oggi vediamo che il governo di sinistra spagnolo favorisce l’arabizzazione
dell’Andalusia e delle altre regioni iberiche meridionali concedendo agevolazioni ai magrebini che si installano a sud di
Madrid, quasi a voler annullare la reconquista. E’ il solito razzismo di sinistra contro gli Europei autoctoni che bene
abbiamo imparato a conoscere. Noi possiamo dire per regola che un eventuale governo che avesse ancora oggi il coraggio di
mettere fuori legge i movimenti marxisti, non farebbe alcun torto al proprio popolo, al contrario, lo difenderebbe da questi
nemici della propria gente, a cominciare proprio dalle classi lavoratrici.
Torniamo al nostro Mamer; in data 12 maggio mi ha segnalato un ampio articolo, Genetic History of the Italians, Storia
genetica degli Italiani, apparso su eupedia.com, firmato “Marciamo”, tradotto da Giovanni Bigazzi, scritto nel luglio 2013 e
aggiornato nel febbraio 2015. (Una considerazione che mi viene spontanea: ma, come nel caso dell’articolo su Digilander
che ho menzionato in precedenza, devono essere sempre gli stranieri a occuparsi della nostra storia genetica? Noi dobbiamo
sempre accontentarci della favoletta di essere di origini miste, non importa fra cosa e cos’altro, come se il meticciato
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destinato a cancellarci come popolo fosse già iscritto nel nostro destino, e altre menzogne mondialiste assortite che il
lavaggio del cervello cristiano-marxista ci ha resi fin troppo ansiosi di bere?)
L’articolo, vasto e piuttosto tecnico, adesso non tenterò nemmeno di riassumerlo, anche perché racconta una storia che in
sostanza conosciamo già: all’origine dell’Italia c’è sicuramente una fusione di popolazioni, alcune di origine indoeuropea,
come latini, veneti, sanniti, altre di linguaggio non indoeuropeo, come etruschi, liguri, sardi, ma sempre rientranti
nell’ecumene europea e siamo ben lontani dall’essere quella specie di campione dell’universo mondo che alcuni vorrebbero,
volendo darci a intendere che non abbiamo una specificità come popolo, un’identità che sarebbe cancellata dal meticciato
con gli invasori che gli attuali flussi migratori ci portano in casa.
Insomma, conclude il nostro Mamer: “Dati scientifici, analisi genetiche e non favole mondialiste per indottrinare allodole
suicide”.
È un fatto curioso, ma sembra che periodicamente l’interesse su determinate tematiche si concentri provenendo dalle fonti
più disparate, e sulla storia genetica degli Italiani sembra che ultimamente ci siano diverse cose da dire. Abbiamo appreso
ad esempio che dall’analisi del genoma di Oetzi, l’uomo del Similaun, è risultato che di tutte le popolazioni oggi viventi in
Europa, i più vicini a lui geneticamente sono i sardi, sono la popolazione che presenta la maggiore continuità con gli
Europei del neolitico, la meno alterata da invasioni e apporti successivi.
Sempre su questa linea si collocano due altri contributi che vale la pena di considerare. Il 12 maggio sul sito “European and
Indoeuropean Identity” è apparso un articolo ripreso da etruscancorner.com su Nove secoli di storia etrusca (ma una volta di
più, devono essere sempre gli stranieri a ricordarci la grandezza della nostra storia passata?). L’argomento etrusco
sicuramente per i nostri lettori non è nuovo: ricordiamo su questo tema i begli articoli del professor Massimo Pittau, e
qualcosa in proposito ho scritto anch’io. Comunque certi riscontri sono sempre interessanti, e si può rilevare che questo
testo conferma una volta di più l’origine autoctona degli Etruschi la cui civiltà si sarebbe evoluta direttamente dalla cultura
villanoviana. La supposta origine mediorientale degli Etruschi, sebbene avallata da Erodoto, rimane una pura leggenda che
non ha un valore storico superiore a quella di Enea, inventata per far discendere i Latini dai superstiti della guerra di Troia.

A volte sembra proprio che le coincidenze si diano la mano perché il 17 maggio sul sito “Venetikens – Veneti Antichi” è
apparso un articolo ripreso da venetostoria.com, I veneti, popolo d’Europa a firma di Millo Bozzolan, che ci racconta la
storia del popolo veneto come è stata ricostruita da Vitord Hensel, direttore dell’Accademia delle Scienze polacca. Le
somiglianze sia di toponimi, sia di manufatti, sia di tradizioni culturali come il simbolo del tiglio venerato quale Albero
della Vita, inducono a pensare all’esistenza in epoca preistorica di una vasta area “veneta” comprendente gran parte
dell’Europa centrale, e coincidente significativamente con la cultura materiale battezzata dagli archeologi “Cultura dei
campi di urne”. I Veneti sarebbero stati la prima popolazione europea che si possa definire nazione.
In età storica, i Veneti si ritrovano in tre aree: nel nord della Gallia, nella zona bretone-normanna, dove Cesare ebbe modo
di incontrarli e nel De bello gallico ne ha lodato le eccellenti qualità marinare; nell’attuale Polonia, dove hanno lasciato una
chiara traccia nella toponomastica (basta pensare alla somiglianza fra i nomi di località polacche e bretoni, ad esempio Brest
e Brest-Litovsk), e il nome dato loro dai vicini germanici, “Wenden”, passò poi agli slavi che subentrarono loro, e infine
naturalmente nell’attuale Veneto italiano.
Tutte riprove in più del fatto che abbiamo alle spalle una grande eredità storica, un’eredità che oggi non dobbiamo
permettere alla canaglia cattolico-sinistrorsa zelante esecutrice del piano Kalergi, di annientare attraverso la sostituzione
etnica.

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Io credo, e permettetemi di dirvelo con una certa soddisfazione, che questa mia Ahnenerbe, sia pure casalinga e personale,
con i suoi ovvi ed evidenti limiti, abbia finora svolto un compito non indegno delle finalità ambiziose che mi ero proposto,
ossia chiarire nei suoi molteplici aspetti e lungo una dimensione temporale estremamente ampia, l’eredità degli antenati, ed
evidenziamo una volta di più che si tratta di questioni che non sono semplicemente accademiche, ma che hanno un preciso
risvolto politico; infatti, si tratta né più né meno che di verificare tutta la falsità delle leggende che ci vengono proposte dalla
cultura ufficiale “democratica”, “politicamente corretta” e sedicente scientifica allo scopo di sminuire l’immagine che
abbiamo di noi stessi in quanto uomini europei ed indoeuropei, nel tentativo di persuaderci che la sostituzione etnica, la
sparizione delle nostre genti sotto la pressione di immigrazione e meticciato, non rappresenterebbe poi un gran male, di
rassegnarci ad essa come un destino inevitabile, di accettarla magari.
Io credo che il lavoro finora compiuto non sia soltanto una risposta adeguata alle mistificazioni democratiche ma, nel suo
complesso delinei un’immagine precisa delle nostre origini e del reale significato delle nostre complesse vicende storiche;
abbiamo visto, in poche parole, che tutto ciò che possiamo considerare civiltà, si associa in maniera inevitabile a un preciso
tipo umano, quello che possiamo chiamare caucasico, europeo ed indoeuropeo.
Avendo dunque alle spalle un ampio lavoro consolidato, quel che resta ora da fare, è soprattutto una questione di rifinitura
di dettagli e di approfondimenti, e sarà precisamente in questa direzione che ci muoveremo questa volta e, mi scuso in
anticipo se stavolta la trattazione risulterà un po’ “a macchia di leopardo”, passando attraverso argomenti, questioni,
orizzonti temporali alquanto diversi gli uni dagli altri.
Ricominciamo a parlare di alcuni nostri vecchi amici, gli hobbit dell’isola indonesiana di Flores. Gli hobbit indonesiani non
appartenevano alla nostra specie, homo sapiens ma erano con ogni probabilità dei piccoli erectus (di piccola taglia per
l’adattamento alle condizioni di vita insulari) che sarebbero vissuti fino a 20.000 anni fa. La loro importanza consiste nel
fatto che essi sono una confutazione tangibile dell’Out of Africa, la teoria dell’origine africana della nostra specie.
Secondo la versione corrente, “la vulgata” politicamente corretta che si cerca oggi di imporre come l’ortodossia scientifica
sull’origine della nostra specie, tra 50 e 70.000 anni fa, l’esplosione del vulcano Toba nell’isola di Sumatra avrebbe creato
diffondendo enormi quantità di polveri nell’atmosfera terrestre, qualcosa di simile a un inverno nucleare, portando
all’estinzione le numerose popolazioni umane erectus e pre-sapiens che allora esistevano, tranne un gruppo di africani da
cui si pretende che noi tutti discenderemmo. Questa “teoria” è stata formulata allo scopo di negare che la specie umana
possa essere suddivisa in razze. Tuttavia, se non fosse sostenuta dal “prestigio” (cioè dal potere) di presunti scienziati
inseriti nei posti-chiave accademici e da un imponente sistema mediatico che lavora in base al presupposto che alla gente si
può dare a bere qualsiasi sciocchezza purché ripetuta con insistenza martellante, si comprenderebbe che è un’autentica
idiozia. E’ mai possibile che una catastrofe planetaria porti UNA SOLA SPECIE (la nostra) sull’orlo dell’estinzione senza
lasciare alcun segno visibile sul resto della vita animale e vegetale?
Come se ciò non bastasse, poiché davvero il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, a smentire tutto ciò sono arrivati i
nostri amici hobbit, perché Flores fa parte dello stesso arcipelago indonesiano di cui fa parte Sumatra, è vicinissima al
presunto epicentro della pretesa catastrofe planetaria, e nonostante ciò, costoro hanno continuato a vivere sulla loro isola
fino a 20.000 anni fa, cioè 30-50.000 anni dopo la presunta mega-esplosione.
In tempi recenti (ma non oso sperare che ciò sia dovuto alla lettura dei miei articoli su “Ereticamente”), qualcuno si è
finalmente accorto che gli ominidi di Flores rischiano di minare l’Out of Africa dalle fondamenta, e ha avanzato una geniale
spiegazione: gli hobbit sarebbero stati sapiens di origine recente affetti dalla sindrome di Down.

Se non sapessimo che questo è stato un tentativo disperato di salvare ciò che non è salvabile, un presupposto ideologico
importante per i democratici quanto falso, davvero si chiederebbe troppo alla nostra credulità e mancanza di senso del
ridicolo: un’intera popolazione di Down, e perché non di ciechi o di paraplegici? Verrebbe quasi da pensare che affetto dalla
sindrome di Down debba essere piuttosto chi ha formulato una simile “teoria”.
Devono essersene accorti anche coloro che hanno formulato questa idea balzana: l’unico modo di rendere la presenza degli
hobbit compatibile con l’Out of Africa, sarebbe quello di retrodatare la loro presenza nel tempo ad un’epoca anteriore alla
presunta catastrofe del Toba, e infatti, con sospetto tempismo, è arrivata la notizia che “stando alle ultime misurazioni” gli
hobbit di Flores sarebbero molto più antichi di quanto si è pensato finora, risalirebbero a qualcosa come 300.000 anni fa, ma
guarda caso!

Questo ci porta a un problema di ordine più generale: se questi cosiddetti scienziati, se questi cosiddetti ricercatori si
dimostrano così disinvolti nel manipolare i dati per farli coincidere coi loro assunti ideologici (o meglio con gli assunti
ideologici che IL POTERE impone loro di divulgare al popolino bue), quanta credibilità ha tutto l’edificio concettuale che
conosciamo come “scienza”?

Nel dubbio, è forse meglio seguire il concetto che quando le teorie “scientifiche” collimano troppo con le opinioni che il
potere ha interesse a imporre, è meglio diffidare e tenere invece in considerazione quelle concezioni tradizionali che esse
vorrebbero soppiantare. È certamente questo il caso dell’Out of Africa, corollario della tesi dell’inesistenza delle razze, che
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si accorda sin troppo bene agli intenti del potere mondialista che vorrebbe imporre l’universale meticciato, e allora teniamo
conto piuttosto delle tradizioni (comuni del resto a tutti i popoli, compresi quelli che vivono alle latitudini più meridionali)
che collocano le origini “nel nord”, iperboree o atlantidi, e del fatto che più ci si sposta verso sud, più si incontrano
popolazioni degenerate, rimaste o ritornate a livelli paleolitici: khoisanidi in Africa, fuegini nelle Americhe, veddoidi in
India, tasmaniani in Oceania. Per converso, l’uomo bianco caucasico rappresenterebbe proprio quello più vicino al tipo
originario della nostra specie, mentre tutti gli altri sarebbero adattamenti relativamente specializzati e tardivi.
Per quanto ciò possa apparire singolare, questa idea “eretica” e così contraria all’immagine “politicamente corretta” delle
origini della nostra specie che “l’ortodossia scientifica” dominante ci vuole imporre, sembra negli ultimi tempi trovare
appoggio in vario grado nel lavoro di diversi ricercatori e intellettuali. L’abbiamo visto nella ventinovesima parte della
nostra ricerca, e non è strano che fra essi si conti in primo luogo Anatole Klysov, lo scienziato russo che è il grande
contestatore dell’Out of Africa.
Ora a questo dossier già abbastanza nutrito, possiamo aggiungere qualche ulteriore tassello. Ultimamente c’è da segnalare la
pubblicazione sul sito dell’Associazione Culturale Simmetria (www.simmetria.org) di un articolo di Giuseppe Acerbi:
L’isola bianca e l’isola verde che, non a caso, è stato recensito su “Ereticamente” dal nostro Michele Ruzzai in un pezzo
intitolato La patria artica. La tematica è presentata in riferimento in particolare alla tradizione indiana, che però trova un
parallelismo in molte culture: in una remota epoca quelle che sono oggi le regioni polari avrebbero avuto tutto un altro
clima, e vi sarebbero state terre emerse là dove oggi ci sono le acque dell’oceano artico, ed esse sarebbero state la sede
dell’umanità più remota.
Una domanda a cui i “santoni” dell’ortodossia scientifica dovrebbero prima o poi degnarsi di rispondere: Se questi “non
sono altro che” miti (come se ciò fosse cosa da poco), come mai si ritrovano concordi nelle tradizioni di tutti i popoli?
Come vi ho spiegato in apertura, questa scritto presenta forzatamente una certa eterogeneità di argomenti. Nella serie di
articoli Ex Oriente lux, ma sarà poi vero? Ho illustrato ripetutamente il concetto che non solo la cultura europea si è
sviluppata sulle proprie radici essendo molto meno debitrice di influssi esterni e in particolare orientali, di quanto di solito ci
si vuole far credere, ma che semmai sono state le grandi civiltà asiatiche e mediorientali a dipendere per la loro genesi e il
loro sviluppo da un influsso europeo e/o indoeuropeo in misura molto maggiore di quanto non si pensi.
Un elemento ricorrente nell’iconografia cinese è l’incontro tra Confucio e Lao Tze, il due maestri fondatori delle due
religioni cinesi tradizionali, confucianesimo e taoismo. La cosa interessante, è che Confucio è raffigurato a cavallo, mentre
Lao Tze è in groppa a un bufalo. Per gli antichi Cinesi il bufalo era impiegato nei lavori agricoli, soprattutto nelle risaie,
mentre i cavallo era destinato alla guerra. Per loro, il bufalo rappresentava “il sud” e l’elemento femminile, e il cavallo “il
nord” e l’elemento maschile.
Cosa significa questo? Gli imperatori cinesi reclutavano al loro servizio mercenari provenienti dal nord, cavalieri delle
steppe in massima parte di origine indoeuropea. A loro e alle loro concezioni si sarebbe ispirato Confucio, e il
confucianesimo, assai più del taoismo, avrebbe influenzato in maniera profonda la cultura cinese, ispirando una serie di
valori tipicamente indoeuropei: il rispetto per le gerarchie naturali, la fedeltà, la lealtà, il culto degli antenati, la
responsabilità, il senso del dovere e del sacrificio. Questo significa che alla base della civiltà cinese c’è un’influenza – se
non etnica, almeno culturale – indoeuropea la cui importanza è difficile da sopravvalutare.
Questa tesi ve l’ho presentata in Ex Oriente lux come una mia personale intuizione. Beh, devo alla cortesia dell’amico
Gianfranco Drioli l’avermi prestato il voluminoso testo stampato in edizione privata Les races humaines di N. C. Doyto,
questo autore francese che è oggi il più importante studioso dei fenomeni razziali, uno studio che richiede coraggio, visto il
clima terroristico introdotto al riguardo negli ultimi settant’anni. Bene, ho potuto constatare con una certa sorpresa che
riguardo alle origini della civiltà cinese, la conclusione di Doyto è esattamente la stessa cui sono arrivato io.
Dovrebbe sempre valere la regola che se due o più ricercatori (permettetemi di considerarmi tale, sia pure nella modestia dei
miei mezzi) giungono indipendentemente l’uno dall’altro alla stessa conclusione, questo rafforza la probabilità che essa sia
quella giusta.
Un altro argomento di cui ci siamo occupati più volte, è quello degli ebrei. Dal momento in cui un’eresia ebraica si è
trasformata in una religione “universale” che disgraziatamente si è diffusa soprattutto in Europa distruggendo quasi
completamente le religioni e le culture native del nostro continente, l’importanza storica dell’ebraismo è stata enormemente
sopravvalutata.
Ora, quello che ho adesso da aggiungere al riguardo, non è esattamente una novità. Qualcosa come quindici-vent’anni fa, un
qualche conoscente regalò alle mie figlie che allora erano adolescenti un libro per ragazzi della serie De Agostini junior,
dedicato a Il mondo della Bibbia, che da allora è rimasto a ricoprirsi di polvere sulla libreria, essendo l’argomento privo di
interesse né per loro né per altri in famiglia. Recentemente, per puro caso mi è capitato fra le mani questo volumetto e gli ho
dato un’occhiata, facendo una scoperta molto interessante. Ovviamente, trattandosi di un libro divulgativo per ragazzi, è
ricco di illustrazioni, raffigura numerosi oggetti ritrovati negli scavi mediorientali: ceramiche, statuette, armi, attrezzi da
lavoro e via dicendo; ebbene, leggendo con attenzione le didascalie si scopre che si tratta di reperti cananei, caldei,
babilonesi, fenici, persino egizi.

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A parte una ricostruzione dell’Arca dell’Alleanza, basata sulla descrizione della bibbia, ma oggetto che in tempi storici
documentati nessuno ha mai visto, di propriamente ebraico non c’è nulla, neppure un coccio di vaso. Basterebbe questo per
comprendere che il “popolo eletto” è stato sempre negato per qualsiasi forma di produzione artistica o artigianale, che ha
sempre disdegnato il lavoro manuale, cioè il lavoro concreto, prediligendo piuttosto le attività del mercante o del predone,
cosa che dopotutto ci dimostra la stessa bibbia, raccontandoci che il tempio di Gerusalemme, vale a dire il centro più sacro
dell’ebraismo, per edificarlo Salomone avrebbe ingaggiato operai fenici.

Popolo eletto? Se credessi a quel Dio, gli consiglierei di votare con maggiore oculatezza la prossima volta!
Al contrario, noi sappiamo che tutto quanto può essere definito “civiltà”, tanto nelle sue realizzazioni concrete quanto in
quelle intellettuali-spirituali, è costantemente legato nella storia a un diverso tipo umano, quello europeo-indoeuropeo,
quello che in un’epoca in cui si potevano affrontare queste questioni con maggiore libertà, prima che “la democrazia”
imponesse la sua opprimente ortodossia, era definito il Leistungmensch, l’uomo creativo o creatore, lo stesso tipo umano
che oggi l’oligarchia mondialista nella quale è riconoscibile una non trascurabile componente ebraica, vuole distruggere
attraverso l’universale imposizione del meticciato.

NOTA: Nell’immagine, una ricostruzione del volto dell’hobbit di Flores.

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Una Ahnenerbe casalinga - trentaduesima parte

Riprendiamo il nostro appuntamento con lo studio dell’eredità degli antenati. Come già l’articolo precedente, anche questo
nuovo incontro tratterà di tematiche un po’ disparate perché quelli che ormai ci restano da prendere in considerazione sono
una serie di aggiornamenti e di approfondimenti a partire da un’analisi delle nostre origini ormai ben definita nelle sue linee
di fondo, anche se – naturalmente – in totale antitesi con la “vulgata” politicamente corretta che a tutti i costi il potere
sedicente democratico ci vuole imporre.
Io penso che avrete probabilmente notato che un aspetto della questione che finora non ho trattato molto, è quello relativo
all’analisi del DNA, preferendo un approccio che privilegia maggiormente gli studi di tipo storico e archeologico, e questo
per una ragione molto semplice: il DNA umano, come quello di tutti gli animali e le forme viventi superiori (a parte cioè
batteri e protozoi) è enormemente complesso, e poiché gli esseri umani si riproducono sessualmente e non per talea come le
viti, è estremamente difficile seguire lo sviluppo di linee genetiche anche relativamente “pure” attraverso la mappatura
cromosomica.
I genetisti finora hanno concentrato i loro studi su due direzioni, lo studio delle mutazioni del cromosoma Y, il cromosoma
maschile, che si trasmette esclusivamente per via paterna, i cosiddetti aplogruppi, e il DNA mitocondriale che si trasmette
esclusivamente per via materna (i mitocondri sono degli organelli cellulari che sono dotati di un proprio DNA diverso da
quello del nucleo; i biologi suppongono che si tratti di antichi batteri assorbiti come simbionti all’interno delle cellule
eucariote; poiché lo spermatozoo non possiede mitocondri, essi si ereditano esclusivamente dalla madre).
Si tratta di una serie di ricerche estremamente suggestive e utili a fornirci indizi importanti sulla storia biologica della nostra
specie, tuttavia, a mio parere vanno prese con una certa cautela, proprio perché condotte su di una parte molto ristretta del
patrimonio genetico. Scusate, ma se io devo confrontare due gruppi di persone, l’uno dalle caratteristiche VISIBILMENTE
europee, l’altro dalle caratteristiche VISIBILMENTE africane, il discorso sugli aplogruppi e i mitocondri lascia il tempo
che trova.
In internet potete trovare alcune interessanti mappe della diffusione degli aplogruppi sul sito di Ethnopedia
(www.ethnopedia.org).
Recentemente (15 giugno), Ethnopedia ha pubblicato uno studio su di un gene molto interessante, che non rientra né fra gli
aplogruppi né nel DNA mitocondriale, ma si trova sul cromosoma 2, si tratta del gene LCT connesso alla produzione
dell’enzima lattasi che determina la tolleranza al lattosio e quindi la possibilità di usare il latte anche di specie diverse da
quella umana e anche in età adulta. Come è facile comprendere, la diffusione di questo gene nelle popolazioni umane è
strettamente connessa alla pratica dell’allevamento di animali (bovini e ovini) risalente all’età neolitica e ci dà quindi una
traccia importante sull’origine delle prime civiltà, l’abbandono della vita nomade dei cacciatori-raccoglitori paleolitici, a
favore di un’economia basata sull’agricoltura e l’allevamento di animali.
Ecco cosa scrive al riguardo Ethnopedia:
“L’avvento del latte animale come alimento per l’uomo è stato reso possibile all’inizio del Neolitico, circa 10.000 anni fa,
con il passaggio dalla vita spesso nomade dei cacciatori-raccoglitori alla vita più stanziale basata sull’allevamento e
l’agricoltura.
In quel periodo pecore, capre e bovini vennero per la prima volta addomesticati in Anatolia e nel vicino oriente, per poi
diffondersi nei millenni successivi nel medio oriente, in Grecia e nei Balcani e, successivamente, in tutta Europa. Attorno al
6400 a.C. capre, pecore e bovini, fonte di latte, erano ormai presenti nel sud e sud est d’Europa”.
C’è qualcosa che non va in questo discorso, e per capirlo è sufficiente osservare proprio la carta che correda l’articolo. E’
del tutto logico supporre che la tolleranza al lattosio sia maggiore nelle regioni dove l’allevamento di animali e l’uso del
loro latte per l’alimentazione umana sia più antico, questo perché l’utilizzo di questa nuova fonte alimentare ha senza
dubbio innescato un processo di selezione darwiniana che tendeva a favorire coloro che erano in grado di approfittare di
questa nuova risorsa alimentare. Abbastanza stranamente la carta riporta (evidenziata in colore più intenso) non la tolleranza
ma l’intolleranza al lattosio, ma basta invertire le proporzioni e il risultato è lo stesso. Bene, in Medio Oriente l’intolleranza
riguarda il 60-80% della popolazione contro il 40-60% dell’Europa mediterranea, il 20-40% di quella centrale e orientale e
il 0-20% di quella settentrionale. Tanto per completare il quadro, diciamo che essa sale all’80-100% nell’Africa nera,
nell’Asia orientale e nelle parti più meridionali del Sud America, mentre si presenta a livelli europei in Nord America e in
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Australia come conseguenza del fatto che queste terre sono popolate da discendenti di coloni di origine europea.Questi dati
si lasciano leggere in un solo modo: l’adattamento al consumo di latte animale, e quindi l’allevamento devono aver avuto
origine a nord dell’arco alpino, da qualche parte nell’area germanica o scandinava, e non in Medio Oriente.Vediamo
all’opera una nostra vecchia conoscenza, quello che ho chiamato lo strabismo mediorientale, la tendenza ad attribuire al
Medio Oriente una centralità nello sviluppo della storia umana a discapito dell’Europa, che non trova rispondenza nei fatti,
una tendenza che a mio parere trova la sua spiegazione nel fatto che il cristianesimo ha posto la bibbia al centro della cultura
europea, determinando uno schema d’interpretazione della storia che col tempo è stato articolato, ampliato me rimasto lo
stesso nelle sue linee di base, sopravvalutando in maniera sproporzionata le vicende di dubbia storicità che questo “libro
sacro” racconta.
Per quanto riguarda l’addomesticamento di animali atti a fornire latte, per quanto riguarda gli ovini, pecore e capre,
esso potrebbe essere avvenuto in Medio Oriente prima che in Europa, sebbene non esistano prove conclusive, ma
l’addomesticamento dei bovini è certamente avvenuto in Europa, ed è stato probabilmente preceduto dal semi-
addomesticamento nomade della renna, e ne ha verosimilmente ricalcato le tecniche. Questo cervide è tuttora allevato dalle
popolazioni lapponi secondo uno stile vecchio di migliaia di anni.
L’uro, bos primigenius, l’antenato selvatico delle razze bovine domestiche viveva sul nostro continente fino al XVII secolo
e l’ultimo esemplare conosciuto, una femmina, sarebbe morta in Polonia nel 1627. L’uro era del resto ben conosciuto dagli
Europei dell’età medioevale, avrebbe ad esempio dato il nome al cantone svizzero di Uri (uno dei tre che hanno fondato la
confederazione), e il suo stemma riporta appunto una testa di questo animale.
Una notizia riportata in data 16 giugno dal sito in lingua inglese “dawn.com” a prima vista
sembrerebbe avere poco a che fare con le problematiche connesse all’eredità degli antenati.
Nella località pachistana di Chitral, la conversione forzata di una ragazza kalash che sarebbe
stata costretta a convertirsi all’islam, avrebbe provocato violenti scontri tra membri dell’etnia
kalash e mussulmani locali.In un certo senso, non è una notizia: che l’islam sia una religione
rozza e violenta, il cui principale mezzo di apostolato è la forza bruta, il peggio del peggio dei
monoteismi, questo lo sapevamo già, come già da un pezzo sapevamo che la sua violenza, la
“libera” scelta fra la conversione e la messa a morte, questa religione profondamente
misogina sembra riservarla soprattutto alle donne. Inoltre noi come europei possiamo
constatare che tutte le volte che la piaga, la cancrena islamica avanza nel nostro continente,
questo coincide con un arretramento delle etnie europee di fronte agli invasori venuti dal
Medio Oriente e dal Magreb, perché – fuori dai denti – l’islam è la “bandiera religiosa” della sostituzione etnica.
Personalmente, e l’ho detto più di una volta, che persino nei nostri ambienti vi siano delle simpatie per l’islam, è una cosa
che io trovo assurda e delirante.
Tuttavia, il fatto che questo nuovo episodio di intolleranza e violenza islamica colpisca una volta di più l’etnia e la cultura
kalash ormai ridotte a poche migliaia di persone dalle incessanti persecuzioni, ferisce in maniera particolare. I kalash infatti,
costituiscono una testimonianza vivente di un importante capitolo della nostra storia remota che si vuole a tutti i costi
ignorare: questa popolazione, come i vicini Hunza con cui sono imparentati, presentano delle forti caratteristiche europidi e
sono portatori di una cultura autoctona testardamente pagana che ha finora resistito a tutte le persecuzioni da parte dei bruni
e islamizzati abitatori delle valli circostanti che non hanno mai smesso di assediarli.
Circa le loro origini, esiste la leggenda che si tratterebbe dei discendenti di una falange perduta dall’armata di Alessandro
Magno nel corso della sua avanzata verso l’Indo, ma la verità storica è probabilmente un’altra.In un articolo apparso sul n.
98 del giugno 1989 su “Airone”, Tra i Kalash, gli ultimi pagani dell’Afghanistan, Duccio Canestrini riferisce:
“Gli antropologi culturali, infine, sottolineano la somiglianza di alcune caratteristiche della cultura kalash (come la figura
dello sciamano, l’uso del tamburo nelle feste e la stessa vinificazione) con elementi tribali del Turkestan orientale, oggi
politicamente cinese”.Nove anni dopo (perché non è che nel frattempo il mondo occidentale si sia occupato molto dei
Kalash), in un articolo, Figli di Dioniso di Italo Bertolasi che è comparso su “Repubblica” del 16 gugno 1998, si riporta:
“Gli antropologi che li hanno studiati dicono che la loro storia inizia quattromila anni fa con le migrazioni dei popoli indo-
ariani attraverso le valli dell’Oxus (l’Amu Darja). L’antica patria cafira poteva trovarsi forse tra le oasi rigogliose
dell’odierno Turkestan o tra i pascoli e le foreste che circondavano il Mar Caspio”.
(I Kalash sono anche chiamati Cafiri, dal termine arabo kafir, “infedele”, come dire i non mussulmani, i pagani per
antonomasia).
La loro origine potrebbe dunque trovarsi nell’attuale Turkestan, oggi politicamente diviso fra le repubbliche ex sovietiche
dell’Asia centrale e il Sinkiang (Xinjiang per Pechino) oggi sotto dominazione cinese.In questa regione nella zona di
Cherchen sono emerse dalle sabbie di quello che oggi è il deserto del Takla Makan ma un tempo doveva essere un’area
molto più fertile e propizia all’insediamento umano, centinaia di mummie dalle fattezze europidi, di alta statura, dai capelli
biondi o rossicci che qualcuno ha definito “celtiche”. Si tratta con ogni probabilità di quanto rimane dell’antico popolo dei
Tocari un tempo stanziati nel bacino del fiume Tarim. La cosa interessante è che, come ci attestano numerose iscrizioni, i
Tocari non solo parlavano una lingua indoeuropea, ma una lingua appartenente al ramo occidentale, “centum”
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dell’indoeuropeo. (le lingue indoeuropee sono divise in un ramo occidentale comprendente i linguaggi celtici, latini,
germanici, il greco e il tocario, e un ramo orientale composto dalla lingue slave e indo-iraniche; questi due rami sono
chiamati dai linguisti “centum” e “satem” in base alla forma che assume il numerale cento).
Si tratta di un capitolo importante della nostra storia “politicamente scorretto” e perlopiù ignorato (o che si preferisce
ignorare per non urtare l’ortodossia democratica): le tracce di un antico popolamento “bianco” e indoeuropeo dell’Asia
centrale che è verosimilmente alla base delle grandi civiltà asiatiche.
I kalash avrebbero doppiamente diritto alla nostra solidarietà, in quanto europidi assediati da un’ondata di popolazioni
“brune” e in quanto pagani che ancora resistono all’imposizione della peste monoteista, islamica nello specifico.Non
dobbiamo poi dimenticare che il loro infelice destino è una prefigurazione della sorte che potrebbe toccare anche a noi, man
mano che le genti “brune” provenienti dall’altra parte del Mediterraneo si riverseranno sulle nostre contrade; ci troveremo
nella loro stessa situazione, a dover difendere palmo a palmo la nostra cultura e la nostra stessa sopravvivenza davanti al
rullo compressore nero-magrebino e “culturalmente” (per quanto suoni ridicolo usare questo termine per la più rozza e
incivile delle religioni) islamico, perché “l’integrazione” e il “multiculturalismo” tanto cari a democratici e sinistrorsi, non
sono altro che favole per incantare i gonzi.
Una Ahnenerbe casalinga - trentatreesima parte

Riprendiamo il discorso sulle nostre origini da dove l’avevamo lasciato le volte precedenti. Io vi ho parlato di una storia che
sembra destinata a diventare una telenovela infinita, quella degli hobbit, i piccoli uomini dell’isola indonesiana di Flores.
Come abbiamo già visto, la loro esistenza rappresenta un colpo mortale alla – chiamiamola teoria – dell’Out of Africa, della
presunta origine africana della nostra specie, perché essa presuppone che tra 70 e 50.000 anni fa una gigantesca eruzione
vulcanica del vulcano Toba nell’isola di Sumatra, anch’essa indonesiana, avrebbe portato all’estinzione tutti gli esseri
umani allora viventi, tranne un gruppetto di africani dai quali si suppone tutti noi discenderemmo.
Chiaramente, se a pochi passi dall’epicentro della presunta catastrofe planetaria, i nostri hobbit hanno continuato a vivere
indisturbati, “la teoria” crolla miseramente.

Per togliersi dall’imbarazzo, alcuni hanno supposto che gli hobbit fossero umani di origine molto più recente, oltre che nani,
affetti dalla sindrome di Down, idea semplicemente ridicola: UN’INTERA POPOLAZIONE di down? E perché non di
ciechi o di paraplegici?

La cosa deve essere sembrata grottesca anche a coloro che l’hanno formulata, perché subito dopo è arrivata “la scoperta”
che “stando agli ultimi rilevamenti” gli hobbit di Flores sarebbero molto più antichi di quel che finora si era ipotizzato, e
sarebbero vissuti intorno ai 300.000 anni fa. Strano, vero? Una simile scoperta capita troppo tempestivamente e troppo “a
fagiolo” a togliere i sostenitori dell’Out of Africa dall’imbarazzo, per poter essere persuasiva.

Ora, voi capite senz’altro che se le cose stanno in questi termini, la questione si allarga di parecchio, infatti, se non è più
questione di interpretazioni, ma sono gli stessi dati a essere manipolati con disinvoltura, allora l’interrogativo diventa:
quanta credibilità si potrà attribuire a tutta la costruzione intellettuale che conosciamo come “scienza”? Non ci sarà più nulla
che non dovremo considerare con sospetto!
La cosa peggiore è quando si vede il palese ricorso all’escamotage che consiste nel creare un clima di suggestione che serve
a suggerire qualcosa che non è né provato o provabile, né contenuto nelle premesse iniziali, è il tipo di trucco a cui
ricorrono i ciarlatani. Questo è il caso dell’Out of Africa (o OOA, come spesso si dice, seguendo l’abitudine americana di
siglare tutto, quasi che l’usare espressioni “troppo” lunghe implichi il pericolo di pensare “troppo” profondamente, prassi
altamente sconsigliata per le buone pecore del gregge democratico); essa infatti SEMBRA SUGGERIRE che il nero
africano sia il tipo ancestrale della nostra specie, che noi stessi non saremmo altro che dei “neri sbiancati”, che tutte le
vistose differenze che possiamo riscontrare fra bianchi caucasici e neri subsahariani siano una sorta di abbaglio visivo (e
non oso pensare a come le popolazioni mongoliche dovrebbero porsi rispetto a questo schema pazzesco), che le razze non
esistono, e tutta la coorte delle fallacie democratiche che l’ortodossia di regime tende a imporre anche con la censura e la
repressione.

Ora, non solo tutto ciò non è dimostrato né dimostrabile, ma E’ FALSO!

A parte la questione completamente diversa dell’origine africana degli antichi ominidi di milioni di anni fa (ma anche su di
essa, come abbiamo visto altre volte, ci sono delle riserve), non si può escludere, anzi la cosa appare verosimile, che
l’Africa settentrionale, sahariana, abbia giocato un ruolo importante nella nostra origine, ma anteriormente alla
desertificazione del Sahara avvenuta 15-12.000 anni fa, la regione, il Sahara verde era abitato da una popolazione
gromagnoide (simile all’uomo di Cro Magnon), quindi con caratteristiche sostanzialmente caucasiche, mentre il nero
subsahariano sembra essere il frutto di una specializzazione relativamente tarda, per di più – pare – originatosi nel plateau
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arabico, poi migrato nel continente africano attraverso lo stretto di Aden. In epoca storica, questa migrazione era ancora in
corso, al punto che popolazioni di ceppo bantu si insediarono nell’Africa del sud dopo l’arrivo degli Europei, i Boeri di
origine olandese, che per questo motivo chiamano se stessi “Afrikans”, considerandosi i veri africani autoctoni.

Tuttavia, ciò non toglie un fatto fondamentale, che a fare veramente di noi quello che siamo, non sia stata l’Africa, ma il ben
più rigido e selettivo ambiente del nord. Involontariamente, anche la teoria dell’origine africana stabilisce un punto di
frattura fra coloro che si avventurarono in aree ricche di incognite e quelli che rimasero nel più accogliente grembo africano
dove non c’era la necessità di affrontare temperature rigide o variazioni stagionali che potevano creare penuria di risorse (e
quindi sviluppare preveggenza del futuro per poter sopravvivere).
La verità pura e semplice, è che noi non siamo figli dell’Africa ma dell’Eurasia. L’ambiente più rigido ha costretto per poter
sopravvivere, a sviluppare una tecnologia più ingegnosa, a costruire ricoveri, a migliorare l’organizzazione sociale, a
rendere più attenta la cura della prole. Io penso che in questo processo abbiano giocato un ruolo chiave le variazioni
stagionali, la consapevolezza che ai periodi di abbondanza seguono quelli di penuria, e quindi la necessità di accantonare
scorte. Ancora oggi, la differenza è molto visibile: il bianco fa progetti per il futuro, il nero vive alla giornata.
Se, come abbiamo visto, tutto l’edificio “scientifico” va considerato con sospetto non solo riguardo alle teorie e alle
interpretazioni, ma agli stessi dati, sarà bene guardare con attenzione a cosa c’è sul tavolo, soprattutto a quelle teorie e a
quelle ipotesi che “l’ortodossia scientifica” ha messo ai margini non perché non abbiano, prove a loro sostegno, ma perché
non conformi al dogmatismo ideologico “ortodosso”.

Un esempio estremamente chiaro in questo senso l’aveva fatto Gianfranco Drioli nel suo bel libro Iperborea, la ricerca
senza fine della patria perduta, riferendosi alle ricerche controcorrente di uno studioso indiano, il Tilak, che si è dedicato a
uno studio approfondito delle informazioni contenute nei Veda (che a loro volta raccoglierebbero tradizioni antichissime,
tramandate oralmente da molto prima dell’invenzione della scrittura).
Ora è chiaro che qui ci si riferisce a un’epoca successiva a quella dell’origine più remota della nostra specie, ma si tratta di
un capitolo importante della nostra storia che è stato deliberatamente ignorato, con tutta probabilità proprio perché colloca
le nostre radici il quel nord tanto schifato dai santoni della democrazia.

Secondo l’analisi dello studioso indiano, i Veda offrono la testimonianza del ricordo di un’epoca remota in cui gli antenati
degli Arii sarebbero migrati verso l’area indo-iranica dal lontano nord che un tempo godeva di un clima mite, favorevole
all’insediamento umano, e dove dopo la catastrofe climatica regnerebbero invece dieci mesi d’inverno e due mesi d’estate.
L’Avesta iranica attesterebbe una tradizione o un ricordo ancestrale assolutamente analogo. Ora si dà il caso che dieci mesi
invernali, di clima rigido e due estivi, sono precisamente la situazione che si riscontra nelle regioni artiche. Questo potrebbe
anche non impressionarci più di tanto, ma bisogna osservare che, sempre secondo il Tilak, nei Veda è descritta una serie di
fenomeni astronomici che nella maniera in cui sono presentati, avrebbero potuto essere osservati solo al di sopra del circolo
polare artico.
Un discorso assolutamente analogo esce dalle ricerche di Felice Vinci. Il testo più noto di questo autore, Omero nel Baltico,
ci disegna una avanzata e oggi sconosciuta civiltà nordica preistorica collocabile nell’Età del Bronzo o in tempi antecedenti.
Sviluppatasi durante un optimum climatico in cui le terre settentrionali erano di gran lunga più abitabili di oggi, sarebbe
stata distrutta dal mutamento delle temperature che, portatesi gradualmente ai livelli attuali, avrebbero costretto le
popolazioni dell’area a migrare verso meridione, dando origine agli Europei attuali. Sia le tesi di Tilak sia quelle di Vinci
sono ricollegabili al mito della leggendaria terra Iperborea come origine delle popolazioni europee e indo-iraniche, cioè quei
popoli che conosciamo nel loro insieme sotto il nome di indoeuropei.

Quella che è forse la tesi più ardita e più cara a Vinci, cioè che i poemi omerici siano basati sul ricordo di epoche così
remote, e le loro vicende narrate oralmente per millenni sarebbero poi state trasposte nell’ambiente mediterraneo dove i
nomi delle località nordiche abbandonate sarebbero stati esattamente replicati, che è nel Baltico che andrebbero cercate la
Troia omerica e l’Itaca di Ulisse, è stata vivacemente contestata da un altro studioso la cui opinione penso si debba tenere
nella massima considerazione, Ernesto Roli, già amico e collaboratore, e oggi continuatore dell’opera di Adriano Romualdi,
e che, come già lo stesso Romualdi, ritiene piuttosto di collegare la vicenda omerica alla storia degli Ittiti, popolo per cui
quest’ultimo aveva una particolare predilezione, in quanto in età antica ha rappresentato una sorta di antemurale
indoeuropeo in faccia al mondo mediorientale semitico.
Io al riguardo non me la sento di pronunciarmi in maniera definitiva né per le tesi dell’uno né per quelle dell’altro; ciò
invece su cui mi pare sussistano pochi dubbi e su cui entrambi i ricercatori concordano, è la rivalutazione della civiltà antica
europea e nordica, respingendo nel limbo delle favole tutte le idee “moderne” e “progressiste” che troviamo snocciolate nei
libri di storia, che ci vorrebbero dipingere il nostro continente come arretrato e barbaro, solo gradualmente incivilito da
influssi orientali e mediorientali. Ernesto Roli, per dirne una, ha collaborato con Romualdi alla traduzione e alla stesura di

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quell’ampia e bellissima introduzione, ben meritevole di essere considerata un’opera a sé stante, che accompagna l’edizione
italiana di Religiosità indoeuropea di Hanns F. K. Gunther.

In Omero nel Baltico, Felice Vinci riporta un ampio brano dell’insigne archeologo Colin Renfrew:

“Per coloro che non sono esperti, sarà bene ricordare che il radiocarbonio o carbonio 14 è un isotopo radioattivo del
carbonio. Esso è presente nell’atmosfera in proporzioni fisse rispetto al carbonio normale. Quando un organismo (animale o
vegetale) muore cessano gli scambi gassosi con l’esterno. Mentre il carbonio normale rimane invariato, quello radioattivo
decade secondo tempio di dimezzamento costanti e precisi, e costituisce quindi un ottimo “calendario” per datare la materia
organica. Ora, confessa Renfrew, le ricerche condotte con esso sconfessano del tutto la tesi della “luce da oriente”:

“Molti di noi erano convinti che le piramidi d’Egitto fossero i più antichi monumenti del mondo costruiti in pietra, e che i
primi templi fossero stati innalzati dall’uomo nel Vicino Oriente, nella fertile regione mesopotamica. Si riteneva anche che
là, nella culla delle più antiche civiltà, fosse stata inventata la metallurgia e che, successivamente, le tecnologie per la
lavorazione del rame e del bronzo, dell’architettura monumentale e di altre ancora, fossero state acquisite dalle popolazioni
più arretrate delle aree circostanti, per poi diffondersi a gran parte dell’Europa e del resto del mondo antico (…)

Fu quindi un’enorme sorpresa quando ci si rese conto che tutta questa costruzione era errata. Le tombe a camera megalitiche
dell’Europa occidentale sono ora considerate più antiche delle piramidi e sono questi, in effetti, i più antichi monumenti in
pietra del mondo, sì che una loro origine nella regione mediterranea orientale è ormai improponibile (…) Sembra, inoltre,
che in Inghilterra Stonehenge fosse completata e la ricca età del Bronzo locale fosse ben attestata, prima che in Grecia
avesse inizio la civiltà micenea (…) Le nuove datazioni ci rivelano quanto abbiamo sottovalutato questi creativi “barbari”
dell’Europa preistorica, i quali in realtà innalzavano monumenti in pietra, fondevano il rame, creavano osservatori solari, e
facevano altre cose ingegnose senza alcun aiuto dal Mediterraneo orientale.
Pertanto i collegamenti cronologici tradizionali si spezzano e le innovazioni del Mediterraneo orientale che si supponeva
portate in Europa per diffusione, si trovavano ora ad essere presenti in Europa prima che in Oriente. Crolla così l’intero
sistema diffusionista e con esso cadono i presupposti che hanno retto per quasi un secolo l’archeologia preistorica.

In particolare, nel soffermarsi sulle conseguenze della datazione al radiocarbonio corretta con la dendrocronologia (cioè la
calibrazione con gli anelli annuali degli alberi), il Renfrew afferma che “Si verifica tutta una serie di rovesciamenti
allarmanti nelle relazioni cronologiche. Le tombe megalitiche dell’Europa occidentale diventano ora più antiche delle
piramidi (…) e, in Inghilterra, la struttura definitiva di Stonehenge, che si riteneva fosse stata ispirata da maestranze
micenee, fu completata molto prima dell’inizio della civiltà micenea”.
In sintesi, conclude il professore, “Quell’intero edificio costruito con cura, comincia a crollare, e le linee di base dei
principali manuali di storia devono essere cambiate”.
Ora, occorre notare che il testo di Renfrew citato da Vinci, L’Europa della preistoria (Before Civilization, the Radiocarbon
Revolution and prehistoric Europe), è del 1973, e da allora di acqua sotto i ponti ne è passata un bel po’, ma di questa
rivoluzione nei manuali di storia e nei libri di testo non abbiamo ancora visto la minima traccia. Il caso è assolutamente
analogo a quello delle tavolette di Tartaria, scoperte dall’archeologo Nicolae Vlassa nel sito di Turda in Romania
appartenente alla cultura Vinca che sono di almeno un millennio più antiche dei più antichi pittogrammi sumerici
conosciuti, e dimostrano in maniera inoppugnabile che l’invenzione della scrittura è avvenuta in Europa e non in Medio
Oriente.
Certe informazioni (perché non si tratta di idee, di teorie, ma di fatti documentati) possono circolare fra gli specialisti (ma
meno circolano, ovviamente, meglio è), ma non devono assolutamente raggiungere il grosso pubblico a cui si continua ad
ammannire la favoletta dell’origine mediorientale della civiltà, fra Egitto e Mesopotamia, oltre a quella dell’origine africana
della nostra specie.
Non si sa mai che gli Europei, recuperando la consapevolezza del ruolo centrale dei loro antenati nella civiltà umana, con
uno scatto di orgoglio decidessero di riprendere in mano il loro destino, ribellandosi alla morte per sostituzione etnica che è
stata decretata per loro.
Una cosa è certa, se noi adesso non parliamo del divenire della specie umana nel suo complesso, ma restringiamo il discorso
a quello della sua parte più nobile e creativa, non possiamo disconoscere il fatto che l’homo europeus è appunto figlio
dell’Europa, modellato dalle difficoltà, dalle sfide e dalle opportunità che l’ambiente del nostro continente gli ha posto
davanti. Non l’Africa né l’Asia ma madre Europa; è di questo continente, del suo ambiente, del suo clima, dei suoi paesaggi
che noi siamo figli.
Questo stesso concetto è stato espresso in forma non di una rigorosa analisi scientifica ma poetica da Dominique Venner,
uno stupendo brano che ci dimostra che quando si fanno parlare i sentimenti profondi, si possono raggiungere conclusioni
altrettanto e più esatte di quelle che ci danno la ragione e la scienza.
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Venner, con il suo suicidio come forma estrema di protesta contro l’uccisione dei popoli europei mediante immigrazione,
meticciato e sostituzione etnica, per bypassare la censura dei mezzi “d’informazione” sul piano Kalergi, è stato un
combattente, un samurai della causa europea, il cui sacrificio va messo sullo stesso piano di quelli di Ian Palach e di Yukio
Mishima.
Ascoltiamo dunque con rispetto le sue parole:

“Io sono della terra degli alberi e delle foreste, delle querce e dei cinghiali, delle vigne e dei tetti spioventi, delle epopee e
delle fiabe, del Solstizio d’inverno e di San Giovanni d’estate…Il santuario in cui vado a raccogliermi è la foresta profonda
e misteriosa delle mie origini. Il mio libro sacro è l’Iliade così come l’Odissea, poemi fondatori e rivelatori dell’anima
europea.
Questi poemi attingono alle stesse fonti delle leggende celtiche e germaniche, di cui manifestano in modo superiore la
spiritualità implicita. Del resto non tiro affatto una riga sui secoli cristiani. La cattedrale di Chartres fa parte del mio
universo allo stesso titolo di Stonehenge o del Partenone. Questa è l’eredità che occorre assumere. La storia degli Europei
non è semplice. Essa è scandita di rotture al di là delle quali ci è è dato di ritrovare la nostra memoria le la continuità della
nostra Tradizione primordiale”.

Una Ahnenerbe casalinga, trentaquattresima parte − Fabio Calabrese

Riprendiamo il nostro appuntamento con lo studio dell’eredità degli antenati. Io credo nella serie di articoli che
compongono questa rubrica, di aver delineato un quadro sufficientemente chiaro del nostro passato ancestrale, sfatando le
false idee di una democrazia basata sui dogmi aprioristici dell’uguaglianza degli uomini, della non rilevanza della base
biologica e genetica di ciascuno di noi, della non importanza della nostra eredità in quanto uomini europei, indoeuropei,
caucasici, dell’origine africana, dell’origine mediorientale della civiltà, e via dicendo.

Adesso si tratta di proseguire con un lavoro di aggiornamento, rendendo conto di quel che man mano emerge, anche se si
può dire che letteralmente tutte le novità sullo studio del nostro remoto passato SMENTISCONO in maniera sempre più
chiara quei pregiudizi che la tirannide ipocrita che si suole chiamare democrazia cerca di imporre come idee sull’essere
umano.

Anche stavolta dovremo muoverci su piani e su fasce temporali diverse: le origini remote della nostra specie, la genetica
degli Italiani e ciò che essa suggerisce intorno al nostro passato, e i presunti apporti orientali che starebbero alla base della
civiltà europea che invece, come abbiamo visto, si è sviluppata crescendo sulle proprie basi e in autonomia rispetto al
mondo asiatico e/o mediorientale.

Cominciamo con una notizia che viene dalla Russia:

“L’equipe del paleontologo Vladimir V. Pitulko, dell’Accademia russa delle scienze di San Pietroburgo, avrebbe trovato
prove di presenza umana a 72° Nord all’interno del Circolo polare artico, risalenti a ben 45.000 anni fa: si tratta di una
carcassa di mammut, che reca molti segni di ferite d’arma da punta e da taglio inflitte sia prima che dopo la morte, ad
indicare che, dopo la caccia, furono compiuti interventi di macellazione e asportazione di carne, grasso e di parte delle
zanne. Sono stati rinvenuti anche resti di un lupo cacciato e ucciso, posto in una posizione separata.

Entrambi i ritrovamenti potrebbero quindi provare che esseri umani capaci di cacciare e sezionare una preda, abili nella
costruzione di strumenti, nel fabbricare abiti caldi e rifugi (…) potevano essersi ampiamente diffusi in tutta la Siberia artica
molto prima di quanto si pensasse. Per lungo tempo si era ritenuto infatti che l’uomo avesse raggiunto le regioni artiche
intorno a 15-12 mila anni fa”.

Questa scoperta di cui parla un articolo riportato sul sito www.rigenerazionevola è importante per vari motivi. Prima di
tutto, costituisce l’ennesima confutazione della favola dell’Out of Africa. Se, come sostiene questa leggenda mediatica che è
troppo generoso chiamare teoria, noi tutti discenderemmo da un pugno di africani superstiti da una catastrofe planetaria
avvenuta attorno a 50.000 anni fa, i tempi diventano troppo stretti per pensare che poco dopo la nostra specie si sia spinta
fino alla Siberia settentrionale, all’Artico come invece questi ritrovamenti provano.
Secondariamente, contrariamente a quello che spesso si pensa, i mammut erano animali che certamente vivevano in climi
più freddi di quelli attualmente abitati dagli elefanti africani o asiatici, come dimostra il loro manto peloso, ma
contrariamente a quel che spesso si pensa, non avrebbero potuto sopravvivere in un ambiente come quello attuale delle
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regioni artiche; sicuramente non avevano necessità metaboliche inferiori a quelle degli elefanti odierni, che necessitano di
qualcosa come un quintale di vegetali al giorno, una quantità impossibile da reperire con i licheni, i muschi, la vegetazione
nana che sopravvive oggi nella tundra artica. La loro presenza in queste regioni è la prova che esse decine di migliaia di
anni fa godevano di un clima molto più mite di quello attuale, esattamente come afferma l’ipotesi iperborea.
Rimaniamo un attimo su questo argomento per una segnalazione che mi sembra doverosa: il nostro amico Michele Ruzzai
ha recentemente costituito un nuovo gruppo facebook che promette di essere uno strumento di estremo interesse per
affrontare queste tematiche: “MANvantara, Antropologia, Ethnos, Tradizione”.
Tra le prime cose che su questo gruppo il nostro valente amico ha riproposto, non si può fare a meno di menzionare un
interessante articolo del linguista Mario Alinei, La teoria della continuità. Si tratta, ve lo dico subito, di un pezzo di lettura
non facilissima in quanto piuttosto tecnico, ma dato l’interesse dell’argomento, ne vale senz’altro lo sforzo.

Come sappiamo, uno dei problemi nei quali ci imbattiamo cercando di capire la preistoria, è che per ricostruire le vicende
dei nostri remoti antenati abbiamo a disposizione solo gli elementi di cultura materiale, e l’analisi di questi ultimi può essere
fuorviante (applicando gli stessi criteri all’età moderna, si potrebbe pensare che alla transizione tra XX e XXI secolo “la
cultura della celluloide e del vinile” è stata spazzata via dall’invasione del “popolo del CD laser). Un modo per uscire da
questo cul de sac è il confronto fra i dati di cultura materiale e quello che ci può suggerire ciò che conosciamo della cultura
immateriale in età storica e anche attuale, ad esempio confrontando i gruppi linguistici con la suddivisione in culture
ottenuta basandosi sui dati archeologici.
Secondo la teoria della continuità, i confini anche attuali delle lingue e dialetti diffusi in Europa troverebbero una precisa
corrispondenza nelle antiche culture materiali del nostro continente, e insieme le due cose costituirebbero una testimonianza
dell’origine antichissima delle popolazioni europee, la cui fisionomia sarebbe stata ben poco alterata dalle invasioni
successive.
Sembra che tra i collaboratori di “Ereticamente” ci sia una gran voglia di darsi da fare per allargare gli spazi di un discorso
“nostro” approfittando delle possibilità concesse dal web. Fra questi, sarebbe impossibile non menzionare il nostro
infaticabile Paolo Sizzi che ha recentemente creato un suo sito che si chiama “Il Sizzi” (ilsizzi.worldpress.com). In data 4
luglio, Paolo vi ha pubblicato un ampio articolo su La struttura genetica degli Italiani, rifacendosi agli studi di due genetisti:
Fiorito, (2015) e Di Gaetano (2012).
Di questa tematica mi ero occupato anch’io non molto tempo addietro, nella trentesima parte di questa serie di articoli, e
avevamo visto che si tratta di una questione da prendere con le molle come non avverrebbe in nessun’altra parte del mondo.
Avevo in quell’occasione ricordato un mio precedente articolo che, pubblicato anni prima su “Ereticamente”, era stato
duramente contestato da alcuni lettori. Che persino in ambienti “nostri” vi siano persone che sgradiscano l’idea che gli
Italiani esistano dal punto di vista genetico, è una stranezza che si spiega, da un lato con le suggestioni mondialiste che
l’identità dell’Italia consisterebbe nel non avere un’identità dal punto di vista biologico-genetico (questa idea fasulla era ad
esempio stata esposta nella trasmissione “Ulisse” su RAI 3 – il che è tutto dire – dal lecchino del sistema, bugiardo di
professione che risponde al nome di Alberto Angela), dall’altro con uno spirito identitario di bassa lega che si traduce in
localismo, oltre alla nausea che ci hanno dato settant’anni di repubblica sedicente italiana democratica e antifascista.
Io vorrei aggiungere poi che una definizione della nazionalità basata sulla tradizione culturale, che secondo alcuni sarebbe
l’idea “latina” contrapposta alla concezione del Sangue e del Suolo tipicamente germanica, Blut und Boden, è un’illusione
particolarmente pericolosa. O la nazione esiste come COMUNITA’ DI SANGUE oppure non è nulla, non esiste.
Fa dunque piacere constatare che gli studi citati dall’amico Paolo Sizzi giungono indipendentemente da quelli citati da me
alle stesse conclusioni, ossia al fatto che una certa differenza genetica che certamente esiste tra nord e sud della Penisola è
stata artificiosamente dilatata per (bassi) motivi politici, e soprattutto non si riscontra quell’impronta mediorientale, da
collegare agli antichi Cartaginesi o all’invasione araba della Sicilia che alcuni fantasticano e vorrebbero ingigantendo
l’importanza di alcuni episodi storici marginali. E qui, come dimenticarlo, questo lavoro s’incontra con quello di un altro
nostro amico, il grande Mamer e la sua campagna contro la leggenda interessata della Sicilia araba, fomentata da catto-
sinistri e da chi specula e mangia sull’ “accoglienza ai migranti” e simili.

Ecco cosa ci racconta il nostro Paolo:

“Se ne sentono di ogni tipo sul nostro Mezzogiorno, a livello etnico, ma il fantomatico meticciamento con genti levantine e
nordafricane non sussiste: la verità è che l’Italia tutta costituisce una realtà peculiare nel panorama europeo, tanto che
appare smarcata parzialmente dal resto del Continente (…) Dico questo perché sulla Rete circolano diverse storielle, diffuse
anche da sedicenti esperti di genetica (amatori, dilettanti o principianti, non scienziati si capisce), dove gli Italiani
meridionali vengono dipinti come pesantemente arabizzati o berberizzati e con una forte mistura levantina recente dovuta
anche agli Ebrei. Favole (…).
D’altro canto anche il Nord e il Centro d’Italia non hanno subito germanizzazioni o slavizzazioni di un certo peso, tanto che
gli idiomi sono romanzi e anche etnicamente popoli come Toscani e Lombardi conservano sostanzialmente l’aspetto
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formatosi in epoca preromana. In altre parole, non esiste alcun Mezzogiorno arabo-nordafricano-levantino così come non
esiste un Centro-Nord celto-germanico-nordico: esistono ben note influenze che vanno però alquanto ridimensionate e che,
spesso, sono più culturali che biologiche”.

Bene, la realtà delle cose è questa, e se proprio non vi comoda, mi dispiace per voi, ma dovrete farvene una ragione.

Arriviamo poi a una di quelle notizie che di primo acchito sembrano marginali, ma che se considerate nella giusta luce si
dimostrano capaci di stravolgere concezioni consolidate e radicate. L’edizione on line del “Tempo” di Roma (iltempo.it) del
13 luglio dà notizia di alcuni scavi che sono stati compiuti nel Foro romano, e precisamente nell’area del Carcere Tulliano
noto anche come Carcere di San Pietro. Sono stati ritrovati i resti di un’offerta votiva di frutti contenente fra le altre cose un
limone, che la datazione al radiocarbonio ha permesso di datare al 14 d. C.
Cosa c’è di straordinario in un simile ritrovamento? Presto detto: finora si era sempre pensato che gli agrumi, che sono di
origine asiatica, fossero stati portati nel Mediterraneo dagli Arabi dopo la loro comparsa sulle coste da conquistatori
nell’827, ma questo ritrovamento romano è di otto secoli più antico.

In altre parole, è un altro pezzo della concezione dell‘ex oriente lux, secondo la quale l’Europa dovrebbe all’oriente
praticamente tutte le sue scoperte e invenzioni, che crolla sotto l’impatto dei fatti. In particolare, l’apporto che gli Arabi
avrebbero dato alla nostra cultura è perlopiù enormemente sopravvalutato. Certo, è vero che gli Arabi abbiano fatto
conoscere all’Europa il sistema numerico decimale, che però non inventarono loro ma ripresero dagli Indiani, o che nella
Spagna medioevale islamizzata, dove però l’elemento arabo era decisamente minoritario, furono riscoperte le opere e la
filosofia di Aristotele.

Coloro che si esaltano per le architetture di Granada o di Cordoba o per i mosaici dell’Alhambra, ignorano o fingono di
ignorare che esse furono realizzate da maestranze locali dirette da un’élite visigota islamizzata e superficialmente arabizzata
cui si era aggiunto qualche elemento persiano, e che lì di propriamente arabo in realtà non c’è nulla.

Sul reale apporto dato dagli Arabi alla nostra cultura, lascerei la parola a uno che se ne intende, il giornalista Maurizio
Blondet:

“Verso il 650, gli Ommyadi si stabiliscono nei territori conquistati del Maghreb. Subito cominciano a distruggere le strade
romane: i suoi lastricati non servono ai cammelli, anzi sono dannosi ai loro zoccoli molli, ma in compenso sono materiale di
recupero già squadrato, prezioso per elevare moschee e fortezze. Secondo le loro usanze, i beduini tagliano gli alberi per i
loro bisogni, senza il minimo scrupolo. I terreni scoperti si screpolano, le piogge dilavano l’humus, i campi coltivati,
abbandonati dai contadini in fuga davanti ai predoni, diventano steppa e poi deserto. Ormai sulle alture non ci sono più i
boschi, dunque nemmeno il legname per eventuali carriaggi. Le pianure non più verdeggianti, non possono più mantenere
bovini. Il beduino ha creato attorno a sé il suo ambiente nativo, e ci resta felice”. (Maurizio Blondet: Le tecnologie
intelligenti che ci fanno idioti, EffeDiEffe, 17 maggio 2014).
Un apporto, dunque, che possiamo paragonare a quello di uno sciame di cavallette. L’unica cosa che mi pare resti da
aggiungere, è che non c’è nessun indizio che dai loro discendenti, “le risorse” che oggi una sinistra e una Chiesa che odiano
profondamente il popolo italiano sono così ansiose di importare in quantità sempre più massicce, possiamo aspettarci
alcunché di diverso. Questi invasori non faranno altro che distruggere tutto quello che i nostri padri e noi stesso abbiamo
costruito.

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Riprendiamo il nostro periodico appuntamento con la tematica delle origini e l’eredità degli antenati. Nei nostri ambienti le
questioni relative a esse sono sempre molto vive e suscitano interesse, né vi è motivo di stupirsene. L’idea che ci facciamo
delle nostre origini, del lungo percorso che, nel bene e nel male, ha portato a noi quali oggi siamo, è una parte integrante ed
essenziale dell’idea che abbiamo di noi stessi.

Forse la novità più interessante della seconda metà del 2016 è quella che si deve al nostro valido collaboratore nonché
carissimo amico Michele Ruzzai che ha creato un gruppo facebook, “MANvantara” dedicato appunto a queste tematiche,
riguardo alle quali lui stesso ha illustrato il proprio punto di vista in svariati articoli sulle pagine di “Ereticamente”.

Tutto sommato, non credo che questa iniziativa si ponga in concorrenza con questa mia serie di articoli che ambirei a
considerare ormai una vera e propria rubrica: sono due strumenti diversi, un gruppo facebook ha probabilmente minore
visibilità rispetto a “Ereticamente”, ma ha il vantaggio di poter raccogliere contributi di diversi collaboratori (e naturalmente
il sottoscritto già ora non ha resistito e certamente non resisterà in futuro, alla tentazione di metterci lo zampino).

Ora, io vorrei evitare di presentare qui una sintesi dei molti e interessanti articoli che sono già apparsi su questo gruppo,
anche perché semmai toccherebbe a Michele farlo, in modo da garantire al suo lavoro la maggiore visibilità possibile,
tuttavia c’è almeno un pezzo che proprio non posso non menzionare: un articolo pubblicato in data 21 agosto a firma di
SelvanFauno Rudel, La teoria dell’Out of Atlantis. La cosa singolare, è che l’autore riprende un brano da un sito ufologico
(ufoforum.it), ma si sa, ci dobbiamo accontentare, con i siti, le riviste, i testi “ufficiali” e “seri”, occupati dall’ortodossia
democratica intenta a propagandare in suo mistificante dogmatismo…

L’autore fa notare che tenendo presenti gli spunti interessanti contenuti in quest’ultimo articolo e scartando le evidenti
fantasticherie appartenenti a un repertorio ormai consolidato a base di UFO e di Annunaki, nondimeno ne esce una teoria
molto interessante, basata sulla constatazione che la diffusione e le linee di irradiazione del DNA sia paterno (aplogruppi
del cromosoma Y) sia materni (DNA mitocondriale) suggeriscono un centro di irradiazione posto NON nell’Africa ma nel
centro dell’Atlantico.

Il mito platonico di Atlantide potrebbe allora avere una base storica più solida di quella a cui abbiamo sinora pensato, e qui,
nell’antica grande isola scomparsa andrebbero forse ricercate le nostre remote origini, non “Out of Africa” ma “Out of
Atlantis”!

Delle altre cose presenti in questo gruppo facebook non vorrei dirvi nulla, non vorrei togliere a Michele l’onere e soprattutto
l’onore di illustrarvele, sappiate però che si tratta di un vero piccolo scrigno di tesori.

La questione delle origini, lo abbiamo visto diverse volte, può essere suddivisa in diverse sotto-questioni a seconda di come
ci si sposti sulla scala del tempo: l’origine della specie umana, quella delle popolazioni caucasiche (che un tempo si osavano
chiamare nel loro insieme “razza bianca”), dei popoli e delle culture indoeuropee, della civiltà del nostro continente, per
arrivare magari a concentraci sull’origine degli abitanti di quella peculiare penisola posta al centro del Mediterraneo che lo
taglia quasi trasversalmente da nord a sud e che (chissà perché?) a noi interessano in maniera particolare.

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Se non ci si addentra in una trattazione sistematica ma si esaminano i diversi contenuti su questo vasto parco di tematiche
semplicemente in ordine cronologico così come sono apparsi sul web come faremo ora, ne esce un’esposizione un po’ a
macchia di leopardo, ma questo è inevitabile, perché in fondo ormai non si tratta altro che di aggiungere nuovi tasselli a un
quadro che ci è ben chiaro nelle sue linee generali.

Parliamo di un altro amico i cui post hanno dato dei contributi fondamentali che mi hanno permesso di stilare i miei articoli
finora apparsi su “Ereticamente” o altrove: Luigi Leonini. Il 15 agosto, Luigi, che è un infaticabile ricercatore di tutto ciò
che può riguardare la nostra Weltanschauung, quasi una Wikipedia dell’ “Area”, ha postato un brano che è un estratto del
libro di Nicholas Wade Una scomoda eredità, La storia umana tra razze e genetica pubblicato da “Le scienze” nel 2015.
L’estratto riportato da Luigi riguarda la “teoria” di Richard Lewontin che avrebbe “dimostrato” l’inesistenza delle razze
basandosi sul fatto che in tutta la specie umana si trovano più o meno gli stessi geni.
Wade riporta il fatto che questa “teoria” è stata messa alla prova da Noah Rosenberg della University of Southern California
e da Marcus Feldman con una ricerca sul patrimonio genetico di oltre mille individui provenienti da ogni parte del mondo.
Se è vero che in tutti si ritrovano più o meno gli stessi geni, a seconda delle popolazioni e delle aree continentali di origine,
variano in maniera considerevole le frequenze relative e le correlazioni fra essi che tendono a raggrupparsi in “costellazioni”
ben definite. In altre parole la ricerca genetica ha dimostrato non l’inesistenza ma L’ESISTENZA delle razze, anche se il
mistificante dogmatismo democratico cerca di persuaderci del contrario.

Non dimentichiamo nemmeno il fatto che la “teoria” (anche se chiamarla così è un’autentica presa in giro) di Lewontin, per
quanto assurda, scorretta e non supportata da ulteriori studi, è stata assunta come “dottrina ufficiale” dalle Nazioni Unite.
Abbiamo UN DOGMA che il buon democratico è tenuto a credere a dispetto dell’evidenza, sia scientifica, sia fisica e
percettiva (perché in ultima analisi le differenze razziali sono facili da riconoscere a colpo d’occhio). Un dogmatismo dello
stesso tipo di quello che l’inquisizione imponeva con la violenza nel XVII secolo. Le concezioni che cercano di imporsi in
questo modo, rifiutando il confronto delle idee, sono quelle di cui i loro stessi portatori riconoscono in ultima analisi
l’intrinseca debolezza, sono cioè concezioni FALSE, e il complesso di “idee” (di suggestioni) democratiche-antirazziste-
progressiste-sinistrorse, lo è.

C’è poi la circostanza davvero bizzarra che Richard Lewontin, così come Claude Levi Strauss e molti altri esaltatori di tutto
ciò che non è europeo, appartiene a un gruppo etnico-religioso (chiamiamolo così) che mentre predica l’inesistenza delle
razze e – per tutti gli altri – la bontà del meticciato, al proprio interno pratica la più rigorosa, esclusiva e RAZZISTA
endogamia.
Il 20 agosto il sito Keltic World ha riportato la notizia ripresa dall’inglese Daily Mail che nella zona di Karaganda nel
Kazakistan un team di archeologi guidato da Igor Kukushkin e Viktor Nohozenov ha trovato i resti di una piramide simile a
quella a gradoni egiziana di Saqqara fatta costruire dal faraone Djoser, ma di almeno mille anni più antica, e che in effetti
sarebbe la più antica piramide conosciuta al mondo.
Il Kazakistan, lo ricordiamo, è una repubblica ex sovietica che si trova a cavallo fra la Russia meridionale e l’Asia. Questa
collocazione geografica della “nuova” piramide, a tutti gli effetti, rende sempre più inverosimile l’idea che la civiltà umana
si sarebbe originata in Medio Oriente.
Nell’immagine che correda questo articolo, vediamo appunto i resti della piramide di Karaganda confrontati con la piramide
egizia a gradoni di Saqqara.

Diciamo però che se altri studi condotti su altre piramidi fossero confermati, quella di Karaganda perderebbe molto presto il
suo primato, parliamo infatti delle piramidi di Visoko in Bosnia Erzegovina, dove il ricercatore Semir Osmanagic è arrivato
ormai all’ottavo anno della campagna di scavi. Su “Il navigatore curioso” è apparso con sorprendente contemporaneità a
quello del Daily Mail che riferisce della piramide kazaka, un articolo che illustra gli esiti delle ultime ricerche intorno a
Visoko.
In questo caso non si tratta di costruzioni come quelle egizie, ma di colline di origine naturale artificialmente rimodellate,
tuttavia studi e analisi compiuti da quattro studi di ricerca indipendenti hanno confermato la loro origine parzialmente
artificiale, non solo ma esse sarebbero ancora più antiche di quel che si pensasse, risalendo a ben 20.000 anni or sono.
Quanto meno, l’origine mediorientale della civiltà è una leggenda che diventa sempre più inverosimile, anche se è
improbabile che qualcosa di tutto ciò filtri sui media, né tanto meno arrivi sui testi scolastici.
Io non so tuttavia se vi è chiaro quello che significa tutto ciò, se questi dati fossero confermati, non se ne andrebbe in pezzi
soltanto il dogma dell’origine mediorientale della civiltà ma l’intero impianto del pensiero progressista: esso ammette per la
civiltà umana un’età massima di 5000 anni: ora questa estensione temporale potrebbe essere quadruplicata. Questo significa
che interi cicli di civiltà possono essere sorti e poi svaniti nel nulla, e niente e nessuno garantisce che lo stesso destino non
possa toccare anche a noi e a tutte le realizzazioni di cui gli uomini della modernità vanno così tanto fieri.

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Un’altra delle favole, di quelle favole a cui davvero si farebbe un onore immeritato chiamandole miti, su cui si regge la
mentalità democratica-progressista-di sinistra sta cadendo miseramente a pezzi, anche se in realtà a suo sostegno non ha mai
avuto il minimo elemento concreto ma solo la volontà di credervi di illuministi e “compagni”, quella del buon selvaggio
cara a Rousseau.
Il 17 agosto è apparsa su “Il giornale” la recensione a firma di Camillo Langone del libro Incontri con i selvaggi di Jean
Talon. In quest’ultimo l’autore (che a dispetto del nome era italiano, e per la precisione bolognese) fa un excursus storico
che non ha la pretesa di essere un testo politico, degli incontri con le popolazioni selvagge ed extraeuropee degli europei
dalla scoperta dell’America fino al XIX secolo. Quello che si può dire, è che il quadro che ne esce per chi voglia credere
alla bontà di queste popolazioni extraeuropee, è sinceramente sconfortante: lo schiavismo, ad esempio era
larghissimamente praticato in Africa, assai prima che gli Europei si inserissero nel mercato degli schiavi per reperire
manodopera per le piantagioni di cotone. Era praticato anche dagli indiani del Nord America che trattavano i prigionieri
come bestie da soma (vi ricordate Un uomo chiamato cavallo?). In Mesoamerica i sacrifici umani andavano per la
maggiore, e il cannibalismo non era diffuso solo in Africa ma anche nel Pacifico (come sperimentò a sue spese James Cook
finendo nelle pance dei suoi prediletti hawaiani), nelle Americhe (è da Caribe che viene il termine “cannibale”), e gli
indigeni della Terra del Fuoco all’inizio della brutta stagione usavano macellare le donne anziane, come ci ha testimoniato
Darwin ma non solo lui.

Da dove nasce quest’idea, questa farneticazione del buon selvaggio, visto che passeggiando sulle sponde del lago di
Ginevra Jean Jacques Rousseau non avrà avuto modo di incontrarne nemmeno uno? È semplicemente il contraltare dell’idea
della civiltà come corruzione, come allontanamento sempre più marcato da una condizione di innocenza originaria mai
esistita. Con il che, Rousseau ha dimostrato di possedere in sommo grado una delle qualità più importanti di un
rivoluzionario di sinistra, quella di crearsi nella sua testa un mondo di pura fantasia, e poi volerlo imporre alla realtà a tutti i
costi e con ogni mezzo.
Si potrebbe anche pensare che una visione così cupa della società e della storia sia in contraddizione con la mentalità
progressista, ma in realtà non è così: “FINORA la storia delle società umane non è stata altro che perversione e corruzione,
ma ADESSO arriviamo noi che metteremo ogni cosa a posto con le spicce – cioè con la violenza – e dopo ci sarà il paradiso
in terra”.
Le tragedie e gli orrori del giacobinismo e del comunismo nascono tutti da qui, e Marx è, come ho già spiegato altre volte,
molto più debitore a Rousseau di quanto di solito non si pensi.
Come ci spiega Langone, Rousseau è ancora una presenza forte nel DNA della sinistra con le sue idee totalmente infondate,
e ricorda che ad esempio quelli del Movimento Cinque Stelle hanno chiamato Rousseau la loro piattaforma multimediale,
non sarà quindi poco importante dimostrarne tutta l’infondatezza.
Se mai c’è stato qualcuno che ha mai avuto una comprensione profonda dei fenomeni della civiltà e della non civiltà, questi
è stato certamente Oswald Spengler, il pensatore che ha teorizzato Il tramonto dell’Occidente. Ora, nemmeno a farlo
apposta per legarsi con tutto il discorso precedente, in data 21 agosto il nostro infaticabile Luigi Leonini ha riproposto un
articolo già apparso nel 2010 su “Fiamma futura”, Alcuni spunti e riflessioni per una rilettura di Oswald Spengler, di
Alfonso De Filippi con una breve introduzione di Luca Cancelliere.
L’autore tedesco, lo sappiamo, è stato un deciso contestatore dell’idea che esista una cosa come il progresso o lo sviluppo
complessivo dell’umanità: ogni civiltà si origina, si sviluppa o declina secondo ritmi che le sono propri e poco comunicanti
con le altre, inoltre ciascuna di esse è destinata al declino dopo un periodo più o meno lungo di grandezza, secondo ritmi
che ricordano su di una scala enormemente amplificata, quelli della senescenza biologica, e in questa prospettiva la stessa
idea progressista non è che una risibile utopia.

Ora, il punto su cui De Filippi concentra la sua analisi, è proprio la riflessione di Spengler secondo la quale in epoche
precedenti a quella attuale vi è stata nel nostro mondo la presenza contemporanea di civiltà in ascesa e altre in fase di
decadenza, mentre oggi, con l’avvento della modernità questo non succede più, ma tutti i popoli del pianeta sono diventati
tributari della cultura cosiddetta occidentale, e questo blocca in partenza la possibilità di un loro sviluppo autonomo, così
che tutti quanti partecipano in varia misura del Tramonto dell’Occidente.
Se ci pensiamo, da questo punto di vista Spengler è stato davvero un profeta: alla sua epoca era ben lontana dal manifestarsi
la globalizzazione come la conosciamo oggi, ossia la completa interrelazione economica, politica, culturale tra le varie aree
del pianeta, sì che la decadenza occidentale coinvolge tutto e tutti.
Per un altro verso, è evidente che la decadenza, la perdita di creatività e di vitalità di una cultura, come ben vediamo negli
Stati Uniti oggi, è strettamente connessa dal punto di vista demografico alla diminuzione della proporzione di sangue
bianco, alla rarefazione di quella che è la frazione dell’umanità più intelligente e creativa.

101
E’ un destino che i circoncisi che governano dietro le quinte da settant’anni sull’una e l’altra sponda dell’Atlantico, hanno
voluto estendere anche a noi imponendoci forzatamente l’immigrazione. E’ un destino che, se vogliamo avere un futuro,
dobbiamo contrastare a ogni costo e con ogni mezzo.

102
Come certamente avrete notato, è passato diverso tempo dal precedente articolo dedicato a questa tematica delle origini e
dell’eredità degli antenati. Sinceramente, avevo pensato, nonostante l’interesse da parte vostra, di lasciar cadere il discorso,
un po’ perché mi pareva di aver esaurito gli argomenti a tal proposito, un po’ perché l’eccellente lavoro che sta compiendo
Michele Ruzzai con il gruppo facebook da lui creato, “MANvantara”, mi ha un po’ spiazzato da questo punto di vista,
dandomi la preoccupazione di non creare doppioni. In realtà, le nostre impostazioni sono abbastanza diverse per evitare il
rischio che questo succeda, e vi consiglio di tenere sempre d’occhio il lavoro che sta facendo il nostro ottimo amico (al
quale non ho mancato e non mancherò neppure io di apportare qualche contributo).
La ragione principale per cui mi sono deciso a riprendere in mano il discorso sulle nostre origini è che, se è vero che mi
sembra di aver tracciato negli scritti precedenti con il ricorso a un ampio ventaglio di fonti, un quadro preciso e ben
consolidato, tuttavia esso non cessa di arricchirsi di dettagli e particolari frutto di sempre nuove scoperte anche alla luce del
fatto che in questo campo si intersecano gli apporti di numerose discipline.
Sarà tuttavia opportuno, anche in ragione del tempo intercorso, premettere un breve riepilogo prima di andare ad esaminare
le ultime novità.
Per prima cosa, sarà utile sottolineare una volta di più che l’approccio a queste tematiche non è di tipo accademico: l’idea
che ci facciamo circa le nostre origini è una parte importante dell’idea che ci facciamo di noi stessi, e dalla nostra auto-
rappresentazione dipendono molte cose a cominciare dall’agire politico, e non si può non considerare il contrasto tra
questa Weltanschauung che sentiamo istintivamente nostra e la “visione” democratico-sinistrorsa tendente a negare
l’importanza del dato etnico-biologico e alla riduzione di ciò che l’essere umano è ai soli fattori ambientali-sociali-educativi
con tutti i corollari utopistici che ne discendono.
La questione delle origini si suddivide in più livelli, a seconda di quanto risaliamo indietro nel tempo, e praticamente a ogni
livello ci siamo imbattuti in una versione delle cose che l’ideologia democratica oggi dominante cerca di imporre come
“l’ortodossia scientifica” e alla prova dei fatti non si dimostra altro che una mistificazione.
A livello più generale, la “verità ufficiale” assolutamente mistificatoria da respingere nel mondo delle favole, è
rappresentata dal cosiddetto “Out of Africa”, la “teoria” inventata per sostenere l’origine africana di tutti noi, spiegandoci
che gli europei bianchi non sarebbero altro che neri sbiancati, farneticazione inventata allo scopo non solo di negare
l’esistenza delle razze, ma di indurci ad accettare l’immigrazione africana che oggi ci piomba addosso ed è una vera e
propria invasione che si vorrebbe accogliessimo con animo quanto meno rassegnato.
Abbiamo visto invece che le prove sia paleoantropologiche sia genetiche vanno piuttosto a favore dell’ipotesi
multiregionale, non solo, ma che il nord iperboreo potrebbe avere un ruolo molto maggiore di quanto finora ipotizzato.
L’antenato più diretto dell’homo sapiens moderno sembrerebbe essere l’uomo di Heidelberg. Ora, come tutti sanno,
Heidelberg, appunto, si trova in Africa.
Una questione più recente e più vicina a noi, anche se sempre oltre l’orizzonte della storia documentata, è rappresentata
dall’origine dei popoli indoeuropei. Si vuole che questi nostri antenati non fossero, così come si è sempre ritenuto, cavalieri
e conquistatori provenienti dalle steppe eurasiatiche, ma pacifici agricoltori di origine mediorientale. Questa tesi è smentita
prima di tutto dalla genetica che ha rilevato negli Europei una presenza di geni di origine mediorientale non superiore al
14%, poi è sospetta l’insistenza sui “pacifici agricoltori” (manca solo che ci dicano che i nostri antenati erano hippy e figli
dei fiori), si ha veramente l’impressione che vogliano metterci in mano a tutti i costi la zappa del contadino per sottrarci
l’ascia da combattimento (la cultura dell’ascia da combattimento è una delle culture europee precorritrici la diffusione degli
indoeuropei, e verosimilmente proto-indoeuropea).

103
Questa tesi si presenta come corollario di quella che sostiene l’origine mediorientale
dell’agricoltura, e anche riguardo a quest’ultima si possano avanzare fortissimi dubbi,
dato che in Europa e non in Medio Oriente sono stati introdotti l’allevamento bovino
(lo dimostra il fatto che la capacità di assimilare il latte in età adulta è maggiore tra i
popoli centro-nord europei e decresce man mano che ci si allontana da quelle regioni)
e la metallurgia (l’attrezzo metallico conosciuto più antico in assoluto è l’ascia di rame
dell’uomo del Similaun).
Terza tesi, terza ortodossia “scientifica” ufficiale da respingere nel limbo delle favole,
quella che attribuisce l’origine della civiltà europea a influssi orientali e mediorientali,
che si basa su di una rappresentazione della storia antica del tutto falsa, anche se è
quella che perlopiù si trova nei testi scolastici, fondata sulla deliberata ignoranza di
nozioni fondamentali, come il fatto che il complesso megalitico di Stonehenge o la
splendida tomba neolitica irlandese di Newgrange sono di un millennio più antichi
delle piramidi egizie o delle ziggurat mesopotamiche. A questo aspetto della questione
delle origini ho dedicato anche la serie di articoli riuniti sotto il titolo Ex Oriente lux,
ma sarà poi vero?.
Una quarta questione che in quanto italiani ci interessa molto da vicino: sembra
proprio che se qualche asino in cattedra inventa una fesseria di qualunque tipo, ha
tante maggiori probabilità di diventare “l’ortodossia scientifica” quanto più è “politicamente corretta” e lontana dalla realtà,
fra queste la “teoria” cara non solo ai sinistrorsi, ma ai separatisti di ogni specie e natura, che la repubblica democratica e
antifascista ha fatto pullulare in settant’anni, ingenerando la nausea di essere italiani, è che gli Italiani non avrebbero
nessuna coerenza dal punto di vista genetico. Anche qui lo scopo è da un lato di dare esca ai separatismi, dall’altro coltivare
l’illusione che l’immigrazione e la sostituzione etnica non ci stiano procurando un danno irrimediabile.
Anche in questo caso, non si tratta che dell’ennesima falsità smentita dagli studi seri di genetica delle popolazioni, che
dimostrano che il popolo italiano esiste ed ha una sua precisa coerenza genetica. Certamente esistono delle differenze fra
nord e sud, nel nord si riscontra un’impronta genetica celtica, e nel sud una greca, ma esse non sono tali da impedire di poter
parlare del popolo italiano come di una realtà sostanzialmente unitaria.
Secondo i dati dell’UNESCO, l’Italia ospita oltre la metà del patrimonio artistico mondiale, e questo senza contare le opere
realizzate dagli Italiani all’estero (l’intero impianto architettonico di Vienna e San Pietroburgo, per dirne una) o quelle che
ci sono state trafugate nel corso dei secoli. Oggi questo popolo dall’immensa creatività è uno dei più minacciati dalla
sostituzione etnica, la politica immigrazionista voluta dalla sinistra e dal nostro nemico di sempre, la Chiesa cattolica, è
come versare acqua di fogna in un vino pregiato.
Gli aggiornamenti che ora possiamo registrare riguardano questo spettro di tematiche ai vari livelli. Come ho già scritto
altre volte, spesso a sostegno dell’Out of Africa si è fatto riferimento all’origine africana degli ominidi, come Lucy e gli altri
i cui resti sono stati presentati con un enorme battage mediatico-propagandistico al grosso pubblico, mentre in realtà si tratta
di due questioni del tutto estranee: basta pensare al fatto che queste creature si sono estinte 3-4 milioni di anni prima della
comparsa di un essere riconoscibile come homo sapiens, ma si sa, si gioca sul fatto che il grosso pubblico percepisce male i
numeri, le quantità e le distanze temporali, magari se aiutato a ingannarsi da opportune deformazioni fantasiose che per un
quarto dicono il falso e per gli altri tre quarti lo suggeriscono; si veda il modo in cui è stato costruito il personaggio
mediatico di Lucy: quanti tra il grosso pubblico dei non addetti ai lavori si rendono conto che questa “prima donna”, questa
“Eva in versione scientifica” era in realtà una creatura scimmiesca con un cervello di dimensioni inferiori a quello di uno
scimpanzé?
La questione degli ominidi, dunque, dicevo ha poco a che fare con quella dell’origine della nostra specie homo
sapiens, molto più recente e collocabile in un arco temporale tra cinquanta e centomila anni fa, ma se possiamo trovare le
tracce di questi lontani precursori della nostra specie anche fuori dall’Africa, ecco allora che la tesi dell’origine africana ne
sarà ulteriormente indebolita. Ebbene, questo è proprio quel che succede. Resti di creature ominidi sono stati trovati ad
esempio in India, Ramapithecus e Sivapithecus, che sono stati battezzati con i nomi di eroi-divinità del pantheon indiano,
Rama e Siva, ma i resti di un ominide, che è stato chiamato Oreopithecus sono emersi anche da una miniera di carbone di
Monte Bamboli in Toscana, per non parlare del fatto che in Sicilia nel 1983 sarebbero stati ritrovati resti
di Australopithecus (lo stesso genere di Lucy) di cui si fece all’epoca un gran parlare e poi sono come svaniti nel nulla.
Ultimamente, le edizioni Hoepli hanno pubblicato in lingua italiana un testo, Il vero pianeta delle scimmie, di David R.
Begun docente di antropologia presso l’università di Toronto, che rimette in causa precisamente la questione dell’origine
africana degli ominidi. Prima di raggiungere l’Africa, questi lontani precursori della nostra specie si sarebbero sviluppati –
indovinate un po’ – in Europa e in Eurasia. Se la loro presenza in Africa è stata vista come qualcosa che rafforza la presunta
origine africana della nostra specie, rovesciando quest’ottica avremmo ora tutti i motivi per pensare invece a un’origine
europea o eurasiatica, e magari perché non nel nord iperboreo durante un remoto optimum climatico come sostengono
innumerevoli tradizioni di ogni parte del globo?
104
Spostiamoci su di un orizzonte temporale sempre preistorico ma molto più vicino a noi. “Le Scienze” on line dell11 ottobre
riporta la notizia di una ricerca condotta dal CNR nell’ambito del progetto ARCA (Arctic Presents Climatic Change and
Past Extreme Events) dalla quale risulta che 14.000 anni fa a seguito della deglaciazione si ebbe un brusco incremento del
livello dei mari che arrivò fino a 20 metri.
Perché il risultato di questa ricerca è importante per noi? L’abbiamo visto in uno dei precedenti articoli: lo studio del DNA
delle popolazioni europee mostra che 14.000 anni fa il DNA degli Europei fu modificato dall’arrivo di una nuova
popolazione di origine misteriosa (anche se i soliti “strabici mediorientali” ipotizzano ovviamente il Medio Oriente, e non
potrebbero essere più prevedibili e monotoni). Io avevo prospettato l’ipotesi che appunto, essendo questa l’epoca della fine
del periodo glaciale, che portò a un innalzamento del livello dei mari, questo DNA “sconosciuto” potesse provenire da genti
che fin allora erano insediate in terre andate sommerse; nel Mare del Nord, ad esempio, c’è una vasta area di bassi fondali
che un tempo erano terre emerse, nota come Dogger Bank, e certamente non è inutile rilevare che temporalmente non siamo
troppo lontani dall’epoca in cui Platone colloca la storia di Atlantide. La nostra storia più remota è tutta da riscrivere
e, guarda caso, i miti e idee che i nostri antenati hanno nutrito su loro stessi prima che arrivasse “la scienza moderna” oggi
sembrano assai più vicini alla realtà di quel che “la scienza moderna” ci ha fornito e a forza di plagio mediatico e censure
pretende che prendiamo ancora sul serio.
La maggior parte del pool genetico delle popolazioni europee ha comunque un’origine eurasiatica, risalendo al tipo
antropologico paleolitico noto come eurasiatico settentrionale. Guarda caso, proprio in data 10 ottobre è comparso su una
rivista scientifica prestigiosa come “Nature” un articolo firmato da una trentina di specialisti (non tradotto in italiano) che
mette in relazione l’origine delle popolazioni e delle lingue indoeuropee con una massiccia migrazione dalle steppe
eurasiatiche, che è se non altro, sulla base di un confronto fra i dati forniti dalla genetica con quelli della linguistica, una
chiara smentita della tesi dell’origine mediorientale di queste popolazioni.
Altre due notizie completano il quadro di questo periodo, una che si riferisce all’orizzonte protostorico, l’altra invece a
quello decisamente storico.

La ricostruzione di un campo
In data 6 ottobre Azione Identitaria Emilia Romagna ha pubblicato sul
proprio sito un articolo dedicato alla cultura delle Terramare, che
dovrebbe essere il primo capitolo di una storia della “piccola patria”
emiliana. Cinque secoli prima di Roma i Terramaricoli costruivano città
quadrate suddivise da un cardo e un decumanus orientati secondo i punti
cardinali, e costituirono la più antica cultura italica. In realtà, non si tratta
di cose che ci vengono nuove, ma è importante ricordarle perché a quanto
pare, stando alle più recenti ricerche archeologiche e genetiche, i
Terramaricoli, attraverso la fase intermedia della cultura villanoviana,
avrebbero poi dato vita alla civiltà etrusca. Le ricerche sul DNA hanno
permesso di smentire che gli Etruschi abbiano avuto origine dalla Lidia, cioè dall’Asia Minore come raccontato da Erodoto,
ma sono stati una civiltà autoctona dell’Italia, e questa è un’ennesima confutazione della leggenda della “luce da oriente”.
Focus.it del 13 ottobre riporta una notizia francamente curiosa. Secondo l’ipotesi di un ricercatore cinese, Li Xiuzhen, il
famoso esercito di terracotta, i circa 8000 guerrieri che da 2200 anni sorvegliano il mausoleo dell’imperatore Qin Shi Huang
sarebbero stati realizzati sotto l’influenza, sotto la direzione, o addirittura da artisti greci che si sarebbero spinti fino alla
Cina in un’epoca in cui esistevano già contatti, legati al commercio della seta, tra le popolazioni mediterranee e quelle
dell’Estremo Oriente, questo a motivo del fatto che queste statue per il loro realismo ricordano fortemente la statuaria
classica. Io non so quanto una simile ipotesi possa essere fondata, ma comunque piacere che qualcuno comincia finalmente
a considerare l’Oriente discepolo e l’Europa maestra, al contrario di quel che è sempre avvenuto finora.
Tutte le concezioni che formano “l’ortodossia scientifica” imposta dal pensiero democratico (l’origine africana della nostra
specie e la non esistenza delle razze, la riduzione dei nostri antenati indoeuropei a pacifici agricoltori originari da quello
stesso ceppo che ha generato i semiti, la non creatività della civiltà europea vista come dipendente per le sue realizzazioni in
tutto dall’oriente remoto o prossimo, e anche per quanto riguarda più strettamente noi Italiani, la nostra non esistenza come
popolo dal punto di vista genetico), mirano palesemente allo scopo di sminuirci, di ispirarci rassegnazione, di farci accettare
psicologicamente disarmati la scomparsa della nostra gente per sostituzione etnica, il destino che il potere mondialista ha
decretato per noi.
Noi sappiamo invece che la nostra eredità indoeuropea, europea, e certamente italica, è un tesoro prezioso da difendere con
tutte le forze e con ogni mezzo.

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Riprendiamo ancora una volta a esaminare la tematica dell’eredità degli antenati, un tema che io credo sia molto importante,
soprattutto perché viviamo in un’epoca in cui il potere “democratico” oggi “democraticamente” dominante ci vorrebbe tutti
quanti degli sradicati senza memoria storica né coscienza delle proprie origini, uomini-folla da gettare nella macchina
produttivo-consumistica o da escludere da essa a seconda delle sue convenienze, e cerca di cancellare qualsiasi traccia di
appartenenza etnica e di identità attraverso l’imposizione dell’universale meticciato insieme a una “cultura” standardizzata a
livello mondiale in ogni aspetto della vita attraverso un meccanismo mediatico planetario.

Si tratta dunque di essere scogli che siano capaci di resistere al montare della marea.

La verità sul nostro passato e dunque su noi stessi, penso che l’abbiamo delineata (questo “noi” non è un plurale maiestatis,
ma è l’espressione del fatto che senza la vostra attenzione, le vostre osservazioni e anche le vostre critiche, questa ricerca
non avrebbe senso) con chiarezza sufficiente, attraverso la confutazione delle quattro menzogne sulle nostre origini che
costituiscono la vulgata a tal proposito della “scienza” democratica: la presunta origine africana della nostra specie,
l’origine mediorientale dei popoli indoeuropei, che si vorrebbero pacifici agricoltori strettamente affini alle popolazioni
semitiche, la non creatività della civiltà europea che si vorrebbe in tutto tributaria da influssi orientali, e infine la non
esistenza o la non consistenza degli Italiani dal punto di vista genetico.

Ad esse possiamo contrapporre la teoria dell’origine multiregionale, nell’ambito della quale come origine della nostra
specie si può ipotizzare una Urheimat nordico-atlantica piuttosto che africana, la nostra ascendenza indoeuropea da popoli
di guerrieri e conquistatori (e portatori di valori cavallereschi radicalmente opposti alla mentalità semitica), la creatività fino
dai tempi preistorici della civiltà europea, visibilmente testimoniata ad esempio dalle imponenti costruzioni megalitiche (di
cui raramente gli archeologi e i testi di storia “ufficiali” si degnano di occuparsi, dando maggiore importanza a qualsiasi
coccio di vaso scoperto nella Mezzaluna Fertile), e infine la riprova inoppugnabile portata da studi seri di genetica delle
popolazioni, che gli italiani esistono, anche se oggi una scellerata politica portata avanti dalla sinistra PiDiota strettamente
legata agli interessi del grande capitalismo internazionale fa di tutto per distruggerli e affrettare al massimo la loro
preventivata sostituzione con turbe di immigrati allogeni. Il giorno in cui il nostro popolo dovesse veramente ribellarsi, mi
auguro che non ci sarà alcuna clemenza per questi criminali.

Si tratta di quattro questioni ormai chiare nelle loro linee generali, che si possono non solo disporre in ordine cronologico,
ma dove il campo è man mano più ristretto e focalizzato quando ci avviciniamo a noi. Questo è uno schema da tenere
presente, perché le nuove informazioni che vengono ad arricchire il quadro si possono (si devono) disporre ai vari livelli di
questa scala a seconda dei casi.

Comincio con un’osservazione riguardo al lavoro che sta svolgendo il nostro buon amico Michele Ruzzai con il gruppo
facebook MANvantara, un lavoro estremamente utile che vi esorto a seguire. Come avevo osservato una delle volte
precedenti, questo lavoro non si pone in concorrenza con quello che io stesso sto cercando di portare avanti attraverso
questa rubrica, perché si tratta di due mezzi differenti: un gruppo facebook ha la possibilità di avvalersi degli apporti di
diversi collaboratori, anche se ha lo svantaggio di rivolgersi a un pubblico più ristretto (sembra che attualmente la nostra

106
“Ereticamente” raggiunga la cifra non disprezzabile di oltre 17.000 utenti), ma in più vorrei osservare che a parte questo, c’è
una differenza di approccio che fa sì che il lavoro di Michele e il mio siano non in conflitto ma complementari.

Michele Ruzzai e la maggior parte dei collaboratori del suo gruppo, mi pare, si stiano dedicando principalmente
all’esposizione della dottrina tradizionale sulle nostre origini, mentre il sottoscritto come vedete preferisce un approccio più
“scientifico” volto soprattutto a cogliere le falle e le contraddizioni della “scienza democratica” su queste tematiche, due
lavori che si completano a vicenda.

In particolare, riguardo alle cose che sono state pubblicate in MANvantara, vorrei segnalarvi gli interventi, molto
competenti e interessanti, di Raffaele Giordano.

Vediamo poi quali sono le novità, a parte MANvantara, che presenta la rete riguardo alle tematiche che ci interessano.

Io vi avevo a suo tempo parlato dell’articolo apparso su “Atlantean Garden” che riporta la confutazione della “teoria”
(chiamiamola così in un impeto di generosità, per quanto “favola” sarebbe il termine più appropriato) dell’Out Of Africa,
cioè della presunta origine africana della nostra specie, portata avanti dai genetisti russi Anatole A. Klyosov e Igor L.
Rozhanski, confutazione che, per dire la verità i due scienziati avevano già pubblicato in “Antropology” nell’articolo del
2012 “Re-examining the “Out of Africa” theory and the origins of europoids (causasoids) in light of DNA genealogy”.

Avevo osservato allora che su questa tematica delle origini della nostra specie pare quasi di assistere a una guerra fredda a
parti invertite: laddove i ricercatori russi sono liberi di attenersi semplicemente ai fatti, quelli statunitensi sono stretti dalle
maglie di un ferreo dogmatismo ideologico che impone di accettare per buona la leggenda dell’origine africana assieme al
corollario dell’inesistenza delle razze, sebbene essa strida pesantemente con i fatti accertati di natura genetica,
paleoantropologica, archeologica, pena pesanti ripercussioni sulle carriere, sulla possibilità di pubblicare, sulla stessa
incolumità personale come dimostra il caso di Arthur Jensen.

Bene, nel mese di ottobre, questo articolo di importanza capitale è finalmente apparso in traduzione italiana sul sito “Lupo
bianco14” (lupobianco14.org ), che suppongo sia un sito “di Area”, e già questo ci fa capire che assistiamo a una censura
delle informazioni appena aggirata a stento dalla flessibilità e incontrollabilità del web da parte degli zelanti censori
“democratici”, perché un articolo di questa importanza meriterebbe come minimo una sede come “Le Scienze”.

A ogni modo, questa traduzione consente almeno di focalizzare meglio alcuni particolari non privi di interesse, rispetto a ciò
di cui vi avevo già dato notizia (la mia conoscenza dell’inglese, ve lo confesso, non è che sia proprio perfetta).

Vale la pena, ad esempio, di riportare questa citazione dello storico australiano Greg Jefferys:

“Tutto il mito ‘dell’Out of Africa’ ha le sue radici nella campagna accademica ufficiale negli anni 90 [per] rimuovere il
concetto della razza. Quando mi sono laureato tutti loro passavano un sacco di tempo sui fatti ‘dell’Out of Africa’ ma sono
stati totalmente smentiti dalla genetica. (Le pubblicazioni) a larga diffusione la mantengono ancora.”

Vi è chiaro cosa significa tutto questo? PRIMO: l’Out of Africa non è una teoria scientifica ma una mera costruzione
ideologica inventata per rimuovere il concetto di razza (con un correlativo orwelliano spostamento del significato della
parola “razzismo” da affermazione della superiorità di una razza sulle altre, alla semplice constatazione che le razze
esistono, come ulteriore censura/mistificazione). SECONDO: la genetica ha completamente smentito questa falsificazione
ideologica spacciata per scienza. TERZO: nonostante questo, questa favola continua a essere ammannita alla grande al
grosso pubblico da parte di un sistema mediatico che ovviamente riflette gli interessi del sistema dominante.

Questa è l’essenza di quel sistema di censure e falsificazioni che nel suo insieme possiamo chiamare antirazzismo e
democrazia, sistema nel quale, esattamente come aveva predetto George Orwell, dire la verità (in questo caso non negare
l’esistenza delle razze) è reato, il più inespiabile dei reati.

Un altro punto importante di cui riferisce l’articolo e su cui è il caso di tornare, è rappresentato dal risultato dell’analisi del
DNA di un uomo di Cro Magnon i cui resti sono stati ritrovati in Italia:

“Una sequenza di DNA Cro-Magnon vecchia di 28,000 anni è stata ricavata da delle ossa fossilizzate scoperte nella grotta
Paglicci, in Italia. (uno dei luoghi archeologici più importanti d’Italia a Rignano Garganico in provincia di Foggia, Puglia

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ndt) I risultati mostrano che il DNA è identico alle sequenze di alcuni europei moderni. La sequenza di DNA è rimasta
statica e immutata per oltre 28.000 anni”.

L’arte della menzogna spesso consiste nel dare a intendere, senza dire esplicitamente ciò che potrebbe essere facilmente
smentito, e la favola “antirazzista” dell’Out of Africa funziona proprio in questo modo, dare la calcolata impressione che
“veniamo dai neri”, che saremmo in qualche modo discendenti di neri “sbiancati” e che non si potrebbero quindi porre
distinzioni di tipo razziale, senza arrivare però mai a un’affermazione esplicita che potrebbe essere facilmente smentita dalla
genetica. In realtà, una collocazione geografica africana non significa “nero”. Su suolo africano non sono forse nati
Tutankhamen, Mosè, Cleopatra, John R. R. Tolkien, Christian Barnard che di certo neri non erano?

L’Africa settentrionale, il “Sahara verde” di alcune decine di migliaia di anni fa precedente la desertificazione, può
senz’altro aver avuto un ruolo nella formazione della nostra specie, anche se le evidenze genetiche propendono piuttosto per
l’Eurasia, ma questo non significa che i nostri antenati fossero neri, come non lo è la popolazione berbera che tuttora vive in
queste aree. Il trucco degli abili mentitori è quello di dire e non dire, in modo da non poter essere smentiti, ma ecco che
arriva l’evidenza solare della prova genetica: il profilo genetico di un uomo di Cro Magnon di 28.000 anni fa è identico a
quello degli europei odierni e non mostra alcun elemento negroide.

Forse è opportuno a questo punto fare un passo indietro. Penso ricorderete che la scorsa volta vi ho parlato tra le altre cose
del libro del genetista Nicholas Wade Una scomoda eredità. Questo testo, edito in edizione italiana da “Le scienze” (“Le
scienze”, mica una pubblicazione di Area!) mette in bella evidenza il fatto che l’eredità biologica e genetica condiziona tutti
gli aspetti della nostra vita e dell’epifenomeno che conosciamo come “civiltà”.

Preso atto di ciò, c’è una domanda che ci dobbiamo porre, perché questa eredità biologica, che è un fatto incontestabile, è
“scomoda”? Non è un po’ come chiedersi se non sia brutto che due più due faccia quattro?

Comprendere questo punto ci apre uno squarcio nel buio della mentalità democratica, Per costoro in altre parole sarebbe
bello che l’eredità genetica non esistesse, che tutti noi fossimo soltanto il prodotto degli influssi ambientali e quindi
potessimo essere “educati”, plasmati come cera molle calibrando le giuste influenze da trasmetterci attraverso l’ambiente,
un’utopia egualitaria che va ben oltre la presunzione dell’inesistenza delle razze.

Poiché ciò “sarebbe tanto bello se fosse vero” anche se è evidentemente falso, allora bisogna fingere che sia vero a tutti i
costi, e chi si accorge che le cose non stanno così e che il re democratico è miseramente nudo, è un reprobo, un “razzista”,
un “fascista”.

Naturalmente, la presunzione che la razza sia “un mero costrutto culturale” e non un evidente fatto biologico (per non
allargare troppo il discorso, evitiamo ora di parlare dell’ideologia transgender che vorrebbe trattare anche il sesso, il fatto di
essere uomini o donne, allo stesso modo, ma è peraltro evidente la parentela fra le due aberrazioni), non è priva di pesanti
conseguenze, a cominciare dal fatto di aver prodotto negli occidentali caucasici che non osano più definirsi “di razza
bianca” la convinzione che la loro civiltà e la superiorità che hanno manifestato per tanti secoli nei confronti delle genti
“colorate” consista non nella loro eredità biologica, ma in una serie di concetti astratti che traggono la loro origine
nemmeno tanto remota nell’intossicazione che ha subito l’Europa a partire da due millenni or sono da parte di una religione
di origine mediorientale, perché dietro il cosmopolitismo e l’egualitarismo democratici e marxisti, non è difficile scorgere i
loro antecedenti cristiani.

Questo attenua o cancella lo spirito di appartenenza etnico-razziale, e mette l’uomo europeo nella situazione del vaso di
coccio in mezzo ai vasi di ferro che l’immigrazione ci porta ogni giorno di più in casa.

Domenica 2 ottobre, sul sito “Il blog di Lameduck” è apparso un articolo di Guillaume Faye, L’imperativo del meticciato
che è in realtà un estratto del suo libro Sesso e devianza. Riguardo a questo tema ha qualcosa da dirci.

“I bianchi, tranne poche eccezioni, sono l’unica popolazione che non si preoccupa del proprio futuro collettivo, che non
possiede una coscienza razziale a causa del senso di colpa derivato dalla mentalità cristianiforme universalista che ha
provocato una paralisi mentale e la creazione di una cattiva coscienza collettiva”.

Penso che “cristianiforme” sia il termine perfetto per definire i bolscevismi moderni, quello marxista e quello liberal-
democratico del pari derivati da quello dell’antichità.

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Noi non vogliamo continuare a essere il vaso di coccio fra i vasi di ferro, e se per cessare di esserlo dovremo sbarazzarci di
cristianesimo, liberalismo e marxismo, faremo questo sacrificio con la morte (della democrazia) nel cuore.

Una piccola nota sull’illustrazione che correda questo articolo, è un collage di due immagini presenti in quello già apparso
su “Atlantean Garden”: una ragazza russa. In contraddizione con quanto ci racconta la “teoria” dell’Out Of Africa, non
presenta tracce evidenti di un’origine negroide, e il cranio e la ricostruzione del nostro antenato di alcune decine di migliaia
di anni fa, l’uomo di Cro Magnon. Anche in questo caso, le caratteristiche negroidi non si notano molto.

Io mi scuso se stavolta inizierò il nostro discorso in una maniera molto scorretta. Come certamente avete avuto modo di
osservare in questi nostri incontri che ormai coprono un arco di tempo non breve, io cerco di essere accurato quando cito
qualcosa, dandovi tutte le indicazioni necessarie per risalire alla fonte. Stavolta non sono in grado di farlo, e la ragione è
semplice. Non so se a voi è mai successo di capitare su un sito, trovare un articolo che vi sembra interessante, ma poi vi
accorgete che le cose che dice sono tali baggianate da provocarvi un moto di stizza, per cui chiudete il sito e passate altrove,
poi magari non riuscite più a trovare il sito stesso e l’articolo in questione. E’ quello che è successo a me ultimamente, e mi
sono pentito di non aver scaricato l’articolo, perché comunque le cose in esso contenute sono espressione di una tendenza
che negli ultimi tempi sembra essere sempre più diffusa.
Ero indeciso se parlarvene o meno, ma poi ho deciso di farlo comunque, perché certe cose sembrano riflettere un
orientamento oggi disgraziatamente molto presente, e non avrete difficoltà, girando un poco sul web, a trovare siti e articoli
che presentano concetti analoghi, e quindi dare loro una risposta, di certo non guasterebbe.
Si tratta di questo: l’articolo suddetto metteva in relazione il reddito delle diverse regioni italiane con la frequenza di un
certo aplogruppo (scusate, ma non ho preso nota di quale), e faceva risalire la disparità economica fra il nord italiano e il
nostro meridione a fattori genetici. Io credo di avervi già espresso il concetto che quello degli aplogruppi, sebbene sia un
discorso oggi molto di moda, è qualcosa che va preso con le molle, e non è possibile postulare una corrispondenza di tipo
così meccanico fra genetica ed economia senza considerare i fattori storici, ambientali, sociali.
Gli aplogruppi sono le varianti del cromosoma Y, che fra i cromosomi del nucleo cellulare è il più piccolo e povero di geni,
in pratica serve solo per decidere l’appartenenza al sesso maschile, mentre il DNA mitocondriale, anch’esso usato
frequentemente in questo tipo di ricerca, è DNA esterno al nucleo cellulare, contenuto in organelli della cellula, i
mitocondri, che si pensa fossero in origine antichi batteri assorbiti come simbionti.
Poiché il cromosoma Y si eredita esclusivamente per via paterna e il DNA mitocondriale esclusivamente per via materna,
l’uno e l’altro sono molto utili per tracciare degli albi genealogici delle popolazioni, ma poiché entrambi rappresentano una
frazione minima del DNA, collegarli a qualsiasi caratteristica fenotipica delle persone, e tanto più delle società in cui
vivono, risulta del tutto arbitrario.
Sarebbe una gran bella cosa possedere la macchina del tempo, caricarvi un bel numero di leghisti e gente simile, e portarli a
fare un giro nell’Italia del XII e XIII secolo. Avrebbero la sorpresa di vedere che la parte più povera e arretrata della nostra
Penisola all’epoca era il nord, per di più afflitto da una perenne instabilità politica e dalle continue guerre fratricide fra gli
staterelli comunali.

109
All’epoca il nostro meridione era invece la parte più avanzata, non solo perché maggiormente a contatto con Bisanzio e i
ricchi mercati dell’Oriente mediterraneo, ma perché prima i Normanni poi gli Svevi vi avevano costruito un solido e
moderno stato accentrato che raggiunse il massimo splendore sotto Federico II, che ebbe con le Tabulae Melfitanae la prima
costituzione moderna d’Europa, le creazione dell’Università di Napoli e della Scuola di medicina di Salerno (oggi da
Salerno non si riesce neppure a costruire un tratto d’autostrada che raggiunga Reggio Calabria in tempi ragionevoli), i primi
istituti europei di livello universitario. Fu alla corte normanno-sveva di Palermo che nacque la letteratura in lingua italiana,
e di quel periodo restano monumenti artistici come il duomo di Palermo e quello di Monreale. Veramente c’è da chiedersi
che faccia farebbero quei signori leghisti e simili vedendo che allora “i terroni” erano quelli del nord.
Da allora si è radicalmente capovolta la situazione storico-sociale, ma il patrimonio genetico delle popolazioni non si è
modificato un gran che. Mentre il nord iniziava una lenta ascesa, l’invasione angioina voluta dalla Chiesa per distruggere la
monarchia sveva, spingeva il meridione nel baratro (Da due millenni in qua, invariabilmente la Chiesa cattolica è la causa
principale o almeno una delle principali cause delle nostre disgrazie).
Gli angioini trapiantarono nel nostro sud, liberandone la Francia, un esteso baronato parassitario e ne bloccarono le attività
economiche consegnandole in mano ai banchieri genovesi e pisani che avevano finanziato l’impresa. Il nostro meridione,
dice lo storico Scipione Guarracino “Fu costretto a essere povero”, ma tutto ciò non aveva ovviamente alcuna relazione con
il DNA delle popolazioni, il DNA degli Italiani è rimasto piuttosto stabile nei millenni, e gli invasori e dominatori che si
sono succeduti nei secoli vi hanno apportato ben poco, essendo perlopiù numericamente irrilevanti. Oggi che siamo invasi
da tutta la feccia del mondo, il discorso rischia però di essere drammaticamente diverso.
Anche qui il discorso che occorre fare in proposito non è del tutto nuovo: l’uomo che ha conservato almeno un barlume di
spirito tradizionale è naturalmente identitario, sente l’esigenza del radicamento in una comunità che non è soltanto un
gruppo di persone, ma affinità di sangue e continuità storica con gli avi, continuità a sua volta proiettata verso il futuro, ma
dobbiamo stare ben attenti perché sappiamo bene di avere a che fare con un nemico astuto quanto potente, e pronto a
rivoltare le nostre armi contro di noi.
Vale la pena in proposito di ascoltare le parole dello scrittore austriaco Gert Honsik, che hanno tutta l’autorevolezza della
lunga pena detentiva “democraticamente” inflittagli dalla tirannide democratica per aver svelato il piano Kalergi.
Quest’ultimo prevede tra le altre cose l’incentivare i movimenti separatisti come mezzo per distruggere gli stati nazionali,
considerati il maggior ostacolo all’affermazione di una società mondialista multietnica e multirazziale. Localismo e
separatismo sono destinati a essere un boomerang per i loro incauti sostenitori, e la promozione del razzismo interno fra
connazionali serve precisamente a questo scopo. received_1242167469211322
Ultimamente un amico, una di quelle persone preziose senza le quali tenere questa rubrica con una certa periodicità
difficilmente mi sarebbe possibile, e che considero “collaboratori indiretti” di “Ereticamente”, mi ha segnalato un errore
davvero singolare che compare nella serie televisiva Barbarians, Roma sotto attacco mandata in onda da History Channel: il
generale cartaginese Annibale è presentato indossare un elmo di fattura romana (e fin qui, passi) su cui compare il
monogramma XP “chi-ro” ben visibile, monogramma entrato in uso nelle legioni a partire da Costantino, e che, appunto,
trattandosi delle iniziali di Cristo (“Christos” in greco) simboleggiava il carattere cristiano assunto dall’impero dopo Ponte
Milvio. L’immagine di questo inedito “Annibale cristiano” è precisamente l’illustrazione che correda questo articolo.
Chiaramente, dal punto di vista storico, poiché parliamo di un personaggio vissuto e di eventi che risalgono al terzo secolo
avanti Cristo, si tratta di un anacronismo piuttosto grave, dovuto probabilmente al fatto che, anche per ovvi motivi di
risparmio sui costi, queste produzioni spesso riciclano materiale utilizzato in pellicole precedenti.
L’aspetto importante sul quale vorrei attirare la vostra attenzione, però, a mio parere è un altro: fate un po’ caso a cosa ci
raccontano tutte le produzioni storiche che si dedicano a illustrare per il grosso pubblico la storia romana, sembra che
abbiano due chiodi fissi, Canne e Teutoburgo, a meno che non si parli della decadenza dell’impero e dell’irruzione
conquistatrice di popolazioni barbariche entro i suoi confini, che ne hanno segnato la definitiva agonia, e spesso in queste
produzioni si nota una simpatia nemmeno troppo velata vuoi per i Cartaginesi, vuoi per i barbari germani o unni.
Non si tratta certamente di negare la realtà storica dei disastri di Canne e di Teutoburgo, ma perché insistere sempre e solo
su di essi? Vi pare che i nostri antenati Romani avrebbero potuto realizzare un impero esteso dalle Isole Britanniche al
Medio Oriente se nel corso dei secoli avessero ricevuto solo batoste? Perché non menzionare mai o quasi mai le mille prove
di valore dei legionari e di abilità strategica dei loro comandanti?
A cosa risponde questa tendenza a presentare i nostri antenati Romani nella luce più negativa possibile, se non alla volontà
di imporre ai loro discendenti una visione quanto più immiserita possibile di se stessi e della loro storia sempre nell’ottica di
diminuire le resistenze psicologiche alla sostituzione etnica?
Parliamo del modo in cui il mondo romano è presentato nelle pellicole hollywoodiane, di solito in contrapposizione al
cristianesimo. Ancor meno del modo in cui esso è presentato nelle ricostruzioni “storiche” sopra dette, si può riuscire a
immaginare che questi gaudenti beoni e lussuriosi sarebbero potuti riuscire a diventare i dominatori del mondo allora
conosciuto.
L’antipatia che queste pellicole dimostrano per il mondo romano e per i valori da esso incarnati, è forse la dimostrazione più
tangibile della verità di quel che asseriva un nostro grande intellettuale scomparso, Alberto Mariantoni: nonostante
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l’abbondanza di mezzi materiali, quello a cui questi bigotti calvinisti manovrati da burattinai circoncisi di cui nemmeno si
accorgono possono dare luogo, potrà essere al massimo un imperialismo, ma mai un imperium.
Tuttavia, come vi potete facilmente rendere conto, tutto questo è ancora il meno. Questo Annibale presenta delle chiare
caratteristiche negroidi. Che Annibale fosse cartaginese e quindi nato in Africa, è noto, ma questo non significa che fosse di
colore più di quanto non lo fossero Cleopatra, Giuseppe Ungaretti, Christian Barnard, John R. R. Tolkien del pari nati su
suolo africano. Confrontiamo questa immagine del vincitore di Canne rappresentato da un attore di colore con il celebre
busto del condottiero tramandatoci dalla statuaria classica (a destra nell’immagine). Annibale era cartaginese, di origine
fenicia, semitica, tuttavia i suoi lineamenti rivelano una discreta percentuale di sangue bianco caucasico (cosa che
potremmo anche mettere in relazione con le sue eccellenti doti militari).received_1242167629211306
Questo Annibale nero, però, non è un errore come nel caso del monogramma XP, ma una falsificazione voluta che si
inserisce perfettamente nel discorso portato avanti dal sistema mediatico made in USA che è sempre, anche quando parla di
cose che sembrano lontane dalla politica, la voce del nemico. Da anni nelle pellicole e nei serial “storici” è evidente quello
che potremmo chiamare un processo di negrizzazione, siamo arrivati al punto di vedere il un film sul Ciclo Bretone
nientemeno che un Lancillotto di colore. Tutto ciò non è casuale, ma ha uno scopo preciso, quello di persuadere l’ignaro
pubblico yankee ormai completamente plagiato, e poi noi che l’abominio della società multietnica e multirazziale che ci
stanno preparando, nella quale tutte le identità etniche e storiche saranno distrutte, sia una cosa “normale”, “sempre
esistita”.
Questo Annibale cristiano (e nero) che sfoggia il monogramma imposto da Costantino alle legioni, è certamente un
anacronismo, tuttavia in un certo senso non è un errore, è – potremmo dire – un lapsus freudiano che svela
involontariamente una verità che si vorrebbe tenere celata. La lotta fra Roma e Cartagine è stata senza dubbio un momento
del più ampio conflitto fra mondo indoeuropeo e mondo semitico, una contrapposizione affidata alle armi, ma che si
sostanzia in mondi di valori e orizzonti mentali e spirituali del tutto diversi. L’avvento del cristianesimo, l’infiltrazione di
una religione di origine semitica all’interno dell’impero, il suo assalto al mondo spirituale indoeuropeo di Roma, è stato un
altro momento dello stesso conflitto, un attacco ben più subdolo e pericoloso di quello portato da Annibale, perché portato
dall’interno stesso dell’impero e mirante all’assoggettamento delle coscienze, e come sappiamo, disgraziatamente vincitore.
Questo Annibale nero col monogramma di Cristo potrebbe ben essere assunto a simbolo di tutto ciò che si è contrapposto e
si contrappone allo spirito di Roma e all’universo – materiale e spirituale – indoeuropeo.
Io penso sia importante per le finalità che si propone questa rubrica, valorizzare la nostra eredità storica non solo in quanto
europei e indoeuropei, ma nello specifico anche in quanto italiani, ossia italici figli di Roma, ed è appunto in questa chiave
che va letto il contenuto prevalente di questo articolo, ma sarebbe davvero strano se proprio non vi fosse nulla da dire anche
riguardo alla remota antichità preistorica dove le nostre origini in quanto europei, indoeuropei, caucasici, finiscono per
mescolarsi con la questione dell’origine stessa della nostra specie.
Ultimamente, un altro di quei preziosi amici senza i quali tenere questa rubrica risulterebbe estremamente difficile, mi ha
segnalato un articolo apparso su “Saturnia Tellus”, un articolo non molto recente a dire il vero, che risale all’8 febbraio
scorso; il pezzo è a firma di Paolo Casolari, e riporta una notizia già apparsa su “Le scienze” in data 15 gennaio, e di cui vi
avevo già parlato a suo tempo, il ritrovamento da parte di un’equipe di ricercatori russi, di tracce di presenza umana risalenti
a 45.000 anni fa:
“L’equipe del paleontologo Vladimir V. Pitulko dell’Accademia russa delle scienze di S. Pietroburgo ha trovato prove di
presenza umana a 72° Nord all’interno del Circolo polare risalenti a ben 45.000 anni fa (test del radiocarbonio). Mai, in
precedenza, si erano registrate tracce di homo sapiens così a Nord. La località si chiama a Sopochnaia Karga ed è in piena
Siberia artica (lat. 71,86 – lon. 82.7).Lo scrive la rivista Science nel suo numero 351 del 15 gennaio scorso.
La prova provata è nella forma di una carcassa di mammut, congelata da qualche millennio, che porta molti segni di ferite
d’arma da punta e da taglio inflitte sia pre sia post-mortem, unita ai resti di un lupo braccato posto in una posizione separata,
di età simile. Entrambi i ritrovamenti indicano che esseri umani sapiens, capaci di cacciare e sezionare una preda, potevano
essersi ampiamente diffusi in tutta la Siberia artica almeno dieci millenni prima di quanto si pensasse”.
Probabilmente ricorderete che vi avevo già dato questa notizia, oltre a rilevare il fatto che essa indebolisce grandemente le
posizioni dei sostenitori dell’Out of Africa, secondo i quali la nostra specie si sarebbe originata nel continente africano
poche migliaia di anni prima, e per conseguenza non avrebbe avuto materialmente il tempo di espandersi così a settentrione.
D’altra parte l’Out of Africa è smentita dalle ricerche degli scienziati russi fra cui in prima linea il genetista Anatole A.
Klysov, ve ne ho parlato ampiamente proprio la volta scorsa. Oggi è come se fra scienziati russi e americani fosse rinata la
Guerra Fredda a parti invertite: mentre i russi possono esporre liberamente i risultati delle loro ricerche, gli americani sono
forzati dal dogmatismo democratico-progressista le cui elucubrazioni non tollerano di essere smentite dai fatti (pena pesante
ripercussioni sulle carriere dei ricercatori stessi), e fra queste l’Out of Africa, caposaldo di tutta l’ideologia antirazzista.
A tutto ciò, l’articolo di Paolo Casolari aggiunge una considerazione importante: le prove archeologiche che stanno
lentamente emergendo che non l’Africa ma l’Artico potrebbe essere il luogo d’origine della nostra specie, coincide con
quello che in proposito hanno sempre affermato gli studiosi del pensiero tradizionalista, da Tilak a Julius Evola.

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Ciò di cui possiamo essere certi, è che come italiani, come europei, come indoeuropei, abbiamo una grande eredità da
difendere, che non possiamo accettare venga travolta sino a scomparire nel caos multietnico.

Questa rubrica dedicata alla tematica delle nostre origini è molto condizionata dalle novità che al riguardo offre di volta in
volta il web. Questo è ovvio, direi. Occorre tenere sempre presente che ci confrontiamo con un sistema propagandistico-
mediatico dove è continuamente presente la menzogna “di stato” (in realtà non si tratta dello stato, ma di un sistema
internazionale profondamente pervaso dalle menzogne della democrazia), essa pervade i media, la carta stampata, le
istituzioni scolastiche e accademiche, solo il web, per sua natura difficile da controllare (ma non è escluso che prima o poi
non si arrivi a censurare anche “la rete”), rimane uno spazio in cui almeno per ora è possibile trovare un’informazione
effettivamente libera, non piegata e plagiata dal sistema.

Di volta in volta le cose possono variare, e questa rubrica riflette l’eterogeneità delle cose che si presentano. Come vi ho
fatto notare più volte, la tematica delle origini si può suddividere in una molteplicità di ambiti a seconda di quanto si decide
di risalire indietro nel tempo. Noi ne abbiamo individuati almeno quattro: le nostre origini come italiani di ceppo romano-
italico, le nostre origini come civiltà europea, come popoli indoeuropei caucasici, e infine le origini stesse della nostra
specie homo sapiens. Come avrete notato, nella trentottesima parte, sempre basandoci sulle informazioni e sulle novità
fornite dal web, ci siamo concentrati sul primo e sul quarto di questi ambiti, escludendo per così dire la fascia mediana, e
anche stavolta dovremo procedere nello stesso modo.

Io non vorrei che la mia fosse una vanteria, ma pare che questa rubrica e le cose che di volta in volta scrivo su
“Ereticamente” stiano ottenendo un notevole seguito nei nostri ambienti. In particolare, stando alle reazioni che ho potuto
verificare, sembra che nella trentottesima parte io abbia toccato un punto veramente nodale, riguardo al quale si sentiva la
mancanza di una trattazione seria e onesta, la questione delle nostre radici romane-italiche.

Il legame che giustamente sentiamo con il mondo europeo e indoeuropeo non deve indurci a dimenticare o a non tenere
nella debita considerazione la nostra specificità in quanto romani e italici, come discendenti di una civiltà che al suo apogeo
è giunta a unificare sotto di sé tutto l’ecumene antico.

Fra le reazioni suscitate da questo articolo, vorrei citarvi un commento molto ampio e di generale apprezzamento dell’amico
Ettore Malcagni, e soffermarmi su di un punto solo apparentemente marginale. Come ricorderete, avevo messo in luce “la
stranezza” di una narrazione storica sul periodo romano quale è quella che ci fanno i media ufficiali, che ricordano sempre i
rovesci di Canne e di Teutoburgo o le fasi finali della decadenza dell’impero, con il collasso determinato dalle invasioni
barbariche, come se Roma avesse potuto costituire un impero esteso dalla Siria alle Isole Britanniche accumulando solo
sconfitte.

Riguardo al celebre episodio di Attila “fermato” da papa Leone I, Ettore scrive:

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“Gli Unni che erano i più potenti dei popoli che ambivano a conquistare l’Italia furono sbaragliati ai campi Catalaunici dal
grande Ezio, Attila invero ci riprovò un anno dopo ma con i resti di quello che era il suo esercito e quando incontrò il Papa,
a sole sei ore di marcia si trovavano le legioni fresche di Ezio tornato rapidamente in Italia da Costantinopoli”.

“L’azione” del papa è dunque stata notevolmente sopravvalutata da parte degli storici che nel corso dei secoli hanno
avallato e continuano ad avallare l’interpretazione ecclesiastica di questo episodio.

Un particolare di importanza solo apparentemente marginale, che apre un discorso di portata ben più ampia, l’azione di
surroga che il potere ecclesiastico esercita da due millenni in qua, di un’autorità civile il più delle volte assente o
impotente/sottomessa. C’è solo un piccolo dettaglio: il confine fra la surroga e l’usurpazione è quanto mai labile. E’ un
discorso che si morde la coda, infatti, la mancanza per un lunghissimo arco di secoli nella storia italiana di un potere civile,
oppure il fatto che esso era rappresentato da un dominatore straniero, si deve proprio all’usurpazione ecclesiastica, alle arti e
al peso di un’autorità presentata come religiosa ma usata per fini politici, allo scopo di tenere l’Italia divisa e permettere la
sopravvivenza dello staterello papale.

Scusate, ma su questo punto mi sembra che sia impossibile insistere troppo, né per la verità insistere abbastanza. Finché
pensiamo che il cristianesimo sia qualcosa di “nostro”, tanto più che coincida con le “nostre” tradizioni, saremo
inevitabilmente su una strada sbagliata.

Il 23 dicembre 2016, in occasione del solstizio d’inverno, la nostra Cristina Coccia ha pubblicato su facebook questo
estratto del La rivoluzione pagana di Luca Lionello Rimbotti del 2006, su cui vi invito a meditare:

“Riandare al paganesimo, riaprirsi al politeismo dei valori, reincentrarsi nel relativismo e nel particolarismo delle forme
etniche, reimmergersi nei flussi geo-storici che sono la fonte dell’appartenenza, significa re-integrarsi nella propria storia,
nella sacralità del proprio suolo, nella comunanza di stirpe. Significa custodire un bene che non è proprietà, non è un
possesso, ma dono proveniente dalla catena genealogica che crea l’affinità, un bene che è reciprocità di arricchimenti
spirituali, culturali, materiali, da condividersi con gli eredi solidali del destino della comunità. l’istinto dell’appartenenza
etnica proviene dalle più insondabili profondità delle stirpi”.

Paganesimo significa prima di tutto appartenenza etnica, spirito identitario, sangue e suolo, laddove cristianesimo significa
cosmopolitismo.

Come vi ho detto, questo articolo avrà una struttura “a ponte” così come lo ha avuto la trentottesima parte, cioè passeremo
dal considerare la nostra realtà storica di italiani alle questioni relative alla nostra più remota origine preistorica. Così va il
web. I nostri prossimi articoli avranno probabilmente un taglio diverso.

Vi ho parlato più volte dell’ottimo lavoro compiuto dall’amico Michele Ruzzai con il suo gruppo facebook “MANvantara”,
ma preferisco non citarlo anche per non creare doppioni, e rimandarvi direttamente alla lettura degli interessanti articoli che
“MANvantara” ospita (ce ne sono anche di miei che rovinano un po’ la cosa, abbiate pazienza!). Stavolta però sarà il caso
di fare un’eccezione.

Recentemente (fine dicembre 2016), il nostro Michele ha pubblicato una sua recensione del testo Manuale di preistoria,
paleolitico e mesolitico di Daniela Cocchi Genik, edito nel 1993 dall’Assessorato alla Cultura del comune di Viareggio.

Ve ne riporto uno stralcio:

“Pag. 63: L’autrice ricorda le ipotesi di Peyrony che attribuì i diversi fenomeni culturali dell’Aurignaziano tipico e del
Perigordiano – entrambi comunque riferibili al Paleolitico Superiore – anche a distinti tipi umani.

Pag. 173: Peyrony riunì l’Aurignaziano inferiore (o Castelperroniano) e quello superiore in un unico complesso che definì
Perigordiano e che collegò all’uomo di Combe-Capelle, mentre l’Aurignaziano tipico ritenne fosse attribuibile all’uomo di
Cro-Magnon.

Pag. 175-176: La cultura dell’Aurignaziano è documentata su un’area molto vasta (dall’Atlantico al Don) e presenta tratti
fortemente omogenei; sembra essere alloctona rispetto alle zone di attestazione e probabilmente va collegata alla diffusione
di Homo Sapiens Sapiens”.

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Vi è chiara l’importanza di questo tipo di discorso? Denis Peyrony, a cui la Cocchi Genik fa riferimento, era uno studioso di
preistoria, deceduto nel 1954, che ha espresso delle posizioni abbastanza isolate, cercando di mettere in correlazione le
diverse culture litiche coi diversi tipi umani preistorici attestatici dalla paleoantropologia. Se ci pensate bene, è una
posizione piuttosto inconsueta, perché sembrerebbe, guardano la maggior parte degli studi preistorici, che abbiamo a che
fare da un lato con l’evoluzione fisica umana, dall’altro con un processo in cui strumenti generano altri strumenti quasi
senza l’intermediazione di un artefice umano.

Questa non è altro che l’applicazione alla preistoria di quel “principio” della democrazia che vede “la cultura” e l’eredità
biologica come due realtà del tutto separate ed estranee, e ritiene che la prima possa procedere per conto proprio senza
essere strettamente legata alla seconda, cioè esattamente il contrario di tutto ciò che ci rivela la conoscenza reale dell’uomo
concreto, storico o preistorico che sia.

La notizia più sorprendente di questo periodo di fine 2016, tuttavia non viene dall’Area. Un collaboratore di “MANvantara”
ha pubblicato nel gruppo proprio il 25 dicembre un articolo su di una scoperta fatta in una grotta che non è esattamente
quella della natività, ma la fonte è “La Repubblica” del 25 maggio. Un team di archeologi francesi dell’università di
Bordeaux guidati da Jacques Jaubert avrebbe individuato all’interno della grotta di Bruniquel nella Francia meridionale la
più antica costruzione architettonica conosciuta, un doppio cerchio di stalagmiti all’interno dei quali venivano forse accesi
dei fuochi. La fotografia di questo doppio cerchio di stalagmiti della grotta di Bruniquel è appunto l’immagine che correda
il presente articolo.

Le concrezioni depositate sulle stalagmiti dopo la loro collocazione artificiale dimostrerebbero che la costruzione ha
176.000 anni. In Europa all’epoca non c’erano homo sapiens, non esistevano proprio. Gli autori della costruzione non
possono essere stati altro che gli uomini di neanderthal.

“Il fatto che gli anelli siano stati realizzati con pezzi di dimensioni simili”, hanno spiegato i ricercatori francesi, “indica che
la costruzione è stata progettata attentamente”. Non solo, spiega Francesco D’Errico, archeologo italiano che lavora presso
il CNRS di Bordeaux, “Per illuminare la grotta e lavorare per ore sotto terra non basta un tizzone, ci vogliono torce molto
efficienti”.

La costruzione infatti si trova a 366 metri di distanza dall’entrata della grotta, il che porta a escludere che fosse
semplicemente un rifugio o che gli uomini che l’hanno eretta si fossero spinti fin lì semplicemente alla ricerca di cibo. La
spiegazione più probabile è che lo scopo della costruzione fosse di natura rituale-religiosa. Una scoperta che ci induce a
comprendere come il mondo di questi nostri lontani progenitori fosse ben più complesso di quel che ci eravamo finora
immaginato.

A questo punto io provo una tentazione fortissima: quella di mettere in correlazione questa precoce creatività dimostrata dai
nostri antenati neanderthaliani con quel surplus di creatività che caratterizza l’uomo europeo e gli ha dato modo di generare
civiltà superiori, cosa che nell’Africa subsahariana non è mai avvenuta, infatti è accertato che nel nostro DNA abbiamo l’1-
2% di geni riconoscibili come di origine neanderthaliana che invece nei neri africani sono del tutto assenti.

Questo 1-2% può sembrare molto poco, addirittura irrilevante, invece è tantissimo. La maggior parte del nostro genoma,
infatti, ci individua come organismi pluricellulari, animali, metazoi, vertebrati terrestri, mammiferi, primati, si pensi che
solo l’8% di esso si differenzia da quello dello scimpanzé.ricostruzione del volto di un bambino di neanderthal

Vi allego anche la ricostruzione del volto di un bambino di neanderthal, un’immagine che da sola fa giustizia di tante
ricostruzioni fantasiose che ancora oggi pullulano nei testi di preistoria nei quali questi nostri progenitori sono raffigurati
come dei bruti scimmieschi. Francamente, dispiacerebbe averlo nel nostro albero genealogico (e in effetti ce lo abbiamo)
molto meno di tanti ceffi che oggi l’immigrazione porta nelle nostre strade.

Di passata, vorrei ricordare un articolo già apparso nel 2014 su un sito di sinistra, “Wolfstep”, Dialettica e propaganda di
Uriel Fanelli, dove si parlava proprio dell’uomo di neanderthal, e l’autore l’aveva scritto precisamente allo scopo di
sconsigliare i compagni dal ricorrere ad argomenti di paleoantropologia per “contrastare i razzisti”, perché alla luce delle
scoperte più recenti, questi finiscono per trasformarsi in autentici boomerang dal loro punto di vista:

“Nessuna delle argomentazioni prodotte per contrastare i razzisti è integra. Nessuna e’ più efficace. Nessuna funziona più.
E’ possibile, assolutamente possibile, che continuando a ricostruire i tasselli della specie umana salti fuori quel che molti
sospettano sempre di più e sempre più spesso”.
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Soltanto che tutto quello che circola nel web non lo leggono solo “i compagni” e, detto in tutta franchezza, ADORO quando
si danno la zappa sui piedi.

Altro che “madre Africa” secondo una locuzione cara a sinistrorsi e antirazzisti, madre Europa, potremmo dire, che già poco
meno di duecentomila anni fa aveva imboccato la strada che ha portato alla realizzazione di civiltà superiori.

Sicuramente avrete notato nella serie di tematiche che ho affrontato sulle pagine di “Ereticamente” negli ultimi tempi,
un’alternanza che può sembrare curiosa, una sorta di movimento pendolare che va dal remoto passato, come quelli che sono
compresi sotto il titolo di “Una Ahnenerbe casalinga” a tematiche futuribili, alle ipotesi sul futuro offerteci dalla
fantascienza che ho trattato in un’altra serie di articoli, Narrativa fantastica, una rilettura politica.

In realtà, il rapporto fra questi due ambiti è più stretto di quello che potrebbe apparire a prima vista. Nel quarto della serie di
articoli dedicati alla Narrativa fantastica, infatti mi sono occupato dell’anti-utopia che George Orwell ha disegnato in 1984.
Rispetto alla profezia orwelliana, la democrazia che oggi, per disgrazia dell’umanità, domina da un capo all’altro questo
sventurato pianeta, è indubbiamente meno truce e molto più ipocrita, abile a celare sotto una maschera umanitaria il suo
volto tirannico, tuttavia i meccanismi del potere attuale sono proprio quelli che Orwell aveva profeticamente descritti; si
pensi alla manipolazione dell’intero sistema semantico del linguaggio con lo spostamento del significato delle parole, ad
esempio “razzista” non è più chi sostiene la supremazia della propria razza su altre, ma chi semplicemente si accorge che le
razze esistono. Tutta la political correctness democratica è uno strumento di manipolazione orwelliano dello stesso tipo.
Come lo scrittore inglese aveva giustamente previsto, la falsificazione del passato è uno strumento principe per la
dominazione delle coscienze che risponde alle finalità del potere “democratico”.

Onestamente, ero in dubbio se collocare anche questo articolo sotto il titolo della Ahnenerbe, ossia dello studio dell’eredità
degli antenati, perché quello che ho da dire al riguardo non è molto né particolarmente nuovo od originale, quello su cui
invece vorrei richiamare stavolta la vostra attenzione, sono le falsificazioni imposte dalla vulgata democratica, in modo da
creare un’immagine del nostro passato del tutto distorta.

Quel che possiamo affermare positivamente, non è particolarmente originale né inconsueto, né qualcosa che esuli dal modo
di vedere di chi riesce a considerare la prospettiva storica con un minimo di buon senso: fino alla nostra epoca di decadenza

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(una decadenza particolare in cui all’ipertrofia tecnologica corrisponde la crescente pochezza umana, e che siamo soliti
chiamare “progresso”) tutte le civiltà conosciute si sono sviluppate su di una base sostanzialmente mono-etnica, e lo stesso
vale per culture, nazioni e imperi. Nell’esaltare la presunta fecondità creatrice del meticciato, il prendere le innovazioni
sempre da qualcun altro, coloro che stanno dietro la baracca del potere mondiale e condizionano “la cultura” a livello
planetario, svelano involontariamente la loro mentalità, che è quella dei ladri e parassiti.

Ciò su cui invece possiamo soffermarci con ampiezza, è appunto la falsificazione orwelliana del nostro passato. Al riguardo,
sembra che nella trentottesima parte di questa serie di articoli, un “pezzo” che ha avuto molti commenti sul web, e mi pare
sostanzialmente positivi, ho toccato un punto forse ancor più nodale di quel che avevo pensato, la “negrizzazione” di
personaggi storici e mitici demandata alla grancassa mediatica hollywoodiana attraverso film e serial televisivi, l’affidare la
loro rappresentazione ad attori di colore, con il chiaro intento di creare l’illusione che le società multietniche siano qualcosa
di normale e sempre esistito.

Qui c’è un discorso che andrebbe fatto in premessa: il potere di suggestione del mezzo cinematografico e televisivo. A
livello inconscio quel che “si vede” “è vero” per definizione, anche se coscientemente sappiamo o dovremmo sapere che le
cose non stanno così, che ad esempio non sono mai esistiti un Annibale né un Lancillotto, né legionari romani e tanto meno
guerrieri vichinghi di colore, perché la consapevolezza razionale è fragile ed è facilmente scavalcata da ciò che viene
(fraudolentemente) fatto registrare a livello inconscio.

Una linea di pensiero che dai lettori di “Ereticamente” che hanno commentato l’articolo ho avuto incoraggiamenti ad
approfondire.

Riguardo all’Annibale nero, Bilancini ha commentato:

“Purtroppo non è un caso isolato. La serie televisiva Beowulf presenta la medesima situazione: un maniscalco forgiatore di
spade negro. Solo per aver fatto presente l’anacronismo del personaggio in una saga con ambientazione scandinavo-sassone
fui bannato. Siamo appena agli inizi”.

In democrazia, qualunque insulsaggine ha libero corso, ma dire la verità è proibito, e fare presente che in Scandinavia
nell’epoca vichinga non c’erano neri, non è altro che la pura e nuda verità dei fatti.

Charles Vinson ha osservato:

“Sei maschio, bianco, occidentale (meglio se europeo) e quindi hai sempre ed automaticamente torto.

Naturalmente, i mass media (film, TV, pubblicità) si adeguano a questo mainstream, – se non altro per meri motivi di
sopravvivenza commerciale – e quindi giù a cascata nella spirale viziosa. E’ un riscontro facile facile: sintonizzatevi su un
qualsiasi telefilm o sit com, specialmente se d’oltreoceano, e vedrete come il personaggio maschio, bianco e occidentale sia
necessariamente il più idiota o immorale o infantile del mazzo”.

Lo scoperto razzismo anti-bianco è una cosa grandemente diffusa nel sistema mediatico. Fra le altre cose, ricordiamo una
serie veramente infame da questo punto di vista, “Criminal minds” i cui protagonisti non hanno solo sviluppato l’arte del
profiling a livelli incredibili, così da poter dedurre dall’impronta di una scarpa che l’assassino è “maschio, di età fra i 25 e i
35 anni, bianco”, ma è sempre invariabilmente bianco, i neri sembra che siano degli angioletti e non commettano mai atti di
delinquenza, quando se andiamo a vedere le statistiche reali, scopriamo una propensione a delinquere cinque volte maggiore
rispetto ai bianchi o agli asiatici.

Ancora un altro commento postato da Primula Nera:

“Quella del politicamente corretto è la piaga dei nostri anni. Nel campo delle arti è il Cinema quello che ne subisce gli
effetti più nefasti. Alle vostre segnalazioni,aggiungo una serie TV come “Merlin, che presenta un giovane e biondissimo re
Artù innamorato perso di una serva di colore di nome Ginevra,il tutto in una Camelot più multiculturale di New York…; i
film sull’antica Roma poi, oltre a mettere in cattiva luce il suo impero (l’unica pellicola rispettosa della sua storia è “The
Eagle” da voi recensito in questo sito), presentano continuamente legionari neri (gli immancabili numidi…)…Ma questa
tendenza vi è un po’ ovunque, sono riusciti ad inserire persone di colore persino in un film che riguardava Cappuccetto
Rosso (“Cappuccetto Rosso sangue”).

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Qualche anno fa il produttore di una fortunata serie televisiva poliziesca inglese (“L’Ispettore Barnaby”) venne licenziato,
perché non dava abbastanza spazio a soggetti di origine straniera nei suoi telefilm…”.

Si tratta naturalmente di capirsi, per “soggetti di origine straniera”, non penso che il nostro amico intenda nativi dell’Unione
Europea, svizzeri, canadesi, russi o magari serbi; si intendono chiaramente extracomunitari, la cui presenza deve essere
imposta dai media in modo da fare il lavaggio del cervello alla gente, fino a indurla a percepirla come normale.

Vediamo qui in azione la terza grande arma della democrazia verso i dissidenti, che è, dopo la censura e la violenza, il
ricatto, sotto forma di ricatto economico (perdita del posto di lavoro).

Proprio in questi giorni, un mio contatto su facebook, la democraticissima creatura di Mark Zuckerberg (nome che è tutto
un programma) mi ha segnalato di aver subito un periodo di bannatura per aver scritto in un post la parola “negro” invece di
“nero”, “extracomunitario”, “subsahariano”, “diversamente caucasico” o qualcun altro dei soliti eufemismi (che poi di solito
gli eufemismi si usano per non essere troppo espliciti circa qualcosa di vergognoso, schifoso o osceno). “Negro”, per inciso,
non è altro che “nero” in lingua spagnola. È la lingua di Cervantes un linguaggio particolarmente ingiurioso od offensivo?

Bisogna dire “neri”, quella “g” bisogna assolutamente togliergliela. Vista la propensione che hanno costoro a compiere reati
sessuali, io non toglierei loro la “g” ma qualcos’altro.

Al di fuori dei commenti – sempre graditi – dei lettori di “Ereticamente”, di novità in questo periodo non ce ne sono molte.
Un amico, uno di quelli senza il cui contributo – diretto o indiretto – tenere questa rubrica risulterebbe impossibile, il nostro
Mamer, mi ha segnalato un articolo per la verità non recente, ma penso che tutti voi vi rendiate conto che il web è un mare
magnum dove è impossibile stare dietro a ogni cosa con la tempestività che sarebbe auspicabile. L’articolo s’intitola
L’Europa genetica, non è firmato ed è apparso sul sito “Hescaton” (www.hescaton.com) in data 26 gennaio 2013 (quattro
anni fa, un discreto lasso di tempo, ma bisogna fare i conti con la vastità del web). E’ da questo articolo che ho tratto la carta
genetica dell’Europa che correda il mio pezzo.

Esaminando la cartina, si riconoscono un’area germanica (in azzurro) che comprende la Germania settentrionale, la
Scandinavia, l’Islanda, parte dell’Inghilterra; un’area di transizione celto-germanica (in indaco) che comprende la Germania
occidentale e meridionale, l’Austria, la Svizzera, il Belgio, la parte più orientale della Francia, gran parte dell’Inghilterra;
un’area celtica che comprende Irlanda, Scozia, Galles, Cornovaglia e Bretagna; un’area slava (in arancione) che comprende
Russia, Bielorussia Polonia, Ucraina, Slovenia e Croazia; un’area baltica (slavo-finnica) (in ocra) che interessa Russia
settentrionale, repubbliche baltiche e Finlandia; un’area di transizione slavo-germanica (Repubblica Ceca, Slovacchia e
Ungheria), un’area greco-slava (Bosnia, Serbia, Macedonia, Bulgaria, Romania, Moldavia); un’area greco-anatolica che
comprende Turchia, Grecia, Albania, meridione italiano; infine, un’area incongruamente denominata celtico-mediorientale
(in color bordeaux) che, con l’eccezione del meridione italiano dove prevale l’impronta genetica greca, coinciderebbe
abbastanza bene con l’area di diffusione in Europa delle lingue neolatine.

Ora, il dato più interessante che emerge, è precisamente la coincidenza piuttosto buona fra queste suddivisioni dell’Europa
determinate su di una base esclusivamente genetica con le aree linguistiche, storiche e culturali del nostro continente.

Come si spiega questo fatto? Io credo che sia il caso di ribadire un concetto che vi ho già espresso più volte: all’errore e alla
menzogna altrui, non è giusto né conveniente alla lunga rispondere con un errore simmetrico ma con l’obiettività, con la
verità nella misura in cui le nostre conoscenze e le nostre forze ci permettono di raggiungerla. Nello specifico, al tentativo di
sinistri e democratici di destituire l’eredità genetica di una qualsiasi importanza, non dobbiamo rispondere sostenendo
l’onnipotenza della genetica (magari intesa nel senso in cui l’applicheremmo ad animali da allevamento), ma cercando di
capire il rapporto fra fattori genetici e storico-culturali.

In poche parole, non possiamo ipotizzare un’influenza diretta della genetica sulla lingua e gli aspetti esteriori di una cultura,
è più verosimile un’influenza dell’elemento culturale sulla genetica. Nelle comunità umane, è il parlare la stessa lingua o il
parlare due lingue diverse che nel corso del tempo ha perlopiù favorito od ostacolato il riconoscersi come membri di una
stessa comunità e fatto sì che le differenze linguistiche e genetiche tendessero a coincidere, poiché la tendenza naturale è
quella ad accoppiarsi piuttosto con un connazionale che non con uno straniero, ed è per questo motivo che la lingua è un
buon indicatore della nazionalità (“buono”, s’intende, non significa “perfetto”; ad esempio, l’inglese è una lingua di ceppo
germanico, ma penso che tutti noi abbiamo un’ovvia riluttanza a considerare un afroamericano “un germanico” per quanto
anglofono possa essere).

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La genetica è la base da cui non si può prescindere, ma la cultura costruisce su questa base: un uomo e tanto più una
comunità umana non sono un mero accidente biologico, ma una sintesi di sangue, suolo e spirito.

Un arrivo di fine dicembre 2016 è un articoletto di Gianfredo Ruggiero presidente del Circolo Culturale Excalibur, Le
migrazioni della preistoria sono veramente avvenute?, che è un estratto del suo libro Ecologia sociale di prossima
pubblicazione.

L’impressione che ho avuto leggendo questo testo, è che egli sostenga un’esigenza molto giusta e condivisibile con
argomenti che forse non sono i migliori. L’esigenza è quella di mettere un freno al moderno “migrantismo”, chiamiamolo
così, ossia la tendenza a persuaderci che fenomeni migratori come quelli cui assistiamo oggi siano sempre avvenuti nella
storia umana, e che pertanto noi dovremmo accettare le migrazioni in quanto fenomeno “storicamente fisiologico”, e questa
è un’enorme falsità che Ruggiero fa benissimo a rifiutare, tuttavia gli argomenti che egli adduce mi pare pecchino di
ingenuità; ad esempio, non dobbiamo pensare alle migrazioni preistoriche come a fenomeni organizzati ma unicamente
come l’effetto del vagabondare di gruppi umani demograficamente eccedenti che si spostavano da un’area all’altra in modo
affatto casuale e anche su tempi estremamente lunghi alla ricerca di nuove risorse (la penetrazione dell’uomo di Cro
Magnon in Europa, ad esempio, avrebbe richiesto qualcosa come 20.000 anni, vale a dire quattro volte la lunghezza di tutta
la storia documentata), e certamente essa non è avvenuta nell’età glaciale quando non avrebbe avuto alcun senso spostarsi
verso regioni più fredde, ma con il declinare dell’età glaciale stessa, quando l’avvento di condizioni più favorevoli gli
avrebbe permesso di trovarsi avvantaggiato rispetto all’uomo di neanderthal, che invece al freddo era particolarmente
adattato (si veda a questo riguardo C. S. Coon).

Tuttavia, ammettendo le migrazioni come fenomeno storico (e preistorico), e questo è il punto assolutamente fondamentale,
la morale che se ne può trarre è esattamente l’opposto di quella che vorrebbero instillarci le sinistre, le Chiese, i
professionisti del pietismo verso i cosiddetti migranti (o rifugiati che scappano da guerre inesistenti), perché questi
movimenti di popolazioni del passato, o sono andati a colonizzare aree spopolate che oggi in Europa non esistono, o là dove
c’era una popolazione nativa preesistente, l’hanno travolta e portata all’estinzione. Questo è quello che è sempre successo:
dai Cro Magnon che hanno provocato l’estinzione dei neanderthal, ai coloni yankee che hanno provocato quella degli
americani nativi (i cosiddetti pellirosse), e sarà certamente questo anche il destino che toccherà a noi se non ributteremo a
mare gli invasori.

Pare una cosa alquanto singolare, ma sembra che negli ultimi tempi sul web si parli molto della lontana preistoria e delle
tematiche delle origini. Io non vorrei essere così immodesto da pensare che questo possa essere dovuto a un’influenza dei
miei articoli fuori dai nostri ambienti (anche perché sappiamo bene di confrontarci con un potere accademico e mediatico
schiacciante nel decidere “cosa è scienza” e “cosa non lo è”), ma mi pare che i miei scritti, assieme all’ottimo lavoro che sta
conducendo il gruppo facebook MANvantara del nostro Michele Ruzzai, abbiano avuto e stiano avendo un certo potere di
stimolare da parte dei “nostri” una ricerca su queste tematiche nel mare magnum delle cose che circolano sul web.
Da tutto questo emerge un quadro sorprendente: l’idea che fin qui abbiamo avuto delle nostre origini deve essere
radicalmente mutata. In particolare “la teoria” dell’Out of Africa, dell’origine africana della nostra specie è giunta al
capolinea, non è più sostenibile, deve essere abbandonata, o almeno dovrebbe esserlo se la ricerca fosse condotta con un

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minimo di obiettività invece di essere distorta per finalità ideologiche intese a imporre sull’argomento IL DOGMA
democratico.
Sarà bene ricordare in premessa che questa “teoria” sulle nostre origini non è nata da dati scientifici, ma sulla base di
esigenze ideologiche, di propaganda “antirazzista”, e che a proposito di essa lo storico australiano Greg Jefferys ha scritto:
“Tutto il mito ‘dell’Out of Africa’ ha le sue radici nella campagna accademica ufficiale negli anni 90 [per] rimuovere il
concetto della razza. Quando mi sono laureato tutti loro passavano un sacco di tempo sui fatti ‘dell’Out of Africa’ ma sono
stati totalmente smentiti dalla genetica. (Le pubblicazioni) a larga diffusione la mantengono ancora.”
Questa citazione, lo ricorderete, si trova in un articolo da me più volte citato, pubblicato sulla rivista “Atlantean Garden”,
dove affianca la confutazione dell’Out of Africa sulla base di un’analisi genetica sviluppata dai ricercatori russi Anatole A.
Klyosov e Igor L. Rozhanski.
In pratica, questa “teoria” costruita non sulla base di dati scientifici ma unicamente di un’esigenza ideologica, ci vorrebbe
persuadere dell’inesistenza delle razze umane: gli antenati di tutti noi sarebbero venuti dall’Africa qualche decina di
migliaia di anni fa, noi caucasici non saremmo che dei “neri sbiancati” dal cambiamento climatico, così come i mongolici
sarebbero dei “neri ingialliti”, e nonostante l’ampia confutazione che la genetica offre di questo vaneggiamento, i media e le
istituzioni accademiche e scolastiche, cioè L’ORTODOSSIA DI REGIME, continuano a ripeterlo come una verità ovvia e
scontata.
Io vi invito a tenere presente quello che ho scritto in un articolo recentemente pubblicato da “Ereticamente”, Scienza e
democrazia. Sarebbe bello se nella ricerca scientifica si facessero semplicemente parlare i fatti,
se le teorie nascessero da essi, e non fossero invece i fatti accertati a dover essere ingabbiati per
forza nelle maglie di teorie precostituite. Sotto l’influsso del dogmatismo democratico, i
ricercatori sono costretti a una singolare schizofrenia: da un lato devono proclamare le teorie
ortodosse, conformi al dogma democratico, dall’altro sono costretti a prendere atto dei risultati
delle loro ricerche che le smentiscono continuamente.
I risultati di ciò sono alquanto grotteschi, e se ricordate, ve ne avevo dato un esempio molto
chiaro nella trentaduesima parte della nostra rubrica. In questo caso non si trattava dell’Out of
Africa, ma di un’altra di quelle “teorie” (perché esse costituiscono un fascio più o meno
collegato) tendenti a sminuire la visione che l’uomo europeo ha di se stesso, quella che sostiene
l’origine mediorientale della civiltà. In Medio Oriente sarebbe avvenuta la rivoluzione agricola,
e a partire da essa tutto il resto. L’articolo che citavo, apparso su “Ethnopedia” riportava la
solita tesi dell’agricoltura e dell’allevamento di animali, che si suppone strettamente abbinato a
essa, comparsi per la prima volta nella Mezzaluna Fertile mediorientale, ma la cartina che
illustrava il pezzo riportava le percentuali di tolleranza al lattosio nelle diverse aree del pianeta (la tolleranza al lattosio è
una conseguenza diretta del consumo di latte vaccino in età adulta, una risorsa alimentare cui si è avuto accesso a partire
dall’allevamento, ed è presumibile che sia tanto maggiore quanto più è antica questa risorsa alimentare), e faceva vedere che
essa è massima nell’Europa centro-settentrionale, minore in quella mediterranea, a livelli ancora inferiori in Medio Oriente,
minima nell’Africa sub-sahariana e in Estremo Oriente, cioè smentiva il contenuto dell’articolo stesso, mostrando l’Europa
tra la Scandinavia e l’arco alpino come area di origine dell’allevamento vaccino e presumibilmente dell’agricoltura.
Ora, è chiaro che quando andiamo a esaminare la questione delle origini della nostra specie, ci imbattiamo di continuo in
situazioni dello stesso genere, cioè ammissioni a mezza bocca, elementi che non si riesce a far rientrare nel quadro
precostituito, tasselli di un puzzle che occorre mettere assieme, che però una volta riuniti ci danno un quadro molto diverso
da quello che ci saremmo aspettato, e che smentiscono in maniera bruciante e senza appello I DOGMI dell’ideologia
democratica e antirazzista.
Prima di entrare nel vivo della nostra trattazione, vorrei rispondere a una questione sollevata da un lettore che ha
commentato la trentanovesima parte di questa rubrica. In essa, parlavo della struttura architettonica formata da un doppio
cerchio di stalagmiti recentemente ritrovata in Francia nella grotta di Bruniquel. Questa struttura risalente a quasi
duecentomila anni fa, è attribuibile all’uomo di neanderthal. Io mi ponevo il quesito se questa precoce creatività non sia da
mettere in relazione con la percentuale di geni neanderthaliani
posseduta dagli uomini caucasici (e in misura minore dagli
asiatici), e che è invece del tutto assente nei neri sub-sahariani.
Io avevo indicato una percentuale dell’1-2%, e il lettore mi
faceva notare che secondo altre stime essa è più alta (fino al
3%). Bene, io mi sono attenuto alla valutazione più prudenziale,
ma in ogni caso il discorso non cambia.
Cominciamo dunque a vedere gli elementi che ci permettono di
costruire il nostro puzzle e demolire l’Out of Africa
consegnandolo definitivamente al limbo delle sciocchezze
pseudoscientifiche.
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Cominciamo con un articolo che il nostro Michele Ruzzai ha di recente, in data 11 gennaio, postato su MANvantara, si
tratta della recensione del libro Neandertal , le origini dell’umanità (senza la “h” nel titolo dell’edizione italiana, “h” che
però è invece presente nell’originale in lingua inglese) di Paul Jordan, pubblicato da Newton Compton nel 2001. Ebbene, il
nostro amico ha “beccato” qualcosa di molto importante passato inosservato in questo testo ormai edito da sedici anni:
“Pag. 208: Sembra inoltre che vi siano altri possibili alberi filogenetici basati sulle variazioni del DNA mitocondriale e
coerenti con i dati accolti, che non necessariamente collocano in Africa il più remoto punto di origine di tutte le
popolazioni mondiali.
Pag. 231: Nel quadro attuale non si può dire che esistano prove veramente decisive, di tipo genetico, fossile o archeologico
che dimostrino con certezza l’origine africana di Homo Sapiens”.
In poche parole, l’origine africana di homo sapiens non è per nulla provata. Nell’oppressivo regime democratico nel quale
viviamo, si è costretti a bisbigliare quel che invece andrebbe urlato.
Giusto il giorno prima, il 10 gennaio, un altro nostro amico che ormai si è guadagnato il titolo di “collaboratore indiretto” di
“Ereticamente”, il nostro Mamer, aveva postato un articolo, riprendendolo dal sito ecologista “Greenreport”
(www.greenreport.it) un articolo che riporta una notizia di cui vi ho già parlato in precedenza, tratta da “Science” del
gennaio 2016: un team di ricercatori russi guidato da Vladimir Pitulko ha ritrovato nella Siberia artica a 72 gradi nord i resti
di un mammut e di un lupo risalenti a 45.000 anni fa che presentano i segni inequivocabili di lesioni provocate da lance e
armi umane.
Io vi avevo già fatto notare a suo tempo che questa scoperta indebolisce grandemente la “teoria” dell’Out of Africa a causa
della sua antichità, perché a questi uomini di presunta origine africana sarebbe mancato il tempo per spingersi così a
settentrione, ma ora il nostro amico Mamer nel suo commento aggiunge qualcosa di più.
“Gli uomini potevano sopravvivere cacciando il mammut”, osserva, “Ma il mammut l’erba dove (…) la trovava se era tutto
ghiaccio e neve?”
Mamer non è, per quel che io sappia, un uomo di scienza, ma qui fa un’osservazione basilare che pure sembra stranamente
sfuggire a molti cosiddetti scienziati (cecità voluta per non urtare il dogmatismo sulle nostre origini?).
In altre parole, i mammut, come dimostra il vello lanoso di cui erano ricoperti, erano certamente adattati a un clima meno
caldo di quello in cui vivono gli attuali elefanti africani e indiani, ma si trattava in ogni caso di pachidermi di grossa mole
che dovevano necessitare di grandi quantità di vegetali per il loro sostentamento, e i radi licheni che si trovano oggi nella
tundra artica sarebbero stati del tutto insufficienti; la loro presenza è la prova inoppugnabile che decine di migliaia di anni fa
le regioni artiche dovevano godere di un clima molto più mite di quello attuale. Guarda caso, proprio quel che sostengono
essere avvenuto nel nostro passato le dottrine tradizionali richiamate da Tilak sulla scorta dei Veda e da Iulius Evola.
Non ci fermiamo qui. “Greenreport” ci dà altre importanti notizie sulle ultime novità emerse dallo studio della nostra eredità
ancestrale, e il fatto che si tratti di un sito ecologista e non “di Area” non toglie minimamente valore alla cosa, anzi,
allontana il sospetto che le cose che emergono possano essere in qualche modo il frutto di un’ottica “prevenuta”.
Un altro articolo ci parla di una ricerca genetica condotta da un team del Max Planck Institute guidato da Martin Kuhlwim,
anch’essa ripresa da “Nature”, condotta sui resti di neanderthaliani dell’Altai risalenti a oltre 100.000 anni fa, che ha dato
risultati, che definire sorprendenti è davvero il minimo che si possa dire: essa ha evidenziato un flusso di geni sapiens in
questa antica popolazione. Per capirci, laddove noi presentiamo nei nostri geni tracce di un incrocio dei nostri
antenati sapiens con l’uomo di neanderthal, in questo caso è avvenuto l’inverso, ed erano questi neanderthaliani a presentare
tracce dell’incrocio con sapiens.
Vi è chiara la portata di tutto ciò? Per prima cosa, deve essere ormai chiaro che homo sapiens e
uomo di neanderthal non possono essere considerati specie umane diverse, ma semmai razze
differenti di una medesima specie. L’appartenenza a una stessa specie è definita dalla possibilità
di accoppiarsi dando luogo a una discendenza feconda, e questo è precisamente quel che è
avvenuto tra sapiens e neanderthal non una ma più volte; noi stessi siamo un remoto frutto di
queste ibridazioni.
Il secondo punto è che questa scoperta scardina completamente “la teoria” (la favola) dell’Out
of Africa. Essa infatti ci testimonia la presenza di una popolazione sapiens nell’Eurasia di oltre
100.000 anni fa, laddove secondo l’OOA, essi non avrebbero lasciato il continente africano
prima di 65.000 anni or sono.
Ora, occorre sottolineare il fatto che per salvare l’Out of Africa rendendola compatibile con
questi nuovi dati, non basta retrodatare la supposta migrazione dall’Africa (di oltre 40.000 anni,
il che non è poco), infatti, secondo quest’ultima la presunta migrazione dall’Africa si sarebbe verificata dopo la supposta
catastrofe planetaria determinata dall’esplosione del vulcano indonesiano Toba avvenuta tra 50.000 e 70.000 anni fa, quindi
se i due eventi vanno separati (e con uno iato di quattrocento secoli, che non è una cosa da poco) bisogna considerare il
ruolo che possono aver avuto nell’origine dell’umanità attuale le popolazioni pre-sapiens o sapiens arcaiche esistenti
nell’area eurasiatica 100.000 anni fa, proprio ciò che l’Out Of Africa vorrebbe escludere per esaltare la “pura” linea
africana. Se l’Out Of Africa fosse una teoria basata sui fatti anziché sull’esigenza ideologica di imporre a tutti i costi il
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dogma antirazzista (e ricordiamo sempre che nell’orwelliano linguaggio contemporaneo “razzismo” non significa più
proclamare la superiorità di una razza sulle altre, ma la semplice constatazione che le razze umane esistono), essa dovrebbe
essere formalmente abbandonata.
Non ci fermiamo qui, perché le sorprese non sono finite. Noi abbiamo già visto che gli esseri umani moderni sono una
specie politipica, al cui patrimonio genetico hanno concorso oltre ai sapiens di supposta origine africana (ma che oggi
sappiamo essere stati presenti in Eurasia molto prima di quel che si pensasse), gli uomini di neanderthal e un altro gruppo
umano, i cosiddetti denisoviani i cui resti sono stati individuati nella grotta di Denisova nella regione dell’Altai. Bene, pare
che non ci si debba fermare qui. Possiamo per prima cosa menzionare il ritrovamento di un cranio umano dalle
caratteristiche sorprendentemente moderne e risalente a 250.000 anni fa avvenuto in Cina a Dali, ne ha parlato “Le scienze”
in un articolo pubblicato nel luglio 2016, ma questo non è tutto. Sempre “Greenreport” ci parla di uno studio compiuto da
un team di ricercatori catalani dell’Istituto di Biologia Evolutiva (IBE) di Barcellona sul genoma degli indigeni delle isole
Andamane e di altre popolazioni asiatiche, che ha evidenziato la presenza di geni che non risalirebbero né al sapiens di
presunta origine africana, né all’uomo di neanderthal, né a quello di Denisova, ma richiedono di ipotizzare un quarto e per
ora sconosciuto antenato dell’umanità attuale.
Gli astronomi del cinque-seicento sapevano di lavorare sotto il tallone di un’autorità tirannica per cui il geocentrismo
tolemaico era la verità indiscutibile, e accampavano una serie di scuse, spacciando l’eliocentrismo copernicano come un
semplice espediente per semplificare i calcoli. Oggi i paleoantropologi, consapevoli del pari di lavorare sotto il tallone di
un’autorità tirannica che si chiama democrazia, operano nello stesso modo, evitando di correlare i dati emersi dalle diverse
ricerche e affermando a ogni piè sospinto che essi non contraddicono l’Out of Africa quando a chi consideri le cose con
obiettività, è chiaramente evidente il contrario. Noi però possiamo ora vedere di ricostruire adeguatamente il puzzle delle
nostre origini, anche se è tutt’altro che escluso che nuovi tasselli saltino fuori in futuro.
Per prima cosa, abbiamo visto che decine o centinaia di migliaia di anni fa il clima delle regioni artiche doveva essere molto
diverso da quello attuale, doveva disporre di una vegetazione lussureggiante, tale da consentire la sopravvivenza di erbivori
di grossa taglia come i mammut, poi abbiamo visto che fuori di ogni dubbio l’Out of Africa è una “teoria” smentita dai fatti,
è incompatibile con la presenza in Eurasia di uomini sapiens moderni già più di 100.000 anni fa. Terzo punto, altrettanto
fondamentale: se vale il principio ecologico-genetico per il quale man mano che gruppi di popolazioni si separano dal
nucleo ancestrale avviene il fenomeno della deriva genetica, cioè della perdita di varietà a livello ereditario, allora il luogo
della maggiore varietà genetica è quello che ha le maggiori probabilità di essere il luogo delle origini. Bene, teniamo
presente questo concetto: in Eurasia troviamo l’homo sapiens “moderno” molto prima di quanto avremmo potuto ipotizzare
in base alla sua presunta origine africana, l’uomo di neanderthal, l’uomo di Denisova, il misterioso “quarto antenato” (forse
l’uomo di Dali). Ve n’è più che abbastanza per ipotizzare che, ammesso che vi sia un luogo da considerare la culla
ancestrale dell’umanità, esso non è l’Africa ma l’Eurasia.
Una breve nota riguardante le illustrazioni che corredano questo articolo. La scena di caccia ai mammut è tratta da
“Greenreport”, e gli autori dell’illustrazione e gli estensori dell’articolo, come del resto molti altri, non devono essersi resi
conto di quanto sia assurdo supporre che branchi di pachidermi di grandi dimensioni abbiano potuto sopravvivere in un
ambiente simile all’artico attuale che, oltre al freddo, presenta una disponibilità molto ridotta di vegetazione. Abbiamo poi
la copertina del libro di Paul Jordan recensito da Michele Ruzzai su MANvantara, e, sempre tratta da “Greenreport”, la
ricostruzione di un bambino ibrido neanderthal-sapiens che sarebbe vissuto nell’Altai 100.000 anni fa. Un’immagine che
ancor più di quella presente nella trentanovesima parte della nostra rubrica, fa giustizia delle presunte caratteristiche
scimmiesche così spesso attribuite a questi nostri antenati.

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Sembra un destino inevitabile, quello delle utopie di capovolgersi nell’esatto contrario degli obiettivi che i loro
propugnatori, ingenui o in mala fede, si erano proposti o avevano dichiarato di volersi proporre. La rivoluzione francese del
1789 iniziata sotto le insegne di “libertà, uguaglianza, fraternità” si è tradotta nel terrore giacobino e l’uso della ghigliottina
su scala industriale. La rivoluzione comunista preconizzata da Marx e attuata da Lenin e Stalin in Russia, non ha prodotto
certo la giustizia sociale, ma si è trasformata nel più mostruoso regime autocratico che la storia umana abbia mai
conosciuto. La democrazia “occidentale”, beh, provatevi a difendere le ragioni degli sconfitti nella seconda guerra
mondiale, a mettere in dubbio l’esistenza e l’entità del presunto olocausto, e scoprirete presto a vostre spese quale valore
reale abbiano tutte le solenni dichiarazioni sulla libertà di pensiero che trovate sparse nelle varie carte costituzionali a
cominciare dalla “nostra”.
Ora, a quanto pare, per l’utopia “antirazzista” e per la creatura che essa ha partorito in termini di interpretazione del divenire
umano, cioè la sedicente teoria (che in realtà non è affatto tale) dell’Out of Africa, vale esattamente la stessa cosa. Nato
negli anni ’70 tale lambiccamento ideologico travestito da teoria scientifica allo scopo di contrastare “il razzismo” (che poi
nel distorto linguaggio orwelliano della democrazia “razzismo” non significhi più l’affermazione della superiorità di una
razza sulle altre, ma la semplice constatazione che le razze umane esistono, questo è un altro discorso), si traduce in un
razzismo paradossale, nell’esaltazione della pura linea di ascendenza africana nei confronti di noi europei e asiatici, ibridi di
neanderthal e di Denisova, (per nulla dire dell’ancora misterioso “quarto antenato” di cui i ricercatori catalani dell’IBE di
Barcellona avrebbero individuato le tracce genetiche nel DNA dei nativi delle isole Andamane e in quello di altre
popolazioni asiatiche).
Gli antirazzisti che hanno sempre sostenuto la bontà del meticciato, dovrebbero ora, per coerenza, riconoscere – non
vogliamo dire l’inferiorità, vogliamo dire lo svantaggio, tanto la sostanza non cambia – dei neri africani che non hanno
potuto beneficiare di tali ibridazioni, la zappa che si sono tirata sui piedi è davvero grossa e pesante.
Nell’articolo precedente abbiamo visto una serie di articoli tratti dal sito ecologista “Greenreport” che a sua volta li ha
ripresi da pubblicazioni scientifiche americane, che nel loro insieme ci permettono di tracciare un quadro della nostra storia
biologica nel quale la “teoria” dell’Out of Africa è sostanzialmente sconfessata. Un articolo che non ho citato la volta
scorsa, ci parla del fatto che I geni dei Neanderthal e dei Denisoviani hanno potenziato il nostro sistema immunitario,
dandoci una maggior resistenza alle malattie, ma essendo forse all’origine anche di alcune allergie di cui soffriamo.
Secondo un articolo pubblicato su “The American Journal of human Genetics”, è quanto emerge da due ricerche condotte
indipendentemente, una da un team dell’Istituto Pasteur di Parigi in collaborazione con la Rockerfeller University di New
York, l’altra dal Max Planck Institut di Lipsia. L’Out of Africa diventa sempre più difficile da sostenere, o perlomeno lo
diventerebbe se nonostante le sue evidenti contraddizioni non fosse un DOGMA che fa comodo al potere e non fosse
continuamente supportato e diffuso dal sistema mediatico, ma noi sappiamo esattamente come calcolarlo: una menzogna
propagandistica.
Il razzismo filo-africano, non so come altro definirlo, sottinteso alla “teoria” dell’Out of Africa, praticato da “antirazzisti”,
sinistrorsi, “democratici” assortiti nonché inevitabilmente da quella che da due millenni in qua è la promotrice di tutte le
storture e tutte le sozzure, la Chiesa cattolica, è un razzismo doppiamente infame, prima di tutto perché va a colpire i propri
connazionali, e poi perché – obiettivamente – va a favorire quelli che non sono “risorse”, ma pesi morti e parassiti.
Ultimamente, “Il primato nazionale” ha ripubblicato on line uno stralcio dell’ultima intervista concessa dalla scomparsa
antropologa Ida Magli a Francesco Borgonovo di “Libero”. La Magli era certamente una ricercatrice con una conoscenza

122
della realtà di queste popolazioni che i buonisti catto-sinistri che stanno irresponsabilmente decidendo il nostro destino, si
possono soltanto sognare.
Ecco dunque le parole che possiamo considerare una sorta di testamento spirituale di una delle migliori intelligenze italiane
nel campo degli studi antropologici:
“Gli Africani non hanno saputo fare nulla a casa loro e non faranno nulla pure qui. Hanno un territorio sconfinato, foreste,
fiumi, metalli preziosi, e non ne hanno fatto nulla. Una volta uccisi gli Europei non ci sarà più niente, questo è certo (…).
[I mussulmani in passato hanno dato luogo a un’importante civiltà, ma oggi…] Un tempo c’erano mussulmani che
producevano e pensavano, venivano perlopiù dall’Egitto. Ma le civiltà muoiono. Quello che sapevano fare allora, non lo
sanno più fare. I mussulmani che vengono qui sono prima di tutto incapaci di pensare. L’islamismo organizza tutta la loro
vita e dunque anche la loro struttura psicologica”.
Questo è un punto su cui vale la pena di soffermarsi. Credo di avervi già riportato un’osservazione fatta da qualcuno a
proposito della teoria di Spengler, secondo cui mentre un tempo esistevano civiltà in decadenza e civiltà in ascesa, oggi al di
fuori della decadenza dell’ “occidente” non esiste più nulla, solo una sterminata massa di popoli fellah. Il presunto nuovo
ordine mondiale equivale in sostanza al tentativo di un cancro o di un parassita di sopravvivere all’organismo che lo ospita.
Privata l’umanità della sua parte più creatrice, quello che rimane è il puro nulla, è un’illusione pensare che l’involuzione
biologica non sarà accompagnata puntualmente anche da quella culturale. Noi potremmo anche fallire nel tentativo di
risvegliare la resistenza dei popoli europei, ma in ogni caso “loro”, i buonisti-
antirazzisti-democratici, non vinceranno mai, possono solo distruggere.
Proprio qui a Trieste, occorre segnalarlo, venerdì 27 gennaio il nostro Michele
Ruzzai ha tenuto presso il Circolo Identità e Tradizione una conferenza che ha
avuto per oggetto Le radici antiche degli Indoeuropei. Bellissima – tra l’altro – la
circostanza che per questa conferenza si sia scelta proprio la data del 27 gennaio:
ripensare alle nostre radici indoeuropee invece di darsi al piagnisteo olocaustico.
Riguardo ai contenuti di questa conferenza, veramente ricca di dati, di spunti e di
conoscenze su di un terreno dove il nostro Michele ha dimostrato di muoversi con
grande competenza, è estremamente difficile fare una sintesi. Diciamo che il nostro
amico si muove sostanzialmente nell’ambito della concezione tradizionale delle
origini indoeuropee, che, appoggiandosi alle ricerche dello studioso indiano Tilak
che ha individuato nei Veda, i testi sacri dell’induismo, la descrizione di fenomeni
astronomici che posso essere osservati solo alle latitudini polari, ha visto nelle terre
artiche il luogo d’origine degli Indoeuropei, basandosi anche su numerose
tradizioni di svariati popoli, come sono state esaminate e raccontate da René
Guenon e Iulius Evola, e in totale contrasto con la teoria “ufficiale”oggi prevalente
che ci considera discendenti da agricoltori mediorientali, e anche, sebbene la scala
dei tempi sia differente, con l’Out of Africa, poiché entrambe si possono considerare parte del medesimo tentativo di
spostare il polo delle nostre origini dal nord al sud.
Le origini degli Indoeuropei, a differenza di quanto sostenuto ad esempio da Colin Renfrew, non vanno ricondotte alla
rivoluzione agricola del neolitico, ma risalgono al paleolitico superiore. Tra la collocazione originaria nella sede artica e la
posizione attuale dei popoli indoeuropei, vi sarebbe stata poi una collocazione in aree oggi sommerse (Nel corso della
deglaciazione, negli ultimi 20.000 anni il livello dei mari si sarebbe alzato di 100-120 metri), una, il Doggerland posta tra
l’Inghilterra e la Danimarca, l’altra, tra le Isole Britanniche e l’Islanda, sarebbe stata l’Atlantide platonica e l’Avalon
ricordata nelle leggende celtiche.
Noi abbiamo visto più volte che la questione delle origini si situa a una molteplicità di livelli, ed è chiaro che la questione
delle origini degli Indoeuropei si trova a un livello diverso e a tempi molto più recenti dell’origine della specie umana.
Al riguardo, indipendentemente dall’oggetto della conferenza, tra me e l’amico Michele mi pare non ci sia un’identità di
posizioni. Io avevo collocato a gennaio sul suo gruppo facebook MANvantara i tre articoli tratti da “Greenreport” che ho
citato nella quarantunesima parte (Non il mio pezzo, gli amici di “Ereticamente” ci tengono al fatto che tutti gli articoli che
compaiono sul sito siano inediti, e questa è una consegna che ho sempre rispettato), e Michele vi ha apposto il seguente
commento:
“Io non sono un tifoso particolarmente sfegatato dell’ipotesi multiregionale (Thorne/Wolpoff) in quanto questa presuppone
comunque un andamento umano evolutivo-ascendente e rende semplicemente policentrica l’origine Sapiens, ma comunque
tutto ciò che contrasta l’ “Out of Africa” che a mio avviso è ora “il nemico principale”, anche per tutta una serie di
implicazioni a caduta che con la paleoantropologia hanno poco a che fare, è sicuramente ben accetto”.
La differenza fra le nostre rispettive posizioni, lo si capisce bene, è legata alla tematica evoluzionista. Michele è più
prudente di me riguardo all’ipotesi multiregionale proprio per il fatto che essa rientra nel campo evoluzionistico. Io vi ho
spiegato più volte che a mio avviso il grande naturalista inglese Charles Darwin è stato mal interpretato dai suoi discepoli
più o meno zelanti, che la sua teoria fu subito vista come “di sinistra” e sovversiva (a cominciare dallo stesso Marx che di
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scienza non capiva nulla) perché contrasta con il creazionismo biblico (ma è tutto da vedere se il cristianesimo sia
tradizione, soprattutto “la nostra” tradizione), che l’idea di uno sviluppo ascendente delle forme viventi verso
l’autocoscienza si trova assai poco o niente in Darwin, e deriva piuttosto dalla sovrapposizione alla teoria evoluzionista del
concetto di progresso mutuato da tutt’altri ambiti (proprio per quest’equivoco di fondo, Darwin non amava la parola
“evoluzione” e ne L’origine delle specie l’ha usata una sola volta).
Questa concezione “evoluzionista-progressista” ignora invece i concetti di lotta per l’esistenza e di selezione naturale, il
quadro dipintoci da L’origine delle specie di una natura cruenta e competitiva, di sopravvivenza del più adatto e via
dicendo, concetti che nel loro insieme nella realtà dei fatti sono una sconfessione della democrazia (e del cristianesimo con
la sua predilezione per i miti, i malriusciti e i deboli, come aveva ben visto Nietzsche), a favore di una visione aristocratica,
e la tendenza insita negli esseri viventi a tramandare nelle generazioni future il proprio genoma e non quello di chicchessia,
che va ad avallare quelle “brutte cose” (per la democrazia) che si chiamano nazionalismo e razzismo, mostrandoci
l’assurdità e il masochismo etnico insiti nelle tendenze cosmopolite cristiane-illuministe-marxiste.
Ora però a questo riguardo io devo fare uno sforzo di onestà e di umiltà. Tempo addietro mi ero trovato a discutere di queste
questioni con un conoscente studioso di dottrine tradizionali che non gradisce di essere menzionato pubblicamente. Questa
persona mi fece notare che pur ritenendo validissima lapars destruens del mio discorso, cioè il rilevamento delle
contraddizioni insite nella visione cristiana-democratica-progressista, avanzava serie perplessità riguardo alla pars
construens; infatti secondo le dottrine tradizionali l’uomo (come del resto gli altri viventi) è un archetipo, un’idea nel senso
di Platone, incarnato nel divenire del mondo (e l’uomo caucasico-indoeuropeo più di tutti, essendo il più vicino
all’Urmensch primordiale, laddove altre popolazioni si sarebbero differenziate maggiormente in relazione a diverse
situazioni ambientali), e riducendolo a mero accidente del divenire biologico comparso in ultima analisi in maniera casuale,
lo si sminuirebbe considerevolmente.
E allora? Io non pretendo di avere in mano tutte le risposte, le risposte definitive ammesso che esistano, ma certamente
qualcosa si può dire, cominciando con il notare che ciò che solitamente ci siamo abituati a chiamare “scienza” è perlopiù
un’interpretazione precostituita sovrapposta al reale che la ricerca ha il solo scopo di confermare (si veda il mio
scritto Scienza e democrazia, sempre su “Ereticamente”), un’interpretazione che ha fra le altre cose lo scopo di negare
qualsiasi valenza metafisica, e lo scopo della scienza non dovrebbe essere questo, non dovrebbe addentrarsi nel campo della
metafisica neppure per negarla imponendo un’ottica materialista.
La visione evoluzionista-progressista e il creazionismo biblico non occupano tutto lo scenario delle interpretazioni possibili
(anzi, si potrebbe persino avanzare l’ipotesi che il progressismo-evoluzionismo ascendente che, lo ripeto,non era la
concezione di Darwin, sia in ultima analisi una filiazione del creazionismo, una sorta di creazionismo continuo immanente
alla storia, e che percepire le cose in termini di un rigido aut-aut fra l’uno e l’altro sia in definitiva il segno di una mentalità
abramitica).
Julius Evola, ad esempio spiegava che la comparsa nella documentazione fossile della storia della vita di tipi man mano più
complessi e “superiori” può essere letta come la caduta nel piano materiale di entità man mano superiori e quindi essere il
segno non di uno sviluppo ascendente, ma di una fase di decadenza del ciclo cosmico. Un’idea forse troppo complessa per
molti suoi presunti discepoli a cui non è rimasta alternativa oltre a quella di ricadere nel creazionismo, e questo potrebbe
essere uno dei motivi che spiegano il passaggio di molti “tradizionalisti” da evoliano a cattolico, vissuto magari come un
approfondimento del proprio punto di vista originale, mentre in realtà ne è semplicemente un tradimento.
Se noi invece siamo capaci di coniugare la concezione evoliana genuina con la visione “non-buonista” del darwinismo (che
in campo filosofico è rappresentata a mio parere soprattutto da Nietzsche), disporremo di un’arma formidabile capace di
spazzare via tutte le chimere cristiane-democratiche-marxiste-progressiste.
Al di là di una soluzione sul piano intellettuale, occorre ricordare che conoscere è importante, ma sopravvivere viene prima,
e, indipendentemente da una risposta soddisfacente sul piano teorico, il nostro compito principale è quello di lottare per la
sopravvivenza dell’etnia italiana e delle etnie europee e indoeuropee contro la loro dissoluzione nel tritacarne multietnico.

Una Ahnenerbe casalinga - 43 parte

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Come avete visto, le scorse volte, in particolare nelle due parti precedenti, di
carne al fuoco ne abbiamo messa davvero tanta, sembra davvero che
all’improvviso vi sia stato un risveglio d’interesse circa la tematica delle
nostre origini. Ci sono alcuni punti della nostra trattazione che andrebbero
meglio precisati e approfonditi.
Un punto che ritengo sia meglio esaminare più approfonditamente è la
questione della deriva genetica cui ho accennato la volta scorsa. Uno degli
argomenti che vengono più spesso addotti da parte dei sostenitori dell’Out of
Africa, della “teoria” dell’origine africana della nostra specie, è il fatto che le
popolazioni nere dell’Africa subsahariana presenterebbero una variabilità
genetica maggiore rispetto a quelle di altre aree del nostro pianeta. E’ un
argomento che si appoggia al fenomeno della deriva genetica: man mano che
gruppi di popolazioni si allontanano da un nucleo ancestrale, si verifica una
perdita di variabilità genetica.
Ma c’è un grosso ma, e questa è un’osservazione che copio dal nostro
eccellente amico Michele Ruzzai: una maggiore variabilità genetica potrebbe essere tanto il frutto di una condizione di
ancestralità quanto di incroci recenti. In fin dei conti, è inverosimile che tra gli abitanti di Kinshasa o di Luanda si possa
riscontrare maggior variabilità genetica di quella che troveremmo a New York, ma è del tutto inverosimile che l’isola di
Manhattan possa essere la culla ancestrale dell’umanità, anche perché sappiamo bene che la popolazione attuale degli Stati
Uniti è il frutto di una delle più brutali sostituzioni etniche che la storia abbia mai conosciuto, anche se l’Europa oggi invasa
dalle masse extracomunitarie si avvia a subire la stessa sorte dei nativi americani.
Allora come se ne esce? In maniera relativamente semplice in teoria: noi non dobbiamo considerare la variabilità genetica
delle popolazioni attuali, ma di quelle antiche nella misura in cui è possibile risalire indietro nel passato, e allora ci
accorgiamo che il quadro cambia completamente, e non supporta di certo la presunta origine africana. Accanto al sapiens di
Cro Magnon presente in Eurasia già 100.000 anni fa, come ha dimostrato la ricerca di Martin Kuhlwim del Max Planck
Institute, quindi ben prima di quanto previsto dall’Out of Africa, tra gli antenati che hanno certamente contribuito al genoma
dell’umanità attuale, vi sono certamente i neanderthaliani presenti in due varietà, il neanderthal “classico” e quello
“evoluto” (questa è una storia di cui si parla poco, perché è uno dei più brucianti smacchi della paleoantropologia
“ufficiale”. Si è scoperto che il neanderthal “evoluto”, cioè con caratteristiche più simili al sapiens di Cro Magnon, non era,
come si credeva, più recente del “classico”, ma assolutamente contemporaneo, inoltre era diffuso soprattutto in Medio
Oriente, mentre in neanderthaliano classico si ritrova soprattutto in Europa. Una dimostrazione che le caratteristiche
dell’uomo di neanderthal non sono un segno di primitività, ma un adattamento a un clima freddo, come quelle degli
esquimesi, esattamente come aveva sostenuto Carleton S. Coon), l’uomo di Denisova e anche il “quarto antenato” le cui
tracce i ricercatori dell’Istituto di Biologia Evolutiva (IBE) di Barcellona hanno trovato nel DNA degli abitanti delle isole
Andamane.
Bene, altri ricercatori spagnoli, e non in tempi recentissimi avevano scoperto qualcosa di altrettanto interessante che però,
ovviamente non ha avuto la circolazione che avrebbe meritato, perché in netto contrasto con IL DOGMA dell’Out of Africa.
Nel 2007 un team di ricercatori spagnoli del CENIEH, Centro Nacional De Investigaciòn sobre la Evoluciòn Humana di
Burgos, team a cui partecipava anche Giorgio Manzi dell’Università La Sapienza di Roma, ha pubblicato i risultati di uno
studio condotto sulle caratteristiche anatomiche, in particolare sulla dentatura di fossili del genere homo delle specie abilis,
erectus, neanderthalensis (anche se ci sono sempre meno elementi che possano condurre a pensare che quella dell’uomo di
neanderthal fosse una specie realmente separata dalla nostra) e sapiens, concludendo che:
“In definitiva, come si legge nell’articolo pubblicato sulla versione online dei “Proceedings of the National Academy of
Sciences” la tesi dell’evoluzione umana completamente “africana” sembra lasciare il posto a quella più articolata che
tiene conto di un periodo, piuttosto lungo ed evolutivamente cruciale, in Eurasia”.
L’articolo da cui ho tratto lo stralcio sopra riportato, sapete dove è stato pubblicato? Sul sito on line de “La repubblica –
L’Espresso” del luglio 2007, e di certo tutti noi sappiamo che “La Repubblica” e “L’espresso” sono testate di estrema destra
avverse all’Out of Africa per motivi ideologici.
Questo è un esempio classico di come è costretta ad agire la ricerca scientifica in un’era di oppressione dogmatica. Come le
prove che smentivano il geocentrismo tolemaico fra gli astronomi del cinque-seicento, oggi le prove che smentiscono l’Out
of Africa possono circolare tra gli specialisti a condizione di essere bisbigliate e di non raggiungere il grosso pubblico.
Basandosi sul principio della deriva genetica, l’Eurasia e non l’Africa appare come il luogo ancestrale delle nostre origini.
Tuttavia, si potrebbe avanzare un dubbio al riguardo, perché questa variabilità e complessità genetica ci appare sul crinale
della transizione fra “qualcos’altro-forse-non completamente-umano” e la nostra specie. Spostandoci in epoche più vicine a
noi e di certo interamente sapiens, cosa succede?

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A questo riguardo si può ricordare che negli anni fra le due guerre, Franz Weidenreich, una delle figure più importanti della
paleoantropologia di allora, reperì nei pressi di Pechino i resti di tre individui dalle caratteristiche fisiche molto diverse, lo
racconta Mauro Paoletti in Radiografia del passato un articolo pubblicato su
“Edicolaweb” del dicembre 2007:
“Weidenreich rinvenne nel 1933 nei pressi di Pechino vari scheletri; dalle
misure dei crani venne stabilito che uno apparteneva ad un maschio europeo e
due a esemplari femminili, uno di tipo melanesiano e l’altro con caratteri
eschimesi; tutti i teschi erano databili a 30.000 anni fa. Cosa ci facevano in
Cina a quel tempo tre individui così diversi?”
Noi non dobbiamo ovviamente pensare a una società multietnica di trenta
millenni or sono, ma piuttosto a una popolazione con un’alta variabilità
genetica e morfologica proprio perché ancestrale rispetto alle altre.
Una prova in più, ed estremamente chiara, che la nostra specie non può essersi
originata in Africa, ma il problema non è di localizzazione geografica. I
sostenitori dell’Out of Africa, senza del resto affermarlo mai in termini troppo
espliciti, vogliono darci a intendere che la razza nera sia ancestrale rispetto alle
altre razze umane, ora questo è certamente falso. Fra le illustrazioni che
corredano questo articolo, c’è la ricostruzione della fisionomia di una ragazza di
Cro Magnon: ognuno è il grado di vedere se somigli a un tipo nero, mongolico
o caucasico.
Torniamo a parlare del nostro amico Michele Ruzzai. Dopo la conferenza tenuta a Trieste il 27 gennaio su Le radici antiche
degli Indoeuropei, che ha riscontrato un buon successo di pubblico (è stato – potremmo dire – il nostro modo di celebrare il
Giorno della Memoria), il 24 febbraio nella stessa sede e sempre a cura dell’Associazione Humanitas e del Circolo Identità
e Tradizione, ci ha presentato Patria artica o madre Africa? L’inganno delle teorie afrocentriche e la riscoperta delle
Origini Boreali, un intervento che è la prosecuzione-approfondimento di quello del mese precedente volto a chiarire questa
volta la questione delle origini non dei popoli indoeuropei, ma della stessa specie umana.
Qui a Trieste che pur essendo una città piccola e periferica nel contesto della nostra Penisola, sembra fervere di attività,
sabato 18 febbraio, quindi proprio a cavallo fra la conferenza di Michele Ruzzai del 27 gennaio e quella del 24 febbraio
(eppure vi assicuro che proprio non ci siamo messi d’accordo), il New Age Center (che è lo stesso che annualmente
organizza il festival celtico Triskell), presenta una conferenza di Antonio Scarfone, cosmologo e ricercatore dell’Università
della California su Epicentro Mu, cioè il discorso complesso ed estremamente interessante sui continenti e le civiltà perdute,
appunto Mu, Lemuria e Atlantide. Ora, si vede bene come questa tematica si salda precisamente al discorso dell’antichità
dell’uomo e della possibilità che altri cicli di civiltà siano emersi e dissolti nel nulla prima dell’inizio della storia (da noi)
conosciuta. E’ una tematica vicina alla nostra sensibilità, se non altro per opposizione alla mitologia progressista, non a caso
ricorrente fra i nostri pensatori, da Julius Evola a Silvano Lorenzoni. Ma forse la cosa più sorprendente è come questo
discorso si saldi alla tematica delle origini come ce la presenta il nostro Michele Ruzzai, in questo non presentando
escogitazioni originali, ma semplicemente una serie di prove a sostegno di quella che è al riguardo la dottrina tradizionale:
infatti, fra l’origine boreale in epoca estremamente remota e la distribuzione attuale della nostra specie, vi sarebbe stato un
periodo intermedio in cui essa si collocherebbe in una vasta area di nord-ovest oggi scomparsa, davanti alle coste attuali
dell’Europa (ricordiamo che 11-12.000 anni fa la fine delle glaciazioni e lo scioglimento delle masse glaciali ha provocato
l’innalzamento degli oceani di 100-120 metri) che le leggende celtiche ricordano come Avalon, e alla quale Platone ha dato
il nome di Atlantide.
Come vi ho detto, sembra proprio che in certi momenti il dio delle coincidenze faccia davvero gli straordinari. Proprio in
questo periodo di febbraio, a cavallo fra le due conferenze di Michele Ruzzai e quella di Antonio Scarfone, un altro nostro
amico che considero fra i “collaboratori indiretti” di “Ereticamente” e senza i quali probabilmente questa rubrica non
esisterebbe, il buon Luigi Leonini, ha postato in internet due articoli che si riallacciano alla tematica dei continenti perduti.
Entrambi sono tratti da “Atlanthean Gardens” che, lo voglio ricordare, è stata la prima pubblicazione a rendere note nel
mondo occidentale le ricerche genetiche di A. Klysov e I. Rozanskij che SMENTISCONO l’Out of Africa. Anche nel caso
del primo di questi due articoli, si tratta di una ricerca basata sulla genetica. I ricercatori statunitensi che hanno studiato gli
aplogruppi del DNA mitocondriale dei nativi americani, li hanno classificati in quattro gruppi denominati A, B, C e D, le
cui origini possono essere rintracciate in Asia oltre lo stretto di Bering, esattamente come prevede la teoria classica, ma
hanno scoperto pure un quinto aplogruppo, molto raro, denominato X (certo, si sono sprecati quanto a fantasia), che è stato
rintracciato in alcuni nativi di ascendenza irochese nella zona dell’Illinois. Quest’ultimo non sembra essere apparentato a
nulla, tranne che ai Baschi, popolazione come sappiamo, stanziata fra la costa atlantica e i Pirenei a cavallo di quelle che
oggi sono Francia e Spagna. I ricercatori, appunto, ipotizzano l’esistenza in un’epoca remota di una vasta terra nell’oceano

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Atlantico, oggi scomparsa, i cui superstiti avrebbero raggiunto sia le coste orientali delle Americhe sia quelle occidentali del
nostro continente, e quale nome dare a essa se non Atlantide? (o Avalon, caso mai).
Il secondo articolo è la riedizione di una memoria di Paul Schliemann, nipote del grande Heinrich Scliemann, lo scopritore
di Troia. Secondo Paul Schliemann, il suo celebre nonno negli ultimi anni di vita si era convinto dell’esistenza di Atlantide,
ma l’età e le condizioni di salute gli avrebbero impedito di condurre ricerche approfondite sull’argomento. Il motivo era la
somiglianza fra alcuni vasi ritrovati in Medio Oriente e altri rinvenuti in America centrale. Dalle analisi sarebbe risultato
che sia gli uni sia gli altri erano composti di un’argilla particolare che non si ritrova né in Medio Oriente né in Centro
America, e questo l’aveva spinto a ipotizzare l’esistenza in epoca remota di una terra che avrebbe fatto da ponte fra le
Americhe e il Vecchio Mondo, da cui questi reperti sarebbero provenuti.
Ma andiamo alla conferenza di Michele Ruzzai. Di per sé, nelle tesi esposte dal
nostro amico, che del resto avete già potuto leggere nei suoi articoli apparsi su
“Ereticamente”, non c’è nulla di particolarmente originale o bizzarro. Ciò che
invece rappresenta la parte più originale e creativa della sua esposizione, è stato
il tipo e il peso degli argomenti addotti, che non si limitano di certo alla sola
autorevolezza della parola di pensatori come Evola e Guenon. La scoperta del
ricercatore russo Vladimir Pitulko, il cui team ha trovato in Siberia tracce di
presenza umana risalenti a 45.000 anni fa alla ragguardevole latitudine di 73
gradi nord, e di cui anch’io vi ho già parlato diffusamente, e che ci fa risalire a
un’epoca in cui quelle regioni dovevano avere un clima molto diverso da quello
attuale, è solo l’ultima di una serie di scoperte archeologiche,
paleoantropologiche e genetiche spesso comparse fuggevolmente su
pubblicazioni marginali o ammesse dai ricercatori a mezza bocca, ma che nel
loro insieme ci danno un quadro delle nostre origini completamente diverso da
quello “ufficiale” e stranamente conforme a quanto sostengono invece le dottrine
tradizionali; si tratta di una metodologia molto simile a quella che io stesso ho
impiegato in Scienza e democrazia. Inoltre, scartare le tradizioni riportate (tra
l’altro in maniera praticamente unanime) da tutti i popoli su queste tematiche, ha
detto Michele Ruzzai, è come indagare su un delitto o un incidente concentrandosi esclusivamente sugli indizi e scartando a
priori quello che i testimoni hanno da dire.
E’ bene, ovviamente, non farsi troppe illusioni: non è sufficiente una sala piena di ascoltatori interessati, e non sono
sufficienti neppure i 20.000 lettori raggiunti da “Ereticamente” per pensare di incidere seriamente sulla situazione di una
nazione e di un mondo dove le menzogne che fanno da supporto ideologico alla tirannide democratica hanno una diffusione
mediatica estremamente vasta e nello stesso tempo capillare, menzogne come l’Out of Africa in campo paleoantropologico,
ma altrove ce ne sono ben altre, basta ricordare che per molta gente il 27 gennaio ricorda ben altro che la precedente
conferenza dell’amico Ruzzai. Tuttavia, io credo sia importante, attraverso questa e altre attività, porre quanto meno
rimedio alla confusione ideologica che esiste nei nostri ambienti, poco per volta arrivare a fare di essi un’élite consapevole
della nostra grande eredità culturale e storica, e delle difficili prove che ci aspettano per l’avvenire.

Una Ahnenerbe casalinga, quarantaquattresima parte – Fabio Calabrese

Negli ultimi tempi c’è stato un susseguirsi di notizie che parrebbe debbano cambiare per sempre la concezione che abbiamo
delle nostre origini. Abbiamo cominciato con il segnalare la scoperta nella grotta francese di Bruniquel di un doppio cerchio
di stalagmiti risalente a 175.000 anni fa, che sembrerebbe non potesse essere opera altro che dell’uomo di neanderthal,
un’antichissima struttura architettonica che ci induce a rivalutare questi nostri antichi antenati sia per l’abilità manuale che
essa dimostra, sia perché non sembra poter aver avuto finalità pratiche, ma verosimilmente di culto, aprendoci uno squarcio
sul mondo interiore di questi antichi uomini, che ci appare inaspettatamente più ricco di quel che avremmo pensato.

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A questa notizia ne hanno fatto seguito altre due: la scoperta nel DNA di neanderthaliani dell’Altai di tracce con l’incrocio
con sapiens che si trovavano nell’Asia centrale almeno 30-50.000 anni prima di quanto previsto dalla “teoria” dell’Out of
Africa (che non può essere salvata semplicemente retrodatandola, perché legata all’esplosione del vulcano indonesiano
Toba avvenuta tra 50 e 70.000 anni fa, che si suppone avrebbe distrutto tutti gli altri ceppi umani allora viventi per lasciare
spazio al “puro” filone africano), e come se non bastasse, la ricerca dell’Istituto di Biologia Evolutiva (IBE) di Barcellona
che avrebbe individuato nel DNA dei nativi delle isole Andamane e di altre popolazioni asiatiche le tracce di un per ora
misterioso “quarto antenato” diverso dall’uomo di Cro Magnon, da quello di Neanderthal e anche da quello di Denisova.
Non c’è nulla da fare, la nostra è una specie politipica nata dall’incontro di diversi antenati. Questo chiaramente smentisce
sia la favola di Adamo ed Eva sia quell’altra favola solo apparentemente più “scientifica”, chiamata falsamente teoria, che
conosciamo come Out of Africa? Bene, cercheremo di farcene una ragione.
Dopo questa pioggia di novità veramente grosse, adesso abbiamo una serie di tasselli che vengono ad aggiungersi al quadro
già delineato, che vede la nostra specie raccogliere l’eredità di diverse popolazioni pre-sapiens, e un’umanità più umana di
quel che avevamo probabilmente pensato, con manifestazioni artistiche e probabilmente religiose di sconcertante antichità.
Ultimamente uno di quegli amici senza il cui contributo tenere questa rubrica sarebbe praticamente impossibile, il buon Joe
Fallisi, mi ha segnalato due articoli di Maurizio Blondet non recentissimi, apparsi sul suo blog “Blondet & Friends” nel
2015; il primo lo conoscevo, il secondo no. Il primo dei due è dedicato a uno dei più sorprendenti manufatti che ci sono
pervenuti, il cosiddetto idolo di Shigir ritrovato in Siberia; antico di ben 20.000 anni, è sostanzialmente non dissimile dai
pali sciamanici, i totem che gli sciamani siberiani erigono ancora oggi. Lo sciamanesimo è dunque, conclude Blondet, la più
antica religione vivente, testimonianza di una continuità non solo antropologica, ma culturale con la più remota preistoria.
Forse ricorderete che in una precedente Ahnenerbe casalinga vi avevo dato appunto notizia di questo singolare ritrovamento
con tutte le implicazioni che esso comporta.
Tuttavia, quello che ora ci interessa maggiormente è forse il secondo articolo che mi sarei perso senza la provvidenziale
segnalazione di Fallisi. Quest’ultimo, pubblicato sempre su “Blondet & Friends” il 22 settembre 2015, ha un bel titolo
polemico: Addio homo sapiens, adesso trionfa l’insipiens, ed è una risposta ad alcuni lettori che avevano minimizzato e
ridicolizzato la scoperta. Persone ignoranti e prive di cultura, ci dice Blondet, ce ne sono sempre state, ma un tempo
ammettevano la loro ignoranza rispetto a chi aveva una cultura e padroneggiava certe tematiche, ma oggi, “pompati” da un
sistema mediatico che ammannisce frivolezze, costoro tendono a disprezzare e a mettere in ridicolo la conoscenza.
Quello che è di maggiore interesse, però è il fatto che Blondet, rivedendo la questione dell’idolo di Shigir, fa una sorta di
panoramica della Siberia preistorica, e ne esce un quadro davvero sorprendente:
“I ghiacci occupavano gran parte d’Europa e Nord-America, ma che (mistero) la Siberia e l’Alaska erano coperti di
vegetazione lussureggiante, beneficiate da un clima mite: lo provano le immense distese di leguminose selvatiche, felci,
campanule, ranuncoli , arbusti in paludi impenetrabili, che oggi formano i giacimenti di torba. Lo provano la quantità
enorme di animali di grossa taglia che questa vegetazione sosteneva: mandrie immani di bisonti e renne, cavallini selvatici,
cervidi d’ogni tipo, antilopi, pecore selvatiche, e lupi; ma coi lupi anche tigri e iene. Iene vicino al Polo Nord? Dove adesso
la terra è gelata dal permafrost sotto le erbe stente, dove esiste solo la tundra e le temperature calano a 40 sottozero?
Ebbene sì.
(…).
Qualcosa poi successe, attorno ai 9500 anni fa: l’80% della fauna siberiana morì di colpo, coi ranuncoli ancora in bocca o
nello stomaco non ancora digeriti, per quella che sembra essere una tempesta di gelo, inaudita sciagura istantanea su cui i
meteorologi si interrogano”.
Ora, si comprende bene che questo quadro della preistoria siberiana esposto da Blondet, in base al quale le regioni artiche
avevano decine di migliaia di anni fa un clima molto diverso da quello attuale, e ben più propizio all’insediamento umano,
128
coincide precisamente con quanto a questo proposito hanno sempre asserito le dottrine tradizionali che hanno visto, non
nell’Africa ma nelle regioni boreali il luogo d’origine, la culla ancestrale della nostra specie, e d’altra parte, come abbiamo
più volte rilevato, è facile rendersi conto che un clima rigido come quello che attualmente domina in queste regioni, non
avrebbe certo potuto fornire la quantità di vegetazione necessaria a tenere in vita i grandi branchi di enormi animali come i
mammut.
Per un altro verso, è anche interessante il fatto che Blondet butti lì la cosa come una postilla in un articolo di replica, come
qualcosa che dovrebbe essere ovvio, ma evidentemente non lo è, e qui torniamo al fatto che certe conoscenze godono di una
certa tolleranza finché girano in ambiti specialistici ma non devono arrivare al grosso pubblico, il fatto che la
democrazia, teoricamente basata sulla libertà di opinione, porta in effetti al “pensiero unico” in maniera più efficace di
qualsiasi sistema totalitario, semplicemente controllando quello che può filtrare o non filtrare attraverso i media. In questo
caso, l’idea di un artico abitabile dall’uomo in epoche remote, potrebbe mettere in crisi l’Out of Africa, con tutte le sue
ricadute di ideologia “antirazzista” che ne fanno ben altro, nel pensiero democratico, che una “semplice” teoria scientifica.

Peccato soltanto che si tratti di una smaccata falsità.


A volte sembra proprio che il dio delle coincidenze faccia gli straordinari: in sintonia temporale davvero sorprendente con la
programmazione delle due conferenze di Michele Ruzzai di cui vi ho raccontato le volte scorse, sono emerse in quella
grande piazza mediatica che è il web, e che il sistema nel quale viviamo sembra non riesca ancora a controllare, tre notizie
fondamentali che scuotono l’ortodossia ufficiale sulle nostre origini fin dalle fondamenta: il ritrovamento nella grotta di
Bruniquel che ci lascia intravvedere un uomo di neanderthal molto più creativo e umano di quel che finora avevamo
pensato, la prova genetica di incroci fra i neanderthaliani e i sapiens di Cro Magnon avvenuti in Eurasia 100.000 anni fa e
quindi la presenza del sapiens “moderno” nell’area eurasiatica molto prima di quanto previsto dall’Out of Africa, e
l’individuazione, sempre per via genetica, di un ancora innominato “quarto antenato” dell’umanità attuale, oltre ai tre finora
conosciuti: Cro Magnon, Neanderthal e Denisova, ma davvero non finisce qui.
Stranamente, proprio adesso, “The Archaeology News Network” in data 4 febbraio riferisce di una scoperta fatta in realtà
nel 1994, ma rimasta fino a ora oscurata da un quasi inesplicabile coverage (nemmeno si trattasse dei segreti della
fabbricazione di armi nucleari). Appunto nel 1994 in una grotta nella regione dell’Ardeche in Francia, lo speleologo Jean-
Marie Chauvet ha scoperto una serie di pitture parietali raffiguranti cervi, uri, bisonti, cavalli, mammut, rinoceronti, grandi
felini che un tempo popolavano la regione, fra le più perfette e dettagliate finora conosciute, ma la grossa sorpresa è arrivata
dall’esame al radiocarbonio dei pigmenti vegetali con cui queste immagini sono state tracciate: esse risalgono a 30.000 anni
fa, e sarebbero non solo le più perfette, ma anche le più antiche pitture parietali preistoriche finora conosciute. La grotta
sarebbe rimasta letteralmente sigillata in seguito a una frana avvenuta 12.500 anni fa, che l’avrebbe isolata dall’esterno,
permettendo la conservazione del microclima e quindi delle pitture in condizioni ideali.
Devo dire la verità: l’amico che ha segnalato la notizia vi ha accluso un commento che mi ha fatto sorridere: “Alla faccia
dell’evoluzione darwiniana!”. Molte persone non si rendono conto di quale sia la reale scala dei tempi prevista dalla teoria
darwiniana, le trasformazioni delle specie non avvengono nell’arco delle decine di migliaia, ma dei milioni di anni, scoprire
che uomini di 30.000 anni fa erano in grado di produrre opere d’arte di sorprendente bellezza, erano in definitiva umani
quanto lo siamo noi, non la intacca minimamente, ma sappiamo che al riguardo esiste un diffuso equivoco sul quale mi sono
soffermato più volte, distinguendo l’interpretazione progressista-buonista-di sinistra dall’originale e reale pensiero del
grande naturalista, ma ora non vorrei ripetere punto per punto la disamina della questione che ho fatto nella
quarantatreesima parte, e alla quale rimando.
Quel che invece mi pare entri sempre più in crisi è il concetto di progresso, l’idea della storia come sviluppo ascendente
verso livelli sempre più alti. L’essere umano così come lo conosciamo sembrerebbe esistere da qualcosa come 200.000 anni.
Ora una cosa che proprio non si può contestare, è che 200.000 : 5.000 = 40. In altre parole, esistiamo da un tempo che è
quaranta volte più ampio di quello che costituisce tutta la storia documentata. Che in questo lasso di tempo enorme, possano
essere esistiti interi cicli di civiltà ed essere poi svaniti nel nulla lasciando dietro di sé ben poche tracce enigmatiche, è
un’idea tutt’altro che irragionevole, ed è anche chiaro perché la visione (o l’accecamento) progressista tende a escludere
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questo concetto, perché se accettato, implicherebbe che anche la civiltà moderna potrebbe condividere la stessa sorte, e se il
mondo moderno dovesse crollare domani, fra – poniamo – diecimila anni, avrebbe lasciato ben poche tracce della sua
esistenza a beneficio degli archeologi di tempi futuri.
Possiamo spostarci indietro nel tempo quanto vogliamo, scopriamo esseri umani più simili a noi di quel che finora avevamo
pensato. A parte le pitture parietali dell’Ardeche, pensiamo al doppio circolo di stalagmiti di Bruniquel, che difficilmente
possiamo immaginare opera di creature semi-scimmiesche come spesso sono ancora raffigurati gli uomini di Neanderthal.
Nelle illustrazioni che corredano la trentanovesima parte vi avevo riportato la ricostruzione di un ragazzo, e nella
quarantunesima quella di un bambino neanderthaliani, nel cui aspetto di scimmiesco non c’è alcunché, e che poco
differirebbero dalle immagini che si possono vedere in qualche foto di famiglia. Si potrebbe però obiettare che si tratta di
ricostruzioni di soggetti infantili, che sono sempre più “carini” degli adulti, allora stavolta vi allego la ricostruzione della
fisionomia di un neanderthaliano adulto, tratta da un articolo de “La Stampa” nella versione on line di data 30.1.2014.

Che ne dite? Non potrebbe essere il vostro vicino di casa?


La prima delle altre due immagini che correda questo articolo è quella dell’idolo di Shigir di cui ha parlato Maurizio
Blondet. Di per sé forse non ci potrebbe dire molto, finché non teniamo conto che questo manufatto ligneo ha qualcosa
come 20.000 anni, che la sua fattura è separata da noi da un arco di tempo quattro volte maggiore di quello che ci separa
dall’edificazione delle piramidi e dall’inizio della storia documentata. Non ve n’è più che a sufficienza per mettere in crisi il
nostro presuntuoso concetto di progresso?
La terza immagine è la locandina della conferenza che ho tenuto sabato 11 marzo qui a Trieste alla Casa del Combattente,
“Alle origini dell’Europa”, introdotta da una presentazione del nostro eccellente amico Michele Ruzzai.
Questa conferenza si è posta su di una linea di continuità con le due già tenute da
Michele il 27 gennaio e il 24 febbraio nella sede del circolo “Identità e tradizione”
aventi per tema rispettivamente le origini degli Indoeuropei e “Patria artica o madre
Africa?”, ossia la confutazione della “teoria” delle origini africane della specie
umana che rappresenta la “vulgata” ufficiale che la democrazia vorrebbe imporre
come “verità scientifica”. C’è da aggiungere che la disponibilità della più ampia e
ricettiva sala della Casa del Combattente è stata possibile grazie alla collaborazione
con le Associazioni d’Arma instauratasi grazie a Gianfranco Drioli, di cui dobbiamo
sempre ricordare l’ottimo testo Iperborea, la ricerca senza fine della patria perduta.
Quanto al contenuto della conferenza stessa, io non vorrei ripetermi, perché in
sostanza lo conoscete ad abundantiam, essendo esso una sintesi di quanto vi ho già
esposto nei ventitré articoli della serie “Ex Oriente lux, ma sarà poi vero?”, cioè la
confutazione della leggenda della derivazione della civiltà europea dall’oriente
(prossimo, medio od estremo), in favore della rivalutazione delle sue origini
autoctone.
C’è forse tuttavia un punto che merita un ulteriore approfondimento.
Un’osservazione sulla quale mi sono ripromesso di tornare, è l’idea oggi comunemente diffusa e frequentemente rimpallata
dai media, secondo la quale la civiltà deriva sempre dalla commistione di popoli e culture, dal fatto che qualcuno prenda
qualcosa da qualcun altro. A parte il fatto evidente che questa mentalità è stata diffusa per favorire l’accettazione o la
rassegnazione a vedere oggi il nostro continente invaso dalla feccia del Terzo Mondo, magari a pensare che questa
catastrofe sia qualcosa di positivo, questa per un altro verso è la mentalità tipica di certa gente che vive in mezzo a noi da un
paio di millenni ma non ha mai perso il legame con la sua origine mediorientale, che rappresenta all’incirca lo 0,2 per cento
della popolazione umana ma è autrice del cento per cento delle idee della democrazia e della modernità: quello che hai è
sempre qualcosa che hai preso a qualcun altro, non è mai il frutto del tuo lavoro, della tua intelligenza, della tua creatività,
anche perché costoro per il lavoro non sono molto portati, e creatività non ne possiedono, tranne che nell’inventare modi per
impadronirsi di ciò che non è loro, ma si comprende l’assurdità implicita nell’idea di un regresso all’infinito per qualsiasi
invenzione umana.

130
Per quanto riguarda la nostra Europa, molti ricercatori con insistenza degna di miglior causa, hanno costantemente cercato
di far risalire a un’origine allogena qualsiasi innovazione, qualsiasi elemento della cultura – intellettuale e materiale –
europea. Anche se fosse, non c’è forse creatività nel migliorare, nel trasformare in qualcosa di funzionante le intuizioni che
altri hanno avuto ma non saputo sviluppare?
Prendiamo ad esempio l’invenzione della bussola: sarà anche vero che i Cinesi sono stati i primi a scoprire le proprietà dei
minerali magnetici, ma le loro “bussole” erano di un’efficienza così scarsa da renderle praticamente inutilizzabili, un ago di
magnetite su un tappo di sughero che galleggiava su una bacinella di acqua. L’idea di incernierare l’ago magnetico su di un
perno venne ai marinai di Amalfi, è un’invenzione italiana.
Un discorso analogo si può fare per l’invenzione dell’alfabeto: i Fenici, avvalendosi del fatto che nelle lingue semitiche le
vocali non hanno importanza, ridussero la scrittura demotica egizia (che era sillabica) a una ventina di segni, ma la VERA
invenzione dell’alfabeto, con la divisione della sillaba in consonante e vocale e l’introduzione degli spazi fra le parole,
sostanzialmente il sistema semplice e pratico che usiamo ancora oggi, fu opera dei Greci. Qualcuno ha detto che la fissione
della sillaba in consonante e vocale, è stata di importanza paragonabile alla fissione dell’atomo.
Ma siamo sicuri che non esista alcuna invenzione tipicamente europea i cui prodromi non possano essere rintracciati fuori
dal nostro continente? Pensiamo alle cattedrali gotiche che cominciarono a diffondersi in tutta Europa a partire dai secoli XI
e XII. Questi edifici sono il prodotto di una tecnica costruttiva del tutto nuova, grazie alla quale il peso non si scarica sulle
murature, ma sulle costolature formate dagli archi rampanti, le potremmo paragonare a enormi tende di pietra che sono
sorrette non dal telo ma dall’intelaiatura. E’ questa tecnica che ha permesso di erigere per la prima volta edifici che
raggiungono le loro straordinarie altezze senza avere una base enorme (come avviene per le piramidi). Anche in questo caso
“benintenzionati” studiosi e orientalisti, hanno cercato di attribuire a questa tecnica costruttiva un’origine non europea.
Invano! Non c’è né in Medio Oriente né altrove fuori dall’Europa alcun edificio strutturalmente simile a una cattedrale
gotica.
Un’altra invenzione di cui, nonostante tutti i “benintenzionati” sforzi non sono stati trovati precedenti fuori dall’Europa
medioevale, è il timone posteriore delle imbarcazioni, che ha reso di gran lunga più sicura la navigazione. Un’invenzione da
poco? Mettete insieme il timone posteriore con la nave a sponde rialzate in grado di affrontare i marosi oceanici, invenzione
frisone anch’essa di epoca medioevale, aggiungeteci la bussola e le armi da fuoco, anch’esse invenzione europea (la polvere
pirica fu scoperta dai cinesi, ma costoro oltre i petardi non andarono), e cosa ottenete? Il controllo degli oceani e del globo
terracqueo, quale l’Europa ha avuto dal XVI al XIX secolo.
Noi sappiamo che tra la fine del XIX secolo e la metà del XX secolo l’Europa ha perduto la posizione di predominio
mondiale a causa delle due guerre mondiali, e oggi si vede minacciata dall’invasione extracomunitaria nella sua stessa
sostanza etnica, ma tanto più dobbiamo essere consapevoli di avere una grande eredità, non solo culturale, da difendere.

Una Ahnenerbe casalinga - quarantacinquesima parte

131
Abbiamo alle spalle un periodo
particolarmente intenso per quanto riguarda lo studio delle origini,
un periodo nel quale sembra davvero che il mistero e l’incertezza
creati dal trascorrere del tempo sull’origine dei nostri più lontani
antenati, siano sul punto di squarciarsi lasciandoci intravedere un
paesaggio nuovo e imprevisto.
Abbiamo cominciato questa fase sorprendente con la scoperta da
parte di speleologi francesi del doppio circolo di stalagmiti nella
grotta di Bruniquel, quella che possiamo considerare la prima
struttura architettonica del mondo, risalente a 175.000 anni fa, opera
dell’uomo di neanderthal, che ci induce non solo a rivalutare
l’abilità costruttiva di questo nostro lontano antenato, ma,
considerando il fatto che è stata realizzata in un ambiente
sotterraneo, lavorando a grande profondità alla luce delle torce e non
sembra aver avuto una qualche utilità pratica immediata, ma si
trattava verosimilmente di un luogo di culto, il più antico tempio
conosciuto potremmo dire, ci apre uno spiraglio sul mondo
spirituale e interiore di questi uomini di tempi lontani
verosimilmente molto più simili a noi di quel che avevamo finora creduto.
Era forse prevedibile. Le notizie più interessanti e maggiormente capaci di sconvolgere il quadro che finora presumevamo
di conoscere, o ci era stato imposto, delle nostre origini, sono venute e stanno venendo dalla genetica dallo studio del DNA:
la scoperta, dallo studio del DNA di resti di neanderthaliani provenienti dalla regione siberiana dell’Altai, di tracce
dell’incrocio con sapiens di tipo Cro Magnon risalente a 100.000 anni fa, e dunque il fatto che questi ultimi erano presenti
nell’Eurasia settentrionale ben prima di quanto prevedesse la “teoria” dell’Out of Africa, e infine – ciliegina sulla torta,
potremmo dire – sempre riscontrate a livello genetico, in alcune popolazioni asiatiche, le tracce di un per ora misterioso
“quarto antenato” dell’umanità attuale diverso dai tre finora conosciuti: Cro Magnon, Neanderhal, Denisova.
Considerando il principio della deriva genetica, cioè che man mano che popolazioni satelliti si staccano da una popolazione
ancestrale, vi è una perdita di variabilità genetica, questi indizi puntano in una direzione precisa, indicano la culla ancestrale
dell’umanità non in Africa ma nelle regioni settentrionali dell’Eurasia, regioni che in passato dovevano godere di un clima
molto più favorevole all’insediamento umano di quello attuale.
Veramente, se a parlare fossero semplicemente i dati di fatto e non il pregiudizio ideologico, l’Out of Africa andrebbe
completamente ripudiata, ma sappiamo che questa versione della nostra storia come specie non è nata da dati scientifici ma,
“per battere il razzismo”, cioè nell’ipocrita linguaggio orwelliano della democrazia, la constatazione che le razze umane
esistono, nella prospettiva dell’imposizione dell’universale meticciato.
Quanto più approfondiamo la conoscenza del genoma delle popolazioni antiche, tante più cose sorprendenti e inaspettate
scopriamo, ad esempio, secondo un articolo recentemente apparso su “Le scienze” (pubblicazione di estrema, estremissima
destra, come tutti sanno), l’apporto dei nostri antenati neanderthaliani e denisoviani non avrebbe soltanto irrobustito il
nostro sistema immunitario, ma in particolare un gene che abbiamo ereditato dall’uomo di neanderthal avrebbe la funzione
di prevenire disturbi psichiatrici come la schizofrenia. Sarà mica per questo che tra i neri subsahariani che non hanno potuto
beneficiare di un tale apporto, i casi tipo Kabobo sono alquanto più frequenti che fra caucasici e mongolici, eredi di
Neanderthal e di Denisova?
Veramente c’è da pensare che qualunque dio presieda alle vicende umane, debba avere uno spiccato senso dell’umorismo:
“l’antirazzismo” africano-centrico si traduce in una esaltazione della “pura linea africana” in confronto a noi ibridi di
Neanderthal e di Denisova (per non dire del “quarto antenato” ancora da identificare), cioè in un razzismo biologico che
avrebbe fatto arrossire un positivista del XIX secolo.
Oltre e ciò va aggiunto che in questo periodo a cavallo tra gennaio e marzo 2017, noi qui a Trieste, questa città
indubbiamente piccola e marginale nel contesto italiano, eppure per certi versi sorprendentemente viva dal punto di vista
intellettuale, abbiamo avuto un bel po’ di attività, la conferenza, seguitissima, dell’amico Michele Ruzzai del 27 gennaio su
“Le radici antiche degli indoeuropei” a cui è seguita il 24 febbraio “Patria artica o madre Africa?”, una decisa confutazione
della “teoria” africano-centrica delle nostre origini. Infine, a chiudere il cerchio, o meglio il triangolo, la mia conferenza
dell’11 marzo “Alle origini dell’Europa”.
Non ci eravamo proprio messi d’accordo, ma proprio a mezzo fra le due conferenze di Michele Ruzzai, sabato 18 febbraio
c’è stata al New Age Center la conferenza di Antonio Scarfone, cosmologo e docente della California University (uno dei
non pochi cervelli che questa nostra Italia ha costretto a emigrare all’estero per trovare una collocazione professionale
adeguata) su “Epicentro Mu”, conferenza di presentazione del suo omonimo libro, che ha affrontato un tema, quello dei
continenti perduti e delle remote civiltà scomparse prima dell’inizio della storia ufficiale, tema che si salda molto bene alle
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nostre problematiche, perché confuta lo schema semplicistico delle
origini sostenuto dall’ortodossia ufficiale, e anche perché dimostra
tutta l’illusorietà della mitologia progressista che vorrebbe vedere
nella storia uno sviluppo in costante ascesa.
Cosa strana, ma sembra davvero che in questo periodo il dio delle
coincidenze abbia fatto gli straordinari, quasi in contemporanea, la
rivista “Atlanthean Gardens”, quella stessa che ha reso note nel
mondo occidentale le ricerche dei genetisti russi A. Klysov e I.
Rozanskij che smentiscono l’Out of Africa, ha reso nota una ricerca
statunitense che avrebbe individuato un tipo di aplogruppo
mitocondriale comune solo al alcune popolazioni americane native
delle costa orientale degli USA di oggi e ai Baschi, cosa che si
spiegherebbe solo con l’esistenza di una terra oggi scomparsa che
abbia fatto da ponte fra le coste orientali dell’America e quelle
occidentali dell’Europa, cui è difficile dare qualche altro nome se
non quello di Atlantide.
Dopo un periodo così intenso, è ora forse il momento di soffermarsi ad approfondire qualche punto.
Come ricorderete, nella quarantaduesima parte avevo ripreso in mano la tematica dello sfondo più generale in cui si situa il
divenire delle forme viventi e quindi anche della nostra specie. Credo di avervi spiegato più volte il concetto che la
concezione evoluzionista-progressista così come è comunemente diffusa, in realtà è un fraintendimento o una falsificazione
dell’autentica teoria di Darwin, che tende a sottolineare il presunto aspetto ascendente delle trasformazioni che avvengono
nel mondo vivente, a vedere ogni cambiamento come bene (cosa che il grande naturalista inglese si è sempre ben guardato
dal pensare), e in compenso preferisce ignorare certi aspetti “sgradevoli” della teoria darwiniana: la selezione naturale, la
lotta per l’esistenza, la sopravvivenza del più adatto, concetti che falciano l’erba sotto i piedi al buonismo-progressismo-
democraticismo di matrice cristiana, e la tendenza insita nei viventi a trasmettere alle generazioni future il proprio genoma,
non quello di chicchessia (da questo punto di vista, i genitori adottivi che allevano dedicandogli tempo ed energie un figlio
non proprio, specialmente se con un genoma lontano dal loro, come nel caso delle adozioni internazionali fatte nel Terzo
Mondo, sono un fallimento dal punto di vista biologico tanto quanto una coppia di uccellini il cui nido è stato parassitato da
un cuculo).
D’altro canto, Julius Evola spiegava che la comparsa man mano che si procede nel tempo, di tipi viventi più complessi, può
essere spiegata con il decadere nella materialità di entità di livello man mano superiori, e quindi quella che leggeremmo
come evoluzione sarebbe in realtà decadenza. Un punto di vista evidentemente troppo difficile per molti suoi discepoli che
si sono ridotti a cascare nel creazionismo puro e semplice aprendosi la strada (non soltanto per questo motivo, ovviamente)
per un ritorno alla mentalità cristiana-abramitica, ma si può dire che in realtà non hanno mai capito Evola così come i
progressisti (a cominciare da Marx, che di scienze non capiva nulla) non hanno mai capito Darwin.
Concludevo (e scusatemi l’auto-citazione):
“Se noi invece siamo capaci di coniugare la concezione evoliana genuina con la visione “non-buonista” del darwinismo
(che in campo filosofico è rappresentata a mio parere soprattutto da Nietzsche), disporremo di un’arma formidabile capace
di spazzare via tutte le chimere cristiane-democratiche-marxiste-progressiste”.
A margine della conferenza del 24 febbraio, ho avuto modo di riprendere l’argomento con Michele Ruzzai. A parere di
Michele, il punto di vista da me espresso sarebbe accettabile però con un’importante precisazione. L’adattamento
all’ambiente degli esseri viventi indubbiamente esiste, ma non ha un significato evolutivo. Man mano che un essere si adatta
a una nicchia ecologica, cioè “si specializza”, così facendo si chiude altre possibilità in grado progressivamente maggiore.
Per fare un esempio, la zampa di un cavallo, l’ala di un pipistrello, la pinna di un delfino, derivano tutte da un arto primitivo
simile alla mano umana. Noi non potremo mai correre come un cavallo, volare come un pipistrello, nuotare come un
delfino: i nostri arti non sono così specializzati, ma i nostri arti ci permettono una versatilità di funzioni che queste creature
hanno perso.
L’uomo non è l’essere più evoluto, ma potremmo dire il più primitivo, quello che ha meno deviato da un modello
ancestrale.
Lo stesso concetto di ancestralità in opposizione ad adattamento-deviazione da un modello originario, lo si può applicare su
scala minore all’interno della nostra specie. Partendo da questo presupposto e sapendo che la culla ancestrale della nostra
specie va cercata non in Africa ma nell’Eurasia settentrionale, nelle regioni circum-polari (in un’epoca in cui esse avevano
un clima molto diverso da quello attuale), è ragionevole la supposizione che proprio l’uomo cucasico-europide sia quello
maggiormente rimasto fedele al modello originario della nostra specie.
Come avete visto, io in queste pagine ho fatto spesso riferimento al gruppo facebook “MANvantara” creato da Michele
Ruzzai per dare spazio a queste tematiche, ma perlopiù ho evitato ed evito di riportare singoli articoli qui comparsi, sia per

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evitare doppioni, sia perché penso sia preferibile rimandarvi direttamente agli scritti che qui compaiono. Stavolta facciamo
un’eccezione.
Recensendo il libro Le razze umane, origine e diffusione di Georg Glowatzki (Editrice La Scuola, 1977), Michele ha scritto:
“In merito alle popolazioni di piccola statura stanziate nelle zone tropicali asiatiche, a pag. 54 Glowatzki ricorda i Veddidi
(presenti soprattutto in India), che da alcuni antropologi vengono considerati europidi, mentre altri li definiscono
“protoaustraloidi”, è tuttavia notevole il fatto, segnalato dall’autore, che scheletri veddidi sarebbero stati rinvenuti anche
in Mesopotamia. Si può quindi ipotizzare una loro antica diffusione ben maggiore rispetto a quella odierna”.
Una piccola osservazione a margine: si tratta di un testo che risale a quarant’anni fa, oggi semplicemente non sarebbe
consentito parlare di razze, e caso mai ci aspetteremmo di veder pubblicato un libro del genere da qualche editore “di Area”,
non certo da una casa editrice generalista rivolta al grande pubblico come “La Scuola”. La cosiddetta democrazia nella
quale viviamo coincide sempre con il restringimento della circolazione delle idee e delle informazioni, e in ultimo della
capacità di pensare.
Io mi sentirei di avanzare l’ipotesi che i Veddidi rappresentino un tipo di transizione che va dall’europide all’australoide,
così come ad esempio gli Ainu del Giappone potrebbero rappresentare un altro tipo di transizione che va dall’europide al
mongolico. Si può anche ricordare che gli antenati degli Amerindi che migrarono dall’Asia nelle Americhe circa 20.000
anni fa, presentavano un grado di mongolizzazione imperfetto; tra i loro discendenti, ad esempio la plica mongolica, il
famoso occhio a mandorla, è quasi del tutto assente. Tutti questi elementi rafforzano l’idea dell’ancestralità del tipo
europide rispetto agli altri gruppi umani.
Che strano! Non è davvero sorprendente che quanto più si approfondisce la nostra conoscenza in proposito, tanto meno
l’immagine del nostro passato e di noi stessi che ne ricaviamo, somiglia sempre meno a quel che l’ortodossia oggi
dominante e che si pretende “scientifica” vorrebbe imporci di credere, e invece somiglia sempre di più a ciò che hanno da
dirci al riguardo le dottrine tradizionali?
NOTA: Nelle illustrazioni che corredano questo articolo vediamo la copertina del libro di Antonio Scarfone Epicentro Mu,
di cui la conferenza di sabato 18 febbraio al New Age Center è stata la presentazione, poi alcuni moai, le gigantesche statue
busti dell’Isola di Pasqua. Scarfone riferisce che secondo le leggende dei nativi di origine polinesiana che oggi abitano
l’isola, quando i loro antenati giunsero sull’isola, i moai “erano già lì”. Secondo Scarfone i moai sarebbero un residuo
dell’antico continente Mu di cui l’isola un tempo avrebbe fatto parte.
Anche in questo caso una domanda va ovviamente posta: per quale motivo l’archeologia e la “scienza” ufficiali tendono a
scartare come fonti di informazione utili a ricostruire il passato le tradizioni dei popoli i cui antenati furono protagonisti o
assistettero agli eventi che si vogliono indagare? Non è la stessa cosa, faceva notare Michele Ruzzai, che indagare su di un
incidente o su di un delitto scartando in blocco tutte le testimonianze?
La risposta è semplice: l’idea stessa di una civiltà antica di 40.000 anni come sarebbe stata quella dell’ipotetico continente
Mu, sarebbe già da sola sufficiente a scardinare “il mito” progressista che vogliono imporci a tutti i costi della storia umana
come processo lineare e ascendente.
L’altra illustrazione riporta invece alcune fisionomia veddidi. Riprendo questa immagine da “MANvantara”, ma la sua fonte
originale è il libro di Georg Glowatzki Le razze umane, origine e diffusione.

Una Ahnenerbe casalinga _ quarantaseiesima parte

Il nostro amico Michele Ruzzai ormai lo conosciamo bene, e sappiamo che su certe tematiche, come appunto quelle relative
alle origini, alla preistoria, a quella che sarebbe forse bene chiamare la storia non documentata, ha una competenza davvero
invidiabile di cui ha dato un eccellente esempio sabato 11 marzo nell’introduzione che ha fatto alla mia conferenza sulle
origini dell’Europa tenutasi a Trieste alla Casa del Combattente, un’introduzione talmente bella e puntuale da mettermi
nella situazione di chiedermi con imbarazzo se la mia conferenza sarebbe stata all’altezza della presentazione. Forse l’unica
cosa che si può rimproverare al nostro eccellente amico, è la relativa rarità con cui i suoi scritti compaiono su
“Ereticamente”.
Bene, nella presentazione della mia conferenza (di cui abbiamo il testo che Michele si era diligentemente preparato, mentre
io, presentando le sue del 27 gennaio e del 24 febbraio, ho parlato a braccio), il nostro amico ha toccato un punto di estrema
importanza che ora conviene rimarcare:
“Come in nessun altro continente, apparteniamo tutti ad unico ceppo razziale, quello europide, mentre invece altre aree del
pianeta presentano fenotipi molto più eterogenei. Ad esempio, l’America ha una base caucasoide arcaica sulla quale si
sono inseriti ceppi mongolidi più recenti, e forse anche alcune influenze più specificatamente cromagnoidi nel settentrione
del continente. L’Asia è terra mongolide ad est, caucasoide ad ovest e a sud, presenta forme intermedie al centro e a nord
(popolazioni turaniche e siberiane) ed alcuni isolati pigmoidi nel sud-est (negritos). L’Oceania è australoide, ma anche
negroide (melanesiani) ed ha nei polinesiani un gruppo dalla classificazione controversa (mongolidi dai caratteri attenuati
per alcuni, caucasoidi per altri). L’Africa è caucasoide a nord, etiopoide ad est, capoide all’estremo sud (boscimani ed
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ottentotti) e negride in tutte le altre zone, con un’importante presenza pigmoide al centro. In termini bio-antropologici
l’Europa si presenta quindi come una terra molto più omogenea di tutte le altre, anche se ciò comunque non implica una
totale uniformità umana vista la presenza di una piacevole varietà di tipi lievemente diversificati (nordici, dalici,
mediterranei, alpini, adriatici, baltici…) tra i quali è tuttavia palpabile una stretta vicinanza di base.
(…).
Se al mondo vi è una terra con una sua ben precisa individualità ed una stirpe, a livello continentale, con una sua ben
definita identità la risposta è chiara: siamo noi Europei”.
Questo è ciò che ci ha sempre caratterizzati per tutto l’arco della nostra storia, e questa compattezza etnico-antropologica è
certamente stata la molla mica tanto segreta dell’originalità e della creatività europea che ha posto il nostro continente alla
testa della civiltà umana, almeno fino a ora, mentre oggi stiamo assistendo al lento assassinio del nostro continente
attraverso l’immigrazione, il meticciato e la sostituzione etnica, destino che non è scritto nelle stelle, ma che il potere
mondialista dietro le quinte, i nemici dell’Europa, le forze disgraziatamente vincitrici del secondo conflitto mondiale anche
se gli esiti ultimi si vedono solo adesso, hanno deciso per noi.
Bene, può essere interessante sapere che tra gli zelanti servitori del potere mondialista che ha deciso la nostra morte, c’è
qualcuno che ha deciso diportarsi avanti con il lavoro. Uno degli amici senza le cui segnalazioni questa rubrica non
esisterebbe o sarebbe molto più difficile da tenere, e che considero “collaboratori indiretti” della nostra “Ereticamente”, ma
dato che non so se abbia piacere di essere nominato qui, citerò solo con le iniziali, A. F., mi ha recentemente segnalato il
fatto che se si va su google immagini e si digita (per ora in inglese, ma è probabile che la versione italiana non tardi ad
arrivare) “European History People”, ci si trova davanti una sorprendente (e repellente) carrellata di fisionomie negroidi, è
la “gente d’Europa” come la vuole il potere mondialista, come hanno intenzione di farla diventare. Certo, noi possiamo
semplicemente pensare che qualcuno dei rinnegati e traditori al servizio del nemico abbia semplicemente precorso i tempi
scambiando il suo infame desiderio per la realtà, ma voi pensate semplicemente a un ragazzo che faccia ricerche in internet
per motivi di studio (e i giovani oggi non sanno nulla a parte le falsità che gli ammannisce il sistema scolastico), sarà
portato a credere che il meticciato e la società multietnica siano qualcosa di normale, sempre esistito, non si renderà conto
che, se è un europeo di stirpe nativa, nella società multietnica simil-americana che si va costruendo, lui è il pellerossa.
Vi ho parlato più volte dell’interessante gruppo facebook che il nostro Michele ha creato per esplorare la questione delle
origini, “MANvantara”, tuttavia avrete anche visto che qui non ho riportato se non pochissime volte stralci dei testi che vi
compaiono, e in genere sotto forma di citazioni molto brevi, e il motivo è semplice, non mi sembra utile creare doppioni, ed
è meglio che andiate a consultare direttamente le molte cose pubblicate in questo gruppo sia da Michele sia da altri
collaboratori (trovate anche articoli miei, vi prego di avere pazienza). Stavolta però facciamo un’eccezione. In data 16
marzo, Michele ha pubblicato nel gruppo un breve articoletto-recensione sull’ultimo numero de “Le Scienze” (pensate che
fonte estremista di destra, “Le scienze”!) dove in un articolo si parla del fossile cinese noto come l’uomo di Liuijang.
Questo fossile dalle caratteristiche chiaramente sapiens sembrerebbe, in base allo studio dei sedimenti in cui era incluso,
avere un’età fra i 111.000 e 139.000 anni. Bene, se ricordate in un precedente articolo di questa serie vi ho parlato di un
altrosapiens cinese estremamente antico, l’uomo di Dali, che sembrerebbe collocabile attorno ai 124.000 anni or sono,
quindi nello stesso orizzonte temporale del fossile di Liuijang.
Perché sono importanti questi ritrovamenti? Non solo perché attribuiscono all’Asia orientale un ruolo di importanza finora
sottovalutata nell’origine della nostra specie, ma perché costituiscono la smentita definitiva dell’Out of Africa.
Secondo questa sedicente teoria imposta dalla democrazia per motivi “antirazzisti” come “ortodossia scientifica”, infatti, noi
tutti saremmo i discendenti di un gruppo di sapiens africani migrati dal Continente Nero dopo che l’inverno nucleare
provocato dalla gigantesca esplosione del vulcano indonesiano Toba avvenuta fra 50 e 70.000 anni fa, avrebbe cancellato le
numerose popolazioni pre-sapiens o sapiens arcaiche fin allora esistenti. E’ chiaro che i ritrovamenti di reperti sapiens più
antichi di 70.000 anni (e in questo caso posti a una distanza temporale quasi doppia) tagliano le gambe a questa presunta
teoria, che se non fosse sostenuta dalla censura e dal potere mediatico, dalla disinformazione costante e sistematica, sarebbe
scomparsa da un pezzo nel limbo delle idee sballate o dimostratesi palesemente false.
Un fatto ormai accertato, è che noi caucasoidi, a differenza degli africani “puri” che non ne presentano traccia, abbiamo nel
nostro patrimonio genetico una frazione non trascurabile di geni che derivano dall’uomo di neanderthal. Come ho ribadito
più volte, questo nostro antenato era lontano dall’essere il bruto scimmiesco come spesso lo si continua a raffigurare pur
sapendo che ciò non corrisponde affatto alla realtà.
Ora sembra proprio che noi abbiamo gravemente sottovalutato questi nostri remoti antenati. L’8 marzo il sito “labroots” ha
pubblicato un articolo riportato da “Genomics & Genetics” che ha a sua volta ripreso dalla prestigiosa rivista scientifica
americana “Nature”, a firma della ricercatrice Carmen Leicht, dove si parla di una ricerca condotta da paleoantropologi
australiani dell’Australian Centre for Ancient DNA (ACAD) dell’università di Adelaide in collaborazione con l’università
inglese di Liverpool sui resti di due gruppi di neanderthaliani provenienti da Spy in Belgio e da El Sidron in Spagna. I
ricercatori hanno esaminato la placca dentale dei fossili, che conserva anche per decine di migliaia di anni le tracce del
DNA degli organismi animali e vegetali che questi uomini di tempi remoti ingerirono come cibo.

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La ricerca ha evidenziato una dieta ricca e diversificata sia per gli alimenti di origine animale, sia per i vegetali in entrambi i
gruppi, ma quel che è emerso a sorpresa, ed è probabilmente l’elemento di maggior interesse, è l’uso delle piante officinali
che testimonia una buona conoscenza della farmacopea.
“A quanto pare gli uomini di Neanderthal hanno posseduto una buona conoscenza delle piante medicinali e delle loro
proprietà antidolorifiche e anti-infiammatorie”, riporta l’autrice.
In particolare, fa riferimento a un uomo i cui resti sono stati ritrovati a El Sidron, che soffriva di un ascesso dentario e di un
parassita intestinale che gli doveva procurare attacchi di diarrea acuta. La sua placca conserva le tracce del consumo di
corteccia di salice (che contiene l’acido salicidico, il principio attivo dell’aspirina), e muffa del genere penicillum, da cui in
tempi moderni si è ricavata la penicillina. Gli antidolorifici e gli antibiotici che noi consideriamo le armi di punta della
farmacopea moderna, dunque erano già conosciuti nella remota preistoria dai nostri antenati neanderthaliani!
Aggiungiamo, tanto che siamo in argomento una notizia che viene da ANSA.it del 6 marzo (Naturalmente l’ANSA, così
come “Nature” o anche “Le scienze” o “La Repubblica” – “L’Espresso” dai cui articoli scientifici più volte abbiamo tratto
elementi a sostegno delle nostre tesi, sono tutti siti di estrema, estremissima destra). Sapete di dove erano i neanderthal più
antichi conosciuti in Europa? Romani! Un riesame di resti fossili umani e animali degli insediamenti neanderthaliani della
valle dell’Aniene, ha permesso di stabilire una data di almeno 250.000 anni (con un margine di incertezza fra 295.000 e
245.000 anni) che ne fa in assoluto i più antichi reperti neanderthaliani conosciuti. Lo studio è stato compiuto dai ricercatori
dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) in collaborazione con i paleontologi delle università La
Sapienza, Tor Vergata e Roma 3. Occorre ricordare, riporta l’articolo, che già negli anni ’30 nel non distante sito di
Saccopastore furono rinvenuti due crani neanderthaliani che presentavano caratteristiche di notevole antichità.
Caso singolare, proprio in questo periodo, il 6 marzo, su “MANvantara”, Raffaele Giordano ha riproposto un articolo di
Mario Quagliati già apparso nel 2000 sul sito del Centro Studi La Runa sull’Uomo del Pliocene di Savona. Si tratta di
questo: Nel 1852 a Savona nel corso di lavori di sbancamento fu ritrovato uno scheletro umano pressoché completo sepolto
a circa 3 metri di profondità in un orizzonte stratigrafico risalente al Pliocene (da 5 a 3 milioni di anni fa, all’incirca); le
condizioni del sedimento in cui lo scheletro era incluso, portavano ad escludere che si trattasse di una sepoltura recente
intrusiva in strati molto più antichi. Data l’epoca, il ritrovamento fu accolto dalla comunità scientifica di allora con totale
scetticismo e disinteresse (questo ritrovamento avvenne, è il caso di ricordarlo, sette anni prima della pubblicazione
de L’origine delle speciedi Charles Darwin), e queste importantissime ossa andarono quasi completamente disperse.
Tuttavia, ed è questa la cosa davvero scandalosa, nemmeno in tempi recenti, le poche ossa che si sono conservate, sono state
degnate di un serio studio da parte degli specialisti.
Il perché noi lo comprendiamo molto bene: un serio studio sui resti di un essere umano pienamente umano contemporaneo
dei famosi ominidi africani, e per di più vissuto non in Africa ma in Europa, metterebbe in crisi in modo irrimediabile il
quadretto sulle nostre origini tracciato dalla “scienza” ufficiale, che non ha lo scopo di cercare la verità, ma quello di
avvalorare i dogmi del pensiero democratico.
C’è poi un punto che va evidenziato: siamo in Italia. Mentre altrove esiste la tendenza a ingigantire l’importanza di tutto ciò
che ha a che fare con la propria nazione, da noi sembra che valga la regola opposta: tutto ciò che riguarda il ruolo del nostro
passato nel contesto più vasto della storia umana, sembra che debba essere a tutti i costi minimizzato. Ad esempio perlopiù
si ignora che il più probabile e verosimile antenato comune all’uomo di Neanderthal e a quello di Cro Magnon, l’uomo di
Ceprano (soprannominato anche Argil) è stato ritrovato nel 1994 in Italia, a Ceprano, appunto. E’ vero che questo reperto ha
il difetto fondamentale di rendere più che mai inverosimile una filogenesi africana della nostra specie…
Un discorso a parte andrebbe fatto sulla questione degli ominidi, infatti, anche rimanendo in un’ottica strettamente
evoluzionistica, l’origine africana degli ominidi, gli australopithecus come la famosa Lucy e tutti gli altri, non depone
minimamente a favore della supposta origine africana della nostra specie, anzi per far passare questo discorso occorre
ignorare, primo, il concetto di speciazione allopatrica; ossia è improbabile che una nuova specie si formi nel luogo d’origine
dei suoi predecessori, ma è più verosimile che compaia con mutazioni che avverrebbero in una popolazione ristretta che ha
colonizzato aree marginali, secondo, il considerevole iato temporale che separa la comparsa degli ominidi africani attorno a
4 – 5 milioni di anni fa e l’origine della nostra specie decine o centinaia di migliaia di anni fa, quindi un evento verificatosi
in ogni caso a milioni di anni di distanza dal primo (ma qui credo che l’Out of Africa “giochi sporco”, nel senso che sfrutta
la tendenza dell’uomo della strada a non fare troppo caso ai numeri e agli ordini di grandezza).
Ma, come è facile rendersi conto, questo discorso già traballante finisce a gambe all’aria nel momento in cui si vede che
questi ominidi che secondo la teoria evoluzionista sarebbero stati i nostri lontani precursori, non erano affatto un’esclusiva
dell’Africa. I resti di creature ominidi sono stati trovati ad esempio in India, e sono stati dati loro i nomi
di ramapithecus e sivapithecus in riferimento a due divinità indiane, ma di ominidi a quanto pare ne abbiamo anche in Italia.
In Italia sono noti dal 1875 i resti dell’Oreopithecus Bambolensis, una creatura antropoide, che furono trovati per la prima
volta in una cava di carbone a Monte Bamboli in provincia di Grosseto. Pare che questa creatura, perlopiù classificata come
scimmia antropomorfa, avesse una dentatura di tipo umano e fosse in grado di camminare eretta, cioè presentasse
esattamente quelle caratteristiche che sono servite per diagnosticare in Lucy un precursore dell’umanità. Come se non
bastasse, nel 1983 si parlò con un certo scalpore del ritrovamento di resti di australopiteco in Sicilia, poi della creatura
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battezzata australopithecus siculus non si parlò più per nulla, forse era troppo pericolosa per la “teoria” dell’origine
africana.
Sommando tutto, considerando l’oreopiteco, l’australopiteco siciliano, l’uomo di Savona, quello di Ceprano, i
neanderthaliani vecchi di un quarto di milione di anni, verrebbe da dire “Altro che Out of Africa, è semmai di Out of Italy
che si dovrebbe parlare”, ma sappiamo che ai sostenitori di questa sedicente teoria, la veridicità dei fatti non interessa per
nulla, quello che interessa loro, è spingerci a un atteggiamento di soggezione verso la presunta centralità delle origini
africane, in modo che opponiamo meno resistenza possibile, o non ne opponiamo affatto, all’invasione di cui oggi siamo
oggetto.

Una Ahnenerbe casalinga - quarantasettesima parte


Riprendiamo adesso il nostro discorso sull’eredità degli antenati, verificando quali novità recenti o quali spinti di
approfondimento siano emersi ultimamente.
Bisogna dire che era quasi inevitabile che a un periodo di intensa attività su queste tematiche come è stato quello dell’inizio
del 2017, seguisse un periodo più vuoto. Sempre molto attivo e ricco di articoli e spunti interessanti per la riflessione sulle
nostre origini, è il gruppo facebook MANvantara gestito dal nostro Michele Ruzzai, ma credo che non abbia senso copiare
da esso, e sia meglio rimandarvi piuttosto alla lettura degli articoli in originale.
A meno, naturalmente, che non vi sia qualche spunto idoneo a essere sviluppato per un’analisi più approfondita.

A fine marzo sul gruppo è comparsa una recensione di Michele Ruzzai di un articolo di Michel B. Stringer, La comparsa
dell’uomo moderno, pubblicato su “Le scienze” nel febbraio 1991, dove si evidenzia che “I dati molecolari a sostegno
dell’origine subsahariana di Homo Sapiens in sé stessi non sono così evidenti, in quanto dipendono dal criterio adottato in
partenza per interpretarli”. In poche parole, questo dogma della paleoantropologia, l’Out of Africa non è per nulla così certo
come ci viene dato a intendere, tutto dipende dall’ottica in cui ci si pone, e in pratica non si finisce per trovare altro che
quello che si cerca.
Tuttavia, l’aspetto che ora ci interessa maggiormente di questo scritto è l’albero genealogico della nostra specie disegnato
da Stringer e che io ora qui riproduco. Non è qualcosa di completamente nuovo, l’avevo già riportato in una Ahnenerbe
casalinga precedente, ma vi prego di osservare la parte destra dell’illustrazione, dove ho posizionato la freccetta rossa.
Si nota che oltre alle tre ramificazioni che da homo erectus-heidelbergensis portano all’uomo moderno, Neanderthal,
Denisova, sapiens-Cro Magnon, ce n’è una quarta, più sottile, posizionata all’estremità destra del diagramma. Si tratterebbe
di un sopravvissuto erectus africano che, incrociatosi con sapiens gromagnoidi, avrebbe dato origine al tipo umano che
conosciamo come nero subsahariano. Si tratterebbe di un antenato di cui non abbiamo evidenze archeologiche o
paleoantropologiche, ma che ha lasciato la sua chiara impronta genetica nei suoi discendenti.
La rivista “Le scienze” (“Le scienze”, pensate che fonte di estrema, estremissima destra!) del 2 agosto 2012 ha riportato
un’intervista con Sarah Tishkoff dell’Università della Pennsylvania. La ricercatrice, che è considerata una delle massime
autorità mondiali nel campo della genetica delle popolazioni, ed ecco cosa ci riferisce in proposito:
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“[Vari studi genetici hanno rilevato la presenza di DNA neanderthaliano fra le popolazioni non africane] Ma non tra gli
africani, che non avevano DNA neanderthaliano. Quando abbiamo applicato la statistica agli africani, in compenso,
abbiamo visto molto dati che testimoniano incroci con un ominide che si è separato da un antenato comune circa 1,2 milioni
di anni fa”.
Qualche decina di migliaia di anni fa nell’Africa subsahariana dunque si sarebbe verificato un incrocio tra
popolazioni sapiens di tipo Cro Magnon e un homo erectus molto più antico, separatosi dalla linea principale della nostra
specie qualcosa come un milione e duecentomila anni fa. I neri subsahariani, a quanto pare, sono il frutto di questa
ibridazione e – tra parentesi – si vede quanto giusta sia a tale proposito l’osservazione del nostro Michele Ruzzai che la
maggiore variabilità genetica rispetto ad altre popolazioni umane che si riscontra in Africa potrebbe essere SIA il prodotto
di un’ancestralità della popolazioni nere (come affermano i sostenitori dell’Out of Africa) SIA di un meticciato
relativamente recente, e la genetica conferma quest’ultima ipotesi, non solo, ma essendo il prodotto di un’ibridazione con
un homo tanto antico, separatosi oltre un milione di anni fa dalla linea principale della nostra specie, il nero africano può
essere considerato un vero e proprio passo indietro sulla via che porta a sapiens. Qui non si tratta di speculazioni tipo Ku
Klux Klan, ma di inoppugnabili dati genetici, anche se si evita graziosamente di informare il grosso pubblico di simili
scoperte.
Ultimamente in altri articoli di questa rubrica vi avevo esposto il concetto che l’antirazzismo, il cosiddetto antirazzismo si
incammina lungo la china di tutte le altre utopie, che lo porta a capovolgersi nel suo esatto contrario, un razzismo basato su
di un materialismo biologico che avrebbe fatto arrossire un positivista del XIX secolo, l’esaltazione della “pura linea”
africana in confronto a noi europei e asiatici, ibridi di Neanderthal e di Denisova. Bene, un fatto che ho messo tra parentesi
per non complicare troppo le cose, è che alla prova dei fatti rappresentata in questo caso dagli studi sul DNA, la “linea
africana” si rivela tutt’altro che pura.
Un tema a cui sulle pagine di “Ereticamente” ho accennato più volte, è il razzismo di sinistra, il razzismo peggiore che
possa esistere, che in pratica si traduce in un sistematico odio verso i propri connazionali. Ultimamente, ad esempio, hanno
fatto un certo scalpore le dichiarazioni del ministro del lavoro Poletti secondo il quale i nostri giovani farebbero meglio ad
andare a giocare a calcetto piuttosto che perdere tempo a cercare lavoro mandando in giro curricola. Poco tempo prima lo
stesso individuo (per il quale è difficile usare parole grosse come “uomo” o “persona”), commentando il problema della
fuga dei cervelli, cioè il fatto che i nostri giovani migliori sono costretti ad andare all’estero per trovare sbocchi lavorativi
adeguati alle loro capacità, aveva commentato “Prima si tolgono di torno, meglio è”. In un Paese normale e in una
situazione normale, dopo simili dichiarazioni, un ministro sarebbe stato costretto a dimissioni immediate, ma questo non c’è
pericolo che succeda perché la sinistra che disgraziatamente governa l’Italia, e la stessa cosa vale per quella che oggi è la
sua peggiore complice, la Chiesa cattolica, hanno fretta di veder scomparire gli Italiani nativi e sostituirli coi reflussi
cloacali del Terzo Mondo.
Questo razzismo pratico trova il suo risvolto e il suo appoggio nel razzismo anti-bianco teorico, appunto nell’esaltazione
della “pura linea africana” che esce dalla “teoria” dell’Out of Africa, nonché da echi del “buon selvaggio” rousseauiano,
dalla cosiddetta antropologia culturale di Claude Levi Strauss e da altre farneticazioni di cui la sinistra si è abbondantemente
nutrita e che rientrano puramente e semplicemente nella patologia di un pensiero che non ha nulla a che spartire con la
realtà dei fatti.

Il testo di Stringer, che è del 1991, andrebbe aggiornato alla luce di scoperte più recenti. In particolare, bisogna ricordare
che una ricerca genetica condotta dall’IBE (Istituto di Biologia Evolutiva) di Barcellona avrebbe individuato in tempi
recenti nel DNA dei nativi delle isole Andamane e di altre popolazioni asiatiche le tracce di un altro antenato dell’umanità
attuale oltre ai già conosciuti uomini di Cro Magnon, di Neanderthal, di Denisova nonché all’Homo africano di cui ho detto
più sopra, e in tal modo gli antenati dell’umanità attuale salgono a cinque.
In tutto ciò, vorrei evidenziare, non c’è assolutamente nulla di strano o che contrasti in qualche modo con ciò che
conosciamo e con le regole che valgono per il mondo animale. I nostri animali domestici, ad esempio, provengono spesso
da una pluralità di antenati selvatici, anche perché in cattività si verificano facilmente incroci che allo stato selvatico
avrebbero scarsa probabilità di avvenire, non fosse altro che per la distanza geografica fra le diverse popolazioni. Pensiamo
per esempio ai nostri cani che sono certamente il prodotto dell’incrocio di diverse varietà di lupi (e forse anche di canidi
diversi. Konrad Lorenz, ad esempio, sosteneva che nei nostri cani ci dovrebbe essere una discreta componente genetica
derivata dallo sciacallo), da qui l’estrema variabilità genetica e fenotipica che i nostri fedeli amici presentano, oppure ai
lama, frutto dell’incrocio di diversi camelidi andini quali il guanaco, l’alpaca, la vigogna. In questi casi, naturalmente
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capiamo che i limiti di una specie non sono stati realmente varcati, altrimenti l’ibrido sarebbe sterile come avviene per i
muli. L’uomo, ci dicono gli etologi, è una specie che si è auto-addomesticata, e questo rende ancora più persuasiva
l’analogia.
Tutto ciò non si concilia né con l’Out of Africa né con la favola di Adamo ed Eva raccontata dalla bibbia? Beh, ce ne
faremo una ragione.
I dati della ricerca genetica più recente dimostrano che la nostra è una specie politipica nata dall’incontro di diversi antenati.
Bene, è interessante vedere che il grande oracolo dei nostri tempi, Wikipedia dice esattamente il contrario.
Sull’enciclopedia on line che è divenuta un grande sunto, se non del sapere, quanto meno di quella che dovrebbe essere
la Weltanschauung universale almeno nelle intenzioni di coloro che vogliono imporre a livello planetario il pensiero
unico “politicamente corretto”, alla voce “Uomo”, (Homo sapiens) infatti leggiamo:
“L’attuale variabilità genetica della specie umana è estremamente bassa, comparativamente a quanto succede in altri
raggruppamenti tassonomici animali. (…) la variazione del DNA umano è piccolissima se comparata con quella di altre
specie (…). L’Homo sapiens è una specie monotipica”.
Non vi pare che in tutto questo discorso ci sia qualcosa di strano? Gli esseri umani presentano in maniera evidente
differenze notevoli in termini di aspetto (dal colore della pelle – che non è la cosa più importante per individuare le
appartenenze – alla taglia, ai lineamenti), di comportamento, di reazione agli stimoli, di tempi di maturazione sessuale e via
dicendo, differenze che si notano spesso a colpo d’occhio. Tutto questo corrisponderebbe a una differenziazione genetica
praticamente nulla?
Questa affermazione ripetutamente asserita (orwellianamente, una falsità ripetuta abbastanza a lungo e da fonti “autorevoli”
finisce per diventare “la verità” comunemente accettata) ha una storia interessante. Nel 2001 un “ricercatore indipendente”,
tale Craig Venter annunciò al mondo di aver portato a termine la mappatura del genoma umano e di aver scoperto che il
DNA di tutti gli esseri umani esaminati era praticamente identico, con meno differenze, asserì, di quelle che è possibile
rilevare all’interno di una tribù di una quindicina di antropoidi strettamente imparentati.
In seguito si è venuto a sapere che questa “scoperta” era un falso. Venter aveva sostenuto di aver esaminato il DNA di
centinaia di persone provenienti da ogni parte del mondo, ma in seguito ai dubbi e alle obiezioni di altri ricercatori, ha
dovuto confessare di non aver analizzato altro DNA che il proprio. Ovvio che somigliasse a se stesso ancor più di un
parente stretto! Tanto per capire di che tipo si trattava, qualche tempo dopo è tornato alla carica sostenendo di aver creato la
prima forma di vita completamente artificiale. Anche in questo caso è stato presto sbugiardato, non si trattava di “vita
artificiale”, ma di un batterio nel cui DNA erano stati inseriti dei geni estranei, niente altro che un “volgare” OGM.
Ben presto, di un simile imbarazzante personaggio non si è parlato più, ma la favola che il DNA umano, di miliardi di
individui diversissimi l’uno dall’altro che popolano questo pianeta, sia praticamente identico, è rimasta in circolazione,
infatti come costui aveva sicuramente ben intuito, essa va incontro a un desiderio profondo della democrazia.
Non potendo abolire la natura, questo sistema “di pensiero” profondamente mistificato che conosciamo come democrazia,
vorrebbe che essa fosse identica per tutti e quindi in ultima analisi irrilevante, che tutte le differenze che rileviamo fra gli
esseri umani fossero dovute esclusivamente a fattori ambientali e culturali, e Venter le dava proprio questo.
La mistificazione di Venter s’incontra bene con quella di un altro presunto genetista, Richard Lewontin, che nel 1976
avrebbe “dimostrato” l’inesistenza delle razze umane sulla base di un “ragionamento” così fallace che verrebbe da chiedersi
secondo il detto popolare se “ci è o ci fa” (io personalmente sono sicuro che “ci fa”). Poiché un qualsiasi gene dell’enorme
quantità di essi che forma il DNA umano, può ritrovarsi in un qualsiasi gruppo umano purché scelto con sufficiente
ampiezza, ecco dimostrato che le razze umane non esistono.
Si tratta, come altri genetisti hanno prontamente rilevato, di una fallacia che non tiene conto né della frequenza relativa con
cui un determinato gene compare in determinati gruppi umani, né della correlazione fra i diversi geni, fatto importantissimo
poiché in un organismo complesso come è quello umano, i geni che esprimono da soli un dato carattere fenotipico, sono
pochissimi, e ciascuna delle nostre caratteristiche, dall’altezza all’intelligenza, è perlopiù determinata dalla sinergia fra una
costellazione di geni.
Nonostante questo, si continua a sentir dire in giro, i media ripetono costantemente che “la scienza” avrebbe dimostrato
l’inesistenza delle razze umane, il che è una totale e smaccata falsità.
Un piccolo particolare che rende la cosa ancor più sospetta: Richard Lewontin fa parte di quel gruppo etnico-religioso che
pur costituendo a malapena lo 0,2-0,3% dell’umanità, è di fatto l’autore praticamente del cento per cento di quell’insieme di
“idee” (di aberrazioni e mistificazioni) che conosciamo come modernità, dal marxismo alla psicanalisi, all’antropologia
culturale. Ora, questo gruppo, mentre predica per tutti gli altri la bontà del meticciato, al suo interno pratica l’endogamia più
rigorosa ed esclusiva e mostra di considerare coloro che non appartengono a questo gruppo etnico-religioso, i “goym” allo
stesso livello delle bestie.
Pur trattandosi di tre grossolane bufale, la truffa di Venter, la fallacia di Lewontin e l’Out of Africa, nel loro insieme
costituiscono “la verità scientifica” che l’ortodossia democratica vuole imporre a livello planetario.

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TRE MENZOGNE NON FANNO UNA VERITA’ tranne che nell’universo
orwelliano della democrazia dove appunto “la menzogna è verità” e “la
schiavitù è libertà”.
Menzogne che attraverso la ripetizione ipnotica da parte del sistema mediatico
hanno il preciso scopo di intontire le nostre coscienze e di non farci vedere o
non farci dare importanza alla tragedia oggi in atto della sostituzione della
popolazione europea con masse allogene di immigrati, l’eliminazione definitiva
dei popoli d’Europa percepiti dal quel famoso 0,2-0,3% come una minaccia.
Sarà forse il caso di ricordare che proprio qui da noi a Trieste, alla Casa del
Combattente, organizzata dal Circolo Identità e Tradizione e dall’Associazione
Humanitas, sabato 8 aprile abbiamo avuto un incontro con Fabrizio Fiorini,
direttore responsabile de “L’uomo libero” una delle più importanti e battagliere
pubblicazioni della nostra Area, e che io ho avuto il piacere e l’onore di
introdurre. Non a caso, l’ultimo numero della rivista è una monografia che
s’intitola “La battaglia dei popoli per continuare a esistere”, perché dovrebbe
essere ben chiaro a tutti che ormai non è più tempo di indugi e che la lotta
definitiva per la sopravvivenza dei popoli europei è cominciata.

Una Ahnenerbe casalinga - quarantottesima parte

La frustrazione in cui incorrono i naturalisti è un fenomeno piuttosto noto. Nel momento in cui scopriamo sempre nuove
specie animali e vegetali che formano la ricchezza e la bellezza della vita sul nostro mondo, le vediamo scomparire per
effetto dell’azione umana sulla biosfera, al punto che il lavoro dei naturalisti in ambienti ricchi di vita ma minacciati e
fragili come sono ad esempio le foreste tropicali, diventa una specie di corsa per arrivare a scoprire e catalogare nuove
specie prima che l’inquinamento e la deforestazione le trascinino nell’estinzione.
Studiando le nostre origini, il passato della nostra specie, capita di avvertire una frustrazione dello stesso genere.
Prescindiamo dal fatto che questo genere di ricerche è ovviamente malvisto dalla “cultura” democratica che cerca di
imporre forzatamente il dogma dell’uguaglianza, ma proprio mentre scopriamo la ricchezza e la complessità della nostra
storia grazie anche a strumenti di indagine un tempo non disponibili come la ricerca sul DNA, assistiamo a un imponente
tentativo di cancellare la diversità umana attraverso l’imposizione del meticciato a livello planetario, un piano nemmeno
tanto occulto per portare all’estinzione la parte dell’umanità più intelligente e creativa, quella caucasica di cui noi stessi
facciamo parte.
Per un altro verso, è sorprendente come questo quadro che possiamo tracciare delle nostre origini e della storia della nostra
specie si arricchisca sempre di più. Io stesso anni fa sarei stato lontano dal credere che questi miei scritti su “Ereticamente”
si sarebbero potuti trasformare in una sorta di rubrica più o meno fissa.
Ho appena finito di lamentarmi la volta scorsa del fatto che lo scenario appare un po’ vuoto a confronto di quello d’inizio
d’anno che, quasi in risposta alla mia invocazione, è arrivata “una botta” di novità e segnalazioni sui siti “di Area”. Questo
interesse per le tematiche delle origini è molto importante, segna la differenza tra noi e una “cultura” che vorrebbe annullare
qualsiasi differenza fra gli esseri umani e chiuderci gli occhi di fronte alla sparizione delle etnie europee. Noi non abbiamo i
mezzi per contrastare sul suo stesso piano una “cultura” mediatica che avvelena la gente di falsità ideologiche, a cominciare
dalla scuola e poi, in crescendo, attraverso tutto il sistema della cosiddetta informazione, ma è importante formare nei nostri
ambienti un’élite intellettualmente preparata e consapevole, “portare avanti lo zaino”, come diceva il grande Gianantonio
Valli.
Quelli che andiamo a vedere, sono ulteriori tasselli che si inseriscono in un puzzle le cui linee generali ci sono ormai chiare,
ma di cui siamo in grado ora di dare nuove conferme peraltro importanti: diciamo che emerge con sempre maggiore
chiarezza l’insostenibilità dell’Out of Africa, la “teoria”, ma sarebbe meglio dire la bufala che il dogmatismo democratico
vorrebbe imporre come interpretazione “ufficiale” delle nostre origini, ed emerge sempre più nettamente il fatto che quella
umana è una specie politipica al cui interno esistono evidenti differenze non solo di aspetto esteriore e di comportamento,
ma anche chiare disomogeneità genetiche che di sicuro non sono riconducibili all’influenza dell’ambiente, che discendiamo
da una pluralità di antenati variamente etichettati come pre-sapiens.

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Una volta di più, mi rifaccio all’eccellente lavoro di documentazione portato avanti dal gruppo facebook “MANvantara”
gestito dal nostro ottimo amico Michele Ruzzai. Qui in data 24 marzo un collaboratore ha segnalato una comunicazione già
apparsa su ANSA.it lo scorso 28 luglio (come sempre, occorre dire che se non assumesse grazie a queste persone la
dimensione di un lavoro collettivo, la nostra ricerca sarebbe estremamente improba, perché “la rete” è un mare magnum, e
l’universo delle pubblicazioni scientifiche lo è ancora di più, e non sempre ciò che è davvero rilevante emerge con facilità.
Io spero che perdonerete l’intervallo di parecchi mesi).
Una ricerca condotta da Erik Trinkhaus della Washington University di St.Louis con l’ausilio della microtomografia, ha
dimostrato la presenza in un cranio umano proveniente dal nord della Cina, datato a 100.000 anni fa e dalle
caratteristiche sapiens moderne (Un momento, ma la teoria “classica” non prevedeva che i sapiens moderni avessero
cominciato a diffondersi per il nostro pianeta provenendo dall’Africa non prima di 70.000 anni fa, dopo la presunta
catastrofe dell’eruzione del vulcano indonesiano Toba? Mistero!) di canali semicircolari e labirinto dell’osso temporale in
una conformazione finora ritenuta tipica dell’uomo di neanderthal, al punto da essere stata usata spesso in passato per
decidere se classificare frammenti cranici umani come neanderthaliani o sapiens moderni.

Noi abbiamo visto che questo nostro antenato da cui noi, noi europei ma non gli africani, abbiamo ereditato una frazione
non trascurabile del nostro patrimonio genetico, l’uomo di neanderthal, in passato l’abbiamo gravemente sottovalutato,
quest’uomo che costruiva probabilmente per motivi di culto circoli di stalagmiti nella profondità delle caverne, che
conosceva i principi degli antibiotici e degli antidolorifici. Ora abbiamo una prova in più del fatto che fra lui e il sapiens
“moderno” ci poteva essere una differenza razziale, ma non di specie.
Rimanendo sempre in questo orizzonte temporale delle più remote origini umane, e parlando sempre di informazioni sparse
nella rete che riviste oggi alla luce di altre informazioni, acquistano una rilevanza ben maggiore, sempre in “MANvantara”,
stavolta del 14 aprile, il nostro Michele Ruzzai ha “ripescato” un articolo pubblicato sul sito di “Le scienze” oltre 10 anni fa,
ma che oggi si presta a una “lettura” molto più pregnante, La straordinaria diversità dei melanesiani, pubblicato in data 28
febbraio 2007.
Secondo quanto è qui riportato, l’antropologo Jonathan Friedlander della Temple University di Philadelphia ha studiato per
15 anni il DNA mitocondriale, quello che si eredita per via materna, delle popolazioni melanesiane, giungendo alla
conclusione che esso presenta della caratteristiche uniche che non si ritrovano in alcuna altra parte del mondo.
Noi oggi siamo in grado di ipotizzare che questa differenza non derivi solo dall’isolamento in cui queste popolazioni
vivono, ma vi si può ipotizzare la traccia genetica o dell’ancora poco conosciuto uomo di Denisova o del “quarto antenato”
(diverso da Cro Magnon, Denisova e Neanderthal) le cui tracce genetiche sarebbero state individuate in alcune popolazioni
asiatiche dai ricercatori dell’IBE (Istituto di Biologia Evolutiva) di Barcellona. Senza considerare anche il fatto che questo
“quarto antenato” sarebbe in realtà un quinto, considerando anche l’incrocio con un homo vecchio 1,2 milioni di anni, da cui
sarebbero derivate le popolazioni africane.
In ogni caso si vede bene, come tutto ciò rafforzi la convinzione che le origini della nostra specie siano complesse e molto
distanti dalla semplicistica formulazione dell’Out of Africa.
La questione delle origini, l’abbiamo visto più volte, si situa a diversi livelli. Dopo la questione più generale e remota
dell’origine della nostra specie, si situa certamente quella dei popoli europei e indoeuropei. Occorre innanzi tutto
sottolineare un fatto: noi possiamo ovviamente discutere su quali popolazioni di ceppo caucasico che hanno popolato
l’Europa dalla remota preistoria a oggi appartenessero alla variante indoeuropea, parlassero lingue appartenenti a questa
famiglia linguistica, e quali appartenessero invece a una diramazione diversa, per acquisire magari poi in epoca storica un
linguaggio indoeuropeo come effetto della conquista e della dominazione da parte di altre popolazioni, ma resta il fatto
primario e incontrovertibile che da decine di migliaia di anni l’Europa è popolata da genti di ceppo caucasico, con una
compattezza etnica che non si ritrova in altre parti del nostro pianeta, e questa compattezza etnica è la molla che ha messo
l’Europa per millenni alla testa della civiltà umana. Bene questo è proprio ciò che oggi si vuole distruggere con la creazione
dovunque di una società multietnica, cioè ibrida e imbastardita, un situazione assolutamente innaturale, che non ha
precedenti nella storia, e dalla quale abbiamo già visto che ci possiamo aspettare solo tragedie.

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I democratici, gli antirazzisti, coloro che sostengono che noi possiamo trarre un qualche beneficio dal mescolamento etnico,
o sono in malafede, o sono dei folli completamente al di fuori della realtà, anche se le due possibilità non si escludono
necessariamente a vicenda.
Tutto ciò va tenuto presente assieme al fatto che l’essenziale non è parlare una lingua indoeuropea, ma appartenere al ceppo
caucasico, altrimenti dovremmo considerare un afroamericano “un germanico”.
In questa chiave, nel tentativo di decifrare le origini pre- e proto-indoeuropee del nostro continente, sempre nell’ambito di
un popolamento indiscutibilmente caucasico, va letto il testo di Elisabeth Hamel, Theo Vennemann e Peter Foster La lingua
degli antichi europei pubblicato in “Le scienze” del luglio 2002, ma recensito dal nostro Michele Ruzzai su “MANvantara”
lo scorso 23 marzo. Qui si formula un’interessante ipotesi linguistica, quella che è stata denominata “vasconica”: circa
18.000 anni fa, partendo dalla zona pirenaica vi sarebbe stato un antico popolamento accompagnato da un’espansione
linguistica che avrebbe interessato la Penisola iberica, la parte occidentale della Francia, le Isole Britanniche, e di cui gli
attuali Baschi sarebbero il residuo. Gli autori connettono questo antico popolamento alla cultura magdaleniana.
Il dato più importante, però, fa rilevare Ruzzai, è che la maggior parte del nostro patrimonio genetico risale al paleolitico
superiore e non al neolitico, il che sbarra la strada a qualsiasi ipotesi di derivazione degli Europei e degli Indoeuropei dal
Medio Oriente come supposto dalla teoria nostratica, ampiamente sconfessata dai dati della genetica (anche se, come nel
caso dell’Out of Africa, si evita di farlo sapere in giro).
Il lavoro che il nostro amico e gli altri collaboratori del gruppo (con l’eccezione, ovviamente, dei miei articoli) stanno
conducendo su “MANvantara” non si può definire altro che eccellente, ma non si tratta dell’unica voce che c’è in questo
momento sulla scena, dell’unica cosa che meriti seguire. Un gruppo parallelo e molto simile è “Frammenti di Atlantide-
Iperborea” gestito da Solimano Mutti. In data 14 aprile, Mutti ha condiviso in questo gruppo un interessante articolo di
Alexander Dugin su Herman Wirth (il titolo del testo, che è in inglese, si può tradurre come Le rune, il grande yule e la
patria artica). Il motivo di interesse di questo articolo è doppio; infatti Alexander Dugin è oggi un po’ l’ideologo della
nuova Russia post-comunista di Putin, ed evidenzia molto bene il fatto che la riscoperta dell’identità profonda dei popoli
europei è oggi uno strumento essenziale per opporsi alla valanga democratica-liberal-mondialista che tutto vorrebbe
sommergere e costringere entro le pastoie del pensiero unico, ed Herman Wirth è stato una figura chiave della Ahnenerbe
nazionalsocialista e uno dei più importanti sostenitori dell’origine artica della nostra specie, in contrasto con l’ipotesi
africana “democraticamente” imposta (anche in spregio ai fatti) che come sappiamo, oggi va per la maggiore.
L’opera più importante di Wirth, Der Aufgang der Menschheit, L’aurora dell’umanità, non è mai stata ripubblicata in Italia
in questo dopoguerra, ma nel 2013 la Effepì ne ha ripubblicato l’introduzione. Guarda caso, una recensione di questa
pubblicazione, ad opera – indovinate un po’ – del nostro infaticabile Michele Ruzzai, è apparsa su “MANvantara” in data
10 aprile.
Un livello più vicino a noi riguarda l’origine degli Italici, e anche qui è davvero sorprendente quante sciocchezze e quante
falsità siano state ricamate e continuino a essere ricamate dalla propaganda di regime democratica, pretendendo che il nostro
popolo abbia una totale incoerenza dal punto di vista etnico-ereditario-genetico. Questo, lo sappiamo, è totalmente falso,
l’ennesima menzogna della democrazia per indurci ad accettare la sparizione della nostra gente nel diluvio multietnico. Gli
Italici, lo sappiamo, sono una componente del ceppo indoeuropeo insediati nella nostra Penisola da tempo immemorabile e
ben prima della nascita dello stato romano, una realtà che dal punto di vista etnico-genetico, le invasioni e le dominazioni
che l’Italia ha subito nei secoli tra la caduta di Roma e il
risorgimento, hanno modificato ben poco, essendo perlopiù
questi invasori assolutamente esigui in termini numerici.
Questa è la pura e semplice verità, e il resto sono frottole
nelle quali le smanie separatiste di questo e di quello si
mettono senza accorgersene al servizio del potere
mondialista, che intende far sparire come nazione noi e gli
altri popoli europei.
Ricordo un bell’articolo di Maurizio Blondet di diversi anni
fa, in cui l’autore, analizzando il significato del motto SPQR
“Senatus popolusque romanus”, faceva notare che
“populus” in latino viene da “populor”, “saccheggiare”,
“devastare”, e il termine in origine indicava i giovani che
venivano allontanati dai villaggi durante la Primavera Sacra
a cercare di fondare altrove nuove comunità o a vivere la
vita dei briganti e dei predoni. Il motto adombrerebbe un episodio nel quale i giovani fuorusciti sarebbero rientrati con la
forza nella Roma delle origini imponendosi agli anziani, il “senatus”. Ci appare l’immagine di una romanità ancestrale forse
meno “civile” ma più ricca di energie vitali (senza le quali non sarebbe mai potuta diventare un impero esteso dalle Isole
Britanniche all’Arabia) di quel che forse avevamo immaginato, più simile allo spirito “barbarico” degli antichi Celti e
Germani.
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Il problema è se oggi questa povera nostra Europa intossicata di democrazia, marxismo e cristianesimo possa essere in
grado di ritrovare questo “barbarico” spirito vitale, quando vediamo persino i discendenti dei vichinghi piegarsi
all’arroganza islamica in casa loro. Non è forse un caso che il 18 aprile Luigi Leonini, un altro di quegli amici senza i quali
tenere questa rubrica risulterebbe estremamente difficoltoso, ha postato in internet un bell’articolo di Guillaume Faye già
apparso su “ComeDonChisciotte”, dove si enuncia un concetto molto importante: La guerriglia etnica è cominciata. Per ora
si parla della Francia, ma non c’è dubbio che il resto dell’Europa seguirà a ruota. In poche parole: tra gli atti di terrorismo
jihadista e la violenza e la criminalità spicciole che gli invasori sedicenti immigrati praticano a ogni livello dovunque
mettano piede, favoriti dal buonismo suicida democratico-cristiano-marxista, esiste una sostanziale continuità, e il
messaggio è estremamente chiaro: “Questa non è più la vostra terra, è terra nostra”.
Rimane solo da sapere se noi Europei vogliamo sparire nell’ombra in silenzio, o se vogliamo combattere per difendere
l’eredità degli antenati e il futuro dei nostri figli.
NOTA
La prima illustrazione che correda questo articolo è un’immagine composita. Vediamo a sinistra l’immagine di copertina
del gruppo facebook “Frammenti di Atlantide-Iperborea”. In modo non diverso da “MANvantara”, si tratta anche in questo
caso di un’aurora boreale. L’altra immagine è la copertina dell’introduzione a L’aurora dell’umanità di Herman Wirth
pubblicata dalla Effepì.
Nella seconda illustrazione, l’immagine a sinistra è la ricostruzione delle fattezze di un uomo di Neanderthal (una
ricostruzione recente, tratta da un articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” del dicembre 2014), a destra abbiamo invece
un’odierna “risorsa” africana. Secondo la “teoria” dell’Out of Africa, il primo sarebbe un ominide estinto privo di
connessioni con noi; il secondo invece il tipo più vicino al modello ancestrale del vero homo sapiens moderno da cui tutti
noi discenderemmo.

Una Ahnenerbe casalinga, quarantanovesima parte – Fabio Calabrese

Questo nuovo numero della nostra Ahnenerbe casalinga, della nostra ricerca dell’eredità degli antenati si pone su di un
piano di stretta continuità con la quarantottesima parte.
Oramai, io penso, il quadro che possiamo tracciare delle nostre origini, che abbiamo disegnato in tutti questi anni, è chiaro, i
suoi punti salienti sono, come sappiamo, la dimostrazione della falsità della “teoria” dell’Out of Africa, a cui va invece
contrapposta quella dell’origine boreale della nostra specie, della falsità di quell’altra cosiddetta teoria del nostratico, che
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vorrebbe i popoli indoeuropei provenienti dal Medio Oriente e la diffusione delle lingue indoeuropee nel nostro continente
il risultato dell’espansione di comunità di agricoltori di origine mediorientale (il che abbiamo visto, non solo non trova
riscontro nella genetica, ma l’origine mediorientale dell’agricoltura è fortemente discutibile), quando invece essa appare
collegata all’espansione di cavalieri e allevatori delle steppe eurasiatiche.
Abbiamo visto, e ci siamo soffermati molto su questo punto, che del pari vanno rifiutate tutte quelle interpretazioni che
tenderebbero a far risalire l’origine della civiltà europea a fattori esogeni, piuttosto che alle capacità creative degli Europei
stessi, e infine per quanto riguarda le nostre origini come italici, abbiamo visto che la nostra nazione esiste dal punto di vista
genetico, e non è come vorrebbe la vulgata “democratica” e pro-invasione un puzzle di genti provenienti da ogni parte del
mondo, ma un popolo rientrante nella famiglia indoeuropea, con una precisa identità genetica, oltre che storica e culturale.
Rispetto a questo quadro ormai ben delineato, non ci sono da aspettare novità che possano sconvolgerlo radicalmente, ci
sono semmai tasselli da aggiungere per rendere il quadro delle nostre origini sempre più preciso e completo o, se vogliamo,
una serie di conferme.
Come già la quarantottesima che l’ha preceduta, questa parte sarà per così dire “di servizio”, un aggiornamento di ciò che è
comparso recentemente riguardo alla tematica delle origini sui siti “di area”, e diciamo subito che è un fatto importante che
nei nostri ambienti la sensibilità riguardo a queste questioni sia sempre viva, è il miglior modo di contrapporsi, di marcare la
distanza rispetto a una “cultura” mondialista che vorrebbe fare di tutti noi degli sradicati senza identità per poterci
manipolare a piacere.
Un concetto che forse è l’occasione giusta per ribadire, è che noi non siamo estremistiperché non siamo l’estremità di nulla,
siamo i portatori di una visione del mondo radicalmente contrapposta a quella democratica-liberal-marxista oggi imposta ai
popoli europei per favorirne l’estinzione.
Andando dal demo-liberal all’americana e spostandosi man mano verso sinistra fino ai Centri Sociali, noi troviamo una
radicalizzazione di metodi e di obiettivi, ma tutti quanti – possiamo dire – partecipano in ultima analisi della stessa visione
del mondo caratterizzata dall’illusione progressista, dal disinteresse per le origini e l’identità etnica dei popoli, dalla
concezione dell’uomo come individuo atomizzato mosso soltanto dai puri meccanismi economici e dalla ricerca del
soddisfacimento delle pulsioni elementari, ciò che appunto vogliono farci diventare attraverso una pedagogia che è una
profezia che si auto-adempie. Già alla nostra “immediata sinistra” (e perdonatemi questo certamente improprio linguaggio
parlamentare), troviamo una destra conservatrice con cui non abbiamo nulla a che spartire.
E’ appunto in relazione a quest’ottica che va collocato il permanente interesse per le nostre origini, le nostre radici, la nostra
identità, interesse che non è erudito e accademico, ma è un fatto politico.
E’ quasi inevitabile, ma anche questa volta cominciamo dal nostro amico Michele Ruzzai che in data 25 aprile
(evidentemente anche in questa data si può fare qualcosa di meglio che celebrare la sedicente “resistenza”, il servilismo
della parte peggiore del nostro popolo nei confronti degli invasori vincitori del secondo conflitto mondiale), ha riproposto
nel gruppo facebook “Frammenti di Atlantide – Iperborea” un suo post già pubblicato su “MANvantara” in data 21 febbraio
2016.
(Anche questa – per inciso – è una cosa importante, il fatto che fra i vari gruppi e le presenze dell’Area si crei un clima di
sinergia piuttosto che di concorrenza e antagonismo).
Questo post è la sintesi di un articolo di Giampiero Petrucci pubblicato su MeteoWeb il 17 dicembre 2012, e riguarda la
cosiddetta frana di Storegga, un evento geologico di vasta portata che si sarebbe verificato circa 8.000 anni fa: un’immensa
frana sottomarina che avrebbe colpito il Mare del Nord e l’Atlantico settentrionale provocando un enorme tsunami che
avrebbe investito le coste della Norvegia, della Scozia, delle Faer Oer, delle Shetland fino al Circolo Polare, l’Islanda e la
Groenlandia, nonché altre terre allora emerse (ricordiamo che in età glaciale il livello degli oceani era considerevolmente
più basso) in corrispondenza di quello che oggi è il Banco di Rockall, forse la Avalon delle leggende celtiche, forse
Atlantide ricordata da Platone.
Questo gigantesco tsunami dovette provocare una migrazione massiccia verso sud-est delle popolazioni costiere interessate.
Si tratterebbe della “migrazione trasversale” di cui hanno parlato sia Hermann Wirth sia Julius Evola, e che avrebbe avuto
un ruolo chiave nella diffusione delle lingue indoeuropee sul nostro continente.
Una tappa importante di questo processo migratorio sarebbe stata una terra all’epoca sicuramente emersa e oggi sommersa
dall’innalzamento degli oceani, che si trovava fra le Isole Britanniche e la Danimarca in corrispondenza dell’attuale Dogger
Bank e che gli archeologi hanno denominato Doggerland.
Tuttavia, il punto centrale della questione che l’amico Michele Ruzzai giustamente rimarca, è forse un altro: la “direttrice di
marcia” di questa migrazione coincide con la diffusione di quella che il genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza ha chiamato “la
prima componente principale” del patrimonio genetico delle popolazioni europee. Ora, bisogna tenere presente che
mappando le componenti genetiche di una popolazione, noi ne otteniamo una rappresentazione bidimensionale: possiamo
cioè vedere che in questo caso la componente si è diffusa lungo la direttrice da nord-ovest a sud-est o viceversa, ma non
siamo in grado di dire quali siano i punti di partenza e di arrivo, conosciamo la direzione ma non il verso.
Ovviamente, in obbedienza all’ortodossia “scientifica” dominante, Cavalli-Sforza fa partire la diffusione della prima
componente principale non da nord-ovest, ma da sud-est, essa sarebbe cioè il risultato dal punto di vista genetico, della
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colonizzazione dell’Europa da parte di quei famosi quanto fantomatici agricoltori di origine mediorientale previsti (o
immaginati) dalla “teoria” del nostratico. Ebbene, fa notare Michele Ruzzai, non solo ciò non può essere provato, ma il
punto d’origine della migrazione viene a essere del tutto incongruo, se consideriamo tale l’estremità sud-orientale invece di
quella nord-occidentale, infatti esso verrebbe a cadere non nella Mezzaluna Fertile, ma nel deserto arabico, un’area che non
può aver mai ospitato popolazioni umane numericamente consistenti.
Ma sappiamo che in democrazia “la scienza” non serve a ricercare la verità, ma a riconfermare i dogmi democratici stessi,
per quanto assurde possano essere le loro implicazioni.
In data 11 maggio, il sito GenealogiaGenetica ci racconta una storia davvero interessante: la società svizzera iGENEA
avrebbe portato a termine l’analisi del DNA della mummia del faraone Tutankhamon ottenendo dei risultati davvero
sorprendenti.
Come è noto, questo giovane faraone, salito al trono bambino e morto a un’età compresa fra i diciotto e i diciannove anni,
non ha avuto molto peso nella storia egizia, ma il ritrovamento della sua tomba a opera di Howard Carter, tomba che,
miracolosamente sfuggita ai saccheggiatori che hanno operato per millenni nella Valle del Nilo, ci ha restituito uno
splendido corredo funerario praticamente intatto, ne ha fatto il faraone più conosciuto e popolare, al punto da oscurare la
fama di grandi condottieri come Ramesse II.
Ebbene, le analisi del suo DNA condotte dalla iGENEA dimostrano che il giovane faraone era portatore dell’aplogruppo
R1b1a2 del cromosoma Y, vale a dire quello tipico delle popolazioni dell’Europa occidentale. E’ una prova in più, che si
affianca a numerose altre. Ricorderete che tempo addietro avevamo parlato di un esame della mummia di Ramesse II, a
differenza di Tutankhamon morto a tarda età, ultraottantenne sembra, che aveva rivelato che il faraone negli ultimi anni si
tingeva i capelli con l’henne, ma da giovane doveva averli biondo-rossicci. Non si possono ormai nutrire dubbi sul fatto che
l’antica élite egizia rappresentasse un tipo umano nettamente diverso dal resto della popolazione, avesse cioè origini
europee, e questo spiega lo strano mistero di una civiltà che sembra nascere adulta, e poi nel corso della sua storia non
conosce ulteriori evoluzioni, ma semmai una progressiva decadenza (ad esempio, si perdono le tecniche relative alla
costruzione delle piramidi, i cui esempi appartengono tutti alla fase più antica della storia egizia), che noi possiamo
ipotizzare parallela all’affievolirsi del sangue di origine europea nelle sue classi dominanti.
E’ sempre più chiaro che storici e archeologi “ufficiali” che ipotizzano un’origine mediorientale della civiltà, un’influenza
mediorientale sulla civiltà europea, girano (volutamente?) il binocolo dalla parte sbagliata: è semmai un’influenza e un
apporto etnico a livello di élite, sull’Egitto ma non solo sull’Egitto, ci sono indizi che fanno pensare che per l’area
mesopotamica valga esattamente lo stesso discorso, dell’Europa sul Medio Oriente.
Io non vorrei che si pensasse che io ritenga tutto quello che scrivo di una particolare rilevanza solo perché porta in calce la
mia firma, ma solo per completezza dell’informazione, vi informo che un uno dei prossimi numeri de “L’uomo libero”, la
bella rivista fondata da Mario Consoli e oggi diretta da Fabrizio Fiorini, sarà pubblicato il testo della mia conferenza “Alle
origini dell’Europa”, da me tenuta qui a Trieste alla Casa del Combattente sabato 11 marzo. Il motivo per cui non mi è
sembrato opportuno proporre questo testo su “Ereticamente” è semplice, perché in realtà ve lo trovate già pubblicato, si
tratta della giustapposizione dei due primi articoli della serie Ex Oriente Lux, ma sarà poi vero?
Questa conferenza si è posta in una situazione di continuità rispetto alle due tenute da Michele Ruzzai il 27 gennaio e il 24
febbraio, che hanno trattato rispettivamente de Le radici antiche degli Indoeuropei e Patria artica o madre Africa?
Precisamente nell’ottica di un completamento di questa rassegna sulla tematica delle origini, è previsto che io tenga
un’altra conferenza, dedicata stavolta alle nostre origini italiche.
A un livello più vicino a noi, infatti, c’è un’altra menzogna “democratica” e “politicamente corretta” che i media di regime,
fra i quali vanno sciaguratamente comprese anche le istituzioni scolastiche, cercano di instillarci a tutti i costi, l’idea che gli
Italiani sarebbero un popolo meticcio, frutto di innumerevoli innesti di popolazioni provenienti da ogni dove. Questa è una
smaccata falsità che ha il preciso scopo di darci a intendere (di illuderci) che la massiccia immigrazione di cui oggi siamo
oggetto (vittime!) in ultima analisi non cambierebbe un granché.
Si tratta di qualcosa di cui abbiamo già parlato più volte, denunciandone la “democratica” falsità. Le invasioni e le
dominazioni che la nostra Penisola ha disgraziatamente subito nel corso dei secoli tra la caduta dell’impero romano e il
risorgimento, hanno sempre rappresentato un apporto etnico-genetico del tutto trascurabile o inesistente, anche perché
l’assoggettamento politico è una cosa, la colonizzazione da parte di un invasore tutta un’altra, e questo è un destino che ci è
stato finora risparmiato.
Il popolo italiano (ma forse sarebbe meglio dire italico, perché quella che conta è l’appartenenza etnica, di sangue, mentre la
cittadinanza burocratica, l’aver scritto “Repubblica italiana” su un pezzo di carta vale meno di nulla), è un popolo
appartenente al ceppo delle genti indoeuropee, che ha una sua coerenza etnica e una sua fisionomia che si sono mantenute
nei millenni da già prima della formazione dello stato romano, ed è questa coerenza etnica la base a partire da cui si sono
sviluppate la cultura e la civiltà italiane, la nostra eccellenza in campo artistico e culturale.
Anche a questo riguardo, forse non servirebbe ribadirlo una volta di più ma repetita iuvant, c’è un’altra menzogna prodotta
da quell’apparato di imposture e veleni che conosciamo come democrazia, che occorre decisamente smentire, la
presunzione che la creatività delle culture umane e la civiltà nascerebbero dall’incontro e dall’ibridazione tra culture
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diverse: l’ibridazione e il meticciato possono produrre solo popoli parassiti in grado di impadronirsi, di riciclare ciò che è
stato fatto da altri, ma incapaci di per sé di creare alcunché: la massa ibrida di sradicati di sangue misto che oggi popola (o
impesta) quel deserto intellettuale che si trova tra Messico e Canada ne è un chiaro esempio, e non si può considerare
altrimenti che con orrore la prospettiva che anche l’Europa si appresta a essere ridotta allo stesso modo.
Io credo che il quadro teorico, la realtà dei fatti e delle conoscenze che possiamo opporre alle menzogne della sedicente
democrazia, menzogne che non sono altro che un veleno soporifero inteso a favorire la nostra scomparsa per sostituzione
etnica, sia ormai abbastanza chiaro. Quello che conta ancora veramente sapere, è se abbiamo la forza e la volontà, e saremo
capaci di mobilitare le energie necessarie per evitare questo destino a noi stessi, ai nostri figli, ai nostri discendenti.
NOTA: Nell’illustrazione che correda questo articolo, da sinistra: la frana di Storegga, la maschera funeraria del faraone
Tutankhamon, e la locandina della mia conferenza.

Una Ahnenerbe casalinga, cinquantesima parte – Fabio Calabrese

Cinquanta, cifra tonda: un obiettivo che solo qualche anno fa avrei detto impossibile da raggiungere. Io penso che capirete e
sarete d’accordo con me, se questa volta dedicheremo questo capitolo della ricerca delle nostre origini a una riflessione sul
lavoro sin qui svolto, che non vuole essere auto-celebrativa, ma un soffermarsi considerando la strada trascorsa, un
riprendere fiato per slanciarsi di nuovo in avanti, ben sapendo che non è il caso di riposare sugli allori, e che il cammino
davanti a noi è ancora impervio.
Io vorrei per prima cosa ringraziare un lettore che tempo fa in un commento ha espresso il concetto che in effetti in questa
mia piccola Ahnenerbe non ci sarebbe nulla di casalingo se con questa parola vogliamo intendere qualcosa di dilettantesco.
Lo ringrazio, ma penso che il mio modesto lavoro non si possa certo confrontare con quello che è stato proprio della Società
Ahnenerbe del Terzo Reich, gli ingenti mezzi che lo stato tedesco di allora impiegò nell’indagine sull’eredità degli antenati.
Il mio è un lavoro personale, one man’s band, anche se difficilmente senza la ricchezza di tematiche offerte dal web e le
segnalazioni di alcuni volonterosi amici, sarei riuscito a portarlo avanti.
Io penso che sia persino superfluo ribadire il concetto che questo lavoro non ha per nulla delle finalità accademiche: l’idea
del nostro passato, della storia percorsa dalle remote origini a quel che siamo noi oggi, è una componente essenziale
dell’idea che abbiamo di noi stessi, che a sua volta è la premessa dell’agire attuale, in politica e in tutti i campi. Da questo
punto di vista, dovrebbe essere chiaro che quel che ci viene presentato e ammannito, ribadito in tutte le occasioni da un
imponente sistema mediatico-propagandistico, non è “scienza” in campo storico-antropologico, se per scienza intendiamo
un sapere nato dalla ricerca onesta e disinteressata della verità, ma è piuttosto un più o meno abile sistema di mistificazioni
il cui scopo è quello di legittimare il potere “democratico” che ci domina.
Tralasciamo qui – per carità – la questione filosofica se sia o meno attingibile all’uomo la verità in senso assoluto o se ogni
nostra conoscenza, ogni nostra verità sia in ogni caso parziale e soggettiva. Diciamo che perlomeno c’è una differenza fra
gli esiti di una ricerca del vero imparziale e disinteressata e una frode deliberata o una conclusione distorta a cui può
arrivare un ricercatore anche in buona fede cui sono state fornite premesse e modi di pensare fraudolenti che lo fuorviano.
Noi possiamo vedere la tematica delle origini come una sorta di imbuto rovesciato: tanto più si allarga, quanto si risale
indietro nel tempo.
Io non mi sono occupato, e non mi sembra il caso di farlo ora, di questioni vaste e remote come l’origine dell’universo, del
sistema solare o della vita sulla Terra, questioni forse al di là della nostra portata. Il problema delle origini nella nostra ottica
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mi pare si possa suddividere in quattro livelli: l’origine della specie umana, quella dei popoli indoeuropei, l’origine della
civiltà sul nostro continente, e – questione spesso trascurata sebbene ci tocchi da vicino – quella della nazione italiana, della
nostra identità, in definitiva, come genti della Penisola italica.
Vediamo al riguardo cosa ci racconta la “scienza” ufficiale, vale a dire l’ortodossia di regime:
Riguardo alla prima tematica, la vulgata che ci viene imposta è oggi rappresentata dall’Out of Africa, la “teoria” secondo la
quale la nostra specie si sarebbe originata sul continente africano, e il nero subsahariano rappresenterebbe il modello
ancestrale dal quale tutti noi discenderemmo. Riguardo all’origine dei popoli indoeuropei, l’ortodossia di regime sostiene la
tesi che saremmo i discendenti di agricoltori di origine mediorientale-anatolica che si sarebbero man mano espansi verso il
nord e l’ovest alla ricerca di nuove terre da coltivare.
L’origine della civiltà, sostiene sempre l’ortodossia di regime, ed è questa la versione canonica che trovate su tutti i libri di
testo e che ci viene continuamente ripetuta dal sistema mediatico, si situerebbe nella cosiddetta Mezzaluna Fertile a cavallo
tra Egitto e Mesopotamia, e solo tardivamente avrebbe raggiunto l’Europa attraverso un complicato passaparola tra Egizi,
Mesopotamici, Fenici, Ebrei, Persiani, Minoici, Greci, Romani.
L’Italia, infine, ci viene dato a intendere, sarebbe una terra a cui una struttura geografica molto ben definita avrebbe dato
una coerenza e una continuità attraverso i secoli, e dove le genti che l’abitano avrebbero sviluppato una cultura comune, ma
si vuole che non rappresenterebbe alcunché di coerente dal punto di vista etnico e genetico.
Si tratta di quattro menzogne, non solo, ma di quattro menzogne che hanno uno scopo preciso, quello di darci un’immagine
sminuita di noi stessi allo scopo di indebolire la resistenza alla sostituzione etnica, alla sparizione che il potere mondialista
ha decretato per noi Italiani e per noi Europei.
Cominciamo con l’Out of Africa: si tratta di una “teoria” che non può in nessun modo essere considerata scientifica, è per
ammissione dei suoi stessi formulatori, un costrutto ideologico creato allo scopo di “battere il razzismo”, “razzismo” che
poi nel linguaggio orwelliano della democrazia non significa l’affermazione di una razza sulle altre, ma la semplice
constatazione che le razze umane esistono, si tratta in altre parole di uno di quei costrutti ideologici che sono
stati imposti all’Europa per “rieducarla” in conseguenza della sconfitta nella seconda guerra mondiale, e anche alle
popolazioni caucasiche d’oltre Atlantico, da sempre plagiate dietro le quinte da qualcuno che di origine europea non è, se si
risale agli antenati remoti, affinché non si rendessero conto che il loro mondo si stava trasformando in un’invivibile società
multietnica, come del resto è previsto che presto tocchi anche a noi.
Questa “teoria” si fonda su due assunti dati per sottintesi ma mai esaminati troppo da vicino, cosa che ne metterebbe subito
in evidenza la falsità: il primo è la confusione fra la questione degli ominidi africani (la famosa Lucy e tutti gli altri) e
l’origine della nostra specie. I primi si collocano a milioni di anni fa, l’altra a decine di migliaia di anni fa, vi è una
differenza di due ordini di grandezza sulla scala temporale, ma evidentemente si conta sul fatto che la gente comune,
l’uomo della strada non ha troppa familiarità coi numeri.
L’altro aspetto della questione che non si vuole guardare troppo da vicino, è che “africano” in senso geografico non
significa necessariamente “nero”; al contrario, è assai probabile che quella vasta area dell’Africa settentrionale oggi
occupata dal deserto del Sahara ma che fino a 12-11.000 anni fa era fertile, il “Sahara verde” fosse abitata da popolazioni di
ceppo caucasico che possono aver avuto un ruolo nel popolamento dell’Europa. Popolazioni i cui discendenti più diretti in
epoca storica sarebbero stati i Berberi (fra i quali sono frequenti pelle chiara e capelli biondi) e i Guanci delle Canarie,
mentre il nero subsahariano è un tipo umano formatosi in un’epoca relativamente tarda. In fin dei conti, facevo notare,
Giuseppe Ungaretti, John R. R. Tolkien, Christian Barnard il medico pioniere dei trapianti di cuore, sono tutti nati su suolo
africano senza avere alcunché di nero.
C’è un lato della questione che raggiunge decisamente il grottesco: circa centomila anni fa il nostro pianeta era abitato in
tutta l’area del Vecchio Mondo da diverse popolazioni variamente etichettate come pre-sapiens o sapiens arcaiche. E’
verosimile che si sarebbero graziosamente estinte di loro iniziativa per lasciare spazio libero al “puro” sapiens di origine
africana? Certo, l’idea che sia stato proprio il presunto sapiens africano a sterminarle, è più credibile, ma non fa fare una
figura molto bella a una “teoria” che fra le altre cose dovrebbe oggi invogliarci all’ “accoglienza” verso gli invasori che
oggi lasciano il continente nero. A questo punto, qualcuno ha avuto un’idea geniale. Pare che tra 50 e 70.000 anni fa il
vulcano Toba nell’isola di Sumatra in Indonesia sarebbe esploso in una gigantesca eruzione. Secondo i sostenitori dell’Out
of Africa, questa esplosione avrebbe proiettato nell’atmosfera un’enorme quantità di ceneri che avrebbero provocato una
sorta di inverno nucleare che avrebbe portato all’estinzione tutte le popolazioni umane allora esistenti, tranne gli africani da
cui si pretende che tutti noi discenderemmo. Già a formularla, ci si rende conto di quanto un’idea simile sia poco plausibile.
Una catastrofe di entità planetaria avrebbe quasi annientato una specie, la nostra, senza lasciare segni visibili sulle altre?
Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Poco dopo essere stata formulata questa bella teoria del vulcano Toba, sempre
nell’arcipelago indonesiano, nell’isola di Flores, sono stati scoperti i resti di certi piccoli uomini che sono stati chiamati
hobbit come i personaggi di Tolkien. Ci si è resi conto con sorpresa che non si sarebbe trattato di sapiens ma di una forma
nana (nanismo insulare) di homo erectus, si tratta dunque di creature molto antiche, che sarebbero vissute su quest’isola fino
a 30.000 anni fa, dunque fino a 20-40.000 anni dopo la presunta esplosione del Toba pur trovandosi a quello che su scala

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planetaria è appena un passo da questa presunta catastrofe apocalittica. Cari piccoli hobbit, che hanno dato uno scrollone
fondamentale all’Out of Africa!
Poi, come se non bastasse, sono arrivate le ricerche dei genetisti russi Klysov e Rhozanskij: l’analisi del DNA dimostra
chiaramente che Europei ed Asiatici NON derivano da antenati africani. Pare di assistere oggi a una guerra fredda
ideologica di segno invertito: mentre i ricercatori russi sono liberi di far parlare semplicemente i fatti, quelli statunitensi
sono costretti a salvare a tutti i costi il dogma dell’Out of Africa come corollario del più ampio dogma “antirazzista”
considerato indispensabile alla sopravvivenza della loro innaturale e artificiosa società multietnica (“antirazzismo”, ossia
negazione dell’esistenza delle razze, nel linguaggio orwelliano della democrazia che all’atto pratico, soprattutto trapiantato
sulla sponda europea che si sta cercando del pari di trasformare in una società multietnica, significa il razzismo più
disgustoso che si possa concepire, quello contro i nativi che hanno la colpa di vivere nella stessa terra in cui sono nati i loro
padri).
Non basta ancora, perché fossili umani chiaramente sapiens di età anteriore ai 70.000 anni e quindi alla presunta origine
africana della nostra specie dopo l’altrettanto presunta catastrofe del Toba, sono saltati fuori un po’ dappertutto, e il fossile
cinese noto come l’uomo di Liuijang non è che l’ultimo di una lunga serie.
Il fatto che la “teoria” dell’Out of Africa sia chiaramente smentita dai fatti, non impedisce che essa sia continuamente
ammannita al grosso pubblico e citata su tutti i libri di testo come “la verità” ufficiale sulle nostre origini, ma noi sappiamo
esattamente quello che è: propaganda di regime.
L’Out of Africa è, per così dire, la menzogna quadro di un articolato sistema di mistificazioni, un sistema che si completa
considerando almeno altre due deliberate falsità sulle nostre origini: quella intesa a trasformare gli Indoeuropei da guerrieri
e conquistatori delle steppe eurasiatiche in pacifici agricoltori di provenienza mediorientale, e quella che vede l’origine
della civiltà nella Mezzaluna Fertile sempre in Medio Oriente, deprimendo o negando il ruolo dell’Europa nella civiltà
umana.
Forse, per cogliere l’esatta prospettiva delle cose, è necessario fare un considerevole passo indietro. Quando nel XIX secolo
i filologi e linguisti germanici scoprirono che la gran parte delle lingue d’Europa oltre ai linguaggi indiani e iranici avevano
un’origine comune, e tendevano a convergere verso un linguaggio ancestrale comune man mano che si risaliva indietro nel
tempo, non fecero solo una scoperta di immenso valore nel campo linguistico, ma anche in questo caso facendo parlare
semplicemente i fatti come la buona scienza deve fare, ruppero con una tradizione che aveva pesantemente condizionato
l’immagine che la cultura europea aveva di se stessa, infatti, contemporaneamente resero evidente che ebrei, arabi, e del
resto mesopotamici e altri popoli antichi appartenevano a un altro ceppo linguistico e conseguentemente a un altro contesto
antropologico e culturale.
Quella che in questo modo entrava in crisi, era la concezione della storia che si era avuta fin allora, certamente ampliata,
articolata e approfondita, ma la cui concezione di base si richiamava pur sempre alla bibbia, mentre adesso era possibile
riconoscere nella bibbia, nel cristianesimo e in tutto ciò che discende da esso, un elemento antropologicamente e
culturalmente estraneo che si era insinuato nella cultura europea.
E’ ovvio che “qualcuno” abbia cercato in tutti i modi di ricucire un simile “strappo”.
Negli anni passati due linguisti russi, Aaron Dolgopolskij e Vladimir Ilic-Svyityc elaborarono la cosiddetta teoria del
nostratico, supportata poi sul piano archeologico dall’archeologo inglese Colin Renfrew. In poche parole, il nostratico
costituirebbe una superfamiglia linguistica in cui rientrerebbero sia le lingue semitiche che quelle camitiche (Egizi, Numidi,
moderni Berberi e Copti dell’Egitto), sia quelle indoeuropee, che si sarebbero diffuse sulle due sponde del Mediterraneo a
partire dal Medio Oriente in seguito alla diffusione dell’agricoltura. Una teoria che mi è sembrata ben poco credibile sin da
quando ne ho sentito parlare. Per prima cosa, sembra un travestimento in termini scientifici della leggenda biblica dei tre
figli di Noè, ma soprattutto la situazione che prospetta, che potremmo aspettarci in base ad essa, non è quella che
riscontriamo nell’Europa antica.
Noi abbiamo esempi rappresentati dall’espansione di comunità agricole che si diffondono colonizzando man mano nuovi
territori, è un’espansione molto più lenta della conquista che porta alla rapida formazione di vasti imperi da parte di élite di
cavalieri e conquistatori, ma molto più definitiva e porta alla formazione di estese masse umane dotate di una relativa
omogeneità; ne sono esempi la Cina e l’India pre-ariana. In genere questo tipo di “conquista” non lascia sostrati di sorta,
perché gli agricoltori, demograficamente esuberanti, allontanano o assorbono le bande di cacciatori-raccoglitori nomadi.
Nell’Europa antica di sostrati pre-indoeuropei ne troviamo parecchi, e non gruppi isolati, ma interi popoli, vaste culture e
civiltà: Etruschi, Minoici, Iberi, Sardi e Corsi, Pelasgi, Liguri il cui dominio era un tempo esteso a gran parte di quella che è
oggi la Francia meridionale, e via dicendo.
C’è anche l’aspetto psicologico, il sospetto che questa teoria sia stata creata a bella posta per strappare dalle mani dei nostri
antenati indoeuropei l’ascia da combattimento e sostituirla con la zappa del contadino, per disarmare psicologicamente noi,
sospetto per la verità aggravato dalla circostanza che dopo la caduta dell’Unione Sovietica Aaron Dolgopolskij ha
rinunciato alla cittadinanza russa e si è trasferito in Israele.
Ancora una volta, sono stati gli studi di genetica a dipanare il bandolo della matassa, e la teoria del nostratico ne è uscita
bocciata. In contrasto con essa, hanno evidenziato che l’85% degli Europei appartiene al tipo conosciuto come eurasiatico
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settentrionale, presente sul nostro continente fin dal Paleolitico. Sul concetto poi che l’agricoltura sia effettivamente nata in
Medio Oriente e non in Europa, ci sarebbe molto da discutere, e lo rimandiamo alla prossima volta.
Per non rendere questo testo chilometrico, per ora ci fermiamo qui. Per ora possiamo mettere come conclusione provvisoria
che siamo figli del nord e non dell’Africa, eredi della cultura indoeuropea, europei, italici di ceppo indoeuropeo e non
bastardume proveniente dalle più disparate parti del mondo. Abbiamo alle spalle un patrimonio di sangue, di tradizione e di
cultura che si perde nella notte dei tempi, e intendiamo difenderlo.
NOTA: L’illustrazione che correda questo articolo è un’immagine composita che sintetizza almeno una parte del lavoro sin
qui svolto: vi si riconoscono la locandina delle due conferenze di Michele Ruzzai del 27 gennaio e del 24 febbraio
(quest’ultima in versione doppia), della mia conferenza dell’11 marzo, la copertina del libro Epicentro Mudi Antonio
Scarfone, e l’aurora boreale dell’immagine di copertina del gruppo MANvantara.

Una Ahnenerbe casalinga - cinquantunesima parte –

Cari lettori: vi chiedo di avere pazienza. In questo cinquantunesimo articolo della nostra rubrica, ero intenzionato a
concludere il riepilogo iniziato la volta precedente, sulle molte cose che nella cinquantina di articoli stilati in precedenza
abbiamo avuto modo di vedere, tuttavia questo sia pure estremamente utile ripasso dei fondamentali lo dobbiamo rinviare, e
lo riprenderemo la prossima volta perché in questo periodo di metà 2017 sono emerse una serie di novità sulla ricerca delle
nostre origini di cui è impossibile non dare conto.
Una novità che sta accendendo vivaci discussioni sul web, è la scoperta di un ominide europeo, i cui resti sono stati ritrovati
in Grecia e Bulgaria, che risalirebbe a 7,2 milioni di anni fa (quindi più antico degli ominidi africani finora noti) ed a cui
sono stati dati il nome scientifico di Graecopithecus Freybergi e il nomignolo di “El Greco”.
La cosa davvero singolare, è che la notizia di questo importante ritrovamento che dovrebbe portare alla riscrittura della
storia delle origini umane ci arriva attraverso pubblicazioni “di Area”, VoxNews del 22 maggio e “Il secolo d’Italia” del 23
maggio con un pezzo a firma di Anna Clemente, mentre le pubblicazioni “scientifiche” ufficiali nonché i canali di
informazione generalisti hanno semplicemente ignorato il fatto.
Eppure non c’è alcun dubbio sul fatto che i resti fossili di questa creatura esistono. Sulle interpretazioni si può sempre
discutere, ma cosa dobbiamo pensare di una “scienza” che censura i fatti per essa scomodi?
Il perché di questo atteggiamento censorio che è esattamente il contrario dell’onestà scientifica, davvero non è difficile da
capire: “El Greco” costituisce un ulteriore scrollone alla già traballante “teoria” dellOut of Africa che i censori e inquisitorie
vestali della democrazia devono difendere a ogni costo, perché costituisce un corollario fondamentale della loro pretesa

dell’inesistenza delle razze umane.


Ridotta all’osso, la loro argomentazione si potrebbe sintetizzare così: L’uomo si è evoluto dagli ominidi, gli ominidi erano
africani, dunque l’uomo è nato in Africa. Io non vorrei ora riaprire una discussione sul concetto di evoluzione, anche perché
si tratta di un argomento che ho ampiamente trattato nei miei scritti precedenti. Diciamo in estrema sintesi che un conto è
l’evoluzionismo (o meglio il darwinismo) come griglia interpretativa dei fatti biologici, un altro la sua
interpretazione ideologica con l’abbinamento ai concetti di “sviluppo ascendente” e “progresso” e chi più ne ha più ne
metta, ignorando aspetti fondamentali della teoria darwiniana quali la selezione, la lotta per l’esistenza, la sopravvivenza del
più adatto, che ne fanno in realtà la smentita di tutte le filosofie democratiche, progressiste, buoniste.
Io vorrei ora concentrare l’attenzione sulla seconda premessa di questo sillogismo, l’africanità degli ominidi che questa
scoperta viene decisamente a smentire, tuttavia va detto, e l’abbiamo già visto nelle parti precedenti della nostra disamina,
che anche questa non rappresenta una novità assoluta. L’elenco degli ominidi non africani era già abbastanza lungo: si va

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dagli indiani Ramapithecus e Sivapithecus (i cui nomi rievocano due divinità del pantheon induista)
all’italiano Oreopithecus Bambolensis, che presenta proprio quelle stesse caratteristiche che hanno fatto attribuire agli
ominidi africani la qualifica di precursori dell’umanità, ossia la stazione eretta completamente bipede, e un arco dentario di
tipo umano, tondeggiante e privo dei grossi canini tipici delle scimmie antropomorfe, per non parlare qui del
misterioso homo di Savona, vecchio di due milioni di anni, su cui non è stata mai compiuta una seria indagine scientifica,
ma è stato lasciato in un vergognoso dimenticatoio.
Alla luce di tutti questi atti, che homo sia originario proprio da un ceppo di ominidi africani, quando in passato l’areale di
queste creature era verosimilmente molto più esteso, rimane quanto meno un’ipotesi tutta da provare.
E’ tuttavia inutile illudersi: quello cui stiamo assistendo, una volta di più, non è un sereno dibattito basato sull’analisi dei
fatti e il confronto delle teorie con essi, ma una disputa ideologica.
Ne è la riprova un articoletto apparso su “Ethnopedia” a firma di tale Kirk (mai che questa gente si indicasse coi propri veri
nomi e cognomi, sembra che quella di lanciare il sasso e nascondere il braccio sia una pratica molto diffusa in ambito
democratico), che è un vero capolavoro di malanimo e faziosità.
Vediamo dunque cosa ci ammannisce (il capitano?) Kirk:
“Non si parla di Homo Sapiens, la nostra specie, né di un antenato da cui discendiamo, ma di un ominide che si è invece
estinto come tanti altri”.
Questo si chiama rivoltare la frittata, fare il processo alle intenzioni o fabbricarsi un avversario di comodo. Chi ha mai
sostenuto che questa creatura antica di 7,2 milioni di anni fosse un homo? Il discorso è un altro: l’origine africana della
nostra specie è stata sostenuta in base alla presunzione che gli ominidi fossero esclusivamente africani, ora è quest’ultima
asserzione che si rivela palesemente falsa.
Si osservi poi l’affermazione sminuente: “un ominide come tanti altri”, come se gli ominidi non africani non fossero oggetto
di uno sminuimento o addirittura di un occultamento sistematico.
Ma questo naturalmente è solo l’antipasto, le vere chicche dell’articolo devono ancora venire; vedete questo passaggio:
“Se l’articolo che linkate proviene da siti notoriamente politici come VoxNews, Il Primato Nazionale ed Ereticamente, vuol
dire che esso è intriso di ideologia e propaganda politica”.
Una cosa di questo genere provoca chiaramente disappunto, ma anche una certa soddisfazione. Significa anche che
ESISTIAMO e diamo fastidio, che il nostro non è solo un predicare nel nostro cortile (il che sarebbe comunque importante,
vista la carenza di formazione ideologica dei nostri ragazzi che si trovano a vivere in un clima ostile a tutto quanto
rappresentiamo), ma che anche democratici e antifascisti sono costretti malgrado loro a tenerci in considerazione.
Sui temi della paleoantropologia, delle origini dell’uomo, poi ci siamo occupati su “Ereticamente” soprattutto io e Michele
Ruzzai, con una presenza quantitativamente meno massiccia della mia ma sicuramente di qualità, ed è quasi un peccato che
“Kirk” non citi anche “MANvantara”, il bel gruppo facebook gestito da Michele.
Anche qui, sul tema della paleoantropologia, l’insinuazione di “Kirk” ricorda molto la storia del bue che dà del cornuto
all’asino.
Bisogna ricordare a questo riguardo le parole dello storico australiano Greg Jefferys:
“Tutto il mito dell’Out of Africa ha le sue radici nella campagna accademica ufficiale negli anni ’90 intesa a rimuovere il
concetto di razza. Quando mi sono laureato, tutti passavano un sacco di tempo sui fatti dell’Out of Africa ma sono stati
totalmente smentiti dalla genetica. (Le pubblicazioni) a larga diffusione la mantengono ancora”.
Dunque a peccare di ideologia non sono coloro che contestano il dogma dell’Out of Africa che sono piuttosto quelli che
cercano di ristabilire la verità, ma coloro che lo sostengono. Questa sedicente “teoria” non è nata da fatti scientifici, ma
dall’intento propagandistico di distruggere il concetto di razza, cioè come strumento politico. La genetica la smentisce (qui
fanno testo le ricerche dei genetisti russi A. Klysov e S. Rozhanskij), tuttavia essa continua a essere propagata dai mezzi di
massa a larga diffusione – cioè quelli controllati dal potere – perché è uno strumento ideologico prezioso per chi mira allo
sradicamento dei diversi gruppi umani, e a cui della verità scientifica non importa nulla.
Più sotto arriviamo a quello che è il vero nocciolo della questione:
“Sotto la pelle siamo tutti uguali, c’è più diversità genetica tra due italiani che tra un italiano e un nigeriano”.
L’inesistenza delle razze e delle etnie, è questo il discorso sottinteso a tutto l’ambaradan out-of-africano. Qui ritorna una
vecchia menzogna della democrazia che abbiamo sentito ripetere fino a farcela uscire dalle orecchie ma che nonostante ciò,
rimane un’assoluta falsità, la presunzione dell’inesistenza degli Italiani dal punto di vista genetico, la leggenda che
geneticamente noi saremmo non un popolo ma un’accozzaglia disparata al punto che fra uno e un altro di noi presi a caso, ci
sarebbero meno affinità che con qualsiasi altro abitante di questo pianeta preso altrettanto a caso. Il sottinteso di questo
“messaggio” è estremamente chiaro: dal momento che il popolo italiano come continuità di sangue non esiste, non ci
dovremmo preoccupare del fatto che oggi l’immigrazione e la sostituzione etnica lo stanno cancellando. Peccato solo che
questa sia una totale falsità, come recenti e seri studi genetici hanno ampiamente dimostrato, e sono tornato con ampiezza su
questo argomento nella quarantottesima e nella quarantanovesima parte della nostra rubrica.
Volete che non si usi la parola “razza”? Va bene, non usiamola, ma resta il fatto che i neri subashariani hanno un quoziente
intellettivo medio di 70, che coincide con il limite del ritardo mentale, che studi condotti negli Stati Uniti hanno dimostrato,
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a parità di condizioni economiche e sociali, una propensione al crimine cinque volte maggiore rispetto agli altri gruppi
etnici, che qui da noi in Italia gli immigrati (in grandissima parte neri o magrebini) sono i responsabili del 50% di tutti i reati
e del 90% di tutti gli stupri.
“Kirk” non manca di dispensarci qualche consiglio:
“Questi siti farebbero meglio ad occuparsi di politica, filosofia, mitologia, esoterismo e quello di cui si occupano
quotidianamente”, e non di questioni scientifiche riguardanti le nostre origini per cui, a suo dire, non saremmo tagliati.
Peccato solo che per quanto riguarda la politica, il fatto che ci venga gabellata una falsa immagine di noi stessi allo scopo di
farci accettare l’invasione di cui siamo oggi vittime senza reagire, è un fatto politico.
Se posso io a mia volta ricambiare (il capitano?) Kirk elargendogli un consiglio, gli direi di riprendersi l’astronave
Enterprise e ripartire alla scoperta di “Strani nuovi mondi e nuove civiltà”.
Su tutta la questione varrebbe la pena di riferire l’opinione espressa – per la verità in una conversazione privata, ma non
credo di fargli alcun torto riportandola qui – di una persona perspicace e competente al riguardo, come è il nostro amico
Michele Ruzzai, secondo cui, certamente la scoperta dei resti di ominidi non africani indebolisce “la teoria” dell’Out of
Africa, ma la sua vera confutazione è data dai fossili di homo vecchi di centomila anni e oltre (cioè ben prima di quanto
previsto dall’OOA) che si ritrovano fuori dal continente africano. Ora di questi se ne trovano in buon numero in Asia,
Oceania e anche in Europa, ma “la scienza”, o meglio l’ortodossia “scientifica” dominante evita di parlarne se non per
bisbigli e ammissioni a mezza voce che dovrebbero restare confinate entro i circoli degli specialisti.
Tuttavia, le novità che dobbiamo registrare in questo periodo non si limitano solo alla questione di “El Greco” (che però
rimane una presenza “scomoda” della paleoantropologia e di cui si dovrebbe parlare ancora a lungo). Recentemente, un
nostro corrispondente ha postato un articolo de “Le scienze” risalente al novembre 2015 dove si fa il punto sull’uomo di
Denisova. Di quest’uomo vissuto nella Siberia meridionale tra 70.000 e 40.000 anni fa, ci sono rimasti dei denti e minute
tracce scheletriche. L’analisi del DNA tuttavia ha consentito di stabilire che si trattava di un homo differente sia dall’uomo
di Neanderthal, sia dal sapiens del tipo di Cro Magnon, e che ha lasciato un’impronta genetica importante nelle popolazioni
asiatiche, melanesiane e australiane. Tuttavia rimane ancora oggi un uomo senza volto.
Ultimamente, “Il navigatore curioso” ha riportato i risultati di uno studio sul DNA dell’uomo di Neanderthal condotto nel
2008 da Liran Carmel e Eran Meshorer, biologi presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, dal quale risulta che l’uomo di
Neanderthal aveva in comune con noi ben il 99,84% del patrimonio genetico. Viene dunque del tutto a cadere la possibilità
di considerarlo una specie separata dalla nostra, e possiamo dire che aveva rispetto all’uomo attuale al massimo una
differenza di tipo razziale. D’altra parte avrete senz’altro presente che più volte in queste pagine vi ho sottolineato il fatto
che questo antico uomo in passato l’abbiamo gravemente sottovalutato. Vi ho riportato anche un’immagine presa dal
“Corriere della Sera” del dicembre 2014 che fa giustizia delle caratteristiche scimmiesche che per lungo tempo gli sono
state attribuite. E’ certamente fra i nostri antenati (di noi europei, ma non dei neri sub sahariani).
Tutto questo rimanda al concetto della nostra specie come una specie politipica fra i cui antenati figurano oltre all’uomo di
Cro Magnon, i neandertaliani e i denisoviani per non parlare del “quarto antenato” le cui tracce i ricercatori dell’Istituto di
Biologia Evolutiva (IBE) di Barcellona avrebbero trovato nel DNA degli abitanti delle isole Andamane, e del quinto,
un homo separatosi dalla linea principale dell’umanità circa 1.200.000 anni fa e con cui le popolazioni africane si sarebbero
re-incrociate.
Rispetto a questo mosaico che è la nostra storia biologica, il meno che si possa dire dell’Out of Africa, è che si tratterebbe di
una semplificazione fin troppo grossolana, ma una simile ammissione sarebbe già un peccare per eccesso di generosità,
perché sappiamo invece che si tratta di un’interpretazione ideologica fortemente tendenziosa, concepita per ispirarci un finto
senso di fratellanza verso chi per noi di sentimenti fraterni non ne nutre affatto e desidera solo soppiantarci. Tutto sta a
vedere se glielo lasceremo fare.
NOTA: Nell’illustrazione che correda questo articolo, a sinistra il fossile di “El Greco”, a destra la ricostruzione dell’uomo
di Neanderthal pubblicata sulla pagina scientifica del “Corriere della Sera” del dicembre 2014, che fa giustizia dei tratti
scimmieschi solitamente attribuiti a questo nostro antenato.

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Una Ahnenerbe casalinga - cinquantaduesima parte

Proseguiamo con la sintesi del lavoro finora fatto che abbiamo visto nella cinquantesima parte. Le due questioni dell’origine
dei popoli indoeuropei e della civiltà europea sono strettamente intrecciate e si collegano a una tematica estremamente
importante, ossia la scoperta dell’agricoltura. Se questo passo fondamentale dell’incivilimento umano fosse avvenuto in
Europa e non in Medio Oriente, allora si capisce bene che tutto il discorso sia di una presunta origine mediorientale degli
Indoeuropei, sia della storia che ci sentiamo ripetere da ogni libro di testo, e che sembra un dogma incrollabile
dell’ortodossia “scientifica” sulle nostre origini che ci viene imposta, cioè la nascita della civiltà nella Mezzaluna Fertile tra
Egitto e Mesopotamia, verrebbe ipso facto a cadere.
Bene, vi sono degli indizi molto convincenti che le cose stiano proprio in questo senso, e che la “vulgata” che viene
ammannita al pubblico a cominciare dai ragazzi delle scuole, sia in realtà basata in parte sulla mistificazione, in parte
sull’ignoranza deliberata dei fatti. Gli indizi che possiamo considerare sono essenzialmente due: la priorità europea
nell’allevamento di animali, in particolare i bovini, e nella scoperta e nell’utilizzo dei metalli.
La priorità europea nell’allevamento dei bovini è chiaramente dimostrata dal fatto che la tolleranza al lattosio, che consente
di assimilare il latte di un’altra specie e anche in età adulta, è fra le popolazioni umane, massimamente diffusa nell’Europa
centro-settentrionale (e nelle Americhe e in Oceania fra le popolazioni di origine europea), per decrescere man mano che ci
si sposta verso il sud e l’est, fino a essere praticamente nulla nell’Africa subsahariana e in Asia orientale. Quest’ultima è
palesemente un adattamento darwiniano alla nuova risorsa alimentare che l’allevamento ha messo a disposizione degli
esseri umani. Vi sono vari indizi del fatto che l’allevamento brado dei bovini sarebbe stato preceduto da quello delle renne,
e ne avrebbe ricalcato il modello.
Per capire la relazione tra l’agricoltura e l’uso dei metalli, occorre tenere presente che le l’alternarsi delle varie tecnologie
preistoriche non ci rivela un perfezionamento tecnico quanto piuttosto cambiamenti nello stile di vita. Il corredo di utensili
in pietra scheggiata dell’epoca magdaleniana, era pienamente adeguato alle esigenze delle comunità di cacciatori-
raccoglitori. Il passaggio al mesolitico, 10.000 anni fa, è caratterizzato dalla produzione dei cosiddetti microliti, dentelli di
pietra che immanicati su di un ramo curvo servivano a produrre falci e denunciano l’inizio di un’attività agricola. L’ascia
neolitica in pietra levigata non è un perfezionamento di quella paleolitica, ma uno strumento che serve per abbattere alberi,
e ci rivela che le comunità umane avevano bisogno di maggiore spazio.
Infine l’utilizzo dei metalli. Produrre un crogiolo dove colare il metallo, poteva richiedere a un artigiano molto più lavoro
della creazione di uno strumento litico, ma una volta realizzato, poteva servire per un numero indefinito di fusioni: la
popolazione umana era in crescita, e con essa la domanda di strumenti da lavoro, un’esuberanza demografica che,
considerate le limitazioni insite nello stile di vita dei cacciatori nomadi, può essere spiegata solo con una sempre maggiore
diffusione dell’agricoltura. Quindi il legame tra agricoltura e metalli si può dare per assodato.
Ebbene, il più antico attrezzo metallico conosciuto è l’ascia di rame dell’uomo del Similaun, più antica di cinque secoli di
analoghi attrezzi mediorientali, e la più antica miniera che reca segni di sfruttamento umano, si trova a Rudna Glava nella
ex Jugoslavia.
In generale, tutta l’archeologia antica sembra affetta di quello che io chiamerei strabismo mediorientale: la scoperta in
Medio Oriente di quattro cocci di vaso e due paraventi di canniccio (e non credo esista al mondo un’area che gli archeologi
hanno frugato più intensamente di questa, rivoltando, si può dire, ogni pietra) viene regolarmente salutata come la scoperta
di “una nuova civiltà”, mentre si ignorano bellamente, si fa finta che non esistano, i grandi complessi megalitici europei.
In Before Civilization, un testo del 1973, l’insigne archeologo Colin Renfrew sottolineava che le nuove scoperte e datazioni
consentite dall’impiego di tecniche quali il radiocarbonio e la dendrocronologia, imporrebbero di rivedere completamente
l’idea che abbiamo sin qui avuto delle origini della civiltà, del passaggio dalla preistoria alla storia, perché è ormai accertato
che i complessi megalitici dell’Europa occidentale sono di un millennio più antichi delle piramidi egizie e delle ziggurat
mesopotamiche, che gli antichi europei, molto prima di quel che si pensasse, avevano imparato a coltivare la terra, costruire
templi, fondere il bronzo.
Dal 1973 a oggi di acqua sotto i ponti ne è passata un bel po’, eppure della rivoluzione pronosticata da Renfrew non si è
vista traccia: certe conoscenze possono essere bisbigliate fra gli specialisti, ma non devono arrivare al grosso pubblico e ai

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ragazzi delle scuole cui si continua ad ammannire la favola della Mezzaluna Fertile, sono oggetto di un coverage nemmeno
si trattasse di segreti nucleari.
Potremmo dire che l’originalità e la creatività della civiltà europea sono deliberatamente sottovalutate in ogni campo.
Dodici anni prima della pubblicazione del testo di Renfrew, nel 1961, l’archeologo Nicolae Vlassa aveva scoperto nel sito
di Turda in Romania le tavolette cosiddette di Tartaria contenenti i più antichi esempi di scrittura conosciuti al mondo, più
antichi di almeno mille anni dei più antichi pittogrammi sumerici conosciuti, e oggi gli archeologi ammettono (solo a livello
di specialisti, s’intende) l’esistenza di un’antica e precoce “Civiltà del Danubio”, di cui né sui testi scolastici né sulle
pubblicazioni o i programmi televisivi destinati al grosso pubblico, troverete traccia.
C’è una radicale differenza fra le scritture ideografiche o sillabiche (o al caso una mescolanza delle due cose, come quella
geroglifica egizia), che richiedono per esprimere un concetto centinaia di segni, e quelle alfabetiche dove ne basta una
ventina, e che rappresentano rispetto alle prime un progresso fondamentale, permettendo un alfabetismo generalmente
diffuso invece che prerogativa di una casta di scribi specializzati, e anche a questo riguardo c’è da dire che l’alfabeto è da
ritenere un’invenzione piuttosto europea che non mediorientale. Comunemente, l’invenzione dell’alfabeto è attribuita ai
Fenici, ma questi ultimi non fecero altro che semplificare la scrittura demotica egizia grazie al fatto che le lingue semitiche
non danno importanza alle vocali, ma la vera invenzione dell’alfabeto, con la divisione della sillaba in vocale e consonante
e l’introduzione dello spazio fra le parole, in sostanza il metodo semplice e pratico che utilizziamo ancora oggi, fu una
creazione dei Greci.
Un discorso analogo si potrebbe fare per tantissime innovazioni che hanno letteralmente portato la civiltà umana a un livello
superiore. Ormai due generazioni abbondanti di presunti intellettuali presunti anticonformisti si sono sforzati di ridurre a
un’origine dall’Oriente (estremo, medio o vicino) ogni invenzione europea, si sono letteralmente compiaciuti di ridurre al
minimo o di negare un qualsiasi apporto del Vecchio Continente all’incivilimento umano, con una sorprendente similarità
con quegli altri presunti intellettuali tanto anticonformisti da essere uguali l’uno all’altro, che si dilettano di fare sfoggio di
antipatriottismo (a prescindere dal sospetto che spesso si tratti delle stesse persone, animate da una sorta di masochismo
intellettuale).
Di origine cinese sarebbero ad esempio invenzioni quali la bussola, la stampa, la polvere da sparo. La bussola, le “bussole”
cinesi erano praticamente inutilizzabili: un ago di magnetite su un pezzetto di sughero che galleggia in una bacinella. L’idea
di incernierare l’ago magnetico su un perno venne ai marinai italiani di Amalfi. La stampa: i Cinesi inventarono e usarono
semplicemente timbri inchiostrati, l’invenzione dei caratteri mobili avvenne in Europa con Gutenberg. La polvere da sparo:
oltre i petardi e i giochi pirotecnici, il Celeste impero non andò. Le armi da fuoco e l’esplosivo da miniera furono invenzioni
europee.
Altre invenzioni innegabilmente legate all’Europa, sebbene anche di esse con zelo degno di miglior causa si siano – invano
– cercati antecedenti fuori dal nostro continente, sono la tecnica costruttiva ad archi rampanti e costolature che permise la
costruzione di quei prodigiosi edifici che sono le cattedrali gotiche, e il timone posteriore delle imbarcazioni che rese più
affidabile la navigazione. Se quest’ultima vi sembra un’invenzione di poco conto, provate a unire il timone posteriore con la
nave a sponde rialzate, il koggen inventato in età medioevale dalle popolazioni frisoni, la bussola, le armi da fuoco, e cosa
ottenete? Il controllo degli oceani e del Globo terracqueo quale l’Europa ebbe per cinque secoli, fino alle due guerre
mondiali.
Sin qui non abbiamo parlato delle eccellenze europee in campo intellettuale e spirituale, anche perché questa tematica
implica inevitabilmente il confronto con una religione, questa si mediorientale, che si è infiltrata nella cultura europea
provocando una lacerazione profonda con le tradizioni e lo spirito ancestrale del nostro continente, un discorso che ho
svolto in più di un’occasione con ampiezza altrove, ma che ora ci porterebbe troppo lontano, ma diciamo almeno questo:
quando si vedono gli Europei odierni lasciarsi incantare dall’ultimo guru da supermercato, è palese che costoro ignorano di
avere alle spalle una tradizione di pensiero vecchia di tre millenni che comprende nomi come Socrate, Platone, Aristotele,
Cartesio, Kant, Hegel.
Veniamo all’ultimo punto: le nostre origini in quanto italiani. Qui da dire non ci sarebbe moltissimo, tranne contrastare
l’ennesima menzogna di regime che vorrebbe darci a intendere la non esistenza di una nazione italiana in senso etnico e
genetico, la pretesa che noi saremmo un’accozzaglia eterogenea originaria dalle più diverse parti del pianeta, tenuti uniti da
una morfologia geografica ben definita della nostra Penisola e da un comune retaggio culturale formatosi nei secoli. Il
sottinteso di questa menzogna di regime, è che se noi non abbiamo nessuna omogeneità biologica e genetica,
l’immigrazione che oggi si sta riversando su di noi come un’alluvione dal Terzo Mondo, e che una classe politica di
traditori incentiva apertamente, in ultima analisi non cambierebbe un gran che.
Queste sono fole, menzogne di regime, menzogne del regime più falso e ipocrita che possa esistere, quello che passa sotto il
nome di democrazia. Nella storia umana non è mai esistita una cultura vitale senza il supporto rappresentato da una
coerenza etnica e biologica.
Va aggiunta l’altra fola consistente nell’esasperato localismo che spinge molti nostri connazionali a farneticare di
inverosimili secessioni, a volersi inventare un’identità etnica diversa da quella italiana, perché – diciamolo apertamente –

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settant’anni di democrazia antifascista ci hanno portati al punto di avere vergogna di noi stessi, ma non è dell’essere italiani
che dobbiamo provare schifo e vergogna, bensì della democrazia antifascista.
Questa tendenza, sebbene oggi si presenti in Italia forse più amplificata che altrove, è oggi in varia misura presente in tutto
il continente europeo, e questo per un motivo preciso: quello della disgregazione delle entità nazionali attraverso
l’incentivazione dei localismi, dei separatismi, dei secessionismi, è precisamente uno dei punti previsti dal piano Kalergi.
Anche in questo caso, gli studi di genetica hanno chiarito la realtà delle cose: gli Italiani, ma forse sarebbe meglio dire “gli
Italici”, termine che sottolinea meglio l’aspetto etnico e genetico in contrapposizione a quello di cittadinanza-appartenenza a
un’entità statale, cosa che in ultima analisi vale meno di nulla, esistono, fanno parte con una loro identità ben definita dei
popoli della famiglia europea-indoeuropea.
Si tratta, gli studi di genetica l’hanno chiarito, di una realtà non monolitica, variegata da una componente celtica al nord e da
una di origine greca al sud, ma non tali da non permettere di parlare del nostro popolo come di un’entità etnicamente
coerente, d’altra parte nessun popolo al mondo può vantare una totale uniformità genetica. In particolare si è visto che una
componente non-europea, mediorientale a cui vorrebbero oggi rifarsi ad esempio i sostenitori dell’artificiosa leggenda di
una “Sicilia araba” non esiste se non a livelli del tutto trascurabili. In questa artificiosa leggenda anch’essa inventata per
favorire l’accettazione della sostituzione etnica, vediamo bene come il localismo si saldi ai progetti mondialisti che mirano
alla sparizione dei popoli europei, il piano Kalergi si tocca con mano.
Un discorso che ho cercato di sviluppare nell’arco di anni sulle pagine di “Ereticamente”, ma io credo che si capisca bene
che qui si tratta di contrapporsi, di svelare la falsità di una “cultura”, di una “scienza” che è per intero un sistema di
menzogne il cui scopo finale è l’accettazione rassegnata della nostra distruzione come Italici, come Europei, come
Caucasici. A ripercorrere il cammino fatto, sembra strano, ma il primo articolo di questa serie nacque come una sorta di
auto-presentazione nella quale raccontavo di come la mia storia umana, le mie vicende personali mi abbiano portato a
interessarmi, e sotto l’ottica di una precisa scelta politica controcorrente, della storia dei nostri antenati, articolo che faceva
seguito in realtà ad altri in cui avevo affrontato le questioni delle origini, tematiche che sono di una fondamentale
importanza per una battaglia politico-culturale, perché se non sappiamo da dove veniamo non sappiamo chi e dove siamo, e
se non sappiamo chi e dove siamo, non sappiamo dove andare.
Noi adesso ci siamo dedicati a ripercorrere la strada fatta insieme, ma non ci si ferma a riprendere fiato se non per ripartire
di slancio. Il cammino che abbiamo davanti è ancora lungo, e non giungerà al suo termine, probabilmente se non con la
cessazione della vita. L’impresa è titanica, si tratta di contrapporsi a un’intera “cultura” il cui scopo è la nostra
rassegnazione al destino di morte che il potere mondialista ha deciso per noi e per i popoli europei, ma vi sono sfide che non
si possono altro che accettare.

Io credo di avervi altre volte espresso il concetto che è fonte di sorpresa prima di tutto per me il fatto che questa serie di
articoli sia diventata sulle pagine di “Ereticamente” una sorta di rubrica fissa a cadenza bisettimanale (più o meno) e se ci
pensiamo, la cosa non può non destare un certo stupore, considerando il fatto che noi qui non stiamo parlando di cronaca
politica (anche se abbiamo visto che nel discorso sulle nostre origini, discorso che in ultima analisi si riflette sul modo in cui
interpretiamo la nostra posizione nell’esistenza, la politica c’entra eccome!) né di cronaca nera né tanto meno di gossip o
simili, ma di questioni scientifiche dove si suppone che le scoperte e anche i relativi dibattiti abbiano un altro ritmo.
Sarà che su questo punto si viene a toccare un nervo scoperto. E’ forse il caso di ricordare che nel 2014 “Le scienze” ha
pubblicato allegato alla rivista il libro di Nicholas Wade Una scomoda eredità, la storia umana tra razze e genetica, ora al
riguardo io devo essere sincero: si tratta di un libro di cui posseggo la versione in PDF ed è un testo di oltre mille pagine,
piuttosto faticoso da leggere a schermo (e tralasciando il fatto che non trattandosi di un romanzo, bisogna prendere appunti a
ogni capitolo), e per questo motivo ne ho rimandato più volte la lettura a cui conto di dedicarmi appena mi sarà possibile

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(ho una scaletta di lavori piuttosto fitta, fra cui gli articoli per “Ereticamente” occupano una parte non piccola), ma mi
riprometto di farne una recensione come si deve.
C’è tuttavia una domanda a cui è possibile rispondere già adesso: perché la nostra eredità genetica, quel tipo di eredità,
faceva notare Konrad Lorenz, che portiamo dentro di noi e che nessun testamento, nessun notaio, nessun tribunale ci può
negare, sarebbe un’eredità scomoda? La risposta è scontata: perché le differenze biologiche e genetiche facilmente
riscontrabili fra gli esseri umani mettono in crisi il dogma democratico dell’uguaglianza, e la cosa diventa tanto più grave
(dal punto di vista di democratici, cristiani e marxisti assortiti, ovviamente), quanto più gli scienziati vanno accertando che
non solo le nostre caratteristiche fisiche, ma anche quelle cognitive, comportamentali, sociali ed etiche, dipendono in misura
rilevante dall’eredità genetica.
E’ dunque chiaro che su questo terreno si gioca una partita ricca di significati. Nella cinquantunesima parte della nostra
serie di articoli (perché la cinquantaduesima è stata invece dedicata a quel riepilogo delle nostre tematiche iniziato con il n.
50) abbiamo visto lo scritto pubblicato su “Ethnopedia” da tale “Kirk” (non c’è pericolo che questa gente si presenti mai col
proprio vero nome e la propria faccia) a cui la scoperta dei resti di un antico ominide balcanico che è stato soprannominato
“El greco” e che mette seriamente in dubbio l’origine africana dell’umanità, deve aver provocato un vero e proprio travaso
di bile, e non ha trovato nulla di meglio che prendersela coi siti “di Area”, “Il Primato Nazionale”, “VoxNews” e (guarda un
po’) “Ereticamente”.
Fra poco ci verranno a dire che i resti di una creatura vissuta 7,2 milioni di anni fa sono “fascisti” e che tra le ossa rinvenute
sono state trovate le tracce fossili di una tessera del PNF o del NSDAP!
Alla replica che gli ho già dato, varrebbe la pena di aggiungere una noterella: secondo costui, la nostra visione delle cose
dipenderebbe da “biases”, cioè distorsioni dettate da motivazioni ideologiche (un altro tratto caratteristico di queste persone
è la tendenza a imbastardire il linguaggio che usano riempiendolo di anglicismi di cui si può francamente fare a meno, come
se la lingua italiana non fosse idonea a esprimere certi concetti); bene, parlando almeno per “Ereticamente” e per me (su
“Ereticamente” a occuparci di paleoantropologia, della questione delle origini della nostra specie siamo soprattutto Michele
Ruzzai e io, ma l’ottimo Michele non me ne voglia, con una presenza qualitativamente importante ma quantitativamente
molto minore della mia), se si vanno a leggere i testi da me (da noi) pubblicati, si vede che fra le fonti citate spiccano “Le
scienze”, “La Repubblica” e simili, tutte fonti di estrema, estremissima destra, per non parlare nemmeno della ricerca che ha
mostrato che le differenze del DNA dell’uomo di Neanderthal rispetto a quello dell’uomo moderno sono praticamente
irrilevanti, ricerca compiuta da studiosi dell’Università Ebraica di Gerusalemme, cioè – va da sé – un gruppo di nazisti della
più bell’acqua.
La verità molto semplice è che queste “democratiche” vestali del Pensiero Unico non sanno più a che santo votarsi pur di
continuare a tenere in piedi le finzioni dell’origine africana e dell’inesistenza delle razze umane. Come dice il proverbio, il
diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
Bene, come se tutto ciò non bastasse, sembra che le scoperte paleoantropologiche in grado di rimettere in discussione la
leggenda dell’Out of Africa si stiano succedendo a un ritmo incalzante. Prima di esaminare in dettaglio l’ultima scoperta
citata da un numero rilevante di fonti (“Le scienze”, “The Guardian”, “ANSA”, tutte come si vede rigorosamente “di
Area”), è importante una precisazione: l’Out of Africa, che non è una teoria scientifica, ma un’interpretazione
ideologica delle nostre origini, quindi precisamente un bias nel senso in cui “Kirk” usa questa parola, non si limita ad
affermare che la nostra specie avrebbe avuto origine sul continente africano, ma ci sono due importanti corollari, che questa
origine sarebbe avvenuta in tempi relativamente recenti e che trarremmo la nostra origine dai neri subsahariani. E’ perfino
ironico che un ritrovamento avvenuto proprio in Africa venga ora a smentire entrambi questi assunti.
Il motivo per cui l’Out of Africa è costretta a postulare un’origine recente della nostra specie (non oltre 70.000 anni fa), è
questo: circa 100.000 anni fa il nostro pianeta era abitato da diverse popolazioni umane, variamente etichettate come pre-
sapiens o sapiens arcaiche (l’uomo di neanderthal è il più noto, ma certamente non il solo), l’OOA pretende che esse siano
scomparse senza lasciare traccia nell’umanità odierna, per fare spazio all’uomo moderno che si suppone di esclusiva
ascendenza africana. Ora, si potrebbe anche ipotizzare che sia stato il presunto sapiens africano a portarle all’estinzione
(magari con qualche bel massacro come gli yankee hanno fatto con i nativi americani e gli israeliani stanno facendo con i
palestinesi), ma di sicuro ciò non fa fare una bella figura a questa concezione le cui motivazioni non sono per nulla
scientifiche, ma hanno lo scopo di farci accettare l’immigrazione, il meticciato e la sostituzione etnica.
Per togliersi dagli impicci, i sostenitori dell’OOA hanno inventato la favola accessoria secondo la quale l’esplosione del
vulcano Toba in Indonesia avvenuta tra 70 e 50 mila anni fa, avrebbe provocato una sorta di inverno nucleare che avrebbe
portato all’estinzione tutte le popolazioni umane allora esistenti, eccetto un pugno di superstiti africani che sarebbero
diventati i nostri antenati (appena un po’ meno inverosimili di quelli di Italo Calvino). Ora è chiaro che il ritrovamento di
fossili umani anatomicamente moderni antecedenti a 70.000 anni fa, anche in Africa ma ben al disopra dell’area equatoriale
che si suppone sarebbe stata “l’arca” che avrebbe preservato questi nostri presunti antenati, indebolisce l’OOA.
Quanto all’altra assunzione che questi nostri antenati sarebbero stati vicini antropologicamente al nero sub-sahariano;
questo è un punto essenziale di tutto l’ambaradan out-of-africano, anche se viene raramente esplicitato e lo si lascia perlopiù
sottinteso, e tuttavia è la vera ragion d’essere dell’OOA, ne fa un corollario di tutto l’apparato ideologico antirazzista (dove
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per “razzismo” si intende sempre non l’affermazione della superiorità di una razza sulle altre, ma la constatazione che le
razze umane esistono), la presunzione in ultima analisi che noi caucasici non saremmo altro che dei neri “sbiancati”.
Bene, proprio questo secondo assunto si fonda sul nulla. Non solo non esiste alcuna prova della pretesa che il nero
subsahariano sia ancestrale rispetto agli altri gruppi umani, ma non rappresenta nemmeno il popolamento più antico
dell’Africa che con ogni probabilità è rappresentato da un tipo umano diverso, l’antenato comune delle popolazioni
khoisanidi (Boscimani e Ottentotti) e pigmoidi. Il gruppo “nero” (congoide) sembrerebbe essere invece di formazione
relativamente recente, e secondo alcuni autori la sua formazione sarebbe avvenuta al di fuori dell’Africa nel plateau arabico.
Occorre avere presente questo quadro per capire come mai una scoperta di fossili umani avvenuta su suolo africano possa
non rafforzare, ma indebolire l’Out of Africa.
La notizia, come vi dicevo, è comparsa su “The Guardian”, è stata ripresa dall’ANSA e da “Le scienze” (tutte e tre fonti –
come è ben noto – fasciste, fascistissime come le leggi del 1925): in Marocco, a Jebel Irhoud, una vecchia miniera 100
chilometri a ovest di Marrakech, sono emersi resti umani fossili (appartenuti pare ad almeno cinque persone) di aspetto
molto antico, ma la vera sorpresa è venuta fuori quando questi resti sono stati sottoposti a test volti a stabilirne l’età da parte
di Jean-Jacques Hublin dell’Istituto Max Planck per l’antropologia evoluzionista di Lipsia, test dai quali è risultato che
questi fossili di uomini anatomicamente moderni, sapiens, risalirebbero a ben 300.000 anni fa, quindi sarebbero ben
anteriori a quanto previsto dall’OOA.
La notizia è dei primi di giugno e, come era prevedibile, MANvantara l’ha riportata molto prima di me (il vantaggio di un
gruppo facebook è precisamente quello di riuscire a “stare sul pezzo” in tempo quasi reale, mentre quello che sto facendo io
è un lavoro di riflessione e rielaborazione, ed “Ereticamente” ha di certo una maggior diffusione, ma comporta una
tempistica più lunga) e al riguardo, un collaboratore del gruppo, facendo riferimento alla fonte ANSA ha commentato:
“Anche se qui la Out of Africa Theory non è smentita direttamente, fa riflettere su una necessaria antedatazione del Sapiens
e una sua localizzazione in area mediterranea (Marocco) prima di quanto finora ritenuto possibile rispetto all’idea di
un’origine subsahariana”.
La distinzione che viene qui fatta tra area mediterranea (compresa la sponda africana) e Africa in senso globale, ma
soprattutto subsahariano, non è accademica, infatti occorre ricordare una volta di più che “africano” in senso geografico non
significa necessariamente “nero”. Che un’Africa settentrionale abitata da popolazioni affini al Cro Magnon possa aver avuto
un ruolo importante nell’antico popolamento dell’Europa ai tempi in cui il Sahara non era ancora un deserto bensì una
regione fertile con ogni probabilità intensamente popolata, è un’ipotesi tutt’altro che da scartare. Ernesto Roli, lo studioso
già amico e collaboratore di Adriano Romualdi, ad esempio, si era espresso con me in questo senso in una comunicazione
privata, ma questa è tutt’altra cosa rispetto all’affermare che il nero subsahariano abbia avuto una qualche parte in ciò.
Andando a esaminare le cose pubblicate da MANvantara in questo torno di tempo, si trova una recensione del nostro
Michele Ruzzai del libro di Luigi Brian Il differenziamento e la sistematica umana in funzione del tempo (ed. Martello
1972). Il fatto che questo lavoro sia alquanto datato non deve far pensare che si tratti di un’opera superata: semplicemente è
con ogni probabilità uno degli ultimi testi che si sono potuti scrivere, e ha potuto essere pubblicato da un editore
generalista prima che intervenisse la censura democratica con la proibizione di parlare di razze.
Riguardo in particolare alle origini della razza nera, il nostro Michele riporta:
“Brian ricorda che la razza congoide – definizione che abbraccia le attuali popolazioni subsahariane – viene considerata
“ad evoluzione tardiva”, seguendo l’impostazione di Carleton Coon. In effetti possiamo ricordare che reperti dalla chiara
morfologia negride sono piuttosto recenti (come peraltro anche quelli mongolidi), mentre i ritrovamenti di aspetto europide
sono sicuramente più antichi, ad esempio Cro Magnon e Combe Capelle”.
In poche parole, e questo è il punto realmente centrale, la documentazione fossile ci consente di smentire decisamente che il
nero subsahariano possa essere il tipo ancestrale della specie umana, mentre appare piuttosto il frutto tardivo
dell’adattamento a un ambiente particolare, quindi anche nell’ipotesi di collocare in Africa il punto di origine della nostra
specie, quello che è il cuore dell’OOA, ispirato non da dati di fatto ma dall’esigenza ideologica “antirazzista”, cioè che
“verremmo dai neri”, non sta assolutamente in piedi.
Sempre per completare la panoramica di questo periodo, MANvantara riporta il link a un articolo di “Science Daily” del 23
maggio che a sua volta cita come fonte l’università di Toronto dove si parla dei resti di un ominide risalenti a 7,2 milioni di
anni fa ritrovati nei Balcani. Non si tratta di altri, l’avrete capito subito, che del nostro “El Greco”.
Bene, potremmo dire, finalmente questa importante scoperta è menzionata non soltanto in siti “di Area” ma in una
pubblicazione scientifica ufficiale, il che andrebbe benissimo se non fosse per un fatto, che comunque si tratta di una
pubblicazione straniera. In Italia fuori dall’ “Area” tutto tace, eccezion fatto come abbiamo visto, per l’articolo su
“Ethnopedia” tendente a denigrare questa scoperta e coloro che ne evidenziano l’importanza. Si direbbe che “El Greco” sia
dannatamente scomodo per qualcuno.
Cosa dobbiamo pensare di una democrazia e di una “scienza democratica” che teoricamente proclamano la libertà di
opinione e il libero confronto delle idee e che nella pratica hanno paura dei fatti (non delle opinioni, perché l’esistenza del
fossile di “El Greco” è un fatto!) e li censurano?

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Si ha forse paura di mettere in crisi un’immagine del nostro passato e di noi stessi ortodossa e quindi tranquillizzante.
Peccato solo che questa tranquillizzante ortodossia con la pretesa dell’inesistenza delle razze e della riduzione delle etnie a
mero fatto culturale, ci porti dritti al suicidio come popolo.
NOTA: Nell’illustrazione (tratta da “Le scienze”) si può vedere la ricostruzione di un cranio di Jebel Irhoud ottenuta al
computer sulla base di microscansioni di tomografia computerizzata.

Una Ahnenerbe casalinga, cinquantaquattresima parte – Fabio Calabrese

Come avete avuto modo di vedere, questa rubrica copre un ventaglio di tematiche piuttosto vasto: lungo la linea temporale
si va dalle remote origini della nostra specie a quelle dei popoli indoeuropei, della civiltà europea e, tema che io tengo
particolarmente a evidenziare anche perché spesso stranamente “snobbato” anche in ambienti “nostri”, quello delle nostre
origini e della nostra identità come italici.
Tuttavia, non c’è soltanto questo, infatti si possono certamente distinguere le nuove informazioni e le scoperte scientifiche
dalle comunicazioni, diciamo così, “di servizio” riguardanti il modo come il dibattito sulle nostre origini si sviluppa
all’interno dell’ “Area” attraverso articoli sui siti, interventi sui social, conferenze o altro.
Ora, se dopo due importanti scoperte di quelle che ci costringono a rivedere la storia della nostra specie di cui vi ho parlato
nelle parti precedenti, cioè i resti di un ominide europeo ritrovati nei Balcani e risalenti a 7,2 milioni di anni fa, che è stato
chiamato “El Greco”, e quelli di un uomo anatomicamente moderno datati a 300.000 anni fa ritrovati in Marocco,
continuassero a susseguirsi scoperte altrettanto eclatanti, ci sarebbe davvero di che meravigliarsi.
Senza pretendere troppo dalla fortuna, stavolta daremo un’occhiata ad alcune “comunicazioni di servizio” dell’Area, e
vedremo di precisare meglio alcune questioni rimaste in sospeso.
Se voi andate a rileggere in particolare la quarantottesima e la quarantanovesima parte, potete notare che in entrambe c’è un
riferimento alle origini italiche che nella prima delle due è un discorso che non si capisce bene come esca fuori, e nella
seconda è collegato in maniera abbastanza pretestuosa a una conferenza che avevo in animo di tenere (le intenzioni, come
non dovrebbero essere processate, così non dovrebbero neppure costituire titolo di merito finché non si traducono in realtà).
L’arcano è presto svelato: in entrambe avevo fatto riferimento a dei post di un gruppo di idee certamente “nostre”, ma – io
ignoravo la cosa – il cui comportamento nei confronti di “Ereticamente” è stato tutt’altro che encomiabile, e sono stato
pregato di ritoccare gli articoli per non fare loro un’immeritata pubblicità. Questo ci porta a un discorso importante: il reale
significato da dare a questo termine, “cameratismo” del quale spesso abusiamo. Diciamo che una condivisione di idee a
livello intellettuale non è sufficiente, occorre quanto meno una condivisione di etica e di stile.
L’aspetto della cosa che io personalmente ho trovato più irritante, è il fatto che per una serie di circostanze, sembra proprio
che un discorso come si deve sulle origini italiche, non si riesca a impostare. Io credo che si tratti di una questione
fondamentale dal nostro punto di vista: quella sentina di idee distorte e di menzogne che conosciamo con il nome di
democrazia, sta al riguardo diffondendo, e oggi con più intensità che in passato, una favola che occorre assolutamente
smentire: ossia che gli Italiani sarebbero una sorta di patchwork genetico, privo di alcuna coerenza tranne la collocazione
geografica e un vago collante culturale. L’idea che ci si vuole far accettare surrettiziamente, è che la massiccia immissione
di sangue estraneo da cui oggi siamo invasi con la cosiddetta immigrazione, tutto sommato non cambierebbe un gran che.
Peggio ancora, l’idea del tutto falsa che l’eccellenza italiana in campo artistico (pensiamo che il nostro Paese, dati UNESCO
ospita il 50% della produzione artistica dell’intero pianeta), culturale (pensiamo al rinascimento), scientifico (ricordiamoci
che siamo stati la patria di Leonardo Da Vinci e di Galileo Galilei) sia dovuta a una qualche ibridazione avvenuta in passato,
o a una serie di ibridazioni avvenute nel corso dei secoli in conseguenza delle invasioni straniere che la nostra Penisola ha
subito, invasioni che, lo abbiamo visto più volte, hanno lasciato nella realtà dei fatti una traccia piuttosto nulla che scarsa.
E’ in base a questo assunto distorto che qualcuno, non si sa quanto per malafede e quanto per pura stupidità, è arrivato a
definire gli invasori e parassiti che ci sommergono dalle fogne del pianeta “risorse”. La verità è esattamente opposta, è
quando un popolo può mantenere nel tempo la propria identità e la propria fisionomia, che può sviluppare la propria cultura,
mentre il meticciato non porta, non ha mai portato altro che alla decadenza.
Io adesso però non vorrei tediarvi con la storia di quella conferenza annunciata che finora non si è riusciti a tenere, andando
troppo sul personale. Quel che dispiace purtroppo constatare, è che anche in ambienti “nostri” pare a volte di scorgere una
sorta di inconfessata vergogna di essere italiani, e i motivi non sono difficili da capire: si va dallo schifo di settant’anni di
“repubblica democratica” impostaci dai vincitori del secondo conflitto mondiale che si è rivelata il regime più corrotto
esistente in Europa, a quel che accadde durante quel conflitto, con i nostri che si trovarono in una condizione penosa di
inferiorità rispetto a Tedeschi e “alleati”, ai vergognosi “ribaltoni” del 25 luglio e dell’8 settembre 1943.
Ricordiamo allora che i nostri padri e nonni seppero compiere prodigi di valore sovente evidenziati proprio dal fatto di
dover affrontare il nemico in condizioni di inferiorità tecnica, che nel 1943 furono la viltà e il tradimento di pochi a
infangare il valore di molti, e infine non dimentichiamo mai che “la repubblica democratica” non è l’Italia, né un destino

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che gli Italiani abbiano scelto, ma un protettorato impostoci dai dominatori a stelle (fra le quali è meglio non contare il
numero delle punte) e strisce.
Forse vi interesserà sapere che la scaletta di questi ultimi articoli è stata oggetto di estesi rimaneggiamenti. Dopo avervi
presentato una sintesi del lavoro sin qui svolto (la cinquantesima e quella che poi è diventata la cinquantaduesima parte),
avevo pensato di darvi una panoramica anche degli articoli in cui mi sono occupato a vario titolo della questione delle
origini, dei popoli antichi e via dicendo, senza includerli in Una Ahnenerbe casalinga (tutta la serie Ex Oriente lux, per
dirvene una), ma poi mi sono reso conto che questo avrebbe significato mettersi un po’ troppo al centro dell’attenzione,
mostrare di ritenere fondamentale nei miei scritti il fatto di essere scritti da me, piuttosto che ciò che contengono, dare la
precedenza alla persona piuttosto che all’idea.
Tuttavia c’è qualcosa della quale ritengo utile rendervi edotti. Nelle parti che poi ho tagliato, raccontavo una circostanza che
può essere spunto per utili riflessioni, che non mi pare di avervi menzionato in precedenza, anzi di cui non mi ricordavo
proprio prima di mettermi alla stesura di questo lavoro, essendo la cosa avvenuta parecchi anni addietro,.
Come forse ricorderete, il primo di questa serie di articoli, sotto il cui titolo ho poi deciso di raccogliere tutto il discorso
concernente l’eredità degli antenati, i popoli antichi, la civiltà europea e via dicendo, è stato un numero in certa misura
autobiografico nel quale raccontavo come sia nato questo interesse per le civiltà antiche e in particolare l’esigenza di
approfondire le origini della civiltà europea unitamente alla rivendicazione della sua originalità. Tutto partì da una rovente
discussione con una collega nella sala insegnanti della scuola dove allora lavoravo; questa signora era una fanatica delle
culture orientali e a suo dire “gli Europei non avevano mai inventato nulla”.
La circostanza della quale allora non vi parlai e di cui mi sono ricordato solo in seguito, è che con questa signora avevo già
avuto un’altra discussione che aveva assunto i toni di uno scontro rovente, e anche questa in pubblico, davanti a una
scolaresca che avevamo accompagnato in gita scolastica a Firenze. All’uscita dagli Uffizi, costei ebbe un’altra trovata che
ebbe il potere di pungermi sul vivo. Avevamo appena ammirato la Venere del Botticelli, e graziosamente rese edotti me e i
ragazzi che Botticelli sarebbe stato omosessuale (del che poco mi importa, né poi mi sono preoccupato di verificare),
aggiungendo però la sua opinione da femminista un tantino esagitata, che la creatività artistica o di altro genere, sia un dono
essenzialmente femminile, e che quando capita che un uomo la manifesti, debba essere omosessuale o comunque avere una
personalità femminea. Essendo io anche uno scrittore di narrativa e non essendomi mai accorto in vita mia di avere tendenze
omosessuali, la cosa mi provoco una reazione spazientita che, date le circostanze, penso fosse assolutamente giustificabile.
Ciò che più conta rilevare, però è questo: ma possibile che queste persone di sinistra ammiratrici di tutto ciò che si presenta
come extraeuropeo, orientale e simili, più o meno “colorato”, e che nello stesso tempo si professano femministe più o meno
arrabbiate, o magari gender, non si rendano conto che la loro ammirazione la riservano a culture, come quella islamica che
trattano il cane di casa con maggiore considerazione della donna, e dove spesso per gli omosessuali c’è la forca? Possibile
che non vedano una contraddizione grossa come una montagna?
Ve lo confesso, mi sono spremuto a lungo le meningi per capire come “i compagni” (e soprattutto “le compagne”) potessero
non vedere una contraddizione così vistosa, poi di colpo ho avuto una specie di illuminazione che mi ha reso ogni cosa
chiara: a livello oggettivo, reale, la contraddizione c’è ed è enorme, ma a livello soggettivo non esiste.
Dietro il terzomondismo della sinistra e l’ideologia gender c’è lo stesso atteggiamento, ossia la riduzione di un fatto
biologico a mero costrutto culturale: in un caso l’etnia e l’appartenenza etnica, nell’altro il sesso e la sessualità. Certo,
questo porta all’assurdo per cui vediamo un “compagno” gay o transgender farsi promotore di quell’accoglienza agli
immigrati in maggior parte islamici che nei suoi confronti non provano altro desiderio che quello di farlo penzolare da una
forca, ma “a sinistra” l’aderenza alla realtà dei fatti non è mai stata una virtù.
Di questi tempi, a tenere banco – era prevedibile – è soprattutto la questione dello ius soli, questa estrema nefandezza del
governo di sinistra pidiota impostoci e non eletto dagli Italiani, intento a dare l’ultimo colpo d’ascia per sfasciare la nostra
traballante identità nazionale. Al riguardo, è interessante un post pubblicato in data 19 giugno sul gruppo facebook “Idee sul
destino del mondo” da uno di quegli amici che io considero “collaboratori indiretti” di “Ereticamente”, Ettore Malcangi.
Facendo notare come l’integrazione sia un’utopia o una fola, presenta le immagini delle ricostruzioni di cinque ominidi o
uomini preistorici nei cui lineamenti sono già riconoscibili quelle differenze razziali che caratterizzano l’umanità attuale.
Su ciascuno di questi personaggi, antenato o parente collaterale che sia, ci sarebbe da aprire una discussione. La
ricostruzione dell’uomo di Denisova, ad esempio, che vi riporto. Di questo antico uomo che avrebbe lasciato la sua
impronta genetica nelle popolazioni asiatiche e australiane, in realtà sappiamo pochissimo. Quello di cui disponiamo sono
alcuni frammenti ossei e alcuni denti, molari di taglia decisamente grande a confronto di quelli delle popolazioni moderne,
troppo poco per ricostruirne la fisionomia, quindi questa ricostruzione deve verosimilmente molto alla fantasia.
Di maggiore interesse è probabilmente la ricostruzione dell’uomo di Neanderthal, un’immagine diversa da quella che io vi
ho proposto nella cinquantunesima parte della nostra Ahnenerbe, ma del pari si vede come le caratteristiche scimmiesche a
lungo attribuite a questo nostro antenato (in ossequio, suppongo, a un’interpretazione rigida e dogmatica dei concetti
evoluzionistici) siano del pari scomparse, e quanto sia vero quel che diceva uno scrittore di fantascienza (scusate, ma non
mi ricordo esattamente chi) che con un abito moderno, una sbarbata e un buon taglio di capelli, un uomo di Neanderthal
potrebbe girare per Manhattan senza destare attenzione.
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Nel complesso, questa galleria di ritratti viene a supportare in modo sorprendente la teoria di Carleton S. Coon sull’origine
delle razze. Questo ricercatore aveva notato che, salvo nell’ipotesi di incroci, le razze umane appaiono molto stabili nel
tempo, al punto che si deve ipotizzare che la loro origine e la loro diversificazione siano anteriori alla comparsa di homo
sapiens: esse si sarebbero formate già quando l’umanità si trovava allo stadio di Erectus, e il meccanismo del loro passaggio
a homo sapiens sarebbe stato questo: facciamo l’ipotesi che una popolazione sapiens venga a contatto con una di Erectus e
che fra l’una e l’altra avvengano degli incroci. Quali caratteri conserverà nel tempo la popolazione ibrida risultante, lo
decide la selezione naturale, quelli che alla lunga si rivelano più vantaggiosi, cioè da un lato quelli sapiens che
rappresentano un vantaggio generale (ad esempio un’aumentata capacità cranica che significa una maggiore intelligenza),
dall’altro quei caratteri già propri della popolazione Erectus che rappresentano un vantaggio perché sono un adattamento a
condizioni locali, come ad esempio il clima, cioè i caratteri razziali che hanno una singolare persistenza e antichità.

Oggi la teoria di Coon non gode di popolarità presso la scienza accademica ufficiale, ma NON perché sia stata in qualche
modo smentita da nuove ricerche e nuovi fatti emersi, ma semplicemente perché la censura democratica“politicamente
corretta” oggi proibisce di parlare di razze. AL CONTRARIO, le scoperte recenti nel campo della paleoantropologia e
soprattutto lo studio del DNA hanno confermato la teoria di Coon, anche se per ovvi motivi si preferisce non dirlo:
l’impronta genetica dell’uomo di Neanderthal riscontrata nel DNA degli Europei odierni, la scoperta dell’uomo di
Denisova, il “quarto antenato” le cui tracce i ricercatori dell’IBE di Barcellona avrebbero rintracciato nel DNA degli
abitanti delle isole Andamane, il quinto, l’Erectusseparatosi dalla linea principale umana 1,2 milioni di anni fa e con cui si
sarebbero reincrociati gli antenati dei neri subsahariani (quarto e quinto, naturalmente contando il Cro-Magnon che sarebbe
stato il portatore primario delle caratteristiche sapiens), tutto ciò porta inevitabilmente alla conclusione che quella umana è
una specie politipica e Coon aveva ragione.
Dalla metà di giugno in poi anche quest’anno non l’ho scampata, mi sono toccate le maturità, quelle che sono divenute
ufficialmente Esami di Stato, ma la cosa più sgradevole è che mi è toccato un Istituto Magistrale oggi divenuto Liceo delle
Scienze Sociali. E’ bene chiarire un fatto fondamentale: Tutta la scuola italiana è imbevuta da cima a fondo dalle menzogne
dell’ideologia “rossa” gabellate per scienza, ma negli ex istituti magistrali, cioè quelli che si occupano di plagiare i ragazzi
destinati a diventare coloro che si occuperanno della (de)formazione primaria delle nuove generazioni, la pressione
ideologica è particolarmente forte, e io onestamente, come insegnante, non trovo giusto far pagare agli allievi il fatto di aver
subito cinque anni o più di lavaggio del cervello.
Ho preso in mano il testo di scienze sociali, e come prevedevo, vi ho trovato sciorinato tutto lo sciocchezzaio
dell’antropologia culturale targato Levi Strauss.
C’è un paragrafo che mi ha colpito e vale la pena di riferire. Gli autori “discutono” se il concetto di etnia vada considerato
qualcosa di fisso, immutabile, genetico (e quindi, salvo meticciato, variabile al più col flusso lento delle mutazioni e della
selezione naturale), o invece qualcosa di fluido, mutevole, culturale. Gli autori propendono ovviamente per la seconda
interpretazione, perché se si considerasse valida la prima, allora il concetto di etnia sarebbe sinonimo di quello (aborrito) di
razza.
In altre parole, la forma logica di tale “ragionamento” si riduce a “Poiché la realtà non ci piace, ce ne inventiamo una
secondo i nostri gusti, e guai a chi si accorge che il re è nudo”.
Cioè l’atteggiamento tipico della sinistra, in cui la cecità voluta si prolunga senza soluzione di continuità nella malafede.
In tutta sincerità, dato il tipo di “cultura” oggi dominante, credo che i miei articoli avrebbero ben scarse possibilità di
apparire che so, su “Le scienze” o in qualche sede ufficiale “di prestigio”, ma questo in particolare ancor meno di altri,
infatti, come avete visto, le tematiche paleoantropologiche sono rimaste tangenti a un discorso dedicato principalmente sia
ai retroscena di questi articoli, sia alle implicazioni ideologiche e politiche di una materia tutt’altro che “neutra”.
Bene, ciò non costituisce minimamente un problema. L’intento di questi scritti, infatti non è di tipo accademico, ma è quello
di conoscere per agire in difesa della nostra identità etnica e storica.
NOTA: le tre immagini che compongono l’illustrazione di questo articolo sono, da sinistra: la ricostruzione (molto
ipotetica) dell’uomo di Denisova e quella dell’uomo di Neanderthal entrambe tratte dal post pubblicato su “Idee sul destino
del mondo”, e la copertina dell’edizione italiana de L’origine delle razze di Carleton S. Coon

Una Ahnenerbe casalinga, cinquantacinquesima parte – Fabio Calabrese

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A volte sembra che il destino sia, non so se beffardo o benevolo, ma certamente giochi con ironia. Già altre volte mi era
accaduto di segnalare su questa serie di articoli, che ha ormai superato la quota di cinquanta ed è diventata – si può dire –
una rubrica sulle pagine di “Ereticamente”, il fatto che in un campo scientifico come quello della ricerca delle nostre origini,
non fosse possibile trovare una scadenza di novità sostanziali come avviene per la politica spicciola, il gossip, lo sport o
altro, e a distanza di poco tempo dopo aver espresso una simile lamentela, mi è capitato di trovarmi riversate addosso una
serie di novità, di informazioni inedite, di scoperte sulle nostre origini, da lasciare sorpresi, se non proprio storditi. A volte
ho l’impressione che ci sia qualche divinità – benevola, ma che non mi risparmia una tiratina di orecchie ogni tanto – che mi
incoraggia ad andare avanti.
Bene, la volta scorsa, se non mi sono proprio lamentato, avevo comunque affermato che dopo due scoperte rivoluzionarie
sulle tematiche delle origini come la scoperta di un ominide europeo vecchio di 7,2 milioni di anni i cui resti sono stati
ritrovati nella area balcanica (Grecia e Bulgaria) e che è stato soprannominato “El Greco”, e quella dei resti di Homo
sapiens anatomicamente moderni vecchi di 300.000 anni ritrovati a Jebel Irhoud in Marocco, sarebbe stato difficile che si
presentassero di nuovo a breve scadenza scoperte altrettanto notevoli in grado di ridisegnare la storia della nostra specie.
A quanto pare, anche stavolta la divinità, genio, numen o daimon che sia, che sembra avermi preso sotto la sua tutela, si è
divertita a smentirmi.
Per capire meglio l’importanza dell’ultima scoperta che segue le due sopra accennate e di cui ci siamo già occupati, sarà
bene dire due parole introduttive.
Contrariamente a quanto asserito dalla maggior parte dei testi scolastici e di divulgazione “scientifica” che sono
solo PROPAGANDA DI REGIME a favore del meticciato, la specie a cui apparteniamo, homo sapiens, è una specie
politipica caratterizzata da importanti differenze sia di aspetto fisico sia comportamentali che trovano un puntuale riscontro
nella genetica. Oggi non si vuole, anzi non è consentitousare la parola “razze”, ma al di là delle parole e degli artifici che è
necessario usare per cercare di aggirare la censura di regime che esiste su questo argomento, la sostanza delle cose non
cambia.
Queste differenze che hanno le loro origini nella genetica (gli studi scientifici serismentiscono la credenza nell’onnipotenza
dell’ambiente cara alle sinistre) risalgono al nostro remoto passato, al fatto che la nostra specie è nata da una pluralità di
antenati che, distaccatisi da homo erectus hanno intrapreso per proprio conto il cammino verso il livello sapiens, anche se
con incroci e apporti genetici reciproci che non hanno però fatto scomparire la peculiarità dei diversi gruppi umani. Oltre
all’eredità dell’uomo di Cro Magnon che rappresenta “il classico” sapiens, negli europei (caucasici) e negli asiatici è
riscontrabile la traccia genetica dell’uomo di Neanderthal, negli asiatici e negli australoidi quella di un uomo i cui resti
fossili finora disponibili (alquanto scarsi) sono conosciuti da poco, l’uomo di Denisova. L’eredità denisoviana parrebbe
essere particolarmente forte nei melanesiani che si differenziano in maniera caratteristica da tutti gli altri gruppi umani oggi
esistenti.
Come se non bastasse, uno studio compiuto da un team di ricercatori catalani dell’Istituto di Biologia Evolutiva (IBE) di
Barcellona sul genoma degli indigeni delle isole Andamane e di altre popolazioni asiatiche, ha evidenziato la presenza di
geni che non risalirebbero né al sapiens di tipo Cro Magnon, né all’uomo di neanderthal, né a quello di Denisova, ma
richiedono di ipotizzare un nuovo e per ora sconosciuto antenato dell’umanità attuale. In Italia e in lingua italiana, la notizia
è stata riportata da un articolo apparso sul sito ecologista “Greenreport” (www.greenreport.it), Scoperto un nuovo misterioso
antenato degli esseri umani moderni, di data 26 luglio 2016.
“La vulgata” ufficiale sulla storia più antica della nostra specie è completamente diversa, si pretende che gli esseri umani
presenterebbero una pressoché totale uniformità genetica, che tutte le differenze fisiche e comportamentali che
indubbiamente esistono fra loro, siano riconducibili a fattori ambientali e culturali, che i nostri antenati sarebbero emigrati
in tutto il Vecchio Mondo (e poi nelle Americhe) provenendo dall’Africa (“teoria”, ma ci vuole un grosso sforzo di
benevolenza per considerarla tale, dell’Out of Africa), e tutto lo sciocchezzaio tipico della sinistra; infatti se la base genetica
è identica in tutti gli esseri umani, si può continuare a ragionare come se non esistesse e risuscitare o tenere in vita l’antico
sogno della sinistra di riformare la società umana a partire dalla manipolazione dell’ambiente, come quando di genetica non
si sapeva ancora nulla.
Poiché circa centomila anni fa in tutto il Vecchio Mondo esistevano varie popolazioni pre-sapiens o sapiens arcaiche, ecco
che si è arrivati a immaginare un immenso colpo di spugna che le avrebbe spazzate via per lasciare spazio al solo e “puro”
ceppo sapiens di origine africana. Questo colpo di spugna sarebbe consistito in una mega-eruzione del vulcano indonesiano
Toba che avrebbe annientato tutti gli esseri umani allora esistenti, tranne un pugno di superstiti africani che sarebbero stati i
nostri antenati (appena un po’ meno plausibili di quelli di Italo Calvino). Solo a formularla, ci si rende conto di quanto poco
plausibile sia un’ipotesi del genere: è possibile che una catastrofe planetaria porti una specie sull’orlo dell’estinzione senza
lasciare alcun segno visibile sulle altre?
La ricerca genetica ha dimostrato che le cose non stanno affatto così, e che questo psicodramma sulle nostre origini non ha
nessuna reale consistenza. Naturalmente, i sostenitori dell’Out of Africa non potevano ignorare completamente il responso
della genetica, e ne hanno preso atto in maniera alquanto schizofrenica. Mi è capitato più di una volta, seguendo il dibattito
sulle origini come si è sviluppato sui social di notare una quasi umoristica (se non fosse tragica) esaltazione della “pura
160
linea” africana in confronto a noi europei e asiatici, ibridi di Neanderthal e di Denisova, un atteggiamento che si può
definire soltanto in un modo: RAZZISMO, un paradossale razzismo pro-africano, oltre che grottesco, penoso alla luce del
fatto che gli autori di queste sparate sono in genere bianchi caucasici, si tratta quindi di un auto-razzismo, un razzismo
contro la propria gente, che non si capirebbe se non per il fatto che costoro escono regolarmente da quelle fucine di paranoie
e distorsioni mentali che conosciamo come sinistra e (mente)cattolicesimo.
Bene, qui arriva la sorpresa, perché il nero subsahariano, ben lungi dal rappresentare il tipo sapiens “puro” è a sua volta il
prodotto di un’ibridazione con un ominide arcaico.
Il 2 agosto 2012 “Le scienze” ha pubblicato un articolo a firma di Gary Stix, In Africa i primi umani moderni si
incrociarono con altre specie che è un’intervista con Sarah Tishkoff, una ricercatrice che l’articolista definisce “una star
della genetica delle popolazioni”. La Tishkoff riferisce i risultati di uno studio genetico condotto su tre popolazioni di
cacciatori-raccoglitori africani, e i risultati sono sorprendenti: per prima cosa, nel genoma di queste popolazioni non è stata
trovata nessuna traccia di DNA risalente all’uomo di Neanderthal o a quello di Denisova, in compenso però:
“Abbiamo visto molti dati che testimoniano incroci con un ominide che si è separato da un antenato comune circa 1,2
milioni di anni fa”.
Questo è il quadro che avevamo disponibile finora, e questa nuova scoperta in che cosa consiste, che cosa aggiunge?
Cominciamo con il dire che si tratta di una scoperta che riguarda non i fossili, di cui per ora non abbiamo evidenze, ma la
genetica (sebbene questo registro del nostro passato che portiamo in noi stessi sia ancor più conclusivo e probante), o
meglio ancora in questo caso lo studio delle proteine, che sono l’espressione diretta della base genetica (una proteina è
composta di aminoacidi, e ogni aminoacido è codificato in maniera univoca da una tripletta di basi accoppiate del DNA).
In questo caso si tratta di una ricerca dell’Università di Buffalo che è stata pubblicata su “Molecular Biology and Evolution”
in data 21 luglio, gli autori sono il biologo Omer Gokcumen dell’Università di Buffalo e Stefan Ruhl, docente di biologia
orale alla Scuola di Medicina Dentale. La ricerca e il suo interessante esito sono stati ripresi e commentati su diversi siti on
line, in particolare phys.org.news del 21 luglio 2017 con il titolo In saliva, clues to a ‘ghost’ species of ancient human e da
“Paleoanthropology” del 22 luglio in un articolo intitolato Gene Study Suggests Homo sapiens Migrated into Africa, Not
Out of the Continent – Interbreeding with Local Hominins 150,000 Years Ago, a firma di Bruce R. Fenton. Una versione
alquanto sintetica dello stesso articolo, limando i punti più “scottanti” è apparsa in lingua italiana su “Le scienze” del 24
luglio, e il nostro “MANvantara” l’ha subito postata.
Devo essere sincero: inizialmente non avevo colto l’importanza dell’articolo, sebbene gli avessi dato una rapida scorsa,
sembrandomi semplicemente una conferma di quanto già emerso dalle ricerche di Sarah Tishkoff, e di cui “Le scienze” ci
aveva già resi edotti nell’agosto 2012 (e poi sono sincero, non è che io ami moltissimo leggere testi in inglese). Per fortuna
un amico, uno di quegli amici che io considero “collaboratori indiretti” di “Ereticamente” e senza il cui aiuto tenere questa
rubrica sarebbe considerevolmente più difficile, Maurizio N., ha richiamato la mia attenzione su questo pezzo e mi ha spinto
a una lettura più approfondita.
Di che si tratta, allora?
I due biologi hanno studiato una proteina, una mucina, la MUC7, presente nella saliva umana, sono risaliti ai geni che la
codificano, e hanno scoperto che essa si presenta nei neri subsahariani e i geni che la codificano si presentano in una forma
diversa rispetto agli altri gruppi umani, viventi ed estinti, caucasici, asiatici, ma anche gli uomini di Neanderthal e di
Denisova. Per questi ultimi, ovviamente, non si è potuta esaminare la saliva, ma solo le sequenze di DNA ricavate dalle
ossa.
La conclusione a cui i due ricercatori sono giunti, è che questa proteina deve essere l’eredità di un antenato esclusivamente
africano, un homo arcaico o un ominide con cui i sapiens antenati dei neri subsahariani si sarebbero re-incrociati. Fino a
questo punto, come si vede la conclusione a cui i due ricercatori sono giunti, è semplicemente una conferma di quanto
emerso dalle ricerche di Sarah Tishkoff, ma i nostri ricercatori si spingono alquanto più in là, innanzi tutto, l’assenza
assoluta presso qualsiasi altra popolazione al mondo della variante “africana” di questa proteina mette seriamente in dubbio
che le popolazioni sapiens sparse per il mondo possano essere derivate da antenati africani, perché in questo caso essa
sarebbe dovuta essere presente anche altrove, sia pure in proporzioni minoritarie. E’ di gran lunga più verosimile,
sostengono gli autori, che homo sapiens sia nato in Eurasia e da qui abbia colonizzato l’Africa incontrandosi e incrociandosi
con questo antico homo od ominide che, con un tocco di poesia, gli autori definiscono “specie fantasma” (“Ghost Species”)
per l’assenza di riscontri fossili. (non è verosimilmente la sola “specie fantasma”, la stessa cosa si può dire del “nonno”
degli isolani delle Andamane le cui tracce i ricercatori spagnoli dell’IBE di Barcellona avrebbero scoperto nel DNA dei suoi
discendenti, ma di cui non abbiamo evidenze fossili)

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.
Quasi tutti i ricercatori sono molto reticenti da questo punto di vista o cercano di salvare la capra delle loro scoperte assieme
ai cavoli dell’ortodossia di regime, inventando funambolismi che cercano di persuaderci che “in realtà” le loro scoperte
sono compatibili con l’Out of Africa, esattamente allo stesso modo in cui gli astronomi del cinque-seicento sostenevano che
l’eliocentrismo era un semplice accorgimento per semplificare i calcoli, ma “in realtà” il sistema solare era geocentrico.
Oggi lo scienziato che rivela verità che dispiacciono al potere, perlopiù non rischia di finire sul rogo, non rischia la pelle
(non sempre, se pensiamo agli attentati subiti da Arthur Jensen), ma l’establishment politico e culturale ha ugualmente un
gran potere di rovinare le vite e le carriere (anche gli scienziati devono mangiare).
Fa dunque un gran piacere che Omer Gokcumen e Stefan Ruhl abbiano il coraggio di affermarlo esplicitamente: homo
sapiens è nato in Eurasia, e ha colonizzato l’Africa attorno a 150.000 anni fa (i 70.000 anni che ci concede “la teoria” del
Toba sono veramente troppo pochi), con un movimento che è il contrario di quello che viene solitamente descritto.
L’OUT OF AFRICA E’ FALSA! Possiamo dire di averlo dimostrato e che il nostro compito è finito? Non credo che le cose
siano così semplici, perché anche se abbiamo maturato la certezza definitiva della sua falsità, non è che questo renda
superflua la lotta contro l’establishment accademico e culturale interessato a diffonderla, perché in ultima analisi non è che
una propaggine del potere politico che vuole imporre l’universale meticciato.
Ricordiamo le parole dello storico Greg Gefferys, parole che oggi suonano quasi profetiche:
“Tutto il mito dell’Out of Africa ha le sue radici nella campagna accademica ufficiale negli anni ’90 intesa a rimuovere il
concetto di razza. Quando mi sono laureato, tutti passavano un sacco di tempo sui fatti dell’Out of Africa ma sono stati
totalmente smentiti dalla genetica. (Le pubblicazioni) a larga diffusione la mantengono ancora”.
I media continuano e continueranno a propagandare l’Out of Africa per quanto le ricerche di genetica o altra natura possano
averla smentita, perché è una dottrina troppo utile per il potere che ci domina e vuole imporre ovunque l’universale
meticciato, e per questa ragione continueremo a parlarne e a contrastarla.
“Ereticamente” continuerà, io continuerò, questa serie di articoli continuerà.
NOTA L’illustrazione, una suggestiva immagine della “specie fantasma” è stata ripresa dall’articolo originale apparso in
lingua inglese e poi su “Le scienze”.

Una Ahnenerbe casalinga, cinquantaseiesima parte – Fabio Calabrese

Sarà bene iniziare il nostro discorso riassumendo brevemente alcuni concetti fondamentali: quella che noi chiamiamo, che
siamo stati abituati a chiamare democrazia, è un sistema di regimi ipocriti che tendono a tenere assoggettati i popoli del
cosiddetto “mondo occidentale” al dominio americano e a coloro che dietro le quinte controllano la potenza, il
golem verrebbe da dire, a stelle e strisce, non solo, ma che soprattutto dopo la scomparsa del concorrente sovietico al
dominio mondiale, si prefiggono lo scopo di portare all’estinzione i popoli europei o di origine europea di stirpe caucasica
per sostituirli con meno intelligenti, più malleabili e più facili da dominare, masse “colorate”, è quello che si chiama piano
Kalergi.
In questo contesto, quella che passa per “cultura” e per “scienza” nel mondo sedicente democratico, non è che una serie di
mistificazioni propagandistiche che hanno precisamente lo scopo di ottundere la sensibilità, l’autocoscienza in quanto realtà
etniche dei popoli di stirpe caucasica-indoeuropea in modo che non percepiscano l’enormità del delitto che si sta
commettendo contro di loro, e non si ribellino.
In questo avvelenamento delle coscienze gioca un ruolo chiave la negazione dell’esistenza delle razze, la pretesa
assolutamente infondata dal punto di vista di una reale scientificità che tutte le differenze che esistono fra gli esseri umani,
siano riducibili a fattori ambientali e culturali.
Allo scopo di rendere credibile una simile assurdità, è stata inventata “la teoria” priva di una qualsiasi reale base scientifica,
dell’Out of Africa secondo la quale tutti i tipi umani attualmente esistenti deriverebbero dal nero africano e se ne sarebbero
differenziati in tempi relativamente recenti (decine di migliaia di anni or sono, che in rapporto ai ritmi della storia biologica
e geologica non sono davvero un tempo lungo).
162
Quando noi parliamo di “scienza” dovremmo sempre distinguere il concetto “galileiano” di scienza fondato
sull’osservazione, la formulazione e la correzione delle ipotesi in base all’esperienza e là dove è possibile, sull’esperimento
per mettere alla prova le interpretazioni, cioè la scienza come dovrebbe essere, dalla “scienza” intesa come istituzioni
accademiche e teorie dominanti, che tali principi non rispettano minimamente, e sono invece una forma di propaganda a
favore del sistema, un sistema il cui scopo finale è il nostro annientamento come popoli.
Proprio perché nata da motivazioni ideologiche che all’osservazione e alla ricerca non devono in realtà nulla, sarebbe stato
ben strano che, andando a esaminare i fatti della storia passata della nostra specie, l’Out of Africa trovasse un qualche
minimo appiglio nella realtà.
Più volte, si può dire, abbiamo visto che “i fondamenti” di questa “teoria” riposano sul nulla, ma oggi possiamo dire
qualcosa di più, abbiamo la prova che essa è positivamente falsa. Se “la scienza” fosse davvero quella spassionata ricerca
della verità per cui essa intende presentarsi, essa dovrebbe essere rapidamente abbandonata, ma possiamo essere certi che
questo non avverrà, è un ingrediente troppo utile ed essenziale del sistema delle mistificazioni “democratiche”.
La prova positiva della falsità dell’Out of Africa è stata portata nel luglio di quest’anno da due biologi dell’Università di
Buffalo, Omer Gokcumen e Stefan Ruhl, costoro, studiando una proteina che si trova nella saliva, una mucina, la MUC7,
hanno scoperto che essa si presenta nei neri subsahariani in una forma diversa rispetto a tutte le altre popolazioni umane
note, viventi o estinte. Costoro l’avrebbero ereditata da un antenato separatosi dalla linea umana principale con cui
i sapiens immigrati in Africa dall’Eurasia si sarebbero re-incrociati. Gokcumen e Ruhl fanno notare che se il movimento
fosse avvenuto nel senso inverso, dall’Africa all’Eurasia come pretende l’Out of Africa, cioè l’ortodossia “scientifica”
ufficiale, la versione africana di questa proteina dovrebbe trovarsi sia pure marginalmente anche in gruppi umani al di fuori
del Continente Nero, invece questo non succede. Con quello che possiamo considerare un veniale tocco di colore, i due
ricercatori hanno chiamato questo ominide africano di cui per ora non si hanno evidenze fossili, “specie fantasma”.

Se ricordate, la scorsa volta ci siamo dedicati a esaminare questa scoperta con una certa ampiezza.
Il discorso però non finisce qui, sembra l’inizio di una frana che man mano si allarga, perché sembra proprio che nuove
prove, e con una velocità sorprendente, vengano ad aggiungersi a quelle portate dai due biologi di Buffalo. Almeno, è
quello che consente di desumere quanto apparso recentemente su “MANvantara”, l’ottimo gruppo facebook gestito dal
nostro amico Michele Ruzzai il cui lavoro mi sembra si integri come meglio non si potrebbe, con quello che io stesso sto
cercando di svolgere su queste pagine.
In data 7 agosto un collaboratore del gruppo, Jason Pickls (si, siamo internazionali a quanto pare) ha postato un articolo già
comparso su “Scientific American” dieci anni fa e finora passato del tutto inosservato e che, non vorrei sbagliarmi, ma mi
pare che finora non sia mai comparso in lingua italiana, né su “Le scienze” (che è la versione italiana di “Scientific
American”), né altrove.
In questo articolo a firma di Nikhil Swaminathan dell’8 agosto 2007: Is the Out of Africa Theory out? (ricordiamo che
l’inglese “out” andrebbe in questo caso tradotto come “fuori causa”, “fuori combattimento”), l’autore riferisce di una ricerca
condotta da Maria Matinòn-Torres, paleobiologa del Centro Nazionale di Ricerca sull’Evoluzione Umana di Burgos
(Spagna), che ha studiato la conformazione di ben 5000 denti di esseri umani moderni e preistorici, concentrandosi in
particolare sulla conformazione delle corone dentarie, che non è influenzata dall’ambiente, ma è praticamente il riflesso del
genotipo di una persona. Questo ha permesso di ricostruire una sorta di albero genealogico delle popolazioni attuali, che ne
porrebbe l’origine non in Africa ma in Eurasia.
Qui c’è un discorso da fare su come funziona la ricerca scientifica nella nostra cosiddetta democrazia: essa non può inibire
del tutto la libertà di indagine dei ricercatori per non scoprire gli altarini del suo essere un sistema ideologico autoritario e
dogmatico, ma quello che conta, è che le idee dei ricercatori non giungano al grosso pubblico a cui si continueranno a
sciorinare le mistificazioni che fanno comodo, ma rimangano confinate a una ristretta cerchia di specialisti, che in ogni caso
non hanno di certo il potere di contrastare la grancassa mediatica.
Andando a consultare con attenzione il grande oracolo dei nostri tempi che è Wikipedia, su fanno alcune scoperte
interessanti. Non solo in opposizione alla “teoria” dell’Out of Africa esiste quella dell’evoluzione multiregionale secondo la
quale il passaggio da Homo erectus a sapiens sarebbe avvenuto in maniera separata nei diversi gruppi umani senza
privilegiare alcuna area del Vecchio Mondo, ma esiste una sia pure ristretta pattuglia di paleoantropologi sostenitori
dell’Out of Eurasia, pattuglia che grazie alle scoperte di Gokcumen e Ruhl, ma anche di Maria Matinòn-Torres, dovrebbe
ora allargarsi.
163
L’Out of Africa è poi distinta in Out of Africa I e Out of Africa II. Nella prima variante si suppone che l’uscita
di Homo dall’Africa sarebbe avvenuta centinaia di migliaia di anni fa a livello di homo erectus, mentre nella seconda si
suppone che essa sia avvenuta da parte di un homo già sapiens qualche decina di migliaia di anni fa. Bisogna notare che
l’Out of Africa I è una – permettetemi l’espressione – non-out of Africa, perché se supponiamo che l’uomo sia uscito
dall’Africa a livello di erectus, viene a cadere lo scopo “antirazzista” della sedicente teoria, che non è quello di illuminarci
sulle nostre origini, ma di persuaderci che “veniamo dai neri” e che le razze non esistono.
In ogni caso, si capisce bene che sul tema delle nostre origini gli specialisti sono ben lontani da quell’unanimismo che il
sistema mediatico racconta al grosso pubblico ovviamente non addentro a questi problemi, e a cui si possono dare
facilmente a bere i dogmi “antirazzisti”.
Credo di avervelo già fatto rilevare, ma forse è il caso di far notare una volta di più lo spostamento concettuale di neolingua
orwelliana che è avvenuto o ci è stato imposto: il termine “razzismo” è ormai passato a indicare non più chi sostiene la
superiorità di una razza su altre, ma chi semplicemente si accorge o non finge di non accorgersi che le razze esistono; quindi
chi constata che, ad esempio un nero africano e un bianco europeo non sono esattamente uguali, è un sostenitore dei campi
di sterminio. Questo è terrorismo psicologico. Bene, se non altro adesso possiamo dire che per questo “antirazzismo” che è
terrorismo psicologico e culturale, d’ora in poi sarà sempre più difficile avere o fingere di avere un avallo scientifico.
Bene, lo abbiamo visto più volte: la tematica delle origini copre una serie di questioni molto ampia. Un campo più ristretto e
più vicino a noi rispetto alle origini della specie umana, è quello delle origini dei popoli indoeuropei. La novità che andremo
a esaminare in questo campo, spero che non me ne vorrete, stavolta è per così dire interna alla nostra “Ereticamente”. Gli
amici della redazione mi hanno infatti cortesemente chiesto un’opinione circa un articolo recentemente apparso sulla nostra
testata, La Rus’ di Kiev è un’eredità indoeuropea? , di Aldo C. Marturano.
Per capire il contesto ricordiamo che i primi stati creati nell’area orientale, slava del nostro continente, furono i principati di
Kiev e Novgorod, creati da élite vichinghe su una base di popolazione slava. Dal termine slavo “rus’”, con cui i vichinghi
stessi erano indicati dagli slavi, e che significa “rematore” (e i vichinghi hanno sicuramente percorso coi loro drakkar i
grandi fiumi russi come il Volga e il Don), viene il nome della Russia, e infatti di due stati vichinghi sono considerati
antesignani di quello russo.
In senso lato non ci potrebbero essere dubbi sulla questione: tutte le popolazioni del nostro continente, ad eccezione di
quelle finniche, degli Ungheresi, dei Baschi, dei Turchi della Turchia europea, sono indoeuropee, o perlomeno parlano
lingue di ceppo indoeuropeo, ma Marturano intende qualcosa di più specifico.
L’archeologa di origine lituana Marija Gimbutas avrebbe individuato nelle steppe dell’Ucraina e della Russia meridionale
l’Urheimat, il luogo d’origine degli Indoeuropei. Dal momento che è proprio in queste aree che è sorto lo stato “rus’” di
Kiev, e in epoca molto più tardiva rispetto ad altre formazioni statali del nostro continente, che gli slavi avrebbero
mantenuto molto più a lungo la forma di organizzazione tribale, l’ipotesi che viene qui ventilata, è che la cultura slava
dell’epoca e per conseguenza lo stato di Kiev, siano da riconnettere in maniera molto più diretta della cultura e delle
istituzioni del resto del nostro continente alle origini indoeuropee.
E’ un’ipotesi di grande interesse, e sulla quale merita lavorare, ma bisogna riconoscere che al presente non esiste alcuna
certezza su dove fosse realmente collocata l’Urheimat indoeuropea. Al livello di conoscenze attuali, Marija Gimbutas
potrebbe aver avuto ragione, ma le cose potrebbero anche stare altrimenti.
A parte quella che potremmo definire l’ipotesi-quadro dell’articolo, forse l’aspetto da prendere maggiormente in
considerazione, è il fatto che Marturano evidenzia bene le problematicità connesse a questo tipo di ricerca, e prima di tutto il
grande problema di fondo: è mai possibile tracciare le caratteristiche fisico-antropologiche di popolazioni vissute in epoche
remote a partire da semplici dati linguistici? Esiste un’identità fra lingua ed eredità genetica-biologica, di stirpe, di ghenos?
Fondendo o confondendo le due cose, non rischiamo di dare corpo a qualcosa che esiste soltanto nella nostra fantasia?
“Se la linguistica moderna”, scrive Marturano, “Ci avverte che la combinazione di una lingua con un popolo fisico e reale
non è una costante, quando e in quali termini lingua e gruppo umano parlante restano due realtà distinte o perché soltanto
a volte coincidono?”
Nell’età moderna la corrispondenza fra lingua, cultura ed eredità fisico-antropologica, di stirpe, di ghenos diventa sempre
più aleatoria. Pensiamo ad esempio a un afro-americano degli Stati Uniti: parla inglese, quindi considerando la cosa
esclusivamente dal punto di vista linguistico, dovremmo considerarlo un germanico. Ma tutti quanti noi conosciamo la
storia di questo gruppo umano, sappiamo che i suoi antenati furono portati in America dall’Africa in catene in una tratta
degli schiavi su scala industriale. E’ il tipo di fenomeni che abbiamo sempre meno motivo di supporre man mano che ci
spostiamo indietro nel tempo. Quanto più arretriamo lungo la scala temporale, tanto più la corrispondenza lingua-etnia
diventa credibile.
Luigi Luca Cavalli-Sforza ha fatto notare che l’albero genealogico dell’umanità stabilito in base alle affinità linguistiche e
quello costruito partendo dall’analisi del DNA coincidono in maniera da lui definita “sorprendente”.
Di questo fatto sono possibili diverse interpretazioni. John R. R. Tolkien, ad esempio, che era uno che di linguistica ne
masticava parecchia, sosteneva un’influenza diretta della base genetica sul linguaggio, ad esempio a suo parere la radice
“car-” per indicare il colore rosso, sarebbe tipica delle popolazioni di ceppo nordico. E’ una cosa che mi ha sempre fatto
164
sorridere. In italiano abbiamo “carne” (la carne è rossa o almeno rosata per la presenza del sangue) e “carminio” che è il
nome di un tipo di rosso; noi Italiani dovremmo dunque essere più nordici delle popolazioni di ceppo germanico! In realtà,
l’autore del Signore degli anelli era un uomo con una mentalità poetica, ma quanto di più lontano possiamo immaginare dal
rigore scientifico.
A mio parere, la spiegazione corretta è precisamente quella opposta, cioè l’influenza dei fattori culturali sulla genetica delle
popolazioni, nel senso che le differenze di lingua o anche, ad esempio, tabù culturali-religiosi possono costituire un ostacolo
all’interscambio genetico che porta a un differenziamento tra due popolazioni vicine, come potrebbe essere un ostacolo
naturale fra due popolazioni animali.
In ogni caso, vanno incoraggiati tutti gli sforzi volti a mettere in luce e comprendere l’eredità degli antenati, questo lascito,
questo tesoro che rischiamo di perdere in un mondo sempre più meticcio e globalizzato.
NOTA:
L’illustrazione di questo articolo è un’immagine composita che ne sintetizza i diversi punti: la specie fantasma di cui
abbiamo parlato la volta precedente e di cui qui completiamo il discorso, la raffigurazione di un bogatyr, eroe della
tradizione slavo-russa, e lo scrittore John R. R. Tolkien che, come filologo, ha postulato un’influenza diretta della genetica
sul linguaggio.

165
Una Ahnenerbe casalinga - Cinquantasettesima parte

Da alcuni anni sto tenendo una serie di conferenze nell’ambito del Triskell, il festival celtico triestino e, come avete visto,
ve ne ho riproposto i testi qui sulla nostra “Ereticamente”. Due anni fa, nel 2015, l’argomento era stato Il mito del Graal e il
mistero di re Artù, l’anno scorso invece I misteri di Stonehenge. Quella di quest’anno il cui testo mi appresto a collocare
anch’esso sulle nostre pagine, riguarda Le altre Stonehenge, cioè il fenomeno complesso quanto sottovalutato e negletto
dall’archeologia ufficiale, del megalitismo nelle Isole Britanniche, che è molto più ampio del pur notevole complesso che
sorge nella piana di Salisbury, e sarà quest’ultima tematica, divisa in due parti, l’oggetto dei nostri prossimi incontri
settimanali.
Ora, è ben chiaro che queste conferenze, rivolgendosi a un pubblico generalista da cui non c’è da aspettarsi che condivida a
priori la nostra visione del mondo, non abbordano direttamente le tematiche politiche, tuttavia è chiaro l’interesse che hanno
per noi simili questioni nell’ambito di una Weltanschauung identitaria che deve proporsi l’obiettivo di valorizzare le nostre
radici profonde e remote, in contrapposizione a una “cultura” mondialista che ci vorrebbe tutti quanti degli sradicati, a
cominciare dall’aspetto psicologico, partendo da un’ignoranza del nostro passato appositamente voluta, costruita e diffusa, e
lo si capisce bene vedendo quale squallore sono ad esempio oggi i programmi scolastici riguardo all’insegnamento della
storia.
In realtà, la prima di queste conferenze annuali l’avevo già tenuta nel 2014 che aveva per oggetto Il mondo celtico alle
origini della civiltà europea, ma allora non pensai di collocarne il testo su “Ereticamente”. Lo farò adesso sotto forma di
una sintesi quanto più breve possibile, prima di rendervi edotti della mia ultima fatica.
Tutto questo, ci tengo a sottolinearlo, non perché io pensi che le cose che dico abbiano un particolare valore, o che altri non
possano affrontare le stesse tematiche meglio di me, ma perché in ogni caso si tratta di contributi utili a rafforzare la
consapevolezza della nostra identità storica nei confronti di una “cultura” mondialista che mira alla sua cancellazione.
Come ho detto più volte, il concetto di “origini” è ampio e si situa a diversi livelli, e se stavolta non andremo alla ricerca
degli antenati più remoti ma ci atterremo a un orizzonte temporale che è appena al di là di quello della storia documentata,
tuttavia la collocazione in Una Ahnenerbe casalinga ritengo sia ugualmente appropriata.
Un punto che sarà ovvio per la maggior parte di noi, ma che è bene rimarcare per evitare ogni possibile equivoco, è che il
discorso sul mondo celtico non deve essere preso a pretesto per secessionismi più o meno “padani”. I Celti sono una radice
storica e una componente fondamentale dell’ecumene europea, che nell’età antica sono stati portatori di una cultura che
ancora oggi la storiografia ufficiale ingiustamente minimizza proprio per la sua non riconducibilità a influssi mediorientali.
È opportuno evidenziare anche che la contrapposizione tra mondo latino-mediterraneo ed Europa centro-settentrionale
celtica e germanica percepita sempre come irrimediabilmente “barbarica” è qualcosa che non ci appartiene, è un’invenzione
del pensiero cattolico-controriformista, e – in quanto cattolica – a noi estranea.
Tutto ciò però non significa che si debba avallare l’idea di una Padania celtica sottomessa a un’Italia latina. I dati della
genetica (assolutamente non trascurabili in un’ottica che concepisce la nazionalità come sangue e suolo) ci mostrano
un’Italia variegata da una componente celtica nel nord e una greca nel meridione, ma non in misura tale che non si possa
parlare di essa come di una realtà unitaria. Quanto all’apporto che essa avrebbe ricevuto nei secoli da altri coloni o invasori,
dai Longobardi ai Saraceni, Bizantini, Spagnoli, eccetera, esso appare del tutto marginale.
Chi fosse interessato a leggere integralmente il testo della mia conferenza del 2014, in ogni caso lo può trovare tra i file del
gruppo facebook “Pagina celtica” da me curato, sotto il titolo Mondo celtico.
Beh, lo ammetto, in premessa ho barato un poco, nel senso che è tutt’altro che certo che Stonehenge e gli altri complessi
megalitici che punteggiano l’Europa neolitica siano attribuibili effettivamente ai Celti o a qualche popolazione pre-celtica o
pre-indoeuropea a cui i Celti sarebbero andati a sovrapporsi, ma il punto veramente importante è che il nostro continente ha
dimostrato fin dalle origini un livello di civiltà in misura del tutto indipendente da influssi mediorientali ipotizzabili, che
l’archeologia ufficiale si ostina a ignorare. Queste costruzioni che si trovano sparse non solo nelle Isole Britanniche ma
praticamente in tutta Europa, rivelano non solo una notevole perizia ingegneristica, essendo edificate con monoliti del peso
di svariate tonnellate che pure noi con i mezzi tecnici moderni avremmo seri problemi a porre in opera, ma anche raffinate
conoscenze astronomiche che hanno consentito di allinearle orientandole nella direzione di solstizi, equinozi ed eclissi, in
modo da poter fungere da enormi astrolabi per la previsione degli stessi, e tutto questo un buon millennio prima del sorgere
delle piramidi nella Valle del Nilo e delle ziggurat mesopotamiche.
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L’origine della leggenda della Mezzaluna Fertile come origine della civiltà umana a dispetto delle prove evidenti in senso
contrario, leggenda che permea di sé e distorce tutta la nostra archeologia e storiografia e rappresenta tuttora la “vulgata”
illustrata nei testi scolastici, è molto chiara: la concezione storica “occidentale” si è costruita attorno alla narrazione biblica,
e non si può riuscire a schiodarsi da essa finché non si ha il coraggio di considerare il “libro sacro” della cultura ebraico-
cristiana per quello che effettivamente è, un testo il cui valore storico è praticamente nullo.
Riguardo alla questione dell’identità dei costruttori di megaliti delle Isole Britanniche, riportavo poi il parere dell’insigne
archeologo Colin Renfrew che, sia pure in controtendenza con l’orientamento della maggior parte dei suoi colleghi, in un
articolo pubblicato su “Le Scienze” nel 1991, ha sostenuto che essi non appartenevano a una qualche popolazione pre-
indoeuropea poi assorbita dai Celti, ma erano proprio indoeuropei diretti antenati di quelli che conosciamo come Celti in età
storica.
Un punto che dovrebbe essere chiaro, è che non si può parlare di civiltà fino all’innescarsi delle rivoluzione agricola. Solo
con la nascita dell’agricoltura le comunità umane hanno potuto abbandonare lo stile di vita nomadico di cacciatori-
raccoglitori, perché solo allora gli uomini hanno potuto raccogliere più cibo di quello indispensabile a sostentare se stessi e
le loro famiglie, e quindi dare luogo a classi di lavoratori non direttamente impegnate nella produzione di quanto
immediatamente necessario alla sussistenza. Bene, il punto successivo che ho esaminato, sono proprio le prove (indirette ma
molto convincenti) del fatto che la rivoluzione agricola sia avvenuta non in Medio Oriente ma in Europa. Esse sono
essenzialmente la priorità dell’Europa rispetto al Medio Oriente nell’allevamento dei bovini e nella lavorazione dei metalli.
La prima è dimostrata fuori di dubbio dalla tolleranza al lattosio in età adulta, che è chiaramente un adattamento darwiniano
alla nuova fonte alimentare che l’allevamento bovino ha reso disponibile: essa è massima nell’Europa centro-settentrionale
e decresce mani mano che ci si sposta verso il sud e verso l’est, fino a sparire in Africa e nell’Asia orientale; ciò suggerisce
che l’allevamento bovino sia iniziato in qualche punto dell’Europa tra la Scandinavia e l’Arco alpino.
La sostituzione con il metallo degli utensili litici della preistoria, la cui produzione era pienamente adeguata alle esigenze
dei cacciatori-raccoglitori nomadi, suggerisce un incremento demografico di popolazioni in espansione numerica che,
considerati i limiti demografici cui sono soggette le popolazioni di cacciatori nomadi, non può essere spiegato altro che con
l’introduzione dell’agricoltura. Bene, anche qui le prove sono molto chiare: il più antico attrezzo metallico conosciuto è
l’ascia di rame di Oetzi, l’uomo del Similaun (di cinque secoli più antica del più antico analogo attrezzo mediorientale di
cui si abbia notizia), e la più antica miniera conosciuta si trova a Rudna Glava nella ex Jugoslavia.
Ciò detto, ho esaminato un altro esempio che dimostra in maniera lampante come l’originalità e la creatività dei nostri
antenati europei siano costantemente sottostimate. L’invenzione dell’alfabeto è comunemente attribuita ai Fenici, ma i
Fenici non fecero altro che semplificare la scrittura demotica egizia omettendo le vocali e riducendo quindi il numero
enorme di segni richiesto da una scrittura sillabica. La vera invenzione dell’alfabeto con la divisione della sillaba in
consonante e vocale e l’introduzione dello spazio fra le parole, la notazione semplice e pratica che usiamo ancora oggi, fu
creata dai Greci, non è un’invenzione mediorientale (fenicia), ma europea (greca).
Andiamo oltre, perché l’invenzione dell’alfabeto è stata preceduta da scritture ideografiche e sillabiche. La più antica
scrittura conosciuta non è né quella geroglifica né quella cuneiforme, ma è stata scoperta nel 1962 nel sito di Turda in
Romania appartenente alla cultura Vinca dall’archeologo Nicolae Vlassa su alcune tavolette note come tavolette di Tartaria,
una scrittura più antica di almeno un millennio dei più antichi pittogrammi sumerici conosciuti, ritenuti fin allora i più
antichi esempi di scrittura.
Dal 1962 a oggi, di acqua sotto i ponti ne è passata un bel po’, e il fatto che certe acquisizioni non siano mai arrivate al
grosso pubblico cui si continua invece ad ammannire la favola dell’origine mediorientale della civiltà, dimostra l’esistenza
di una vera e propria volontà censoria. Non si sa mai che gli Europei ritrovino l’orgoglio delle loro origini.
Mi sono poi dedicato a un’analisi dei complessi megalitici più importanti dell’area celtica e centro-europea, ed è un peccato
che il fatto di dovermi rivolgere a un pubblico “celtico” mi abbia qui imposto di non menzionare altri complessi megalitici
europei come le mura ciclopiche di Narni, i monumenti nuragici della Sardegna come il complesso di Barumini, e
soprattutto gli splendidi templi ciclopici dell’isola di Malta, e vorrei qui sottolineare il fatto che l’Europa mediterranea e la
nostra Penisola non erano all’epoca affatto più arretrate del mondo settentrionale.
Delle scoperte avvenute in tempi recenti a Stonehenge (e delle quali perlopiù i media hanno graziosamente evitato di
informare il grosso pubblico), ho riparlato con maggiore ampiezza nella conferenza del 2016, il cui testo, I misteri di
Stonehenge, trovate sulle pagine di “Ereticamente” sotto forma di due articoli, e ora non vi vorrei accennare se non in
estrema sintesi. Soprattutto le sepolture nell’area del complesso megalitico si sono dimostrate in grado di gettare una luce
nuova sull’intera concezione che abbiamo dell’Europa preistorica. Uno strumento di grande importanza si è dimostrato
l’analisi dello smalto dentario dei resti umani inumati, poiché gli isotopi di ossigeno e lo stronzio in esso presenti
consentono di individuare la zona di origine di quelle persone. In particolare quella dell’arciere di Amesbury, un uomo
sessantenne afflitto da un grave ascesso che aveva intaccato l’osso della mandibola e da un’accentuata zoppia proveniente
dall’Arco alpino, e del ragazzo con la collana di ambra, un quindicenne proveniente dal Mediterraneo (ma la collana è di
origine baltica) ci rivelano un’Europa preistorica di gran lunga più civile di quel che avremmo forse supposto nella quale
non isolati avventurieri, ma persone malate e gruppi familiari come quello di cui probabilmente il ragazzo faceva parte,
167
nonché merci come la collana di ambra baltica, potevano percorrere grandi distanze, e la stessa cosa avveniva
probabilmente per le notizie, se la fama del santuario nella piana di Salisbury, una Lourdes neolitica, come è stato definito,
aveva potuto attirare pellegrini da luoghi così lontani.
Il resto della conferenza che, come vedete, ha trattato uno spettro di argomenti davvero ampio, ha riguardato la tomba
neolitica irlandese di Newgrange, il complesso di monumenti noti come Cuore neolitico delle Orcadi che nel 1999 è stato
dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità (ciò nonostante, quanti di voi ne hanno sentito parlare?), il
grande cromlech di Avebury, che copre un’area quattro volte maggiore di quella di Stonehenge, quel singolare monumento
che è la collina artificiale di Silbury Hill, quell’autentico mistero archeologico che è rappresentato dai forti vetrificati
dell’Età del Ferro, eretti in Scozia, Inghilterra, Francia, (Bretagna), che costituiscono un enigma non solo riguardo alle
popolazioni che li hanno eretti, ma soprattutto per le tecniche con le quali potrebbero essere state ottenute le altissime
temperature necessarie a fondere il granito in modo che i blocchi di pietra si amalgamassero in un unico impasto vetroso.
Ancora, ho parlato di due scoperte recenti, nelle Orcadi il sito noto come Ness of Brodgar, dove sono emersi i resti di una
vasta struttura oggi nota come la “cattedrale neolitica” e, sempre in Scozia, quella che è forse la scoperta più sensazionale:
nel sito scozzese di Warren Field l’individuazione di dodici fosse di età mesolitica che sembrano con il loro allineamento
aver costituito un vero e proprio calendario lunare, uno strumento di misurazione del tempo di quasi 5000 anni più antico
del più antico calendario mediorientale noto.
Altrettanto importanti i ritrovamenti effettuati fuori dalle Isole Britanniche e, come ho detto all’inizio, proprio per il “target”
della conferenza, mi sono attenuto all’esame di quelli che interessano in qualche modo l’area celtica, ma l’Europa
mediterranea è di certo altrettanto ricca di sorprese, di scoperte inaspettate che non si possono inquadrare nello schema
“ufficiale” che sostiene la derivazione della civiltà europea dal Medio Oriente.

A parte gli allineamenti megalitici di Carnac in Bretagna, se ci spostiamo nell’area germanica, c’è da segnalare in primo
luogo il complesso megalitico di Externsteine, una vera e propria “Stonehenge tedesca”. Ancora oggi la tradizione
attribuisce al luogo la presenza di influenze magiche, al punto che Heinrich Himmler scelse il castello di Wevelsburg che si
trova nei pressi del complesso megalitico come “casa madre” dell’ordine delle SS. Tuttavia, Externsteine non è qualcosa di
unico: nel 2003 gli archeologi hanno portato alla luce nel sito di Gosek in Sassonia-Anhalt un’altra “Stonehenge tedesca”
ancora più antica. Questa scoperta, poi, si pone in relazione con quella di quello straordinario manufatto, un vero e proprio
astrolabio preistorico che condensa una conoscenza astronomica raffinata, che è il disco di Nebra.
Infine, proprio per non farci mancare nulla, anche un sito ben conosciuto di età storica come è, sempre in Germania, il sito
celtico di Heuneburg, ci ha riservato in tempi recenti con il ritrovamento della tomba intatta, sfuggita ai saccheggiatori, di
una principessa celtica, e il materiale ritrovato in essa ci ha permesso di farci una nuova idea della cultura celtica, più
evoluta e raffinata di quel che avevamo finora pensato.
Non si rende giustizia a tutte queste scoperte che ci rimandano un’immagine del nostro passato europeo molto diversa da
quella che ci è stata finora proposta e viene tuttora graziosamente ammannita dai testi scolastici con un’esposizione così a
volo d’uccello, ma abbiamo parlato più volte di queste tematiche e ne riparleremo in futuro. I due prossimi articoli, infatti,
saranno le due parti della conferenza che ho tenuto al festival celtico Triskell quest’anno.
Tuttavia, una cosa è assolutamente chiara: se la “scienza” ufficiale fosse la ricerca spassionata e obiettiva della verità che
dichiara di essere, sarebbe veramente incredibile che questi cosiddetti ricercatori e scienziati ignorino una messe di dati così
vasta, mentre si esaltano per l’ultimo coccio di vaso ritrovato in Medio Oriente. Una visione della civiltà umana nella quale
il ruolo dell’Europa è brutalmente minimizzato fa parte di un preciso disegno politico, è parte di quel cloroformio mentale
che vorrebbe indurci ad accettare senza resistenze la sostituzione etnica e la sparizione dei popoli europei.
Noi però sappiamo di avere una grande eredità da difendere, e che la consapevolezza del passato è uno strumento
indispensabile per costruire il futuro.
L’illustrazione che correda questo articolo è una suggestiva immagine degli allineamenti megalitici di Carnac (Bretagna).

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Una Ahnenerbe casalinga - cinquantottesima parte – Fabio Calabrese

Una parte degli articoli che sono compresi sotto quella che io penso
si possa ormai considerare una vera e propria rubrica a scadenza
quasi fissa sulle pagine della nostra “Ereticamente”, come avete
visto, è stata dedicata a scoperte sorprendenti ed eccezionali sulle
nostre origini, scoperte che consentono di rimettere in discussione
l’ortodossia “scientifica” che ci è imposta o ci si vuole imporre a
questo riguardo, e da questo punto di vista il 2017 si è dimostrato un
anno davvero ricco, con tre scoperte eccezionali che si sono
succedute in un lasso di tempo relativamente breve, il ritrovamento dei resti dell’ominide balcanico noto come “El Greco”,
quello dei fossili umani sapiens risalenti a 300.000 anni fa ritrovati nella cava marocchina di Jebel Irhoud, e soprattutto la
scoperta di due biologi dell’università di Buffalo, Omer Gockumen e Stefan Ruhl, che hanno scoperto che una proteina
della saliva, la MUC7 è presente nei neri in una variante che non si riscontra in nessun’altra popolazione umana, vivente o
estinta, e che potrebbe essere la traccia genetica di un homo arcaico o di un ominide, una specie fantasma (cioè di cui per
ora non abbiamo evidenze fossili) con cui gli homo sapiens che hanno colonizzato l’Africa provenendo dall’Eurasia si
sarebbero incrociati. I due biologi fanno notare che il movimento espansivo della nostra specie non può essere avvenuto
nella direzione opposta, dall’Africa verso l’Eurasia, perché altrimenti questa variante della MUC7 si troverebbe, magari
minoritaria anche in altri gruppi umani.
Abbiamo insomma la prova che l’Out of Africa è falsa, e che non “veniamo dai neri”.
Dopo un seguito di scoperte di questo genere, sarebbe strano che la serie continuasse in tempi ravvicinati con lo stesso
ritmo. Tuttavia gli articoli di questa rubrica hanno un’altra ragion d’essere, forse più modesta, quella di offrire un resoconto
di come il dibattito sulle nostre origini si sviluppa all’interno della nostra Area, e questo nondimeno è un fatto
politico importante, che esista fra noi un desiderio di penetrare fino a fondo le tematiche relative alla nostra identità, come
risposta e contrappeso alla prospettiva che incombe su di noi, della cancellazione di questa identità attraverso l’imposizione
del meticciato e della società multietnica, e nell’attesa di ciò, dell’imposizione di una “cultura mondialista” sia attraverso la
scuola sia attraverso i media, nella quale il valore dell’identità etnica e di sangue è costantemente negato.
Cominciamo con una notizia che risale a settembre: nella località di Trachilos nella parte occidentale dell’isola di Creta
sono state trovate impronte sorprendentemente umane risalenti a 5,7 milioni di anni fa. Maurizio Blondet ne ha parlato in un
articolo pubblicato sul suo sito “Blondet & Friends” del 4 settembre 2017.
Io credo sia opportuno collocare questa notizia e l’articolo di Blondet nel secondo gruppo, quello delle, chiamiamole così,
“comunicazioni di servizio” e almeno stavolta smorzare un po’ gli entusiasmi, perché la notizia, soprattutto in vista di una
simile datazione, va accolta con un certo scetticismo.
Quel che distingue un ominide da una scimmia antropomorfa e ci permette di riconoscerlo come un lontano precursore
dell’umanità, sono oltre ai piccoli canini e l’arcata dentaria tondeggiante che anticipano il modello umano, la stazione eretta
e una conformazione degli arti inferiori e dei piedi di conseguenza simile a quella umana. Le famose impronte di Laetoli
169
attribuite ad Australopithecus afarensis (la specie di Lucy) sono di fatto indistinguibili da quelle umane. Il grosso “salto”
nella deambulazione e quindi nella conformazione del piede e delle impronte che si possono lasciare non è fra uomo e
ominide, ma fra quest’ultimo e la scimmia antropomorfa, le cui impronte si possono facilmente distinguere a causa della
sporgenza laterale dell’alluce, che segnala il piede prensile di un quadrumane.
Le ossa fossili danno indicazioni più certe, e non c’è un fossile chiaramente riconoscibile come umano di un’età superiore ai
due milioni di anni. Impronte umane o ominidi? La datazione direbbe ominidi. Io ho il sospetto che si tratti semplicemente
delle impronte di “El Greco” o di un suo parente prossimo.
Alcuni anni fa, esattamente nel 2013, furono ritrovate in Inghilterra, sulla sponda del Tamigi, impronte fossili risalenti a
900.000 anni fa, quindi molto più recenti di quelle cretesi e con tutta probabilità di homo, ma
quale homo?, Erectus o sapiens? Impossibile stabilirlo!
Ne parlò anche allora Maurizio Blondet in un articolo sul suo sito EffeDiEffe (poi diventato “Blondet & Friends”), articolo
che fu poi ripubblicato dal sito della Arianna Editrice in data 16/2/2014. Io allora non ve ne parlai, perché mi pare che la
cosa non spostasse sostanzialmente il dibattito sulle nostre origini.
Certamente per alcuni, l’idea di un homo vecchio di sei milioni di anni, che metterebbe in crisi lo schema dell’evoluzione
umana come finora la conosciamo, è una forte tentazione, perché nei nostri ambienti è diffusa la convinzione, assolutamente
erronea che l’evoluzione sia “una cosa di sinistra”; è un’idea falsa che rivela la sudditanza all’armamentario ideologico dei
nostri avversari. L’ho ribadito più volte, ed è una questione sulla quale mi riprometto di tornare a breve tempo con la dovuta
ampiezza nella quarta parte di Scienza e democrazia che sarà dedicata in particolare alle distorsioni che l’ideologia
democratica impone alla scienza biologica.
Riassumendo ora la questione in estrema sintesi, si può dire che la tendenza dei viventi a preservare e diffondere nelle
generazioni future la propria linea “di sangue” (ma vale anche per le piante che di sangue non ne hanno) e la dura legge
della selezione naturale, della lotta per l’esistenza, sono l’esatto contrario del buonismo catto-sinistrorso che in termini
biologici significa semplicemente il suicidio.
Soprattutto, bisogna stare attenti a non assumere posizioni che si prestano a essere non solo facilmente smentite, ma anche
ridicolizzate. Per questo motivo, mi scuserete, ma io preferisco catalogare questa nuova scoperta e le discussioni che ne
sono nate, piuttosto nell’ambito delle “comunicazioni di servizio” che in quello delle scoperte che possono realmente
rivoluzionare l’idea che ci facciamo delle nostre origini.
Aggiungiamo comunque questa scoperta all’elenco degli eventi del 2017, un anno che si sta rivelando straordinariamente
ricco di nuove informazioni circa le nostre origini, e che impone di rivedere le idee al riguardo imposte come prefissate
nell’ambito di una visione “politicamente corretta” sedicente scientifica.
Su queste pagine vi ho parlato più volte dell’ottimo lavoro compiuto dall’amico Michele Ruzzai con il suo gruppo facebook
“MANvantara” che recentemente ha superato il migliaio di iscritti, e che è una vera miniera di documenti utilissimi a chi
voglia orientarsi sulla tematica delle origini nell’ambito della nostra ottica “politicamente scorretta”. (Nel caso che qualcuno
sia punto dalla curiosità, Manvantara è il ciclo cosmico secondo la tradizione vedica; e nella denominazione del gruppo si è
evidenziata in maiuscolo la sillaba iniziale MAN, antica radice indoeuropea che si trova inalterata nelle lingue germaniche,
che ha il significato di “uomo”).
Credo finora però di non avervi menzionato se non per vaghi accenni un altro gruppo facebook che sta facendo un lavoro
molto simile a quello di “MANvantara”, si tratta di “Frammenti di Atlantide-Iperborea” curato da Solimano Mutti. Io penso
che tutti noi siamo fondamentalmente contrari ai personalismi e nepotismi, tuttavia ricordare che Solimano è il figlio di
Claudio Mutti, persona a cui lo sviluppo delle tematiche del revisionismo olocaustico in Italia deve tantissimo, non gli va
certo a discapito.
Anche in questo caso, il nome del gruppo permette di comprendere bene l’ottica in cui il gruppo stesso si colloca: Atlantide
e Iperborea sono due miti (miti nel senso alto del termine) fondanti della tradizione indoeuropea, e si pongono su di un asse
concettuale esattamente opposto a quello dell’attuale ideologia “scientifica” politicamente corretta che cerca le origini della
nostra specie nelle savane africane e quelle della civiltà in Medio Oriente, escludendo sempre e comunque il ruolo creativo
dell’uomo europeo e nordico.
Una cosa che va evidenziata, è che non essendo questi gruppi delle imprese commerciali, non è che si facciano concorrenza,
anzi, si può dire che creino una sinergia nel contrapporsi al dogmatismo di una “cultura” dominante, di un’oppressiva
ortodossia ideologica che vorrebbe imporci l’idea su noi stessi e sulle nostre origini che fa più comodo al potere che ci
opprime ormai da quasi tre quarti di secolo. In quest’ottica, io trovo che il loro lavoro vada considerato in termini di sinergia
e di integrazione rispetto a quello che io stesso sto cercando di portare avanti sulle pagine di “Ereticamente”, attraverso le
quali ho l’opportunità, certamente, di rivolgermi a una platea di lettori molto più vasta, ma il mio resta il lavoro di una
persona sola, “one man’s band”, mentre questi gruppi possono avvalersi di una molteplicità di contributi.
Recentemente (10 settembre), un lettore di “MANvantara” ha posto al gruppo un quesito importante: se noi pensiamo che,
secondo le teorie razziali sviluppate soprattutto in Germania tra il XIX secolo e il 1945, l’uomo nordico rappresenti la
crema, l’aristocrazia dei popoli indoeuropei, come spieghiamo il fatto che le grandi civiltà europee antiche, quella ellenica e
quella romana, si sono sviluppate nell’area mediterranea?
170
A mio parere, la risposta a questa domanda va data su due piani diversi. Per prima cosa, bisogna ricordare che coloro che
svilupparono l’indoeuropeistica tra la metà del XIX secolo e quella del novecento erano, appunto, perlopiù tedeschi e
animati da uno spirito nazionalistico-campanilistico peraltro comprensibile dati i tempi. Noi oggi ci rendiamo conto che
come europei e indoeuropei mediterranei, non dobbiamo soffrire di alcun complesso di inferiorità nei confronti dei nostri
cugini del nord. Non solo, ma oggi che sciaguratamente dobbiamo confrontarci con un’invasione allogena travestita da
immigrazione che mette in pericolo le nostre identità storiche, possiamo renderci conto che, con qualche variazione locale,
noi Europei siamo sostanzialmente la stessa gente, e dovremmo difenderci insieme dai nemici comuni.
Su di un altro piano, è molto chiaro che, come si sono finora sviluppate le scienze storiche (per quanto riguarda la storia
antica) e archeologiche, sono molto lontane dal rappresentare un’immagine realistica del nostro passato, e che l’Europa non
mediterranea è oggetto di una considerevole sottovalutazione. Io non vorrei sembrare monotono battendo troppo su questo
tasto, ma si tratta di un punto fondamentale: i complessi megalitici, quelli notissimi delle Isole Britanniche, Stonehenge,
Newgrange e via dicendo, ma anche quelli dell’Europa continentale: Externsteine, Gosek che sono infinitamente meno noti
dei loro equivalenti britannici, inducono a pensare a un livello di civiltà molto più elevato di quanto solitamente non si
consideri.
E non parliamo dell’alto nord dell’Europa, il mondo scandinavo. Prendendo in mano un testo come Omero nel Baltico di
Felice Vinci, possiamo essere persuasi oppure no della sua tesi di fondo secondo cui l’epopea omerica sarebbe nata nel nord
dell’Europa per essere poi ri-ambientata nella penisola ellenica a seguito della migrazione verso meridione degli antenati
degli Achei, ma ciò che dopo la lettura di questo testo supportato da un’abbondanza di dati archeologici da noi poco o nulla
affatto conosciuti, non è possibile mettere in dubbio, è la ricchezza dell’Età del Bronzo nordica.
Dovunque volgiamo lo sguardo, spingendolo fin nell’antichità più remota che riusciamo a penetrare, vediamo dovunque la
stessa luce, la luce della nostra grande eredità storica di europei, un’eredità oggi minacciata dallo stravolgimento etnico
come mai lo è stata nel passato.
NOTA: Nell’illustrazione di questo articolo, a sinistra la locandina della conferenza Le origini antiche degli Indoeuropei,
tenuta da Michele Ruzzai a Trieste il 27 gennaio 2016, al centro un’illustrazione tratta da “Frammenti di Atlantide-
Iperborea”, a destra la copertina del libro Omero nel Baltico di Felice Vinci.

Una Ahnenerbe casalinga - cinquantanovesima parte – Fabio Calabrese

Ci lasciamo alle spalle un periodo eccezionalmente denso di scoperte sulle nostre origini, che comprende il rinvenimento
dei resti dell’ominide balcanico “El Greco”, dei fossili sorprendentemente umani moderni rinvenuti nella località
marocchina di Jebel Irhoud, l’individuazione della “specie fantasma”, l’ominide con cui sarebbero imparentati i neri
africani, le cui tracce i ricercatori dell’Università di Buffalo avrebbero individuato nelle proteine della saliva di questi ultimi
(elemento che come abbiamo visto, mette fortemente in crisi “la teoria” dell’Out of Africa), e proprio per non farci mancare
nulla, ricordiamo anche la recente scoperta di impronte “umane” fossili sull’isola di Creta risalenti alla bellezza di sei
milioni di anni or sono, anche se a mio parere proprio questa straordinaria antichità rende improbabile che si tratti di
impronte di un qualsivoglia homo, e molto più facile che siano invece quelle di un ominide, “El Greco” o un suo parente
stretto. Ricordiamo infatti che il grande cambiamento nella locomozione, con l’acquisizione della stazione eretta, e quindi
con la modifica della conformazione del piede e del tipo di impronte lasciate, non è avvenuto nella transizione da ominide
a homo, ma in quella da scimmia antropomorfa a ominide.
Dopo tutto questo, sarebbe ben strano che emergessero ulteriori novità rivoluzionarie a così breve scadenza, sarebbe
davvero chiedere troppo alla dea fortuna, però non è mancata negli ultimi tempi qualche scoperta significativa che viene ad
arricchire sempre più il quadro delle informazioni sulle nostre origini, e che fanno anch’esse si che la nostra storia
ancestrale sarebbe tutta da riscrivere, almeno se la “ricerca scientifica” sulla nostra storia ancestrale da parte della “scienza”
ufficiale fosse qualcosa di oggettivo invece dell’opera propagandistica che sostanzialmente è.
Devo ammetterlo, con la tempistica di “Ereticamente” non mi è possibile “stare sul pezzo” in tempo reale come è invece
possibile fare in un gruppo facebook come “MANvantara” del nostro amico Michele Ruzzai, che difatti anche stavolta mi
ha preceduto, anche se qui abbiamo uno spazio maggiore di approfondimento, nonché l’accesso a un pubblico di lettori
certamente più vasto.
In data 12 settembre su questo gruppo è stato postato un link molto interessante, si tratta di un collegamento a You Tube, a
un filmato di provenienza americana che porta un chiarimento essenziale a una delle questioni più controverse della
paleoantropologia. La più antica civiltà dell’America precolombiana è stata quella degli Olmechi, la cui cultura si sviluppò
nel Messico centro-meridionale tra il 1400 e il 400 avanti Cristo. Costoro ci hanno lasciato una serie di reperti enigmatici
fra cui alcune enormi teste di pietra. I personaggi raffigurati in queste statue hanno narici larghe e labbra carnose. Questo ha
fatto sì che molti vi vedessero delle caratteristiche negroidi. Afroamericani e loro amici sostenitori di teorie afro-centriche
hanno ipotizzato una colonizzazione proveniente dall’Africa all’origine della cultura olmeca (cosa di per sé ben poco

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verosimile, perché sul suolo africano non troviamo tracce di una cultura analoga, ma sappiamo che per i sostenitori
della Political Correctness non è che i fatti contino molto).
Bene, questo documentario mette le cose a posto, nel senso che un attento confronto lineamento per lineamento fa vedere
che la fisionomia delle teste olmeche non corrisponde per nulla a quella dei neri africani mentre al contrario ha una spiccata

somiglianza con quella degli Amerindi locali.


Al riguardo, potrei ricordare di essermi occupato della questione anni addietro in un articolo, La storia perduta delle
Americhe, che mi fu pubblicato sul n. 7, gennaio-febbraio 2012, della rivista “Runa Bianca”. A me era sembrato che gli
Olmechi somigliassero piuttosto alle popolazioni dell’Asia meridionale (malesi, ad esempio) piuttosto che ai neri africani e
che, come gli altri amerindi, avessero la loro origine in popolazioni paleomongoliche che non presentavano ancora i tratti
che consideriamo tipicamente “mongolici”, come la plica palpebrale che forma il classico “occhio obliquo” e, a quanto pare,
non ero andato molto lontano dalla verità.
Viene meno un’altra presunzione di creatività dei neri subsahariani, una notizia che dovrebbe dispiacere moltissimo a
coloro che cercano ingannevolmente di venderceli come “risorse”.
Il gruppo del nostro amico è di grande interesse proprio perché grazie all’apporto di diversi collaboratori, presenta una
notevole varietà di spunti e di approcci differenti fra i quali ciascuno di coloro che sia interessato a queste problematiche,
può “scavarsi” un proprio percorso di ricerca.
In data 16 settembre un collaboratore di “MANvantara” ha pubblicato un link al sito di “Informare per resistere”, e ora
arrivo io, buon terzo. Bisogna dire però che la tematica è di grande interesse, si tratta infatti di una recensione del
libro L’origine dell’uomo ibridodi Daniele Di Luciano, un testo che presenta un’ipotesi davvero inedita sulle nostre origini,
e che mi pare meriti di essere presa in attenta considerazione.
Noi sappiamo che il nostro DNA conserva la traccia di diverse ibridazioni tra popolazioni antiche di homo. Noi non
discendiamo solo dall’uomo di Cro Magnon (il sapiens “classico”) ma anche dall’uomo di Neanderthal (europei e asiatici),
dell’uomo di Denisova (asiatici e australoidi), della “specie fantasma” la cui traccia genetica è rivelata dalla proteina della
saliva MUC7 (neri subsahariani). Lo abbiamo visto più volte.
Ma a parte ciò, non potrebbe essere che lo stesso genere homo sia il frutto di un’ibridazione molto più antica? Quali sono gli
elementi che Di Luciano porta a sostegno di quest’ipotesi?
Bisogna notare per prima cosa che a differenza della credenza popolare, non è affatto detto che tutte le ibridazioni, cioè gli
incroci fra individui di specie diversa siano sterili o producano necessariamente figli sterili. Fra i modi in cui può avere
origine una nuova specie, i biologi distinguono l’isovariazione in cui una specie “figlia” deriva da una specie “madre”
dalla mistovariazione in cui una nuova specie nasce dall’accoppiamento degli individui di due specie genitrici, che
producono in questo caso una discendenza fertile.
Quali sono gli indizi che farebbero pensare che il genere homo potrebbe essersi originato dall’ibridazione di due diverse
specie ominidi?
Prima di tutto il fatto che la donna, a differenza delle femmine di quasi tutti i mammiferi, partorisce con dolore. In altre
specie, il parto doloroso si presenta tipicamente nel caso di un’ibridazione, ad esempio quando un’asina partorisce un
bardotto (ibrido cavallo-asina, differente dal mulo che è l’ibrido asino-cavalla). Un altro indizio sono le dimensioni notevoli
se confrontate con quelle degli antropomorfi, che l’uomo raggiunge nel suo sviluppo, anche questo trova un parallelo negli
ibridi, ad esempio il “ligre”, ibrido di leone e tigre, che raggiunge una taglia notevolmente maggiore di quella dei genitori,
ed è il felino più grande del mondo.
Il peccato originale che la bibbia ci racconta essere stato all’origine della nostra specie, si chiede Di Luciano, potrebbe
essere stato un atto di ibridazione?
Un’ipotesi di grande interesse, che potrebbe essere o non essere valida, ma che di sicuro evidenzia quanto lo storia remota
della nostra specie sia densa di enigmi irrisolti.
Sempre da “MANvantara” riporto una notizia piuttosto singolare: sembra che le impronte cretesi di cui abbiamo parlato
siano state scalpellate e asportate.
Un simile atto vandalico potrebbe essere puramente gratuito come spesso succede, od opera di qualche “collezionista”,
oppure…oppure sembra che le prove e le testimonianze che potrebbero contraddire la versione ufficiale della nostra storia
siano costantemente in pericolo.

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Decenni fa, sembrava che il governo boliviano fosse deciso a far saltare con la dinamite la puerta do sol di Tihuanaco
(Tiwanaku), e dovette rinunciare al proposito perché si tratta di uno dei monumenti più noti delle colture precolombiane.
Ora, guarda caso, il complesso archeologico di Tihuanaco ha una particolare rilevanza nella cosmologia di Hörbiger,
sarebbe la traccia di una civiltà umana preesistente la caduta dell’ultima luna. Vero o no, per la “correttezza politica”
democratica sul nostro passato, sarebbe meglio far sparire questo imbarazzante complesso archeologico.
In tempi più recenti, il governo britannico è stato vicino a demolire Stonehenge per far passare nella piana di Salisbury
un’autostrada a quattro corsie. Proteste internazionali hanno bloccato lo scempio e l’autostrada oggi passa semplicemente
vicino a Stonehenge. Poco tempo dopo, fu invece necessario mobilitare con una petizione internazionale gli ambienti
“celtici” di tutto il mondo da parte del clan Wallace per impedire la demolizione della stalla dove fu catturato William
Wallace per fare posto a un supermercato. Naturalmente William Wallace “Braveheart” e la sua vicenda non hanno a che
fare con la preistoria, ma riguardano tempi molto più recenti, tuttavia sono innegabilmente un segno forte dell’identità
scozzese.
Probabilmente non è privo di significato neppure il fatto che contro le testimonianze del passato e dell’identità si
brandiscano proprio quelli che possiamo considerare i simboli più sfacciati della modernità: l’autostrada a quattro corsie e il
supermercato.
In qualche caso, tuttavia, non è stato possibile evitare lo scempio apparentemente insensato ma in realtà finalizzato a
eliminare ciò che potrebbe contraddire una versione “politicamente corretta” delle nostre origini e della nostra storia remota.
Un caso veramente triste ed emblematico è stato quello della piramide di Nizza, di cui diede notizia il periodico “Shan
Newspaper” in data 12 febbraio 2015. Stando a quel che ancora oggi le fotografie consentono di vedere, nella città natale di
Garibaldi, o più esattamente nella località di Saint André a nord-est della stessa, è esistita una piramide a gradoni di grandi
dimensioni, abbastanza simile a quella egizia di Saqqara, sempre ignorata dai ricercatori ufficiali, e che alla fine è stata
demolita negli anni ’70 per fare posto a uno svincolo autostradale.
Una sorte non molto migliore ha avuto un’altra piramide che ha la disgrazia di non trovarsi né in Egitto né in Mesopotamia,
ma in un luogo dove secondo la “scienza” e “archeologia” ufficiali, piramidi antiche non ne dovrebbero sorgere, vale a dire
in Europa, in Italia e più precisamente in Sardegna, a Monte D’Accoddi, (Sassari). Questa piramide risalente all’epoca pre-
nuragica, non è stata mai seriamente studiata, ed è stata lasciata in un totale stato di incuria e di abbandono, al punto che le
sue pietre sono state ripetutamente asportate e riutilizzate in costruzioni moderne.
Il caso forse più vergognoso è però un altro, ed è anch’esso uno scandalo italiano: quello dell’uomo di Savona di cui anni fa
ha diffusamente parlato un articolo pubblicato dal “Centro Studi La Runa: uno scheletro umano che fu trovato casualmente
durante lavori di sbancamento nella città ligure: la stratigrafia del terreno in cui fu ritrovato faceva supporre che potesse
risalire all’età pleistocenica, 2 milioni di anni or sono, ed era tale da escludere che potesse trattarsi di una sepoltura intrusiva
molto più recente. L’aspetto era chiaramente umano. Si trattava dunque di un ritrovamento in grado di mettere in crisi la
storia delle nostre origini come ci viene solitamente raccontata. Non fu mai seriamente studiato fino a quando le sue ossa
non andarono disperse in circostanze che hanno dell’incredibile per un reperto di una simile importanza, o meglio
che avrebberodell’incredibile se non pensassimo a una distruzione intenzionale di un reperto imbarazzante in grado di
contraddire l’immagine delle nostre origini che ci viene solitamente ammannita.
Quando non è possibile distruggere fisicamente un reperto, si può sempre, per così dire, “distruggerlo moralmente”,
condannarlo all’oblio, escluderlo in ogni caso dal novero delle cose che possono modificare la nostra visione del mondo. Un
esempio palmare in questo senso è rappresentato dai reperti ritrovati nell’ipogeo francese di Glozel. Questi reperti sono stati
subito dichiarati falsi senza essere stati neppure esaminati dai cosiddetti esperti, in base all’assunto che sono “troppo
evoluti” rispetto alle condizioni che si suppone caratterizzassero l’Europa preistorica, e sono stati condannati a
una damnatio memoriae al punto che oggi pochissimi sono a conoscenza della loro esistenza, e credo che nessun testo
“storico” o “scientifico” ne faccia menzione.
Ciò che tutti ignorano, ciò della cui esistenza sono state distrutte le prove, non è mai esistito. La storia può essere riscritta in
funzione degli interessi del potere. E’ la prassi usata dal regime del Grande Fratello così come l’ha descritto George Orwell
in 1984. E’ la prassi usata nella realtà da una “scienza” e da una “cultura” di una democrazia che somiglia all’incubo
orwelliano ogni giorno di più.
NOTA:
Nell’illustrazione: a sinistra una statuetta olmeca. In questo caso è evidente che i lineamenti dell’uomo raffigurato non
hanno alcuna somiglianza con i neri subsahariani. Al centro, la copertina del libro L’origine dell’uomo ibrido di Daniele Di
Luciano. A destra, una tavoletta proveniente dall’ipogeo di Glozel, coperta dai segni di una scrittura che finora nessuno è
riuscito a tradurre.

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Non è sorprendente il fatto che questa serie di articoli che io penso ormai si possa considerare una vera e propria rubrica
sulle pagine di “Ereticamente” sia ormai giunta al sessantesimo numero. Considerando il fatto che essa ha una cadenza
bisettimanale (approssimativamente), e che avevamo già toccato la quota cinquanta, aggiungere altri dieci numeri non ha
richiesto altro che un intervallo temporale di cinque mesi. Il fatto sorprendente è un altro: nella ricerca scientifica le novità,
le scoperte non sono come nell’attualità, la politica, lo sport o il gossip, eppure abbiamo visto una cadenza di eventi
sufficiente, per quanto riguarda la tematica delle nostre origini, a permettere di tenere questa rubrica con regolarità. Si
direbbe quasi che, oggi che vediamo l’homo europeus minacciato nella sua stessa identità biologica da un’invasione
mascherata da immigrazione e dal meticciato, qualcuno o qualcosa cerchi disperatamente di ricordarci la nostra eredità e il
fatto innegabile che, a dispetto di tutte le utopie marxiste e cristiane, ciò che fa di un essere umano quello che è non si
risolve interamente nell’apprendimento, nella cultura, nell’influenza dell’ambiente, ma dipende anche e soprattutto dalla sua
base genetica, dalla sua eredità biologica.
A ogni modo, il 2017 ci ha presentato quanto meno tre scoperte fondamentali che ci hanno imposto di ridisegnare il quadro
delle nostre origini: la scoperta dei resti dell’ominide balcanico che è stato soprannominato “El Greco”, cosa che pone
seriamente in dubbio il presupposto in base al quale homo deve essersi originato in Africa perché gli ominidi verrebbero da
lì, il ritrovamento in Marocco nella cava di Jebel Irhoud di resti umani sapiens moderni risalenti a 300.000 anni fa (E’ vero
che questa scoperta è avvenuta in Africa, ma si tratta dell’Africa mediterranea e non di quella subsahariana, non solo, ma la
scala dei tempi non è compatibile con la formulazione classica dell’Out of Africa – Out of Africa II – che presuppone che la
nostra specie non abbia cominciato a diffondersi prima di 70.000 anni fa, dopo la presunta mega-eruzione del vulcano Toba,
e soprattutto questi antichi magrebini non presentano nessuna caratteristica che li apparenti alle popolazioni subsahariane),
ma soprattutto, di fondamentale importanza, i risultati dello studio condotto da due biologi dell’Università di Buffalo, Omer
Gokcumen e Stefan Ruhl, sulle proteine della saliva, in particolare la MUC7, che ha permesso una ricostruzione dell’albero
genealogico umano che ne mostra chiaramente l’origine in Eurasia, mentre la colonizzazione dell’Africa da parte di homo
sapiens e la formazione delle caratteristiche subsahariane, dovuta all’incrocio con un’ominide separatosi dalla linea umana
principale 1,2 milioni di anni fa, sarebbero eventi tardivi.
In occasione della cinquantesima parte della nostra rubrica, vi avevo presentato una sintesi a grandissime linee di tutto il
discorso fatto fin allora. Avevo pensato anche di riepilogare, sempre cercando di essere sintetico al massimo, anche i diversi
scritti che non sono rientrati sotto questo titolo, sotto i quali avevo affrontato la tematica delle origini (che è ovviamente
vasta e della quale, oltre alla questione delle lontane origini della nostra specie, mi è sembrato di individuare altri tre livelli:
le origini dei popoli indoeuropei, quelle della civiltà europea, e quelle della nazione italica. Quest’ultimo argomento, a mio
parere è molto importante, vista la diffusione della favola della totale eterogeneità genetica del popolo italiano), ma questo
implicava dilatare un bel po’ lo spazio di questo lavoro
“rievocativo”, e soprattutto mi pareva di mettere i miei scritti in
quanto scritti da me, un po’ troppo al centro dell’attenzione. Forse
da questo punto di vista mi sono preoccupato eccessivamente. Io
penso che tutti voi capiate che quello che conta non è la persona di
Fabio Calabrese, ma il fatto di avere l’occasione di ripetere alcuni
concetti basilari della nostra Weltanschauung in contrapposizione a
una “cultura” e a un’ortodossia “democratiche” basate su
convinzioni di tutt’altro segno, poiché nella misura in cui siamo in
grado di farlo, dobbiamo concorrere alla formazione della visione
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del mondo soprattutto dei più giovani, che si trovano ad avere una disperata necessità di disporre degli strumenti per
resistere alle mistificanti distorsioni della “democrazia”.
Quella parte del lavoro non fatta allora, vedremo perciò di farla ora.
E’ il caso di rilevare, non solo che a un certo punto, per non rendere la vita troppo difficile a voi e a me, ho deciso di
concentrare sotto un unico titolo tutte le tematiche riguardanti le origini, ma che inizialmente non mi ero proposto di
rimontare alle tematiche paleoantropologiche, ai milioni, alle centinaia o alle decine di migliaia di anni fa, accontentandomi
di una prospettiva più recente, ma man mano mi addentravo in questo lavoro, più diventava chiaro che questa prospettiva
doveva essere affrontata, perché la “teoria” dell’Out of Africa, ben lungi dall’essere qualcosa di neutro, è un vero e proprio
grimaldello ideologico per imporre il concetto dell’inesistenza delle razze umane e tutto l’armamentario dell’ortodossia
ideologica “politicamente corretta” che ci viene imposta da oltre Atlantico, travestita da ricerca scientifica. Inizialmente, mi
ero accontentato di tematiche più vicine all’orizzonte storico, a cominciare da quella dell’origine dei popoli indoeuropei a
cui ho dedicato alcuni articoli omonimi. Al riguardo, la versione “politicamente corretta”, cioè conforme alle distorsioni
dell’ortodossia ideologica democratica travestita da ricerca scientifica ci racconta la favola dell’origine mediorientale delle
lingue e dei popoli indoeuropei, che non sarebbero stati cavalieri e guerrieri nomadi, ma pacifici agricoltori che si sarebbero
espansi attraverso l’Anatolia, il Bosforo, i Balcani e via dicendo semplicemente spostandosi alla ricerca di nuove terre da
coltivare. Una delle culture europee che hanno preceduto la diffusione degli Indoeuropei sul nostro continente, probabile
antesignana degli Indoeuropei stessi, è stata quella dell’ascia da combattimento. La mia impressione è che lo scopo di
questa “teoria” sia quello di togliere l’ascia da combattimento dalle mani dei nostri antenati sostituendola con la zappa del
contadino, per disarmare psicologicamente noi.
La genetica ha dimostrato che questa “teoria” è falsa; infatti, se fosse vera, si riscontrerebbe nel pool genetico degli Europei
una proporzione di geni di origine mediorientale molto più alta di quella che effettivamente si constata. La netta
maggioranza del nostro genoma, invece risale al tipo antropologico caucasico noto come “eurasiatico settentrionale”
presente in Europa fin dal Paleolitico superiore. Qui abbiamo l’occasione di vedere il modus operandi tipico della
democrazia, quello che ritroviamo sempre: essa non può inibire del tutto la ricerca scientifica, pena il rendere troppo
esplicita la sua natura autoritaria, ma non ha importanza il fatto che le conoscenze reali rimangano confinate a una ristretta
cerchia di specialisti, perché in ogni caso attraverso il sistema mediatico si continueranno ad ammannire al grosso pubblico
le falsità che fanno comodo al regime/ai regimi, e infatti quella dell’origine mediorientale continua a essere la storia che
viene raccontata dai testi scolastici alle trasmissioni divulgative, benché palesemente falsa. Un altro gruppo di articoli ha un
titolo che può sembrare curioso, mi sono infatti occupato dei popoli “sull’orlo della storia”. Di che cosa si tratta?
Mettiamola in questi termini: la ricerca storica degli ultimi due secoli ha articolato, ampliato, approfondito ma mai
definitivamente abbandonato uno schema storico la cui origine è biblica: le popolazioni caucasiche sono state distinte in tre
rami che si sono supposte discendenti dai tre figli di Noè: i semiti da Sem, i camiti (Egizi, Berberi, Numidi) da Cam, gli
indoeuropei da Jafet. A mio parere occorre abbandonare l’idea che la bibbia abbia una qualche storicità, che sia qualcosa
d’altro che una raccolta di leggende tramandate da gente che nulla sapeva del mondo al di fuori dei limiti segnati dal Nilo e
dall’Eufrate. Se noi consideriamo la storia dell’Europa antica, troviamo svariate popolazioni che sono definite
genericamente “non indoeuropee” definizione che nella sua vaghezza potrebbe andare altrettanto bene per gli Esquimesi e
per i Papua, e non si tratta di popoli marginali, ma di grandi culture, Etruschi, Minoici, Iberici, Liguri (un tempo diffusi non
solo nell’angolo di nord-ovest della nostra Penisola, ma in gran parte della Francia meridionale). Non è possibile riscrivere
la bibbia per aggiungervi un quarto figlio di Noè, ma non si può negare l’esistenza di un quarto gruppo “mediterraneo” di
popolazioni dell’Europa antica, genti che sono fra i nostri diretti antenati, e le grandi culture dell’Europa antica nascono
dall’incontro di Indoeuropei e Mediterranei (Minoici e Pelasgi nel caso di quella ellenica, Etruschi per Roma). Il gruppo
maggiore di articoli, i più numerosi a parte Una Ahnenerbe casalinga dove mi sono occupato della nostra storia più remota,
è costituito da quelli compresi sotto il titolo di Ex Oriente lux, ma sarà poi vero?
Come è facile comprendere, in questa serie di articoli ho posto sotto esame la leggenda della luce da oriente, leggenda che
poi è la storia che ci viene sempre raccontata quasi dappertutto, a cominciare dai testi scolastici, che la civiltà sarebbe nata
nella cosiddetta Mezzaluna Fertile fra Egitto e Mesopotamia, e sarebbe giunta nel cuore dell’Europa solo poco prima
dell’età di Cristo attraverso un complicato passaparola che comprende Sumeri, Egizi, Babilonesi, Assiri, Fenici, Persiani,
Minoici, Greci e buoni ultimi Romani. Uno schema talmente radicato da sembrare un’ovvietà, ma la cui credibilità viene
meno appena si cominciano a considerare alcuni fatti innegabili
che tuttavia non trovano spazio nei testi storici scolastici e
divulgativi: i monumenti megalitici europei, tanto per
cominciare, Stonehenge, la bellissima tomba irlandese di
Newgrange (il più antico edificio giunto intatto fino a noi), il
complesso noto come “il cuore neolitico delle Orcadi”, che
precedono di un millennio le piramidi egizie e le ziggurat
babilonesi. Europeo e non mediorientale è l’addomesticamento
dei bovini, come prova il fatto che la tolleranza al lattosio è
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massima fra le popolazioni centro e nord-europee e decresce man mano che ci si sposta verso l’est e il sud. Europea e non
mediorientale è del pari, a quanto pare, la scoperta dei metalli. La più antica miniera conosciuta che reca segni di
sfruttamento umano si trova nei Balcani, e il più antico strumento metallico conosciuto è l’ascia di rame dell’uomo del
Similaun. La scrittura è del pari un’invenzione non mediorientale ma europea, e questa è una faccenda che ha
dell’incredibile. Nel 1962 l’archeologo romeno Nicolae Vlassa scoprì nel sito di Turda in Romania appartenente alla cultura
Vinca una serie di tavolette recanti delle iscrizioni pittografiche che furono chiamate “tavolette di Tartaria” (anche se con i
Tartari non hanno nulla a che vedere) che sono risultate più antiche di almeno mille anni dei più antichi pittogrammi
sumerici conosciuti. Bene, questa scoperta rivoluzionaria non è mai arrivata sui media; sebbene da allora sia passato oltre
mezzo secolo, è rimasta avvolta da un coverage nemmeno si trattasse di segreti nucleari, e intanto i media e il sistema
scolastico continuano a raccontare una versione falsata e sbilanciata a favore del Medio Oriente della nostra storia più
antica.
Non è tutto, perché quando andiamo a considerare le grandi civiltà extraeuropee del passato, troviamo sempre alla loro base
un elemento europide.
L’Egitto, ad esempio, ha una storia paradossale, una grande civiltà che spunta dal nulla sorprendentemente “matura” e che
nell’arco di tre millenni non innova praticamente nulla (l’unica invenzione “nuova” che vi compare a un certo punto è il
carro da guerra, che non è un’invenzione egizia, ma fu portato nella Valle del Nilo dai nomadi Hyksos), ma in compenso
sembra semmai perdere capacità tecniche; le piramidi, ad esempio, furono opera dei faraoni delle prime dinastie, una
tecnica costruttiva che fu poi abbandonata, come se fossero andate perse le capacità tecniche necessarie a realizzarle.
Ebbene, altro fatto di cui si evita graziosamente di informare il grosso pubblico, si è scoperto che le mummie dei faraoni e
della maggior parte dei personaggi di alto rango avevano caratteristiche antropologiche differenti da quelle della maggior
parte della popolazione che abitava e abita ancora oggi la regione: caratteristiche marcatamente europee, spesso con capelli
biondi o rossicci. Allora le peculiarità della civiltà egizia non potrebbero spiegarsi con la presenza prima, poi con il
progressivo affievolirsi a causa degli incroci con la popolazione nativa, di un’élite di origine europea? Per quanto lo stato di
conservazione estremamente precaria dei resti umani in questa regione rispetto all’Egitto non consenta di pronunciarsi con
altrettanta sicurezza, un discorso dello stesso genere sembrerebbe valere anche per la Mesopotamia. L’Asia centrale è stata
oggetto di un antico popolamento europide le cui tracce sono oggi le mummie ritrovate nel deserto del Takla Makan,
mummie dalle caratteristiche europee e stranamente “celtiche”, le iscrizioni nelle oasi del bacino del fiume Tarim in lingua
tocaria (lingua indoeuropea del gruppo centum) e con ogni probabilità le popolazioni “europee” e bionde che ancora oggi
abitano le alte valli del Pakistan e dell’Afghanistan settentrionali, i Kalash e gli Hunza. Le scoperte più interessanti si fanno
forse analizzando la cultura tradizionale cinese: essa è dominata da due “religioni” (che però sono piuttosto delle filosofie di
vita), il taoismo e il confucianesimo. Ora, bisogna rilevare che mentre il taoismo è simboleggiato dal bufalo d’acqua, il
simbolo del confucianesimo è il cavallo.
Il confucianesimo è soprattutto una religione civile, un’etica basata sul rispetto degli antenati, delle tradizioni, della figura
imperiale, del senso di appartenenza a una comunità, dei doveri che esso comporta. Mentre il bufalo rappresenta il sud
(dove è largamente impiegato nei lavori delle risaie), il cavallo rappresenta il nord, e qui il riferimento è ai cavalieri nomadi
delle regioni settentrionali che gli imperatori cinesi arruolavano nei loro eserciti, e da qui deriva l’impronta “militare” del
confucianesimo. Ora, questi cavalieri, è dimostrato, erano spessissimo non mongoli ma europidi: popolazioni indoeuropee,
turaniche, unne. C’è dunque alla base della cultura cinese che ha reso possibile l’edificazione di uno dei più vasti e longevi
imperi di questo pianeta, perlomeno un elemento culturale di origine caucasica. Io vorrei comunque evidenziare il fatto che
le popolazioni estremo-orientali sono degne di ben altra considerazione rispetto a quelle subsahariane, a differenza di queste
ultime, hanno dimostrato quanto meno una grande capacità di apprendere, conservare, tramandare, applicare, che vediamo
attualmente all’opera anche nel modo in cui si sono impadronite della tecnologia occidentale moderna. Non è possibile fare
il confronto con gli stati africani ex coloniali a cui gli antichi colonizzatori hanno lasciato industrie, produzione agricola
razionale, ottime infrastrutture, eccellenti costituzioni, e che nel giro di pochi decenni sono ricascati nello stato di
arretratezza anteriore alla colonizzazione e che, in ultima analisi, non è altro che la loro condizione naturale. Un caso
particolare è rappresentato dal Giappone. In età preistorica il tipo umano del Sol Levante era rappresentato da popolazioni
caucasiche conosciute come Jomon, di cui i bianchi Ainu che ancora oggi vivono nell’isola di Hokkaido sono
probabilmente un residuo. Con l’andare del tempo, attraverso i contatti con le popolazioni del continente, questo tipo umano
ha subito una progressiva mongolizzazione, oggi dominante per quanto riguarda l’aspetto fisico, ma a livello animico e
psicologico c’è da pensare che esso mantenga una fisionomia caucasica che lo distacca in maniera netta dagli altri asiatici
orientali. Non stupisce che negli anni del secondo conflitto mondiale i Giapponesi si siano schierati sulla base dell’affinità
con il tentativo di riscossa europeo contro l’aggressione democratico-comunista. Si può dire di più, nel codice etico dei
samurai, il bushido, noi riconosciamo qualcosa di fondamentalmente indoeuropeo, paradossalmente di più di quel che
troviamo nella nostra cultura inquinata da fortissimi elementi semitici, a cominciare dal cristianesimo.
Le civiltà precolombiane delle Americhe ci richiamano a un discorso analogo: una base caucasica è tutt’altro che da
escludere. La più antica cultura litica americana conosciuta, la cultura Clovis non presenta nessuna somiglianza con quelle
siberiane, ed è invece affine a una cultura europea, quella solutreana. E’ stata avanzata l’ipotesi che prima dell’arrivo di
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popolazioni mongoliche attraverso lo stretto di Bering, in età glaciale, cacciatori di foche solutreani avrebbero raggiunto
l’America dall’Europa costeggiando la banchisa artica che allora esisteva tra i due continenti. L’idea di un arrivo dall’est è
rafforzata dal fatto che i siti Clovis ai trovano prevalentemente sulla costa orientale delle Americhe. A Kennewick nello
stato di Washington sono stati poi ritrovati i resti risalenti a novemila anni fa, di un uomo, l’uomo di Kennewick, appunto,
dalle caratteristiche chiaramente caucasiche. Ma la prova risolutiva anche stavolta è venuta dallo studio del DNA: circa un
terzo del genoma degli Amerindi è riconducibile al tipo eurasiatico settentrionale, cioè quello che costituisce la stragrande
maggioranza del patrimonio genetico degli Europei. Là dove un’influenza caucasica non è percepibile: l’Africa
subsahariana, l’Australia aborigena, la Nuova Guinea, vediamo che fino all’arrivo dell’uomo bianco i nativi non si sono
scostati di un millimetro dal paleolitico. E’ interessante quello che hanno rilevato gli archeologi australiani studiando le
“culture” aborigene: la loro storia si divide in due fasi, da 50 a 30.000 anni fa, quella degli attrezzi senza manico, da 30.000
anni fa in poi, quella degli attrezzi col manico. Ventimila anni per inventare il manico, questo ci dà l’esatta misura della
creatività dell’uomo non caucasico. Oggi l’esistenza stessa dell’homo europeus è minacciata da un declino demografico
provocato, dall’immigrazione, dal meticciato, tutti elementi di un piano che punta al nostro progressivo annientamento. Se
questo piano riuscisse, l’umanità che sopravviverebbe sarebbe tale solo dal punto di vista zoologico.
NOTA: Fra i molti monumenti che si potevano scegliere per rappresentare la civiltà europea, mi è sembrato opportuno
scegliere la triade capitolina, uno dei simboli più pregnanti della romanità. L’unità del nostro continente realizzata sotto
Roma rappresenta forse uno dei momenti più alti dello spirito europeo.
Fabio Calabrese

Una Ahnenerbe casalinga - sessantunesima parte

Una cosa che dovrebbe essere chiara a coloro che seguono con regolarità questa serie di articoli che ormai possiamo
considerare una rubrica sulle pagine di “Ereticamente”, è che a mio parere la cosiddetta Out of Africa che costituisce
la vulgata ufficiale, la “teoria” ufficialmente imposta sulle origini della nostra specie, la presunta “verità scientifica” al
riguardo, non solo non è una teoria scientifica valida, ma è una vera e propria truffa.
Per meglio dire, essa è presente in due varianti diverse, la prima è dotata di una certa plausibilità scientifica, la seconda
invece contrasta con una serie di fatti ben conosciuti, ma è quella a cui sono legate le implicazioni ideologiche che se ne
sono volute trarre e per così dire, si nasconde dietro la prima per far passare queste ultime di contrabbando, approfittando
del fatto che il grosso pubblico non distingue certo fra le due cose, è una classica operazione di escamotage o, se vogliamo,
di gioco delle tre carte.
La differenza fra l’Out of Africa I e l’Out of Africa II sembrerebbe di poco conto, invece è sostanziale, ed è proprio questo
che la somiglianza terminologica serve a nascondere. Entrambe sostengono che poiché gli ominidi (soprattutto il
genere Australopithecus) considerati intermedi fra la scimmia antropomorfa e l’uomo si ritroverebbero soprattutto in Africa,
appunto nel Continente Nero si sarebbe formato il genere homo prima di espandersi in tutto il pianeta. Ora, che questo
assunto sia discutibile l’abbiamo visto più volte. Recentemente è stato ritrovato nei Balcani il fossile ominide noto come “El
Greco”, ma già prima di allora, si potevano segnalare, ritrovati in Toscana, i resti di una “scimmia antropomorfa”,
l’Oreopithecus Bambolensis, che presenta proprio quelle stesse caratteristiche che hanno permesso di indicare negli
australopitechi i precursori dell’umanità: canini piccoli, arcata dentaria arrotondata, stazione eretta.
Ora, che io sappia, l’Italia non è Africa, anche se i democratici immigrazionisti stanno facendo di tutto per farla diventare
tale.
Ma prescindiamo. La differenza fra le due teorie è che secondo la prima, l’uscita dall’Africa sarebbe avvenuta a livello
di Homo erectus centinaia di migliaia di anni fa, mentre per la seconda questa uscita dal Continente Nero si sarebbe
verificata qualche decina di migliaia di anni fa da parte di un Homo già sapiens.
Sembrerebbe una differenza di poco conto, e invece è essenziale, perché, mentre la prima non ci dice nulla sulle differenze
razziali, dal momento che riguarda il predecessore della nostra specie, la seconda serve a negare l’esistenza delle razze
umane, fa parte dell’armamentario ideologico del dogmatismo dell’ortodossia democratica a questo riguardo, e la mancata
distinzione delle due serve precisamente a nascondere i “buchi” e le contraddizioni della seconda dietro la plausibilità della
prima.
Come se non bastasse, c’è un ulteriore assunto sottinteso a questo discorso, raramente esplicitato, e tuttavia essenziale
perché l’Out of Africa II raggiunga il suo scopo, non scientifico ma ideologico, che non ci sia distinzione fra “africano” in
senso geografico e “nero” in senso antropologico, un trucco dentro un trucco, potremmo dire, per dare a intendere
un’immagine completamente falsa delle nostre origini.
In realtà l’abbiamo visto, la pretesa che il nero subsahariano possa essere “il modello” archetipico della nostra specie, non
può essere in alcun modo sostenuta. Il Sapiens“moderno” più antico che conosciamo, l’uomo di Cro Magnon è senz’altro
più simile al tipo umano caucasico e non presenta caratteristiche negroidi di sorta, non solo, ma le ricerche genetiche hanno
messo in luce il fatto che le popolazioni umane moderne recano nel loro DNA la traccia di ibridazioni con varie popolazioni

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di quelli che sono stati chiamati pre-sapiens o sapiens arcaici: l’uomo di Neanderthal per le popolazioni caucasiche, l’uomo
di Denisova per le popolazioni asiatiche (mongoliche) e australoidi.
Bene, anche il nero subsahariano è tutt’altro che un sapiens “puro”, l’aveva scoperto la genetista Sarah Tishkoff, che in
un’intervista riportata da “Le scienze” nel 2012 aveva rivelato:
“Abbiamo visto molti dati che testimoniano incroci [dei neri subsahariani] con un ominide che si è separato da un antenato
comune circa 1,2 milioni di anni fa”.
Questa scoperta cruciale non ha destato molta attenzione, ma nel luglio 2017 due ricercatori dell’Università di Buffalo,
Omer Gokcumen e Stefan Ruhl, hanno pubblicato una ricerca su una proteina della saliva, la MUC7, che nei neri
subsahariani si presenta in una variante che non compare in nessun’altra popolazione umana vivente o estinta. Secondo i
due ricercatori, quest’ultima sarebbe la traccia genetica lasciata dall’ominide con cui i Sapiens che hanno colonizzato
l’Africa provenendo dall’Eurasia si sarebbero incrociati, dando luogo al nero subsahariano, che i due hanno chiamato
“specie fantasma” perché al momento non ne abbiamo evidenze fossili.
Gockcumen e Ruhl vanno più in là della Tishkoff e fanno notare che il movimento di colonizzazione deve essere avvenuto
dall’Eurasia verso l’Africa e non in senso contrario, perché altrimenti la variante africana della MUC7 si troverebbe, magari
minoritaria anche presso altre popolazioni umane.
A questo punto, occorre fare un discorso molto franco. Quella con cui ci confrontiamo non è una ricerca spassionata e
obiettiva della verità, ma un’attività fortemente condizionata da motivi propagandistici a supporto di un’ortodossia
ideologica. Noi abbiamo visto, parlando di un problema molto più recente e temporalmente più vicino a noi, l’origine della
civiltà, che le prove della sua origine europea sono sistematicamente ignorate: Si ignorano i grandi complessi megalitici
europei, quelli delle Isole Britanniche, Stonehenge, Newgrange, Avebury, ma anche quelli dell’Europa continentale: Carnac
(Francia), Gosek (Germania), i nuraghi sardi, i templi dell’isola di Malta, complessi che sono di un buon millennio più
antichi delle piramidi egizie e delle ziggurat babilonesi. Si ignora
deliberatamente che europea e non mediorientale è la scoperta dei
metalli (l’ascia dell’uomo del Similaun), si ignora deliberatamente che
europea e non mediorientale è l’invenzione della scrittura (le tavolette
di Tartaria), che europeo e non mediorientale è l’addomesticamento
dei bovini (la tolleranza al lattosio in età adulta), e via dicendo. Tutto
ciò, l’ignoranza voluta, risponde a un disegno politico: non si sa mai
che gli Europei ritrovino l’orgoglio delle loro origini e decidano di
ribellarsi al disegno di morte per sostituzione etnica
deciso per loro dal Nuovo Ordine Mondiale.
Riguardo all’Out of Africa, possiamo aspettarci che avvenga la stessa
cosa: anche se smentita dai fatti e dalle ricerche scientifiche serie non meno della tesi dell’origine mediorientale della
civiltà, continuerà a essere spacciata come “la verità” scientifica, perché il dogma “antirazzista” in essa implicito è troppo
utile per chi tende a imporre l’universale meticciato.
Nella nostra epoca informatica, la censura non riesce a essere assoluta, ma finché le informazioni pericolose che corrono per
il web sono sparse e sommerse da un coro di voci contrarie, il pericolo per il sistema non è grande.
Per un uomo solo, pescare nello sterminato mare del web è estremamente difficile, per questo, un lavoro come quello
compiuto dal gruppo facebook “MANvantara” dell’amico Michele Ruzzai che mette insieme la sinergia di vari
collaboratori, si rivela estremamente prezioso.
Abbiamo visto una delle scorse volte (la cinquantaseiesima parte della nostra rubrica) che un collaboratore di questo gruppo
ha “ripescato” un articolo apparso su “Le scienze” nel 2007 e passato pressoché ignorato, che già allora metteva seriamente
in dubbio l’Out of Africa sulla base di una ricerca condotta da una paleobiologa spagnola, Maria Matinòn-Torres, del
Centro Nazionale di Ricerca sull’Evoluzione Umana di Burgos. Costei aveva esaminato le corone dentarie umane di 5000
denti moderni e preistorici, considerando che la conformazione delle corone dentarie non risente dell’ambiente, ma è un
riflesso diretto del patrimonio genetico, ed era giunta a ricostruire un albero genealogico della nostra specie che ne poneva
l’origine non in Africa ma in Eurasia.
Recentemente (fine settembre 2017), sempre su “Manvantara” è apparso un nuovo tassello di questa ricerca che evidenzia
l’origine eurasiatica della nostra specie e pone l’Out of Africa sempre più nel dominio delle fiabe, o ve la porrebbe se non
avessimo a che fare con un potere che detta l’ortodossia “scientifica” e mediatica sulla base di motivi che di scientifico non
hanno nulla.
Si tratta in questo caso di un’ipotesi formulata nel 2016 da Úlfur Árnason, neuroscienziato presso l’Università di Lund in
Svezia, e questo ricercatore fa un’osservazione sconcertante nella sua semplicità e ovvietà, un bellissimo uovo di
Colombo di quelli che spingono a chiedersi come nessuno ci sia mai arrivato prima: delle tre sottospecie umane che hanno
preceduto l’umanità moderna: Cro Magnon, Neanderthal e Denisova, in Africa non si trova alcuna traccia né di
neanderthaliani né di denisoviani, né allo stato fossile né nel DNA delle popolazioni “nere”. La tripartizione-Cro Magnon-

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Neanderthal-Denisova deve quindi essere avvenuta in Eurasia, e con questa tripartizione l’origine della nostra specie che
Árnason pone attorno ai 500.000 anni or sono.
Ottimo, verrebbe da dire, goal e palla al centro.
L’illustrazione che correda il presente articolo, è appunto tratta dallo scritto di Árnason e illustra le prime migrazioni umane
secondo la sua ipotesi che definisce esplicitamente Out of Eurasia.
Il nostro discorso, ovviamente, non finisce qui, perché “MANvantara” che tratta di uno spettro molto ampio di tematiche (vi
si possono, ad esempio trovare articoli di grande interesse sulla spiritualità indoeuropea e sulle organizzazioni politiche e
culturali tradizionali che esulano dalla presente trattazione, ma in ogni caso rendono la frequentazione del gruppo senz’altro
consigliabile), sembra aver dedicato negli ultimi tempi molto spazio alla tematica delle origini. Io vorrei ricordare che
questa, nel senso in cui ho usato quest’espressione nella sessantina di articoli che ho stilato finora, non riguarda solo il
remoto problema delle origini della nostra specie, ma anche questioni molto più vicine a noi, come le origini della civiltà e
dei popoli indoeuropei.
In questo senso, può essere utile vedere ad esempio un articolo di Ricardo Duchesne ripreso da “Eurocanadian” e pubblicato
nel gruppo in data 28 settembre (è in inglese, e vi do il titolo in traduzione): Gli Europei, i più grandi di tutti. Il succo
dell’articolo è questo: Nel 2016 negli Stati Uniti il deputato repubblicano Steve King è stato oggetto di attacchi isterici e
accusato di razzismo per aver sostenuto che nessun altro gruppo umano ha dato altrettanti contributi alla civiltà quanto gli
Europei di ceppo caucasico. Un breve excursus storico consente di verificare che questa affermazione non è altro che la
pura e semplice verità: se questo è razzismo, allora è la realtà a essere razzista.
Un altro articolo, pubblicato il 30 settembre, ripreso da “Linkiesta”, parla di Eugene Dubois, L’uomo che scoprì “l’anello
mancante”, che sarebbe stato il pitecantropo (o presunta tale), che questo ricercatore “fuori dalle righe” e sbagliando tutto,
scoprì a Giava (in realtà si trattava di un fossile umano, il primo homo erectus di cui siano stati ritrovati i resti, ma questo si
capì solo molto più tardi. L’articolo parla diffusamente anche di Ernst Haeckel, lo scienziato e filosofo positivista di cui si
ricorda l’affermazione che “l’ontogenesi (lo sviluppo dell’individuo) ricapitola la filogenesi (la storia della specie)”. Di
passata, si può ricordare che Haeckel era un assertore dell’esistenza delle razze e della superiorità dell’uomo bianco,
arrivando a dire che se invece che esseri umani, il bianco e il nero fossero due chiocciole, nessun naturalista, viste le
differenze fra l’uno e l’altro, esiterebbe a classificarli in due specie differenti. Naturalmente, Haeckel scriveva queste cose
nel XIX secolo. Oggi siamo in democrazia, e di conseguenza c’è molta meno libertà di fare simili affermazioni.
Sempre in data 30 settembre, il nostro Michele Ruzzai ha postato nel gruppo un articolo ripreso da “Le scienze” del giugno
2009, La comparsa dei comportamenti “moderni”.
E’ un fatto singolare eppure innegabile, molti comportamenti che consideriamo tipicamente “moderni”, dalla costruzione di
edifici e ripari artificiali dalle inclemenze atmosferiche, all’uso di ornamenti, a un’arte spesso raffinata e dettata da
motivazioni non funzionali ma puramente estetiche, compaiono già in epoca paleolitica, attorno ai 45.000 anni or sono.
Sempre il 30 settembre (evidentemente una giornata clou per il dibattito sulle origini), su “MANvantara” l’infaticabile
Raffaele Giordano (ha arricchito di contributi “MANvantara”, “Frammenti di Atlantide-Iperborea” e anche la mia “Pagina
celtica”, è una persona che merita ampie lodi per il suo attivismo), ha postato un articolo ripreso da “Il
timone”, L’australopiteco Lucy era una scimmia e non c’entra nulla con l’uomo. A quanto pare alcuni anatomisti fra cui lo
studioso di fama mondiale lord Solly Zuckerman, hanno riesaminato le ossa di questa creatura, e sono giunti alla
conclusione che non si trattava altro che di una scimmia antropomorfa. Nel caso che avessero ragione, tutta la storia della
nostra specie sarebbe da riscrivere.
Io su ciò preferisco per ora sospendere il giudizio, ma questo ci fa capire quanto la nostra conoscenza del passato sia per ora
congetturale. Troppo, quanto meno per giocarci il futuro spalancando incoscientemente le porte ai “fratelli africani” che,
dando retta ai sostenitori dell’Out of Africa non sarebbero separati da noi nemmeno da una differenza razziale, che pure ci è
sotto gli occhi.

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Questa volta procediamo in maniera un po’ diversa dal solito. Cominciamo con l’osservare la galleria di “ritratti di
famiglia” dell’illustrazione che costituisce l’intestazione del presente articolo, e che ho messo insieme per creare per così
dire una riprova visiva delle nostre origini. Vi dico subito che in questa immagine composita la riga superiore si riferisce al
contesto europeo e africano, quella sotto all’Asia centrale e orientale. Procedendo da sinistra verso destra nella riga in alto,
la prima immagine che vediamo è una ricostruzione recente delle fattezze dell’uomo di Neanderthal, che io ho ripreso da un
articolo de “La Stampa” nella versione on line di data 30.1.2014. Si tratta di una ricostruzione che fa giustizia delle
caratteristiche scimmiesche che si continuano falsamente ad attribuire a questo nostro antenato (poiché è certo che noi
europei-caucasici e anche gli asiatici, ma non i neri africani siamo suoi discendenti) gravemente sottovalutato in base al
dogma progressista-evoluzionista per cui ciò che viene dopo deve essere per forza “più evoluto”, superiore e migliore di ciò
che viene prima. Noi dobbiamo essere consapevoli del fatto che questo antico uomo la cui eredità continua a vivere in noi,
l’abbiamo gravemente sottovalutato, e alcune scoperte recenti lo pongono in una luce molto diversa da come eravamo
abituati a considerarlo. C’è fra le scoperte più recenti a tale proposito, quella che può essere considerata la più antica
struttura architettonica conosciuta al mondo: il doppio cerchio di stalagmiti che gli uomini di Neanderthal avrebbero
realizzato nella grotta francese di Bruniquel: un lavoro che ha richiesto coordinazione e certamente una notevole abilità,
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lavorando a centinaia di metri sotto terra, e le cui finalità non sembrano essere state di natura pratica, ma di culto. Questi
nostri predecessori avevano probabilmente un mondo interiore e spirituale non meno ricco del nostro.
Come se ciò non bastasse, questi uomini avevano una buona conoscenza del mondo che li circondava, al punto che la si
potrebbe definire scientifica, con conoscenze che i loro discendenti hanno riscoperto solo molte decine di millenni più tardi,
ad esempio una buona conoscenza delle piante officinali e della farmacopea. E’ quanto è emerso da una ricerca condotta in
tempi recenti dall’Australian Centre for Ancient DNA (ACAD) dell’università di Adelaide in collaborazione con
l’università inglese di Liverpool. In particolare, studiando i resti di un uomo di Neanderthal ritrovati a El Sidron in Spagna,
si è visto che la sua placca dentaria conservava tracce dell’uso di corteccia di salice (che contiene l’acido salicidico, il
principio attivo dell’aspirina) e di muffa del genere penicillum (da cui si ricava la penicillina). L’uomo soffriva di un
ascesso dentario e di un parassita intestinale, però gli antidolorifici e gli antibiotici, cioè le armi di punta della farmacopea
odierna, erano già noti alla comunità di cui faceva parte. Spostandoci verso destra, troviamo la ricostruzione di una ragazza
di Cro Magnon e la foto di una donna tuareg di oggi, una donna tuareg famosa, la cantante Hindi Zahra. Delle popolazioni
oggi viventi, a parte i Guanci delle Canarie, ancora esistenti in età storica ma oggi estinti, le popolazioni numidiche come
Berberi e Tuareg, sono considerate quelle attualmente viventi più vicine all’uomo di Cro Magnon (e questo potrebbe essere
confermato anche da una certa “aria di famiglia” che si avverte fra le due donne). La “teoria”, ma sarebbe meglio dire la
favola dell’Out of Africa è stata inventata per scopi ideologici “antirazzisti”, per darci a intendere che noi discenderemmo
da neri africani, in modo da distruggere il concetto di razza umana, di rendere questo termine applicabile solo ai cani, ai
cavalli, ai bovini da allevamento. Bene, queste immagini rendono evidente che l’Out of Africa gioca sporco, gioca
sull’equivoco. Non è escluso, anzi appare verosimile che l’Africa settentrionale possa aver giocato un ruolo nel più antico
popolamento dell’Europa (ricordiamo che fino a 12-10.000 anni fa, prima che un imponente cambiamento climatico la
trasformasse nel più vasto deserto della Terra, l’area sahariana era fertile, quindi con ogni probabilità intensamente
popolata), ma “Africa” in senso geografico non significa nero subsahariano. Sia la giovane di Cro Magnon i cui lineamenti
sono stati ricostruiti dai paleoantropologi, sia la donna tuareg (fotografata, quindi non ci possono essere dubbi, come nel
caso della fanciulla preistorica, sull’esattezza della ricostruzione), rientrano agevolmente nel tipo umano caucasico, il nostro
tipo umano, che al nero subsahariano non deve verosimilmente nulla.
Passiamo al rigo sotto e spostiamoci in Asia. La prima immagine a sinistra è la ricostruzione del volto della mummia di una
giovane donna proveniente dalla cultura kurgan di Pazirik, nota come la “principessa Ukok” o “la ragazza tatuata”, infatti
sul corpo si sono conservati una serie di tatuaggi di impressionante modernità. Ne ha parlato il 10 aprile 2017 “The
Archaeology Network” in un articolo che però è ripreso da “The Siberian Times” del 14 agosto 2012. Ci siamo, è chiaro,
spostati in un orizzonte temporale che non è più quello delle centinaia o decine di migliaia, ma solo di migliaia di anni fa, e
qui troviamo un’altra verità che “la scienza” ufficiale tende a nascondere o a bisbigliare appena a bassa voce, uno di quei
fatti di cui gli specialisti possono parlare in circoli esclusivi, ma che non devono arrivare al grosso pubblico, né tanto meno
sui testi scolastici: l’Asia centrale e orientale è stata oggetto di un antico popolamento europide poi sommerso
dall’espansione delle popolazioni mongoliche, ma che verosimilmente resta la base delle grandi civiltà asiatiche. Secondo
molti ricercatori, in particolare Gordon Childe e soprattutto Marija Gimbutas, la cultura dei Kurgan, che prende il nome da
questi monumenti funerari eretti dai cavalieri e allevatori nomadi delle steppe eurasiatiche, coinciderebbe con l’Urheimat
indoeuropea, e sarebbe la base a partire dalla quale le lingue e le popolazioni indoeuropee si sarebbero poi espanse verso
l’Europa e l’area indo-iranica. Tuttavia, lo studio di questa antica cultura ci insegna anche un’altra cosa: noi assistiamo
progressivamente nell’arco di due millenni e mezzo, alla sostituzione nelle sepolture di un tipo umano caucasico con uno
mongolico, senza che la cultura materiale mostri di cambiare un gran che. Sembra una prefigurazione del destino che
attende noi stessi secondo i piani del potere mondialista, che contemplano la sparizione delle popolazioni europee per
sostituzione con le masse di molto più manipolabili e schiavizzabili allogeni provenienti dal Terzo Mondo. Alcuni elementi
di cultura materiale della nostra civiltà potrebbero sopravvivere alla nostra scomparsa, a quella dei nostri discendenti e della
nostra impronta genetica, una consolazione davvero magra, magrissima.
Spostiamoci sull’immagine successiva, è la ricostruzione di uno Jomon, un abitante del Giappone antico. In età preistorica e
antica, le isole del Sol Levante erano abitate da questa popolazione di ceppo caucasico che ha sostanzialmente posto le basi
della cultura giapponese, e la cui eredità biologica si conserva immutata nel gruppo etnico noto come Ainu, che tuttora
popola l’isola di Hokkaido, la più settentrionale dell’arcipelago nipponico. Il giapponese odierno deriva probabilmente
dall’ibridazione di questa popolazione originaria con una serie di influssi e apporti di sangue mongolico provenienti dalle
coste del non lontano continente asiatico. Bene, la cosa interessante è che anche se mongolizzato nei tratti fisici, il
giapponese ha mantenuto caratteristiche sostanzialmente caucasiche per quanto riguarda la dimensione psicologica e
spirituale, al punto da rimanere a livello culturale strettamente affine agli Indoeuropei, e questo spiega la sua superiorità
rispetto agli altri asiatici, è probabilmente all’origine della prontezza con cui ha saputo fare propri gli aspetti tecnici della
modernità, rimanendo allo stesso tempo profondamente saldo nella sua cultura tradizionale. Amore per il proprio Paese,
devozione verso gli antenati e verso i genitori anziani, responsabilità verso la famiglia, lealtà, rispetto delle tradizioni, senso
del dovere, spirito di sacrificio, sentimento dell’onore, lo spirito del bushido, dei samurai, dei kamikaze, tutte cose che non
abbiamo difficoltà a sentire vicine a noi, anzi, nonostante gli occhi a mandorla, più indoeuropee di quel che abbiamo spesso
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sotto gli occhi, perché la distanza dal Mediterraneo ha quanto meno preservato il Giappone da influenze semitiche. Non a
caso, anche oggi che viviamo in un mondo globale interconnesso, i tre pilastri dell’Occidente moderno e oggi della
“cultura” mondiale, tutti e tre originari in qualcosa di estraneo e opposto al mondo indoeuropeo: il cristianesimo, il
marxismo e la psicanalisi, non hanno fatto breccia in Giappone, sono rimasti sostanzialmente estranei alla cultura e
all’anima del Sol Levante. Non è probabilmente un caso che la religione nazionale giapponese, lo scintoismo, non ha avuto
neppure un nome specifico fino a quando non si è trovata a confrontarsi con un pensiero religioso diverso, quello buddista.
Lo Shinto era semplicemente “la” religione, la venerazione spontanea per la figura imperiale, per gli antenati, le divinità
indigetes, la tradizione in una parola. Per noi Europei, ovviamente, non avrebbe senso convertirci allo scintoismo, ma il
confronto con esso può essere un’occasione per riscoprire il nostro Shinto, quella tradizione che il cristianesimo ha cercato
di soppiantare e che Teodosio e Carlo Magno hanno cercato di distruggere con la forza.
Soffermiamoci ora sull’ultimo ritratto della nostra galleria: si tratta di una ragazza Kalash. I Kalash sono un’etnia
antichissima dai caratteri fisici marcatamente europidi che abita le alte valli del Pakistan e dell’Afghanistan settentrionali,
sono anche i portatori di una cultura testardamente pagana, per difendere la quale sono costretti a una dura e non facile
resistenza contro i bruni abitanti islamici dei fondovalle che non hanno mai cessato di perseguitarli. Sono detti anche Kafiri,
dall’arabo kafir, “infedele”, “non mussulmano” (ma nessuna traduzione può realmente rendere la connotazione di odio e
disprezzo che nella mente tarata di un islamico si associa a questa parola). Secondo una diffusa leggenda, i Kalash
sarebbero i discendenti di una legione perduta di Alessandro Magno, ma la leggenda non può corrispondere alla realtà,
perché quando Alessandro Magno mosse alla conquista dell’Asia i Kalash erano già lì, e pare che i Macedoni li abbiano
incontrati, anche se non si può escludere che qualcuno dei guerrieri di Alessandro si sia unito a loro, attratto da uno stile di
vita pacifico e semi-idilliaco prima che il lugubre spettro dell’islam cominciasse a tormentare le loro esistenze.
E’ probabile invece che i Kalash abbiano la loro origine in un popolamento europide dell’Asia centrale molto più antico,
collegato alla presenza di popoli come i Tocari in quello che è oggi il Turkestan cinese e alle mummie europidi “celtiche”
emerse dalle sabbie del deserto del Takla Makan a riprova del fatto che prima dell’espansione delle popolazioni mongoliche
queste aree erano abitate da genti caucasiche. Al riguardo, un articolo di Italo Bertolasi comparso su “Repubblica” del 16
giugno 1998, Figli di Dioniso, precisava:
“Gli antropologi che li hanno studiati dicono che la loro storia inizia quattromila anni fa con le migrazioni dei popoli indo-
ariani attraverso le valli dell’Oxus (l’Amu Darja). L’antica patria cafira poteva trovarsi forse tra le oasi rigogliose
dell’odierno Turkestan o tra i pascoli e le foreste che circondavano il Mar Caspio”.
A ciò si può aggiungere quanto riportato da Duccio Canestrini in Tra i Kalash, gli ultimi pagani dell’Afghanistan, articolo
pubblicato su “Airone” del giugno 1989:
“Gli antropologi culturali, infine, sottolineano la somiglianza di alcune caratteristiche della cultura kalash (come la figura
dello sciamano, l’uso del tamburo nelle feste e la stessa vinificazione) con elementi tribali del Turkestan orientale, oggi
politicamente cinese”.
I Kalash sono dunque quanto rimane di un antico popolamento caucasico dell’Asia centrale, una pagina, potremmo dire,
della nostra storia che è stata quasi completamente cancellata e di cui sembra che per motivi facilmente intuibili, la
“scienza” ufficiale non abbia alcuna voglia di riscoprire le tracce. Adesso provatevi a considerare questi “ritratti di famiglia”
nel loro insieme. Qual’è il quadro che ne emerge? Quale tipo umano vediamo essere “di base”, ancestrale, di cui gli altri
rappresentano in una qualche misura una deviazione, un adattamento a condizioni ambientali particolari? Forse quello nero
subsahariano come vorrebbero darci a intendere i sostenitori dell’Out of Africa? Non si direbbe proprio! Quello mongolico?
Neppure! Alla fine, chiaramente, rimane un solo tipo umano, quello caucasico, il nostro. L’ho già spiegato, ma conviene
tornarci sopra: occorre abbandonare l’idea che “più recente” o “derivato” significhi più evoluto. L’adattamento è il contrario
della plasticità evolutiva: l’arto di un mammifero che si trasforma nella zampa di un cavallo, potrà essere estremamente
efficiente nella corsa, ma ha perso la possibilità di diventare uno strumento per manipolare l’ambiente, possibilità che è
invece conservata dalla mano umana, rimasta “più fedele” al modello originario dei mammiferi e dei vertebrati. Lo stesso
discorso che è possibile fare “in grande” per le specie in generale, è possibile riportarlo “in piccolo” nella specie umana, e il
formarsi di varietà locali e – diciamolo pure – razziali, significa il discostarsi da un modello di base, un adattamento a
condizioni particolari che non è necessariamente evolutivo. Quella oggi minacciata dalla sostituzione etnica, quella a cui
apparteniamo, è precisamente la parte più intelligente e creativa della nostra specie.

www.ereticamente.net/2017/12/una-ahnenerbe-casalinga-sessantaduesima-parte-fabio-calabrese.html

182
Una Ahnenerbe casalinga, sessantatreesima parte

Come avete avuto modo di vedere, alcune delle parti precedenti di questa rubrica hanno avuto un andamento un pò
particolare: nella cinquantasettesima vi ho presentato una sorta di sunto della conferenza da me tenuta nel 2014 al festival
celtico triestino Triskell, come introduzione alla presentazione sulle pagine di “Ereticamente” al testo di quella del 2017
(quelle del 2015 del 2016 ve le avevo del pari presentate, ma stranamente non mi era venuto in mente di rendervi edotti di
quella del 2014 che, anche in ragione del tempo intercorso, vi ho in questo articolo presentato in maniera molto sintetica).
Ovviamente, essendo rivolte a un pubblico politicamente indifferenziato, hanno un’impostazione generalista, ma noi
capiamo bene l’importanza che ha per la nostra visione del mondo la conoscenza delle nostre origini europee che la
“cultura” e la “scienza storica” democratiche dominanti si guardano bene dal mettere nella giusta luce.
La sessantesima parte, invece, come già avevo fatto per il numero cinquanta (potenza e fascino delle cifre tonde) è stata
invece una sorta di riepilogo del lavoro finora fatto, e la sessantaduesima un piccolo cammeo a sé stante, una piccola
“galleria di famiglia” con i ritratti di alcuni dei nostri antenati.
Stavolta torniamo invece su di un approccio più classico della nostra rubrica, su di un discorso che – si può dire – presenta
una certa somiglianza con quello già affrontato in altre parti di questa serie di articoli, ossia, nell’attesa della comparsa di
novità sostanziali nelle ricerche sulle nostre origini (e va da sé che non ci possiamo aspettare che avvengano tutti i giorni
ritrovamenti come quello di “El Greco”, l’ominide balcanico, o dei resti di homo sapiens vecchi di 300.000 anni come è
avvenuto nella cava di Jebel Irhoud in Marocco, né tanto meno ci sono da aspettarsi quotidianamente studi come quello
sulla proteina MUC7 che dovrebbe essere la pietra tombale dell’Out of Africa, o le impronte “umane” vecchie di sei milioni
di anni ritrovate a Creta, e da questo punto di vista il 2017 resta un anno eccezionale), ci dedicheremo a un lavoro di
riflessione e approfondimento.
Tempo fa mi era capitato di mettere un commento su facebook, che se l’Out of Africa fosse vera, allora vorrebbe dire che
abbiamo fatto tanta strada per levarci dalle scatole quella gente che oggi l’immigrazione extracomunitaria ci riporta tra i
piedi.
Riflettendoci, mi sono reso conto che senza volerlo, senza averci pensato, la battuta di spirito enucleava una verità
importante. L’Out of Africa si basa su di un palese equivoco: essa ha lo scopo di persuaderci che “veniamo dai neri”, che
noi stessi non siamo in ultima analisi che dei neri “sbiancati” e che le razze umane non esistono. È una “teoria” che gioca
sporcamente sull’equivoco, perché un’origine su suolo geograficamente africano non significa necessariamente “nero”.
L’Africa mediterranea (NON quella subsahariana) potrebbe aver avuto un ruolo importante nell’origine della nostra specie,
ed è quello che induce a pensare ad esempio il recente ritrovamento di Jebel Irhoud in Marocco. Tuttavia, se ci riflettiamo,
questa possibilità – per ora ipotetica – si presta a una lettura completamente diversa da quella data dall’Out of Africa, che
non è una teoria scientifica, ma un’escogitazione ideologica inventata per “combattere il razzismo” (e va tenuto presente che
nel linguaggio orwelliano dell’ortodossia democratica per razzismo non s’intende più l’affermazione della superiorità di una
razza sulle altre, ma la semplice constatazione che le razze umane esistono).
In pratica, potremmo trovarci di fronte a una fondamentale biforcazione nel destino della nostra specie, fra quanti sono
rimasti nella comoda culla africana, e quanti hanno invece affrontato l’ambiente ostile e il più difficile clima dell’Eurasia. In
questa ipotesi, non solo vi potrebbe essere stata una differenza di base fra gli uni e gli altri – sarebbero stati i più dinamici e
intelligenti ad affrontare le sfide di un ambiente nuovo – non solo, ma quest’ultimo avrebbe imposto una rigorosa selezione,
plasmato letteralmente i nuovi arrivati, e il segno di questa differenza si vede benissimo ancora oggi, se fra le popolazioni di

183
origine eurasiatica e quelle subsahariane si riscontra una differenza di ben 30 punti di Q I che colloca la media di queste
ultime al limite di quello che per noi è il ritardo mentale.
Io penso che sia stato soprattutto l’ambiente europeo a plasmarci per quello che siamo, altro che “madre Africa”, in ogni
caso la nostra madre è l’Europa. La mia personale idea è che un ruolo di fondamentale importanza l’abbiano giocato le
variazioni stagionali che caratterizzano il nostro continente. Il fatto di passare regolarmente da periodi di clima confortevole
e abbondanza di risorse a quelli invernali caratterizzati invece da penuria alimentare e dalla necessità di ripararsi dalle
intemperie, ha favorito lo sviluppo della preveggenza, della capacità di pianificare la propria vita su tempi lunghi.
Quando si poteva parlare liberamente di queste cose prima che l’ortodossia democratica mettesse al bando la possibilità
stessa di sollevare simili questioni (che poi non solo questioni ma dati di fatto), era osservazione comune di chiunque avesse
avuto modo di osservare da vicino le differenze di comportamento legate alla razza, che il bianco vive pensando ai prossimi
decenni, mentre il nero vive pensando alle prossime ore.
Non è probabilmente un caso che il più antico segno di misurazione del tempo giunto fino a noi lo ritroviamo sul suolo
europeo, precisamente in Scozia a Warren Fields, dove sono state trovate le tracce di un calendario lunare di età mesolitica
(si veda Le altre Stonehenge, seconda parte), più antico di ben cinquemila anni dei più antichi analoghi calendari
mediorientali. Età mesolitica significa un’epoca già agricola, e per un agricoltore conoscere il ritmo delle stagioni è
fondamentale, ma prima che per lui lo era anche per un cacciatore che vivesse là dove la disponibilità di selvaggina era
soggetta a forti fluttuazioni legate alle variazioni stagionali a differenza di quel che avveniva e avviene in Africa.
Un’altra profonda differenza le cui origini vanno con ogni probabilità ricercate nella diversità dell’ambiente europeo
rispetto a quello africano, è l’atteggiamento nei confronti della prole. Le statistiche che abbiamo soprattutto provenienti
dagli Stati Uniti (e ricordiamo che gli afroamericani non sono neri puri) sono impressionanti. I tassi di separazioni,
abbandoni del tetto coniugale e via dicendo, sono altissimi, si può dire che il maschio di colore tende a non occuparsi per
nulla dei figli, ricalcando in pieno, nonostante le differenze ambientali fra USA e Africa al disotto del Sahara, lo stesso
atteggiamento dei propri antenati africani che lasciavano esclusivamente alle donne la cura della prole. Per quanto riguarda
l’Africa, è interessante rilevare il fatto che le agenzie di microcredito che cercano di promuovere iniziative che la sollevino
dalla povertà endemica, fanno i loro prestiti esclusivamente a donne, ben sapendo che gli uomini non farebbero altro che
sperperarli.
L’atteggiamento del maschio di colore, al riguardo, ricalca puntualmente quello degli antropoidi che affidano le loro
possibilità di trasmettere i loro geni a una discendenza, non alla cura dei propri figli, ma cercando di ingravidare più
femmine possibile.
Preveggenza, responsabilità, preoccupazione per il futuro, cura ed educazione dei propri figli. Questi sono frutti germogliati
sul suolo europeo, sono le basi che hanno permesso all’Europa di essere la madre della civiltà umana (qui il discorso si
collega a un’altra tematica che ho ampiamente trattato, la nascita della civiltà non in Medio Oriente come mente la maggior
parte dei testi “di storia”, ma sul suolo europeo).
Noi siamo figli dell’Europa in ogni senso, su questo non si possono nutrire dubbi, e credo che la migliore affermazione di
ciò ce l’abbia data non uno scienziato ma un combattente, un uomo che si è volontariamente immolato per denunciare con
la sua morte lo spaventoso delitto che il potere mondialista sta commettendo contro i popoli europei, provocando la loro
estinzione attraverso il declino demografico imposto, l’immigrazione allogena e il meticciato, Dominique Venner, questo
samurai della causa europea, le cui parole meritano una particolare reverenza, proprio perché suggellate con il sangue e il
supremo sacrificio:
“Io sono figlio della terra degli alberi e delle foreste, delle querce e dei cinghiali, delle vigne e dei tetti spioventi, delle
epopee e delle fiabe, del Solstizio d’inverno e di San Giovanni d’estate… Il santuario in cui vado a raccogliermi è la foresta
profonda e misteriosa delle mie origini. Il mio libro sacro è l’Iliade così come l’Odissea, poemi fondatori e rivelatori
dell’anima europea.
Questi poemi attingono alle stesse fonti delle leggende celtiche e germaniche, di cui manifestano in modo superiore la
spiritualità implicita. Del resto non tiro affatto una riga sui secoli cristiani. La cattedrale di Chartres fa parte del mio
universo allo stesso titolo di Stonehenge o del Partenone. Questa è l’eredità che occorre assumere. La storia degli Europei
non è semplice. Essa è scandita di rotture al di là delle quali ci è è dato di ritrovare la nostra memoria le la continuità della
nostra Tradizione primordiale”.
Vi ho proposto varie volte nella parte iconografica che correda questi articoli (l’ultima nei “ritratti di famiglia” della parte
precedente a questa, ragion per cui ora non ve la riproporrò, ma caso mai vi invito ad andare a riguardarvela) una
ricostruzione dei lineamenti dell’uomo di Neanderthal tratta dalla pagina scientifica del “Corriere della Sera” del 2014, una
ricostruzione recente che fa finalmente giustizia dei tratti scimmieschi fino a poco tempo fa attribuiti a questo nostro
antenato, senza dubbio in omaggio al dogma progressista-evoluzionista.
Oggi noi sappiamo che il suo DNA differisce dal nostro per una frazione inferiore all’1%, e non abbiamo alcun motivo per
non considerarlo a tutti gli effetti un membro della nostra stessa specie. La sua impronta genetica è presente nel nostro DNA
ma non in quello degli africani. Potremmo avanzare l’ipotesi di aver ereditato dall’uomo di Cro Magnon le caratteristiche
sapiens avanzate e da lui quelle razziali europidi, e questa sarebbe una chiarissima conferma delle teorie di Carleton S.
184
Coon secondo le quali le caratteristiche razziali sarebbero più antiche del sapiens anatomicamente moderno, e si sarebbero
mantenute distinte nei diversi gruppi umani man mano che ciascuno di essi per incrocio genetico con altre popolazioni,
raggiungeva il livello anatomicamente moderno. Ne abbiamo parlato altre volte in dettaglio, e caso mai potete andare a
rivedervi gli scritti precedenti in merito a questo argomento.
Ora, la cosa interessante è che io ho riproposto questa ricostruzione anche su facebook, raccogliendo alcuni commenti che
meritano una riflessione. Secondo uno dei miei corrispondenti, si tratterebbe di “un volto tipico da italiano medio”, mentre
un altro mi ha assicurato di aver “scorto diverse fisionomie simili nelle valli bresciane”. Ciò fa riflettere soprattutto alla luce
del fatto che un recente riesame dei resti fossili neanderthaliani che ci sono pervenuti ha stabilito che quelli ritrovati in
Italia, gli esemplari di Saccopastore e di Monte Circeo, sono i più antichi neanderthal conosciuti, risalenti alla bellezza di un
quarto di milione di anni fa, e non dobbiamo neppure dimenticare che Argill, l’uomo di Ceprano risalente a 800.000 anni fa
è oggi considerato il più probabile antenato comune dell’uomo di Neanderthal e di quello di Cro Magnon (oddio, è vero che
di ciò non si parla molto, perché non si è ancora trovata la maniera di far quadrare questo fatto con la “teoria” dell’Out of
Africa). E se l’Italia, proprio la nostra Italia avesse esercitato nella storia della nostra specie un ruolo più centrale di quello
che siamo soliti pensare?
L’Italia potrebbe essere stata un importante crogiolo nella storia della nostra specie, ma sappiamo che se noi passiamo a
considerare la nostra storia genetica non risalendo alle centinaia di migliaia di anni fa, ma all’orizzonte temporale delle
migliaia di anni, fino ai tempi storici e attuali, ci imbattiamo in un problema: dobbiamo confrontarci con una visione delle
cose “democraticamente corretta” (e quindi ovviamente falsa) secondo la quale gli Italiani come popolo sarebbero
caratterizzati dal fatto di abitare una Penisola dai limiti geografici molto ben definiti, da una cultura in gran parte comune
(fatto di per sé discutibile), ma da nessuna coerenza in termini genetici. Questa democratica menzogna è spesso ripetuta dai
media, sebbene gli studi di genetica ne abbiano dimostrato la totale falsità.
Che ciò sia falso, sfacciatamente falso, l’abbiamo visto più di una volta: le popolazioni italiche sono un ramo degli
Indoeuropei che presentano una precisa identità genetica senza la quale – io penso – le grandi culture che si sono sviluppate
nel tempo nella nostra Penisola, dagli Etruschi ai Romani, alla civiltà comunale medioevale, al Rinascimento, non sarebbero
mai potute esistere, perché l’imbastardimento e il meticciato generano soltanto decadenza, tuttavia a questo dato più volte
evidenziato adesso siamo in grado di aggiungere qualcos’altro.
Io vi devo chiedere scusa, ma il web è un mare magnum, e non sono certo le notizie per noi più importanti quelle che
ricevono maggiore visibilità, ma sono spesso sommerse da una marea di cose futili o irrilevanti. Solo ultimamente alcuni
amici mi hanno segnalato la notizia riportata su ANSA-it del 2008 circa uno studio sulla genetica delle popolazioni europee
condotto dal genetista olandese Manfred Kayser, di cui vi riporto uno stralcio:
“L’unicità degli italiani si riflette anche nel loro Dna: lo dimostra la mappa genetica dell’Europa elaborata dal genetista
olandese Manfred Kayser e pubblicata dalla rivista Current Biology.
La mappa genetica del Vecchio Continente, che ricorda vagamente quella geografica, è stata creata analizzando il Dna di
quasi 2.500 persone appartenenti a 23 sottopopolazioni.
Dallo studio è emerso come gli europei siano abbastanza ‘simili’ tra loro dal punto di vista genetico: le differenze più
significative si rilevano tra le popolazioni del Nord e quelle del Sud, forse a causa delle antiche ondate migratorie di uomini
preistorici sempre provenienti da Sud.
La mappa, inoltre, evidenzia l’esistenza di due isole genetiche: da un lato quella dei finlandesi, e dall’altro quella degli
italiani. Le Alpi, infatti, si sarebbero comportate non solo come barriera geografica, ma anche genetica, impedendo un
mescolamento del nostro Dna con quello delle altre popolazioni europee”.
Gli Italiani, dunque non solo hanno una precisa fisionomia etnica e genetica, ma così come i Finlandesi, sono così ben
distinti dagli altri Europei da costituire una vera e propria “isola genetica”. E scusate, ma non è possibile non mettere in
relazione questa peculiarità genetica con l’eccellenza che il nostro popolo ha sempre dimostrato in campo artistico e
culturale. I sinistri con rincalzo di pretaglia assortita, quanti altri con la scusa dell’accoglienza ai falsi profughi oggi ci
impongono l’invasione dal Terzo Mondo e il meticciato, stanno di fatto distruggendo questa eccezionalità genetica assieme
al futuro dell’Italia e probabilmente non riescono nemmeno a immaginare l’enormità del delitto che stanno commettendo.
E noi, glielo lasceremo fare senza reagire?
NOTA: L’illustrazione che correda questo articolo, stavolta la dovreste conoscere già, sono stato poco originale, ma mi
sembrava di gran lunga la più adatta, l’ho ripresa da “Ereticamente”: il ritratto di Dominique Venner assieme alla poesia
dedicatagli da Juan Pablo Vitali, è il minimo che la memoria di questo eroe della causa europea meriti.

Una Ahnenerbe casalinga, sessantaquattresima parte

Per quanto riguarda lo studio delle nostre origini, l’anno 2017 si è dimostrato un’annata veramente eccezionale in fatto di
ritrovamenti: possiamo menzionare – in questo caso più che un ritrovamento, una riscoperta derivata da una più attenta
rilettura di fossili già noti – l’ominide balcanico noto come “El Greco”, risalente a poco meno di 7 milioni di anni fa, poi i
resti umani anatomicamente moderni emersi dalla cava marocchina di Jebel Irhoud, la ricerca condotta dai biologi
185
dell’università di Buffalo su di una proteina della saliva, la MUC7, presente nei neri subsahariani in una variante che non si
ritrova in nessun altro gruppo umano, e che sarebbe l’eredità della “specie fantasma”, un ominide o un uomo arcaico
separatosi dalla linea principale dell’evoluzione umana circa 1,2 milioni di anni fa, e con cui gli umani sapiens provenienti
dall’Eurasia si sarebbero incrociati, essa è in altre parole la prova genetica più importante che smentisce la “teoria” dell’Out
of Africa, della presunta origine africana di Homo sapiens.
C’è stata poi in settembre la notizia del ritrovamento nell’isola di Creta di impronte fossili molto simili a quelle umane
risalenti a quasi sei milioni di anni fa.
Alcuni lettori di “Ereticamente” mi hanno criticato per aver parlato di questa scoperta con molta cautela, di averne, per così
dire, ridimensionato l’importanza quando ne ho parlato nella cinquantottesima parte della nostra Ahnenerbe.
Non avrete, io penso, difficoltà a capire perché mi sia deciso a rispondere adeguatamente a questa critica soltanto adesso.
Essenzialmente, è una questione di tempi tecnici. “Ereticamente” è uno strumento validissimo per la diffusione delle nostre
idee, ma le possibilità di stare sulle notizie in tempo reale sono scarse, anche perché, come avrete avuto senz’altro modo di
vedere, la tematica delle origini non è la sola questione della quale mi sono occupato su queste pagine, e quello con essa è in
effetti un appuntamento con una scadenza più o meno bisettimanale.
Aggiungiamo poi che la cinquantanovesima parte ha dovuto – purtroppo – registrare la notizia che le impronte cretesi sono
state vandalizzate, e per l’occasione mi è sembrato opportuno ampliare il discorso sui molti reperti che contraddicono
l’impostazione “ortodossa” e “politicamente corretta” della nostra storia e che sono accidentalmenteandati distrutti o
scomparsi.
La sessantesima parte, preparata da tempo, è stata invece un riepilogo del percorso fin qui svolto, a completamento di
quanto già detto quando abbiamo toccato la quota cinquanta (questa rubrica comincia ormai ad avere una storia), la
sessantunesima parte un aggiornamento doveroso delle novità segnalate soprattutto da “MANvantara”, l’ottimo gruppo
facebook gestito dal nostro amico Michele Ruzzai, la sessantaduesima e la sessantatreesima due “cammei” un po’ a parte
rispetto al filone principale della nostra ricerca di cui, vi confesso, ho rimandato varie volte la pubblicazione davanti alla
necessità di aggiornamenti più impellenti, e a cui non me la sono sentita di imporre ritardi ulteriori, e così ci siamo ridotti ad
adesso.
Io facevo notare che la grossa svolta nella deambulazione, quindi nella conformazione del piede e delle impronte che si
possono lasciare, non sembra essere avvenuta al momento della transizione fra ominide e uomo, ma a quello della
transizione fra scimmia antropomorfa e ominide. L’acquisizione della stazione eretta, infatti, ha comportato la perdita della
prensilità del piede, che nelle scimmie antropomorfe o nelle scimmie in genere, è ben evidenziata dall’alluce che sporge
lateralmente rispetto alle altre dita, mentre gli ominidi, ad esempio del genere Australopithecus, camminavano eretti,
avevano l’alluce in linea con le altre dita e lasciavano impronte del tutto simili alle nostre, ed è precisamente questa una
delle caratteristiche più significative che hanno permesso di diagnosticarli come probabili nostri antenati. Le famose
impronte di Laetoli, lasciate da australopitechi Afarensis (la specie di Lucy) 4,5 milioni di anni fa, in effetti sono del tutto
simili alle nostre

.
L’ipotesi che mi sembra più probabile, anche in ragione della vicinanza geografica, è che le impronte cretesi siano state
lasciate da El Greco o da un suo parente stretto.
Questo però non significa che le impronte cretesi siano prive d’importanza, in realtà sono importantissime.
“Il genere Homo deriva dagli ominidi, gli ominidi sono vissuti in Africa, quindi Homo deve essersi originato in Africa”.
Questo sillogismo (o sofisma) è alla base dell’interpretazione “ortodossa” e “politicamente corretta” delle nostre origini.
Ora è chiaro che essa risulta gravemente indebolita nel momento in cui scopriamo che sono vissuti in tutto il Vecchio
Mondo, dagli asiatici Ramapithecus e Sivapithecus (che però secondo l’interpretazione più recente sembrano essere
appartenuti a un’unica specie) a El Greco in Europa, ma sul nostro continente non c’è solo lui: in Italia centrale sono stati
trovati i resti di una creatura, l’Oreopithecus Bambolensis, che presenta proprio quelle stesse caratteristiche: stazione eretta,
canini piccoli, arcata dentaria tondeggiante di tipo umano, che hanno consentito di individuare Lucy e gli altri
australopitechi come precursori del genere umano.

186
Tuttavia è inutile che ce la raccontiamo: il vero punto della questione è assolutamente un altro. Per alcuni di noi l’idea di
un Homo vecchio di sei milioni di anni è un’assoluta tentazione, perché scombinerebbe il quadro dell’evoluzione della
nostra specie come è stato finora tracciato, e di certo non stupirò nessuno raccontandovi che questa è ad esempio
l’interpretazione del ritrovamento cretese data da Maurizio Blondet.
Io non so quante volte l’ho già detto, ma non mi stancherò di ripeterlo: questa è un’interpretazione delle cose del tutto
falsata: che il darwinismo sia “una cosa di sinistra” è un pregiudizio che nasce dalla confusione del concetto di evoluzione
con quello di progresso, e perché l’evoluzionismo contraddice la narrazione biblica.
Riguardo al secondo punto, difendere quest’eresia ebraica che conosciamo come cristianesimo, che ha usurpato le nostre
tradizioni autoctone dopo averle portate all’estinzione, è di certo l’ultima delle mie preoccupazioni, ma soprattutto il
significato a livello umano e politico della concezione darwiniana è precisamente il contrario della sua interpretazione
progressista e buonista, evidenzia il valore della lotta per la sopravvivenza, il potere creativo della selezione, la lotta dei
viventi per diffondere nelle generazioni future il proprio genoma, non quello di chissà chi, che taglia le gambe a qualsiasi
ubbia cosmopolita cristianiforme-marxistiforme.
Sembra quasi che si sia levato un tappo: il dibattito sulla “specie fantasma” sollevato dalla ricerca dell’università di Buffalo
ha portato alla luce diverse cose, altre ricerche rimaste nell’ombra per il fatto di smentire la vulgata ufficiale sulle nostre
origini rappresentata dal dogma Out of africano.
Si è per esempio riparlato di una ricerca condotta nel 2007 da Maria Matinòn-Torres, paleobiologa del Centro Nazionale di
Ricerca sull’Evoluzione Umana di Burgos (Spagna). Questa ricercatrice, considerando il fatto che i denti e le corone
dentarie risentono ben poco dell’influenza dell’ambiente ma sono praticamente il riflesso diretto del patrimonio genetico, ha
ricostruito un “albero genealogico dentario” delle popolazioni umane, moderne ed estinte, albero genealogico che indica
l’origine della nostra specie non in Africa ma in Eurasia.
A una conclusione molto simile era giunto nel 2016 anche Úlfur Árnason, neuroscienziato presso l’Università di Lund in
Svezia sulla base di un ragionamento così semplice che veramente ci si stupisce che nessuno ci sia arrivato prima: in età
preistorica la nostra specie era suddivisa in tre sottospecie: Cro Magnon, Neanderthal e Denisova. Poiché in Africa non si
trova la minima traccia né di neanderthaliani né di denisoviani né come tracce fossili né nel genoma degli africani attuali, è
chiaro che questa suddivisione, e con essa l’origine della nostra specie, devono essere avvenute non in Africa ma in Eurasia.
Di tutto questo abbiamo già parlato nelle parti precedenti di questa rubrica, e ora è venuto il momento di aggiungere un altro
tassello al nostro mosaico che si sta facendo sempre più completo, articolato e chiaro. Fa un particolare piacere, poi, che a
mettere quella che dovrebbe essere la pietra tombale definitiva sull’Out of Africa, sia proprio il lavoro di una ricercatrice
italiana.
A ottobre, il sito “Classic Cult” (www.classic.cult.it ) ha pubblicato un articolo: Due acheuleani, due specie umane che
presenta il lavoro di Margherita Mussi del Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università La Sapienza di Roma,
direttrice delle ricerche archeologiche a Melka Kunture in Etiopia, articolo che peraltro sintetizza un testo già apparso
sul “Journal of anthropological Sciences”.
Devo però ammettere che anche questa volta, nel riportare questa ricerca estremamente significativa sulle nostre origini,
sono stato preceduto dall’ottimo MANvantara del nostro Michele Ruzzai, vediamo però ora di che cosa si tratta.
L’acheuleano è l’industria litica che si ritiene generalmente associata all’homo erectus, e copre un periodo temporalmente
molto ampio che va da 1,8 milioni fino a 100.000 anni fa.
Ebbene, proprio studiando gli strumenti acheuleani etiopi, Margherita Mussi è giunta alla conclusione che esistono due
acheuleani diversi, quello africano e quello eurasiatico, ma occorre tenere presente che fino alla comparsa
di sapiens l’evoluzione degli strumenti litici è andata di pari passo con quella del cervello, c’è un legame strettissimo tra
evoluzione biologica ed evoluzione culturale. Questo porta a una conclusione ovvia quanto imbarazzante per alcuni: fino al
Paleolitico superiore sarebbero esistite due umanità, mentre in Africa l’homo erectus sarebbe rimasto pressoché immutato,
in Eurasia si sarebbe evoluto nel più avanzato heidelbergensis da cui sarebbe poi nato sapiens.
Combinando questa ipotesi con quella avanzata dai ricercatori dell’università di Buffalo, tutto diventa più chiaro: la “specie
fantasma” da cui i neri subsahariani avrebbero ereditato la loro variante della proteina MUC7, altro non sarebbe stata che il
“vecchio” Homo erectus con cui i sapiens giunti in Africa dall’Eurasia si sarebbero incrociati.
L’Out of Africa così come viene ammannita dai media, ossia che “verremmo dai neri” non è una teoria scientifica ma un
artificio retorico. Per prima cosa, il grosso pubblico ignora che esistono due versioni, Out of Africa I e Out of Africa II: la
prima sostiene l’uscita dell’umanità dall’Africa a livello di Homo erectus, milioni o centinaia di migliaia di anni fa, la
seconda la provenienza dal Continente Nero di un Homo già sapiens alcune decine di migliaia di anni fa.
Non è la stessa cosa, e la seconda nasconde la sua mancanza di credibilità dietro l’omonimia con la prima, è in pratica un
trucco, un truffaldino gioco delle tre carte.
Il più antico essere che possiamo riconoscere come umano, l’Homo erectus (dato che né il cosiddetto homo abilis
– inventato più che scoperto da Louis e Richard Leakey – né il cosiddetto “uomo di Naledi” mostrano caratteristiche che il
distinguano realmente dagli ominidi australopitechi) potrebbe aver avuto origine in Africa (ma anche no, dato che sappiamo
che l’areale degli ominidi era molto più vasto, includendo almeno le parti climaticamente più favorevoli dell’Eurasia, come
187
l’Europa mediterranea e il subcontinente indiano, e pensate al fastidio che ha dato negli ambienti “democratici” la scoperta
di El Greco), ma siamo a un livello di antichità tale da fare venire meno lo scopo “antirazzista” di questa teoria, se l’uscita
dall’Africa fosse avvenuta a livello di Erectus, milioni di anni fa, prima che l’homo sapiens cominciasse a esistere, ci
sarebbe stato comunque tutto il tempo per una differenziazione razziale, che la “teoria” dell’Out of Africa II è stata costruita
apposta per negare.
Ora noi abbiamo la prova provata che l’Out of Africa II è falsa, e grazie a El Greco e alle impronte cretesi, anche l’Out of
Africa I non è mica poi così tanto credibile, ma questo non è ancora tutto.
Se l’ipotesi dell’origine africana della nostra specie si basa su di un espediente truffaldino, la confusione fra due teorie in
realtà molto diverse, per trasformarla nell’asserzione che “veniamo dai neri” (peraltro lasciata ai media e che nessun
ricercatore si sogna di fare esplicitamente in questi termini), occorre ancora un altro espediente, ossia un’ulteriore deliberata
confusione fra “africano” in senso geografico e “nero” in senso antropologico, un trucco nel trucco, potremmo dire; fosse
vero, sarebbero stati “neri” anche Tolkien e Ungaretti, nati in terra d’Africa.
Le ultime ricerche paleoantropologiche smentiscono chiaramente tutte queste illazioni, e se la partita fosse soltanto in
termini scientifici, essa sarebbe certamente chiusa, ma noi sappiamo che al sistema di potere che sta dietro al sistema
accademico ed educativo e a quello dei media, la verità in quanto tale non interessa per nulla, e che continuerà a diffondere
le menzogne che gli fanno più comodo, che le razze umane non esistono e che tutti noi siamo soltanto dei “neri sbiancati”,
allo scopo di ottundere le nostre coscienze, per indurci ad accettare quanto meno con rassegnazione la sostituzione etnica in
atto.
Proprio per questo, noi continueremo a lottare per difendere la verità delle cose, e con essa il futuro dei nostri figli e
discendenti.
NOTA: nell’illustrazione che correda quest’articolo, a sinistra un’immagine che vi ho già proposto: una raffigurazione
suggestiva della “specie fantasma” individuata dai ricercatori dell’Università di Buffalo. Grazie alle ricerche di Margherita
Mussi, adesso sappiamo che probabilmente non si trattava altro che del “vecchio” Homo erectus. Al centro, il teschio e la
ricostruzione di un uomo di Cro Magnon, il “classico” Homo sapiens del Paleolitico. Come si può vedere, le sue
caratteristiche non ricordano molto quelle dei neri subsahariani. A sinistra, il sito di Melka Kunture in Etiopia, dove
Margherita Mussi ha condotto le sue ricerche.

Una Ahnenerbe casalinga, sessantacinquesima parte

Come avete potuto vedere, ho dedicato le parti cinquantesima e sessantesima


di questa rubrica a una sorta di sunto, di sintesi del percorso finora fatto nella
nostra ricerca, approfittando della sensazione che danno i numeri “tondi” di
qualcosa di conclusivo, di aver raggiunto una meta.
Questo, non l’evidenzierò mai abbastanza, non perché io ritenga che Fabio
Calabrese sia una persona particolarmente importante, né che qualche cosa
sia importante perché affermato dal sottoscritto, ma perché la questione delle
origini ha nella nostra visione del mondo un significato affatto centrale: sono
le origini e la storia che abbiamo sin qui percorso a definire la nostra identità,
come singoli e come comunità, come etnia, cioè precisamente quel che non
vogliamo perdere, sotto l’aggressiva oppressione di una “cultura”
mondialista e cosmopolita e la minaccia dello stravolgimento etnico, senza dimenticare il fatto che ciò che ci propongono (o
ci impongono) la scuola, i mass media, tutte le “agenzie culturali”, è di segno esattamente opposto, e richiede di essere
controbilanciato almeno nei limiti in cui le nostre forze ce lo consentono.
In altre parole, quel che è davvero importante non è sicuramente l’uomo ma l’idea.
Soprattutto dopo aver redatto la sessantesima parte, ho avuto la sensazione di aver lasciato il discorso incompleto (anche se
una tematica come questa è forse impossibile da esaurire), e così stavolta ho deciso di non aspettare di aver raggiunto quota
settanta per riprendere in mano il discorso di una sintesi complessiva degli argomenti sin qui trattati.
Noi abbiamo visto che la questione delle origini si può suddividere in quattro livelli: quello delle remote origini
dell’umanità, quello dell’origine dei popoli indoeuropei, della civiltà europea, e infine di quel popolo o di quel complesso di
popolazioni che conosciamo come italiche o italiane e di cui noi stessi, voglia o non voglia, facciamo parte.
La prima di queste questioni è stata affrontata su queste pagine con considerevole ampiezza, anche in ragione del fatto che
qui c’è la mitologia fasulla dell’Out of Africa, trasformata in ortodossia “scientifica” imposta da controbattere, una “teoria”
dai palesi intenti “democratici” e “antirazzisti” fatta apposta per farci accettare con rassegnazione la sostituzione etnica.
Anche riguardo alla terza questione, le origini della civiltà europea, c’è una quasi altrettanto pesante ortodossia democratica
(ovvero, il che è uguale, menzogna di regime) da contrastare, quella che colloca a ogni costo l’origine della civiltà nella
Mezzaluna Fertile mediorientale e nega il ruolo creativo dell’Europa, a dispetto dei grandi complessi megalitici che
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precedono di millenni le piramidi e le ziggurat, e dei molti altri elementi che abbiamo avuto modo di vedere. Questa parte
del nostro discorso è stata sviluppata oltre che in questa rubrica, nella serie di articoli Ex Oriente lux, ma sarà poi vero?, e
anche a questo riguardo credo di aver sviluppato l’argomentazione in maniera sufficientemente completa.
Il quarto punto della nostra indagine sulle origini sembra essere una questione che non si affronta facilmente, sebbene anche
qui noi abbiamo a che fare con una menzogna di regime che va respinta con la massima forza, quella che vorrebbe
presentare il popolo italiano come unito dalla geografia molto ben caratterizzata geograficamente della nostra Penisola, da
un (lieve, non illudiamoci!) collante culturale, ma da nient’altro, da nessuna coerenza etnica di sangue. In pratica, le
canaglie marxiste e clericali che disgraziatamente ci governano (basterebbe questo per togliere ogni credibilità
alla cosiddetta democrazia), sebbene robustamente smentite dalla genetica, vogliono convincerci di essere già adesso quello
che vogliono farci diventare: un coacervo multietnico.
Non si ripeterà mai abbastanza che essere italiani non ha nulla a che vedere con il tricolore, l’inno di Mameli, la maglia
azzurra, non significa nemmeno parlare la nostra lingua o essere nati sul nostro suolo, essere italiani significa essere di
sangue italianooppure non significa nulla.
E’ una questione difficile da affrontare, dicevo, che trova parecchie resistenze anche in ambienti “nostri”. Si vorrebbe essere
padani, celti, longobardi, magni greci, bi-siculi (delle Due Sicilie), tutto meno che italiani, perché l’Italia da settant’anni ci
si presenta col volto repellente e purulento di corruzione della democrazia antifascista, e diciamolo pure, si arrivasse un
giorno a una Norimberga della democrazia, quello di aver distrutto negli Italiani il senso di appartenenza nazionale, non
sarebbe il capo d’imputazione minore per i “signori” democratici. Ma non è di essere italiani che ci dobbiamo vergognare, è
la democrazia antifascista che ci deve fare nausea e schifo.
Dei quattro livelli suddetti, quello che è rimasto più fuori, quello di cui mi sono occupato di meno, è il secondo, ossia la
questione delle origini indoeuropee, e il motivo è facilmente intuibile: di indoeuropeistica dal nostro punto di vista si sono
occupate firme ben più autorevoli della mia: Hanns F. K. Gunther, Julius Evola, Adriano Romualdi, Ernesto Roli, e anche il
nostro Michele Ruzzai mi sembra più ferrato di me in proposito, tuttavia, una cosa importante su questa tematica credo di
averla detta. La vulgatacorrente dell’ortodossia “scientifica” di regime pretende che gli Indoeuropei fossero agricoltori di
origine mediorientale che si sarebbero espansi in Europa e verso l’area indo-iranica attraverso l’Anatolia espandendosi alla
ricerca di nuove terre.
Ora, come l’Out of Africa, l’origine mediorientale della civiltà, la presunta disomogeneità etnica degli Italiani, anche questo
è un falso, una menzogna di regime. Oltre alla smentita fornita dai dati della genetica, che ci rivela una presenza di geni
mediorientali in Europa troppo esigua per supportare una simile “teoria”, c’è un altro fatto che mettevo in luce: noi abbiamo
diversi esempi storicamente accertati di questo tipo di espansione di comunità contadine, i più notevoli sono probabilmente
l’antica Cina e l’India pre-ariana. In questi casi, c’è un’espansione lenta, duratura, che porta alla formazione di comunità
popolose e relativamente omogenee, e non lascia sostrati, perché i cacciatori-raccoglitori nomadi sono in netta inferiorità
demografica rispetto a essa, e sono rapidamente assorbiti o allontanati.
Non è quello che vediamo con l’espansione degli Indoeuropei nel nostro continente. Essa è “a macchia di leopardo” e lascia
ampi sostrati e vaste aree di popolazione che in età antica parlavano lingue non di ceppo indoeuropeo, non si tratta di aree
marginali, ma dei territori di importanti civiltà, come quella etrusca e quella minoica, è la situazione tipica di stati e culture
nelle quali un’élite di conquistatori si sovrappone a popolazioni sottomesse. Gli Indoeuropei erano con ogni probabilità
cavalieri e guerrieri nomadi provenienti dalle steppe eurasiatiche.
L’Idea che il nomadismo preceda sempre lo stadio dell’agricoltura sedentaria, che si passi dal cacciatore-raccoglitore
all’allevatore e poi all’agricoltore come una sorta di evoluzione automatica e obbligata, faceva notare N. C. Doyto, è
probabilmente errata, e circostanze diverse possono spingere al nomadismo una popolazione già sedentaria, l’eccedenza
demografica in primis. Noi nella storia moderna abbiamo l’esempio di una popolazione già sedentaria trasformatasi in
nomade, rappresentato dai pionieri del West. La conquista del nostro continente da parte degli Indoeuropei può ben aver
seguito modalità paragonabili, anche se non ha verosimilmente portato allo sterminio delle popolazioni preesistenti.
Nella sessantesima parte ho fatto un excursus sugli articoli non compresi in Una Ahnenerbe casalinga nei quali avevo
affrontato la questione delle origini a vario titolo. Un lavoro, come ho detto, che ha poche probabilità di essere esauriente,
perché questo tema: da dove veniamo ritorna di continuo ogni volta che si cerca di rispondere alla domanda chi siamo?
Sempre partendo dall’ottica che quel che è importante sono le idee e non la persona che le ha espresse, e tanto meno i testi
in cui sono espresse, che non si pretende certo abbiano una valenza da testo sapienziale, oltre quanto già esposto ci sono due
nuclei tematici che rientrano in questo ambito, dei quali sarà utile fornire un piccolo riepilogo.
Non era possibile non parlare di queste tematiche anche in Scienza e democrazia, e in effetti la prima parte di questa serie di
articoli è dedicata appunto alle democratichefalsificazioni della scienza storica e archeologica (anche se poi il discorso delle
mistificazioni intese a conciliare forzatamente la ricerca scientifica con la “political correctness” democratica si estende a
tutti i rami del sapere). Forse il caso più notevole che ho citato in questo articolo, è quello di Colin Renfrew. Questo
ricercatore inglese, considerato uno dei più insigni studiosi della preistoria, e che per i suoi meriti “scientifici” è stato
promosso barone (non semplicemente baronetto, “sir”) dalla Corona britannica, è stato uno dei principali assertori della
“teoria” dell’origine mediorientale dei popoli indoeuropei e della civiltà in genere.
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Bene, in un suo brano del 1972 che il nostro Felice Vinci ha puntualmente scovato e riportato in Omero nel Baltico, si
contraddice apertamente. Le indicazioni emerse grazie all’analisi del radiocarbonio hanno difatti rivelato che l’Europa
occidentale vanta sviluppi di civiltà significativi che vanno dalle costruzioni megalitiche alla lavorazione dei metalli, ben
prima, qualche millennio prima delle culture mediorientali, da cui si supponeva invece che tali sviluppi derivassero. E’ poi
superfluo dire che della riscrittura della preistoria e della storia antica che sarebbe dovuta derivare dalla “rivoluzione del
radiocarbonio”, non si è vista traccia. Cosa volete che conti la realtà dei fatti, cosa volete che contino le prove, di fronte alle
esigenze di un potere mondialista che mira quanto più possibile a deprimere l’idea che gli Europei hanno di loro stessi, in
modo che offrano la minor resistenza possibile alla sostituzione etnica prevista dal piano Kalergi?
Apparentemente, la serie di articoli raccolta sotto il titolo Tra due fuochi, appare quanto di più lontano ci possa essere dalle
tematiche delle origini, è attualità, e tragica attualità come dimostrano i ripetuti attacchi e le stragi compiute dal terrorismo
islamico.
Tra due fuochi, perché è precisamente questa la situazione nella quale ci troviamo. Per quanto spiacevole ciò possa essere, è
meglio prenderne atto piuttosto che nascondere la testa nella sabbia. Io non so se si possa parlare di scontro di civiltà o
piuttosto di inciviltà fra “l’Occidente giudaico-cristiano” e l’islam. Quel che mi è chiaro, è che l’Europa si trova in mezzo,
assediata da due nemici.
“Occidente” significa a conti fatti l’egemonia americana sul vecchio Continente, egemonia dietro la quale non è poi così
difficile vedere lo zampino delle lobby sioniste che controllano ed esercitano il potere reale nella democrazia a stelle e
strisce. Gli USA, occorre sottolinearlo, non esercitano sull’Europa semplicemente una dominazione, ma attraverso
l’importazione di una “cultura” mediatica superficiale e fracassona che agisce come un veleno corrosivo, stanno
gradualmente demolendo l’identità europea. Nessun occidentalismo alla Oriana Fallaci, la cui rabbia e il cui orgoglio sono
quelli di una cagna fiera della propria catena.
Nello stesso tempo, non possiamo neppure essere islamofili. Su questo concetto ci sono nei nostri ambienti dei grandissimi
equivoci perché oltre settant’anni fa i fascismi guardavano con simpatia all’islam soprattutto nella speranza di sollevare il
mondo arabo-islamico contro gli imperi coloniali francese e britannico, ma oggi la situazione è radicalmente cambiata.
Oggi che queste popolazioni si riversano sull’Europa e non con intenti amichevoli come dimostra la lunga scia di attentati
che abbiamo subito, persistere in questo atteggiamento è un suicidio.
Essere islamofili per anti-sionismo od “occidentalisti” per spirito anti-islamico, è come bere la stricnina per dimostrare che
non ci piace il cianuro.
Tuttavia, ed è la ragione per cui ce ne occupiamo adesso, queste tematiche di attualità drammatica si saldano a un discorso
più in generale sulle civiltà, la loro origine, la loro possibile morte. Basterebbe fare un nome, quello del grande Oswald
Spengler cui si deve l’intuizione che non esiste LA civiltà, ma esistono LE civiltà. Intuizione a cui sarebbe solo da
aggiungere l’osservazione che ogni civiltà crea la propria cultura, ma la base su cui questa cultura si sviluppa, e ciò che in
ultima analisi determina il senso di appartenenza degli individui a essa, è un fatto etnico.
Islam contro cristianesimo? Non direi proprio: la contrapposizione fra mondo europeo e mondo mediorientale è più antica
del cristianesimo e dell’islam, la ritroviamo nelle guerre puniche di Roma contro Cartagine, e prima ancora nelle guerre
persiane tra la Grecia e un impero persiano che sarà anche stato guidato da un’élite indoeuropea, ma che era un vasto
agglomerato di popoli mediorientali e asiatici. La religione potrà anche servire da bandiera a una o, come è successo in età
medioevale, a entrambe le parti in conflitto, ma la vera ragion d’essere di questo conflitto non è religiosa, è etnica.
Viste le cose in questa prospettiva, si comprendono molte cose: prima di tutto l’impossibilità della cosiddetta integrazione:
detto con brutale franchezza: o noi o loro, più spazio vitale si prendono loro, meno ne rimane per noi, le balineue degli
immigrati sono altrettanto spazio che all’interno delle nostre città ha cessato di essere Europa.
In secondo luogo capiamo la natura del terrorismo islamico fondamentalista. Al di là delle motivazioni dichiarate e
coscienti, più o meno condite di religione, esso ha il significato preciso di marcare il territorio, è un messaggio rivolto a noi
che significa: “Guardate che questa non è più la vostra terra, adesso è terra nostra”.
Cosa c’è dall’altra parte è estremamente chiaro. Quello che resta da capire, è se negli Europei lo spirito delle Termopili, di
Zama, di Poitiers, di Kosovo Polje, di Lepanto, è ormai morto o può ancora risvegliarsi.
NOTA: Nell’immagine che correda l’articolo, il monumento di Leonida alle Termopili.

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Io credo di avervelo spiegato più volte: il lavoro svolto dai gruppi facebook “nostri”, “di area” che si occupano delle
tematiche delle origini, come “Frammenti di Atlantide-Iperborea”, “L’immagine perduta”, “Tradizione primordiale e forme
tradizionali”, e soprattutto l’ottimo “MANvantara” gestito dal nostro amico e collaboratore Michele Ruzzai, non hanno la
possibilità di raggiungere un pubblico vasto come quello di “Ereticamente” (“MANvantara” che è quello che ha la maggiore
diffusione, attualmente è poco sopra i 1300 iscritti), ma in compenso hanno la possibilità di “stare sul pezzo” con molta
maggiore tempestività di quello che riesce di fare al sottoscritto, anche perché possono avvalersi di una pluralità di
collaboratori.
La tenuta di questa rubrica-serie di articoli, invece, rimane un lavoro strettamente individuale, una Ahnenerbe, appunto,
casalinga, one man’s band, e non bisogna scordarsi mai che la rete è un mare magnum dove non è possibile tenere d’occhio
tutto quanto con la tempestività che sarebbe auspicabile, a parte il fatto che, come ormai sapete, questa rubrica ha una
tempistica bisettimanale, in cui le questioni relative all’eredità degli antenati si alternano ad argomenti di altra natura,
perché esiste anche la politica attuale, e ci sono altre tematiche che riguardano la nostra cultura politica, delle quali bisogna
rendere conto.
Ormai la cosa non è recentissima: il 9 gennaio “MANvantara” ha riportato e commentato un articolo apparso su
“Ethnopedia” in data 24 agosto 2017, il che è come dire che nel frattempo di acqua sotto i ponti ne è passata un bel po’,
tuttavia, data la tematica trattata, non mi pare che questo pezzo possa essere lasciato senza una risposta anche da parte
mia/nostra.
LA SOLITA “Ethnopedia” potremmo dire, e l’autore il cui pseudonimo è quasi celato in fondo al pezzo (quanto al nome
vero, non ne parliamo proprio, è mai possibile che questa gente abbia così poco il coraggio delle proprie opinioni, che del
resto coincidono con l’ortodossia politica dominante?), non vi stupirete di saper che si tratta del SOLITO “Kirk”, lo stesso
che, ne abbiamo già parlato, si era fatto saltare i nervi per la scoperta di El Greco, l’ominide balcanico la cui esistenza
contraddice vistosamente l’assunto dell’esclusiva africanità di questi antichi precursori della specie umana (una scoperta
“fascista” e quindi da rigettare a dispetto dell’evidenza dei fatti?).
Ma c’è anche – se capisco bene, perché non è che la chiarezza su questo punto della loro esposizione sia proprio il massimo
– anche un co-firmatario a cui accostarsi al capitano della mitica astronave Enterprise di Star Trek deve essere sembrato uno
sfoggio di modestia eccessiva, infatti ha pensato bene di firmarsi Zeus.
L’articolo (andiamo proprio bene!) si intitola Romani africani in Britannia?, ma prima di esaminarne in dettaglio il
contenuto, andiamo a considerare quello che dice nell’incipit:
“Come purtroppo spesso accade, questi argomenti vengono sovente politicizzati. Chi ci conosce bene sa che condanniamo
apertamente la politicizzazione e l’ideologizzazione di scienze come l’antropologia e la genetica, come abbiamo già fatto
precedentemente con articoli intrisi di propaganda politica di destra che facevano disinformazione riguardo alle origini
africane dell’Homo sapiens[1], la cui ipotesi (chiamata anche Out of Africa) è quella che a contrario di altre gode di più
conferme in ambito non solo archeologico, ma anche genetico e linguistico”.
La nota [1] si riferisce in modo esplicito a “Ereticamente”, questa volta a differenza di quanto aveva già fatto Kirk
nell’articolo su “El Greco”, nemmeno accostando la nostra pubblicazione ad altre come “Il primato nazionale”, e poiché
sulle nostre pagine sono soprattutto io a occuparmi di queste tematiche, mi sento chiamato direttamente in causa. C’è da
dire che negli ultimi tempi abbiamo dovuto registrare una serie di attacchi, sia da fuori, sia da dentro “l’Area”. La cosa non
ci preoccupa, anzi, è un sintomo positivo, vuol dire che stiamo crescendo, stiamo diventando importanti, e sia dentro
“l’Area” sia fuori di essa, occorre fare i conti con noi.
Sintetizzando il pensiero del capitano dell’astronave Enterprise e del padre degli dei greci, o di chi ha spudoratamente
rubato i loro nomi, in poche parole, contraddire l’Out of Africa significa fare disinformazione di destra. Ora voi capite che
qui si potrebbero dare delle risposte estremamente articolate, citando montagne di fatti, ma mi limiterò a un paio di essi.
Nell’agosto 2007 “Scientific American” ha dato notizia di una ricerca condotta da Maria Matinòn-Torres, paleobiologa del
Centro Nazionale di Ricerca sull’Evoluzione Umana di Burgos (Spagna), che ha ricostruito un albero genealogico
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dell’umanità basandosi sulla conformazione delle corone dentarie (non influenzata dall’ambiente e prodotto diretto del
genoma) che pone l’origine della nostra specie non in Africa ma in Eurasia.
Nell’agosto 2012 “Le scienze” ha pubblicato un articolo a firma di Gary Stix, In Africa i primi umani moderni si
incrociarono con altre specie che è un’intervista con la genetista Sarah Tishkoff, che avrebbe individuato nel DNA dei neri
subsahariani la traccia genetica di un incrocio avvenuto qualche decina di migliaia di anni fa tra un ominide separatosi dalla
linea umana principale 1,2 milioni di anni fa, con popolazioni sapiensprovenienti dall’Eurasia, e questo incrocio sarebbe
all’origine dei subsahariani odierni.
Nel luglio 2017 “Le scienze” da notizia di una ricerca condotta dai biologi dell’università di Buffalo Omer Gokcumen e
Stefan Ruhl che studiando le proteine della saliva, sono giunti alla stessa conclusione.
Quindi non ci può essere dubbio: “Scientific American”/ “Le Scienze” contraddice l’Out of Africa, fa disinformazione di
destra, è un covo di cripto-fascisti.
Sembra, anzi probabilmente è, la tipica paranoia della sinistra, sempre pronta a vedere le TORA (Trame Oscure della
Reazione in Agguato) anche sotto il letto.
La verità dei fatti è molto semplice: questa gente non sa più cosa inventarsi per salvare questa interpretazione falsata delle
nostre origini, creata apposta per rimuovere il concetto di razze umane e indurci ad accettare con rassegnazione
l’immigrazione extracomunitaria, di fronte alle incalzanti smentite portate ad essa dalla ricerca scientifica seria che non
sono ancora riusciti del tutto a imbavagliare.
Il contenuto dell’articolo, a parte lo schizzo di veleno contro di noi (come era già successo in quello riguardante “El
Greco”, si tratta di un attacco a testa bassa senza citare né tanto meno cercare di confutare un singolo articolo né
un’affermazione contenuta in uno di essi, ma una dichiarazione a priori che siamo “brutti e cattivi”), fa riferimento a una
questione da tempo nota, di cui abbiamo parlato a suo tempo, e che ha dei risvolti davvero grotteschi.
Come purtroppo ci è noto da un pezzo, Hollywood e i media americani non mettono in cantiere una produzione
cinematografica o una serie televisiva di ambientazione storica, che si tratti dell’antica Roma, dell’Ellade omerica, dei Celti,
dei Vichinghi, dell’Europa medioevale senza metterci dentro dei personaggi di colore contro ogni evidente storicità.
Potremmo anche pensare in un impeto di generosità che questo sia dovuto al fatto che i sindacati degli attori impongano alle
produzioni l’impiego di una certa quota di attori o comparse di colore, ma la stessa cosa avviene anche nei cartoni animati, e
non credo proprio che i personaggi disegnati dei cartoons abbiano un sindacato. Diciamo piuttosto la verità: è in atto un
tentativo su vasta scala di persuaderci, di persuadere l’universo mondo che società multietniche e multirazziali come quella
che esiste oggi negli Stati Uniti e come oggi vogliono imporre anche a noi in Europa sia una cosa normale, sempre esistita,
approfittando del fatto che a livello inconscio abbiamo molti meno filtri critici per ciò che “si vede” rispetto a ciò che “si
sente dire”; nella storia biologica dei nostri processi cognitivi non erano previsti il trucco o la simulazione cinematografica o
televisiva.
Nel 2014, la BBC non meno servile della “nostra” televisione rispetto ai modelli che vengono d’oltre oceano, mandò in
onda una storia della Gran Bretagna a cartoni animati dove regolarmente comparivano personaggi di colore fra gli antichi
Celti, i legionari romani gli Inglesi medioevali e persino tra i vichinghi. La cosa era tanto più grave, in quanto si trattava di
una produzione rivolta ad un pubblico infantile che si voleva persuadere da subito, contro ogni evidenza storica, che le
società multietniche e multirazziali siano qualcosa di normale e sempre esistito. La questione in particolare fu sollevata da
un certo cartone animato ambientato nella Britannia dell’epoca della conquista romana, che aveva come protagonista un
centurione “romano” e la sua famiglia dagli evidenti tratti e colore subsahariani.
La cosa ha dato in Inghilterra un comprensibile fastidio e sollevato polemiche. Ricordiamo che gli Inglesi hanno votato con
un referendum la Brexit, l’uscita dalla UE soprattutto per liberarsi dalle norme capestro della cosiddetta Unione Europea
che impediscono di porre un freno all’immigrazione allogena incontrollata.
La realtà dei fatti è tristemente chiara: i laburisti britannici hanno preceduto di almeno vent’anni il “nostro” PD nell’opera
criminale di sostituzione etnica. Come sempre, la gente comune, il popolo, soprattutto le classi lavoratrici non possono
aspettarsi che da sinistra venga nulla di buono per loro. Oggi è possibile girare per gran parte dei quartieri di Londra, che è
governata da un sindaco pachistano, senza incontrare una sola faccia europea.
Di fronte alle chiare smentite della genetica circa una presenza subsahariana nelle legioni romane che occuparono la
Britannia, abbiamo potuto registrare il patetico intervento di una deputata laburista secondo la quale “la genetica non basta”,
i dati scientifici vanno accantonati quando contraddicono i pregiudizi “rossi”.
Ma bisogna capirla, poverina, lei e i suoi congeneri ideologici sono stati allevati a buonismo e cosmopolitismo cristiano-
marxista, la favola rousseauiana del “buon selvaggio” e sciocchezze del genere.
Sulla faccenda era intervenuta persino “La Repubblica” con un articolo, non a caso citato nell’articolo di Ethnopedia,
intitolato: Fatevene una ragione: gli antichi Romani erano molto africani (persino in Britannia). Ah già, ma il quotidiano di
De Benedetti, il più diretto erede de “L’Unità” è obiettivo e imparziale, non fa disinformazione di sinistra.
La cosa davvero interessante, è che se leggiamo con attenzione l’articolo, scopriamo abbastanza elementi che vanno proprio
a smentire questa tesi. Esso ci parla ad esempio del “ritrovamento di uno scheletro di una donna con un cranio
marcatamente nordafricano nella città di York, risalente al periodo romano”.
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UNO scheletro di UNA donna. Un certo flusso genetico tra le popolazioni umane è sempre esistito, ma noi capiamo bene
che è una questione di proporzioni, entro certi limiti può essere fisiologico e magari benefico, ma quello che entro certi
limiti è positivo, quando si arriva all’eccesso diventa un veleno.
Ma il punto importante non è tanto questo. Come sempre si gioca sull’equivoco, infatti “africano” non significa
necessariamente “nero”. Roma ha esteso il suo dominio su tutto il Mediterraneo, compresa la sponda africana, dallo stretto
di Gibilterra fino a Suez, e ha inserito anche le popolazioni di quest’area come tutte le altre su cui ha esteso il proprio
dominio, nel suo sistema, dando loro la possibilità di raggiungere posizioni non diverse da quelle dei romani di ceppo
italico, ma queste popolazioni non erano nere, né lo sono oggi.
La cosa sorprendente è che questo articolo afferma questo punto essenziale con molta chiarezza:
“Un errore molto diffuso consiste nel confondere gli Africani settentrionali con i subsahariani, mettendoli nello stesso
calderone a causa del fatto che abitano il medesimo continente. Tuttavia com’è noto sia nell’antropologia fisica che nella
genetica delle popolazioni, mentre i nordafricani sono caucasoidi di origine eurasiatica, i subsahariani appartengono al
ceppo negroide che dall’Africa non è mai uscito. Tale differenza è piuttosto marcata, sia nelle caratteristiche
antropometriche che nelle distanze genetiche, in quanto il Deserto del Sahara è sempre stato un muro non solo geografico
ma anche genetico, che ha impedito i flussi migratori, isolando le popolazioni che separava”.
La verità pura e semplice è che neri “romani” non ve ne sono mai stati, né in Britannia né altrove, e tanto meno celti, inglesi
o vichinghi.
Ora, una simile onestà ci può anche stupire, ma una tecnica ripetutamente usata dalla disinformazione di sinistra è quella di
mettere nel titolo o nell’incipit di un articolo qualche corbelleria di cui si vuole persuadere il pubblico, e poi mettere nel
testo informazioni veritiere in contrasto con essa, in modo da non poter essere presi in castagna, e fidando sul fatto che la
gran parte della gente, sia sulle pubblicazioni cartacee, sia on line, si limita a leggere i titoli o i primi paragrafi degli articoli.
Batti e ribatti il chiodo entra, dice il proverbio, o per meglio dire, secondo quanto spiega George Orwell in 1984, una
menzogna ripetuta abbastanza spesso e con sufficiente insistenza finisce per diventare la verità. Diversi anni fa, mi è
capitato di leggere un romanzo di fantascienza, credo di Philip Jose Farmer, ma non potrei giurarlo in tribunale, dove tra i
personaggi c’è un nero russo, che non è – come verrebbe da pensare – il discendente di una recente immigrazione. L’autore
“spiega” che la minoranza nera in Russia è sempre esistita, ma le autorità sovietiche ne hanno nascosta l’esistenza. Strano
che ancora oggi, a quasi trent’anni dalla scomparsa dell’Unione Sovietica, nessuno di loro si sia fatto avanti, né se ne abbia
avuta notizia in alcun modo.
Scrivere un romanzo richiede una certa dose d’intelligenza, e scrivere fantascienza richiede una cultura non infima
soprattutto ma non solo riguardo alle tematiche scientifiche, quindi è chiaro che non stiamo parlando di uno sprovveduto, e
tuttavia non sembra capace di concepire il fatto dell’esistenza di società unirazziali ed etnicamente compatte, non solo, ma
che esse sono la norma e non l’eccezione nella storia umana. Allora proviamo a immaginarci come stiano le cose per
l’americano medio, e a come faranno diventare i nostri ragazzi sottoposti a un flusso continuo di disinformazione
democratica-cristiana-buonista-sinistrorsa.
Non solo le società multietniche sono l’eccezione nella storia, ma come i tardi regni ellenistici e il basso impero romano,
coincidono sempre con periodi di decadenza, e parliamo di società multietniche ma non multirazziali. D’altra parte, basta
che ci guardiamo intorno oggi: le società multirazziali come il Brasile e l’India sono abissi di miseria spaventosi anche là
dove sono insediate in terre ricche di risorse naturali. Oggi è probabilmente solo il fatto che il dollaro è forzatamente
imposto come moneta di scambio delle transazioni internazionali, che impedisce PER ORA agli Stati Uniti di fare la stessa
fine.
Ma quello che ci deve preoccupare di più, è il destino dell’Europa, che occorre impedire che si trasformi in un’appendice
del Terzo Mondo

Una Ahnenerbe casalinga, sessantasettesima parte


Io credo che mi perdonerete se vi confesso che non si riesce a tenere dietro a tutto quanto occorrerebbe perché questa
rubrica sia sempre il massimo e il più fedele specchio possibile delle ricerche e delle tematiche certamente vaste che
riguardano il nostro passato remoto e l’eredità degli antenati, anche perché la sua cadenza è necessariamente bisettimanale,
in modo da avere il tempo di affrontare sulle pagine di “Ereticamente” tematiche più attuali, legate alla politica
contemporanea.
Il 2017 che ci siamo lasciati alle spalle è stato un anno eccezionale, denso di scoperte che hanno gettato nuova luce sulle
nostre origini. Ricordiamo (in ordine di tempo) la scoperta dei resti dell’ominide balcanico Graecopithecus
Freibergi ribattezzato familiarmente “El Greco”, quella dei resti di una popolazione sapiens anatomicamente moderna
risalente a 300.000 anni fa nella cava marocchina di Jebel Irhoud, l’individuazione da parte di due ricercatori dell’università
di Buffalo di una proteina, la MUC7 presente nella saliva dei neri di origine africana in una variante che non si trova in
nessun altro gruppo umano vivente o estinto, che ha permesso loro di risalire a un antenato con il quale i sapiens provenienti
dall’Eurasia si sarebbero incrociati, e quindi di arrivare a una elegante confutazione dell’Out of Africa, la teoria della
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presunta origine africana della nostra specie. Poi ancora il ritrovamento di orme fossili umane o estremamente simili a
quelle umane, risalenti a 5,7 milioni di anni fa nell’isola di Creta, e infine, proprio per non farci mancare nulla, la scoperta
di un’archeologa italiana, Margherita Mussi, che studiando l’industria litica acheuleana, quella tradizionalmente associata
a homo erectus, è giunta alla conclusione che esistono due acheuleani, quello africano più primitivo associato a homo
erectus, e quello più progredito, eurasiatico, da attribuire al più evoluto homo heidelbergensis che avrebbe poi dato origine
a sapiens.
Questa ricerca dovrebbe essere il tassello mancante del quadro delle nostre origini, nonché la pietra tombale definitiva della
“teoria” dell’Out of Africa, infatti chiarisce che la “specie fantasma” da cui i neri africani avrebbero ereditato la variante
“africana” della proteina MUC7 scoperta dai ricercatori dell’università di Buffalo e con cui i sapiensprovenienti
dall’Eurasia si sarebbero incrociati, altri non sarebbe che il “vecchio” homo erectus.
Ora è chiaro che scoperte di questa importanza sulle nostre origini non possono verificarsi a getto continuo, ma c’è un
aspetto relativo alla questione delle nostre origini che devo ammettere di aver alquanto trascurato negli ultimi tempi, vale a
dire il modo in cui il dibattito su queste tematiche si è sviluppato e si sviluppa sui siti “nostri”. Questa è una tematica
tutt’altro che priva d’importanza e, potremmo dire, è un sintomo molto positivo l’interesse che esiste intorno a questi
argomenti, quanto meno testimonianza della volontà di resistere a una “cultura” mondialista che ci vorrebbe tutti degli
sradicati senza consapevolezza delle nostre origini e senza identità.
Ora, come probabilmente ricorderete, l’ultima parte della nostra rubrica in cui vi ho dato un aggiornamento in tal senso, è
stata la sessantunesima, dove vi ho evidenziato soprattutto l’ottimo lavoro svolto dal gruppo “MANvantara” del nostro
amico Michele Ruzzai.
La sessantaduesima è stata, permettetemi di definirla così, un piccolo cammeo basato su sei ritratti che evidenziano le nostre
origini e mostrano in maniera chiara come il gruppo umano caucasico sia ancestrale rispetto agli altri (soprattutto rispetto al
nero africano da cui l’Out of Africa pretende invece che discenderemmo, una mistificazione volta a cancellare il concetto di
razza, come abbiamo visto più volte). Più o meno su una linea simile, si è mossa anche la sessantatreesima parte: quali che
siano gli antecedenti, il vero crogiolo che ci ha forgiati così come siamo, la nostra vera madre è l’Europa. Il clima più
rigido, le variazioni stagionali, hanno probabilmente richiesto per sopravvivere, un’organizzazione superiore prima di tutto
a livello mentale, rispetto all’ambiente dei tropici, il senso del tempo, la preveggenza in vista di stagioni inclementi, la cura
dei soggetti più fragili, della prole.
Un articolo che mi è sembrato doveroso concludere con le parole scritte col sangue di Dominique Venner, questo samurai
della causa europea, il cui suicidio, come estremo, disperato tentativo di risvegliare le coscienze dei popoli europei plagiati
che oggi sembrano accettare con rassegnazione la sostituzione etnica, la loro morte, con un fatalismo intriso di sensi di
colpa artificialmente indotti, si può accostare a quelli di Ian Palach e Yukio Mishima.
Entrambi questi pezzi, la sessantaduesima e la sessantatreesima parte, sono rimasti a lungo nel limbo dei materiali in attesa
di pubblicazione, data la necessità di pubblicare cose di maggiore attualità (ce n’è anche nella ricerca storica e
archeologica), e non mi è sembrato il caso di procrastinare ancora.
La sessantaquattresima parte è stata incentrata sulla ricerca di Margherita Mussi, e se quella che potrebbe essere la pietra
tombale definitiva sulla “teoria” dell’Out of Africa vi sembra poco importante…!
La sessantacinquesima parte rappresenta un discorso ancora a parte. Come avete visto, avevo usato le parti cinquanta e
sessanta, approfittando dei “numeri tondi” per una sorta di riepilogo del percorso fin qui svolto, e in particolare nella
sessantesima parte, dove avevo riesaminato i vari contributi alla questione delle origini che non erano rientrati sotto il titolo
di Una Ahnenerbe casalinga, mi era parso di aver tralasciato qualcosa di importante. In particolare, l’assalto che oggi
vediamo portato da un islamismo invadente contro il mondo europeo “occidentale” “cristiano” è certamente tragica
attualità, ma a mio parere rientra, non è che la più recente propaggine di un conflitto che ha travagliato la storia da almeno
quattro millenni, lo scontro tra mondo indoeuropeo e mondo semitico.
La religione non c’entra o costituisce solo un effimero pretesto. Ben prima che sorgessero cristianesimo e islam, noi
abbiamo visto questo eterno conflitto nello scontro tra Roma e Cartagine, e prima ancora fra la Grecia e un impero persiano
che sarà stato guidato da un’élite indoeuropea, ma che raccoglieva un’accozzaglia di popolazioni asiatiche, orientali,
semitiche. Il nemico ha mantenuto la stessa aggressività di un tempo, semmai aizzata dalla nostra passività e debolezza.
Quello che resta da vedere, è invece se negli Europei lo spirito delle Termopili, di Zama, di Poitiers, di Lepanto, sopravvive
ancora o è del tutto morto.
La sessantaseiesima parte, quella che ha immediatamente preceduto questo articolo, è una risposta al nuovo attacco lanciato
contro di noi da Ethnopedia, ed è una cosa che proprio non si poteva passare sotto silenzio, anche considerando il fatto che
sono venuto a sapere della cosa in ritardo (sempre grazie alla preziosa segnalazione di MANvantara), e non era il caso di
ritardare ulteriormente una replica a tono.
Queste e le altre questioni di cui mi sono occupato in questi articoli sono di importanza certo non secondaria, ma mi hanno
costretto un po’ a trascurare il discorso sul dibattito sulle nostre origini sempre vivo nei nostri ambienti, dibattito che io
ritengo non debba essere sottovalutato in quanto testimonianza della volontà di preservare la nostra identità in faccia a una
“cultura” mondialista che vorrebbe farla scomparire nel caos multietnico.
194
Vediamo ora di recuperare il tempo perduto. Cominciamo con qualcosa che riguarda l’ambiente triestino. Trieste è nel
panorama italiano una città piccola e marginale, tuttavia l’ambiente “nostro” è stato sempre molto vivace, probabilmente per
la lunghissima e scomoda vicinanza con la Jugoslavia comunista, i ricordi atroci e dolorosi delle foibe, la presenza di una
folta comunità di esuli provenienti dalle terre che la disastrosa conclusione del secondo conflitto mondiale ci ha costretti ad
abbandonare.
Bene, io penso che ricorderete il nome di Gianfranco Drioli, autore di due bei libri pubblicati dalle Edizioni
Ritter: Ahnenerbe (quella vera, quella del Terzo Reich) e Iperborea, la ricerca senza fine della patria perduta.
Ultimamente, Drioli è stato eletto alla presidenza della sezione triestina dell’ALTA (Associazione Lagunari e Truppe
Anfibie). Questo è un fatto molto importante perché ci dà accesso agli spazi della Casa del Combattente per tenere
conferenze, presentazioni librarie e altre attività utili alla diffusione delle nostre idee.
Naturalmente, Drioli mi ha subito “precettato” all’uopo. Due di esse riguarderanno precisamente il discorso dell’italianità
anche dal punto di vista genetico, e le bufale e le falsificazioni che stanno alla base della “teoria” dell’Out of Africa. Sempre
in ordine alla tematica delle origini, probabilmente riproporrò in questa sede anche la conferenza sulle origini della civiltà
europea che ho già presentato l’11 marzo 2016 nella sede del circolo “Identità e Tradizione”, insomma di carne al fuoco ce
n’è un bel po’, e non preoccupatevi che su “Ereticamente” vi girerò sia i testi delle conferenze sia resoconti sul loro
svolgimento.
Se conosco bene l’amico Michele Ruzzai, credo che cercherà di defilarsi dal dare il suo contributo (se quell’uomo ha un
difetto, è quello di sottovalutarsi), ma noi non glielo permetteremo.
Torniamo a parlare dei gruppi facebook. Obiettivamente, non rappresentano una realtà vasta: di solito raggiungono qualche
centinaio o bene che vada un migliaio di persone (MANvantara ha però recentemente superato le 1300, il che non è davvero
poco), vale a dire in termini numerici, uno o due ordini di grandezza in meno rispetto a quelli che sono i lettori di
“Ereticamente”, tuttavia presentano un grande vantaggio rispetto, ad esempio, al lavoro che sto portando avanti io con Una
Ahnenerbe casalinga, che si può fare lavoro di squadra, e più paia di occhi vedono più di uno solo, cosa molto importante
specialmente oggi in cui occorre pescare le cose che ci interessano in mezzo al grande mare di paccottiglia futile e
irrilevante che riempie il web.
Così ad esempio, un collaboratore di MANvantara ha “ripescato” una notizia comparsa nel 2007 su “Scientific American” e
allora passata del tutto inosservata (non mi pare sia comparsa nemmeno su “Le scienze”, versione italiana della
pubblicazione scientifica americana), circa una ricerca condotta da Maria Matinòn-Torres, paleobiologa del Centro
Nazionale di Ricerca sull’Evoluzione Umana di Burgos (Spagna), che studiando la conformazione delle corone dentarie
delle popolazioni umane moderne ed estinte, aveva tracciato un albero genealogico che poneva l’origine della nostra specie
non in Africa, ma in Eurasia, una ricerca che oggi, dopo quella dei biologi dell’università di Buffalo (che grazie a una
proteina della saliva, la MUC7, avrebbero individuato una “specie fantasma” di ominidi africani con cui gli homo
sapiens provenienti dall’Eurasia si sarebbero incrociati dando origine alle popolazioni attuali dell’Africa subsahariana), e
soprattutto quella di Margherita Mussi, assume ben altra rilevanza.
E’ ovvia, per quanto mi riguarda, la mia piena disponibilità a fare da “cassa di risonanza” al lavoro di questi gruppi.
Vi avevo segnalato una delle volte precedenti che, accanto a “MANvantara” del nostro Michele Ruzzai, si è affiancato il
gruppo “Frammenti di Atlantide, Iperborea” gestito da Solimano Mutti, figlio del grande Claudio Mutti, i cui meriti
nell’ambito del revisionismo italiano penso nessuno voglia mettere in discussione. Ora, possiamo segnalare la presenza di
altri due gruppi simili: “L’immagine perduta” e “Tradizione primordiale”. Questi gruppi non si fanno concorrenza ma si
sostengono a vicenda, si pubblicizzano l’un l’altro, spesso gli articoli degli amministratori di uno compaiono negli altri
gruppi, e via dicendo. Una realtà forse quantitativamente modesta ma qualitativamente importante.
Una domanda che ci possiamo certo fare, è qual’è quest’immagine che sarebbe andata perduta cui allude il nome di uno dei
due. Io penso si tratti proprio dell’immagine, dell’auto-rappresentazione di noi stessi come originari del mondo nordico-
boreale o meglio ancora iperboreo, che la “scienza” attuale ha deciso di cancellare con una serie di artifici, l’Out of
Africa in primis, che hanno poco a che vedere con lo sviluppo delle conoscenze, ma derivano in realtà da esigenze
ideologiche, e sappiamo bene quali.
L’immagine di copertina presentata dal gruppo è quella delle piramidi egizie della piana di Giza, ma questo non contraddice
minimamente quanto abbiamo visto finora, infatti, come visto altrove, tutto lascia pensare che all’origine della civiltà del
Nilo vi sia stata un’élite di provenienza europea-nordica.
Un discorso analogo si può fare per “Tradizione primordiale” che presenta come immagine di copertina una
rappresentazione della terra iperborea con al centro il monte Meru sulla base di quanto ci viene narrato dalla tradizione
indiana, in particolare dai Veda.
Ora, direi che è ben visibile il fatto che negli ambienti “nostri” per quanto riguarda le ipotesi sulle nostre origini,
l’orientamento nordico-iperboreo, chiamiamolo così, prevale nettamente rispetto a quello che vorrebbe collocare le origini
umane “a sud”, nell’Africa al di sotto del Sahara, in netto contrasto con quella che è l’ortodossia “scientifica” ufficiale. E’
anche molto chiaro il fatto che ciò si appoggia, più che a dati archeologici, alle leggende e alle tradizioni, alle testimonianza
del remoto passato che ci sono pervenute dagli antichi testi, a cominciare dai Veda, i libri sacri dell’induismo, come hanno
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bene evidenziato le ricerche di Tilak, ma non solo le sue. Si tratta di un tipo di testimonianze che la “scienza ufficiale”
rifiuta in blocco, anche se poi resterebbe da spiegare come mai praticamente tutte le tradizioni di tutte le culture di ogni
parte del pianeta indichino l’origine dell’umanità in una direzione che è esattamente opposta a quello che l’odierna
ortodossia “scientifica” intende raccontarci.
In queste condizioni, una pronuncia obiettiva e definitiva appare estremamente difficile, tuttavia alla luce di quanto abbiamo
visto finora, possiamo dire che l’ipotesi iperborea è senz’altro più credibile dell’Out of Africa.
Come avete visto, ancora non vi ho presentato un’analisi del contenuto degli articoli apparsi in questi gruppi, dove sono
comparse cose piuttosto interessanti. Invece di trattare ora la cosa in maniera eccessivamente sintetica, è forse meglio
rimandare alla prossima volta. Quello che ora importa sottolineare, è piuttosto il fatto che la battaglia per la difesa della
nostra identità storica, culturale e biologica continua, sia sul piano teorico sia su quello pratico.
NOTA: L’illustrazione di questo articolo è una sintesi dei contributi dati dal nostro gruppo triestino al tema della ricerca
delle origini: a sinistra la copertina del libro di Gianfranco Drioli Iperborea, la ricerca senza fine della patria
perduta (edizioni Ritter), al centro la locandina della conferenza di Michele Ruzzai Le radici antiche degli
Indoeuropei tenuta presso il circolo Identità e Tradizione in data 27 gennaio 2016, a destra quella della mia conferenza Alle
origini dell’Europa tenuta nella stessa sede in data 11 marzo 2016.

Una Ahnenerbe casalinga, sessantottesima parte

Cominciamo ora a esaminare le novità offerte dai gruppi facebook in questo periodo. Vi dico subito che questi gruppi,
ovviamente, presentano tematiche varie che riflettono differenti sensibilità, ma per quanto riguarda la tematica delle origini,
si richiamano l’un l’altro con praticamente tutti gli articoli afferenti a questo discorso, che sono replicati nelle diverse sedi.
Per questo motivo, per non creare nell’esposizione doppioni inutili, terremo come fil rouge MANvantara gestito dal nostro
Michele Ruzzai, non solo per la stima e l’amicizia verso il nostro, che è anche un valido collaboratore di “Ereticamente”,
ma perché si tratta del gruppo per così dire primigenio.
MANvantara recentemente si è impegnato in un progetto di grande portata che meriterebbe un vero e proprio sbocco
editoriale: la traduzione integrale del capitale testo di Herman Wirth Der Aufgang der Menscheit (L’alba dell’umanità) che
finora non è mai stato tradotto integralmente in lingua italiana. Per ora si tratta di un Work in progress dei cui sviluppi vi
terrò ovviamente informati.
Un progetto che dovrebbe seguire la traduzione del testo di Wirth, è quella del libro Paradise found. The Cradle of the
human Race at the North Pole ( Il paradiso ritrovato, la culla della razza umana al Polo Nord) di William Warren. Possiamo
ricordare che secondo gli studiosi tradizionali, Tilak in particolare, appoggiandosi alla narrazione dei Veda, la nostra specie
avrebbe avuto origine nell’area nordica in un’epoca in cui il clima di quelle regioni era molto diverso da quello attuale.
Bisogna a ogni modo ricordare in via preliminare che MANvantara si occupa di uno spettro di questioni molto vasto, anche
se la tematica delle origini rimane centrale, e con una molteplicità di approcci che non disdegna di accostare il metodo
scientifico, i risultati dell’archeologia e della genetica alla sapienza tradizionale, e sta finendo per costituire una vera e
propria rassegna di ciò che il pensiero tradizionale ha da dirci su noi stessi, in opposizione a quello scientismo che non è
scienza ma pregiudizio ideologico. Recentemente, il gruppo ha superato i 1300 membri, il che non rappresenta una cifra
paragonabile a quella dei lettori di “Ereticamente”, ma è senz’altro notevole per un gruppo FB. Inoltre, riporto con una certa
soddisfazione personale quanto confidatomi da Michele Ruzzai, secondo cui c’è un picco di nuove adesioni al gruppo tutte
le volte che lo menziono nei miei articoli su “Ereticamente”. Si può aggiungere anche il fatto che allo staff più o meno fisso
di MANvantara si è unita una nuova valida collaboratrice: Cristina Gatti, che Michele ha anche provveduto a nominare
amministratore del gruppo.
Come vi ho raccontato nella sessantasettesima parte, per motivi vari sono stato costretto a trascurare il lavoro svolto dai
gruppi FB per diverso tempo, e adesso tocca fare uno scavo archeologico ripartendo dal mese di ottobre. Bisogna dire anche
che questi gruppi si richiamano l’un l’altro riprendendosi vicendevolmente gli articoli.
Cominciamo allora con il menzionare un post apparso su MANvantara in data 6 ottobre postato da Raffaele Giordano e
ripreso da phys.org.: L’archeologo Steve Holen direttore delle ricerche presso il Center for American Paleolithic Research
avrebbe individuato tracce di un’antica presenza umana in un sito californiano risalente a 130.000 anni fa. Domanda: cosa ci
facevano questi antichi uomini in America a quell’epoca, se si suppone, in base all’Out of Africa che la nostra specie non
sarebbe uscita dal Continente Nero prima di 80-100.000 anni fa al massimo? L’Out of Africa si rivela ogni giorno di più un
dogmatismo pseudo-scientifico che il sistema di potere che controlla “l’informazione” cerca di salvare a tutti i costi
nonostante le smentite che ormai arrivano quotidianamente da tutte le parti.
Ad esso fa seguito un altro dell’8 ottobre, che Raffaele Giordano ha ripreso dal sito di Patrizia Barrera
(patrizia.barrera.worldpress.com) sul mistero dei Mandan, i sorprendenti “indiani biondi” del Nord America sulle cui origini
sono state fatte le più svariate congetture. A mio modesto parere, un’eventuale origine gaelica o vichinga non spiegherebbe
la presenza di nativi altrettanto “bianchi” nell’America meridionale, come gli Aracani e i Kilmes, più convincente l’ipotesi
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solutreana di una migrazione attraverso l’Atlantico in eta glaciale, quando le due sponde dell’oceano erano congiunte da una
banchisa artica. Un’impronta caucasica di base e le civiltà precolombiane. Ricordiamo infatti che là dove un’influenza
europide può essere esclusa con certezza (Africa subsahariana, Australia aborigena, Nuova Guinea), le popolazioni native
non si sono mai schiodate di un millimetro dal paleolitico.
In data 10 ottobre 2017 è apparsa una recensione di Michele Ruzzai del libro Le sette figlie di Eva del genetista Brian
Sykes, testo dedicato alla ricostruzione dell’albero genealogico umano sulla base del DNA mitocondriale che, come è noto,
si trasmette per via materna.
Nella sua recensione il nostro Michele fa notare alcuni punti di grande interesse, alcune ammissioni “a denti stretti” che
svelano tutta la debolezza delle “teorie scientifiche” ufficiali sulle nostre origini: la totale assenza di fossili umani anteriori
all’età neolitica o al tardo paleolitico in Africa occidentale indebolisce grandemente la “teoria” dell’Out of Africa. Inoltre il
fatto che la presenza di geni di origine mediorientale nel patrimonio genetico degli Europei non supera la percentuale del
20%, va decisamente contro la leggenda che la rivoluzione agricola e la civiltà avrebbero avuto origine in Medio Oriente e
da qui si sarebbero estese all’Europa.
Proseguiamo il 14 ottobre con un post che a mio parere è molto importante, ripreso da “Ancient Origins” (www.ancient-
origins.net), del dottor Alexander Jakob: Dinastic Races and biblical Japhet. e affronta un argomento di cui vi ho parlato
diverse volte, che si basa su fatti archeologici e antropologici ben conosciuti, ma di cui per ovvi motivi si preferisce che il
grosso pubblico non sappia nulla: all’origine delle antiche civiltà mediorientali troviamo delle élite dalle caratteristiche
antropologiche europee e nordiche. Origine europea delle civiltà mediorientali, esattamente il contrario della favola che ci
viene perlopiù raccontata, ossia la presunta origine mediorientale della civiltà europea.
Un post del 15 novembre è ripreso da “Newsweek” che a sua volta ha come fonte “New Scientist”. Secondo i ricercatori
cinesi che hanno recentemente riesaminato il teschio dell’uomo di Dali, molte caratteristiche anatomicamente moderne non
avrebbero avuto origine in Africa ma in Asia, d’altronde, il reperto di Dali non è il solo a contraddire l’ipotesi dell’origine
africana.
Il 17 novembre Michele Ruzzai ha pubblicato una recensione del libro Alla ricerca della mitica Thule di Gabriele Zaffiri,
edito da La Gaia Scienza nel 2006. Questo testo fa il punto sulle ricerche delle origini nordiche, un argomento oggi
impopolare, visti gli indirizzi “scientifici” correnti. Le indagini al riguardo, in passato sono state portate avanti dalla
Ahnenerbe nazionalsocialista, ma non solo. L’autore tra l’altro fa notare, rileva Ruzzai, che i Guanci delle Canarie,
popolazione più simile all’uomo di Cro Magnon vissuta in età storica, erano contraddistinti da “Alta statura, occhi chiari e
capelli biondo-rossicci”. Si vede bene come ciò si concili con l’ipotesi della presunta origine africana.
Si può segnalare una curiosità interessante: un post del 19 novembre che riprende un articolo di “National Geographic”. A
quanto pare, la vinificazione è una pratica molto antica, se ne sono trovate tracce in un villaggio neolitico georgiano di
ottomila anni fa. Come sempre, in base al dogma progressista, tendiamo a sottovalutare le abilità degli uomini vissuti prima
di noi.
Un post del 20 novembre riporta un link con un articolo di Janissa Delzo pubblicato su “Newsweek”. A quando sembra
dalle ultime ricerche, l’uomo di Neanderthal è sopravvissuto all’arrivo dell’uomo di Cro Magnon molto più a lungo di
quanto non si pensasse finora, fino a 37.000 anni fa, trovando una specie di “santuario” nella Spagna meridionale. Altre
ricerche hanno messo in luce che la componente genetica che abbiamo ereditato da questo nostro progenitore è maggiore di
quanto si pensasse, arrivando fino al 4%. E’ un fatto la cui importanza non va sottovalutata, perché rimarca ancora di più la
distanza genetica fra noi e “le risorse” con cui il potere mondialista vorrebbe sostituirci, che invece da lui non hanno
ereditato nulla.
Il 25 novembre MANvantara ha ripreso un post da “L’immagine perduta”. Si tratta di un testo classico sull’argomento delle
origini: La razza iperborea e le sue ramificazioni del grande Julius Evola. La concezione è ovviamente quella tradizionale
secondo cui le nostre più lontane origini vanno cercate nel nord iperboreo. Da qui, attraverso una fase “atlantidea” sarebbero
derivate le popolazioni europidi che abitano il nostro continente e l’area indo-iranica, nonché le tracce caucasiche
riscontrabili presso svariati altri popoli, come gli Ainu del Giappone.
Il 2 dicembre un collaboratore ha postato una mappa genetica dell’Italia ripresa da Ethnopedia, che ci permette alcune
scoperte interessanti. Vediamo ad esempio un picco nordico nel Lazio forse riconducibile alla migrazione in questa regione
di quelli che furono i fondatori dello stato romano prima di fondersi con la popolazione autoctona. Ugualmente interessante
un picco baltico nell’area triveneta, da mettere certamente in relazione con la provenienza baltica degli antichi Veneti.
Sicuramente l’Italia ha una sua identità etnica non meno precisa e delineata di quella delle altre nazioni europee, ma segnata
da variegature che riflettono la nostra storia antica e complessa, e dall’altro lato si collega all’Europa, di cui è una parte, non
un’entità a sé stante.
Sempre in data 2 dicembre, MANvantara ha linkato l’articolo su “Le Scienze” di Gary Stix del 2012 dove si parla della
scoperta di Sarah Tishkoff della traccia genetica di un ominide con cui gli antenati dei neri subsahariani si sarebbero
incrociati. A questo punto la cosa non è una novità, ma vale la pena di riportare un’osservazione in proposito di Cristina
Gatti che io trovo molto pertinente e molto intelligente: una maggiore variabilità genetica caratterizza le popolazioni che
vivono in prossimità dell’equatore di tutte le specie (per motivi che hanno a che fare con la resistenza immunitaria), quindi
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la maggiore variabilità genetica dei neri subsahariani rispetto ad altre popolazioni umane, come prova della nostra presunta
origine africana, in realtà non vale nulla.
In data 5 dicembre, Raffaele Giordano ha ripreso un post pubblicato da RigenerAzione Evola, L’equivoco latino. Di che si
tratta? In sostanza dell’idea di una latinità contrapposta al mondo germanico e centro-nord europeo. E’ un’idea che non ci
appartiene, partorita dalla polemica cattolico-controriformista, riconosciamo invece che Latini e Germani, come d’altronde
Celti, Elleni e Slavi, fanno parte di una superiore unità europea.
Un post del 7 dicembre (ripreso da “L’immagine perduta”; capita di frequente che questi gruppi si scambino post e –
sorpresa – c’è anche molto materiale ripreso da “Ereticamente”) riguarda uno dei più singolari monumenti egizi, il
cosiddetto Osireion di Abydos. L’articolo è di Giuseppe Di Re, curatore del gruppo “L’immagine perduta”. Si tratta di un
gruppo di strutture megalitiche che si trova al disotto del tempio di Seti I, che è certamente di origine molto antica e non
somiglia per nulla ad altri monumenti egizi conosciuti. Questo monumento potrebbe essere una delle poche tracce di una
civiltà che ha preceduto quella egizia nella Valle del Nilo, e rafforza l’idea che vi ho più volte esposto, che le peculiarità
della civiltà egizia possono spiegarsi con il fatto che essa è stata la creazione di un’élite di origine europea la cui impronta
genetica è andata man mano affievolendosi o, cosa non molto diversa, che abbia raccolto l’eredità di una cultura precedente
maggiormente europide.
L’8 dicembre MANvantara riporta da You Tube il video di una conferenza di Colin Renfrew su Marija Gimbutas. Questo
luminare dell’archeologia britannica rappresenta un caso molto interessante: è stato uno dei più autorevoli sostenitori della
teoria “ortodossa” dell’origine mediorientale degli Indoeuropei, ma in un suo testo del 1973 ha presentato una visione delle
cose molto diversa: la rivoluzione del radiocarbonio che permette finalmente di introdurre nell’archeologia datazioni certe,
impone di accettare il fatto che la civiltà europea caratterizzata dai grandi complessi megalitici, precede di un buon
millennio quelle egizia e mesopotamica. Ora in questa conferenza sembra fare proprie le idee della Gimbutas, ossia
l’origine degli Indoeuropei nelle steppe eurasiatiche punteggiate dai Kurgan, l’opposto delle tesi da lui sostenute in
precedenza.
Questo che cosa dimostra se non il fatto che un ricercatore che conosce bene la materia di cui si occupa ed è
intellettualmente onesto, non può alla fine non riconoscere che la teoria dell’origine africana della nostra specie e quelle
dell’origine mediorientale dei popoli indoeuropei e della civiltà, cioè le versioni “ortodosse” e “politicamente corrette” non
sono altro che mistificazioni tendenti in ogni caso a sminuire il ruolo dell’Europa?
Da segnalare in data 14 dicembre un breve trailer di presentazione del libro L’origine dell’uomo ibrido di Daniele Di
Luciano. L’autore fa notare che il punto di vista espresso in questo testo coincide con quello espresso dalle recenti ricerche
genetiche, ad esempio quella di Svante Paabo che ci ha rivelato la sopravvivenza in noi del genoma dell’uomo di
Neanderthal, ma anche con quanto da sempre affermato da antiche tradizioni e mitologie, che riferiscono continuamente di
accoppiamenti ibridi con creature non esattamente umane.
C’è da segnalare un post di grande interesse del 15 dicembre di Michele Ruzzai, nel quale il nostro amico commenta un
articolo apparso sul numero di dicembre de “Le scienze”, Le migrazioni multiple di Homo sapiens. Il nostro fa notare che
da questo articolo si desume la crescente difficoltà per i paleoantropologi ortodossi di conciliare il dogma dell’origine
africana della nostra specie che si suppone sarebbe uscita dal Continente Nero attorno ai 60.000 anni fa, con il ritrovamento
di fossili umani in ogni parte del mondo anteriori a tale data. In un tentativo impossibile di salvare capra e cavoli, costoro
sono costretti a complicare l’albero genealogico umano fino all’assurdo.

Una situazione che a me sembra straordinariamente simile a quella degli astronomi della controriforma che erano costretti a
complicare fino all’assurdo l’immagine del sistema solare per conciliare le nuove osservazioni con il dogma del
geocentrismo, in modo da evitare di fare la fine di Giordano Bruno e Galileo.
Il 22 dicembre un post di Cristina Gatti segnala che nella serie televisiva Netflix “Troy” compare un Achille nero. Non è
purtroppo una novità. In questi programmi di fattura americana provenienti dalla sinagoga hollywoodiana si cerca di
persuadere contro ogni evidenza storica che l’Europa non fosse neppure nel passato bianca come in realtà è sempre finora
stata, ma meticcia. Ci vogliono dare a intendere che le società multietniche siano qualcosa di storicamente normale, mentre
nella realtà dei fatti esse non sono che l’effetto e la più micidiale concausa della decadenza.
A ogni modo è forse il caso di ricordare una volta di più che MANvantara si occupa di uno spettro di tematiche davvero
vasto, che non riguarda soltanto il tema delle origini affrontato con gli strumenti dell’archeologia, ma tutte le conoscenze
tradizionali nei loro molteplici aspetti, e d’altra parte questo articolo è semplicemente una sintesi molto rapida del materiale
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contenuto nel sito facebook, che è consigliabile esaminare di persona.
La tematica delle origini sembra trovare sempre nei nostri ambienti un interesse molto forte, e questo è un sintomo non solo
altamente positivo, ma tanto più importante in vista dell’esigenza di contrapporsi a una “cultura” che ci vorrebbe degli
sradicati senza identità. Si abbiano a mente ad esempio le recenti dichiarazioni di quell’individuo argentino che occupa
abusivamente il seggio che prima di Ponte Milvio fu del pontifex maximus romano, che non a caso ha citato recentemente
la falsa teoria dell’Out of Africa, per invitarci a quella che sotto l’apparenza di un’accoglienza umanitaria ai presunti
rifugiati, in realtà è una vera e propria capitolazione di fronte all’invasione, alla cancellazione per sostituzione etnica della
nostra gente.
Noi possiamo soltanto opporre il più fermo rifiuto a lui, alle sue idee e a quell’eresia ebraica che ancora oggi qualcuno cerca
di spacciarci per “la nostra” tradizione.
NOTA: L’illustrazione che correda questo articolo vuole essere un piccolo omaggio all’amico Michele Ruzzai, al lavoro
svolto non solo con “Manvantara”, ma anche sulle pagine di “Ereticamente” e come conferenziere, sono infatti le locandine
delle conferenze da lui tenute presso il circolo Identità e Tradizione di Trieste nel 2016, quella del 27 gennaio e quella
(doppia) del 24 febbraio.

Una Ahnenerbe casalinga, sessantanovesima parte

Il 2017, l’abbiamo visto, è stato un anno eccezionale per le ricerche sull’eredità del nostro più lontano passato: ricordiamo
brevemente l’identificazione dei resti dell’ominide balcanico Graecopithecus Freibergi (confidenzialmente “El Greco”), il
ritrovamento di fossili umani sorprendentemente moderni risalenti a 300.000 anni fa nella cava marocchina di Jebel Irhoud,
quello di impronte umane (o ominidi) fossili risalenti a qualcosa come 5,7 milioni di anni fa nell’isola di Creta,
l’individuazione da parte di due ricercatori dell’università di Buffalo di una proteina nella saliva, la MUC7, che è presente
nei neri di origine subsahariana in una variante che non si trova in nessun altro gruppo umano, vivente o estinto, che li ha
portati a concludere che essa sarebbe la traccia genetica di un ominide sconosciuto, una “specie fantasma” con cui gli homo
sapiens provenienti dall’Eurasia si sarebbero incrociati, e infine le ricerche di un’archeologa italiana, Margherita Mussi, che
ha individuato due industrie litiche acheuleane a cui corrispondono due distinte umanità in Africa e in Eurasia. Circa mezzo
milione di anni fa mentre in Africa l’homo Erectus rimaneva immutato, in Eurasia si sarebbe evoluto nel più avanzato
Heidelbergensis e poi in Sapiens. La “specie fantasma” identificata dai biologi di Buffalo non sarebbe dunque altro che il
“vecchio” Erectus africano.
Cinque scoperte fondamentali avvenute in un arco di tempo davvero breve che ci impongono (o ci permettono) di rivedere
le teorie sin qui diffuse sulle nostre origini. Dopo un periodo con un’intensità di questo genere, c’era da aspettarsi che non si
potessero registrare in poco tempo importanti novità, invece sembra proprio che il 2018 abbia fatto una partenza col botto,
per usare un’espressione popolare.
Tuttavia, prima di vedere le novità di questo inizio di 2017, sarà forse utile tornare ancora sul lavoro svolto dai gruppi
facebook che, riguardo alla ricerca delle nostre origini, stanno facendo un lavoro davvero notevole, che è anche una
testimonianza dell’importanza che ha per tutti noi la preservazione della nostra identità contro la minaccia del meticciato
multietnico.
La scorsa volta mi sono soffermato soprattutto sul lavoro compiuto da MANvantara, che tuttavia non è assolutamente tutto,
e infatti, scorrendo i “Frammenti di Atlantide-Iperborea” della fine del 2017, ne troviamo due che non sono riportati anche
dal peraltro ottimo gruppo gestito da Michele Ruzzai.
Il 13 novembre il gruppo riporta vari documenti fra cui un articolo del “Gazzettino” del 2014 e uno da “Archeo Misteri
Magazine” del 2005, che riguardano una questione molto intrigante. Mi erano già note da diverse fonti le pietre
sudamericane di Ica. Queste pietre riportano delle incisioni raffiguranti dinosauri e altre creature preistoriche con cui si
ritiene, gli uomini non possono aver convissuto. Se autentiche, potrebbero ribaltare completamente l’idea che abbiamo della
storia naturale. Quel che sinceramente ignoravo, è che anche a Oderzo in Veneto sono state trovate tre formelle molto
simili.
Il 28 dicembre, sul gruppo c’è un link con la presentazione delle Edizioni All’Insegna del Veltro, del libro di Arthur
Branwen Ultima Thule, Julius Evola e Herman Wirth. E’ difficile non scorgere qui una sintonia con il lavoro che sta
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compiendo in questo stesso periodo Michele Ruzzai su MANvantara con il progetto di traduzione di Der Aufgang der
Menscheit , la monumentale opera del Wirth mai tradotta integralmente in italiano, e in generale l’interesse che si sta
riaccendendo attorno alla figura di questo studioso. Quanto meno, si può dire che dopo le recenti scoperte avvenute in
campo paleoantropologico, l’idea di un’origine nordica-iperborea della specie umana appare più credibile di quella africana
che costituisce ancora la “vulgata” ufficiale ortodossa.
La tematica delle origini, l’abbiamo visto più volte, non riguarda solo i più remoti primordi della nostra specie, ma
scendendo a livelli temporalmente più vicini e in ambiti man mano più ristretti, l’origine dei popoli caucasici e indoeuropei,
quella della civiltà europea e delle popolazioni italiche di cui siamo i diretti discendenti.
Proprio a inizio d’anno, fonti russe hanno riportato una notizia sorprendente (di cui la stampa “occidentale” – guarda caso –
ha fatto pochissima menzione): un team di ricercatori tedeschi dell’Università di Tubinga ha riesaminato il DNA del faraone
Tutankhamon giungendo alle stesse conclusioni della ricerca compiuta dalla società svizzera IGENEA nel 2016. Il DNA del
faraone fanciullo è di tipo europeo: si segnala in particolare l’aplogruppo (variante del cromosoma Y) R1b, comune in
Europa, ma che si ritrova in meno dell’1% degli egiziani odierni.
I ricercatori tedeschi hanno poi esteso la loro indagine ad altre tre mummie faraoniche ottenendo sostanzialmente gli stessi
risultati.
A questo punto non possono sussistere dubbi: le élite della civiltà egizia erano di origine europea, e il progressivo
illanguidirsi del sangue europeo dovuto alla mescolanza con i ceti popolari, è stato la causa della decadenza di quella civiltà.
Tempo fa, un nostro lettore, commentando un mio articolo precedente, ha esposto un’idea interessante: in età preistorica,
popolazioni dell’Europa settentrionale e centrale si sarebbero riversate verso sud, invadendo l’Europa mediterranea e
l’Africa del nord in conseguenza delle inondazioni provocate dalla fine dell’età glaciale. A sostegno di questa ipotesi, il
nostro lettore citava le piramidi bosniache di Visoko, ma queste piramidi non sono le sole presenti in Europa: possiamo
ricordare la piramide di Nizza, “stranamente” smantellata negli anni ’60 per fare posto a uno svincolo autostradale, e quella
sarda, oggi molto rovinata, di Monte d’Accoddi.
Sembra proprio, è un discorso che abbiamo già fatto, che di tutte le testimonianze che ci sono pervenute dal lontano passato,
“stranamente”, quelle più a rischio, sono proprio quelle che contraddicono l’interpretazione ufficiale e “ortodossa” delle
nostre origini.
Ultimamente, ho avuto notizia dell’esistenza di un’altra piramide italiana: la piramide etrusca di Bomarzo (Orvieto) che si
trova proprio a poca distanza dalla celebre Villa dei Mostri. In realtà non si tratta proprio di una piramide, piuttosto una
specie di enorme altare, che però almeno dal lato frontale presenta delle suggestive somiglianze con la piramide a gradoni
egizia di Saqqara.
Il 5 gennaio “National Geographic” nell’edizione in lingua inglese riporta una notizia di grande interesse: è stato
sequenziato il DNA dei resti di una neonata di sei settimane risalenti a 11.500 anni fa rinvenuti in Alaska. Si tratta del DNA
completo di un nativo americano più antico di cui finora si abbia conoscenza, e ciò che ha rivelato è molto significativo: a
quanto pare, esso si colloca in una posizione intermedia fra quello delle popolazioni dell’Asia orientale e quello degli
amerindi odierni
. Ciò ha spinto i ricercatori a ipotizzare che la bambina appartenesse appunto a una popolazione di transizione fra gli uni e
gli altri, che doveva abitare l’area un tempo emersa di quello che è oggi lo stretto di Bering che separa l’Asia orientale dalla
propaggine più occidentale dell’Alaska e del continente americano, e con ogni probabilità una vasta area adiacente, un
tempo emersa, poiché nell’età glaciale il livello degli oceani doveva essere significativamente più basso di quello attuale. A
questa terra è stato dato il nome di Beringia, e di Beringi a quello dei suoi abitanti, che sarebbero stati appunto una
popolazione di transizione fra gli abitanti della Siberia orientale e gli Amerindi.
Mi piacerebbe potervi dire che sono il primo a darvi quest’informazione finora inedita, ma non è così, anche questa volta
sono stato preceduto da MANvantara.
Il 6 gennaio L’Immagine Perduta, questo interessante gruppo FB amministrato da Giuseppe Di Re, ha pubblicato la prima
parte, già molto vasta, di un saggio di Bruno D’Ausser Berrau: Ubinam gentem sumus? Un eden ed un popolo o più luoghi
e più genti? Secondo questo autore, un attento esame delle fonti tradizionali porta a una visione plurima delle origini
dell’umanità: quel poligenismo che la Chiesa cattolica e il cristianesimo in genere, attenendosi a un’interpretazione più o
meno letterale del racconto della Genesi hanno sempre rifiutato e che per motivi diversi (ma fino a un certo punto diversi) è
oggi del pari respinto dalla odierna concezione democratica che, davanti al riconoscimento di qualsiasi differenza (razziale
o altro), agita in maniera davvero paranoica lo spettro della discriminazione o peggio.
Eppure, l’abbiamo visto con chiarezza, la ricerca scientifica considerata senza paraocchi (in particolare quelli davvero
pesanti della favola dell’Out of Africa) concorda con la concezione tradizionale e ci rivela una pluralità di umanità: mentre
in Africa si sarebbe attardato il primitivo Homo erectus, in Eurasia Heidelbergensis avrebbe dato luogo alla tripartizione
Cro Magnon-Neanderthal-Denisova, e nel genoma dell’umanità attuale si può trovare la traccia di tutti questi antenati. E’
proprio la visione cristiana e democratica a essere messa nell’angolo da una considerazione obiettiva dei fatti e delle
informazioni a nostra disposizione.
Scrive l’autore: “A questo punto sembra opportuno precisare come l’uso che in questo studio viene fatto del termine razza,
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sia motivato da fedeltà alle relative tradizioni, e pertanto in disaccordo con le attuali posizioni scientifiche e non. Queste
ultime, per un atteggiamento di mera ideologia e per ipercorrettivismo politico, ne disconoscono l’attribuzione alla specie
umana (…). Pertanto l’uso del termine non ha per noi un senso discriminatorio, e serve semplicemente a designare i vari tipi
umani di base le cui indubitabili differenze formali e temperamentali, stante l’appartenenza alla comune umanità, non
possono, in via di principio, giustificare alcuna inciviltà”.
In poche parole, un conto è accorgersi che l’umanità è suddivisa in razze con differenti caratteristiche fisiche e psicologiche,
tutto un altro conto è, in base a ciò, prospettare discriminazioni e persecuzioni. Dovrebbe essere un concetto ovvio, ma oggi
non è più così. L’abbiamo notato altre volte, la parola “razzismo” ha subito uno slittamento di significato che ne fa un
esempio perfetto di neolingua orwelliana: oggi non indica più chi sostiene la superiorità di una razza sulle altre, ma chi
semplicemente si accorge che le razze umane esistono. In pratica, se vedi, o se non fai finta di non vedere che gli immigrati
hanno la pelle più scura della tua, sei complice dei campi di sterminio. Questo, oltre che mistificazione, è terrorismo
psicologico. Il buon democratico non deve vedere né pensare, ma solo bere come una spugna le fesserie che gli vengono
raccontate dai pulpiti e dai telegiornali.
A dispetto delle altisonanti e sempre più disapplicate dichiarazioni di libertà di opinione proclamate nelle costituzioni, la
democrazia è oscurantismo, proibizione a pensare.
Ora si vede bene che non è possibile tracciare una distinzione netta fra il lavoro svolto dai gruppi FB “nostri” e le
informazioni sull’eredità degli antenati che man mano ci arrivano dalle sedi scientifiche ufficiali, da pubblicazioni come
“Le scienze” o “National Geographic”, per il semplice fatto che i gruppi FB “nostri”, generalmente, quando in queste sedi di
“scienza ufficiale” compaiono notizie utili o interessanti dal nostro punto di vista, sono svelti a riportarle, con una rapidità
che non è consentita dalla tempistica tecnica di “Ereticamente”. Ciò che rimane disponibile in questa sede, è piuttosto un
lavoro di sintesi, di commento, di interpretazione, a parte ovviamente il fatto che la nostra pubblicazione può vantare di
avere un pubblico superiore di uno o due ordini di grandezza rispetto a qualsiasi gruppo facebook.
Tuttavia, come vi ho detto, il lavoro svolto da queste persone non va assolutamente trascurato, in primo luogo come
testimonianza forte del concetto che il radicamento in un’identità storica, etnica, antropologica, è qualcosa di molto sentito
nei nostri ambienti, in contrapposizione a una “cultura” mondialista che ci vorrebbe tutti degli sradicati senza identità.
Ovviamente, è impossibile sapere cosa ci riserverà il futuro, e se i ritmi di questa “partenza col botto” che ha caratterizzato
l’inizio del 2018 dopo un periodo foriero di novità come lo è stato l’anno trascorso, saranno mantenuti. A ogni modo,
nell’attesa, ci sono due questioni sulle quali mi riprometto di tornare prossimamente con un approfondimento.
La prima: come abbiamo più volte visto, la questione delle origini si può suddividere in vari livelli, tanto più ampi quanto
più si retrocede indietro nel tempo, un po’ come i cerchi che si allargano sul pelo dell’acqua di un sasso gettato in uno
stagno. Io di livelli ne ho individuati quattro: le origini delle popolazioni italiche, della civiltà europea, dei popoli
indoeuropei, e infine (o temporalmente per primo) della specie umana. Ora, tra il penultimo e l’ultimo di questi livelli ne
andrebbe probabilmente inserito un altro: quello delle origini delle popolazioni di ceppo caucasico, “bianco”, di cui gli
Indoeuropei sono solo una frazione.
Al riguardo c’è una storia importante e perlopiù ignorata, quello della ramificazione orientale delle popolazioni caucasiche,
un tempo diffuse in Asia e poi sommerse dall’espansione delle genti mongoliche, di cui rimangono come isole superstiti di
Daiaki del Borneo, gli Ainu del Giappone e i Polinesiani. Questi ultimi, i “vichinghi del Pacifico”, protagonisti di una
grande epopea marittima, cosa spesso non detta o negata, rientrano anch’essi nel tipo caucasico.
La seconda: sempre riguardo ai nostri antenati indoeuropei, noi sappiamo che un certo filone di pensiero tradizionalista ha
sottolineato soprattutto nella psicologia dell’uomo indoeuropeo la stabilità, il radicamento, l’attaccamento alla terra natale,
la fedeltà agli antenati. Tutti concetti giustissimi, intendiamoci, ma che probabilmente rappresentano solo un aspetto
dell’essere indoeuropei ed europei, mentre l’altra faccia è rappresentata dalla curiosità, dal desiderio di conoscere,
dall’impulso all’esplorazione, dall’amore e dall’attrattiva per i grandi spazi.
Prossimamente ci concentreremo appunto su queste tematiche.
NOTA: Nell’illustrazione: A sinistra la maschera funeraria d’oro del faraone Tutankhamon. Oggi sappiamo che il suo DNA
è tipicamente europeo. Al centro, uno scorcio della piramide etrusca di Bomarzo. A destra, una raffigurazione pittorica
dell’Eden; l’Eden è al centro dell’articolo di Bruno D’Ausser Berrau pubblicato in “L’immagine perduta”.

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E’ una cosa che davvero sorprende: quando ho deciso di trasformare questa serie di articoli in una vera e propria rubrica
sulle pagine di “Ereticamente”, non mi sarei mai aspettato che essa potesse non solo diventare un appuntamento a scadenza
fissa, ma che addirittura dovessi faticare a trovare lo spazio per relazionarvi sulle novità che man mano emergono dalla
ricerca sulle nostre antiche origini, nemmeno si trattasse di fatti di cronaca, eppure, come potete vedere, è così. Siamo
arrivati al nostro settantesimo appuntamento, e con ogni probabilità la strada da percorrere è ancora lunga.
Mi perdonerete la parzialità se per prima cosa vi do un aggiornamento sulle attività del nostro gruppo triestino. Grazie a
Gianfranco Drioli, che penso ricorderete come autore dei due bei libri pubblicati dalle Edizioni Ritter Ahnenerbe (dedicato a
quella vera, quella del Terzo Reich) e Iperborea, la ricerca senza fine della patria perduta, che è diventato presidente della
sezione triestina dell’ALTA (Associazione Lagunari e Truppe Anfibie) ci siamo trovati a disposizione gli spazi della Casa
del Combattente, e li stiamo utilizzando per un ciclo di conferenze.
Venerdì 26 gennaio si è tenuta la prima di esse, intitolata Ma davvero veniamo dall’Africa? E – indovinate un po’ – il
relatore era il sottoscritto. In effetti, è stata la prima di un gruppo di quattro conferenze, un ciclo nel ciclo, dedicato alla
tematica delle origini, che dovrebbe essere così articolato: dopo la prima che, come capite, è stata dedicata a tutti gli
elementi e le scoperte scientifiche che, nel loro insieme, rendono non credibile la “teoria” dell’Out of Africa, passeremo a
esaminare l’origine degli Indoeuropei, della civiltà europea e quindi delle popolazioni della nostra Penisola, dove c’è da
sfatare l’altra infondata leggenda diventata come l’Out of Africa, ortodossia di regime che ci viene imposta obtorto collo
contro l’evidenza delle prove scientifiche, della totale eterogeneità etnica e genetica della nostra gente.
Ho scritto “passeremo” non per utilizzare un plurale maiestatis, ma perché in questo lavoro sono e sarò affiancato dal nostro
Michele Ruzzai che ha introdotto e introdurrà i miei interventi.
Devo dire la verità, venerdì 26 la presentazione che Michele ha fatto al mio intervento è stata così chiara, esauriente,
completa che, come ho detto agli ascoltatori, non sarebbe stato praticamente necessario che io aggiungessi nulla.
Quanto prima, vi presenterò sulle pagine di “Ereticamente” il testo di questa conferenza. Gli argomenti che la compongono
li conoscete già, li ho più volte ripetuti su queste pagine, ma un’esposizione ordinata e sistematica di essi che dimostrano
inequivocabilmente l’infondatezza della presunta origine africana della nostra specie, può certamente essere utile.
Adesso, però, è il momento di passare alle notizie “esterne”. Cominciamo a parlare di una notizia apparsa sul britannico
“The indipendent” un po’ di tempo fa, il 20 ottobre 2017, ma che è stata ripresa da “MANvantara” il 22 gennaio 2018. In
Germania, nei pressi della città di Eppelsheim, in un tratto prosciugato del letto del fiume Reno, gli archeologi hanno
ritrovato dei denti fossilizzati risalenti a ben 9,7 milioni di anni fa. Questi denti sono straordinariamente simili a quelli di
Lucy, l’ominide africano considerato un nostro lontano antenato, che però è molto più giovane, risalendo “solo” a 3,5
milioni di anni fa. Si tratta di un ritrovamento importante, fa notare l’articolista, “che potrebbe riscrivere la storia
dell’evoluzione umana”.
In effetti, questo ritrovamento, assieme a quello dell’ominide balcanico “El Greco” e delle impronte cretesi di cui abbiamo
già parlato le volte scorse, demolisce uno degli assunti di base dell’Out of Africa: L’uomo deriva dagli ominidi, gli ominidi
sono africani, dunque l’uomo è nato in Africa. Ora in effetti sappiamo che gli ominidi non sono vissuti solo in Africa, ma
anche in Europa e in Asia, in tutto il Vecchio Mondo.
In realtà, il ritrovamento è del 2016, ma la notizia è stata data con comprensibile ritardo, perché ha messo in imbarazzo i
ricercatori che con la loro scoperta si sono trovati a infrangere uno dei dogmi dell’ortodossia democratica, come fa notare
anche Michele Ruzzai nel suo commento sulla pubblicazione dell’articolo.
Di questi tempi, lo studio delle origini sembra confondersi con i domini dell’occulto. Non facciamo che parlare di fantasmi.
Come ricorderete, studiando i genomi delle popolazioni umane attuali, i genetisti avrebbero individuato ben due “specie
fantasma”, quella individuata dai biologi dell’Università di Buffalo studiando le proteine della saliva dei neri africani, e
quella la cui traccia è stata trovata dai ricercatori dell’Istituto di Biologia Evolutiva (IBE) di Barcellona nel genoma degli
indigeni delle isole Andamane. Ora, a livello molto più recente e nettamente sapiens, parliamo di una migrazione e di una
popolazione fantasma.

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In data 22 gennaio Cristina Gatti, la bravissima co-amministratrice che ha affiancato Michele Ruzzai nella gestione di
“MANvantara” ha ripescato un articolo pubblicato su “Nature” il 21 luglio 2015 a firma di Ewen Callaway, che ha per
oggetto uno studio genetico condotto su due tribù di indios della foresta amazzonica, i Suruì e i Karitiana, il cui DNA
differisce da quello degli altri nativi americani, e sembra rientrare nel gruppo australoide, presentando una spiccata
somiglianza con quello dei Papua della Nuova Guinea.
Sulla possibile origine della presenza di questo DNA in Amazzonia, le opinioni dei ricercatori divergono. Alcuni
propendono per una migrazione di antenati comuni dall’Asia attraverso il ponte di terra della Beringia durante l’età glaciale,
altri per una migrazione molto più tardiva, via mare attraverso il Pacifico.
La storia del popolamento delle Americhe prima dell’arrivo di Colombo, e prima ancora dei Vichinghi che hanno
certamente preceduto il navigatore genovese nel Nuovo Mondo (ma forse sono stati a loro volta anticipati dai Gallesi), è più
complessa di quel che potremmo pensare. Attraverso il ponte di terra della Beringia e poi dopo la scomparsa di esso alla
fine dell’età glaciale, attraverso lo stretto di Bering, vi sono stati in tempi diversi almeno quattro transiti di popolazioni in
America: 1. Quello dei cosiddetti paleo-amerindi da cui discenderebbero sia i Fuegini della Terra del Fuoco, sia i Pericu
della Baja California. Questi ultimi sono stati spinti dagli Amerindi veri e propri sempre più verso sud, fino a raggiungere
l’estremità meridionale del continente, eccezion fatta per i Pericu che sarebbero rimasti intrappolati nel cul de sac della
penisola californiana. 2. Gli Amerindi veri e propri, che costituiscono gli antenati della grande maggioranza delle
popolazioni americane native. 3. I Na-Dene, un gruppo che comprende diverse popolazioni come i Navaho, gli Athabaska, i
Tlingit, distinte dagli Amerindi veri e propri sia del punto di vista linguistico che da quello genetico, e sono il risultato di
una migrazione successiva. Gli Esquimesi o Inuit, gli ultimi a raggiungere il continente americano prima degli Europei
(Gallesi, Vichinghi, Spagnoli).
Questo tuttavia non è ancora tutto, perché sempre durante l’età glaciale, quando il livello degli oceani era più basso di
quello attuale, e un’ininterrotta banchisa artica correva dalle coste dell’Europa a quelle americane, cacciatori di foche
appartenenti alla cultura europea solutreana avrebbero raggiunto l’America costeggiando questa banchisa, avrebbero dato
luogo alla cultura Clovis, la più antica cultura litica del Nuovo Mondo, sarebbero all’origine di diverse popolazioni di
“amerindi bianchi”, e avrebbero lasciato nei nativi americani un’impronta genetica pari a un terzo del loro DNA.
A questo quadro, già piuttosto articolato, bisogna ora aggiungere anche quello di una migrazione, avvenuta non sappiamo
quando e in che modo, che avrebbe portato geni australoidi in Amazzonia, una “migrazione fantasma” che avrebbe generato
una “popolazione fantasma” da cui sarebbero discesi i Suruì e i Karitiana (sembra che di questi tempi nell’antropologia i
fantasmi si sprechino).
La cosa interessante è che ricordo bene che molti anni fa, quando ero un ragazzo e la televisione era solo di stato e c’erano
solo due canali, la RAI mandò in onda un documentari sull’Amazzonia in cui a un certo punto si evidenziavano le
caratteristiche australoidi di alcuni indios. Fidando della memoria ma sempre come succede in questi casi, con un certo
timore di sbagliarmi o ricordare male, avevo riportato la cosa, oltre al resto della complessa storia dell’America
precolombiana cui vi ho accennato sopra, in un articolo, La storia perduta delle Americhe, che è stato pubblicato sul n.
7/2012 della rivista “La runa bianca”, oltre che sul sito on line “Orient Express”. Certamente, le Americhe sono state un
grande crocevia di popolazioni da molto prima di Colombo.
Visto che siamo in argomento, continuiamo a parlare delle Americhe. Ultimamente, due diversi siti “Axis mundi” del 28
gennaio e “La ricerca delle origini della nostra civiltà” del 1 febbraio hanno ripreso il medesimo argomento in due articoli
diversi (non come spesso succede, che uno abbia condiviso il post dell’altro). Si tratta di una questione della quale vi avevo
già parlato in una parte precedente della nostra rubrica, quindi basterà un breve accenno, anche se è utile tornarci sopra,
perché è una vicenda molto istruttiva che ci dimostra di che pasta sia l’ortodossia (pseudo)scientifica che domina il pensiero
democratico. Si tratta della “leggenda” dei Si-Te-Cah, un antico popolo di giganti dalla pelle chiara, dai capelli rossicci e
dalle abitudini cannibali che sarebbero vissuti un tempo nel Minnesota, secondo quanto raccontano gli indiani Paiute, e con
i quali gli antenati degli stessi Paiute si sarebbero ferocemente scontrati.
Questa storia è stata raccontata al grosso pubblico internazionale e fatta circolare sui media da Sarah Winnemucca,
capotribù paiute e studiosa delle tradizioni dei nativi americani. La donna ha anche rivelato di aver indicato ai ricercatori
“bianchi” i luoghi di sepoltura dei Si-Te-Cah, e di aver messo a loro disposizione per eventuali analisi genetiche un antico
scalpo dai capelli rossicci tramandato come un cimelio nella sua famiglia, e che sarebbe appartenuto a uno di loro. Non solo
i ricercatori (ma di cosa?) non hanno effettuato nessuno scavo nei presunti luoghi di sepoltura, ma si sono rifiutati di
prendere in consegna lo scalpo.
Si vuole che i Si-Te-Cah rimangano una leggenda, e i motivi sono facilmente intuibili: prima di tutto, una visione troppo
articolata e complessa della nostra storia remota porterebbe a mettere in discussione il dogma progressista, in secondo
luogo, tutto ciò che riguarda popolazioni “bianche” va quanto più possibile ignorato o sminuito perché occorre alimentare
nei “bianchi” caucasici la convinzione che i loro antenati sarebbero stati neri che si sarebbero “sbiancati” uscendo
dall’Africa poche decine di migliaia di anni fa. Un pensiero come quello democratico, che è un dogmatismo basato su una
frode, non può che aver paura della conoscenza dei fatti.

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Il 31 gennaio, Cristina Gatti ha postato su MANvantara un interessante articolo apparso su “Le Scienze” nel dicembre
2016, Quei geni arcaici che fanno resistere al freddo, che tratta un argomento apparentemente marginale ma in realtà di
grande interesse: la resistenza al freddo tipica degli Inuit che vivono nelle regioni artiche, sarebbe un’eredità genetica di
popolazioni arcaiche, neanderthaliani e/o denisoviani con cui i loro antenati giunti nelle latitudini settentrionali si sarebbero
incrociati. La cosa non è per nulla marginale, perché è una chiara conferma della teoria di Carleton S. Coon sull’origine
delle razze. Secondo quest’autore, la differenziazione in razze sarebbe paradossalmente più antica della stessa comparsa
di homo sapiens, perché man mano che i nostri antenati sapiens colonizzavano diverse aree del mondo, si incrociavano con
popolazioni più arcaiche. Le popolazioni miste che ne risultavano, avrebbero ereditato dalle prime le caratteristiche sapiens,
e dalle seconde quelle che rappresentavano adattamenti funzionali alle condizioni ambientali presenti nel luogo, cioè le
caratteristiche razziali. La teoria di Coon è stata a lungo rifiutata e demonizzata da una “scienza” politicamente corretta che
di razze umane non vuole sentir parlare. Oggi in base a numerosi studi di cui quello qui citato è solo l’ultimo tassello, e
andrebbero ricordate le ricerche di paleogenetica di Svante Paabo innanzi tutto, sappiamo che Coon aveva ragione.
Sempre il 31 gennaio, un articolo di Malcom Ritter su “Phys.org” ci parla di strumenti litici che sarebbero stati ritrovati in
India e ai quali viene attribuita un’età fra 385.000 e 172.000 anni. L’autore osserva che questo ritrovamento impone di
retrodatare considerevolmente l’uscita di homo dall’Africa. E se homo non fosse affatto uscito dall’Africa ma fosse nato in
Eurasia? Quest’ultimo ritrovamento non contraddice certo l’ipotesi di una nostra origine asiatica e, al contrario, indebolisce
ulteriormente quella dell’origine africana, ma sembra che per tutti questi “ricercatori” constatare questo semplice fatto
equivalga a una bestemmia, un’eresia che occorre evitare a qualsiasi costo.
Il 1 febbraio è arrivata quella che impropriamente sembra destinata a essere la notizia paleoantropologica dell’anno.
Secondo quanto riferiscono “Science Fanpage” e “L’altro giornale”, è stato presentato al pubblico lo scheletro fossile più
completo conosciuto di un ominide, ritrovato in una caverna sudafricana, dopo dieci anni di ricerca, ripulitura e
ricostruzione di tutti i frammenti. Soprannominato “Little Foot”, “Piedino”, si sarebbe trattato di una giovane femmina,
risalente a 3,67 milioni di anni fa e molto simile alla celebre Lucy. La differenza consiste nel fatto che lo scheletro di
“Piedino” non è solo più antico, ma pressoché completo, mentre di Lucy abbiamo circa un terzo delle ossa e pochi
frammenti cranici (e si tratta dei resti ominidi più completi, o meno lacunosi, di cui si disponesse finora).
Ho scritto “impropriamente” perché non si può non ricordare che il recente riesame delle ossa di Lucy compiuto da un team
di anatomisti britannici guidati da sir Solly Zuckerman, una delle voci più autorevoli a livello mondiale nel campo
dell’anatomia comparata, li ha portati a mettere seriamente in dubbio che Lucy e i suoi congeneri possano essere stati i
nostri più remoti antenati.
Se noi consideriamo tutto quello che sta emergendo negli ultimi tempi dalle ricerche paleoantropologiche, possiamo dire
che i sostenitori dell’Out of Africa non hanno molto motivo di dormire sonni tranquilli.
NOTA: Nell’illustrazione: a sinistra una rara foto di un Mandan, un “indiano bianco” delle Americhe, la cui popolazione è
oggi estinta. Al centro, la copertina del n. 7/2012 della rivista “La runa bianca” dove è stato pubblicato il mio articolo La
storia perduta delle Americhe, a destra, la versione on line dello stesso articolo pubblicata sul sito di “Orient Express”.

Credo di avervelo evidenziato più di una volta, il fatto che questo nostro appuntamento con l’eredità degli antenati si sia
trasformato in una scadenza più o meno fissa sulle pagine di “Ereticamente” e che attualmente abbia persino passato il giro
di boa del settantesimo numero, è una fonte di sorpresa prima di tutto per me, poiché le notizie riguardanti le nostre origini
non possono (o non dovrebbero) avere la tempistica degli avvenimenti della cronaca, della, politica, dello sport, dei
rotocalchi. A volte ho come l’impressione che una qualche divinità cerchi disperatamente di avvertirci del significato e del

204
valore della nostra stirpe prima che essa si dissolva nel caos mondialista, nell’universale meticciato, e ci sproni a correre ai
ripari.
Non solo, ma a quanto pare si fa fatica a stare dietro all’incalzare degli eventi. L’ultimo aggiornamento che sono riuscito a
darvi, per esempio, riguardo al lavoro dei gruppi di facebook sulla tematica delle origini, risaliva a poco dopo gennaio (il 1
febbraio, esattamente, si trattava del post riguardante il ritrovamento dei resti dell’ominide sudafricano battezzato Littlefoot,
“Piedino”). Certamente, complice del fatto che nel frattempo si è accumulato un discreto lasso di tempo, è stata la situazione
politica con le recenti elezioni, a proposito delle quali non era possibile non lasciare un commento, un’analisi della
situazione, poi anche la scadenza del 25 aprile e, in tutta franchezza, come si fa a non dire nulla quando si approssima
questa celebrazione ridicola con la quale ci impongono di festeggiare la sconfitta nella seconda guerra mondiale come se
fosse stata una vittoria attirandoci certamente il dileggio del mondo intero?
Fra una cosa e l’altra, ci siamo ridotti ad adesso, e non è che cose da dire non ve ne siano.
Io penso che mi perdonerete la parzialità se comincio con l’aggiornarvi sulle attività del nostro gruppo triestino. Come vi ho
già raccontato in precedenza, grazie al nostro Gianfranco Drioli, l’autore di libri come Ahnenerbe (dedicato a quella vera,
quella nazionalsocialista) e Iperborea, la ricerca senza fine della patria perduta, che è recentemente diventato presidente
dell’ALTA (Associazione Lagunari e Truppe Anfibie) di Trieste, abbiamo avuto a disposizione i locali della Casa del
Combattente, e li stiamo utilizzando per una serie di conferenze nelle quali il sottoscritto è coinvolto in prima persona, il più
delle volte introdotte dall’ottimo amico (nonché collaboratore di “Ereticamente”) Michele Ruzzai.
Un ciclo nel ciclo di questa serie di conferenze, è composto di quattro di esse che riguardano la tematica delle origini, e non
poteva essere altrimenti: le origini della nostra specie (contestando la favola “ortodossa” e “politicamente corretta” della
genesi africana), dei popoli indoeuropei, della civiltà europea, e infine – tematica sempre ingiustamente trascurata – dei
popoli italici.
Le prime due, Ma veniamo veramente dall’Africa? , e Caucasici e indoeuropei si sono tenute rispettivamente il 26 gennaio
e il 23 febbraio, e hanno registrato una buona accoglienza da parte del pubblico presente. Io ve ne darò appena possibile i
testi su “Ereticamente”. Il 30 marzo (la cadenza di questi appuntamenti, l’avrete capito, è mensile), interrompiamo e
rimandiamo ad aprile e maggio la tematica delle origini, perché per motivi diplomatici mi è stato chiesto di ripresentare Le
due facce del risorgimento, di cui trovate già il testo su “Ereticamente”.
Torniamo a esaminare l’attività dei gruppi che su facebook si occupano delle tematiche delle origini, cominciando sempre
da MANvantara del nostro Michele Ruzzai, la cui consistenza recentemente è giunta a sfiorare i 1400 membri, una cifra
certamente non confrontabile a quella dei lettori di “Ereticamente”, ma che per un gruppo facebook non è assolutamente
poco. Diciamo subito che, anche per l’aumento del numero dei contributori, il gruppo esprime sempre più tematiche e
sensibilità diverse, si va dall’antropologia a questioni esoteriche, è un gruppo dalla fisionomia complessa e interessante. Io
seguirò i post che riguardano i temi che ci interessano, ma tenete presente che c’è molto altro.
Comincio con il precisare che non ha probabilmente senso operare una distinzione fra il lavoro svolto dai gruppi e quanto si
trova siti e le pubblicazioni generaliste, perché regolarmente quest’ultimo materiale è sempre regolarmente riportato e
commentato dai gruppi FB, e semmai lo spazio che rimane, il senso di una serie di articoli come la mia, è quello di
un’ulteriore lavoro di sintesi e approfondimento, laddove la nostra tempistica non ci consente di fatto anteprime.
Io adesso non riporterò i vari post uno a uno anche perché su questo argomento sono abbastanza ripetitivi, ma si può dire
che nella prima metà di febbraio la discussione si è incentrata sulla ricostruzione dell’uomo d Cheddar. Secondo alcuni
ricercatori (cosa estremamente dubbia perché dalle ossa fossili non è possibile ricostruire la pigmentazione della pelle),
questo antico uomo mesolitico di 10.000 anni fa i cui resti sono stati scoperti nelle Isole Britanniche, avrebbe avuto gli
occhi azzurri e la pelle scura. Questo è bastato perché se ne presentasse al pubblico una ricostruzione dai tratti decisamente
negroidi, con quella che è, come i ricercatori hanno onestamente riconosciuto, “Non una ricostruzione scientifica ma
un’operazione di propaganda”.
Non ce ne dobbiamo stupire: sappiamo di vivere in democrazia, che l’intera Europa e il cosiddetto mondo occidentale
vivono sotto il giogo della democrazia, e la mistificazione e l’inganno sono l’anima stessa della democrazia. È in atto non
da ora il tentativo di persuaderci – contro ogni evidenza storica, archeologica e antropologica – che il meticciato sia una
cosa normale e che un elemento “nero” in Europa sia sempre esistito.
In un post del 4 febbraio su MANvantara la nostra eccellente Cristina Gatti ha segnalato che in un recente musical di
Broadway Giovanna D’Arco è diventata Jeanne Dark, interpretata ovviamente da un’attrice di colore. Sulla stessa
lunghezza d’onda di mistificazione, ci segnala Luca Cancelliere il 7 febbraio sempre su MANvantara, in una serie “storica”
della BBC, è affidata a un’attrice di colore la parte della regina Margaret d’Inghilterra. Batti e ribatti il chiodo entra, tutto
ciò serve ad alterare la percezione del pubblico ingenuo e male informato. La semplice verità è che fino alle recenti ondate
migratorie non è esistito in Europa alcun elemento “nero”, che il meticciato è sempre e soltanto causa di decadenza, che le
migrazioni di melanodermi verso l’Europa sono state programmate al preciso scopo di distruggere le native popolazioni
caucasiche (piano Kalergi).
Un fatto che è ricordato sempre su MANvantara in un post del 5 febbraio da Matteo Mazzonis riprendendo un articolo da
it.blastingnews.com , riporta un fatto a cui mi pare abbia accennato molto di sfuggita anche “l’informazione” generalista: il
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delitto di Macerata, la “macellazione” della sventurata Pamela Mastropietro da parte di quattro nigeriani corrisponde
pienamente alle caratteristiche dell’omicidio rituale previsto dalle “tradizioni religiose” tribali della Nigeria.
Si comprende bene quanto sia folle e delirante l’idea di fare di costoro dei “nuovi italiani” e dei “nuovi europei”, sono
piuttosto loro che africanizzano la terra dove s’insediano. E che dire del disgustoso razzismo di sinistra della magistratura
“rossa”, razzismo contro gli Italiani, che non ha imputato i quattro assassini di omicidio ma soltanto di vilipendio di
cadavere, in compenso accusando di strage Luca Traini che non ha ucciso nessuno?
L’11 febbraio Cristina Gatti ha pubblicato un post che è una recensione ripresa dal sito della Widner Library del libro (vi do
il titolo in italiano) Storia ed evoluzione della flora artica del botanico svedese Eric Hultén. A quanto sembra dallo studio di
questo ricercatore, durante l’età glaciale, quando l’Europa era coperta da una fitta coltre di ghiacci, l’Alaska, la Siberia
orientale e la terra di collegamento che allora esisteva fra esse, la Beringia, a quanto dimostra la situazione della flora, erano
a quel tempo libere dai ghiacci e con un clima mite. A quanto pare, il clima medio del nostro pianeta non era molto diverso
da quello di oggi, ma la distribuzione delle aree glaciali era diversa.
Si tratta di una questione molto importante, perché la teoria delle origini artiche dell’umanità in contrapposizione alla teoria
africana (che oggi costituisce “l’ortodossia scientifica” democratica, il che è già un buon motivo per ritenerla falsa),
presuppone che in epoche le regioni artiche avessero un clima molto diverso da quello attuale. Ora, tutto fa pensare che le
cose stiano effettivamente così. Va in questo senso anche una ricerca condotta negli anni ’50 dal geofisico Maurice Ewing,
secondo la quale durante l’età glaciale l’Artico era libero da ghiacci, come spiega un post sempre di Cristina Gatti del 18
febbraio.
Di grande interesse è poi un post condiviso su MANvantara da Mike Mayers in data 13 febbraio. Gli ebrei sono “una
razza”, hanno un’impronta genetica che li distingue da tutti gli altri gruppi umani. Non lo diciamo noi, lo dicono loro! E’
quanto si evince dalla recensione del libro A Genetic History of the Jewish People del genetista Harry Ostrer pubblicata sul
sito ebraico haaretz (www.haaretz.com). Secondo haaretz, tale scoperta potrebbe rinfocolare l’antisemitismo, ma è un
rischio da correre perché si tratta di una questione centrale per l’identità ebraica.
Il minimo da dire, è che c’è di che essere sbalorditi: dunque, secondo i loro più accreditati esponenti che hanno modellato le
idee della democrazia, le razze umane non esistono e il meticciato fa un gran bene all’umanità, però il “popolo eletto” ha
una precisa fisionomia razziale e rifiuta per se stesso i benefici di quel meticciato che tanto caldamente raccomanda agli
altri, racchiudendosi nella più rigida endogamia. Non occorre avere il naso a nappa per sentire puzza di bruciato.
Come è noto, il dogma democratico dell’inesistenza delle razze umane risale alla “teoria” del genetista Richard Lewontin
che sostenne che nella specie umana non si può parlare di razze perché qualsiasi gene del pool genetico umano si può
rintracciare praticamente in qualsiasi popolazione. Si tratta di un’evidente fallacia, come molti altri ricercatori hanno
dimostrato, perché non tiene conto né della frequenza relativa con cui i geni compaiono nelle diverse popolazioni, né delle
correlazioni tra i diversi geni per formare costellazioni geniche. In pratica è come, considerando gli alberi uno per volta,
riuscire a non vedere la foresta. Non a caso, a questo post ne è seguita una serie di altri che riferiscono le spiegazioni di
biologi e genetisti che svelano la fallacia dell’assunto di Lewontin, che non hanno però impedito che esso diventasse un
caposaldo fondamentale dell’armamentario delle mistficazioni democratiche. Ora, caso strano davvero singolare, anche
Richard Lewontin appartiene al “popolo eletto”.
Sempre rifacendosi al dibattito sollevato dalla presunta ricostruzione dell’uomo di Cheddar, in data 8 febbraio, Michele
Ruzzai ha riportato una citazione apparsa sul quotidiano di Trieste “Il Piccolo” nel 1995 (oltre vent’anni fa, ma allora forse
era più facile parlare di queste tematiche senza scontrarsi col muro dell’ortodossia “scientifica”) dell’antropologo Charles
Goodhart allora presidente della Linnean Society di Londra secondo cui la nostra specie avrebbe avuto origine nelle regioni
boreali e la pelle chiara, mentre man mano che si spostava verso sud, avrebbero avuto origine le popolazioni scure per
adattarsi alla maggiore irradiazione solare, cioè l’esatto contrario di quanto predica oggi l’Out of Africa. Il motivo di ciò è
che mentre l’aumento della melanina è indispensabile per proteggersi dalla radiazione solare delle regioni tropicali, la
perdita di pigmento spostandosi verso nord, non è necessaria. Logico, ma la logica può poco contro l’imposizione forzata di
un’ortodossia ideologica.
Il 17 febbraio il nostro Matt Martini ha pubblicato sempre su MANvantara un post che riferisce del fatto che gli scienziati
dell’università di Bristol, grazie alla tecnologia 3 D e a 500 ore di lavoro, partendo dalla mummia, hanno ricostruito il volto
della regina egizia Nefertiti, moglie del faraone Akenaton e matrigna (forse madre) di Tutankhamon. Huffington Post, che
ha riportato la notizia il 12 febbraio, ha criticato la ricostruzione perché la regina appare “troppo bianca”. Cioè i ricercatori
di Bristol non si sono piegati alla moda imperante della negrizzazione a tutti i costi.
Noi sappiamo che gli antichi Egizi erano caucasici: gli egiziani odierni presentano una qualche traccia di ibridazione con
elementi subsahariani, ma nelle mummie di età faraonica, ci ha dimostrato l’analisi del DNA, non compare nulla di simile,
non solo ma le élite avevano caratteristiche più marcatamente europee del resto della popolazione, ma l’evidenza storica e
scientifica può ben poco di fronte al “politicamente corretto”. Una notizia che si appaia bene con questa: da “La cruna
dell’ago” del 18 febbraio apprendiamo che la UE ha escluso la città ungherese di Székesfehtiésvàr dalla competizione per
aggiudicarsi il titolo di capitale europea della cultura 2023, perché “troppo bianca”. Provate a immaginare che qualcuno
decidesse di escludere da una competizione di qualsiasi genere una città africana per l’eccessiva presenza di neri:
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immaginate le urla indignate e le accuse di razzismo. Questo gesto della sedicente Unione Europea che è l’Europa tanto
quanto un tumore è l’uomo che ne è affetto, ci permette di comprendere bene cosa è in realtà il cosiddetto
antirazzismo: razzismo e odio anti-bianco.
MANvantara riporta due post, da msn.com e da “La Repubblica” (quest’ultimo condiviso da Axis Mundi), entrambi del 23
febbraio, che ci parlano di una ricerca condotta sulle pitture rupestri spagnole delle grotte di Pasiega, Maltravieso e Ardales,
che raffigurano animali, impronte di mani e segni colorati in nero e ocra. La datazione dei pigmenti (suppongo col metodo
del carbonio 14) le fa risalire a 64.000 anni fa, ma all’epoca l’uomo sapiens sapiens, l’uomo di Cro Magnon non era ancora
presente in Europa, quindi esse possono essere state opera soltanto degli uomini di Neanderthal, finora ritenuti non ancora
capaci di raffigurazioni artistiche.
Secondo il geoarcheologo Diego Angelucci la scoperta dimostra che “l’uomo è diventato “umano” prima di quanto
immaginavamo”.
Io penso che in realtà non vi sia troppo da sorprendersene. In tempi relativamente recenti abbiamo avuto prove convincenti
del fatto che questo nostro antenato (nostro, noi e gli asiatici ne condividiamo l’impronta genetica, ma non così gli africani)
è finora stato un grande sottovalutato: ricordiamo la scoperta del doppio cerchio di stalagmiti, la più antica struttura
architettonica e verosimilmente il primo tempio conosciuto al mondo, ritrovato nella grotta di Bruniquel nella Francia
meridionale, oppure il ritrovamento di El Sidron in Spagna, dove nella placca dentaria dei resti di un uomo affetto da un
ascesso dentario e e da un parassita intestinale sono state trovate le tracce del consumo di penicillum da cui si è ricavata la
penicillina, e di corteccia di salice, che contiene acido salicidico, il principio base dell’aspirina.
I rudimenti della farmacopea moderna erano già dunque noti a questi antichi uomini.
Scusate tanto, ma tutto ciò non autorizza il sospetto che proprio dalla loro eredità ci derivi quel guizzo di intelligenza e di
creatività in più che condividiamo con gli asiatici, ma che manca assolutamente ai neri africani?
Sempre sull’argomento Neanderthal, MANvantara presenta il link in data 22 febbraio al libro Mio caro Nanderthal,
trecentomila anni di storia dei nostri fratelli di Silvana Condemi e François Savater.
Il 20 febbraio Michele Ruzzai ha postato un articolo ripreso da “Il secolo XIX” del luglio 2017. Una ricerca del genetista
David Reich conferma l’origine siberiana degli Indoeuropei. E’ forse il colpo decisivo alla teoria che li voleva discendenti
da agricoltori di provenienza mediorientale che ho più volte criticato, e conferma che le nostre radici vanno cercate a
nord. “Le scienze” on line del 22 febbraio riporta la notizia della ricerca di David Reich, ma MANvantara stavolta l’ha
battuta di due giorni.
L’idea dell’origine non solo delle genti indoeuropee e caucasiche, ma dell’intera specie umana nel lontano nord, nella
regione polare, si trova del resto nella mitologia di tutti i popoli, con una costanza e una persistenza che gli antropologi Out
of Africani si guardano bene dal provarci nemmeno a tentare di spiegare. Ce lo ricorda il libro di William F.
Warren Paradise Found recensito da Michele Ruzzai il 25 febbraio.
EurekAlert del 20 febbraio ci da una notizia che per me è fonte di grande soddisfazione: una ricerca dell’Università
dell’Arizona ha dimostrato che l’eruzione del vulcano Toba in Indonesia di 70.000 anni fa non ha provocato nessun
“inverno nucleare”. E’ un altro pezzo dell’Out of Africa che se ne va, perché secondo questa “teoria” l’inverno prodotto
dall’eruzione del Toba avrebbe portato all’estinzione tutti gli esseri umani allora esistenti, tranne un pugno di superstiti
africani da cui ci si vuole dare a intendere che tutti noi discenderemmo.
Tra la fine di febbraio e i primi di marzo, diversi post riportano l’attenzione sulle impronte cretesi di 5,7 milioni di anni fa.
Al riguardo vi ho già spiegato la mia opinione, che non siano umane ma ominidi, il che però non significa che siano poco
importanti, mettono definitivamente in crisi l’Out of Africa, perché l’idea che l’uomo sarebbe nato nel Continente Nero si
basa sull’assunto, oggi rivelatosi falso, che solo lì sarebbero vissuti i nostri parenti ominidi, così come mettono ancor più in
crisi questa “teoria” gli antichissimi strumenti litici rinvenuti in India, che ci fanno intravedere una remota umanità lontana
dal continente africano risalente a centinaia di migliaia di anni or sono.
Certamente, data la vastità del materiale presente sui gruppi FB e la complessità delle tematiche trattate, poteva uscire da
questa panoramica un articolo diverso da questo, diciamo che mi sono tracciato un percorso che non sostituisce la lettura
dell’ampio materiale a cui vi rinvio.
Per il momento, interrompiamo qui per non rendere questo testo chilometrico. In ogni caso, è impossibile non notare che
l’interesse per la tematica delle origini è nei nostri ambienti più vivo che mai, è il segno di una consapevolezza della nostra
identità che si oppone e continuerà a opporsi con tutte le sue forze alla trasformazione della nostra gente in una massa
anonima di sradicati.
NOTA: A sinistra la ricostruzione del volto della regina egizia Nefertiti realizzata a partire dallo studio della mummia,
presenta una discreta somiglianza con il celebre busto conservato a Berlino. Questa ricostruzione è stata contestata dai soliti
razzisti anti-bianchi di sinistra perché sarebbe “troppo bianca”. Al centro, il vero volto dell’uomo di Neanderthal, a sinistra
la copertina del libro Mio caro Nanderthal, trecentomila anni di storia dei nostri fratelli di Silvana Condemi e François
Savater.

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Una Ahnenerbe casalinga - settantaduesima parte –

Forse potrà sembrare strano, ma, sebbene la parte precedente, la settantunesima parte del nostro lavoro sia stata dedicata
all’aggiornamento dell’attività dei gruppi FB e si sia trattato di un articolo di maggiore ampiezza del solito, anche stavolta
sarà opportuno procedere sulla stessa falsariga. Il motivo di ciò, in realtà è semplice: la scorsa volta mi sono dovuto fermare
alla fine di febbraio per evitare che l’articolo diventasse chilometrico e, come vi sarete accorti, in realtà mi sono limitato a
farvi un rendiconto del lavoro del solo MANvantara trascurando gli altri gruppi. Certamente, è vero che quello del nostro
amico Michele Ruzzai affiancato dalla validissima Cristina Gatti è un po’ il principale di questi gruppi, il primo e quello
maggiormente seguito, e che molti post compaiono contemporaneamente su più di un gruppo, ma certamente la sintesi fatta
nell’articolo precedente non può vantare la completezza.
Non sarà forse fuori luogo cominciare con il darvi un breve sunto della serie di conferenze con scadenza mensile (l’ultimo
venerdì del mese) che sto tenendo qui a Trieste alla Casa del Combattente. Venerdì 30 marzo, per la verità, su richiesta di
Gianfranco Drioli, ho interrotto la serie delle conferenze sulla questione delle origini per ripresentare quella sulle Due facce
del risorgimento che conoscete già, perché ve ne ho presentato il testo suddiviso in due articoli su “Ereticamente”. Una
concessione – capirete – che bisognava pur fare a un ambiente tipicamente patriottico.
Andiamo alquanto fuori dalla tematica delle origini, ma sarà comunque opportuno dirvi che rispetto alla precedente
versione della conferenza, ho dovuto fare un errata corrige di importanza non secondaria. Devo la segnalazione a Giorgio
Rustia, di cui ricorderete che ho recensito su “Ereticamente” il libro Atti, meriti e sacrifici: ci sono le tracce documentali di
un ordine impartito ai massimi livelli dello stato austriaco nel 1867. Come si ricorderà, in quell’anno, in conseguenza della
guerra austro-prussiana (per noi terza guerra d’indipendenza, che ci fruttò l’annessione del Veneto) e l’esclusione
dell’Austria dalla Confederazione Germanica, si ebbe una generale riorganizzazione dello stato austriaco, con l’elevazione
dell’Ungheria a regno autonomo. Francesco Giuseppe aveva dato ordine di pervenire a una graduale eliminazione
dell’elemento italiano nelle terre ancora sotto il dominio della corona austriaca, favorendo l’elemento slavo. Una decisione
dal suo punto di vista pienamente logica, poiché le guerre del 1859 e del 1866 avevano dimostrato che l’Austria era
destinata quasi inevitabilmente a perdere le terre popolate da italiani.
La prima guerra mondiale fu una guerra sbagliata, come dimostrò il trattamento inflittoci dagli “alleati” franco-anglo-
americani al tavolo della pace, ma lo sarebbe stata anche una nostra partecipazione al conflitto nell’ambito della Triplice
Alleanza. Eravamo fra l’incudine e il martello, e non c’era una decisione “giusta” da prendere.
Il mito dell’ “Austria, Paese ordinato” da cui sono affetti molti triestini, ed è semplicemente la versione locale del disgusto
di essere italiani che settant’anni di repubblica democratica sono riusciti a provocare, è un’utopia, la nostalgia per qualcosa
che non è mai esistito.
Io vi metterò a disposizione quanto prima su “Ereticamente” i testi di queste conferenze, il problema – a dire il vero – è
trovare uno spazio di tempo fra le molte tematiche, forse troppe, che sto affrontando sulla nostra testata e che
inevitabilmente si accavallano, senza contare che, ad esempio, quella dedicata alla smentita dell’Out of Africa, è un testo di
quasi 8.000 parole, che ho dovuto suddividere in tre articoli.
Vediamo ora di analizzare l’attività dei gruppi FB, facendo sempre riferimento principalmente a MANvantara, che non è
soltanto il gruppo che ha inaugurato la tendenza e rimane quello più diffuso, che ha recentemente superato la quota di 1400
membri, ma è anche quello dove le informazioni di carattere paleoantropologico sono presentate con maggiore completezza.
Teniamo sempre presente che, però che questo gruppo si occupa di una realtà ad ampio spettro nella quale la tematica delle
origini si intreccia con ricerche spirituali ed esoteriche. Io qui, come ho fatto le volte scorse, mi limiterò a esaminare i soli
contributi di carattere paleoantropologico, e tengo a sottolineare che questa mia esposizione è ben lontana dal sostituire un
esame diretto dell’attività del gruppo, dove molti lettori potranno trovare più di un motivo di interesse.
Recentemente Michele Ruzzai ha aggiornato il documento contenente le finalità del gruppo sotto forma di un diagramma
che riassume “la filosofia” di “MANvantara” e condensandola ulteriormente nell’acrostico NARSEN (No Africa – cioè
rifiuto dell’ipotesi “Out of Africa” – Razze Si – Evoluzione No).
Al riguardo devo dire che trovo quest’espressione assai gradevole perché da un lato sembra una parola del linguaggio elfico
tolkieniano, dall’altro pare richiamare il sarsen, la particolare pietra con cui è stata edificata Stonehenge. Tuttavia, se
andiamo a esaminare il contenuto, mentre per quanto riguarda le prime due sillabe darei un’adesione piena e incondizionata,
la terza richiede un discorso più complesso che non si può liquidare semplicemente con un si o con un no.

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Io ritengo che quella che correntemente chiamiamo “evoluzione” non rispecchi affatto la concezione del grande naturalista
Charles Darwin, ma che sia stata manipolata, falsata per renderla compatibile con l’ortodossia ideologica democratica. Per
prima cosa, Darwin parla di trasformazione delle specie nel tempo senza che questo implichi un giudizio di valore tipo
“sviluppo ascendente”. In secondo luogo in ordine logico, ma probabilmente più importante, la concezione darwiniana per
compatibilità con l’ideologia democratica, è stata castrata dei suoi aspetti essenziali, che sono la lotta per la sopravvivenza e
la selezione naturale; concetti che non vanno certo nel senso della democrazia, ma piuttosto in quello della
formazione naturale delle élite.
Terzo, ma non certamente d’importanza secondaria, è il fatto che la teoria darwiniana ci mostra come ogni essere vivente
normalmente lotta per diffondere nelle generazioni future il proprio genoma, non quello di chissà chi, considerazione che
taglia impietosamente le gambe a tutte le utopie cosmopolite, cristiane, democratiche, marxiste e va palesemente a dare
sostegno a quelle cose “brutte” (per un democratico) che possiamo chiamare nazionalismo o anche razzismo.
Ampliando il discorso, io penso che si possa dire che il metodo scientifico basato sull’osservazione dei fatti, la formulazione
di ipotesi in base ad essi, e l’ideazione di esperimenti per mettere le ipotesi alla prova, il metodo sperimentale “galileiano”
in altre parole (ma che ha precedenti molto più antichi di Galileo, basti pensare a Eraclito e Aristotele) sia l’unico che
permetta una vera “presa” sul reale, ma la “scienza democratica”, come credo di aver sufficientemente documentato nei sei
articoli compresi sotto il titolo Scienza e democrazia sempre su “Ereticamente”, non rispetta affatto questo metodo, è per
metà ciarlataneria fumosa, e per metà grossolana falsificazione.
Non avere compreso questo, e peggio ancora, nutrire un senso di inferiorità verso i democratici, quando sono loro a essere
sbugiardati dalla ricerca scientifica seria, significa mettersi in una posizione perdente.
Questa puntualizzazione, tengo a sottolinearlo caso mai ce ne fosse bisogno, non riguarda il gruppo MANvantara, il cui
lavoro non si può considerare altro che ottimo, e sulle cui pagine ho potuto postare anche i sei articoli su Scienza e
democrazia già apparsi su “Ereticamente”, ricevendo anzi da Michele Ruzzai un incoraggiamento in tal senso, poiché la
tematica non mi sembrava proprio in linea con quelle trattate dal gruppo.
Il 28 febbraio, Cristina Gatti ha postato un articolo da “Science” (science.sciencemag.org). Secondo le ricerche genetiche di
un team di ricercatori danesi e russi guidati da Eske Willerslev dell’università di Copenhagen, sembra che le popolazioni
europee abbiano manifestato una sostanziale uniformità genetica negli ultimi 37.000 anni.
Da segnalare, l’11 marzo la recensione di Claudio Lanzi del libro di Antonio Bonifacio L’uomo rosso e la tradizione. La
cosa più notevole però probabilmente è la copertina del libro, con una nativa americana dai lineamenti nettamente europidi
(si veda l’illustrazione). Ciò rimanda al discorso che abbiamo affrontato la volta scorsa, di una presenza “bianca” nelle
Americhe molto più antica di Colombo e dei Vichinghi.
Un post di MANvantara del 17 marzo segnala un nuovo articolo sulla ricerca di David Reich, questa volta su “The
Atlantic”.
Il 19 marzo “L’immagine perduta” ha pubblicato Le radici antiche degli indoeuropei di Michele Ruzzai, che è il testo della
conferenza da lui tenuta a Trieste il 27 gennaio 2016 (uno splendido modo, tra l’altro, di celebrare il “giorno della
memoria”).
Una fonte di particolare soddisfazione è poi l’articolo postato da Cristina Gatti il 27 marzo, ripreso da Biorxiv.org del
21. Si tratta di una ricerca di due biologi dell’Università della California, Arun Durvasula e Sriram Shankararaman.
Io credo di avervi già menzionato il fatto che a suo tempo le scoperte di Svante Paabo sulle ibridazioni tra sapiens,
neanderthal e denisoviani, avevano dato esca ai soliti imbecilli esaltatori di tutto quanto è colorato, di celebrare la “pura
linea sapiens” africana in confronto a noi europei e asiatici, ibridi di Neanderthal e di Denisova. Le ricerche dei biologi
dell’Università di Buffalo hanno poi rilevato la presenza nel DNA dei neri subsahariani dell’eredità di una “specie
fantasma” non sapiens. Grazie all’archeologa italiana Margherita Mussi e alle sue ricerche in Etiopia, oggi possiamo
ragionevolmente ipotizzare che questa “specie fantasma” non fosse altro che l’homo erectus rimasto immutato in Africa
mentre in Eurasia diventava il più progredito heidelbergensis, e dava poi luogo alla tripartizione Cro Magnon-Neanderthal-
Denisova.
Bene, ora grazie a quest’ultima ricerca, sappiamo che la proporzione di geni non-sapiens nei neri subsahariani è dell’8%, la
più alta riscontrata in qualsiasi gruppo umano.
Il 28 marzo un post ripreso da Storia Controstoria mette a fuoco un personaggio ancora poco conosciuto, l’uomo di
Denisova, i cui resti furono scoperti nell’omonima grotta siberiana nei monti Altai nel 2008, e che ha lasciato la sua
impronta genetica nelle popolazioni asiatiche e australiane. Stando alle ricerche di un team di archeologi australiani guidati
da Chris Clarckson, i primi insediamenti umani nella grande isola-continente sarebbero molto più antichi di quanto si
pensasse, risalendo a 65.000 anni fa, 20.000 anni prima della data finora ammessa, i protagonisti di questa prima
colonizzazione, però, in base alle ricerche genetiche del genetista Richard Roberts dell’università di Wollong, non sarebbero
stati i sapiens classici, ma gli uomini di Denisova, che avrebbero lasciato una traccia molto forte nel DNA delle popolazioni
aborigene. La storia della nostra specie è forse in gran parte ancora da scrivere, e si adatta sempre meno al semplicistico
schema dell’Out of Africa.

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Il 18 marzo, Michele Ruzzai segnala la pubblicazione da parte di Thule Italia del libro di Kurt Pastenaci La luce del nord, le
fondamenta nordiche dell’Europa. Per il momento di questo testo siamo informati solo di titolo, autore e immagine di
copertina, ma noi sappiamo che le origini dell’uomo europeo e caucasico e forse dell’intera specie umana, le troveremo più
facilmente nel nord boreale che non in Africa. Non a caso, il 30 marzo sempre Michele Ruzzai ha postato un link con un
sito che si chiama “White People Origins, not out of Africa”, ma ovviamente il discorso non finisce qui.
Il 31 marzo un post ci ricorda i Kalash, gli ultimi pagani d’oriente, dai tratti fortemente europidi, dagli occhi azzurri e la
pelle chiara, mai islamizzati, mai piegati, ci ricordano cosa doveva essere l’Asia centrale migliaia di anni fa, prima
dell’espansione mongolica e di quella islamica.
Un post del 1 aprile recensisce il libro La fine di Atlantide dei coniugi Rand e Rose Flem-Ath. Senza entrare nel merito
dell’ipotesi che identifica Atlantide con l’Antartide, sulla quale si potrebbero avanzare seri dubbi, si può ricordare che prima
dei due coniugi americani, molti anni prima, essa è stata avanzata da un ricercatore italiano, Flavio Barbiero nel libro Una
civiltà sotto ghiaccio.
Il 28 marzo, Cristina Gatti ha postato un articolo del genetista David Reich, di cui vi riporto alcuni stralci:
“Razza” potrà anche essere considerata un costrutto sociale, ma negare le differenze genetiche dei gruppi ancestrali è
“indifendibile”. Le persone ben intenzionate che negano la possibilità di sostanziali differenze biologiche tra le popolazioni
umane si stiano scavando una posizione indifendibile, che non sopravviverà all’assalto della scienza”.
E’ chiaro? La scienza genetica dimostra l’esistenza delle razze e smentisce i dogmi della democrazia.
Due post del 2 aprile riprendono argomenti che MANvantara ha già affrontato in precedenza, ma, data l’importanza delle
tematiche, un richiamo, sia pure breve, non sarà fuori luogo. Il primo, ripreso da “Il fatto storico” riguarda la popolazione di
allevatori e cavalieri dell’Età del Bronzo originari delle steppe eurasiatiche il cui DNA costituisce oggi la componente
principale del genoma degli europei moderni. Gli archeologi li hanno denominati Jamna, ma noi potremmo chiamarli
benissimo Indoeuropei. In ogni caso la tesi “nostratica” che ci vuole discendenti di “pacifici” agricoltori mediorientali (che
“stranamente” sembra creata apposta per demolire l’immagine guerriera di sé che gli Europei avevano fino alla seconda
guerra mondiale), ne esce totalmente smentita.
L’altro post, ripreso da “La crepa nel muro” riguarda un’altra scoperta di cui avevamo già parlato, il ritrovamento in India di
strumenti litici risalenti a 385.000 anni fa, che ha portato ricercatori “ortodossi” a concludere che “l’uomo deve essere
uscito dall’Africa molto prima di quanto si pensasse”. E se l’uomo non fosse affatto uscito dall’Africa, ma nato in Eurasia?
Questi ricercatori ricordano molto gli astronomi del XVI e XVII secolo che complicavano all’assurdo il “sistema del
mondo” per cercare di rendere le nuove osservazioni compatibili con il dogma geocentrico imposto dall’ortodossia cattolica
allora dominante.
Il 6 aprile un post ripreso da sciencenordic.com riporta la notizia dell’analisi del DNA di uno scheletro vecchio di 37.000
anni ritrovato in Russia, l’uomo di Kostenki. Risultato? Le popolazioni oggi viventi più simili a questo antico uomo e al
popolo di cui faceva parte, sono gli Scandinavi. Abbastanza per far ritenere che il popolamento dell’Europa sia avvenuto da
nord verso sud, al contrario di quanto di solito ci raccontano.
Io credo che l’importanza di questa scoperta non possa essere sopravvalutata. Noi abbiamo visto che riguardo all’origine
dell’umanità si confrontano le due tesi antitetiche dell’origine africana e dell’origine boreale. Quali sono le debolezze, i
buchi, la tendenziosità dell’Out of Africa, il dogma “ufficiale” sulle nostre origini, creato non sulla base di presupposti
scientifici ma per motivi ideologici “antirazzisti”, l’abbiamo visto e lo stiamo vedendo. A favore dell’ipotesi boreale vi sono
i miti e le tradizioni di tutti i popoli, con un’unanimità che la “scienza ufficiale” si rifiuta di prendere in considerazione, ma
dovrebbe pur cercare di spiegare in qualche modo, e osservazioni come quelle dello studioso indiano Tilak che ha notato nei
Veda, i libri sacri dell’induismo, la descrizione di fenomeni astronomici come potrebbero essere osservati solo al disopra
del circolo polare, ma non disponiamo di prove archeologiche, e il motivo è chiaro: se abbiamo avuto origine nell’area
boreale in un’epoca in cui il clima era molto diverso da quello attuale, le prove archeologiche sono andate distrutte o sepolte
sotto la spessa cappa glaciale che oggi ricopre quelle terre. Bene, oggi forse siamo arrivati al punto che quello che non può
dirci l’archeologia, ce lo dirà la genetica.
Il 5 aprile, un post di Cristina Gatti riprende da “focus.it” una questione di cui abbiamo già parlato: I neri subsahariani, ben
lungi dal rappresentare la linea sapiens pura, hanno una percentuale di geni “non sapiens” pari all’8%, la più alta che si
riscontri in qualsiasi popolazione umana attuale.
Un post dell’11 aprile ripreso da “Il secolo XIX” fa il punto sulle rappresentazioni dell’uomo di Neanderthal nei testi
scientifici, scolastici e divulgativi lungo l’arco di un secolo e mezzo. Dalla raffigurazione di un essere scimmiesco che poco
o nulla aveva di umano, si è passati poco per volta a rappresentarlo sempre più umano, come l’uomo a pieno titolo che oggi
sappiamo che certamente era. Lasciamo che si goda questo momento che forse non durerà. Sappiamo che era antenato
nostro e degli asiatici, ma non dei neri e oggi, a opera dei razzisti anti-bianchi di sinistra tira una terribile aria di
denigrazione di tutto quanto è “bianco” o comunque non subsahariano.
Noi possiamo rispondere soltanto con la difesa integrale della nostra identità etnica e storica.
NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra la copertina del libro di Kurt Pastenaci La luce del nord, le fondamenta nordiche
dell’Europa. Al centro, quella del libro L’uomo rosso e la tradizione di Antonio Bonifacio. Si notino le caratteristiche
210
europidi della giovane nativa americana. A destra, la locandina della conferenza di Michele Ruzzai sugli Indoeuropei del
27.1.2016, il cui testo è stato recentemente riproposto da “L’immagine perduta”.

Una Ahnenerbe casalinga, settantatreesima parte – Fabio Calabrese


ereticamente.net/2018/05/una-ahnenerbe-casalinga-settantatreesima-parte-fabio-calabrese.html

Io credo che nessuno di voi avrà motivo di risentirsi se affermo che questa serie di articoli sull’eredità degli antenati, la
considero ormai “la mia” rubrica con una scadenza bisettimanale più o meno fissa sulle pagine di “Ereticamente”.
Può forse costituire una sorpresa il fatto che questo carattere di “rubrica” sia stato assunto da una serie di articoli che
riguardano il tema delle origini con riferimento a scienze come la paleoantropologia, l’archeologia, la genetica, che non
sono certo la politica, la cronaca nera, il gossip, ma si pensi a quale immenso territorio inesplorato è in realtà il nostro
passato. Qualcuno ha fatto un paragone che, lo confesso, mi piace molto: immaginiamo di disporre la scala dei tempi che ci
separa dalle origini più remote in una dimensione spaziale, attraverso il corpo di un uomo. L’origine dell’universo si
porrebbe all’estremità della mano sinistra, la formazione del sistema solare verso l’asse del corpo, un po’ spostata sulla
destra. Le origini della vita cadrebbero sul braccio destro, più o meno all’attaccatura della spalla. Dall’avambraccio al polso,
avremmo la lunga epoca dei dinosauri. Con la mano destra inizierebbe l’era dei mammiferi. Nelle falangi delle dita
comparirebbero primati, ominidi, Homo, la lunga alba preistorica. La storia documentata, le civiltà conosciute
rappresenterebbero solo l’estremità delle unghie.
Ora provate a immaginare che il nostro ipotetico uomo decidesse di dare a queste unghie una limatina: tutta la storia che
compare nei nostri libri, le civiltà, le culture, gli imperi, svanirebbero nel nulla.
Precisamente per il carattere di rubrica che di fatto ha assunto questa serie di articoli, non sarà forse fuori luogo, prima di
procedere a considerare cosa c’è da dire stavolta sul fronte dell’eredità degli antenati, fare un po’ il punto della situazione.
Non vorrei parlare della situazione politica che si sta rivelando una farsa senza fine, tranne che per rilevare un fatto: che il
famoso accordo cinque stelle-Lega da tanti auspicato all’indomani delle elezioni del 4 marzo, si è di fatto rivelato
impossibile, esattamente come il sottoscritto aveva previsto in contrasto con quelle che erano le opinioni di gran lunga
dominanti all’indomani del voto (si veda il mio articolo Sulle barricate), e questo per un motivo preciso che
sembrava/sembra sfuggire ai più: i cinque stelle sono un falso movimento identitario e populista, e la condivisione con la
Lega di tematiche quali l’Unione Europea e l’immigrazione, è solo apparente, è un movimento costruito a tavolino per
tenere a sinistra la protesta, impedirle di diventare identitaria. In poche parole, il movimento di Grillo, Casaleggio e Di
Maio è una gigantesca truffa.
Veniamo ora a cose forse più limitate, più vicine a noi e meno squallide. Mi rendo conto di essere arrivato a un punto in cui
il lavoro che sto svolgendo per “Ereticamente” comincia a presentarmi delle difficoltà, e non perché manchino le cose da
dire, anzi… Ho quasi l’impressione che tematiche e argomenti diversi si affollino reclamando la rispettiva importanza e
urgenza. Ad esempio, sono quasi pentito di aver dato il via a una nuova serie di articoli, I volti della decadenza, spinto come
avete visto dall’irritazione perché l’agognato pensionamento è slittato di un anno (nel corso del quale certamente la scuola
italiana diventerà sempre di più un manicomio), e quindi dal desiderio di darvi almeno una rapida sintesi dei testi che avrei
voluto recensire con calma una volta terminata la mia attività lavorativa. Bene, dopo il primo articolo me ne sono usciti altri
quattro dalla tastiera, che vi presenterò man mano che mi sarà possibile.
Analogamente in lista d’attesa, La più bella del mondo, la serie di articoli dedicati alla “nostra” costituzione. E’ già pronta
una terza parte, che arriva fino all’art.75. Ne dovrà necessariamente seguire una quarta e forse una quinta, poi ci sono,
sempre in attesa del momento giusto, un paio di pezzi di Rilettura politica della Narrativa fantastica, tematica che non ho
intenzione di tralasciare. Cosa senz’altro più attinente alla tematica delle origini, vorrei riproporvi in forma di articoli i testi
delle due conferenze che ho tenuto qui a Trieste alla Casa del Combattente il 28 gennaio e il 23 febbraio. La prima, Ma
veramente veniamo dall’Africa?, è stata molto ampia, e il suo testo (24.000 parole all’incirca), è stato necessario
suddividerlo in tre articoli che vedrò di presentarvi quanto prima. Si tratta di cose che ho già trattato in questa rubrica, ma
penso sia utile rivedere le argomentazioni con uno sguardo d’insieme, perché un concetto che deve essere della massima
chiarezza, è che l’Out of Africa, la “teoria” della presunta origine africana della nostra specie, non è scienza, ma
ciarlataneria, fuffa pseudoscientifica creata a sostegno dell’ideologia democratica antirazzista (che poi a sua volta è
razzismo anti-bianco mascherato).
Per quanto riguarda il tema della seconda conferenza, Caucasici e indoeuropei, vi saprò dire, devo ancora lavorarci sopra. A
marzo ho bissato Le due facce del risorgimento di cui trovate già il testo su “Ereticamente”, mentre la prevista conferenza di
aprile è saltata per un impegno lavorativo. Probabilmente ci sarà qualcosa a fine maggio, poi il discorso andrà ripreso dopo
la pausa estiva.
Certamente ricorderete che nella settantaduesima parte vi ho parlato dell’acrostico NARSEN che sintetizza la filosofia del
gruppo MANvantara (No Africa, Razze Si, Evoluzione No) riguardo al terzo punto, facevo notare che l’idea corrente di
evoluzione è una deformazione del pensiero di Darwin, che vi inocula un ottimismo ascendente, “progressista” del tutto

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estraneo al pensiero del naturalista inglese, e contemporaneamente ne sottace aspetti essenziali: la lotta per l’esistenza,
l’implacabile legge della selezione che, essa sola, crea le forme superiori. Si tratta a mio parere di un esempio chiarissimo di
come la democrazia falsifica i risultati della ricerca scientifica.
Questi stessi concetti li ho riportati in un post che ho pubblicato nel gruppo, nell’intento di una critica che vuole essere
assolutamente costruttiva, giacché noi siamo in condizione di respingere lo sciocchezzaio ideologico democratico non in
nome di un rifiuto del metodo scientifico, ma al contrario, di una sua corretta applicazione, è esattamente l’atteggiamento
che ho più volte ribadito in Scienza e democrazia.
La risposta datami da Michele Ruzzai (almeno in parte un “atto dovuto” in quanto amministratore del gruppo) è di grande
interesse, e ve la riporto integralmente:
“Diciamo che la parte “Evoluzione No” della sigla N.A.R.S.E.N. è necessariamente recisa perchè sarebbe stato molto
difficile condensare tutti i concetti di “progressività” ecc… in due sole parole mantenendo la sigla finale con un grado di
accettabile “memorizzabilità” (passatemi questo termine); quindi è stata intesa nel significato che più generalmente le
viene attribuito dall’uomo della strada, ovvero quello di un andamento biologico ascendente. Anzi, a rigore, la parola
“evoluzione” in sè stessa non sarebbe nemmeno da demonizzare se pensiamo che la sua origine etimologica (dal latino
“volvere”) significa nulla più di uno “srotolarsi”, di uno “squadernarsi”, delle possibilità implicite che quella data forma,
“in nuce”, possiede già a priori. Ed appunto in questa veste tale parola è senz’altro del tutto accettabile, semprechè se ne
rispetti il suo significato profondo che, oltre a non possedere alcun elemento di “progressività”, non conceda però troppo
campo nemmeno all’idea di una “plasticità” assoluta secondo un’ottica di totale trasformismo delle forme viventi (anche se
emendata, come dicevo, di ogni significato ascendente); sottolineerei, infatti, che il “seme” contiene le possibilità di
“evoluzione” di quella data forma e non di tutte indistintamente, anche se, d’altro canto, sono propenso a credere che un
rigido “fissismo” delle specie presenti un certo grado di incompatibilità con una visuale “involutiva”, che ipotizza la
derivazione per regressione di forme decadute da più alti ceppi. A mio parere, cioè, è opportuno assumere una posizione di
equilibrio tra diverse istanze. E’ ammissibile un certo grado di elasticità nello “squadernarsi” di ciascuna delle varie
forme viventi, elasticità che però si estrinseca necessariamente entro e non oltre un dato raggio di distanza dal rispettivo
“archetipo sottile” centrale (e direi anche dalla sua “proiezione” biologica più diretta ed ortogonale su questo piano della
manifestazione): quindi un’area che, nella dinamica involutiva, può essere occupata da forme non troppo diverse tra loro,
le quali però non possono superare la circonferenza esterna che rappresenta un fossato invalicabile verso altri filoni
biologici”.
In poche parole, c’è probabilmente un limite alla plasticità delle forme viventi che non può essere superato. Noi possiamo,
con opportune pratiche di allevamento e selezione, trasformare i discendenti di un lupo in cagnolini (le variazioni delle
specie viventi introdotte dall’allevamento umano sono quasi sempre degenerative), ma non possiamo farne dei gatti.
Come sempre, Michele si segnala per competenza, saggezza e equilibrio, peccato solo che non scriva un po’ di più per
“Ereticamente”.
Come sempre, anche nel periodo che prendiamo adesso in esame (il mese di aprile, poi i tempi della pubblicazione
dell’articolo saranno quelli che saranno, e occorre rinunciare all’idea di una pubblicazione in tempo reale), il lavoro dei
gruppi FB è molto ricco di spunti di grande interesse. Tenete presente che, come al solito, faccio riferimento principalmente
a MANvantara e alle tematiche paleoantropologiche, ma che il gruppo gestito da Michele Ruzzai e Cristina Gatti si occupa
di molto altro: tradizione, spiritualità, esoterismo, un’ “offerta formativa” veramente ricca.
L’8 aprile, Michele Ruzzai ha postato un commento al libro di Guido Barbujani Europei senza se e senza ma (Bompiani
2008). Ora, bisogna dire Barbujani è un antropologo della “scuola” più strettamente “politicamente corretta” Out-of-
africana e antirazzista che possiate immaginare – un dei suoi testi, ad esempio s’intitola L’invenzione della razza. Tuttavia,
fa notare Michele Ruzzai, anche in un testo come questo si possono trovare degli spunti interessanti e suscettibili di
interpretazioni di tutt’altro segno là dove questo ricercatore fa notare che le tracce di eventuali migrazioni verso l’Europa
dal nord e dall’est eurasiatico sarebbero oggi impossibili da trovare perché distrutte od occultate dalle glaciazioni.
Devo comunque dirvi che al di là dell’effettivo contenuto del testo, trovo questo titolo estremamente gradevole se lo
interpretiamo in termini di politica attuale: Europei senza se e senza ma è precisamente quel che dovremmo essere, senza
derive “occidentaliste” pro-yankee né islamofile (Anche sapendo che quell’organizzazione parassitaria nota come UE non è
di certo “l’Europa”), ma qui si aprirebbe un discorso che ci porterebbe molto lontano.
In data 10 aprile “L’immagine perduta”, il gruppo amministrato da Giuseppe Di Re, ha pubblicato I tempi preistorici. Si
tratta del primo capitolo del classico di Tilak La dimora artica nei Veda, di cui vi ho già parlato più di una volta. Quanto
meno, si può ribadire che negli ambienti “nostri” il cuore batte per l’origine boreale contro l’ipotesi africana, ma in ogni
caso “la scienza ufficiale” che rifiuta quest’idea, non è in grado di spiegare come mai nei libri sacri induisti vi sia la
descrizione di fenomeni astronomici osservabili solo alle latitudini del circolo polare.
Parliamo di occhi azzurri, capelli biondi, pigmentazione chiara, magari efelidi, qualcosa di tipico delle popolazioni
caucasiche (dove però non mancano le genti brune) e che, se si parte dal presupposto dell’origine africana, rappresentano un
vero mistero genetico. Dell’origine di queste caratteristiche, MANvantara si occupa in due post, uno di Matt Martini del 10
aprile che è un link al sito Agi.it, e uno del 25 di Cristina Gatti, che riporta il link a un articolo su “The Guardian”. Il primo
212
si riferisce al colore azzurro degli occhi, che pare dipendere da una singola mutazione che sarebbe avvenuta fra 6000 e
10.000 anni fa, e ci permette di risalire a un singolo antenato che tutte le persone con gli occhi azzurri avrebbero in comune.
Diverso il caso del colore dei capelli, che riflette una pluralità genetica molto complessa, una complessità genetica tra l’altro
incompatibile con l’idea di un’origine africana recente.
D’altra parte, se ricordate, abbiamo introdotto questo discorso una delle volte precedenti: nell’ipotesi di uno spostamento
dalle regioni boreali ai tropici, l’esigenza di sopportare una maggiore irradiazione solare, avrebbe portato alla comparsa di
epidermidi scure, mentre se l’espansione umana fosse avvenuta nella direzione contraria come pretende la “scienza
ufficiale”, la perdita di pigmento non sarebbe stata affatto necessaria. Ciò suggerisce l’ancestralità delle popolazioni
caucasiche, “bianche” rispetto agli altri gruppi umani.
Considerazioni di questo tipo, ricorderete, erano state esposte nel 1995 dall’antropologo Charles Goodhart allora presidente
della Linnean Society di Londra. Allora, queste cose si potevano ancora dire senza manifestare un particolare coraggio, ma
oggi i vincoli della political correctness, cioè dell’ortodossia imposta dalla democrazia si sono fatti più stringenti.
Riguardo a questa tematica, si può segnalare anche un post del 30 aprile che è in realtà il collegamento a un brano di
Adriano Romualdi, I capelli biondi nella Grecia antica, in realtà a sua volta uno stralcio della bellissima introduzione
a Religiosità indoeuropea di Hanns F. K. Gunther. L’impronta “bionda” degli antichi Greci dimostra in maniera
inequivocabile la provenienza nordica delle popolazioni, Achei e Dori, che colonizzarono la penisola ellenica.
Il 12 aprile un collaboratore di MANvantara, Pier Ferreri, ha caricato sul sito in formato PDF due volumi da tempo fuori
commercio, L’origine degli indoeuropei di E. De Michelis, e Arii e italici attorno all’Italia preistorica di G. Sergi. Si tratta
di due volumi di oltre 200 pagine ciascuno, e la lettura a schermo non riesce certo agevole. Diciamo che per quanto mi
riguarda si tratta di altri due testi, oltre a quelli di cui vi ho parlato/vi sto parlando in I volti della decadenza, da tenere da
parte in vista del momento in cui la quiescenza mi darà l’opportunità di una lettura più approfondita.

Per il momento, mi limiterò a riferire la mia opinione riguardo a entrambe le tematiche. L’origine degli indoeuropei, a mio
parere va ricercata nei cavalieri, allevatori e guerrieri eurasiatici che in età protostorica si riversarono sul nostro continente.
L’ipotesi di una derivazione mediorientale, secondo me è stata formulata, così come l’Out of Africa, per motivi prettamente
ideologici, per farci derivare da “pacifici” agricoltori piuttosto che da guerrieri e conquistatori, e per minimizzare l’abisso –
di certo non solo linguistico – che separa l’indoeuropeo dal semita.
Sulla seconda questione, grazie agli studi genetici, abbiamo oggi qualche certezza in più rispetto al passato. Gli Italici
antichi e gli Italiani odierni, almeno fin quando l’invasione travestita da immigrazione non avrà stravolto la nostra
fisionomia etnica, sono gente di stirpe caucasica appartenente alla famiglia indoeuropea. Non solo, ma contrariamente alle
menzogne e alla disinformazione che viene fatta circolare al riguardo, che vorrebbe dipingerci come un coacervo etnico
frutto di innumerevoli invasioni (che nella realtà hanno lasciato pochissime tracce genetiche), siamo una popolazione tra le
più geneticamente omogenee d’Europa, al punto che alcuni genetisti hanno parlato dell’Italia come di “un’isola genetica”.
Un post di Solimano Mutti del 13 aprile riprende una notizia di grande interesse dal sito francese “Science et avenir”. Una
spedizione anglo-belga, organizzata dall’università di Bradford, dall’università di Gand e dall’Istituto Marittimo delle
Fiandre andrà a esplorare quella vasta area oggi sommersa tra la Gran Bretagna e l’Europa continentale che conosciamo
come Dogger Bank, ma che nell’età glaciale era sicuramente emersa e ospitava varie popolazioni umane, e che gli
archeologi hanno ribattezzato Doggerland. Il coordinatore della spedizione sarà l’inglese Vince Gaffney (un nome che
abbiamo già incontrato in relazione alle ricerche sul “cuore neolitico” delle isole Orcadi).
Come ricorderete, su queste pagine vi ho parlato più volte di Doggerland e di questa “pagina mancante” della nostra storia
remota. Adesso è forse arrivato il momento di saperne di più. Lo stesso argomento è poi ripreso da Michele Ruzzai in un
post del 18 aprile, questa volta tratto da “Il secolo XIX”.
Sempre Michele Ruzzai il 13 aprile ha riportato su MANvantara il testo della sua conferenza Le radici antiche degli
Indoeuropei, recentemente riproposta anche da “L’immagine perduta”, come abbiamo visto. Ben fatto, Michele, questo tuo
lavoro merita di diventare un classico!

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Il 17 aprile Pier Ferreri segnala una conferenza indetta da Casapound per il 22 a Ostia Lido: L’inganno antirazzista, con la
partecipazione di Stelio Fergola, Tommaso Longobardi e Valerio Benedetti. Noi abbiamo potuto constatare anche troppo
spesso che quello che si spaccia per antirazzismo, in realtà non è altro che razzismo anti-bianco, masochistica denigrazione
della nostra etnia con cui il sinistrume-cattolicume assortito cerca di lavare il cervello della gente.
Un post del 19 aprile riporta una notizia tratta da ANSA.IT: sembra che 40.000 anni fa la grande caldera vulcanica dei
Campi Flegrei abbia prodotto una mega-esplosione che non causò l’estinzione delle popolazioni neanderthaliane
e sapiens (c’erano entrambi) che vivevano nella regione. Una notizia importante soprattutto perché incrina ancora di più
l’idea che l’analoga catastrofe del vulcano indonesiano Toba possa aver prodotto un’estinzione planetaria, idea che come
sappiamo, è uno dei capisaldi della sceneggiata pseudoscientifica dell’Out of Africa.
Il 25 aprile (giornata nefasta, ma da dedicare almeno a riflessioni controcorrente), Michele Ruzzai ha recensito il testo
dell’antropologo Claudio Pogliano che vorrebbe fare la storia dell’antropologia nel XX secolo L’ossessione della razza.
Giustamente, osserva Michele, non è il caso di parlare di ossessione ma di constatazione. Che le razze esistano e che le
differenze razziali siano riconoscibili a colpo d’occhio, questo è qualcosa che può vedere chiunque non si sia
deliberatamente appannato lo sguardo ubbidendo alle direttive di chi vuole in particolare l’estinzione di una razza, la nostra.
Ancora una volta, interrompiamo qui un’esposizione che sta rischiando di diventare davvero chilometrica. Come vedete, il
tema delle nostre origini è sempre sentito più che mai, e questa è un’ottima cosa: sapere chi realmente siamo e da dove
veniamo, è la base della lotta per difendere il futuro della nostra gente.
NOTA: Nell’illustrazione, a destra immagine di copertina del sito “White People Origins” di cui ho parlato nella
settantaduesima parte, al centro, la copertina del libro Europei senza se e senza ma di Guido Barbujani, a destra quella del
classico di Tilak La dimora artica nei Veda.
EreticaMente·Copyright © 2014

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Una Ahnenerbe casalinga, settantaquattresima parte

C’è un motivo per il quale sto tardando a mettere sulle pagine di “Ereticamente” i testi delle mie conferenze sulle origini, a
cominciare da quella del 28 gennaio Ma davvero veniamo dall’Africa?, che data la sua ampiezza ho diviso in tre parti. E
questo motivo è precisamente quello di riuscire a tenermi ragionevolmente al passo con l’attività del gruppi facebook che si
occupano della tematica delle origini, sottolineo ragionevolmente, perché riuscire ad arrivare a un tempo reale considerando
la nostra tempistica è praticamente impossibile.
Non basta, perché sto anche aspettando il momento giusto per piazzare nella nostra rubrica due approfondimenti importanti.
Uno riguarda il fatto che dei vari livelli che ho ritenuto di individuare riguardo alla tematica delle origini, dal livello più
antico a quelli più vicini a noi: origini della nostra specie, dei popoli indoeuropei, della civiltà europea, delle genti italiche, a
mezzo dei primi due va probabilmente collocato un livello intermedio, ossia le origini delle popolazioni caucasiche,
“bianche”.
Il secondo approfondimento è forse più “tecnico” e riguarda la natura di questi nostri antenati indoeuropei. Come li
dobbiamo concepire: cavalieri nomadi spinti incessantemente dallo spirito dell’avventura, dell’esplorazione, della
conquista, o come popolazioni sedentarie saldamente radicate nei loro territori, “sangue e suolo”. Oppure nell’uomo
indoeuropeo sono presenti entrambi questi aspetti?
Un problema che invece non si porrà, sarà quello di darvi il testo della conferenza del 23 febbraio, che è semplicemente il
montaggio di questi due approfondimenti.
Come se non bastasse, ultimamente ho creato io stesso un gruppo facebook dedicato alle tematiche delle origini, “L’eredità
degli antenati”. Si tratta in realtà di un atto dovuto, e dovuto da tempo, ho creato questo gruppo per raccogliere e rendere più
accessibili i miei testi usciti sulle pagine di “Ereticamente” sotto il titolo di Una Ahnenerbe casalinga. Chi di voi conosce il
tedesco, saprà che “Eredità degli antenati” è precisamente il significato di Ahnenerbe.
Tuttavia, non c’è motivo di limitarsi a questo. Prima di concentrare in questa rubrica tutti gli scritti di argomento storico-
archeologico pubblicati su “Ereticamente”, ne ho scritti diversi altri, L’origine degli indoeuropei, Popoli sull’orlo della
storia, e soprattutto Ex Oriente lux, ma sarà poi vero?, in cui mi sono dedicato a distruggere la leggenda della “luce da
oriente”, ossia la credenza che la nostra civiltà e la nostra cultura deriverebbero pressoché interamente da influenze
orientali, che la civiltà sarebbe nata nella cosiddetta mezzaluna fertile mediorientale e via dicendo, leggenda nata in parte
per la persistente influenza della bibbia, in parte rientrante in un vero e proprio programma di minimizzazione di tutto
quanto è europeo.
Anche questi testi li sto inserendo in “L’eredità degli antenati” in maniera da presentarvi una rassegna quanto più possibile
completa e che, ovviamente, aggiornerò di volta in volta, tuttavia il gruppo è aperto anche alla collaborazione di altri, a
patto che si tratti di cose pertinenti alla tematica.
Poiché vorrei evitare che chiunque metta qualunque cosa di attinenza dubbia con le questioni che ci interessano su questo
mio gruppo, ne ho impostato la privacy come “segreto”, ma se voi siete interessati, non avete che da chiedermi l’amicizia su
FB, e provvederò ad aggiungervi.
Adesso però riprendiamo l’esame di ciò che offrono in questo periodo i gruppi FB, partendo come sempre da MANvantara
che è il più ricco di spunti, partendo da dove ci siamo fermati la volta scorsa, cioè l’ultima decade di aprile.
Il 23 Pier Ferreri ha postato un video ripreso da un servizio di RAI 2 del 18. Il ritiro dei ghiacciai dovuto all’aumento in
tutto il mondo delle temperature, ha portato alla scoperta in Antartide di una singolare struttura piramidale. Potrebbe essere
una formazione naturale, oppure la prima prova tangibile della presenza in quello che è oggi il continente ghiacciato, di
un’antica civiltà umana, quella che diversi autori (ne abbiamo parlato la volta scorsa) identificano con l’Atlantide platonica.
Premesso che i cambiamenti climatici cui va oggi incontro il nostro pianeta per effetto delle attività umane sono di per sé un
fenomeno negativo che potrebbe portare a conseguenze disastrose, abbiamo forse almeno il vantaggio di poter conoscere
meglio la nostra storia remota, portando alla luce testimonianze fin qui sepolte sotto gli strati glaciali, e forse ritrovamenti di
grande interesse potrebbero emergere soprattutto nel nord boreale, e immagino, se emergessero le prove che esso e non
l’Africa è stato la culla ancestrale della nostra specie, i “democratici”, “antirazzisti” e “politicamente corretti” sostenitori
dell’Out of Africa, cosa sarebbero costretti a inventarsi.
Il 24 aprile “New Earth Circle Project” ripropone un testo classico, La dottrina delle quattro età di Julius Evola. Come
certamente vi rendete conto, anche se qui stiamo parlando di testi e dottrine tradizionali e non di teorie scientifiche in senso
stretto, è un importante e fondamentale richiamo contro tutte le ubbie progressiste.
Il 27 in un nuovo post si riparla delle impronte cretesi antiche di circa 5,7 milioni di anni fa. Adesso non ci soffermiamo,
visto che si tratta di un argomento che abbiamo affrontato diverse altre volte.
Abbiamo poi un PDF che in data 28.4 riporta un articolo (del 2003) di Philippe Rhuston (in inglese, ma vi do la traduzione
del titolo in italiano): Dimensioni del cervello, quoziente d’intelligenza e differenze razziali.
Gli antirazzisti, coloro che pretendono che le differenze razziali non esistano, che esse siano dei costrutti sociali e culturali
privi di una corrispondenza biologica, devono fare i conti non soltanto con il fatto che le razze umane sono chiaramente

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riconoscibili, ma anche che si caratterizzano per differenti dimensioni cerebrali e corrispondentemente a ciò, per diversi
livelli d’intelligenza.
Sempre il 28, c’è un link a un interessante articolo di Lescienze.it: Divisi dal DNA, il difficile rapporto tra archeologia e
genomica. In pratica, lo studio del DNA antico sta cambiando molte idee sul nostro passato un tempo date per scontate: ad
esempio, lo studio del DNA ha mostrato un cambiamento di popolazione avvenuto nelle Isole Britanniche con la transizione
tra neolitico ed Età dei Metalli laddove la somiglianza dei manufatti e delle usanze culturali avrebbe invece fatto pensare a
una continuità. Molte pagine della nostra storia più antica potrebbero essere tutte da riscrivere.
Ancora il 28 (quasi che con una giornata di intensa attività MANvantara volesse compensare l’aspetto infausto di questa
giornata che ci ricorda la scomparsa, il brutale assassinio di uno dei più grandi leader che l’Italia abbia avuto), c’è da
segnalare un post di Daniele Di Luciano, l’autore de L’origine dell’uomo ibrido. Il peccato di Sodoma non fu probabilmente
l’omosessualità, ma la zoorastia e/o l’accoppiamento con umanità inferiori, meno evolute, le cui tracce portiamo ancora nel
nostro DNA.
Il 1 maggio abbiamo due nuovi post nel gruppo, entrambi ripresi da “Ancient Origins”: il primo riguarda un recente
ritrovamento nell’isola di Saarema nel Baltico: i resti di due navi vichinghe assieme a vari oggetti e ossa umane,
imporrebbero oggi di retrodatare considerevolmente l’inizio dell’epoca di questi grandi scorridori dei mari nordici (e non
solo!), attorno al sesto secolo dopo Cristo. Il secondo riguarda invece il primo maggio stesso. Questa ricorrenza, oggi nota
soprattutto come “festa del lavoro”, è in realtà un’antichissima festività pagana che celebrava il ritorno della bella stagione,
nota come Floralia per i latini, e approssimativamente corrispondente al Beltane celtico, ma Calendimaggio (letteralmente le
calende, il primo giorno di maggio) è stato celebrato per tutto il medio evo, e non si trattava di una ricorrenza cristiana!
Ciò su cui però vorrei attirare la vostra attenzione, è la persona che ha linkato su “MANvantara” questi due articoli. Dietro
lo pseudonimo di Ahmed Alvarez, infatti non si cela null’altri che il sottoscritto. Questa strana falsa identità è nata da una
bizzarria della mia casella di posta, probabilmente infettata da un virus, per cui per un certo periodo, “Ahmed Alvarez”
risultava il mittente dei messaggi che inviavo. Ho preso la palla al balzo e deciso di usare “Ahmed” per costruire un profilo
facebook alternativo da usare in caso di blocchi o bannature. Per compensare l’effetto del nome arabo (Ahmed) e del
cognome iberico (Alvarez), ho messo come immagine di copertina e come immagine del profilo, delle figure vichinghe.
Intorno al 1 maggio stavo appunto scontando un periodo di blocco di trenta giorni, per di più in conseguenza di una frase
scritta anni fa.
Voi, come lettori di “Ereticamente”, mi conoscete. Sapete che io non insulto, non uso espressioni volgari o violente, e come
sono su “Ereticamente”, così sono anche su facebook, e certo non posto immagini pornografiche o truculente.
Questo è un discorso di carattere generale che non riguarda solo me: sono proprio le idee che danno fastidio o fanno
paura! Le mie idee, le nostre. Allora perlomeno rendiamoci bene conto di quanto precaria e soggetta a limitazioni sia la
libertà concessaci della democrazia.

Abbiamo poi una recensione di Michele Ruzzai del libro di Christophe Levalois La terra di luce, il nord e l’origine. Si
tratta di un testo non recente, pubblicato dalle edizioni Barbarossa nel 1988. Come si comprende facilmente, si tratta di un
libro “piuttosto agile” ci dice Michele, che si rifà alle origini nordiche secondo le tesi di Tilak, supportate dal raffronto con
una serie di miti e leggende provenienti da diversi contesti culturali.
Il 2 maggio Giuseppe Di Re ha condiviso un articolo di Giuseppe Acerbi sul sacrificio animale nella religione, dove si
riparla della festa romana di Floralia di cui ho parlato il giorno prima, ma forse l’aspetto più interessante è una riflessione di
Acerbi sulla parola “paradiso”, termine che come sappiamo è la traduzione greca dell’ebraio “eden” impiegato nella Genesi.
Nella bibbia, ma non solo nella bibbia, c’è l’idea della sede primordiale dell’umanità come di un luogo lussureggiante che i
nostri remoti antenati furono costretti ad abbandonare in seguito a un evento catastrofico. Acerbi fa notare che questo
termine deriva dall’indo-iranico Para-deça che significa regione suprema. Una riflessione viene spontanea: questa regione
“suprema” non potrebbe essere l’alto nord un tempo dotato di un clima molto diverso da quello attuale?
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Un altro post proveniente da fonti indiane (in inglese), scroll.in, postato da Mirai Helia Naali (siamo internazionali a quanto
pare) riferisce di uno studio ad ampio raggio che ha coinvolto tra gli altri Harward, il MIT, l’Accademia russa delle Scienze
mettendo all’opera 92 scienziati, sulla genetica delle popolazioni indiane mediante lo studio di centinaia di DNA antichi. A
quanto pare, l’attuale popolazione indiana deriverebbe dalla fusione di tre gruppi la cui eredità è presente nel sub-continente
in varia misura: cacciatori-raccoglitori sud-asiatici che corrisponderebbero al tipo dravidico, agricoltori di provenienza
iranica e cavalieri-allevatori delle steppe dell’Asia centrale. Questi ultimi sarebbero gli “ariani” veri e propri. La loro
impronta genetica è presente nell’India settentrionale ma non in quella meridionale. Inoltre questa differenza genetica
sarebbe connessa con il sistema delle caste, le caste superiori, come i bramini, avrebbero un’impronta “ariana” nettamente
più marcata.
Il 2 maggio troviamo un nuovo post su di una questione di cui vi ho già parlato le volte scorse, un articolo di “National
Geographic” che riferisce del ritrovamento di utensili di pietro nelle Filippine, assieme ai resti di un rinoceronte macellato,
risalenti a 700.000 anni fa. Questo porta a ipotizzare, secondo “National Geographic” che l’uomo sia uscito dall’Africa
molto prima di quanto si pensasse. E se l’uomo non fosse affatto uscito dall’Africa ma nato in Eurasia?
Un post del 2 maggio tratta un’altra questione non nuova: gli studi del DNA hanno dimostrato l’origine europea di
Tutankhamon e degli altri faraoni egizi, ma il 3 abbiamo una sorpresa. Secondo quando riferisce Mike Mayers riportando un
articolo da Indo-european.eu, nuovi studi genetici indicherebbero che la civiltà della Valle dell’Indo non avrebbe origini
dravidiche come perlopiù si è creduto, ma “ariane”.
Si riparla del tema delle origini iperboree. Un post del 3 maggio riporta il PDF di Iperborea patria, un articolo di
Gianfranco Drioli già apparso su academia.edu, che sintetizza la tematica già affrontata dall’autore nel libro Iperborea, la
ricerca senza fine della patria perduta. Poi, l’8 è la volta de “L’immagine perduta” che riporta su questo tema un classico
articolo di Julius Evola, Il mistero dell’Artide preistorica, a cui “L’immagine perduta” affianca le recenti scoperte del
paleontologo russo Vladimir V. Pilutko, che avrebbe trovato tracce di presenza umana nell’Artico risalenti a 45.000 anni fa
– le carcasse di un mammut e di un lupo macellati e recanti i segni di punte di freccia – scoperte di cui vi ho già parlato in
precedenza.
Abbiamo poi un altro post che si occupa di un argomento anch’esso non nuovo su queste pagine. Abbiamo parlato più di
una volta delle mummie dalle caratteristiche europidi che sono venute alla luce nel deserto del Takla Makan nella regione
del Xinjiang nell’Asia centrale, oggi politicamente cinese, e del fatto che esse fanno supporre in quelle terre oggi abitate da
genti prevalentemente mongoliche, un’antica presenza caucasica ben più estesa. Il post richiama un articolo apparso nel
2015 su forbes.com, che ci segnala un fatto importante: l’analisi del DNA ha confermato: questi antichi “cinesi” erano
europidi strettamente affini agli Europei odierni.
Subito dopo, se avete la pazienza di leggere 158 pagine a schermo, troviamo il PDF del testo Dalla Skania alla S(i)kania, le
grandi migrazioni proto-germaniche di Francesco Branchina. Se le cose stanno come suppone questo autore, la radice
germanica è molto più estesa di quanto penseremmo presso i popoli europei, compresi quelli dell’area mediterranea.
Un post di Michele Ruzzai del 20 maggio ricorda una ricerca del biologo russo Sergej Zimov, prima del 10.000 avanti
Cristo, la Siberia settentrionale e l’artico oggi inabitabili, stando a quanto è possibile desumere dallo studio della densità
della biomassa fossile, e dalle datazioni con il carbonio 14, avevano una densità di forme di vita e una produttività biologica
analoghe a quelle delle odierne savane africane. Si tratta di una scoperta che certamente fornisce nuove frecce alla faretra di
coloro che ritengono che le origini della nostra specie non vadano cercate in Africa ma nel nord eurasiatico.
Come vi ho evidenziato in apertura, il lavoro compiuto dai gruppi è certamente molto importante ma noi nell’immediato
futuro saremo costretti a trascurarlo per un po’. Prossimamente, conto di mettere in dirittura d’arrivo il testo della mia
conferenza sulle presunte origini africane della nostra specie e, come potrete vedere, le cose da dire non sono davvero
poche.
NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra la copertina del libro La terra di luce di Christophe Levalois. Al centro un’immagine
che correda un articolo ripubblicato nel mio nuovo gruppo FB “L’eredità degli antenati” (ma che proviene da
“Ereticamente”), a destra la copertina di Iperborea di Gianfranco Drioli.

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Una Ahnenerbe Casalinga - Settantacinquesima parte

Ancora una volta torniamo a esaminare il lavoro dei gruppi facebook sul tema della ricerca delle origini, un lavoro
complesso che punta in una grande varietà di direzioni, e con il quale è obiettivamente difficile stare al passo.
Riprendiamo da dove ci eravamo fermati la volta scorsa, ossia poco prima dell’ultima decade di maggio, un periodo in cui
l’attività dei gruppi ha, come vedremo, presentato una serie di spunti davvero interessanti
Cominciamo naturalmente da MANvantara, segnalando un post del 24 maggio di Maurizio Cossu che è una brevissima
recensione di un testo vecchio di vent’anni, Le colonne d’Ercole di Sergio Frau, che però solleva una questione di interesse
estremo. “Il mondo si impigliò in qualcosa nel XX secolo”.erc Fuori di metafora, tutte le scoperte archeologiche che hanno
determinato la nostra visione della storia antica sono avvenute tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. Dopo di
allora, scoperte importanti non è che non siano avvenute, ma sono rimaste confinate a ristrette cerchie super-specializzate di
specialisti che non comunicano fra di loro né tanto meno col grosso pubblico. Perché? Eppure da allora ci sono stati
cambiamenti enormi, due guerre mondiali per dirne una.
Beh, io credo che non sia tanto d ifficile capire in che cosa si è impigliato il mondo o perlomeno la conoscenza del nostro
passato. Diciamo che agli inizi del secolo scorso si sono raggiunte le conoscenze necessarie a supportare “scientificamente”
una certa visione del mondo e della nostra storia, mentre conoscenze ulteriori che rischiano di rimetterla in discussione,
sono da scoraggiare, e se non si possono proibire, da non far uscire da una ristretta cerchia di specialisti. Tanto per fare un
esempio, noi sappiamo che la scoperta della tomba di Tutankhamon fu un vero best seller mondiale, dando luogo a una vera
e propria moda o mania egizia su scala planetaria. Ora, provate a domandare ai vostri vicini o alle persone che incontrate al
bar, se hanno mai sentito parlare dell’arciere di Amesbury (la cui tomba, dotata di un corredo funebre estremamente ricco
per una sepoltura neolitica, fu ritrovata nei pressi di Stonehenge).
Il perché di questa differenza è molto chiaro, quella della tomba dell’arciere è una scoperta avvenuta in Europa, che
metterebbe in crisi la centralità attribuita al Medio Oriente dalla storiografia convenzionale che ci viene imposta.
Una persona al cui lavoro in questo ambito finora non ho probabilmente dedicato sufficiente attenzione, è Giuseppe Di Re,
che è l’amministratore di ben due gruppi facebook che si occupano di queste tematiche, “L’immagine perduta” e “La
scoperta delle origini della nostra civiltà”.
Non si tratta di cattiveria o di prevenzione da parte mia. Il fatto è che in mezzo a un panorama così vasto di tematiche,
occorre compiere delle scelte, e l’interesse di Giuseppe mi pare centrato soprattutto sull’Oriente e il Medio Oriente, mentre
io trovo che nell’affrontare la tematica delle origini, è proprio la nostra Europa a essere perlopiù negletta e sottovalutata.
Questo però non significa che anche in questi altri ambiti non vi siano delle cose importanti e interessanti da dire.
Il 25 maggio, Giuseppe ha pubblicato su entrambi i suoi gruppi e anche su “MANvantara” (ci mancherebbe, data la
centralità che sembra aver assunto il gruppo del nostro Michele Ruzzai), un articolo davvero di grande interesse. Di Iram o
Irem, “la città delle mille colonne”, l’Atlantide d’Arabia, residuo forse di una civiltà perduta sepolto sotto le sabbie del
deserto arabico, avevo sentito parlare solo nei racconti di H. P. Lovecraft, e onestamente credevo che si trattasse di
null’altro che di un’invenzione dell’autore fantastico americano.
Invece, non solo la città perduta è ben presente nelle leggende arabe e nelle Mille e una notte, ma pare che la sua esistenza
sia reale e recentemente gli archeologi ne avrebbero scoperto un avamposto.
“Nella provincia di Dhofar, in Oman, fu così trovata un’area identificata come un possibile avamposto della famosa “civiltà
perduta”. Altri ricercatori esplorarono l’area in diverse occasioni. Essi in particolare si fermarono presso un pozzo chiamato
“Ash Shisa”, e nei pressi della relativa oasi scoprirono un sito precedentemente identificato come il “Forte di Shis” (XVI
sec. d.C.). Gli scavi hanno riportato alla luce un insediamaento anteriore e artefatti provenienti da altre regioni. Questo
fortino più antico era costruito sopra una caverna di calcare che poteva contenere a sua volta una fonte d’acqua, rendendolo
così un importante punto di ristoro e sosta lungo la via commerciale per la città di Iram. Una volta che il livello dell’acqua si
fu abbassato, la struttura si indebolì e la caverna crollò distruggendo così anche l’oasi”.
Rimaniamo sul discorso di civiltà diverse dalla nostra, che però ci aiutano ad avere un quadro più chiaro di noi stessi.
Sempre il 25 maggio 2018, Alessio Longhetti ha postato su “MANvantara” una foto risalente al mitico viaggio del Kon Tiki
di Thor Heyerdal all’Isola di Pasqua. Nella foto, oltre ad alcuni membri della spedizione, sono ritratti il sindaco dell’isola
Hei che si definiva un isolano puro, e il figlio Juan. Di entrambi sono evidenti le caratteristiche europidi, e i capelli rossi di
Juan.
E’ uh fatto che gli antirazzisti – che poi sono razzisti anti-bianchi – cercano in tutti i modi di nasconderci, eppure si tratta di
un fatto incontestabile: dovunque troviamo tracce di civiltà, per quanto in aree remote del mondo rispetto a noi, troviamo
sempre un’impronta antropologica caucasica. Là dove essa è assente: Africa sub-sahariana, Australia aborigena, Nuova
Guinea, fino all’arrivo degli Occidentali, i nativi non si sono mai schiodati di un millimetro dal paleolitico.
Sempre il 25 maggio, Italo Iallonardi ha postato su “MANvantara” un articolo di cui vi ho già parlato, da “Huffington Post”
sulla ricostruzione dei lineamenti della regina egizia Nefertiti, a partire dallo studio della mummia. Iallonardi commenta:
“Un po’ più annerita e con il naso più schiacciato di come la ricordiamo” (sulla base del famoso busto oggi conservato a
Berlino).
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Viene da sogghignare amaramente al pensiero che questa ricostruzione ha suscitato le ire dei cosiddetti antirazzisti perché
“troppo bianca”. Costoro, in realtà come dicevo, razzisti anti-bianchi, pretendono a tutti i costi che ai neri si attribuisca a
dispetto di ogni evidenza un ruolo storico e nelle origini della civiltà umana che non hanno mai avuto.
Sempre il 25 maggio (ma cosa aveva questa giornata di speciale?) c’è da segnalare un post di Pier Ferreri in cui si
esaminano le dinamiche demografiche del Texas. In questo stato degli USA attorno al 1970, il 60% della popolazione era di
origine caucasica. Oggi siamo intorno al 40%, che si prevede scenderà al 25% entro il 2040. Di ciò potremmo anche non
interessarci se non fosse per un fatto, che la stessa cosa sta accadendo in tutti gli Stati Uniti, dove la popolazione caucasica
di origine europea sta diventando una minoranza, e qualcuno ha deciso che a noi Europei debba toccare lo stesso destino,
obbligandoci a subire l’invasione extracomunitaria travestita da immigrazione e la sostituzione etnica.
Ancora il 25 maggio, giornata probabilmente posta sotto la protezione di qualche divinità particolare, si può segnalare un
interessante post di Cristina Gatti. Alcuni antropologi sostenitori dell’Out of Africa, si sono inventati le cose più incredibili
per sostenere questa falsità sulle nostre origini, supponendo che lo “sbiancamento” degli Europei sia avvenuto con il
passaggio dall’economia di caccia-raccolta all’agricoltura. Si tratta di un’assurdità doppia, in primo luogo perché non si
capisce come, passando dalla caccia in boschi frondosi a lavorare sotto il sole in campi aperti, i nostri avi potrebbero essersi
“sbiancati” quando una maggiore abbronzatura sarebbe stata più logica, e poi perché non si capisce come mai un analogo
“sbiancamento” non si sarebbe manifestato in altre popolazioni dedite all’agricoltura, quali gli amerindi mesoamericani
coltivatori di mais, o quelle dell’Asia orientale o dell’India dravidica.
All’eccellente ragionamento di Cristina, io direi in aggiunta che il modo di sragionare di questi antropologi rivela una volta
di più le fallacie della mentalità democratica, tendente sempre a privilegiare i fattori ambientali rispetto all’eredità genetica,
che risponde all’illusione di poter cambiare facilmente la natura umana modificando i rapporti sociali o magari l’insolazione
o la dieta.
Un altro post sempre di Cristina Gatti ripreso da “Siberian Times”, ci informa del ritrovamento di quelle che sembrerebbero
essere fra le più antiche ossa umane sapiens conosciute, risalenti a 50.000 anni fa, sapete dove? Nel sito di Tuyana nei
pressi del lago Bajkal in Siberia. Ognuno vede bene come tale collocazione geografica poco si concili con l’ipotesi
dell’origine africana della nostra specie.
Il 28 maggio “La scoperta delle origini della nostra civiltà” presenta un ampio articolo, possiamo dire un saggio di
Piergiorgio Lepori sul mito di Atlantide. Il mito platonico sembra avere a quanto pare una base reale, poiché in tutto il
nostro pianeta sono sparsi i segni di una catastrofe di probabile origine cosmica che sarebbe coincisa con lo slittamento
dell’asse terrestre. L’autore inoltre fa notare che l’eventuale storicità del mito di Atlantide smentirebbe in maniera netta
l’idea cara ai progressisti, della storia come sviluppo lineare.
Sempre il 28 maggio, abbiamo un articolo di Giuseppe Di Re dedicato all’uomo leone. Questa statuetta ritrovata a
Holenstein nella Germania meridionale, scolpita sin una zanna di mammut e raffigurante un essere antropomorfo con una
testa leonina, risalirebbe a un’età compresa fra 32.000 e 40.000 anni fa, e sarebbe la più antica statua conosciuta.
Sempre il 28, “Manvantara” presenta un link con un articolo de “Il Gazzettino”. A Osoppo in provincia di Udine è stata
trovata una seria di impronte fossili risalenti a 4 milioni di anni fa. Sono state riconosciute orme di rinoceronti, di cavalli e
di un bovide, probabilmente una grande antilope. Quello che è oggi il Friuli Venezia Giulia aveva all’epoca un clima sub-
tropicale.
Alla stessa data, Michele Ruzzai ha postato una recensione de I signori del pianeta di Ian Tattersall. La cosa più notevole di
questo testo evoluzionista e afrocentrico quant’altri mai, è forse un refuso, dove Tattersall scrive “Tutto (l’avventura
evolutiva della nostra specie) è iniziato circa sessanta (invece di sessantamila) anni fa”. Strano, io sei decenni or sono, di
anni ne avevo cinque. Qualcosa dovrei ricordarmi.
Il 29 “MANvantara” presenta un link al blog “Earth before the Flood, disappeared Continents and Civilizations” del
ricercatore russo Alexander Koltypin, dove si parla di civiltà scomparse e molte altre cose.

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Sempre il 29, Pier Ferreri ha postato purtroppo non una recensione ma solo alcune foto del testo Archeologia proibita di
Michael Cremo e Richard L. Thompson. Comunque, gli autori che sono un archeologo e un giornalista scientifico,
sostengono che la maggior parte delle ricerche archeologiche in tutto il mondo, sono presentate in maniera censurata e
falsata in modo da non contraddire le teorie “scientifiche” ufficiali. Il che, francamente, non abbiamo alcuna difficoltà a
credere.
Il 30 maggio, ancora Pier Ferreri ha postato un link a un articolo di ANSA.it che ci parla di Oetzi, l’uomo del Similaun.
Oetzi sarebbe morto all’età di 46 anni, e presentava tre calcificazioni alle coronarie che se fosse vissuto più a lungo, gli
avrebbero causato l’aterosclerosi. L’aspetto importante di questa scoperta è questo certamente quest’uomo aveva uno stile
di vita diverso e molto più attivo di quello dei nostri contemporanei. L’aterosclerosi e probabilmente molte altre malattie
che solitamente attribuiamo a fattori ambientali, dipendono invece dalla genetica molto più di quanto supponessimo.
Il 31 in “La scoperta delle origini della nostra civiltà”, Giuseppe di Re ha dedicato un articolo a uno dei più singolari
monumenti della storia egizia, l’Osireion di Abydos: si tratta di una grande struttura megalitica formata da blocchi squadrati
di grandi dimensioni che si trova al disotto del tempio di Seti I (ed è dunque sicuramente anteriore a quest’ultimo), e che
non somiglia a null’altro che si trovi in Egitto. E’ forse un resto di una civiltà antichissima che avrebbe preceduto quella
egizia.
Sempre parlando dell’antico Egitto, il 1 giugno “MANvantara” ha linkato un articolo di Repubblica.it che riferisce di uno
studio condotto dal Max Planck Institute di Tubinga e dall’Università di Buffalo sul DNA di 93 mummie egizie. Gli antichi
Egizi erano di provenienza mediorientale e anatolica ma non presentavano alcuna traccia di un’origine subsahariana, come
invece si riscontra negli Egiziani odierni a partire dagli ultimi 1500 anni. Possiamo tranquillamente archiviare nel regno
delle favole le storie che ci hanno spesso raccontato e continuano a raccontarci, tese ad accentuare il ruolo dell’elemento
subsahariano nella storia dell’antico Egitto.
Sempre il 1 giugno Michele Ruzzai ha postato alcune pagine del libro Il paradiso ritrovato di Brook Wilensky Langford,
una panoramica sulle ricerche del giardino dell’Eden che, esattamente come Atlantide, è stato individuato nei più disparati
luoghi della Terra.
Sempre su MANvantara, il 2 giugno Maurizio Cossu si occupa di una faccenda della quale vi ho già parlato altre volte,
ossia il ritrovamento delle statue megalitiche conosciute come i giganti di Monte Prana in Sardegna. Ora, a quanto pare, lo
stesso Monte Prana è una delle più estese necropoli conosciute dell’antichità, e si stenterebbe davvero a comprendere come
mai questi ritrovamenti hanno destato così poco interesse negli archeologi, se non fosse per il fatto che la civiltà nuragica,
come tutte le culture europee, è ingiustamente sottovalutata a confronto di quelle dell’area mediorientale.
Ovviamente, fa piacere che il periodo che abbiamo preso in esame, coincidente grosso modo con l’ultima decade di maggio,
ci abbia mostrato un’attività così intensa da parte dei gruppi FB, ma questo mi comporta un problema, infatti, la mia
intenzione era quella di mettermi relativamente a pari con la loro attività prima di presentarvi i tre articoli in cui ho
suddiviso il testo della mia conferenza sull’Out of Africa che ho tenuto qui a Trieste a gennaio. Ora le cose diventano un po’
più complicate, e nello stesso tempo, beninteso, oltre al dibattito sulle nostre origini, non mancano certo le tematiche di
politica contemporanea.
Si farà quello che si può, sapendo che è comunque impossibile pescare tutti i pesci che ci sono nel mare.
NOTA: Nell’illustrazione, le copertine di tre libri citati nell’articolo: Le colonne d’Ercole di Sergio Frau, Archeologia
proibita di Michael Cremo e Richard L. Thompson e Il paradiso ritrovato di Brook Wilensky Langford.

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Una Ahnenerbe casalinga - settantaseiesima parte –

Voglio vedere se almeno stavolta sarà possibile mettersi in pari, o almeno ragionevolmente in pari con l’attività dei gruppi
FB che si occupano di questioni legate alle nostre origini. Riprendiamo da dove avevamo lasciato la volta scorsa, vale a dire
gli inizi di giugno.
Io spero che nessuno di voi se ne avrà a male, se comincio citando un mio post che ho collocato su MANvantara e altri
gruppi proprio in questo periodo, non per mettermi in mostra, ma perché si tratta di una riflessione che credo sia molto
importante. Noi sappiamo che nessuno di noi è un sapiens puro, nel senso che le popolazioni sapiens si sono mescolate in
epoca preistorica con altre genti più arcaiche, e di questi incroci noi conserviamo traccia nel nostro DNA. Bene,
prendiamone atto, però non è che questa percentuale di geni non sapiens sia uguale in tutti i gruppi umani, né che si
tratti sempre dello stesso non sapiens.
Nei caucasici questa percentuale varia dal 2 al 4% e il nostro antenato non sapiens è l’uomo di Neanderthal. Negli asiatici
essa è intorno al 6% e rappresenta l’eredità dell’uomo di Denisova. Nei neri subsahariani essa sarebbe la più alta in assoluto,
l’8%, e l’antenato non sapiens sarebbe la “specie fantasma” individuata dai ricercatori dell’Università di Buffalo ma che ci
assicura un’antropologa italiana, Margherita Mussi che ha studiato i siti acheuleani in Etiopia, altri non sarebbe stato che il
vecchio homo erectus rimasto immutato al disotto del Sahara fino a poche decine di migliaia di anni fa, mentre in Eurasia si
evolveva in heidelbergensis, e dava poi luogo alla tripartizione Cro Magnon-Neanderthal-Denisova.
Ora, io facevo notare che le aree dove si riscontra una maggiore presenza di geni non sapiens sono probabilmente quelle
dove le popolazioni non sapiens sono sopravvissute più a lungo, quindi quelle colonizzate più tardivamente dai
rappresentanti della nostra specie.
Se questo ragionamento è valido, si vede bene che non solo le probabilità dell’Out of Africa di corrispondere alla realtà dei
fatti sono rigorosamente nulle, che homo sapiens è certamente nato in Eurasia, ma che l’ago della bussola punta verso
l’Europa piuttosto che verso l’Asia.
Facevo anche notare che gli ultimi siti conosciuti degli uomini di Neanderthal, costretti man mano a cedere terreno sotto la
pressione dei Cro Magnon, si trovano nella Spagna meridionale, e gli ultimissimi santuari sembrano essere stati proprio le
grotte attorno al promontorio di Gibilterra, dove i neanderthaliani sarebbero sopravvissuti fino a 30.000 anni fa. Questo,
suggerivo, induce a pensare a un arrivo dei nuovi venuti Cro Magnon al nord e dall’est piuttosto che dal sud, dal continente
africano che si trova di faccia al promontorio.
Qualcuno mi ha replicato che non essendoci all’epoca gli scafisti coi gommoni per traghettare invasori dall’Africa
all’Europa, costoro avrebbero dovuto fare il giro più lungo, attraverso il Medio Oriente e l’Anatolia e raggiungere l’Europa
da est. Potrebbe essere, ma non dobbiamo dimenticare che all’epoca l’Australia era già stata raggiunta da gente partita
dall’Asia su zattere, compiendo un percorso decisamente più lungo rispetto a una traversata dello stretto.
Vorrei ricordare anche il fatto che questo mio post nasceva come reazione a una puntata di “Ulisse” condotta su RAI 3 la
sera prima dall’ineffabile Alberto Angela, personaggio da cui non c’è da attendersi altro che la ripetizione a getto continuo
dello sciocchezzaio “scientifico” politicamente corretto che rappresenta l’ortodossia democratica, e veramente non si può
fare altro che compiangere la grande massa degli spettatori che “bevono” la disinformazione televisiva senza filtri adeguati,
per i quali “l’ha detto la televisione” è una garanzia di veridicità. Oltre alla consueta falsità out-of-africana, l’Alberto figlio-
di-suo-padre, ha naturalmente ripetuto per l’ennesima volta un’altra sciocchezza a lui cara, mille volte smentita dalla
genetica, secondo la quale gli Italiani sarebbero una popolazione o un insieme di popolazioni geneticamente misto, privi di
una qualsiasi coerenza etnico-biologica, e naturalmente non si può non notare come entrambe queste falsità siano finalizzate
allo stesso scopo, ossiala diffusione di una mentalità favorevole all’ “accoglienza”, cioè al subire passivamente o a favorire
l’invasione dal Terzo Mondo di cui oggi siamo oggetto.
Io non sono solito postare molto materiale sui gruppi, vi assicuro che il lavoro per “Ereticamente” mi assorbe abbastanza.
Tuttavia, subito dopo, il 5 giugno ho condiviso sui vari gruppi FB che si occupano della tematica delle origini, un articolo
tratto da un sito in inglese “Ancient Origins” (ancient-origins.net), di cui vi do il titolo tradotto: Montagne magiche e
serpenti di mare, i segreti delle antiche mappe artiche. Quello che ho trovato davvero notevole, è il fatto che in maniera
quasi concorde, nelle mappe più antiche e di età medioevale, è segnalata una terra in posizione centrale rispetto ai continenti
conosciuti, in corrispondenza del polo artico, là dove sappiamo che oggi non ci sono che mare e ghiaccio. Potrebbe trattarsi
di una reminiscenza ancestrale di un’epoca in cui l’alto nord e il mondo in genere, erano assai diversi geograficamente da
come li conosciamo oggi?
Il 4 giugno Michele Ruzzai ha postato su MANvantara alcune pagine del libro di Marco Merlini La scrittura è nata in
Europa?. Si tratta di un tema del quale mi sono occupato anch’io varie volte su queste pagine. Il ritrovamento nel 1962 in
Romania delle cosiddette tavolette di Tartaria, ci ha rivelato che nell’Europa danubiana di 7000 anni fa esisteva una civiltà
che conosceva la scrittura almeno un millennio prima che i primi esempi di essa comparissero nella Mezzaluna Fertile
mediorientale. Si sono gradatamente approfonditi gli aspetti di quella che oggi conosciamo come civiltà del Danubio, ma di
tutto questo al grosso pubblico, sui libri di testo scolastici, nelle opere divulgative, non è arrivato nulla, sebbene dalla prima

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scoperta sia passato più di mezzo secolo. Ciò non è spiegabile se non con una volontà di minimizzare tutto quanto è
europeo, in modo da non mettere in crisi la leggenda dell’origine della civiltà in Medio Oriente.
Il 7 il nostro Michele ha pubblicato alcune pagine di Dalla scimmia all’angelo di H. R. Hays, una storia dell’antropologia
che Michele ci dice essere “di un approccio generale di carattere chiaramente evoluzionista, ma “spiluccando” qua e là si
può trovare qualche notiziola interessante”.
Quello che si può dire, è che il titolo sebbene efficace come metafora, non è molto corretto. Dall’uomo che si credeva un
angelo decaduto a quello che si crede una scimmia evoluta, sarebbe stato meno bello ma più preciso.
Michele Ruzzai ripropone su MANvantara un articolo già apparso su “Preistoria on line” (www.preistoriaonlineit) in data
18 maggio 2016, Un’epoca di grandi diluvi di Giorgio Giordano. Tra 15.000 e 11.000 anni fa, l’emisfero boreale e l’Europa
furono oggetto di una serie di diluvi e inondazioni come effetto della deglaciazione e del conseguente innalzamento del
livello marino. Con la fine dell’età glaciale e lo scioglimento delle calotte di ghiaccio, e l’innalzamento del livello del mare
di 13-14 metri, si calcola che in tutto il mondo 25 milioni di chilometri quadrati di terre fin allora emerse siano state
inghiottite dalle acque. E’ chiaro che in questa serie di eventi che ormai la geologia ha decisamente provato. Trovano la loro
base “storica” una serie di narrazioni sin qui spesso ritenute leggendarie, dal racconto biblico del diluvio, al mito platonico
di Atlantide.
Sempre in questo periodo, “Il primato nazionale” in edicola dal 1 giugno si occupa di una tematica di cui mi sono spesso
occupato anch’io su queste pagine, l’articolo, Ma che razza di bufala tratta della tendenza sempre più vistosa dei media a
presentare con tratti africani personaggi storici o anche mitologici che certamente neri non erano, da Giovanna D’Arco ad
Achille, a Lancillotto, si tratta, appunto, di una bufala, di una vergognosa mistificazione tesa a suggestionare il grosso
pubblico ingenuo e disinformato, facendogli credere che le razze umane non esistano, che le società multirazziali siano
qualcosa di normale nella storia, che i subsahariani abbiano dato un qualche contributo di rilievo alla civiltà umana, tutte
mistificazioni tese a farci accettare supinamente, anzi se possibile senza nemmeno accorgercene, la sostituzione etnica.
Il 7 giugno Michele Ruzzai ha postato su MANvantara alcune pagine di un testo di grande interesse, Le origini sciamaniche
della cultura europea, di autori vari (fra cui Franco Cardini), pubblicato nel 2014 dai Quaderni di studi indo-mediterranei.
L’ipotesi è suggestiva, che un fondo di sciamanesimo, di paganesimo nella sua forma più popolare e immediata sia alla base
della cultura europea. Un cammino certo non facile, ma una via da seguire per ritrovare le nostre radici.
Ancora il nostro Michele, in data 10 giugno posta un lungo commento a un articolo apparso su “Le scienze” in data peraltro
non recente, Ritmo doppio per l’evoluzione ai tropici di Jacopo Pasotti, pubblicato nel giugno del 2006. Si tratta tuttavia di
una questione di importanza non secondaria di cui, sempre su MANvantara aveva parlato in precedenza Cristina Gatti: la
maggiore variabilità genetica delle popolazioni africane rispetto alle altre è spesso portata dagli antropologi come presunta
prova dell’Out of Africa, dell’origine africana della nostra specie. Si tratta tuttavia di una “prova” che non ha nessuni
valore, perché tutte le specie animali e vegetali presentano maggiore variabilità genetica ai tropici, cosa che si collega alla
resistenza alle infezioni, dato che in questi climi i microorganismi patogeni sono senz’altro più virulenti rispetto ad ambienti
più freddi. Non c’è che dire, si vede proprio la bellezza di una cultura che procede per compartimenti stagni, e dove i
presunti esperti di un settore possono ignorare del tutto quelli di un altro, anche i più noti e banali.
Ancora Il 10 giugno MANvantara ha postato un link alla pagina web di Anatole Klysov. Il nome di questo scienziato russo
vi dovrebbe essere familiare, si tratta del genetista che ha smentito l’Out of Africa, dimostrando che i genomi europei non
derivano da DNA africani.
Il 12 giugno Michele Ruzzai ha postato su MANvantara la copertina, i risvolti e il sommario di un libro che appare molto
interessante: Il mito della terra perduta, da Atlantide a Thule di Davide Bigalli. Data la tematica, una recensione magari
breve, sarebbe stata meglio. In ogni caso, si può dire che gli archeologi ufficiali che guardano a queste tematiche con
scetticismo, dovrebbero quanto meno spiegarci come mai il mito della terra perduta ricorre con costanza sorprendente nelle
tradizioni di tutti i popoli e di tutte le culture, a prescindere dal fatto che abbiamo terre perdute la cui esistenza reale in
un’epoca che ci ha preceduti è ormai dimostrata. Doggerland e la Beringia per fare solo due nomi.
Sempre il 12 giugno Mizar Ursae Maioris ha pubblicato un post riguardante le mummie ritrovate nella necropoli siberiana
di Oglakhty risalenti al 300 d. C. i cui volti erano coperti da maschere di gesso colorato oggi conservate al Museo Storico di
Mosca. Le cose notevoli sono due: esse mostrano una fusione di tratti caucasici e mongolici, permettendoci di intravedere in
queste regioni una presenza “bianca” più antica di quanto generalmente si suppone, e le pitture delle maschere che
dovrebbero riprodurre i tatuaggi dei defunti, che sembrano ricollegarsi all’arte scitica.
Sempre lo stesso giorno, un post riporta la copertina e l’indice del libro L’evoluzione asimmetrica delle razze umane di Aldo
Colleoni, edito dalla Goliardica Editrice di Trieste. Di notevole c’è soprattutto il grafico che pone l’origine delle migrazioni
umane nell’Alto Nord, per poi espandersi attraverso l’Europa e l’Asia, fino a raggiungere l’Africa e l’Australia.
Il 13 giugno, su MANvantara c’è un link a un articolo di sci-news.com realativo a una questione di cui abbiamo già parlato:
il sequenziamento del genoma dei resti di una bambina di 11.500 anni fa, che avrebbe permesso di individuare una finora
sconosciuta popolazione “beringia” di transizione fra gli asiatici e i nativi americani.
Sempre alla stessa data, un breve articoletto di Jason Pickis parla dei Guanci, gli isolani oggi estinti delle Canarie, caucasici
e considerati la popolazione vissuta in età storica più vicina all’uomo di Cro Magnon. Nel 1991 il famoso esploratore Thor
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Heyerdal accertò che i “mucchi di pietre” sparsi nelle isole e riferibili alla cultura di questo antico popolo, sono delle vere e
proprie piramidi molto simili a quelle mesoamericane.
Sempre il 13, MANvantara presenta un link con ibs.it per l’acquisto del libro Le origini segrete della razza umana di
Michael A. Cremo. L’autore è lo stesso che assieme a Richard L. Thompson, ha scritto anche Archeologia proibita di cui vi
ho parlato la volta scorsa. Le tesi sostenute da questo dautore mi pare possano essere considerate nettamente anti-
evoluzioniste: l’umanità esisterebbe da un’enorme antichità di tempo, molto più di quanto ammesso dalla scienza ufficiale,
e i vari ominidi, erectus e via dicendo, di cui si occupano i paleoantropologi, lungi dall’essere nostri antenati, sarebbero
rami collaterali degeneri del nostro albero genealogico.
Il 14, un articolo di Lorenzo Guadagnucci su quotidiano.net, Q.I., siamo sempre meno intelligenti, tratta una tematica di cui
mi sono occupato anch’io (i due articoli Il trionfo della stupidità, prima e seconda parte su “Ereticamente”), il declino
dell’intelligenza che chiaramente si manifesta in tutto il mondo. Al riguardo l’autore cita i dati di una ricerca svedese che
rivelano una situazione ancora più preoccupante di quella da me evidenziata, con un calo di sette punti di Q. I. ogni dieci
anni e, oltre alle cause da me evidenziate, ne indica un’altra, l’uso frenetico degli smartphone, soprattutto da parte dei più
giovani, che avrebbe un vero effetto rimbambente.
E’ il caso anche di segnalare che il numero di giugno de “Il primato nazionale” contiene l’articolo di Carlo Altoviti I
Pelasgi e l’Italia, quando il mito è storia. I Pelasgi furono un antico popolo che abitò la penisola ellenica prima che vi
discendessero da nord gli Elleni indoeuropei, ed ebbero con questi ultimi un rapporto molto simile a quello degli Etruschi
con Roma, ma sarebbero stati presenti anche in Italia e in rapporti con le antiche culture italiche.
Come si vede, la ricerca delle nostre origini continua, ed è in pieno svolgimento.

NOTA: Nell’illustrazione, le copertine di tre testi citati nell’articolo: La scrittura è nata in Europa?, di Marco
Merlini, Dalla scimmia all’angelo di H. R. Hays e Le origini sciamaniche della cultura europea dei Quaderni di Studi
indo-mediterranei.

Una Ahnenerbe casalinga - settantasettesima parte -

La mia intenzione era di presentarvi in successione le tre parti di Ma veniamo veramente all’Africa?, anche perché questi tre
articoli sono tre parti di un’unica conferenza da me tenuta lo scorso gennaio qui a Trieste alla Casa del Combattente, e poi,
come avete visto, era più di un semestre che cercavo il momento adatto per collocarli sulle pagine elettroniche di
“Ereticamente”, ma c’è un ma non trascurabile, il fatto che con il lavoro di aggiornamento dell’attività dei gruppi FB, che
poi costituiscono un collettore estremamente utile di tutte le novità sulla tematica delle origini che appaiono sulle più
disparate pubblicazioni e siti scientifici, siamo rimasti fermi alla metà di giugno.
Ecco quindi adesso un’altra Ahnenerbe di aggiornamento, cui seguiranno le due parti successive della mia conferenza. Vuol
dire che avremo un’estate dedicata principalmente all’esplorazione delle tematiche delle origini.
Con ciò, tuttavia, il nostro discorso è ben lontano dall’essere concluso, infatti, domenica 1 luglio nell’ambito del festival
celtico triestino Triskell, ho tenuto una conferenza il cui testo vorrei del pari presentarvi, dedicata a un’analisi del fenomeno
megalitico sul continente europeo, e si tratta di un argomento le cui implicazioni anche politiche certamente sfuggono a un
pubblico generalista, ma non certamente a noi che sappiamo che si tratta di reagire alla minimizzazione del ruolo del nostro
continente nella civiltà umana, così come essa ci viene presentata dalla cultura ufficiale, dai testi scolastici, dalle
trasmissioni divulgative e via dicendo, minimizzazione che ha lo scopo di addormentare le coscienze per impedirci di
reagire alla progressiva sostituzione etnica, assumendo in questo una funzione del tutto analoga alla diffusione della favola
dell’Out of Africa.

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Solo che qui il problema si pone daccapo: anche in questo caso, si tratta di un testo piuttosto lungo (non è che io ci tenga a
essere prolisso, ma certi argomenti richiedono di essere sviscerati con cura per non prestare il fianco a prevedibili critiche),
che occorrerà del pari suddividere in tre parti, e di nuovo occorrerà vedere quando collocare queste ultime, perché non è che
le vicende politiche attuali possano essere del tutto trascurate. Insomma, sto cercando di fare il meglio possibile con gli
spazi e i tempi a mia disposizione.
Prima di entrare nel vivo, vorrei ancora dirvi che il gruppo facebook da me creato, “L’eredità degli antenati”,
principalmente allo scopo di fungere da archivio di questi articoli dopo la loro comparsa su “Ereticamente”, al presente
viaggia sui 290 membri, ma tranquillizzatevi, se siete interessati, c’è ancora posto.
E’ bene in ogni caso ricordare che gruppi FB come “MANvantara”, “L’immagine perduta”, “Frammenti di Atlantide-
Iperborea” spaziano su di una varietà di tematiche che riguardano la nostra visione del mondo, e vanno dalla spiritualità
esoterica all’antropologia, all’archeologia, e quella che io vi presento qui è una selezione del lavoro da essi compiuto,
relativamente alla tematica delle origini, e la lettura di questi articoli non può sostituire il fatto di seguirne le attività.
In particolare, nel periodo che andiamo a esaminare, in coincidenza con il solstizio estivo, c’è stato un vero florilegio di
articoli riguardanti il simbolismo solare considerato da vari punti di vista.
Nel frattempo, il nostro ottimo amico Michele Ruzzai ci informa che sta procedendo il non facile lavoro di traduzione de Le
origini dell’umanità di Hermann Wirth, un classico del nostro pensiero che, come sappiamo, non è mai stato disponibile per
i lettori italiani in versione integrale.
Cominciamo con un post di MANvantara del 15 giugno, ripreso da “La macchina del tempo”: Quando il Mediterraneo frenò
la transizione del neolitico in Europa. Comei sappiamo, il neolitico rappresenta un momento cruciale nella storia
dell’umanità, col passaggio dei nostri remoti antenati dallo stile di vita e dall’organizzazione sociale di cacciatori-
raccoglitori nomadi a quelli di agricoltori. Nell’Europa mediterranea questa trasformazione subì una battuta d’arresto circa
7600 anni fa. Secondo una ricerca condotta dai ricercatori del Centro sulla biodiversità e il clima di Senchenberg,
dell’Università Goethe di Francoforte e dell’Università di Toronto, condotta attraverso l’analisi di microfossili marini, essa
sarebbe dovuta all’innalzamento del mar Egeo di circa un metro, a sua volta legato a un’imponente esondazione del Mar
Nero, ricordiamo infatti che le aree costiere sono sempre quelle dove si concentrano maggiormente gli insediamenti
umani.Tutto questo è importante per almeno due motivi, perché ci ricorda che la leggenda della storia come sviluppo lineare
ascendente è, appunto, una leggenda, e che noi stessi d da fattori fuori dal nostro controllo, come il clima, molto più di
quanto ameremmo credere.
Il 19 giugno un post di Axis Mundi a firma di Marco Maculotti, Umanità antidiluviane, giganti, “gentili” ci parla dei miti
andini, dei cicli che avrebbero preceduto il nostro, con altre umanità e giganti (il termine “gentili” qui non va frainteso, con
esso – alla latina – s’intendono genti barbariche che gentili in senso di “cortesi” non erano affatto). In particolare, le
leggende relative ai giganti sembrano trovare un riscontro nei ritrovamenti avvenuti a varie riprese di ossa umane
gigantesche.
Su segnalazione di Luigi Leonini (un altro amico i cui post hanno dato contributi importanti a questa rubrica, ma che negli
ultimi tempi sembrano essersi rarefatti), Michele Ruzzai ha riproposto e commentato un articolo un po’ vecchiotto, risalente
al 2016 de “Il fatto storico”, a sua volta basato su un testo pubblicato da “Nature Communications” del 2013: La storia
genetica degli europei comincia solo nel 4.500 a. C. Il succo del discorso è questo: negli anni ’90 era diffusa la tesi che gli
Europei discendessero in gran parte da agricoltori di origine mediorientale che avrebbero colonizzato il nostro continente
durante l’età neolitica. La genetica ha smentito questa ipotesi, perché se fosse vera, si ritroverebbe nel genoma delle
popolazioni europee una proporzione di geni di origine mediorientale molto più alta di quella che si riscontra
effettivamente. Per spiegare questa “anomalia” si è supposto che 6500 anni fa, a metà neolitico, una misteriosa invasione
avrebbe portato alla sostituzione degli agricoltori neolitici di origine mediorientale con un’altra popolazione, e l’articolo si
riferisce appunto a questa ipotesi. Ma – ci spiega Michele Ruzzai – anche quest’ultima si è rivelata infondata. La maggior

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parte del genoma degli Europei attuali risale a 15.000 anni fa, al paleolitico superiore. C’è stato dunque un passaggio dallo
stile di vita basato sulla caccia-raccolta a quello agricolo senza che sia avvenuta alcuna sostituzione etnica. Questo articolo
rimane tuttavia importante, perché la ricerca a cui fa riferimento è il primo esplicito riconoscimento in sede scientifica del
fatto che gli Europei sono figli dell’Europa e non del Medio Oriente.
Michele ha poi recensito un testo ingiustamente (a mio modo di vedere) sottovalutato e dimenticato: Lo scorrimento della
crosta terrestre di Charles Hapgood, pubblicato in edizione italiana nel 1965. Quando cerchiamo di capire cosa è
effettivamente avvenuto durante l’età glaciale, ci accorgiamo che i conti non tornano. Teniamo presente che tuttora la causa
delle glaciazioni è ignota, e circa questo argomento circolano le più diverse teorie, riguardo a cui il disaccordo fra i
ricercatori è totale, e che quella di qualche decina di migliaia di anni fa, è stata solo l’ultima di una serie di fluttuazioni
climatiche lungo tutto l’arco della storia del nostro pianeta, che ha visto l’alternarsi di una lunga serie di periodi freddi
(glaciali) e caldi (interglaciali).
Non basta. Pensate al fatto che mentre gran parte dell’Europa era coperta da un’immane lastra di ghiaccio, le regioni oggi
circum-polari godevano di un clima temperato. Pensate al fatto che all’epoca la Siberia e l’Alaska erano popolate da grandi
mandrie di erbivori di grossa taglia come mammut, mastodonti e rinoceronti lanosi, che certo non si sarebbero potuti
sostentare con i radi licheni sotto la neve che oggi in quelle regioni permettono alle renne una precaria sopravvivenza. Ce
n’è più che abbastanza per nutrire il sospetto che la temperatura media del nostro pianeta non fosse granché diversa da
quella attuale, ma che molto diverse fossero invece le regioni localizzate in prossimità dei poli.
Hapgood ipotizza che, oltre al movimento delle placche continentali evidenziato dalla tettonica a zolle, sia possibile di
quando in quando uno scorrimento della crosta terrestre tutta insieme. Mentre il primo è estremamente lento, quest’ultimo
potrebbe verificarsi in maniera improvvisa, Così ad esempio sarebbe possibile spiegare il fatto che interi branchi di mammut
sarebbero rimasti congelati mentre la flora rinvenuta nei loro stomaci ci testimonia un clima temperato. Bisogna notare che
questo spiegherebbe anche come mai decine di migliaia di anni fa le regioni artiche oggi praticamente inabitabili potessero
avere un clima temperato, ed è forse lì che va rintracciata la storia più antica della nostra specie, esattamente come ci
racconta Tilak sulla scorta dei Veda e come ci dicono gli studiosi di dottrine tradizionali.
Il 24 giugno un link su MANvantara ci rimanda a un articolo apparso su attivo.news: C’è un mistero nel sangue umano, è un
gruppo sanguigno speciale: fortunato chi ce l’ha. Si tratta del gruppo sanguigno RH negativo. Il fattore RH, individuato
prima nelle scimmie che negli esseri umani (RH è un’abbreviazione di rhesus) è visto come una prova della continuità
biologica fra scimmie e uomini. Ma allora come si spiega il fatto che nel 15% degli esseri umani esso non è presente? Da
dove viene il sangue RH negativo, questo sangue “alieno”?
L’articolista fa notare che le persone RH negative sono caratterizzate da: intelligenza superiore alla media, tendenza a
ricercare la verità, amore per la scienza, senso di avere una missione nella vita, empatia e compassione, tendenza a fare
sogni vividi. Per la cronaca, Fabio Calabrese è un RH negativo.
Michele Ruzzai ha poi riproposto un articolo apparso su “Preistoria on line” nel 2016, I capelli rossi degli antichi europei di
Giorgio Giordano. Sembra che, contrariamente a quanto si è ritenuto fino a non molto tempo fa, il rutilismo ossia l’avere I
capelli rossi, sia una caratteristica molto antica, risalente a una mutazione che sarebbe avvenuta 70.000 anni fa: essa è
associata a pelle molto chiara che nei climi freddi presenta un vantaggio selettivo in quanto favorisce l’assorbimento della
luce solare indispensabile per la formazione della vitamina D.
Vi ho già parlato le volte scorse del ritrovamento dei resti risalenti a 11.500 anni fa di una bambina di sei settimane di vita,
rinvenuti in Alaska vicino al fume Tanara, il cui DNA si è potuto sequenziare, dandoci così preziose informazioni sulla
popolazione “beringia” che per prima avrebbe varcato lo stretto di Bering (allora un ponte di terra) dando il via al
popolamento delle Americhe. Ora MANvantara del 26 giugno riporta un articolo (in inglese) di una pubblicazione greca
themanews.com, firmato Protothema, che ci da i risultati dell’analisi del DNA, e qui arriva la sorpresa, perché questi antichi
amerindi che sono stati chiamati “gente di Tanara”, erano bianchi caucasici. A questo punto è chiaro che la storia dell’antico
popolamento delle Americhe è tutta da riscrivere.
Una curiosità: l’immagine che correda l’articolo non è certo quella di una neonata di sei settimane, ma di una donna adulta.
In realtà si tratta della ricostruzione del volto di una mummia di Cherchen, proveniente dalla regione del Takla Makan
nell’Asia centrale. Questo è un altro bel mistero che l’archeologia ufficiale non vuole affrontare per non mettere in crisi i
suoi pregiudizi: l’esistenza di quest’antica popolazione europide (“celtica” l’ha definita qualcuno) nel cuore di quella che
oggi è l’Asia mongolica. Sicuramente, noi troviamo un elemento caucasico alla base di tutte le civiltà dell’Asia e
dell’America precolombiana. Dove esso non è presente, come nell’Africa subsahariana, nell’Australia aborigena, nella
Nuova Guinea, vediamo che fino all’arrivo degli Europei, le popolazioni native non si sono schiodate di un millimetro dal
paleolitico.
Abbiamo poi, a cura di Michele Ruzzai, alcui estratti del libro di Luigi De Anna Thule, le fonti e le tradizioni. Secondo
l’autore, Thule si collocherebbe in una posizione intermedia tra la sede iperborea originaria e l’Atlantide platonica in una
regione oggi scomparsa dell’Atlantico del nord, ma forse la cosa più importante è la conclusione che “Oggi la ricerca
scientifica dà maggior credito all’ipotesi di una migrazione da nord a sud tra il 10° e 8° millennio a. c., quando, a causa del
raffreddamento climatico, i cacciatori di renne seguirono i branchi che cercavano nuovi pascoli”. Siamo cioè sull’asse
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concettuale inverso al dogma della scienza ufficiale che vuole il popolamento dell’Europa avvenuto da sud verso nord.
Da segnalare sabato 30 giugno a Ostuni all’Hotel La Terra, organizzata dall’associazione Voceanima, una conferenza di
Felice Vinci che espone la sua nota tesi di Omero nel Baltico. Sarà stata proprio la Scandinavia il vero scenario dei poemi
omerici?
C’è un post di “Daily Archives” di estremo interesse del 29 giugno che io ho ripreso sia su “MANvantara” sia su “L’eredità
degli antenati” Le ricerche russe nel campo della paleoantropologia ci rivelano una realtà completamente diversa da quella
che ci viene raccontata dalla “nostra” scienza ufficiale condizionata e deformata dalla “political correctness” made in USA.
Le volte scorse vi ho già parlato dell’uomo di Kostenki, risalente a 37.000 anni fa, i cui resti sono stati rinvenuti in Siberia e
che l’analisi del DNA ha rivelato essere molto simile agli attuali scandinavi. Bene, ora un altro ritrovamento siberiano
recentemente avvenuto nella regione dell’Ust’Ishim ci permette di retrodatare l’origine degli Europei a ben 45.000 anni fa.
Quello che è importante notare, però, è che la somiglianza genetica di questi antichissimi europei con gli scandinavi di oggi,
che si rivelano, per così dire “il prototipo” dell’uomo europeo, ci rivela una storia antica del nostro continente molto diversa
da quella che ci hanno raccontato, con un popolamento da nord verso sud, che toglie ulteriore credibilità alla favola delle
origini africane.
Per il momento ci fermiamo qui. Prossimamente riprendiamo con le due parti successive di Ma veniamo veramente
all’Africa?, sarà dunque un’estate all’insegna della ricerca delle nostre origini ancestrali. Tutto sommato, è bene che sia
così, anche se questo comporterà trascurare provvisoriamente tematiche politiche più attuali. Origine significa identità, e il
radicamento nella nostra identità, e la consapevolezza di esso, sono qualcosa di cui oggi abbiamo più che mai un disperato
bisogno.
Io non sono solito occuparmi di sport, soprattutto non in questa sede, e ora davvero eviterei di parlarvene se non vi fossero
implicazioni politiche evidenti e pesanti. Penso che tutti voi domenica 16 luglio abbiate assistito allo spettacolo indecente
della finale dei campionati del mondo, nella quale una “vittoria” decisa in anticipo è stata assegnata a una “Francia”
multietnica e multirazziale che di francese non aveva nulla, grazie a un arbitraggio parziale e vergognoso. Ora noi
potremmo anche disinteressarci di questa vicenda di palese malaffare calcistico, se non fossimo più che sicuri che la
“vittoria” della (A)fr(ic)ancia verrà presa a pretesto dai fautori del mondialismo per sostenere una presunta e inesistente
“superiorità” delle società multietniche su quelle che mantengono e difendono la propria identità etnica e storica. Noi
dobbiamo essere ben consapevoli del fatto che questa non è altro che una vergognosa mistificazione, e rifiutare con tutte le
nostre forze la mela avvelenata del mondialismo.
NOTA 1: Nell’illustrazione: a sinistra, la copertina del libro Il mito della terra perduta di Davide Bigalli, di cui vi ho parlato
nella settantaseiesima parte, al centro quella di Thule, le fonti e le tradizioni di Luigi De Anna, a destra la locandina della
conferenza su Omero nel Baltico tenuta da Felice Vinci a Ostuni il 30 giugno.
NOTA 2: Michele Ruzzai mi chiede di accludere all’articolo il seguente comunicato, che volentieri trascrivo:
“E’ tuttora in corso la traduzione dell’importantissima opera di Herman Wirth, Der Aufgang der Menschheit, attualmente
giunta ad un buon punto del libro. Chiunque volesse partecipare all’iniziativa anche versando un contributo di modesta
entità, oppure solo richiedere informazioni sul progetto, può senz’altro scrivere a Michele Ruzzai, casella mail
michele.ruzzai@libero.it Grazie per l’attenzione”.

Una Ahnenerbe casalinga, settantottesima parte – Fabio Calabrese

Un’estate dedicata interamente all’esplorazione delle tematiche delle origini non era forse l’idea peggiore che potessi avere,
sia perché in questo periodo che climaticamente ci ha dato dei momenti veramente torridi, un po’ di frescura da età glaciale
ci sta appena bene, sia soprattutto perché la politica vera e propria oggi è in una fase interlocutoria di stallo, e sarà
necessario far passare del tempo prima di esprimere un giudizio netto sulla situazione, infatti per quanto riguarda il governo
attualmente in carica, se l’iniziativa del ministro Salvini tesa a fermare l’invasione allogena, non può trovare che la nostra
piena, totale, incondizionata approvazione e solidarietà, soprattutto considerando i guasti prodotti dai governi pidioti che
hanno preceduto quello attuale, non si possono mancare di notare le crepe evidenti in questa maggioranza formata
dall’innaturale alleanza fra leghisti e pentastellati, anche se ci possiamo solo augurare che essa, a dispetto di tutto, tenga il
più possibile, e non si permetta al PD di rimettere le mani sulla cosa pubblica.
In attesa di vedere come si evolveranno gli eventi, torniamo a concentrarci sulla tematica delle origini.
Vorrei cominciare con il dire che i tre articoli Ma veniamo veramente dall’Africa?, che costituiscono il testo di una
conferenza tenuta da me qui a Trieste a gennaio, hanno sollevato più interesse e commenti di quanto mi aspettassi,
trattandosi di argomenti che vi avevo già esposto su “Ereticamente”, ma forse un’esposizione sistematica punto per punto,
ha maggiore impatto. Soprattutto è chiaro che l’interesse per certe tematiche è più che mai vivo, e non c’è motivo di
stupirsene. Sapere da dove veniamo è essenziale per capire chi siamo e dove andiamo.
Tutto ciò è chiaramente testimoniato anche dal moltiplicarsi dei gruppi FB che di esse si occupano, che già a elencarli ne
sono un esempio notevole: “MANvantara”, “Frammenti di Atlantide-Iperborea”, “L’immagine perduta”, “Tradizione
primordiale e forme tradizionali”, “Cuib della tradizione”, “Axis Mundi”, “La ricerca delle origini della nostra civiltà”, e
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certamente anche altro che al momento mi sfugge. A essi si è recentemente aggiunto il mio “L’eredità degli antenati” che ho
creato allo scopo di raccogliere gli scritti che compaiono in questa rubrica, ma che – ho visto – sta ricevendo contributi a
pioggia.
Proprio il discorso di tenere il passo con l’attività di questi gruppi FB che in pratica contengono una miriade di informazioni
sulle scoperte che avvengono a livello scientifico sulla tematica delle origini, e da questo punto di vista si dimostrano un
collettore utilissimo, mi sta mettendo in difficoltà. Per mantenere aggiornato il nostro discorso, ho inserito la precedente
Ahnenerbe, la settantasettesima, tra la prima e la seconda parte del testo della conferenza “Africana”, e nonostante questo,
col nostro aggiornamento non mi è stato possibile andare oltre la fine di giugno.
Riprendiamo dunque il nostro discorso da dove l’abbiamo lasciato, e sempre tenendo presente che è necessario fare una
scelta, cioè concentrarsi sulle tematiche delle origini, tralasciando tutto il resto, i vari aspetti di cultura tradizionale che
questi gruppi presentano, quindi sia ben chiaro che la lettura di questi articoli non vi esenta da un esame diretto.
Ai primi di luglio MANvantara ha ripubblicato un articolo apparso su “Preistoria on line” due anni fa (giugno 2016),
L’origine siberiana dei popoli indoeuropei di Giorgio Giordano. Gli indoeuropei deriverebbero da popolazioni di allevatori-
conquistatori di origine siberiana che circa 20.000 anni fa, a causa dell’irrigidirsi delle condizioni climatiche, si sarebbero
spostati nelle terre immediatamente a nord del Mar Nero e del Caspio. Questa ipotesi combina la teoria di Marija Gimbutas
con altre più recenti che individuano l’origine delle popolazioni indoeuropee nella cultura siberiana denominata Jamna.
E’ di grande interesse anche un esame della cartina che accompagna l’articolo, sebbene non si tratti di nulla di originale ma
provenga da Wikipedia, in essa è rappresentata la diffusione delle lingue indoeuropee in epoca protostorica. Esse sono
divise nei due rami occidentale (“centum”) raffigurato in azzurro, comprendente le lingue latino-osco-umbre, celtiche,
germaniche ed elleniche, e orientale (“satem”) comprendente quelle slave e indo-iraniche. Da essa risulterebbe chiara la
derivazione del ramo occidentale da quello orientale, che si trova ad avere in posizione centrale rispetto alla propria area di
diffusione, proprio quella che si ritiene essere la zona di origine delle lingue indoeuroepee, a settentrione del Mar Nero e del
Caspio. Qui è molto ben evidenziato anche l’enigma rappresentato dalla lingua e dalla popolazione dei Tocari, chiaramente
“centum” pur trovandosi in Asia centrale, a est dell’area di diffusione delle lingue “satem”. Oggi, come sappiamo, i
ricercatori sono estremamente riluttanti a stabilire correlazioni tra le lingue e le caratteristiche fisiche delle popolazioni
(come se gli imponenti fenomeni di meticciato che rendono impossibile stabilire una simile correlazione, cui assistiamo
oggi, fossero qualcosa di normale e sempre avvenuto, ed è precisamente questo l’assunto fraudolento che vogliono darci a
intendere). Nonostante ciò, è evidente la connessione fra la diffusione della lingua tocaria e le mummie “celtiche” di
Cherchen. Un’antica migrazione dal centro dell’Europa al cuore dell’Asia lungo quella che poi è diventata la Via della
Seta? Sembra l’ipotesi più probabile.
Devo poi ringraziare Michele Ruzzai per aver riportato sempre su MANvantara l’annuncio relativo alla mia conferenza di
domenica 1 luglio al festival celtico triestino Triskell, che ha avuto per tema Il fenomeno megalitico nell’Europa
continentale. Non so quando, perché è una lotta per trovare la collocazione delle varie tematiche e degli argomenti sulle
nostre pagine, e a volte tutito quello che ci sarebbe da dire sembra infinito, ma vi prometto che collocherò su
“Ereticamente” anche il testo di questa conferenza.
Il 2 luglio Alessio Longhetti ha linkato un articolo in inglese apparso su “The independent”, in realtà non molto recente,
risalente al 2006, Celts descendend from spanish fishermen, Study finds di Guy Adams, che presenta una tesi di cui
abbiamo già parlato: secondo alcune recenti ricerche genetiche, almeno una parte delle popolazioni celtiche britanniche
deriverebbe da pescatori iberici immigrati nell’Isola, probabilmente connessi a quella che conosciamo come cultura del
bicchiere campaniforme.
Michele Ruzzai ha poi postato un link a un articolo non recentissimo ma molto importante apparso su “Le Scienze” nel
settembre 2016, dove si commenta la “mappa genetica globale della biodiversità”. Da essa risulta evidente che questa è –
per tutte le specie animali e vegetali – maggiore nelle regioni tropicali rispetto a quelle dal clima temperato o freddo, con
una differenza che è stata mediamente valutata attorno al 27%. Questo è connesso con i meccanismi immunitari e la
resistenza alle infezioni, poiché i climi caldi favoriscono la proliferazione dei microorganismi patogeni.
Ora, fa notare il nostro Michele Ruzzai, è strano, veramente strano che questo fenomeno biologico ben conosciuto non stato
considerato dagli antropologi come l’ovvia spiegazione del fatto che le popolazioni africane presentano una maggiore
variabilità genetica rispetto a quelle eurasiatiche, ma si sia voluta vedere in quest’ultimo fatto una prova della nostra
supposta origine africana. Le leggi biologiche che valgono per la totalità del mondo vivente, dovrebbero valere anche per la
nostra specie oppure no? In ogni caso, si vede bene che la parcellizzazione del “sapere” fra gruppi di specialisti, ottiene
risultati ancora migliori di una censura aperta e dichiarata.
Il 3 luglio, una nuova collaboratrice di MANvantara, Elisabetta Pugliaro, ha postato le immagini di un nuovo importante
ritrovamento: un grande pettorale d’oro che è stato rinvenuto in un tumulo nella località chiamata Bryn yr Ellyllon, nel
Galles settentrionale e che risalirebbe al 2.000 avanti Cristo. Si tratta di un lavoro di oreficeria raffinata, che viene a
confermare la tesi, che io stesso ho più volte sostenuto su queste pagine, che in epoca preistorica e protostorica, le Isole
Britanniche e in genere l’intero contnente europeo, erano di gran lunga più civili di quanto ordinariamente si presume.
Michele Ruzzai ha poi postato la copertina e un paio di brevi stralci del libro Antichi popoli europei, dall’unità alla
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diversificazione, a cura di Onorato Bucci. A pagina 46 si legge: “I progenitori degli Arii prima di fuggire dalla loro sede
originaria “consideravano come un giorno quello che è invece un anno” (Avesta)”. L’Avesta zoroastriana “stranamente” ci
dice la stessa cosa che secondo Tilak ci raccontano i Veda. Questa citazione, infatti, può riferirsi soltanto al fatto che questi
nostri remoti antenati vivessero un tempo nelle regioni oltre il Circolo Polare, o almeno in prossimità dello stesso in
un’epoca in cui queste regioni dovevano avere un clima assai diverso da quello attuale, poiché solo lì si alternano sei mesi
ininterrotti di luce e di oscurità.
Ora fermiamoci un momento a riflettere: Come è facile da capire, questo testo non è recentissimo, è del 1993. Non è strano
che prima dell’imposizione dogmatica dell’Out of Africa come ortodossia scientifica, praticamente tutte le ricerche e gli
indizi sulle origini dell’umanità o perlomeno delle genti caucasiche e indoeuropee, puntassero nella direzione opposta, verso
l’Alto Nord?
Un post di Alessio Longhetti del 6 luglio mette a confronto le fisionomie di due soldati persiani da un gruppo scultoreo con
la foto di un uomo di razza nordica di Hallstatt (Austria). La somiglianza è notevole, e anche questo è un discorso che
abbiamo visto altre volte: all’epoca in cui il Medio Oriente ha ospitato importanti culture come quelle egizia, babilonese,
assira, persiana, era riscontrabile in quelle popolazioni o almeno nelle élite, una componente europide o addirittura nordica,
molto più forte di quel che è possibile verificare oggi.
Il 6 luglio Mike Mayers ha linkato un post di bigthink.com che riferisce di un interessante problema genetico: nel 2015 si è
scoperto che a partire da circa 7.000 anni fa, c’è stato un crollo vertiginoso della variabilità genetica del cromosoma Y,
quello che determina il sesso maschile e ogni uomo eredita dal proprio padre. La spiegazione sembra essere altrettanto
semplice: a partire da allora, c’è stata una brusca diminuzione degli antenati maschi da cui discendiamo, perché gli uomini
delle varie comunità hanno cominciato ad affrontarsi e morire sui campi di battaglia. La guerra, si può dire, nasce col
neolitico perché prima di allora le comunità di cacciatori-raccoglitori nomadi erano troppo rade, e nessuna di esse aveva
quasi nulla di cui altre potessero essere gelose. Una lezione sul nostro passato e su noi stessi, da tenere ben presente e
sventolare in faccia a cristiani, sinistri, illuministi, seguaci di Rousseau, e quanti altri sono portati a credere all’innata bontà
umana.
Il 10 luglio Luigi Leonini, un nostro vecchio amico di cui si vorrebbe tornare a vedere più spesso contributi, ha ri-postato un
vecchio articolo di repubblica.it del marzo 2005. (“La Repubblica”, pensate che pubblicazione di estrema, estremissima
destra!). La gente comune, l’uomo della strada senza nessuna prevenzione ideologica, vede che le razze umane esistono, che
un bianco è differente da un nero o da un asiatico, tuttavia gli scienziati negano che le razze umane e le differenze razziali
esistano. Ora però l’esistenza di queste ultime trova conferma nella genetica. Una considerazione viene spontanea: in teoria
la scienza non dovrebbe basarsi su altro che sui fatti accertati, e in questo campo la genetica è i fatti accertati, e allora perché
in contrasto con essa, la maggioranza dei ricercatori, dei sedicenti scienziati si ostina in questa negazione? Ma è chiaro il
perché: l’inesistenza delle razze umane è un dogma imposto, chi lo contraddice sa benissimo di rimetterci la carriera,
l’accesso a pubblicazioni prestigiose, il posto di lavoro, perfino, come è accaduto ad Arthur Jensen, di rischiare di rimetterci
la pelle.
Michele Ruzzai ha riproposto poi una sua interessante sintesi-recensione, già pubblicata nel novembre 2016 al libro Le
radici prime dell’Europa a cura di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti. Si tratta di un testo che raccoglie contributi di diversi
studiosi, alcuni dei quali molto interessanti, in particolare quello di Mario Alinei che espone la sua teoria della continuità. In
particolare, a livello linguistico collega l’etrusco all’indo-ittita: esso non sarebbe una lingua pre-indoeuropea, ma peri-
indoeuropea. Se questa ipotesi è valida, la presenza nel nostro continente delle lingue e quindi anche delle popolazioni di
quella che possiamo chiamare in senso lato la famiglia indoeuropea, è molto più antica di quanto generalmente non si pensi.
Un altro ripescaggio: un articolo già comparso l’8 ottobre 2016, commenta un “pezzo” a sua volta pubblicato sul sito
acam.it (ACAM sta per Archeologia e Misteri), che parla della presenza in nord Africa e nell’Egitto predinastico di
misteriosi gromagnoidi dolicocefali, alti e biondi. In realtà anche questa non è una novità assoluta, noi sapevamo già della
presenza di individui chiaramente europidi, di mummie dai capelli biondi o rossicci nell’Egitto dinastico faraonico, che ad
esempio Tutankhamon e Ramesse II avevano un DNA prettamente europide.
Il 12 luglio è una data importante per MANvantara, il gruppo compie due anni. Congratulazioni al suo amministratore,
l’amico Michele Ruzzai. In questi due anni il gruppo è cresciuto, raggiungendo quasi 1500 membri, il che ne fa una
presenza di tutto rispetto. Una sola lamentela: perché Michele non scrive di più per “Ereticamente”?
Il 14 luglio ho collocato io un post, tanto su “MANvantara” quanto su “L’eredità degli antenati”, si tratta del link a un
articolo di identità.com: Popolazioni africane non del tutto umane. Anche questa è una tematica che abbiamo già visto..
Ricordiamo che secondo i ricercatori dell’Università di Buffalo, non solo l’Out of Africa è falsa, ma i sapiens migrati in
Africa 40.000 anni fa, si sarebbero incrociati con un ominide o un uomo più primitivo, e da questo incrocio avrebbero avuto
origine gli africani. A questa ipotesi si può aggiungere quella dell’archeologa italiana Margherita Mussi. L’ominide con cui
i sapiens migrati in Africa si sarebbero incrociati, è stata chiamata dai ricercatori di Buffalo “specie fantasma”, ma la Mussi
l’avrebbe identificata, non si tratterebbe altro che del vecchio homo erectus, rimasto immutato in Africa, mentre in Eurasia
si evolveva in heidelbergensis e poi in sapiens.
Mediagold.it del 13 luglio ci da una notizia sorprendente, il ritrovamento in una grotta vicino a Erli in provincia di Savona,
228
della sepoltura di un neonato risalente a 11.000 anni fa. L’esame dei suoi resti potrebbe fornire informazioni preziose
sull’epoca in cui si concluse la sua breve vita.
Abbiamo poi la ri-proposizione di un vecchio post del 2016, una mini-recensione di Lezioni di indoeuropeistica di Franco
Cavazza. L’autore si ispira alle tesi continuiste di Mario Alinei. La presenza degli Indoeuropei nel nostro continente sarebbe
da retrodatare fino a coincidere con la prima colonizzazione umana di esso.
Il 17 luglio Ansa.it riporta una notizia sorprendente: il pane sarebbe più antico dell’agricoltura. Stando a quanto avrebbe
scoperto un team di archeologi studiando i siti natufiani nella Giordania settentrionale, già 14.000 anni fa si produceva una
sorta di pane macinando e impastando i semi di vari cereali selvatici.
Sarà il periodo estivo, ma subito dopo abbiamo un altro ripescaggio da parte di MANvantara: un post dell’ottobre 2016
proveniente da “Preistoria on line”, L’occupazione del Vecchio Continente. Come fa notare Michele Ruzzai nel suo
commento, sappiamo che l’homo sapiens era presente nel settentrione eurasiatico già decine di migliaia di anni fa
(ritrovamenti di Sopochnaia Karga, sulle sponde del mar di Kara alla foce dello Yenisei, risalenti a 45.000 anni fa), e questo
è difficilmente compatibile con un’origine africana di qualche migliaio di anni prima.
Il 20 luglio abbiamo una notizia che proviene da Repubblica.it (sempre queste pubblicazioni di destra super-estrema!):
grazie alla siccità di questo periodo e a un drone, sarebbero state individuate in Irlanda le tracce di un finora sconosciuto
circolo di età neolitica risalente a 4.500 anni fa, che è stato subito chiamato “una nuova Stonehenge”.

Per adesso ci fermiamo qui. Possiamo dire che il clima torrido di questa estate, palesemente non ha rallentato l’attività dei
gruppi FB. L’interesse attorno alle tematiche delle nostre origini è più vivo che mai, e questo nei tempi bui che incombono,
è un sintomo estremamente positivo, perché soltanto chi non dimentica il proprio passato può sperare di avere un futuro.
NOTA: Nell’illustrazione: a sinistra la ricostruzione del volto di una mummia di Cherchen (Asia centrale, oggi
politicamente parte del Xinjiang cinese), appartenente con ogni probabilità all’antico popolo dei Tocari. Si riconoscono
chiaramente i caratteri europidi e “celtici” di questa antica popolazione. Al centro, il pettorale di Bryn yr Ellyllon, a sinistra
la copertina del libro Le radici prime dell’Europa a cura di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti.

229
Una Ahnenerbe casalinga, settantanovesima parte

Anche questa nuova parte della nostra Ahnenerbe casalinga sarà dedicata al lavoro di aggiornamento dell’attività dei gruppi
FB. Nonostante tutto, anche stavolta siamo rimasti piuttosto indietro con questo lavoro, la volta scorsa ci siamo fermati
attorno al 20 luglio, intanto, come avete visto, il periodo vacanziero e il clima insolitamente torrido non sembrano aver
influito minimamente sull’attività dei gruppi, che non ha subito rallentamenti. Ora, come al solito, faremo riferimento
soprattutto al gruppo “MANvantara” amministrato dal nostro Michele Ruzzai e da Cristina Gatti, poiché, e anche questo ve
l’ho spiegato più volte, questi gruppi si richiamano l’un l’altro, la maggior parte dei post dei collaboratori (compresi i miei)
compare contemporaneamente su più di un gruppo, e “MANvantara” è quello che presenta la maggiore completezza.
Il nostro Michele latita da diverso tempo dalle pagine di “Ereticamente”, ma, diciamolo pure, attraverso “MANvantara”
continua a darci un contributo indiretto di tutto rispetto. Intanto, continua il lavoro di traduzione de L’alba dell’umanità di
Hermann Wirth, e quest’opera, finora mai tradotta integralmente in italiano, dovrebbe essere soltanto il primo pezzo di una
biblioteca virtuale “nostra”, e sappiamo, in un orizzonte culturale dominato ai dogmi democratici “democraticamente”
impostici, quanto ce ne sia bisogno.
Una cosa che intanto non posso fare a meno di riferire con una certa soddisfazione, è che il testo della mia conferenza Ma
veniamo veramente dall’Africa?, che vi ho presentato su “Ereticamente” sotto forma di tre articoli, sembra aver suscitato un
discreto interesse. E’ un fatto importante non perché determinate cose acquistino un particolare valore in quanto dette da
Fabio Calabrese, ma perché la “teoria” out-of-africana e la presunzione dell’inesistenza delle razze umane sono un elemento
strategico nella visione delle cose che il potere sedicente democratico vorrebbe imporci ipnoticamente e coattivamente
attraverso il sistema mediatico in vista della sostituzione etnica.
Allo stesso modo, appena sarà possibile (ci sono parecchie cose che sto cercando di “incastrare”), vi darò conto del testo
della conferenza da me tenuta quest’anno al Triskell, il festival celtico triestino, dove stavolta ho trattato una tematica
particolarmente ampia, Il fenomeno megalitico nell’Europa continentale.
Ora però concentriamoci sull’attività dei gruppi FB.
Il 21 luglio, Alessio Longhetti ha postato un link a “Preistoric, Anthropology and Genetics” del gennaio 2016, un articolo a
firma di Patricia Villaescusa e altri, che si occupa di una questione quanto mai interessante: l’aplogruppo del cromosoma Y
(il cromosoma che identifica il sesso maschile e si eredita per via paterna) R1b-DF27 si sarebbe diffuso nelle popolazioni
europee a partire dai Baschi. Nonostante questa popolazione parli una lingua non indoeuropea, il legame genetico con gli
altri europei sarebbe dunque più stretto di quanto generalmente si suppone. Da non esperto di genetica, posso ricordare che
in età antica la Guascogna (Vasconia per i Romani) era appunto la terra dei Vascones, cioè dei Baschi, che dunque
abitavano un’area ben più estesa di quella che occupano attualmente, tutta la zona a meridione della Gironda. E’ possibile
che la popolazione di queste aree abbia finito per assimilare la lingua indoeuropea (nello specifico celtica-gallica) dai popoli
circostanti, ma abbia in compenso diffuso l’impronta genetica basca fra le popolazioni vicine.
Michele Ruzzai ha poi ri-postato un suo commento del novembre 2016 a La preistoria da un continente all’altro a cura di
Jean Guilaune, commento condotto con la sua tecnica abituale di estrarne i passi più significativi. Quello di maggior
interesse è forse quello dove si riferisce che la presenza umana nelle Americhe risalirebbe a 50.000 anni fa. Si tratta della
nota ipotesi “solutreana” che oggi sembra trovare sempre maggiori conferme, secondo la quale i più antichi abitanti delle
Americhe sarebbero stati cacciatori caucasici provenienti dall’Europa che vi sarebbero giunti costeggiando la banchisa
artica, e che avrebbero preceduto di gran lunga gli antenati degli Amerindi giunti dall’Asia attraverso il ponte di terra della
Beringia 15.000 anni fa.
A ricordarci quanto poco in realtà sappiamo della preistoria de preistoria delle Americhe, arriva anche il 24 luglio un link di
Tiziana Pompili Casanova a un articolo del sito australiano thenewdaily.com.au. Si tratta peraltro di una questione che
abbiamo già visto. Secondo una ricerca condotta da un team guidato dal genetista David Reich, il DNA di alcune tribù
amazzoniche sarebbe strettamente affine a quello delle popolazioni australoidi, probabile traccia di un’antica migrazione di
cui non abbiamo altri indizi.
Abbiamo poi, sempre a opera di Michele Ruzzai la ri-presentazione di un post del 2016 con alcuni estratti del libro di
Silvano Lorenzoni Il selvaggio, saggio sulla degenerazione umana. Si tratta di un’opera fondamentale del nostro Lorenzoni,
un attacco a fondo contro le concezioni evoluzioniste-progressiste. Rifacendosi a un’idea che troviamo anche in Julius
Evola, Lorenzoni spiega che il selvaggio non è un primitivo ma un decaduto, un residuo di genti che un tempo si trovavano
a un livello superiore sia culturale sia antropologico. Una degenerazione che avviene a seguito dell’allontanamento dal
centro ancestrale nordico-iperboreo, e infatti i soggetti maggiormente decaduti della nostra specie sono quelli che occupano
le estremità meridionali del mondo umano: fuegini, tasmaniani, ottentotti.
Abbiamo poi ancora un ripescaggio, sempre una recensione-sintesi con citazione di estratti, del 2016, ma di un testo del
1980, Le razze europee di Romano Olivieri. Nei passi citati, si discute se la depigmentazione delle popolazioni nordiche sia
un fenomeno recente o risalga al popolamento ancestrale del nostro continente. Tuttavia la cosa importante non è questa, la
cosa importante è che ancora nel 1980 si potesse pubblicare un libro in cui si parla di razze umane. Questo ci fa
comprendere quanto sia ampio e pesante il giro di vite che il sistema democratico ha dato alla libertà di espressione,
230
soprattutto a partire dalla caduta dell’Unione Sovietica e dalla fine del sistema mondiale bipolare. Da allora si sono
cominciati a imporre la globalizzazione e il meticciato a livello planetario, e a costringere la gente a credere persino il
contrario dell’evidenza. Oggi possiamo dire che democrazia e tirannide sono dei perfetti sinonimi.
Il 26 luglio Cristina Gatti ha postato un link a un articolo apparso sul sito dell’Università di Padova, e anche questo tratta di
una questione che abbiamo già visto: il ritrovamento in Siberia di uno scheletro di mammut risalente a 45.000 anni fa, che
reca chiari segni di macellazione a opera dell’uomo. Come commenta la nostra Cristina, se l’uomo viveva nella Siberia
artica già 45.000 anni fa, e vi era ben adattato specializzandosi nella caccia ad animali di grossa taglia come i mammut,
quante probabilità ci sono che fosse uscito dall’Africa poco tempo prima?
Il 28 luglio, Alessio Longhetti ha postato un link a un articolo di theumansarefree.com che tratta del mistero degli occhi
azzurri. Secondo una recente ricerca condotta dai genetisti dell’Università di Copenhagen, essi dipenderebbero da una
mutazione comparsa nella regione a nord del Mar Nero tra 6.000 e 10.000 anni fa, comparsa in una persona che sarebbe
l’antenato comune di tutti coloro che ancora oggi possiedono questo carattere, ma il mistero degli occhi azzurri è più
complesso, ad esempio non è chiaro il motivo per cui un po’ dovunque esso è tipico delle élite, e tradizionalmente è
associato alle divinità. Naturalmente, per noi che sappiamo che le civiltà del Vecchio Mondo e probabilmente anche quelle
del Nuovo, sono state fondate da élite caucasiche prevalentemente nordiche, il mistero non è affatto tale.
Il 30 luglio Pier Ferreri ha postato un link che è una recensione di Lorenzo Panizzari al libro ARIANI – Origine, storia e
redenzione di un mito che ha insanguinato il Novecento di Edoardo Castagna . Io non so se sia vero che il mito ariano ha
insanguinato il novecento, ma di certo LA FAVOLA dell’inesistenza delle razze umane sta insanguinando il XXI secolo,
questo secolo che si è aperto con il brutale assassinio con il pestaggio a morte senza alcuna provocazione, a Stoccolma di un
ragazzo “nostro” Daniel Wretstrom, da parte di un commando multirazziale, e gli assassini, identificati sono stati
“condannati” a pochi mesi di affidamento ai servizi sociali da giudici che avevano paura di parere razzisti. Poi abbiamo
avuto stragi “islamiche” come quella del Bataclan, dove la motivazione religiosa è solo un risibile pretesto per una
contrapposizione e un’ostilità che sono etniche, delitti come il brutale assassinio di Pamela Mastropietro squartata come un
agnello sul banco del macellaio, e via dicendo, e non parliamo dell’abietto timore di parere antisemiti che spinge a chiudere
gli occhi sulle atrocità dell’entità sionista israeliana, sul genocidio al rallentatore del popolo palestinese. E non contiamo
neppure il fatto che gli assassini sionisti possono agire anche in Europa nella totale impunità, ne sono esempi i numerosi
attentati subiti dal professor Robert Faurisson, ma anche l’omicidio di un ragazzo francese, Fabrice Benichou da parte di un
commando sionista, avvenuto con modalità molto simili a quello di Daniel Wretstrom.

Abbiamo poi di nuovo un ripescaggio: una breve recensione di Michele Ruzzai a La lezione dell’Artico, un articolo di autori
vari apparsi su “Le scienze” del dicembre 2002. Come Michele fa notare, gli autori evidenziano che durante quella che per
le nostre latitudini fu l’età glaciale, l’Artico godeva di temperature miti, adatte alla vita umana, che lo rendono plausibile
come sede ancestrale dell’umanità.
C’è poi un altro ripescaggio, un’altra recensione del 2016, del libro Uomini per caso di Gianfranco Biondi e Olga Rickards
del 2004, sempre di Michele Ruzzai. In questo testo, rileva Michele, gli autori portano elementi a sostegno della tesi
multiregionalista di Milford Wolpoff, e in ogni caso, contro l’Out of Africa: la presenza di un gene coinvolto nel
metabolismo dello zucchero in due forme diverse negli eurasiatici e negli africani, e la forma africana non sembra per nulla
ancestrale rispetto a quella eurasiatica. Poi il fossile australiano del lago Mungo risalente a 48.000 anni fa, che ha
evidenziato una sequenza di DNA che non sembra minimamente rapportabile ai genomi africani.
Il 12 agosto Alessio Longhetti ha postato un link a un articolo di “Ancient Origins”. In Romania sono stati individuati i resti
di una cittadella dell’Età del Bronzo che sarebbe stata tre volte più ampia della Troia omerica. Sulle rive del Danubio, lo
sappiamo, sta riemergendo un capitolo scomparso della nostra storia antica, e un capitolo non poco importante. E’ alla
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civiltà del Danubio, ad esempio, che va attribuita l’invenzione della scrittura, un buon millennio prima che essa comparisse
in Egitto o in Medio Oriente.
Il 13, Michele Ruzzai ha postato un brano che è uno stralcio di una conversazione via mail tra me e lui, dove, a proposito
dell’Out of Africa fa una serie di osservazioni molto interessanti, in particolare il fatto che questa teoria ha un enorme
“buco” rappresentato dal numero davvero notevole di fossili chiaramente umani ritrovati in ogni parte del mondo, di età
anteriore e a volte anche molto anteriore alla presunta uscita di homodall’Africa.
“Il Sapiens parrebbe attestato in tempi incredibilmente più antichi rispetto a quanto normalmente immaginato, e non solo
di quelle poche decine di migliaia di anni che, comunque, già bastano per dare qualche grattacapo, fino a mettere in forte
crisi, il modello “Out of Africa” (ovvero: Skuhl e Qafzeh in Palestina di circa 100.000 anni fa, Jebel Faya in Arabia di
circa 120.000 anni fa, ma soprattutto Liujiang in Cina forse di 139.000 anni fa, ed ancora di più Kununurru in Australia
forse anche di 174.000 anni fa), ma addirittura di…milioni di anni …. mi riferisco ai reperti dell’isola di Giava a Trinil; in
Argentina a Miramar, a Buenos Aires e sul Monte Hermoso; in California a Calaveras e Table Mountain; in Inghilterra a
Foxhall e Ipswich; in Francia a La Denise e Abbeville; in Svizzera a Delemont; in Spagna a Atapuerca; in Italia a
Castenedolo e Savona; in Kenia vicino al lago Turkana con il cranio “KNM-ER 1470”, ed in Tanzania, con le famose
impronte molto “Sapiens” di Laetoli.. Si tratta di reperti che, come sappiamo bene dall’andazzo generale, la ricerca
“ufficiale” ha molto disagio a pubblicizzare e spesso non hanno portato molta fortuna accademica a chi li ha scoperti,
anzi…”.
Ma davvero mi chiedo perché uno studioso con la competenza del nostro Michele non pubblica un po’ di più per
“Ereticamente”?
Il 15 (ferragosto, ma evidentemente non è per tutti una giornata di riposo e basta), il nostro Michele ci ha fatto finalmente un
regalo che aspettavamo da un anno e mezzo, ha finalmente postato su “MANvantara” il testo della sua conferenza Le radici
antiche degli indoeuropei, da lui tenuta il 27 gennaio 2017 presso il circolo Identità e Tradizione di Trieste (tra l’altro, era il
giorno della memoria, quindi una tematica quanto mai appropriata. Noi abbiamo, appunto ricordato, solo non esattamente
quello che il potere mondialista sedicente democratico avrebbe voluto).
Ora, per la verità si tratta di un testo piuttosto scarno, quattro paginette, poco più di 2500 parole, a fronte di un’esposizione
durata un’ora e mezza, escludendo il tempo sia dell’introduzione del sottoscritto, sia quello delle domande, piuttosto
numerose, del pubblico che ha seguito con buona partecipazione. Cercherò adesso di darvi un’estrema sintesi del suo
contenuto.
Come sappiamo, la somiglianza fra le lingue indoeuropee, somiglianza crescente man mano che si risale indietro nel tempo,
rimanda a una lingua primordiale, una Ursprache, e questa a un popolo primordiale che la parlava, un Urvolk. Noi
sappiamo anche che il rapporto fra etnie e lingue è stato contestato da antropologi “democratici” e di sinistra, a cui però si
può facilmente rispondere che le società multietniche e quindi il caso di gruppi del tutto eterogenei dal punto di vista etnico
che parlano la stessa lingua, ad esempio anglosassoni e afroamericani che parlano l’inglese-americano, è un’aberrazione
moderna che non trova riscontro nell’antichità e nella preistoria. La genetica è venuta incontro a questa concezione,
sbugiardando gli antropologi “democratici”. Gli Europei attuali discendono in gran parte, con sorprendente omogeneità, da
un tipo umano, il cosiddetto eurasiatico settentrionale, diffuso sul nostro continente fin dal paleolitico.
Assodata l’esistenza di un Urvolk indoeuropeo da cui noi tutti discendiamo, rimane il problema della collocazione
dell’Urheimat, la patria ancestrale. Al riguardo le opinioni degli autori, anche tradizionali, divergono. Il nostro Michele,
sulla scorta in particolare di Tilak, ma anche del fatto che le ricerche più recenti dimostrano che durante quella che per le
nostre latitudini era l’età glaciale, l’artico godeva invece di un clima mite e propizio all’insediamento umano, propende per
una sede artica.
Per adesso ci fermiamo qui, ma le ricerche continuano, e continua l’impegno a diffondere e difendere la verità delle cose da
tutte le mistificazioni “democratiche” e “progressiste”.
NOTA:
Nell’illustrazione, a sinistra la copertina del libro di Silvano Lorenzoni Il selvaggio, saggio sulla degenerazione umana, al
centro quella di Le razze europee di Romano Olivieri, a destra la locandina della conferenza Le radici antiche degli
Indoeuropei tenuta da Michele Ruzzai al Circolo Identità e Tradizione di Trieste il 27 gennaio 2017, e il cui testo è stato
pubblicato nel gruppo facebook MANvantara il 15 agosto 2018.

232
Una Ahnenerbe casalinga,-ottantesima parte

A volte capita di avere dei momenti, se non di sconforto, perlomeno di dubbio e di esitazione, è umano. Ultimamente, mi
era venuto da domandarmi se la prosecuzione di questa rubrica avesse un senso. Come avrete senz’altro notato, la maggior
parte del lavoro da me fatto negli ultimi tempi ha riguardato l’aggiornamento sull’attività dei gruppi FB. Non che questo
non sia importante, la ricerca delle origini è, potremmo dire, un costituente fondamentale della nostra identità, il non
concepire la persona, ciò che noi siamo, come individuo atomizzato, ma come momento di una continuità che affonda le sue
radici nella notte dei tempi, e siamo tenuti a cercare di far proseguire dopo di noi.
Il rischio però qual’è? Lo avete visto dalle analisi che ho fatto del materiale presente in questi gruppi: molti ripescaggi di
testi pubblicati quando ancora la political correctnessnon obbligava a negare l’esistenza delle razze umane, riferimenti ai
classici “di Area” come Evola, Tilak e via dicendo, nonché intuizioni e osservazioni di natura personale. Insomma, il mio
timore era che fosse rimasto ben poco da dire in concreto, sebbene questi gruppi rimangano, fortunatamente, molto attivi,
ma riciclando un po’ sempre gli stessi argomenti.
Mi è successo altre volte, ma quando mi capita di passare dei momenti di scoramento, dopo un po’ arriva una “botta” di
novità che riaprono i giochi, al punto di far pensare che davvero ci sia qualche entità che vuole che io continui il mio lavoro
per “Ereticamente” e che quando ho voglia di mollare o accuso un senso di stanchezza, è lì a fornirmi gli stimoli giusti per
andare avanti.
In grande e rapida sintesi, fra le scoperte che hanno contrassegnato questo periodo, possiamo citare il ritrovamento in Cina
di resti fossili umani la cui antichità è del tutto incompatibile con la “teoria” Out of africana”, dello scheletro di una
fanciulla siberiana che attesterebbe un inedito incrocio fra neanderthaliani e denisoviani, e soprattutto delle tracce di un
misterioso ponte tra India e Shri Lanka (Ceylon) la cui antichità imporrebbe di rivedere del tutto la storia umana. Per non
parlare delle polemiche che hanno accompagnato la scomparsa del celebre genetista Cavalli-Sforza. E’ vero o no che i
risultati delle sue ricerche escludono l’esistenza delle razze umane? Ma vediamo tutto con ordine.
Riprendiamo allora da dove ci siamo fermati la volta scorsa, cioè il periodo di ferragosto, notando una volta di più che il
periodo vacanziero e il clima torrido di quei giorni non hanno minimamente rallentato l’attività dei gruppi.
Partiamo anzi da qualcosa leggermente più indietro con un paio di notizie che mi erano sfuggite (non voletemene, internet è
un mare magnum); il 31 luglio sul sito Nibiru 2012 è apparso un articolo su alcune misteriose piramidi che si trovano nella
penisola di Kola che, politicamente russa, costituisce l’estrema propaggine nord-orientale della Scandinavia. Secondo il
ricercatore russo Aleksander Barchenko, esse risalirebbero a circa novemila anni fa, sarebbero dunque più antiche di quelle
egizie e costituirebbero la testimonianza dell’esistenza di una remota civiltà iperborea. Sempre da questo articolo,
apprendiamo che Barchenko è morto nel 1938, non si tratta quindi di una scoperta recente. E’ una cosa che abbiamo visto
molte volte la tendenza dell’archeologia e della scienza ufficiali, collegate al sistema mediatico, a occultare tutte le
informazioni che contrastano con la visione del mondo che ci si vuole a tutti i costi imporre.
Il 15 agosto sul blog di Daniele Di Luciano, l’autore del libro Le origini dell’uomo ibrido, è comparso un articolo che fa
riferimento a un pezzo del “Corriere della sera” del 29 luglio firmato dallo scienziato Claudio Tuniz che a sua volta riprende
una comunicazione della rivista scientifica “Journal of Human Evolution”. Dal riesame della dentatura di una collezione di
fossili umani di origine cinese provenienti dal famoso sito di Zhoukoudian risalenti a 900.000 anni fa, è risultato che essi
non sono di homo erectus come si era sempre creduto, ma di ibridi erectus-sapiens, abbiamo dunque la prova che homo
sapiens era presente in Eurasia molto prima di quanto previsto dall’Out of Africa, ed è semmai la sua presunta origine
africana a essere sempre meno credibile.
Il 18 agosto, Michele Ruzzai ci segnala che il gruppo MANvantara ha raggiunto i 1500 membri. Congratulazioni, Michele,
e andiamo avanti così.
Il 22 agosto Solimano Mutti ha riportato una citazione di Aleksander Dugin che tratta proprio delle nostre tematiche, ve la
riporto integralmente:

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“Gli strati più antichi e originali della tradizione affermano il primato del nord sul sud. Il simbolo del nord è collegato ad
una fonte, ad un paradiso nordico originale, da cui proviene tutta la civiltà umana. Gli antichi greci parlavano di
Hyperborée, l’isola nordica con la sua capitale Thule. Questo paese era considerato la patria del Dio luminoso Apollo. E in
molte altre tradizioni è possibile rilevare tracce antiche, spesso dimenticate e diventate frammentarie, di un simbolismo
nordico”.
Sempre il 22 agosto, un articolo de “Le scienze” che fa riferimento a una ricerca genetica apparsa su “Nature”, ci racconta
del ritrovamento dei resti di una ragazzina siberiana tredicenne risalenti a 90.000 anni fa che si è rivelata essere di padre
denisoviano e madre neanderthaliana; il padre, a sua volta, non era un denisoviano “puro” ma aveva una lontana ascendenza
neanderthal. I ripetuti incroci di cui siamo a conoscenza, lo scambio di materiale genetico, l’esistenza di ibridi fertili, io
penso, a questo punto dimostrino in tutta chiarezza che Cro Magnon, Neanderthal e Denisova non erano tre specie diverse,
ma tre varietà della stessa specie, la nostra, che ha cominciato a popolare l’Eurasia molto, molto prima della sua presunta
uscita dall’Africa raccontataci dalla “scienza” ufficiale.
Il 24 Michele Ruzzai ha postato su MANvantara il link a un articolo di phis.org che ci parla del ritrovamento nella regione
siberiana della Yakuzia, della carcassa di un puledro perfettamente conservata nel permafrost, risalente a un’età fra i 30 e i
40.000 anni fa. Un altro indizio del fatto che decine di migliaia di anni fa le regioni artiche avessero un clima del tutto
diverso da quello attuale, e ben più propizio all’insediamento umano.
Il 26 agosto un post di Michele Ruzzai tratta di un fenomeno estremamente sgradevole, quello che è stato chiamato
il blackwashing, letteralmente la “tintura di nero” della storia e della cultura europee da parte di Hollywood che ha affidato
ad attori di colore i ruoli di (vi riporto l’elenco di Michele, peraltro lontano dall’essere completo): Giovanna d’Arco, Atena,
Patroclo, Enea, Achille, una Valchiria, Zeus, Lancillotto, Heimdall.
E’ chiaro cosa c’è dietro tutto questo, il tentativo di persuaderci, soprattutto di persuadere i più giovani le cui conoscenze
storiche sono alquanto scarse, che le società multirazziali siano qualcosa di normale, sempre esistito e non un’aberrazione
moderna foriera di decadenza. Bisogna essere chiari su questo: l’Europa e la sua cultura sono sempre state bianche, e il
contributo dato dai neri alla civiltà umana si può esattamente quantificare con un numero che, guarda caso, fa rima con
“nero”.
Il 28 agosto MANvantara ha pubblicato un altro link a un articolo sulla bambina siberiana dai genitori denisoviano e
neanderthaliana di 90.000 anni fa, questa volta di “The Siberian Times”, apprendiamo che i ricercatori l’hanno
soprannominacta Denny.
Sempre il 28, Cristina Gatti ha postato un link a un articolo di phis.org che parla dell’estinzione dell’uomo di neanderthal.
Secondo il ricercatore romeno Vasile Ersek, la sua scomparsa sarebbe dovuta a due ondate di freddo intenso che colpirono
l’Europa 44.000 e 40.000 anni fa. Bizzarro, è il minimo che si può dire, poiché l’uomo di neanderthal sembra invece essere
stato ben adattato al freddo. Il sospetto che viene, è che si cerchi di sminuire el’importanza della concorrenza fra gruppi
umani come causa di estinzione delle popolazioni, come abbiamo visto altre volte si interpreta il passato in un certo modo
per darci un messaggio taroccato sul presente, in questo caso per evitare che ci preocupiamo troppo degli invasori che oggi
scorrazzano per l’Europa e qualcuno cerca di venderci come “risorse”.
Abbiamo poi, ma si tratta di un ripescaggio di un articolo dell’anno scorso (27 maggio 2017) che è una recensione di
Michele Ruzzai del libro Gentes di Claudio Mutti (EFFEPI 2010). Tra le cose più interessanti di questo testo,Michele
ricorda che Mutti menziona la spedizione del 1997 di Valerij Diomin nella penisola di Kola e la scoperta di reperti risalenti
a 20.000 anni fa: in quell’occasione la stampa russa parlò apertamente di Iperborea come della culla di tutti i popoli
indoeuropei.
Il 31 agosto, sempre su MANVantara, Jason Pickis ha postato un link a un articolo apparso sul sito “Ancient Goths” in data
28 aprile 2012. Vi si parla degli indo-sciti, popolazione dell’Asia centrale, che sarebbe poi migrata verso l’Europa dando
origine agli Sciti e forse agli Unni, i suoi discendenti più diretti sarebbero i Circassi. Si trattava di una popolazione
prettamente europide caratterizzata da carnagione chiara, capelli biondi, alta statura. Di essi abbiamo la mummia di una
giovane donna, nota come principessa Ukok o la fanciulla dei ghiacci. La donna era alta 1,70, altezza considerevole per un
soggetto femminile di epoca preistorica. L’articolo parla anche delle mummie europidi del Takla Makan, di cui mi sono
occupato più volte su queste pagine. Queste ultime però appartenevano al popolo dei Tocari, frutto di una colonizzazione
diversa e posteriore, probabilmente derivante da una migrazione dall’Europa (ricordiamo che il tocario è una lingua
“centum”, indoeuropea occidentale). A ogni modo certamente c’è un’antica storia dell’Asia che conosciamo assai poco, di
cui abbiamo solo frammenti sparsi, tuttavia possiamo dire che in essa le popolazioni caucasiche hanno certamente giocato
un ruolo molto maggiore di quanto solitamente non si pensi.
Il 1 settembre abbiamo avuto la notizia della scomparsa di quello che è stato forse il più famoso genetista italiano, Luigi
Luca Cavalli-Sforza che si è spento all’eta di 96 anni. Il giudizio sulla sua figura resta molto difficile, perché, se da un lato
le sue ricerche hanno fornito moltissimo materiale utile alle nostre analisi, è anche vero che dall’altro esse sono state sempre
inquadrate in una gabbia di “correttezza politica”, cioè di conformità ai dogmi del sistema dominante.
Come era prevedibile, i media di regime si sono scatenati nell’adulazione postuma sostenendo che tra l’altro Cavalli-Sforza
avrebbe “dimostrato l’inesistenza delle razze umane”, cosa che non pare abbia mai in realtà esplicitamente sostenuto.
234
Strano, vero? Si può asserire che l’esistenza di qualcosa non è provata, ma non se ne può dimostrare l’inesistenza: dallo yeti
al mostro di Loch Ness, dai fantasmi agli UFO, ma le razze umane presenterebbero questa bizzarra eccezione alla logica. E
d’altra parte, se non esistono, come mai si vedono? Se mettiamo l’uno accanto all’altro un angolano, un coreano,uno
svedese, e chiediamo quale è il nero, quale il bianco, quale il mongolico, anche un bambino può dare la risposta. Forse non
vi stupirà sapere che anche questo paragone non è mio, me l’ha suggerito nel corso di una conversazione Michele Ruzzai.
Di Cavalli-Sforza, comunque, mi piace ricordare una frase che gli “scappò”, una verità detta quasi involontariamente,
nell’intervista rilasciata per il suo novantesimo compleanno:
“Etnia e razza sono praticamente la stessa cosa”.
Ma come? Verrebbe da dire, gli antropologi culturali eredi di Claude Levi Strauss (non quello dei jeans), si sforzano da
decenni di persuaderci che l’etnia non ha nulla a che fare con la razza, che è un costrutto culturale, che l’essere umano è in
tutto il prodotto dell’ambiente e dell’apprendimento, e che la genetica non ha nessuna importanza, e questo qui,
distrattamente, quasi senza nemmeno accorgersene, sfascia tutto, come un colpo di scopa che spazza via decenni di
ragnatele.
Il 3 settembre MANvantara ha riporato un articolo apparso il 13 agosto sulla pubblicazione australiana news.com.au, che ci
parla di Una strana svolta nell’evoluzione umana, L’autrice è Jamie Seidel. Ricercato australiani della New Australian
National University hanno condotto una campagna di scavi in un sito di homo erectus in Arabia saudita facendo delle
scoperte sorprendenti. Ciò che ha portato all’estinzione questa antica specie umana sembra essere stata la pigrizia. Nelle
vicinanze c’è uno sperone roccioso che avrebbe potuto fornire utensili litici di ottima qualità, ma che gli erectus non hanno
mai utlizzato, preferendo pietre più scadenti per risparmiare strada. Ancora, quando la regione si andava desertificando,
hanno preferito rimanervi fin quando le condizioni di vita sono diventate impossibili, piuttosto che migrare altrove. Poiché
noi oggi sappiamo che i neri subsahariani conservano una traccia genetica dell’homo erectus pari fino all’8% del loro DNA,
se ne potrebbero fare delle deduzioni molto, MOLTO politicamente scorrette.
Sempre MANvantara il 4 settembre ci riporta la notizia più sorprendente di questo periodo con un link a un articolo di “The
Hindustan Times”. Fonti NASA avrebbero rivelato che le foto satellitari avrebbero rivelato la presenza dei resti sommersi di
un antico ponte che sembra proprio opera dell’uomo, che risalirebbe a ben 1.750.000 anni fa, nello stretto fra India e Shri
Lanka (Ceylon).
Vi è chiaro cosa significa questo? 1.750.000 anni è all’incirca la stessa età del più antico fossile africano identificato
come homo (cosa per altro non accettata da tutti i ricercatori), il famoso cranio KNM-ER (Kenya National Museum-East
Rudolph) 1470. Se questa scoperta sarà confermata, allora la storia remota della nostra specie sarà tutta da riscrivere, e la
posizione dell’Africa risulterà probabilmente marginale rispetto all’Eurasia.
Non finisce qui, e questo mese scarso che ci separa da ferragosto sembra accumulare novità una più sorprendente dell’altra.
Il 5 settembre Alessio Longhetti ha postato un link a un articolo di “Ancient Origins” dove si parla della cultura di Varna, in
Bulgaria, antica di 7.000 anni e del ritrovamento di una tomba regale con un corredo funebre ricco di oro e monili, una
cultura che sembra avesse ben poco da invidiare alle culture mediorientali coeve e posteriori. L’uomo inumato,
presumibilmente un sovrano, aveva lineamenti prettamente europidi ed era molto alto per l’epoca: 1,80. Noi, naturalmente,
abbiamo imparato a non stupirci del fatto che quando si parla di epoche preistoriche e protostoriche, l’Europa sia la grande
misconosciuta e sottovalutata.
Siamo, lo si vede, in un orizzonte temporale del tutto diverso da quello delle centinaia o delle decine di migliaia di anni,
tuttavia possiamo dire che un sapiens che calpestava il suolo eurasiatico centinaia di migliaia di anni fa, come suggeriscono
i denti di Zhoukoudian e forse il misterioso ponte cingalese, e civiltà evolute presenti sul nostro continente in età neolitica e
calcolitica, ci rimandano lo stesso messaggio: ci è stata raccontata, ci si racconta una storia falsa in cui il ruolo dei nostri avi
è stato ingiustamente minimizzato.
Sta a noi riscoprire e tenere vivo l’orgoglio delle nostre radici.
NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra la copertina del libro Gentes di Claudio Mutti, al centro, il genetista Luigi Luca
Cavalli-Sforza recentemente scomparso, a destra, una foto satellitare della NASA che mostrerebbe i resti sommersi del
ponte fra India e Ceylon risalente a 1.750.000 anni fa.

235
Una Ahnenerbe casalinga, ottantunesima parte

La questione delle origini, l’abbiamo visto diverse volte, si situa su di una molteplicità di livelli, e più si risale indietro nel
tempo, più essa si amplia. Prescindendo da questioni estremamente lontane da noi, quali le origini della vita o dell’intero
universo, i livelli che abbiamo finora considerato sono quattro: le origini dei popoli italici, quelle della civiltà europea (che,
come abbiamo visto anche qui varie volte, abbiamo motivi di considerare la civiltà primigenia), quelle dei popoli
indoeuropei, quelle della nostra specie, homo sapiens, e ora non occorrerà tornare a enumerare tutti i motivi che abbiamo di
ritenere che essa si sia generata in Eurasia piuttosto che in Africa come pretende l’ortodossia “scientifica” democratica.
Tuttavia, a ben vedere, fra il penultimo e l’ultimo di questi livelli se ne potrebbe inserire anche un quinto, ossia l’origine e la
storia più remota dei popoli caucasici, “bianchi”, di cui gli Indoeuropei costituiscono solo una frazione. E’ una questione, va
detto subito, che quasi si confonde con quella delle origini stesse della nostra specie, infatti al riguardo le prove
archeologiche, i resti fossili sono di un’evidenza solare: i più antichi fossili di homo sapiens che conosciamo, a cominciare
dall’uomo di Cro Magnon che rappresenta un po’ il prototipo del sapiens paleolitico, rientrano agevolmente nella
morfologia caucasica-europide, mentre le caratteristiche mongoliche e subsahariane (usiamo pure questo termine
“politicamente corretto” al posto di uno probabilmente più chiaro, tanto non è la terminologia ad avere importanza)
appaiono relativamente tardi e rappresentano l’adattamento a condizioni locali e/o la conseguenza del re-incrocio con
popolazioni che avevano preso una strada divergente rispetto al filone principale dell’umanità.

In particolare, abbiamo già visto che la pretesa di ricondurre l’origine di tutti noi al nero subsahariano non ha nessun
fondamento scientifico, è un’ubbia ideologica, una favola inventata per scopi “antirazzisti” che non trova nessun
fondamento, ed è chiaramente smentita dall’archeologia e dalla genetica.
Abbiamo visto anche, ed è un punto sul quale ora è utile tornare, che la “scienza” ufficiale ci offre un’immagine riduttiva
delle popolazioni caucasiche stanziate nella protostoria e in età antica sul suolo europeo e sulle sponde del Mediterraneo.
La tradizionale (ma sarebbe meglio dire convenzionale) tripartizione di esse in semiti (Assiri, Babilonesi, Fenici, Ebrei,
Arabi), camiti (Numidi, antichi Egizi, Copti, probabilmente Cananei) e indoeuropei ricalca la narrazione biblica in
riferimento ai figli di Noè, Sem, Cam, Jafet da cui si suppone che esse discenderebbero. Noi non dobbiamo dimenticare che
la bibbia non è un testo scientifico, e anche come documento storico vale quello che vale, che è stata scritta da gente che
non sapeva nulla di quel che esisteva a occidente del Nilo e a oriente dell’Eufrate.
Anche se la bibbia non può, ovviamente, essere riscritta, quanto meno occorre aggiungere un quarto gruppo “mediterraneo”
che dovrebbe comprendere Iberici, Liguri (un tempo presenti non solo nell’angolo nord-occidentale dell’Italia ma in gran
parte di quella che oggi è la Francia meridionale), Etruschi, Minoici, Pelasgi, per non parlare del quinto gruppo
rappresentato dalle popolazioni ugrofinniche, anch’esse di ceppo caucasico e non mongolico come viene dato talvolta a
intendere (è interessante notare che oggi in Europa le maggiori percentuali di biondismo si trovano in Ungheria e in
Finlandia, cioè nelle aree ugrofinniche per eccellenza), o almeno, questo è quanto riporta Adriano Romualdi in quel bel
saggio che costituisce l’introduzione all’edizione italiana di Religiosità Indoeuropea di Hanns F. K. Gunther.
Noi possiamo dunque vedere che la prospettiva dalla quale consideriamo la nostra storia più remota, e che discende dai
magnanimi lombi della concezione biblica, non è solo mutila ma è distorta, non soltanto ignora mediterranei e ugrofinni, ma
considera poco gli stessi indoeuropei e accentra la sua attenzioni su quelle parti del mondo caucasico, semitiche e camitiche,
maggiormente infiltrate al punto di vista genetico da elementi subsahariani.
E le popolazioni non caucasiche? Forse i loro antenati sono giunti su questo pianeta a bordo di dischi volanti?
Ciò premesso, la storia non finisce certo qui. Un elemento di origine caucasica si trova alla base di tutte le grandi civiltà
antiche, del Medio Oriente, dell’Asia orientale, dell’America precolombiana. Là dove non c’è traccia di esso, come nel caso
dell’Africa nera subsahariana, dell’Australia aborigena, della Nuova Guinea, vediamo che le popolazioni native non si sono
schiodate di un millimetro dal paleolitico fino all’arrivo dell’uomo bianco.

236
Di tutto ciò ho parlato più volte, negli articoli compresi in questa rubrica e in quelli raccolti sotto il titolo Ex Oriente lux, ma
sarà poi vero?, ragion per cui ora basterà un riepilogo sintetico. Sul fatto che il più antico popolamento umano dell’Asia sia
rappresentato da un substrato caucasico/europide poi sommerso all’espansione delle popolazioni di ceppo mongolico, è una
cosa su cui si possono avanzare pochi dubbi, ne è una testimonianza eloquente l’antica cultura dei Kurgan, questi tumuli
sepolcrali sparsi per le steppe dell’Asia centrale, cultura che ricercatori come Gordon Childe e Marija Gimbutas identificano
con la cultura madre dei popoli e delle culture indoeuropee.
I resti umani inumati nei Kurgan ci rivelano qualcosa di molto interessante, la progressiva sostituzione di un tipo umano
caucasico con uno mongolico senza che la cultura materiale si modifichi gran che. Sembra una prefigurazione del destino
che toccherà a noi se non la smetteremo di tollerare per buonismo suicida un’invasione che ci si presenta falsamente come
immigrazione dal Terzo Mondo.
Si è parlato molto delle mummie di Cherchen, mummie ritrovate nel deserto del Takla Makan, mummie naturali prodotte
dal clima torrido e secco che avrebbe conservato questi corpi in condizioni ottimali, corpi che presentano caratteristiche
europidi evidenti, “celtiche” le ha definite qualcuno. Tuttavia in questo caso è probabile che si tratti della traccia di
un’immigrazione più recente anche se sempre preistorica. Queste persone appartenevano verosimilmente al popolo dei
Tocari che ci ha lasciato iscrizioni in una lingua di ceppo indoeuropeo occidentale “centum” (cui appartengono le lingue
latine, germaniche, celtiche e il greco, mentre il gruppo orientale “satem” comprende le lingue slave e indo-iraniche).
Sempre a questa antica immigrazione europea verso il cuore dell’Asia sono probabilmente da collegare i biondi Kalash e
Hunza che tuttora abitano le alte valli del Pakistan.
E’ certamente una cosa che molti troveranno sorprendente, ma noi troviamo una presenza caucasica/europide anche nelle
Americhe risalente a molto prima di Colombo e dei Vichinghi, ed è ragionevole supporre che essa sia alla base delle civiltà
precolombiane.
Si hanno tracce di popolamento umano nelle Americhe risalenti a 40.000 anni fa, un tempo almeno doppio o triplo rispetto a
quello in cui sarebbero iniziate le ondate migratorie attraverso l’istmo o lo stretto di Bering. Chi erano questi antichi
americani che avrebbero preceduto gli Amerindi?
Nel 1999 due archeologi dello Smithsonian Institute, Dennis Stanford e Bruce Bradley, studiando l’industria litica Clovis,
la più antica del continente americano, hanno scoperto che essa non presenta nessuna somiglianza con quella della Siberia
da cui provengono gli antenati degli Amerindi, ed ha invece una somiglianza spiccata con un’industria litica europea,
quella solutreana. Non basta. Sebbene il sito che ha dato il nome a questa cultura, Clovis, appunto, si trovi nel Nuovo
Messico, la maggior parte dei siti in cui compaiono questi manufatti si trova nell’est degli attuali Stati Uniti, concentrata
soprattutto attorno alla Chesapeake Bay, la grande baia che lambisce tre stati: Virginia, Delaware e Maryland, oltre al
Distretto di Columbia: una disposizione che suggerisce una provenienza dal mare ed un irradiamento da est verso ovest.
Nell’età glaciale, argomentano Stanford e Bradley, il livello degli oceani era significativamente più basso di oggi a causa
della grande quantità di acqua imprigionata sotto forma di ghiaccio sulle masse continentali, inoltre un’ininterrotta “linea
costiera” di ghiacci si estendeva dalla sponda europea a quella americana dell’Atlantico inglobando l’Islanda e la
Groenlandia.
Per dei cacciatori solutreani che si spostassero lungo di essa a bordo di canoe dando la caccia a foche ed altri animali
marini, ipotizzano i due archeologi, raggiungere il Nuovo Mondo sarebbe stato tutt’altro che impossibile.
In tempi più recenti, questo quadro tracciato da Stanford e Bradley ha ricevuto un’imponente conferma dalla genetica. Circa
un terzo del genoma degli amerindi risale al tipo paleolitico definito “eurasiatico settentrionale”, cioè lo stesso che
costituisce la componente principale del patrimonio genetico degli Europei.
Non va poi dimenticato il rinvenimento a Kennewich nello stato di Washington, di uno scheletro risalente a 11.000 anni fa,
l’uomo di Kennewich, appunto, dalle sorprendenti caratteristiche europidi.
Sono inoltre note da tempo popolazioni amerindie accentuatamente “bianche”, nell’America del nord i Mandan oggi estinti,
in quella meridionale gli Aracani e i Kilmes, di questi ultimi parla diffusamente Gianfranco Drioli nel suo bel
libro Iperborea, la ricerca senza fine della patria perduta (edizioni Ritter).
Tornando più vicino a noi, il caso più sorprendente è forse quello dell’antico Egitto. La civiltà egizia appare come una
singolare anomalia, appare come una grande civiltà che spunta dal nulla sorprendentemente “matura” e che nell’arco di tre
millenni non innova praticamente nulla (l’unica invenzione “nuova” che vi compare a un certo punto è il carro da guerra,
che non è un’invenzione egizia, ma fu portato nella Valle del Nilo dai nomadi Hyksos), ma in compenso sembra semmai
perdere capacità tecniche; le grandi piramidi di Saqqara e della piana di Giza, ad esempio, furono opera dei faraoni delle
prime dinastie, una tecnica costruttiva che fu poi abbandonata, come se fossero andate perse le capacità tecniche necessarie
a realizzarle.
Ebbene, altro fatto di cui si evita graziosamente di informare il grosso pubblico, si è scoperto che le mummie dei faraoni e
della maggior parte dei personaggi di alto rango avevano caratteristiche antropologiche differenti da quelle della maggior
parte della popolazione che abitava e abita ancora oggi la regione: caratteristiche marcatamente europee, spesso con capelli
biondi o rossicci.

237
Allora le peculiarità della civiltà egizia non potrebbero spiegarsi con la presenza prima, poi con il progressivo affievolirsi a
causa degli incroci con la popolazione nativa, di un’élite di origine europea?
Commentando la sessantesima parte della nostra rubrica, un lettore, Roberto Fattore ha scritto: “Forse le antichissime élite
egiziane erano provenienti dall’Europa in seguito ai disastri seguiti alla fine dell’ultima glaciazione. Le piramidi della
Bosnia appaiono oggi ricoperte di terra, quasi fossero colline naturali, ma si pensa che siano state ricoperte in quel modo
dalla marea di fango e detriti dovuti al disgelo della calotta glaciale, quando enormi laghi glaciali riversarono le loro acque
sui terreni circostanti. I costruttori di quelle piramidi possono essersi rifugiati in Egitto, dove, forti delle loro conoscenze,
acquisirono il dominio sulle popolazioni locali ed eressero le piramidi che oggi conosciamo”.
Devo dire che l’ipotesi avanzata dal nostro lettore mi sembra sommamente plausibile. Certamente, i disastri e le inondazioni
provocate dalla fine dell’età glaciale e l’improvvisa liberazione di enormi masse di acqua, devono aver spinto le popolazioni
dell’Europa a cercare riparo verso sud, ed è probabilmente in seguito a questi eventi che si formano le grandi civiltà
mediterranee, infatti, ci sarebbe ancora solo una considerazione da aggiungere: per quanto lo stato estremamente precario
della conservazione dei resti umani in questa regione permette di stabilire, sembra che un discorso analogo a quello
dell’Egitto valga anche per la Mesopotamia, anche qui le élite sembrano aver avuto caratteristiche fisiche europee che le
distinguono marcatamente dal tipo indigeno.
Tutto questo l’abbiamo sostanzialmente già visto in varie parti della nostra ricerca (non solo Una Ahnenerbe casalinga ma
anche Ex Oriente lux, ma sarà poi vero?), e forse non varrebbe la pena di tornarci sopra se non fosse per il fatto che
probabilmente a questa storia manca ancora un capitolo. E’ verosimile che le antiche popolazioni caucasiche si siano
sviluppate in due grandi ramificazioni: un ramo occidentale che avrebbe dato origine alle popolazioni indoeuropee,
semitiche, camitiche, mediterranee e ugrofinniche, e un ramo orientale di antica diffusione in Asia ma poi sommerso dalla
diffusione delle popolazioni di ceppo mongolico, di cui rimangono alcune aree marginali, come i Daiaki del Borneo, gli
Jomon-Ainu del Giappone e i Polinesiani.
Del Giappone, del fatto che in epoca preistorica fosse abitato da una popolazione di ceppo caucasico, gli Jomon, di cui oggi
gli Ainu dell’isola di Hokkaido rappresentano verosimilmente il residuo, del fatto che il giapponese odierno, mongolizzato
nei tratti fisici, rimane sostanzialmente caucasico a livello animico e psicologico, del fatto che molti tratti della cultura
nipponica, la fedeltà agli antenati implicita nella religione dello Shinto, la devozione alla propria terra e alla figura
imperiale, il Bushido, il codice cavalleresco dei samurai ci appaiono paradossalmente più indoeuropei, più vicini a noi di
quel che troviamo oggi nella “nostra” cultura pesantemente contaminata da elementi semitici: cristianesimo, marxismo,
psicanalisi che hanno tutti il marchio di fabbrica dei “figli di Abramo”, abbiamo parlato più volte.
I Polinesiani, partendo dalle isole del Sud-est asiatico si sono espansi per tutto il Pacifico fino ad arrivare quasi alle coste
occidentali dell’America (l’Isola di Pasqua che rappresenta la propaggine massima di questa espansione è oggi territorio
politicamente cileno), una colonizzazione tanto più eccezionale se pensiamo che fu compiuta con imbarcazioni e mezzi
rudimentali, e i Polinesiani sono stati perciò chiamati i vichinghi del Pacifico.
L’ortodossia “scientifica” ufficiale che sembra essersi fatta un sacrosanto dovere di minimizzare anche contro l’evidenza
tutto quanto è caucasico, “bianco”, ha voluto assimilare i Polinesiani ai Malesi inventandosi il gruppo maleo-polinesiano,
ma a smentirla basterebbe la testimonianza di James Cook. Il navigatore nei suoi diari di bordo ha riferito più volte che i
Polinesiani erano di pelle più chiara di quella dei suoi marinai.
Al riguardo, tra l’altro, si può riconoscere un parallelo con quanto constatato da Francisco Pizarro in Perù, che dovette
accorgersi che i membri dell’aristocrazia incaica, soprattutto le “coyas”, le donne che costituivano l’harem dell’inca, erano
di pelle più chiara di quella degli spagnoli, ma, come abbiamo visto, quello dell’impronta genetica caucasica, “bianca”
dell’America precolombiana è un altro capitolo minimizzato o ignorato della nostra storia.
Oggi vediamo sotto i nostri occhi gli esiti (disgraziatamente non gli ultimi) di una politica internazionale tesa a far
scomparire l’uomo caucasico sotto la massa delle genti “colorate”, si chiama piano Kalergi. Se ciò riuscisse, distruggendo il
tipo umano che è alla base della civiltà e di tutti i progressi della nostra specie, gli avvoltoi che stanno dietro di esso non
otterrebbero nessuna vittoria, ma solo di segare il ramo su cui sono appollaiati.
NOTA:
Nell’illustrazione: a sinistra, teschio e ricostruzione di un uomo di Cro Magnon, al centro, statua di un guancio delle isole
Canarie, I Guanci sono stati la popolazione vissuta in epoca storica considerata più simile all’uomo di Cro Magnon. Fra i
popoli oggi viventi, i più simili ai Cro Magnon e ai Guanci, sarebbero i Tuareg, e a destra una donna tuareg, la cantante
Hindi Zahra. E’ dunque ben visibile se “il prototipo” della nostra specie sia rappresentato da una tipologia umana
subsahariana o non piuttosto caucasica.

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Una Ahnenerbe casalinga, ottantaduesima parte

Come sapete, sulle pagine di “Ereticamente”, è mia abitudine – anche se non rappresenta una regola fissa – alternare questi
articoli che trattano dell’eredità degli antenati (tale è il significato della parola tedesca Ahenerbe) ad altri di altra natura. E’
raro che abbia saltato qualche articolo di questa serie e ancor più raro che abbia collocato due Ahnenerbe di seguito, ma
stavolta occorre proprio fare un’eccezione, perché in questo periodo in cui sto scrivendo, la fine di settembre, sono accaduti
dei fatti nell’ambito che ci interessa su cui sarà bene dire la nostra al più presto senza lasciar trascorrere troppo tempo,
anche se la nostra periodicità non permette di stare sugli eventi proprio in tempo reale.
Era mia intenzione questa volta tornare a considerare il lavoro dei gruppi FB che si occupano delle tematiche delle origini,
un lavoro di aggiornamento che a questo punto sarebbe doveroso, visto che l’ultima volta che mi sono dedicato a esso, è
stato giocoforza fermarmi agli inizi di settembre. Beninteso, lo faremo, ma solo in parte, rimandando il lavoro di dettaglio a
un altro momento, perché sugli ultimi eventi occorre senz’altro dire qualcosa al più presto.
Talvolta ho l’impressione di combattere un’autentica lotta nel tentativo di riuscire a dire, a presentarvi sulle pagine di
“Ereticamente” tutto quanto ci sarebbe da dire. L’articolo che costituisce l’ottantunesima parte, l’avete visto, è stato
dedicato a una riflessione importante: la tematica delle origini, l’abbiamo visto altre volte, si può suddividere in più livelli:
l’origine dei popoli italici, della civiltà europea, dei popoli indoeuropei, della nostra stessa specie umana, ma, come vi ho
fatto rilevare, fra il penultimo e l’ultimo di essi si può situare ancora un livello, quello dell’origine delle popolazioni
caucasiche di cui gli Indoeuropei sono solo una frazione, livello però che si confonde con quello delle origini stesse
dell’umanità, poiché “il prototipo” della nostra specie è appunto l’uomo caucasico, NON il nero subsahariano come ci
racconta la menzogna “politicamente corretta” dell’Out of Africa.
Tuttavia, vi interesserà sapere che questa parte contenente questa importante riflessione è più volte scivolata in coda di
fronte a notizie che richiedevano aggiornamenti più urgenti, e d’altra parte, sapete che la tematica delle origini non è il solo
discorso che sto cercando di tenere in piedi sulle pagine di “Ereticamente”, anche se è quello cui finora ho dedicato
maggiore spazio.
Ciò nonostante, si vede bene che questo articolo, dove ad esempio rispondo a un’osservazione mossami da un lettore
riguardo alla sessantesima parte, un’osservazione peraltro di grande interesse riguardante le piramidi bosniache di Visoko,
ha fatto quasi un eanno di anticamera, sempre naturalmente per l’esigenza di dare la precedenza a cose che richiedevano una
trattazione più tempestiva, il lavoro dei gruppi FB e tutto il resto, il che, se ci pensate, è davvero sorprendente, visto che non
stiamo parlando di cronache politiche in senso stretto, né sportive, né di gossip o simili.
Cominciamo parlando del nostro amico Michele Ruzzai. Si tratta di una persona di una notevole cultura e competenza sugli
argomenti che ci interessano. Come sapete, ho preso spessissimo spunto in questi articoli dai suoi post e recensioni
pubblicati nel gruppo FB MANvantara. Si tratta però di una persona con una tendenza a sottovalutarsi, una dose di modestia
che ne fa l’esatto contrario di tanti incompetenti usi a pontificare e considerarsi dei padreterni.

Ciò è bello ma poco pratico. Mi è capitato di lamentarmi del fatto che suoi nuovi contributi non comparissero da diverso
tempo sulle pagine di “Ereticamente”, rincrescimento peraltro pienamente condiviso dai redattori della nostra
pubblicazione. A settembre il nostro Michele ha finalmente postato su MANvantara (e l’abbiamo atteso parecchio) il testo
della sua conferenza sull’origine degli indoeuropei tenuta a Trieste presso il circolo Identità e Tradizione il 27 gennaio
2017. L’occasione era troppo ghiotta: ho girato il pezzo agli amici di “Ereticamente” e ne abbiamo fatto una pubblicazione a
sorpresa.
Riguardo a questo interessante articolo, ci sarebbe solo un piccolo appunto da muovere: è un peccato che Michele non abbia
inserito in esso una riflessione che invece si trova nella presentazione alla mia conferenza di sabato 11 marzo, sempre
presso il circolo Identità e Tradizione, Alle origini dell’Europa. Introducendo questa tematica, Michele notava che ad
eccezione dell’Europa, tutti gli altri continenti presentano una tipologia razziale mista: l’Asia caucasoide a occidente e
mongolide a est, ma anche con una presenza pigmoide (Negritos delle Filippine). Volendo essere pignoli (e io lo sono) si

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potrebbe pure aggiungere un elemento australoide, Toda dell’India, l’Africa caucasoide a nord e nera al sud del Sahara, con
pigmoidi (Pigmei) al centro e khoisanidi (Boscimani e Ottentotti) al sud, l’Oceania australoide, ma anche negroide
(Melanesiani, Papua) e caucasoide (Polinesiani), l’America (e parliamo di prima del 1492) che ha visto varie ondate
mongolidi sovrapporsi a un originario popolamento europide (i solutreani della cultura Clovis).
L’Europa no, è sempre stata unicamente europide dal paleolitico a oggi. Io penso che sia stata proprio questa omogeneità
razziale la qualità che ha fatto dell’Europa il centro e il motore della civiltà umana, perché, contrariamente a quanto
asseriscono i fautori della multietnicità, il meticciato provoca soltanto decadenza, e l’immissione di grandi quantità di
sangue totalmente estraneo cui stiamo assistendo negli ultimi decenni, non potrà produrre altro che la rovina del nostro
continente.
Devo dire la verità: presentando la mia conferenza, Michele Ruzzai fece un’esposizione così chiara, avvincente e completa
da darmi l’impressione – e lo dissi agli ascoltatori – che a me non fosse rimasto praticamente nulla da dire, ma poi non feci
il ritroso e tenni la conferenza.
Come vi ho detto, un approfondimento sul lavoro dei gruppi FB di questo periodo lo rimandiamo alla prossima volta, ma
occorrerà fare almeno un’eccezione. Un gruppo cui finora non ho dedicato sufficiente attenzione è “Il pianeta delle
scimmie”. Per la verità, pensavo che si trattasse di un gruppo di fantascienza, il nome, infatti, rimanda al titolo del romanzo
di Pierre Boulle, nonché dei diversi film ispirati a esso che hanno generato una serie televisiva e, in tempi più recenti,
diversi remake, ma un esame più attento ci fa capire che le cose non stanno precisamente così, infatti notiamo il sottotitolo:
“Archeologia, storia ed enigmi irrisolti”, cioè precisamente le tematiche di cui ci occupiamo noi.
Ultimamente in questo gruppo sono apparsi due link, uno a un filmato di you tube, l’altro a un articolo di accademia.edu,
dedicati alle misteriose strutture megalitiche di epoca imprecisata che si trovano nei pressi del monte Gornaya Shoria in
Siberia. Non c’è niente da fare, tutti gli indizi di un passato misterioso dell’umanità non considerati dalla “scienza”
ufficiale, non puntano verso l’Africa, ma nella direzione opposta, verso l’alto nord dell’Eurasia.
Se vi chiedessi dove secondo voi si trova il discrimine, la barriera che separa il primate non umano dall’umano, penso che la
maggior parte di voi risponderebbe “L’intelligenza e l’autoconsapevolezza”, ma se vi chiedessi poi cosa sono l’intelligenza
e l’autoconsapevolezza, sono certo che avreste delle difficoltà a rispondere. Un aiuto a trovare queste risposte certo non
facili, ci può venire dal più recente libro di Silvano Lorenzoni, una ricerca sulle Intelligenze collettive, vale a dire il
confronto con quelle intelligenze non di tipo umano che sono rappresentate dai cosiddetti insetti sociali: api, formiche,
termiti. Cosiddetti perché l’alveare, il formicaio, il termitaio non sono società come le nostre,composte da individui
autonomi, ma veri e propri super-organismi di cui il singolo insetto non è che una semplice cellula incapace di sopravvivere
fuori da essi. Questo confronto serve anche a mettere in luce alcuni aspetti tipici del mondo umano, l’uso o il disuso
dell’intelligenza. La cosiddetta intelligenza artificiale, che in realtà non è affatto tale. Una macchina, anche il computer più
potente e tecnologicamente sofisticato non può far altro che calcoli, cioè manipolazione di segnali che per essa non
acquistano mai un significato, può cioè elaborare ma non capire, ed è conseguentemente incapace di prendere decisioni che
non siano quelle stabilite da un programmatore umano, non può avere una volontà propria. Si comprende quindi che tutte
“le speranze” del post-umanesimo diventato una sorta di religione, non sono altro che illusioni, il sogno di beneficiare
dell’immortalità sostituendo ai nostri fragili corpi l’hardware di un computer, rimane una chimera irrealizzabile. Se anche
riuscissimo a trasferire in un computer le registrazioni complete di ogni aspetto della nostra esistenza, sarebbero
registrazioni e nient’altro, non saremmo noi.
Un aspetto per il quale nel mondo umano si può verificare una condizione che in qualche modo si avvicina alle intelligenze
collettive, è la condizione di folla, la cui psicologia è stata studiata da Gustave Le Bon a cui l’autore in parte si richiama.
Nella folla il singolo perde in una certa misura la sua individualità per una sorta di contagio psichico, ed essa agisce come
una sorta di intelligenza collettiva più emotiva e irrazionale dei suoi componenti presi separatamente. Lorenzoni fa notare
che il fenomeno della folla è tipico delle religioni monoteistiche, si pensi alle suggestioni di massa che stanno alla base di
certi “eventi miracolosi”, e che certe razze umane, in particolare la nera, sono più inclini di altre a cadere sotto queste forme
di invasamento collettivo. Per menzionare un episodio recente, ricordiamo come i “nuovi francesi” che oggi impestano
quella che un tempo fu una delle più belle capitali d’Europa, hanno “festeggiato” la vittoria ai mondiali di calcio della
“Francia” multietnica, con un’orgia di violenza gratuita.
Passiamo ora a due recenti eventi, che sono quelli che, insieme all’esigenza di “battere il ferro finché è caldo”, giustificano
questa Ahnenerbe “straordinaria”. Il 26 settembre sul blog “Sempre cinque stelle” semprecinquestelle.altervista.org è
comparso un video di un Matteo Renzi che sembra essersi improvvisato antropologo, che spiega che poiché veniamo tutti
dall’Africa e abbiamo tutti un bisnonno africano, ci tocca accettare l’immigrazione.
Geniale, vero? Perché qui saltano tutti i distinguo tra Out of Africa I e Out of Africa II, tra africano in senso geografico e
nero in senso antropologico dietro cui si nascondono gli specialisti per non rendere evidente la falsità di questa “teoria
scientifica” e si evidenzia il messaggio subliminale che tramite essa si cerca di far arrivare alla gente.
La cosa ha un retroscena piuttosto buffo, perché io ho linkato su MANvantara questo video assieme a un commento non
proprio tenero verso il piccolo genio di Rignano sull’Arno. Il commento mi è stato prima rimosso, poi ripristinato da
facebook, con la motivazione che vi trascrivo.
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“Ti ringraziamo nuovamente per averci fornito informazioni su questo post. Lo abbiamo esaminato nuovamente e abbiamo
determinato che rispetta i nostri Standard della community, pertanto lo abbiamo ripristinato. Siamo spiacenti per
l’inconveniente e ti ringraziamo per il tempo dedicato a contattarci affinché potessimo intervenire”.
Queste sono soddisfazioni, alla faccia del segnalatore chiunque sia stato, e della sua mammina che esercita il mestiere più
antico del mondo.
Mi è stato fatto osservare che potrebbe trattarsi di una bufala, di un fake. Anche in questo caso le cose non cambierebbero
un gran che. La situazione è analoga a quella di certi “protocolli” che sono certamente un falso dal punto di vista del
copyright letterario, tuttavia sono assolutamente veritieri nel rivelare ciò che è stato messo in atto dopo la loro
pubblicazione. Anche qui, è indifferente che si tratti di un abile montaggio o Renzi abbia realmente detto queste cose, ciò
che conta, è che si mettono bene in luce i retroscena dell’Out of Africa, della suggestione che intendono inculcarci.
Il 24 settembre “Il primato nazionale” ha pubblicato un articolo di Carlomanno Adinolfi, La teoria dell’origine africana
dell’uomo continua a perdere pezzi, che è un discreto riassunto delle recenti scoperte e dei motivi che rendono sempre meno
credibile l’Out of Africa: i ritrovamenti di Djebel Irhoud, quello dell’uomo di Denisova nell’Altai, e di Denny, la ragazzina
siberiana di 90.000 anni fa di padre denisoviano e madre neanderthaliana, e infine la scoperta l’anno scorso dell’ominide
balcanico “El Greco”, tutte cose di cui io stesso vi ho parlato con ampiezza.
Ci sarebbe un solo appunto da muovere all’esposizione di Adinolfi: sappiamo che il predecessore della nostra specie a un
certo punto si è suddiviso in due varietà, una, eurasiatica, si è sviluppata e ulteriormente differenziata nelle tre “famiglie” di
Cro Magnon, Neanderthal e Denisova, e rappresenta la linea che porta fino a noi, l’altra, afriacana, è rimasta immutata fino
a poche decine di migliaia di anni fa, quando, incrociandosi con i sapiens provenienti dall’Eurasia, avrebbe dato origine agli
odierni subsahariani. Ora perché, come fa Adinolfi, chiamare Heidelbergensis la varietà africana? Heidelberg è una città
europea, e fino ai tempi odierni, è inverosimile che gli africani vi siano mai arrivati. Meglio, io penso, lasciare questo
termine per la varietà eurasiatica nostra precorritrice.
Come era prevedibile, l’articolo di Adonolfi ha provocato la reazione collerica di Ethnopedia, la solita Ethnopedia che altre
volte se l’è presa anche con noi, “la voce del padrone”, del potere mondialista in campo paleoantropologico. Secondo
l’articolo, ma sarebbe meglio dire il pistolotto di Ethnopedia, noi commetteremmo l’errore o avremmo la pretesa di rifiutare
l’Out of Africa semplicemente perché non ci piace. E’ la classica storia del bue che da del cornuto all’asino. Non sono
coloro che rifiutano l’Out of Africa, ma coloro che vi si attano a tutti i costi, quelli che si pronunciano in base a una pura
ubbia ideologica, e questo si vede molto bene: Adinolfi cita dati, ritovamenti, fossili che sono là nella loro incontestabile
fisicità, come d’altra parte ho sempre fatto anch’io. Da parte di Ethnopedia, invece, abbiamo il puro enunciato ideologico e
il borborigmo livoroso del disonesto preso in castagna.
Non saranno certo questi mezzucci a fermarci, a impedirci di risvegliare la consapevolezza delle persone.
NOTA:
Nell’illustrazione: A sinistra, questa elaborata M è l’immagine del profilo facebook di Michele Ruzzai. Al centro, il relitto
della statua della libertà che è l’ultima inquadratura del film Il pianeta delle scimmie, il primo della lunga serie ispirata al
romanzo di Pierre Boulle, che è anche l’immagine di copertina dell’omonimo gruppo facebook (particolare), a destra, il
libro Intelligenze collettive di Silvano Lorenzoni. La foto riportata sulla coperrtina del libro è quella di un apicultore
vietnamita che è riuscito a stabilire con le sue api un rapporto tale da potersene far ricoprire senza subire alcun danno.

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Una Ahnenerbe casalinga, ottantatreesima parte

Ricominciamo l’analisi dell’attività dei gruppi FB che si occupano delle tematiche connesse con l’eredità ancestrale. Questa
volta tocca ripartire da abbastanza indietro, dagli inizi di settembre, complice il fatto che l’ottantunesima parte l’ho dedicata
a una riflessione personale sull’origine dei popoli caucasici, e l’ottantaduesima è stata un’ “edizione speciale” a commento
di due fatti quali la pronuncia sull’Out of Africa di Matteo Renzi e l’articolo sul “Primato nazionale” di Carlomanno
Adinolfi cui è seguita la discutibilissima “confutazione” di Ethnopedia.
Il filmato del discorsetto di Renzi su You Tube pare sia una bufala, ma è una bufala VERITIERA, che rivela molto bene gli
scopi dell’Out of Africa, le suggestioni che ci vogliono imporre attraverso questa “teoria” pseudoscientifica.
Forse più di altre volte, è necessario premettere che quello che sto cercando di tracciare, è un discorso personale, centrato
sulle tematiche dell’eredità degli antenati, all’interno del lavoro di questi gruppi che si occupano di molte altre cose:
metapolitica, spiritualità tradizionale, esoterismo.
L’8 settembre Nazzareno Mollicone ha postato su MANvantara una foto della carcassa di mammut risalente a 44.000 anni
fa rinvenuta in Siberia conservata al Museo di Zoologia di San Pietroburgo, con una riflessione ovvia ma importante alla
quale non molti sembrano arrivare: per permettere ad animali di quella mole di vivere e di trovarvi nutrimento sufficiente, il
clima della Siberia di allora doveva essere molto diverso da quello di oggi, e consentire la presenza di una vegetazione
rigogliosa.
Rimaniamo in Siberia, ma parliamo di tempi molto più vicini a noi: da una sepoltura tipo kurgan di circa 3000 anni fa nella
regione dell’Altaj, sono riemersi i resti di una giovane donna di alta statura e dai lineamenti prettamente europidi oggi nota
come principessa Ukok, anche se pare fosse piuttosto una sciamana, comunque un personaggio di alto rango. Ne abbiamo
già parlato altre volte. Pier Ferreri ce la ricorda il 9 settembre cron il link su MANvantara a un articolo di lastoriaviva.it
Sempre il 9, Alessio Longhetti pone una questione interessante: in antico persiano il termine per re è Xayathiy, che è molto
simile al sanscrito Xatriya che è il nome dato alla casta dei guerrieri. La radice non potrebbe essere la stessa del greco
Xantos, biondo? Caratteri nordici, alta statura e biondismo, difatti si riscontano frequentemente nelle élite guerriere
indoeuropee. In età classica, gli spartiati, i guerrieri spartani conservavano ancora queste caratteristiche, anche se questa
élite guerriera, mai numerosa, fu letteralmente falcidiata nelle guerre persiane, in quella del Peloponneso e poi contro Tebe.
E’ noto che quando i Tebani giunsero a Sparta, chiesero dove fossero quei famosi spartiati.
“Se ve ne fossero ancora”, gli fu risposto, “Voi non sareste qui”.
Il 13 settembre, sempre su MANvantara, abbiamo non una recensione ma il link alla pubblicità di un libro in lingua inglese,
The Lost continent of Pan, di Susan B. Martinez. Secondo l’autrice, le somiglianze fra le antiche culture cinese, egizia,
indiana, messicana e peruviana si spiegherebbero con l’eredità di una civiltà esistita in un continente oggi scomparso nel
Pacifico. Pan? Mi erano già noti i nomi di Mu e Lemuria, ma Pan mi giunge nuovo, anche se pare modellato su Pangea.
Lo stesso giorno abbiamo un link a un articolo di “The Siberian Times” che segnala il ritrovamento dei resti ben conservati
di un cucciolo di leone delle caverne risalenti a 50.000 anni fa. Come i mammut, come i resti del puledro di cui abbiamo
parlato una delle volte scorse, anche questo ritrovamento ci fa vedere che all’epoca l’alto nord artico era abitabile, con un
clima molto diverso da quello attuale.
Abbiamo poi il ripescaggio di una recensione di Michele Ruzzai del 27 gennaio 2017 al libro Quando il mare sommerse
l’Europa di Vittorio Castellani. Tra l’altro, sulla scorta dell’autore, Michele evidenzia la sorprendente rapidità della
comparsa nelle regioni costiere atlantiche dell’Europa occidentale di una cultura megalitica e agricola, che fa pensare alla
provenienza da regioni oggi sommerse del nostro continente (Atlantide?).
Sempre in tema di ripescaggi, il nostro Michele riporta poi una sua “breve nota” del 2016 in cui risponde alla domanda su
quali sono le fonti antiche, cui si sono ispirati gli autori della Tradizione, riguardo al mito degli Iperborei. Beh, qui non c’è
che l’imbarazzo della scelta: dagli autori greci ai Veda indiani, all’Avesta iranica.
Il 15 settembre Alessio Longhetti riporta un link a un articolo del Guardian sulla genetica degli antichi Irlandesi che
testimonierebbe un’origine mediorientale, ma, osserva il nostro amico:
“Eppure la ricostruzione del volto dei resti di una donna neolitica trovati vicino a Belfast mostrano tratti uguali a quelli dei
moderni sudeuropei e in particolare della zona balcanica. Possiamo quindi dire che le più antiche civiltà mediorientali
furono sviluppate da popolazioni di razza mediterranea o dinarica e che l’arabizzazione dell’area cominciò solo in seguito
alla guerra santa invocata da Maometto ?”
In effetti, grazie alla pratica della mummificazione, conosciamo bene sia il fenotipo sia il DNA degli antichi Egizi, e
sappiamo che erano nettamente più “europei” di coloro che abitano oggi la Valle del Nilo e non presentavano, a differenza
di quel che accade oggi, alcuna infiltrazione di sangue subsahariano, e che le élite faraoniche avevano caratteristiche
decisamente nordiche.
Abbiamo poi un altro ripescaggio, una recensione del 21 gennaio 2017 di Michele Ruzzai del libro La nozione di
indomediterraneo in linguistica storica di Domenico Silvestri. Si tratta di un argomento interessante e assai poco conosciuto.
Gli Indomediterranei sarebbero un gruppo di antiche popolazioni di tipo caucasico che avrebbero popolato l’area compresa
tra il Mediterraneo orientale e l’India prima degli Indoeuropei e dei camito-semiti, a esso apparterrebbero i Dravidi creatori
242
della civiltà di Mohenjo-Daro e – forse – i Sumeri.
Il 16 settembre ho linkato io su MANvantara un articolo (in lingua inglese) ripreso dal sito americano di Carolyn Yeager, a
firma di Byorn Carey dal titolo (tradotto in italiano) I primi americani potrebbero essere stati europei. Si tratta della tesi di
Stanford e Bradley di cui vi ho già ampiamente parlato, secondo la quale, prima che da popolazioni asiatiche provenienti dal
ponte di terra della Beringia, il Nuovo Mondo sarebbe stato raggiunto da europei attraverso l’Atlantico. I due ricercatori
hanno formulato questa ipotesi su base archeologica, constatando che la più antica industria litica americana, la cultura
Clovis presenta una forte somiglianza con l’industria europea solutreana, mentre non ne ha alcuna con quelle
contemporanee della Siberia. Questa tesi ha avuto un’imponente conferma dalla genetica: un terzo circa del DNA degli
amerindi è riconducibile al tipo eurasiatico settentrionale, lo stesso degli europei. Guarda caso, MANvantara ha ripubblicato
in questo periodo la recensione di Michele Ruzzai del libro L’uomo rosso e la tradizione di Antonio Bonifacio, di cui vi
avevo già segnalato i lineamenti europidi della giovane pellerossa la cui foto è riprodotta in copertina.
Sempre il 16, Michele Ruzzai ha linkato un articolo de “Le scienze”, Gli uomini del nord, che parla del ritrovamento da
parte di ricercatori norvegesi dell’Università di Bergen, di reperti di pietra e osso lavorati risalenti a 35-40.000 anni fa nel
sito russo di Mamontovaya Kurya posto oltre il circolo polare artico. Anche se non si è potuto stabilire se essi risalgano
all’uomo di Neanderthal o a quello di Cro Magnon, è certo che gli esseri umani abitavano le regioni artiche ben prima di
quanto si ritenesse, e ciò si concilia difficilmente con l’ipotesi dell’origine africana.
Il 17 settembre Alessio Longhetti ha postato un link a “Il portale dei misteri”, portalemisteri.altervista.org , un articolo dove
si parla di Arkeim, la “Stonehenge degli Urali”, un villaggio-fortezza risalente al XVII secolo avanti Cristo, che è stato
accostato a Stonehenge in ragione della sua struttura circolare. Certo che di cose interessanti ce ne sarebbero da scoprire se i
ricercatori non avessero la fissazione del Medio Oriente riguardo alle origini della civiltà e dell’Africa subsahariana per
quelle remote della nostra specie!
Il 18 settembre Raffaele Giordano ripropone su MANvantara un articolo tratto da oldgoths.blogspot.com di cui vi ho già
parlato in precedenza, relativo all’antica popolazione o gruppo di popolazioni chiamate (non so con quanta proprietà) indo-
sciti, gente di alta statura, lineamenti europidi, colorito chiaro, che avrebbe abitato l’Asia centrale dagli Urali alla Mongolia.
A questo gruppo appartenevano gli antichi Sciti stanziati nell’Europa orientale, e i loro discendenti odierni sarebbero gli
attuali Circassi. Di una popolazione di questo gruppo faceva parte anche la principessa Ukok.
Abbiamo poi un ripescaggio di una recensione di Michele Ruzzai del marzo 2017 (ma sono straordinari questi ripescaggi,
scopro sempre cose pubblicate anche in tempi recenti, che mi erano sfuggite. MANvantara somiglia sempre di più a una
Wikipedia sulle tematiche della nostra eredità ancestrale), del libro di Antonio Bonifacio L’Egitto, dono di Atlantide. Qui
però l’interesse maggiore non è tanto per l’Egitto o per Atlantide, ma per il fatto che anche Bonifacio mette in rilievo che in
epoca preistorica le condizioni dell’Alto Nord eurasiatico dovevano essere ben diverse da quelle attuali.

“Pag. 16: Il mare a nord della Siberia centro-orientale è profondo meno di 200 metri e quindi durante la glaciazione
wurmiana settori molto ampi della piattaforma continentale artica risultavano sicuramente emersi. Non si parla quindi della
sola area limitata all’attuale stretto di Bering, ma di una distesa dalla superficie enorme.
Pag. 18: Viene citato l’astronomo Robert Ball secondo il quale, con un’estate più lunga ed un inverno più corto (rapporto
giorni 229/136) alle alte latitudini vi sarebbero condizioni climatiche da “eterna primavera”.
Il 19 Andrea Anselmo ha condiviso un post su alcuni ritrovamenti davvero misteriosi. Reperti che non quadrano con l’idea
convenzionale del nostro passato, spesso non è necessario andarli a cercare all’altro capo del mondo, li abbiamo in casa. In
questo caso si tratta di grandi dischi di pietra di forma perfettamente regolare coperti di incisioni di età preistorica che si
trovano nel cosiddetto bosco di Maometto nei pressi di Borgnone di Susa (Torino). Il bosco è chiamato così perché in età
medioevale fu occupato dai Saraceni, ma ovviamente i dischi di pietra sono molto più antichi.
Il 24 Pierre Sogol ha postato un articolo di Paul Molga pubblicato sul sito francese “Les echos” www.lesechos.fr , intitolato
(tradotto in italiano) Dubbi sull’origine africana dell’uomo. Gli argomenti esposti che tolgono credibilità all’Out of Africa li
conosciamo già, i ritrovamenti di Jebel Irhoud, la scoperta dell’uomo di Denisova, quella dell’ominide balcanico
Graecopithecus Freibergi, il nostro “El Greco”, quello recente di Denny, la ragazzina neanderthaliana-denisoviana i cui resti
sono stati scoperti in Siberia. Quello che conta davvero è però che le voci che si stanno levando contro una visione falsata
delle nostre origini, finalizzata a farci accettare con rassegnazione un disegno politico senza scrupoli, si stanno facendo
sempre più numerose.
Il 26 settembre Cristina Coccia ha condiviso un link da “La stampa”. Ricercatori dell’Università di Edimburgo, decifrando i
simboli incisi sulla stele detta dell’avvoltoio nel complesso preistorico di Gobeckli Tepe in Anatolia, avrebbero trovato la
risposta a uno dei più inquietanti misteri dell’archeologia. Circa 13.000 anni fa, mentre con la diffusione dell’agricoltura
stavano nascendo le prime culture stanziali, si è verificato un improvviso mutamento climatico, una mini-età glaciale durata
circa un millennio, nota come Dryas recente che avrebbe ritardato di altrettanto tempo la comparsa delle prime civiltà. La
stele dell’avvoltoio darebbe una spiegazione del Dryas che sarebbe stato causato dalla caduta sul nostro pianeta di una
pioggia di comete.
Arriviamo alla fine di settembre. Qui, come vi ho già detto, si sono verificati due fatti riguardo ai quali non era possibile
243
dare una valutazione e una risposta al più presto, e quindi ho redatto quell’ “edizione straordinaria” della nostra Ahnenerbe
che è l’ottantaduesima parte: il video su You Tube di Matteo Renzi, e l’articolo di Carlomanno Adinolfi su “Il primato
nazionale”, cui è seguita la rabbiosa replica di Ethnopedia. Ci sarebbe altro da dire, ad esempio Marco Zagni segnala che:
“Nel 2011, quando usci’ il mio La svastica e la runa Cavalli Sforza fece addirittura una mostra sull’Out of Africa con tanto
di intervista radiofonica RAI , tanto si erano spaventati per quello che avevo scritto”.
Non c’è dubbio: il discorso è politico, e l’idea che l’Out of Africa sia messa in discussione spaventa molto i democratici, per
quanto insostenibile sia in termini scientifici, poiché essa e la presunzione dell’inesistenza delle razze sono alla base
dell’ideologia politicamente corretta e del tentativo di imporci un atteggiamento rassegnato o indifferente davanti
all’invasione extracomunitaria.
Per l’occasione di questo dibattito (se così si può dire, perché da parte dei “democratici” sostenitori dell’Out of Africa come
Ethnopedia non si vedono altro che insulti), Cristina Gatti ha ripescato un link che Michele Ruzzai aveva postato nel 2017 a
un articolo di Bruce Fenton su “Ancient News”, di cui vi avevo già parlato, dove si cita l’opinione di Ulfur Arnason,
docente di neuroscienze all’università di Lund. La cosa sorprendente è che lo scienziato svedese “brucia” l’Out of Africa
con un ragionamento di una straordinaria semplicità, un vero e proprio uovo di Colombo: Sappiamo che in Eurasia è
avvenuta la tripartizione della nostra specie nei tre rami di Cro Magnon, Neanderthal e Denisova, quindi è in Eurasia, non in
Africa, che essa deve aver avuto origine.
Sempre Cristina Gatti, il 30 settembre ha linkato un articolo di gnxp.com sul colore della pelle delle popolazioni dell’Africa
subsahariana. Quelle più antiche, come i khoisanidi, sono più chiare rispetto a quelle recenti. Possiamo allora pensare che,
contrariamente a quanto ci viene continuamente ripetuto o sottinteso (senza prove, del resto), che la pigmentazione chiara
sia ancestrale rispetto a quella scura. Se è così, possiamo pensare che quest’ultima e le caratteristiche che definiamo
negroidi siano un’acquisizione relativamente tardiva dei sapiens che hanno popolato l’Africa provenendo dall’Eurasia, cioè
il contrario di quel che ci viene perlopiù raccontato.

Un mese, quello di settembre, molto “denso”, che conferma non solo l’interesse nei nostri ambienti per le tematiche delle
origini, ma anche a controbattere riguardo a esse le interessate menzogne del sistema, come parte di una cultura militante
nel senso pieno dell’accezione.

Una Ahnenerbe casalinga- ottantaquattresima parte

Il compito che mi sono assunto dando a questa serie di articoli sulle pagine di “Ereticamente” la periodicità di una rubrica (e
come potete vedere, anche il traguardo della centesima parte non è poi così lontano, ed è facile prevedere che sarà raggiunto
entro il 2019), non è poi così semplice come forse potrebbe sembrare a prima vista.
In particolare sta diventando sempre più complesso tenere il passo con l’attività dei gruppi facebook che si occupano della
tematica delle origini, lavoro che d’altra parte mi sembra importante fare per offrire a questi gruppi che affrontano con
impegno tematiche della massima rilevanza, una cassa di risonanza che permetta a queste ultime di non rimanere confinate
in un ambito ristretto. Gruppi che negli ultimi tempi si stanno letteralmente moltiplicando, e questo è indiscutibilmente un
sintomo positivo, che dimostra quanto meno la coscienza del fatto che la nostra visione politica ha senso soltanto in quanto
radicata nell’identità etnica e storica, ma questo non toglie che l’impegno nel seguire tutte le diramazioni del discorso
diventa sempre più complesso.
Poiché succede che i contributori, regolarmente, mettono i loro post su più di un gruppo, e i gruppi si riprendono spesso
l’uno con l’altro, io ho perlopiù tenuto come fil rouge MANvantara che non è soltanto gestito dal carissimo amico Michele
Ruzzai, ma che è anche il più completo, ma questo naturalmente non basta.
Lo sapete, anch’io ho creato un gruppo FB: “L’eredità degli antenati”. Il mio intento era quello di creare una sorta di
archivio dove raccogliere in particolare gli articoli di Una Ahenerbe casalinga. (“eredità degli antenati” è precisamente il
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significato di “Ahnenerbe”), solo che avendo lasciato il gruppo aperto agli interventi di altri collaboratori, è andato a
succedere che i miei articoli a cadenza bisettimanale sono diventati una minoranza tra i post degli altri.
Forse la soluzione migliore, anche perché sarebbe poco simpatico smorzare gli entusiasmi di queste persone, sarebbe di
creare un gruppo collegato, qualcosa come “L’eredità degli antenati – archivio”, e probabilmente lo farò a breve.
Tuttavia possiamo analizzare questo materiale come spunto per qualche riflessione. Una cosa che si nota complessivamente
da questi post, è che a quanto pare è finalmente tramontata la mania di cercare radici esotiche e tutto sommato improbabili:
celtiche, longobarde, magne greche (cose che hanno la loro ragion d’essere se non si pretende di farne una radice,
un’identità esclusiva, un modo per negare la radice latino-italica che è quella che fondamentalmente ci caratterizza), ma
quello che emerge con forza è piuttosto il legame con l’eredità romana. Noi siamo soprattutto figli di Roma, e le calunnie
contro il mondo dei Cesari, e i secoli di miseria impostici dall’oppressione cristiana non devono farcelo dimenticare. Io
vorrei in particolare esprimere un pubblico ringraziamento a Claudio Marconi, prezioso contributore, per la qualità e la
quantità dei suoi post, sempre intesi a riaffermare la continuità tra il mondo romano e noi.
Io non vorrei dire che la romanità sta tornando di moda, perché il termine “moda” è certamente inappropriato, diciamo
piuttosto che sta riemergendo.
Recentemente, Giuseppe Barbera presidente dell’associazione tradizionale Pietas ha annunciato, tra l’altro attraverso
“Ereticamente”, l’erezione di un tempio di Giove a Roma e di uno dedicato a Minerva Medica a Pordenone. Non si può far
rivivere la romanità senza riaprire i templi degli dei. La romanità è destinata a rimanere qualcosa di esteriore e retorico se
non si ha il coraggio di rompere con il cristianesimo, che è l’anti-Roma per eccellenza. Non aver capito questo, è stato un
grave errore del fascismo, come aveva ben compreso Arturo Reghini. E’ vero che oggi siamo favoriti nella comprensione di
ciò dal fatto che con papa Bergoglio la Chiesa cattolica ha gettato la maschera, svelando il suo volto immigrazionista, pro
sostituzione etnica, anti-europeo e anti-italiano.
Un nuovo gruppo che si è venuto ad aggiungere a quelli già esistenti, è “Territorio e spiritualità” gestito da Pierfederico
Rocchetti, e mi piacerebbe tra l’altro sapere da dove prende le illustrazioni molto belle e suggestive che compaiono sulla
pagina del gruppo.
Una domanda che forse sembrerà banale: che legame esiste fra territorio e spiritualità? Esso può esistere soltanto nel senso
che il territorio è il luogo del radicamento di un’etnia con la sua propria spiritualità assolutamente non intercambiabile con
quella di altre. Sangue e suolo in poche parole; senza il sangue il suolo è nulla. Guardate cosa è successo negli Stati Uniti
dove con la sparizione dell’etnia americana nativa (“pellerossa”), la spiritualità di certo non disprezzabile di quei popoli, è
stata soppiantata dal fragoroso nulla yankee.
E l’esperienza ci fa vedere che senza il supporto del sangue, la trasmissione culturale è inefficace. Ne sono, anche qui, un
esempio lampante i Paesi ex coloniali nei quali, una volta lasciati dagli Europei, la cultura di tipo europeo che questi ultimi
avevano cercato di trasmettere almeno alle loro élite, è rapidamente scomparsa, e sono tornati a quella situazione di
arretratezza dalla quale, per la verità, non erano in realtà mai usciti.
Riprendiamo ora il nostro discorso seguendo la traccia di MANvantara. Io dovrò comunque ripetere per l’ennesima volta il
fatto che tra il molto materiale pubblicato, traccerò un percorso personale, perché ci sono molti post che non riguardano la
tematica delle origini, anche se si occupano di argomenti che sono comunque di grande interesse: esoterismo e spiritualità,
soprattutto del tipo presente sul nostro continente prima della diffusione del cristianesimo, poi, a complicare le cose, per
quel che riguarda il mese di ottobre, vedo che ci sono molti ripescaggi di post anche recenti di cui vi ho già parlato, e che
quindi ora lasceremo da parte.
Con l’aggiornamento precedente eravamo arrivati alla fine di settembre. Il 2 ottobre Cristina Gatti ha postato un articolo
tratto da “Biorxiv” in cui si parla della genetica dei lupi che traccia la storia del grande predatore più diffuso dell’emisfero
boreale. Sembra che le popolazioni attuali, eurasiatiche e americane si siano differenziate a partire dal pleistocene da un
ceppo ancestrale posto nella Beringia. Quello che forse ci interessa di più, è però il fatto che ciò evidenzia che la Beringia
oggi sommersa che collegava a settentrione l’Asia orientale con l’America occidentale, per poter giocare un ruolo simile
non doveva essere un’esigua lingua di terra ma un’area piuttosto vasta, e questo ha certamente influenzato in una maniera
ancora tutta da valutare il popolamento delle Americhe anche da parte degli esseri umani.
Il 3 Jason Pickis ha postato un articolo tratto dallo stesso sito. L’esame del DNA di alcuni scheletri rinvenuti in una grotta
georgiana e risalenti a 26.000 anni fa, ha portato a una scoperta sorprendente: il tipo umano eurasiatico “di base” che si
pensava avesse un’origine molto più recente, era già presente allora. Contrariamente a quanto racconta una certa vulgata
“politicamente corretta”, non “veniamo dai neri”, ma il tipo umano caucasico è sicuramente ancestrale rispetto a
subsahariani e mongolici, che compaiono più tardi nella documentazione fossile.
Lo stesso giorno, la stessa persona ha postato un altro articolo, stavolta proveniente da Plos Genetics, che affronta un tema
di grande interesse: l’influenza della cultura sulla genetica, in questo caso specificatamente considerata nel mondo islamico-
mediorientale. La comune appartenenza religiosa sembra aver favorito l’interscambio di geni su di un’area estremamente
vasta che va dalla Penisola araba al Magreb, mentre le minoranze religiose, cristiani e drusi, appaiono anche geneticamente
segregate. Nella specie umana, le differenze culturali agiscono in maniera simile alle barriere naturali per quanto riguarda la
divisione delle popolazioni e dei loro genomi. Vediamo qui un esempio molto chiaro di influenza della cultura sul dato
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genetico. Se ricordate, questo è un discorso che io ho affrontato più di una volta: è tipico della mentalità di sinistra spiegare
tutto ciò che riguarda l’essere umano facendo ricorso esclusivamente all’ambiente e all’appreso, escludendo che la natura e
l’eredità biologica vi abbiano un ruolo. Questo non deve indurci a commettere l’errore simmetrico, negando che oltre
all’influenza della natura sulla cultura esista anche un’influenza della cultura sulla natura. Il fatto che i sinistri ritengano che
due più due faccia tre, non deve indurci a pensare che due più due faccia cinque.
Il 9 ottobre Michele Ruzzai segnala la pubblicazione da parte della fondazione Julius Evola, del quaderno “Il mistero
iperboreo, scritti sugli Indoeuropei 1934-70”, a cura di Alberto Lombardo, che appunto riunisce gli articoli di Julius Evola
sull’argomento.
Sempre il 9 ottobre c’è da segnalare un post molto interessante di Cristina Gatti che ha linkato un articolo da “Gene
Expression” a firma di Razib Khan. Noi sappiamo che i genetisti per cercare di ricavare l’albero genealogico della nostra
specie, hanno analizzato gli aplogruppi del cromosoma Y che si trasmette esclusivamente per via paterna e quelli del DNA
mitocondriale che si trasmette esclusivamente per via materna. Il DNA mitocondriale più antico, “aborigeno” d’Europa è il
U5, e dove lo troviamo? Soprattutto nel nord della Scandinavia, nell’area lappone, nel Baltico. E’ superfluo aggiungere che
questa disposizione è del tutto incompatibile con un’origine africana o mediorientale, mentre è assolutamente naturale nel
caso di una derivazione nordica.
Il 13 ottobre Jason Pickis ha linkato un articolo di “Times of Israel” davvero sorprendente, anche considerando la fonte:
secondo uno studio compiuto da ricercatori israeliani sul DNA di ossa rinvenute in una grotta nel nord di Israele di età
calcolitica (età del rame, 6500 anni fa), la tecnologia dei metalli sarebbe stata diffusa in Medio Oriente da popolazioni con
caratteristiche nordiche (“Times of Israel” parla testualmente di “anomalous blue-eyed people”) provenienti dall’altopiano
iranico.
Sempre il giorno 13 Michele Ruzzai riporta una frase di Ezio Mauro: “L’uomo bianco è una regressione alla nostra identità
primitiva”.
Qui vediamo una tipica ubbia o fissazione della sinistra, secondo la quale il nero sarebbe destinato a essere “l’uomo del
futuro”. Beh, il minimo che si possa dire è che dato che il nero subsahariano ha in media 30 punti di Q I in meno rispetto a
noi, una propensione cinque volte superiore ai reati violenti, una propensione dieci volte superiore agli stupri, possiamo solo
congratularci con noi stessi per la fortuna di essere delle regressioni, ma la realtà dei fatti è che è il nero a essere una
regressione, un passo indietro sulla via di homo sapiens. Le ricerche genetiche hanno dimostrato che i subsahariani hanno
l’8% di DNA non sapiens, sono il risultato di un incrocio tra i sapiens provenienti dall’Eurasia e un homo più primitivo.
Il 14 ottobre La Sfinge del Sinis (che volete farci, ha questo nickname) ha postato un articolo da GreenMe.it che riferisce i
risultati di una ricerca condotta dal professor Francesco Cucca del CNR in collaborazione con l’Università di Sassari. I
Sardi sono, a quanto pare, la popolazione più antica d’Europa, il loro DNA risalirebbe ad almeno 7000 anni fa. La
popolazione europea con cui presentano le maggiori affinità genetiche sarebbero i Baschi, anch’essi di origine molto antica.
A quanto pare, questa affinità non sarebbe dovuta a contatti fra le due etnie ma al fatto che entrambe derivano dalla stessa
popolazione ancestrale, entrambe sarebbero relitti genetici, per così dire, dell’Europa pre-neolitica, altrove sommersa
dall’arrivo di popolazioni più recenti.
Come vi ho detto, vorrei evitare di parlare di ripescaggi, soprattutto quando si tratta di post troppo recenti e/o da me già
commentati su queste pagine, ma una segnalazione la devo proprio fare:parliamo della recensione che Michele Ruzzai ha
fatto nel giugno 2017 al libro Il caso e la necessità di Luigi Luca Cavalli Sforza e recentemente “ripescata”, a parte il titolo
del libro che parafrasa scopertamente Jacques Monod, era quasi d’obbligo riparlarne dopo la recente scomparsa del celebre
antropologo.

Michele fa notare una cosa parecchio interessante: in questo testo Cavalli Sforza attribuisce circa un terzo del genoma degli
Europei attuali a un’origine mediorientale connessa con la diffusione dell’agricoltura in età neolitica, mentre due terzi
sarebbero precedenti e autoctoni, ma in un volume precedente, La transizione neolitica e la genetica di popolazioni in
Europa scritto insieme all’archeologo Albert J. Ammerman, era indicata la proporzione esattamente inversa. Cavalli Sforza
è stato uno dei maggiori sostenitori della teoria dell’onda di avanzamento, secondo la quale gli Indoeuropei deriverebbero
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da popolazioni di agricoltori mediorientali che avrebbero diffuso i loro linguaggi in Europa semplicemente spostandosi man
mano alla ricerca di nuove terre da coltivare. Qui Cavalli Sforza recepisce il dato che la presenza di geni mediorientali nel
genoma europeo è decisamente minore di quel che aveva supposto, ma evita di trarne la logica conclusione che ciò
smentisce la sua teoria. Le ricerche genetiche più recenti (il libro è del 2007) hanno ulteriormente ridotto la presenza di geni
mediorientali nel DNA europeo, che non sembra superi il 14%, ma soprattutto vi sono buoni motivi per sospettare che la
scoperta dell’agricoltura sia avvenuta proprio nel nostro continente e non nell’area mediorientale, considerando la priorità
europea nella scoperta dei metalli e dell’allevamento bovino e nell’invenzione della scrittura, ma non torno ora su di una
tematica che ho approfondito ripetutamente.
Abbiamo poi un altro post “ripescato” ma sul quale vale la pena di riprendere il discorso, una recensione di Michele Ruzzai
del libro di Georg Glowatzki Le razze umane, origine e diffusione, testo del 1977, che appartiene quindi all’epoca “beata”
in cui si poteva ancora parlare di razze, non era, come oggi, ufficialmente proibito. Il trionfo del “politicamente corretto”
democratico coincide con la proibizione di pensare. A ogni modo, Michele si sofferma su quanto l’autore ci dice dei
Veddidi, popolazione di tipo gracile dell’India, considerata da alcuni di tipo caucasoide, da altri australoide primitiva, un
tipo umano un tempo molto più diffuso di oggi, alcuni scheletri riconducibili a esso sono stati difatti trovati anche in
Mesopotamia.
Poiché il post non è recentissimo, vi trovate un commento…di Fabio Calabrese. Il veddida potrebbe essere un tipo umano
intermedio tra il caucasico e l’australoide, così come l’ainu potrebbe essere intermedio fra il caucasico e il mongolico. In
altre parole, non si può per nulla escludere che il caucasico rappresenti il tipo “centrale” dell’umanità da cui gli altri gruppi
umani si sviluppano come diramazioni secondarie.
Il 16 troviamo un post di Cristina Gatti. Se vi chiedete quale sia la più antica religione d’Europa, la risposta è il paganesimo
lettone, tuttora praticato, e che sembra risalire quanto meno all’Età del Bronzo. Poiché siamo in argomento religioni, ne
approfitto per dire la mia su di una questione sollevata da un lettore di MANvantara che chiedeva se esistono oggi in Europa
tracce di spiritualità pre-pagana. Io vorrei ricordare che il paganesimo non è, come le religioni abramitiche, definito da un
corpus di dottrine rigido, è l’espressone prisca e istintiva della percezione umana del sacro, nella natura e soprannaturale, il
culto degli dei (senza esclusivismi od odio per chi ha una sensibilità diversa), a cui si unisce quello della stirpe e degli
antenati. In questa prospettiva, parlare di pre-paganesimo non ha semplicemente senso.
Un post del 19, sempre di Cristina Gatti, riporta un documentario di “Russia Beyond” che ci parla di una popolazione che
credo pochi di voi avranno sentito nominare, i Nivkh. Chi sono? Sono una popolazione, oggi rappresentata da poche
persone e a forte rischio di estinzione, che vive a Sakhalin, isola a nord di Hokkaido, già giapponese e annessa dalla Russia
dopo la seconda guerra mondiale, sono imparentati con gli Ainu di Hokkaido, e come questi ultimi sono verosimilmente una
testimonianza del passato caucasico (Jomon) dell’arcipelago nipponico, ma potrebbero anche essere affini alle popolazioni
che attraverso la Beringia hanno colonizzato le Americhe. Si tratta dunque di un documento antropologico della massima
importanza.
Il 18 sempre Cristina Gatti – davvero infaticabile, bisogna dire – ha postato un articolo tratto da biorxiv.org che si occupa di
una questione davvero intrigante. Lo studio del DNA sta aprendo nuove prospettive allo studio dell’eredità umana, di quel
passato per cui non abbiamo documenti storici né archeologici. Lo studio del DNA mitocondriale ha rivelato che
l’aplogruppo L3 da cui deriva la maggior parte degli aplogruppi africani, si è originato circa 70.000 anni fa nell’India
settentrionale, abbiamo quindi la prova evidente di una migrazione dall’Eurasia all’Africa.
I sostenitori dell’Out of Africa hanno prontamente elaborato una variante della loro teoria secondo la quale le popolazioni
umane sarebbero migrate dall’Africa all’Asia 130.000 anni fa, per poi tornare in Africa 60.000 anni fa portando con sé
l’aplogruppo mitocondriale L 3, ma è evidente che non sanno più su quale specchio arrampicarsi per salvare il loro
DOGMA.
Per il momento, per non rendere l’articolo chilometrico, ci fermiamo qui, per ora, anche se non abbiamo ancora passato la
seconda decade di ottobre. Quel che maggiormente importa, è constatare come l’impegno dei gruppi FB “nostri”. Per
chiarire le nostre origini e per combattere le menzogne del sistema, rimane inalterato.
NOTA:
Nell’illustrazione: a sinistra la lupa di Roma, immagine di copertina del gruppo FB “L’eredità degli antenati” (particolare),
al centro: il tempio di Giove recentemente inaugurato a Roma. A sinistra, un’immagine tratta dal gruppo FB “Territorio e
spiritualità”.

247
Come avete visto, il 2018 con l’eccezione del ritrovamento dei resti di Denny, la ragazzina tredicenne di origine mista
neanderthaliana e denisoviana vissuta in Siberia 90.000 anni fa, il 2018 non ha, perlomeno finora, offerto novità di rilievo
nel campo della paleoantropologia, delle tematiche delle origini. Su queste pagine mi sono dedicato perciò soprattutto
all’aggiornamento sull’attività dei gruppi facebook, volendo offrire loro una cassa di risonanza, in considerazione del fatto
che attraverso FB anche su tematiche del massimo interesse, non si riesce a coinvolgere più di qualche centinaio di persone.
Bisogna tuttavia essere consapevoli che si tratta di un discorso tutto “nostro”, interno ai nostri ambienti.
Tuttavia, anche questo lavoro non riesce estremamente agevole, c’è da fare i conti con un’inevitabile tempistica che rende
impossibili aggiornamenti in tempo reale. La volta scorsa ci siamo fermati alla seconda decade di ottobre, e un nuovo
aggiornamento è a questo punto necessario.
Comincio subito con il dirvi che l’idea di cui vi ho parlato la volta scorsa, di duplicare il mio gruppo “L’eredità degli
antenati” creando un gruppo collegato destinato specificamente ad archivio degli articoli che compaiono qui, in modo da
facilitarne la consultazione, per ora almeno l’ho dovuta lasciare in sospeso, poiché il mio profilo facebook è per ora
bloccato, per non so quale cosa io possa aver scritto “che non rispetta gli standard della comunità”. Ne riparleremo dopo
aver scontato i consueti trenta giorni di pena.
E’ una situazione che non giunge nuova né a me né, suppongo, alla maggior parte di voi. Se vi è capitato di soffermarvi sul
profilo di qualche “compagno” avrete senz’altro potuto vedere che sono pieni di insulti livorosi in particolare contro i morti
che non possono replicare: Giuseppina Ghersi, Sergio Ramelli, le vittime delle foibe: un odio immotivato e irrazionale che
continua ad avere come bersaglio le vittime della violenza “rossa”, nel palese tentativo di persuadersi che costoro abbiano in
qualche modo meritato la sorte atroce che “i compagni” hanno loro riservato, di non rendersi conto che l’ideologia “rossa”
non è altro che cieca, irrazionale violenza condita di menzogne.
Su tutto questo, la censura di Zuckerberg non trova nulla da ridire. Questo, a parere del conte di Montezucchero, non
sarebbe “odio” come invece lo sarebbe quando noi esprimiamo sia pure moderatamente il nostro punto di vista, se osiamo
ad esempio dire LA VERITA’ che la cosiddetta immigrazione e la sostituzione etnica rischiano di cancellare il popolo
italiano e i popoli europei, e che in questi flussi non c’è nulla di casuale, ma dietro di essi c’è un piano preordinato volto a
provocare la nostra estinzione. La democrazia, potremmo dire, è quel regime dove è lecito dire qualunque cosa tranne la
verità.
Lo sappiamo, non certo da adesso, di combattere una battaglia impari per rivendicare anche per noi quel diritto alla libertà
di opinione che teoricamente la democrazia garantisce a tutti, salvo smentirsi subito dopo per quanto riguarda noi. Guarda
caso, l’articolo precedente a questo, Libertà di parola, è dedicato proprio alla lotta diuturna che dobbiamo sostenere per
sostenere le nostre idee, non sono contro la censura democratica, ma anche contro la prepotenza “rossa”, prendendo spunto
da quel che è accaduto a Trieste lo scorso 3 novembre, dove la manifestazione di Casapound per ricordare il centenario
della vittoria italiana nella prima guerra mondiale si è dovuta svolgere “blindata” per evitare scontri con la
contromanifestazione “rossa”.
Non ci spaventiamo, e ricordiamo “la preghiera” che John Milius mette in bocca al suo Conan.
“Nemmeno Tu ricorderai se eravamo uomini buoni o cattivi, ma saprai che pochi si sono battuti contro molti, e di questo Ti
compiaci”.
Vediamo dunque l’attività dei gruppi FB di questo periodo. Poiché la maggior parte dei post si richiamano da un gruppo
all’altro, e/o i loro autori li collocano simultaneamente su più gruppi, come al solito terremo come fil rouge MANvantara
del nostro amico Michele Ruzzai, che non è soltanto il più seguito, avendo superato i 1550 membri, ma è anche quello che
offre una maggiore completezza e ricchezza di informazioni. A questo riguardo, comincio con il dirvi subito che Michele
Ruzzai segnala che la traduzione del libro di Hermann Wirth Die Aufgang der Menscheit (“L’alba dell’umanità”) è ormai a
buon punto, e sono stati presi contatti con un editore, per cui si dovrebbe arrivare alla pubblicazione del libro in forma
cartacea oltre alla prevista edizione on line. Ricordo che questo testo, finora mai tradotto integralmente in lingua italiana, è
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fondamentale per la teoria dell’origine artica, e quindi nell’ottica di una risposta all’Out of Africa con le relative
implicazioni ideologiche di una presunta inesistenza delle razze umane.
Tuttavia occorre non dimenticarsi che esistono anche gli altri gruppi, ad esempio, uno che mi mette in una situazione un po’
imbarazzante, è Territorio e spiritualità di Pierfederico Rocchetti, perché presenta molte cose di grande interesse, ma
proprio di quel tipo spiritualistico da cui ho deciso di prescindere negli articoli di questa rubrica per poter rispondere agli
avversari sul loro stesso terreno.
Tuttavia mi rimane un dubbio: da dove le prende quelle belle immagini fortemente cariche di suggestione? E anche questa
volta non resisto alla tentazione di copiargliene una. Quale posto migliore da cui guardare il mondo che la prua di un
drakkar vichingo? Forse solo da sotto l’ombra dell’aquila di una legione romana!
Andiamo dunque a vedere cosa ci presenta MANvantara in questo periodo. Il 23 ottobre Cristina Gatti ci parla di una
ricerca sul DNA di resti umani ritrovati in siti della Siberia nord-orientale. Per prima cosa, questa regione prossima alla
scomparsa Beringia, è stata oggetto di un popolamento umano molto antico, almeno da 40.000 anni fa, e la cosa si concilia
piuttosto male con l’Out of Africa. Oltre a ciò, però, constatiamo che questi antichi siberiani avevano precise affinità
genetiche sia con gli Europei che con gli Amerindi, che di conseguenza risultano più strettamente imparentati di quel che
avremmo supposto. “L’uomo bianco e l’uomo rosso gemelli diversi?”, si chiede Cristina.
Il 24 ottobre la palla passa a “L’immagine perduta” con un articolo di Renato Ghenone (vabbé, è chiaro che si tratta di uno
pseudonimo), che è in sostanza una recensione di Omero nel Baltico di Felice Vinci, un testo di cui mi sono occupato
anch’io più di una volta sulle pagine di “Ereticamente” anche con un’intervista all’ingegner Vinci, ma nel pezzo di Ghenone
c’è qualcosa di più, perché mette in relazione la ricerca di Vinci con il mito delle origini iperboree, le ricerche di Tilak e gli
autori tradizionali. Veramente un eccellente esempio di come si possano approfondire ulteriormente discorsi già
ampiamente sviluppati.
Sempre il 24, Cristina Gatti (ma questa donna è davvero infaticabile!) ha postato su MANvantara un articolo davvero
interessante di Alison George: L’archeologo Von Petzinger esaminando le pitture rupestri e le incisioni su manufatti europei
del paleolitico superiore, ha scoperto 32 segni ricorrenti che sembrano costituire una specie di codice, forse addirittura un
alfabeto. Come se non bastasse, partendo dal presupposto che essi siano caratteristici di una specifica cultura, si nota un
movimento espansivo nel tempo da nord verso sud, e non il contrario. Caso strano: tutte le volte che non si parte dal
presupposto ideologico dell’Out of Africa, saltano fuori fatti che lo contraddicono.
Di interesse anche un articolo da universita.it postato il 25 ottobre da Pier Ferreri. Secondo una ricerca condotta
dall’Università di Liverpool le differenze fra i gruppi etnici non sarebbero solo culturali ma anche genetiche. Ma va, chi
l’avrebbe mai detto? Aspettiamo ansiosamente che i ricercatori britannici annuncino anche la scoperta dell’acqua calda!
Il 25 Michele Ruzzai ci parla dell’uscita prevista per dicembre di un novo testo sul mito iperboreo, Iperborea di Ezio Abrile
per le edizioni “Il cerchio”. Per ora, ne abbiamo solo l’immagine di copertina.
Il 26 ottobre due post di Pier Ferreri ci portano in Cina. Il primo è un link ad un articolo di “Aurora umana” che ci parla
della presenza nella regione del Gansu di alcuni contadini dalle caratteristiche prettamente europee. Secondo gli storici
cinesi, costoro sarebbero i discendenti di una spedizione romana che avrebbe raggiunto la Cina nel 53 a. C. Addirittura,
nella zona vi sono i resti di una città abbandonata, Lunmiao, che per le sue caratteristiche “romane” è stata chiamata la
Pompei cinese.
Il secondo articolo, linkato da turismo.it, è ancora più sorprendente, ci parla di un ritrovamento paleoantropologico di cui da
noi (guarda caso!) si è parlato pochissimo, il teschio di Dali, rinvenuto nel 1978 nell’omonima località della provincia dello
Xaangsi nel nord-ovest della Cina. Si tratta dei resti di un homo chiaramente sapiens, forse l’esemplare più antico
conosciuto della nostra specie, risalente a 260.000 anni fa, e la sua collocazione geografica e temporale sono decisamente
incompatibili con l’Out of Africa.
Il 28 ottobre (indubbiamente una data importante, e ognuno la celebra a suo modo), Alessio Longhetti ha linkato un articolo
del “Guardian” che ci parla di una ricerca ad ampio raggio sul DNA antico nelle Isole Britanniche che è stata portata avanti
da centinaia di ricercatori, e i risultati sono sorprendenti: il 90% degli Inglesi attuali deriverebbe dal popolo della cultura del
Bicchiere Campaniforme (Beaker) che si sarebbe insediato nelle Isole circa 4500 anni fa, dopo essere presente in vaste zone
del continente, dall’Europa centrale alla Penisola iberica.
Noi sappiamo che la ricostruzione dei lineamenti del più antico inglese conosciuto, l’uomo di Cheddar, è stata
accompagnata da numerose polemiche, anche e soprattutto perché gli si è voluto attribuire un colore di pelle scuro e molto
poco europeo. La mia personale impressione è che poiché nella ricostruzione dei lineamenti di esseri umani vissuti migliaia
di anni fa e di cui ci sono pervenuti i resti fossili, il colore della pelle è sempre la cosa più opinabile, lo si sia voluto
“scurire” non sulla base di valutazioni scientifiche ma in omaggio alla “political correctness” democratica, per fare contente
le migliaia di allogeni extraeuropei che oggi vivono in Gran Bretagna, purtroppo oggi talmente numerosi soprattutto a
Londra, da essere riusciti a far diventare sindaco della capitale inglese uno di loro, Sadiq Khan. Sappiamo, lo abbiamo visto
ad esempio da tutte le falsificazioni e deformazioni prospettiche usate per tenere in piedi la favola “antirazzista” dell’Out of
Africa, che ai sostenitori della “political correctness” dell’aderenza ai dati scientifici non importa letteralmente nulla.

249
Comunque la stragrande maggioranza degli attuali britannici (immigrati esclusi) non deriva dal popolo cui l’uomo di
Cheddar apparteneva, ma dagli uomini del Bicchiere Campaniforme (Beakers), che erano europei di alta statura, pelle
chiara e occhi azzurri.
Il 29 sempre Alessio Longhetti ha postato un articolo da “Le scienze”. E’ davvero sorprendente che lo ammettano persino
loro, una pubblicazione che rappresenta il top dell’ortodossia scientifica politicamente corretta, ma gli agricoltori neolitici
europei NON derivano dal Medio Oriente. L’ascendenza europea e quella mediorientale si sarebbero separate già nel
Paleolitico 36-39.000 anni fa. Un articolo, vi devo confessare, che ho letto con vivo senso di soddisfazione. Io ho
cominciato la mia ricerca delle origini proprio spinto dall’esigenza di confutare la leggenda della dipendenza culturale e, a
maggior ragione etnico-antropologica dell’Europa dal Medio Oriente, e l’indagine sulle origini più remote per sfatare la
leggenda out of africana, è giunta in un secondo momento come prosecuzione della prima.
Il 30 ottobre Riccardo Gulino ha postato un link a un articolo davvero notevole del sito russo rgdn.info (L’autore si firma
semplicemente Vladislav), dove si parla del lago Seydozero. Siamo sempre nella penisola artica di Kola nella zona di
Murmansk dove sorgono antiche e misteriose piramidi. In quella che oggi è una delle aree climaticamente più inospitali del
mondo, si trovano le tracce di un’antica civiltà, e residui di una conoscenza arcana si troverebbero nelle tradizioni del
popolo Sami (Lappone) che abita in quelle zone. Si tratterebbe di ciò che rimane oggi della perduta Iperborea. Almeno,
questa ipotesi è stata ventilata più volte dalla stampa russa. Di certo si può dire che la storia – relativamente – lineare della
civiltà umana che ci viene raccontata dai libri di testo, è una costruzione ideologica probabilmente falsa.
Come era prevedibile dato il periodo, ci sono diversi articoli che parlano della ricorrenza di Halloween – Samain, (compreso
quello di Carlo Giuliano Manfredi linkato da “Ereticamente”). Dandone una valutazione complessiva, penso si possa dire
che quest’antica ricorrenza, oggi degenerata in conseguenza dell’americanizzazione a una sorta di carnevale con qualche
tocco macabro, era una volta il capodanno celtico, e in particolare la notte tra il 31 ottobre e il 1 novembre, non
appartenendo né a un anno né all’altro, e quindi non soggetta né al vecchio né al nuovo “ordine”, era il momento in cui
cadevano tutte le barriere, compresa quella che separa il mondo dei vivi da quello dei morti, e i defunti tornavano a fare
visita ai loro parenti vivi. Bisogna dire però che si trattava di una tradizione pre-celtica, forse pre-indoeuropea, che si
ritrovava in forme simili, ad esempio nell’Italia meridionale.
Il 2 novembre Alessio Longhetti ha postato un articolo proveniente da genomeweb.com. Secondo una recente ricerca della
Stanford University, la genetica dimostra che le innovazioni introdotte dal neolitico in Africa settentrionale, come
l’agricoltura e la ceramica, dipendono da flussi migratori provenienti dall’Europa. Ma come, verrebbe da dire, non ci
avevano insegnato tutto il contrario? Non ci avevano spiegato che l’umanità prima, la civiltà poi, hanno proceduto da sud a
nord, che l’Europa è stata l’ultima a ricevere l’una e l’altra?
Certamente conoscete il detto che un’immagine vale più di mille parole, bene, adesso ne abbiamo una conferma. Il 4
novembre su MANvantara, rispondendo alla domanda di un lettore su quale tipo umano sia ancestrale agli altri, tra il
caucasoide, il mongolico, il subsahariano, Michele Ruzzai ha risposto postando la foto di un ainu del Giappone, la stessa
che includo nell’illustrazione. Si vede che questo soggetto ha una fisionomia prettamente caucasoide, e le caratteristiche
mongoliche sono del tutto assenti. Ainu, cioè gli ultimi Jomon, la popolazione originaria del Giappone. Il giapponese di
oggi è fortemente mongolizzato per quanto riguarda l’aspetto esteriore, ma a livello animico sospetto sia rimasto più
caucasico di noi che abbiamo subito la (disastrosa) influenza mediorientale di cristianesimo, marxismo e psicanalisi.
Il 5 e 6 novembre una serie di post ha creato una sorta di dibattito fra i contributori a proposito degli Hunza e dei Kalash,
due popolazioni molto simili che abitano le alte valli del Pakistan e dell’Afghanistan, caratterizzate da lineamenti
prettamente europidi, pelle chiara, spesso occhi azzurri e capelli biondi, molto diverse dalle brune popolazioni circostanti. I
Kalash, attaccati al loro paganesimo ancestrale sono purtroppo noti soprattutto per le persecuzioni che hanno subito e
continuano a subire a opera dei loro vicini islamici, gli Hunza per la leggenda di una straordinaria longevità, si pretende che
potrebbero vivere fino a 150 anni. Sul che mi permetto di essere scettico, sappiamo che tra le montagne dell’Asia i dati
anagrafici non possono essere molto precisi.
Per quanto riguarda l’origine degli uni e degli altri, l’ipotesi più probabile, io penso, è quella che li riconnette all’antico
popolo dei Tocari, cui apparterrebbero anche le famose mummie di Cherchen, rinvenute nel deserto del Takla Makan.
Il 9 novembre Michele Ruzzai ha postato e commentato un articolo del 3 di lescienze.it. Quest’ultimo, firmato Amy
Maxmen, si occupa dei genomi delle popolazioni africane. In particolare, sembra che esista una relazione genetica fra i
Boscimani e i Pigmei Baka e che queste popolazioni un tempo molto più diffuse di oggi, siano ancestrali rispetto a diversi
altri gruppi africani. Ora, come fa notare il nostro Michele, quali che siano le relazioni interne fra i gruppi dell’Africa
subsahariana, a differenza di quanto pretende l’autrice, queste ultime non possono dimostrare che essi siano ancestrali
rispetto agli altri gruppi umani, ma è chiaro che i sostenitori dell’Out of Africa non sanno più a cosa appigliarsi per tenere in
piedi la loro traballante mistificazione.
Bene, noi saremo sempre qui a ributtare loro in faccia le loro contraddizioni e la realtà delle cose.
NOTA:

250
Nell’illustrazione: a sinistra una suggestiva immagine tratta da “Territorio e spiritualità”, il mondo visto dalla prua di una
nave vichinga, al centro la copertina di Iperborea di Ezio Abrile in uscita a dicembre, a sinistra un ainu dell’isola
giapponese di Hokkaido, si noti la fisionomia caucasoide, del tutto priva di elementi mongolici.

Una Ahnenerbe casalinga, ottantaseiesima parte – Fabio Calabrese

Una cosa che dovrebbe essere ovvia, è che dal momento in cui questa serie di articoli dedicati all’eredità degli antenati ha
assunto l’aspetto di una rubrica più o meno fissa sulle pagine di “Ereticamente”, ha dovuto per forza assumere una pluralità
di sfaccettature: ci sono le notizie, non frequentissime, sull’eredità degli antenati che ci vengono dalla ricerca scientifica
ufficiale, dalla paleoantropologia, dall’archeologia, dalla genetica, dallo studio delle popolazioni (tenendo presente che il
concetto di eredità degli antenati copre un campo vastissimo, dalle lontane origini dell’umanità fino alla storia documentata,
riguardo alla quale le perplessità possono essere relativamente poche).
C’è il lavoro svolto sulla ricerca delle origini dai siti e dai gruppi FB “nostri”, e l’informazione su di esso può essere
occasionalmente arricchita dalla notizia di conferenze, convegni, pubblicazioni librarie. Qui, io penso, è importante
soprattutto la testimonianza del fatto che le tematiche delle origini e dell’identità, la risposta alla domanda “da dove
veniamo” senza la quale non possiamo capire chi realmente siamo, è molto sentita nei nostri ambienti, in contrapposizione
al tipo di “cultura” che il potere mondialista cerca oggi di imporre, che ci vorrebbe una massa di “produttori”,
“consumatori” e “spettatori” della società mediatica, senza radici e senza volto, nell’attesa di cancellare anche fisicamente e
biologicamente le differenze fra popoli, etnie e culture attraverso l’imposizione del meticciato.
Ci sono infine una serie di riflessioni più personali, legate a una ricerca e un’indagine autonoma, frutto di un interesse
sull’argomento che ormai posso dire di coltivare da parecchi anni (è uno dei pochi vantaggi del non essere più proprio
giovanissimi). Questo è, ad esempio, il tipo di sviluppo delle nostre tematiche che abbiamo visto la nell’ottantunesima parte,
andando a considerare il fatto che tra le origini della nostra specie, homo sapiens e quella delle popolazioni indoeuropee,
andrebbe posto ancora un livello intermedio, ossia l’origine delle genti caucasiche, di cui gli indoeuropei sono
semplicemente una frazione.
La tematica cui dedicherò col vostro permesso questa ottantaseiesima parte, è in un certo senso simile, anch’essa una
riflessione prettamente personale, c’è, infatti, una questione, o un aspetto riguardo alla questione delle origini, su cui da
diverso tempo mi sembra opportuno approfondire la riflessione, e forse è il momento di farlo ora. Che la diffusione nel
nostro continente di società agricole, sedentarie, stabili, organizzate, sia andata di pari passo con quella delle lingue e quindi
delle popolazioni indoeuropee, su questo ben pochi avanzerebbero dubbi, affinità linguistica vuol dire normalmente affinità
genetica. Che popolazioni di origini molto diverse convivano nella stessa area, e debbano quindi per forza adottare una
lingua comune per potersi intendere, quella che chiamiamo società multietnica, è una mostruosità rara nella storia, e sempre
causa di decadenza. Si vedano le vicende degli ultimi regni ellenistici e del tardo impero romano, e teniamo presente che le
società multietniche di questo tipo non erano società multirazziali come quella che i fautori del mondialismo stanno oggi
cercando di imporre a livello planetario, il che è come dire la rovina assoluta.
L’agricoltore sedentario è un uomo psicologicamente molto diverso dal cacciatore-raccoglitore nomade: prima di tutto,
contrae un legame fortissimo con la terra sulla quale vive e da cui trae sostentamento. In secondo luogo, se da un lato la
sedentarietà e l’agricoltura permettono la creazione di società complesse, quella che possiamo chiamare civiltà, la sua vita
non si svolge all’insegna del nomadismo erratico ma della stabilità.
Usi, costumi, tradizioni, rapporti sociali, modi di interpretare la vita, seguono quell’insieme di canoni che chiamiamo
globalmente “tradizione”.
In uno dei suoi testi, Julius Evola riporta un’espressione molto significativa dell’Avesta: “Chi semina il grano edifica
l’ordine”.
E tuttavia, cosa che non è sempre adeguatamente considerata, questo spirito, del resto comune ad esempio alle civiltà
tradizionali dell’Asia orientale dove è stato assolutamente predominante, non è che un aspetto dell’animo indoeuropeo, è
bilanciato da uno spirito forse non tanto opposto quanto complementare, la tendenza ad andare oltre, esplorare e
conquistare, in cui giocano sia la curiosità, il bisogno di conoscenza di menti intellettualmente vivaci, sia l’esigenza di
espandersi migliorando la propria condizione. Oswald Spengler aveva colto bene questa dualità dell’animo indoeuropeo
contrapponendo “spirito prussiano e spirito vichingo”.
N. C. Doyto, forse l’ultimo importante studioso dei fenomeni razziali nella nostra epoca in cui l’ortodossia “scientifica”
ufficiale pretende che le razze umane non esistano, ha chiarito molto bene il concetto che la descrizione dell’incivilimento
come passaggio lineare da caccia-raccolta ad allevamento, quindi agricoltura, è una semplificazione eccessiva. Il
nomadismo di allevatori e cavalieri è un fenomeno del tutto diverso da quello dei cacciatori-raccoglitori, e una società già
stanziale ha potuto adottare varie volte questo stile di vita per svariati motivi, dalla pressione di popoli vicini all’esuberanza

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demografica. Un esempio molto chiaro in questo senso, che ha il pregio di essersi verificato nell’età moderna ed essere
quindi ben documentato, è rappresentato dalla conquista del West da parte dei pionieri anglosassoni nel Nord America.
Una cosa riguardo alla quale non ritengo necessario mantenere a tutti i costi il segreto, è il fatto di essermi interessato e di
continuare a interessarmi del mondo celtico, del fatto che i Celti rappresentano una radice del nostro essere europei a lungo
misconosciuta e minimizzata. Ora, una questione che è fonte di perplessità per gli studiosi che se ne occupano, è
l’improvvisa espansione celtica attorno all’VIII secolo avanti Cristo, una “fiammata” come è stata più volte definita, che ci
fa ritrovare popolazioni celtiche dall’angolo nord-occidentale del nostro continente fino all’Anatolia.
Teniamo presente che qui ci troviamo in un orizzonte ancora preistorico-protostorico, dove abbiamo a disposizione ben
pochi documenti scritti provenienti da autori estranei a quel mondo, e la ricostruzione delle vicende è affidata soprattutto
alla cultura materiale emersa dagli scavi archeologici. Alcuni autori hanno ipotizzato che si sia trattato non tanto di
un’espansione di popolazioni, ma di una sorta di “contagio culturale” per il quale popoli diversi avrebbero adottato lo stile
celtico nelle armi, nell’oreficeria, nell’abbigliamento.
Se questo risponde al vero, si può avanzare una suggestiva analogia con gli antichi Greci. Come è noto, la filosofia nacque
prima nelle zone periferiche del mondo greco, dapprima sulla costa anatolica (scuola ionia), poi nella Magna Grecia
(pitagorici, eleatici), e solo successivamente prese piede nella Grecia vera e propria. Contrariamente a quanto hanno cercato
di sostenere alcuni patiti dell’orientalismo, questo non dipende dal fatto che i pensatori ionici abbiano assimilato modi di
pensare delle popolazioni orientali, ma dal fatto che la scoperta dei punti di vista di culture diverse ha verosimilmente spinto
questi pensatori a ricercare un modo meno arbitrario del semplice sentito dire tramandato, per fondare le proprie concezioni.
I Celti avrebbero spinto gli Europei a uscire dalla gabbia del “si fa così perché si è sempre fatto così”, così come i Greci li
avrebbero spinti fuori da quella del “si pensa così perché si è sempre pensato così”. Nell’indoeuropeo la tradizione convive
con un elemento di dinamismo, fisico e intellettuale, che in altre culture manca completamente. Si pensi, per fare un
paragone, alla pure per altri versi rispettabilissima cultura cinese.
Raggiunti i limiti fisici dello spazio percorribile in sella, alla sella del cavallo si sostituisce la tolda dell’imbarcazione. La
tendenza dell’uomo indoeuropeo ad andare oltre si converte nell’attività marinara.
Devo essere sincero, a richiamare la mia attenzione sul fatto che altre culture e altre popolazioni hanno nei confronti del
mare e dell’esplorazione marinara un atteggiamento molto diverso da quello che sentiamo nostro, fu molti anni fa un
vecchio racconto di uno scrittore di fantascienza appartenuto a una generazione trascorsa, Il brutto mare di Raphael A.
Lafferty, dove si ironizzava sull’avversione degli ebrei per il mare (che belli i tempi in cui la political correctness non era
ancora una gabbia mentale stringente come oggi, e si poteva perfino ironizzare su qualche aspetto della mentalità ebraica).
Nell’antichità, fra i popoli antichi, in effetti troviamo una popolazione semitica dedita alla navigazione, i Fenici, ma viene il
sospetto che costoro, stretti in una regione piccola e montagnosa, vi si siano dovuti adattare per necessità. La dice lunga ad
esempio il fatto che nel loro pantheon non compaiano divinità marine.
Nella piana di Giza vicino alle piramidi, gli archeologi hanno riportato alla luce alcune navi usate dagli Egizi per scopi
funerari. Hanno constatato che si trattava di buone imbarcazioni per gli standard dell’epoca, che sarebbero state in grado di
tenere il mare. Ciò nonostante, gli Egizi le usavano esclusivamente per la navigazione lungo il Nilo. Verso il mare, il
“grande verde”, essi nutrivano un senso di diffidenza, l’ambiente liquido dal quale potevano provenire stranieri in veste di
commercianti ma anche di invasori, come avvenne appunto con l’invasione dei “Popoli del Mare”.

Né meno diffidenti verso l’elemento liquido erano i mesopotamici. Dall’angolo meridionale della Penisola anatolica al
Sinai, c’è un tratto non breve della costa del Mediterraneo, eppure, con l’eccezione dei Fenici, nessun altro popolo
affacciato su di esso si è dedicato alle attività marinare in età antica.
Tra la caduta di Costantinopoli e gli inizi del XVIII secolo, il Mediterraneo fu infestato dai Barbareschi, pirati islamici al
Servizio della Sublime Porta ottomana che agivano perlopiù dalle basi del Magreb. Federico II di Spagna concesse ai
cavalieri di San Giovanni che i Turchi avevano scacciato dalla Terrasanta e poi da Rodi, l’isola di Malta allo scopo di
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combattere questa pirateria. Voltaire parla di questi pirati nel Candido, a riprova del fatto che nei primi decenni del XVIII
secolo costoro erano un pericolo ancora attuale.
Ebbene, vi sorprenderà sapere che costoro erano in netta maggioranza cristiani convertiti, cioè europei. Uno dei corsari
barbareschi più famosi fu Kar El Din, detto Barbarossa, che non aveva niente a che fare, ovviamente, con gli Hohenstaufen,
ma era dotato di una capigliatura e di una barba rossicce.
In età medievale i Cinesi avrebbero costruito enormi giunche con le quali avrebbero esplorato il Pacifico. Sulle coste della
California sarebbero stati ritrovati i resti del naufragio di una giunca cinese dell’epoca. Ma poi, con un atteggiamento per
noi europei incomprensibile, avrebbero deciso di interrompere i contatti col mondo esterno rinchiudendosi in se stessi.
Non potremmo, da questo punto di vista, trovare un atteggiamento maggiormente in contrasto con quello degli Europei che,
quando l’evoluzione dei mezzi tecnici glielo ha consentito, dal XV al XIX secolo, si sono lanciati all’esplorazione e alla
conquista del pianeta.
Ora è interessante notare che almeno due delle invenzioni tecniche che hanno permesso agli Europei le grandi esplorazioni e
l’assoggettamento di gran parte del pianeta, erano presenti “in nuce” nella Cina antica e medioevale: la conoscenza delle
proprietà del minerale magnetico di orientarsi in direzione del nord, anche se non la bussola vera e propria (le “bussole”
cinesi erano costituite da un ago di magnetite posto su un pezzo di sughero che galleggiava in una bacinella. L’idea di
incernierare l’ago magnetico su un perno, e quindi l’invenzione della bussola vera a propria, fu opera dei marinai italiani), e
la polvere da sparo, anche se non ancora le armi da fuoco.
Per la cronaca, anche le armi da fuoco, a quanto pare, sono un’invenzione italiana. “Bombarda”, termine con cui erano
indicate le prime armi da fuoco, pare sia una deformazione di “lombarda”, e “pistola” viene da “Pistoia”. Non c’è niente da
fare, in ogni epoca, gli Italiani si sono dimostrati fra gli Europei più intelligenti, ingegnosi e creativi, e non soltanto in
campo artistico.
La nave a sponde rialzate in grado di affrontare i marosi oceanici, fu certamente un’invenzione tutta europea, il koggen
frisone antenato del galeone (che nonostante il nome, non è un ingrandimento della galea mediterranea, le cui sponde basse
la rendevano inadatta alla navigazione oceanica), ma certamente trova un equivalente nelle grandi giunche cinesi di età
medioevale. Forse l’unica invenzione europea che non trova riscontri fuori dal nostro continente, è il timone posteriore delle
imbarcazioni.
Così come nel campo delle esplorazioni, anche in quello delle innovazioni tecniche, i Cinesi danno l’impressione di essersi
fermati e ritirati proprio all’ultima svolta prima del traguardo, rinunciando a sviluppare fino in fondo innovazioni che
probabilmente erano alla loro portata.
Lo si voglia o no, il desiderio di andare sempre avanti, di oltrepassare i propri limiti, l’amore per l’esplorazione, la
conoscenza, i grandi spazi da percorrere in sella a un cavallo o sul ponte di un’imbarcazione, rimangono un retaggio tipico
dell’uomo indoeuropeo ed europeo. Se il piano Kalergi, il genocidio “soft” delle genti d’Europa attraverso senilità
demografica indotta, immigrazione, meticciato, giungesse alla conclusione che oggi appare drammaticamente vicina, quella
che andrebbe distrutta, sarebbe la parte più dinamica e creativa dell’umanità.
NOTA: Nell’illustrazione, un drakkar vichingo. Affrontare l’oceano ignoto su di un fragile legno è stata una delle
manifestazioni più peculiari dello spirito indoeuropeo.

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Siamo sempre in attesa che le scoperte antropologiche, paleoantropologiche e archeologiche ci offrano consistenti novità
sulle nostre origini, ma sappiamo che questo non può avvenire a comando, e che gli eventi di cui stiamo parlando non
possono avvenire con la stessa frequenza di quelli registrati dalle cronache sportive, dalla politica o dal gossip.
Nel frattempo è utile esaminare lavoro di ricerca e di riflessione sulle tematiche delle origini compiuto nei nostri ambienti,
lavoro importante, importantissimo perché fa vedere come il tema dell’identità storica ed etnica sia sentito, ma è bene tenere
d’occhio anche quanto avviene nel campo avversario, poiché la partita si gioca attorno all’idea che abbiamo di noi stessi, o
che si riesce a dare alla gente di se stessa e del suo posto nel mondo, poi ci sono ancora altre cose: fatti esterni che possono
arrivare più o meno a sorpresa, e infine anche la ricerca e la riflessione personali che hanno comunque la loro ragion
d’essere.
Un esempio del primo tipo è rappresentato dall’ottantaduesima parte, una specie di “edizione straordinari” motivata da due
fatti avvenuti a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, un video su Youtube (probabilmente un fake, ma questo non ha
importanza) dove si vede un Matteo Renzi proclamare che dal momento che “veniamo tutti dall’Africa” dobbiamo
accogliere a braccia aperte i cosiddetti migranti che oggi ci invadono. In tutta franchezza che questo sia il frutto di un abile
montaggio o che l’ex premier abbia effettivamente detto queste cose, la trovo una questione del tutto secondaria.
L’elemento veramente importante è che questo video scopre gli altarini riguardo alla falsa teoria dell’Out of Africa, ci
permette di capire per creare quali suggestioni è stata creata questa mistificazione pseudoscientifica.
L’altro fatto è stato la pubblicazione di un articolo di Carlomanno Adinolfi su “Il primato nazionale”, che è un’analisi dei
fatti che tolgono credibilità all’Out of Africa, articolo che è stato seguito da una livorosa replica su “Ethnopedia” che lo (ci)
accusa di rifiutare una “teoria scientifica” semplicemente perché non gli (ci) piace. E’ la classica storia del bue che da del
cornuto all’asino. Come anch’io ho sempre fatto su queste pagine, Adinolfi cita fatti che rendono l’Out of Africa sempre più
traballante: la scoperta dell’uomo di Denisova, quella di “El Greco”, l’ominide balcanico che ha un’età quasi doppia di
quelli africani, infine l’ultimo ritrovamento, quello di Denny, la ragazzina tredicenne parte neanderthaliana parte
denisoviana. Da parte di “Ethnopedia” invece c’è solo il rimbrotto livoroso di chi vede una delle sue fissazioni preferite
crollare irrimediabilmente.
L’ottantunesima e l’ottantaseiesima parte, invece le ho dedicate ad alcune riflessioni personali, che tuttavia non credo siano
prive d’importanza, data la rilevanza di queste tematiche. E non vi nascondo che entrambe sono varie volte “scivolate”
indietro sulla lista delle cose da pubblicare su “Ereticamente” e nella rubrica della “Ahnenerbe casalinga” in particolare
sotto la pressione di cose che in quel momento era più urgente trattare.
Come vi ho spiegato altre volte, noi potremmo considerare la tematica delle origini nel suo insieme come una torta a quattro
strati. Senza andare a cose remote, comunque lontane dall’esperienza umana e che certamente è difficile che possano avere
implicazioni politiche, come l’origine dell’universo o della vita sul nostro pianeta, i quattro strati che abbiamo considerato
sono: l’origine della nostra specie, quella dei popoli indoeuropei, della civiltà europea e infine, tematica più vicina a noi,
nella quale dovremmo sentirci maggiormente coinvolti, l’origine dei popoli italici.
Come ho spiegato nell’ottantunesima parte, tuttavia fra la prima e la seconda di queste tematiche se ne potrebbe inserire
un’altra, l’origine dei popoli caucasici, delle popolazioni caucasiche, “bianche” di cui gli Indoeuropei sono semplicemente
una frazione. Allora vediamo che ad esempio gran parte dell’Asia deve essere stata in epoca remota abitata da popolazioni
caucasiche poi sommerse dall’espansione mongolica che ha lasciato ai suoi bordi popolazioni “bianche” residuali, come gli
Ainu del Giappone, i Daiaki del Borneo, i Polinesiani che si sono certamente avventurati nel Pacifico provenendo dall’Asia.
Anche gli Indoeuropei provengono probabilmente da questo nucleo caucasico perduto, attraverso la cultura eurasiatica dei
Kurgan.

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Cerchiamo di capire chi erano questi nostri antenati indoeuropei: cavalieri nomadi e conquistatori con l’istinto di esplorare e
di spingersi sempre oltre, o agricoltori stanziali, poi costruttori di città e di civiltà? Alternativamente entrambe le cose, e ad
analizzare questo loro doppio aspetto, ho dedicato l’ottantaseiesima parte.
Facciamo un passo indietro. Certamente dei vari strati della torta delle origini, l’ultimo e il più recente, quello più vicino a
noi, la tematica delle origini italiche, è anche quello a proposito del quale in questi anni sono riuscito a dire di meno, su
“Ereticamente” o altrove, rispetto a come il tema meriterebbe di essere affrontato.
Alcuni anni fa pubblicai su “Ereticamente” un paio di articoli sull’argomento che provocarono un’accesa critica da parte di
alcuni lettori. C’è poi la storia di una conferenza su questa tematica, che avrei dovuto tenere qui a Trieste alla Casa del
Combattente, che è stata più volte rimandata perché gli organizzatori hanno manifestato preferenza per altri argomenti, poi
alla fine non se n’è fatto nulla. Per scaramanzia – cosa volete, ognuno ha le sue debolezze – non pubblico mai i testi delle
conferenze prima di averle tenute, ma credo proprio che stavolta farò presto un’eccezione.
Più avanti, appena mi sarà possibile, vi darò il testo di questa conferenza che non sono riuscito a tenere, “Alle radici
dell’italianità”, suddiviso, come per prassi, in due parti in ragione della sua lunghezza, ma ecco un rapido accenno al suo
contenuto.
I nostri antenati italici erano innegabilmente di ceppo caucasico-indoeuropeo, un ramo degli Indoeuropei non più
eterogeneo di quanto lo fossero Celti, Germani, Slavi. Le invasioni che l’Italia ha subito nel corso dei secoli tra la caduta
dell’impero romano e il risorgimento, non hanno influito se non in misura estremamente modesta sul nostro patrimonio
genetico: i Longobardi calati in Italia, ad esempio, non erano più di 100.000 persone, e gli Ostrogoti di Teodorico più o
meno la metà.
Non parliamo poi del fatto che la leggenda di una Sicilia araba oggi appassionatamente coltivata da separatisti antinazionali
e mondialisti pro-immigrazione in uno strano miscuglio tra il Manifesto del partito comunista e il corano, e che evidenzia
come meglio non si potrebbe il fatto che l’identitarismo di corto respiro, il separatismo municipalistico è precisamente uno
strumento del piano Kalergi, è una leggenda del tutto inventata. E’ storicamente accertato che i coloni venuti dal Magreb
durante la dominazione mussulmana dell’isola, che non durò più di un paio di secoli, e che non furono mai molto numerosi,
con la riconquista normanna se ne tornarono nell’Africa settentrionale, senza lasciare tracce genetiche di rilievo, e furono
rimpiazzati in buona misura da immigrati dal settentrione della Penisola, tanto che oggi la Sicilia è geneticamente meno
“meridionale” di altre regioni del sud.
L’idea che gli Italiani sarebbero forse uniti da un discutibile e comunque insignificante collante culturale, ma da nessuna
coerenza etnica e genetica, non è che una menzogna di regime esattamente come l’Out of Africa.
Le persone facenti parte delle associazioni d’arma che frequentano la Casa del Combattente, ben difficilmente possiamo
pensare che siano condizionate da ideologie di sinistra multietniche e mondialiste, e ancora meno questo è pensabile per i
lettori di “Ereticamente”. E allora da dove viene tutta questa riluttanza ad affrontare la tematica nazionale? A mio parere
una spiegazione c’è, ed è molto chiara: tre quarti di secolo di repubblica italiana democratica e antifascista ci hanno portati
ad avere nausea di noi stessi, e allora vorremmo essere padani, celti, longobardi, oppure magni greci (della Magna Grecia) o
bi-siculi (delle Due Sicilie), tutto meno che italiani. Ma non è di essere italiani che ci dobbiamo vergognare, è la repubblica
democratica e antifascista che deve farci nausea e schifo.
Rileggendo l’ottantaduesima e l’ottantaseiesima parte complessivamente, ho avuto l’impressione che ci sia un discorso da
completare, che le due tematiche si saldino rivelando una prospettiva che non è stata adeguatamente sviscerata. Diciamo a
partire dalla fine dell’ultima glaciazione attorno a 12-10.000 anni fa, deve essersi cominciato a produrre in tutta l’area
eurasiatica un considerevole mutamento antropologico. Mentre in Asia le popolazioni mongoliche sono andate incontro a
una notevole espansione a discapito di quelle caucasiche, in Europa gli antenati degli Indoeuropei, dalle estremità
settentrionali e orientali del nostro continente, si sarebbero riversati verso l’occidente e il meridione. Come spiegare ciò?
Soprattutto considerando che verosimilmente non si è trattato di episodi ma di movimenti di vasta portata e durata.
Un’ipotesi ragionevole sarebbe quella di mettere in relazione ciò con i mutamenti climatici, considerando il fatto che le
diverse popolazioni umane hanno adattamenti naturali differenti alle varie condizioni climatiche del nostro pianeta, e quindi
con i cambiamenti ambientali che hanno caratterizzato la fine di ciò che siamo soliti chiamare l’età glaciale, si sono
verificati altrettanti cambiamenti nella distribuzione delle popolazioni.
Abbiamo visto più volte che durante l’età cosiddetta glaciale vaste aree delle regioni artiche erano sgombre dai ghiacci e
abitabili, non c’è soltanto l’opinione al riguardo degli autori che rientrano nel filone del pensiero tradizionale, Evola e Tilak
(che però non sono illazioni gratuite ma si fondano ad esempio sul fatto che determinati fenomeni astronomici descritti nei
Veda si sarebbero potuti osservare solo al disopra del circolo polare), abbiamo anche ad esempio le scoperte del ricercatore
russo Vladimir Pitluko che ha trovato tracce di presenza umana al disopra del circolo polare artico risalenti a 40.000 anni fa,
per non parlare delle misteriose piramidi della penisola di Kola per le quali la stampa russa ha citato apertamente il nome e
il mito di Iperborea. D’altra parte, basta pensare che se le condizioni climatiche dell’Artico fossero state simili a quelle di
oggi, in cui sopravvive solo una stentata flora rappresentata da licheni e poco altro, la megafauna, i branchi di mammut e
altri grandi animali di cui sono stati ritrovati numerosi resti, non avrebbero avuto di che sostentarsi.

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Tutto questo, lo ricordiamo, mentre quello che oggi è il cuore del nostro continente (ma la stessa cosa avveniva nelle
Americhe) era avvolto da un’imponente cappa glaciale. Ce n’è abbastanza per autorizzare il sospetto che da allora la
temperatura media del nostro pianeta non debba essere variata un gran che, ma che sia piuttosto cambiata la localizzazione
delle zone glaciali e temperate.
Come può essere avvenuto ciò? Diciamo subito che al presente non esiste una teoria scientifica generalmente accettata che
spieghi il fenomeno delle glaciazioni (che si è presentato varie volte nella storia del nostro pianeta). Si va dall’ipotesi di un
periodico indebolimento dell’attività solare a quella secondo la quale la Terra attraverserebbe periodicamente zone dello
spazio dense di pulviscolo cosmico che schermerebbe la radiazione solare, oppure il medesimo effetto potrebbe essere
provocato dalle polveri rilasciate nell’atmosfera da maxi eruzioni vulcaniche, o dalla caduta di comete o meteoriti.
Insomma, si brancola nel buio.
Un ricercatore fuori dagli schemi, di quelli che “la scienza” ufficiale si rifiuta per principio di prendere in considerazione,
Graham Hancock, ha proposto nel libro Impronte degli dei un’ipotesi che potrebbe dare una spiegazione valida a quello che
ancora oggi si può considerare il mistero delle glaciazioni.
Noi sappiamo che la crosta terrestre non è statica, ma è divisa in enormi zolle, le placche tettoniche che, scivolando sopra il
nucleo fuso del nostro pianeta, si spostano lentamente le une rispetto alle altre, trascinando i continenti con sé e provocando
il fenomeno geologico conosciuto come deriva dei continenti. Bene, immaginiamo che oltre a questo movimento la crosta
terrestre ne abbia anche un altro, che possa scivolare in blocco sopra il nucleo del nostro pianeta. Hancock fa il paragone
con la buccia di un’arancia che si fosse riusciti a staccare dagli spicchi sottostanti senza romperla. In questo caso, il
movimento potrebbe essere molto più rapido e improvviso. E’ un fatto curioso che questa teoria derivi da osservazioni
astronomiche: su Marte si trovano, poste agli antipodi l’una dall’altra, due regioni geologicamente simili ai poli che però si
trovano nei pressi di quello che è l’attuale equatore del pianeta. Si tratta probabilmente degli antichi poli che sono finiti
nella posizione attuale a seguito di uno scivolamento della litosfera marziana sul suo nucleo quando il pianeta era ancora
geologicamente attivo. Che nel remoto passato lo fosse, su questo non c’è dubbio, dato che ospita ancora oggi il Monte
Olympus, il più imponente vulcano del sistema solare.
Perché la litosfera terrestre non si sarebbe potuta comportare in maniera simile? Questa ipotesi permette di spiegare una
sorprendente anomalia storica come la carta di Piri Reis. Quest’ultima, scoperta negli anni ’60 nel Topkapi di Istanbul, un
tempo residenza dei sultani, è una carta che faceva parte di un mappamondo realizzato nel XVI secolo e geografo ottomano
Piri Reis: essa raffigura l’America meridionale con una precisione sorprendente considerando che l’America era stata da
poco scoperta dagli Europei che non si erano certo affrettati a passare informazioni alla Sublime Porta, ma la vera sorpresa è
un’altra: essa raffigura anche la costa antartica come doveva presentarsi quando il continente australe era libero da ghiacci, e
l’Antartide sarà scoperta dagli Europei solo nel XIX secolo. Piri Reis ha lasciato scritto di non essersi avvalso delle recenti
fonti europee, ma di carte antiche, alcune delle quali molto antiche.
Se il polo artico fino a dodici-tredicimila anni fa era in una posizione diversa da quella attuale, lo sarà stato anche il polo
australe, e l’Antartide libera da ghiacci potrebbe essere stata raggiunta da esploratori, o magari abitata. I motivi per cui le
teorie di Hancock sono respinte a priori dalla “scienza” accademica, sono sempre gli stessi: la gelosia professionale di una
casta che si ritiene detentrice della verità, e il fatto che l’idea dell’esistenza di civiltà evolute nel remoto passato mette in
crisi la concezione della storia come ascendente progresso lineare.
Rimaniamo sul fatto che questa ottantasettesima parte ha una fisionomia un po’ particolare, dedicata all’approfondimento di
tematiche trattate nei miei scritti precedenti. Come avete visto, a distanza di più di due anni, ho deciso di dare una
continuazione a un’altra serie di miei articoli “storica”, Ex Oriente Lux, ma sarà poi vero?, il che può anche sembrare
strano, dato che a suo tempo avevo deciso di concentrare sotto il titolo di Una Ahnenerbe casalinga tutto quanto riguardasse
le tematiche delle origini, per non complicare troppo la vita né a voi lettori né a me stesso.
Il fatto è che una parte almeno di questo discorso di confronto fra Europa e Oriente l’avevo lasciata in sospeso, proprio
quella, forse più importante, che marca la profonda differenza spirituale fra i due mondi: razionalità e ricerca della
conoscenza da un lato, fideismo, supposta rivelazione, la persuasione che la verità si trovi in un libro ispirato “da Dio”
dall’altro. Ciò che mi ha fatto esitare nell’intraprendere questa parte non secondaria del nostro discorso, è stato il timore di
parere “troppo illuminista”.
Nel frattempo però sono riuscito a scrivere e pubblicare su “Ereticamente” i sei articoli che nel loro insieme costituiscono il
saggio Scienza e democrazia, il che mi ha permesso di chiarire un concetto che ritengo essenziale: quella che sotto l’imperio
dell’ideologia democratica passa per scienza non è affatto tale, se per scienza intendiamo il metodo galileiano di
interrogazione della realtà attraverso l’osservazione e l’esperimento, ma mera ciarlataneria ideologica, si veda ad esempio la
negazione dell’esistenza delle razze umane, a dispetto dell’esperienza e delle evidenze fornite dalla genetica. Sapendo
questo, sarà ancora meno difficile riconoscersi in una tradizione filosofica che risale a Talete e Platone (ricordiamo che
filosofia significa “amore per la conoscenza”) e che rappresenta il genuino pensiero europeo di contro a ogni fideismo
asiatico, per quanto prima il cristianesimo poi la democrazia abbiano cercato di distorcerla a proprio uso e consumo.

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Io adesso non vi so dire se dopo questa ripresa temporanea Ex Oriente lux proseguirà, sto valutando la cosa. Quello invece
di cui vi posso dare la più ampia assicurazione, è che finché mi sarà possibile, proseguirà il mio impegno per
“Ereticamente” e in difesa della nostra visione del mondo.
NOTA:
Nell’illustrazione: A sinistra la copertina de La dimora artica nei Veda, forse il testo più classico riguardo alla tematica
delle origini iperboree, al centro quella di Impronte degli dei di Graham Hancock, a sinistra la mappa di Piri Reis.

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Una Ahnenerbe casalinga, Ottantottesima parte

Il momento del passaggio da un anno all’altro è sempre tempo di bilanci, un periodo in cui si sente il bisogno di trarre un
po’ di conclusioni. Ora mi sembra opportuno farlo qui, relativamente ai miei scritti che sono finora apparsi su
“Ereticamente”, ma in particolare riguardo a questa rubrica che è certamente la più folta di articoli e longeva, e se
guardiamo bene, anche il traguardo del centesimo articolo non appare ormai più così distante.
Cosa possiamo vedere se ci guardiamo indietro a riconsiderare il cammino finora percorso?
Un confronto fra le due annate 2017 e 2018 risulta molto istruttivo. Ora, diciamo che dal nostro punto di vista il 2017 è stato
un anno eccezionale, al punto che io stesso mi sono stupito, e vi ho più volte comunicato questa mia sensazione, del fatto
che le scoperte nel campo della paleoantropologia, dell’archeologia, dello studio delle origini, si sono succedute con un
ritmo incalzante, al punto da permettermi di fare di questa serie di articoli una rubrica fissa, nemmeno si trattasse, che so, di
eventi sportivi o di gossip. Ne ricordiamo brevemente le più importanti.
Proprio a inizio d’anno, la scoperta dei resti di un ominide non africano risalente a 7,2 milioni di anni fa nella Penisola
balcanica, questa creatura è stata battezzata Graecopithecus Freibergi, e soprannominata più confidenzialmente “El Greco”.
Se qualcuno avesse mai nutrito dei dubbi sul fatto che l’Out of Africa, la leggenda delle nostre presunte origini africane non
è una teoria scientifica ma un costrutto ideologico volto a distruggere il concetto di razze umane, si potrebbe ricredere
vedendo la reazione innervosita e – diciamolo pure – isterica che questa scoperta, che mina l’Out of Africa, ha suscitato nei
democratici e antifascisti costretti più che mai a celare sotto lo sdegno e l’insulto la loro paura della realtà. Ne è stato un
eccellente esempio un articolo apparso su “Ethnopedia” a firma di tale Kirk (mai che ci mettano le facce e i loro veri nomi)
che se la prende – indovinate un po’ – con “Ereticamente”.
C’è stata poi da segnalare una scoperta fatta da due ricercatori dell’Università di Buffalo, Homer Gockumen e Stephen
Ruhl, che studiando le proteine della saliva, le mucine, ne hanno individuata una, la MUC7, la cui variante africana si
presenta solo nell’Africa sub-sahariana e nelle popolazioni originarie da lì e in nessun altro gruppo umano vivente o estinto.
Da ciò costoro hanno dedotto che la proteina “africana” deve essere l’eredità di un ominide preistorico con cui gli homo
sapiens provenienti dall’Eurasia si sarebbero incrociati circa 40.000 anni fa.
I ricercatori dell’Università di Buffalo hanno fatto notare che il movimento di colonizzazione deve per forza essere
avvenuto dall’Eurasia all’Africa, perché altrimenti la MUC7 “africana” si ritroverebbe magari minoritaria, anche in qualche
gruppo umano non africano. Se il dibattito sulle presunte origini africane fosse realmente una questione scientifica e non
ideologica, questa dovrebbe essere la pietra tombale definitiva dell’Out of Africa, ma possiamo essere sicuri che i paladini
dell’antirazzismo continueranno a sostenerla a dispetto dell’evidenza dei fatti.
Gockumen e Ruhl non avanzano ipotesi su quale potrebbe essere l’ominide con cui i sapiens emigrati in Africa si sarebbero
incrociati, si limitano a parlare di una “specie fantasma”, tuttavia un’idea abbastanza precisa dell’identità di questo ominide,
la può dare il lavoro di una ricercatrice italiana, Margherita Mussi, un’archeologa che ha effettuato ricerche nel sito etiopico
di Melka Kunture.
Un concetto che occorre tenere presente, è che fino a sapiens, l’evoluzione culturale e degli strumenti litici è strettamente
legata all’evoluzione biologica. In poche parole il perfezionamento degli strumenti dipende strettamente dall’evoluzione del
cervello.
Studiando l’acueuleano, cioè l’industria litica dell’homo erectus, la Mussi ha visto che esso in Africa non presenta alcun
segno di evoluzione a differenza di quanto avviene in Eurasia. Come ha spiegato in un testo significativamente intitolato
Due acheuleani, due specie, homo erectus in Africa non sarebbe andato incontro a nessuna evoluzione, mentre in Eurasia si
sarebbe evoluto in heidelbergensis poi in sapiens, dividendosi nei tre rami Cro-Magnon, Neanderthal e Denisova. La
“specie fantasma” di cui i biologi di Buffalo hanno scoperto le tracce, allora altro non sarebbe che il “vecchio” homo
erectus rimasto immutato fino a poche decine di migliaia di anni fa sul suolo africano.

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Due altre scoperte sono poi venute a indebolire sempre di più le posizioni dei sostenitori dell’Out of Africa: il ritrovamento
di una fila di impronte fossili sorprendentemente umane nell’isola di Creta risalenti a 5,7 milioni di anni fa, e il ritrovamento
in Germania, vicino a Francoforte, di denti ominidi vecchi di poco meno di nove milioni di anni.
Infine, quasi alla fine dell’anno è arrivata la notizia che un team di anatomisti britannici guidato da sir Solly Zuckermann, la
massima autorità mondiale nel campo dell’anatomia comparata, ha sottoposto a un’attenta analisi le ossa della famosa Lucy,
e concluso che si trattava semplicemente di una scimmia, e che non ha nulla a che fare con la genealogia umana. Sale a
manciate sulle ferite dei paladini dell’Out of Africa!
Si licet parva componere magnis, a un livello di importanza e di risonanza molto minori, ma l’anno è stato di rilievo anche
per il nostro ambiente. Nel nostro piccolo ma vivace ambito triestino, per quanto riguarda le tematiche che ci interessano,
nel 2017 abbiamo avuto a cura del circolo Identità e Tradizione, le due conferenze di Michele Ruzzai Le radici antiche degli
indoeuropei del 27 gennaio e Patria artica o madre Africa del 24 febbraio, e la mia Alle origini dell’Europa dell’11 marzo.
In particolare, per quanto riguarda la prima delle due conferenze di Michele, il 27 gennaio era il giorno della memoria, è
noi, appunto, abbiamo ricordato, ma non quello che il potere mondialista vorrebbe.
Sarebbe stato probabilmente pretendere troppo dalla benevolenza degli dei aspettarsi che il 2018 ripetesse un simile exploit,
una simile concentrazione di scoperte ed eventi eccezionali, e infatti non abbiamo avuto notizia di ritrovamenti paragonabili
a quelli del 2017, tranne forse quello dei resti di “Denny”, una ragazzina siberiana tredicenne risalente a 90.000 anni fa
ibrida di Neanderthal e Denisova, di padre denisoviano e madre neanderthaliana.
Eppure – come vedete – siamo proceduti finora. Se quest’anno non ci ha presentato un seguito di scoperte paragonabili a
quelle del 2017, diverse cose sono venute a riempire il vuoto, tra le altre cose il lavoro dei gruppi facebook, gravitanti nella
nostra area, ma poiché mi è stato fatto notare che forse ho insistito troppo su di essi in relazione all’entità del fenomeno che
rappresentano, adesso non ne parleremo.
C’è poi da dire che il nostro gruppo triestino è certamente una realtà piccola, ma molto vivace. Il nome di Gianfranco Drioli
vi sarà probabilmente noto come l’autore dei due bei libri pubblicati dalle edizioni Ritter, Ahnenerbe e Iperborea, la ricerca
senza fine della patria perduta. Grazie al fatto che Gianfranco Drioli è diventato presidente della locale sezione dell’ALTA
(Associazione Lagunari e Truppe Anfibie), abbiamo avuto accesso agli ampi locali della Casa del Combattente triestina, e
in questa sede è stato possibile tenere manifestazioni, conferenze, presentazioni librarie.
In questa sede, a gennaio ho potuto tenere la conferenza Ma veniamo veramente dall’Africa?, il cui testo avete potuto
leggere su “Ereticamente” suddiviso in tre articoli. A essere sincero, a parte le recenti scoperte del 2017 di cui vi ho detto
più sopra, non mi pare di avere detto nulla che non fosse già noto, ma considerati tutti insieme gli argomenti e le prove che
contraddicono l’Out of Africa, ne svelano la natura di assunto ideologico e non di teoria scientifica, hanno un impatto che
altrimenti mancherebbe.
Un ambiente alquanto diverso è rappresentato dal Triskell, il festival celtico triestino che si tiene attorno al solstizio d’estate
(collocazione temporale per me problematica, perché viene a coincidere con l’impegno degli esami di maturità), al quale da
diversi anni do il mio contributo sotto forma di una conferenza (nonché a volte di presentazioni librarie delle mie opere
narrative nel campo del fantastico, ma questo è un altro discorso).
Qui, è chiaro, ci si rivolge a un pubblico che non è politicamente orientato, si può parlare di archeologia, di storia della
civiltà, ma non fare discorsi scopertamente politici, e tuttavia rappresenta sempre un canale per diffondere la nostra visione
del mondo, sia pure in forma più velata.
Questo vale in maniera particolare per il tema che mi ero riproposto di svolgere quest’anno, vale a dire Il fenomeno
megalitico nell’Europa continentale. E’ facile comprendere che l’innalzamento delle costruzioni megalitiche, con i
complessi problemi ingegneristici che deve avere posto, per di più se, come spesso accadeva, l’erezione di questi
monumenti doveva corrispondere a sofisticate correlazioni astronomiche, non poteva essere un fenomeno isolato all’interno
di culture altrimenti barbare, ma richiedeva l’esistenza di società ben più avanzate di quel che si è soliti supporre, e questi
monumenti si trovano sparsi sul nostro continente dalle coste atlantiche alla Russia.
Raccogliendo il materiale per questa conferenza, io stesso ho provato un senso di stupore. Come è possibile – mi sono
chiesto – che gli archeologi ufficiali, diciamo intorno ai tre-quattromila anni fa, non vedano nulla che non si trovi in Medio
Oriente? Da cosa può dipendere questa cecità voluta se non dalla volontà di minimizzare tutto quanto è europeo, nel
tentativo di farci digerire senza troppe recriminazioni la sostituzione etnica in atto, la stessa funzione che assolve su un altro
piano la mistificazione dell’Out of Africa? E questo è certamente un fatto politico di primaria importanza. Io ho evitato di
esplicitare troppo apertamente ai miei ascoltatori questa conclusione, che nondimeno sarà chiara a tutti voi.
Quanto prima, ma anche in questo caso si dovrà fare i conti con la molteplicità di filoni di ricerca che sto tenendo in piedi su
“Ereticamente”, vi renderò disponibile il testo di questa conferenza che anch’esso, per la sua lunghezza ho dovuto
suddividere in tre articoli. Non è che ci tenga a essere prolisso, ma ci sono tematiche che non si possono trattare in maniera
sbrigativa.
Come avete avuto modo di vedere, il lavoro della mia Ahnenerbe casalinga (averceli i mezzi per esplorare il mondo sulle
tracce dei nostri remoti antenati come la Ahnenerbe del Terzo Reich!) è strutturato su più livelli. Certamente ci sono –
quando capitano – le notizie di ritrovamenti e scoperte scientifiche che gettano nuova luce sulle nostre origini, e abbiamo
259
visto che in questo, mentre il 2017 è stato un’annata eccezionale, il 2018 ha latitato alquanto. C’è poi il lavoro di
informazione e di aggiornamento su come il dibattito sulle nostre origini procede nei nostri ambienti, attraverso l’uscita di
libri, articoli, conferenze, e abbiamo visto quanto spazio ha richiesto tenersi aggiornati da questo punto di vista, ed è bene
che sia così, perché sapere da dove veniamo è indispensabile per capire chi siamo e dove andiamo, ma oltre a ciò, c’è anche
un aspetto di riflessione e ricerca personali.
Ad esempio, avete visto che nei miei articoli precedenti ho suddiviso la questione delle origini in quattro livelli per ognuno
dei quali c’è una versione della scienza ufficiale, una menzogna di regime da respingere. Per quanto riguarda le origini della
nostra specie, l’Out of Africa, circa i popoli europei, la favola che li vorrebbe discendere da pacifici agricoltori
mediorientali, riguardo alla civiltà europea la presunzione di una sua totale dipendenza da influenze civilizzatrici orientali e
mediorientali (vi ho dedicato la serie di articoli Ex oriente lux, ma sarà poi vero?), e infine riguardo all’Italia la leggenda di
regime che il nostro popolo, unito dalla geografia e da un certo collante culturale, non avrebbe tuttavia alcuna coerenza
etnica-genetica, di sangue.
Bene, fra il primo e il secondo di questi livelli, se ne deve probabilmente situare un altro, quello dell’origine delle
popolazioni caucasiche, “bianche”, concetto più ampio di quello di indoeuropei. Me ne sono occupato nell’ottantunesima
parte della nostra Ahnenerbe, evidenziando il concento che l’origine dei popoli caucasici si confonde con quella stessa di
homo sapiens, infatti le caratteristiche congoidi, “nere” e quelle mongoliche, non compaiono che molto tardi nella
documentazione fossile umana. Veniamo dai neri, come proclama la versione più semplicistica ed estremista dell’Out of
Africa? Semplicemente impossibile, poiché i nostri antenati erano caucasici e popolavano l’Europa molto prima che i neri
esistessero!
Un’altra riflessione personale, un ulteriore approfondimento di questa tematica che sembra inesauribile, ve l’ho esposto
nell’ottantaseiesima parte. Questi nostri avi indoeuropei, in definitiva chi erano? Un identikit sembra difficile da tracciare
perché ci sono due immagini che si sovrappongono e in parte si contrappongono: quella della gente stanziale, dedita
all’agricoltura e poi a dare vita a città e stati, profondamente legato alla terra su cui vive, sangue e suolo, e quella
dell’allevatore, cavaliere e conquistatore nomade sempre spinto dall’impulso di andare “più oltre”, impulso che una volta
raggiunti i limiti della terraferma, spinge il cavaliere a trasformarsi in marinaio, e si pensi alla grande espansione marittima
dell’Europa dal XVI al XIX secolo! Bene, l’unica posizione ragionevole al riguardo, è ammettere che l’animo indoeuropeo
presenta entrambi questi aspetti. “Spirito prussiano e spirito vichingo”, direbbe Oswald Spengler.
Un anno si conclude, un altro se ne apre. Ars longa, vita brevis. Certamente, c’è ancora tanto da conoscere, approfondire,
divulgare. In ogni caso, il nostro impegno continuerà finché sarà possibile, finché le forze ci sorreggono.
NOTA:
Nell’illustrazione: a sinistra, ecco come i grafici di “Le scienze” hanno visualizzato la “specie fantasma” individuata dai
biologi dell’Università di Buffalo. Al centro, la locandina della conferenza sull’Out of Africa tenuta da Michele Ruzzai
presso il circolo Identità e Tradizione di Trieste il 24 febbraio 2017. Lo stesso tema è stato poi affrontato nella conferenza
da me tenuta presso la Casa del Combattente di Trieste il 26 gennaio 2018. A destra, una suggestiva immagine notturna di
Stonehenge, il più noto di tutti i monumenti megalitici.

www.ereticamente.net/2019/01/una-ahnenerbe-casalinga-ottantottesima-parte-fabio-calabrese.html

Una Ahnenerbe casalinga - Ottantanovesima parte

“Mai dire mai”, è un motto sulla cui validità si dovrebbe continuamente riflettere. L’ottantottesima parte della nostra
Ahnenerbe, come avete visto, l’ho dedicata a un riepilogo degli eventi del 2018 e a un confronto fra quel che l’annata
trascorsa ci ha riservato, e il 2017. Come vi ho detto, a paragone dell’anno che l’ha preceduto, caratterizzato da scoperte
importanti che hanno o avrebbero imposto di riscrivere completamente la nostra storia più remota (perché c’è da fare i conti
con il fatto che l’Out of Africa, la “teoria” delle presunte origini africane della nostra specie è una parte dell’ideologia
dogmatica “democratica” e “antirazzista” che non tollera di essere messa in discussione, e a cui i dati di fatto non
interessano per nulla), tra cui il ritrovamento dei resti dell’ominide balcanico “El Greco”, e l’identificazione da parte di due
ricercatori dell’Università di Buffalo, di una proteina, la MUC7, che ha permesso di ipotizzare l’esistenza di una “specie
fantasma” di ominidi africani con cui i sapiens provenienti dall’Eurasia si sarebbero incrociati dando origine agli odierni
subsahariani, il 2018 è apparso relativamente vuoto e povero di eventi.
E’ anche per questo motivo, per l’esigenza di riempire il vuoto, che nell’anno appena trascorso, ho dato molto spazio
all’attività dei gruppi facebook, cosa che mi è stata rimproverata, non solo perché si tratta di un discorso che coinvolge un
numero di persone relativamente esiguo, ma perché sapere che tizio, illustre sconosciuto, ha commentato, magari
interpretandolo del tutto a modo suo, un articolo apparso su una rivista, non può costituire un grande motivo di interesse,
ragion per cui, preso atto della fondatezza di quest’obiezione, dell’attività dei gruppi FB non mi occuperò più in questa
sede, pur augurando la miglior fortuna a ciascuno di loro e a chi li gestisce.

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Vi ho detto la volta scorsa che forse l’unica scoperta veramente importante che ha caratterizzato la ricerca
paleoantropologica nel 2018, è stato il ritrovamento dei resti di Denny, la ragazzina tredicenne ibrida di Neanderthal e
Denisova vissuta in Siberia 90.000 anni fa. Bene, a quanto pare, è sempre meglio evitare di pronunciare giudizi troppo
drastici, perché proprio verso la fine dell’anno ci è pervenuta una notizia in ambito archeologico-paleoantropologico, di
importanza senz’altro paragonabile al rinvenimento di Denny.
Vorrei prima però fare un passo indietro e mettere meglio a fuoco l’importanza di questo ritrovamento. Certamente,
ricorderete che uno degli eventi che hanno contrassegnato il 2018 in quest’area dove si sovrappongono politica e
paleoantropologia (e vorrei una volta di più sottolineare il fatto che questa ingerenza della politica nella ricerca scientifica
non è un’invenzione “nostra” ma una “brillante trovata” di democratici e antirazzisti che hanno inventato l’Out of Africa al
preciso scopo di negare l’esistenza delle razze umane) è stato l’articolo di Carlomanno Adinolfi sul “Primato nazionale” che
ha dato una sintesi dei fatti che smentiscono l’Out of Africa, a cui ha risposto il ringhio livoroso quanto privo di reali
argomenti, della solita Ethnopedia.
Tra i fatti citati da Adinolfi c’è appunto il ritrovamento di Denny oltre a quello di El Greco. Nel caso di El Greco, lo
capiamo molto bene, si tratta di un fossile che demolisce alla base uno dei fondamenti dell’Out of Africa (“Homo deriva
dagli ominidi, gli ominidi erano africani, dunque homo è nato in Africa”), abbiamo la prova che non è così, perché c’erano
ominidi non africani, El Greco, ma non solo lui, come abbiamo già visto. Ma Denny, in che senso i suoi resti costituiscono
una smentita dell’Out of Africa?
Qui il discorso è un tantino più complesso, e occorre rifarsi alle ricerche di Svante Paabo, che è stato il fondatore della
paleogenetica, lo studio dei DNA antichi. Queste ricerche hanno evidenziato che i nostri antenati preistorici più diretti, gli
uomini di Cro Magnon, si sono ripetutamente incrociati con due altre varietà umane: gli uomini di Neanderthal e di
Denisova, e noi portiamo nel nostro patrimonio genetico le tracce di questi incroci.
Ma se questo è avvenuto, e questi accoppiamenti non hanno generato ibridi sterili che non avrebbero potuto essere nostri
antenati, questo significa che Cro Magnon, Neanderthal e Denisova non erano tre specie umane distinte, ma tre varietà della
stessa specie, la nostra, ma significa anche che homo sapiens era presente in Eurasia almeno 300-350.000 anni fa, un dato
incompatibile con l’Out of Africa.
Veniamo allora alla notizia giunta giusto a fine anno che la scorsa volta non ho fatto in tempo a menzionare. Cerchiamo
subito di comprendere un fatto molto importante: bisogna avere una percezione molto chiara degli ordini di grandezza
temporali per non cadere in errori interpretativi che potrebbero facilmente compromettere la nostra posizione. In questo
caso, parliamo non delle centinaia ma delle decine di migliaia di anni, non alle origini della nostra specie, ma a quello della
differenziazione delle varie popolazioni umane. Tuttavia anche questa scoperta ci dice in un certo senso la stessa cosa: ci fa
capire come “la scienza” ufficiale attuale si basi su di una sistematica sottovalutazione di tutto quello che è caucasico,
europide, “bianco”.
Ogni tanto capita una di quelle notizie che fanno sussultare, soprattutto quando mettono voglia di dire “Perbacco, ma allora
avevo ragione più di quel che pensavo”, quando quella che era parsa anche a chi l’aveva formulata, una semplice
congettura, si dimostra un fatto supportato da prove. Come ricorderete, io ho dedicato l’ottantaduesima parte a un tema
specifico, l’origine delle popolazioni caucasiche di cui gli Indoeuropei sono solo un ramo. Poiché popolazioni caucasiche
residuali si trovano nelle regioni più periferiche dell’Asia orientale: Daiaki del Borneo, Ainu del Giappone, probabili
antenati dei Polinesiani che devono aver abitato da qualche parte sulle coste asiatiche del Pacifico prima di addentrarsi nel
più vasto oceano del pianeta, avevo avanzato l’ipotesi che in epoca remota vi fosse una consistente presenza caucasica nel
cuore dell’Asia, poi soppiantata o assimilata dall’espansione delle genti mongoliche.

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Bene, una recente scoperta sembra confermare in pieno questa mia ipotesi. Ce ne parla un articolo pubblicato sul sito
“Turtle People”. Si tratta dei resti di un ragazzo vissuto in Siberia 24.000 anni fa, noto come ragazzo di Mal’ta, dal nome
del villaggio siberiano non distante dal lago Baikal dove furono rinvenuti. Questi resti sono stati conservati per oltre
cinquant’anni al museo Hermitage di San Pietroburgo, finché nel 2009 ricercatori dell’Università di Copenhagen hanno
avuto il permesso di condurre studi genetici su di essi. I risultati pubblicati recentemente in uno studio su “Nature”, sono
stati più che sorprendenti: il DNA del ragazzo è simile a quello delle popolazioni dell’Europa occidentale, si suppone che
avesse occhi e capelli castani. Il DNA del ragazzo è anche per il 25% sovrapponibile a quello dei nativi americani. Abbiamo
già visto, e ne ho parlato più volte, che un terzo circa del DNA dei nativi americani (escludendo, s’intende, meticciamenti
recenti) è caucasico. Da dove può venire loro? C’è l’ipotesi di Clovis, di una migrazione avvenuta attraverso l’Atlantico in
età glaciale. Un’ipotesi alternativa è che i loro antenati si fossero mescolati con popolazioni caucasiche già
all’attraversamento della Beringia.
Un fatto curioso che vale la pena di evidenziare, è che l’articolo, ovviamente in inglese, è comparso sul sito The Turtle
People, letteralmente, “La gente della tartaruga”, che è, come è facile comprendere, un sito dei nativi americani. Nei
confronti della parte “bianca” della loro eredità, che risalga a Clovis o alla Beringia, queste persone sembrano mostrare un
atteggiamento altalenante. In questo caso sembrano non solo accettarla senza problemi, ma volerla mettere in evidenza.
Diversamente andarono le cose, ad esempio, col ritrovamento dello scheletro dell’uomo di Kennewick, riguardo al quale le
comunità native americane cercarono di impedire lo studio.
Ma bisogna anche capire questa gente, ricordare lo spaventoso genocidio che hanno subito nel XIX secolo. Gli yankee
hanno mostrato loro l’aspetto peggiore di tutto ciò che è “bianco”, hanno dimostrato loro di essere la fogna della varietà
caucasica della nostra specie.
Un nome del quale si è parlato ultimamente, è quello di Ibtesam Reatz, genetista ed esperto di pigmentazione umana,
nonché degli esiti molto “politicamente scorretti” delle sue ricerche. A quanto pare, dati forniti dalla genetica alla mano, gli
Europei non sono mai stati neri, alcuni di loro sono stati in passato, come lo sono oggi, un po’ più scuri di altri, secondo le
latitudini, con variazioni nella pigmentazione della pelle non maggiori di quelle che si riscontrano oggi ad esempio fra gli
amerindi.
Io personalmente ho sempre nutrito il sospetto che a certe ricostruzioni, come quella dell’uomo di Cheddar, il “primo
inglese” sia stato attribuito un colore scuro non per motivi scientifici, ma unicamente per compiacere gli invasori che, senza
che nessuno di noi glielo abbia chiesto, si stanno insediando in maniera sempre più massiccia nel nostro continente. Per far
piacere a loro o per “non offenderli” (perché sono anche terribilmente suscettibili) dovremmo divulgare una versione falsata
della nostra storia. Ricordo che anni fa a Stoccolma una mostra sull’Età del Bronzo scandinava fu sospesa per “non
offendere” gli immigrati.
E noi allora, non avremmo tutto il diritto di sentirci offesi quando i libri di storia ignorano a bella posta il fatto che i
complessi megalitici europei, Stonehenge, Newgrange, i templi maltesi precedono di un millennio (o più, come
l’antichissimo cerchio megalitico tedesco di Gosek) le piramidi egizie e le ziggurat babilonesi? La verità pura e semplice, è
che la civiltà europea è stata creata dagli uomini europei di stirpe caucasica e che non dobbiamo nulla né a questi nuovi
venuti né ai loro antenati.
E’ quasi ovvio dire che non si potrebbe non menzionare “Le scienze”, anche se devo dire che tutte le volte solo a
menzionare questa pubblicazione che rappresenta quanto di più rigorosamente ortodosso nel campo dell’ortodossia
“scientifica” provo una sensazione strana: non pubblicano un articolo di paleoantropologia senza spiegare che esso e le
scoperte che menziona “confermano” o quanto meno “non smentiscono” l’Out of Africa, anche se il contenuto concreto
dell’articolo, solo che lo si legga con un po’ di attenzione, dice esattamente il contrario, così come nel campo della fisica
ogni nuova scoperta “conferma” la relatività di Einstein, anche se con la relatività in realtà non c’entra per nulla.
E’ lo stesso atteggiamento a cui, volenti o nolenti, erano costretti gli astronomi del cinquecento e del seicento, che erano
costretti a dire che l’eliocentrismo era una semplice finzione matematica per semplificare i calcoli, ma che la “verità vera”
sul sistema solare era quella sostenuta da Tolomeo e dalla bibbia. Una volta Galileo fu troppo esplicito, e sappiamo come è
andata a finire.
A questo riguardo segnalo, purtroppo in ritardo, un articolo on line apparso su lescienze.it nel novembre 2018. Si tratta di un
articolo sui reperti litici cinesi rinvenuti nella grotta di Guanyndong nella Cina meridionale, che retrodatano la comparsa
dell’industria litica levalloisiana a un periodo tra 80.000 e 170.000 anni fa. Certo, trattandosi de “Le scienze”, non c’era da
aspettarsi che questo articolo attaccasse l’Out of Africa, ma di certo questa scoperta, assieme a molte altre, la rende sempre
meno probabile. Scopriamo fossili umani e reperti litici che ogni volta ci spingono a retrodatare la comparsa della nostra
specie sempre più indietro nel tempo, fino a livelli assolutamente incompatibili con la favola della sua presunta origine
africana.
Nel 2012 “Le scienze” aveva offerto allegato alla pubblicazione il libro di Nicholas Wade Una scomoda eredità, di cui ora
viene proposto un link dal quale è possibile nuovamente scaricare la versione on line che peraltro possedevo già sotto forma
di PDF. Si tratta di uno di quei testi che, data la lunghezza, nonché la fatica della lettura del file a schermo, mi ero

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riproposto di leggere e recensire al momento del mio pensionamento slittato di un anno. Se ricordate, ve ne ho parlato in I
volti della decadenza.
Al riguardo, bisogna dire che questo testo, e non poteva essere altrimenti, vista la fonte della pubblicazione, è allineato con
la più completa ortodossia “scientifica” politicamente corretta, Out of Africa e quant’altro. Nonostante questo, il libro è
stato oggetto di dure critiche da parte degli ambienti democratici e marxisti. La sua colpa, aver evidenziato il fatto che “la
scomoda eredità”, l’eredità genetica, ha un ruolo essenziale nel determinare ciò che sono gli esseri umani. Questa è una
verità ovvia che da molto fastidio a democratici e “compagni” che vorrebbero l’essere umano plasmabile a loro talento e
gusto, a prescindere, anzi negando che esistano fra gli uomini differenti identità nazionali, etniche, razziali, cioè che fanno
capo ai fattori innati-biologici. Il contatto con la scienza, anche quella più “politicamente corretta”, cioè addomesticata, non
può che distruggere le loro utopie. Questa è la riprova più lampante del fatto che l’ideologia democratica e marxista è uno
stentato e malaticcio fiore di serra che non sopporta il confronto con la realtà.
Nel rifiuto del reale che caratterizza gli eredi dell’ideologia che avrebbe dovuto “unire i proletari di tutto il mondo”, e allo
stesso modo gli epigoni di quell’ideologia democratica che ha preteso di presentarsi come “il pensiero unico”, noi possiamo
cogliere i sintomi della prossima scomparsa di queste forme di pensiero che si rivelano sempre meno credibili. Possiamo
lasciarli al loro meritato destino, a noi incombe ben altro compito: la difesa a oltranza dei popoli europei dalla morte per
sostituzione etnica.

NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra il numero di novembre 2018 de “Le Scienze”, al centro,una nativa americana dai tratti
sorprendentemente europidi, è molto verosimile che il ragazzo di Mal’ta presentasse le stesse caratteristiche etniche, a
destra la copertina del libro Una scomoda eredità di Nicholas Wade.

Una Ahnenerbe Casalinga Novantesima parte


www.ereticamente.net/2019/02/una-ahnenerbe-casalinga-novantesima-parte-fabio-calabrese.html

Nella vita occorre non dare mai nulla per scontato. Alcuni miei amici e pazienti lettori si stupiscono del fatto che finora
sono riuscito a pubblicare ormai da anni un nuovo articolo su “Ereticamente” con regolarità settimanale. Bene, al riguardo
non c’è nessun mistero, ma semplicemente il fatto di “portarmi avanti col lavoro”, di aver accumulato una scorta di
materiale sufficiente da avere sempre a disposizione qualcosa da collocare sulle pagine di “Ereticamente”.
Tuttavia, questo modo di procedere ha anche degli inconvenienti, ad esempio, l’ottantottesima parte che riassume un po’
l’andamento delle ricerche paleoantropologiche del 2018, l’ho stesa agli inizi di dicembre, non prevedendo che il mese che
mancava alla fine dell’anno potesse portare a delle novità eclatanti, anche considerando che i ritmi di questi eventi non sono
certo quelli dello sport, della politica, del gossip. Invece, mai dire mai, e fare previsioni è sempre azzardato.
Da questo punto di vista, rilevavo, l’unica novità davvero importante dell’anno che andava a spirare, era stata il
ritrovamento dei resti di Denny, la ragazzina tredicenne siberiana vissuta 90.000 anni fa, che l’analisi del DNA aveva
dimostrato essere un ibrido di madre neanderthaliana e di padre denisoviano, non solo, ma a quanto il DNA ci ha permesso
di capire, a sua volta il padre non doveva essere un denisoviano puro, ma doveva avere una parziale ascendenza
neanderthal.

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Questo ritrovamento, lo si ricorderà, era stato citato da Carlomanno Adinolfi nell’articolo pubblicato su “Il primato
nazionale” (che ha provocato lo stizzito rimbrotto di “Ethnopedia”) come uno dei fatti che contraddicono la “teoria”
dell’Out of Africa. La contraddicono, in che senso?
Non solo per il fatto di aver trovato già 90.000 anni fa tracce di presenza umana non distanti dal circolo polare artico, ma
anche per il fatto che le prove che noi abbiamo di ripetuti incroci fertili fra questi antichi uomini, ci dimostrano che Cro
Magnon, Neanderthal e Denisova non erano tre specie umane distinte, ma tre varietà di una medesima specie, la nostra, che
era dunque presente in Eurasia da un tempo di gran lunga maggiore di quanto l’Out of Africa vorrebbe concedere.
A parte ciò, il 2018 non sembrava un anno che presentasse scoperte di rilievo, soprattutto facendo il confronto con
l’intensissima stagione 2017 che ci ha fatto conoscere l’ominide “El Greco”, le impronte fossili cretesi, la “specie fantasma”
individuata attraverso i DNA africani dai ricercatori dell’università di Buffalo, e altro ancora, un’annata che è stata un
exploit eccezionale.
MAI DIRE MAI. Io non so quando questo articolo sarà pubblicato (c’è sempre un accavallarsi di miei scritti, dove io stesso
ho a volte difficoltà a districarmi), ma al momento siamo sotto natale, ebbene, si può dire che l’anno che va a spirare ci sta
riservando in extremis alcune novità importanti, quasi con una sorta di pentimento dell’avarizia finora mostrata.
Vi ho menzionato la scorsa volta la scoperta che l’esame del DNA dei resti di un giovane siberiano, il ragazzo di Malta,
conservati da tempo al museo di San Pietroburgo ha rivelato un’insospettata componente europide che in pratica ci pone
l’esigenza di riscrivere la storia dell’Asia e anche quella delle migrazioni verso le Americhe (siamo in un orizzonte
temporale di 24.000 anni fa, 60-70.000 anni dopo l’epoca di Denny, e nessuna parentela è ipotizzabile fra i due, ma quando
parliamo di “origini” non dobbiamo considerare solo la storia più remota, bensì tutto quanto si pone prima dell’inizio della
storia documentata). Bene, questa non sembra sia la sola novità importante che questo 2018 prima di congedarsi, ha deciso
di regalarci in extremis.
In effetti, non si tratta di una novità vera e propria, la notizia era già stata riportata dal quotidiano “The Independent” più di
un anno fa, ma solo ora sembra sia riuscita a filtrare la cappa di silenzio che sembra avvolgere anche le novità più rilevanti
in campo archeologico e paleoantropologico (stranamente!) quando mettono in crisi la concezione out-of-africana, e solo
alla fine del 2018 è rimbalzata sul web, e ha acceso le discussioni sui siti internet e i gruppi facebook.
Alcuni archeologi tedeschi, un’equipe guidata dal direttore del Museo di Storia Naturale di Mainz, Herbert Lutz ha ritrovato
nel letto del fiume Reno vicino alla città di Eppelsheim a sud di Francoforte, dei denti fossilizzati ominidi molto simili a
quelli africani del genere Australopithecus di cui fa parte la famosa Lucy, con una differenza però, che gli australopitechi
come Lucy risalgono, i più antichi, a tre milioni e mezzo di anni fa, mentre l’età dei denti tedeschi sembra essere di ben 9,7
milioni di anni.

L’importanza di questa scoperta è evidente: l’Out of Africa si fonda su di un assunto che potremmo ridurre a un sillogismo:
“L’uomo deriva dagli ominidi, gli ominidi erano africani, quindi l’uomo deve essere nato in Africa”. Quanto meno la
seconda parte del sillogismo appare ora estremamente dubbia: già la scoperta dell’ominide balcanico “El Greco” e delle
impronte fossili ritrovate sull’isola di Creta l’aveva notevolmente indebolita, e ora arrivano anche i denti tedeschi.
Ricordiamo che la scoperta di “El Greco” ha a suo tempo provocato le ire di “Ethnopedia”, e che poco dopo la scoperta
delle impronte cretesi risalenti a 5,7 milioni di anni fa, qualcuno ha pensato bene di scalpellarle per cancellare questa
testimonianza “pericolosa” del nostro passato, pericolosa beninteso per l’Out Africa, quindi per la presunzione
dell’inesistenza delle razze umane, e per tutto il sistema di menzogne di cui si alimenta la democrazia.
Un gesto spregevole quanto inutile, perché ormai sappiamo dell’esistenza di ominidi non africani, ormai la frittata è fatta, e
quando la frittata è stata fatta, non si può sperare di rimettere insieme le uova.
Faccio poi notare che le impronte cretesi hanno circa 5,7 milioni di anni, “El Greco” si situa intorno ai 7, il possessore dei
denti ritrovati nel letto del Reno sembra essere vissuto addirittura intorno ai 9,7 milioni di anni fa, abbiamo dunque
un’antichità notevolmente maggiore dei reperti africani.
Io non vorrei adesso tornare se non in estrema sintesi a parlarvi della decisione di non considerare più l’attività svolta dai
gruppi facebook, in proposito mi pare di essere stato sufficientemente chiaro.
Tuttavia va considerato anche il rovescio della medaglia, cioè il fatto che la non utilizzazione del materiale che compare in
questi gruppi, comporterà per me una maggiore difficoltà a procedere con questa serie di articoli. Abbiamo raggiunto la
fatidica quota novanta, ma il raggiungimento del numero cento, e il momento in cui gli articoli di questa serie dovranno
essere numerati con tre cifre, appaiono indubbiamente più lontani.
Nei limiti del possibile, poiché ci tengo ad avere una presenza costante su “Ereticamente”, ho deciso di adottare alcune
contromisure, in particolare di rilanciare la serie di articoli Ex Oriente lux, ma sarà poi vero? Ne avete già avuto un primo
assaggio con la ventiquattresima e la venticinquesima parte, altre sono in attesa di vedere la pubblicazione.
A ogni modo, in contrasto con l’atteggiamento di persone alla cui attività nei gruppi facebook ho dato forse troppo spazio, e
che ci hanno ricambiato con un totale disinteresse nei nostri confronti, i redattori di “Ereticamente” mi hanno fatto
rimarcare l’atteggiamento di un nostro lettore, Daniele Bettini, che non manca quasi mai di chiosare i miei articoli con

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commenti spesso di grande interesse, e che talvolta sono così ampi e approfonditi che potrebbero benissimo figurare come
articoli a sé stanti.
Io devo dire che in particolare ho trovato motivi di riflessione rispetto a un suo commento di grande interesse a un mio
articolo, ma prima di parlarvene, è necessaria una precisazione.
Quando parliamo della tematica delle origini, parliamo di uno spazio temporale enorme, si va dai milioni di anni in cui
compare qualcosa di anatomicamente simile all’essere umano, forse i nostri più antichi precursori, alle migliaia di anni che
precedono appena la storia documentata e scritta, ed è proprio il non tenere conto adeguatamente degli ordini di grandezza
temporali che fa sì che talvolta i “nostri” presentino facilmente il fianco agli attacchi dei sostenitori dell’ideologia ufficiale e
“politicamente corretta” che si fa passare per scienza. Ora, proprio per evitare situazioni di questo genere, è bene precisare
che le considerazioni che seguono riguardano l’estremo più vicino a noi della scala. Una riflessione sui fondamenti della
“cultura” (nel senso più lato) indoeuropea ed europea, sui suoi miti, può riguardare l’estremo più vicino a noi, quello che
precede, ma non di moltissimo, la storia documentata.
Tempo addietro, un bel po’ in realtà, credo un paio di anni fa, un amico mi ha posto una questione importante e delicata:
lasciamo stare il fascismo italiano, che firmando il concordato con la Chiesa cattolica e ponendo il cristianesimo cattolico al
centro del sistema educativo, ha rinunciato ad avere sulla mentalità degli Italiani un’influenza più che superficiale, con le
conseguenze che poi si sono viste, ma persino il nazionalsocialismo non è riuscito a schiodarsi dalla mentalità abramitico-
cristiana-mediorientale. Prova ne sia che appena avvenuto nel 1936 l’Anschluss, l’annessione dell’Austria, Hitler si
preoccupò di mettere sotto controllo la santa Vehme conservata a Vienna, la lancia con la quale secondo la tradizione
Longino avrebbe trafitto il costato di Cristo, e che Heirich Himmler impegnò le risorse della Società Ahnenerbe nella
ricerca del Santo Graal e dell’Arca dell’Alleanza.
Bisogna purtroppo ammetterlo, gli scenari che Steven Spielberg ha tratteggiato nei film di Indiana Jones sono meno
storicamente infondati di quanto penseremmo.
La domanda, ve lo confesso, mi imbarazzò alquanto. Riguardo al Graal, il discorso non è troppo imbarazzante, è un mito nel
quale si sono fuse una tradizione pagana e una cristiana, i calderoni sacri usati dai druidi per la consacrazione dei re celtici
si sono mescolati con il calice dell’eucaristia, e non è difficile ricordare che anche Julius Evola ha dedicato un libro al
Mistero del Graal, ma la lancia di Longino e l’Arca dell’Alleanza cosa cavolo c’entrano con le radici indoeuropee.
Soprattutto l’immagine delle legioni hitleriane che marciano con l’Arca dell’Alleanza alla testa, mi colpì come un pugno
allo stomaco, visto il significato prettamente ebraico di questo simbolo. Tanto sarebbe valso sostituire sulle bandiere del
Reich la croce uncinata con la stella a sei punte!
Risposi al mio conoscente, prima di tutto evidenziando il carattere tutt’altro che esclusivamente cristiano del mito del Graal,
ma poi impostando un discorso più generale sul significato della religione. Il nazionalsocialismo, lo sappiamo, è stato
particolarmente attento ai fenomeni religiosi, e certamente che la scomparsa del cristianesimo lasciasse il posto a un ateismo
generalizzato, non rappresentava davvero un’opzione desiderabile. Le religioni non nascono mai dal nulla, ma come riforma
di qualcosa di preesistente, il cristianesimo dell’ebraismo, il buddismo dell’induismo, l’islam riducendo l’antico pantheon
preislamico alla sola divinità principale (come se in Europa avessimo avuto i testimoni di Giove, per intenderci), eccetera,
eccetera. Non escludiamo che risalendo indietro nel tempo, sia possibile far risalire l’origine di tutte le religioni a un’unica
tradizione primordiale, anche se non possiamo affermarlo con assoluta sicurezza.
I nazionalsocialisti non potevano costruire sul nulla, né resuscitare di colpo l’antico paganesimo germanico tranne che per
una ristretta élite, meglio allora lavorare sullo stesso cristianesimo, cercando di depurarlo al massimo dei suoi aspetti
ebraici.
L’argomento era importante, e mi parve opportuno fare in modo che non rimanesse l’oggetto di uno scambio epistolare
privato, e ne feci un articolo per “Ereticamente”, e qui si inserisce l’interessante chiosa di Bettini.
La lancia – faceva osservare – ha un rilievo importante nella simbologia indoeuropea, si pensi per tutti alla lancia di Odino
presso i popoli germanici, analogamente, il fatto di far precedere o accompagnare le truppe in battaglia da oggetti sacri, è
dal pari un’antica tradizione indoeuropea, di cui forse il carroccio della Lega Lombarda alla battaglia di Legnano è stata
l’ultima espressione. In sostanza la Vehme al pari del Graal e in un certo senso lo stesso discorso si potrebbe fare anche per
l’Arca dell’Alleanza, non sarebbero che il travestimento ebraico-cristiano di antichi simboli e consuetudini indoeuropee.
Per secoli, potremmo dire, l’Europa è rimasta pagana al disotto di una vernice esteriore di cristianizzazione, ma man mano
che questa vernice soffocante ha portato all’estinzione di queste tradizioni ancestrali, è iniziato un processo irresistibile di
secolarizzazione. Forse senza accorgersene i cristiani (e i protestanti non sono stati certo migliori dei cattolici) assieme alle
presunte streghe e ai cosiddetti eretici, hanno bruciato sul rogo anche il loro Dio.
Questo discorso, come potete vedere, si salda molto bene alle considerazioni che seguono.
Poiché sto stendendo questo articolo nel periodo natalizio, anche se con ogni probabilità voi lo leggerete alquanto più tardi,
una riflessione non sarà forse fuori luogo: il natale, o meglio quello che noi ci siamo abituati a chiamare natale, non è una
ricorrenza cristiana. Si tratta infatti della ricorrenza tradizionale del solstizio d’inverno, la festa della luce che segna il
momento il cui il sole, dopo essere giunto al suo punto più basso nell’arco annuale, comincia la sua risalita verso lo zenit.

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Per i Romani il 25 dicembre era il Dies natalis solis invicti, e la tradizione di tutti i popoli ne ha fatto il giorno natale di
svariate divinità o fondatori di religioni, da Osiride a Mitra, a Zoroastro.
Una tradizione che la Chiesa cattolica non riuscendo a estirparla, ha “battezzato” trasformandola nel compleanno del
proprio fondatore, esattamente come Samain, il capodanno celtico è stato trasformato in Ognissanti. In realtà, quando sia
nato Gesù Cristo, questo proprio non lo sappiamo.
Come vi ho raccontato altre volte, io mi sono occupato non poco di cultura celtica, e nel corso di queste mie ricerche mi è
capitato di imbattermi in una tradizione friulana molto antica di probabile origine celtica o forse risalente a epoche ancor più
remote, che però ci da probabilmente la chiave per capire il senso di quello che è uno dei simboli più diffusi di questo
periodo: la convinzione che, con il declinare della luminosità nel semestre che va dal solstizio estivo a quello invernale, la
luce non sparisca, ma si trasferisca negli abeti, certamente motivata dal fatto che le conifere, a differenza di altri alberi, non
ingialliscono e non perdono le foglie.
Capiamo allora il significato dell’albero di natale: gli abeti “si accendono” per restituire al sole la luce che hanno ricevuto,
per aiutarlo nella sua risalita fino al solstizio estivo.
Sono tradizioni di cui noi uomini “moderni” in possesso di una “conoscenza scientifica” dei fenomeni naturali, potremmo
facilmente ridere, ma sbaglieremmo di molto, perché esse perlomeno ci fanno vedere quanto profonde sono le nostre radici
che si perpetuano nei nostri gesti e consuetudini.
NOTA: Nell’illustrazione, il lago Sadeosero nella penisola di Kola, non lontano dalle piramidi “iperboree” di cui ha
recentemente parlato la stampa russa. Può essere stato questo, e non le savane africane, il paesaggio primordiale in cui sono
vissuti i nostri più remoti antenati.

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Una Ahnenerbe casalinga, novantunesima parte – Fabio Calabrese

Come avete potuto vedere, con l’articolo immediatamente precedente a questo, Una Ahnenerbe casalinga ha raggiunto
la quota novanta. Non è impossibile che entro il 2019 o l’anno successivo si debba (o si possa) accedere a una numerazione
a tre cifre. A ogni modo, questa è sicuramente la serie di articoli più ampia e longeva che ho finora pubblicato su
“Ereticamente”, e quindi penso che nessuno di voi si stupirà né avrà motivo di risentirsi se la considero un po’ una vera e
propria rubrica, e quindi anche la mia “finestra di dialogo” con voi lettori, e adesso è forse il caso di dirvi qualcosa dei
retroscena del mio lavoro (quello che oggi si tende a chiamare il backstage, ma io penso che sia meglio evitare gli
anglicismi).
Il problema di questa serie di articoli o rubrica, è sempre stato quello di riuscire a “stare sul pezzo”, non dico in tempo reale,
ma a una distanza di tempo non irragionevole dalle scoperte e dalle notizie. Diciamo che ogni volta occorre prima scrivere
un articolo, poi “Ereticamente” lo deve pubblicare, e occorre tenere presente che sulle nostre pagine elettroniche non
pubblico solo Una Ahnenerbe casalinga, ma materiale di diverso altro genere. Linkare un articolo su di un gruppo facebook
è certamente molto più facile, basta un clic.
Così, mi è capitato sempre più spesso di “rincorrere” le notizie di archeologia e paleoantropologia riportate da questi gruppi.
E fin qui non c’è nulla di male, ma il rischio è di prendere per oro colato commenti di illustri sconosciuti che non si degnano
di riportare nemmeno le fonti come se avessero chissà che autorevolezza.
La cosa peggiore è poi il fatto che questi gruppi che non hanno un “bacino di utenza” di più di qualche centinaio di persone,
non hanno perlopiù mostrato alcuna gratitudine per la “cassa di risonanza” loro offerta.
Io credo di essermi lasciato prendere la mano a questo proposito, e probabilmente la qualità del mio lavoro ne ha risentito.
La redazione di “Ereticamente” me lo ha fatto notare e, una volta resomi conto che avevano ragione, ho preso una decisione
forse drastica ma necessaria: non fare più nessuna pubblicità gratuita e immeritata a nessun gruppo facebook, cosa che ho
fatto, come avrete notato, a partire dall’ottantaseiesima parte.
Tuttavia, a onor del vero, qualche distinguo ritengo sia necessario farlo. “MANvantara” ad esempio, che proprio nel periodo
natalizio del 2018 ha superato i 1600 membri non è forse una realtà poi così trascurabile, e il suo amministratore, Michele
Ruzzai, è anche un collaboratore di “Ereticamente” (certo, non così assiduo come il sottoscritto, ma questo penso si possa
dire di pochi), e per nulla dire della co-amministratrice, Cristina Gatti, i cui post mi hanno sempre colpito per l’intelligenza
e la competenza che dimostrano.
E probabilmente non sarebbe giusto nemmeno non accennare al monumentale lavoro che recentemente Michele Ruzzai ha
portato a termine con la traduzione, mai finora disponibile in italiano in versione integrale del monumentale Der Aufgang
der Menscheit (L’aurora dell’umanità) di Herman Wirth, per la pubblicazione del quale è ora in trattative con un editore.
Quest’opera, lo ricordiamo, è forse l’esposizione più imponente e particolareggiata della teoria delle origini artiche-
iperboree dell’umanità, in contrasto con le teorie “africane” che oggi costituiscono a tale riguardo la dottrina ufficiale, la
vulgatache per un ricercatore è pericoloso mettere in discussione, sebbene, come abbiamo visto, elementi che la
contraddicono, non manchino davvero e si tratti in altre parole di una ortodossia imposta.
Naturalmente vi terrò informati degli ulteriori sviluppi di quest’iniziativa, che certo è ben altra cosa e ben più importante
che linkare articoli su FB.
In ogni caso, non c’è da temere, perché informazioni sulle origini e sulla storia remota dell’umanità sembrano avere la
cattiva abitudine di saltare fuori quando e dove meno ce lo aspetteremmo. Che informazioni in contrasto con la versione
ufficiale della nostra storia remota possano venire dalla televisione pubblica, dalla RAI, o da quella televisione semi-
pubblica che è Mediaset, è probabilmente l’ultima cosa che ci si potrebbe attendere, eppure succede.
Certamente noi sappiamo che Mediaset, pur essendo un’azienda privata, in primo luogo per le sue dimensioni, e poi anche
per il continuo scambio di personale fra le due entità, è di fatto poco distinguibile dalla RAI, può dunque sorprendere che a
volte mandi in onda delle cose piuttosto eterodosse, non meno di quando ciò avviene nell’ambito del servizio pubblico. Di
Roberto Giacobbo e delle trasmissioni che conduce, credo di avervi già espresso la mia opinione altre volte: si tratta di
programmi che perlopiù indulgono a un certo sensazionalismo, e dunque devono essere presi con le dovute cautele, ma che
ciò nonostante presentano a volte spunti interessanti su cui è utile riflettere.
Recentemente, come immagino saprete, Giacobbo ha traslocato dalla RAI a Mediaset dove su Rete 4 attualmente conduce
un programma, “Freedom” che è un po’ una trasmissione-fotocopia di “Voyager” da lui precedentemente condotto in RAI
(Vediamo sempre la pessima abitudine da colonizzati culturali, di ritenere l’inglese più espressivo della lingua italiana, ma
prescindiamo).
Giovedì 10 gennaio, appunto nella nuova “Freedom”, Giacobbo ha presentato un servizio su di un monumento megalitico
molto interessante e poco noto che rientra nel complesso della cultura nuragica sarda, il tempio ipogeo di Mongiorgi,
costruito, o se si preferisce, scavato, su tre livelli sotterranei.
Quella della cultura nuragica sarda, è una delle grandi realtà ignorate della preistoria e della protostoria europee, beninteso,
sostanzialmente ignorate anche da noi Italiani che ce l’abbiamo in casa. Sempre riguardo alla Sardegna e alla davvero fin
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troppo trascurata e sottovalutata cultura nuragica possiamo ricordare la trascurata e oggi molto malridotta piramide di
Monte D’Accoddi (da cui si è addirittura arrivati ad asportare materiali in tempi recenti) e il grande complesso statuario
noto come “i giganti” (composto da statue di dimensioni variabili fra i 2 e i 2,50 metri, raffiguranti lottatori, arcieri,
spadaccini) proveniente dalla necropoli ancora in gran parte non scavata di Mont’e Prama, e sui quali pare essersi steso un
silenzio mediatico, un “muro di gomma” che è qualcosa di impressionante.
Non c’è soltanto il fatto che in Italia c’è un atteggiamento di totale incuria nei confronti del nostro patrimonio storico,
artistico, archeologico nonostante questo sia di fatto il più notevole del mondo (secondo fonti dell’UNESCO, la metà di
tutte le opere d’arte di questo pianeta si trova in Italia), e che ciò costituisca un pessimo presagio per il nostro avvenire,
perché chi dimentica il proprio passato è destinato a non avere un futuro, ma c’è anche dell’altro.
Il fatto è che questi antichi reperti europei, coevi o più antichi delle piramidi egizie e delle ziggurat mesopotamiche danno
fastidio all’archeologia ufficiale, mettono in crisi la vulgata, l’ortodossia ufficiale secondo la quale la civiltà umana sarebbe
nata nella Mezzaluna Fertile mediorientale, e gli elementi che contraddicono quest’ultima sono davvero tanti. Per quanto
riguarda l’Italia, non meno importante di quella nuragica sarda, come non menzionare quanto meno la civiltà etrusca?
Ma se spostiamo la nostra attenzione fuori dai nostri confini, cosa dire della cultura megalitica delle Isole Britanniche e
delle coste atlantiche del nostro continente? I grandi allineamenti di Carnac, Stonehenge, quell’autentico gioiello preistorico
che è la tomba megalitica di Newgrange di quasi un millennio più antica delle piramidi di Giza? Nell’Europa continentale,
poi non si possono passare sotto silenzio né l’antichissimo cerchio megalitico di Gosek in Germania, che precede di
millenni le piramidi, né la splendida Età del Bronzo nordica.
Io ritengo che tutto ciò non sia per nulla casuale: la tesi dell’ex Oriente lux assolve le stesse funzioni dell’Out of Africa su di
un altro piano: il movente non è scientifico ma politico, si tratta di sminuire sistematicamente tutto quanto è europeo per
evitare che gli Europei ritrovino l’orgoglio delle proprie origini, di creare e mantenere le condizioni psicologiche perché
oppongano la minor resistenza possibile alla sostituzione etnica in atto.
Tuttavia, tornando alle trasmissioni televisive, la vera sorpresa è stata pochi giorni prima, lunedì 7 gennaio, quando RAI
scuola ha trasmesso un programma sulla Serra Da Capivara. Si tratta di un vasto parco nazionale del Brasile situato nel
nordest della grande nazione sudamericana nello stato di Piauì, che è stato riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio
mondiale dell’umanità, soprattutto perché è una delle aree che ospitano la maggiore biodiversità al mondo, ma contiene
anche un vastissimo patrimonio archeologico con quasi mille siti di cui oltre 650 presentano pitture o incisioni rupestri
riferite alle fasi più antiche della colonizzazione umana del continente americano.
Un’archeologa facente parte di un team che ha studiato queste pitture e incisioni, ha raccontato nell’intervista televisiva
qualcosa di molto interessante. Poiché alla base della caverna contenente uno di questi siti sono state trovate tracce di pittura
miste a carbone vegetale, è stata possibile una datazione al radiocarbonio, che ha fornito un’età risalente al 18.000 avanti
Cristo, cioè 20.000 anni or sono.
I campioni erano stati inviati a un laboratorio francese specializzato in questo tipo di analisi, e la donna ha raccontato di
essere rimasta sbalordita quando le hanno comunicato i risultati, perché secondo la vulgata corrente le Americhe sarebbero
state colonizzate da popolazioni provenienti dall’Asia attraverso il ponte di terra della Beringia non prima di 12.000 anni fa.
“E’ impossibile”, ha risposto, “Qui non abbiamo nulla di così vecchio”.
“Beh”, le è stato replicato, “Adesso ce lo avete”.
Questo tuttavia è soltanto l’antipasto, la vera sorpresa è arrivata più tardi, quando l’analisi al radiocarbonio di ulteriori
campioni ha rivelato un’età di ben 50.000 anni. Chiaramente, noi abbiamo qui a che fare con una pagina molto antica e
finora del tutto sconosciuta della storia delle Americhe.
Vi cito una curiosità: naturalmente sono andato a fare un controllo su Wikipedia, dove si parla delle scoperte archeologiche
avvenute nella Serra Da Capivara, e si fa l’osservazione assolutamente giusta, che esse invalidano o almeno mettono in crisi
l’ipotesi del popolamento delle Americhe a partire dalla Beringia 12.000 anni fa, ma quest’ultima è indicata dall’estensore
della voce vikipediana come “ipotesi Clovis”. Semmai, questo termine che fa riferimento alla cultura Clovis così
denominata dall’omonimo sito nel Nuovo Messico, andrebbe riferito all’ipotesi di Stanford e Bradley che sulla base delle
somiglianze fra quest’ultima e una cultura litica europea, quella solutreana, hanno ipotizzato che la prima colonizzazione
delle Americhe sarebbe stata opera di cacciatori europei che avrebbero raggiunto le Americhe costeggiando la banchisa
artica esistente tra i due continenti nell’età glaciale.
Beccare in fallo Wikipedia, il grande oracolo dei nostri tempi, è sempre una discreta soddisfazione, ma la vera importanza
di questa scoperta è probabilmente il fatto che essa, sebbene non costituisca propriamente una smentita, viene a indebolire
ulteriormente le già traballanti posizioni della “teoria” out-of-africana.

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Provate a pensarci un momento: l’Out of Africa presuppone un’origine recente della nostra specie, una filogenesi corta, non
solo per non darle il tempo di differenziarsi in razze (si tratta infatti di un costrutto ideologico), ma anche perché c’è il
fastidioso problema delle numerose popolazioni cosiddette pre-sapiens o sapiens arcaiche esistenti fuori dall’Africa attorno
ai centomila anni fa. Si è allora formulata l’ipotesi che l’eruzione del vulcano Toba in Indonesia avvenuta attorno a 50-
70.000 anni fa, sarebbe stata di un’ampiezza tale, avrebbe liberato nell’atmosfera una tale quantità di polveri da provocare
qualcosa di simile a un inverno nucleare che avrebbe portato all’estinzione tutti i gruppi umani esistenti tranne un pugno di
superstiti africani da cui si suppone tutti noi discenderemmo (si tratta per la verità di un’ipotesi stranissima: è possibile che
una catastrofe di questo tipo porti una specie, la nostra, sull’orlo dell’estinzione e non lasci alcun segno visibile sulle altre?).
Bene, adesso immaginatevi: gli esseri umani ridotti quasi a nulla (e tenete presente che stiamo parlando della preistoria) e
subito dopo, che hanno non solo ripopolato il Vecchio Mondo e iniziato a lasciare in giro le testimonianze della loro
presenza sotto forma di pitture e incisioni rupestri, ma che hanno addirittura trovato i mezzi per varcare gli oceani.
Diciamo che questa scoperta non rappresenta una confutazione diretta dell’Out of Africa, ma richiede ai sostenitori di
quest’ultima uno sforzo sempre più notevole di disponibilità a crederla.
Rimane un problema: nel passato più recente, diciamo pure che riciclare il materiale dei gruppi FB mi ha notevolmente
semplificato la vita, ora occorrerà non utilizzare un bel po’ di materiale. Sarà necessario un cambiamento di passo, e non
posso garantire di poter mantenere per questi articoli una cadenza bisettimanale, dipenderà molto dalle cose che si
presenteranno sul web o altrove.
Poiché ci tengo a essere presente con costanza su “Ereticamente” anche relativamente a queste tematiche, ho cercato di
prendere delle opportune contromisure. Per prima cosa, riportare in vita la serie di articoli Ex Oriente lux, ma sarà poi
vero? Un nuovo articolo di questa serie, il ventiquattresimo, a due anni di distanza dell’ultimo che l’aveva preceduto,
l’avete già potuto leggere nel 2018, e un altro, il venticinquesimo, è seguito a gennaio 2019. Un altro paio almeno sono in
cantiere.
C’è poi un pezzo che per me rappresenta una tematica abbastanza inedita, un articolo di soggetto mitologico, dedicato alla
figura dello psicopompo, cioè quella o quelle divinità che in molte mitologie accompagnavano le anime dei defunti nel loro
viaggio ultraterreno, un articolo che ha un’origine curiosa, nasce da una ricerca scolastica che feci per mia figlia
Alessandra, e che poi è rimasta a vegetare per molti anni nel mio hard disk, un esperimento, vedremo se dargli seguito.
Ci sono ancora sempre da pubblicare i testi di due conferenze, quella da me tenuta la scorsa estate al Triskell, il festival
celtico triestino, e quella che purtroppo, per circostanze che vi ho raccontato, non sono riuscito a tenere alla Casa del
Combattente. La prima ha avuto per oggetto il fenomeno megalitico nell’Europa continentale, e ci sarebbe davvero da
meravigliarsi, se non sapessimo che si tratta di una scelta politicapregiudiziale, del fatto che gli archeologi ignorino una tale
massa di testimonianze per venire a raccontarci le solite favole mediorientali.
La seconda intende invece rispondere a una domanda fondamentale: noi Italiani siamo, anche qui come vuole l’ortodossia
ufficiale, la vulgata, un’accolita di genti disparate, unite solo dalla collocazione geografica e, al massimo, da un lieve
collante culturale, o siamo invece un autentico popolo congiunto da legami di sangue? A ogni modo, come potete vedere, la
tematica delle origini, della nostra eredità ancestrale, è ben lontana dall’essere esaurita.
Io ritengo che essa rappresenti una questione assolutamente centrale nella nostra visione del mondo: sapere da dove
veniamo per capire chi veramente siamo, e lottare perché il nostro passato e il nostro presente abbiano un avvenire.
NOTA: Nell’illustrazione, una delle antichissime pitture rupestri che si trovano nel parco nazionale brasiliano di Serra da
Capivara.

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Una Ahnenerbe casalinga, novantaduesima parte

Io vorrei riprendere il nostro discorso da dove l’avevamo lasciato


la volta precedente, parlando delle pitture e incisioni rupestri che
si trovano nel parco nazionale brasiliano di Serra da Capivara.
Alcune di esse sembrerebbero risalire addirittura a 50.000 anni fa
e, in assenza del ritrovamento di fossili umani di età
corrispondente, non possiamo avere nessuna idea di chi possa
averle tracciate.
Riguardo alla preistoria delle Americhe, una cosa possiamo dire
con sicurezza, che l’idea che questo doppio continente prima
dell’arrivo degli Europei (e sappiamo che Colombo è stato
preceduto quanto meno dai Vichinghi) sia stato popolato
unicamente dai discendenti di un’unica migrazione avvenuta
dall’Asia settentrionale attraverso lo stretto di Bering o il ponte di
terra della Beringia tra 15 e 12.000 anni fa, si è rivelata alla prova dei fatti del tutto falsa e insostenibile.
Le migrazioni che raggiunsero le Americhe prima di Colombo e dei Vichinghi, quelle di cui vi è certezza documentata,
furono almeno quattro. La prima, la più antica nota, è quella dei cosiddetti paleo-amerindi, che dopo essersi insediati nel
continente, furono costretti a spostarsi sempre più a sud dai nuovi arrivati fino a ritrovarsi soltanto nell’estremità
meridionale di esso, la Terra del Fuoco, i Fuegini, e i soli “amerindi” che sembrano imparentati con loro, sono i Pericu della
Bassa California. La penisola californiana, lunga e stretta, avrebbe agito come un cul de sac impedendo ulteriori
arretramenti verso sud. E’ interessante il fatto che recenti scoperte archeologiche avrebbero portato alla luce i resti di
insediamenti paleo-amerindi risalenti a poche migliaia di anni fa anche in Florida, Quest’ultima penisola sull’Atlantico
avrebbe “intrappolato” alcune di queste tribù esattamente come la California sul Pacifico.
La seconda è stata quella degli Amerindi veri e propri, da cui discenderebbe il grosso della popolazione che ha abitato le
Americhe fino all’arrivo dell’uomo bianco. Anche a questo riguardo non mancano i dubbi e le contestazioni, in particolare
sul fatto che non si sarebbe trattato di popolazioni mongoliche “pure” ma con una discreta componente europide. Gioca in
questo senso il ritrovamento dello scheletro dell’uomo di Kennewick, risalente a 11.000 anni fa, che ha rivelato tratti
europidi o europidi-ainu-polinesiani, a ciò si aggiunge che l’analisi dei resti di un giovane siberiano di epoca preistorica, il
ragazzo di Mal’ta ha rivelato una stretta affinità con le popolazioni che oggi abitano l’Europa occidentale, e pare dovesse
avere occhi e capelli castani. Questo fa supporre che le popolazioni della Siberia di 15-12.000 anni fa da cui sarebbero
provenuti gli Amerindi avessero una discreta componente “bianca”, e difatti gli studi genetici compiuti sui nativi americani
hanno dimostrato che circa un terzo del loro DNA è riferibile al tipo “Eurasiatico settentrionale”, che costituisce il genoma
della stragrande maggioranza degli Europei.
Una terza migrazione sarebbe avvenuta circa 8.000 anni fa e avrebbe portato nelle Americhe le popolazioni e le lingue Na-
Dene, che comprendono varie popolazioni del nord dell’America settentrionale, quali gli Athabaska e i Tlingit, e, spintisi
più a meridione in mezzo agli Amerindi, i Navajo.
Teniamo sempre presente che per quanto riguarda i tempi preistorici e antichi, affinità di lingua significa affinità etnica: le
società multietniche e multirazziali sono una disgraziata “invenzione” moderna. Le lingue (e le popolazioni) Na-Dene
rientrano nel gruppo Dene-Caucasico che comprenderebbe alcune lingue del Caucaso orientale, della Siberia e il Basco.
Alcuni linguisti poi fanno rientrare questo gruppo nella superfamiglia sino-dene-caucasica, assieme alle lingue sino-
tibetane.
La quarta migrazione, avvenuta attorno al primo millennio avanti Cristo, è quella degli Esquimesi o Inuit.
Non ci fermiamo qui, perché ulteriori scoperte hanno complicato ancor più questo quadro: non si può non menzionare
l’ipotesi avanzata dai due archeologi Stanford e Bradley secondo la quale la notevole componente “bianca” presente nel
genoma degli Amerindi si spiegherebbe in base a una migrazione che avrebbe raggiunto le Americhe dall’Europa in epoca
preistorica a opera di cacciatori di foche e balene che avrebbero raggiunto l’America costeggiando la banchisa artica che
allora esisteva fra i due continenti. Costoro appoggiano la loro tesi sul fatto che la più antica industria litica americana,
quella di Clovis, mentre non presenta somiglianze con quelle della Siberia, è molto simile a un’industria europea, quella
solutreana. Inoltre, la maggior parte dei siti Clovis si trova sulla costa atlantica, soprattutto attorno alla Chesapeake Bay, il
che suggerisce una provenienza da est.
Per completare il quadro, occorre segnalare la presenza di diverse popolazioni amerindie “inesplicabilmente” bianche, gli
estinti Mandan nell’America settentrionale, in quella meridionale gli Aracani (che guarda caso, abitano la regione di
Tihuanako, la “Stonehenge del Sud America”) e i Kilmes di cui ha parlato Gianfranco Drioli nel suo Iperborea, la ricerca
senza fine della patria perduta.
Come se non bastasse, recenti studi sul DNA delle popolazioni amazzoniche hanno permesso di rilevare in alcune tribù
della regione un’affinità con le popolazioni australoidi, e quindi di ipotizzare una “migrazione fantasma” che non ha lasciato
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altre tracce se non nel DNA, proveniente dall’Oceania, e che dopo le quattro “ufficiali” e quella “solutreana” ipotizzata da
Stanford e Bradley, sarebbe la sesta.
Un’ipotesi che invece pare si debba proprio abbandonare, è quella della presenza di un elemento “africano” nell’America
precolombiana. Quest’ultima era stata suggerita dal fatto che in particolare le statue, le grandi teste di pietra della cultura
olmeca, presenterebbero lineamenti “negroidi” con le labbra tumide e le narici molto larghe, ma un attento esame ha
permesso di verificare che le stesse caratteristiche si ritrovano presso molti indios. Non c’è alcuna traccia di neri nelle
Americhe prima che vi fossero importati come schiavi.
Quello che appare assolutamente verosimile, è che la presenza umana nelle Americhe sia molto più antica di quanto
ufficialmente ammesso. Anche Wikipedia menziona il ritrovamento di un’impronta umana fossile in Messico, che
risalirebbe a 40.000 anni fa (voce “Amerindi”).
Chi erano dunque coloro che hanno tracciato le pitture e i graffiti rupestri della Serra Da Capivara? Che si trattasse di paleo-
amerindi antenati degli odierni fuegini, è forse l’ipotesi meno improbabile, ma potrebbe essersi trattato anche di una
popolazione precedente di cui non abbiamo altre tracce. Non lo sappiamo, e potremmo non avere mai la risposta. La storia
remota delle Americhe ha molte pagine strappate, e la colpa non è soltanto dei conquistadores spagnoli che hanno distrutto
le culture azteca, maya e inca e bruciato migliaia di libri, ma anche degli yankee che assieme a molte tribù “pellirosse”
hanno annientato anche i loro miti e tradizioni che avrebbero potuto fornirci importanti indizi.
Vorrei ricordare che nel 2012 ho pubblicato su queste tematiche un articolo, La storia perduta delle Americhe sul n. 7,
gennaio-febbraio 2012 della rivista “La runa bianca”.
Quando noi parliamo di scienza, dobbiamo sempre capire se ci riferiamo alla scienza autentica, quella che si basa
sull’indagine dei fatti, a partire dai quali si costruiscono le teorie che li spiegano, o se invece parliamo di quella congerie di
falsificazioni che è la “scienza” democratica, quest’ultima è fondata su una serie di dogmi che alla realtà non è permesso di
trasgredire, né tanto meno ai ricercatori è consentito dire come stiano realmente le cose: dall’irrilevanza dei fattori genetici
nel determinare ciò che sono gli esseri umani, e che si vorrebbe fossero unicamente il prodotto dell’ambiente,
dell’apprendimento, dei fattori sociali (secondo la stantia e falsissima vulgata marxista), all’inesistenza delle razze, alla
diffusione media dell’intelligenza uguale in tutti i gruppi umani, eccetera, me. Chi osa contraddire questi dogmi
palesemente falsi, è un reprobo, un eretico che si espone alle peggiori sanzioni.
Questo atteggiamento inquisitorio e sanzionatorio contro “i reprobi” che osano usare il cervello invece di ripetere a
pappagallo e fingere di dare una validazione scientifica ai dogmi imposti della democrazia, si è inasprito negli ultimi anni in
cui si è accelerata la corsa verso il totale appiattimento nel “pensiero unico”. Ne abbiamo parlato altre volte. Una vittima
illustre, fortunatamente per lui postuma, di questo infame trattamento, è stato il grande Konrad Lorenz cui l’università di
Salisburgo ha cancellato la laurea honoris causa a suo tempo conferitagli.
Un’altra illustre vittima dell’inquisizione democratica (oltre a chissà quante vittime meno illustri, s’intende!) è James
Watson. Watson è stato assieme a Francis Crick lo scopritore della molecola a doppia elica del DNA, una scoperta che
fruttò loro il premio nobel (assolutamente meritato, a differenza di quelli conferiti a Barack Obama, Dario Fo, Bob Dylan),
basta che pensiate all’importanza che la scoperta del DNA sta rivelano non solo per quanto riguarda la ricostruzione della
storia dei nostri antenati, ma in moltissimi campi, dalla criminologia alla medicina.
Bene, secondo quanto hanno ultimamente riferito due diverse fonti, techeveryeye.it e galileonet.it, James Watson che già
nel 2007 era stato rimosso dalla direzione del Cold Spring Harbour Laboratory, sta ora per perdere tutte le benemerenze
acquisite in 40 anni di carriera scientifica. La sua colpa? Aver citato un fatto ben noto, largamente provato ma
“politicamente scorretto”, cioè di aver detto la verità che spiace alla democrazia, che i neri sono geneticamente meno
intelligenti dei bianchi.
Lo stato attuale della paleoantropologia ricorda da vicino quello dell’astronomia nel XVI e XVII secolo, dove i ricercatori
dichiaravano (erano costretti a dichiarare) la loro adesione al sistema tolemaico, e portavano di continuo elementi che lo
smentivano più o meno esplicitamente. Il “sistema tolemaico” della moderna paleoantropologia, il dogma che è proibito
mettere in discussione anche se fa acqua da tutte le parti, è ovviamente l’Out of Africa, la “teoria” dell’origine africana della
nostra specie. Questo vale anche e soprattutto per quel santuario dell’ortodossia “scientifica” che è “Le Scienze”. Nel
numero di gennaio 2019 ha pubblicato un articolo, Lo sviluppo infantile delle forme arcaiche di Homo, dedicato a uno di
quei fossili cinesi il cui studio promette oggi di rivoluzionare la paleoantropologia. Si tratta in questo caso dei resti di un
individuo giovanile che è stato battezzato “il ragazzo di Xujiayao”. La sua collocazione tassonomica è per ora incerta,
perché sembra presentare un miscuglio di caratteristiche sapiens, neanderthaliane e denisoviane, e altrettanto incerta è la sua
collocazione temporale che si porrebbe in un range che va da 104.000 a 248.000 anni fa (ma se fosse confermata la
valutazione più alta, ne farebbe uno più antichi fossili umani mai scoperti).
Ora, visibilmente, il ritrovamento di un fossile così antico nel cuore dell’Eurasia è ben difficilmente compatibile con
la presunta origine africana della nostra specie, non solo, ma la presenza di un mix di caratteristiche sapiens (Cro Magnon),
neanderthaliane e denisoviane, dimostra una volta di più che questi antichi uomini non appartenevano a tre specie diverse
ma a tre varietà della stessa specie, la nostra, infatti, l’appartenenza a una medesima specie è definita proprio dalla
possibilità di accoppiarsi e generare non ibridi sterili (come nel caso di asini e cavalli) ma una discendenza fertile, una
271
specie dunque presente in Eurasia in tempi incompatibili con la presunta origine africana, e questo vale sia nel caso in cui
questo ragazzo fosse il prodotto di un meticciato, sia – ipotesi forse più probabile – che appartenesse alla popolazione
ancestrale precedente alla tripartizione Cro Magnon, Neanderthal, Denisova.
Tuttavia l’importanza di questo ritrovamento non consiste tanto in questo, quanto nel fatto che trattandosi di un esemplare
giovane, ha permesso un’analisi dei ritmi di crescita attraverso le stratificazioni dello smalto dentario, e la conclusione è che
questi ultimi erano assolutamente paragonabili a quelli degli esseri umani attuali. Vi è chiaro quello che significa? La
crescita lenta, la longevità, la lunga infanzia, il lungo periodo di sviluppo delle facoltà intellettive, il lungo apprendistato,
sono una delle frontiere più certe non solo fra uomini e scimmie, ma fra gli esseri umani e tutto il resto del mondo animale,
si tratta dunque di un dato che sancisce la piena umanità di questo nostro remoto predecessore.
Mentre James Watson sta passando le sue rogne per aver detto una verità nota e largamente provata ma invisa alla tirannide
che conosciamo sotto il nome di democrazia, ciò a cui ha dato origine assieme a Francis Crick, l’analisi del DNA conosce
nuovi perfezionamenti. Un articolo di “Nature Communications” del 16 gennaio 2019 a firma di Mayukh Mondal, Jaume
Bertranpetit e Oscar Lao ci parla di una nuova tecnica di analisi del DNA che è stata chiamata apprendimento profondo.
Applicata alle popolazioni umane, essa ha permesso di rilevare nelle popolazioni dell’Asia meridionale e dell’Oceania la
traccia genetica di un quarto antenato dell’umanità attuale, oltre a Cro Magnon, Neanderthal e Denisova (un quinto se
contiamo la “specie fantasma” individuata dai biologi dell’università di Buffalo nel genoma dei neri subsahariani, ma forse
quest’ultima era semplicemente il “vecchio” Homo Erectus rimasto immutato al disotto del Sahara fino a poche decine di
migliaia di anni fa).
In realtà la notizia non sorprende, se ricordate, ve ne avevo parlato a suo tempo: anni fa, i ricercatori dell’IBE (Istituto di
Biologia Evolutiva) di Barcellona, avevano già individuato la traccia genetica del “quinto antenato” nel genoma dei nativi
delle isole Andamane. Quello che invece sorprende è qualcos’altro, la terminologia. Le battaglie ideologiche si combattono
anche e soprattutto con le parole, con la manipolazione del linguaggio: le presenze di DNA antico nel patrimonio genetico
delle popolazioni moderne sono definite con un brutto termine: introgressioni, quasi si trattasse di intrusioni più meno
infettive. Il sospetto è che ci si voglia dar a intendere che si tratti di una sorta di deviazioni marginali o presenze abusive
rispetto alla linea principale sapiens-gromagnoide di origine, ça va sans dire, africana.
Il sospetto è che si stia cercando di prendere in giro il pubblico. Gli esseri umani non sono batteri, sono vertebrati superiori,
e l’unico modo in cui possono avvenire uno scambio o “un’intrusione” di materiale genetico, è attraverso un rapporto
sessuale che produce una discendenza, una discendenza evidentemente feconda se l’impronta genetica di questi uomini
arcaici è giunta fino a noi, il che significa che non si è mai sorpassato l’ambito dell’appartenenza alla stessa specie, una
specie più sfaccettata e con una storia più complessa di quanto racconti la semplicistica favola dell’Out of Africa.
Un’altra notizia di questo gennaio 2019 che appare singolarmente intenso, questa volta a riferirlo è “Archaeology
Magazine”: Due ricercatori dell’università di Witwatersrand (Sud Africa), Amélie Beaudet e Ronald Clarke hanno
scansionato il cranio dell’australopiteco fossile di sesso femminile risalente a 3,67 milioni di anni fa noto come “Little
Foot”, “Piedino” e, a partire dalla scansione, costruito un modello tridimensionale del cranio stesso con una particolare
attenzione alla struttura dell’orecchio interno. Poiché esso è coinvolto nell’equilibrio e nella deambulazione, ci può dare una
risposta alla domanda su come camminasse questa creatura che appartiene alla stessa specie della famosa Lucy.
Bene, la risposta è che l’orecchio interno di questa creatura è differente da quello degli esseri umani, e simile a quello di uno
scimpanzé, il che rende facile arguire che non camminasse eretta ma allo stesso modo di questi ultimi.
La stazione eretta, o la supposizione di essa, è uno degli elementi, e verosimilmente il più importante, su cui si basa la
distinzione fra scimmie e ominidi, e ha permesso di diagnosticare in questi ultimi i precursori dell’umanità. Ora questo
discorso viene a cadere almeno per quanto riguarda gli australopitechi africani.
Un risultato che è perfettamente coerente con quanto rilevato nel 2017 quando un team di anatomisti britannici guidato da
sir Solly Zuckerman, probabilmente il maggior esperto mondiale di anatomia comparata, ha “passato al setaccio” le ossa di
Lucy concludendo che si trattava di una scimmia che non ha nulla a che fare con la genealogia umana. E’ l’ultimo pilastro
dell’Out of Africa che crolla, e se la questione fosse soltanto in termini scientifici e non politici, certamente non sentiremmo
più parlare di questa sciagurata “teoria”, ma ovviamente non dobbiamo aspettarci che le cose vadano in questo modo,
perché essa fa troppo comodo al potere mondialista interessato a negare l’esistenza delle razze umane per imporre dovunque
il meticciato, a costruire sotto l’apparenza della democrazia la più ferrea delle tirannidi, e a cui della realtà dei fatti,
ovviamente non importa nulla.
Ma finché potremo, noi saremo qui a ributtare in faccia a democratici e antirazzisti le loro menzogne.

Nota: Nell’illustrazione: ricostruzione della sepoltura di un bambino ritenuto un ibrido di Cro Magnon e Neanderthal i cui
resti sono stati rinvenuti in Portogallo. Probabilmente il fossile noto come il ragazzo di Xujiayao presentava caratteristiche
molto simili.

272
Una Ahnenerbe casalinga, novantatreesima parte

In un arco ormai di anni sto portando avanti questa serie di articoli, che di fatto è una rubrica sulle pagine di “Ereticamente”,
e ormai anche il centesimo numero, la tripla cifra non appare un obiettivo troppo distante, e tuttavia sono il primo a non
cessare di stupirmene, è mai possibile che su un terreno scientifico specialistico come è quello della tematica delle origini,
le novità, le scoperte si susseguano come nella politica, nelle cronache sportive, nella moda, nel gossip?
In parte, il mistero si spiega proprio per il fatto che la tematica delle origini è investita da una mistificazione ideologica che
ha delle precise finalità politiche, poiché l’idea su da dove veniamo è una parte fondamentale dell’idea su chi siamo, ecco le
menzogne “scientifiche” del sistema che pongono l’origine dell’umanità in Africa, che ci raccontano che i nostri antenati
indoeuropei erano agricoltori provenienti dal Medio Oriente, che sempre in Medio Oriente è nata la civiltà che solo
lentamente avrebbe “contagiato” l’Europa, che gli Italiani sarebbero accomunati dal fatto di essere nati nella Penisola e da
un lieve collante culturale, ma da nessuna affinità genetica ed etnica, tutte menzogne che hanno il preciso scopo di
nascondere il danno rappresentato dall’immigrazione per i popoli che la subiscono, per nascondere che il futuro che ci
hanno riservato è la morte per sostituzione etnica.
Lo spirito è dunque quello di una battaglia politica. Io sono più che certo che persone come me o Michele Ruzzai, non
troveranno mai spazio ad esempio su “Le Scienze”, ma non è questo che ci farà desistere.
Cominciamo con quella che a mio parere è una vera chicca: recentemente il sito in lingua inglese “Genetic Literacy Project”
(geneticliteracyproject.org) ha riproposto un articolo di David Reich apparso sul “New York Times” in data 28 marzo 2018
dal titolo (ve lo traduco in italiano) “Razza” potrà anche essere un costrutto sociale, ma negare le differenze fra i gruppi
umani è indifendibile. E’ bene precisare subito che David Reich è docente di genetica all’università di Harvard, e
considerato uno dei più eminenti genetisti oggi attivi negli Stati Uniti, e che il “New York Times” non è certamente né un
giornaletto di provincia né una pubblicazione dell’estrema destra. Il contenuto dell’articolo è parecchio dirompente,
vediamone uno stralcio:
“Con l’aiuto dei progressi nel sequenziamento del DNA, stiamo imparando che, mentre la razza può essere definita da
alcuni un costrutto sociale, le differenze nell’ascendenza genetica che sono correlate a molti dei costrutti razziali di oggi
sono reali.
Sono preoccupato che le persone ben intenzionate che negano la possibilità di sostanziali differenze biologiche tra le
popolazioni umane si stiano scavando una posizione indifendibile, che non sopravviverà all’assalto della scienza…
Dovremmo prepararci alla probabilità che nei prossimi anni gli studi genetici mostrino che molti tratti sono influenzati da
variazioni genetiche e che questi tratti differiscono in media tra le popolazioni umane Sarà impossibile – anzi, anti-
scientifico, sciocco e assurdo – negare queste differenze.”
E’ chiaro cosa significa ciò? In altre parole: per il sistema di psicopolizia orwelliano che domina la cosiddetta democrazia la
parola “razza” deve continuare a rimanere tabù, ma la genetica sta confermando le differenze (biologiche, non culturali) fra
i gruppi umani teorizzate dal pensiero “razzista” (cioè basato sulla realtà piuttosto che sulle buone intenzioni) quale era
diffuso fino al 1945, e negare queste differenze è indifendibile. C’è da temere che dopo queste oneste ammissioni, David
Reich rischi di trovarsi nella stessa scomoda posizione di James Watson e di molti altri che hanno preferito dire la verità
piuttosto che accodarsi alle menzogne democratiche.

Da alcuni anni, la Cina e l’Asia orientale si stanno rivelando una miniera di informazioni molto preziose per quanto riguarda
la preistoria, andando dai dinosauri fino al rinvenimento di fossili umani. Un articolo recentemente apparso su “Nature
Communications” ci da una notizia davvero sorprendente. Una calotta cranica rinvenuta in Mongolia nella valle di Salkhit,
ha messo a lungo in imbarazzo i ricercatori per il suo avere un aspetto francamente moderno, e contemporaneamente una
notevole antichità. Provvisoriamente, il fossile è stato denominato Mongolanthropus. Ora, abbiamo avuto quasi in
contemporanea un’analisi al radiocarbonio condotta presso l’università di Oxford e un’analisi del DNA presso l’Istituto
Max Planck di Lipsia, quest’ultima affidata al team di Svante Paabo, il fondatore della paleogenetica. I risultati sono
piuttosto sorprendenti. Il radiocarbonio ha rivelato che il cosiddetto Mongolanthropus ha un’età compresa tra i 34 e i 35.000
273
anni, mentre l’analisi del DNA ha dimostrato che si tratta di un homo sapiens di tipo anatomicamente moderno a tutti gli
effetti.
Tuttavia “Nature Communications” ricorda che sebbene il fossile di Salkhit sia il più antico homo sapiens ritrovato in
Mongolia, la sua antichità è largamente superata da fossili cinesi che si situano attorno ai centomila anni or sono. E’ chiaro
che queste scoperte mettono l’Out of Africa in difficoltà sempre crescenti, e tendono a indicare l’Eurasia e non l’Africa
come luogo di origine della nostra specie. Giusto la volta scorsa vi ho parlato di un fossile umano rinvenuto in Cina quello
del “ragazzo di Xujiayao”, che assieme a caratteristiche primitive ne mostra altre prettamente sapiens, e a cui l’analisi al
radiocarbonio attribuisce una datazione oscillante tra 104.000 e 248.000 anni. E’ chiaro che, soprattutto se fosse confermata
la valutazione più alta, per l’Out of Africa non ci sarebbe proprio partita, o perlomeno non ve ne sarebbe se questa “teoria”
mille volte smentita dai fatti non fosse in ogni caso sostenuta a spada tratta dalle vestali dell’antirazzismo.
A metà febbraio una notizia ha seminato lo sconcerto nel web: la televisione svedese ha mandato in onda un documentario
sui “primi svedesi” dove questi antichi scandinavi sono rappresentati con la pelle scura praticamente subsahariana. Non è
difficile ricordare che anche la ricostruzione dell’uomo di Cheddar, il “primo inglese” fu sottoposta ad un analogo
“scurimento” politicamente corretto, e che ancora prima i censori, le vestali della bugiarda ortodossia democratica avevano
protestato perché la ricostruzione del volto della regina egizia Nefertiti era “troppo bianca”.
Naturalmente, sono idee che non trovano nessun appoggio “scientifico” se non il dogma di una recente origine africana
della nostra specie, e sono dettate unicamente dal desiderio di blandire gli invasori melanodermi. Qualche tempo fa, ho
ricordato uno studio del genetista Ibtesam Reatz, forse il maggior esperto mondiale di pigmentazione umana, secondo il
quale gli Europei del remoto passato non sarebbero stati più scuri di quelli di oggi.
Noi abbiamo visto che sempre più spesso nelle fiction hollywoodiane, cinematografiche o televisive, il ruolo di personaggi
storici o leggendari della storia europea viene affidato ad attori di colore. Adesso che questa tendenza compare anche nei
documentari e nelle ricostruzioni storiche si è fatto ancora un passo in avanti in questa nefasta direzione.
Noi siamo persone con una visione del mondo strutturata e non certo digiune di come vanno le cose, ma c’è in giro
tantissima gente ingenua ed epidermica, priva di conoscenze storiche più che rudimentali, soprattutto fra i più giovani che
oggi la scuola disinforma e diseduca, e nell’essere umano è fortissima la tendenza a ritenere vero per definizione ciò che “si
vede”. Tutto ciò ha lo scopo di persuadere la gente dell’idea assolutamente falsa che società multietniche e multirazziali
come quella degli Stati Uniti e quelle che si stanno sforzando di creare oggi in Europa, siano qualcosa di normale e naturale,
invece che il massimo dell’innaturalità, dell’artificiosità, sicura causa di decadenza.
Le razze non esistono, vero? Non fanno che ripetercelo, sono solo dei costrutti sociali e culturali. Non fanno che ripetercelo
in tutte le occasioni e in tutte le salse possibili. Ci dovrebbero spiegare allora come mai queste inesistenze abbiano ricadute
così importanti sulla salute delle persone.
Ci racconta il caso che ha portato alla luce in maniera lampante questa verità “scomoda”, Valerio Benedetti in un articolo su
“Il primato nazionale” del 28 febbraio, ed è clamoroso: una donna africana si è rivolta alle autorità perché suo figlio soffre
di una grave malattia del sangue e necessita di un trapianto di cellule staminali, ma quelle degli Europei non sono adatte.
Scopriamo una verità della quale le equipe ospedaliere dovevano già essere a conoscenza, ma di cui si sono ben guardati
dall’informarci: le cellule staminali ma anche il sangue trasfuso degli Europei in pazienti africani provoca imponenti
problemi di rigetto che possono causare la morte del paziente, anche quando i gruppi sanguigni e i fattori Rh coincidono, è
proprio una barriera biologica che non si sa proprio in quale altro modo si potrebbe definire se non razziale.
Apprendiamo anche che per ovviare a questo problema la Croce Rossa tedesca ha avviato un progetto finanziato con fondi
UE e denominato BluStar.NRW che tra l’altro si propone di sensibilizzare gli immigrati africani e arabi a donare sangue per
i propri connazionali. Tutto questo finora, però, è stato coperto da segreto nemmeno si trattasse di una questione militare, e
allora diciamolo chiaro: per la democrazia. Salvaguardare il dogma dell’inesistenza delle razze umane, occultare le prove
che lo smentiscono, si è dimostrato più importante della salute e della vita delle persone.
E’ abbastanza ovvio che su queste pagine io mi astenga, come ho fatto finora, dal commentare articoli di altri autori apparsi
su “Ereticamente”: se dovessi esprimere dei giudizi che possono suonare come delle critiche a qualche altro collaboratore
della nostra testata, non sarebbe una cosa simpatica, viceversa esprimersi in termini elogiativi potrebbe suonare come una
sorta di auto-incensamento da parte della nostra pubblicazione. D’altra parte, mi sembra che finora tra i collaboratori si sia
sempre tenuta una linea di reciproca non interferenza, ed è bene che sia così, perché la nostra pubblicazione non ha – mi
pare – alcuna linea dogmatica da sostenere (in caso contrario, che eretici saremmo?), quanto piuttosto un insieme di
sensibilità anche differenti, tra le quali deve valere la regola del reciproco rispetto.
Questa volta però sarà il caso di fare un’eccezione per motivi che vi saranno subito chiari. Naturalmente, anche per quanto
riguarda la tematica delle origini, non pretendo di avere l’esclusiva sulle pagine di “Ereticamente”, anche perché essa in vari
modi e a vari livelli, interseca continuamente la nostra visione del mondo per la quale è essenziale il radicamento
nell’identità etnica e storica.
L’articolo recentemente apparso su “Ereticamente” che mi pare stavolta non si possa proprio non menzionare nel quadro
della nostra ricerca sulle origini, è Arvo e l’origine delle specie secondo l’esoterismo – una rilettura, di Michele Ruzzai
apparso sulla nostra pubblicazione il 23 febbraio.
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Si tratta appunto di una rilettura, o se vogliamo una recensione ampia e documentata dello scritto L’origine delle specie
secondo l’esoterismo, di “Arvo”, pubblicato alla metà degli anni ’20 dal Gruppo di Ur. Come è noto, gli appartenenti a
questo gruppo pubblicavano sotto pseudonimo. E’ probabile che “Arvo” fosse il nobile Giovanni Antonio Colonna di
Cesarò.
La cosa sorprendente, è che questa concezione esoterica non si discosta molto, a conti fatti, dalla metodologia scientifica, e
“Arvo” ricalca sostanzialmente le tesi avanzate dall’anatomista tedesco Edgar Dacqué fra le due guerre mondiali.
Che le specie viventi mutino nel tempo, questo è facilmente dimostrato dal fatto che noi oggi non vediamo trilobiti e
dinosauri se non sotto forma di fossili. Quel che bisogna vedere, è se l’interpretazione evoluzionista è o meno l’unica
possibile di questo fatto. Dacqué faceva notare, e così “Arvo” sulla sua scia, che la selezione naturale non produce
l’evoluzione, ma l’adattamento, che è una perdita di plasticità. Ad esempio, la zampa del cavallo, ridotta a un solo dito, è
l’ideale per correre, ma non ridiventerà mai un arto in grado di afferrare qualcosa.
L’essere umano è fra tutti gli animali, quello che ha conservato la maggiore plasticità, non è dunque il frutto tardivo di un
processo evoluzionistico, ma quello che ha mantenuto la maggiore vicinanza a una forma ancestrale a tutte le specie viventi
che Dacqué chiama Urmensch.
A ciò andrebbe aggiunta l’osservazione di Julius Evola che la comparsa nella documentazione fossile di forme man mano
più complesse può non essere vista come la prova di un processo evoluzionistico, ma come la progressiva caduta sul piano
materiale di queste entità, e dunque non testimonierebbe un’evoluzione ma una decadenza cosmica.
Sono concetti un po’ difficili, vero? Ma vale la pena di fare uno sforzo, altrimenti l’alternativa è ricadere nel creazionismo
abramitico e magari fare come certi giovincelli, ne abbiamo conosciuti diversi, che la sera sono andati a letto evoliani
(magari non avevano letto altro che Orientamenti) e si sono svegliati la mattina cattolici.
Conoscete la storia di quel tale che essendogli stato chiesto di risarcire un attrezzo che gli era stato prestato e che aveva
riconsegnato rotto, si giustificò dicendo che non gli era stato dato nessun attrezzo, che quando gliel’avevano dato era già
rotto, e l’aveva riconsegnato perfettamente integro. Sulle tematiche delle origini, la sinistra si comporta proprio come quel
tale: da un lato assume che i fattori etnici e genetici non abbiano alcuna importanza nel determinare ciò che noi siamo, e che
tutto dipenda da fattori ambientali, sociali e culturali, dall’altro però si preoccupa di inventare favole, di compiere opera di
disinformazione su ogni livello della questione delle origini, l’Out of Africa e la negazione dell’esistenza delle razze umane
sono solo i casi più eclatanti.
Ultimamente “La Repubblica” è tornata alla carica. Secondo un articolo di Enrico Baccarini del 4 marzo, l’invasione ariana
dell’India non sarebbe mai avvenuta, e gli Ariani come popolo antenato di tutte le popolazioni indoeuropee che parlano
linguaggi che hanno una comune origine, non sarebbero mai esistiti. Le somiglianze tra i vari linguaggi indoeuropei
sarebbero il frutto di relazioni economiche e scambi commerciali.
In realtà in questa tesi non c’è proprio niente di nuovo, era stata già avanzata ottant’anni fa dagli archeologi sovietici (e non
è difficile immaginare quanta libertà di esprimersi avessero queste persone) Adriano Romualdi che l’esaminò
nell’introduzione a Religiosità indoeuropea di Gunther la smontò e la mise in ridicolo senza difficoltà e, a pensarci, è una
cosa addirittura grottesca: può essere che non uno, ma un’ampia serie di popoli, abbiano del tutto dimenticato le rispettive
lingue madri per sostituirle con la lingua franca delle relazioni commerciali?
Come mai a distanza di decenni si ritira fuori ora questa panzana? Forse si conta sul fatto che decenni di “educazione
democratica” e il crescente degrado della nostra scuola, hanno reso la gente più ignorante e credula. Peccato che ci siano
sempre alcuni individui tetragoni come il sottoscritto, sempre pronti a smontare le loro menzogne.
NOTA: L’illustrazione che correda questo articolo è la stessa che appare nella versione pubblicata in “Genetic Literacy
Project” dell’articolo di David Reich già apparso sul “New York Times”.

Una Ahnenerbe casalinga - novantaquattresima parte

Questa volta il nostro lavoro si salderà direttamente a quello svolto nella novantatreesima parte, a proposito della quale si
devono registrare due commenti di Daniele Bettini al mio pezzo, che a loro volta contengono dei link a due articoli di
grande interesse. I commenti di Bettini e gli articoli linkati si riferiscono a due punti diversi del mio pezzo che, come
sempre, copre un arco tematico piuttosto vario. Uno dei due, tratto da white.history.com del novembre 2014, ci parla del
fatto che i dati genetici confermano l’invasione ariana dell’India. In particolare l’allele rs-1426654-A del cromosoma Y,
tipico delle popolazioni europidi e connesso al colore chiaro della pelle, si ritrova nella parte settentrionale e occidentale del
sub-continente, ed è diffuso fra gli indiani di casta alta.
Io penso che ricorderete che nella novantatreesima parte mi ero occupato della questione perché “La Repubblica” del 4
marzo aveva pubblicato un articolo di Enrico Baccarini in cui si negava che l’invasione ariana dell’India fosse mai
avvenuta, sostenendo tra l’altro, il che è falso, che le prove genetiche smentirebbero la realtà di questa invasione. Genetica a
parte, se se ne vuole negare la realtà storica, la storia del sub-continente diventa incomprensibile, a cominciare dal sistema
delle caste, palesemente creato per impedire l’assimilazione degli Ariani conquistatori da parte della popolazione “scura”
sottomessa largamente maggioritaria.
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Noi sappiamo che nel sistema di “libertà di espressione” che caratterizza le “liberissime” democrazie, l’uso di certe parole è
di fatto proibito, o quanto meno richiede una serie di cautele e precauzioni, e allora sarà bene precisare che in questo
contesto non sto usando la parola “Ariani” nel senso ampio ed estensivo che essa aveva fino al 1945, ma soltanto in quello
ristretto e “tecnico” di popolazione caucasoide leucoderma dell’India.
La questione, tuttavia, non riguarda solo l’India e non è puramente accademica, infatti negare gli Ariani dell’India significa
anche negare l’esistenza di un Urvolk indoeuropeo da cui i popoli parlanti lingue indoeuropee sono discesi, si tratta in
sostanza di una parte di quel programma di mistificazione, di riscrittura orwelliana della storia in cui la democrazia
recentemente è molto impegnata, con la negazione dell’esistenza delle razze umane, e presentando le società multietniche e
multirazziali come qualcosa di normale e sempre esistito, invece dell’aberrazione contemporanea che sono in effetti.
L’altro articolo linkato da Bettini si riferisce a una questione che io ho riportato facendo riferimento a un articolo pubblicato
da Valerio Benedetti su “Il primato nazionale” in data 28 febbraio. L’inesistenza delle razze umane è un dogma che
l’ideologia democratica vuole imporre a tutti costi a dispetto della realtà. Cosa volete che conti la realtà delle cose che tutti
possono vedere, contro la parola di Richard Lewontin?
Benedetti riportava un caso clamoroso che smentisce chiaramente il dogma democratico: in Germania una donna di colore
si è rivolta alle autorità chiedendo aiuto perché il figlio, affetto da una grave malattia del sangue necessita di un trapianto di
cellule staminali, e quelle dei bianchi non sono adatte, provocano il rigetto anche quando gruppo sanguigno e fattore RH
corrispondono. Non solo le cellule staminali, ma analogamente anche le trasfusioni di sangue europeo sono del pari rigettate
dall’organismo di pazienti africani. Ora, a quanto pare, a quanto è filtrato in seguito a questa vicenda, tutto ciò è ben noto
alla Croce Rossa tedesca, che avrebbe segretamente avviato un programma chiamato BluStar. NRW allo scopo di
raccogliere sangue da donatori arabi e africani da destinare ai rispettivi connazionali.
In segreto, quasi si trattasse di una questione militare, perché salvaguardare il dogma dell’inesistenza delle razze è più
importante del salvare vite umane.
Bene, ci informa Bettini, l’incompatibilità biologica fra le diverse razze è ancora più estesa di quel che avremmo potuto
pensare a questo punto. Ha linkato un articolo del“National Vanguard” del 7 aprile 2018 firmato da Chris Rossetti e
intitolato (vi do la versione tradotta in italiano) I bambini di razza mista non sono sani a causa dell’interazione genica-
ambiente complessa. Il “National Vanguard” è una pubblicazione medica. Secondo un’ampia ricerca statistica condotta
sulla popolazione statunitense, i bambini figli di coppie razzialmente miste, presentano una più alta mortalità alla nascita e
nel primo anno di vita, tendono a nascere sottopeso e presentano svariate condizioni patologiche che non sembrano poter
risalire ad altre cause se non l’incompatibilità genetica fra i genitori.
La ricerca considera la popolazione americana suddivisa tra i gruppi etnico-razziali più importanti: bianchi di origine
europea, neri afroamericani, asiatici, “ispanici”. Sebbene in ogni caso tutte le possibili combinazioni fra un gruppo e l’altro
presentino maggiori condizioni patologiche rispetto ai figli di coppie monorazziali, la condizione più sfavorevole è quella in
cui il padre è nero e la madre è bianca.
Abbiamo dunque una prova irrefutabile su base medica che, contrariamente a quanto afferma il dogma democratico, le
differenze razziali sono una realtà.
Tuttavia, la cosa che sorprende di più di questo articolo, è una frase che davvero colpisce come un pugno allo stomaco, e
che è stata messa nell’incipit come citazione, forse per fungere da parafulmine, dato il contenuto esplosivo per la political
correctness democratica dello stesso. Si tratta di un’affermazione di tale Noel Ignatiev:
“L’obiettivo di abolire la razza bianca è così desiderabile che è difficile credere che possa trovare un’opposizione diversa
da quella dei suprematisti bianchi”.
Si tratta di un veleno ideologico oggi diffuso a piene mani negli USA ma con cui si sta cercando di infettare anche noi:
“l’uomo bianco” è di per sé razzista, colonialista, schiavista, cattivo per definizione, e farebbe meglio a estinguersi. Di
questo negli USA multirazziali non si stanno persuadendo solo le componenti “colorate”: neri, asiatici, cosiddetti ispanici,
ma la stessa popolazione bianca di ceppo europeo, invitata apertamente al meticciato o alla rinuncia a procreare. Si tratta in
altre parole del corrispettivo ideologico di un genocidio silenzioso che è in pieno corso negli USA, ed è programmato anche
per l’Europa, e di cui l’invasione extracomunitaria mascherata da immigrazione è soltanto il primo passo.
Si tratta in poche parole di RAZZISMO, razzismo anti-bianco allo stato puro. E’ un concetto che ho spiegato più volte, ma è
probabilmente impossibile insistervi troppo: ritenere che solo un gruppo umano (i bianchi nello specifico, noi) possa essere
responsabile di un determinato tipo di crimini (razzismo, colonialismo e simili), e che lo sia responsabile di per sé, per
natura, è razzismo, razzismo anti-bianco di cui qui tocchiamo con mano tutta la realtà e gli intenti genocidi.
E notiamo che qui vengono a cadere sia il tabù a usare la parola “razza” sia la presunzione che le razze umane non
esistano, IL BAVAGLIO che solitamente la democrazia impone a noi, quando si tratta di agire contro di noi, tutto diventa
legittimo. Notiamo ancora che secondo Noel Ignatiev, è difficile pensare che qualcuno si opponga a un obiettivo così
desiderabile come la nostra eliminazione, tranne i suprematisti bianchi, cioè uno sparuto gruppuscolo di estremisti di destra.
Naturalmente sono andato a verificarlo su Wikipedia, ma già prima del responso di questo moderno oracolo, sarei stato
pronto a scommetterci la casa e fino al mio ultimo centesimo. Indovinate un po’: Noel Ignatiev appartiene allo stesso
gruppo etnico e sedicente religioso di Marx, Freud, Einstein, Levi-Strauss, Richard Lewontin. Alla fine tutto torna.
276
Anche in questo periodo non mancano novità nei settori archeologico e paleoantropologico che riguardano la tematica delle
origini. Si può cominciare con il menzionare il fatto che il periodico “The Arctic”, russo in lingua inglese, ha pubblicato
un’ampia intervista con l’archeologo Vladimir Pitulko. Pitulko, lo ricordiamo, è colui che ha scoperto tracce di presenza
umana nella Siberia artica risalenti a decine di migliaia di anni fa. Il titolo dell’intervista, che riporta una frase
dell’archeologo, è: L’artico era e rimane un enigma archeologico.
Nell’intervista, egli riferisce di vari ritrovamenti di tracce di presenza umana, i più antichi dei quali risalirebbero a 45-
47.000 anni fa. Essa è appunto un enigma archeologico perché è difficilmente compatibile con le teorie correnti sulle origini
della nostra specie, per due motivi, perché è difficile pensare che esseri non tecnologicamente evoluti abbiano potuto
sopravvivere in climi come quelli che esistono attualmente a quelle latitudini, e perché queste scoperte sono difficilmente
compatibili con l’Out of Africa, la teoria che preveda l’origine della nostra specie nel Continente Nero, e la sua uscita da
esso non prima di 50-70.000 anni fa.
Ma se assumiamo: 1. Che nel remoto passato il clima delle regioni artiche fosse molto diverso da quello attuale; 2.
Che Homo sapiens, la specie umana, potrebbe non essersi originata in Africa ma in Eurasia,vediamo che l’enigma si risolve
da solo.
L’Out of Africa, almeno nella sua versione che prevede un’uscita recente dell’uomo dall’Africa, ed è questa la versione che
interessa di più gli antirazzisti, perché appunto presuppone una filogenesi corta che non da tempo alla nostra specie di
differenziarsi in razze, è alla prova dei fatti sempre più insostenibile.

Ne è una riprova anche un articolo di Bruce R. Fenton recentemente apparso su “Ancient News” intitolato (vi do la
traduzione in italiano) La teoria della recente uscitadall’Africa è sbagliata. Il punto che Fenton mette in rilievo è l’esistenza
di popolazioni umane Sapiens in Asia e in Australia già attorno a 80-120.000 anni fa. Bisogna dire che fa il possibile per
presentare questo fatto in modo da renderlo meno inaccettabile possibile ai paladini dell’archeologia e della
paleoantropologia ortodosse e ufficiali, mostrando una notevole cautela (professionale), certamente dettata dalla
consapevolezza che le opinioni eterodosse possono avere pesanti ripercussioni sulle carriere, e che il libero confronto delle
idee nella “scienza” non è che una barzelletta.
La sua ipotesi è che vi sarebbero stati almeno due nuclei di sopravvissuti alla catastrofe determinata dall’esplosione del
vulcano Toba avvenuta in Indonesia tra 50 e 70.000 anni fa, uno in Africa, un altro in Asia-Australia, e un terzo forse
nell’America meridionale. In più, nel tentativo di mettersi ancor più al sicuro, Fenton fa un’ampia citazione del celebre
saggio del filosofo della scienza Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, che ha sostenuto appunto che
la scienza progredisce per successive rivoluzioni e rimettendo continuamente in discussione le concezioni precedentemente
date per acquisite.
Ci sarebbe quasi da scuotere la testa con compatimento, infatti, pensare che l’origine africana della nostra specie e
l’inesistenza delle razze siano teorie scientifiche, dimostra una singolare ingenuità, si tratta invece di dogmi della
democrazia che non è permesso mettere in discussione per quanto possano essere contraddetti dai fatti. Prendiamo
comunque atto con soddisfazione del fatto che l’Out of Africa sta mostrando crepe sempre più vistose.
Non è difficile prevedere che per gli antirazzisti sono in arrivo tempi sempre più duri, infatti la presunzione che le razze
umane non esistano, che esse siano non un dato biologico ma un mero costrutto sociale e culturale, è destinata a scontrarsi
sempre più frontalmente con le evidenze della genetica.
Perlomeno va in questo senso un articolo di Kathryn Garfield pubblicato su “Discover Magazine” (vi do anche qui il titolo
in traduzione italiana): Le razze hanno una base genetica, dopotutto? Prima di entrare in argomento, vi cito una curiosità: la
traduzione in italiano diventa (ho provato più volte) l’interrogativo se correre abbia una base genetica. La parola inglese
277
“race”, come è noto, si può tradurre sia come razza che come corsa, gara. Il dubbio che mi è venuto, è se il concetto di razza
fa tanta paura che si tende a rimuovere la parola corrispondente dai dizionari.
Bene, la genetica dimostra in maniera inoppugnabile quel che per noi è un’ovvietà, ma per i democratici è, ben che vada, un
abominio da bisbigliare tremando: le differenze razziali fra gli esseri umani esistono, e non sono riconducibili a fattori
sociali o culturali, ma trovano il loro fondamento nella biologia, e la dimostrazione di ciò viene dall’International HapMap
Project, un progetto che cataloga le differenze genetiche fra gli esseri umani.
Naturalmente, e ci sarebbe davvero da stupirsi se così non fosse, l’autrice cerca in ogni modo di ridurre la portata delle sue
affermazioni, tali differenze, sostiene, non riguarderebbero tanto i geni in se stessi (la famosa tesi di Craig Venter sulla
presunta uniformità genetica umana, che si è rivelata inaffidabile come il personaggio che l’ha formulata, ma che si vuole
evitare di smentire completamente), ma il modo in cui essi si esprimono, e non riguarderebbero tanto aspetti macroscopici
facilmente riscontrabili quali il colore della pelle (gli antirazzisti sono sempre convinti che le differenze razziali consistano
in questo), quanto piuttosto fattori come la vulnerabilità a determinate malattie come l’ipertensione o il diabete di tipo 2.
Precauzioni tutto sommato inutili, perché quel che conta è l’ammissione che le razze umane esistono, e non sono dei
costrutti socio-culturali, ma dipendono da effettive differenze genetiche fra le persone e i gruppi umani. La frittata è stata
fatta, e quando è fatta, non si può sperare di rimettere assieme le uova.
Torniamo a parlare della Cina: negli ultimi anni la grande nazione asiatica ha letteralmente riscritto la storia della vita sul
nostro pianeta con il ritrovamento di fossili di dinosauri in precedenza sconosciuti, ma ha dato anche un importante
contributo a riscrivere la storia della nostra specie con una serie di scoperte in qualche modo analoghe, che sempre più
difficilmente si conciliano con il dogma out-of-africano. La notizia riportata dall’articolo di Robinson Meyer pubblicato su
“The Atlantic” non è recentissima, risale al luglio scorso, ma voi certamente capite che “la rete” è un mare magnum, e non è
che i media si affrettino proprio a mettere in evidenza tutto ciò che contraddice l’ideologia dominante.
A quanto riferisce l’articolo (anche qui vi do il titolo tradotto): Gli antichi esseri umani vivevano in Cina 2,1 milioni di anni
fa. Il testo riferisce in particolare delle ricerche condotte dall’archeologo Zhaoyu Zhu dell’Accademia Cinese delle Scienze
che per tredici anni avrebbe scavato un sito nei depositi di loess della Cina settentrionale (la località non è specificata),
rinvenendo utensili litici risalenti a 2,1 milioni di anni fa, cioè antecedenti alla presenza documentata di Homo Erectus in
Africa (posto che l’umanità e l’appartenenza del cosiddetto Homo Abilis e del cosiddetto uomo di Naledi al lignaggio
umano possono essere seriamente messe in dubbio).
Anche se per il momento non sono stati trovati fossili umani ma soltanto attrezzi litici, se una simile datazione fosse
confermata, per l’Out of Africa non ci sarebbe proprio partita, solo la smentita totale.
Ci spostiamo in un orizzonte temporale molto più vicino a noi (sappiamo che la questione delle origini si situa su diversi
livelli) e, a quanto pare, anche stavolta non è possibile non parlare di “Le Scienze” che sebbene sia riguardo alla tematica
delle origini, la più rigida roccaforte dell’ortodossia “scientifica” dominante, di quando in quando si lascia scappare qualche
ammissione pericolosa.
“Le Scienze” on line del 20 marzo contiene un articolo (redazionale, quindi non firmato) sulla diffusione dell’agricoltura
nell’antica Anatolia. Una ricerca genetica condotta da ricercatori del Max Planck Institut per la scienza della storia umana di
Jena capeggiati dal professor Johannes Krause ha appurato che gli agricoltori anatolici dell’età neolitica non erano, come si
era finora pensato, discendenti da coloni provenienti dalla Mezzaluna Fertile, ma dalle popolazioni che avevano abitato la
regione nel paleolitico e possono aver “copiato” l’agricoltura dai loro vicini.
Questo impone di riflettere: se ciò è avvenuto per l’Anatolia, perché non sarebbe potuto accadere per l’Europa. Ammesso e
non concesso che la rivoluzione agricola non sia invece originaria del nostro continente, perché i nostri antenati non
avrebbero potuto imparare le tecniche agricole invece di riceverle da un’invasione di genti mediorientali (che qualcuno
pretende ci abbiano apportato pure le lingue indoeuropee, è la tesi del nostratico)?
E’ un altro pezzo della concezione delle nostre origini impostaci dalla democrazia che entra in crisi. Io ho l’impressione che
ci stiamo sempre più avvicinando a un bivio: presto l’ideologia democratica dovrà essere costretta ad accettare di essere del
tutto sbugiardata, o dovrà imporre il bavaglio alla ricerca scientifica. Ma ci saremo sempre noi a batterci per la verità, oltre
che per il futuro della nostra gente.
NOTA: nell’illustrazione Krishna e Arjuna, simboli non soltanto religiosi dell’India ariana-vedica.

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Un proverbio inglese recita: “The power of the press is to suppress”, il potere della stampa è sopprimere (le notizie). Nella
nostra epoca mediatica non c’è alcun bisogno di una censura dichiarata per evitare che conoscenze “scomode” e voci di
dissenso arrivino al grosso pubblico, è sufficiente che esse siano sommerse da una marea di notizie futili e irrilevanti.
Naturalmente, oggi ciò è più vero rispetto a un recente passato in cui i media erano rappresentati soprattutto dalla stampa.
La televisione e internet costituiscono eccellenti armi di distrazione di massa.
Occorre, per capire come stiano realmente le cose, un’attenta e paziente analisi, che non è certo alla portata di tutti, di quel
che si può trovare soprattutto in internet, che non è un mare magnum, quanto piuttosto un oceano immenso. E tuttavia, per
quanto riguarda le tematiche che ci interessano, è difficile evitare l’impressione di trovarsi di fronte a una pentola in
ebollizione, dove il coperchio dell’ideologia ufficiale fa sempre più fatica a contenere i vapori dei nuovi dati e delle nuove
conoscenze che la contraddicono in maniera sempre più vistosa.
Anche questa volta, setacciando la rete, emerge un bottino non trascurabile. Il sito “All Design Ideas” (alldesignideas.com)
da il 21 marzo una notizia interessante: il ritrovamento dello scheletro pressoché completo di un uomo vissuto in Spagna
4.500 anni fa, i cui resti sono stati studiati da ricercatori dell’Università di Barcellona e di quella svedese di Gothenburg.
L’analisi del DNA ha sorpreso i genetisti, perché l’uomo era portatore di un aplogruppo del cromosoma Y che non
corrisponde a nessuno di quelli oggi esistenti.
Il cromosoma Y, lo ricordiamo, è quello che determina il sesso maschile, e si trasmette di padre in figlio maschio.
In realtà, una simile scoperta non è del tutto inedita, ma viene a inserirsi in un quadro che si va delineando già da tempo. A
quanto pare, a partire da circa 6-5.000 anni fa, noi constatiamo una brusca diminuzione della varietà degli aplogruppi del
cromosoma Y che sono giunti fino a noi. In termini semplici, noi abbiamo la stessa varietà nell’ascendenza materna degli
uomini del paleolitico, ma discendiamo da un numero ridotto di padri. Questo fenomeno si riscontra parallelamente o è di
poco successivo alla diffusione dell’agricoltura.
In ciò davvero non c’è nulla di misterioso: con l’agricoltura e la sedentarizzazione, il possesso stabile di un territorio diventa
essenziale per la sopravvivenza delle comunità umane, e si diffonde il fenomeno della guerra, che falcidia la popolazione
maschile. Non che tra le tribù di cacciatori-raccoglitori non si verificassero scontri anche estremamente feroci (ne abbiamo
trovate le tracce, e possiamo essere certi che il “buon selvaggio” farneticato da Rousseau non è mai esistito), ma si trattava
di episodi di natura forzatamente limitata.
C’è un punto che va sottolineato: fino alla nostra epoca tecnologica che ha reso il combattimento qualcosa di del tutto
impersonale, a distanza, l’onere di difendere le comunità e la prerogativa di portare le armi sono sempre o quasi sempre stati
un appannaggio maschile.
Ciò non è legato tanto alla differenza di forza fisica fra uomo e donna, e non rappresenta un esempio di potere “maschilista”
sulla componente femminile della società, ma dipende da un ineludibile fatto biologico: nel tempo occorrente a una donna
per portare a termine una gravidanza, un uomo potrebbe fecondare dozzine di donne, e questo lo rende facilmente
rimpiazzabile da un altro uomo che può fare altrettanto.
Il tasso di fecondità di una popolazione dipende dal numero di donne in età fertile, e questo le rende un “capitale biologico”
troppo prezioso per essere arrischiato sui campi di battaglia.
In alcune tombe scitiche sono stati trovati scheletri femminili con un corredo funebre di armi, e questo fa pensare che la
leggenda delle Amazzoni possa avere un fondo di verità storico, ma la cosa rimane un’eccezione, e il modello “amazzone” è
perdente in termini di genetica delle popolazioni.
Se andate a vedere quella che è oggi la produzione narrativa di heroic fantasy, vedete che le guerriere e le eroine abbondano,
ma si tratta di una mistificazione dello stesso tipo di quella che impone di rappresentare come multietniche e multirazziali le
società europee del passato, in totale spregio dei fatti storici.
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Anni fa, stavo cercando un editore per il mio romanzo di heroic fantasy La spada di Dunnland più tardi pubblicato dalle
Edizioni Scudo, mi imbattei in un’editrice femminista che mi disse che me lo avrebbe pubblicato a condizione che ci
inserissi una tribù di amazzoni. Le risposi di andare al diavolo.
Questa vicenda ci insegna anche un’altra cosa: provatevi a mettervi nei panni di un agricoltore neolitico: la vostra
sopravvivenza dipende dai frutti di un raccolto che richiede una fatica diuturna e che, se non state ben attenti, qualcuno
potrebbe portarvi via condannando a morte voi e la vostra famiglia, perché i margini di sussistenza sono scarsi. Non lo
difendereste con le unghie e coi denti?
Da dove viene allora la favola tante volte ripetuta del pacifico agricoltore? In parte è un’eco della fanfaluca rousseauiana del
buon selvaggio a cui sembra che la sinistra non possa proprio rinunciare come a una tabe di pensiero congenita, ma
soprattutto è stata creata per contrastare l’idea dell’origine degli Indoeuropei da popolazioni nomadi, guerriere e
conquistatrici, è la classica “verità scientifica” imposta come dogma e non basata sui fatti ma solo sul capovolgimento di
tutto ciò che è stato pensato in Europa fra le due guerre mondiali.
HOMO HOMINI LUPUS: La realtà dei fatti da ragione a Plauto, Machiavelli e Hobbes e torto a Rousseau e Marx, e
smentisce tutte le mistificazioni della “nostra” sinistrademocrazia.
La prima di tutte queste mistificazioni è la presunzione dell’inesistenza delle razze umane: ogni specie animale e vegetale è
suddivisa in razze, sottospecie, varietà, la nostra farebbe curiosamente eccezione. Questa presunzione, questo dogma trova
un’evidente confutazione, l’abbiamo visto la volta scorsa, nel fatto che le differenze razziali hanno anche importanti
implicazioni mediche, ma cosa volete che conti la salute della gente in confronto alla salvaguardia dei dogmi della
democrazia?
Oltre allo studio citato nella novantaquattresima parte, se ne possono menzionare altri due, uno, non recentissimo,
pubblicato nell’agosto 2014 su PubMed (pubmed.gov), un periodico medico, a firma di Adriana Vidal della Duke
University School of Medicine, si occupa di neoplasie ginecologiche, e rileva che il carcinoma del collo dell’utero, a parità
di tutte le altre condizioni, presenta un’incidenza notevolmente più alta nelle donne di origine africana.
L’altro studio, anch’esso non recente, risale al 27 agosto 2013, e si occupa anch’esso di un argomento oncologico,
pubblicato in questa data su “Medical News Today”, ci parla di Differenze razziali-etniche nei giovani col cancro, ed è
firmato da Mei-Chin Hsieh del Louisiana Health Sciences Center di New Orleans (Un bel nome asiatico che ci dimostra
subito che non è certo con un suprematista bianco che abbiamo a che fare).
Secondo una ricerca statistica condotta sui giovani americani tra i 15 e i 29 anni affetti da tumore, risulta che i giovani
afroamericani hanno un’incidenza significativamente più alta di tumori dei tessuti molli, in particolare del linfoma di
Hogkins.
Immaginate di sottoporre i dati di queste due ricerche a un buon democratico. Ammetterà che gli afroamericani
sono razzialmente più vulnerabili a determinati tipi di neoplasie? No, probabilmente vi dirà che è il cancro che è razzista.
Di questi tempi, quasi a sorpresa, si torna a parlare di indoeuropei e di iperborei. Se andiamo a vedere cosa offre di nuovi
testi sull’argomento Amazon (in lingua inglese), troviamo almeno tre libri: The Varieties of the human Species (Le varietà
della specie umana) di Giuseppe Sergi, The Uniqueness of Western Civilisation (L’unicità della civiltà occidentale) di
Ricardo Duchesne, docente di sociologia all’Università di New Brunswick, Saint John, Canada, e The Origins of the
Aryans (Le origini degli Ariani) di Isaac Taylor.
Il testo di Sergi recupera un concetto basilare che sarebbe dirompente se non venisse espresso in termini di basso profilo
(sempre l’esigenza di dotarsi di un parafulmine quando ci si occupa di queste cose): la specie umana non è solo suddivisa in
varietà (quelle che comunemente si chiamano razze), ma questo ha un’influenza diretta sul suo sviluppo culturale. A essere
più chiari di così, si va incontro a grosse disgrazie.
Ricardo Duchesne è un sociologo, e il suo testo vuole essere precisamente una risposta al multiculturalismo imperante oggi
in America (ma anche da noi) che impone di minimizzare il ruolo del mondo europeo-occidentale nella creazione della
civiltà, a favore di culture “altre” più o meno “colorate”. Ciò che possiamo chiamare “la civiltà” è invece pressoché per
intero la creazione dei popoli “occidentali” parlanti – precisa l’autore – lingue indoeuropee. L’unico appunto che ci sarebbe
da fare, ma d’altra parte è scusabile un tale errore da parte di chi vive in America (anche se non negli USA ma in Canada, e
questo fa probabilmente una differenza da considerare), è che non si dovrebbe parlare di civiltà “occidentale” ma europea, e
che “la cultura” made in USA non ne è che un sottoprodotto degenere, che oggi si vuole imporre anche a noi proprio per
distruggere l’originalità dell’Europa, ma è probabilmente superfluo ricordare ciò che ha scritto in proposito Sergio Gozzoli,
e che ha più modestamente ribadito diverse volte anche il sottoscritto.
Il libro di Taylor (di cui l’unica definizione biografica fornita da Amazon, è “canonico di York”, possiamo allora supporre
che si tratti di un inglese e di un ecclesiastico) è un’ampia rassegna degli antichi popoli indoeuropei e della loro cultura.
Amazon peraltro precisa che si tratta di un libro fuori stampa di cui è ancora disponibile un numero limitato di copie. Il che
porta a supporre che questo testo sia stato scritto prima che la political correctness, cioè IL BAVAGLIO che la democrazia
mette alla libera espressione delle idee, rendesse la parola “ariani” tabù.
Taylor tuttavia evidenzia che a suo parere la parola “ariani” dovrebbe indicare soltanto l’affinità linguistica tra i popoli
parlanti le lingue indoeuropee e non implicherebbe alcun contenuto razziale. Questo è un discorso che abbiamo visto più
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volte: si tratta di una distinzione fasulla perché le società multietniche sono una mostruosità dell’epoca moderna, e man
mano che si risale indietro nel tempo, si può considerare sempre più sicura la corrispondenza fra lingua ed etnia.
C’è poi da segnalare un saggio di J. G. Bennett pubblicato in “Systematics” 1/3 (systematics.org): The Hyperborean
Origin of the indo-european Culture (Le origini iperboree della cultura indoeuropea). L’autore si rifà alle tesi di Tilak, che
ha osservato che nei Veda sono descritti fenomeni astronomici che si sarebbero potuti osservare solo alle latitudini artiche.
La patria originaria, l’Urheimat indoeuropea sarebbe stata appunto situata nel nord iperboreo fino a diecimila anni fa,
quando quelle regioni, oggi sepolte sotto una cappa glaciale, godevano di un clima temperato, mentre quella che è oggi la
fascia boreale temperata era invece stretta dalla morsa della glaciazione. E’ anche questa una tesi di cui ho avuto modo di
parlare più volte, e abbiamo visto che gli indizi in questo senso non mancano.
A questo proposito, si può anche ricordare un articolo di Annalisa Lo Monaco non recentissimo, comparso su “Vanilla
Magazine” il 30 marzo 2016. In esso, l’autrice ci spiega che circa 14.500 anni fa (la datazione di 10.000 anni ipotizzata da
Bennett, in effetti sembra un po’ troppo recente), in coincidenza con i cambiamenti climatici che hanno caratterizzato la fine
dell’età glaciale, stando a quanto ci testimonia la genetica, ci sarebbe stato un notevole cambiamento nella popolazione
europea, con la scomparsa di diversi lignaggi, e la comparsa di nuovi. Secondo l’autrice, questi nuovi lignaggi che
compaiono all’improvviso, potrebbero aver avuto origine da gruppi di popolazione rimasti isolati in aree ristrette durante il
periodo glaciale. E se invece si trattasse di gente discesa da nord, iperborei appunto?
Nemmeno a farlo apposta, proprio in questo periodo, dal 6 aprile al 22 settembre ad Ardeche in Francia, al museo della
grotta Chauvet 2, famosa per le pitture rupestri di leoni, si tiene la mostra “Leoni e uomini”, e il 2 aprile ha fatto sensazione
l’invio da parte della Russia della mummia di un cucciolo di leone delle caverne risalente a 46.500 anni fa rinvenuta nel
permafrost siberiano.
Noi sappiamo che all’epoca la Siberia ospitava una megafauna che oggi non vi potrebbe assolutamente sopravvivere, il
permafrost ci ha restituito le carcasse di mammut, rinoceronti lanosi, cavalli. Ovvio dunque che ci fossero anche i predatori,
e questo testimonia un clima molto diverso da quello attuale, senz’altro di gran lunga più propizio all’insediamento umano,
e questo da al mito iperboreo una sempre maggiore concretezza.
Parlando di Iperborei, forse sarà bene prendere in considerazione anche l’ipotesi formulata dal ricercatore romeno Vasile
Droj in un articolo pubblicato sul sito “Universology”, in cui propone una collocazione di Iperborea decisamente alternativa
a quella artica. Secondo la sua opinione, essa sarebbe da identificare con la cultura del Danubio, localizzata in aree che
fanno parte della Romania attuale (chiaramente, un po’ di sciovinismo nazionale c’è) e alla quale si deve la più antica
scrittura conosciuta al mondo, rappresentata dalle tavolette di Tartaria. Non è un’ipotesi del tutto campata in aria: per gli
antichi Greci, insediati nella Penisola ellenica e tutti volti nel Mediterraneo con l’attività marittima, tutto ciò che si trova al
disopra del Danubio, poteva ben essere “il lontano nord”.
Io ricordo sempre che per non prestare il fianco a critiche prevedibili, è bene avere sempre presenti gli ordini di grandezza
temporali che coprono quella vastissima estensione di tempo che va dalle origini della nostra specie all’inizio della storia
documentata. L’orizzonte temporale nel quale ci siamo prevalentemente mossi stavolta non è quello delle centinaia di
migliaia di anni in cui possiamo cercare le origini della nostra specie, ma quello delle decine di migliaia di anni riguardante
l’origine dei popoli indoeuropei, dei nostri antenati più diretti, tuttavia vediamo bene che anche in questo caso gli indizi non
puntano verso le savane africane né verso il Medio Oriente, ma verso il settentrione eurasiatico, quel nord così
(stranamente) misconosciuto dalla storia delle nostre origini come ci viene raccontata da tre quarti di secolo.
NOTA:
L’illustrazione che correda questo articolo richiede qualche parola di spiegazione in più del solito, si tratta di un’immagine
in un certo modo storica, essa infatti faceva da frontespizio all’articolo pubblicato sul sito “Nibiru 2012” che per primo ha
portato a conoscenza del pubblico italiano le piramidi della penisola di Kola per le quali la stampa russa ha parlato di
Iperborea, e che rappresenterebbero la prima testimonianza archeologica di un’antica cultura situata nell’area artica. Essa
tuttavia, come si può facilmente appurare con una ricerca tramite Google immagini, non riproduce manufatti ritrovati a
Kola, ma è ispirata alle statue-idoli o stele funerarie che si ritrovano nelle steppe del Kazakistan, dell’Altaj, fino allo
Xinjiang cinese e sono dette balbas o balbalche in lingua kazaza significherebbe “guardie di pietra”, un altro rompicapo su
cui gli archeologi tutti concentrati sul Medio Oriente, si sono guardati bene dall’indagare.

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Ci dedichiamo a una nuova esplorazione di quel che può offrire il web riguardo alla tematica delle origini e dell’eredità
degli antenati. Ricominciamo da piuttosto indietro, da un articolo apparso a marzo sulla versione on line del prestigioso
periodico spagnolo ABC, firmato con la sigla J. Da J., che ci pone un interrogativo: Che lingua parlavano i
Neanderthal? E’ ovvio che quale lingua parlassero, non possiamo saperlo, quello che invece possiamo dare praticamente
per certo, è che disponessero di capacità linguistiche nulla affatto diverse da quelle dell’uomo moderno. Almeno, stando
all’articolo, è quanto si desume da una ricerca condotta da Stephen Wroe, zoologo e paleontologo dell’università americana
del New England. L’esame dello ioide – osso del collo coinvolto nella fonazione – di un uomo di Neanderthal, ha permesso
di verificare che esso non somiglia affatto a quelli degli scimpanzé e dei bonobo, ed praticamente indistinguibile da quello
di un uomo moderno. Questa ricerca conferma i risultati ottenuti dall’Istituto di Psicolinguistica del Max Planck Institute,
secondo i quali il linguaggio sarebbe comparso già nell’Homo heidelbergensis, ultimo antenato comune
del sapiens moderno e dell’uomo di Neanderthal.
Io ho l’impressione che questo nostro antenato (perché è ormai certo che lo fosse), l’abbiamo gravemente bistrattato e
sottovalutato. C’è il doppio cerchio di stalagmiti ritrovato nella grotta francese di Bruniquel, la più antica struttura
architettonica al mondo. Ci sono i resti dell’uomo ritrovati a El Sidron (Spagna) che affetto da un parassita intestinale e da
un ascesso dentario, come ha dimostrato l’analisi della placca dentale, consumava muffe penicillum (contenenti il principio
della penicillina) e corteccia di salice (contenente acido salicidico, il principio dell’aspirina), c’è soprattutto il fatto che
quest’uomo ha dimostrato di sapersela cavare egregiamente nel duro ambiente dell’età glaciale.
Noi tutti, e gli asiatici, condividiamo una sua eredità genetica, che invece non è presente nei neri subsahariani. Scusate
tanto, ma provo una tentazione molto forte a mettere in relazione lo scarto di 30 punti di Q. I., la marcia in più che noi e gli
asiatici abbiamo rispetto a questi ultimi, con la sua eredità.
Sempre ABC del 4 aprile presenta un articolo di Jose Manuel Nieves che mette a fuoco l’altra e molto meno conosciuta
figura fra i nostri predecessori, l’uomo di Denisova. Il titolo è alquanto sorprendente: Potrebbe esserci una popolazione di
Denisova nascosta in qualche remota isola del Pacifico? Secondo una ricerca di Murray Cox dell’università di Massey in
Nuova Zelanda, recentemente presentata nel corso della conferenza della American Association of Phisical Anthropology di
Cleveland (Stati Uniti), questi uomini ancora poco conosciuti che avrebbero contribuito per circa il 4% al patrimonio
genetico delle popolazioni asiatiche e australiane, si sarebbero ripetutamente incrociati con i sapiens moderni fra 50.000 e
15.000 anni or sono. Contrariamente a quanto si pensava finora, i denisoviani sarebbero sopravvissuti fino a 15.000 anni fa,
tempi molto più recenti di quanto si pensasse, e ben dopo l’estinzione dei Neanderthal, al punto che, sostiene Murray Cox,
in qualche remota isola del Pacifico, i loro discendenti potrebbero sopravvivere ancora oggi.
E’ il caso di ribadire una verità ovvia, ma che ci viene occultata per far passare la favola della presunta origine africana: Cro
Magnon, Neanderthal e Denisova si sono ripetutamente accoppiati, e noi siamo i loro discendenti. La possibilità di
accoppiarsi e di generare una discendenza fertile, è precisamente ciò che definisce l’appartenenza alla stessa specie, anche
in presenza di grandi differenze fisiche (pensiamo a nostri cani, per fare un paragone). Non si trattava di tre specie diverse,
ma di tre ceppi, tre varietà (sarei tentato di usare una parola sacrilega, razze) di una stessa specie, homo sapiens, la nostra,
che ha alle spalle una storia più complessa e diversa da quanto racconta la favola africana.
Parliamo ancora del meeting di Cleveland, dove i denisoviani a quanto pare sono stati i grandi protagonisti, come era logico,
data la curiosità che circonda questi nostri predecessori ancora così poco conosciuti. Secondo Bence Viola dell’università di
Toronto, si sarebbero incrociati coi sapiens moderni almeno tre volte: 46.000, 30.000 e 15.000 anni fa. In particolare, nel
DNA dei nativi di Papua Nuova Guinea si riscontrerebbero le tracce dell’incrocio con due distinti lignaggi denisoviani,

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perché le popolazioni di questi antichi uomini dovevano essere ben differenziate a livello regionale. Questo è quanto
riferisce “Science News” (www.sciencenews.org).
Fin qui si tratta semplicemente di prendere atto di una serie di dati fattuali. Quello che onestamente da fastidio, è l’uso
ripetuto del termine “introgressioni” per indicare gli apporti genetici di neanderthaliani e denisoviani all’umanità attuale,
quando sappiamo che gli esseri umani non sono batteri, e lo scambio genetico può avvenire solo attraverso il rapporto
sessuale. La battaglia ideologica si combatte anche e soprattutto attraverso l’uso connotativo delle parole. “Introgressione”
dà l’idea di un’infezione, di un’invasione, come minimo di un’intrusione che compromette od offende la presunta “pura
linea” di ascendenza africana. Più ci si pensa, più appare inevitabile la conclusione che i veri razzisti sono i sostenitori
dell’Out of Africa.
Io non credo sia assolutamente necessario ripetere tutti gli argomenti e le prove paleoantropologiche, archeologiche,
genetiche che vi ho esposto tante volte e che dimostrano l’infondatezza della presunta genesi africana, che non è una teoria
scientifica, ma un dogma ideologico che ci viene imposto. Quello che invece è ora possibile rilevare (con soddisfazione), è
che una di quelle che finora sono state considerate le principali prove a favore dell’Out of Africa, anzi forse il più
importante pilastro “scientifico” su cui si regge questa “teoria”, sta miseramente crollando, mi riferisco alla “prova” del
DNA mitocondriale.
I mitocondri sono organelli presenti nelle cellule degli organismi eucarioti, e costituiscono le centrali energetiche delle
cellule stesse. La cosa più interessante è che i mitocondri hanno un proprio DNA, diverso da quello del nucleo cellulare, e si
pensa che essi siano ciò che rimane di antichi batteri divenuti simbionti della cellula eucariote. I mitocondri e il relativo
DNA mitocondriale si trasmettono soltanto per via materna, con la cellula uovo, in quanto dallo sperma paterno si riceve
soltanto metà del proprio DNA nucleare. Poiché il DNA mitocondriale si riceve da un solo genitore (così come il
cromosoma Y per i maschi, con la differenza che anche i figli maschi ricevono i mitocondri materni, ma non li trasmettono
alla discendenza), questo rende possibile tracciare l’albero genealogico degli aplogruppi. In base a esso, risalendo di figlia
in madre, si è perlopiù supposto che le origini di tutti noi andassero ricercate in una “Eva mitocondriale” africana. Ora si
scopre che questo assunto è falso.
Secondo una ricerca pubblicata lo scorso 10 febbraio sul sito di medicina “BioRxiv”, opera dei genetisti cinesi Ye Zhang e
Shi Wang (in tutto ciò ci sarà una punta di spirito nazionalistico, ma non guasta), la presunzione che l’aplogruppo
mitocondriale N di origine africana, sia ancestrale a tutti gli altri, come finora si è ritenuto, è errata, esso risulterebbe di
5.000 anni più giovane dell’aplogruppo R asiatico, che sarebbe quello realmente ancestrale a tutti gli altri. Addio quindi
all’Eva africana, mentre sarebbe da un’Eva asiatica che noi tutti discenderemmo.
Il problema, riguardo all’uomo di Denisova, è che questo nostro predecessore sembrerebbe aver lasciato tracce tutt’altro che
esigue nel DNA delle popolazioni asiatiche e australiane (fino al 6% del patrimonio genetico di alcune di esse), ma finora di
lui abbiamo pochissimi resti fossili, al punto che la sua fisionomia appare tuttora incerta e nebulosa, ma questa situazione
sta probabilmente per cambiare, e in questo periodo si possono segnalare importanti ritrovamenti fossili in due aree diverse.
“National Geographic” del 4 marzo da notizia del ritrovamento in Cina nella grotta di Yanhui nella contea di Tongzi di
quattro denti risalenti a 200.000 anni fa, che presentano una strana mescolanza di caratteri arcaici e moderni, che potrebbero
essere denisoviani. In realtà questi denti sono stati reperiti nel 1972 e nel 1983, ma finora erano stati classificati come
appartenenti a Homo erectus. La loro nuova identificazione è opera del paleoantropologo cinese Song Xing.
La notizia dell’altro ritrovamento viene dalla grotta di Callao nelle Filippine, ed è stata riportata da “La stampa” in data 10
aprile. Anche in questo caso abbiamo una singolare mescolanza di caratteri arcaici ed umani moderni, si tratta di tredici resti
fossili: denti, ossa della mano e del piede, frammenti di femore. Il ricercatore che ha studiato questi resti, Florent Detroit, ha
provvisoriamente battezzato la creatura cui sono appartenuti e che sarebbe vissuta circa 50.000 anni fa Homo
Luzonensis ma, dato sia l’orizzonte temporale sia la collocazione geografica, è probabile che si finisca per scoprire che
quest’ultimo era appunto un denisoviano.
ACAM, “Associazione culturale archeologia e misteri”, www.acam.it , non è un sito scientifico ma quello che potremmo
forse definire un portale di fanta-archeologia, e le cose che pubblica richiedono di essere vagliate con una certa cautela, ma
nondimeno vi si trovano degli spunti interessanti, recentemente ha pubblicato un articolo di Sergio Pastorino: La genesi
misteriosa dell’Homo sapiens, che offre diversi elementi di riflessione.
L’articolo si apre con un incipit che è una citazione del paleoantropologo etiope Berhane Asfaw già collaboratore di Donald
Johanson, lo scopritore dei resti della famosa Lucy secondo cui l’Out of Africa è la spiegazione definitiva dell’origine della
nostra specie “Finché non avremo qualcosa di più antico e migliore”. Mi spiace per il dottor Asfaw – e teniamo conto che si
tratta del punto di vista di un africano – ma forse qualcosa di più antico e migliore ce lo abbiamo già, e mi pare che sia da
una novantina di articoli che ve lo sto illustrando.
Ma prescindiamo. L’aspetto più interessante dell’articolo è la riflessione dell’autore sul fatto che i processi evolutivi, con il
lento ritmo dell’accumulo di variazioni favorevoli, non sembrano adeguati a spiegare la genesi dell’essere umano. Noi
abbiamo in comune con lo scimpanzé il 98% del patrimonio genetico, la struttura fisica del nostro colpo e del nostro
cervello sono molto simili, tuttavia le differenze fra ciò che un uomo è in grado di fare rispetto a uno scimpanzé, sono
enormi. In termini evoluzionistici, sembra che la comparsa dell’uomo con il grande cervello, il linguaggio articolato, la
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stazione eretta, l’uso di strumenti e tutto il resto, debba richiedere un’accelerazione dei processi evolutivi assolutamente
inspiegabile.
Scrive l’autore:
“Di conseguenza, ci si chiede: Come mai Homo Sapiens è apparso circa duecentomila anni fa e non due o tre milioni di
anni più avanti come avrebbe dovuto essere se fossero stati rispettati i normali ritmi evolutivi? Né dovremmo aver
raggiunto uno stadio avanzato di civiltà, ma dovremmo essere, ed è universalmente riconosciuto, ancora dei selvaggi”.
Come far quadrare i conti che non tornano in termini evoluzionistici? Pastorino conclude:
“Tutte queste stranezze lasciano spazio ad almeno due conclusioni: O l’Homo Sapiens esisteva già da tempo
immemorabile, come d’altra parte suggeriscono numerosi reperti ritrovati e mai presi in considerazione, oppure c’è stato
qualche intervento mirato nei confronti del DNA umano”.
Cerchiamo di dare a queste parole il loro preciso significato: “Qualche intervento mirato nei confronti del DNA umano”
potrebbe significare soltanto che esso sarebbe stato manipolato da qualche intelligenza non umana, extraterrestre. E’ una
vecchia ipotesi cara a ufologi come Sitchin, Von Daniken, Kolosimo, e oggi rilanciata dall’interpretazione ufologica della
bibbia portata avanti da Mauro Biglino, ipotesi fantasiosa quanto campata in aria e priva di elementi probanti purchessia.
Poiché diversi lettori di “Ereticamente” mi hanno chiesto di esprimere il mio parere sull’interpretazione ufologica della
bibbia di Biglino, ne approfitto per parlarne ora. Io penso che quest’uomo, già biblista e traduttore ufficiale del Vaticano,
abbia perfettamente ragione asserendo che la bibbia è un testo oscuro e ambiguo di cui la Chiesa cattolica e le Chiese
cristiane in genere hanno dato nel corso dei secoli l’interpretazione che più faceva loro comodo, ma quanto all’ipotesi
ufologica, meglio lasciar perdere.
Rimane l’altro corno del dilemma, l’ipotesi che l’essere umano sia molto più antico di quanto solitamente non si pensi.
Anche quest’ultima ipotesi è ben lungi dal rappresentare una novità assoluta. Si può ricordare che fra le due guerre mondiali
l’anatomista tedesco Edgard Dacqué, osservando che la selezione darwiniana non produce tanto l’evoluzione quanto
l’adattamento che consiste sempre in una perdita di plasticità (ad esempio, la zampa del cavallo, splendidamente adattata
alla corsa, non può ridiventare un arto in grado di afferrare qualcosa), avanzò l’ipotesi che l’uomo non sia l’essere “più
evoluto”, ma quello rimasto più vicino a una forma ancestrale, un Urmensch di un’antichità incommensurabile.
La conseguenza è che tutti i vari ominidi che la paleoantropologia va scoprendo non sarebbero con ogni probabilità nostri
antenati, ma rami collaterali della famiglia umana, prossimi a superare la linea di demarcazione fra l’umanità e l’animalità
non in senso evolutivo ma degenerativo. Bisogna ricordare che l’ipotesi di Dacqué fu molto apprezzata da Julius Evola
come ragionevole alternativa sia al progressismo evoluzionista sia al creazionismo abramitico.
C’è un articolo di questa serie che dovrebbe essere una sorta di “ripasso dei fondamentali” che sto posponendo da vari
numeri, pressato da una serie davvero sorprendente di novità emerse negli ultimi tempi, ma che probabilmente vi proporrò
la prossima volta, dove fra le altre cose, ho fatto una più dettagliata analisi dell’ipotesi di Dacqué. Vi chiedo solo di
pazientare un poco al riguardo.
Come forse avrete notato, gli articoli citati in questa e nella parte precedente della nostra serie, si sovrappongono
temporalmente. Il fatto è che in questo periodo abbiamo avuto un’abbondanza davvero insolita di nuove informazioni sulle
tematiche paleoantropologiche e genetiche, e ho optato per una suddivisione per argomenti piuttosto che seguire la
scansione cronologica delle pubblicazioni. Nella novantacinquesima parte ci siamo soffermati sull’orizzonte temporale delle
decine di migliaia di anni fa e abbiamo visto quasi a sorpresa che a questo livello emerge in modo preponderante la tematica
iperborea. Adesso siamo risaliti più indietro, alle centinaia di migliaia di anni or sono, dove possiamo rilevare che la nostra
specie ha una storia complessa, svoltasi principalmente in Eurasia, dove si sono separate e variamente re-incrociate le tre
varietà Cro Magnon, Neanderthal e Denisova, una storia che non lascia spazio alla semplicistica favola dell’origine
africana.
Bene, finché ci sarà possibile, noi saremo sempre qui, a difendere la verità e a smentire le favole che fanno comodo al
potere.

NOTA: Nell’illustrazione una delle più recenti ricostruzioni di un uomo di Neanderthal, che fa definitivamente giustizia
delle caratteristiche scimmiesche un tempo attribuite a questo nostro antenato. Si notino le penne. Calami di penne
d’aquila recentemente ritrovate nei siti neanderthaliani spagnoli fanno pensare che questi uomini usassero adornarsene il
modo simile ai pellirosse.

Una Ahnenerbe casalinga-novantasettesima parte

Questa volta, nell’attesa di novità nel campo delle origini, nei settori archeologico, paleoantropologico e quant’altro
riguarda quell’enorme spazio di tempo che separa le tracce dell’umanità più remota dall’inizio della storia documentata,
faremo un sempre utile ripasso dei fondamentali.
Cominciamo da quello che è assolutamente un concetto chiave: fra di noi sono alquanto diffuse delle forme di pensiero anti-
scientifico per l’ovvia ragione che quel che chiamiamo “scienza” ci appare perlopiù come una serie di armi puntate contro
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una certa visione del mondo, dall’economia marxista alla psicanalisi, all’evoluzionismo, alla presunzione dell’inesistenza
delle razze umane, eccetera, eccetera. Ma bisogna distinguere: quella che l’ortodossia democratica oggi ci presenta e ci
impone come “scienza” non è affatto tale se per scienza intendiamo il metodo galileiano di indagine della natura basato
sull’osservazione, l’esperimento, la ricerca delle prove, ma è solo costruzione ideologica, manipolazione, ciarlataneria,
“fuffa”. Ho dedicato il saggio Scienza e democrazia suddiviso in sei parti e pubblicato sulla nostra “Ereticamente” a
esplorare questo concetto nei più diversi campi, dalla fisica alla psicologia, e ora vi rimando a questo scritto.
Io personalmente dubito che esista un altro metodo valido oltre a quello galileiano per indagare il reale, un metodo che si
ricollega alla razionalità del pensiero europeo che discende dall’antica Grecia. E’ forse il caso di ricordare che la
matematizzazione della realtà da esso implicata, è stata definita dallo storico e filosofo della scienza Alexandre Koyré “Una
rivincita di Platone”.
Ora però non sarà il caso di ripetere tutto quello che ho già scritto, ma di concentrarsi sull’aspetto della questione
maggiormente attinente la tematica delle origini, cioè l’evoluzionismo. E’ stato osservato che quando la teoria di Darwin è
stata formulata alla metà dell’ottocento, c’è stata un’immediata sovrapposizione tra il concetto di evoluzione e quello di
progresso che ha favorito la diffusione di entrambi: l’evoluzionismo ha dato a quella che era una dubbia constatazione su di
un segmento molto piccolo della storia umana la forza di una legge naturale, mentre il progressismo ha “calato nella storia”
e nelle lotte politiche quella che altrimenti poteva rimanere una speculazione astratta circa l’ordine della natura. Tutto ciò,
unito al fatto che le tesi evoluzioniste contraddicono apertamente la narrazione biblica della Genesi, ha infuso nei più la
convinzione, che permane ancora oggi, che l’evoluzionismo sia “una cosa di sinistra”.
Tutto ciò, però, si basa su una somma di fraintendimenti davvero impressionante. Per prima cosa, le scale dei tempi sono
inconfrontabili: la nozione di progresso è stata elaborata – lasciamo perdere con quale fondatezza – a partire
dall’osservazione di una parte delle società umane in un arco temporale ristretto di un paio di secoli, e chiaramente non si
estende al mondo naturale, mentre l’evoluzione riguarderebbe la totalità della vita lungo l’arco dei miliardi di anni.
In secondo luogo, questa concezione non riflette ma deforma l’immagine del mondo naturale uscita dalle ricerche del
naturalista inglese. Si è messo in bocca a Darwin quello che non ha mai detto, cioè che le trasformazioni che vediamo nel
tempo fra gli esseri viventi vadano interpretate come uno sviluppo ascendente, una continua marcia verso qualcosa di
“migliore” come prescrive il dogma progressista, in modo da fare dell’evoluzionismo, ha osservato qualcuno, “Quella teoria
che permette a qualsiasi imbecille di sentirsi più intelligente di suo padre”.
In compenso, aspetti di importanza cruciale del pensiero di Darwin sono sottaciuti, a cominciare dal fatto che egli non
amasse per nulla la parola “evoluzione” e non la ritenesse adeguata a descrivere il suo punto di vista sul mondo naturale,
tanto che nel suo monumentale L’origine delle specie compare una sola volta. Il concetto fondamentale della sua opera è
quello di selezione naturale, della sopravvivenza del più adatto come meccanismo che spiega le trasformazioni delle specie
nel tempo, selezione che non è solo il carnefice degli inetti, ma, attraverso l’accumulo delle variazioni favorevoli, costruisce
i tipi superiori. Se ci pensate bene, questo riecheggia un pensiero molto antico, soppiantato in Europa dalla svirilizzazione
cristiana, il pensiero di Eraclito: “La guerra è madre e regina di tutte le cose”.
Se vogliamo applicare questo pensiero alla società umana, esso non va certo a favore né della democrazia, né del
progressismo, né del cristianesimo né del marxismo, ma in direzione della costruzione o della ricostruzione di élite
aristocratiche. Ma il discorso non finisce qui, perché la tendenza insita in ogni vivente (e che noi, come esseri senzienti,
possiamo assumere consapevolmente oppure pervertire), è quella di diffondere nelle generazioni future il proprio genoma, il
proprio, non quello di chissà chi, il che va decisamente a favore di quelle “brutte cose” (per un democratico) che sono il
nazionalismo o anche l’ identitarismo.
Se la visione naturalistica di Darwin appoggia un’ideologia politica, essa non è certamente quella democratica o di sinistra,
e non è certamente un caso se gli scienziati che hanno cercato di basare le loro concezioni sulla conoscenza della natura
invece che sui dogmi imposti dalla democrazia sono stati regolarmente bollati come “fascisti” e “razzisti”, dal grande
Konrad Lorenz, a Richard Dawkins, a James Watson (scopritore del DNA assieme a Francis Crick), ma se risaliamo
indietro nel passato, a quando la democrazia non era ancora riuscita a imporre la sua opprimente ortodossia dogmatica,
scopriamo cose davvero sorprendenti, ad esempio Ernst Haeckel, lo scienziato e filosofo che ha formulato la legge biologica
che porta il suo nome (“l’ontogenesi ricapitola la filogenesi”), ha lasciato scritto che se tra due chiocciole si riscontrassero le
stesse differenze fisiche e comportamentali che vediamo tra un uomo bianco e un nero, nessun naturalista avrebbe dubbi nel
classificarle in due specie diverse.
Che le specie viventi mutino nel tempo, è un fatto facilmente provato dal fatto che noi oggi non vediamo ammoniti, trilobiti
e dinosauri se non sotto forma di resti fossili, ma di esso sono possibili più interpretazioni. Julius Evola, ad esempio, ha
osservato che la comparsa nella storia della vita di forme man mano più complesse può essere spiegata con la caduta nel
piano materiale di entità progressivamente superiori, essa dunque sarebbe la prova non di un’evoluzione ma di una
decadenza cosmica.
Un concetto probabilmente un po’ troppo difficile per certi giovincelli cosiddetti evoliani a cui non è quindi rimasto altro
che ricascare nel creazionismo abramitico, e questo è uno dei motivi (sicuramente non il solo, per questo tipo di persone “fa
gioco” il potersi appoggiare a una “tradizione positiva” e a un’autorità dogmatica) che ha spinto diversi di loro a tornare nel
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grembo di Santa Madre Chiesa. Sentirli considerare Julius Evola una specie di ponte che ha permesso loro di tornare al
cattolicesimo, è difficile dire se avrebbe provocato maggiormente lo stupore o l’irritazione dell’autore di Imperialismo
pagano.
Al punto di vista di Evola, ed è lui stesso a indicare questa affinità, può essere accostato quello del paleontologo tedesco
Edgar Dacquè, attivo fra le due guerre mondiali. Secondo quest’ultimo, l’uomo non sarebbe la creatura più evoluta, ma
quella che ha subito meno adattamenti rispetto a una forma primordiale ancestrale a tutti i viventi. Ogni adattamento
comporta una perdita di plasticità. Pensiamo alla zampa di un cavallo in cui “la mano” è ridotta a un solo dito, è
splendidamente adattata per la corsa, ma non ridiventerà mai un arto in grado di afferrare e manipolare qualcosa. Quindi
l’uomo invece di essere uno dei frutti più tardivi dell’evoluzione, sarebbe una forma archetipica, ancestrale a tutte le altre.
In tempi più vicini a noi, quest’idea è stata ripresa da Louis Pauwels e Jacques Bergier, gli autori del celebre Mattino dei
maghi in libro che si intitola appunto L’uomo eterno e dove giungono alla conclusione che “Esiste un primo uomo quanto
esiste un’estremità dell’universo”.
Ora, questa stessa idea che potrebbe valere in grande per l’insieme del mondo vivente, potrebbe valere in piccolo per “la
famiglia dell’uomo”, cioè i vari ominidi, pitecantropi, australopitechi i cui resti sono stati dissotterrati dai paleoantropologi,
potrebbero non essere nostri antenati, tappe di una staffetta destinata ad arrivare fino a noi, ma “cugini”, rami collaterali che
hanno preso una direzione abortita rispetto alla via maestra che sbocca nell’umanità. La cosa interessante, è che ammissioni
incaute che vanno in questa direzione si possono trovare anche negli scritti di ricercatori e divulgatori rigorosamente
evoluzionisti e out-of-africani.
Vediamone qualche esempio. I signori del pianeta di Ian Tattersall è un libro pubblicato da “Le Scienze” nella “Biblioteca
delle Scienze” nel 2013 e, come c’è da aspettarsi da un testo apparso in questa sede, rappresenta la più rigida ortodossia
evoluzionista e out-of-africana, eppure…
Eppure a pagina 32, dove ci parla dell’ominide Ardipithecus Ramidus, noto colloquialmente come “Ardi”, Tattersall
osserva:
“Ardi in sostanza è un animale misterioso. Non ha eguali tra le forme viventi per quanto riguarda la struttura dello scheletro
e la ricostruzione del suo cranio è, almeno in parte, ambigua. Se era un ominide, di certo non si trovava sulla linea di
discendenza degli ominidi successivi”.
Dunque in realtà non si trattava di un nostro antenato ma dell’esponente di una linea collaterale probabilmente abortita, e se
lui, perché non altri o anche molti altri di questi esseri scimmieschi che ci si è voluti attribuire come antenati?

Tuttavia, questo è soltanto l’antipasto. Donald Johanson è una figura che è assurta rapidamente alle dimensioni di una stella
della paleoantropologia grazie al ritrovamento dello scheletro di Lucy nel 1974, e questo reperto che ha avuto una copertura
mediatica enorme, è con ogni probabilità diventato il fossile più famoso al mondo, una sorta di Gioconda in versione
paleoantropologica.
Nel 1986. Johanson è subentrato a Mary Leakey, vedova di Louis Leakey nella gestione del sito tanzaniano di Olduvay, e
diede inizio assieme a un team di ricercatori da lui guidato a una campagna di scavi che portò alla scoperta dei resti di un
ominide noto come “Ominide della Dik Dik Hill”, contrassegnato ufficialmente come OH 62. Si tratterebbe di una creatura
di sesso femminile (non sono state trovate ossa del bacino, ma il sesso è stato diagnosticato in base alle piccole dimensioni,
sarebbe stata non più alta di 105 centimetri), vissuta attorno al milione e ottocentomila anni fa, all’epoca della transizione
tra australopitechi e homo, e che è stata classificata come appartenente alla specie homo habilis.
Nel libro I figli di Lucy scritto in collaborazione con il divulgatore James Shreeve, Johanson non nasconde il suo stupore per
questo ritrovamento che non riesce a far quadrare con i suoi schemi mentali.
“A giudicare dai frammenti dell’ominide della Dik Dik Hill, dal collo in giù il nostro esemplare femminile era in pratica la
gemella di Lucy… Ne derivava che in un periodo di non più di duecentomila anni i nostri antenati avevano compiuto un
sorprendente salto in fatto di dimensioni; e ancor più stupefacente era l’improvviso cambiamento di proporzioni corporee.
L’ominide della Dik Dik Hill era munito di braccia lunghe al pari di Lucy, ma l’Homo erectus aveva arti superiori e
inferiori proporzionalmente più simili ai nostri…Durante quelle poche centinaia di migliaia di anni di evoluzione, era
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accaduto qualcosa di straordinario: un mutamento comportamentale destinato a trasformare assai rapidamente un Homo con
cervello relativamente ridotto e un corpo primitivo in un Homocon un grosso cervello e un corpo moderno” (pagine 239-
240).
Riguardo all‘Homo Habilis c’è una storia molto interessante da raccontare, che rivela a quale livello infimo e ciarlatanesco
si trovi quella che passa per “scienza” paleoantropologica. Questa creatura è stata inventata da Louis Leakey. Ho scritto e
sottolineo, inventata, non scoperta.
Louis Leakey era un uomo dall’ambizione e dall’autostima esagerate. Nel 1954 ritrovò nella gola di Olduvai (canalone della
Tanzania settentrionale che fa parte del sistema di faglie della Rift Valley africana) il teschio di un australopiteco e decise di
spacciarlo come “primo uomo” o antenato diretto dell’umanità. Fra tutti gli australopitechi fin allora scoperti, era forse il
candidato più inverosimile per tale ruolo. Questi ominidi sono distinti in due rami, i gracili e i robusti, quello da lui trovato
era un super-robusto dall’aspetto probabilmente molto simile a quello di un gorilla, con una dentatura enorme e
un’imponente cresta ossea sulla sommità del cranio. Ciò nonostante, riuscì a spacciare per qualche tempo questa creatura
che chiamò Zinjanthropus (o più familiarmente “Zinj”) per un “primo uomo”.
La cosa era talmente poco credibile, che crollò da sé, ma questo non impedì a Leakey di tornare alla carica sei anni dopo,
nel 1960. Grazie al ritrovamento dei resti di alcuni crani di australopiteco molto frantumati (e nei quali una ricostruzione
precisa del volume interno della scatola cranica era di fatto impossibile), proclamò di aver scoperto i veri antenati
dell’uomo, da lui battezzati homo habilis. Non tutti gli credettero, ma molti si, sebbene il flop di Zinj avrebbe dovuto
mettere in guardia circa la credibilità di questo personaggio, ma bisogna capirli questi paleoantropologi: per far stare in
piedi le loro teorie, avevano un gran bisogno di trovare un anello di congiunzione fra la scimmia
estinta australopithecus e homo, e in questo il fatto che fino al ritrovamento di OH 62 non fossero disponibili ossa di homo
habilis dal collo in giù, indubbiamente aiutava.
Immaginate di andare allo zoo e di soffermarvi davanti al recinto degli scimpanzé. Da una parte della recinzione ci siete voi,
creature dal cervello grande e a stazione eretta, perfettamente bipedi, dall’altra loro, con un cervello considerevolmente più
piccolo, dalle braccia lunghe e le gambe corte, che camminano sulle nocche, e non siete separati da un intervallo di tempo di
duecentomila anni, ma vivete contemporaneamente.
Ciò non desta alcuna meraviglia, perché appartenete a due lignaggi diversi.
E’ verosimile che tutte le creature classificate come homo habilis non fossero altro che australopitechi. OH 62 è
sostanzialmente uguale alla sua “nonna” Lucy vissuta due milioni di anni prima: cervello di dimensioni paragonabili a quelle
di uno scimpanzé, braccia lunghe e gambe corte che fanno supporre un’andatura scimmiesca, e nessun segno di transizione
verso l’umanità. Duecentomila anni più tardi compare Homo, che non ha nessuna relazione con essa, Homo erectus,
un homo primitivo, nondimeno pienamente umano, che potrebbe anche non essere originario dell’Africa, ma esservi
immigrato.A questo punto sarebbe quasi superfluo ricordare lo studio condotto nel 2017 da un team di anatomisti britannici
diretto da sir Solly Zuckerman che ha riesaminato lo scheletro di Lucy e concluso che si tratta di una scimmia estinta che non
ha nulla a che fare con le origini dell’umanità, o quello di cui abbiamo parlato una delle volte scorse, sui resti dell’altro
australopiteco, Littlefoot, “Piedino”, che ha portato a escludere che questa creatura camminasse eretta.
L’Out of Africa, l’abbiamo già visto, non è una teoria ma due inscatolate una dentro l’altra, una teoria-matrioska se volete,
l’Out of Africa II, che è quella che interessa di più per le sue implicazioni “antirazziste”, che prevede per la nostra specie
una filogenesi “corta” che non le da il tempo di differenziarsi in razze, ci parla di un’uscita dall’Africa a livello di Homo
sapiens, alcune decine di migliaia di anni fa, ed è chiaramente smentita dai numerosi ritrovamenti di fossili umani in
Eurasia di età superiore ai centomila anni, e nasconde la sua scarsa plausibilità scientifica dietro l’Out of Africa I che
prevede un’uscita dal continente nero a livello di Homo erectus attorno al mezzo milione di anni fa. Ora, anche quest’ultima
appare francamente non plausibile, sia per la scoperta di ominidi non africani (fra cui – viene proprio voglia di dirlo – il
nostro El Greco che ha fatto dare di matto gli antirazzisti), sia perché gli ominidi africani appaiono candidati sempre meno
verosimili al ruolo di precursori dell’umanità.
A questo punto, dell’Out of Africa non rimane niente, o almeno non dovrebbe rimanere niente, se non sapessimo che non si
tratta di una teoria scientifica, ma di un dogma ideologico imposto per motivi politici dal potere mondialista, per cui le
prove e i dati di fatto non hanno alcuna importanza.
Ma finché avremo la possibilità di farlo, saremo sempre qui a ribattere alle loro mistificazioni.
NOTA: nell”illustrazione: l’area del ritrovamento dei fossili di Graecopithecus Freybergi, “El Greco”.

Una Ahnenerbe casalinga, novantottesima parte – Fabio Calabrese

Ci rimettiamo sulla pista dei nostri lontani antenati, in un periodo che sembra offrire un florilegio davvero intenso di novità
dove non è sempre facile raccapezzarsi, tuttavia pare che alcuni punti fermi si possano fissare. In particolare le volte scorse
siamo andati un po’ a ritroso, come in uno scavo archeologico dove emergono dapprima gli strati più recenti e ci si sposta
più indietro nel tempo mano mano che si scende in profondità.

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Nella novantasettesima parte abbiamo visto che ci sono fondati motivi per ritenere che gli ominidi africani non siano affatto
nostri antenati, ma rami collaterali della famiglia dell’uomo, e che questa conclusione emerge proprio da un’analisi attenta
di ciò che hanno da dirci paleoantropologi e divulgatori ufficialmente sostenitori dell’Out of Africa, Ian Tattersall e Donald
Johanson, lo scopritore della famosa Lucy. Andando, come vi dicevo, a ritroso, nella novantaseiesima parte abbiamo visto
che tutti gli indizi puntano verso un’origine eurasiatica della nostra specie: è in Eurasia e non in Africa che l’Homo
erectus si sarebbe evoluto in Heidelbergensis, quindi suddiviso nelle tre ramificazioni Cro Magnon, Neanderthal e Denisova
(con una lunga storia di re-incroci), fino a dare origine a noi.
Francamente se l’Out of Africa non fosse il frutto di una scelta non scientifica ma politica, volta a negare l’esistenza delle
razze umane e a farci accettare l’immigrazione e il meticciato, non ci sarebbe partita per questa cosiddetta teoria che il
potere vuole imporre come ortodossia ufficiale.
Come era prevedibile le ultime scoperte e l’interesse dei ricercatori ultimamente si sono concentrati soprattutto sulla terza e
meno conosciuta sottospecie umana, l’uomo di Denisova, che ci ha lasciato ben poche tracce fossili, ma in compenso
un’impronta genetica pari al 4-6% del DNA delle attuali popolazioni asiatiche e australoidi. Ci sarebbe inoltre da
menzionare il fatto che nelle Filippine sono stati ritrovati i resti di quella che potrebbe essere una specie umana finora
sconosciuta e che è stata provvisoriamente battezzata Homo Luzonensis. Io mi sento di avanzare dubbi al riguardo. Vista la
collocazione geografica e temporale (50.000 anni fa), è verosimile che si tratti di una variante locale dell’uomo di Denisova.
C’è un discorso “scomodo” da fare a questo riguardo. Noi in genere tendiamo a sopravvalutare l’obiettività scientifica,
l’amore per la conoscenza che animerebbe questi ricercatori. In realtà, il più delle volte l’ambizione personale e il desiderio
di mettersi in mostra hanno un peso incomparabilmente superiore, così succede che ogni volta che qualcuno trova un
fossile, deve essere per forza qualcosa di speciale, di unico, che deve rientrare in un genere o almeno in una specie finora
sconosciuti.
Se guardiamo l’elenco dei generi che sono stati finora denominati, per non parlare delle specie, troviamo un bestiario
davvero impressionante: Pitecanthropus, Sinanthropus, Atlanthropus, Paranthropus, Teleanthropus, Zinjanthropus e via
dicendo, che non ha retto ad analisi successive. Attualmente sono riconosciuti solo due generi di
ominidi: Australopithecus e Homo. Se ha ragione sir Solly Zuckerman, probabilmente il maggior esperto vivente di
anatomia comparata il cui team ha recentemente riesaminato lo scheletro della famosa Lucy, concludendo che gli
australopitechi erano un genere di scimmie estinte che non ha nulla a che fare con il lignaggio umano, allora dobbiamo
arrivare alla conclusione “imbarazzante” e molto poco evoluzionista, che tutte le creature indubbiamente riconoscibili come
nostri antenati sono sempre state Homo e nient’altro che Homo.
Procedendo ancora a ritroso e giungendo più vicino a noi sulla linea temporale, abbiamo visto che un altro dogma
dell’ortodossia ufficiale mostra imminenti segni di crollo: nella novantacinquesima parte abbiamo visto che una quantità
sempre maggiore di indizi suggerisce che i popoli indoeuropei e la civiltà umana avrebbero avuto origine non in Medio
Oriente ma nel nord eurasiatico, e si fa sempre più strada il nome mitico di Iperborea.
Vediamo allora quali nuovi elementi vengono ad arricchire il quadro delle nostre origini, sempre più preciso, complesso e
articolato.
Non poteva essere altrimenti, ma dopo il convegno di Cleveland di cui vi ho parlato nella novantaseiesima parte, il dibattito
sui nostri misteriosi predecessori denisoviani ha ripreso sempre più quota. “Antropology News” del 15 aprile fa il punto
della situazione. Sappiamo che questo nostro antico parente ancora misterioso ha lasciato traccia di sé (fino al 4-6% del
genoma) nelle popolazioni del sud-est asiatico e del Pacifico, con cui deve essersi incrociato almeno tre volte tra 30.000 e
15.000 anni fa, e si sarebbe trattato di tre gruppi di denisoviani diversi a quanto riferisce il genetista Murray Cox della
Massey University (Nuova Zelanda), perché quella di Denisova deve essere stata una sottospecie umana dotata di notevole
variabilità.
Lo stesso tema è trattato da “Le scienze” on line, sempre del 15 aprile, in un articolo che fa anch’esso riferimento alle
ricerche di Murray Cox, e semmai sottolinea maggiormente la grande variabilità di questi antichi uomini, infatti l’articolo
s’intitola Le tante famiglie dei Denisoviani.
Se noi non sapessimo già che quella che chiamiamo “democrazia” è nella realtà dei fatti un impasto di violenza e di
mistificazione, o meglio, dove la violenza e la censura sono lo strumento principe a cui ricorrere quando la mistificazione
non funziona più, ci sarebbe da rimanere veramente trasecolati alla notizia riportata dall’edizione on line di “Le Figaro”, il
più noto quotidiano francese, del 13 aprile: una mostra su Tutankhamon organizzata dall’Università della Sorbona a La
Halle de la Villette ha provocato le ire degli “antirazzisti”. Dopo aver cercato di farla proibire, la LDNA (Ligue de Defense
Noire Africaine), associazione che, come è facile capire, raccoglie i subsahariani residenti in Francia, ha bloccato gli
ingressi della mostra coi suoi militanti che ostentavano striscioni e gridavano slogan ingiuriosi.
Il motivo è facile da capire: l’aspetto “troppo bianco” di Tutankhamon e degli altri faraoni. Le ricerche genetiche l’hanno
dimostrato mille volte: gli antichi Egizi erano etnicamente caucasici, più simili agli Europei che agli Egiziani attuali che
hanno subito l’infiltrazione di elementi arabo-semitici e subsahariani, e fra le élite faraoniche si sono riscontrati genomi
chiaramente nordici.

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Queste non sono opinioni, questi sono i fatti, ma i fatti non contano nulla per sinistri, democratici, antirazzisti e antifascisti,
per i quali la civiltà egizia, poiché collocata geograficamente in Africa, deve per forza e contro ogni evidenza, essere nera, è
il concetto orwelliano della democrazia: la verità non esiste, o è quello che tutti credono in conseguenza del bombardamento
propagandistico mediatico. Ricordiamo che contemporaneamente a ciò, Hollywood sta “colorizzando” i protagonisti della
storia europea, per farci credere che mostruosità come le società multirazziali siano qualcosa di normale e sempre esistito,
hanno fatto diventare Giovanna D’Arco Jeanne Dark e via dicendo.
Ma vediamo, ed è molto rivelatore, quel che dicono gli striscioni inalberati dagli attivisti africani, lo possiamo leggere
direttamente dalle foto pubblicate dal “Figaro”, un contenuto che l’articolista definisce giustamente “nauseabondo”. Vi
traduco in italiano:
“Europei e famiglia [poiché evidentemente le persone di origine europea che vivono in altri continenti non sono affatto
escluse] il vostro genoma è criminale, ipocrita, menzognero”.
Il nostro genoma, capite? Questo ci da l’esatta misura di cosa sia in realtà questo cosiddetto antirazzismo: razzismo anti-
bianco!
Noi facciamo lo sbaglio di immaginare che all’accoglienza umanitaria che diamo a questi finti profughi, debba
corrispondere da parte loro un qualche senso di gratitudine, ebbene, dovrebbe essere chiaro che non è così. Questi invasori
vengono da noi con l’animo del conquistatore, per loro la nostra generosità è solo debolezza che rinfocola l’odio e gli istinti
predatori, il desiderio di sottometterci.
Una notizia da “Il Messaggero” del 18 aprile. Io vi avevo già parlato in una delle parti precedenti, del ritrovamento in
Siberia nel cratere di Batagaika vicino a Verkhoyansk della mummia di un puledro conservata nel permafrost risalente a
42.000 anni fa. Bene, a quanto riferisce ora “Il Messaggero”, i ricercatori russi hanno sottoposto la mummia ad autopsia e vi
hanno trovato sangue e orina come se l’animale fosse morto da pochi giorni, al punto che si sta prendendo in considerazione
l’ipotesi di tentare una clonazione.
E’ una tessera che viene ad aggiungersi a un mosaico che si sta facendo sempre più chiaro e interessante: il nord della
Russia e la Siberia ci stanno rivelando i resti di mammut, rinoceronti lanosi, cavalli, persino grandi predatori come i leoni
delle caverne, tutti risalenti a decine di migliaia di anni fa, che non potrebbero certo sopravvivere nel rigido clima odierno,
non tanto per il freddo, ma perché la vegetazione è rappresentata da rade macchie di licheni che solo le renne riescono a
brucare sotto la neve, e sono la riprova del fatto che allora, mentre le regioni oggi temperate erano strette dalla morsa
dell’età glaciale, queste aree godevano di un clima ben più mite e favorevole all’insediamento umano. Elementi che
trasformano sempre più “il mito” iperboreo in una realtà concreta e storicamente plausibile.
Voi lo sapete, ne abbiamo parlato e riparlato più volte. Un concetto che vi ho spiegato più volte è che tutte le specie del
mondo naturale, animali e vegetali sono suddivise in sottospecie, varietà, razze, non è dunque strano presumere, d’altronde
andando contro i dati dell’osservazione e dell’esperienza, che solo la specie umana farebbe curiosamente eccezione? D’altra
parte, si tratta di un’osservazione talmente ovvia che non credo proprio di averla formulata solo io, ma che debba
presentarsi a chiunque consideri le cose con un minimo di obiettività.
Questa deve essere una vera spina nel fianco per gli antirazzisti, ecco che allora qualcuno ha avuto la brillante idea: negare
l’esistenza delle razze in tutto il mondo naturale, a cominciare da là dove la loro esistenza sembrerebbe più ovvia, cioè dalle
razze canine.
E’ in questa direzione che si muove un articolo pubblicato sul numero di aprile di Esquire.com a firma di Francesca
Vertuccio che ci spiega Come gli Inglesi hanno creato le razze dei cani per ragioni puramente classiste. Secondo l’autrice,
le razze canine sarebbero una creazione degli Inglesi dell’età vittoriana, per di più in base a una stretta associazione
tra queste ultime e le classi sociali di appartenenza dei rispettivi padroni (vediamo dunque un vecchio leitmotiv della
sinistra secondo cui non esisterebbero né nazionalità né etnia né razza, ma solo la classe sociale, esteso dall’umanità a tutto
il mondo naturale).
Ridicolo, è il minimo che si possa dire. E’ vero che gli Inglesi del XIX secolo, grandi cinofili hanno selezionato e creato
diverse nuove razze canine, e perlopiù le razze più pregiate erano appannaggio delle classi più elevate, ma le razze canine
sono sempre esistite: da sempre esistono i levrieri, i molossi da guardia, le piccole razze da tana. E la stessa cosa vale per
tutti gli altri animali domestici. Pensiamo per esempio ai cavalli: da sempre ci sono i purosangue da corsa, le razze pesanti
da tiro, i pony.
A democratici e antirazzisti non basta stravolgere la storia, l’archeologia, l’antropologia pur di non smentire i dogmi
democratici, sono pronti a falsificare l’universo mondo.
BigThink (bigthink.com) del 20 aprile presenta un articolo di Kevin Dickinson il cui titolo (ve lo cito tradotto) dovrebbe
già essere sufficiente a far sobbalzare qualcuno: Nuovi fossili suggeriscono che gli antenati dell’uomo si siano evoluti in
Europa, non in Africa. Eppure, si tratta di una conclusione che alla luce delle ultime scoperte appare irrefutabile. Di diverse
di esse vi ho parlato più di una volta: il Graecopithecus Freibergi, “El Greco”, risalente a 7,2 milioni di anni fa, il
rinvenimento dei cui resti ha dato un fastidio incredibile ai professionisti dell’antirazzismo intenti a coltivare in ogni modo
la leggenda di “Madre Africa”, le impronte cretesi risalenti a 6,5 milioni di anni fa, e dunque di un’antichità più che doppia
rispetto a quelle, enormemente più pubblicizzate, africane di Laetoli (Sappiamo che non molto dopo il rinvenimento,
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qualcuno vi ha lavorato di scalpello nel tentativo di cancellarle: è la prassi della democrazia e dell’antirazzismo, far sparire
le prove che ne contraddicono i dogmi), i resti ancor più antichi rinvenuti in Germania, consistenti in una serie di denti
fossili che avrebbero ben 9,5 milioni di anni.
Tutto questo lo sapevamo già, così come sappiamo che l’Out of Africa non è una teoria scientifica ma una costruzione
ideologica volta a imporre l’antirazzismo come pensiero obbligato, ma c’è dell’altro, la notizia del ritrovamento a Nikiti nel
nord della Grecia di una mascella risalente a 8-9 milioni di anni fa. Adesso stiamo a vedere. Man mano che salteranno fuori
nuove prove sempre più evidenti della nostra origine europea e non africana, cosa farà la democrazia antirazzista, censurerà
la ricerca scientifica in blocco?
Intanto, nell’attesa di arrivarci, i democratici fanno il possibile per confondere le idee e intorbidare le acque. Una notizia è
stata pubblicata con grande risalto sia da Repubblica.it del 17 aprile sia da Wired.it del 19 aprile Secondo uno studio
recentemente comparso su “Nature, Ecology and Evolution” a opera di ricercatori del Natural History Museum e
dell’University College di Londra, il DNA dei costruttori di Stonehenge, forse il più noto monumento europeo dell’età
neolitica, presenta chiare affinità con quello di coloro che hanno edificato un altro grande complesso monumentale
preistorico, quello anatolico di Gobekli Tepe.

“Ovvia” deduzione dei pennivendoli dei due periodici di sinistra: “I costruttori di Stonehenge erano migranti e venivano
dalla Turchia”, strano che le due pubblicazioni non menzionino anche le ONG che sarebbero venute a soccorrerli nel
tragitto.
Si tratta di un esempio da manuale di come si possa raccontare solo una parte della verità in modo tale da generare
un’impressione completamente falsa. Per prima cosa, l’analisi del DNA può rivelarci l’affinità genetica, l’ascendenza
comune di due popolazioni, ma non può dirci in che senso sia avvenuta la migrazione. “L’ovvia deduzione” che essa debba
per forza essere proceduta dall’Asia Minore all’Europa, non è che l’ennesima manifestazione della leggenda, del radicato
pregiudizio “ex Oriente lux” di cui credo di aver dimostrato più volte tutta l’infondatezza.
Se questi costruttori di templi megalitici fossero migrati dall’Europa all’Anatolia e non viceversa, allora secondo l’aberrante
logica sinistra-democratica-antirazzista non sarebbero stati “bravi migranti” ma “cattivi colonialisti”.
Ma la questione non finisce qui, perché c’è una parte della storia che i due periodici di sinistra si sono guardati bene dal
raccontare. L’Anatolia, quella che è oggi la Turchia ha visto quella che è stata probabilmente una delle sostituzioni etniche
più estese mai avvenute in tempi precedenti l’era moderna. Di certo, i costruttori di Stonehenge non erano turchi, ma non lo
erano nemmeno quelli di Gobekli Tepe. La conquista ottomana dell’Anatolia, infatti, è stata preceduta, accompagnata e
seguita dall’immissione nella regione di genti turaniche provenienti dall’Asia centrale, al punto che si parla di “effetto
Cappadocia” (che è appunto una regione dell’Anatolia, oggi Turchia) intendendo la totale estraneità fra i monumenti, la
storia, la cultura materiale di una regione e la popolazione che attualmente la abita.
Ne ho già parlato parecchio tempo fa in una delle parti precedenti, ma nei dintorni di Gobekli Tepe sono state trovate
statuette non solo dai lineamenti prettamente europidi, ma che nei globi oculari avevano infilate delle pietruzze azzurre.
I due articoli di “La Repubblica” e “Wired” sono un esempio molto chiaro di cosa sia il modo “democratico” e
“antirazzista” di fare scienza e soprattutto di divulgarla: ciarlataneria allo stato puro.
Ma finché mi sarà possibile, ci sarà sempre qualcuno pronto a ribattere alle loro mistificazioni.

NOTA: Nell’illustrazione: Il tempio anatolico preistorico di Gobekli Tepe.

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Una Ahnenerbe casalinga - Novantanovesima parte

Questa rubrica è ormai giunta molto vicina a un obiettivo che qualche anno fa
sarebbe sembrato irraggiungibile, la quota cento (che non è quella promessa dal
governo) e la tripla cifra. Come è facile comprendere, con alle spalle un simile
lavoro che io penso nessuno mi accuserà di immodestia se dico che è di tutto
rispetto, il quadro delle nostre origini che emerge è articolato e – penso di poter
dire – abbastanza completo. A questo punto, dunque, non ci saranno da aspettarsi
novità sconvolgenti, quanto piuttosto o conferme, o ulteriori tessere che rendono
sempre più nitido il quadro delineato.
Una conseguenza di ciò è il fatto che il discorso tende a farsi un po’ frammentato,
saltando su livelli temporali diversi, ma vediamo le cose possibilmente con ordine.
Ripartiamo da abbastanza indietro, considerando alcune cose che ho trascurato in precedenza (chiedo venia, ma come
sapete, il web è oltremodo complesso e qualcosa può sempre sfuggire). Comincio allora con il segnalarvi un articolo
apparso già a fine marzo, ma che finora mi era sfuggito.
Alla luce delle conoscenze di cui possiamo effettivamente disporre, possiamo affermare in tutta sicurezza che l’ex Oriente
lux è una favola non meno infondata dell’Out of Africa, e – guarda caso – nemmeno a farlo apposta, è arrivata una ricerca
che costituisce un’ulteriore smentita di questa favola. Se, come essa sostiene, la rivoluzione agricola fosse arrivata in
Europa dal Medio Oriente portata da comunità di agricoltori che si espandevano alla ricerca di nuove terre, allora nel
genoma degli Europei di oggi ci dovrebbe essere una presenza massiccia di geni di origine mediorientale, ebbene questo
non si verifica.
Il 27 marzo “Genetic Literacy Project” (genetiliteracyproject.org) ha pubblicato un articolo di Andrew Masterson che
riporta i risultati di uno studio compiuto da un team di ricercatori dell’Istituto Max Planck di Jena che ha confrontato i
genomi del cacciatori-raccoglitori europei del paleolitico con quello degli agricoltori dell’età neolitica, rivelando che sono
sostanzialmente coincidenti. L’Europa non è stata invasa da coloni mediorientali, ma gli Europei potrebbero aver copiato le
tecniche agricole del Medio Oriente passando da un’economia di caccia e raccolta a una agricola.
Io però personalmente penso che vi siano forti indizi che inducono a pensare che l’agricoltura sia una scoperta europea e
non mediorientale. Ve ne ho parlato più volte: vanno in questo senso la priorità europea nell’allevamento bovino e
nell’utilizzo dei metalli.
La questione, sarà bene sottolinearlo, ha anche un importante risvolto politico, infatti, secondo l’ideologia corrente,
l’ideologia imposta dalla democrazia, i progressi delle civiltà dipenderebbero sempre da invasioni, immigrazioni e
meticciati, ed è il motivo (il pretesto) per cui vengono a dirci che l’attuale invasione extracomunitaria dell’Europa ci
apporterebbe chissà quali immaginari vantaggi. Ora, di tutto questo, di cui la storia documentata dell’Europa non ci ha mai
mostrato nulla, la supposta introduzione in Europa della rivoluzione agricola dal Medio Oriente rappresenterebbe l’esempio
più rilevante, e ora scopriamo che essa non è mai avvenuta.
Adesso però ci occupiamo di un ordine temporale del tutto diverso, alle centinaia di migliaia di anni in cui vanno ricercate
le origini della nostra specie.
A fine aprile sulle pagine di “Business Insider” Italia (it.businessinsider.com ) è apparso un articolo a firma di Kevin
Loria, Le nuove scoperte che hanno rivoluzionato la nostra comprensione sull’origine dell’uomo. Ora, a mio parere,
l’importanza dell’articolo non è data tanto dal suo contenuto, si tratta di cose che conoscevamo già, quanto dal fatto che la
sua sede non è “Ereticamente” né “Il primato nazionale”, che anche fuori dall’Area si comincia finalmente a riconoscere che
la favola dell’origine africana ormai non regge più, che la presenza della nostra specie è testimoniata dai reperti in luoghi
diversi e molto prima di quel che la favola africana implicherebbe di supporre.
Loria cita i resti umani sorprendentemente “moderni”ritrovati nella cava marocchina di Jebel Irhoud risalenti a 200.000 anni
fa (è vero, siamo sempre in Africa, ma molto lontani da quella che si suppone sia stata l’ancestrale culla subsahariana della
nostra specie), per passare ad alcune pitture parietali europee molto più antiche di quanto finora non si pensasse, i cui autori
devono essere stati non i Cro Magnon, ma gli uomini di Neanderthal. Questi antichi uomini da cui in parte discendiamo,
devono essere stati ben più simili a noi di quanto abbiamo finora pensato, capaci anche di espressioni artistiche, e pare siano
esistiti in Europa già 400.000 anni fa – dato incompatibile con l’Out of Africa – per non parlare dell’altro ancora misterioso
antenato, l’uomo di Denisova.
Inoltre, come se tutto ciò non bastasse, sembra che la presenza umana nelle Americhe sia molto più antica di quanto finora
su posto al punto da poter supporre che questo continente sia stato raggiunto in epoca remota da un homo diverso dal
gromagnoide di presunta origine africana.
“Business Insider”, ammettiamolo, è una pubblicazione il cui nome non fa pensare a un interesse nel campo
dell’archeologia e dell’antropologia, tuttavia, a vedere gli articoli che pubblica, si scoprono diverse cose piuttosto
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interessanti, fra cui una notizia piuttosto preoccupante. Un articolo di Mariella Bussolati del 27 aprile ci parla della fabella,
un piccolo osso del ginocchio che si trova nella parte posteriore dell’articolazione, opposta al menisco. Questo piccolo osso,
frequente negli antropoidi, è rarissimo negli esseri umani, ma oggi pare che la fabella stia ricomparendo, si trova con
frequenza maggiore che nel passato. Che sia il primo passo del ritorno alla scimmia profetizzato da Nietzsche, dell’ultimo
uomo che preferisce tornare alla scimmia piuttosto che trascendere l’uomo?
Il 26 aprile Phys.org riprende un articolo pubblicato in contemporanea sulla rivista “Genome Biology”. Uno studio
internazionale diretto da David Comas dell’IBE (Institute of Evoluzionary Biology) avrebbe dimostrato “per la prima volta”
mediante l’uso dell’intelligenza artificiale che le popolazioni africane, ben lungi dal rappresentare, così come suppone la
teoria dell’origine africana, la linea sapiens pura (in quanto non presenta nel genoma tracce di ibridazioni né con
neanderthaliani né con denisoviani), reca nel DNA tracce evidenti dell’introgressione di una specie ominide finora
sconosciuta.
Fino a qui, in realtà, nulla che non sapessimo già. Quel che colpisce, invece, è proprio quel “per la prima volta”. Ne ha
parlato “Le Scienze” nel 2012 in un articolo-intervista a Sarah Tischkoff considerata una delle ricercatrici più in vista nel
campo della genetica, della presenza di un genoma non sapiens nelle popolazioni africane. Nel 2017 la cosa è stata
riscoperta da due biologi dell’università di Buffalo, Homer Gockumen e Stephen Ruhl, che, studiando le proteine della
saliva, ne hanno individuata una presente nei neri di origine subsahariana e in nessun’altra popolazione umana, e sono giunti
alla stessa conclusione. Gockumen e Ruhl parlarono al riguardo di una “specie fantasma”.
Su quale sia in realtà l’identità di questa “specie fantasma”, l’abbiamo già visto, ci possono tuttavia illuminare le ricerche di
Margherita Mussi, un’archeologa italiana che ha studiato il sito etiopico di Melka Kunture e scritto il libro Due acheuleani,
due umanità. Un concetto importante da tenere presente, è che fino a sapiens l’evoluzione degli strumenti litici è
strettamente parallela a quella del cervello, solo con sapiens si verifica quella ridondanza cerebrale che permette di passare
dalla pietra scheggiata all’astronave senza ulteriori modificazioni biologiche.
L’acheuleano è l’industria litica tipica dell’homo erectus. Mentre in Eurasia esso va incontro a un’evoluzione parallela a
quella dei suoi creatori in homo heidelbergensis poi in sapiens che si divide nelle tre ramificazioni Cro Magnon,
Neanderthal e Denisova, in Africa rimane sostanzialmente immutata fino a 40.000 anni fa, cioè fino all’arrivo nel continente
nero dei sapiens provenienti dall’Eurasia. La “specie fantasma” dunque non sarebbe altri che il “vecchio” homo erectus con
cui i sapiens si sarebbero incrociati dando origine agli attuali neri subsahariani.
Successive ricerche genetiche hanno rivelato che questi ultimi hanno una percentuale più alta di geni non sapiens rispetto a
qualsiasi altro gruppo umano, l’8% (mi viene sempre da pensare che si potrebbe suggerire a quelli del PD di aggiornare il
loro noto slogan: “Restiamo umani al 92%”).
La situazione è a un punto che si può definire ridicolo: sembra che la – chiamiamola introgressione africana – venga
periodicamente riscoperta e dimenticata, e il motivo non è difficile da capire: essa costituisce una smentita diretta dell’Out
of Africa, perché se quest’ultima fosse vera, si troverebbe una qualche traccia di questa introgressione anche in popolazioni
non africane, cose che sappiamo non succedere. Ma vi rendete conto a quale livello la democrazia, l’antirazzismo, il
politicamente corretto, stanno riducendo la scienza dell’uomo?
Passiamo ora a un orizzonte temporale del tutto diverso, molto più vicino a noi. Open.online del 29 aprile riferisce dei
risultati di quattro anni di scavi condotti nelle isole greche di Keros e Dascalio nelle Piccole Cicladi da parte di un team
britannico guidato da Colin Renfrew, oggi forse il più insigne archeologo vivente, che ha portato alla scoperta delle tracce
di una cultura finora del tutto sconosciuta e “altamente sviluppata” esistita tra il 2750 e il 2550 avanti Cristo, quindi per
intendersi di poco posteriore o quasi contemporanea alle piramidi di Giza.
Abbiamo forse le prime tracce concrete dei mitici Pelasgi e/o una cultura che ha fatto da base a quella minoica. Viene
istintivo il paragone con l’Italia, dove le indagini genetiche hanno smentito le supposte origini orientali degli Etruschi, e
mostrato invece che essi costituirono una cultura autoctona, evoluzione in età storica di quelle terramaricola e villanoviana.
Allo stesso modo questa cultura avrebbe poi potuto dare luogo a quella minoica, essa pure da ritenere autoctona, e quindi
non debitrice di influssi che – chissà perché – verrebbero immancabilmente “da oriente”.
E’ un altro tassello dell’ideologia democratica e politicamente corretta, quello dell’Ex Oriente Lux, che diventa sempre più
difficile da sostenere, e dimostra di non valere più dell’Out of Africa.
E’ il caso ora di non seguire uno stretto ordine cronologico nell’esposizione ma di anticipare un po’. Infatti, possiamo
collegare questa notizia a una pubblicata dal “Daily Mail” del 20 maggio: l’analisi del DNA mitocondriale dei resti degli
antichi minoici condotta da un team dell’Università di Washington guidato dal professor George Stamatoyannopulos
(l’origine greca di questo cognome è evidente) ha permesso di stabilire che essi erano caucasici ed europei autoctoni,
smentendo in maniera clamorosa l’ipotesi “immigrazionista” recentemente venuta di moda (chissà perché!) che li vorrebbe
discendenti da profughi nordafricani (magari traghettati fino a Creta dalle ONG).
Torniamo indietro, sulla scala temporale delle decine di migliaia di anni. Un editoriale di nature.com del 1 maggio da la
notizia del ritrovamento di una mandibola denisoviana risalente a 40.000 anni fa sull’altopiano tibetano. Si tratta del primo
ritrovamento di un reperto denisoviano fuori dall’Altai e il più grande finora ritrovato. E’ paradossale che noi oggi
conosciamo questa varietà umana soprattutto attraverso le tracce che ha lasciato nel DNA delle popolazioni asiatiche e
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australiane, ma disponiamo solo di pochissimi frammenti ossei. La mandibola è stata ritrovata a una quota di 3.280 metri, il
che suggerisce un adattamento a un clima freddo. Pare che fossero una sottospecie umana alquanto variabile, finora sono
state individuate almeno tre distinte popolazioni denisoviane (io avanzerei l’ipotesi che anche i resti del misterioso Homo
luzonensis recentemente ritrovati nelle Filippine potrebbero essere in realtà denisoviani), tuttavia, a causa della scarsità dei
reperti ossei, la fisionomia di questo nostro lontano predecessore rimane ancora molto nebulosa.
In singolare coincidenza con l’articolo apparso su “Business Insider”, “EnigmaX” del 3 maggio riporta la notizia del
ritrovamento in Cile, nel sito di Pilauco, di un’impronta umana risalente a 40.000 anni fa. Si tratta di un dato che sconvolge
la ricostruzione ufficiale della preistoria americana, dal momento che si suppone che l’America meridionale non sarebbe
stata raggiunta dall’uomo prima di 12.000 anni fa. Per chi non è attaccato alle visioni rigide imposte dall’archeologia
ufficiale, tuttavia la notizia non è così sorprendente: un’altra impronta umana risalente a 40.000 anni fa sarebbe già stata da
tempo ritrovata in Messico (lo riporta Vikipedia), e a 50.000 anni fa risalirebbero le più antiche pitture rupestri della Serra
da Capivara in Brasile. La storia remota delle Americhe è probabilmente tutta da riscrivere.
L’8 maggio Phys.org pubblica i risultati di una ricerca statistica del Centro Medico dell’Università di Chicago condotta sui
resti fossili di australopiteco, che porta alla conclusione che è improbabile che queste creature fossero antenate dell’uomo.
Un lavoro che conferma i risultati delle ricerche del team inglese guidato da sir Solly Zuckerman sullo scheletro di Lucy e
l’altro studio sui resti di Littlefoot, “piedino”, che ha portato a escludere che questa creatura camminasse eretta.
Questo ci porta a due conclusioni “imbarazzanti”: se gli australopitechi africani non sono antenati dell’uomo, viene meno il
principale puntello dell’Out of Africa, e secondo e non meno importante, tutte le creature che possiamo riconoscere con
certezza come nostri antenati sono homo e nient’altro che homo, il che allunga un’ombra di dubbio sulla stessa teoria
evoluzionista.
BBC News dell’8 maggio ha dato una notizia sorprendente: una pietra rimossa dal circolo megalitico di Stonehenge durante
il restauro del 1958 (in realtà si tratta di un campione di carotaggio prelevato da uno dei sarsen), sarà ricollocata al suo
posto, non prima di essere sottoposta a esami per accertare la provenienza della pietra sarsen. Noi sappiamo che questo
monumento neolitico è stato sottoposto a diversi restauri, fra cui uno molto rilevante all’inizio del XX secolo. Questo ha
permesso ad alcuni CICAPpoidi scettici di professione, di affermare che questo monumento sarebbe sostanzialmente un
falso, soprattutto per quanto riguarda le correlazioni astronomiche fra la posizione dei megaliti e la collocazione del sole e
della luna in determinati periodi dell’anno, permettendo la previsione di solstizi, equinozi, eclissi.
Di base, in costoro che pretendono – si illudono – di essere liberi da pregiudizi di qualsiasi specie, agisce il solito
pregiudizio dell’ex Oriente lux, per cui non ci potevano essere 5-6.000 anni fa in Europa conoscenze avanzate. Dunque,
spostando a caso i monoliti, gli operai del novecento che nulla ne sapevano, avrebbero creato delle correlazioni
astronomiche fin allora inesistenti. La probabilità è più o meno la stessa di quella della scimmia che camminando a caso sui
tasti di una macchina da scrivere, compone un sonetto. Ma questi CICAPpoidi, a forza di tentare di essere scettici a tutti i
costi, hanno finito per perdere il senso del ridicolo.
Rimaniamo nelle Isole Britanniche per segnalare due diversi studi sulla genetica della popolazione inglese. Di uno da
notizia “Leggo.it” del 12 aprile, riportando un articolo di “The Telegraph”. Secondo una ricerca condotta dall’archeologo
Mark Robinson, la differenza genetica fra gli abitanti del sud-est dell’Isola e il resto della popolazione britannica sarebbe
riconducibile all’impronta genetica lasciata dai Romani. Invece, “Daily Mail” del 29 maggio riferisce che secondo uno
studio di BritainDNA poco meno di un milione di uomini inglesi presenta un aplogruppo del cromosoma Y che raramente si
riscontra al di fuori della Scandinavia, e sarebbero i discendenti diretti dei guerrieri vichinghi che conquistarono l’Isola. Gli
Inglesi dunque sono anglosassoni, ma anche un po’ romani e un po’ vichinghi, un buon mix di sangue europeo che è
certamente alla base della supremazia dimostrata dall’Inghilterra dai tempi di Elisabetta I a quelli della regina Vittoria, e
oggi inevitabilmente rovinato da immigrazione e meticciato che si sono infiltrati persino nella casa reale.
Rimaniamo ancora perlomeno vicini alle Isole Britanniche per un’altra notizia di grande interesse secondo quanto riferisce
“The Guardian” dell’8 maggio: abbiamo parlato più volte del fatto che esiste tra le coste britanniche e quelle dell’Europa
continentale del Mare del Nord una vasta area di acque basse nota come Dogger Bank, che era certamente emersa fino a
8.000 anni fa. Da quindici anni, archeologi e oceanografi studiano i reperti casualmente recuperati dalle reti dei pescatori e
stanno mappando la geografia della scomparsa “Doggerland” dell’età mesolitica. Adesso un team di ricercatori
dell’università di Birmingham guidato dal professor Vince Gaffney cercherà di dragare un’area sopraelevata nota come
Brown Bank alla ricerca di reperti. C’è tutto un capitolo mancante della storia europea da ricostruire.
In questo periodo non sono emerse novità che abbiano sconvolto il quadro delle nostre origini, ma conferme e
approfondimenti. Di due cose possiamo essere sempre più certi: l’Out of Africa e l’ex Oriente lux, queste
due favole politicamente corrette, democratiche e immigrazioniste sulle quali si regge la visione dell’antichità che vogliono
imporci a tutti i costi, diventano sempre meno credibili.
NOTA: Questa immagine, disegnata dai grafici di “Le Scienze” rappresenta idealmente la “specie fantasma” con cui gli
esseri umani si sarebbero incrociati in Africa,secondo la teoria elaborata nel 2017 dai biologi dell’Università di Chicago.
Oggi si riparla della “specie fantasma”.

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QUOTA CENTO. No, non si tratta della riforma pensionistica introdotta dal governo che permetterà ad alcuni di lasciare il
posto di lavoro prima di quanto finora previsto. A tal proposito, vi informo che sto per andarmene in pensione ma con la
legge Fornero in pieno, l’ennesima fregatura dello stato italiano ai propri cittadini, ma prescindiamo. La quota cento di cui
vi voglio ora parlare, è quella della nostra rubrica. Siamo arrivati alla centesima parte, alla numerazione con tre cifre.
Vi dico subito, però, che questo è l’ultimo articolo che posto sotto questo titolo. La ragione in realtà è piuttosto semplice: io
avevo e ho intenzione di continuare a occuparmi delle tematiche riguardanti la nostra eredità ancestrale, ma il titolo, un po’
enigmatico, degli articoli di questa rubrica, mi ha soddisfatto sempre meno. “L’eredità degli antenati” (che è anche il nome
del gruppo facebook dove ho raccolto questi articoli) mi è sembrato e mi sembra più chiaro e pertinente, soltanto che, visto
che ero ormai giunto a una novantina di articoli, mi è sembrato giusto arrivare fino a cento prima di compiere il cambio
dell’intestazione e ripartire daccapo con la numerazione. Devo ammetterlo: per quanto mi riguarda, sono sensibile al fascino
delle cifre tonde. Se ricordate, in occasione del cinquantesimo numero avevo fatto una sorta di riepilogo di quanto esposto
fin allora, un tipo di operazione che però adesso non vorrei ripetere per non ridire cose dette più volte, anche perché,
arricchito di nuove informazioni, lo schema di base è rimasto sostanzialmente lo stesso.
Poiché si tratta di tematiche che abbiamo visto insieme innumerevoli volte, non ve lo ripeterò se non in estrema sintesi. Le
tesi della “scienza ufficiale” sulle nostre origini, ben lungi dal rappresentare qualcosa di obiettivo, fanno parte di un
programma di indottrinamento politico che ha lo scopo di sminuirci ai nostri stessi occhi e di ridurre le resistenze alla
sostituzione etnica, sono nel loro complesso una serie di falsità. Riguardo alla specie umana nel suo insieme, la tesi ufficiale
è quella dell’origine africana, e abbiamo visto mille volte i motivi per cui essa non è assolutamente credibile, mentre ve ne
sono per supporre invece un’origine eurasiatica, forse nordica-iperborea. Per quanto riguarda i popoli indoeuropei, quando,
come fanno alcuni, non si nega esplicitamente la loro esistenza, la tesi ufficiale, che peraltro fa sempre più fatica a
sostenersi perché ampiamente contraddetta dalla genetica, è quella della loro origine dalla migrazione in Europa di
agricoltori mediorientali che (pacificamente, mi raccomando) si sarebbero espansi nel nostro continente alla ricerca di
nuove terre da coltivare. Abbiamo visto invece che gli abitanti dell’Europa odierni discendono perlopiù dagli Europei
paleolitici. I primi portatori dei linguaggi indoeuropei erano probabilmente allevatori e cavalieri nomadi delle steppe
eurasiatiche, e in ogni caso è ben poco credibile che somigliassero a una versione preistorica delle comunità hippy.
La terza questione è strettamente connessa alla precedente, e si tratta di una storia completamente falsa ma che si siamo
sentiti raccontare fin da piccoli, fin dai banchi delle elementari, ci siamo cresciuti in mezzo al punto che molti la
considerano un’ovvietà nonostante le imponenti evidenze contrarie: la leggenda dell’origine della civiltà in Medio Oriente,
nella cosiddetta Mezzaluna Fertile tra Egitto e Mesopotamia, civiltà di cui l’Europa sarebbe stata tardiva allieva al termine
di un passaparola fra una catena di popoli e culture. Eppure, a smentire tutto ciò, ci sono perlomeno i grandi circoli
megalitici, di millenni più antichi delle piramidi e delle ziggurat che costellano il nostro continente da un estremo all’altro.
Per la verità, data l’importanza di questa tematica, più che in Una Ahnenerbe casalinga, ho sviscerato la questione in
un’altra serie di articoli, Ex Oriente lux, ma sarà poi vero?
Quarto strato della torta: l’origine dei popoli italici e degli Italiani attuali. Anche qui c’è una grossa menzogna di regime da
contrastare, quella secondo la quale gli Italiani sarebbero uniti dalla configurazione geografica molto ben delineata della
nostra Penisola e da un lieve collante linguistico e culturale, ma da nessuna coerenza etnica e genetica. In altre parole, ci
vogliono far credere di essere già oggi i meticci che intendono farci diventare, di non avere quell’identità etnica che
intendono portarci via. Invece al riguardo i dati della genetica sono estremamente chiari: gli Italiani sono un popolo
indoeuropeo etnicamente coerente, certo con sfumature locali e infiltrazioni di sangue allogeno, ma non in misura maggiore
degli altri popoli europei. In realtà si tratta di un discorso che non coinvolge soltanto l’Italia: oggi vediamo dappertutto un
pullulare di separatismi, di localismi, di campanilismi. Non è un caso: questo emergere dovunque di “identità” di piccolo
respiro e sostanzialmente fittizie è uno strumento usato dal potere mondialista, dal NWO in parallelo con l’immigrazione
allogena, per sradicare le uniche forze che possono ancora opporglisi: le identità nazionali. Bene, questo è lo schema che ho
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tracciato nella prima metà del nostro discorso. Ora, a parte tutto ciò che possiamo considerare analisi di ulteriore dettaglio o
approfondimenti, come è mutato, se è mutato?
Rispetto a esso, io direi che occorre introdurre due variazioni o approfondimenti importanti: la prima, l’individuazione di un
quinto strato della torta, che andrebbe inserito tra il primo e il secondo, cioè l’origine dei popoli caucasici, di cui gli
Indoeuropei sono solo una frazione. C’è da dire che a questo riguardo, questa tematica si confonde quasi con quella stessa
delle origini della nostra specie, homo sapiens, perché il responso della paleontologia è estremamente chiaro: i tipi
antropologici mongolico e congoide (“nero”) non compaiono se non relativamente tardi nella documentazione
paleoantropologica. Quello che è considerato un po’ il prototipo dell’homo sapiens, l’uomo di Cro Magnon, aveva
caratteristiche che possiamo considerare caucasiche o molto simili, stando a tutte le ricostruzioni che ne sono state fatte. La
teoria dell’origine africana, l’Out of Africa, l’abbiamo rilevato più volte, è una teoria matrioska, composta in realtà da due
teorie una dentro l’altra: la prima asserisce che questa fantomatica uscita dall’Africa sarebbe avvenuta attorno al mezzo
milione di anni fa, a livello di homo erectus, la seconda vorrebbe posticipare questa uscita di parecchio, attorno ai cento o
addirittura cinquantamila anni fa, da parte di un’umanità già sapiens. E’ quest’ultima che interessa davvero i sostenitori
dell’origine africana, perché non darebbe alla nostra specie il tempo di differenziarsi in razze, delle quali si vuole a tutti i
costi negare l’esistenza, ma è chiaramente contraddetta dal gran numero di fossili umani risalenti a centinaia di migliaia di
anni fa che sono stati ritrovati in Eurasia e in Australia, allora nasconde la sua scarsa o nulla plausibilità dietro l’omonimia
con la prima.
Ma, come a questo punto possiamo facilmente intuire, c’è un altro livello di equivoco. Nessuno lo dice in maniera troppo
esplicita perché i fatti sono lì a contraddirlo, ma quel che ci si vuole dare a intendere, è che “veniamo dai neri”. In altre
parole, si gioca sull’equivoco fra “africano” in senso geografico e “nero” in senso antropologico. Ora, è certo che gli uomini
di Cro Magnon fossero – li potremmo definire – dei proto-caucasici, esattamente come non è che Mosè, Cleopatra, Chris
Barnard, John Tolkien fossero neri perché nati su suolo africano. Quindi possiamo vedere bene che l’Out of Africa non è
nemmeno una teoria, ma un abracadabra, un gioco delle tre carte, un imbroglio. In secondo luogo, bisogna prendere nota
delle risultanze della paleogenetica, delle ricerche sul DNA antico che sono state sviluppate da Svante Paabo. Esse hanno
permesso di accertare che i nostri antenati Cro Magnon si sono accoppiati con popolazioni più antiche che hanno lasciato
traccia nel nostro DNA, gli uomini di Neanderthal e quelli di un ceppo scoperto in tempi recenti e ancora oggi poco
conosciuti, gli uomini di Denisova. Noi caucasici avremmo fino al 4% di geni di Neanderthal nel nostro patrimonio
genetico, mentre asiatici e australoidi, avrebbero fino al 6% di geni di Denisova, mentre nei neri non risulta traccia né degli
uni né degli altri.
Come dice un noto proverbio, “la mamma dei cretini è sempre incinta”. Questo ha spinto alcuni sprovveduti ad esaltare “la
purezza” della linea africana rispetto a noi, ibridi di Neanderthal e Denisova. Come se non bastasse, hanno pure inventato
un termine orribile per indicare questi apporti al nostro DNA: introgressioni, come se si trattasse di intrusioni o infezioni.
Ma ci stanno prendendo in giro? Gli esseri umani non sono batteri, ma mammiferi superiori, e l’unico modo in cui può
avvenire uno scambio di materiale genetico è attraverso il rapporto sessuale. Come sempre, come accade regolarmente per
tutte le utopie di sinistra, la realtà dei fatti è giunta presto a smentirli. L’aveva già raccontato Sarah Tishkoff, considerata
una delle più autorevoli genetiste degli Stati Uniti in un’intervista pubblicata nel 2011, poi l’hanno confermato nel 2017 due
biologi dell’Università di Buffalo, Homer Gockumen e Stephen Ruhl mediante una ricerca sulle proteine della saliva: i neri
subsahariani non presentano traccia di geni di Neanderthal né di Denisova, ma in compenso hanno un’ “introgressione”
molto estesa, più alta di quelle registrate in qualsiasi altro gruppo umano, pari all’8% del loro DNA di geni non sapiens
provenienti da una specie umana od ominide per ora sconosciuta.
Sia l’intervista con Sarah Tishkoff, sia l’articolo di Gockumen e Ruhl sono stati pubblicati da “Scientific American”
(versione italiana “Le Scienze”) che, come tutti sanno, è una pubblicazione di estrema, estremissima destra. I due ricercatori
dell’Università di Buffalo, riguardo all’ominide africano con cui i sapiens provenienti dall’Eurasia si sarebbero accoppiati
dando origine al ceppo subsahariano (cosa che sarebbe avvenuta attorno ai 40.000 anni fa) hanno parlato di una “specie
fantasma”, perché rimane un grande punto interrogativo, ma forse qualche idea sulla sua identità ce l’abbiamo, grazie al
lavoro di un’archeologa italiana, Margherita Mussi che ha studiato il sito di Melka Kunture in Etiopia e li ha riportati nel
libro Due acheuleani, due umanità. Un concetto importante da capire, è che la capacità e la flessibilità mentali che hanno
permesso alla nostra specie di passare dalla pietra scheggiata alle astronavi senza che le dimensioni e la struttura del
cervello abbiano dovuto subire ulteriori modifiche (abbiamo per così dire ingigantito il software, ma l’hardware è rimasto lo
stesso di 50.000 anni fa) compare soltanto con sapiens, ma fino ad allora l’evoluzione degli strumenti litici è strettamente
parallela a quella delle capacità intellettive a loro volta correlate all’evoluzione biologica, e questo permette di “leggere” lo
sviluppo degli strumenti litici come un vero albero genealogico. L’acheuleano è appunto il corredo litico tipico di Homo
erectus.
Bene, partendo da questo assunto, cosa si osserva? Si vede che mentre in Eurasia Homo erectus si sviluppa in
Heidelbergensis poi in Sapiens, in Africa abbiamo una totale stagnazione con la persistenza dell’acheuleano fino a poche
decine di migliaia di anni fa, cioè fino all’arrivo dei Sapiens provenienti dall’Eurasia. La “specie fantasma” dunque non
sarebbe altro che il “vecchio” Homo erectus che sul suolo africano sarebbe rimasto immutato almeno per un milione di anni.
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A questo punto tutti i pezzi del puzzle sono sul tavolo, basta solo metterli assieme. A farlo è stato Ulfur Arnason biologo
dell’Università di Lund (Svezia), sulla base di un ragionamento in effetti piuttosto semplice: se è in Eurasia e non in Africa
che Homo erectus si è evoluto in Heidelbergensis e da quest’ultimo sono discesi i tre rami di Cro Magnon, Neanderthal e
Denisova, allora non si può mettere in dubbio il fatto che la nostra origine sia eurasiatica e non africana. Arnason ha
chiamato la sua teoria Out of Eurasia in deliberata contrapposizione all’Out of Africa. A questo punto per l’Out of Africa
non c’è partita, o meglio non ce ne sarebbe se fossero semplicemente i fatti a parlare, se ne dovrebbe riconoscere la totale,
smaccata falsità, ma sappiamo che non si tratta di una teoria scientifica, bensì di un assunto ideologico creato allo scopo di
costringerci ad accettare l’immigrazione africana, e possiamo essere sicuri che essa continuerà a essere sostenuta dal
sistema accademico, dai media, dalla scuola anche se gli elementi a suo favore sono più esigui di un filo di ragnatela, e le
prove contro di essa pesanti come elefanti.
Una cosa che non ha mai cessato di sorprendermi, ed è ancora più sorprendente guardandosi indietro dopo aver raggiunto
l’obiettivo dei cento numeri, è il fatto di essere riuscito a pubblicare questi articoli con una scadenza più o meno
bisettimanale, eppure sappiamo che l’archeologia e la paleoantropologia non sono certo la politica, lo sport o il gossip
caratterizzati da scadenze fisse e ricorrenti. In parte ciò si deve al fatto che oggi è possibile, grazie a internet, navigare in
tempo reale in un mare magnum di informazioni che un tempo non sarebbe stato nemmeno immaginabile, poi anche
all’apporto di amici che hanno supportato in vario modo me e questa rubrica e ai quali vorrei esprimere un ringraziamento.
Vorrei ricordarne in particolar modo tre, anche se temo di fare torto ad altri: Luigi Leonini, Daniele Bettini e il nostro
Michele Ruzzai. Tuttavia non tutti i periodi sono uguali. La prima parte di quest’anno di grazia 2019 è stata un periodo
particolarmente intenso di novità, mentre nella seconda si nota un certo rallentamento, e vediamo ora di ricapitolare in breve
le più importanti. Un fatto particolarmente importante, io penso, è che noi oggi non solo abbiamo la prova scientifica
dell’esistenza delle razze umane (e ricordiamo che tutto il marchingegno truffaldino dell’Out of Africa è stato messo in
piedi al preciso scopo di negarle), ma che questo fatto ha riflessi importanti e innegabili sulla stessa salute delle persone.
Se ricordate, ve ne ho parlato nella novantaquattresima parte: il caso è stato sollevato da una donna di colore residente in
Germania, che si è rivolta alle autorità federali perché il figlio, malato di una grave malattia del sangue, necessita di
periodiche trasfusioni, ma il sangue dei bianchi non è adatto, viene rigettato dal suo organismo a prescindere dalla
compatibilità dei fattori AB0 e Rh. Abbiamo visto poi che diversi studi medici suggeriscono una diversa vulnerabilità dei
diversi gruppi razziali a determinati tipi di tumori. Bisognerebbe tenere conto dei fattori razziali per curare adeguatamente le
persone, ma certamente per IL POTERE la salute della gente ha un’importanza infinitamente minore della salvaguardia dei
dogmi della democrazia. L’altra grande questione emersa nella prima metà del 2019 è quella relativa all’identità dell’uomo
di Denisova, assai meno conosciuto degli uomini di Cro Magnon e di Neanderthal, anche perché i resti ossei di cui
disponiamo sono meno di una manciata. Questo enigmatico personaggio e il tentativo di metterlo meglio a fuoco hanno
dominato il convegno di paleoantropologia di Cleveland (Stati Uniti). Da quel che pare di capire, i denisoviani si sono
incrociati varie volte con gli umani moderni, soprattutto in Asia orientale.
Un altro fatto che sembra ormai assodato, è che le loro popolazioni presentavano una variabilità maggiore sia di quella degli
umani moderni, sia dei Neanderthal. Di alcuni di loro, ad esempio ci sono rimasti denti e ossa molto grandi. Vi è una forte
tentazione di ricondurre al loro ricordo ancestrale le leggende di giganti che si trovano nel folclore di tutti i popoli. Sempre
in questo periodo, da una grotta nelle Filippine sono emersi i resti di un’antica popolazione umana finora sconosciuta che è
stata battezzata Homo luzonensis. Io non ci metterei la mano sul fuoco, ma data l’area geografica e l’età (50.000 anni fa) mi
sembra verosimile che possa trattarsi di un ennesimo gruppo di denisoviani.
Ultimamente (ne riparleremo) sembra emergere una tendenza a prendere le distanze dai nostri predecessori di Neanderthal e
Denisova che pare un tentativo estremo di salvare la sempre meno credibile Out of Africa. Questo è peggio che ridicolo: se
noi troviamo le loro tracce nel nostro DNA, questo significa che i nostri antenati si sono incrociati con loro, che,almeno in
parte, discendiamo anche da loro, e le regole della tassonomia sono molto chiare: se due creature possono accoppiarsi e dare
luogo a una discendenza fertile, vanno considerate della stessa specie per quanto grandi possano essere le differenze
morfologiche (pensate ai cani: le varie razze canine hanno morfologie diversissime, ciò nonostante, sono tutti cani). Non si
sta solo cercando di prendere per il fiocco noi, si sta sovvertendo la biologia per salvare l’Out of Africa e i dogmi
democratici. Con questo centesimo numero, Una Ahnenerbe casalinga chiude, ricominceremo presto con una nuova testata
e una nuova numerazione, ma di una cosa potete essere sicuri, il mio impegno (e oserei dire il nostro impegno di tutti noi di
“Ereticamente”) nel riscoprire le tracce della nostra eredità ancestrale, continuerà inalterato.
NOTA: Nell’illustrazione, una rappresentazione schematica della teoria dell’Out of Eurasia secondo Ulfur Arnason.
Fabio Calabrese

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